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1 Arte e Follia Studi di Psicologia, Sociologia, Filosofia e Psichiatria Carola Palazzi Trivelli, Alberto Taverna Perché il rovescio che è l’unico diritto è invidiato dall’inverso, mentre invece è l’inalienabile superficie il cui pieno è il solo stato? Antonin Artaud. Questo capitolo non tratterà né d’arte né di follia, come invece promette il titolo, bensì cercherà di capire, descrivere il rapporto tra i due termini, o meglio tra i due insiemi, nel tentativo di chiarire se vi sia uno spazio per una storia delle idee inerenti all’arte terapia, così com’è oggi. In assenza di studi consolidati sull’argomento abbiamo pensato di procedere per parole chiave, per concetti, alcuni dei quali, come si vedrà, sono come dei nodi attraverso i quali non si può non passare, ed altri sono degli insiemi che rimandano continuamente ad altro. E’ un argomento ancora poco esplorato dunque, come giovani sono le artiterapie sia in termini di modelli teorici che di sperimentazione e validazione delle tecniche. E’ come salire su un’astronave non sapendo se il mondo che cerchiamo sia un luogo d’ombra o di luce, o come e quanta sia l’alternanza tra queste e se gli altri mondi che incontriamo nel viaggio facciano parte veramente dello stesso sistema solare. La galassia è questa: Teatro forma ruolo sociale Musica razionalità adattamento contrapposizione Letteratura linguaggio cultura normale anormale Pittura codice analogico sofferenza emarginazione Danza comunicazione conoscenza devianza Scultura mercato creatività espressione ripetizione terapia Arte arti/artisti fruizione genio follia/schizofrenici, nevrotici, antisociali

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Arte e Follia

Studi di Psicologia, Sociologia, Filosofia e Psichiatria

Carola Palazzi Trivelli, Alberto Taverna

Perché il rovescio che è l’unico diritto è invidiato dall’inverso,

mentre invece è l’inalienabile superficie il cui pieno è il solo stato?

Antonin Artaud.

Questo capitolo non tratterà né d’arte né di follia, come invece promette il titolo, bensì

cercherà di capire, descrivere il rapporto tra i due termini, o meglio tra i due insiemi, nel

tentativo di chiarire se vi sia uno spazio per una storia delle idee inerenti all’arte terapia,

così com’è oggi.

In assenza di studi consolidati sull’argomento abbiamo pensato di procedere per parole

chiave, per concetti, alcuni dei quali, come si vedrà, sono come dei nodi attraverso i quali

non si può non passare, ed altri sono degli insiemi che rimandano continuamente ad altro.

E’ un argomento ancora poco esplorato dunque, come giovani sono le artiterapie sia in

termini di modelli teorici che di sperimentazione e validazione delle tecniche. E’ come

salire su un’astronave non sapendo se il mondo che cerchiamo sia un luogo d’ombra o di

luce, o come e quanta sia l’alternanza tra queste e se gli altri mondi che incontriamo nel

viaggio facciano parte veramente dello stesso sistema solare.

La galassia è questa:

Teatro forma ruolo sociale

Musica razionalità adattamento contrapposizione

Letteratura linguaggio cultura normale anormale

Pittura codice analogico sofferenza emarginazione

Danza comunicazione conoscenza devianza

Scultura mercato creatività espressione ripetizione terapia

Arte arti/artisti fruizione genio follia/schizofrenici, nevrotici, antisociali

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L’arte, gli artisti e gli artisti folli

Che cos’è l’arte? Se vogliamo porci su di un piano storico, e concreto al tempo stesso,

possiamo affermare che l’arte si estrinseca in un’opera, che resta nel tempo, specchio

espressivo delle idee di qualcuno che chiamiamo artista, figlio comunque del suo tempo. Il

fatto che l’opera sia fruibile non solo dai contemporanei dell’artista è ciò che la rende vera

opera d’arte, non semplice manufatto o parola o gesto senza storia, bensì un mattone

importante del monumento alle idee dell’uomo. Nel passaggio da un'estetica idealistica a

un'estetica moderna, la domanda che ci si pone non è tanto "se questa è un'opera d'arte",

ma come nasce, come si produce, a chi si rivolge, per quali canali viene trasmessa, in che

rapporto si trova con il suo creatore da un lato e con il pubblico dall'altro. Si cerca in

definitiva di intendere l'opera d'arte come parte del sistema di segni proprio di ogni cultura

umana, oppure come funzione della dinamica psichica e come risultato dello scontro tra

pulsioni e inibizioni dell'uomo, oppure ancora come il risultato di un processo sociale, in

base al modello di riferimento. In ultima analisi è il concetto stesso di arte che viene

messo in discussione e sostituito dalle varie forme artistiche, ognuna delle quali ha un

proprio codice espressivo e sistema di valori, non riducibili a un'idea astratta e metafisica

di "artisticità" (Rizzo 1977). L’immagine dell’arte e dell’artista varia dunque nel

tempo, secondo il sistema culturale di riferimento. L’artista, come ruolo sociale a se

stante, riconosciuto e valorizzato, non ha tuttavia storia lunghissima. Andiamo con la

memoria agli attori delle commedie greche, che senz’altro facevano altro nella vita, ai

cortigiani poeti e scultori dell’epoca romana, ai musici e commedianti medioevali, poco più

che servi, indipendentemente dal valore delle loro produzioni artistiche.

Nella Firenze del 1400 l’artista era un apprendista in una bottega artigianale.

Shakespeare e la sua compagnia tiravano a campare, e molti altri buffoni e saltimbanchi

come lui nel cinquecento e seicento.

Nel ‘700 Mozart ed altri musicisti di grande talento faticarono ad essere ammessi alla

mensa del re, e ad essere nominati maestri di cappella. D’altra parte Michelangelo,

Raffaello, Rubens, Tiziano ebbero grandi privilegi, grazie al loro talento. Godevano di un

preciso ruolo, erano adattati. Si sa che per uno che riesce, molti restano nell’ombra, e così

nasce spontanea una domanda: forse alcuni, o molti, che avevano attitudini, talenti

artistici o semplicemente bisogni ed interessi artistici ma non riuscivano a trovare il loro

spazio andavano ad ingrossare la massa dei drop out, medioevali od anche

cinquecenteschi, andando a ricadere in comportamenti fuori norma, delinquenziali, bizzarri

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e dunque diventando ospiti abituali di Bethlelem o de la Salpetière? Foucault (1961) ha

definito la grande segregazione l’operazione tesa ad isolare le persone difficili, pericolose

o semplicemente diverse nella quale ha visto una deliberata politica. Il decreto del 1656,

emanato in Francia da Luigi XIV, dà infatti inizio all’internamento di massa, grazie a leggi

di polizia, di tutti i componenti delle corti dei miracoli che affollavano le città dopo le

sanguinose e depauperanti guerre precedenti. Persone senza un lavoro, uno status

sociale: né contadini, né artigiani, né commercianti, né nobili, né appartenenti al clero, che

se avevano avuto un ruolo sociale ora l’avevano perduto, venivano rastrellati e confusi

con malati di mente e delinquenti (Ristich De Groote 1967).

