ARTE Giotto che ha colorato Il contadino san Francesco. avvenire.pdfil suo delizioso libretto sulla...

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n un’intervista di tanto tempo fa (1988) Giuliano Briganti, insigne storico dell’arte, paragonava il difficile problema dell’attribuzione a Giotto degli affreschi della Basilica superiore di Assisi alla questione omerica. La faccenda era sul tavolo degli studiosi almeno dagli anni Sessanta del secolo scorso, quando Roberto Salvini (Giotto: gli affreschi di Assisi, Firenze 1965) considerava Giotto sempre meno presente nelle ultime specchiature del ciclo pittorico assisiate. Fu, però, Cesare Gnudi (Giotto, Milano 1959) il primo a tentare il sistematico distinguo di mani ed autori. Le difficoltà di attribuzione riguardano soprattutto le storie relative al registro medio della decorazione, ovvero quelle che affiancano le finestre nella parte inferiori, con particolare riguardo alle Storie Bibliche per le quali, infatti, proposte affascinanti vennero da studiose come Angiola Maria Romanini. La grande medievista, proprio sugli studi di Gnudi, nel 1987, ipotizzò la presenza ad Assisi di un Arnolfo di Cambio pittore (prima che architetto) al quale andrebbero attribuite le scene in genere considerate del cosiddetto Maestro d’Isacco. Domenica 16 febbraio 1997, sull’inserto del Sole 24 ore, apparve un lungo articolo di Federico Zeri e Bruno Zanardi che – con accenti scandalistici – asserivano che gli affreschi di Giotto sono di Cavallini. Anche in questo caso, però, c’erano dei precedenti, a cominciare da padre Guglielmo Della Valle (1791), per continuare con Witte (1821) e Rumohr (1821) che non consideravano di Giotto il ciclo francescano, al contrario del Thode (1885) che riteneva quelle storie assolutamente autografe. La pubblicazione di un lungo e serio studio di Zanardi (Giotto e Pietro Cavallini, Milano 2002) indicò le consonanze stilistiche con Cavallini. L’approccio di Zanardi (che ora insegna all’Università di Urbino) è quello del restauratore, di chi conosce come si realizza un affresco e sa osservare piccoli ma significativi ritorni stilistici, come per esempio la resa da parte di Cavallini delle orecchie che compaiono anche ad Assisi. Non solo, ma l’idea dell’unico artista che dipinge tutto deve essere abbandonata, esaminando una complessa macchina come il cantiere della Basilica Superiore. Di recente (2009), nel catalogo della mostra su Giotto (Giotto e il Trecento. «Il più Sovrano maestro stato in dipintura»), Alessandro Tomei è tornato sul tema, senza condividere l’attribuzione a Cavallini, ma sottolineando, invece, la coralità del cantiere di Assisi dal quale sono nate le diverse lingue «giottesche» della pittura italiana: Rimini, Roma, Napoli, Firenze, Bologna. Marco Bussagli I sorprendente come, talvolta, piccoli dettagli, a prima vista insignificanti, possano celare dietro di loro interi universi culturali e addirittura cambiamenti epocali. Ce ne renderemo conto paragonando la mano del Crocifisso di Cimabue di San Domenico ad Arezzo o quello di Santa Croce a Firenze, con lo stesso particolare della Croce dipinta da Giotto per Santa Maria Novella. Il lasso di tempo che separa le tre opere è di pochi anni: quelle di Cimabue sono databili rispettivamente al 1268-1271 e fra il 1287 e il 1288, mentre il dipinto di Giotto fu realizzato nel decennio che va dal 1290 al 1300; dunque una differenza che oscilla da un minimo di due ad un massimo di 32 anni, secondo le datazioni e i capolavori che prendiamo in considerazione. Un periodo piuttosto breve, rispetto alle grandi differenze di mentalità e di sensibilità che si celano dietro le scelte stilistiche riflesse nelle mani del Cristo dipinte dai due artisti. Quella di Cimabue (qualunque se ne scelga) è quasi