A.S. 2012-2013 prof Ballastero · Il diritto del lavoro è una disciplina giuridica moderna, la...
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1 Diritto del lavoro 2012 – appunti delle lezioni - Cristina Fenoglio
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DIRITTO DEL LAVORO
A.S. 2012-2013 – prof Ballastero
17\09\2012
FONTI DEL DIRITTO DEL LAVORO
Il diritto del lavoro è una disciplina giuridica moderna, la prima normativa in materia di lavoro risale alla
seconda metà del secolo XIX. La disciplina nasce e cresce ed è legata allo sviluppo industriale e alle
fabbriche, intese come organizzazioni di lavoratori salariati. Il contratto di lavoro è il cuore della disciplina.
Non era previsto dal CC fino al 1942, è nata attraverso la prassi, è stato approvato solo quella
regolamentazione sotto la forma del contratto di impiego nel 1919, è diventata disciplina solo nel 1942.
Il fatto che sia una disciplina moderna implica che le sue fonti non sono lontane nel tempo.
Cosa sono le fonti del diritto?
Chiamiamo fonti del diritto obiettivo o fonti legali quegli atti, e talora anche fatti, ai quali il diritto
attribuisce il potere di creare norme giuridiche vincolanti erga omnes (verso tutti, generalmente vincolanti).
Le norme introdotte dalle fonti formali appartengono all’ordinamento giuridico, al diritto positivo del
nostro ordinamento, il quale ordinamento è basato su una fonte originaria, che è la Costituzione, creata
dall’assemblea costituente è una fonte su cui si basa l’ordinamento giuridico e che a sua volta prevede i
modi di produzione delle fonti legali creando il potere legislativo del Parlamento che produce le fonti legali.
Accanto alle fonti legali e formali del diritto obiettivo dobbiamo inserire le fonti extra ordinem (al di fuori
dell’ordine generale), sono dei fatti che non sono previsti dalla Costituzione come prodotti normativi
provenienti dalle fonti di produzione del diritto ma che sono accettate e osservate dai loro destinatari come
se fossero fonti del diritto obiettivo. I contratti collettivi sono considerati fonti extra ordinem.
Il sistema delle fonti nell’ordinamento vigente è un sistema complicato, se andiamo a guardare l’ART 1 delle
disposizioni preliminari al CC (le preleggi) contiene la gerarchia delle fonti, questo articolo è totalmente
superato perché risale al 1942 (periodo fascista) l’ordinamento italiano attuale prevede una diversa
organizzazione delle fonti ed ha come fonte originaria la costituzione. L’ART 1 delle preleggi non contiene
nemmeno la costituzione perché all’epoca la costituzione era lo Statuto Albertino (non entrava come fonte
e non era nemmeno una costituzione rigida).
Nel nostro sistema di leggi esiste la Costituzione e dalla Costituzione che è sia fonte originaria sia vertice
delle fonti e le altre fonti devono essere tutte compatibili con lei, prevede una serie di atti normativi
gerarchicamente ordinati: la fonte inferiore, di livello inferiore, che sia non compatibile con la fonte di
livello superiore è invalida; sulla invalidità delle leggi il giudice è la Corte Costituzionale, il controllo sulla
conformità delle leggi alla Costituzione può essere fatto solo da lei, le sentenze hanno efficacia generale e
rimuovono, annullano, le leggi incostituzionali.
Quando parliamo di legislazione parliamo in primo luogo della legge ordinaria, emanata dal Parlamento, ma
accanto ad essa bisogna ricordare le leggi regionali perché le regioni sono enti autonomi dotati di potestà
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legislativa; nel nuovo ART 117 della Costituzione che prevede il rapporto fra legislazione dello Stato e
legislazione regionale attribuisce alla regione una potestà legislativa che può essere sia concorrente con
quella dello Stato, sia esclusiva. Fra atti legislativi dobbiamo ricordare gli atti del governo aventi forza di
legge: il decreto legge (che può essere emanato solo in condizioni di necessità ed urgenza e che acquista
efficacia solo dopo la conversione in legge da parte del Parlamento, è immediatamente esecutivo ed entra
immediatamente in vigore non appena il capo dello stato appone la sua firma ma la sua vigenza dura al
massimo 60 giorni, se entro 60 giorni non è convertito in legge decade, con dei problemi per gli effetti che
nel frattempo si sono prodotti);
decreto legislativo (è una delle fonti più importanti della nostra materia perché il DLeg viene utilizzato per
la trasposizione delle direttive che provengono dall’Unione Europea. Siccome molta parte del Diritto del
Lavoro è di derivazione comunitaria, molta della nostra materia è riconducibile a decreti legislativi. È un
atto normativo del governo avente forza di legge, non ha bisogno di alcuna conversione perché è emanato
dal governo ma sulla base di una legge delega: è il parlamento che delega il governo ad emanare questo
atto avente forza di legge. I principi e le regole sono contenute nella legge delega, sulla base di questa il
governo è delegato ad emanare il decreto legislativo che passa ad un esame sul parlamento che segnala
eventuali problemi ma non si può opporre. Nell’emanare il decreto legislativo il governo deve rispettare i
limiti della delega, l’eccesso di delega si traduce nell’annullamento del decreto legislativo da parte della
Corte Costituzionale).
Accanto alla gerarchia delle fonti (Costituzione - Legge Ordinaria - Legge Regionale - Regolamento del
Governo …) c’è la presenza di fonti che provengono da ordinamenti diversi dal nostro, ma che hanno un
impatto particolare sul nostro ordinamento:
diritto dell’Unione Europea che promana dall’unione europea, un ordinamento diverso dal nostro,
ma le fonti normative dell’ unione hanno una posizione sovra ordinata rispetto alle fonti del nostro
ordinamento, le produzioni entrano direttamente a far parte del nostro ordinamento.
fonti del Diritto Internazionale: distinguiamo le fonti del D.I. consuetudinario e le fonti del D.I.
convenzionale; le fonti consuetudinarie sono osservate dagli stati che accettano il rispetto delle
consuetudini internazionali (ripudio della guerra, trattamento dei prigionieri, tutela dei diritti umani
fondamentali); le fonti convenzionali sono i trattati, accordi che si stipulano fra una pluralità di stati
per regolare i loro rapporti reciproci. I trattati internazionali entrano a far parte del nostro
ordinamento attraverso la legge di ratifica e esecuzione del trattato, diventa una legge da
rispettare per i cittadini quando il Parlamento ratifica il trattato e lo rende esecutivo. Vuol dire che
c’è un controllo da parte del potere legislativo sui comportamenti dello Stato, quando però il
trattato viene ratificato e reso esecutivo la legge che ratifica il trattato assume una posizione nella
gerarchia delle fonti superiori rispetto alla legge ordinaria (questo deriva dalla nuova formulazione
dell’ART. 117 della Costituzione che mette gli obblighi derivanti all’appartenenza all’UE accanto agli
obblighi internazionali.
Nella gerarchia delle fonti dobbiamo tenere presente quindi la presenza dell’UE da una parte e il diritto
internazionale dall’altra. Il diritto dell’UE ha una importanza enorme per la nostra materia, il diritto
internazionale ha un’importanza minore ma ha una sua importanza perché esiste una apposita
organizzazione internazionale dalla delle Nazioni Unite che si occupa del lavoro e che emana degli atti
normativi che vengono poi ratificati dall’Italia e entrano a far parte del nostro Diritto del Lavoro.
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UNIONE EUROPEA
Oggi non si può più parlare di diritto comunitario come si è sempre chiamato, perché non esiste più la
Comunità Europea, al suo posto è stata istituita l’Unione Europea.
Origini dell’UE
La prima aggregazione europea risale al 1957 con il Trattato di Roma che istituiva il mercato comune, era
un’unione di sei paesi e l’Italia ne è stata uno dei promotori, a partire da qui c’è stata una serie di revisioni
del Trattato, il mercato comune diventò Comunità Economica Europea insieme alle altre due comunità
minori previste, successivamente diventò comunità europea. Nasce nel 1999 con il Trattato di Maastricht
l’UE, una sorta di sovrastruttura che si regge sulla Comunità Europea, si tiene distinta l’Unione dalla
Comunità. La Comunità ha i suoi organi e istituzioni e l’Unione anche, questa bipartizione è ricomposta
dopo il tentativo della prima costituzione europea che non c’è stata e non c’è perché richiedeva che fosse
approvata e ratificata da tutti gli stati membri, alcuni di questi stati l’approvazione è stata oggetto di
referendum popolari che ha avuto esiti sia positivi che negativi. Quello che è avvenuto è che con il Trattato
di Lisbona del 2009, entrato in vigore il 1° Dicembre del 2009, è stata soppressa la comunità europea, resta
la sola Unione Europea, questo ha dato luogo anche a una revisione della denominazione dei trattati:
Trattato sull’UE che contiene i principi generali e disciplina le istituzione dell’UE;
Ex trattato istitutivo dell’unione economica e della comunità europea (il grosso della disciplina che
vige all’interno dell’UE): Trattato sul funzionamento dell’UE.
Queste sono le fonti dell’UE (Trattato sull’Unione che riguarda principi e istituzioni e il trattato sul
funzionamento dell’UE in cui è dettato anche il funzionamento dell’UE oltre alle discipline generali delle
varie materie). Per quanto riguarda la materia che ci interessa questa prende un nome che è Diritto Sociale
Europeo, delineata del Modello Sociale Europeo.
Fra le fonti del diritto dell’UE fa parte la Carta dei Diritti Fondamentali dell’UE: venne approvata a Nizza nel
2000 ed è rimasta fino al trattato di Lisbona un atto politico ma non una fonte del diritto dell’UE, è come
fosse una carta costituzionale perché contiene tutti i principi fondamentali suddivisi in quattro grandi
capitoli (uguaglianza, libertà, solidarietà e giustizia), descrive i principi fondamentali e i diritti fondamentali
delle costituzioni in materia di uguaglianza, libertà, solidarietà e giustizia degli stati membri. Sono diritti
fondamentali i diritti umani, civili, politici e sociali (ART.99). La Carta è entrata a far parte delle fonti formali
dell’UE con il Trattato di Lisbona (ART.6) acquistando la stessa efficacia giuridica dei trattati.
Queste fonti formali del diritto dell’UE le distinguiamo in fonti del diritto primario e fonti del diritto
derivato:
primario: i trattati e quegli atti normativi ai quali i trattati conferiscono ruolo di diritto primario
(regolamenti). Quelle norme che sulle basi dei Trattati l’Unione può emanare sulle materie di
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propria competenza esclusiva (libertà di circolazione delle persone, dei lavoratori in particolare, la
libertà dei circolazione dei servizi, delle merci e dei capitali). Su queste materie intervengono i
Trattati e i regolamenti; i regolamenti sono degli atti dell’UE che entrano a far parte
dell’ordinamento degli stati membri direttamente, diventano applicabili ai cittadini degli stati
membri come se fossero fonti del loro ordinamento interno, hanno dunque effetto orizzontale
diretto. Perché questo succede? Perché gli atti di un ordinamento che nasce da un trattato entrano
a far parte del nostro ordinamento senza che sia necessario una ratifica del parlamento? Perché nel
firmare i Trattati e nel ratificarli gli stati membri hanno accettato la limitazione della propria
sovranità, l’accettazione che la Corte Costituzionale ha votato sull’ART 11 e poi sul nuovo ART 117,
accettazione che il diritto primario dell’UE funziona come diritto sovranazionale, ha una capacità di
porsi nel nostro ordinamento giuridico, è sovraordinato rispetto anche alla nostra Costituzione
secondo l’ART.11 che contiene la limitazione della sovranità italiana, a questo si aggiunge il nuovo
ART.117. Provenendo da un altro ordinamento, una disposizione che prevale sul nostro diritto
interno non funziona nello stesso modo di una norma del diritto interno: poniamo che venga
emanata in Italia una legge che viola una norma del diritto dell’UE, la norma che proviene dall’UE si
impone ma non determina l’abrogazione o l’annullamento della disposizione italiana perché
proviene da un altro ordinamento che non esercita potere legislativo o potere di annullamento
della legge. Il giudice di fronte al quale viene portata una controversia della quale trova
applicazione quella legge italiana e si rende conto che quella legge viola una disposizione dell’UE
applicabile nel caso in specie, il giudice è tenuto a disapplicare la legge italiana e a applicare una
disposizione dell’UE. E dunque disapplicazione, non abrogazione ne annullamento, significa che la
applicazione della stessa supremazia dell’UE è rimandata ai giudici, non funziona se non attraverso
l’opera del giudice a cui è rimessa la disapplicazione delle norme contrastanti.
derivato: diritto che l’Unione è competente ad emanare sulla base di una disposizione del diritto
primario. L’Unione può usare il diritto derivato laddove non possa utilizzare il diritto primario. È il
diritto che deriva dai trattati.
Tutto ciò dipende dalle competenze dell’Unione, l’Unione è competente ad intervenire solo sulle materie
previste dai Trattati (Trattato dell’UE e Trattato sul Funzionamento dell’UE), non può intervenire al di fuori
delle sue competenze. I Trattati distinguono (in particolare quello sul Funzionamento) nettamente le
materie che sono di competenza esclusiva dell’Unione, dalle materie in cui la competenza dell’Unione è
solo sussidiaria. La competenza sussidiaria vuole dire che ci sono materie regolate autonomamente dagli
stati membri, materie nelle quali l’UE interviene con l’obiettivo di armonizzare, a livello dell’Unione fra gli
stati membri, la disciplina di certe materie organizzandole intorno ad alcuni principi condivisi.
Quando la competenza è sussidiaria per lo più si interviene con norme del diritto derivato.
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Tutta la materia che ci interessa si chiama Politica Sociale è materia di competenza sussidiaria, gli atti
emanati hanno particolare caratteristiche.
La competenza esclusiva dell’Unione per gli atti del diritto derivato hanno un modo si essere, un effetto e
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una struttura che è ricollegabile alla competenza esclusiva dell’Unione
Distinguiamo fra i regolamenti e le direttive, per le materia di competenza esclusiva l’Unione interviene per
lo più con i regolamenti, nelle materie di competenza sussidiaria interviene per lo più con le direttive
perché detta le regole alle quali debbono uniformarsi gli stati, non disciplina dunque la materia a cui
devono adeguarsi gli stati. I regolamenti sono atti normativi dell’Unione ad effetto orizzontale diretto (un
atto normativo dell’UE entra direttamente a far parte dell’ordinamento interno dello stato membro, che si
rivolge ed è azionabile in giudizio direttamente dai cittadini anche nei loro rapporti privati). Le direttive
sono atti normativi privi di effetto orizzontale, possono avere effetto diretto, ma è un effetto verticale, la
direttiva vincola gli stati membri ad uniformare il loro diritto trasponendo la direttiva in normativa interna,
non creano norme dell’ordinamento interno quindi può succedere che il cittadino non possa chiedere di
applicare la direttiva al giudice, perché la direttiva obbliga gli stati ma non agisce come se fosse un
regolamento, l’obbligato rimane lo Stato. Si può chiedere l’applicazione della direttiva per cause fra PA e
privati cittadini ma non si applica per le controversie fra privati, se il privato subisce un danno per il fatto
che non può chiedere l’applicazione della direttiva che significa che lo Stato non ha adempiuto agli obblighi
di adeguamento di adeguamento della normativa resta al cittadino una azione contro lo Stato per ottenere
il risarcimento del danno subito (sentenza Francovich).
La trasposizione delle direttive avviene attraverso la Legge Comunitaria, un meccanismo che prevede che il
Parlamento ogni anno emani una legge delega al governo nella quale richiama le regole fondamentali da
stabilire per adeguare il diritto interno alle varie direttive che sono in scadenza (entro il termine fissato per
la trasposizione della direttiva). Il governo emana poi vari decreti legislativi che contengono la trasposizione
delle varie direttive.
L’adempimento dello stato alla direttiva è controllato dagli organi e dalle istituzioni dell’UE: il Consiglio
dell’Unione Europeo che ha potere legislativo ed è composto da un rappresentante di ciascun stato
membro a livello ministeriale che è impegnato all’esercizio delle funzioni del Consiglio (funzione legislativa);
il Parlamento Europeo (eletto con sistema proporzionale). Parlamento e Consiglio adottano i provvedimenti
e gli atti normativi dell’UE.
L’iniziativa legislativa viene da quello che costituisce il Governo dell’UE, la Commissione Europea che ha
iniziativa legislativa, propone gli atti normativi al Parlamento e al Consiglio. La Commissione vigila anche
sull’applicazione del diritto dell’UE negli stati membri e ha potere di azione in giudizio contro gli stati
membri che infrangono il diritto dell’UE. Se uno stato non traspone la direttiva nei tempi previsti o se nel
trasporla ne viola il contenuto, la Commissione può proporre una azione di infrazione ovvero una azione
contro lo stato inadempiente proposta all’ordine giudiziario dell’UE, la Corte di Giustizia dell’UE. Questa è
formata dalla Corte di Giustizia più i tribunali ed è composta da 27 membri, uno per ogni stato membro e
esercita un ruolo fondamentale non solo come corte di unica e ultima istanza ma anche come interprete
del diritto dell’unione attraverso le sue sentenze che hanno efficacia negli stati membri. La Corte interviene
sulla base di due diversi tipi di ricorso:
procedure di ricorso intentate dalla Commissione Europea contro gli stati
ricorso in via pregiudiziale: un ricorso che chiama in causa la Corte di Giustizia chiedendole
l’interpretazione autentica del diritto comunitario. Il giudice nell’applicare una norma deve
decidere se il diritto italiano è conforme o no al diritto comunitario, se la questione implica una
serie di questione interpretative complesse deve rinviare la questione alla Corte di Giustizia e
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attendere il giudizio della Corte. Per fare ciò deve formulare dei quesiti, perché la Corte risponde
solo sui quesiti che le sono stati formulati, la Corte li esamina e risponde concludendo che o il
diritto dell’Unione non osta l’applicazione del diritto italiano o, nel caso contrario, osta
l’applicazione del diritto italiano; in questo caso il giudice a cui viene restituita la causa dovrà fare
applicazione di quanto ha detto la Corte di Giustizia e non applicare il diritto italiano difforme dal
diritto dell’UE. L’obbligo del rinvio pregiudiziale c’è soltanto per il giudice di ultima istanza e questo
ha dato luogo a una nuova giurisprudenza della Corte Costituzionale perché quando i conflitti fra
legge e Costituzione coinvolgono anche il diritto dell’UE, la Corte costituzionale sospende il proprio
giudizio e rinvia alla Corte di Giustizia (in passato la Corte Costituzionale non lo ammetteva
consigliano di evitare il ricorso in via pregiudiziale). [La sentenza è vincolante non solo per il giudice
che ha sollevato il problema, ma anche per i giudici che avranno controversie dello stesso tipo.
L’allargamento a 27 dell’UE ha creato molti problemi, uno è quello della composizione della Corte
che è a 27; normalmente si distingue la Grand Séssion (la Corte al completo) da collegi a numeri
ridotti, le questioni di più grande importanza quelle che coinvolgono davvero i principi dell’Unione
sono decisi dalla Grand Séssion. Tra questi 27 giudici ci sono giudici qualificati e specialisti del diritto
dell’UE e giudici nominati da nuovi entrati dall’UE sulla cui formazione giuridica tout court ci sono
dubbi.]
Quando viene emanata una direttiva dal Consiglio e dal Parlamento dell’UE, queste direttive a volte hanno
contenuto particolare, non parliamo degli articoli ma delle clausole, perché possono essere la stipulazione
di un accordo sindacale stipulato a livello europeo, questo può dare contenuto alla direttiva che viene
emanata con regole formali dal Consiglio e Parlamento. Viene emanata la direttiva e lo Stato ha due\tre
anni per adeguarsi ad adattare il suo diritto interno nel senso di una recezione dei principi della direttiva.
Tutte le direttive specialmente in materia di lavoro contengono una particolare clausola che si chiama
clausola di non regresso: la trasposizione della direttiva comunitaria non può essere l’alibi per peggiorare il
trattamento dei lavoratori che è già contenuto nel diritto interno; non si può approfittare di una direttiva
che tiene conto del modo diverso di essere degli stati membri per peggiorare la condizione di una categoria
di persone. La clausola di non regresso non significa che il legislatore interno non possa modificare in
peggio le proprie leggi, non può approfittarsi della trasposizione della direttiva per fare questo tipo di
operazione.
COSTITUZIONE
Nella nostra costituzione il posto occupato dal lavoro è un posto di primaria importanza, si apre all’ART.1
primo comma con: L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro. “Fondata sul lavoro” non è una
espressione retorica, il valore del lavoro è un valore primario per la nostra Costituzione, che non vuol dire
esclusivo, può entrare in bilanciamento con altri valori, ma questa posizione del valore del lavoro nell’art. 1,
l’art. che ci dice cos’è la nostra Repubblica, va tenuto in considerazione perché serve a illuminare un’altra
serie di disposizioni nelle quali rientra la considerazione del lavoro. La nostra Costituzione è una
costituzione rigida, può essere emendata secondo il procedimento dell’art.148 della costituzione
medesima, la prima parte della costituzione (Diritti fondamentali) non può essere emendata.
L’art. 1 serve anche a capire in parte il significato del diritto al lavoro dell’art.4, la prima interpretazione è
lavoro come valore primario del nostro ordinamento. Che significa lavoro? Il lavoro tutelato primariamente
è in primo luogo il lavoro subordinato, il lavoro dei salariati, perché le classi sociali al basso livello di
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produzione che assumono questo ruolo e la loro protezione è primaria, ma il lavoro deve essere inteso in
una accezione più ampia perché il lavoro è un’attività nella quale si realizza la personalità umana, la
persona si realizza attraverso il lavoro, questo lavoro è tutelato dalla Costituzione e può essere lavoro
dipendente, ma non solo, anche autonomo, attività professionale, l’unico limite è rappresentato dalle
attività di tipo imprenditoriale che sono tutelate sotto il profilo della libertà dell’iniziativa economica
privata. L’art.35 della Costituzione ci dice che la repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme come modo
di realizzazione della persona umana.
Il lavoro è un diritto sociale, quindi un diritto fondamentale, fondamentale allo stesso modo per cui lo sono
i diritti civili e politici. Per lungo tempo i diritti sociali sono stati considerati diritti di serie B, ora, finalmente
sono assurti al rango di diritti fondamentali, questo non vuol dire che siano indivisibili e non si possano fare
distinzioni; la maggiore distinzione è quella fra i diritti self-executing (che trovano immediata applicazione,
come i diritti di libertà) da i diritti condizionati ( per realizzare i quali è necessaria una prestazione attiva da
parte dello Stato).
Il diritto al lavoro è un diritto sociale che presenta questa “doppia faccia”, dice l’art.4 comma 1: la
Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo
questo diritto. C’è insieme il diritto self-executing, il diritto di libertà e il diritto al lavoro, la libertà di
lavorare è insieme il ripudio della schiavitù e la libertà di lavoro, che vuol dire anche completa libertà di
circolazione nel territorio dell’Unione Europea per lavoro.
Dice anche un diritto di pretendere dallo Stato condizioni che rendano effettivo questo diritto, è una
questione delicata, in questi giorni se ne sta discutendo molto dopo la dichiarazione di fallimento del
progetto di Pomigliano e Mirafiori di Marchionne, che significa lasciare a casa decine di migliaia di persone.
Che cosa significa diritto al lavoro? Non significa diritto garantito immediatamente, con norma
immediatamente precettiva al proprio posto di lavoro, il contenuto è più debole, significa diritto di
pretendere dallo Stato alcuni comportamenti nella direzione della realizzazione dell’obiettivo della
promozione dell’occupazione. Quello che si può pretendere dallo Stato non è la piena occupazione, ma che
lo Stato metta in movimento la propria macchina per la realizzazione di obiettivi che vadano verso la
realizzazione della massima occupazione possibile: formazione professionale, politiche attive del lavoro
verso nuove occupazioni per chi ha perso il lavoro, misure di inserimento al lavoro. Occorre che lo Stato
risponda alla pretesa dei cittadini di avere un mercato del lavoro che funzioni e che tenda alla massima
occupazione possibile, in questo bisogna tenere conto delle due grandi sacche di disoccupazione e
inoccupazione (scoraggiamento da lavoro), occupazione giovanile e femminile. L’art.4 impegna la
Repubblica a fare politiche giuste perché si rimedi a questo fenomeno devastante dal punto di vista sociale.
L’art.4 secondo comma prevede anche il dovere di lavorare, dovere di ogni cittadino di svolgere secondo le
proprie possibilità un’attività e una funzione che concorra all’accrescimento spirituale della società [?]. Non
significa obbligo al lavoro, che sarebbe schiavitù, è un dovere giuridico e non solo morale perché è scritto in
una norma della Costituzione ma non è sanzionato.
Il controllo di costituzionalità è svolto solo dalla Corte Costituzionale, nel nostro ordinamento non esiste il
controllo di costituzionalità diffuso, il giudice ordinario che riscontra un conflitto non può decidere per conto
proprio, deve sospendere la causa sollevare l’eccezione di costituzionalità, mandarla di fronte alla Corte che
decide esaminando la questione. Se la Corte decide che la legge è in conflitto con la Costituzione annulla
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questa disposizione, l’annullamento ha effetto ex tunc, nel senso che viene rimossa questa disposizione
dall’ordinamento. Le sentenze della Corte hanno efficacia generale.
L’art. 117 della Costituzione è stato riformato con la legge numero 3 del 2001 che ha riformato il Titolo V
della Costituzione, essendo stata approvata a maggioranza è stata sottoposta al referendum confermativo
(in Italia è consentito solo il referendum abrogativo, al referendum confermativo sono sottoposte le
modifiche della Costituzione quando vengano approvate a maggioranza).
Dal punto di vista della ripartizione delle competenze in materia di lavoro fra lo Stato e le Regioni, l’art.117
organizza il rapporto dal punto di vista della competenza legislativa, che vuol dire il potere legislativo, fra lo
Stato e le Regioni secondo 3 categorie:
competenza esclusiva dello Stato:
competenza concorrente dello Stato con le Regioni
competenza esclusiva delle Regioni
In passato la competenza delle Regioni si esercitava sulle materie tassativamente previste dall’art.117, oggi
la competenza delle Regioni, concorrente ed esclusiva è residuale: è diventata tassativa l’elencazione delle
competenze dello Stato. Rientra tra le competenze esclusive dello Stato l’ordinamento civile, il diritto del
lavoro è per la maggior parte rientrante nell’ordinamento civile, competenza legislativa esclusiva dello
Stato che garantisce l’uniformità del diritto del lavoro sul territorio nazionale. Vi è tuttavia competenza
concorrente delle Regioni in materia di tutela e sicurezza del lavoro, mentre competenza esclusiva dello
Stato è la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono
essere garantiti su tutto il territorio nazionale e la previdenza sociale. In altre materie che coinvolgono
materie sociali vi è una concorrenza delle Regioni ma concorre con la competenza dello Stato che fissa i
livelli essenziali delle prestazioni che devono essere uguali per tutti su livello nazionale, poi le Regioni
possono intervenire nel segmento che residua al di là delle prestazioni essenziali.
Tutela e sicurezza del lavoro sono materie di competenza concorrente delle Regioni che la Corte
Costituzionale ha interpretato in maniera molto restrittiva, è stata una preoccupazione della Corte quella di
garantire al massimo livello l’uniformità del diritto del lavoro, preoccupata che specie in periodi di grandi
parole e meno di fatti, di trasformazioni in senso federalista del nostro Stato (cavallo di battaglia della
Lega), si potesse arrivare a una disciplina del lavoro differenziata regione per regione senza garanzia di
diritti che fosse uniforme su territorio nazionale, questo legato all’applicazione del diritto di uguaglianza.
DIRITTO INTERNAZIONALE
Rispetto al diritto dell’UE è diritto che ha una minore rilevanza nella nostra materia, ma ha pur sempre una
qualche importanza. La fonte di diritto internazionale che agisce direttamente nella nostra materia prende
il nome di Convenzione dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro (OIL). Queste convenzioni sono
norme del diritto internazionale convenzionale, cioè sono accordi fra Stati, non sono applicabili
direttamente nell’ordinamento ma abbisognano di una ratifica da parte del parlamento che la renda
esecutiva con legge, la legge di ratifica di un trattato internazionale è una legge di rango superiore rispetto
alla legge ordinario (art.117 cost.). Vi è dunque una organizzazione internazionale che produce convenzioni
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in materia di lavoro, questa organizzazione è l’organizzazione più antica, è stata istituita nel 1919 con la
firma del Trattato di Versailles che ha chiuso la I Guerra Mondiale. Questa organizzazione è stata istituita ed
ha sede a Ginevra da allora, è diventata dopo la II Guerra Mondiale quando è stata costituita
l’organizzazione delle Nazioni Unite la OIL è diventata una agenzia specializzata dell’ONU.
L’OIL ha un organo legislativo, un suo governo e un proprio CdA interno.
L’organo legislativo è l’Assemblea che si chiama Conferenza Internazionale del Lavoro, è composta dagli
stati membri (sono gli stati membri dell’ONU) che sono presenti nell’OIL con una propria delegazione, le
delegazioni sono ripartite (rappresentano i sindacati dei lavoratori, le organizzazioni dei datori di lavoro e i
governi), non rappresentano solo lo Stato con il suo governo come nell’ONU, ma rappresentano anche le
parti sociali.
La Conferenza adotta le convenzioni che devono essere sottoscritte da un numero rilevante di stati,
ciascuno degli stati che sottoscrive una convenzione è poi tenuto a ratificarla all’interno dove può essere
ratificata o no, dipende dal giudizio del Parlamento dello Stato. Ci sono due fenomeni contrapposti nell’OIL:
stati che ratificano tutte le convenzioni e stati che non le ratificano (ad esempio il Regno Unito con Blair).
Il Governo dell’OIL è formato dall’Ufficio Internazionale del Lavoro (Bureau International du Travail – BIT) e
svolge l’importante funzione di monitoraggio sull’applicazione della convenzioni negli stati che le hanno
ratificate, facendo ricerche e mandando suoi inviati.
I contenuti delle convenzioni
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Per quanto riguarda le convenzioni dell’OIL sono atti normativi che provengono dall’Organizzazione che
esprime l’Assemblea, sono trattati internazionali, vengono ratificati dagli Stati ma per entrare a far parte
dell’ordinamento interno devono essere ratificate.
Le convenzioni dell’OIL hanno, dal punto di vista dei loro contenuti fondamentali, una base nella
Dichiarazione di Philadelphia del 1944, strettamente collegata alla Dichiarazione Universale dei Diritti
dell’Uomo adottata dall’ONU nel 1948. I principi fondamentali contenuti nella Dichiarazione di Philadelphia
sono:
Il lavoro non è una merce: a un origine particolare ed ha assunto il significato della non
mercificazione del lavoro, il lavoro è erogazione delle energie umane da parte delle persone sicché
dunque va rispettato come espressione della persona umana, non può essere oggetto di
compravendita perché legato alla persona che lavora e alla sua dignità.
La libertà di espressione e associazione sono fondamentali per il progresso
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La povertà in qualunque luogo costituisce un pericolo per la prosperità
I principi che governano l’OIL sono quelli che vengono chiamati i International Labour Standards, il core dei
principi e dei diritti fondamentali che l’OIL persegue con la sua attività, che è una attività normativa ma
anche di sostegno, di controllo su quanto avviene nel mondo del lavoro dei diversi paesi che appartengono
all’OIL. Questi Principi sono stati rilanciati dall’OIL nel 1998 con la dichiarazione relativa ai principi e ai
diritto fondamentali del lavoro, in questa dichiarazione l’OIL ha condensato il contenuto delle otto
convenzioni fondamentali e ne ha fatto i principi costituzionali dell’OIL, sono considerati generalmente
vincolanti indipendentemente dal fatto che le convenzioni da cui provengono siano state effettivamente
ratificate dagli stati membri (come se fosse diritto internazionale consuetudinario anziché diritto
internazionale convenzionale) perché rispondono ai principi fondamentali di tutela dei diritti umani, dei
diritti civili e diritti politici.
Il problema dell’OIL è il suo peso relativo, vi sono Stati che ratificano e applicano le convenzioni e stati che
non lo fanno. Contro questi fenomeni di non ratifica, ratifica senza applicazione o rifiuto per punti
particolari, non c’è soluzione nel senso che l’OIL non dispone della possibilità di applicare sanzioni. Le
sanzioni efficaci, soprattutto verso i paesi che fanno della sottoprotezione sociale e del lavoro uno
strumento per giocare la loro competitività sul piano dell’economia e del mercato globalizzato, sarebbe
proprio quello di limitare l’accesso a chi non ratifica e non applica le convenzioni dell’OIL alle organizzazioni
del commercio internazionale globalizzato perché questi paesi si verrebbero sbarrata la possibilità di
sviluppo che giocano attraverso la partecipazione al mercato globalizzato, abbassando il costo del lavoro a
causa della sottoprotezione del lavoro. Questi poteri sanzionatori non sono stati conferiti all’OIL perché gli
stati membri non glieli hanno conferiti. La strada da seguire è quella delle regole che si danno le grandi
organizzazioni del commercio internazionale, che inseriscono clausole sociali nei contratti e sviluppano una
specie di diritto a sé nella protezione del lavoro nei paesi sottosviluppati. Questa strada è una strada che
non passa attraverso le norme inderogabili del diritto internazionale, sarebbe meglio avere davvero un
diritto internazionale funzionante.
Nel nostro paese il diritto internazionale è una fonte importante di diritto del lavoro, a volte alcune
convenzioni sono superate dalla nostra legislazione, ma non sempre è così. La loro legge di ratifica va
analizzata con attenzione perché la presunzione di superiorità del diritto interno spesso rende dubbio il
rispetto delle convenzione internazionale.
CONTRATTI COLLETTIVI
Bisogna guardare all’insieme delle regole che governano questa fonte, guardando ai soggetti da cui
promana e guardando la funzione che questa fonte svolge.
Premessa: bisogna considerare preliminarmente il rapporto che si pone fra la fonte legale formale (la legge
e le sue declinazioni) e questa fonte particolare dei contratti collettivi. Nell’ordinamento vigente i contratti
collettivi non sono fonti in senso legale formale, sono contratti e perciò atti di autonomia privata quindi
non hanno efficacia generale come le fonti legali. Si pongono in rapporto alla legge, è un rapporto che è
sempre stato costruito nel tempo come un rapporto gerarchico, supremazia della legge sul contratto
collettivo nell’accezione che la legge è rivolta all’interesse generale mentre il contratto collettivo è rivolto
11 Diritto del lavoro 2012 – appunti delle lezioni - Cristina Fenoglio
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all’interesse di una parte della popolazione. Questo rapporto gerarchico è anche sorretto dalla
caratteristica della legislazione del lavoro che per lo più contiene norme inderogabili da parte
dell’autonomia privata individuale e collettiva (dei soggetti collettivi –sindacati e organizzazioni dei datori di
lavoro). Questo rapporto gerarchico ha subito una evoluzione nel tempo, in primo luogo il ruolo della legge
in materia di lavoro si è ristretto, le leggi contengono regole inderogabili ma per molte parti rinviano la
disciplina ai contratti collettivi portandoli dentro una disciplina legale chiamandoli a svolgere un ruolo di
fonte. È un fenomeno di delegificazione, di decentramento della legislazione dalla fonte generale alla fonte
più vicina alla realtà da disciplinare, che rende più flessibili le discipline del lavoro e per ottenere discipline
differenziate in modo significativo fra loro. È comunque il legislatore che decide se e come rinviare alla
contrattazione collettiva ferma restando l’inderogabilità delle norme di carattere generale.
Questa evoluzione del rapporto è una evoluzione che ha interessato tutto il diritto del lavoro negli ultimi
decenni, con andamenti irregolari; una modificazione profonda e particolare potrebbe derivare dalla
applicazione di una disposizione molto recente, si tratta di un “colpo di coda” del ministro del lavoro del
governo Berlusconi caduto nel Novembre del 2011 quando Napolitano ha chiesto a Berlusconi di dimettersi
per dare l’incarico a Mario Monti. L’estate del 2011 è stata tormentata, con lo spread, il rischio Grecia, le
borse a picco e l’impressione generale di quel governo di non essere in grado di fronteggiare questa
situazione. Il governo è stato commissariato dall’UE che aveva imposto il pareggio di bilancio nel 2013 e
l’adozione di una serie di misure scritte nella lettera della BCE, da un questionario di 49 domande mandate
dal Commissario Europeo al nostro governo nelle quali si chiedevano risultati precisi.
Quell’estate sono state emanate due manovre e nella seconda, quella di Agosto, il ministro del lavoro
Sacconi ha infilato una disposizione, l’art.8 del decreto legge 138 2011 convertito nella legge 148 del 2011.
Questo art.8, di cui alcuni partiti hanno chiesto l’abrogazione, prevede che i contratti collettivi cosiddetti di
prossimità (modo di dire che si usa per indicare una cosa prossima, il più vicino possibile) aziendale o
territoriale ha il potere di derogare anche in modo peggiorativo sia al contratto collettivo di superiore
livello, nazionale, sia alla legge in materia di lavoro. Si attribuisce il sovvertimento delle regole fin qui
dettate, i contratti collettivi sulle materie e condizioni previste (che sono talmente dilatate da rendere
impossibile la definizione dei limiti) possono derogare alla legge. Si travolgono i diritti dei lavorati sanciti
dalla legge attraverso un contratto aziendale. Si è scoperto di recente che questa contrattazione in deroga
alla legge si sta diffondendo e nessuno la denuncia. Questi contratti si fanno quando c’è minaccia
dell’occupazione, rischio di chiusura e delocalizzazione dell’attività produttiva.
Il contratto collettivo come fonte
Il contratto collettivo è un contratto, a qualificarlo è l’aggettivo “collettivo” che ha due ragioni:
Collettivo perché sono collettivi i soggetti stipulanti, le organizzazioni sindacali dei lavori e
organizzazione dei datori di lavoro sono le parti dei contratti collettivi. Quando parliamo di contratti
collettivi nazionali aziendali le parti sono i lavoratori dell’azienda e il datore di lavoro che agisce
come parte collettiva.
Collettivo perché c’è un numero indeterminato di destinatari. Se il numero i destinatari fosse
determinato sarebbe un contratto a favore di terzi.
12 Diritto del lavoro 2012 – appunti delle lezioni - Cristina Fenoglio
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Si tratta di un contratto, quindi di un atto di autoregolamentazione di interessi stipulato da parte di soggetti
contrapposti (datore di lavoro e lavoratori) attraverso chi li rappresenta nella contrattazione. Ha funzione
normativa perché diretto a regolare i rapporti di lavoro fra datori di lavoro e lavoratori rappresentati dai
soggetti stipulanti (numero indeterminato).
Esempio: organizzazione sindacale nazionale dei lavoratori metalmeccanici e federazione Confindustria
degli imprenditori metalmeccanici; fra questi due soggetti collettivi si stipula il contratto collettivo
nazionale dei metalmeccanici, questo contratto collettivo contiene una serie di clausole la maggior parte
delle quali contiene il trattamento economico e normativo dei lavoratori dipendenti da imprenditori
metalmeccanici. Dunque i destinatari del contratto collettivo sono i datori di lavoro e i lavoratori, tra il
singolo datore di lavoro e il singolo lavoratore vi è un contratto di lavoro. I suoi diritti e i suoi obblighi, il suo
trattamento economico e normativo è disciplinato per alcune cose dalla legge, ma per la maggior parte
(soprattutto il trattamento economico e normativo) è disciplinato dal contratto collettivo. Dunque i
soggetti collettivi hanno stipulato il contratto collettivo per regolare il contenuto dei contratti individuali di
lavoro fra lavoratori e datori di lavoro destinatari di quel contratto collettivo. Per questo parliamo di
funzione normativa, regolano, sono fonti di disciplina dei contratti individuali di lavoro; la legge ovviamente
può regolare la disciplina della materia del lavoro in modo generale ed astratto per questo i contratti
collettivi sono anche fonte di diritto del lavoro.
Regime giuridico del contratto collettivo.
È cambiato nel tempo, a conosciuto fasi diverse. Ha origini recenti e contemporanee perché legata allo
sviluppo industriale e all’organizzazione su base capitalistica del paese; la prima contrattazione collettiva
risale alla fine del secolo XIX, a quell’epoca non c’era praticamente una disciplina e si organizzava “facendo
lo slalom” fra ostacoli giuridici che più o meno superati senza che mai dall’ordinamento venisse un
riconoscimento dei diritti sindacali fondamentali, e quindi di uno spazio sindacale, su cui potesse
liberamente manifestarsi anche la contrattazione collettiva. Tuttavia si affermò largamente dopo l’inizio del
secolo XX, dalla formazione delle grandi organizzazioni sindacali e soprattutto della grande confederazione
generale del lavoro che fu la confederazione più grande del periodo fino alla fine della Prima Guerra
Mondiale. Accanto a questa confederazione, in un regime di libertà non riconosciuta da fonti esplicite ma
implicitamente prevista nell’ambito della libertà di associazione prevista dallo Statuto Albertino, si stava
sviluppando la contrattazione collettiva.