Questo possibile punto di contatto tra artisti, sfortunati o troppo originali, e folli ovvero il

disadattamento, l’anormalità e dunque la segregazione è contraddetto, nel gioco delle

immagini, da un punto di vista diametralmente opposto: l’artista non come emarginato

bensì circondato da un alone eroico. Secondo quest’ottica gli artisti e la loro vita diventano

leggenda, quasi identificati con i protagonisti dei loro racconti o delle loro opere. Senza

conoscerla la vita personale di Omero, Goethe, Mozart o Leonardo viene immaginata

senza macchia, equilibrata e soddisfacente.

Tale modo di vedere l’artista non è certo un punto di contatto con l’idea corrente di follia,

sinonimo di pericolosità, rivolta, disequilibrio e - solo più recentemente- sofferenza, ma lo

è invece quella sul carattere psicologico dell’artista “maledetto” cioè irregolare, tormentato,

deviante, irriverente di fronte alle regole e alle leggi, religiose, istituzionali o sessuali.

Esempi ne sono Caravaggio, Baudelaire, Genet, Bukoski e molti registi di cinema e di

teatro contemporanei. Gli insiemi dell’arte e della follia o meglio degli artisti e dei folli si

intersecano e si sovrappongono quando poniamo attenzione alle caratteristiche di

contrapposizione alla norma e di devianza dalla normalità.

Sarebbe stata da curare questa devianza o era, ed è, il segno del genio, il segno di Dio

nell'uomo? Inoltre per assurdo, poiché storicamente e antropologicamente insensato, se i

buffoni, i bizzarri, i cantastorie inascoltati invece di venire segregati giacché poveri ed

incapaci di adattamento fossero stati curati avrebbero potuto mostrare tutte le loro

capacità e i loro talenti? I pareri sono controversi. Facciamo dunque parlare gli artisti

riconosciuti storicamente come tali –in quanto solo di questi è rimasta traccia ovviamente-

cui la follia ha attraversato la strada e quasi sempre l’ha interrotta.

Il materiale esposto nel seguito è tratto essenzialmente dalla Storia sociale della follia di

Roy Porter dove l’autore ha meticolosamente raccolto le testimonianze dirette di pazzi più

o meno illustri, da lettere o scritti, e le loro storie.

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Torquato Tasso visitato da Montaigne in manicomio, siamo alla fine del ‘500, appare

totalmente incapace di intendere. Né Montaigne né i medici che lo hanno in cura hanno

dubbi: come qualunque persona normale Tasso, scrittore e poeta, con la perdita del

senno ha perso anche il talento.

William Blake, poeta, al contrario non venne mai rinchiuso in manicomio. Era orgoglioso

della sua follia, dichiarava di scrivere ispirato dalle voci, sotto dettatura: “ non ragionerò né

confronterò: il mio compito è creare”. Siamo in pieno Romanticismo, la follia è il prezzo da

pagare per creare, per essere un genio.

Robert Schumann, musicista, morì in manicomio, del resto conversava con le sue voci,

anch’egli sosteneva di comporre musica sotto dettatura: la sinfonia di Primavera tra le

altre sue opere. Le cure psichiatriche cui venne sottoposto consistettero nell’isolamento

totale: morì suicida nel 1856. E’ possibile che soffrisse di schizofrenia, tuttavia la

segregazione non giovò certo al suo desiderio di comunicare, nel modo migliore che

conosceva: la musica.

Maurice Utrillo, 1883-1955, inizia a dipingere su suggerimento della madre, anch’essa

pittrice, quando, a 17 anni, era già alcoolizzato. Conduce nella giovinezza una vita

solitaria, vagabonda e inframmezzata da numerosi ricoveri in manicomio, forse

antesignano dei moderni tossicodipendenti sofferenti di patologie psichiatriche. Il

successo, il matrimonio, l’abbandono dell’alcool non impediscono diversi tentativi di

suicidio e – secondo i critici d’arte – anzi impoveriscono e irrigidiscono la sua arte.

Virginia Woolf, scrittrice, cui era stato consigliato da alcuni medici di non leggere e di non

scrivere (la cura del riposo) per non eccitare ulteriormente la sua acuta sensibilità, non

accettò in seguito trattamenti psichiatrici o psicoanalitici, temendo che l’avrebbero privata

delle sue capacità. Ritroviamo nei suoi scritti e nella sua biografia le tracce pesanti di una

profonda sofferenza esistenziale – forse isteria, forse disturbo narcisistico di personalità-

all’insegna della rivolta contro l’ordine costituito, sino al riuscito tentativo di suicidio del

1941.

Antonino Artaud, attore, scrittore e drammaturgo, morì (nel1948) poco dopo che il suo

studio su Van Gogh, suicidato dalla società, era stato premiato, e non smise mai,

nonostante l’internamento e l’aggravarsi delle crisi, a tentare di comunicare con un mezzo

che amava, anche se non forse quanto il teatro (impossibile allora in manicomio): la

scrittura, anche se molti suoi scritti dell’ultimo periodo risultano estremamente analogici e

dunque pressoché incomprensibili.

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Le storie e i destini degli artisti folli sono strettamente intrecciati con le loro effettive

diagnosi, che oggi potrebbero dir molto sul funzionamento psichico, e dunque sulle

conseguenti terapie, mentre ieri erano spesso approssimative o addirittura sbagliate, e

con la storia dei trattamenti psichiatrici, figli delle Weltanschaung delle epoche storiche in

cui furono messi in atto. E’ dunque un gioco di specchi ciò che risulta dal tentativo di

confrontare collocazione sociale, strutture di personalità, valutazioni storiche ed immagini

dell’arte/artisti e della follia/folli nel tempo.

Non scopriamo nessun segreto certo seguendo questa strada, se non che il bisogno

d’espressione e di comunicazione era fortissimo in queste persone e che le risposte

terapeutiche, consistenti in segregazioni e forzati adattamenti, non sembrano aver giovato

o modificato la situazione a vantaggio degli artisti folli. Tuttavia comunque vogliamo

considerare l’insieme degli artisti, comprendendo o solo coloro di cui è rimasta traccia,

oppure ipotizzando un insieme più ampio, che accolga al suo interno anche quelli che,

non riuscendo a lasciare un segno che duri nel tempo, si diluirono nella massa dei

devianti occorre ricordare che, secondo gli studi epidemiologici attuali, una percentuale

costante della popolazione si ammala di schizofrenia, depressione, nevrosi o disturbi della

personalità, con variazioni non poi così rilevanti dovute ad influenze etniche e storico-

culturali. Inevitabilmente anche fra gli artisti dovremmo ritrovare la stessa percentuale di

disturbi psichici rispetto alla popolazione generale, almeno il 15-20 %, ed, infatti, la

ritroviamo, forse un po’ aumentata.

Ciò consentì, per nostra fortuna, ad alcuni artisti, secondo le diverse forme di

comunicazione iconica, di aprire degli squarci di conoscenza su un mondo altrimenti

precluso ai normali, ai non pazzi:

“E’ il caso ad essere l’infinito e non dio, e che cos’è il caso?

Sono io, mi ha detto il mio io che mi ascolta.

E gli ho risposto: tutti gli io sono a questo punto perché, in quanto a me, non ti ascolto”

(Antonin Artaud 1947).