un fiore aperto sul fondo scuro della croce. Il maestro si preoccupa di dipingerla distesa, come se si dovesse far vedere per forza il chiodo che la sta martoriando. Anche il sangue scende verso il basso con un rivolo «educato», senza sbavature. La mano del Crocifisso di Giotto, invece, è collocata nello spazio, in prospettiva. Le dita flesse verso il palmo e il pollice che vi si oppone, creano un volume sconosciuto all’immagine piatta di Cimabue. Anche il rigagnolo di sangue non è più così convenzionale: scorre ancora e imbratta tutto. Le sue diverse scolature danno conto dei movimenti del Cristo nella sua agonia. Il primo dipinto è figlio della tradizione di Bisanzio, ancora legato a soluzioni stereotipate come quelle di Coppo di Marcovaldo, Giunta Pisano, Margaritone d’Arezzo; il secondo, invece, è preso dalla realtà, forse basato sullo studio dei cadaveri, certo su quello della figura vera, di carne e di sangue. Questo è il significato della frase che Cennino Cennini scrisse nel suo Libro dell’arte o Trattato della pittura: «Volse la pittura di greco in latino». Non si tratta, però, di sterili innovazioni stilistiche o di trovate geniali: dietro queste scelte c’è il pensiero di san Francesco. Non è qui possibile fare la storia del Crocifisso (né è questo il tema), ma l’opinione degli studiosi (ricorderemo solo Michele Dolz e il suo delizioso libretto sulla Crocifissione) è quella che vede, nella progressiva umanizzazione del Crocifisso (raffigurato come «trionfante», ossia con gli occhi aperti e il capo dritto, fino al XIII secolo), l’influsso della religiosità francescana. Del resto, l’interesse di Giotto per l’uomo e la natura aveva rispondenza nell’amore di Francesco d’Assisi per la persona e il creato. Probabilmente anche le umili origini di Giotto (forse diminutivo di Ambrogio o di È Biagiotto), figlio di Bondone «lavoratore di terra e naturale persona», come scriveva Vasari, contribuirono a questa consonanza. Certo è che il pittore del Mugello finì per divenire l’araldo del cristianesimo illuminato dal sole di Francesco. Ad Assisi, racconta sempre Vasari, nella seconda edizione delle sue Vite, l’artista giunse «…essendovi chiamato da fra’ Gioanni di Muro della Marca allora Generale de’ Frati di San Francesco, dove nella chiesa di sopra dipinse a fresco, sotto il corridore che attraversa le finestre, dai due lati della chiesa, trentadue storie della vita e fatti di San Francesco, cioè sedici per facciata, tanto perfettamente che ne acquistò grandissima fama». Gli storici dell’arte ancora si dibattono sulla correttezza dell’attribuzione del Vasari, che non trova altri riscontri documentali. Il fatto è che la chiesa superiore di Assisi, ultimata nel 1252 da frate Elia, era divenuta il cantiere più importante d’Italia, dove era giunto Cimabue fra il 1280 e il ’90 e poi altri pittori di cui come Torriti, Rusuti e Cavallini. Giotto fu una delle voci del coro, ma poi divenne l’albero che copre la foresta anche perché, probabilmente, più degli altri, aveva compreso il messaggio di Francesco. Si guardi, per esempio, alla Predica agli uccelli, un affresco concordemente attribuito. Il santo non sta al centro della scena, come ci si sarebbe potuti aspettare, ma a sinistra. I protagonisti sono gli uccelli che volano o saltellano verso il Poverello d’Assisi, il cielo che sta sullo sfondo e il grande albero sulla destra che pare instaurare un muto dialogo con Francesco considerato – anche visivamente – una delle «creature» che lodano Dio, così ARTE MA IN QUELLA BASILICA HANNO LAVORATO MOLTE MANI «Volse la pittura di greco in latino»: così si diceva del sommo pittore toscano, che in pochissimi anni seppe passare dalla scuola ancora «bizantina» del suo maestro Cimabue, a un realismo tridimensionale e drammatico Due grandi