Il quadro giuridico cambiò radicalmente con l’avvento del fascismo, si ebbe una stentata sopravvivenza
delle organizzazioni sindacali dei lavoratori del periodo che va dal 1922 (Marcia su Roma e attribuzione da
parte del re della presidenza del consiglio a Mussolini, il regime parlamentare sopravvisse fino al 1925 e nel
1925 fu soppresso il parlamento a favore del partito unico fascista e della dittatura). Una delle prime leggi
del fascismo fu la legge sindacale n°563, emanata nel 1926, scritta da Alfredo Rocco (a cui si deve il codice
penale ancora vigente seppure largamente modificato nel tempo), è la legge di una dittatura e essendo una
legge espressione di una dittatura è caratterizzata dalla soppressione della libertà ed in particolare della
libertà sindacale, costruzione di un sistema sindacale in senso lato che nulla ha a che fare da quel sistema
sindacale che era nato dalle scelte libere e volontarie dei lavoratori e dei datori di lavoro e che aveva dato
luogo allo sviluppo delle organizzazioni della prima parte del secolo e allo sviluppo della contrattazione
collettiva libera, a sostituzione con un sistema in cui non c’è libertà ed è lo stato che regola tutto.
Per noi è importante ricordare la disciplina a causa di due motivi:
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ART.1 delle preleggi in ordine gerarchico sono messe la legge, il regolamento, le norme corporative.
Dunque nella gerarchia delle fonti come era nelle disposizioni preliminari al Codice del 1942
compariva questa fonte del diritto obiettivo, fonte legale e formale: le norme corporative. Che
cos’erano e perché sono state soppresse?
Il FASCISMO è durato 20 anni, finì il 25 luglio 1943, ma ha avuto ancora una coda nella Repubblica di
Salò negli anni che vanno dal 25 luglio 1943 al 25 aprile 1945. È stato un periodo in cui abbiamo
avuto questa materia regolata da questa legge che ha lasciato delle eredità, nel senso che anche
alcuni concetti con cui noi dobbiamo continuare a fare i conti li ritroviamo in quella legge. Il sistema
sindacale fascista serve dunque a capire alcune cose. L’ordinamento creato da questa legge è stato
soppresso nel 1944, ma qualche stralcio è stato conservato.
Che cosa conteneva questa legge sindacale? La legge sindacale del 1926 era divisa in quattro parti:
associazioni sindacali, contratto collettivo, sciopero e serrata (puniti come reati, vietati così come
era vietata ogni forma di organizzazione autonoma sindacale), istituzione di un giudice speciale del
lavoro. La parte dedicata alle associazioni sindacali fu preceduta da una serie di interventi che
determinarono lo (auto)scioglimento delle organizzazioni sindacali che i lavoratori si erano creati
nei decenni precedenti; vennero costituite come rappresentanti legali unici le associazioni sindacali
che rispondono a dei requisiti di fede nazionale e politica: le associazioni fasciste, che diventano il
sindacato unico in ciascuna categoria predeterminata in ragione dell’attività merceologica con
decreto ministeriale. Il mondo del lavoro viene suddiviso in rigide categorie che corrispondono alle
attività merceologiche dei datori di lavoro. i datori di lavoro appartengono ad una categoria in
ragione della loro attività e i lavoratori appartengono a quella categoria per dipendenza dai datori
di lavoro, per ciascuna categoria c’è un solo sindacato. Queste associazioni sono rappresentanti
legali, sono soggetti di diritto pubblico, hanno personalità giuridica pubblica perché impongono i
risultati della propria attività a tutti gli appartenenti alla categoria e in secondo luogo hanno potere
di imposizione fiscale nei confronti dei loro rappresentati a cui impongono i loro contributi, tasse
che serve a finanziare queste organizzazioni. Hanno lo statuto giuridico di enti pubblici e sono
considerati, per la dottrina del tempo, organi ausiliari dello stato (fanno parte dell’apparato dello
stato). Queste organizzazioni sono i titolari del potere esclusivo di contrattazione collettiva, i
contratti di lavoro collettivo possono essere stipulati solo da questi soggetti. Eventuali contratti
collettivi stipulati da altri soggetti sono nulli secondo questa legge. I contratti collettivi sono
stipulati a livello nazionale di categoria, e sono gli unici previsti. Tutti i contratti aziendali non
possono essere stipulati, perché gli unici soggetti titolari del potere contrattuali sono le
organizzazioni nazionali di rappresentanza dei lavoratori e dei datori di lavoro delle singole
categorie.
I contratti collettivi nazionali di categoria sono efficaci erga omnes: alla cui applicazione non
possono sottrarsi nessun datore di lavoro della categoria e nessun lavoratore della categoria, non
esiste alcuno spazio di contrattazione autonoma. L’efficacia erga omnes, accompagnata
dall’inderogabilità, ha avuto importanza fondamentale durante questo periodo perché la
contrattazione collettiva è stata utilizzata come leva di politica economica, la politica dei redditi,
durante il lungo periodo nel quale gli effetti delle crisi americana del 1929 sono arrivati nel nostro
paese sono stati fronteggiati con due strumenti: l’autarchia e la riduzione dei salari attraverso i
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contratti collettivi. Dunque questi ultimi assunsero una importanza fondamentale proprio perché
dotati di efficacia generale e inderogabilità. L’inderogabilità del contratto collettivo è quella regola
che assegna al contratto collettivo una funzione normativa, di regolare il contenuto dei contratti di
lavoro individuali e di regolarlo in modo inderogabile; le parti del contratto individuale (il singolo
datore di lavoro e il singolo lavoratore) essendo destinatari di un contratto collettivo efficace erga
omnes, ed essendo obbligati ad applicarlo, non possono neppure derogarlo: non possono pattuire
fra di loro delle condizioni diverse da quelle previste dal contratto collettivo. L’inderogabilità la
troviamo enunciata nell’art.2087 del CC *la parte relativa al contratto collettivo della legge del ’26 è
stata poi trascritta nel ’42 nel CC che ha riformulato in alcuni punti tenendo conto di successive
modifiche o degli orientamenti della giurisprudenza] che dice: i contratti individuali di lavoro
appartenenti alle categorie alle quali si riferisce il contratto collettivo devono uniformarsi alle
disposizioni di questo. Dunque non c’è spazio per pattuizioni individuali difformi, questo vuole
anche dire che quando un contratto collettivo viene sostituito da un nuovo contratto collettivo, il
nuovo regola il contenuto dei contratti individuali (affermazione importante per la riduzione dei
salari). Fa eccezione a questa regola dello spazio limitato dell’autonomia individuale solo la
cosiddetta “speciale condizione individuale”, era consentito al datore di lavoro di stipulare una
condizione di miglior favore al lavoratore individuale.
Il contratto collettivo era chiamato norma corporativa perché tutto l’ordinamento sindacale
fascista veniva definito ordinamento corporativo, non bisogna confondere le organizzazioni
sindacali con le corporazioni. Le corporazioni, secondo le idee del periodo, erano organismi nei
quali le associazioni fasciste si riunificavano; alle corporazioni si affidava il compito di emanare delle
normative di carattere generale. In realtà non hanno avuto nessuna importanza e non sono
praticamente esistite, solo negli ultimi anni del regime, quando si diede luogo alla Camera dei Fasci
e delle Corporazioni, si diede loro visibilità attraverso questa organizzazione che sostituiva il
parlamento.
Il fascismo cade con il voto contro Mussolini del Gran Consiglio del fascismo, apologia del Conte Ciano ed
altri il 25 luglio 1943, viene firmato l’armistizio l’8 settembre con Badoglio con gli anglo-americani .
La liberazione del paese da parte dei nuovi alleati avviene da sud verso nord, quando una parte dell’Italia è
già liberata, su richiesta degli Alleati, viene emanato un decreto luogotenenziale nel novembre del 1944 che
si applica soltanto nella parte di Italia liberata; prevede la soppressione dell’ordinamento corporativo, dal
luglio ’43 al novembre ’44 l’ordinamento corporativo era sopravvissuto ma era stata sostituita tutta la
dirigenza con una dirigenza non fascista, ma l’art.43 di questo decreto luogotenenziale mantiene in vita i
contratti collettivi corporativi perché contengono la disciplina del lavoro, se fossero stati soppressi anche
questi i lavoratori sarebbero rimasti privi della disciplina del lavoro che allora era pressoché contenuta nella
contrattazione collettiva. La sostituzione è stata oggetto di un processo intervenuto successivamente.
sempre nel giugno 1944 a Roma alla vigilia della Liberazione venne stipulato il Patto di Roma attraverso il
quale venne ricostituito il grande sindacato dei lavoratori come organizzazione libera e volontaria, nacque
la CGIL (Confederazione Generale Italiana del Lavoro) alla quale aderirono subito milioni di lavoratori, era
una confederazione unitaria, un patto unitario fra forze diverse, fra diverse correnti sindacali espressione di
forze politiche diverse in un momento di forte unità nazionale ancora dal punto di vista della lotta di
liberazione del paese e della ricostruzione del paese. Questa unità sindacale è durata pochissimo perché nel
1948 si è scissa questa confederazione per l’uscita di due componenti che sono andati a costituire una la
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CISL (componente cattolica, legata dalla democrazia cristiana), l’altra (socialista laica e repubblicana
liberale, moderatamente riformista) alla UIL.
25\09\2012
Nel 1946 insieme al referendum istituzionale, che ha dato luogo alla nascita della Repubblica Italiana,
furono indette le elezioni dell’Assemblea Costituente. Si istituisce l’Assemblea nel 1946 e il testo della
costituzione è entrato in vigore il 1 Gennaio del 1948. La Costituzione italiana è una costituzione rigida,
custodita dal capo dello stato e dalla corte costituzionale; è una costituzione democratica perché riconosce
molto i diritti sociali.
Titolo terzo della Costituzione: i rapporti economici
ART 39 (ordinamento sindacale) e ART 40 (diritto di sciopero).
L’art. 39 si compone di quattro commi, di cui trova attuazione nel nostro ordinamento solo il comma primo
perché questo contiene una disposizione immediatamente precettiva la cui applicazione è doverosa e non
richiede l’intervento della legge. Viceversa i commi 2, 3 e 4 dell’art.39 per trovare applicazione
nell’ordinamento richiedono l’intervento della legge. Richiedono cioè che il Parlamento dia attuazione,
quando previsto, mediante l’emanazione della legge prevista dall’art. stesso. Questa legge non è mai stata
emanata, questa è la ragione per la quale queste disposizioni sono vigenti ma non vivono effettivamente
perché mancano di attuazione, le conseguenze della mancata attuazione di questi commi hanno
condizionato il modo di essere del nostro diritto sindacale; diritto sindacale che, fatta eccezione della parte
relativa al settore pubblico che a partire dal 93 ha una sua disciplina legale, è un diritto che vive fuori dalla
legge.
L’intervento di emanazione della legge di attuazione di questi tre commi non c’è stato per ragioni politiche
e contingenti in un primo tempo e per ragioni meno contingenti in un secondo tempo.
Art.39, primo comma: l’organizzazione sindacale è libera (afferma il principio della libertà sindacale con
tutti i suoi contenuti. Nella nostra costituzione il diritto di aggregazione compare nell’art.18 (libertà di
associazione) e nell’art.39 (libertà sindacale e contrattazione collettiva). Nell’art.18 la libertà di associazione
conosce un limite che è quello che dice che le associazioni non devono essere in contrasto con la legge
penale, quindi fini penalmente illeciti non possono essere perseguiti mediante associazioni, allo stesso modo
sono vietate le associazioni segrete e quelle con organizzazioni interne di tipo militare. L’art.39 si differenzia
perché la finalità sindacale è una finalità direttamente riconosciuta non solo come legittima dalla
costituzione, ma come meritevole di tutela costituzionale; questo da una profonda differenza rispetto
all’associazione in generale, perché la finalità sindacale dell’art.39 è una finalità riconosciuta e tutelata
dalla costituzione, per questo una legge che doveva regolare il regolamento giuridico non avrebbe potuto
prevedere controlli amministrativi sulla finalità sindacale).
Secondo comma: ai sindacati non può essere imposto altro obbligo se non la loro registrazione presso uffici
locali o centrali secondo le norme di legge.
Terzo comma: è condizione per la registrazione che gli statuti dei sindacati sanciscano un ordinamento
interno a base democratica.
Quarto comma: i sindacati registrati hanno personalità giuridica. Possono, rappresentati unitariamente in
proporzione dei loro iscritti, stipulare contratti collettivi di lavoro con efficacia obbligatoria per tutti gli
appartenenti alle categorie alle quali il contratto si riferisce.
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Il primo comma afferma il principio generale e fondamentale del nostro ordinamento, la libertà sindacale.
Dal secondo comma in poi detta delle regole che debbono disciplinare il modo di essere dell’ordinamento
sindacale, basato sì sulla libertà ma alla quale non è estraneo l’intervento dello stato regolatore che
disciplina. Disciplina con grande cautela: prevedere che i sindacati possano liberamente scegliere se
chiedere riconoscimento giuridico o non chiederlo, la registrazione è appunto la richiesta del
riconoscimento che significa attribuzione della personalità giuridica. Poiché il principio di base è
l’attribuzione della libertà sindacale, e se vi è libertà sindacale i sindacati sono eguali fra loro, allora il diritto
che li regola è il diritto privato; libertà sindacale vuole dire pluralità sindacale, poiché il sindacato è una
organizzazione alla quale si aderisce liberamente in ragione delle proprie idee politiche o anche
semplicemente per convenienza, vuole dire che i sindacati sono necessariamente plurali perché ogni
lavoratore ha la sua testa e ogni lavoratore deve poter scegliere liberamente da chi farsi rappresentare.
Per il riconoscimento giuridico era prevista una legge apposita per dettare le regole del riconoscimento
stesso, questo perché le regole che vigono per le associazioni in generale non sono regole tagliate per
l’organizzazione sindacale. La Pubblica Amministrazione che concede il riconoscimento effettua un
controllo che è allo stesso tempo un controllo sulle finalità (Art.18) che non devono essere vietate dalla
legge penale e controlla altresì la consistenza patrimoniale perché secondo il diritto delle associazioni
l’associazione riconosciuta ha una autonomia patrimoniale perfetta (dei debiti dell’associazione risponde il
patrimonio dell’associazione con il fondo comune, senza che ci sia responsabilità personale dei dirigenti
dell’associazione, questo vuol dire che per dare la personalità giuridica a garanzia dei terzi creditori occorre
una consistenza di questo fondo che giustifichi il riconoscimento al tipo di attività che l’associazione si
propone di svolgere). Questo tipo di controllo non si può esercitare sul sindacato, secondo la costituzione,
infatti il terzo comma dell’art.39 ci dice che è condizione per la registrazione che gli statuti dei sindacati
sanciscano un ordinamento interno a base democratica. Dunque si prevede una riserva assoluta di legge,
che dovrà intervenire per regolare il riconoscimento giuridico dei sindacati non potrà prevedere i controlli
amministrativi su patrimonio e regolarità, dovrà solo accertare che lo statuto garantisca una democrazia
interna nel sindacato. Democrazia interna vuole dire che devono essere previste regole in materia di
accesso e in materia di esclusione o di libero recesso dell’associato iscritto al sindacato, debbono anche
essere previste regole in materia della nomina dei dirigenti dell’organizzazione sindacale che deve avvenire
attraverso procedure elettorali, che garantiscano i diritti delle minoranze. Il rapporto fra minoranze e
maggioranze deve basarsi sullo statuto e lo statuto deve essere fatto in modo da permettere l’espressione
delle minoranze. Per fare questo c’è bisogno di trasparenza. È una reazione rispetto al passato, nei
sindacati fascisti le nomine dei dirigenti erano nomine di partito, non era prevista nemmeno una
minoranza, in quanto non poteva esistere.
A cosa serve questa registrazione? I sindacati chiederanno la registrazione se vogliono entrare nel cerchio
della previsione dell’art.39 del 4 comma. Il quarto comma dice: i sindacati registrati hanno personalità
giuridica. Possono, rappresentati unitariamente in proporzione dei loro iscritti, stipulare contratti collettivi
di lavoro con efficacia obbligatoria per tutti gli appartenenti alle categorie alle quali il contratto si riferisce.
la registrazione serve a partecipare ala stipulazione dei contratti collettivi nazionali di categoria ai quali la
costituzione attribuisce efficacia generale erga omnes. Poiché però questi sindacati sono soggetti privati,
questi non possono imporre alcun potere, ma il contratto collettivo stipulato dovrà essere applicato da tutti
i datori di lavoro della categoria iscritti e non iscritti, ai propri dipendenti, vi saranno datori di lavoro che
non hanno aderito ai sindacati e che ciò nonostante si vedranno imposto il contratto collettivo stipulato tra
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sindacati che non lo rappresentano. Il nodo teorico è difficile da sciogliere e per scioglierlo il costituente ha
inventato un meccanismo frutto di una lunga e complicata negoziazione in sede di assemblea costituente.
La soluzione è una soluzione di compromesso, non sono i sindacati registrati che stipulano direttamente i
contratti collettivi, questo perché attribuire ai sindacati potere di stipulare direttamente il contratto
collettivo efficace erga omnes avrebbe voluto dire assegnare loro potere di supremazia. Non potendo far
questo, i sindacati registrati, vanno a comporre un organismo negoziale ad hoc, questo si chiama
rappresentanza unitaria ed è composta secondo criterio proporzionale. Ogni sindacato nominerà un
numero di componenti proporzionale al numero dei suoi iscritti, vi sarà quindi una maggioranza
espressione dei sindacati maggioritari, ma non sarà direttamente il sindacato di maggioranza che imporrà ai
sindacati minoritari il proprio contratto collettivo: questo è stipulato da un tavolo negoziale in cui si
confronteranno l’organizzazione dei datori di lavoro e la rappresentanza unitaria dei sindacati dei
lavoratori.
Una delle ragioni per cui il quarto comma dell’art.39 è rimasto lettera morta è che il sindacato che era
legato all’opposizione (sinistra) era i sindacato maggioritario che non avrebbe dominato la rappresentanza
unitaria in un sistema proporzionale perché la CIGL era notevolmente più estesa. ?
Primo comma dell’art.39: l’organizzazione sindacale è libera. La finalità sindacale è dunque riconosciuta e
tutelata dalla Costituzione, la libertà è libertà di organizzazione. Il termine organizzazione è di ampio
significato: consente all’organizzazione sindacale di avere forme diverse, la forma prevalente è la forma
associativa. In più il fatto che il secondo comma dica “statuto” fa pensare che il costituente abbia scritto
organizzazione ma pensasse associazione, perché sono queste che hanno uno statuto, ma il fatto che il
primo comma dica “organizzazione” consente che nel nostro sistema vivano organizzazioni sindacali che
non hanno forma associativa e che per esempio si costituiscono come organizzazioni spontanee,
espressione di democrazia diretta attraverso assemblee, sono più variabili ma hanno comunque diritto di
esistere perché anch’esse tutelate dalla Costituzione. Il fatto che i commi 2, 3 e 4 non siano stati attuati
significa che le organizzazioni sindacali nel nostro ordinamento sono prive del riconoscimento giuridico,
quindi vivono utilizzando come unica parte giuridica della loro esistenza il riconoscimento costituzionale e
quelle poche norme del CC che regolano le associazioni non riconosciute (art. 36, 37 e 38 CC).
[Gli articoli 36, 37 e 38 del CC prevedono una soggettività limitata delle associazioni non riconosciute e
soprattutto prevedono la responsabilità per i debiti dell’associazione degli organi dirigenti –autonomia
patrimoniale imperfetta; l’associazione non riconosciuta può stare in giudizio.+
Questa pochezza di norme ha fatto si che la giurisprudenza ritenesse di poter applicare nell’ambito delle
organizzazioni sindacali alcune disposizioni del CC in materia di associazioni riconosciute: quelle che
riguardano i diritti dei singoli associati per quello che riguarda l’accesso, il recesso e l’eventuale espulsione.
Questo perché, per quanto non sia attuato il terzo comma dell’art.39, è un principio di libertà sindacale la
garanzia dei diritti di libertà di chi si è iscritto ad un sindacato. Il controllo giudiziale in merito a casi di
espulsione, accesso, recesso è un controllo limitato, è un controllo di rispetto di legalità.
La libertà sindacale è un diritto fondamentale sia individuale sia collettivo.
Ciascun lavoratore è titolare della libertà sindacale e quindi del diritto di aderire ad un sindacato, di
attivarsi per la costituzione di un sindacato, di partecipare alla vita dell’organizzazione sindacale; ma è
anche un diritto di profilo collettivo: il diritto del sindacato di vivere liberamente e di poter svolgere
liberamente la propria attività che coincide con l’attività del sindacato. Questo è il profilo positivo, il profilo
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negativo della libertà sindacale è il diritto di non iscriversi e non partecipare. È implicita nel
riconoscimento della libertà sindacale, tuttavia ha stentato ad affermarsi perché non era previsto un
contenuto negativo nell’art.39 e nelle fonti internazionali che tacciono sul punto. Perché questo silenzio?
Era dovuto ad un fatto, nel Regno Unito vi era una lunga tradizione di clausole, attraverso le quali clausole,
concordate tra imprenditori e sindacati, che si chiamano Union Security volte a garantire al sindacato
alcune condizioni, veniva limitata l’occupazione dei lavoratori e l’attribuzione dei benefici contrattuali in
un’azienda allo stipulare un contratto ai soli lavoratori iscritti ad un sindacato. Queste clausole sono la
negazione della libertà sindacale lavorativa, la loro presenza e pratica ha determinato il silenzio delle
convenzioni internazionali sul punto, poi però è intervenuta la Corte di Strasburgo (Corte che tutela i diritti
fondamentali dell’Uomo, le libertà civili e politiche garantiti dalla convenzione europea dei diritti
dell’uomo). La corte di Strasburgo ha sentenziato che queste clausole sono illecite alla luce della Carta della
Convenzione europea dei diritti umani. Il riconoscimento nel nostro ordinamento della libertà sindacale
negativa è contenuto nello Statuto dei Lavoratori, è che è una legge del 1970 n°300, che contiene una serie
di disposizioni in materia di lavoro. L’art.15 dello SDL è intitolato “Atti discriminatori” dice: è nullo qualsiasi
patto o atto diretto a subordinare l’occupazione di un lavoratore alla condizione che aderisca o non aderisca
a un’associazione sindacale ovvero cessi di farne parte; licenziare un lavoratore, discriminarlo nella
assegnazione di qualifiche o mansioni, nei trasferimenti, nei provvedimenti disciplinari, o recargli altrimenti
pregiudizio a causa della sua affiliazione o attività sindacale ovvero della sua partecipazione ad uno
sciopero. Le disposizioni di cui al comma precedente si applicano altresì ai patti o atti diretti a fine di
discriminazione politica o religiosa.
L’art.15 SDL prevede espressamente la libertà sindacale negativa e tutela qualsiasi pregiudizio che il
lavoratore subisca nell’occupazione o nello svolgimento del rapporto di lavoro per il fatto di avere aderito
ad un sindacato o di non aver aderito ad un sindacato. In questo modo è considerato discriminazione il
trattamento pregiudizievole subito in ragione della affiliazione sindacale.
Un completamento rispetto al discorso sulle finalità sindacali, la finalità sindacale è ancora prevista nello
SDL nell’art.17, che dice qualcosa in più. “Sindacati di comodo”: è fatto divieto ai datori di lavoro ed alle
associazioni di datori di lavoro di costituire o sostenere, con mezzi finanziari o altrimenti, associazioni
sindacali di lavoratori. Questi sindacati di comodo nel linguaggio corrente si chiamano sindacati “gialli”, da
Yellow Dogs per esprimere disprezzo verso associazioni che non sono genuina espressione dei lavoratori ma
sono inquinati dal sostegno (diretto o indiretto) finanziario o altrimenti della controparte. Questo vuole dire
anche, implicitamente, che nel nostro ordinamento sono vietati i sindacati “misti”, ovvero formati sia da
lavoratori che da datori di lavoro. Possono esistere organizzazioni che prevedono sia lavoratori che datori di
lavoro ma non possono chiamarsi sindacati e non lo sono.
Come si finanzia un sindacato? Chi si iscrive ad un sindacato paga una quota proporzionale alla propria
capacità economica; i sindacati non hanno a differenza i partiti politici che non dovrebbero avere
finanziamenti pubblici ma hanno i rimborsi elettorali, questi rimborsi sono elevatissimi e sono utilizzabili al
di là delle spese sostenute, pagando anche a volte non solo le spese del partito. I sindacati dei lavoratori non
hanno finanziamento pubblico, ma il finanziamento viene dai loro iscritti. Il contributo viene pagato dal
lavoratore attraverso la tessera del sindacato, questa è un contratto, contraggo un’obbligazione con il
sindacato, l’obbligazione di pagare la mia quota associativa annuale che si chiama contributo sindacale.
Poiché se il sindacato dovesse ricorrere lavoratore per lavoratore per farsi pagare la quota associativa il
finanziamento rischierebbe di raccogliere ben poco, il sistema oggi è regolato solo dal contratto collettivo:
19 Diritto del lavoro 2012 – appunti delle lezioni - Cristina Fenoglio
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consiste nella firma al datore di lavoro di una delega a trattenere sullo stipendio l’equivalente della quota
associativa, la quale deve essere girata dal datore del lavoro al sindacato beneficiario. Finanziamenti che
non avvengono così possono dar luogo all’applicazione dell’art.17 SDL.
26\09\2012
Come sono organizzati i sindacati
Prendiamo come modello la struttura delle confederazioni sindacali, i 3 maggiori sindacati in Italia, CIGL
CISL UIL e confederazione minore la UGIL (proviene dalla Cisnar, di ispirazione corporativa fascista, quando
la forza politica finì, anche il sindacato legato al partito finì non potendo sedersi al tavolo delle
contrattazioni dei sindacati). Le tre grandi confederazioni hanno più o meno la stessa struttura interna che
guardiamo tracciando due righe:
Nel diritto sindacale vigente, la categoria non può essere predeterminata perché ogni organizzazione
sindacale nasce e si sviluppa per tutelare un interesse collettivo che essa stessa definisce. Il modo
tradizionale di definizione, che oggi è un’auto definizione, della categoria, cioè dell’area di interessi
rappresentati coincide con la tradizione di individuarla nella attività in senso merceologico dell’impresa che
individuano anche l’area di interesse del sindacato. Il sindacato rappresenta cioè gli interessi dei lavoratori
che sono occupati in un settore merceologico, perché individuano interessi comuni che nascono e si
sviluppano in relazione al modo e tipo di produzione e al tipo di organizzazione di quelle imprese.
Questo è il modello più diffuso e il modello classico, ciò non toglie che sia il modello esclusivo perché
coesiste con questo modo di organizzarsi del sindacato di categoria un altro modo di definire la categoria:
gli interessi rappresentati. È un modo che ha origini lontanissime e che resiste, sia pure con profili un po’
diversi, nella situazione attuale, che troviamo largamente presente sia nel settore pubblico, sia nel settore
dei servizi pubblici. Troviamo spesso i sindacati di “mestiere” che definiscono la categoria (area di
rappresentanza) non sulla attività produttiva ma sulla professione dei lavoratori che rappresentano.
Nazionale:
la confederazione
Regionale
Provinciale Organizzazione orizzontale del sindacato:
organizzazione intercategoriale
Organizzazione verticale: organizzazione della
categoria
Territoriale
(provinciale)
Regionale
Nazionale: federazione
nazionale di categoria
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I sindacati confederali hanno spesso un’area di rappresentanza larga, basata sul principio della solidarietà
tra lavoratori che fanno mestieri diversi e di composizione dei loro interessi che possono anche essere in
conflitto; i sindacati autonomi o “corporativi” (nel senso del particolarismo nella rappresentanza di
interessi) rappresentano interessi più specifici.
Il contratto collettivo nazionale è stipulato dalla federazione nazionale di categoria; il nome federazione ci
fa capire che è un’associazione complessa, una associazione di associazioni perché raggruppa insieme
questi livelli. Per ogni categoria vi è una federazione nazionale così come vi è un livello provinciale e un
livello regionale.
L’organizzazione orizzontale è quella nella quale si raggruppano i sindacati delle diverse associazioni e delle
diverse categorie, sono i momenti di organizzazione intercategoriale.
Le confederazioni sono il vertice nazionale di un’organizzazione complessa, nella quale confluiscono non
solo le federazioni nazionali delle diverse categorie ma tutti i livelli.
Il livello provinciale nella CGIL è la Camera del Lavoro, è un momento molto importante di aggregazione
insieme delle associazioni e dei lavoratori, questa è la caratteristica delle strutture orizzontali che insieme
raccolgono sia le organizzazioni sia i lavoratori iscritti a quelle organizzazioni.
Il livello territoriale di CISL e UIL si chiama unione. Le camere del lavoro e le unioni fanno anche molte
attività di assistenza dei lavoratori, ad esempio sul piano fiscale, attività complementari rispetto all’attività
sindacale vera e propria.
Quando parliamo di contrattazione collettiva parliamo sempre di contrattazione verticale, salvo che non si
parli di accordi interfederali perché allora sono le confederazioni che stipulano con la controparte un
accordo. Questi hanno contenuti in genere molto generali.
Le organizzazioni dei datori di lavoro non si chiamano sindacati, hanno storia ed in parte funzione diversa
rispetto ai sindacati; sono più strutture di assistenza del sostegno delle diverse imprese. La più grande è
Confindustria, ma accanto ad essa esiste la Confederazione dell’Industria Medio Piccola, Confcommercio,
Confesercizi, Confesercenti (che ha connotazione più progressista), le organizzazioni del settore
cooperativo (Lega e Confcoperative).
Confindustria è l’organizzazione maggiore, anche per il peso politico che ha. Ha preso l’espressione dei
poteri forti, ha una più limitata organizzazione di categoria. Hanno un livello territoriale (Unione degli
Industriali) e un livello nazionale.
I sindacati sono anche organizzati a livello europeo: esiste, per la parte dei sindacati dei lavoratori, la
confederazione dei sindacati europei e le organizzazioni dei datori di lavoro organizzati a livello europeo; la
loro presenza è importante perché, nelle aziende di dimensione europea, ci devono essere comitati
aziendali europei e la loro disciplina è affidata alla contrattazione di livello europeo. Ma anche alcuni
accordi quadro, che poi vengono recepiti nelle direttive dell’UE, nascono dalla contrattazione di questi
soggetti sindacali europei.
Organizzazione interna
Il rapporto che lega chi si iscrive ad un sindacato con il sindacato stesso.
Serve per avere chiaro come l’attività compiuta dal sindacato serva per avere effetti nella sfera giuridica
dell’iscritto. L’iscrizione ad un sindacato è la stipulazione di un contratto, è un contratto per adesione
perché si sottoscrive un modulo predisposto.
21 Diritto del lavoro 2012 – appunti delle lezioni - Cristina Fenoglio
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Qual è il contenuto, come possiamo definire questo contratto? Tradizionalmente il contratto che si stipula
viene definito come contratto di mandato perché il suo contenuto consiste nell’attribuire al sindacato un
potere, e si aggiunge “è un mandato con rappresentanza –rappresentanza sindacale” (è un vincolo di
rappresentanza volontaria, collegato a questo contratto); questo per dire che al il sindacato mandatario
attribuisco iscrivendomi anche il potere di rappresentarmi, essenzialmente nell’attività contrattuale e nella
contrattazione. Le conseguenze dell’attribuzione di un potere di rappresentanza sono la produzione degli
effetti degli atti compiuti direttamente in testa al rappresentato. Il rappresentante stipula il contratto che
produce effetti sul rappresentato. Si dice è il mandato a svolgere attività i cui effetti ricadono direttamente
nella sfera giuridica del lavoratore iscritto; è importante tenerlo a mente per capire perché il contratto
collettivo stipulato dal sindacato produce effetti obbligando e conferendo diritti al e sul lavoratore iscritto
(e non). Questo modo di concepire il rapporto fra iscritto e sindacato è un modo un po’ deformato
dall’ottica del diritto privato, siamo nell’ambito delle scelte volontarie (della manifestazione di volontà che
agiscono nell’ambito dei rapporti economici, in senso lato) e l’unico diritto di cui disponiamo per avere
categorie giuridiche di riferimento è il diritto delle obbligazioni e dei contratti. Dunque questa
considerazione vede come motore dell’attività sindacale la scelta individuale del singolo che si iscrive, che
da mandato e il sindacato che agisce come rappresentante. Non descrive tuttavia quale sia davvero il
rapporto fra le parti perché proietta la luce sulla scelta individuale oscurando il momento fondamentale
della contrattazione collettiva che è il momento collettivo; l’interesse per seguire il quale il sindacato si
costituisce e il sindacato agisce è un interesse collettivo, questo non è una somma di interessi individuali è
una sintesi, la mediazione fra interessi individuali; il sindacato dunque è sì, se noi guardiamo al meccanismo
giuridico per capire perché si producono effetti nella sfera giuridica del singolo, il mandatario del singolo,
ma è portatore di un interesse collettivo proprio che esprime solo l’ente collettivo. Questa costruzione della
rappresentanza sindacale è da correggere alla luce della considerazione della particolarità di questo
soggetto: è un soggetto collettivo, portatore di un proprio interesse (interesse collettivo) nel quale il singolo
si riconosce ma riconosce che questo interesse collettivo non è il suo personale interesse sommato
all’interesse degli altri iscritti, ma è un interesse di sintesi fra altri diversi interessi che convergono e che
sono ridefiniti dal sindacato in quanto ente esponenziale di un interesse collettivo. Non è un interesse
diffuso.
Rappresentatività sindacale
È un concetto diverso rispetto al concetto di rappresentanza sindacale, la rappresentanza è una nozione
modellata sul diritto privato per la quale la volontà contrattuale è espressa da un soggetto diverso (il
sindacato) rispetto al soggetto su cui sono imputati gli effetti di questa attività contrattuale.
La rappresentatività sindacale è un concetto largamente usato anche dalla legge, è in realtà un concetto
che viene dalla sociologia e dalla scienza politica. Il termine vuole dire capacità di rappresentare interessi,
basata non sul mandato del singolo, ma sulla capacità del soggetto collettivo di riscuotere consenso per
quello che fa in una cerchia di soggetti che manifestano il consenso verso il soggetto collettivo che agisce.
Un soggetto è più rappresentativo di un altro se è capace di aggregare attorno a sé maggiore consenso
rispetto all’altro.
Viene dalla scienza politica perché, pensiamo a un partito politico che è una associazione non riconosciuta
che ha un certo numero di iscritti, poniamo che sia un grande partito e che abbia 1 milione di iscritti;
rappresenta questo milione di persone perché sono le persone che iscrivendosi hanno dato mandato al
22 Diritto del lavoro 2012 – appunti delle lezioni - Cristina Fenoglio
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partito politico di rappresentarli politicamente, quando un partito agisce, non agisce in nome e per conto
dei suoi iscritti perché l’elemento a cui fa riferimento è il consenso di cui gode che si ricava dai voti che il
partito ottiene nel momento in cui si presenta in una competizione elettorale. Questo consenso è calcolato
in percentuali sui voti ricevuti e sui sondaggi di opinioni, e ci dice che un partito politico magari ha 1 milione
di iscritti ma raccoglie 9 milioni di voti, ha una rappresentanza di 1 milione, ma una rappresentatività di 9
milioni. Lo stesso tipo di ragionamento è applicabile per i sindacati.
Parliamo di sindacati più o meno rappresentati vivi guardando insieme di due elementi: la consistenza
numerica (numero di iscritti al sindacato che ci da il peso della loro rappresentanza) e il consenso che
riscuotono (rilevabile su dati elettorali che da la rappresentatività).
Il consenso è rilevabile guardando agli scioperi, alla consistenza delle persone che partecipano alla
manifestazione., un sindacato è rappresentativo se in particolari momenti sa aggregare consenso per la sua
attività. È un sindacato rappresentativo quello che partecipa attivamente alla contrattazione collettiva e
quindi gode di credito verso la controparte –se non è rappresentativo i datori di lavoro non hanno interesse
in genere a contrattare con chi non conta niente. Quindi l’accreditamento da parte della controparte è un
indice della rappresentatività del sindacato, così come la sua capacità di aggregare consenso nel conflitto
collettivo.
Questo concetto di rappresentatività sindacale è entrato a far parte dei concetti giuridici, nato come
concetto non giuridico della sociologia e della scienza politica lo è diventato quando è il legislatore che
utilizza questo concetto facendone una categoria giuridica. Nella legge che menziona il sindacato, o il rinvio
alla contrattazione collettiva, il legislatore parla di rappresentatività sindacale e la usa come criterio di
selezione (con finalità selettive).
I criteri di rappresentatività sono cambiati nel tempo, dobbiamo aggiungere che durante il più recente
sforzo fatto dalle grandi confederazioni sindacali per ritrovare una attività di azione che avevano perduto in
un periodo di scontri feroci fra di loro (che avevano indebolito di molto l’intero ordinamento sindacale) si è
trovato un accordo sulla definizione dei criteri di rappresentatività sindacale. Ma andiamo con ordine.
ORGANIZZAZIONE SINDACALE DEI LUOGHI DI LAVORO
Abbiamo come punto di riferimento la legge, lo SDL legge n°300 del 1970(?) interviene per la prima volta
aprendo nei luoghi di lavoro uno spazio sindacale che non c’era mai stato. Non che i lavoratori non
avessero degli organismi di rappresentanza a livello del luogo di lavoro prima dell’entrata in vigore dello
Statuto, c’erano ed erano regolati da rapporti interconfederali ma mai dalla legge, esistevano le
commissioni interne che erano organismi di rappresentanza dei lavoratori che eleggevano nei luoghi di
lavoro. Non avevano funzione sindacale in senso stretto, nel senso che non avevano potere contrattuale ma
avevano potere solo consultivo (erano organismi parasindacali). Le commissioni interne ebbero fine con le
lotte operaie del 1968-69 che precedono l’entrata in vigore dello SDL, in questi due anni è cambiato il
sistema delle relazioni industriali in Italia sulla base di un movimento nato nel maggio del ’68 in America
nelle Università della California e trasferitosi in Europa nel maggio francese (la rivolta degli studenti
23 Diritto del lavoro 2012 – appunti delle lezioni - Cristina Fenoglio
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francesi). Da movimento degli studenti diventa direttamente realtà delle fabbriche ed esplose come
movimento operaio e lotta nelle fabbriche. Questi due anni sono stati due anni in cui è cambiato tutto dal
punto di vista delle relazioni industriali, sono cambiati i sindacati perché questo movimento contestava i
grandi sindacati circa la loro burocratizzazione, la loro incapacità ad essere vicini alle rivendicazioni dei
lavoratori, la loro mancata ricezione delle trasformazioni subite dal lavoro in quel periodo. In queste lotte
operaie nacquero nuove forme di rappresentanza dei lavoratori, quelle fatte e costruite spontaneamente
dai lavoratori che costruirono le loro rappresentanze sulla base di un’idea di democrazia diretta usando
l’assemblea, nominando come rappresentanti dei delegati che rispondevano con un mandato chiuso
all’assemblea dei lavoratori che li avevano nominati. Si diffusero questi organismi che diedero luogo alla
formazione di organismi di rappresentanza sempre su base volontaria che presero il nome di Consigli
unitari dei delegati o di Consigli di fabbrica.
In questa situazione difficilmente conoscibile e variabile interviene la legge perché è ormai indispensabile
aprire uno spazio di rappresentanza sindacale nei luoghi di lavoro. Il legislatore, nell’intervenire, detta delle
regole che tengono conto della situazione ancora difficilmente conoscibile, quindi detta regole che hanno
forte significato ma che tengono conto della necessità di non andare contro quello che i lavoratori stanno
sperimentando con la propria capacità e creatività nei luoghi di lavoro (art.19 SDL di contenuto complesso e
ambiguo).
La legge in cui è inserito l’art.19 SDL è una legge fondamentale in materia, non è una legge costituzionale in
senso tecnico, ma è di attuazione dei principi fondamentali della costituzione, ha una storia particolare: fu
voluta dal ministro del lavoro Bromonini (?) socialista che proveniva dalle file del sindacato della CGIL e che
aveva una forte spinta nell’intento di creare una legge sul lavoro dalla parte dei lavoratori (apertura della
Costituzione ai luoghi di lavoro). Il primo testo dello SDL fu redatto e visto da Giugni e poi elaborato da una
commissione di giuristi. È una legge interessante perché da un lato parla di diritti dei lavoratori ma i diritti
sanciti sono sorretti dalla presenza del sindacato nel luogo di lavoro; fornisce lo strumento per esercitare
un diritto a chi è titolare di quel diritto.
Il libro terzo dello SDL si apre con una disposizione che è quella contenuta nell’art.19.
“Rappresentanze sindacali e aziendali possono essere costituite all’iniziativa dei lavoratori in ogni unità
produttiva”. Per unità produttiva si intende, secondo l’art.35 dello SDL: ”una sede, stabilimento, filiale o
anche reparto autonomo di un’impresa che abbia un numero di addetti superiore a 15”. In ogni impresa o
in ogni parte di essa con più di 15 dipendenti, all’iniziativa dei lavoratori possono essere costituite
rappresentanze sindacali aziendali.