L’arte, la creatività e la follia

Picasso diceva: “Io non cerco, trovo”, intendendo far riferimento all’atto creativo che

sgorga inevitabile senza bisogno di preliminari. Cos’è la creatività? Si parla di “belle arti”

dunque si fa riferimento alle categorie bello/brutto, ed anche per svincolarsi solo

apparentemente da questa dicotomia ci si può riferire ad una pratica tecnico- formale

corretta, e quindi in questo caso sempre in dipendenza di un giudizio. Ovvero nel

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percepire un atto creativo estrinsecato si affermerà che ha una forma, tecnicamente

realizzata, e ciò in qualche modo lo rende bello.

Platone affermava che ogni forma di sensazione è nemica della saggezza, ma anche nel

Fedro e nel Convivio, che le persone possedute da divina follia, o furore, dunque

possedute da visioni, erano elevate al di sopra delle cose del mondo. Con Aristotele si

restituisce alla singola percezione dignità di conoscenza, dando valore alla sensazione ed

alla rappresentazione.

Nel Rinascimento si sottolinea, pensiamo a Leonardo, la riunione tra sensibilità ed

intelletto ed in seguito Hobbes parla di comportamento ingegnoso ed Hume di gusto,

intorno al tema della creatività. Con Kant proprio il gusto, ovvero la sensibilità artistica che

gode degli atti creativi ma non li compie, si deve alleare con la sensibilità attiva la quale,

grazie all’originalità, ovvero il genio pone pietre miliari o talvolta capovolge il gusto

comune. Per Hegel l’arte è un incontro tra il supremo interesse dello spirito assoluto e la

realtà sensibile, ed è così una delle forme del conoscere. Schopenauer afferma che il

genio artistico, dotato dunque di creatività, consiste nelle capacità di conoscere le idee,

non gli oggetti, e che questa capacità deve trovarsi in misura –forse diseguale- in tutti gli

esseri umani, perché altrimenti né gli artisti sarebbero in grado di produrre le opere d’arte,

né gli altri uomini di apprezzarle.

Questi concetti aprono la strada alla visione romantica dell’arte, tipica anche delle

avanguardie attuali. In quest’ultimo senso l’arte si oppone, contrasta il buon senso, il

vivere piatto, concreto e conformista d’ogni giorno, che non ha nulla di supremo né

d’assoluto: l’arte è altro, spesso paradosso.

Nella storia delle idee arte e follia è in quest’ultimo punto che possono forse congiungersi,

quasi sovrapporsi. Anche la follia è stata vista come altra, paradossale ed in contrasto col

vivere comune (Ristich De Groote op. cit.) Tuttavia arte non è ripetizione e neppure

imitazione, si abbina invece facilmente ai concetti di creatività e d’immaginazione (vedi a

questo proposito la voce “creatività” di Manlio Brusatin, Enciclopedia Einaudi, vol. 15).

La creatività ha a che vedere con qualcosa che prima non c’era, per il soggetto che crea e

per i fruitori di questa creazione. Non è dunque un atto di conoscenza, la creatività?

Kant parla, per quanto riguarda l’arte, di una creatività secondo regole e del libero gioco

dell’esperienza estetica, più recentemente Wittgenstein del linguaggio che, come il gioco,

se viene falsificato o tradito non è più linguaggio né gioco e porta all’impossibilità di

giocare. Questo grande filosofo auspica un gioco apparentemente senza regole, dove

queste vengano inventate momento per momento: tale è proprio la creatività artistica,

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come oggi l’intendiamo. Così si arriva a concludere con Garroni, citato da Brusatin sempre

nel vol.15 dell’enciclopedia Einaudi, come la creatività artistica sia una specializzazione

non conoscitiva del conoscere stesso. D’altra parte Heidegger (1927 Essere e Tempo),

afferma che l’arte, l’opera d’arte, è il porsi in opera della verità. E’ nell’opera d’arte che la

verità si storicizza in un processo continuamente rivolto all’interpretazione dell’uomo, e

dunque ermeneutico. La filosofia fenomenologica ed esistenzialista individua

"l’essere-nel-mondo" come il modo d’essere costitutivo dell’uomo, che è esistenza ed il

suo essere-nel-mondo è con «essere» (da-sein) inteso come originaria apertura al.

mondo: l’essere-nel-mondo dell’uomo è nello stesso tempo «conesserci», essere con gli

altri. L’uomo si scopre come originaria co- esistenza e scopre il mondo come mondo

comune: in altre parole, l’uomo è costituito dalle relazioni concrete che intrattiene con le

cose e con gli altri, e non può essere studiato e conosciuto se non attraverso queste

relazioni.

Il modello fenomenologico è stato, ed è tuttora, particolarmente fecondo di studi e

riflessioni sul rapporto tra malattia mentale ed espressione artistica. Il più famoso di questi

lavori è probabilmente «Genio e Follia» di K. Jaspers (1960), il quale, attraverso l’analisi

della biografia e delle opere di Strindberg, di Van Gogh e di Holderlin, esplora le

connessioni tra la produttività artistica di questi autori e lo svilupparsi della loro patologia.

Il punto non è qui una riflessione diagnostica. Ma, coerentemente con l’impostazione

filosofica, una ricerca sulle forme dell’essere. Il problema dell’espressione della

soggettività psicotica in Jaspers è particolarmente centrale in quanto egli, massimo

rappresentante della fenomenologia soggettiva il cui compito è «presentificarci

intuitivamente gli stati psichici, come sono provati dai pazienti», giunge alla conclusione

che i fenomeni psicotici non possono essere rivissuti oggettivamente in quanto fenomeni

destorificati privi di senso e trascendenza (Borgna, 1995). L’unica possibilità d’accesso a

questo mondo è attraverso le forme artistiche che pochi artisti psicotici sono riusciti a

produrre prima del crollo definitivo.In questo l’opera di Holderlin apre secondo Jaspers

scorci illuminanti e carichi d’angoscia su questo mondo carico d’alterità.

Un altro psichiatra di orientamento fenomenologico, Hans Prinzhorn (1923), di cui già si è

parlato nella parte storica, è del resto uno dei padri fondatori dello studio specifico sull’arte

psicopatologica. L’essenza dell’interesse della psichiatria fenomenologica per l’attività

artistica è condensata nella seguente affermazione «le opere singole e le loro condizioni

di originalità, intese come varietà delle esperienze umane nel quadro generale dell’essere,

saranno ordinate in base al concetto di impulso originario, la gestaltung, dietro cui si cela,

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in qualità di fondamento spirituale, il bisogno di espressione. In breve, questo nostro

studio si porrebbe interamente al di la della psichiatria e dell’estetica e apparterrebbe

all’ambito delle forme dell’essere, colte secondo un punto di vista fenomenologico».

E’ il bisogno innato dell’essere di manifestarsi che determina l’espressione artistica. Inoltre

secondo Prinzhorn nelle creazione schizofreniche è possibile trovare allo stato puro le

singole componenti del processo di Gestaltung, presenti in ogni persona sotto forma di

disposizioni latenti. Del resto Strindberg e Van Gogh hanno potuto attingere

all’inesprimibile perché la loro struttura formale ha saputo reggere anche solo per un

attimo all’incandescente erompere del magma psicotico prima che questo portasse poi

all’incenerimento delle capacità creative e al silenzio come in Holderlin, o al suicidio come

in Van Gogh.