mostre ad Assisi EVENTI Gli affreschi visti da vicinissimo Apre il 10 aprile «I colori di Giotto. La Basilica di Assisi tra restauro e restituzione virtuale», una grande mostra che propone la visione dei restauri degli affreschi dopo il terremoto. Tra la Basilica assisate e Palazzo del Monte Frumentario fino al 5 settembre sarà infatti possibile, grazie alle più moderne tecnologie, osservare aspetti finora ignoti della pittura di Giotto, oltre a rivederli in forma virtuale dove non è stato possibile il recupero. I visitatori potranno anche salire sui ponteggi per ammirare da vicino «i colori di Giotto». L’evento fa parte del programma triennale promosso dal Comune per celebrare l’VIII centenario della fondazione dell’Ordine francescano e in prospettiva per la candidatura di Assisi come Capitale europea della Cultura nel 2019. Nell’ambito delle stesse manifestazioni è previsto un secondo appuntamento nella primavera 2011 su «Giotto e Assisi. Il cantiere della Basilica e l’arte in Umbria tra Duecento e Trecento». come sta scritto nel celebre Cantico. La scena riprende quasi alla lettera il testo della Legenda major scritta da san Bonaventura da Bagnoregio, ma omettendo il riferimento geografico al viaggio verso Bevagna, ne fa un’immagine universale dell’amore verso il mondo che, per potenza e intensità, ha corrispettivo solo nei versi dello stesso Francesco che recita: «Laudato si’, mi’ Signore, per sora nostra matre Terra, / la quale ne sustenta et governa, / et produce diversi fructi con coloriti fiori et herba». Si pone allora qui un’altra questione, ovvero quella del rispetto del pensiero religioso originario di Francesco. Dopo la morte del santo, infatti, l’ordine monastico da lui fondato fu sottoposto a un processo di revisione. Chiara Frugoni ha ben spiegato questo percorso dettato dall’impossibilità di imitare alla lettera il Santo. I motivi erano, da una parte, nel bisogno di addolcire aspetti che avrebbero impedito la sua stessa sopravvivenza dell’Ordine, come la condizione di povertà assoluta; dall’altra nell’episodio delle stimmate, rivisto da san Bonaventura rispetto al resoconto di Tommaso da Celano e tradotto in figura proprio da Giotto. San Francesco diveniva un modello irraggiungibile e l’azione dei suoi seguaci servì ad evitare sterili emulazioni. Scrive la Frugoni: «…frati e devoti poterono continuare a venerarlo ma non dovettero più prenderlo a inquietante modello di vita esemplare, volgendosi piuttosto ad altri santi innovatori che intanto l’Ordine aveva acquisito fra le sue file». Questo, però, non vuol dire che Giotto non avesse compreso il significato profondo del pensiero di Francesco, ma neppure che Giotto fosse un asceta di Cristo. Delle sue origini contadine, infatti, l’artista non mantenne solo la capacità di apprezzare le cose semplici, ma pure «l’occhio aguzzo» per il commercio, come dice Dante dei contadini. Giotto era un ottimo imprenditore di se stesso, ma «scarpe grosse e cervello fino» non significa sordità alla spiritualità di Francesco, adesso interpretata con strumenti stilistici innovativi, gli unici in grado di tradurre in immagine il nuovo senso religioso che proveniva e proviene dal francescanesimo. di Marco Bussagli AGORÀ DOMENICA DOMENICA 7 MARZO 2010 3 Nell’affresco della «Predica agli uccelli» il santo non sta al centro della scena I protagonisti sono i volatili che saltellano verso il Poverello, il cielo sullo sfondo e l’albero sulla destra: è come un’illustrazione del «Cantico delle Creature» Giotto Il contadino che ha colorato san Francesco A fianco «La predica agli uccelli» di Giotto nella Basilica superiore di San Francesco di Assisi. In alto «Allegoria della povertà», affresco della Basilica inferiore di Assisi attribuito al «Maestro delle vele» (Fototeca).