Queste rappresentanze sindacali aziendali sono una manifestazione autonoma dei lavoratori ma qui
interviene la funzione regolatrice della norma di legge: questa libertà non è priva di confine, è contenuta
entro certi limiti, che sono cambiati nel tempo. La formulazione originaria prevedeva certi criteri, nel 1995
un referendum abrogativo ha fatto saltare un pezzo dell’art.19.
alle spalle dell’art.19 c’è un’altra disposizione, ed è l’art.14 dello SDL che dice:”il diritto di costituire
associazioni sindacali, di aderirvi, di svolgere attività sindacale è garantito a tutti i lavoratori all’interno dei
luoghi di lavoro”. Lo spazio sindacale (individuale e collettivo) è aperto dalla legge a tutti i lavoratori in
qualunque luogo di lavoro: traduzione dell’art.39 Cost. esercizio dell’attività sindacale.
24 Diritto del lavoro 2012 – appunti delle lezioni - Cristina Fenoglio
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Detto questo il legislatore introduce nell’art.19 non una ripetizione dell’art.14, ma la definizione di un
soggetto sindacale particolare che si chiama rappresentanza sindacale aziendale, al quale soggetto la legge
attribuisce determinate prerogative e determinati poteri (poteri di convocare le assemblee, di indire
referendum, diritto \ potere di spazi per le riunioni … art. da 20 a 27 dello SDL). Queste regole si riferiscono
a questi soggetti sindacali, non genericamente alle associazioni sindacali, quindi al di fuori di queste regole
possono esistere soggetti sindacali, ma non hanno lo stesso trattamento, non godono degli stessi poteri.
Perché? Conferendo dei poteri che interferiscono con l’esercizio della attività aziendale (interferiscono
quindi con la libertà dell’imprenditore di iniziativa economica) il legislatore si preoccupa di individuare dei
soggetti idonei, di limitarne il numero in modo tale che il datore che deve sopportare l’esercizio della
libertà sindacale non sia illimitatamente assoggettato. È espressione di un bilanciamento fra libertà di
espressione dell’associazione sindacale tradotto come apertura dello spazio sindacale nel luogo di lavoro e
la libertà dell’iniziativa economica tutelata dall’art.41 della costituzione.
1\10\2012
L’art. 14 dello SDL garantisce a tutti i lavoratori, senza limiti di campo di applicazione, la possibilità di farsi
parte attiva per la costituzione di una propria attività sindacale; tuttavia l’art.19 prevede un soggetto
sindacale specifico che è appunto la rappresentanza sindacale aziendale. Questo specifico soggetto può
essere costituito ma nell’ambito di criteri selettivi posti dalla legge, è specifico perché ad esso e solo ad
esso il legislatore riserva talune prerogative e poteri. Il legislatore ha voluto contenere entro limiti
controllabili la presenza di una organizzazione sindacale nei luoghi di lavoro.
Il testo dell’art.19 è cambiato, nel 1970 era stato formulato nel modo che ora vedremo, nel 1995 a seguito
di un referendum popolare si è determinata l’abrogazione di un pezzo dell’articolo. Oggi la formulazione
dell’articolo 19 è molto più piccola e “mutilata” di alcuni criteri selettivi che il legislatore aveva introdotto,
quando guardiamo oggi all’art 19 dobbiamo tener conto dell’attuale formulazione, che è stata rinviata
molto di recente dal Tribunale di Modena alla Corte Costituzionale per sapere se questa formulazione è
ancora conforme al primo comma dell’art.39 Cost.
La formulazione originaria: “Rappresentanze sindacali aziendali possono essere istituite ad iniziativa dei
lavoratori in ogni attività produttiva, nell’ambito (punto di collegamento fra l’iniziativa dei lavoratori e
l’organizzazione sindacale che opera all’esterno del luogo di lavoro)A: delle associazioni aderenti alle
confederazioni maggiormente rappresentative sul piano nazionale (il primo ambito di riferimento, previsto
dal legislatore del 1970, era rappresentato dai sindacati confederati, cioè quei sindacati che fanno parte di
una organizzazione complessa che si chiama Confederazione; non di una qualunque confederazione, ma di
quelle maggiormente rappresentative sul piano nazionale. Qui la rappresentatività è riferita alla
confederazione, si guarda non al grado di consenso dell’associazione sindacale di livello territoriale o
nazionale di categoria, ma alla confederazione nel suo complesso, sono i grandi sindacati, che hanno una
rappresentatività di tutte le categorie e aggregano il consenso, sia dal punto di vista degli iscritti sia dal
punto di vista della partecipazione sindacale di molti lavoratori. Questo criterio è un criterio di
rappresentatività “storica” e dunque presunta, nel senso che il legislatore presume che le grandi
confederazioni, che hanno una lunga storia e che sono i soggetti più evidenti con ruolo non solo
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strettamente sindacale ma ruolo anche più generalmente politico, siano i soggetti che danno affidamento
in ragione della loro forte rappresentatività. Questa maggiore rappresentatività, ancorché espressa in
termini comparativi, non vuole dire “più rappresentativo di un'altra confederazione”, vuole dire
confederazioni molto rappresentative, fortemente rappresentative in base a dato di esperienza storica;
all’epoca il legislatore si riferiva ovviamente a CGIL CISL e UIL. L’intento implicito era quello di escludere
confederazioni minori considerate non sufficientemente rappresentative (CISNAR).
È un criterio molto selettivo perché se fosse stato limitato alla lettera A, tutti i sindacati non confederati
(che non facevano parte di una organizzazione nazionale intercategoriale) sarebbero rimasti fuori dalla
possibilità di essere ambito di riferimento della rappresentanza costituita dai lavoratori).
B: l’iniziativa dei lavoratori nell’ambito di associazioni non affiliate alle predette confederazioni poiché
firmatarie dei contratti collettivi di lavoro nazionali o provinciali applicati nell’unità produttiva (criterio
suppletivo che riempiva il vuoto che l’applicazione della sola lettera -a- avrebbe potuto creare, impedendo
al lavoratore sindacalizzato di costituire la propria rappresentanza sindacale. Anche questo criterio è però
selettivo, perché vi è il requisito, da parte del potere di costituire il sindacato di rappresentanza aziendale,
che il sindacato esterno sia firmatario del contratto collettivo nazionale o provinciale: doveva essere in ogni
caso di dimensione nazionale o provinciale).
Quali sindacati rimanevano senz’altro esclusi dal meccanismo dell’art.19? I sindacati SOLO aziendali sempre
sospettabili di essere dei sindacati “gialli”. È evidente che, la presenza di criteri selettivi che tagliano fuori
dalla possibilità di costituire rappresentanza sindacale aziendale certi sindacati perché sono sindacati solo
aziendali, solleva problemi di costituzionalità, problemi di conflitto dell’art.19 con l’art.39 primo comma
Cost., perché la libertà dell’organizzazione sindacale si può leggere come parità di trattamento fra sindacati,
come non possibilità per la legge di distinguere fra i sindacati scegliendone alcuni ed escludendone altri.
Sulla base di questo ragionamento l’art. 19 è stato più volte rimandato alla Corte Costituzionale per
deciderne la sua conformità all’art.39 Cost. .
La corte in tutte le sue decisioni fondamentali ha sempre deciso per la conformità dell’art.19 all’art.39 sulla
base di una serie di argomenti che elabora considerando la razionalità e la ragionevolezza di questa
distinzione fra sindacati fatta dal legislatore mediante l’uso dei criteri di rappresentatività (anche la
stipulazione di contratti collettivi di lavoro nazionali o provinciali è un criterio selettivo basato sulla
rappresentatività perché si presume che non possa sedere al tavolo negoziale un sindacato privo di
rappresentatività). La corte ragiona nel senso che è razionale selezionare perché trattandosi di soggetti che
agiscono come contropotere rispetto al datore di lavoro nei luoghi di lavoro, questi non possono che essere
soggetti selezionati e espressione di molti lavoratori perché se si aprissero le porte ad una infinita pluralità
di soggetti il risultato sarebbe il caos per il datore di lavoro (art.41 Cost).
Alla Corte costituzionale pare anche ragionevole giudicare (quando c’è di mezzo il principio di eguaglianza)
sulla base del principio di ragionevolezza e rappresentatività e coerenza nell’ordinamento nel suo
complesso. Ritiene coerente e giustificato con l’ordinamento questo trattamento differenziato.
L’ultima delle sentenze, quella del 1990, arriva 20 anni dopo l’entrata in vigore dello SDL. In questo lungo
arco di tempo vi è stata sicuramente una modificazione all’interno del mondo sindacale, una perdita di
rappresentatività delle grandi confederazioni e una crescita delle organizzazioni di tipo autonomo. Sono
anche periodi in cui si assiste in alcuni settori ad una frammentazione sindacale, una diaspora rispetto alle
grandi organizzazioni, una creazione di organizzazioni minori di tipo autonomo per la tutela di interessi
particolari di minor peso. In questa ultima sentenza in cui la corte afferma ancora la conformità, aggiunge
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che il sistema di selezione previsto dall’art.19 è un sistema che necessita di essere riformato. È dunque un
bene che il parlamento tenga conto di quanto è avvenuto e sostituisca quei criteri di rappresentatività
presunta (basata su dati storici che ormai sono invecchiati e privi di riscontri effettivi della realtà) con
sistemi che vadano invece a verificare la rappresentatività effettiva dei sindacati. I criteri selettivi devono
cambiare, perché non reggono più, sono ormai superati dalla realtà e il Parlamento deve adeguare una
norma cruciale come è l’art.19 dello SDL al mutamento della realtà. Suggerisce anche al Parlamento di
inserire delle regole “di tipo elettorale per la verifica dell’effettivo consenso” che i sindacati riescono ad
aggregare (della loro effettiva rappresentatività non più basata su presunzioni di carattere storico ma sulla
verifica tramite lo strumento migliore di espressione a livello politico e sindacale).
La Corte si limita a dire se le leggi sono conformi o non sono conformi alla Costituzione, se non lo sono le
annulla, e fa anche una serie di operazioni creative ma le rinvia con un messaggio al parlamento, il quale
non raccoglie il suggerimento della Corte; viene presentato come proposta di legge ma non succede niente,
le cose si muovono sul fronte sindacale e contemporaneamente si muovono attraverso l’iniziativa dei
sindacati che propongono referendum.
Sono due strade differenti, perché la strada del referendum porta al pronunciamento di tutti i cittadini che
vanno a votare; l’iniziativa coinvolge molte cose eterogenee fra loro, fra queste vi è la
1. richiesta di due referendum:
cancellare sia la lettera A sia la lettera B: ridurre il testo dell’art.19 solo a: “Rappresentanze
sindacali aziendali possono essere istituite ad iniziativa dei lavoratori in ogni attività produttiva.”
Mantenere il “nell’ambito”, cancellare la lettera A per intero e di conservare la lettera B ma
cancellando il riferimento al carattere nazionale o provinciale del contratto collettivo applicato
nell’unità produttiva. “Rappresentanze sindacali aziendali possono essere istituite ad iniziativa dei
lavoratori in ogni attività produttiva, nell’ambito di associazioni poiché firmatarie dei contratti
collettivi di lavoro nazionali o provinciali applicati nell’unità produttiva”.
Il primo referendum non passa, ma il secondo si: viene riscritto l’art.19 dello SDL.
Oggi il testo suona così: “Rappresentanze sindacali e aziendali possono essere costituite ad iniziativa dei
lavoratori in ogni unità produttiva nell’ambito delle associazioni sindacali che siano firmatarie di contratti
collettivi di lavoro applicati nell’unità produttiva”. Il testo di per sé è semplice, ma apre una serie di
problemi. Quando un referendum abrogativo passa e riscrive il testo di una legge il risultato deve essere
dichiarato ammissibile dalla Corte Costituzionale: può essere che il risultato dell’espressione popolare
richieda, per entrare in vigore, un intervento del Parlamento che completi e renda coerente questo
risultato con l’ordinamento nel suo complesso. La Corte si pronuncia sul referendum e dice va può entrare
immediatamente in vigore perché coerente con l’ordinamento: i sindacati aziendali ora sono ammessi a
pieno titolo (sdoganamento dei sindacati aziendali).
Qualche giudice solleva anche la questione di costituzionalità dicendo che: poiché il requisito per costituire
la rappresentanza sindacale aziendale deve essere ambito della costituzione della rappresentanza sindacale
aziendale, e l’essere firmatari del contratto collettivo applicato nell’unità produttiva è in sostanza il datore
di lavoro che può accreditare il sindacato nell’ambito del quale si costituisce la rappresentanza sindacale
aziendale. ESEMPIO: vicenda FIAT e l’idea di Marchionne delle nuove relazioni industriali in Italia.
Tutta questa vicenda è causata dall’esclusione della FIOM (sindacato maggioritario) dalla contrattazione
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FIAT. La FIOM, sino dal primo accordo di Pomigliano (accordo Fabbrica Italia), poi dall’accordo di Mirafiori e
poi il contratto Auto FIAT (fatto separatamente perché la FIAT non fa più parte di Confindustria per avere la
propria separata e autonoma contrattazione), in tutta questa contrattazione non c’è mai stata, ha
partecipato sì alle trattative, ma non ha mai firmato i contratti per dissensi forti sui contenuti.
La FIOM pur essendo il sindacato maggioritario, con il maggior numero di iscritti nella categoria dei
metalmeccanici e della FIAT, non può essere ambito della costituzione della rappresentanza sindacale
aziendale perché non ha firmato il contratto collettivo. I lavoratori iscritti alla FIOM non possono istituire la
propria rappresentanza sindacale aziendale perché il sindacato non è stato d’accordo sulla firma del
contratto collettivo.
Già nel 1996 il giudice aveva rimandavo la questione alla Corte, dicendo che in questo modo è il datore di
lavoro che si sceglie i sindacati nell’ambito dei quali ammette la costituzione delle rappresentanze sindacali
aziendali, perché il sindacato che non è d’accordo è tagliato fuori. La Corte si era espressa per la conformità
spiegando che la firma del contratto collettivo è un criterio di selettività.
Cosa vuole dire sindacato firmatario del contratto collettivo? Per firmatario si intende non il sindacato che
aderisce successivamente al contratto fatto da altri, ma il sindacato che effettivamente partecipa alla
trattativa e arriva alla stipulazione del contratto; è importante perché nega la rappresentatività alla mera
firma del contratto.
Che tipo di accordo, secondo la Corte, deve essere un vero contratto collettivo? Un contratto collettivo con
i suoi contenuti tipici: trattamento economico e normativo dei lavoratori; anche limitato ad alcuni istituti
contrattuali se il contratto è aziendale, però deve essere un contratto collettivo.
La questione, in ogni caso, è ancora aperta.
2. Iniziativa autonoma delle grandi confederazioni sindacali:è svolta in piena autonomia e con gli
strumenti della contrattazione sindacale. Questa iniziativa sindacale conosce una serie di fasi e
sbocca nel 1993 nella stipulazione del Protocollo del Luglio 1993, preceduto da un accordo
tripartito in governo-parti sociali (grandi confederazioni sindacali del lavoratori e grandi
confederazioni datoriali dei datori di lavoro); era un periodo di gravissima crisi
economico\finanziaria del paese, alla quale si associava la gravissima crisi politica che si era aperta
con Tangentopoli che portò alla soppressione dei grandi partiti politici e alla formazione di governi
tecnici. Si cominciò nel ’92 con un accordo che soppresse l’indennità di contingenza, una misura di
contenimento del costo del lavoro al fine di ridurre il reddito dei lavoratori, la massa monetaria e il
tasso di inflazione che volava sulle due cifre. A differenza delle misure assunte nell’ultimo anno
prima del governo Berlusconi, poi del governo Monti per risolvere i problemi, a quel tempo la
strada scelta fu quella della concertazione sociale: l’accordo del governo con le parti sociali, la
ricerca del consenso di chi rappresenta le forze sociali, un accordo del governo con le forze che
organizzano la società. Ridurre il costo dei salari richiedeva il consenso dei sindacati, perché senza
quelli queste misure avrebbero dato luogo all’esplosione del conflitto sociale. I sindacati hanno
giocato una partita decisiva in questo, accordandosi, dando il proprio consenso a queste misure,
imponendo ai propri rappresentati sacrifici molto duri ma nell’interesse generale del paese che era
sull’orlo del baratro. Queste misure consentirono l’apertura di quella fase che ha portato l’Italia a
poter stare nei parametri di Maastricht per l’UE (istituita proprio nel ’92).
28 Diritto del lavoro 2012 – appunti delle lezioni - Cristina Fenoglio
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L’accordo del ’92 è stato seguito dal protocollo del Luglio ’93, voluto dal presidente del consiglio
Azeglio Ciampi e Gino Giugni (ministro del lavoro, studioso di diritto del lavoro e fondatore degli
studi moderni del diritto sindacale, padre dello SDL): conteneva una serie di impegni del governo e
accanto a questi una serie di misure di riforma del sistema contrattuale in modo da consentire,
attraverso la dinamica della contrattazione, il recupero della perdita del potere di acquisto dei
salari dei lavoratori. Dentro a questo accordo erano previsti nuovi soggetti sindacali nei luoghi di
lavoro, la disciplina venne completata con l’accordo interconfederale stipulato con tutte le
confederazioni che istituiva questo nuovo soggetto, la rappresentanza sindacale unitaria. La prima
grande differenza rispetto al soggetto previsto dall’art.19 dello SDL è che, mentre necessariamente
quelle previste dall’art.19 all’interno della stessa unità produttiva erano una pluralità (più
rappresentanze sindacali), perché costituite nell’ambito di diversi sindacati, la rappresentanza
sindacale unitaria voluta dai sindacati è un soggetto unico.
Come si forma questa unità tenuto conto del pluralismo sindacale? Ricorrendo alla elezione, al
meccanismo elettorale. Nell’ambito dei luoghi di lavoro, quando si indice l’elezione della
rappresentanza sindacale unitaria, i vari sindacati presentano delle liste di lavoratori che sono
iscritti al sindacato o ne sono militanti. I lavoratori esprimono le proprie preferenze votando le liste
e i nomi, il risultato sarà la composizione di una rappresentanza sindacale unitaria della quale
faranno parte i lavoratori che hanno avuto il maggior numero di voti. Il sistema è proporzionale
puro.
Questa composizione non riguarda l’intera rappresentanza sindacale unitaria, ma i ⅔ di questa, ⅓
dei componenti della rappresentanza sindacale è di nomina sindacale. Sono i sindacati esterni che
nominano i propri delegati, è una rappresentanza di tipo non elettorale, ma di tipo associativo:
sono soggetti che fanno parte della rappresentanza unitaria in ragione di un titolo diverso, non
perché eletti dagli altri lavoratori ma perché designati in modi diversi dai sindacati ai quali
appartengono. È una composizione mista (nel settore pubblico la rappresentanza è tutta elettiva), i
sindacati hanno voluto riservare a se stessi una possibilità si interferire nella vota della
rappresentanza sindacale unitaria portando le istanze del sindacato esterno.
Laddove si costituisca la rappresentanza sindacale unitaria questa assume le prerogative proprie delle
rappresentanze sindacali aziendali dell’art.19. Esiste però un problema. Quali sindacati partecipano alla
costituzione delle rappresentanze sindacali unitarie? I sindacati firmatari dell’accordo interfederale del ’93;
i sindacati che hanno successivamente aderito a questo accordo; i sindacati firmatari del contratto
collettivo nazionale di lavoro applicato nell’unità produttiva (che normalmente coincidono con i primi due);
i sindacati che pur non avendo sottoscritto né l’accordo né il contratto collettivo nazionale, tuttavia
aderiscano allo spirito dell’accordo e raccolgano per la presentazione delle liste un consenso di almeno il
5% dei lavoratori occupati nell’unità produttiva.
Si applica qui un meccanismo che è tipico del sistema politico per presentare le liste per le elezioni: la
sottoscrizione da una certa quantità di elettori.
02\10\2012
29 Diritto del lavoro 2012 – appunti delle lezioni - Cristina Fenoglio
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Contratto collettivo
Ne abbiamo già parlato parlando del diritto corporativo, cioè quel diritto fondato sulla legge sindacale
fascista del 1926 che aveva costituito questo ordinamento sindacale corporativo in cui vi era una specifica
disciplina del contratto collettivo di lavoro: era di categoria, inderogabile e con efficacia erga omnes.
L’ordinamento corporativo fu soppresso nel 1944 con decreto legislativo n°369, ma si manteneva in vita
l’art.43: i contratti collettivi corporativi al fine di garantire ai lavoratori trattamenti economici e normativi
minimi. Con l’entrata in vigore della costituzione, malgrado la mancata attuazione dei commi 2,3,4 dell’art.
39, nasce il nuovo sistema sindacale retto sul diritto privato.
I contratti collettivi stipulati dopo il 1944, e in particolare dopo l’entrata in vigore della costituzione,
vengono chiamati “contratti collettivi di diritto comune”. Vuole dire che sono contratti per la disciplina dei
quali, non potendo disporre di una legge speciale che li regoli a causa della mancata applicazione del
secondo comma dell’art.39, vengono disciplinati da un diritto che in realtà non li riguarda (il libro IV e V del
CC), il diritto delle obbligazioni e dei contratti. Il libro IV non riguarda il contratto collettivo perché nella
struttura del CC, il contratto collettivo c’è ma appare nel libro V, come contratto collettivo corporativo. Nel
libro IV si occupa degli altri contratti, e l’applicazione di questo libro per il contratto collettivo rende molto
stretto il diritto privato che si deve applicare, porta verso l’applicazione di una serie di regole
giurisprudenziali che creano un diritto specifico per il contratto collettivo, si sviluppa al di fuori della legge.
PILASTRI DELLA TEORIA DEL CONTRATTO COLLETTIVO
Il vincolo di rappresentanza sindacale è il primo pilastro su cui si costruisce la teoria del contratto collettivo.
Concezione della rappresentanza sindacale come rappresentanza volontaria (art.39 primo comma) ci dice
che soggetti collettivi (sindacati e organizzazioni dei datori del lavoro), producono un atto negoziale, un
contratto i cui effetti si producono nella sfera di altri soggetti (i destinatari, datori di lavoro e lavoratori).
Per quanto riguarda la forma, il contratto collettivo ha forma libera (laddove la legge non preveda un
obbligo di forma, non esiste vincolo di forma).
Per l’interpretazione valgono le leggi dell’interpretazione degli altri contratti, con una prevalenza però
dell’interpretazione oggettiva → art. 1362 e seguenti del CC: il contratto si interpreta ricostruendo le
volontà delle parti, la volontà manifestata oggettivata, non i motivi e gli intenti, è quella che risulta dalla
manifestazione contrattuale; nel contratto collettivo si usano molto i criteri di interpretazione oggettiva,
cioè quelli che consentono al giudice di andare oltre l’interpretazione letterale per interpretare il testo del
contratto nel suo complesso, al fine di ricostruire la volontà delle parti al di là di quello che effettivamente
le parti hanno detto, guardando a come questa volontà risulta da un insieme ulteriore di elementi, questo
anche in relazione al fatto che il contratto collettivo si considera un testo inscindibile. L’inscindibilità del
contratto collettivo è una sua caratteristica, bisogna interpretare una clausola con l’altra. Se si deve dire se
il contratto collettivo di categoria attuale è più o meno favorevole del contratto collettivo di categoria
precedente bisogna tenere conto della regola dell’inscindibilità.
Pur essendo contratti, atti di autonomia privata, la recente riforma del diritto processuale civile ha
consentito l’impugnazione direttamente in cassazione dei contratti collettivi sulle controversie sulla validità
dei contratti collettivi, intervenendo su violazione o falsa applicazione delle regole dell’interpretazione.
30 Diritto del lavoro 2012 – appunti delle lezioni - Cristina Fenoglio
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STRUTTURA DEL CONTRATTO COLLETTIVO
Nel contratto collettivo si distinguono due parti: normativa e obbligatoria.
La parte preponderante che ne è poi il testo è la parte normativa, la parte obbligatoria precede la parte
normativa. Per parte obbligatoria si intende quella parte del contratto collettivo che contiene la disciplina,
cioè le clausole, delle obbligazioni reciproche fra le parti stipulanti; una serie di clausole in cui sono previsti
degli obblighi di comportamento nelle organizzazioni sindacali stipulanti. Alcune di queste clausole hanno
importanza particolare, sono le clausole di tregua sindacale, si distinguono in clausole di raffreddamento e
conciliazione di conflitti collettivi e clausole di pace sindacale.
Le clausole di raffreddamento e conciliazione prevedono che non si possa, da ciascuna delle due parti, dar
luogo ad azione diretta per assunzione di iniziative unilaterali (tipicamente uno sciopero) senza avere
preventivamente esperito una procedura di conciliazione spesso preceduta da un periodo di
raffreddamento del conflitto. È un modo per garantire che il ricorso allo sciopero sia subordinato al
tentativo di evitarlo, lo si proclama quando effettivamente non esistono altre soluzioni pacifiche.
Queste clausole della parte obbligatoria vincolano i soggetti stipulanti ma non vincolano (per quanto
riguarda lo sciopero) i lavoratori: il diritto di sciopero è un diritto fondamentale e individuale che non può
essere negato ai lavoratori.
La parte maggiore del contratto collettivo è la parte normativa, è la parte che contiene la disciplina delle
condizioni di lavoro, i trattamenti minimi economici e normativi; entra a far parte del contenuto dei
contratti individuali di lavoro.
EFFICACIA SOGGETTIVA DEL CONTRATTO COLLETTIVO NEL DIRITTO COMUNE
Efficacia soggettiva non vuole dire efficacia limitata, ma efficacia che ha il contratto rispetto ai soggetti suoi
destinatari. Il contratto collettivo corporativo aveva una efficacia soggettiva erga omnes, il contratto
collettivo di diritto comune ha efficacia soggettiva limitata perché il pilastro è la rappresentanza volontaria,
quindi produce effetto ed è vincolante nei soli confronti di coloro i quali siano stati rappresentati nella
stipulazione del contratto dalle organizzazioni stipulanti. In realtà l’applicazione dei contratti collettivi, e
dunque la definizione di rappresentanza dei contratti di diritto comune, ha superato i limiti di questa
concezione di rappresentanza volontaria e troviamo nella giurisprudenza una serie di regole dettate per
allargare l’efficacia soggettiva dei contratti collettivi di diritto comune. Sono regole che, così come sono
nate dalla giurisprudenza, così possono esserne abbandonate.
L’efficacia soggettiva del contratto di diritto comune è limitata necessariamente perché l’art. 39, 4° comma
che prevede contratti collettivi con efficacia erga omnes, non è stato attuato e per questo non è possibile
avere contratti collettivi efficaci erga omnes. Per capire meglio perché oggi non ci possano essere contratti
collettivi con efficacia erga omnes bisogna guardare al passato ed in particolare ad una legge nota con il
nome di legge Vigorelli, emanata nel 1959 n°741. È una legge importante, emanata da un governo in
condizioni di emergenza a causa di gravissimi problemi di disoccupazione e di sfruttamento dei lavoratori;
prevedeva l’estensione erga omnes dei contratti collettivi che erano stati stipulati fino alla data dell’entrata
in vigore di questa legge, cioè tutti quei contratti collettivi nazionali che rimandavano ai contratti collettivi
provinciali di categoria per l’adeguamento ai livelli salariali previsti in relazione al diverso costo della vita
della zona del paese (a quell’epoca i salari erano differenziati a seconda della zona di riferimento, a seconda
dei diversi costi della vita (le gabbie salariali, abrogate nel 1968)). La legge del 1959 è una legge delega del
31 Diritto del lavoro 2012 – appunti delle lezioni - Cristina Fenoglio
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parlamento al governo ad emanare decreti legislativi aventi il seguente contenuto: articolo unico in cui il
governo recepisce l’intero testo del contratto collettivo della categoria e ne estende erga omnes l’efficacia.
I contratti collettivi dopo essere stati depositati presso il ministero del lavoro erano presi dal governo che
ne estendeva erga omnes l’efficacia. Il risultato fu che tutti erano tenuti all’applicazione del contratto
collettivo obbligatoriamente, il meccanismo consentì di avere nel nostro ordinamento i contratti collettivi
erga omnes che mancavano dalla non applicazione dell’art.39. Questo perché l’evasione dai contratti
collettivi era molto frequente, i datori che non applicano i contratti collettivi possono corrispondere ai loro
lavoratori una retribuzione anche molto inferiore a quella prevista dai contratti collettivi, condizioni
normative più pesanti e così via; lavoratori esposti allo sfruttamento dei datori di lavoro che non applicando
i contratti collettivi contrattano le condizioni con i singoli lavoratori che non hanno la forza per rifiutare
condizioni sfavorevoli.
Il tempo previsto era di un anno, al termine di questo il parlamento emanò una leggina di proroga:
consentiva ai sindacati di depositare presso il ministero i nuovi contratti collettivi e al governo di estenderli
erga omnes. Questo fu importante perché c’erano alcune categorie che non avevano avuto il tempo di
depositare il contratto prima dell’entrata in vigore della legge Vigorelli. Questo tentativo di allungamento
dei termini venne censurato dalla corte costituzionale, che stabilì che la legge di proroga era contraria
all’art.39 della costituzione secondo la seguente argomentazione: se il parlamento pone in essere contratti
collettivi erga omnes, questo ha una strada sola per farlo, ovvero applicare l’art. 39 4° comma, siccome con
la legge di proroga il parlamento sta cercando di stabilizzare un sistema di estensione dell’efficacia erga
omnes dei contratti collettivi che è al di fuori di quanto previsto dall’art 39, questo tentativo va respinto.
la corte però si rende conto delle ragioni di emergenza che hanno portato all’emanazione della legge, per
ragioni transitorie di emergenza accetta di tenere in vita questa legge. Al di fuori di questa condizione
transitoria e di emergenza non è possibile, per il parlamento, estendere i contratti collettivi. È su questa
base che non è stato più possibile avere contratti collettivi con efficacia erga omnes; col passare degli anni i
contratti collettivi estesi dalla legge Vigorelli sono stati sostituiti da nuovi contratti collettivi, ma questi
avevano efficacia non erga omnes.
Il contratto collettivo ha durata triennale, scaduto questo si organizzano le riunioni per stipularne uno
nuovo (questo è occasione di scioperi della categoria per ottenere che nel rinnovo vengano introdotte
condizioni migliori) e il legislatore è consapevole che i contratti scadono perché la parte centrale del
contratto collettivo, la parte salariale, durante il periodo di vigenza del contratto collettivo, perde di valore
in relazione al tasso di inflazione. Il legislatore prevede dei meccanismi per la sostituzione dei contratti
collettivi di efficacia erga omnes con i nuovi contratti collettivi, consapevole di questo fatto. Prevede da un
lato che i contratti collettivi estesi erga omnes con la legge Vigorelli sostituiscono i contratti corporativi
conservati in vita dal 1944. I contratti della legge Vigorelli potranno essere sostituiti da contratti collettivi
aventi la medesima efficacia collettiva erga omnes, quindi o da contratti che saranno estesi con la proroga
della legge o con l’attuazione dell’art.39. Nessuna di queste due strade è stata praticata e praticabile:
comunque l’art.39 non è stato mai attuato e la corte costituzionale impone di non insistere su quel sistema.
La sostituzione fu effettuata con un contratto collettivo di diritto comune, alla condizione però che questo
fosse più favorevole ai lavoratori. Un contratto erga omnes può essere sostituito davvero solo da un
contratto erga omnes, un contratto collettivo di diritto comune lo può sostituire, ma limitatamente alla sua
possibilità di applicazione. La sostituzione prevista riguarda solo quegli imprenditori che sono obbligati
32 Diritto del lavoro 2012 – appunti delle lezioni - Cristina Fenoglio
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all’applicazione del contratto collettivo, e ne sono obbligati solo su base di scelta volontaria, se i contratti
sono erga omnes la volontà di applicare il contratto non è rilevante, altrimenti è rilevante.
In che modo si estende l’efficacia soggettiva dei contratti collettivi?
Un modo indiretto molto importante è l’uso da parte dei giudici dell’art.36 della costituzione che dice: “il
lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla qualità e quantità del lavoro prestato e
comunque sufficiente a garantire a se stesso e alla sua famiglia un’esistenza libera e dignitosa”. I giudici
usano questo perché è una norma immediatamente precettiva (trova applicazione diretta nei rapporti fra
privati). Un contratto individuale di lavoro fra un imprenditore non iscritto e un suo dipendente, che
contenga una retribuzione liberamente pattuita senza vincoli inferiore in modo significativo rispetto alla
retribuzione minima prevista dal contratto collettivo nazionale di categoria, è una retribuzione che secondo
i giudici non risponde ai principi costituzionali; quindi la clausola del contratto individuale è una clausola
nulla, poiché se la clausola è nulla è come se non fosse stata stabilita una retribuzione, il giudice è
autorizzato a determinare egli stesso la retribuzione. In questo modo i giudici usano i contratti collettivi di
diritto comune non applicabili nella specie come parametro di riferimento per la determinazione della
giusta retribuzione. È un modo per allargare l’area di applicabilità l’area del contratto: la parte salaria del
contratto collettivo finisce generalmente per applicarsi al di fuori della efficacia soggettivamente limitata
del contratto di diritto comune.
03\10\2012 APPUNTI SIMONA.
08\10\2012
Contrattazione collettiva
Quando parliamo di contratto collettivo parliamo del singolo atto giuridico, quando parliamo della
contrattazione parliamo di un fenomeno dinamico e complesso. Teniamo conto che i contratti collettivi
hanno una durata e una scadenza e quindi la dinamica dei contratti collettivi è data essenzialmente dalla
scadenza e dal rinnovo di questi. L’altro aspetto della dinamicità della contrattazione collettiva è la sua
articolazioni su più livelli. Attualmente i livelli sono due:
1. LIVELLO CENTRALE: con il contratto collettivo nazionale di categoria come cardine
2. CONTRATTO COLLETTIVO AZIENDALE
OPPURE
CONTRATTO COLLETTIVO TERRITORIALE: è una contrattazione di piccole imprese che si radunano
in un territorio, che è spesso ristretto, e che contrattano a questo livello un contratto che si
applicherà alle imprese di questo territorio che hanno aderito volontariamente a questa
contrattazione.
Questo è il sistema contenuto nelle discipline più recenti, contenute in accordi interconfederali stipulati fra
il 2009 e il 2011. Nel 2011 si è immesso sul sistema il legislatore con un intervento “a gamba tesa”
sull’autonomia collettiva.
33 Diritto del lavoro 2012 – appunti delle lezioni - Cristina Fenoglio
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La contrattazione collettiva in Italia è stata centralizzata per lungo tempo, solo negli anni ’60 del XX secolo
si è cominciato a parlare di articolazione contrattuale, che vuole dire l’apertura di uno spazio contrattuale a
livello aziendale. Se ne è cominciato a parlare perché l’Italia ha conosciuto una fase di forte espansione
economica alla fine degli anni ’50 e, in una fase come questa, ci sono aziende molto produttive e aziende
meno produttive; è ovvio che nelle aziende molto produttive i lavoratori e le loro organizzazioni sindacali
premano per la redistribuzione dei profitti a loro vantaggio, c’era dunque una pressione sulla
ricontrattazione salariale a livello aziendale. Si tenta, nella contrattazione collettiva nazionale di quegli anni,
di introdurre una serie di regole che disciplinino il rapporto fra il contratto nazionale e il contratto collettivo
aziendale. Gli imprenditori temevano che, dopo aver chiuso la contrattazione nazionale, il compromesso
raggiunto non avrebbe retto per tutta la durata del rapporto, l’applicazione del nuovo contratto collettivo
deve evitare il verificarsi di nuovi scontri per rinegoziare quello che è stato già definito a livello nazionale. Di
qui l’introduzione di regole che vogliono evitare che le partite chiuse a livello nazionale si riaprano in sede
aziendale. Questo tentativo non ha grande successo, anche perché la situazione economica cambia
rapidamente e la seconda metà degli anni ’60 è caratterizzata dalla presenza della crisi che finirà agli inizi
degli anni ’70. Verso la fine degli anni ’60 tutti i tentativi di dare una regolamentazione al sistema
contrattuale e alla sua tempistica e competenza saltano perché sono anni di grandi trasformazioni e sono
anni in cui la contrattazione aziendale è molto anarchica, è priva di regole, e diventa la contrattazione di
trascinamento della contrattazione nazionale.
Le vicende della contrattazione aziendale sono molto influenzate dalle vicende economiche, il perché è
ovvio.
Emerge, a livello giuridico, un problema quando il legislatore si fa carico di una disciplina oppure quando un
contenzioso finisce davanti ai giudici. Nella fine degli anni ’70 del secolo XX e nel corso degli anni ’80
emergono dei gravi problemi riassumibili sotto il titolo di “rapporti fra contratti collettivi di diverso livello”.
Un CCN di categoria prevede determinati trattamenti economici e normativi dei lavoratori se in un CCA si
inseriscono alcune clausole che modificano il trattamento economico e\o il trattamento normativo in modo
peggiorativo, può la contrattazione collettiva aziendale peggiorare il CCN applicato nell’ambito di quella
azienda? Arriva di fronte ai giudici questo contenzioso, questi si interrogano sul problema e cominciano a
chiedersi se le rappresentanze sindacali aziendali (i soggetti stipulanti a livello aziendale) con l’appoggio del
sindacato territoriale, abbiano stipulato un contratto derogatorio in peius rispetto al CCN valido o no.
La cassazione dice che c’è un rapporto gerarchico fra la contrattazione collettiva nazionale e quella
aziendale, quindi o la contrattazione collettiva nazionale autorizza queste deroghe oppure queste deroghe
non possono essere stipulate perché non si rispetta la gerarchia. Ma questa tesi non è totalmente
condivisibile perché il CCA è un contratto autonomo rispetto al CCN e i soggetti che lo stipulano sono
soggetti diversi e autonomi. La tesi della gerarchia viene abbandonata perché non ha base, prevalgono altri
modi, escluso che il contratto successivo possa derogare al contratto precedente o sostituire il contratto
precedente, perché siamo di fronte a due fonti diverse, i giudici si muovono su due tesi:
specialità del CCA: si fa applicazione di una regola generale in materia di efficacia delle leggi, la
legge speciale deroga alla legge generale e prevale su questa. Molti giudici dicono che il CCA è
speciale perché più vicino alla realtà da regolare, quindi rispetto al CCN che è il contratto generale,
assume il significato della lex specialis, dunque prevale. Questa regola viene però corretta perché,
se così si dicesse, qualunque cosa il CCA contenesse sarebbe un contratto pienamente valido
34 Diritto del lavoro 2012 – appunti delle lezioni - Cristina Fenoglio
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perché speciale. Va quindi corretta tenendo conto della sua specialità ma anche della competenza
dei soggetti che hanno stipulato il contratto ↓
competenza a contrattare: quando non ci sono regole che stabiliscono le varie competenze si tratta
di valutare se i soggetti hanno agito nell’ambito del mandato ricevuto dai lavoratori. Questo
mandato non è un mandato stretto, ma di carattere generale, deve rispondere alla tutela
dell’interesse collettivo dei lavoratori, è importante perché laddove di manifesti un aperto dissenso
dei lavoratori su un contratto aziendale questo non si potrà applicare loro, perché quel contratto è
uscito al di fuori del mandato (prima di stipulare un contratto l’RSA e l’RSU devono confrontarsi con
i lavoratori).
Le regole di specialità e competenza dicono che il contratto collettivo aziendale derogatorio in peius
rispetto al contratto aziendale può essere valido se rispetta questi canoni. Ma anche un contratto efficace
nei confronti di tutti i lavoratori occupati nell’azienda? È una domanda a cui rispondere è più difficile,
perché dire che nel nostro ordinamento esiste un contratto dotato di efficacia generale fa subito ricordare
il problema dell’art.39 4° comma. I giudici rispondono affermando che il CCA è un contratto collettivo come
gli altri, ha pari dignità rispetto al CCN, non esiste un rapporto gerarchico fra questi due contratti. Questi
contratti collettivi sono contratti collettivi tendenzialmente efficaci erga omnes i lavoratori occupati
nell’azienda, tutti i lavoratori occupati nell’azienda sono destinatari del CCA; questa efficacia generale va
controllata sotto il profilo del contenuto del contratto collettivo: se il contratto collettivo persegue un
interesse collettivo indivisibile questo si applica a tutti, consenzienti e dissenzienti, perché l’interesse
collettivo non è divisibile a seconda degli interessi particolari. Se si manifesta apertamente un dissenso
forte, bisogna valutare meglio, guardare meglio dentro il contratto, possiamo parlare, nel caso della deroga
in peius, di contratto collettivo aziendale che persegue un interesse collettivo indivisibile quando troviamo
all’interno del contratto un bilanciamento fra l’interesse perseguito e il sacrificio imposto. Se non c’è
questo equilibro, se tutto il contratto è squilibrato in peggio, allora bisogna tenere conto del dissenso
perché manca l’interesse collettivo per pretendere l’applicazione generalizzata del contratto.
La strada per costruire qualcosa di più solido la intraprendono le confederazioni sindacali nell’ambito di
quella concertazione sociale che si apre all’inizio degli anni ’90 con una serie di discipline, la più importante
delle quali è quella contenuta nella disciplina dei rapporti di lavoro. è un periodo nel quale la politica ha la
necessità di salvare l’Italia dal disastro, chiama alla responsabilità le organizzazioni sindacali che prendono
sulle proprie spalle il peso di imporre sacrifici molto pesanti ai lavoratori, con una politica di contenimento
salariale e riduzione dei redditi, che viene affrontata con grande responsabilità sia dalle organizzazioni
sindacali sia dai lavoratori.
Viene stipulato il protocollo del luglio del 1993, un accordo triangolare fra il governo e le parti sociali, una
parte molto importante di questo protocollo riguarda la riforma del sistema contrattuale.