La follia è dunque una delle forme dell’essere nel mondo e può essere con- divisa quando

trova forma di espressione, ma in che rapporto sta la follia con la creatività, ci si dovrebbe

chiedere a questo punto. Si potrebbe affermare che la follia è la messa in opera di una

verità, che la follia è una specializzazione non conoscitiva del conoscere stesso?

Come abbiamo visto Jaspers, analizzando la cronologia delle opere di Strindberg,

Swedenborg, Hòlderlin, e Van Gogh, (definiti sia geni creativi che schizofrenici) in

relazione all’andamento della malattia non giunge certo a concludere che sia stata la

schizofrenia a produrre il genio, ma neppure che là dove vi era grande talento i processi

schizofrenici l’abbiano azzerato o lentamente annullato. Jaspers afferma che la

schizofrenia, vera follia, con la sua azione così durevole ed importante sulla personalità,

sarebbe per l’opera creativa un elemento propulsore senza esserne una condizione. La

forza creativa di Strinberg nasce dai problemi vitali della sua esistenza, resi più

prorompenti ed evidenti dal contenuto delle ripetute crisi psicotiche, durante le quali non vi

fu produzione artistica. In Van Gogh, nonostante i periodi di acuzie schizofrenica la

creatività non diminuisce ma “vi è una forte tensione tra la violenza dell’esperienza e lo

sforzo di stilizzazione che la disciplina. Una resistenza disperata s’oppone alle forze

disgregatrici che avanzano lentamente.” (Jaspers, 1922).La grandezza dell’incontro tra

genio e follia, ovvero tra creatività e schizofrenia sta nella possibilità di gettare uno

sguardo su profondità rivelatrici, su “un assoluto, che sempre nascosto, si rivela solo in

figure finite” (Jaspers, op.cit.).

Negli schizofrenici che non furono e non sono dotati di un così grande talento, letterario,

musicale o pittorico, che fine fa la creatività?

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Negli artisti come nei folli la porta tra l’inconscio e la coscienza è spalancata, sostiene la

psicoanalisi, ma nei primi il materiale psichico disordinato e misterioso trova la sua via

d’espressione, disciplinato dalle tecniche e dal lavoro. L’importanza della struttura formale

rispetto ai contenuti puri dell’inconscio nella creazione artistica è sottolineata da Gombrich

(1965). Egli critica l’interpretazione riduttiva di certa psicoanalisi che, di fatto, elimina la

funzione del processo preconscio di elaborazione formale di un contenuto inconscio

dell’artista, per interessarsi solo di quest’ultimo; “Solo le idee inconsce che possono

essere adeguate alla realtà delle strutture formali divengono comunicabili e il loro valore

per gli altri sta per lo meno altrettanto nella struttura formale, quanto nell’idea stessa. Il

codice genera il messaggio”.

Contemporaneo a Gombrich è il contributo di Arnheim (1966), che getta un ponte tra

psicologia e critica d’arte, partendo dai presupposti della teoria della forma. Egli sostiene

che il processo visivo è un atto creativo, ricostruzione di strutture di significato, non solo

registrazione fotografica di elementi parcellari. Questo è vero soprattutto per l’opera d’arte,

sia per la creazione, sia per la fruizione. Le strutture formali dell’opera, luce, colore,

equilibri tra spazio e forma dimostrano che in essa si verifica una trasformazione della

forma pura in strutture di significato che vengono prodotte dall’intuizione artistica.

Anche Fornari (1974), pur muovendosi in ambito freudiano e prestando particolare

attenzione alla musica, che evocherebbe in particolare l’esperienza intrauterina, dimostra

una grande attenzione all’aspetto formale. L’artista si immerge nelle profondità delle

relazioni coinemiche per portarle sotto il segno della forma, in un continuo muoversi tra

profondità e superficie. Il coinema, la parte affettiva e primaria di ogni discorso umano,

giunto alla luce diventa comunicazione all’interno della sintassi dei significati dell’opera. Si

hanno così dei segni nuovi, dove la creazione e la fruizione artistica diventano

linguisticamente comunicabili. “lo studio psicoanalitico del processo creativo dimostra che

l’attività creativa è riconducibile a processi di innovazione, i quali si esprimono attraverso

ristrutturazioni sia del campo cognitivo sia del campo affettivo, nelle quali è coinvolta tutta

la personalità dell’artista”.

In sintesi, anche se i pazienti schizofrenici, come gli artisti, hanno maggiore facilità ad

accedere a contenuti inconsci, solo quelli in grado di tradurli in una struttura formale, che

è anche un codice condiviso, sono in grado di produrre opere d’arte che vengano

riconosciute e apprezzate dalla comunità. Si potrebbe anche ipotizzare che l’artista, come

il soggetto schizofrenico, attraversi delle fasi di iperinclusione, ovvero di sovrapproduzione

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di concetti, e di immagini, ma l’artista riesce ad estrarne un’intuizione geniale, mentre il

paziente ne resta prigioniero.

Per gli schizofrenici in fase acuta tutto è possibile, contemporaneamente: incapaci, per

effetto della dissociazione, di organizzare ed articolare pensieri, sentimenti, atteggiamenti

tra loro incompatibili, essi non riescono a decidere cosa sia in un dato contesto, rilevante

e pertinente. D’altra parte, per effetto dell’ambivalenza, più sistemi di riferimento, incongrui

tra loro, si presentano contemporaneamente alla coscienza. Dunque quella che potrebbe

essere creatività si manifesta come caos, sia sul piano soggettivo che oggettivo: il

pensiero iperinclusivo (Mc Reynolds 1960) è solo apparentemente creativo, è la caricatura

della creatività (Ehrhardt, Gasca, Palazzi 1994). D’altra parte per difendersi da questa

continua, intollerabile confusione gli schizofrenici tendono ad adottare schemi di pensiero

e di comportamento ipersemplificati, che appaiono all’esterno come delirio cronico o ritiro

autistico, ciò di meno creativo che si possa immaginare. Gli schizofrenici non sono mai

creativi dunque. Bisogna perciò dar ragione ad una forte corrente medico/artistica (vedi

J.Feilacher nella sua introduzione al catalogo della collezione Gugging, la casa degli

artisti) che sostiene come una produzione artistica non diventa certo tale solo in quanto

prodotta da uno psicotico?

Tuttavia si può tornare a Jaspers ed alla fenomenologia esistenziale seppur

allontanandoci dal genio, pensando ad esseri umani che siano, anche, schizofrenici o folli.

Costoro hanno delle verità da svelare, da mettere in opera parafrasando Heiddeger, che

certo sono innovative, se non propriamente creative, a condizione che attraverso una

sorta di disciplina dell’espressione e della comunicazione possano accedere a una forma

condivisibile socialmente. Inoltre, si può a priori negare che la crisi schizofrenica acuta sia,

dato che non sussistono alternative diverse, per l’uomo schizofrenico, in quel momento,

l’unico modo per conoscere se stesso e per farsi conoscere, per rivelarsi: certamente

questa dunque una specializzazione non conoscitiva del conoscere stesso?