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n un’intervista di tanto tempo fa (1988)Giuliano Briganti, insigne storico dell’arte,paragonava il difficile problemadell’attribuzione a Giotto degli affreschi della

Basilica superiore di Assisi alla questione omerica.La faccenda era sul tavolo degli studiosi almenodagli anni Sessanta del secolo scorso, quandoRoberto Salvini (Giotto: gli affreschi di Assisi, Firenze1965) considerava Giotto sempre meno presentenelle ultime specchiature del ciclo pittoricoassisiate. Fu, però, Cesare Gnudi (Giotto, Milano1959) il primo a tentare il sistematico distinguo dimani ed autori. Le difficoltà di attribuzioneriguardano soprattutto le storie relative al registromedio della decorazione, ovvero quelle cheaffiancano le finestre nella parte inferiori, con

particolare riguardo alle Storie Bibliche per le quali,infatti, proposte affascinanti vennero da studiosecome Angiola Maria Romanini. La grande medievista,proprio sugli studi di Gnudi, nel 1987, ipotizzò lapresenza ad Assisi di un Arnolfo di Cambio pittore(prima che architetto) al quale andrebbero attribuitele scene in genere considerate del cosiddettoMaestro d’Isacco. Domenica 16 febbraio 1997,sull’inserto del Sole 24 ore, apparve un lungoarticolo di Federico Zeri e Bruno Zanardi che – conaccenti scandalistici – asserivano che gli affreschi diGiotto sono di Cavallini. Anche in questo caso, però,c’erano dei precedenti, a cominciare da padreGuglielmo Della Valle (1791), per continuare conWitte (1821) e Rumohr (1821) che nonconsideravano di Giotto il ciclo francescano, al

contrario del Thode (1885) che riteneva quellestorie assolutamente autografe. La pubblicazionedi un lungo e serio studio di Zanardi (Giotto ePietro Cavallini, Milano 2002) indicò le consonanzestilistiche con Cavallini. L’approccio di Zanardi(che ora insegna all’Università di Urbino) è quellodel restauratore, di chi conosce come si realizza unaffresco e sa osservare piccoli ma significativiritorni stilistici, come per esempio la resa da partedi Cavallini delle orecchie che compaiono anche adAssisi. Non solo, ma l’idea dell’unico artista chedipinge tutto deve essere abbandonata, esaminandouna complessa macchina come il cantiere dellaBasilica Superiore. Di recente (2009), nel catalogodella mostra su Giotto (Giotto e il Trecento. «Il piùSovrano maestro stato in dipintura»), Alessandro

Tomei è tornato sul tema, senza condividerel’attribuzione a Cavallini, ma sottolineando, invece,la coralità del cantiere di Assisi dal quale sono natele diverse lingue «giottesche» della pittura italiana:Rimini, Roma, Napoli, Firenze, Bologna.

Marco Bussagli

I

sorprendente come, talvolta,piccoli dettagli, a prima vistainsignificanti, possano celaredietro di loro interi universi