Più che di riforma possiamo parlare di prime vere regole del sistema contrattuale perché è un accordo fra le
parti sociali mediato e sostenuto dal governo che si fa parte attiva prendendo su di sé degli impegni.
L’istituzione delle RSU è una parte di questa disciplina, l’altra parte riguarda il rapporto fra contratti
collettivi di diverso livello. Questo rapporto è basato su una regola base: la centralità del contratto
collettivo nazionale di categoria. Ha una sua enorme importanza perché sono già cominciate a circolare
ipotesi di nuova organizzazione del sistema contrattuale che mette ad esempio la contrattazione aziendale
35 Diritto del lavoro 2012 – appunti delle lezioni - Cristina Fenoglio
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valorizzando la contrattazione nazionale. C’era l’idea che i salari dovessero essere modulati nella loro entità
in ragione del diverso modo di essere delle imprese e dell’economia nelle diverse zone del paese a seconda
dello sviluppo industriale, lasciando agli imprenditori le mani molto libere nella negoziazione, senza i vincoli
rappresentati dal contratto nazionale che sono vincoli di garanzia di standard minimi che devono applicarsi
ovunque. Il sistema risultava flessibile ma disgregato, allora la scelta fu di aggregare il sistema mantenendo
ferme sul territorio nazionale le uniformi garanzie di trattamenti economici e normativi minimi per tutti i
lavoratori. Nel nostro paese non esiste il salario minimo, ogni lavoratore, qualunque sia la forma
contrattuale con cui è stato assunto, ha diritto ha un salario minimo, si considera che ci sia una soglia al
disotto della quale la retribuzione non è conforme alla costituzione; i salari minimi sono stabiliti nei CCN di
categoria, che non hanno efficacia erga omnes. Il sistema è un po’ fallato.
La centralità del CCN, tenuto conto che non ha efficacia erga omnes, ma nei fatti ha applicazione molto
generale, garantisce non il salario minimo ma un sistema di salario minimo. Nel ’93 si ristabilisce anche
questo. Stabilito questo si stabiliscono le regole della contrattazione aziendale, da un lato viene ampliata la
competenza dell’RSU (competenza non esclusiva ma concorrente con quella dei sindacati esterni), dall’altro
si stabiliscono le regole di competenza dell’RSU la quale non può rinegoziare le regole stabilite dal CCN ed
ha uno spazio di contrattazione entro le quali può contrattare. Le deroghe peggiorative non sono previste e
la competenza è limitata per evitare che a livello aziendale si facciano pasticci sul sistema contrattuale.
Queste regole funzionano e tengono insieme il sistema fino a quando non esplodono altri problemi, la
tenuta delle regole è legata al fatto che le condizioni in cui si applicano non subiscano troppe modificazioni.
Le modificazioni intervengono sia a livello economico sia soprattutto politico ad inizio anni 2000, comincia
una forte spinta verso la riforma del sistema contrattuale. Una riforma che, da un lato, tiene conto del fatto
che le regole del ’93 non hanno tenuto perché ci fu scarsa diffusione della contrattazione aziendale, che per
diffondersi ha bisogno di una spinta che viene dalla situazione delle aziende dentro cui si contratta, gli
imprenditori resistono perché non si sentono garantiti del fatto che non si riaprano a livello aziendale le
partite chiuse a livello nazionale; dall’altro lato c’è il fatto che il tessuto industriale italiano è caratterizzato
da un eccezionale nanismo, dove spesso non ci sono sindacali e manca il controllo sindacale
sull’applicazione dei contratti collettivi. Un difetto del protocollo del ’93 è l’aver completamente ignorato il
livello territoriale che comincia a svilupparsi e che da luogo ad una contrattazione a livello territoriale.
La spinta fondamentale è quella verso la conquista di uno spazio per la contrattazione aziendale che
comprima il livello nazionale e dia la prevalenza alla prima; questa spinta viene da più parti: dalle imprese e
dal sostegno che a livello politico trovano nell’allora ministro del lavoro.
Il primo sbocco di questa vicenda, che è in parte e fortemente centrata sulla centralità della contrattazione
aziendale rispetto alla contrattazione nazionale, è un accordo quadro interconfederale stipulato nel 2009.
Questo accordo è un accordo separato perché la CGIL non firma e dissente su vari punti, perché l’accordo
del 2009 prevede e istituzionalizza le “clausole di uscita”. Sono le clausole legittime contenute nei CCA che
introducono deroghe in peius rispetto al CCN, per questo la CGIL non firma, prevedono che in relazione ad
una serie di circostanze molto ampiamente definite siano pienamente legittime queste clausole di uscita.
Tutto rimane fermo, anche se si creano delle reazioni, perché gli imprenditori sanno che applicare regole di
questo tipo, non condivise dal sindacato maggioritario, mette a rischio perché sono fonte di conflitto e non
servono a chiudere partite ma ad aprirle, soprattutto in una situazione di crisi come questa.
La presenza di un quadro inquietante è di fronte agli occhi, allora i grandi sindacati (CGIL, CISL e UIL) che si
sono profondamente divisi, perché CISL e UIL si sono appiattite sulla linea del governo firmando gli accordi
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in ciò spinte anche dalle politiche del ministro del lavoro dell’epoca, si rendono conto che la spaccatura con
la CGIL non porta a nulla di buono. Bisogna ricucire lo strappo.
Un momento forte e importante di unità viene ritrovato con la stipulazione dell’accordo interconfederale
del 28 giugno 2011, questo accordo interconfederale sostituisce in parte l’accordo del 2009 perché non
interviene su tutte le materie regolate dall’accordo del 2009; secondo l’interpretazione corrente l’accordo
del 2009 resta in vigore perché implicitamente confermato dall’accordo del 2011 nelle parti che non sono
state oggetto di modifica; ad esempio, l’accordo del 2009 ha introdotto una modifica importante alla
disciplina della durata dei contratti collettivi che avevano una durata doppia: parte normativa durata
quadriennale, parte economica durata biennale. Perché questa doppia velocità? Perché nel ’92 era stata
soppresso l’automatismo dell’indennità di contingenza (aumento automatico dei salari che veniva
corrisposto semestralmente ai lavoratori sulla base di indici –scala mobile per garantire contro la perdita di
potere dei salari). L’esigenza di garantire i lavoratori contro la perdita del potere di acquisto dei salari resta,
viene accelerata per questo la contrattazione salariale: il CCN dura 4 anni ma la parte salariale si ricontratta
ogni 2 anni. Con l’accordo del 2009 questa doppia velocità viene cancellata e portata tutta a 3 anni, tutto il
contratto dura tre anni. I CCA secondo il protocollo del ’93 duravano 4 anni senza distinzioni, adesso sono
tutti di durata triennale.
Nel 2009 viene soppressa (e non più introdotta nel 2011) l’indennità di vacanza contrattuale (istituto
economico fatto per garantire i lavoratori contro la perdita del potere di acquisto del salario contro
l’eccessivo prolungamento delle trattative per il rinnovo del contratto), decorsi 3 mesi dalla scadenza del
contratto i lavoratori avevano diritto ad una maggiorazione della retribuzione prevista dal contratto
scaduto in una percentuale del 30% rispetto all’aumento del costo della vita calcolato sul tasso di inflazione
programmato (<di quello reale), 50% oltre i 6 mesi.
L’accordo del 2011 è importante per le regole innovative che introduce sotto due profili: riguardanti i CCN e
riguardanti i CCA. Non si occupa dei CCT che sono previsti già nell’accordo del 2009 come livello alternativo
rispetto al CCA.
Il CCN è il contratto al centro del sistema, gerarchicamente sovraordinato rispetto al CCA, il CCA può
disciplinare solo le materie delegate, materie con esplicito rinvio alla contrattazione aziendale, dal CCN. È il
CCN che decide di cosa si deve occupare il CCA: per ciascuna categoria ci saranno delle regole diverse
definite a livello nazionale. La regola veramente innovativa è una regola con la quale le parti cercano di
mettersi al riparo da una contrattazione collettiva nazionale di categoria separata (CCN di categoria non
sottoscritti dal sindacato maggioritario): non esistono regole per evitare questa situazione, ma viene
stabilita una regola che è mutuata dal sistema pubblico di contrattazione in cui si stabiliscono delle soglie di
rappresentatività per i sindacati per poter accedere alla contrattazione nazionale. Questo fa sì che si formi
un tavolo contrattuale sufficientemente rappresentativo, questo non garantisce che il contratto non sarà
separato ma dà come indicazione una contrattazione possibilmente non separata e garantita contro la
presenza di soggetti sindacali che non danno garanzia di rappresentatività. La soglia minima del 5% della
categoria viene calcolata facendo la media ponderata fra il dato associativo e il totale, in modo di avere un
dato rappresentativo del consenso, si calcola il peso del sindacato che siede al tavolo della contrattazione
collettiva.
Le regole più importanti sono quelle che riguardano la CCA, sulle quali è intervenuto poi il legislatore.
09\10\2012
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Per quanto riguarda il problema dell’efficacia del CCA, la giurisprudenza ha risolto la questione
affermandone l’efficacia generale e l’applicabilità a tutti i dipendenti dell’azienda che lo hanno stipulato.
Questo è però collegato alla questione dell’interesse collettivo, il problema dell’efficacia generale del CCA è
un problema che si pone solo quando si presentano patti di minor favore rispetto al CCN, quindi è anche
strettamente connesso al problema del rapporto con il CCN e con la derogabilità in sede aziendale del CCN.
Su questo sono stati fatti due interventi nel 2011.
Le parti sociali hanno stabilito (secondo una preoccupazione, condivisa anche dalla CGIL, che il CCA una
volta stipulato abbia una sua tenuta, cioè chi stipula si impegni a farlo rispettare perché l’esigibilità del
contratto è necessaria), distinguendo a seconda di chi siano i soggetti stipulanti da parte dei lavoratori: RSU
o RSA, tenendo conto che, per quando il modello dell’RSU sia privilegiato dalle rappresentanze sindacali, ci
sono situazioni nelle quali c’è stata un’uscita dal sistema delle RSU e un ritorno al sistema delle RSA.
Se a stipulare è l’RSU il CCA ha efficacia generale, cioè è obbligatorio per tutti i lavoratori che sono
rappresentati dall’RSU e sono tutti i lavoratori dell’azienda perché tutti hanno diritto di voto. Il CCA che
abbia il consenso della maggioranza dell’RSU ha efficacia generale, perché l’RSU è un organo collegiale su
base collettiva che rappresenta tutti i lavoratori, al cui interno c’è una maggioranza e una minoranza.
Se a stipulare sono le RSA le cose cambiano perché le RSA non sono elettive, sono una pluralità costituita
da diverse sigle sindacali e bisogna garantire che chi stipula il CCA rappresenti la maggioranza dei lavoratori
sindacalizzati. Si guarda al fatto che a stipulare il CCA siano le RSA che, in base al pagamento dei contributi
sindacali, risultano maggioritarie nell’ambito dell’azienda. La garanzia che le RSA maggioritarie esprimano il
consenso della maggioranza dei lavoratori non c’è, per questo le parti sociali hanno previsto un
meccanismo di verifica del consenso: un referendum dei lavoratori, il referendum è valido solo se partecipa
al voto una percentuale di lavoratori. Se ha esito negativo l’accordo non si stipula perché manca il consenso
dei lavoratori.
Per quanto riguarda i rapporti fra contratti collettivi di diverso livello: nell’accordo del 2009 erano presenti
le clausole di uscita, rispetto a questo l’accordo del 2011 innova molto, pur conservandole, però queste
sono previste solo con un duplice meccanismo:
ORDINARIO: la clausola si trova nell’ambito di uno spazio delegato dal CCN ed è formulata in questo modo:
“i CCA possono attivare strumenti di articolazione contrattuale mirati ad assicurare la capacità di aderire
alle esigenze degli specifici contesti produttivi. I CCA possono pertanto definire, anche in via sperimentale e
temporanea, specifiche intese modificative delle regolamentazioni contenute nei CCN di lavoro nei limiti e
con le procedure previsti dagli stessi CCN”. La prima condizione è che il CCN regola, come procedure e con
la definizione degli oggetti, la possibilità di accordi in deroga aziendale. “Dove questo non sia presto nei
contratti collettivi e nel periodo transitorio in attesa dei nuovi contratti, i CCA conclusi con le rappresentanze
sindacali operanti in azienda, d’intesa con l’organizzazione territoriale di categoria, espressione delle
confederazioni sindacali firmatarie del presente accordo (l’RSU o l’RSA d’intesa con sindacati aderenti
esterni e le confederazioni firmatarie dell’accordo –CGIL CISL UIL) possono prevedere queste specifiche
intese modificative al fine di gestire situazioni di crisi o in presenza di investimenti significativi per favorire lo
sviluppo economico ed occupazionale dell’impresa e le intese possono avere riferimento agli istituti del CCN
che disciplina la prestazione lavorativa, gli orari, l’organizzazione del lavoro. Le intese modificative esplicano
l’efficacia generale come disciplinata nel precedente accordo” *o maggioranza dell’RSU o RSA maggioritarie
costituite con l’accordo dei sindacati esterni (CGIL CISL UIL) e con possibile referendum di verifica del
consenso dell’interesse dei lavoratori sull’accordo+.
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Le clausole di uscita rimangono, ma in uno spazio più contenuto, nell’ambito del CCN e in mancanza o in
attesa di uno spazio aperto dove però si individua la finalizzazione di queste clausole e anche l’oggetto,
ambedue previsti con una certa notevole larghezza.
Il legislatore è intervenuto su questo nell’agosto 2011, alla fine del governo Berlusconi; nella manovra di
Ferragosto il ministro del lavoro Sacconi assesta un colpo che è stato già rinviato alla corte costituzionale
per problemi di conflitto Stato-regioni e per problemi di applicazione.
L’art. 8 della legge 148 del 2011 ha un duplice contenuto: efficacia generale dei CCA di prossimità (è strano
perché una cosa è che le parti si accordino per garantire l’efficacia generale, un’altra è che lo stabilisca una
legge perché per dare efficacia generale ad un contratto collettivo bisogna fare i conti con l’art.39 4°
comma).
I CCP (CCA o CCT più vicini alla realtà da regolare) non solo hanno efficacia generale, ma possono derogare
ai CCN e alla legge. Il diritto del lavoro è costituito per lo più di norme inderogabili e sono queste che
conferiscono deroghe al contratto collettivo, non viceversa.
Art. 8: “I contratti collettivi di lavoro sottoscritti a livello aziendale o territoriale da associazioni dei
lavoratori comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, o territoriale, possono realizzare
specifiche intese con efficacia nei confronti di tutti i lavoratori interessati a condizione di essere sottoscritte
sulla base di un criterio maggioritario relativo alle predette rappresentanze sindacali”.
Non esplicita il criterio maggioritario.
Le intese sono finalizzate alla maggiore occupazione, alla qualità dei contratti di lavoro, all’adozione di
forme di partecipazione dei lavoratori, al lavoro regolare, agli incrementi di salario …
Non c’è nulla che resti fuori da questa elencazione, c’è la possibilità di derogare su tutti questi argomenti.
Nel comma 2 dello stesso art.8 si specificano meglio queste materie elencando tutta una serie di ipotesi; tra
queste quella che ha suscitato maggiore scandalo è quella relativa a talune discipline inderogabili. Le
materie su cui è possibile la deroga alla legge, fatto salvo il diritto comunitario e internazionale e i principi
costituzionali, sono le stesse materie che vengono sotto specificate per gli accordi derogatori rispetto al
CCN; entro queste materie si prevede la derogabilità della disciplina dei licenziamenti.
Il contratto di lavoro
Ci occupiamo adesso dei contratti di lavoro individuali, tenendo conto della pluralità delle fonti trattate fin
qui. È importante fare un salto indietro nel tempo per capire il contratto di lavoro moderno.
Il diritto del lavoro è una materia a formazione alluvionale, nel senso che è fatta di una stratificazione,
niente viene mai completamente rimosso, molto si aggiunge e va ad insediarsi su quello che si era
depositato in precedenza. Il risultato è una difficoltà crescente a riconoscere quale sia il diritto vigente. Per
questo è importante conoscerne la storia.
Le origini della materia diritto del lavoro risalgono al secolo XIX e nel secolo XX si sviluppa davvero. Conosce
nella seconda metà del secolo XX punti alti di sviluppo, ma dall’inizio del secolo XXI si hanno complicazioni e
stratificazioni spesso contraddittorie. Il diritto del contratto di lavoro si colloca nell’ultimo ventennio del XIX
secolo perché strettamente legato alla nascita e alla organizzazione del lavoro intorno alle industrie
(industrializzazione), questo fenomeno non ha disciplina, esistono solamente le negoziazioni fra le parti e
da qui si ha la nascita del DDL. Il primo nucleo è la legislazione sociale, ovvero quelle leggi che intervengono
per regolare gli aspetti più preoccupanti del lavoro (tutela della salute dei minori e delle donne, legge sul
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lavoro dei fanciulli, delle donne e della maternità, assicurazioni obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro),
sono le prime leggi che si prendono carico di limitare il potere del datore di lavoro di utilizzare la forza
lavoro più fragile. In Italia la legislazione sociale era moto carente e mancava una disciplina legale del
contratto di lavoro; il codice civile del 1865 prevedeva le teorie del contratto di lavoro ed erano le norme
sulla abrogazione che distinguevano fra la locazione dell’opera e la locazione delle opere.
Lo schema della locazione delle opere, definita come lo scambio fra le prestazioni di un soggetto e la
mercede pattuita, vede il datore di lavoro appropriarsi delle prestazioni di un prestatore di lavoro
assumendosi il rischio del rendimento, il prestatore che è locatario delle sue opere si vincola a mettere le
proprie energie a disposizione del locatore contro compenso.
Si distingue da questa locazione quella della locazione dell’opera, definita come lo scambio dell’opus
promessa e il compenso, che matura solo quando l’opera è realizzata. Il rischio connesso al risultato
dell’opera è un rischio che assume il prestatore dell’opera.
Ciò che distingue il locatore delle opere dal locatore d’opera è che il primo presta le opere all’altrui servizio,
mentre il locatore dell’opera è autonomo. Lo schema della locazione delle opere ci rappresenta un
lavoratore come se fosse il proprietario di un appartamento\opere\energie lavorative che mette a
disposizione dietro compenso. Questo schema è stato usato a lungo, prevalse quello della locazione sulla
base del quale il fondatore del DDL ha costruito il contratto di lavoro subordinato. C’è un punto di
passaggio molto importante nella costruzione del DDL, che proprio Varassi (che ha scritto una monografia
sul DDL) fa emergere (anche se proviene da uno studioso tedesco): la connessione imprescindibile fra la
prestazione di lavoro come messa a disposizione del locatario di energie lavorative con la persona del
lavoratore. La prestazione è personale. Il rapporto obbligatorio che nasce fra il datore di lavoro (locatario) e
un locatore di prestazione di lavoro ha fonte nel contratto dove è implicata la persona del lavoratore
perché non sono separabili le energie lavorative dal corpo e dalla mente da cui promanano. Fortifica anche
il fatto che il lavoro non sia una merce (ritroviamo questa convinzione nel trattato di Versailles, negli atti
costitutivi dell’organizzazione internazionale del lavoro e nella convenzione di Philadelphia): il lavoro deriva
da una persona, che come tale deve essere trattata. Fino al CC del 1942 mancava una disciplina del
contratto di lavoro, esisteva una disciplina particolare, contenuta in una legge ancora vigente della quale
spesso ci si dimentica: la legge sull’impiego privato, contenuta nel regio decreto legge n°1425 del 1924. Fu
emanata dopo la fine della prima Guerra Mondiale per dare una risposta politica a un grande problema
sociale creato con la fine della guerra stessa: congelamento del debito pubblico e aumento del tasso di
inflazione. Il congelamento del debito pubblico provocò una sorta di proletarizzazione del ceto medio che
aveva nell’investimento nei titoli di Stato la propria garanzia sui risparmi e un po’ di benessere, perché li
trasformò in carta straccia, privò uno strato sociale di un investimento considerato sicuro. L’aumento del
tasso di inflazione provocò un abbassamento del valore reale dei salari. A questo si aggiunse l’enorme
problema dei reduci di guerra, che tornavano dal fronte e non c’era occupazione per loro; questa massa di
disoccupati e il ceto medio impoverito rende la situazione sociale esplosiva nel biennio ’19-’20 e apre la
strada per l’avvento del fascismo nel nostro paese. Il problema era anche un problema politico, la necessità
di ridare una identità al ceto medio, agli impiegati, si pose come un problema politico al quale dare
risposta: la legge sull’impiego privato fu una risposta in termini di status, accompagnata da alcune garanzie
per la disciplina dei loro rapporti di lavoro e di impiego tracciando una distinzione netta fra lavoro
impiegatizio e lavoro operaio. Questa legge sull’impiego privato contiene la prima struttura della disciplina
del rapporto di lavoro subordinato. Il lavoro operaio rimaneva privo di disciplina, questa, durante il periodo
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fascista, sulla base delle dichiarazioni della carta del lavoro, era prevista che fosse affidata ai contratti
collettivi di categoria e in questa disciplina del contratto di lavoro operaio si applicassero per quanto
compatibili gli istituti base della disciplina del lavoro impiegatizio: una certa costruzione della disciplina del
contratto di lavoro in modo differenziato, sulla base di una qualche omogeneità fra lavoro impiegatizio e
lavoro operaio fu fatta con la contrattazione collettiva corporativa, la riunificazione si ebbe solo con il CC
dove si mantiene la distinzione fra impiegati e operai ma il contratto di lavoro è lo stesso, la disciplina è
unitaria. 10\10\2012 Disciplina del contratto di lavoro subordinato Nella legge sull’impiego privato
troviamo alcune nozioni importanti per il concetto di lavoro subordinato. La legge identificava uno status
sociale dettando la prima disciplina giuridica del rapporto di lavoro ovvero del rapporto di impiego. È
importante sottolineare due cose della legge sull’impiego privato: traccia una distinzione fra impiegati e
operai nasce il contratto di lavoro impiegatizio e si abbandona lo schema di locazione delle opere, si creano
regole specifiche su un contratto la cui causa non è più il tipo della causa (la locazione), ma una causa tipica
(del contratto di lavoro) di scambio fra prestazione lavorativa e una retribuzione. È un contratto di scambio
a titolo oneroso. Il contratto di lavoro è caratterizzato dal lavoro subordinato e dalla onerosità.
Questi due punti danno la definizione di un tipo contrattuale: contratto di lavoro impiegatizio, che assume
una certa autonomia rispetto allo schema contrattuale di partenza che era lo schema della locazione delle
opere. Come si definisce questo contratto di impiego privato nella legge del ’24? Art.1: È impiegato privato
colui il quale venga assunto a svolgere nell’azienda a tempo normalmente indeterminato attività
professionale con funzione di collaborazione tanto di concetto che di ordine con esclusione pertanto di una
prestazione che sia semplicemente di manodopera. (vedi testo su AW) Questa è la definizione di impiegato
assunto (dunque viene stipulato un contratto) per svolgere una prestazione di lavoro definita in termini di
collaborazione sia di concetto che di ordine con esclusione della mera prestazione di manodopera. La legge
distingue le prestazioni intellettuali da quelle manuali, questa distinzione era già vecchia quando era stata
scritta, la giurisprudenza nell’interpretare l’art.1 della legge aveva subito individuato la debolezza di questa,
tenuto conto che erano definiti come impiegati d’ordine persone che avevano compiti di scarso contenuto
intellettuale. La giurisprudenza mette l’accento sull’individuazione della fattispecie di impiegato privato
nella collaborazione: l’impiegato è colui il quale viene assunto per integrarsi nell’organizzazione del datore
di lavoro, partecipando a questa attività; ciò che distingue davvero è il carattere autonomo nella esecuzione
della prestazione da parte dell’impiegato che è superiore a quella dell’operaio. L’impiegato collabora
nell’organizzazione mantenendo un margine di autonomia che è dettato dalla componente intellettuale.
L’operaio dunque non è assunto per collaborare nell’organizzazione, non ha autonomia e ha un lavoro
meramente esecutivo in cui la componente manuale è maggioritaria. Con l’evolversi del tempo la
componente manuale è andata svanendo. In ogni caso, sia l’impiegato sia l’operaio sono lavoratori
subordinati assunti alle dipendenze del datore di lavoro. Questo diventa più chiaro quando, finalmente, si
avrà la nozione di subordinazione nell’art. 2094 del CC. Con l’art.2094 si chiude un’epoca: cessa la divisione
fra lavoro operaio e lavoro impiegatizio e cessa anche l’esclusione del lavoro operaio dalla disciplina legale
attraverso una operazione di disciplina unitaria (che può applicarsi a tutti i livelli di impiego aziendale) che
detta le regole per il contratto di lavoro e per la sua base, la subordinazione. Questo non vuol dire che nel
codice non si distingua fra diverse categorie di lavoratori: questo implica che vi siano discipline differenziate
a seconda del livello (dirigenti, quadri, impiegati, operai –art.2095) benché si parli in generale di lavoratori.
L’art.2084 porta all’unificazione della subordinazione e anche alla istituzione di un nuovo tipo contrattuale,
definito come contratto di lavoro subordinato. Quando parliamo di tipo contrattuale alludiamo
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all’elemento fondamentale del contratto, la causa. Nel nostro ordinamento esistono i contratti nominati e i
contratti innominati (art.1922): i contratti innominati sono riconosciuti nell’ordinamento se le parti
perseguono interessi meritevoli di tutela. Un contratto è nominato quando il legislatore prevede la causa
del contratto alla quale lega una certa disciplina di quel contratto, la causa è il tipo contrattuale, questo
tipo contrattuale viene espresso come “nomen iuris”. Con l’art.2094 si nomina il contratto di lavoro
subordinato. È un contratto di scambio a titolo oneroso in cui costituisce un elemento importante la
considerazione del carattere personale del prestazione di lavoro, di quella che suole chiamarsi
l’implicazione della persona nel contratto di lavoro. Il lavoro è erogazione di energie personali, una
componente della personalità, dunque il fatto che sia una persona ad obbligare se stessa è un elemento
che richiede una grande considerazione. L’altro elemento che caratterizza il contratto di lavoro rispetto ad
altri contratti di scambio a titolo oneroso è la differenza, lo squilibrio che esiste fra le due parti: esiste, nel
contratto di lavoro, una parte con potere contrattuale di forza (il datore di lavoro). Il diritto del lavoro serve
per riequilibrare lo squilibrio contrattuale dotando il lavoratore di una serie di diritti che sono anche limiti al
potere del datore di lavoro e per dare diritti al lavoratore che costituiscano tutela della sua persona
implicata nel rapporto di lavoro. LA SUBORDINAZIONE È il nucleo attorno al quale ruota la disciplina del
contratto di lavoro subordinato. Ma prima una considerazione sull’art.2094 che riguarda fenomeni recenti:
le varie fasce di disoccupati e la qualità del lavoro che va via via decrescendo. Il contratto di lavoro
dovrebbe essere il contratto di lavoro subordinato, ma l’assunzione a tempo indeterminato è diventata un
miraggio. Si trova una espansione molto significativa del lavoro autonomo, prestato in condizioni di
subordinazione economica però giuridicamente non lavoro subordinato. Il contratto di lavoro “normale”,
quello a tempo indeterminato, costa di più rispetto alle altre forme di assunzione, e ha due tipi di costi
diversi: economici (dipendono dal peso dei contributi e oneri sociali, fiscali. Sono i contributi che il datore di
lavoro paga per la protezione dei lavoratori dai rischi professionali) e normativi. Art.2094: dei collaboratori
dell’imprenditore “è prestatore di lavoro subordinato chi si obbliga mediante retribuzione a collaborare
nell’impresa prestando il proprio lavoro intellettuale o manuale alle dipendenze e sotto la direzione
dell’imprenditore”. Il lavoro subordinato è un contratto regolato nell’impresa, l’imprenditore è il datore di
lavoro per eccellenza, tuttavia questa disciplina si applica anche al di fuori dell’impresa con dei limiti della
compatibilità della disciplina del lavoro dell’impresa con le caratteristiche di una organizzazione non
imprenditoriale (ES: il lavoro domestico è un contratto di lavoro subordinato, soggetto alle regole del lavoro
subordinato. Ma la specialità dell’ambiente di lavoro fa si che al lavoratore domestico non si applichino una
serie di regole di discipline del lavoro dell’impresa, con il risultato che il lavoratore domestico è meno
tutelato di quanto non sia il lavoratore dell’impresa). Il lavoro nell’impresa è il modello, ricondotto
all’art.2094, del tipo contrattuale di contratto di lavoro subordinato, ne contiene la definizione e per capirla
bisogna fare riferimento all’altro tipo contrattuale che rappresenta questa dicotomia del mondo del lavoro:
il contratto di lavoro autonomo, che il nostro CC definisce ancora contratto d’opera. Il lavoratore autonomo
si impegna a compiere una determinata opera attraverso un contratto di scambio a titolo oneroso in
condizioni diverse rispetto a quelle che caratterizzano la prestazione di lavoro subordinato. Art.2222,
contratto d’opera: “quando una persona si obbliga a compiere, verso un corrispettivo, un’opera o servizio
con lavoro prevalentemente proprio e senza vincolo di subordinazione nei confronti del committente, si
applicano le norme di questo capo.” I contratti di lavoro nominati, nel nostro ordinamento, sono due: il
contratto di lavoro subordinato e il contratto di lavoro autonomo. Il contratto di lavoro autonomo è
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caratterizzato da due elementi: la mancanza del vincolo di subordinazione la caratteristica del tipo di
impegno che si assume: realizzare un’opera o un servizio.
L’art.2094, per quanto sia la disposizione alla quale colleghiamo la presenza nel nostro ordinamento del
tipo contrattuale nominato “contratto di lavoro subordinato”, non è intitolato così ma “prestatore di lavoro
subordinato”. Definisce indirettamente il contratto definendo la figura del prestatore di lavoro subordinato,
e del lavoratore subordinato, attraverso questa definizione definisce la causa del contratto e ilo suo
elemento qualificatore: la presenza del vincolo di subordinazione. Chi è il lavoratore subordinato? Chi si
obbliga mediante retribuzione, da questo capiamo che c’è presenza di un contratto. Come ci si obbliga,
quali sono le fonti delle obbligazioni? Attraverso contratto, fatti illeciti, legge. Quindi chi si obbliga
mediante retribuzione vuole dire che stipula un contratto di scambio a prestazioni corrispettive, è
disegnata la corrispettività e lo scambio della prestazione di lavoro contro retribuzione. La retribuzione è il
compenso del lavoratore subordinato, quando si parla di lavoro autonomo si parla di compenso. A che cosa
si obbliga il prestatore di lavoro, qual è la prestazione dedotta in contratto? È definita dall’art. come la
collaborazione nell’impresa, questo riecheggia l’art.1 della legge sull’impiego privato, in modo funzionale
alle esigenze dell’organizzazione di lavoro a collaborare, a integrarsi nella organizzazione prestando le
proprie energie lavorative. La Cassazione, per definire questo concetto, dice che la nozione giuridica di
subordinazione consiste nell’assoggettamento della prestazione lavorativa. Il potere del datore di lavoro di
disporre secondo le mutevoli esigenze di tempo e di luogo e di determinare le modalità con l’imposizione di
istruzioni e decisioni alla quali il lavoratore è obbligato a mantenersi nella permanenza dell’obbligazione del
medesimo di mantenere nel tempo la messa a disposizione delle proprie energie. Collaborare nell’impresa,
nell’organizzazione, per il datore di lavoro vuole dire mettere le proprie energie lavorative a disposizione di
questa organizzazione perché possano essere organizzate esse do un fattore della produzione che il datore
di lavoro organizza insieme agli altri mezzi materiali e non per la realizzazione degli obiettivi. Vuole dire
anche che nella erogazione delle energie lavorative rispetto all’organizzazione di lavoro ci può essere una
diversa componente di autonomia del prestatore di lavoro nell’eseguire la propria prestazione perché la
collaborazione richiesta può essere di diverso tipo. Art.2094: (…) collaborare nell’impresa prestando il
proprio lavoro intellettuale o manuale alle dipendenze e sotto la direzione dell’imprenditore. Il CC distingue
ancora fra lavoro intellettuale e lavoro manuale, li distingue ma li unifica: il lavoratore subordinato è sia
portatore di lavoro intellettuale, sia prestatore di lavoro manuale. Tutti sono lavoratori subordinati, e in
questo sta l’unificazione della subordinazione, ma il contenuto della subordinazione varia in ragione della
diversa collocazione della prestazione del lavoratore. Punto centrale è il fatto che la prestazione di lavoro, a
contenuto variabile, più o meno intensamente collaborativa, più o meno autonoma, avviene alle
dipendenze e sotto la direzione del datore di lavoro. Queste sono le due espressioni sulle quali gli interpreti
hanno lavorato di più per dirci qual è il contenuto del vincolo di subordinazione. Il concetto di
subordinazione è un concetto giuridico ma non economico, il lavoratore subordinato è un lavoratore
economicamente dipendente e dal rapporto di lavoro dipendono le possibilità di vita. La dipendenza
economica però non è ancora definizione del concetto di subordinazione. Le due espressioni “dipendenza e
direzione” vanno interpretate alla luce del modo di essere diverso della prestazione di lavoro a seconda del
suo contenuto (maggior contenuto intellettuale e autonomia nelle decisioni o maggior contenuto
manuale), ma anche alla luce del fatto che il lavoro si svolga all’interno dell’organizzazione del luogo di
lavoro fisico del datore di lavoro o al di fuori (lavoro a domicilio e telelavoro). Secondo la giurisprudenza
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l’elemento davvero centrale della definizione di subordinazione è dato dalle espressioni dipendenza e
subordinazione che traduce come il lavoro etero diretto: il lavoro del lavoratore non è da lui diretto, ma è
diretto dal datore di lavoro, si svolge dunque secondo le direttive e gli ordini impartiti dal datore di lavoro.
Queste direttive devono essere specifiche, ma la specificità è molto variabile in ragione della autonomia del
prestatore di lavoro; maggiore è il livello professionale della prestazione, meno stringenti sono le direttive
impartite. Un elemento (su cui la giurisprudenza gioca di più) che ci dice etero direzione della prestazione è
la presenza del potere disciplinare del datore di lavoro: potere di infliggere sanzioni al lavoratore che non
adempie correttamente la propria prestazione lavorativa, può regolare l’adempimento con regole
disciplinari e sanzionare le infrazioni. Questo potere è anche quello di conformare la prestazione lavorativa
alle regole da lui dettate per la realizzazione del lavoro. I giudici danno, alla presenza del potere
disciplinare, un ruolo molto importante alla definizione del vincolo di subordinazione perché questa è la
cosa che lo descrive meglio: dovere di adempiere seguendo delle regole e rischiare di essere sanzionati per
non averle osservate. Ricapitolando: è un contratto che racchiude una figura contrattuale unitaria di lavoro
subordinato alla quale si giustappone il contratto di lavoro autonomo, due tipi diversi e incomunicabili. Il
contratto di lavoro subordinato è un contratto di scambio a prestazioni corrispettive a titolo oneroso,
caratterizzato dal vincolo di subordinazione; la subordinazione, definita dall’art.2094 in termini di
collaborazione nell’impresa, la collaborazione avviene però alle dipendenze e sotto la direzione del datore;
la dipendenza non è economica ma giuridica e la direzione è da intendersi come la etero direzione. Quando
ricorre tutto questo? Per capirlo i giudici si sono confrontati guardando a situazioni incerte, nelle quali non
si stabilisce bene la distinzione fra lavoro coordinato e autonomo. I giudici utilizzano, per decidere se il
lavoro è subordinato o autonomo, una serie di indici della subordinazione (indizi della presenza del vincolo
di subordinazione), nessuno di questi indici è di per sé sufficiente, ma il concorso di una serie di elementi
indirizza verso la ricostruzione del vincolo di subordinazione, nel senso della presenza dell’etero direzione.
Sono indici dell’assoggettamento del lavoratore al potere dell’imprenditore, accanto alla presenza del
lavoratore nell’organizzazione e nel luogo di lavoro: la presenza di un orario di lavoro determinato, la
ricezione di una serie di ordini su come eseguire la prestazione, la retribuzione a scadenza e importo fissi …
Altre regole sono fissate dalla giurisprudenza e servono ad allargare la sfera di efficacia del contratto
collettivo. 15\10\2012 APPUNTI SIMONA 16\10\2012 Dicotomia fra autonomia e subordinazione:
fattispecie della collaborazione coordinata e continuativa, il lavoro a progetto Il lavoro a progetto è una
fattispecie che si colloca nel lavoro autonomo. Finora abbiamo parlato di lavoro subordinato, abbiamo dato
per scontato il riferimento al modello di lavoratore standard. La partizione fra autonomia e subordinazione
è una partizione netta, ma non chiara. È netta perché le discipline applicabili ai lavoratori subordinati sono
diverse a quelle che si applicano ai lavoratori non subordinati. L’art.2094 da accesso a tutte le tutele
riconosciute dal diritto del lavoro mentre quei diritti non sono riconosciuti all’autonomia se non nelle
misure e nei modi che tratteremo oggi. Abbiamo anche visto che le forme di lavoro autonomo, sono spesso
usate per eludere la disciplina laburistica, per far fronte all’uso massiccio e fuorviante del lavoro autonomo
il legislatore è intervenuto in diversi modi. Uno di questi è la legge 92 del 2012 (legge Fornero). La legge 92,
2012 interviene senza disegnare tuttavia una riforma strutturale dell’autonomia e della subordinazione del
lavoro, interviene a valle sulla frammentazione del mercato del lavoro. Si vuole riportare all’uso corretto i
contratti di lavoro non subordinato. A fronte di questi atteggiamenti repressivi negli ultimi decenni è stata
imboccata una strada diversa, per tutelare il lavoro in tutte le sue forme (come dice l’art.35 Cost):
allargamento dell’area protetta dal DDL: troviamo l’idea di creare una nozione allargata di subordinazione ,
44 Diritto del lavoro 2012 – appunti delle lezioni - Cristina Fenoglio
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in modo da poter ricomprendere nelle tutele del lavoro subordinato anche una parte del lavoro autonomo.
Allargando la nozione si estenderebbero anche le tutele. OPPURE mantenere definita la nozione di
subordinazione ma estendere selettivamente alcune tutele del lavoro subordinato ai lavoratori non
subordinati ma aventi determinate caratteristiche. Superare l’attuale dicotomia con una tutela comune per
tutti i lavoratori che non operano in una qualche condizione di subordinazione e poi aggiungere le tutele
per i lavoratori in condizione di subordinazione. Il rischio è che si riducano le tutele per tutti.
Non c’è traccia, nella legge Fornero , di questi progetti, non c’è traccia dell’idea di fare del contratto unico
l’unica via di accesso al mondo del lavoro. È stato fatto un intervento di manutenzione rispetto alle più
importanti recenti modifiche intervenute nella disciplina dei rapporti di lavoro nel mercato del lavoro:
decreto 277 del 2006 che aveva frammentato ulteriormente il tipo contrattuale del lavoro subordinato (?).
La riforma ha inciso sull’uso di alcuni tipi contrattuali nell’area dell’autonomia, in particolare le
collaborazioni continuative e coordinate e il lavoro a progetto. COLLABORAZIONI COORDINATE E
CONTINUATIVE Sono la forma di lavoro autonoma che ha visto l’intervento del legislatore nel tempo. Si
inquadrano nella fattispecie del lavoro parasubordinato che è una espressione creata negli anni ’70, se ne
cominciò a parlare perché da allora cominciava ad esserci un massiccio ricorso alle CCC al di fuori dal loro
campo tipico di applicazione. La definizione la troviamo oggi nell’art. 409 del codice di procedura civile,
hanno avuto rilievo anche
nella parte storica del diritto sindacale: legge Vigorelli che aveva previsto l’applicazione erga omnes dei
contratti collettivi e l’applicazione erga omnes degli accordi economici collettivi, un tipo di accordo che
regolavano già dagli anni ’50 rapporti di collaborazione coordinata e continuativa, si trattava di lavoratori
che non erano subordinati ma che evidentemente il legislatore aveva considerato meritevoli. La nozione di
CCC la troviamo nell’art.409 cod. proc. civ., così modificato dalla legge di riforma di processo del lavoro del
1973 ha individuato una categoria di CCC ai quali si applica il rito del lavoro. Individua e fa l’elencazione dei
soggetti destinatari del rito in materia di controversie nel mondo del lavoro. Al punto 3 vengono citati “altri
rapporti di collaborazione che si concretino in una prestazione di opera continuativa e coordinata
prevalentemente personale anche se non a carattere subordinato”. Le uniche discipline applicabili erano
queste, poi sono state introdotte norme di previdenza sociale obbligatorie con anche il fine di rendere più
costoso questo tipo di lavoro per avvicinarlo al costo del lavoro subordinato. Allora nel 1995 è stata
introdotta questa aliquota obbligatoria originariamente fissata al 10%, e poi progressivamente crescente
fino all’idea di arrivare a una aliquota superiore al 30%. Restava il problema di come collocare i contratti
dell’art.409 nella partizione autonomia o subordinazione. Sono contratti di lavoro autonomo ma con
determinate caratteristiche che li differenziano rispetto a quelli standard: • collaborazione: si concreta in
una prestazione d’opera continuativa e coordinata. • Continuativa nel senso della reiterazione della
prestazione (escludiamo quindi una prestazione occasionale), può essere un’unica opera ma che richiede
un impegno costante. • È continuativa se è coordinata con altre prestazioni e con l’amministrazione
dell’azienda. • Collaborazioni che sono prevalentemente personali rispetto al lavoro che possa essere
prestato da altri soggetti collaboratori e rispetto agli altri fattori utilizzati per porre in essere la prestazione.