L’arte e i normali: codici di comunicazione e possibilità di fruizione

Forse, come si è visto finora, non è possibile stabilire un’equazione semplice e immediata

tra i concetti di arte/creatività e follia/disagio, tuttavia si può tentare una strada che passi

attraverso lo studio semiologico dell’espressione artistica, mettendo quindi tra parentesi

l’aspetto patologico dell’opera, osservando l’opera d’arte dal punto di vista dei cosiddetti

“normali”, ovvero il pubblico che non è artista, né generalmente schizofrenico. Si tratta di

riferirsi all’oggetto prodotto dagli artisti ufficiali e dalle persone che si dilettano di

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esprimersi creativamente, come espressione di intenzioni comunicative, siano essi o

meno anche pazienti psichiatrici. Il primo passaggio consiste nel chiarire il concetto di

interpretazione. La psicologia e in particolare la psicoanalisi tende ad utilizzare questo

termine in un modo che è potenzialmente ambiguo e carico di possibili fraintendimenti.

Questo viene generalmente inteso come il processo attraverso cui vengono svelati dei

significati nascosti o portati alla luce determinati elementi oscuri del paziente.

Tuttavia l’ermeneutica (Eco 1990) ha osservato come nell’analisi di un’opera vadano

distinti due aspetti fondamentali.

L’interpretazione, che è la ricostruzione del significato testuale come tale. Essa spiega

quei significati (e soltanto quei significati) come sono implicitamente o esplicitamente

rappresentati dal testo. Il suo oggetto è il significato testuale di un’opera in se stesso e per

se stesso e si può pertanto chiamare il significato del testo.

La critica, che costruisce sui significati dell’interpretazione: essa si pone nei confronti del

significato testuale non in quanto tale, ma in quanto componente di un significato più

ampio. Il suo oggetto è pertanto il significato dell’opera, in altre parole il significato nel suo

riferirsi a qualcosa di esterno all’opera, (criteri di valore, interessi attuali, modelli teorici).

Un altro riferimento teorico può essere rintracciato nella filosofia pluralistica di Popper

(Popper, 1972). Egli distingue tre mondi o universi. 1) il mondo degli oggetti fisici o stati

fisici; 2) il mondo degli stati di coscienza o degli atti mentali; 3) il mondo del contenuto

oggettivo del pensiero, specialmente dei pensieri scientifici o poetici delle opere d’arte. Il

secondo mondo è un mondo mentale soggettivo di esperienze personali. Secondo Popper

esiste inoltre una stretta correlazione tra il secondo e il terzo mondo. Quest’ultimo, pur

essendo un prodotto , una creazione dell’uomo, da origine a sua volta a un proprio ambito

di autonomia. Il lavoro di interpretazione appartiene secondo Popper al terzo mondo, in

quanto ogni interpretazione è una specie di teoria, ancorata ad altre teorie.

L’impostazione psicopatologica tende a considerare interpretazione ciò che invece

appartiene all’area della critica, o al terzo mondo di Popper. Infatti mentre l’interpretazione

in senso ermeneutico si basa sulle caratteristiche appartenenti all’opera (in questo vanno

comprese le intenzioni comunicative dell’autore che sono il secondo mondo di Popper), la

critica è una teoria esterna all’opera che stabilisce dei collegamenti tra il significato di

questa e una teoria esterna. La critica va in questo caso rigorosamente distinta

dall’interpretazione in quanto quest’ultima si riferisce all’oggetto, mentre la prima è

un’operazione dell’osservatore o terapeuta che stabilisce delle corrispondenze tra il

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significato dell’oggetto e un proprio sistema di credenze e di valori (ad esempio la teoria

psicoanalitica).

Una critica oggettiva deve innanzi tutto fondarsi su una ricostruzione consapevole del

significato dell’opera (da questo punto utilizzeremo questi termini in senso ermeneutico, il

significato è quindi il significato percepibile del quadro, la critica è il rapporto stabilito con il

mondo dell’osservatore e corrisponde in linea generale al concetto psicologico di

interpretazione).

In quest’operazione è però necessario salvaguardare due condizioni per sviluppare una

qualche forma di interazione con l’autore, conditio sine qua non di un qualsiasi intervento

terapeutico:

La comprensibilità dell’opera, ovvero occorre che una particolare immagine sia

decodificabile in qualche modo. Possiamo infatti decidere di rinunciare a teorie

psicologiche predefinite, ma non è possibile rinunciare in toto alla possibilità di

comprendere il significato di un disegno o di un testo in un modo che sia almeno

parzialmente riconducibile a quelle che sono le intenzioni comunicative dell’autore.

L’alternativa sarebbe infatti una situazione in cui ciascuno produce un suo disegno senza

alcun’intenzione o possibilità di comprendere il lavoro degli altri, né da questi essere

compreso.

La comunicazione dei significati dell’opera è il secondo punto cruciale per qualsiasi

esperienza di arte terapia. Comprendere un disegno rende infatti possibile comunicare

con l’autore all’interno di un’esperienza condivisa.

Per ottenere tale risultato occorre verificare se l’opera prodotta possieda effettivamente un

significato che sia comprensibile da più persone, comunicabile nell’esperienza e stabile

nel tempo, in quanto sganciato dal momento in cui è stato fatto e comprensibile anche da

chi non era presente nel momento della produzione. E’ necessario inoltre indagare in che

cosa consista questo significato.

Prima di compiere quest’operazione è indispensabile richiamare il lettore su alcuni punti

della filosofia di Husserl, esposti nelle sue ‘Ricerche Logiche’ (1913) e commentati da

Hirsch (1967). Husserl stabilisce una distinzione tra oggetti fisici, oggetti percepiti e quindi

parti della coscienza (oggetti intenzionali) e gli atti psichici riferiti agli oggetti della

coscienza (atti intenzionali). Si avrà perciò un disegno realmente esistente nello spazio, un

disegno interno alla nostra coscienza e una serie di atti (percezione, memoria,

immaginazione) riferiti a quest’ultimo. La caratteristica principale di questa relazione è che

gli atti di coscienza diversi si riferiscono allo stesso oggetto intenzionale. In altre parole io

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posso guardare un disegno da diversi punti di vista, posso immaginarmi alcune modifiche,

posso ricordarlo, ma l’oggetto quadro presente nella mia coscienza resterà invariato.

In altri termini tutti gli eventi della coscienza sono caratterizzati dalla capacità della mente

di far sì che gli atti di coscienza modalmente e temporalmente diversi si riferiscono allo

stesso oggetto di coscienza. Quindi l’oggetto mentale (la mia immagine del quadro) è

radicalmente distinto dagli atti mentali che vi si riferiscono, per cui non solo l’oggetto

quadro fisico, ma anche quello mentale (la sua immagine) ha una sua realtà e una sua

autonomia. Husserl chiama il rapporto tra oggetto mentale e gli atti di coscienza

‘intenzione’, che può essere in qualche modo assimilato a ‘coscienza’. In sintesi ‘atti

intenzionali diversi intendono un oggetto intenzionale’ (Hirsch, 1967).

Ora la caratteristica generale di tutti gli oggetti intenzionali (in quanto prodotti di coscienza)

è di essere dotati di ‘significato’. In particolare Husserl osserva che il significato verbale

(cioè il prodotto di un atto intenzionale che ha come oggetto la comunicazione verbale) ha

delle caratteristiche di oggetto intenzionale per molte persone, non ha perciò un significato

costante solo in riferimento alla persona, ma all’intera comunità dei parlanti. ‘Il significato

verbale è, per definizione, quell’aspetto dell’intenzione del parlante che, in base a

convenzioni linguistiche, può essere condiviso da altri’ (Hirsch 1967, p. 228).