culturali e addirittura cambiamentiepocali. Ce ne renderemo contoparagonando la mano del Crocifisso diCimabue di San Domenico ad Arezzo oquello di Santa Croce a Firenze, con lostesso particolare della Croce dipinta daGiotto per Santa Maria Novella. Il lassodi tempo che separa le tre opere è dipochi anni: quelle di Cimabue sonodatabili rispettivamente al 1268-1271 efra il 1287 e il 1288, mentre il dipinto diGiotto fu realizzato nel decennio che vadal 1290 al 1300; dunque unadifferenza che oscilla da un minimodi due ad un massimo di 32 anni,secondo le datazioni e icapolavori che prendiamo inconsiderazione. Un periodopiuttosto breve, rispettoalle grandi differenze dimentalità e disensibilità che sicelano dietro lescelte stilisticheriflesse nelle manidel Cristo dipintedai due artisti.Quella di Cimabue(qualunque se nescelga) è quasi unfiore aperto sulfondo scuro dellacroce. Il maestro si preoccupa didipingerla distesa, come se si dovesse farvedere per forza il chiodo che la stamartoriando. Anche il sangue scendeverso il basso con un rivolo «educato»,senza sbavature. La mano del Crocifisso diGiotto, invece, è collocata nello spazio,in prospettiva. Le dita flesse verso ilpalmo e il pollice che vi si oppone,creano un volume sconosciutoall’immagine piatta di Cimabue. Anche ilrigagnolo di sangue non è più cosìconvenzionale: scorre ancora e imbrattatutto. Le sue diverse scolature dannoconto dei movimenti del Cristo nella suaagonia. Il primo dipinto è figlio dellatradizione di Bisanzio, ancora legato asoluzioni stereotipate come quelle diCoppo di Marcovaldo, Giunta Pisano,Margaritone d’Arezzo; il secondo, invece,è preso dalla realtà, forse basato sullostudio dei cadaveri, certo su quello dellafigura vera, di carne e di sangue. Questoè il significato della frase che CenninoCennini scrisse nel suo Libro dell’arte oTrattato della pittura: «Volse la pittura digreco in latino». Non si tratta, però, disterili innovazioni stilistiche o di trovategeniali: dietro queste scelte c’è ilpensiero di san Francesco. Non è quipossibile fare la storia del Crocifisso (néè questo il tema), ma l’opinione deglistudiosi (ricorderemo solo Michele Dolz eil suo delizioso libretto sullaCrocifissione) è quella che vede, nellaprogressiva umanizzazione del Crocifisso(raffigurato come «trionfante», ossia congli occhi aperti e il capo dritto, fino alXIII secolo), l’influsso della religiositàfrancescana. Del resto, l’interesse diGiotto per l’uomo e la natura avevarispondenza nell’amore di Francescod’Assisi per la persona e il creato.Probabilmente anche le umili origini diGiotto (forse diminutivo di Ambrogio o di

È

Biagiotto),figlio di Bondone«lavoratore di terra enaturale persona», comescriveva Vasari, contribuirono aquesta consonanza. Certo è che il pittoredel Mugello finì per divenire l’araldo delcristianesimo illuminato dal sole diFrancesco. Ad Assisi, racconta sempreVasari, nella seconda edizione delle sueVite, l’artista giunse «…essendovichiamato da fra’ Gioanni di Muro dellaMarca allora Generale de’ Frati di SanFrancesco, dove nella chiesa di sopradipinse a fresco, sotto il corridore cheattraversa le finestre, dai due lati dellachiesa, trentadue storie della vita e fattidi San Francesco, cioè sedici per facciata,tanto perfettamente che ne acquistògrandissima fama». Gli storici dell’arteancora si dibattono sulla correttezzadell’attribuzione del Vasari, che non trovaaltri riscontri documentali. Il fatto è chela chiesa superiore di Assisi, ultimata nel1252 da frate Elia, era divenuta ilcantiere più importante d’Italia, dove eragiunto Cimabue fra il 1280 e il ’90 e poialtri pittori di cui come Torriti, Rusuti eCavallini. Giotto fu una delle voci delcoro, ma poi divenne l’albero che coprela foresta anche perché, probabilmente,più degli altri, aveva compreso ilmessaggio di Francesco. Si guardi, peresempio, alla Predica agli uccelli, unaffresco concordemente attribuito. Ilsanto non sta al centro della scena, comeci si sarebbe potuti aspettare, ma asinistra. I protagonisti sono gli uccelliche volano o saltellano verso il Poverellod’Assisi, il cielo che sta sullo sfondo e ilgrande albero sulla destra che pareinstaurare un muto dialogo con Francescoconsiderato – anche visivamente – unadelle «creature» che lodano Dio, così

ARTE

MA IN QUELLA BASILICA HANNO LAVORATO MOLTE MANI

«Volse la pittura di grecoin latino»: così si dicevadel sommo pittore toscano,

che in pochissimi anni seppepassare dalla scuola ancora«bizantina» del suo maestro