È quindi una situazione in cui il soggetto opera in modo autonomo, seppure all’altrui servizio, coordinandosi
con un committente; opera in regime di monocommittenza, statisticamente. Questa figura è rimasta
immutata, fronte della crescita dell’uso delle CCC quali sono stati gli interventi del legislatore? Decreto 276
del 2003: sulla scia della legge delega del ’63 si è fatto un tentativo di ricondurre le CCC all’uso più corretto.
45 Diritto del lavoro 2012 – appunti delle lezioni - Cristina Fenoglio
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Gli art da 61 a 69 del decreto hanno disegnato una nuova figura di CCC, il lavoro a progetto. La legge 92 del
2012 ha cercato di limitare ancora l’abuso delle CCC. Il campo di applicazione del lavoro a progetto si trova
nell’art.61, cominciamo da ciò che non è lavoro a progetto: “ferma restando la disciplina degli agenti e
rappresentanti di commercio, le prestazioni occasionali, le professioni intellettuali per le quali sia richiesta
l’iscrizione obbligatoria ad un albo professionale *escluse dalla disciplina quelle attività che siano
strettamente la realizzazione di una attività regolamentare], gli amministratori di società, i pensionati
(scelta del legislatore), coloro che traggono utilità delle discipline sportive riconosciute dal CONI, la P.A. ,
alcuni lavoratori dei call CENTER”. Al di fuori di queste ipotesi qual è la regola dell’art.61, qual è il tipo
contrattuale? Al di fuori dell’art.61
il rapporto di CCC deve essere riconducibile ad uno o più progetti specifici determinati dal committente e
gestiti autonomamente dal collaboratore. L’idea è quella di ricondurre tutte le CCC ad un progetto
specifico, si tratta di una attività comunque di lavoro autonomo perché si dice che il progetto è
determinato dal committente, ma gestito autonomamente dal lavoratore. Come opera il lavoro a progetto?
Il progetto deve essere funzionalmente collegato ad un determinato risultato finale. Il lavoratore svolgerà la
sua attività in modo autonomo ma nel rispetto del coordinamento con l’organizzazione del committente. Le
misure di coordinamento non possono essere tali da pregiudicare l’autonomia del lavoratore. Oggi il lavoro
a progetto deve essere riconducibile ad uno o più progetti specifici, nella stesura originale del decreto il
riferimento era più ampio e ambiguo: uno o più progetti o programmi di lavoro o fasi; questo aveva creato
molte incertezze che la giurisprudenza ha cercato di risolvere, oggi abbiamo una definizione chiara. Il
progetto deve essere ANCHE collegato funzionalmente ad un risultato e non può consistere in una mera
riproposizione dell’oggetto sociale commissionato dal committente o l’esecuzione di compiti meramente
esecutivi. Con la legge 92 si voleva porre rimedio all’abuso del lavoro a progetto come lavoro subordinato,
questo perché erano arrivati molti contenziosi davanti ai giudici di lavoratori assunti a progetto, il quale
progetto coincideva di fatto con l’attività dell’impresa (mera riproduzione dell’oggetto sociale). Bisogna
evitare l’oggetto troppo generale, l’oggetto deve essere specifico, altrimenti è un abuso riconducibile al
lavoro subordinato. CALL CENTER: l’uso del contratto a progetto in questo ambito è stato molto massiccio,
ci sono stati interventi amministrativi con alcune circolare per indicare il miglior uso ma non sempre sono
state coerenti fra loro. Progressivamente nel tempo si è così delineata una distinzione fra lavoro in bound
(ricezione di telefonate, in cui la persona lavorava senza autonomia nel progetto) e lavoro out bound. Nel
lavoro out bound si era arrivati ad individuare la possibilità che questo potesse essere un genuino contratto
a progetto quando al lavoratore era riconosciuto un obiettivo ma aveva un certo spazio di autonomia. A
fronte dell’enorme numero di lavoratori e di contenziosi si sono fatti numerosi accordi collettivi definendo
un percorso di regolarizzazione e assumendo progressivamente part-time i lavoratori. Cosa c’è nella legge
Fornero ed in altri interventi? Il legislatore, nella legge 183 del 2010 ha previsto che, nel rifiuto di un
contratto part-time , la vicenda si chiuda con la risoluzione del rapporto e con la corresponsione al
lavoratore di una indennità compresa fra 2.5 a 6 mensilità. Questa sorta di sanatoria è stata dichiarata di
dubbia legittimità dalla corte costituzionale. Nel decreto sviluppo (legge 184 del 2012, successivo alla legge
Fornero) è stata introdotta la possibilità di stipulare contratti di collaborazione a progetto, sulla base di un
corrispettivo definito dalla CCN, per attività realizzate attraverso call center out bound; questo tipo di
attività che può non avere specifico progetto può essere comunque qualificato come lavoro a progetto: è
un tipo particolare di lavoro a progetto in cui si applica una disciplina particolare. Questo perché non
essendoci progetto specifico non dovrebbe essere lavoro a progetto, è un lavoro a progetto atipico. In
46 Diritto del lavoro 2012 – appunti delle lezioni - Cristina Fenoglio
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generale la legge vieta qualunque tipo di lavoro a progetto atipico. L’oggetto del contratto è la realizzazione
di un risultato specifico e il riferimento al risultato serve a far sì che il progetto sia specifico e a rafforzare il
carattere autonomo della prestazione. In realtà l’oggetto del contratto è una attività svolta in modo
autonomo
per realizzare un certo risultato: è una collaborazione continuata e continuativa, che dura nel tempo.
Progetto e risultato sono due concetti diversi: il progetto richiede anche collaborazione e coordinamento
anche temporale, quindi una interazione con il committente molto più forte rispetto a quella di qualunque
lavoratore autonomo; la continuità in termini di durata rileva proprio l’impegno costante del lavoratore a
progetto di collaborare coordinandosi con il committente per realizzare insieme un risultato che abbia un
oggetto determinabile. Quindi le CCC devono essere riconducibili ad un progetto, da ciò il divieto di
collaborazioni a progetto atipiche. Se manca il progetto il legislatore ha previsto che il rapporto di CCC
instaurato senza l’individuazione di uno specifico progetto (da art.61 1° comma) è considerato rapporto di
lavoro subordinato a tempo indeterminato dall’inizio del rapporto lavorativo. La mancanza del progetto
quindi determina la riqualificazione del rapporto: si tratta però di una traduzione legale assoluta, per
questo si sono sollevati dubbi di costituzionalità da una parte della dottrina, in quanto il legislatore così
facendo può imporre tipi contrattuali (presunzione assoluta di subordinazione), ma la legge Fornero ha
ribadito la presunzione assoluta. Ci possono essere anche altre ipotesi: il progetto c’è ma le modalità di
svolgimento concreto del rapporto di lavoro abbiano presentato di fatto tutte le caratteristiche tipiche della
subordinazione. Se quel rapporto ha tutte le caratteristiche del rapporto di lavoro subordinato questo si
trasforma in un rapporto di lavoro subordinato corrispondente alla tipologia negoziale di fatto negoziata fra
le parti. Si trasforma da quando il rapporto non ha più riflesso il contenuto del progetto, e ha assunto le
caratteristiche di un rapporto di lavoro subordinato. Un’altra ipotesi, aggiunta dalla legge Fornero: una CCC
nella quale l’attività svolta si sia svolta con modalità analoghe a quella svolta da quella dei lavoratori
dipendenti nell’impresa committente. Fa riferimento all’esperienza del lavoratori assunti a progetto che
lavoravano fianco a fianco ai lavoratori subordinati: reprimere le ipotersi di lavoro a progetto che vengono
realizzate con modalità analoghe a quelle dei lavoratori subordinati all’interno della stessa azienda. In
questo caso il contratto sarà considerato un rapporto di lavoro subordinato ma, a differenza della
presunzione assoluta trattata prima, questa è una presunzione relativa perché il legislatore afferma la
possibilità del committente di fornire prova contraria. Resta anche la possibilità di mantenere la qualifica di
lavoro a progetto quando si tratti di prestazioni di elevata professionalità che possono essere individuate
dai contratti collettivi stipulati dalle organizzazioni sindacali (…)
23\10\2012
Carta dei diritti fondamentali dell'unione europea, art.92: “DIVIE TO DEL LAVORO MINORILE E PROTEZIONE
DEI GIOVANI SUL LUOGO DI LAVORO. Il lavoro minorile è vietato. L’età minima per l’ammissione al lavoro
non può essere inferiore all’età in cui termina la scuola dell’obbligo, fatte salve le norme più favorevoli ai
giovani ed eccettuate deroghe limitate. I giovani ammessi al lavoro devono beneficiare di condizioni di
lavoro appropriate alla loro età ed essere protetti contro lo sfruttamento economico o contro ogni lavoro
47 Diritto del lavoro 2012 – appunti delle lezioni - Cristina Fenoglio
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che possa minarne la sicurezza, la salute, lo sviluppo fisico, mentale, morale o sociale o che possa mettere a
rischio la loro istruzione”.
Art.32: “Divieto del lavoro minorile e protezione dei giovani sul luogo di lavoro.
Il lavoro minorile è vietato. L'età minima per l'ammissione al lavoro non può essere inferiore all'età in cui
termina la scuola dell'obbligo, fatte salve le norme più favorevoli ai giovani ed eccettuate deroghe limitate.
I giovani ammessi al lavoro devono beneficiare di condizioni di lavoro appropriate alla loro età ed essere
protetti contro lo sfruttamento economico o contro ogni lavoro che possa minarne la sicurezza, la salute, lo
sviluppo fisico, psichico, morale o sociale o che possa mettere a rischio la loro istruzione”.
Siamo di fronte a precise enunciazioni tradotte nel nostro ordinamento dall’art.37 cost.: “La donna
lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore. Le
condizioni di lavoro devono consentire l'adempimento della sua essenziale funzione familiare e assicurare
alla madre e al bambino una speciale adeguata protezione.
La legge stabilisce il limite minimo di età per il lavoro salariato.
La Repubblica tutela il lavoro dei minori con speciali norme e garantisce ad essi, a parità di lavoro, il diritto
alla parità di retribuzione.”
L’art. 37 cost. riserva alla legge di stabilire il minimo limite di età per il lavoro salariato. La costituzione
contiene la riserva di legge assoluta. Nel terzo comma dell’art. 37 si dice che, dopo aver riservato alla legge
il compito di stabilire la soglia della capacità lavorativa, l’ordinamento (la Repubblica) tutela il lavoro
minorile non solo con legge (delegate eventualmente dalla legge) ma anche con strutture e fonti normative
(politiche attive). Il rischio di un accesso precoce al lavoro è l’analfabetismo di ritorno.
Tutela i minori ma accanto a questo c’è anche la parità di trattamento. È un principio che la Costituzione
ferma alla sola retribuzione; non dice che tutte le condizioni di lavoro devono essere pari e riferisce la
parità di retribuzione a parità di lavoro: il minore che svolga una certa mansione ha diritto ad una
retribuzione uguale a quella del lavoratore maggiorenne che svolge una mansione identica, la mansione del
minore da diritto alla stessa retribuzione del lavoratore maggiorenne quando sia una mansione che pur non
essendo necessariamente identica sia analoga e alla quale i contratti collettivi attribuiscono lo stesso valore
professionale, quindi retributivo.
Naturalmente le differenze ci sono, sia di trattamento sia retributive; in ogni caso la giurisprudenza
interpreta con un certo equilibrio, riconoscendo al principio costituzionale valenza generale e ammettendo
che si possano avere retribuzioni inferiori ma che debbano essere giustificate, la giustificazione deve essere
verificata oggettivamente sul minore impegno che richieda nel minore lo svolgimento di quella mansione
altrimenti si viola la disposizione sulla parità retributiva.
Per “trattamento normativo” intendiamo le condizioni di lavoro che sono diverse in alcuni punti
fondamentali per i minori: orario di lavoro (no ore notturne), per i bambini è previsto che possano essere
utilizzati in attività artistiche sotto controllo della P.A. sulle condizioni di salute + limiti agli orari + controllo
sanitario.
48 Diritto del lavoro 2012 – appunti delle lezioni - Cristina Fenoglio
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Forma
La forma è libera, nel nostro ordinamento vige il principio della libertà della forma a meno che la legge non
ne preveda una particolare. Si può stipulare verbalmente, ma ci sono però una serie di casi di contratti di
lavoratore subordinato nei quali il legislatore prescrive la forma scritta: casi nei quali il contratto di lavoro
presenta alcuni tratti distintivi rispetto al modello standard (art.2094), contratto di lavoro subordinato a
tempo indeterminato e anche a tempo pieno. Quando un contratto presenta qualche differenza (contratto
a termine, a tempo parziale, di lavoro intermittente, di lavoro a chiamata, di job sharing) si prevede la
forma scritta. Il vincolo però non è sempre dello stesso tipo:
• ab sustantiam: come elemento sostanziale la cui mancanza da luogo all’inefficacia del contratto
• a fini di prova: la mancanza non invalida il contratto ma chi vuole eccepire la presenza di determinati
elementi deve produrre un atto scritto per superare il difetto.
La forma è vincolata solo in questi contratti, perché? Perché in questi contratti la posizione del lavoratore è
meno garantita, soprattutto per il fatto della mancanza della stabilità, il legislatore vuole che il lavoratore
che stipula il contratto sia consapevole del suo impegno.
L’informazione del lavoratore è prevista dalla legge 152\2007 che è attuazione di una direttiva comunitaria
1991\533, questa direttiva è chiamata “Direttiva Cenerentola” perché è una direttiva modesta ma dà a l
lavoratore qualcosa in più che può essere utile al sorgere di un eventuale contenzioso alla cessazione del
rapporto. La legge stabilisce l’obbligo del datore di lavoro di informare il lavoratore all’atto dell’assunzione
e prima dell’inizio dell’attività con una comunicazione scritta degli elementi essenziali del rapporto. Questa
comunicazione scritta non è la forma scritta del contratto perché è logicamente successiva alla stipula del
contratto; la forma scritta del contratto implica che su quell’atto deve risultare la firma del lavoratore, il
foglio di informazione è firmato solo dal datore di lavoro e trasmesso al lavoratore. Ha valore probatorio, in
caso di contenzioso il lavoratore se ne può avvalere per contestare una violazione della legge 152\2007. La
veridicità è presunta ma è possibile prova contraria.
La comunicazione al lavoratore è obbligatoria, l’omessa comunicazione è sanzionata con sanzione
pecuniaria amministrativa.
anche sotto il profilo della documentazione del contratto di lavoro ci sono delle novità perché tutta la
documentazione che esisteva in precedenza (libretto di lavoro) non esiste più e nel 2008 è stata sostituita,
con la prima legge della semplificazione, con il libro unico del lavoro tenuto dal datore di lavoro
obbligatoriamente.
Invalidità del contratto
L’accordo fra le parti implica il consenso di entrambe le parti, tuttavia possono esistere vizi del consenso
(errore, violenza, dolo) e simulazione relativa (contratto di lavoro subordinato dissimulato su un contratto
di lavoro autonomo; si sana con la riqualificazione del contratto). Come tutti i contratti, anche il contratto di
lavoro può essere invalido ma ha un regime di invalidità speciale, contenuto nell’art. 2126 “Alle prestazioni
lavorative di fatto”. Questo articolo è spesso richiamato dalle dottrine che pensano che il rapporto di lavoro
49 Diritto del lavoro 2012 – appunti delle lezioni - Cristina Fenoglio
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non abbia fonte nel contratto di lavoro, questa prestazione di lavoro trova la sua base in un contratto
invalido e non serve richiamare la disposizione dell’art.2126 per affermare la mancanza del contratto.
“Prestazione di fatto con violazione di legge.
La nullità o l'annullamento del contratto di lavoro non produce effetto per il periodo in cui il rapporto ha
avuto esecuzione, salvo che la nullità derivi dall'illiceità dell'oggetto o della causa.
Se il lavoro è stato prestato con violazione di norme poste a tutela del prestatore di lavoro, questi ha in ogni
caso diritto alla retribuzione”.
Nullità e annullamento operano con effetto ex tunc (retroattivo, al momento in cui il giudice dichiara la
nullità o accerta l’annullamento del contratto, il contratto è viziato fin dall’inizio). Per quanto riguarda il
contratto di lavoro, per ovvie ragioni di protezione del lavoratore che ha prestato lavoro, la regola degli
effetti retroattivi della nullità o dell’annullamento subisce deroga: quando il giudice annulla la validità del
contratto questa non agisce retroattivamente ma dal momento in cui è dichiarata dal giudice, sono fatti
salvi gli effetti prodotti dalla data di stipulazione del contratto fino alla sentenza del giudice. C’è però una
eccezione importante in questa deroga, si prevede che la nullità prodotta ha effetto ex tunc quando la
nullità provenga da illiceità dell’oggetto o della causa del contratto.
La illiceità dell’oggetto e della causa sono ipotesi patologiche, l’oggetto illecito riguarda la prestazione
dedotta dal contratto che è contraria a norme di ordine pubblico o al buon costume, la causa illecita è
l’illiceità dell’interesse perseguito dalle parti.
Su queste regole si mette a complicare un po’ le cose il secondo comma dell’art.2126: “Se il lavoro è stato
prestato con violazione di norme poste a tutela del prestatore di lavoro, questi ha in ogni caso diritto alla
retribuzione”. Prevede di nuovo la nullità del contratto per violazione di norme imperative poste a tutela
del prestatore di lavoro. In realtà i casi del secondo comma tendono a sovrapporsi a quelli visti nel primo
periodo del primo comma, i casi nei quali la nullità non ha effetto retroattivo. Un caso tipico di confusione è
il caso dell’assunzione a lavoro del minore di 15 anni o di un lavoratore extracomunitario non regolare
(situazioni illecite): ci troviamo di fronte a delle norme imperative di ordine pubblico a tutela del lavoratore
perché il divieto di assumere il minore di 16 o 15 anni è a tutela di questi ultimi. In questo caso il contratto
è nullo per violazione delle norme imperative, ma le prestazioni svolte producono effetti e il lavoratore ha
diritto ad essere retribuito per le prestazioni svolte e a preservare i diritti previdenziali; ci troviamo senza
dubbio nella previsione del primo comma. Il caso del lavoratore extracomunitario può far sorgere qualche
dubbio, le norme che vietano la utilizzazione di un lavoratore extracomunitario non regolare sono a tutela
del lavoratore? In realtà l’interesse tutelati non sono quelli del lavoratore extracomunitario ma sono di
ordine pubblico.
Assunzione in prova
Quasi tutti i contratti prevedono un periodo di prova, sia i contratti a tempo indeterminato sia quelli a
tempo determinato. L’assunzione in prova è regolata dall’art.2096 CC: “Assunzione in prova
50 Diritto del lavoro 2012 – appunti delle lezioni - Cristina Fenoglio
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(Salvo diversa disposizione delle norme corporative), l'assunzione del prestatore di lavoro per un periodo di
prova deve risultare da atto scritto.
L'imprenditore e il prestatore di lavoro sono rispettivamente tenuti a consentire e a fare l'esperimento che
forma oggetto del patto di prova.
Durante il periodo di prova ciascuna delle parti può recedere dal contratto, senza obbligo di preavviso o
d'indennità. Se però la prova è stabilita per un tempo minimo necessario, la facoltà di recesso non può
esercitarsi prima della scadenza del termine.
Compiuto il periodo di prova, l'assunzione diviene definitiva e il servizio prestato si computa nell'anzianità
del prestatore di lavoro”. L’assunzione in prova non è un altro contratto di lavoro, è un elemento accessorio
del contratto che deve risultare da atto scritto; la forma scritta è richiesta ab sustantiam, altrimenti la
clausola è nulla e il rapporto diventa da subito definitivo. Se c’è la clausola dell’assunzione in prova questa è
una condizione apposta al contratto di lavoro. La stipulazione in via definitiva è rinviata all’esaurimento
dell’esperimento della prova. La prova serve all’esperimento: a verificare fra le parti il loro interesse alla
stipulazione definitiva del contratto, serve maggiormente al datore di lavoro per verificare l’idoneità del
lavoratore alle prestazioni a questo richieste.
La legge non contiene limite di durata della prova, ce lo dice anche indirettamente la legge 604\1966
“Norme sui licenziamenti individuali”: ha previsto che quando un lavoratore è assunto in prova, decorsi sei
mesi dalla assunzione, si applica la disciplina dei licenziamenti; è indirettamente il limite massimo della
prova perché nel terzo comma dell’art.2096 si dice che il periodo di prova è caratterizzato dalla libera
recedibilità: ciascuna delle parti può recedere dal contratto senza dare preavviso e pagare l’indennità (TFR).
Questa ultima cosa va però corretta perché in realtà la disciplina del TFR secondo quanto aveva detto già la
Corte Costituzionale si applica in qualunque caso di cessazione del rapporto di lavoro. I limiti della disciplina
dei licenziamenti non si applicano al periodo di prova e ciascuna delle parti può decidere di risolvere il
contratto. Decorsi sei mesi si applica la disciplina dei licenziamenti e viene meno la libera recedibilità.
La maturazione del TFR e dell’indennità di anzianità è dovuta al fatto che è una parte di retribuzione
caratterizzata dal pagamento alla cessazione, differito al momento della cessazione del rapporto.
La funzione della prova è importante perché su questo si è basato il correttivo alla libera recedibilità che è
stato stabilito dalla Corte Costituzionale con la sentenza 189\1980 dove è dichiarato che la libera
recedibilità è caratteristica essenziale del periodo di prova ma per la sua funzione non sempre il recesso è
legittimo: secondo la Corte libera recedibilità non vuole dire arbitrarietà, il recesso del datore di lavoro (non
si chiama licenziamento perché non si applica la disciplina in questo periodo) può essere illegittimo se è
intimato al lavoratore senza permettergli l’esperimento delle sue capacità, se questo “licenziamento” è in
contrasto con la funzione tipica della prova, il licenziamento che non risponda a questa funzione non è più
discrezionale ma diventa arbitrario e viola il diritto del lavoratore a svolgere l’esperimento.
La forma è scritta, ma cosa deve esserci scritto nell’atto di assunzione in prova? Deve contenere specifiche
mansioni per rispettare l’obbligo di forma perché la funzione della prova è l’esperimento dell’idoneità del
lavoratore e il lavoratore deve sapere su cosa è sperimentato; al termine della prova si può avere un
51 Diritto del lavoro 2012 – appunti delle lezioni - Cristina Fenoglio
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giudizio positivo o negativo, se positivo si procede con l’assunzione definitiva che opera ex tunc
(l’assunzione si considera definitiva fin dall’inizio della prova e questa si calcola nell’anzianità di servizio del
lavoratore), se negativo si ha il recesso del datore di lavoro e se non è stato specificato che cosa deve fare il
lavoratore si è di fronte a un licenziamento arbitrario. Il correttivo della libera recedibilità sta in questo:
nella funzione della prova che deve consentire l’esperimento delle capacità e che condiziona la libera
recedibilità e la validità della prova. Non basta il rinvio al contratto collettivo, perché troppo generico.
Nel caso di illegittimo recesso il lavoratore può continuare la prova (in caso di risoluzione in un tempo
troppo breve per poter effettivamente svolgere l’esperimento) o chiedere il risarcimento dei danni.
Con la sentenza 94 la Corte costituzionale ha considerato il caso delle lavoratrici madri che hanno una
tutela nel divieto di licenziamento dall’inizio della gravidanza fino al compimento di un anno di età del
bambino: ci sono eccezioni al divieto, se il termine scade prima del compimento di questo periodo il
rapporto cessa. La Corte ha aggiunto anche l’esito negativo della prova: ha consentito il licenziamento della
lavoratrice madre che sia assunta in prova applicando il principio della libera recedibilità.
24\10\2012
Contratto a tempo determinato
Il contratto normale di lavoro subordinato è quello a tempo indeterminato, il contratto di lavoro a tempo
determinato dovrebbe essere una eccezione ma i recenti conti fatti danno come risultato una elevata
percentuale di assunzione a tempo determinato. La ragione di questo è la flessibilità del contratto a
termine: quando un contratto a termine giunge al termine cessa (con la scadenza del temine il contratto è
risolto), quindi resta fuori dalla disciplina dei licenziamenti. Il lavoratore a termine non si licenzia (a meno
che non sopraggiunga una causa per il licenziamento anticipato), si aspetta la scadenza del termine. Le
scadenze brevi dei contratti a termine sono usate quando l’azienda non vuole fidelizzare i dipendenti,
quando cioè non vuole investire sull’informazione e altro dei lavoratori, ma vuole avere flessibilità.
Il ricorso smodato al contratto a tempo determinato sta “rovinando” il mercato del lavoro perché si ha la
precarietà dei rapporti di lavoro.
Bisogna capire perché questa disciplina sia così travagliata: il contratto di lavoro a tempo determinato
esiste da tempo immemorabile, la prima apparizione è nella legge sull’impiego privato (regio decreto
1825\1924); in questa legge il contratto a termine era previsto come eccezione rispetto alla normale
assunzione, prevedeva che l’impiegato fosse assunto a tempo indeterminato ma prevedeva anche la
possibilità dell’assunzione a termine in ragione della specialità delle mansioni. Questo stesso concetto era
stato ribadito dall’art.2097 CC che spostava la previsione della assunzione normale che poteva essere
sostituita dall’assunzione a tempo determinato in tutto il lavoro subordinato (estensione della regola
prevista dalla legge sull’impiego privato a tutto il lavoro subordinato indipendentemente dalla categoria di
appartenenza del lavoratore).
Art. 2097: “Il contratto di lavoro si reputa a tempo indeterminato, se il termine non risulta dalla specialità
del rapporto o da atto scritto. (*)
52 Diritto del lavoro 2012 – appunti delle lezioni - Cristina Fenoglio
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In quest'ultimo caso l'apposizione del termine è priva di effetto, se è fatta per eludere le disposizioni che
riguardano il contratto a tempo indeterminato.
Se la prestazione di lavoro continua dopo la scadenza del termine e non risulta una contraria volontà delle
parti, il contratto si considera a tempo indeterminato.
Salvo diversa disposizione delle norme corporative se il contratto di lavoro è stato stipulato per una durata
superiore a cinque anni, o a dieci se si tratta di dirigenti, il prestatore di lavoro può recedere da esso
trascorso il quinquennio o il decennio, osservata la disposizione dell'articolo 2118”
(*) o si apponeva per iscritto il temine o era giustificato dalla specialità del rapporto.
La disciplina dell’art.2097 nonostante prevedesse la presunzione dell’assunzione a tempo indeterminato,
almeno che non ci fossero queste due condizioni, non diede luogo ad alcuno controllo sulla diffusione del
contratto a termine che allora era scarsamente protetto. È vero che allora non c’erano garanzie di
protezione nemmeno per i lavoratori assunti a tempo indeterminato perché non c’erano limiti al
licenziamento, ma i lavoratori a termine subivano anche trattamenti economici e normativi peggiori (non
avevano diritto, alla cessazione del rapporto, all’indennità di anzianità –TFR).
Il minor costo del contratto a termine, e non tanto la flessibilità, incoraggiava il ricorso al contratto a
termine ma i risultati di una indagine sulle condizioni dei lavoratori impose l’intervento del parlamento con
una legge che è stata la disciplina del contratto a termine fino al 2001. La legge 230\1962 prevedeva che il
contratto a termine potesse essere stipulato solo nei casi tassativamente previsti dalla legge che si
riferivano ad alcune aree del lavoro che avevano l’esigenza della stipulazione del contratto a termine (lavori
stagionali in agricoltura). Una delle ipotesi previste di maggior importanza era l’ipotesi dell’assunzione a
termine cosiddetta sostitutiva: si poteva assumere con contratto a termine per sostituire un lavoratore
assente con diritto alla conservazione del posto (art.2113 CC). I lavoratori assenti con diritto alla
conservazione del posto sono quei lavoratori sui quali intervenga un evento protetto: malattia (il periodo di
comporto è il periodo di sospensione del rapporto, la cui durata minima è ancora oggi fissata da un
contratto collettivo corporativo –di durata massima di 180 giorni. Alla scadenza del periodo di comporto il
lavoratore può essere licenziato), lavoratrice madre (che ha congedo obbligatorio da 2 mesi prima del parto
fino a 3 mesi successivi al parto + eventuale congedo parentale –che può chiedere anche il padre), malattie
professionali, un tempo il servizio di leva, aspettative per ragioni sindacali, elezione a carica amministrativa.
In tutti i casi previsti il datore di lavoro può sostituire il lavoratore assente assumendo a termine un
lavoratore con un contratto sostitutivo che cessa nel momento in cui il lavoratore titolare rientra.
L’altra cosa che prevedeva la legge del 1962 era che, in tutti i casi nei quali fosse stato stipulato un
contratto a termine o con violazione di un requisito forma (atto scritto richiesto ab sustantiam), o nei casi in
cui fosse stato stipulato un contratto al di fuori delle ipotesi tassativamente previsto, l’apposizione del
termine era nulla: non era nullo il contratto, era nulla la clausola appositiva del temine, fin dall’inizio il
contratto era riqualificato come contratto di lavoro a tempo indeterminato. In ogni caso i vizi erano allora
sanzionati con la cosiddetta conversione del contratto a termine in contratto a tempo indeterminato fin
53 Diritto del lavoro 2012 – appunti delle lezioni - Cristina Fenoglio
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dall’inizio del rapporto, era una sanzione pesante perché colpiva nello stesso modo vizi di tipo diverso ma
l’intento del legislatore era fortemente anti abusivo. La fragilità di questa disciplina comincia a farsi vedere
negli anni ’70 del secolo XX perché crescono le esigenze di flessibilità delle imprese e cresce la domanda di
contratti a termine alla quale si da risposta senza sconvolgere l’impianto della legge, ma agendo sulle
ipotesi tassative allungandone l’elenco, aggiungendone di nuove. Sono domande che arrivano da diversi
settori: del commercio (in particolare quello delle attività commerciali turistiche per far fronte ad esigenze
di lavoro stagionale), della RAI, aeroporti, industrie (settori ambientali, punte stagionali di attività).
Si aggiunge anche la legge 56\1987 (riforma del mercato del lavoro, legge che però non ha prodotto
risultato), all’art.23 prevede la possibilità che i CCN stipulati dei sindacati maggiormente rappresentativi
possano prevedere l’ipotesi di stipulazione legittima di contratti a termine in deroga all’elenco tassativo. È
una forte liberalizzazione e i CCN la utilizzano introducendo alcune ipotesi fortemente contestate perché
consentono l’assunzione a termine non guardando a situazioni oggettive ma a situazioni soggettive: a profili
che identificano certi lavoratori rispetto ad altri, riservano l’assunzione a termine a alcune caratteristiche.
Arriviamo alla soglia delle vicende attuali e il primo punto di svolta è segnato dalla legge 196\1997
“Pacchetto Treu”: la legge, fatta varare da Tiziano Treu, contiene una serie di misure ispirate alla flessibilità
accentuata ma controllata nell’ambito del sistema di disciplina del mercato del lavoro. non interviene sulle
regole di tassatività ma interviene sull’apparato sanzionatorio alleggerendo le sanzioni: sposta la
riqualificazione del contratto viziato in diversi momenti.
La legge del Pacchetto Treu non ha avuto lunga vita, nel frattempo è intervenuta una direttiva comunitaria
1999\70 che recepisce un accordo sindacale stipulato a livello europeo tra soggetti sindacali di livello
europeo. La direttiva si limita alla recezione dell’accordo, che viene allegato (sono quelle direttive nelle
quali non parliamo di articoli ma di clausole, clausole dell’accordo). La direttiva impone agli stati dell’UE
l’obbligo della trasposizione entro il termine (2001), l’allora ministro del lavoro Maroni (governo Berlusconi)
prende in mano la questione e si apre una situazione conflittuale perché l’anno prima c’era stato un
intervento della Corte Costituzionale: i radicali avevano proposto un referendum per l’abrogazione della
legge del ’62 e le successive modifiche. La Corte respinge questo referendum perché si era in una fase in cui
gravava sull’Italia l’obbligo di trasporre la direttiva, siccome non è necessario sempre emanare una nuova
legge di trasposizione, e se nell’ordinamento è già presente una legge sull’argomento che soddisfa i principi
generali della direttiva non c’è bisogno di emanare una nuova legge e non si può nemmeno consentirne il
referendum abrogativo perché si andrebbe contro l’obbligo della direttiva.
Nella legge non si prevedevano in realtà i punti di informazione e diritto alla formazione, sono diritti il cui
riconoscimento a vantaggio di tutti i lavoratori è recente: bisogna solamente adeguare la legge.
Il ministro del lavoro apre un tavolo di negoziazione sulla base del quale emanare poi il provvedimento di
trasposizione della direttiva recependo sostanzialmente un accordo sindacale. Solo che la trattativa va
male: la CGIL non è d’accordo, lascia il tavolo e firma un accordo separato. Il ministro emana il decreto
368\2001 che è la disciplina attuale del contratto a termine salvo il fatto che fu modificata più volte,
l’ultima modifica è stata apportata dalla legge 92\2012 (riforma Fornero).
Il decreto legislativo si apre con una premessa:
54 Diritto del lavoro 2012 – appunti delle lezioni - Cristina Fenoglio
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“a) i contratti a termine in corso alla data di entrata in vigore della presente legge continuano fino al
termine previsto dal contratto, anche in deroga alle disposizioni di cui al comma 4-bis dell’articolo 5 del
decreto legislativo 6 settembre 2001(*), n. 368, introdotto dal presente articolo;
b) il periodo di lavoro già effettuato alla data di entrata in vigore della presente legge si computa, insieme ai
periodi successivi di attività ai fini della determinazione del periodo massimo di cui al citato comma 4-bis,
decorsi quindici mesi dalla medesima data”.
(*) quello che disciplina la successione dei contratti e le proroghe.
Sono discipline transitorie che vengono messe in premessa per regolare il passaggio fra la vecchia disciplina
e la nuova per i contratti che sono in corso.
L’articolato segue la progressione tradizionale, ma in realtà non è così perché in realtà il primo articolo si
apre con un comma 0, che viene dalla legge 92\2012 che modifica la legge 246\2007: “Il contratto di lavoro
subordinato a tempo indeterminato costituisce la forma comune di rapporto di lavoro”, è questo il
contratto dominante e si riprende quanto previsto dalla direttiva. Realizza il principio secondo il quale il
contratto a tempo determinato è un’eccezione alla normalità che è il contratto a tempo determinato.
Prima di analizzare l’art.1 bis, introdotto dalla legge 92\2012, apriamo una parentesi sugli obiettivi della
riforma Fornero: la riforma del mercato dl lavoro aveva come obiettivo la cosiddetta flex security,
combinazione della flessibilità con la sicurezza dei lavoratori. È un grande obiettivo delle strategie dell’UE
ma la legislazione sta camminando molto di più verso la flessibilità, il modello è quello del triangolo d’oro
danese, un modello di organizzazione sociale del mercato del lavoro che funziona sotto una serie di pilastri:
forte intervento delle misure di intervento sociale e forte sostegno del lavoratore nel mercato, un sostegno
che avviene sotto due profili: i trattamenti di sostegno del reddito e le misure di accompagnamento che
consentono il transito del lavoratore da un lavoro all’altro. Una dinamizzazione del mercato fatta
flessibilizzando la gestione della forza lavoro, liberando da alcuni limiti rigidi le imprese, compensava però
da un impegno anche economico dello stato nella direzione della conversione del lavoratore, sotto il profilo
della sicurezza del mercato. (Il licenziamento diventa una condizione sopportabile se il lavoratore sa che si
trova con un reddito sostenuto, perché il sistema di sicurezza sociale gli garantisce il trattamento di
disoccupazione ed economico adeguato. Perché esiste e funziona, nel mercato, un percorso da un lavoro
all’altro lungo il quale il lavoratore è seguito). Un sistema nel quale la flessibilità della gestione del lavoro si
compensa con la sicurezza del mercato. Questo modello è però lontanissimo per l’Italia, richiede molte
risorse e investimenti nel sistema di sicurezza sociale da parte dello Stato e in questo momento non solo
non ci sono le risorse, ma si stanno tagliando. Infatti la riforma non ci illude nemmeno su questa flex
security, perché interviene sul versante della sicurezza sociale introducendo un nuovo trattamento, che
sostituisce l’indennità di disoccupazione, che è l’assicurazione sociale sull’impiego (tendenzialmente
universalizzata e con periodi coperti ridotti) e accompagnata da una previsione rinviata della riduzione della
cassa integrazione e della eliminazione della mobilità (ammortizzatori sociali che compensano la scarsità
del trattamento di disoccupazione).
La riforma Fornero gioca allora sulla flessibilità facendo una sorta di operazione di ribilanciamento
all’interno della gestione dei rapporti di lavoro, toccando quindi solo questo versante del problema.
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Sul piano della gestione dei rapporti di lavoro si fa una operazione di riassestamento: consiste nella
riduzione della flessibilità in entrata e in una apertura della flessibilità in uscita.
La flessibilità in entrata è la flessibilità all’accesso al lavoro, la disponibilità per il datore di lavoro della
possibilità di assumere con contratti flessibili che vengono tutti etichettati come “atipici” (di lavoro
subordinato o autonomo –nella fattispecie particolare di lavoro a progetto o associazioni in partecipazione
… ). Su questa flessibilità interviene il legislatore nel 2012, riducendola e ponendo grossi limiti e cancellando
il contratto di inserimento, non tocca invece il lavoro a chiamata e il job sharing.
Un intervento c’è ed è un intervento sul contratto a termine che è un po’ una matrice perché quasi tutti i
lavori precari\flessibili sono a termine, quindi la disciplina del contratto a termine è un punto di riferimento
per quasi tutti questi contratti.
Il comma 1 ci dice: “E' consentita l'apposizione di un termine alla durata del contratto di lavoro subordinato
a fronte di ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo, anche se riferibili alla
ordinaria attività del datore di lavoro”.
Si può stipulare un contratto a termine, cade completamente l’impianto della legge del ’62, non siamo più
di fronte alle ipotesi tassative, siamo di fronte a una causale di carattere generale che viene definita
“clausola generale” che prevede due ordini di ragioni che possono giustificare il contratto a termine:
• ragioni di carattere sostitutivo: quelle già previste dalla legge del ’62
• ragioni tecnico-produttive: esigenze dell’impresa alle quali si deve fare fronte con l’assunzione a termine.
Si innestano subito su queste due questioni:
a) queste esigenze che giustificano l’assunzione a termine, devono essere esigenze temporanee o no? La
giurisprudenza non lo dice, con intervento successivo aggiunge che possono essere riferibili all’attività
ordinaria dell’impresa. Con questo intervento il legislatore sembra voler escludere la necessaria
temporaneità di queste esigenze, ma i giudici non la pensano così e continuano a ribadire che devono
trattarsi di esigenze ordinarie ma temporanee (pensiamo ad esempio ai picchi stagionali). Se non sono
esigenze temporanee bisogna assumere a tempo indeterminato perché il contratto comune è il contratto a
tempo indeterminato.
b) cosa sono e ragioni tecnico-produttive? Chi le controlla? Esigenze oggettive nel cui merito il giudice non
può entrare, può però giudicare della loro non pretestualità, che siano cioè allegate per giustificare reali
esigenze nate dalle scelte reali dell’impresa e da esigenze temporanee che ne spieghino la necessità, che ci
sia un nesso di causalità fra scelte dell’imprenditore e giustificazione dell’assunzione a termine, materia che
rientra nella previsione costituzionale di libertà di iniziativa economica controbilanciata dalla tutela dei
lavoratori.
Dunque per stipulare un contratto a termine occorrono delle ragioni che lo giustificano o di ordine
sostitutivo o di ordine tecnico-produttivo: queste ragioni devono essere spiegate con forma scritta nel
contratto.
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Comma 1 bis: “Il requisito di cui al comma 1 non è richiesto nell’ipotesi del primo rapporto a tempo
determinato, di durata non superiore a dodici mesi, concluso fra un datore di lavoro o utilizzatore e un
lavoratore per lo svolgimento di qualunque tipo di mansione, sia nella forma del contratto a tempo
determinato, sia nel caso di prima missione di un lavoratore nell’ambito di un contratto di
somministrazione a tempo determinato ai sensi del comma 4 dell’articolo 20 del decreto legislativo 10
settembre 2003, n. 276. (*)
I contratti collettivi stipulati dalle organizzazioni sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro
comparativamente più rappresentative sul piano nazionale possono prevedere, in via diretta a livello
interconfederale o di categoria ovvero in via delegata ai livelli decentrati, che in luogo dell’ipotesi di cui al
precedente periodo il requisito di cui al comma 1 non sia richiesto nei casi in cui l’assunzione a tempo
determinato o la missione nell’ambito del contratto di somministrazione a tempo determinato avvenga
nell’ambito di un processo organizzativo determinato dalle ragioni di cui all’articolo 5, comma 3, nel limite
complessivo del 6 per cento del totale dei lavoratori occupati nell’ambito dell’unità produttiva. (Legge n.