A questo proposito si può presupporre che tali caratteristiche del significato verbale

possano essere estese ai significati trasmessi dal linguaggio delle immagini usate nella

pittura. Naturalmente questa operazione può essere discussa in quanto esiste una

fondamentale diversità tra il codice digitale tipico del linguaggio verbale e quello analogico

tipico delle immagini (Watzlawich, Beavin e Jackson, 1967, Sartirana, Sordano, Taverna e

Zamburru, 1987). Tuttavia la comprensibilità, sia dell’uno, che dell’altro, si fonda sul fatto

che entrambi rappresentano dei sistemi simbolici condivisi, in altri termini dei linguaggi, e

non delle specifiche forme che assumono: certamente la comprensione delle immagini

non si basa sugli stessi criteri di quella dei segni verbali. Questi ultimi infatti vengono

codificati in quanto trasmettono degli specifici contenuti cognitivi, che hanno una

corrispondenza diretta con i segni che li rappresentano, mentre le prime trasmettono,

attraverso forme e colori, determinate sensazioni, per loro natura più ambigue.

Tuttavia un nucleo di significato condivisibile è certamente presente almeno nell’opera

figurativa. Questo fatto può essere dimostrato da una certa somiglianza delle sensazioni

suscitate da alcune opere d’arte nei suoi osservatori nel corso del tempo e dalla possibilità

per la critica d’arte di concordare su alcuni elementi di un’opera.

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Occorre ancora un principio per stabilire quali siano i significati che appartengono

all’opera in quanto ‘intenzioni’ dell’autore, da quelli che non vi appartengono e come tali

lasciano spazio all’osservatore. Questa distinzione può essere fatta innanzitutto per i

contenuti espliciti, le forme riconoscibili dell’opera. Se in un disegno vi è un vaso di fiori è

abbastanza semplice accordarsi sul fatto che l’autore aveva, tra le altre di cui siamo

all’oscuro, l’intenzione’ di rappresentare un vaso di fiori. Le cose si fanno più complicate

quando il disegno rappresenta delle strutture informali, delle macchie di colore, delle

forme non definite o degli elementi concettuali dove il significato dell’opera risiede più

nelle azioni dell’autore che non nell’opera in sé (un foglio lasciato bianco, il gesto di

strappare il foglio o di tagliarlo). In questo caso l’assenza di significati figurativi espliciti

rende più difficile risalire a quali possano essere le ‘intenzionalità’ dell’autore. Tuttavia

anche qui è possibile delimitare un significato proprio dell’opera, che ci parla direttamente.

In primo luogo le strutture informali e gli accostamenti di colore determinano alcuni

significati immediatamente comprensibili: la ricerca dell’equilibrio o del contrasto, il

tentativo di esprimersi attraverso gesti istintivi, la ricerca di particolari effetti espressivi o

nuovi stili di espressione.

In secondo luogo si può dedurre il significato dell’opera facendo riferimento a quello che

Husserl chiama il suo ‘orizzonte interno’ che può essere identificato con il ‘contesto’ della

sua produzione (contesto sia nel senso delle caratteristiche del luogo e del tempo in cui è

stata fatta, sia in quello delle costanti dei significati espressi dall’autore, il suo ‘stile’, la sua

poetica). Husserl definisce ’’l’orizzonte interno” come un sistema di aspettazioni e di

probabilità tipiche dell’opera, mentre Hirsch chiarisce come si tratti di un ‘senso non

esplicito del tutto, derivato dai significati espliciti presenti alla coscienza’ (cit., p.231).

La necessità di inserire un significato ‘non esplicito’ all’interno delle intenzioni

comunicative riportate dall’opera, deriva dalla constatazione che nessuno (grande artista o

paziente) può essere pienamente consapevole di tutti i pensieri (intenzioni, atti mentali)

che sono collegati alla nascita di un’opera. L’orizzonte interno comprende tutti aspetti che

pur non essendo espliciti sono presumibilmente collegati alle intenzioni esplicite

dell’autore. Nel caso di un quadro dipinto da un paziente e successivamente ricoperto di

nero, abbiamo un significato esplicito di una superficie nera che copre delle forme colorate

e un aspetto collegato ( di cui il paziente può essere consapevole o meno) che riguarda il

desiderio di coprire, ‘nascondere’ le forme sottostanti. Inoltre in questo caso l’autore, in

maniera del tutto inconsapevole, compie lo stesso procedimento artistico di un grande

della pittura contemporanea, Ad Rheinard, il quale dipinge forme astratte che ricopre di

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nero, fino a che siano pressoché invisibili, se non come ombre sulla superficie nera

uniforme. Il significato dell’opera è lo stesso nei due autori? Un altro esempio può essere

trovato nel film di Bertolucci, ‘L’ultimo imperatore’, dove il protagonista si rende conto della

proprie responsabilità e inizia il proprio pentimento osservando, in prigione, un film che

illustra le azioni compiute dai giapponesi in Manciuria, di cui egli aveva avvallato l’operato.

Il significato implicito (di cui non ci interessa sapere se l’autore era consapevole) è una

riflessione sul cinema come strumento di verità e autocoscienza.

La distinzione tra significato esplicito e implicito lascia tuttavia aperto il problema del ruolo

che gioca la soggettività dell’osservatore nel definire i significati impliciti dell’opera. In altre

parole, come possiamo essere certi che noi attribuiamo all’opera un significato/intenzione

formulata realmente dall’autore e non una nostra interpretazione, che rientrerebbe nella

sfera della critica? Riferendoci all’esempio del paziente, come possiamo sapere che

effettivamente egli associa alle intenzioni esplicite quella implicita di ‘nascondere’ le

forme?

E’ possibile avere un criterio che offre un certo grado di certezza, che è sempre di tipo

probabilistico, facendo riferimento al contesto in cui l’opera viene prodotta. Il contesto va

inteso in due accezioni : spaziale e temporale.

Il contesto temporale è l’insieme delle opere prodotte da un autore nel tempo, le riflessioni

da lui fatte e i vari elementi che vi sono stati associati. Il contesto spaziale è l’hic et nunc

della produzione, l’insieme del luogo in cui viene prodotta l’opera, dei materiali usati e

delle relazioni che si stabiliscono tra le persone che partecipano a questa attività.

In altre parole il significato autonomo dell’opera può essere colto nella sua interezza solo

se viene inserito nella storia delle opere prodotte da un determinato autore e se si tiene

conto delle condizioni pratiche in cui è stata fatta. Nel caso del nostro paziente possiamo

affermare che esisteva un’intenzione di ‘nascondere’ in quanto questa era solo l’ultima di

una serie di disegni fatti allo stesso modo e che nella sua visione della realtà egli era

circondato da persone che indagavano e dalle quali occorreva difendersi cancellando ogni

traccia. Rheinard è più legato invece alla filosofia orientale e al concetto di apparenza

illusoria, inoltre è presente una ricerca sulla contemporanea affermazione e negazione

della realtà tipica della pittura contemporanea. Tuttavia si può anche sostenere che la

distinzione è irrilevante, in quanto, agendo lo stesso processo creativo, entrambi si fanno

portavoce di una tendenza o bisogno presente a livello inconsapevole nella società di quel

momento storico. Nel caso di Bertolucci tale significato è coerente con la sua poetica,

riflessa da altri film, ad esempio ‘Novecento’.