Cimabue, a un realismotridimensionale e drammaticoDue grandi mostre ad Assisi

EVENTIGli affreschi visti da vicinissimoApre il 10 aprile «I colori di Giotto. La Basilica di Assisitra restauro e restituzione virtuale», una grande mostrache propone la visione dei restauri degli affreschi dopoil terremoto. Tra la Basilica assisate e Palazzo del MonteFrumentario fino al 5 settembre sarà infatti possibile,grazie alle più moderne tecnologie, osservare aspettifinora ignoti della pittura di Giotto, oltre a rivederli informa virtuale dove non è stato possibile il recupero. Ivisitatori potranno anche salire sui ponteggi perammirare da vicino «i colori di Giotto». L’evento faparte del programma triennale promosso dal Comune percelebrare l’VIII centenario della fondazione dell’Ordinefrancescano e in prospettiva per la candidatura di Assisicome Capitale europea della Cultura nel 2019.Nell’ambito delle stesse manifestazioni è previsto unsecondo appuntamento nella primavera 2011 su «Giottoe Assisi. Il cantiere della Basilica e l’arte in Umbria traDuecento e Trecento».

come sta scritto nel celebre Cantico. Lascena riprende quasi alla lettera il testodella Legenda major scritta da sanBonaventura da Bagnoregio, maomettendo il riferimento geografico alviaggio verso Bevagna, ne faun’immagine universale dell’amore versoil mondo che, per potenza e intensità, hacorrispettivo solo nei versi dello stessoFrancesco che recita: «Laudato si’, mi’Signore, per sora nostra matre Terra, / laquale ne sustenta et governa, / etproduce diversi fructi con coloriti fiori etherba». Si pone allora qui un’altra

questione, ovvero quella del rispettodel pensiero religioso originario di

Francesco. Dopo la morte delsanto, infatti, l’ordine

monastico da lui fondato fusottoposto a un processo di

revisione. Chiara Frugoniha ben spiegato questo

percorso dettatodall’impossibilità di

imitare allalettera il Santo.I motivi erano,da una parte,nel bisogno diaddolcireaspetti cheavrebberoimpedito lasua stessasopravvivenzadell’Ordine,

come la condizione di povertà assoluta;dall’altra nell’episodio delle stimmate,rivisto da san Bonaventura rispetto alresoconto di Tommaso da Celano etradotto in figura proprio da Giotto. SanFrancesco diveniva un modelloirraggiungibile e l’azione dei suoiseguaci servì ad evitare steriliemulazioni. Scrive la Frugoni: «…frati edevoti poterono continuare a venerarloma non dovettero più prenderlo ainquietante modello di vita esemplare,volgendosi piuttosto ad altri santiinnovatori che intanto l’Ordine avevaacquisito fra le sue file». Questo, però,non vuol dire che Giotto non avessecompreso il significato profondo delpensiero di Francesco, ma neppure cheGiotto fosse un asceta di Cristo. Dellesue origini contadine, infatti, l’artistanon mantenne solo la capacità diapprezzare le cose semplici, ma pure«l’occhio aguzzo» per il commercio,come dice Dante dei contadini. Giottoera un ottimo imprenditore di se stesso,ma «scarpe grosse e cervello fino» nonsignifica sordità alla spiritualità diFrancesco, adesso interpretata construmenti stilistici innovativi, gli uniciin grado di tradurre in immagine ilnuovo senso religioso che proveniva eproviene dal francescanesimo.

di Marco Bussagli

AGORÀDOMENICA DOMENICA7 MARZO 2010 3

Nell’affresco della «Predica agliuccelli» il santo non sta al centro della scena

I protagonisti sono i volatili che saltellano versoil Poverello, il cielo sullo sfondo e l’albero sulla destra:

è come un’illustrazione del «Cantico delle Creature»

Giotto Il contadinoche ha colorato

san Francesco

A fianco «La predica agli uccelli» di Giottonella Basilica superiore di San Francesco di Assisi. In alto«Allegoria della povertà»,affresco della Basilicainferiore di Assisi attribuito al «Maestro delle vele» (Fototeca).