92/2012)(**)”
(*) il primo contratto tra un datore di lavoro e un lavoratore per qualunque professione può essere un
contratto a tempo determinato, senza che sia richiesta alcuna giustificazione. È un contratto che può
durare al massimo 12 mesi, non prorogabile, è un contratto che esce dalla disciplina ordinaria del contratto
a termine, è una sorta di primo ingresso al lavoro facilitato dal fatto che il datore di lavoro può assumere
liberamente, senza dover dare alcuna ragione. Viene detto normalmente a-causale, senza causa.
È importante capire cosa voglia dire “primo contratto”: si riferisce al primo contratto fra un certo datore di
lavoro e un certo lavoratore, perché quello stesso lavoratore che ha avuto un primo contratto a termine a-
causale con il datore di lavoro X, può per altri 12 mesi un altro contratto a-causale con il datore Y senza che
ci sia mai una giustificazione per la sua assunzione a termine.
Un qualche contenimento di questa “voragine” può venire da una interpretazione un po’ rigorosa del
significato di “primo contratto”: primo contratto a termine o primo contratto in assoluto? Primo contratto
in assoluto. Se, ad esempio, quello stesso lavoratore ha avuto un rapporto di lavoro a progetto con quel
datore di lavoro non può essere assunto con un contratto a termine a-causale perché ha già avuto un
contratto con quel datore di lavoro, quindi l’interpretazione è stretta: solo il primo contratto anche di tipo
contrattuale non subordinato. Però il primo contratto non agisce dalla parte del lavoratore, il lavoratore
può avere molti primi contratti con datori di lavoro diversi.
(**) è un ulteriore allargamento dell’ipotesi del comma 1 bis: del contratto a-causale con due garanzie:
• tetto massimo che si calcola sugli occupati con questo contratto rispetto agli occupati nell’impresa (se
l’impresa ha 100 occupati non più di sei possono essere assunti in questo modo).
• deve essere previsto dal contratto collettivo: l’accordo interconfederale stipulato dai sindacati
comparativamente più rappresentativi, non da accordi separati. In secondo luogo può essere un CCN di
categoria o un CCT o CCA ma in questo caso ci deve essere la delega da parte del CCN (non siamo quindi
all’art.8 della legge 148\2011, ma in una ipotesi di contrattazione decentrata di prossimità che però è
delegata perché è il CCN che decide se in quella azienda si può fare o no un accordo di questo tipo).
57 Diritto del lavoro 2012 – appunti delle lezioni - Cristina Fenoglio
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Art. 2 . “L'apposizione del termine e' priva di effetto se non risulta, direttamente o indirettamente, da atto
scritto nel quale sono specificate le ragioni di cui al comma 1 le ragioni di cui al comma 1, fatto salvo quanto
previsto dal comma 1-bis relativamente alla non operatività del requisito della sussistenza di ragioni di
carattere tecnico, organizzativo, produttivo o sostitutivo. (Legge n. 92/2012)”
Atto scritto, forma richiesta ab sustantiam, l’apposizione del termine è priva di effetto se non risulta da atto
scritto in cui si trovano anche le ragioni, se manca il contratto è a tempo indeterminato perché la clausola
impositiva del termine se non è scritta o se è scritta e non sono specificate le giustificazioni è nulla (art.1419
CC). La nullità è parziale: colpisce la clausola e non l’intero contratto.
Art.4 “La scrittura non e' tuttavia necessaria quando la durata del rapporto di lavoro, puramente
occasionale, non sia superiore a dodici giorni”.
29\10\2012
Riprendiamo l’analisi del Decreto Legislativo 6 settembre 2001, n. 368: il contratto a termine dovrebbe
essere l’eccezione, l’assunzione ordinaria dovrebbe avvenire con un contratto a tempo indeterminato
(comma 0). La disciplina del contratto a termine è quindi una disciplina tendenzialmente limitativa, perché
consente di stipulare un contratto a termine in determinate ipotesi, al di fuori delle quali non dovrebbero
essere consentiti in ragione del carattere eccezionale di questo contratto. Il carattere eccezionale è dato dal
fatto che il contratto cessa con la scadenza del termine (il lavoratore ha garanzie di stabilità limitate alla
durata del contratto). Il contratto a termine può essere anche risolto antipaticamente, rispetto alla durata
del termine, se sopraggiunge una giusta causa; se c’è stato recesso anticipato ma non sussisteva la giusta
causa il lavoratore che è stato illegittimamente licenziato ha diritto al risarcimento dei danni ma non ha
diritto al prolungamento del termine o alla ricostituzione del rapporto di lavoro. Tutta la disciplina
dell’impugnazione del contratto a termine ha subito una grossa unificazione con la legge 183\2010
cosiddetta “collegato lavoro” (perché è una disciplina collegata alla disciplina di stabilità del 2010). In
questa legge sono state apportate alcune importanti modifiche sul versante processuale che hanno però
grandi incidenze sul versante sostanziale e quindi sulla tutela del diritto da parte del giudice.
Con il decreto legislativo 368\2001 sul quale sono intervenute consecutivamente alcune modifiche, prima
con decreto legislativo 276\2003 (legge Biagi), poi con la legge 247\2007 che fu emanata a seguito del
governo Prodi, il governo Berlusconi aveva finito la legislatura nel 2006, è il protocollo sul Welfare ed è un
importante cambiamento anche a livello sindacale. Questa legge cancellò alcune cose della legge Biagi che
introducevano flessibilità troppo marcate e intervenne anche sulla disciplina del contratto a termine, però
con il ritorno al governo di Berlusconi venne emanata una legge nel 2011, legge 183\2011, che ha
reintrodotto alcune cose che la legge 247\2007 aveva cancellato o modificato, ripristinando vecchie
discipline. Su questo è intervenuta adesso la riforma Fornero (legge 92\2012) che ha apportato ulteriori
correzioni.
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Con il decreto legislativo 368\2001, uno dei primi interventi del governo Berlusconi, si sostituisce il vecchio
sistema del contratto a termine possibile solo in previsione di ipotesi tassative salvo deroghe tramite
contrattazione collettiva e si passa alla causale di tipo generale (ragioni sostitutive o ragioni tecniche
produttive). La legge 92\2012 introduce una novità assoluta che scompagina un po’ il campo perché
introduce il contratto a termine a-causale (che può essere stipulato senza una ragione giustificatrice), è una
grossa deroga al principio del contratto a termine come eccezione rispetto alla regola, perché è consentito
stipulare (e vale anche per la somministrazione) un contratto a termine senza alcuna giustificazione quando
sia il primo contratto a termine che si stipula fra un datore di lavoro e un lavoratore. Questo contratto è un
contratto a-causale di durata massima di 12 mesi, non rinnovabile ne prorogabile. Il problema è quello di
evitare che, attraverso forme contrattuali diverse, si crei quella catena di rapporti precari a termine che è
quello che la legge dovrebbe evitare, anche per essere conforme a quanto previsto dalla direttiva 1999\70.
L’apposizione del termine deve risultare da atto scritto, la forma qui è richiesta ab sustantiam, è requisito
sostanziale: il requisito sostanziale si riferisce alla apposizione del termine, in caso di mancanza di atto
scritto in cui viene precisato il temine e le mansioni, non si avrà la nullità del contratto di lavoro (e quindi
l’applicazione dell’art.2126 CC) ma la nullità della clausola del termine (il contratto è valido, ma come
contratto a tempo indeterminato). Il difetto di forma scritta colpisce specificamente l’apposizione del
termine, il contratto tra le parti è valido ma non è valido il termine, si parla a torto in questo caso di
conversione: semplicemente è una qualificazione del contratto che dipende dal fatto che la clausola del
termine non essendo posta per iscritto è come se non esistesse.
Esaminiamo meglio i contenuti di queste regole generali.
Le causali sono di due tipi:
• ragioni tecnico-produttive: devono essere indicate in modo tale da fornire una giustificazione sufficiente e
deve essere chiaro che sono ragioni tecnico-produttivo di carattere temporaneo perché altrimenti si
assume a tempo indeterminato, avendo bisogno continuativamente del lavoratore.
• ragioni sostitutive: si assume a termine per sostituire un lavoratore assente con diritto alla conservazione
del posto. I lavoratori assenti con diritto alla conservazione del posto sono indicati negli artt. 2010-2011 CC:
Art. 2110. Infortunio, malattia, gravidanza, puerperio.
In caso di infortunio, di malattia, di gravidanza o di puerperio, se la legge [o le norme corporative](1) non stabiliscono
forme equivalenti di previdenza o di assistenza, è dovuta al prestatore di lavoro la retribuzione o un'indennità nella
misura e per il tempo determinati dalle leggi speciali [dalle norme corporative] (1), dagli usi o secondo equità.
Nei casi indicati nel comma precedente, l'imprenditore ha diritto di recedere dal contratto a norma dell'articolo 2118,
decorso il periodo stabilito dalla legge [dalle norme corporative] (1), dagli usi o secondo equità.
Il periodo di assenza dal lavoro per una delle cause anzidette deve essere computato nell'anzianità di servizio.
Art. 2111. Servizio militare.
La chiamata alle armi per adempiere agli obblighi di leva risolve il contratto di lavoro [salvo diverse disposizioni delle
norme corporative].
In caso di richiamo alle armi, si applicano le disposizioni del primo e del terzo comma dell'articolo precedente.
Andrebbe indicato il nome del sostituito e il periodo in cui di sostituisce il lavoratore, la legge non prevede
più questa necessità del nome del sostituito ma la Corte Costituzionale con sentenza 214\2009 ha detto
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che la legge va interpretata nel senso della necessità dell’indicazione del nome e del periodo. Malgrado ciò
qualche sentenza successiva continua ad affermare che non è necessario perché lo si può dedurre da altri
elementi. Quello che deve essere sicuramente specificata è la ragione sostitutiva, la forma scritta si riferisce
alla clausola del termine, delle mansioni ma soprattutto deve contenere la specificazione delle ragioni per
le quali il contratto è stipulato.
Le cause sono controllate dal giudice: qualora manchi, o il giudice ritenga insufficienti le ragioni
giustificatrici, cade la clausola del termine dunque si ha la riqualificazione del contratto in termini di
contratto a tempo indeterminato fin dall’inizio. Questa regola ovviamente non si applica qualora si tratti di
quel primo contratto d 12 mesi per il quale non è richiesta alcuna giustificazione.
Ci sono anche casi in cui la stipulazione di contratti a termine è vietata e sono inoltre i casi in cui questa
disciplina non si applica. È vietata la stipulazione del contratto a termine per:
• la sostituzione di un lavoratore che esercita lo sciopero: la possibilità di assumere lavoratori esterni a
termine vanificherebbe l’esercizio del diritto fondamentale.
• quando si sia proceduto a riduzioni di personale, licenziamenti collettivi o ricorso alla cassa integrazione
• presso le imprese nelle quali non si sia adempiuto a uno degli obblighi fondamentali derivanti dalla
disciplina della tutela della salute e sicurezza dei lavoratori (T.U. 81\2008 al quale si aggancia l’art.2087 CC
obbligo di sicurezza del datore di lavoro): uno degli adempimenti è la valutazione dei rischi, previsto e
regolato dal T.U.; è una sanzione che opera quando manca la valutazione dei rischi, in questo caso le forme
flessibili di lavoro non sono utilizzabili.
Art. 3. D i v i e t i
L'apposizione di un termine alla durata di un contratto di lavoro subordinato non e' ammessa:
a) per la sostituzione di lavoratori che esercitano il diritto di sciopero;
b) salva diversa disposizione degli accordi sindacali, presso unità produttive nelle quali si sia proceduto,
entro i sei mesi precedenti, a licenziamenti collettivi ai sensi degli articoli 4 e 24 della legge 23 luglio 1991, n.
223, che abbiano riguardato lavoratori adibiti alle stesse mansioni cui si riferisce il contratto di lavoro a
tempo determinato, salvo che tale contratto sia concluso per provvedere a sostituzione di lavoratori assenti,
ovvero sia concluso ai sensi dell'articolo 8, comma 2, della legge 23 luglio 1991, n. 223, ovvero abbia una
durata iniziale non superiore a tre mesi;
c) presso unità produttive nelle quali sia operante una sospensione dei rapporti o una riduzione dell'orario,
con diritto al trattamento di integrazione salariale, che interessino lavoratori adibiti alle mansioni cui si
riferisce il contratto a termine;
d) da parte delle imprese che non abbiano effettuato la valutazione dei rischi ai sensi dell'articolo 4 del
decreto legislativo 19 settembre 1994, n. 626, e successive modificazioni.
L’art.2 riguarda la disciplina specifica del trasporto aereo nelle punte di lavoro stagionale negli aeroporti.
Facciamo un salto in avanti nella disciplina, l’art.10 prevede le esclusioni alle discipline specifiche, i contratti
che restano fuori dalla disciplina contenuta nel decreto legislativo.
Le grandi esclusioni riguardano l’agricoltura, i settori del turismo e dei pubblici servizi in cui è ammessa
l’assunzione diretta di manodopera per esecuzione di speciali servizi di durata non superiore a tre giorni, i
60 Diritto del lavoro 2012 – appunti delle lezioni - Cristina Fenoglio
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dirigenti in cui è ammessa la stipulazione di contratti a termine per periodi non superiori a 5 anni, le
aziende che esercitano commercio IM\EX di prodotti ortofrutticoli (non si capisce bene quale sia il senso
però).
Art. 10. Esclusioni e discipline specifiche
1. Sono esclusi dal campo di applicazione del presente decreto legislativo in quanto già disciplinati da specifiche
normative:
a) i contratti di lavoro temporaneo di cui alla legge 24 giugno 1997, n. 196, e successive modificazioni;
b) i contratti di formazione e lavoro;
c) i rapporti di apprendistato, nonché le tipologie contrattuali legate a fenomeni di formazione attraverso il lavoro che,
pur caratterizzate dall'apposizione di un termine, non costituiscono rapporti di lavoro.
c-bis) i richiami in servizio del personale volontario del Corpo nazionale dei vigili del fuoco, che ai sensi dell'articolo 6,
comma 1, del decreto legislativo 8 marzo 2006, n. 139, non costituiscono rapporti di impiego con l'Amministrazione.
(introdotto dalla Legge 183/2011)
2. Sono esclusi dalla disciplina del presente decreto legislativo i rapporti di lavoro tra i datori di lavoro dell'agricoltura e
gli operai a tempo determinato così come definiti dall'articolo 12, comma 2, del decreto legislativo 11 agosto 1993, n.
375.
3. Nei settori del turismo e dei pubblici esercizi e' ammessa l'assunzione diretta di manodopera per l'esecuzione di
speciali servizi di durata non superiore a tre giorni, determinata dai contratti collettivi stipulati con i sindacati locali o
nazionali aderenti alle confederazioni maggiormente rappresentative sul piano nazionale. Dell'avvenuta assunzione
deve essere data comunicazione al centro per l'impiego entro cinque giorni. Tali rapporti sono esclusi dal campo di
applicazione del presente decreto legislativo.
4. In deroga a quanto previsto dall’articolo 5, comma 4-bis, è consentita la stipulazione di contratti di lavoro a tempo
determinato, purché di durata non superiore a cinque anni, con i dirigenti, i quali possono comunque recedere da essi
trascorso un triennio e osservata la disposizione dell'articolo 2118 del codice civile. Tali rapporti sono esclusi dal campo
di applicazione del presente decreto legislativo, salvo per quanto concerne le previsioni di cui agli articoli 6 e 8.
5. Sono esclusi i rapporti instaurati con le aziende che esercitano il commercio di esportazione, importazione ed
all'ingresso di prodotti ortofrutticoli.
6. Restano in vigore le discipline di cui all'articolo 8, comma 2, della legge 23 luglio 1991, n. 223, all'articolo 10 della
legge 8 marzo 2000, n. 53, ed all'articolo 75 della legge 23 dicembre 2000, n.388.
7. La individuazione, anche in misura non uniforme, di limiti quantitativi di utilizzazione dell'istituto del contratto a
tempo determinato stipulato ai sensi dell'articolo 1, comma 1, e' affidata ai contratti collettivi nazionali di lavoro
stipulati dai sindacati comparativamente più rappresentativi. Sono in ogni caso esenti da limitazioni quantitative i
contratti a tempo determinato conclusi:
a) nella fase di avvio di nuove attività per i periodi che saranno definiti dai contratti collettivi nazionali di lavoro anche
in misura non uniforme con riferimento ad aree geografiche e/o comparti merceologici;
b) per ragioni di carattere sostitutivo, o di stagionalità, ivi comprese le attività già previste nell'elenco allegato al
decreto del Presidente della Repubblica 7 ottobre 1963, n. 1525, e successive modificazioni;
c) per specifici spettacoli ovvero specifici programmi radiofonici o televisivi;
d) con lavoratori di età superiore a 55 anni.
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8. Sono esenti da limitazioni quantitative i contratti a tempo determinato non rientranti nelle tipologie di cui al comma
7, di durata non superiore ai sette mesi, compresa la eventuale proroga, ovvero non superiore alla maggiore durata
definita dalla contrattazione collettiva con riferimento a situazioni di difficoltà occupazionale per specifiche aree
geografiche. La esenzione di cui al precedente periodo non si applica a singoli contratti stipulati per le durate suddette
per lo svolgimento di prestazioni di lavoro che siano identiche a quelle che hanno formato oggetto di altro contratto a
termine avente le medesime caratteristiche e scaduto da meno di sei mesi.
9. E' affidata ai contratti collettivi nazionali di lavoro stipulati dai sindacati comparativamente più rappresentativi, la
individuazione di un diritto di precedenza nella assunzione presso la stessa azienda e con la medesima qualifica,
esclusivamente a favore dei lavoratori che abbiano prestato attività lavorativa con contratto a tempo determinato per
le ipotesi già previste dall'articolo 23, comma 2, della legge 28 febbraio 1987, n. 56. I lavoratori assunti in base al
suddetto diritto di precedenza non concorrono a determinare la base di computo per il calcolo della percentuale di
riserva di cui all'articolo 25, comma 1, della legge 23 luglio 1991, n. 223.
10. In ogni caso il diritto di precedenza si estingue entro un anno dalla data di cessazione del rapporto di lavoro ed il
lavoratore può esercitarlo a condizione che manifesti in tal senso la propria volontà al datore di lavoro entro tre mesi
dalla data di cessazione del rapporto stesso.
Accanto a queste, che sono vere e proprie esclusioni dal campo di applicazione, ci sono settori per i quali
valgono o discipline specifiche.
Un’altra esclusione, ma non dall’applicazione della legge riguarda la questione dei contratti collettivi (è una
questione che viene ancora dalla legge 56\1987) che già allora potevano derogare all’elenco tassativo
introducendo nuove ipotesi e in più, secondo l’art.23 di quella legge, dovevano mettere dei limiti
quantitativi alle assunzioni a termine: i contratti collettivi stabiliscono quale percentuale rispetto al totale
degli occupati nelle imprese può essere coperta con assunzioni a termine. Ha il senso di mantenere in
equilibro il rapporto fra lavoratori stabili e precari. Anche in presenza di ragioni giustificatrici l’imprenditore
non può procedere ad assunzione a termine se ha già raggiunto il tetto massimo previsto dal contratto
collettivo.
Questi limiti quantitativi possono essere ancora posti dai contratti collettivi (comma 7 art.10) ma sono
esenti dall’applicazione alcuni tipi ci contratti a termine:
• start-up, che si riferiscono all’avvio di nuove attività imprenditoriali
• lavoro di carattere sostitutivo o stagionalità, specifici spettacoli, programmi radiofonici o televisivi,
lavoratori di età superiore a 65 anni.
In questi casi non viene meno la ragione sostitutiva, ma viene meno solamente il tetto massimo.
Scadenza del contratto a termine
Si possono creare tre situazioni diverse regolate in modo diverso:
1) alla cessazione del contratto per scadenza fra le parti prosegua lo scambio della prestazione lavorativa
contro retribuzione, una continuazione del rapporto oltre la scadenza del contratto. È una situazione di
fatto del rapporto oltre la cessazione del contratto. È una situazione non legittima;
2) proroga del contratto a termine, fra le parti si manifesta il consenso alla stipulazione di un nuovo
contratto che costituisce proroga del precedente;
3) stipulazione fra le parti di un nuovo contratto a termine che non costituisce proroga del precedente, ma
è un vero e proprio nuovo contratto a termine.
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Sono tre situazioni diverse previste dall’art.5, che è stato modificato più volte, da ultimo dalla legge
92\2012.
Art. 5. Scadenza del termine e sanzioni Successione dei contratti
1. Se il rapporto di lavoro continua dopo la scadenza del termine inizialmente fissato o successivamente prorogato ai
sensi dell'articolo 4, il datore di lavoro e' tenuto a corrispondere al lavoratore una maggiorazione della retribuzione per
ogni giorno di continuazione del rapporto pari al venti per cento fino al decimo giorno successivo, al quaranta per
cento per ciascun giorno ulteriore.
2. Se il rapporto di lavoro continua oltre il ventesimo trentesimo giorno in caso di contratto di durata inferiore a sei
mesi, nonché decorso il periodo complessivo di cui al comma 4-bis, ovvero oltre il trentesimo cinquantesimo giorno
negli altri casi, il contratto si considera a tempo indeterminato dalla scadenza dei predetti termini.
*…+
1) La continuazione di fatto viene sanzionata, è tollerata una continuazione di fatto per un certo periodo,
ma con l’applicazione di una sanzione di tipo economico perché il datore di lavoro è tenuto alla
maggiorazione della retribuzione. I termini variano in ragione della circostanza della durata del contratto a
termine<6 mesi o >6 mesi. Alla scadenza di questo termine di tolleranza la situazione viene sanzionata
definitivamente attraverso una riqualificazione del contratto in contratto a tempo indeterminato dalla
scadenza del temine di tolleranza. La continuazione di fatto è sanzionata perché cessano le ragioni
temporanee che giustificano l’assunzione a termine.
2) La proroga è regolata dall’art.4.
Art. 4. Disciplina della proroga
1. Il termine del contratto a tempo determinato può essere, con il consenso del lavoratore, prorogato solo quando la
durata iniziale del contratto sia inferiore a tre anni(*). In questi casi la proroga e' ammessa una sola volta e a
condizione che sia richiesta da ragioni oggettive e si riferisca alla stessa attività lavorativa per la quale il contratto è
stato stipulato a tempo determinato. Con esclusivo riferimento a tale ipotesi la durata complessiva del rapporto a
termine non potrà essere superiore ai tre anni.
2. L'onere della prova relativa all'obiettiva esistenza delle ragioni che giustificano l'eventuale proroga del termine
stesso e' a carico del datore di lavoro.
2-bis. Il contratto a tempo determinato di cui all’articolo 1, comma 1-bis, non può essere oggetto di proroga.
(*) questo limite dei tre anni è un limite generale quasi invalicabile. È richiesto che la parti stipulino un
accordo di proroga del precedente contratto con le ragioni giustificative. Inoltre la proroga si deve riferire
alla stessa attività per la quale era stato stipulato l’originario contratto che ora viene prorogato.
Complessivamente fra il contratto precedente e la proroga non si può oltrepassare il limite dei 3 anni.
Si distingue da questa ipotesi , l’ipotesi della riassunzione: la stipulazione di un nuovo contratto.
Comma 3 art.5
Qualora il lavoratore venga riassunto a termine, ai sensi dell'articolo 1, entro un periodo di dieci sessanta giorni dalla
data di scadenza di un contratto di durata fino a sei mesi, ovvero venti novanta giorni dalla data di scadenza di un
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contratto di durata superiore ai sei mesi, il secondo contratto si considera a tempo indeterminato (*). I contratti
collettivi di cui all’articolo 1, comma l-bis, possono prevedere, stabilendone le condizioni, la riduzione dei predetti
periodi, rispettivamente, fino a venti giorni e trenta giorni nei casi in cui l’assunzione a termine avvenga nell’ambito di
un processo organizzativo determinato: dall’avvio di una nuova attività; dal lancio di un prodotto o di un servizio
innovativo; dall’implementazione di un rilevante cambiamento tecnologico; dalla fase supplementare di un
significativo progetto di ricerca e sviluppo; dal rinnovo o dalla proroga di una commessa consistente. In mancanza di
un intervento della contrattazione collettiva, ai sensi del precedente periodo, il Ministero del lavoro e delle politiche
sociali, decorsi dodici mesi dalla data di entrata in vigore della presente disposizione, sentite le organizzazioni sindacali
dei lavoratori e dei datori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, provvede a individuare
le specifiche condizioni in cui, ai sensi del periodo precedente, operano le riduzioni ivi previste. I termini ridotti di cui al
primo periodo trovano applicazione per le attività di cui al comma 4-ter e in ogni altro caso previsto dai contratti
collettivi stipulati ad ogni livello dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano
nazionale. (Legge n. 92/2012) (Legge n. 134/2012)
(*) la legge prevede da sempre che, al fine della stipulazione di un nuovo contratto a termine proveniente
dalle stesse parti, occorra un intervallo di tempo perché la stipulazione immediata di un nuovo contratto a
termine crea una catena di contratti a termine. Questo intervallo è stato molto prolungato dalla legge
92\2012, è un intervallo di 60 o 90 giorni. In senato c’era stata una forte opposizione da parte del PDL ed è
stato trovato un accordo che ha introdotto la possibilità per i contratti collettivi di ridurre il termine a 20 e
30 giorni quando si tratti di ipotesi scritte nel testo dell’art. . A seguito dell’intervento del Decreto Sviluppo
(134\2012) i termini ridotti trovano applicazione per le attività al comma 3, che saranno individuate per
decreto e in ogni altro caso previsto dai contratti collettivi stipulati ad ogni livello dalle organizzazioni
sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, è un allargamento massimo.
La Fornero ha dichiarato che interverrà nuovamente per ridurre ulteriormente questi termini perché da
parte degli industriali è stata sollevata la questione della prossima scadenza di molti contratti a termine che
determinerebbero una situazione grave per i lavoratori ai quali mancherebbe la possibilità di essere
riassunti in tempi brevi.
Può accedere che le parti non rispettino le regole dell’intervallo. Se le parti non rispettano alcun intervallo il
contratto si intende a tempo indeterminato fin dalla stipulazione del primo contratto.
Comma 4: Quando si tratta di due assunzioni successive a termine, intendendosi per tali quelle effettuate
senza alcuna soluzione di continuità, il rapporto di lavoro si considera a tempo indeterminato dalla data di
stipulazione del primo contratto.
Senza soluzione di continuità vuole dire che la continuità non è mai stata interrotta: il nuovo contratto a
termine è succeduto immediatamente al contratto scaduto. Quando si verifica questa situazione il
contratto è a tempo indeterminato fin dall’inizio.
Comma 4 bis: Ferma restando la disciplina della successione di contratti di cui ai commi precedenti, e fatte
salve diverse disposizioni di contratti collettivi stipulati a livello nazionale, territoriale o aziendale con le
organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale qualora per effetto di
successione di contratti a termine per lo svolgimento di mansioni equivalenti il rapporto di lavoro fra lo
stesso datore di lavoro e lo stesso lavoratore abbia complessivamente superato i trentasei mesi comprensivi
di proroghe e rinnovi, indipendentemente dai periodi di interruzione che intercorrono tra un contratto e
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l’altro, il rapporto di lavoro si considera a tempo indeterminato ai sensi del comma 2; ai fini del computo del
periodo massimo di trentasei mesi si tiene altresì conto dei periodi di missione aventi ad oggetto mansioni
equivalenti, svolti fra i medesimi soggetti (*), ai sensi del comma l-bis dell’articolo 1 del presente decreto e
del comma 4 dell’articolo 20 del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276, e successive modificazioni,
inerente alla somministrazione di lavoro a tempo determinato.(**) In deroga a quanto disposto dal primo
periodo del presente comma, un ulteriore successivo contratto a termine fra gli stessi soggetti può essere
stipulato per una sola volta, a condizione che la stipula avvenga presso la direzione provinciale del lavoro
competente per territorio e con l’assistenza di un rappresentante di una delle organizzazioni sindacali
comparativamente più rappresentative sul piano nazionale cui il lavoratore sia iscritto o conferisca
mandato. Le organizzazioni sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro comparativamente più
rappresentative sul piano nazionale stabiliscono con avvisi comuni la durata del predetto ulteriore
contratto. In caso di mancato rispetto della descritta procedura, nonché nel caso di superamento del
termine stabilito nel medesimo contratto, il nuovo contratto si considera a tempo indeterminato.
(*) al di fuori del caso in cui il nuovo contratto sia stato stipulato senza soluzione di continuità, in tutti gli
altri casi si sanziona con la riqualificazione a tempo indeterminato con la scadenza dei relativi termini dalla
stipulazione del nuovo contratto.
Bisogna aggiungere il limite del superamento del limite massimo dei 36 mesi comprensivo di tutto: la
sanzione è ancora riqualificazione alla scadenza dei 36 mesi del contratto. È una regola inderogabile salvo
una deroga (**) : è possibile purché sia prevista assicurazione e sia stipulato presso la direzione territoriale
del lavoro (…) . La deroga è contenuta nella seconda parte del comma 4 bis.
Diritto di precedenza:
Comma 4-quater. Il lavoratore che, nell’esecuzione di uno o più contratti a termine presso la stessa azienda,
abbia prestato attività lavorativa per un periodo superiore a sei mesi ha diritto di precedenza fatte salve
diverse disposizioni di contratti collettivi stipulati a livello nazionale, territoriale o aziendale con le
organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale nelle assunzioni a
tempo indeterminato effettuate dal datore di lavoro entro i successivi dodici mesi con riferimento alle
mansioni già espletate in esecuzione dei rapporti a termine.
Comma 4-quinquies. Il lavoratore assunto a termine per lo svolgimento di attività stagionali ha diritto di
precedenza, rispetto a nuove assunzioni a termine da parte dello stesso datore di lavoro per le medesime
attività stagionali.
Comma 4-sexies. Il diritto di precedenza di cui ai commi 4-quater e 4-quinquies può essere esercitato a
condizione che il lavoratore manifesti in tal senso la propria volontà al datore di lavoro entro
rispettivamente sei mesi e tre mesi dalla data di cessazione del rapporto stesso e si estingue entro un anno
dalla data di cessazione del rapporto di lavoro. [è un diritto condizionato a un doppio termine].
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Trattamento dei lavoratori a termine
È vero che il contratto di lavoro a termine è spesso definito come lavoro precario, ma bisogna tenere chiaro
in mente che durante lo svolgimento del rapporto di lavoro si ha una condizione stabile perché il lavoratore
può essere licenziato prima del termine del contratto solo se si ha una giusta causa.
Durante lo svolgimento del rapporto di lavoro vale il principio di non discriminazione: al lavoratore è
garantita parità di trattamento rispetto al lavoratore che svolge mansioni equivalenti ma a tempo
indeterminato.
Art.6 Principio di non discriminazione
1. Al prestatore di lavoro con contratto a tempo determinato spettano le ferie e la gratifica natalizia o la
tredicesima mensilità, il trattamento di fine rapporto e ogni altro trattamento in atto nell'impresa per i
lavoratori con contratto a tempo indeterminato comparabili (*), intendendosi per tali quelli inquadrati nello
stesso livello in forza dei criteri di classificazione stabiliti dalla contrattazione collettiva, ed in proporzione al
periodo lavorativo prestato sempre che non sia obiettivamente incompatibile con la natura del contratto a
termine. (**)
(*) il lavoratore comparabile è un lavoratore a tempo indeterminato che svolge mansioni equivalenti a
quelle del lavoratore a termine.
(**) qui c’è sotto un problema: alcuni trattamenti restano fuori e non vengono applicati ai lavoratori a
termine perché sono dei trattamenti nei quali rileva ad esempio l’anzianità di servizio, il fatto che il
lavoratore sia da più tempo alle dipendenze e che in questo maggior tempo abbia acquisito alcune
caratteristiche professionali non acquisibili dal lavoratore a termine, che è inserito precariamente
nell’organizzazione del lavoro. Nella contrattazione collettiva troviamo quindi dei trattamenti che non
vengono applicati ai lavoratori a termine, sono quelli nei quali la ragione dell’esclusione è la maggior durata
del contratto a tempo indeterminato rispetto al contratto a termine, o meglio la precarietà dell’inserimento
del lavoratore.
Per il resto ha diritto a tutti i diritti e anche all’informazione e alla formazione oltre che la tutela della salute
e della sicurezza. Lo prevede la direttiva ed è stata una delle ragioni che hanno giustificato la nuova
disciplina del contratto a termine perché la vecchia disciplina non lo prevedeva. Non sono tuttavia diritti
riconosciuti pienamente, ma sono diritti limitati e condizionati.
Art. 7. Formazione
1. Il lavoratore assunto con contratto a tempo determinato dovrà ricevere una formazione sufficiente ed
adeguata alle caratteristiche delle mansioni oggetto del contratto, al fine di prevenire rischi specifici
connessi alla esecuzione del lavoro. (*)
2. I contratti collettivi nazionali di lavoro stipulati dai sindacati comparativamente più rappresentativi
possono prevedere modalità e strumenti diretti ad agevolare l'accesso dei lavoratori a tempo determinato
ad opportunità di formazione adeguata, per aumentarne la qualificazione, promuoverne la carriera e
migliorarne la mobilità occupazionale.
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(*) qui non è la formazione professionale alla quale ha diritto ma è la formazione specifica che riguarda la
tutela della sua formazione e della sua sicurezza. Ogni lavoratore deve essere formato per conoscere i rischi
e deve essere formato in modo tale da poterli prevenire attraverso le misure obbligate per tutelare la
propria integrità fisica.
(**) è un diritto debole perché deve essere previsto nei CCN e deve essere prevista una possibilità di
partecipare a qualche corso di formazione. Rispetto alla direttiva comunitaria è un diritto sancito
debolmente.
Ugualmente debole è la disposizione relativa al diritto di informazione, che viene sempre dalla direttiva
comunitaria e che dovrebbe essere un diritto non condizionato e pienamente garantito.
Art. 9. Informazioni
1. I contratti collettivi nazionali di lavoro stipulati dai sindacati comparativamente più rappresentativi
definiscono le modalità per le informazioni da rendere ai lavoratori a tempo determinato circa i posti
vacanti che si rendessero disponibili nell'impresa, in modo da garantire loro le stesse possibilità di ottenere
posti duraturi che hanno gli altri lavoratori. (*)
2. I medesimi contratti collettivi nazionali di lavoro definiscono modalità e contenuti delle informazioni da
rendere alle rappresentanze dei lavoratori in merito al lavoro a tempo determinato nelle aziende.(**)
(*) l’informazione qui i riferisce soltanto alla disponibilità dei posti di lavoro a tempo indeterminato. Diritto
che secondo la direttiva deve essere pienamente garantito e che qui invece è condizionato dalla previsione
dei CCN.
(**) il diritto di informazione sindacale è previsto dalle direttive comunitarie e anche qui la previsione è
molto debole perché rimanda ai contratti collettivi la disciplina dell’informazione sindacale, che però
secondo alcuni limiti dimensionali dell’impresa deve essere comunque data, perché i rappresentanti
sindacali nei luoghi di lavoro (RSA e RSU) devono conoscere l’andamento delle assunzioni a termine.
Quando sia violato l’art. 6, il principio di non discriminazione, il datore di lavoro è punito anche con sanzioni
pecuniarie amministrative:
Art. 12. Sanzioni
1. Nei casi di inosservanza degli obblighi derivanti dall'articolo 6, il datore di lavoro e' punito con la sanzione
amministrativa da L. 50.000 (pari a 25,82 euro) a L. 300.000 (pari a 154,94 euro). Se l'inosservanza si
riferisce a più di cinque lavoratori, si applica la sanzione amministrativa da L. 300.000 (pari a 154,94 euro) a
L. 2.000.000 (pari a 1.032,91 euro).
05\11\2012 Le molestie sono ricomprese nella discriminazione, ma sono nozioni distinte che però vengono trattate come se fossero discriminazione. La legge le definisce in relazione alla trasposizione della normativa comunitaria, sono comportamenti che non ledono l’uguaglianza, ma la dignità e la libertà
delle persone, sono lesioni di diritti assoluti diversi dall’eguaglianza. Il risvolto pratico è che alle molestie di applica l’apparato di tutela delle
discriminazioni che consiste non solo di un apparato sanzionatorio, ma anche strumentale di carattere istituzionale che ha notevole importanza. Per quanto riguarda il diritto antidiscriminatorio, fattori di discriminazione diversi dal genere che hanno rilievo particolare sono la razza e l’origine
etnica, regolati dalla direttiva comunitaria 2000\43 trasposta con decreto legislativo 215\2003 e successive modifiche che sono state necessarie perché
la commissione aveva aperto delle procedure di infrazione contro l’Italia per scorretta trasposizione della direttiva. Questa materia era già regolata dal T.U. del 1998 e c’era un problema di combinazione di queste due normative. Discriminazione di genere
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Ci soffermiamo su questo argomento per tre ragioni:
• carattere storico: è la disciplina più antica, il termine “genere” allude alla dimensione sociale. L’appartenenza al genere femminile + considerato un
fattore in più di discriminazione, nel senso che è un fattore trasversale a tutti gli altri fattori di discriminazione. Per la normativa di antidiscriminazione del genere è di gran lunga la più ricca di contenuti. [Storia nel diritto italiano del divieto di discriminazione per ragioni di genere: vedere dispense!!!] L’art. 37 Cost. è una disposizione voluta le donne elette nell’assemblea costituente.
L’art.37 primo comma si occupa della parità salariale e di trattamento fra lavoratori e lavoratrici: “La donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore.”; è una specificazione del principio di eguaglianza dell’art.3 portato dentro la disciplina
del lavoro. “Le condizioni di lavoro devono consentire l'adempimento della sua essenziale funzione familiare e assicurare alla madre e al bambino una speciale adeguata protezione.” Mette insieme da una parte la parità fra uomini e donne nell’ambito del lavoro e dall’altra la speciale protezione per le lavoratrici, sembrano in
contraddizione ma non lo sono, perché è del tutto evidente che non si può intendere la parità in modo meccanico e formalistico e se ci sono delle esigenze di tutela per una condizione moralmente rilevante questa tutela deve essere accordata.
Il problema è che nella parte che riguarda la speciale protezione delle lavoratrici si mettono insieme due cose diverse: la tutela della maternità (e non
c’è dubbio che la condizione della lavoratrice madre sia una condizione che richiede una speciale tutela per la particolare debolezza e anche perché c’è da proteggere un rapporto che si crea fra la donna e suo figlio nel periodo in cui la donna è gestante e nella fase successiva, in questo periodo deve
essere protetta perché il lavoro non è compatibile con la protezione di questo rapporto) e l’adempimento della funzione familiare.
L’art. 37 è stato riletto nel senso della valorizzazione del ruolo dei genitori e nella aspirazione nei fatti ma anche nel diritto alla cosiddetta conciliazione condivisa tra vita professionale e vita familiare fra i genitori in modo equo. Il percorso di attuazione di questo articolo è ancora in corso,
l’inizio è cominciato separando la parità dalla protezione. Il percorso della protezione ha preso la strada fin da subito della tutela della maternità, la
prima legge risale al 1950 ed è la riforma di una legge del 1934, oggi c’è stato anche un intervento della legge 92\2012. Il percorso dell’eguaglianza è stato davvero lungo perché malgrado l’inizio dell’art.37 sulla parità salariale (principio che era già stato contenuto
nell’art.119 nel Trattato Istitutivo della CEE), questa non era applicata. La retribuzione è affidata alla contrattazione collettiva che, nel dopoguerra, è
diventata di diritto comune. Questa conteneva forti discriminazioni salariali, sia dirette che indirette. La parità dei salari è stata introdotta per la prima volta, in Italia, con gli accordi interconfederali del 1960, da allora è iniziata una sorta di ripulitura della contrattazione collettiva fino all’adozione di
sistemi di classificazione comune che la direttiva 75\117 sulla parità salariale ha reso obbligatori. Non solo devono essere sistemi comuni in cui non si
distinguono mansioni femminili e maschili, ma devono anche essere formulati in modo da rimuovere possibili discriminazioni occulte che possono contenere.
Della parità salariale si è poi occupata la Legge di Parità.