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Da questa prospettiva deriva che non esiste un’opera d’arte il cui significato sia

indipendente dalle particolari intenzioni comunicative del suo autore, né da contesto

socioculturale in cui si muove. Nel campo dell’arte terapia l’opera deve allo stesso modo

essere inserita nella storia delle espressioni di un autore (il suo stile comunicativo) e nel

particolare momento in cui viene prodotta, senza per questo far riferimento alla patologia.

Infatti il punto cruciale è che l’opera ci può parlare dei problemi, dei conflitti, dei vissuti

dell’autore (artista o paziente che sia), ma non è semplicemente la loro manifestazione.

L’opera esprime infatti il desiderio di comunicazione dell’autore in modo assoluto, in

quanto manifestazione del suo ‘essere nel mondo’ e quindi fa riferimento alla globalità

delle sue esperienze, nelle quali quella eventualmente legata ad uno stato di malattia è

solo una parte insufficiente a spiegare il tutto

La nuova Estetica

Abbiamo finora esplorato i limiti e le possibilità espressive di un'opera d'arte nella sua

accezione di intenzione comunicativa. In questa prospettiva la dimensione della sua

esteticità e della sua "artisticità" è stata messa tra parentesi. Resta aperta la domanda

sulle condizioni alle quali noi possiamo o no far accedere le produzioni attuali degli utenti

dei servizi, ora non più folli ma arteterapeutizzati, alla sfera (più o meno ampia e

penetrabile) dell'Arte.

A questo riguardo afferma Menna (1975) "… l'arte moderna nasce dall'acquisizione

tecnica e operativa della natura convenzionale e astratta del linguaggio artistico; tale

acquisizione opera una vera e propria rottura epistemologica nella problematica dell'arte".

Come conseguenza, negli ultimi anni, da un lato, l'artista si concentra su se stesso,

riflettendo sui propri procedimenti creativi e sulle funzioni mentali che stanno a monte di

essi; dall'altro, si sporge sul mondo, penetra nello spazio e in qualche modo lo modifica,

ad esempio con gli interventi della Land Art. Menna osserva come tutta l'arte figurativa del

'900 possa essere ricondotta entro due linee principali. La prima, che parte dai Cubisti e

arriva all'astrattismo americano di Rheinard, analizza il segno stesso della pittura,

osservando le regole che organizzano e rendono possibili il linguaggio pittorico,

indipendentemente da ogni rapporto con il mondo esterno. La seconda, che si sviluppa

nell'area tra Duchamp e i Surrealisti (in particolare Magritte), l'Iperrealismo e la Pop Art,

affronta il problema del confronto tra il codice linguistico della pittura e quello del reale,

giungendo a concludere la radicale irriducibili di uno all'altro. La pittura non potrà mai

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rappresentare la realtà, come osserva già Magritte, scrivendo "Questa non è una pipa",

sotto il quadro di una pipa.

In entrambe le accezioni le opere dei pazienti non entrano nel linguaggio propriamente

artistico. Le immagini prodotte nella pratica clinica si limitano al più ad essere

ingenuamente evocative di stati d'animo o a tentare di riflettere un'immagine reale o

mentale. Certamente manca la proprietà linguistica del codice artistico tale da permettere

uno sviluppo dell'opera aldilà del semplice "bel gesto o bella immagine" intesa nel suo

senso comune. Tuttavia lo spostamento di cui parla Menna apre concettualmente all'uso

terapeutico dell'immagine artistica. Il punto è il passaggio del valore dell'opera d'arte da un

adeguamento alla realtà esterna, che permetteva un solido metro di confronto e di

valutazione, alla riflessione sul processo di creazione dell'opera. L'immagine ha un valore

in quanto riflette una progettualità o una proposizione dell'autore e ci dice qualcosa su

come e perché si costruisce un'immagine. A questo punto lo stesso discorso vale per le

immagini dei pazienti. In fondo è molto difficile pensare che si potessero sviluppare le arti

terapie se l'unico canone esistente fosse stato ancora quello accademico/realistico, tanto

nella pittura (pensiamo ai vasi di fiori, così veri, fine Ottocento), quanto nella danza (i

movimenti estremamente formalizzati e precisi del primo Novecento), come nelle altre arti.

In questo caso le immagini dei nostri pazienti sarebbero state solo una pallida imitazione

di abilità tanto raffinate, quanto fredde.

I canoni estetici sono cambiati. Nel dopoguerra la ricerca artistica si è sempre più

connotata nel tentativo di superare i limiti formali che caratterizzavano l’opera. Tale

operazione si è spinta al di là dello sforzo di stravolgere dall’interno il codice espressivo,

come l’astrattismo nella pittura, o la musica dodecafonica, ma ha agito sulla cornice che

definiva il confine stesso dell’opera d’arte. Operazioni in questo senso possono essere

considerate gli ascolti di Cage, che apriva le porte della sala, per far ascoltare i rumori

della strada, ma anche la celebre opera di Paolini: “Ritratto di Giovane che guarda

Lorenzo Lotto”. In questo lavoro una fotografia del celebre ritratto di giovane, fatto dal

Lotto, viene incollata su una tela, per cui si verifica uno spostamento del rapporto tra

artista e spettatore. Non si può ignorare a questo proposito la lezione del Free Jazz, di

John Coltrane, in cui l’improvvisazione viene spinta al limite, superando qualsiasi struttura

formale e melodica, nel tentativo di inseguire la spontaneità della creazione musicale.

Forse è però nel teatro che questa scomposizione dei ruoli tradizionali tra artista e

spettatore viene rovesciata in modo più radicale.

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Il “Teatro Laboratorio” di Jerzi Grotowski pedagogo e regista polacco è un teatro “povero”

nel quale l’attore ricerca l’essenziale ed è così povero da non possedere neppure il

personaggio, ma recita come se stesse “accanto al suo ruolo”. Questo teatro si oppone al

teatro di illusione, classico, in cui si raffigura un immagine fittizia della vita con grandi

sfarzi. Alla base del teatro povero c’è il teatro rituale nel quale è difficile a livello

emozionale distinguere il ruolo dell’attore e quello dello spettatore.

Il metodo di Grotowski si basa sulla convinzione che il teatro possa cambiare attore e

spettatore, che quindi occorre puntare sul “processo” che conduce attore e spettatore a

incontrare “il suo io precedente” e giungere alla regressione e alla catarsi controllata. Egli

attendeva che l’attore esprimesse la sua anima attraverso il movimento, la voce e con

l’improvvisazione. Attendeva che il pubblico si trovasse in situazione di forte sensazione,

di prossimità fisica e qualche volta lo coinvolgeva direttamente a partecipare alla scena.

L’attore è colui che diventa in grado di compiere l’atto totale cioè un livello di

smascheramento interiore che si esprime attraverso il teatro, ma avviene nel lavoro di

preparazione e training.