Accanto alla realizzazione tardiva della parità salariale era rimasta in vigore, fino a quando non si era reso necessario trasporre le direttive comunitarie del ’75 e del 76-77, tutta una legislazione che ancora differenziava fortemente il trattamento delle donne rispetto agli uomini: era la vecchia
legislazione fascista della tutela del lavoro femminile fatto di divieti di occupazione delle donne in alcune attività e della legislazione previdenziale
che prevedeva trattamenti deteriori per le donne. A tutto questo ha posto rimedio la prima legge italiana importante intervenuta, legge 903\1977 “Legge di parità”. Questa legge ha trasposto le
direttive, introdotto un divieto di discriminazione diretta e indiretta a tutto campo, ha rimosso tutte le vecchie norme di tutela eliminando le protezioni
considerate non più compatibili con il principio della parità fra uomini e donne nel lavoro. Resiste naturalmente la tutela della maternità poiché questa non è un eccezione alla parità, ha una sua specifica giustificazione. La legge di parità è oggi largamente superata, benché alcune delle sue disposizioni restino in vigore, perché è intervenuta nel 1991 una legge
(125\1991) sulle azioni positive in favore delle lavoratrici che ha in parte cambiato l’ottica della legge di parità, modificata poi nel 2000, finalmente
nel 2006 è stato emanato il decreto legislativo 198\2006 che è noto come “codice delle pari opportunità” ulteriormente modificato nel 2010 per dare
attuazione all’ultima direttiva 2006\54 che rimette insieme tutto il diritto antidiscriminatorio per ragioni di genere. Troviamo quindi una disciplina che
si forma di più stratificazioni. Nel codice delle pari opportunità 198\2006 e successive modifiche e integrazioni nelle disposizioni che vanno dall’art. 25 in poi (dalla
discriminazione diretta e indiretta) ricaviamo da un lato divieti di discriminazione, dall’altro la parte più specificamente riferita alle azioni positive
che è contenuta però nella prima parte di questo codice. Tutela contro le discriminazioni Consistono da un lato di potersi avvalere di un apparato istituzionale, dall’altro di potersi avvalere di azioni in giudizio e, in caso di successo, di potersi avvalere di sanzioni di condanna di chi ha discriminato proporzionate e dissuasive, deterrenti.
L’apparato istituzionale è importante, è una lacuna della legge di parità non aver previsto nulla, laddove esistevano già esperienze europee importanti
di apparati dedicati alla materia della parità fra uomini e donne. Il modello di riferimento era all’epoca, nel 1977, la Gran Bretagna dove esistevano due leggi, una per la parità fra uomini e donne e una per la discriminazione razziale. Nella legge del ’77 non era previsto nulla, venne istituito, al di
fuori della previsione della legge, all’inizio degli anni ’80 presso il ministero del lavoro, il comitato nazionale pari opportunità che è stato il primo
organismo che si è occupato di questa materia e dal quale è nata la proposta di legge del 1991 sulle azioni positive. Il comitato di pari opportunità è stato poi previsto dalla legge 1991 n° 125 sulle azioni positive. Questo comitato ha sede presso il ministero del
lavoro, è presieduto dal ministro del lavoro con un vicepresidente eletto internamente al comitato, che è espressione del comitato, nel quale sono
presenti sia il mondo delle associazioni femminili, sia le organizzazioni dei datori di lavoro, cooperative e sindacati. È largamente rappresentativo, funziona attraverso un organismo tecnico, il collegio istruttorio, quello che elabora gli atti di questo comitato. Il comitato ha funzioni essenzialmente
consultive ma ha anche poteri di indagine e intervento. Ha funzione importante per quanto riguarda le azioni positive e il loro finanziamento. Accanto al comitato nazionale delle pari opportunità funziona una rete molto importante che è quella delle consigliere o consiglieri di parità. Sono figure diffuse e la rete è molto importante perché è a queste figure che è affidata l’azione di monitoraggio e tutela di coloro i quali ritengano di essere
stati discriminati.
C’è una consigliera nazionale di parità, che fa parte del comitato nazionale delle pari opportunità, che ha le funzioni di ordine più generali, a questa consigliera nazionale fa capo la rete delle consigliere: regionali di parità e consigliere provinciali. È una rete molto diffusa proprio per assicurare una
presenza nel territorio di figure istituzionali capaci di essere vicini alle realtà di discriminazione nel lavoro.
Sono di nomina ministeriale, un problema è quello della loro indipendenza e di assicurare le risorse per svolgere le funzioni concrete (ad esempio promuovendo una azione in giudizio).
Questa è la rete istituzionale, alla quale si aggiunge la serie infinita di comitati e commissioni che esistono nelle realtà del lavoro, delle aziende e P.A.
centrali e locai, previste dai contratti collettivi di categoria e sono da essi regolati (quindi variano in ragione del variare dei contratti collettivi). Tutela in giudizio
Per quanto riguarda l’apparato non istituzionale di tutela giudiziaria si ha un apparato complesso.
68 Diritto del lavoro 2012 – appunti delle lezioni - Cristina Fenoglio
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In Italia viene dalla legge del 1991 ma c’è anche la direttiva comunitaria successiva del ’97 che riguarda il problema dell’onere della prova che è un
punto decisivo per la tutela in giudizio contro le discriminazioni.
la regola generale in materia di onere della prova prevede che chi promuove l’azione in giudizio, rivendicando un proprio diritto deve provare l’esistenza di questo diritto: deve fornire al giudice gli elementi di prova di carattere documentale o testimoniale o ambedue, che gli forniscano
elementi sufficienti di convincimento del fondamento della pretesa di colui che agisce in giudizio. L’attore deve provare il fondamento della propria
pretesa. Il convenuto in giudizio eccependo con prova documentale o testimoniale che il diritto che l’attore pretende di avere non è fondato, perché fornisce prova contraria delle asserzioni dell’attore.
Questa regola subisce una variazione importante nelle cause in materia di discriminazione, nelle quali l’onere della prova è alleggerito per chi ricorre
in giudizio perché la discriminazione è difficile da provare: la discriminazione guarda all’effetto, è una nozione oggettiva, se c’è il trattamento pregiudizievole rispetto agli appartenenti all’altro genere. Dover guardare agli effetti e non all’intento di chi ha agito ovviamente rende la prova meno
pesante. Pur tenendo conto dell’oggettività della nozione di discriminazione resta la difficoltà della prova. A questo supplisce la disciplina dell’onere
della prova per quanto riguarda la discriminazione: art.40 codice delle pari opportunità, DL 198\2006 e successive modifiche e integrazioni Onere della prova (legge 10 aprile 1991, n. 125, articolo 4, comma 6)
1. Quando il ricorrente fornisce elementi di fatto, desunti anche da dati di carattere statistico relativi alle assunzioni, ai regimi retributivi,
all'assegnazione di mansioni e qualifiche, ai trasferimenti, alla progressione in carriera ed ai licenziamenti, idonei a fondare, in termini precisi e concordanti, la presunzione dell'esistenza di atti, patti o comportamenti discriminatori in ragione del sesso, spetta al convenuto l'onere della prova
sull'insussistenza della discriminazione. Siamo di fronte a una parziale inversione dell’onere della prova, chi agisce in giudizio asserendo di essere stato discriminato deve fornire al giudice
una serie di dati, elementi precisi e concordanti, possono essere dati statistici. Se il giudice si convince della presenza di discriminazione, l’onere della
prova si riversa sul convenuto (deve provare di non aver discriminato, deve dare la prova contraria). Se si tratta di discriminazione indiretta il
convenuto può addurre le giustificazioni che escludono la discriminazione indiretta: il requisito è essenziale è comunque il mezzo proporzionato e necessario e l’obiettivo legittimo. Se c’è stata discriminazione diretta la prova è davvero impervia. Le azioni in giudizio sono molte ma questo complesso apparato istituzionale non si riflette nella casistica giudiziaria (non si fa causa per
discriminazione). Si distinguono in azioni individuali e collettive.
L’azione individuale è promossa dal singolo lavoratore o dalla singola lavoratrice che ritenga di essere stato\a discriminato\a. Il singolo lavoratore o la
singola lavoratrice può delegare a promuovere l’azione la consigliera provinciale di parità che può agire per suo conto su delega in giudizio. Questa azione in giudizio può essere proposta con rito ordinario o in via di urgenza: qui viene adottato il modello dell’art. 28 dello SDL (repressione della
condotta antisindacale), è un rito efficiente che consente la decisione nel giro di tempi brevissimi.
L’azione collettiva è una azione pubblica, la chiamiamo collettiva perché è una azione che può essere esperita nei confronti di discriminazioni dirette o indirette di carattere collettivo e anche quando non siano individuabili in modo immediato e indiretto le lavoratrici e i lavoratori lesi dalla
discriminazione. Significa che e due azioni, individuale e collettiva, non si sovrappongono, sono due fattispecie diverse: una è una singola
discriminazione, l’altra è una discriminazione in cui non sono neanche individuati chi sono i soggetti discriminati, è solo una discriminazione di carattere collettivo di dimensione nazionale\regionale.
Prima dell’azione in giudizio la consigliera di parità può promuovere un tentativo di conciliazione: può rivolgersi all’autore della discriminazione
proponendo di predisporre un piano di rimozione delle discriminazioni accertate. Se la consigliera ritiene idoneo il piano proposto promuove il tentativo di conciliazione, altrimenti se il piano non viene predisposto o se non è idoneo, la consigliera promuove la azione in giudizio per la quale si
può usare anche il procedimento in via di urgenza e da luogo ad un provvedimento del giudice ed è il giudice questa volta che ordina all’autore della
discriminazione di definire il piano di rimozione della discriminazione accertate e provvede anche al risarcimento dei danni dei soggetti discriminati. Per quanto riguarda l’apparato sanzionatorio, le sanzioni sono state ritoccate dal decreto legislativo 5\2010 che ha quindi modificato il codice delle
pari opportunità del 2006 perché non adeguate ai criteri della direttiva 2006\54.
Per prima cosa tutti gli atti e patti discriminatori sono nulli, la nullità comporta la restituzione, il ripristino della situazione precedente. Anche gli accordi che siano intervenuti fra datori di lavoro e rappresentanti sindacali o altri accordi stipulati con gruppi di lavoratori sono nulli se contengono
discriminazioni. Queste sono le sanzioni civili, alle quali si accompagnano le sanzioni amministrative; nell’inosservanza del divieto di discriminazione nell’accesso al lavoro, nella formazione (…) si ha un’ammenda da 200 a 1500 euro.
Altre sanzioni sono previste in caso di inottemperanza della sentenza che accerta l’esistenza, sono sanzioni previste nel codice penale perché gli ordini
del giudice sono ordini che provengono da una istituzione fondamentale dello stato e devono essere rispettati, chiunque non rispetti l’ordine del giudice è punito con sanzione penale pecuniaria. Ci sono casi però in cui sono previste sanzioni penali diverse e aggiuntive rispetto a quella generale
contenuta nell’art.659 cod. pen. In questo caso i divieti di violazione dell’ordine giudice in materia di discriminazione sono puniti con sanzioni penali
e eventualmente l’arresto.
05\11\2012
Le molestie sono ricomprese nella discriminazione, ma sono nozioni distinte che però vengono trattate
come se fossero discriminazione. La legge le definisce in relazione alla trasposizione della normativa
comunitaria, sono comportamenti che non ledono l’uguaglianza, ma la dignità e la libertà delle persone,
sono lesioni di diritti assoluti diversi dall’eguaglianza. Il risvolto pratico è che alle molestie di applica
69 Diritto del lavoro 2012 – appunti delle lezioni - Cristina Fenoglio
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l’apparato di tutela delle discriminazioni che consiste non solo di un apparato sanzionatorio, ma anche
strumentale di carattere istituzionale che ha notevole importanza.
Per quanto riguarda il diritto antidiscriminatorio, fattori di discriminazione diversi dal genere che hanno
rilievo particolare sono la razza e l’origine etnica, regolati dalla direttiva comunitaria 2000\43 trasposta con
decreto legislativo 215\2003 e successive modifiche che sono state necessarie perché la commissione
aveva aperto delle procedure di infrazione contro l’Italia per scorretta trasposizione della direttiva.
Questa materia era già regolata dal T.U. del 1998 e c’era un problema di combinazione di queste due
normative.
Discriminazione di genere
Ci soffermiamo su questo argomento per tre ragioni:
• carattere storico: è la disciplina più antica, il termine “genere” allude alla dimensione sociale.
L’appartenenza al genere femminile + considerato un fattore in più di discriminazione, nel senso che è un
fattore trasversale a tutti gli altri fattori di discriminazione. Per la normativa di antidiscriminazione del
genere è di gran lunga la più ricca di contenuti.
[Storia nel diritto italiano del divieto di discriminazione per ragioni di genere: vedere dispense!!!]
L’art. 37 Cost. è una disposizione voluta le donne elette nell’assemblea costituente.
L’art.37 primo comma si occupa della parità salariale e di trattamento fra lavoratori e lavoratrici: “La donna
lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore.”; è una
specificazione del principio di eguaglianza dell’art.3 portato dentro la disciplina del lavoro.
“Le condizioni di lavoro devono consentire l'adempimento della sua essenziale funzione familiare e
assicurare alla madre e al bambino una speciale adeguata protezione.”
Mette insieme da una parte la parità fra uomini e donne nell’ambito del lavoro e dall’altra la speciale
protezione per le lavoratrici, sembrano in contraddizione ma non lo sono, perché è del tutto evidente che
non si può intendere la parità in modo meccanico e formalistico e se ci sono delle esigenze di tutela per una
condizione moralmente rilevante questa tutela deve essere accordata.
Il problema è che nella parte che riguarda la speciale protezione delle lavoratrici si mettono insieme due
cose diverse: la tutela della maternità (e non c’è dubbio che la condizione della lavoratrice madre sia una
condizione che richiede una speciale tutela per la particolare debolezza e anche perché c’è da proteggere
un rapporto che si crea fra la donna e suo figlio nel periodo in cui la donna è gestante e nella fase
successiva, in questo periodo deve essere protetta perché il lavoro non è compatibile con la protezione di
questo rapporto) e l’adempimento della funzione familiare.
L’art. 37 è stato riletto nel senso della valorizzazione del ruolo dei genitori e nella aspirazione nei fatti ma
anche nel diritto alla cosiddetta conciliazione condivisa tra vita professionale e vita familiare fra i genitori in
modo equo. Il percorso di attuazione di questo articolo è ancora in corso, l’inizio è cominciato separando la
70 Diritto del lavoro 2012 – appunti delle lezioni - Cristina Fenoglio
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parità dalla protezione. Il percorso della protezione ha preso la strada fin da subito della tutela della
maternità, la prima legge risale al 1950 ed è la riforma di una legge del 1934, oggi c’è stato anche un
intervento della legge 92\2012.
Il percorso dell’eguaglianza è stato davvero lungo perché malgrado l’inizio dell’art.37 sulla parità salariale
(principio che era già stato contenuto nell’art.119 nel Trattato Istitutivo della CEE), questa non era
applicata. La retribuzione è affidata alla contrattazione collettiva che, nel dopoguerra, è diventata di diritto
comune. Questa conteneva forti discriminazioni salariali, sia dirette che indirette. La parità dei salari è stata
introdotta per la prima volta, in Italia, con gli accordi interconfederali del 1960, da allora è iniziata una sorta
di ripulitura della contrattazione collettiva fino all’adozione di sistemi di classificazione comune che la
direttiva 75\117 sulla parità salariale ha reso obbligatori. Non solo devono essere sistemi comuni in cui non
si distinguono mansioni femminili e maschili, ma devono anche essere formulati in modo da rimuovere
possibili discriminazioni occulte che possono contenere.
Della parità salariale si è poi occupata la Legge di Parità.
Accanto alla realizzazione tardiva della parità salariale era rimasta in vigore, fino a quando non si era reso
necessario trasporre le direttive comunitarie del ’75 e del 76-77, tutta una legislazione che ancora
differenziava fortemente il trattamento delle donne rispetto agli uomini: era la vecchia legislazione fascista
della tutela del lavoro femminile fatto di divieti di occupazione delle donne in alcune attività e della
legislazione previdenziale che prevedeva trattamenti deteriori per le donne.
A tutto questo ha posto rimedio la prima legge italiana importante intervenuta, legge 903\1977 “Legge di
parità”. Questa legge ha trasposto le direttive, introdotto un divieto di discriminazione diretta e indiretta a
tutto campo, ha rimosso tutte le vecchie norme di tutela eliminando le protezioni considerate non più
compatibili con il principio della parità fra uomini e donne nel lavoro. Resiste naturalmente la tutela della
maternità poiché questa non è un eccezione alla parità, ha una sua specifica giustificazione.
La legge di parità è oggi largamente superata, benché alcune delle sue disposizioni restino in vigore, perché
è intervenuta nel 1991 una legge (125\1991) sulle azioni positive in favore delle lavoratrici che ha in parte
cambiato l’ottica della legge di parità, modificata poi nel 2000, finalmente nel 2006 è stato emanato il
decreto legislativo 198\2006 che è noto come “codice delle pari opportunità” ulteriormente modificato nel
2010 per dare attuazione all’ultima direttiva 2006\54 che rimette insieme tutto il diritto antidiscriminatorio
per ragioni di genere. Troviamo quindi una disciplina che si forma di più stratificazioni.
Nel codice delle pari opportunità 198\2006 e successive modifiche e integrazioni nelle disposizioni che
vanno dall’art. 25 in poi (dalla discriminazione diretta e indiretta) ricaviamo da un lato divieti di
discriminazione, dall’altro la parte più specificamente riferita alle azioni positive che è contenuta però nella
prima parte di questo codice.
Tutela contro le discriminazioni
Consistono da un lato di potersi avvalere di un apparato istituzionale, dall’altro di potersi avvalere di azioni
in giudizio e, in caso di successo, di potersi avvalere di sanzioni di condanna di chi ha discriminato
proporzionate e dissuasive, deterrenti.
71 Diritto del lavoro 2012 – appunti delle lezioni - Cristina Fenoglio
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L’apparato istituzionale è importante, è una lacuna della legge di parità non aver previsto nulla, laddove
esistevano già esperienze europee importanti di apparati dedicati alla materia della parità fra uomini e
donne. Il modello di riferimento era all’epoca, nel 1977, la Gran Bretagna dove esistevano due leggi, una
per la parità fra uomini e donne e una per la discriminazione razziale. Nella legge del ’77 non era previsto
nulla, venne istituito, al di fuori della previsione della legge, all’inizio degli anni ’80 presso il ministero del
lavoro, il comitato nazionale pari opportunità che è stato il primo organismo che si è occupato di questa
materia e dal quale è nata la proposta di legge del 1991 sulle azioni positive.
Il comitato di pari opportunità è stato poi previsto dalla legge 1991 n° 125 sulle azioni positive. Questo
comitato ha sede presso il ministero del lavoro, è presieduto dal ministro del lavoro con un vicepresidente
eletto internamente al comitato, che è espressione del comitato, nel quale sono presenti sia il mondo delle
associazioni femminili, sia le organizzazioni dei datori di lavoro, cooperative e sindacati. È largamente
rappresentativo, funziona attraverso un organismo tecnico, il collegio istruttorio, quello che elabora gli atti
di questo comitato. Il comitato ha funzioni essenzialmente consultive ma ha anche poteri di indagine e
intervento. Ha funzione importante per quanto riguarda le azioni positive e il loro finanziamento.
Accanto al comitato nazionale delle pari opportunità funziona una rete molto importante che è quella delle
consigliere o consiglieri di parità. Sono figure diffuse e la rete è molto importante perché è a queste figure
che è affidata l’azione di monitoraggio e tutela di coloro i quali ritengano di essere stati discriminati.
C’è una consigliera nazionale di parità, che fa parte del comitato nazionale delle pari opportunità, che ha le
funzioni di ordine più generali, a questa consigliera nazionale fa capo la rete delle consigliere: regionali di
parità e consigliere provinciali. È una rete molto diffusa proprio per assicurare una presenza nel territorio di
figure istituzionali capaci di essere vicini alle realtà di discriminazione nel lavoro.
Sono di nomina ministeriale, un problema è quello della loro indipendenza e di assicurare le risorse per
svolgere le funzioni concrete (ad esempio promuovendo una azione in giudizio).
Questa è la rete istituzionale, alla quale si aggiunge la serie infinita di comitati e commissioni che esistono
nelle realtà del lavoro, delle aziende e P.A. centrali e locai, previste dai contratti collettivi di categoria e
sono da essi regolati (quindi variano in ragione del variare dei contratti collettivi).
Tutela in giudizio
Per quanto riguarda l’apparato non istituzionale di tutela giudiziaria si ha un apparato complesso.
In Italia viene dalla legge del 1991 ma c’è anche la direttiva comunitaria successiva del ’97 che riguarda il
problema dell’onere della prova che è un punto decisivo per la tutela in giudizio contro le discriminazioni.
la regola generale in materia di onere della prova prevede che chi promuove l’azione in giudizio,
rivendicando un proprio diritto deve provare l’esistenza di questo diritto: deve fornire al giudice gli
elementi di prova di carattere documentale o testimoniale o ambedue, che gli forniscano elementi
sufficienti di convincimento del fondamento della pretesa di colui che agisce in giudizio. L’attore deve
provare il fondamento della propria pretesa. Il convenuto in giudizio eccependo con prova documentale o
72 Diritto del lavoro 2012 – appunti delle lezioni - Cristina Fenoglio
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testimoniale che il diritto che l’attore pretende di avere non è fondato, perché fornisce prova contraria
delle asserzioni dell’attore.
Questa regola subisce una variazione importante nelle cause in materia di discriminazione, nelle quali
l’onere della prova è alleggerito per chi ricorre in giudizio perché la discriminazione è difficile da provare: la
discriminazione guarda all’effetto, è una nozione oggettiva, se c’è il trattamento pregiudizievole rispetto
agli appartenenti all’altro genere. Dover guardare agli effetti e non all’intento di chi ha agito ovviamente
rende la prova meno pesante. Pur tenendo conto dell’oggettività della nozione di discriminazione resta la
difficoltà della prova. A questo supplisce la disciplina dell’onere della prova per quanto riguarda la
discriminazione:
Art.40 codice delle pari opportunità, DL 198\2006 e successive modifiche e integrazioni
Onere della prova (legge 10 aprile 1991, n. 125, articolo 4, comma 6)
1. Quando il ricorrente fornisce elementi di fatto, desunti anche da dati di carattere statistico relativi alle
assunzioni, ai regimi retributivi, all'assegnazione di mansioni e qualifiche, ai trasferimenti, alla progressione
in carriera ed ai licenziamenti, idonei a fondare, in termini precisi e concordanti, la presunzione
dell'esistenza di atti, patti o comportamenti discriminatori in ragione del sesso, spetta al convenuto l'onere
della prova sull'insussistenza della discriminazione.
Siamo di fronte a una parziale inversione dell’onere della prova, chi agisce in giudizio asserendo di essere
stato discriminato deve fornire al giudice una serie di dati, elementi precisi e concordanti, possono essere
dati statistici. Se il giudice si convince della presenza di discriminazione, l’onere della prova si riversa sul
convenuto (deve provare di non aver discriminato, deve dare la prova contraria). Se si tratta di
discriminazione indiretta il convenuto può addurre le giustificazioni che escludono la discriminazione
indiretta: il requisito è essenziale è comunque il mezzo proporzionato e necessario e l’obiettivo legittimo.
Se c’è stata discriminazione diretta la prova è davvero impervia.
Le azioni in giudizio sono molte ma questo complesso apparato istituzionale non si riflette nella casistica
giudiziaria (non si fa causa per discriminazione).
Si distinguono in azioni individuali e collettive.
L’azione individuale è promossa dal singolo lavoratore o dalla singola lavoratrice che ritenga di essere
stato\a discriminato\a. Il singolo lavoratore o la singola lavoratrice può delegare a promuovere l’azione la
consigliera provinciale di parità che può agire per suo conto su delega in giudizio. Questa azione in giudizio
può essere proposta con rito ordinario o in via di urgenza: qui viene adottato il modello dell’art. 28 dello
SDL (repressione della condotta antisindacale), è un rito efficiente che consente la decisione nel giro di
tempi brevissimi.
L’azione collettiva è una azione pubblica, la chiamiamo collettiva perché è una azione che può essere
esperita nei confronti di discriminazioni dirette o indirette di carattere collettivo e anche quando non siano
individuabili in modo immediato e indiretto le lavoratrici e i lavoratori lesi dalla discriminazione. Significa
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che e due azioni, individuale e collettiva, non si sovrappongono, sono due fattispecie diverse: una è una
singola discriminazione, l’altra è una discriminazione in cui non sono neanche individuati chi sono i soggetti
discriminati, è solo una discriminazione di carattere collettivo di dimensione nazionale\regionale.
Prima dell’azione in giudizio la consigliera di parità può promuovere un tentativo di conciliazione: può
rivolgersi all’autore della discriminazione proponendo di predisporre un piano di rimozione delle
discriminazioni accertate. Se la consigliera ritiene idoneo il piano proposto promuove il tentativo di
conciliazione, altrimenti se il piano non viene predisposto o se non è idoneo, la consigliera promuove la
azione in giudizio per la quale si può usare anche il procedimento in via di urgenza e da luogo ad un
provvedimento del giudice ed è il giudice questa volta che ordina all’autore della discriminazione di definire
il piano di rimozione della discriminazione accertate e provvede anche al risarcimento dei danni dei soggetti
discriminati.
Per quanto riguarda l’apparato sanzionatorio, le sanzioni sono state ritoccate dal decreto legislativo 5\2010
che ha quindi modificato il codice delle pari opportunità del 2006 perché non adeguate ai criteri della
direttiva 2006\54.
Per prima cosa tutti gli atti e patti discriminatori sono nulli, la nullità comporta la restituzione, il ripristino
della situazione precedente. Anche gli accordi che siano intervenuti fra datori di lavoro e rappresentanti
sindacali o altri accordi stipulati con gruppi di lavoratori sono nulli se contengono discriminazioni. Queste
sono le sanzioni civili, alle quali si accompagnano le sanzioni amministrative; nell’inosservanza del divieto di
discriminazione nell’accesso al lavoro, nella formazione (…) si ha un’ammenda da 200 a 1500 euro.
Altre sanzioni sono previste in caso di inottemperanza della sentenza che accerta l’esistenza, sono sanzioni
previste nel codice penale perché gli ordini del giudice sono ordini che provengono da una istituzione
fondamentale dello stato e devono essere rispettati, chiunque non rispetti l’ordine del giudice è punito con
sanzione penale pecuniaria. Ci sono casi però in cui sono previste sanzioni penali diverse e aggiuntive
rispetto a quella generale contenuta nell’art.659 cod. pen. In questo caso i divieti di violazione dell’ordine
giudice in materia di discriminazione sono puniti con sanzioni penali e eventualmente l’arresto.
6\11\2012
Azioni positive
È la traduzione dell’espressione inglese “affirmative action”, l’affirmative action si è affermata negli USA ha
avuto un momento di particolare splendore nella seconda metà degli anni ’60, lanciata dal presidente
Johnson e poi attraverso il sistema delle quote riservate alle minoranze per l’accesso soprattutto nelle
università.
Affirmative action è da intendere nel senso di affirmative action treatment: trattamento preferenziale, un
misura di vantaggio che consente di recuperare lo svantaggio che grava su di una minoranza. Ci sono stati
casi, dopo provvedimenti di affirmative action di reverse discrimination: per proteggere le minoranze si
discriminano gli appartenenti alla maggioranza. Su queste questioni è intervenuta la corte suprema degli
USA: la giurisprudenza degli USA ha giudicato conforme alla costituzione queste misure perché consentono
di realizzare un “body diversity”, una diversità, mescolanza che è presa come valore riconosciuto. La
74 Diritto del lavoro 2012 – appunti delle lezioni - Cristina Fenoglio
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previsione di quote è però stata giudicata illegittima quando queste erano prive di giustificazione: sono
strumenti temporanei giustificati da una situazione di effettiva sottoprotezione, di ostacoli reali all’accesso,
devono anche essere costruite in un modo sufficientemente flessibile da non rendere meccanico il sistema
(valutando il complesso della situazione).
Il problema dagli USA si è ribaltato in Europa, dove si è cominciato a parlare di azioni positive in tempi
ormai abbastanza remoti, per quanto riguarda l’Italia nel corso degli anni ’80 del secolo scorso quando
nell’ambito del primo comitato nazionale sulle pari opportunità sulla base dell’esperienze che si stavano
facendo in vari paesi, si stava pensando all’opportunità di passare dalle legislazioni anti-discriminatorie a
legislazioni (o strumenti per le politiche) che consentissero di promuovere la parità effettiva e di recuperare
gli svantaggi.
Si arriva alla legge 125\1991, sulle azioni positive. Il vantaggio per l’Italia era il fatto di avere nella
Costituzione l’art.3 che consente l’emanazione di leggi che attribuiscono particolari vantaggi a chi è
svantaggiato per promuovere la rimozione degli ostacoli che impediscono di realizzare l’eguaglianza in
senso sostanziale.
La legge 125\1991 prevede dunque queste azioni positive, cosa sono? Sono misure che possono essere
previste dalla legge medesima ma che per lo più sono previste dalle personalità collettive, da regolamenti
(anche della PA) con le quali si attribuiscono particolari vantaggi alle lavoratrici quando sussistano
condizioni di svantaggio. La legge prevede una serie di azioni che possono essere intraprese in vari campi;
sono anche di vario tipo: formative, promozionali, risarcitorie o azioni positive in senso stretto (quote
riservate, ottengono direttamente un risultato).
Sulle azioni positive c’è stata anche una modificazione al livello del diritto dell’UE che è il risultato di un
percorso seguito dalla giurisprudenza della Corte di giustizia della UE. Il diritto comunitario taceva sulle
azioni positive ma cominciavano ad apparire in altre legislazioni di altri paesi. In particolare in Germania e
nei paesi scandinavi si era sviluppata una legislazione che aveva introdotto sistemi di quote: nella
fattispecie dell’impiego pubblico se in una determinata posizione professionale, all’interno di
quell’ambiente di lavoro, le donne sono sottorappresentate, al fine di realizzare la parità fra uomini e
donne in quella professione, a parità di qualifica è riservata la precedenza alla donna.
Ovviamente il lavoratore escluso fa causa, perché colpito da discriminazione, a parità di qualifica. La corte
di giustizia in un primo tempo era concorde riconoscendo una violazione della direttiva sulla parità di
trattamento perché non si può garantire una parità meccanica con sistema rigido di quote nei risultati.
Questa sentenza è stata investita da una serie di proteste, che hanno indotto la corte di giustizia a cambiare
il suo orientamento e a introdurre una modificazione del trattato: riconosce la legittimità di questo sistema
purché queste quote non siano rigide, abbiano degli elementi di flessibilità. Dopo quella sentenza era stata
aggiunta la possibilità di valutare anche le situazioni personali, questo poteva consentire di derogare alla
regola del 50-50 quando la situazione personale del candidato di sesso maschile a parità di titoli fosse
rilevante. Da qui si è modificato il trattato sul funzionamento dell’UE, l’art.141 e 157 non ostano il principio
della parità fra uomini e donne e non è contro questo principio la previsione di specifici vantaggi a favore
del sesso sottorappresentato. Laddove non ci sia un pari presenza le misure che prevedono la parificazione
75 Diritto del lavoro 2012 – appunti delle lezioni - Cristina Fenoglio
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attraverso il sistema delle quote sono misure legittime: piena legittimazione delle azioni positive in senso
stretto.
Sulla questione delle quote in materia elettorale la legge ha censurato la riserva di un terzo delle
candidature nelle elezioni politiche a favore degli appartenenti all’uno o all’altro sesso, dicendo che questo
andava contro l’eguaglianza e il diritto elettorale. Anche la corte costituzionale è dovuta tornare sulla
questione ed è stato modificato l’art. 51 della costituzione ed è stato introdotto qualcosa nell’art. 117.
Art. 51 “Tutti i cittadini dell'uno o dell'altro sesso possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive
in condizioni di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge. A tale fine la Repubblica promuove con
appositi provvedimenti le pari opportunità tra donne e uomini.”
Art. 117 “(…)Le leggi regionali rimuovono ogni ostacolo che impedisce la piena parità degli uomini e delle
donne nella vita sociale, culturale ed economica e promuovono la parità di accesso tra donne e uomini alle
cariche elettive”
Attenzione: si parla delle sole candidature, non degli eletti.
Maternità
La maternità è una dei maggiori fatti di discriminazione nei confronti delle lavoratrici, eppure la legislazione
di tutela delle lavoratrici ha una storia lunghissima nel nostro paese ed è una delle più avanzate in Europa.
Nell’art. 37 c’è una parte dedicata alla parità e una parte dedicata alla protezione delle lavoratrice, nella
seconda parte la speciale e adeguata protezione della maternità della lavoratrice sono un punto centrale,
questa protezione è stata attuata da subito: la prima legge è del 1950 ed è una legge che migliora quanto
già previsto dalla legge del 1934.
Il percorso della disciplina della tutela della maternità è stato tenuto nettamente separato dal diritto
antidiscriminatorio, diversamente da quanto è avvenuto nel diritto comunitario dove si riconosce che la
maternità debba essere tutelata e siano quindi necessarie norme di tutela che non configgano con il
principio della parità di trattamento perché c’è bisogno di particolare tutela per questa situazione specifica
delle donne. Però si riconosce che qualsiasi trattamento sfavorevole per una donna, in connessione con la
gravidanza o il periodo successivo al parto, sia una discriminazione e la corte di giustizia afferma che è una
discriminazione diretta per ragioni di sesso: in primo luogo perché si tratta di donne e poi perché non c’è
bisogno di comparazioni di trattamenti, c’è una sorta di presunzione di discriminazione. Si applica quindi
ANCHE la tutela antidiscriminatoria.
È un risultato che in Italia è arrivato solo adesso, da un lato nella riforma del codice delle pari opportunità
nel 2006 (per dare attuazione alla direttiva 2006\54) che prevede espressamente la maternità come fattore
di discriminazione diretta delle donne e dall’altra parte con una modifica apportata dalla legge Fornero in
materia di licenziamenti. Si può dire che quel percorso separato fra maternità e discriminazione si sia
ricomposto, mantenendo la tutela specifica e rientrando, in più, nelle discriminazioni.
La tutela della maternità oggi la leggiamo nel D.Leg. 151\2001, T.U. delle disposizioni legislative in materia
di tutela e sostegno alla maternità e paternità che ha subito una serie di modifiche e integrazioni. È
76 Diritto del lavoro 2012 – appunti delle lezioni - Cristina Fenoglio
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avvenuto il passaggio di alcuni diritti che la legge attribuiva alla lavoratrice madre, eventualmente
estendendoli alla maternità affidataria e adottiva, ma sempre maternità in senso fisico, al padre. Ha
attribuito una serie di diritti che in origine erano della sola madre, di cui il padre dispone in proprio o in
alternativa alla madre.
Questo T.U. era stato preceduto da una serie di importanti sentenze della corte costituzionale che ha
giocato un ruolo di grande importanza mostrando sensibilità all’applicazione del principio dell’art. 29 della
Costituzione, l’eguaglianza fra i coniugi, intesa come eguaglianza fra i genitori e genitorialità (la condizione
di genitori). La corte aveva già esteso al padre alcuni diritti, il TU ha completato il quadro, che è stato
ulteriormente arricchito con interventi successivi.
In che cosa consistono le protezioni specifiche della madre?
La prima è il divieto di lavorare, quella che si chiamava l’astensione obbligatoria dal lavoro che oggi prende
il nome di congedo di maternità: sono gli ultimi due mesi della gravidanza, calcolati rispetto alla data
presunta del parto, e tre mesi successivi alla data effettiva del parto. È un periodo complessivo di 5 mesi
che può risultare più lungo o più breve a seconda della data del parto. La corte ha detto che quando si
tratta di un parto prematuro i tre mesi successivi al parto decorrono dalla data del rientro del bambino
nella famiglia.
In caso di infrazione c’è anche una sanzione penale.
È stata data la possibilità alla lavoratrice di scegliere se accorciare il periodo prima del parto per allungare
di un mese quello successivo, sempre guardando alle condizioni fisiche.
La seconda protezione importante è il divieto di licenziamento, questo copre un arco di tempo più lungo, va
dall’inizio della gravidanza fino al compimento di un anno di età del bambino. Il licenziamento è nullo salvo
4 casi previsti: colpa grave della lavoratrice, cessazione del contratto per scadenza del termine, cessazione
dell’intera impresa, mancato superamento della prova.
Costituisce un onere per la lavoratrice inviare la certificazione al datore del certificato di gravidanza, ma se
questa non provvede e viene licenziata può impugnare l’atto ed essere immessa di nuovo
nell’organizzazione.
Accanto a queste misure va ricordato il divieto di adibire le donne in gravidanza e in puerperio al lavoro
notturno. La disciplina del lavoro notturno non distingue fra uomini e donne, resta solo il divieto del lavoro
notturno a partire dall’inizio della gravidanza fino ad un anno di età del bambino.
La donna ha poi diritto ai riposi giornalieri, alla malattia del bambino, alla tutela della salute e della
sicurezza della lavoratrice madre (se la lavoratrice madre è adibita a un lavoro pericoloso o nocivo deve
essere spostata e se non sono disponibili mansioni equivalenti possono essere adibite temporaneamente a
mansioni di livello inferiore, mantenendo lo stesso salario); oltre al periodo di astensione obbligatoria una
volta la lavoratrice aveva diritto al prolungamento facoltativo di questo congedo per un periodo massimo di
6 mesi utilizzabili anche in un periodo frazionato, questo diritto c’è ancora ma si è esteso a entrambi i
genitori diventando il diritto al congedo parentale: i padri hanno diritti propri e diritti che condividono con
77 Diritto del lavoro 2012 – appunti delle lezioni - Cristina Fenoglio
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la madre, uno dei diritti propri è il congedo parentale, può astenersi dal lavoro stabilito dalla legge Fornero
che ha istituito il congedo di paternità obbligatorio. Il congedo di paternità è in parte obbligatorio e in parte
facoltativo, quello obbligatorio è l’obbligo di astenersi dal lavoro per il periodo di un giorno nei primi 5 mesi
di vita del bambino a cui il lavoratore può aggiungere due giorni facoltativi. Il problema è che questi due
giorni vanno in alternativa a quelli della madre e durante l’astensione obbligatoria della donna questa
prende una indennità sostitutiva dell’INPS pari all’80% della retribuzione globale, per gli uomini la piena
retribuzione, ugualmente per i due giorni facoltativi.
I congedi di paternità già previsti dal TU del 2001 sono quelli in cui il padre si sostituisce alla madre, accade
sia per casi della morte della madre, di grave infermità della madre e del disconoscimento di maternità. I
tre mesi successivi al parto in questo caso spettano al padre, ugualmente i riposi giornalieri e i congedi per
malattia del figlio, son usufruibili dal padre in alternativa alla madre.
Il congedo parentale è un diritto proprio di ciascuno dei due genitori, è garantito a entrambi i genitori,
anche adottivi o affidatari, entro i primi otto anni di vita del bambino. Complessivamente può durare al
massimo 10 mesi che diventano 11 se ad usufruirne per un periodo superiore a tre mesi consecutivi è il
padre. C’è una azione positiva a favore dei padri, si allunga il congedo se sono loro a usufruirne. Uno dei
motivi della scarsa utilizzazione è il fatto che il congedo è indennizzato al 30% della retribuzione e per un
periodo massimo di 6 mesi.
Ciascuno dei due genitori non può superare sei mesi, non sono cumulabili su un genitore solo.
12\11\2012 13\11\12 14\11\12 APPUNTI SIMONA
19\11\2012
Poteri dell’imprenditore come datore di lavoro per eccellenza (ma sappiamo che il datore può essere anche
un non imprenditore)
Stiamo esaminando l’art. 2103 e il potere ius variandi, il diritto di variare unilateralmente le mansioni del
lavoratore.
78 Diritto del lavoro 2012 – appunti delle lezioni - Cristina Fenoglio
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Eravamo rimasti agli spostamenti del lavoratore, con atto unilaterale del datore, a mansioni diverse rispetto
a quelle specificate per iscritto nell’atto dell’assunzione. Si intende un lavoratore che rimane alle
dipendenze per più tempo e ha quindi un rapporto che dura nel tempo, non potrà fare sempre lo stesso
lavoro ma verrà spostato in ragione, da una parte, delle esigenze dell’impresa dall’altra in ragione della
crescita professionale del lavoratore.
Questi spostamenti possono essere in linea orizzontale e in linea verticale verso l’alto, non possono essere
in linea verticale verso il basso. Gli spostamenti verso il basso prendono il nome di demansionamento. Il
demansionamento è lo spostamento ad una mansione inferiore nel contenuto professionale del lavoro che
il lavoratore svolgeva fino a quel momento.
Il demansionamento del lavoratore costituisce un illecito previsto nell’art. 2103, dove nell’ultimo comma
(come modificato dall’art. 13 dello Statuto dei lavoratori) dice che ogni atto o patto contrario è nullo,
sancisce la nullità non solo degli atti unilaterali del datore di lavoro per il demansionamento, ma anche
dell’eventuale patto stipulato fra lavoratori e datore di lavoro per lo spostamento a mansioni inferiori.
Il demansionamento costituisce quindi un illecito e come tale è un atto nullo.
L’inferiorità delle mansioni consiste nella diminuzione del contenuto professionale, questo contenuto può
essere sia qualitativo che quantitativo. La diminuzione delle cose che deve fare il lavoratore può essere, ma
non necessariamente è, demansionamento.
Dal punto di vista qualitativo: mansioni di contenuto più basso, dove si diminuisce l’attuale o potenziale
professionalità del lavoratore.
Qualora un lavoratore sia stato demansionato può agire in giudizio e ottenere dal giudice un
riconoscimento della nullità del demansionamento con il conseguente ripristino della situazione
precedente: la restituzione al lavoratore delle mansioni dalle quali è stato illecitamente spostato; ma il
lavoratore ha subito ovviamente anche un danno che può essere economico laddove gli sia stata diminuita
la retribuzione (si parla della retribuzione base, la retribuzione è composta da una base che contiene le voci
costanti e da una parte variabile che per lo più è costituita dalle indennità di carattere retributivo).
Quando il lavoratore è spostato a mansioni equivalenti conserva la stessa retribuzione base, perché le
nuove mansioni possono non comportare alcune voci aggiuntive che sono date in relazione alla specificità
della prestazione di lavoro. Oltre alla perdita di retribuzione in caso di demansionamento, il lavoratore può
aver subito un danno ulteriore: un danno alla sua professionalità, il danno professionale. Questo tipo di
danno può essere risarcito ma, secondo un orientamento giurisprudenziale, si presumeva e non si chiedeva
al lavoratore di provare in giudizio di aver subito un danno ulteriore rispetto alla sola perdita di
retribuzione. L’orientamento prevalente, soprattutto fra le Sezioni Unite della cassazione nel 2006, è nel
senso che il danno ulteriore può essere risarcito ma deve essere provato dal lavoratore che agisce in
giudizio. Vi sono però dei casi in cui la legge consente l’adibizione a mansioni inferiori e dei casi nei quali la
legge lo consente alla contrattazione collettiva e dei casi, infine, nei quali la giurisprudenza ha riconosciuto
la legittimità del patto fra datore di lavoro e lavoratore.
79 Diritto del lavoro 2012 – appunti delle lezioni - Cristina Fenoglio
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1. La lavoratrice madre: se la lavoratrice è addetta a mansioni che si rivelano non adeguate o
pericolose per la salute della madre p del feto, deve essere spostata ad altre mansioni, si intende ad altre
mansioni equivalenti, ma nel caso in cui non fossero disponibili mansioni equivalenti la legge prevede che
possa essere spostata a mansioni inferiori mantenendo la retribuzione che aveva e che debba tornare alle
mansioni precedenti il più presto possibile (deve essere una adibizione temporanea).
2. Casi in cui la contrattazione collettiva è autorizzata alla riduzione delle mansioni e sono gli accordi
che vengono stipulati durante la negoziazione di un licenziamento per riduzione del personale al fine di
ridurre il numero dei licenziati è prevista la possibilità che siano stipulati degli accordi collettivi a livello
aziendale nei quali si stabilisce che un certo numero di persone viene passato a mansioni inferiori, questo
per ridurne il costo e per ridurre l'impatto della riduzione del personale.
3. Casi in cui la giurisprudenza ammette l'adibizione a mansioni inferiori: casi dell'inidoneità
sopravvenuta, quando un lavoratore durante il rapporto di lavoro perde la capacità lavorativa in assoluto o
perde la capacità di svolgere le mansioni alle quali era adibito. Si risolve adibendolo ad altre mansioni o
licenziandolo, i giudici stabiliscono che deve essere spostato ad altre mansioni, si intende equivalenti ma se
non sono disponibili mansioni equivalenti nell'azienda o sarebbero disponibili sol a patto di una complicata
e costosa riorganizzazione che non può essere imposta al datore di lavoro, allora il giudice fa salvo il patto
(ancorché sia contrario all'art.2103, ma interpretato in maniera flessibile) con il quale datore di lavoro e
lavoratore si accordano per l'adibizione del lavoratore a mansioni inferiori. Prevale qui, rispetto alla logica
rigida dell'art.2103, l'interesse superiore del lavoratore che è la salvaguardia del suo posto di lavoro.
Gli spostamenti leciti sono lo spostamento orizzontale e lo spostamento verticale verso l'alto.
Per quanto riguarda lo spostamento in orizzontale, l'art.2103 stabilisce che il lavoratore può essere
spostato per svolgere mansioni equivalenti a quelle per le quali è stato assunto.
Art. 2103 Mansioni del lavoratore: “Il prestatore di lavoro deve essere adibito alle mansioni per le quali è
stato assunto o a quelle corrispondenti alla categoria superiore che abbia successivamente acquisito ovvero
a mansioni equivalenti alle ultime effettivamente svolte, senza alcuna diminuzione della retribuzione. Nel
caso di assegnazione a mansioni superiori il prestatore ha diritto al trattamento corrispondente all'attività
svolta, e l'assegnazione stessa diviene definitiva, ove la medesima non abbia avuto luogo per sostituzione di
lavoratore assente con diritto alla conservazione del posto, dopo un periodo fissato dai contratti collettivi, e
comunque non superiore a tre mesi. Egli non può essere trasferito da una unità produttiva ad un'altra se
non per comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive.
Ogni patto contrario è nullo.”
Cosa vuole dire “equivalenti”? L'equivalenza è innanzitutto quella retributiva, intesa come la retribuzione
base. La equivalenza è un concetto sul quale la Giurisprudenza si è molto soffermata per dare un contenuto
che non è solo valore in senso economico delle mansioni, ma è il valore in senso anche professionale: sono
equivalenti quelle mansioni che consentono al lavoratore di utilizzare il patrimonio professionale acquisito
in una prospettiva dinamica: pur essendo le mansioni alle quali viene adibito radicalmente diverse da quelle
80 Diritto del lavoro 2012 – appunti delle lezioni - Cristina Fenoglio
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di provenienza, siano però coerenti con la formazione e con le competenze del lavoratore, anche in vista
del potenziale sviluppo della sua professionalità (che non deprimano la professionalità e la progressione di
carriera) e della sua carriera.
Quindi l'equivalenza non è solo valore in senso economico, è un concetto molto più ampio che la
giurisprudenza valuta con particolare attenzione.
Mobilità verticale verso l'alto: progressione di carriera.
È regolata dall'art. 2103.
Se il lavoratore viene adibito a mansioni superiori dal momento in cui comincia a svolgere queste mansioni
ha diritto al trattamento retributivo corrispondente, ma non basta perché se lo spostamento è uno
spostamento che dura per un certo tempo questo spostamento da diritto ad un passaggio al livello
superiore: ad un nuovo inquadramento professionale al quale corrisponde la fissazione dei diritti connessi.
Lo spostamento a mansioni superiori, oltre all'immediato diritto alla retribuzione superiore, da diritto al
passaggio di qualifica. Questo spostamento però deve avere una certa durata che deve essere un periodo
non inferiore a tre mesi o un periodo più breve stabilito dai contratti collettivi. A meno che, però, la durata
superiore a tre mesi non figuri il caso in cui l'adibizione a mansioni superiori sia stata fatta per coprire il
vuoto lasciato dal lavoratore assente con diritto alla conservazione del posto, quando si è in questo caso
l'assegnazione a qualifica superiore non avviene, c'è il diritto alla retribuzione superiore ma non il diritto
alla qualifica di livello superiore.
Fra le cause dell'assenza con diritto di conservazione del posto la cassazione ha ammesso anche l'assenza
per ferie, naturalmente il lavoratore in ferie è un lavoratore assente e può darsi che le ferie cadano in un
periodo nel quale ci sia bisogno di sostituirlo, allora la Cassazione afferma la possibilità di adibizione
temporanea che non da diritto al passaggio di livello per coprire l'esigenza. L'adibizione deve essere
continuativa, un periodo molto frazionato non è calcolabile come periodo di adibizione alle mansioni
superiori, infatti i giudici valutano con attenzione, per capire se l'adibizione frazionata non sia messa in atto
dal datore di lavoro per evitare il passaggio alla qualifica superiore.
L'ultimo punto dell'art.2103 riguarda una vicenda dei rapporti di lavoro che è meno “normale” nello
svolgersi del rapporto di lavoro: modificazione del luogo di lavoro, il trasferimento del lavoratore.
Bisogna fare attenzione a non confondere la modificazione del luogo di lavoro con la modificazione delle
mansioni, è vero che spesso al trasferimento si accompagna anche una variazione di mansione, ma sono
due atti giuridici connessi ma distinti; la variazione di mansioni è un atto unilaterale del datore di lavoro che
non richiede motivazione, lo spostamento del luogo di lavoro è un atto unilaterale motivato.
Neppure lo spostamento del lavoratore richiede il consenso, richiede la motivazione.
Dice infatti l'ultimo periodo del primo comma dell'art.2103: “Egli non può essere trasferito da una unità
produttiva ad un'altra se non per comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive.”
81 Diritto del lavoro 2012 – appunti delle lezioni - Cristina Fenoglio
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Si ha la modificazione del luogo di lavoro, cioè il trasferimento in senso tecnico del lavoratore, solo quando
avvenga uno spostamento da una unità produttiva a un'altra.
L'unità produttiva è definita nell'art. 35 dello SDL, l'art. 35 riguarda la definizione del campo di applicazione
del titolo terzo dello SDL:
Art. 35 - Campo di applicazione
Per le imprese industriali e commerciali, le disposizioni del titolo III, ad eccezione del primo comma
dell'articolo 27, della presente legge si applicano a ciascuna sede, stabilimento, filiale, ufficio o reparto
autonomo che occupa più di quindici dipendenti. Le stesse disposizioni si applicano alle imprese agricole
che occupano più di cinque dipendenti.
Le norme suddette si applicano, altresì, alle imprese industriali e commerciali che nell'ambito dello stesso
comune occupano più di quindici dipendenti ed alle imprese agricole che nel medesimo ambito territoriale
occupano più di cinque dipendenti anche se ciascuna unità produttiva, singolarmente considerata, non
raggiunge tali limiti.
Ferme restando le norme di cui agli articoli 1, 8, 9, 14, 15, 16 e 17, i contratti collettivi di lavoro provvedono
ad applicare i principi di cui alla presente legge alle imprese di navigazione per il personale navigante.
Il trasferimento, ovviamente può causare un disagio alla vita del lavoratore, a tal fine i contratti collettivi
contengono una serie di misure per attenuarlo e la legge stabilisce che debba essere motivato. Dice infatti
che non può essere trasferito se non per comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive. Questo
non vuol dire che debba esserci la forma scritta con motivazione scritta, ma le ragioni ci debbono essere se
il lavoratore le richiede. Il lavoratore può impugnare il trasferimento non motivato e può ottenere dal
giudice l'annullamento del trasferimento e il reinserimento. Se si tratta di un rappresentante sindacale il
trasferimento è nullo se manca il nulla osta dell'organizzazione sindacale di appartenenza, qui si tutela il
mandato sindacale.
Le ragioni tecnico produttive sono le uniche ragioni che possono giustificare un trasferimento, il problema
si pone quando il trasferimento sia disposto in realtà non per comprovate esigenze tecnico produttive ma
per ragioni disciplinari. Il trasferimento motivato da ragioni disciplinari non è più ammissibile secondo
l'opinione prevalente perché l'art.7 dispone indirettamente sul punto. Il combinato disposto dell'art. 2103 e
dell'articolo 7 dello SDL ci porta a capire che il trasferimento non può essere disposto per ragioni
disciplinari, resta però un punto: un lavoratore il quale si renda colpevole di infrazione disciplinare può
subire il trasferimento per incompatibilità ambientale,; il trasferimento viene motivato da ragioni tecnico
produttive di incompatibilità: la presenza in quel luogo di lavoro di questo lavoratore crea problemi tecnico
organizzativi. È il caso classico del lavoratore che abbia avuto una rissa con i propri compagni di lavoro e
simili. In questi casi oltre all'applicazione delle sanzioni disciplinari il lavoratore può anche essere trasferito
altrove per ragioni tecnico produttive.
Perché il trasferimento non può essere fatto per ragioni disciplinari? Qui bisogna andare a guardare le
norme in materia, l'art. 7 dello SDL che regola appunto le sanzioni disciplinari.
82 Diritto del lavoro 2012 – appunti delle lezioni - Cristina Fenoglio
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Prima di leggere il testo dell'art. 7 è necessaria una premessa sul potere disciplinare del datore di lavoro, è
previsto nell'art. 2106 del codice civile il quale conferisce il potere disciplinare al datore di lavoro:
Art. 2106 Sanzioni disciplinari
L'inosservanza delle disposizioni contenute nei due articoli precedenti (obbligo di diligenza e obbligo di
fedeltà) può dar luogo all'applicazione di sanzioni disciplinari, secondo la gravità dell'infrazione (e in
conformità delle norme corporative)
La legge attribuisce al datore di lavoro un potere eccezionale; a fronte di un comportamento scorretto del
lavoratore, un inadempimento, infedeltà del lavoratore, può utilizzare uno strumento particolare per
correggere il comportamento del lavoratore: le sanzioni disciplinari.
Nell'articolo 2106, superato dalla nuova disciplina, resta il criterio della proporzionalità fra l'infrazione e la
sanzione: la sanzione inflitta deve essere proporzionale alla gravità dell'infrazione e spetta al giudice in ogni
caso valutare la presenza di questa proporzionalità della sanzione.
L'art. 7 disciplina i limiti del potere disciplinare del datore di lavoro e interviene sostituendo quel
riferimento alla conformità alle norme corporative sostituendolo con i contratti collettivi.
Le sanzioni tendenzialmente, al di là del licenziamento, hanno funzione conservativa (e correzionale):
servono a reagire agli inadempimenti non di tale entità da comportare la cessazione del rapporto, ma a
correggere il comportamento del lavoratore. Se il comportamento è talmente grave da non essere
correggibile, secondo il datore di lavoro, si applica l'ultima delle sanzioni ovvero l'espulsione attraverso il
licenziamento. Questo potere può essere esercitato come no, sta al datore di lavoro giudicare se un certo
comportamento del lavoratore va corretto o meno. Se decide di applicare la sanzione disciplinare ne deve
rispettare le regole che gli impongono determinati limiti di natura procedurale ma anche di ragione
sostanziale.
Art. 7 - Sanzioni disciplinari
Le norme disciplinari relative alle sanzioni, alle infrazioni in relazione alle quali ciascuna di esse può essere
applicata ed alle procedure di contestazione delle stesse, devono essere portate a conoscenza dei
lavoratori mediante affissione in luogo accessibile a tutti. Esse devono applicare quanto in materia è
stabilito da accordi e contratti di lavoro ove esistano. (*)
Il datore di lavoro non può adottare alcun provvedimento disciplinare nei confronti del lavoratore senza
avergli preventivamente contestato l'addebito e senza averlo sentito a sua difesa.(**)
Il lavoratore potrà farsi assistere da un rappresentante dell'associazione sindacale cui aderisce o conferisce
mandato.
Fermo restando quanto disposto dalla legge 15 luglio 1966, n. 604, non possono essere disposte sanzioni
disciplinari che comportino mutamenti definitivi del rapporto di lavoro; inoltre la multa non può essere
disposta per un importo superiore a quattro ore della retribuzione base e la sospensione dal servizio e dalla
retribuzione per più di dieci giorni.
83 Diritto del lavoro 2012 – appunti delle lezioni - Cristina Fenoglio
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In ogni caso, i provvedimenti disciplinari più gravi del rimprovero verbale non possono essere applicati
prima che siano trascorsi cinque giorni dalla contestazione per iscritto del fatto che vi ha dato causa.
Salvo analoghe procedure previste dai contratti collettivi di lavoro e ferma restando la facoltà di adire
l'autorità giudiziaria, il lavoratore al quale sia stata applicata una sanzione disciplinare può promuovere, nei
venti giorni successivi, anche per mezzo dell'associazione alla quale sia iscritto ovvero conferisca mandato,
la costituzione, tramite l'ufficio provinciale del lavoro e della massima occupazione, di un collegio di
conciliazione ed arbitrato, composto da un rappresentante di ciascuna delle parti e da un terzo membro
scelto di comune accordo o, in difetto di accordo, nominato dal direttore dell'ufficio del lavoro. La sanzione
disciplinare resta sospesa fino alla pronuncia da parte del collegio.
Qualora il datore di lavoro non provveda, entro dieci giorni dall'invito rivoltogli dall'ufficio del lavoro, a
nominare il proprio rappresentante in seno al collegio di cui al comma precedente, la sanzione disciplinare
non ha effetto.
Se il datore di lavoro adisce l'autorità giudiziaria, la sanzione disciplinare resta sospesa fino alla definizione
del giudizio.
Non può tenersi conto ad alcun effetto delle sanzioni disciplinari decorsi due anni dalla loro applicazione.
(*) le fonti che regolano le sanzioni e le infrazioni sono i contratti collettivi di lavoro, ove esistano ovvero
ove siano applicati nell'azienda, perché il datore potrebbe non applicare alcun contratto collettivo. In
questo caso varrà il principio che è implicito nel primo pezzo del primo comma: la predefinizione delle
regole disciplinari rispetto alla loro applicazioni. Per il principio del diritto penale nessun comportamento
può essere qualificato come reato se non è qualificato dalla legge come tale, la stessa regola vale in materia
disciplinare: nessun comportamento può essere punito se non esiste una regolamentazione che preveda
l'infrazione e la relativa sanzione, questa predeterminazione è contenuta abitualmente nei contratti
collettivi eventualmente integrati o sostituiti dal regolamento d'impresa. A volte i contratti collettivi sono
troppo generici, per questo le specificazioni sono previste nei regolamenti d'impresa. L'insieme o il solo
contratto collettivo costituiscono quello che viene detto nel linguaggio corrente della giurisprudenza il
codice disciplinare, questo deve essere portato a conoscenza dei lavoratori attraverso una forma di
pubblicità non sostituibile con altre: l'affissione in un luogo accessibile a tutti in modo tale da poterne
presumere la conoscenza da parte dei destinatari.
(**) nell'ambito del lavoro e della disciplina del rapporto di lavoro viene introdotta una regola
procedimentale a garanzia del lavoratore che attribuisce al lavoratore il diritto di difesa: se il datore di
lavoro infligge una sanzione al lavoratore deve contestargli l'infrazione con atto scritto a meno che non sia
un rimprovero verbale.
Se siamo di fronte ad un rimprovero scritto ci vuole la contestazione e deve essere data al lavoratore la
possibilità di difendersi da solo o con un rappresentante sindacale. Il lavoratore che riceve la contestazione
per iscritto chiede al datore di essere ascoltato (da solo o con l'assistenza di un rappresentante
dell'associazione sindacale alla quale aderisce o alla quale conferisca mandato).
84 Diritto del lavoro 2012 – appunti delle lezioni - Cristina Fenoglio
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Per l'esercizio di questo diritto di difesa si prevede un tempo entro il quale il datore di lavoro non può
adottare alcun provvedimento disciplinare nei confronti del lavoratore: “In ogni caso, i provvedimenti
disciplinari più gravi del rimprovero verbale non possono essere applicati prima che siano trascorsi cinque
giorni dalla contestazione per iscritto del fatto che vi ha dato causa.”
Allora: il datore di lavoro contesta per iscritto, il lavoratore ha diritto di difesa, è previsto un tempo minimo
di 5 giorni durante i quali il lavoratore eserciterà, se lo vuole, il diritto di difesa, chiederà d essere ascoltato
(da solo o con rappresentante sindacale), il datore lo dovrà ascoltare e non potrà adottare la sanzione
prima che questo tempo sia trascorso. Questo comporta la sospensione dell'applicazione della sanzione e
alla fine si avrà il convincimento in positivo o negativo del datore.
Le regole di carattere sostanziale.
Lo SDL tipicizza le sanzioni, nel senso che ne prevede alcune regolandone il contenuto e dice anche
qualcosa che porta ad escludere il trasferimento del lavoratore come sanzione disciplinare. È il comma :
Fermo restando quanto disposto dalla legge 15 luglio 1966, n. 604 (procedure per il licenziamento
individuale), non possono essere disposte sanzioni disciplinari che comportino mutamenti definitivi del
rapporto di lavoro; inoltre la multa non può essere disposta per un importo superiore a quattro ore della
retribuzione base e la sospensione dal servizio e dalla retribuzione per più di dieci giorni.
Multa e sospensione sono le classiche sanzioni previste nei contratti collettivi rispetto alle quali l'art. 7
stabilisce il limite massimo.
Un punto difficile è quello in cui si dice chela sanzione disciplinare non può comportare mutamenti
definitivi del rapporto di lavoro, qui sono sorte due questioni: la prima è se si possa allora prevedere fra le
sanzioni disciplinari il licenziamento, su questo ha risposto la corte costituzionale qualificandolo come la più
grande fra le sanzioni disciplinari; la seconda riguarda il trasferimento: secondo l'opinione prevalente
essendo un mutamento del luogo di lavoro è un mutamento definitivo del rapporto, nel senso che essendo
il luogo di lavoro oggetto del regolamento negoziale definito con il contratto, la sua modificazione, che pure
può avvenire con atto unilaterale motivato del datore, comporta appunto un mutamento di tipo definitivo.
Se questo è vero il trasferimento non può essere motivato da ragioni disciplinari. C'è anche un
orientamento molto minoritario in giurisprudenza che ritiene che il trasferimento non comporti
mutamento definitivo, ma la maggioranza dissente tenendo conto dell'incidenza della definizione del luogo
di lavoro nel regolamento contrattuale.
Dunque combinando il disposto dell'art. 2103 con l'art. 7 SDL il trasferimento non può avvenire per
motivazione disciplinare.
85 Diritto del lavoro 2012 – appunti delle lezioni - Cristina Fenoglio
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21\12\2012
Retribuzione, salute e sicurezza
[Mancano i primi 23 minuti circa di registrazione per mio errore nell’avvio, se qualcuno possiede un
file di questa lezione per favore me lo comunichi e ci mettiamo una pezza. Di seguito gli appunti
che ho preso, per argomenti principali e temo molto incompleti]
[Erogazione delle sanzioni disciplinari: nel procedimento è previsto che il datore debba contestare e
attendere 5 giorni.
Due problemi: come deve essere la contestazione? Deve essere specifica, perché siccome il
lavoratore ha diritto di sapere deve essere specifica nei fatti.
Il termine è tassativo? Secondo alcuni giudici si. Se al lavoratore non interessa il datore può
procedere anche immediatamente all’applicazione della sanzione. Questa è la risposta adottata
dalla Cassazione nel ’94 con qualche sfasatura: derogabilità dei 5 giorni perché funzionali alle
esigenze dell’incolpato.
Impugnazione delle sanzioni disciplinari
in via ordinaria
stragiudiziale: preferita dalla giurisprudenza, collegio di conciliazione e arbitrato. Sospensione
dell’applicazione della sanzione disciplinare, eccetto per il licenziamento+
Per quanto riguarda il potere di controllo, le regole e la disciplina sono contenute negli art. da 2 a 6 dello
SDL. Si tratta delle disposizioni intitolate “guardie giurate, personale di vigilanza, impianti audiovisivi,
accertamenti sanitari, visite personali di controllo (che sarebbero le perquisizioni personali)”. In tutti questi
poteri è da un lato salvaguardato il potere di vigilanza e controllo del datore di lavoro, dall’altro lato sono
salvaguardati i diritti fondamentali dei lavoratori.
È possibile utilizzare le guardie giurate, ma devono essere riconoscibili dai lavoratori, il controllo dei
lavoratori deve essere comunque effettuato secondo i limiti imposti dalla legge.
L’art. 4 è intitolato “impianti audiovisivi”, si tratta di quegli impianti previsti nel 1970, oggi il controllo si può
avvalere di dispositivi molto più complicati e tecnologici. Il legislatore di allora si riferiva a quegli impianti
essenzialmente di videoripresa che vengono installati per la tutela del patrimonio aziendale e del normale
andamento dell’attività produttiva ma che comunque determinano un controllo a distanza dei lavoratori.
Questi impianti, che hanno una funzione legittima di controllo ma attraverso l’esercizio di questa funzione
finiscono per essere uno strumento attraverso il quale il lavoratore viene spiato dalla telecamera durante lo
svolgimento del lavoro, comportano dei problemi che la legge risolve in questo modo:
“1. È vietato l'uso di impianti audiovisivi e di altre apparecchiature per finalità di controllo a distanza dell'attività dei
lavoratori.
2. Gli impianti e le apparecchiature di controllo che siano richiesti da esigenze organizzative e produttive ovvero dalla
sicurezza del lavoro, ma dai quali derivi anche la possibilità di controllo a distanza dell'attività dei lavoratori, possono
essere installati soltanto previo accordo con le rappresentanze sindacali aziendali, oppure, in mancanza di queste, con
la commissione interna. In difetto di accordo, su istanza del datore di lavoro, provvede l'Ispettorato del lavoro,
dettando, ove occorra, le modalità per l'uso di tali impianti.
86 Diritto del lavoro 2012 – appunti delle lezioni - Cristina Fenoglio
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3. Per gli impianti e le apparecchiature esistenti, che rispondano alle caratteristiche di cui al secondo comma del
presente articolo, in mancanza di accordo con le rappresentanze sindacali aziendali o con la commissione interna,
l'Ispettorato del lavoro provvede entro un anno dall'entrata in vigore della presente legge, dettando all'occorrenza le
prescrizioni per l'adeguamento e le modalità di uso degli impianti suddetti.
4. Contro i provvedimenti dell'Ispettorato del lavoro, di cui ai precedenti secondo e terzo comma, il datore di lavoro, le
rappresentanze sindacali aziendali o, in mancanza di queste, la commissione interna, oppure i sindacati dei lavoratori
di cui al successivo art. 19 possono ricorrere, entro 30 giorni dalla comunicazione del provvedimento, al Ministro per il
lavoro e la previdenza sociale.”
Quindi, gli impianti che siano finalizzati solo al controllo a distanza del lavoratore sono vietati e son vietati
giustamente, in quanto costituisce una violazione della personalità del lavoratore.
L’impresa può avere necessità di impianti audiovisivi o di altre apparecchiature che rispondano a “esigenze
organizzative e produttive ovvero dalla sicurezza del lavoro”, queste possono essere installate dietro
accordo con l’RSA. In mancanza di accordo non possono essere installate ma ci si può rivolgere ai servizi
ispettivi (che hanno potere di ordinanza) che possono disporre l’installazione qualora ritengano che non ci
siano ragioni sufficienti perché le RSA rifiutino l’installazione di questi impianti. A fronte di questo, le stesse
RSA hanno potere in giudizio, è un caso eccezionale in cui le RSA hanno potere di azione.
Dunque, tutela della personalità dei lavoratori attraverso questo limite al potere di controllo della vigilanza
del datore di lavoro.
Gli stessi limiti li ritroviamo nell’art.6 che si riferisce ad un tipo di controllo particolarmente pesante perché
la perquisizione personale è un atto invasivo, essendoci una violazione fisica della persona. Queste
perquisizioni sono consentite solamente in ambiti ristretti, dice l’art. 6:
“Art. 6. Visite personali di controllo.
1. Le visite personali di controllo sul lavoratore sono vietate fuorché nei casi in cui siano indispensabili ai fini della
tutela del patrimonio aziendale, in relazione alla qualità degli strumenti di lavoro o delle materie prime o dei prodotti.
2. In tali casi le visite personali potranno essere effettuate soltanto a condizione che siano3 L. 20 maggio 1970, n. 300
(Statuto dei Lavoratori) eseguite all'uscita dei luoghi di lavoro, che siano salvaguardate la dignità e la riservatezza del
lavoratore e che avvengano con l'applicazione di sistemi di selezione automatica riferiti alla collettività o a gruppi di
lavoratori.
3. Le ipotesi nelle quali possono essere disposte le visite personali, nonché, ferme restando le condizioni di cui al
secondo comma del presente articolo, le relative modalità debbono essere concordate dal datore di lavoro con le
rappresentanze sindacali aziendali oppure, in mancanza di queste, con la commissione interna. In difetto di accordo, su
istanza del datore di lavoro, provvede l'Ispettorato del lavoro.
4. Contro i provvedimenti dell'Ispettorato del lavoro di cui al precedente comma, il datore di lavoro, le rappresentanze
sindacali aziendali o, in mancanza di queste, la commissione interna, oppure i sindacati dei lavoratori di cui al
successivo articolo 19 possono ricorrere, entro 30 giorni dalla comunicazione del provvedimento, al Ministro per il
lavoro e la previdenza sociale.”
Uno degli esempi tipici sono le industrie orafe dove questi controlli sono effettuati sistematicamente.
Possono essere effettuati solo a condizione che siano fatte all’uscita dai luoghi di lavoro, che siano
salvaguardate la dignità e la riservatezza del lavoratore e che avvengano con sistemi di selezione
automatica sulla collettività. Sono apparecchiature dotate di un sensore che si illumina casualmente al
passaggio di alcuni lavoratori, deve essere automatico altrimenti potrebbe diventare uno strumento
persecutorio. L’installazione deve essere accordata con l’RSA, con possibile ricorso in giudizio.
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Uno dei punti centrali e più rilevanti è l’art.5, che, quando è entrato in vigore ha cambiato molto, ha tolto ai
datori di lavoro un potere importante. L’art. 5 è intitolato “Accertamenti sanitari” e prevede due fattispecie
distinte:
1) controllo della malattia del lavoratore;
2) accertamenti dell’idoneità del lavoratore, sia attraverso le visite pre-assuntive, sia attraverso le visite
previste durante lo svolgimento del rapporto di lavoro.
Il primo caso è quello più importante, dove sono state cambiate veramente le prassi, perché il lavoratore
che sia ammala da al datore di lavoro un certificato di malattia del suo medico, il quale medico formula una
diagnosi e una prognosi. Il tempo della prognosi è un periodo nel quale il lavoratore ha diritto alla
sospensione del rapporto di lavoro per potersi curare con diritto alla conservazione del posto. Terminata la
malattia il lavoratore torna a lavorare e riprende il suo posto di lavoro.
Ovviamente la malattia si presta all’abuso, a fenomeni di cosiddetto assenteismo, frutto della compiacenza
del medico curante. Esiste anche la malattia delle durata di un giorno, per la quale non è richiesta
certificazione. In relazione a questo i datori di lavoro avevano l’abitudine di far accertare la malattia del
lavoratore dal medico di fabbrica, da un medico di sua fiducia, in modo da accertare che il lavoratore non si
fosse assentato senza averne diritto.
L’art. 5 ha cambiato tutto perché ha vietato ai datori di lavoro di accertare la malattia del lavoratore con il
proprio medico di fiducia. Dice infatti l’art. 5:
“1. Sono vietati accertamenti da parte del datore di lavoro sulla idoneità e sulla infermità per malattia o infortunio del
lavoratore dipendente.
2. Il controllo delle assenze per infermità può essere effettuato soltanto attraverso i servizi ispettivi degli istituti
previdenziali competenti, i quali sono tenuti a compierlo quando il datore di lavoro lo richieda.
3. Il datore di lavoro ha facoltà di far controllare la idoneità fisica del lavoratore da parte di enti pubblici ed istituti
specializzati di diritto pubblico.”
È ovvio però che l’interesse del datore di lavoro a sapere se quel lavoratore è veramente malato o no va
salvaguardato perché è un suo diritto, dato che in relazione a questo permane il rapporto di lavoro e
permane l’obbligo retributivo, a meno che non sia sostituito da equivalente prestazione previdenziale.
Questo interesse è salvaguardato dalla legge dicendo che il controllo delle assenze per infermità può essere
effettuato solo attraverso i servizi ispettivi degli istituti previdenziali ivi competenti i quali sono tenuti a
compierli quando il datore lo richieda. Le ASL o l’INAIL o l’INPS, nell’elenco dei medici disponibili (che è
interessato a questo in quanto è il pagatore dell’indennità di malattia), debbono rispondere alla richiesta
del datore di lavoro mandando al domicilio del lavoratore la visita cosiddetta “fiscale” (il controllo di
malattia per infermità o infortunio eseguito dalle strutture pubbliche competenti). L’interesse del datore è
salvaguardato ma il datore non si fa, come dire, giustizia da sé, deve chiedere alle strutture pubbliche.
Ci sono nella disciplina della malattia del lavoratore delle regole relative al comportamento del lavoratore,
il lavoratore assente per malattia deve immediatamente comunicarlo al datore di lavoro e certificarla
inviando il certificato, il medico deve inviare online all’INAIL o INPS (dipende se è un certificato relativo a
malattia o ad un infortunio provocato sul lavoro) questo certificato perché l’istituto ne sia informato.
Da quel momento il lavoratore è assente con diritto alla conservazione del posto, soggetto alla visita fiscale
che eventualmente il datore di lavoro abbia richiesto. Per la visita fiscale sono imposte al lavoratore due
fasce orarie di reperibilità quotidiana al mattino e pomeriggio\sera. Il lavoratore ammalato deve farsi
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trovare disponibile nelle fasce indicate. Può capitare però che il lavoratore sia assente, è ammessa
giustificazione dell’assenza ma solo per motivi seri: per esempio il fatto che l lavoratore abbia dovuto
recarsi presso uno specialista oppure che sia andato all’ospedale per esami clinici. Se è assente senza
giustificazione ammissibile quel lavoratore subisce la perdita parziale del trattamento indennitario di
malattia, se per due volte di seguito non si fa trovare perde il 50%. La non reperibilità del lavoratore è
sanzionata sul piano dell’indennità.
Il problema che si pone è quando il lavoratore che si sia dato malato con certificato e che magari si sia
anche sottoposto a visita fiscale, venga visto (e il datore di lavoro, direttamente o indirettamente, ne venga
a conoscenza) fare cose incompatibili con il suo stato di malattia. Questi comportamenti che intervengono
in un momento in cui il rapporto di lavoro è sospeso sono rilevanti dal punto di vista dell’adempimento
dell’obbligazione del lavoratore? Si dovrebbe dire di no, perché il lavoratore è assente con diritto alla
conservazione del posto e quello che fa del suo tempo sono “fatti suoi”, non avendo neppure l’obbligo di
curarsi (come diversamente accade nel diritto tedesco, dove il lavoratore ammalato è anche obbligato a
fare il possibile per rientrare al più presto al lavoro, considerato come un obbligo di buonafede,
sanzionabile in caso di mancanza). I nostri giudici non arrivano a tanto, non è previsto l’obbligo di curarsi il
più rapidamente possibile per tornare al lavoro ma la regola della buonafede viene applicata ugualmente
e, pur essendo sospeso l’adempimento della prestazione lavorativa, non tutti gli obblighi sono sospesi:
correttezza e buonafede sono le clausole generali che reggono l’esecuzione di qualunque contratto da
ambedue le parti contraenti, dunque il lavoratore deve avere dei comportamenti compatibili con il suo
stato di malattia e può essere perfino licenziato quando la violazione dell’obbligo di buonafede e
correttezza sia particolarmente rilevante.
Quindi, il datore di lavoro può fare gli accertamenti in via indiretta attraverso le strutture pubbliche, la
stessa cosa riguarda le visite pre-assuntive e i controlli di idoneità durante lo svolgimento del rapporto di
lavoro.
Regole particolari riguardano la sieropositività perché quando si tratti di persone che abbiano rapporti con i
terzi e dove la infezione possa rappresentare un pericolo per i terzi, si deroga alle regole generali e sono
previste specifiche discipline; tutto il resto è regolato dall’art. 5 ma sempre con il divieto di accertare
direttamente e con il necessario ricorso alle strutture pubbliche.
Questi accertamenti di idoneità si riferiscono solamente all’idoneità fisica relativa alla mansione per la
quale è prevista l’assunzione o la mansione che il lavoratore sta svolgendo, perché altrimenti c’è il rischio di
andare a toccare l’art.8 dello SDL ovvero il divieto di indagini sulle opinioni (non rilevanti a fini
professionali).
Abbiamo visto i poteri del datore di lavoro, adesso guardiamo al lato del lavoratore che ha stipulato un
contratto di lavoro in cui si obbliga a prestare il proprio lavoro alle dipendenze e sotto la direzione del
datore di lavoro, quindi si assoggetta ai poteri del datore di lavoro nei limiti stabiliti dalla legge. Questa
posizione del lavoratore è una posizione obbligatoria con l’obbligo fondamentale di prestare lavoro, questo
obbligo di fare del lavoratore è circondato da obblighi che connotano questa prestazione; vengono detti
obblighi ausiliari o accessori ma in realtà non si tratta di obblighi accessori ma di obblighi intrinseci del
modo di essere della prestazione lavorativa. Questi obblighi sono scritti negli art. 2104, 2105, 2106 del
Codice civile. L’art. 2106 lo abbiamo già incontrato perché è la soggezione del lavoratore alla disciplina e
quindi la soggezione al potere disciplinare del datore.
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Le due disposizioni che esaminiamo sono quelle contenute negli art. 2104 e 2105 del codice civile, la prima
intitolata “diligenza del prestatore di lavoro” e la seconda “obbligo di fedeltà”.
Art. 2104 Diligenza del prestatore di lavoro
Il prestatore di lavoro deve usare la diligenza richiesta dalla natura della prestazione dovuta, dall'interesse
dell'impresa e da quello superiore della produzione nazionale (1176).(**)
Deve inoltre osservare le disposizioni per l'esecuzione e per la disciplina del lavoro impartite
dall'imprenditore e dai collaboratori di questo dai quali gerarchicamente dipende.(*)
(*) questo comma contiene l’obbligo di obbedienza del lavoratore, che è riferita esplicitamente alla
soggezione del lavoratore che deve seguire le disposizioni per l’esecuzione del lavoro, la disciplina del
lavoro e l’espressione della gerarchia aziendale ci dicono appunto che siamo di fronte a questo dovere di
obbedienza. L’obbedienza è intrinseca alla prestazione lavorativa, ne senso che il lavoratore si è obbligato
ad una prestazione di lavoro subordinato dunque ha accettato di assoggettarsi nell’esecuzione del proprio
obbligo di fare ad eseguire le direttive che gli vengono ripartite e a rispettare la disciplina
dell’organizzazione del lavoro. Quindi è un debito di obbedienza del lavoratore che è dentro il modo di
essere della prestazione di lavoro, ovviamente una soggezione che va intesa attentamente: non è uno
schiavo, ma una persona titolare di diritti fondamentali che esercita anche nell’ambito del proprio lavoro e
che determinano limiti al potere del datore, se gli venissero chieste cose che non possono essere chieste,
all’infuori dell’adempimento della propria prestazione che è la cosa che gli può essere chiesta, il lavoratore
dovrebbe giustamente rifiutare (eccezione di adempimento).
Nel rispetto dei limiti del potere del datore di lavoro, che pretende obbedienza del prestatore di lavoro,
rientra il limite oggettivo della prestazione dedotta in contratto e il limite oggettivo del rispetto della
personalità del lavoratore; caso del datore di lavoro che impone al lavoratore un abbigliamento che il
lavoratore non accetti perché va contro il proprio modo di essere e al diritto di apparire potrebbe costituire
una illecita pretesa del datore e può essere rifiutato legittimamente dal lavoratore, così come qualora il
datore ordini al lavoratore un comportamento illecito.
(**) il riferimento all’interesse superiore della produzione nazionale è un residuato dell’ideologia
corporativa. L’impresa oggi, nel nostro ordinamento, non è funzionale all’interesse nazionale (art.41 1°
comma Cost.) ma alla realizzazione dell’interesse dell’imprenditore; questo interesse incontra dei limiti e
sono limiti iscritti nel secondo comma dell’art. 41: “Non può svolgersi in contrasto con l'utilità sociale o in
modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”.
In questa definizione sono presenti altri elementi su cui ci soffermiamo:
1) la diligenza specifica del prestatore di lavoro in relazione alla natura della prestazione. Nel diritto privato
si ha la “diligenza del buon padre di famiglia”, ma quella del lavoratore è diversa, è richiesta una diligenza
specifica vale a dire un comportamento che sia collegato alla qualifica del lavoratore e al contenuto delle
sue mansioni. La diligenza è misura della prestazione: la correttezza nell’adempimento della prestazione da
parte del lavoratore la valutiamo in ragione della specifica diligenza utilizzata nell’adempiere; la prestazione
deve essere eseguita in modo tale da soddisfare l’interesse del creditore della prestazione.
2) l’interesse dell’impresa: non si riferisce al fatto che l’impresa in quanto tale abbia un proprio oggettivo
interesse, l’interesse dell’impresa è l’interesse dell’imprenditore perché l’impresa non è una entità a sé, è
attività economica che l’imprenditore svolge nell’ambito della garanzia costituzionale della libertà di
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impresa. L’interesse dell’impresa è l’interesse del creditore della prestazione.
C’è bisogno però di parametri della diligenza: il risultato atteso dal datore di lavoro è un risultato stimabile
mediamente secondo i parametri medi del rendimento che ci si può attendere dal lavoratore adibito a
quella mansione e che va differenziato in ragione del contenuto della mansione. La combinazione di natura
della prestazione del lavoratore e interesse del creditore secondo standard medi di valutazione ci danno la
misura della correttezza dell’adempimento. La diligenza n questo senso è considerata dalla giurisprudenza
come forma di misura della prestazione ma anche come fondamento del vincolo fiduciario fra datore di
lavoro e lavoratore.
Un cenno alle organizzazioni di tendenza o ideologicamente connotate, si tratta di partiti politici, sindacati,
enti religiosi e scolastici connotati dal punto di vista professionale. Queste organizzazioni non devono avere
fine di lucro e hanno un particolare regime sia dal punto di vista dell’organizzazione della disciplina dei
licenziamenti sia dal punto di vista fiscale; ci può essere una compitazione nella diligenza del prestatore di
lavoro perché questa diligenza la si valuta anche come coerenza alla ideologia della organizzazione. Un
comportamento dissonante rispetto all’ideologia può costituire un comportamento non diligente del
prestatore di lavoro e può rilevare come inadempimento sempreché occorrano delle circostanze:
1)il lavoratore nel momento della stipulazione del contratto sia stato informato della necessità che la sua
prestazione sia coerente con l’ideologia;
2) le mansioni del lavoratore siano connesse a questa ideologia. La giurisprudenza distingue proprio fra
mansioni connotate ideologicamente e mansioni neutre: le mansioni del lavoratore devono essere
connotate ideologicamente e non neutre.