Il teatro del brasiliano A. Boal nasce negli anni 50. Si svolge per le strade ed è rivolto al

popolo, tocca le problematiche popolari. Il teatro dell’oppresso vuole rompere la

separazione tra attore e spettatore stimolando lo spettatore a essere attivo sulle scene e

nella vita, invece di assistere semplicemente ed immedesimarsi.

La voglia di cambiare la propria realtà, attivata sulla scena, permane anche nella vita

quotidiana. Questo teatro si basa sul concetto di oppressore- oppresso, i due poli di una

relazione negativa di oppressione: l’oppressore è colui che usa il proprio potere, il proprio

ruolo sociale, per costringere l’altro al suo volere. La maschera sociale è quell’insieme di

stereotipi, abitudini motorie, percettive, linguistiche, relazionali che derivano dal nostro

ruolo sociale prioritario e conducono a una limitazione delle nostre capacità espressive

privandoci di potenzialità più ampie.

Questa ricerca apre la strada alle arti terapie, nel senso che cade la distinzione

fondamentale tra artista e spettatore, ma soprattutto vengono soppressi i criteri di

distinzione tra ciò che è in assoluto considerato arte e ciò che appartiene alla sfera della

libera espressione. Naturalmente la distinzione rimane, in quanto queste opere sono frutto

di una ricerca e di una comunicazione intenzionale, ma da un punto di vista culturale e

teorico, i valori idealistici, assoluti che permettevano di distinguere tra ciò che è Arte e ciò

che è struttura, sono definitivamente tramontati. Questo apre la porta alle immagini

prodotte appunto come intenzioni comunicative, nelle quali l'aspetto importante è il

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processo di costruzione, assai più che il risultato finale. In questo senso l'attenzione per il

paziente che produce nel suo laboratorio e l'artista nel suo atelier è simile. Entrambe le

attività ci dicono qualcosa sul percorso attraverso il quale sia uno che l'altro riusciranno a

produrre un'immagine, o, in altre parole, a comunicare qualcosa attraverso il codice

iconico, che appartiene pur sempre a un aspetto minoritario della comunicazione umana.

Conclusioni Riprendiamo le fila degli svariati contributi che fanno parte della galassia Arte e Follia

raccolti in questo capitolo, per evidenziare il filo conduttore, che lo lega al resto del volume

e ne fa da naturale, aperta conclusione.

Constatiamo come non vi sia un legame diretto tra la creatività artistica, o, per usare un

termine classico, il genio, e la patologia psichica, la follia. Vi è certamente una percentuale

di artisti sofferenti, ma questo numero non è probabilmente superiore a quello della

percentuale di sofferenza riconosciuta tra la popolazione in generale. E' possibile che tra

gli artisti, storicamente, questa quota fosse e sia tuttora, anche maggiore: la spiegazione è

di ordine sociologico, da approfondire naturalmente, ovvero nel mondo degli artisti erano

(e sono?) permesse maggiori trasgressioni alle consuetudini sociali, che incentivano

comportamenti devianti.

Contestualmente, se un artista lascia importante traccia di sé, ed è anche veramente folle,

altro rispetto ai normali, apre uno squarcio di conoscenza su modi di essere nel mondo

che altrimenti –come è accaduto- verrebbero, per paura, ignoranza o una sensazione

profonda di estraneità, esclusi (segregati) e resterebbero inconoscibili ed incomunicabili.

Non si può negare del resto che vi sia un punto di contatto tra arte e follia, ovvero il

privilegiare una comunicazione di tipo iconico e analogico, rispetto alla comunicazione

verbale digitale, razionale propria della maggior parte degli scambi sociali. In un caso, gli

artisti, questa è una scelta su cui essi sono in grado di metacomunicare, nell'altro, i

pazienti, è una condizione di vita difficile da elaborare, in un mondo che privilegia la

comunicazione razionale digitale. Arte e follia possono così essere intese come

specializzazioni non conoscitive del conoscere stesso se assumiamo come vero, con

Jaspers, che i geni folli traessero forza creativa dai problemi dell’esistenza e assumiamo

come probabile che i pazienti possano trarre elementi di conoscenza su se stessi e sugli

altri attraverso l’uso del mezzo espressivo analogico, unico anello di congiunzione, seppur

debole, minoritario, con il mondo dei normali.

Quello che a nostro avviso è successo di significativo negli ultimi decenni, permettendo la

nascita delle artiterapie, non è solo l’arricchimento di senso di discipline quali la

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psichiatria, la psicologia e la psicoterapia dovuto ai modelli di pensiero della filosofia

fenomenologico esistenziale ma anche un cambiamento nel campo dell'arte. Si è infatti

modificata l'immagine e il ruolo dell'artista nel processo creativo. Innanzitutto l'opera d'arte

si è progressivamente spogliata dell'alone mistico dell'artisticità, rivelando di essere,

anche, un insieme di segni inseriti in un processo di comunicazione sociale e culturale.

Successivamente, il significato stesso del processo artistico si è spostato dall'opera come

risultato ultimo di una creazione, al processo attraverso il quale l'opera si realizza. Il

concetto che essa trasmette è in assoluto più importante dell'opera stessa. In questo

modo, anche il processo di produzione interno ai laboratori e agli atelier di arte terapia,

acquista un significato e un valore comunicativo, che fino agli anni cinquanta non aveva,

in quanto le opere prodotte erano molto lontane dagli standard accademici, fino ad allora

modello di riferimento.

Concludiamo ribadendo, ancora una volta, che l’intenzione degli arteterapeuti non è di

creare artisti, né di insegnare a fare delle belle opere, ma solo di utilizzare lo strumento

espressivo per migliorare le capacità espressive, introspettive e relazionali dei pazienti. E'

chiara la nostra intenzione di differenziarci da operazioni artistico culturali quali quella di

Gugging, che pure ha inserito alcuni ex ospiti del manicomio di Vienna nel circuito artistico

internazionale, con quotazioni rilevanti. Allo stesso tempo ci sembra interessante il

rapporto con la street-art e il graffitismo, grazie al quale persone, spesso emarginate,

devianti o portatrici di patologia, senza alcuna cultura artistica tradizionale, lasciano i loro

segni sui muri della città, perché resti di loro una traccia (ad esempio Keith Haring,

Basquiat, Kartago). Il bisogno di affermazione di un'identità personale, attraverso il

riconoscimento sociale, ci sembra un tema che può avvicinarsi, anche per lo stile usato,

alla realtà dei nostri pazienti. In questo senso vorremo finire con un omaggio all'unico

paziente conosciuto in questi anni, che abbia realmente compiuto un'operazione artistica,

nel senso che le immagini da lui lasciate sui muri di Torino sono penetrate profondamente

nell'immaginario collettivo, diventando un modo di dire e un modo di esprimersi, anche in

persone che di lui nulla sanno. Stiamo parlando di Zeus, una figura a tutti nota nella realtà

di Torino, che ha lasciato le sue prime opere quando ancora il graffitismo era alle sue

origini, non solo in Italia. Un anticipatore dunque, che, pur avendo partecipato per anni a

gruppi di psicodramma, sociodramma, comunicazione non verbale, ahimè non ha mai

frequentato un solo gruppo di arte terapia, anche perché forse non ne aveva bisogno.

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