Arte contemporanea - Castello di Rivoli

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57 56 Finita la fiaba che vedeva castelli antichi e opere d’avanguardia sposarsi in armonia, a Torino cosa resta? Lo abbiamo chiesto a esperti, curatori e direttori di musei di altre città, che ci osservano dall’esterno: «il sistema va ripensato, prima di toccare il fondo». DI LETIZIA TORTELLO extra Intervengono: Luigi Fassi Curatore delle arti visive del Festival Steirischer Herbst di Graz Antonio Giuliani Fondatore dell’omonima fondazione per il sostegno, la ricerca e l’esposizione dell’arte contemporanea Maurizio Morra Greco Collezionista e presidente della fondazione per l’arte dedicata al padre Antonio Bartolomeo Pietromarchi Direttore del Macro di Roma e curatore del Padiglione Italia alla Biennale di Venezia Alberto Salvadori Direttore artistico del Museo Marino Marini di Firenze Marco Scotini Direttore del dipartimento educazione del Naba di Milano rie

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Finita la fiaba che vedeva castelli antichi e opere d’avanguardia sposarsi in armonia, a Torino

cosa resta? Lo abbiamo chiesto a esperti, curatori e direttori di musei di altre città, che ci

osservano dall’esterno: «il sistema va ripensato, prima di toccare il fondo».

d i L E T i Z i a T o r T E L L o

extra

Intervengono:luigi fassiCuratore delle arti visive del Festival Steirischer Herbst di Graz

Antonio giulianiFondatore dell’omonima fondazione per il sostegno, la ricerca e l’esposizione dell’arte contemporaneamaurizio morra grecoCollezionista e presidente della fondazione per l’arte

dedicata al padre Antoniobartolomeo pietromarchiDirettore del Macro di Roma e curatore del Padiglione Italia alla Biennale di Venezia

Alberto SalvadoriDirettore artistico del Museo Marino Marini di Firenzemarco ScotiniDirettore del dipartimento educazione del Naba di Milano

rie

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“Dunque il museo è ancora aperto!”

All’ingresso del Castello di Rivoli (ci met-

ti i piedi sopra quando prendi l’ascenso-

re, posi il soprabito, chiedi informazioni

riguardo alla collezione permanente) il

pettinatissimo tappetone di Cattelan con l’Italia

fatta a formaggino Belpaese ti dice subito che qui

c’è e c’è stata la crème de la crème dell’arte con-

temporanea internazionale. Era il 1994, il genio

terribile di origini padovane preparava una schiera

trionfale di opere che da Rivoli avrebbero fatto il

giro del mondo. Erano gli anni del Cavallo in tas-

sidermia (“Novecento”, 1997) e di “Charlie don’t

surf” (sempre 1997).

Il Castello era un’isola felice, un paradiso in colli-

na. Amato, stimato, riverito, ossequiato. C’era una

castellana, Ida Gianelli. C’erano i soldi per pensare

in grande. C’era un progetto, un’identità ricono-

sciuta da Tokyo a New York, di questa maestosa

residenza sabauda che dall’84 a oggi ha vissuto

fasi alterne e alterne vicende. «Il museo è ancora

aperto? Chiedono stupiti gli stranieri. Molti colle-

ghi del settore credono che l’esperienza di Rivoli

e della straordinaria stagione del Contemporaneo

sia conclusa. All’estero Rivoli non interessa più a

nessuno, è uscito completamente dalle mappe. Lo

dimostra il bando per la selezione del nuovo diret-

tore, completamente assente dai siti più famosi a

livello internazionale. Sembra un gioco al ribasso.

Rivoli snobbata, ignorata, in dismissione, di fatto è

così, la gente non lo sente come un luogo proprio,

qualche errore ci sarà stato”, commenta Luigi Fassi,

torinese stimatissimo all’estero: oggi è curatore delle

Arti Visive dello Steirischer Herbst di Graz, il presti-

gioso festival austriaco, il più antico d’Europa. Pro-

vincialismo o pura tattica per scegliere un italiano

a Rivoli, quella del bando? Una delle condizioni per

gareggiare è la conoscenza dell’inglese e dell’italiano,

bizzarra restrizione. La caccia è aperta, fino a giungo.

Ma di curricula, è triste dirlo, a metà aprile ancora

non ne erano arrivati.

A dispetto di quel che pensano gli stranieri malin-

formati, però, il museo è apertissimo. Vivo, vivissi-

mo, con una mostra di grande impatto dell’artista

e performer cubana Ana Mendieta, curata dall’uni-

ca direttrice rimasta, Beatrice Merz, che ha scelto

di non abbandonare la scialuppa in un momento

in cui i venti su Rivoli soffiano contrari (sebbene

il pubblico sia in aumento). C’è una mostra itine-

rante, “Disobedience Archive (The Republic)”, che

indaga le relazioni esistenti tra pratiche artistiche

contemporanee, cinema, media tattici e attivismo

politico. E c’è la collezione straricca, anche se mol-

to resta nei magazzini.

Perché, allora, la crisi d’identità? L’apparente de-

clino di una struttura che brillava di luce propria?

«L’arte è la menzogna che ci permette di conoscere

la verità”, diceva Picasso. C’è chi imputa il ripiega-

mento su se stesso del sistema del contemporaneo

torinese all’eccesso di ingerenza della politica che,

dopo l’esperienza di Carolyn Christov-Bakargiev

al comando, nel 2009 ha sostanzialmente impo-

sto la doppia direzione di Bellini-Merz. Una scelta

che alla luce dei fatti si è rivelata sciagurata, finita

con l’abbandono-fuga del primo. E nonostante un

lavoro ricercato e originale – almeno questo non

glielo si può rimproverare –, Bellini non fa certo

rimpiangere in quel di Torino la sua assenza.

Problema di uomini, di idee, di progetto? «Cesa-

re, confidando nella fama delle imprese, partì senza

valide truppe ausiliarie”, direbbero i latini. Il pano-

rama degli esperti che osservano Rivoli da “fuori

confine” si spacca. Assolutori, buonisti, critici, di-

sincantati. C’è un po’ di tutto. Tutti, però, concordi sulla necessità di un ripensamento del sistema Tori-no. L’alternativa è toccare il fondo, dopo i numerosi tentativi di risorgimento messi in atto dalla Merz, o cambiare strada. «Torino spiccava, sembrava una capitale dell’arte all’altezza della situazione del con-temporaneo per numero di collezionisti, istituzio-ni, investimenti, molto più di Milano – commenta, Marco Scotini, il critico d’arte e curatore, direttore del dipartimento educazione del Naba di Milano –. Negli ultimi tempi di certo c’è un declino, che è una crisi endogena di tutta l’Italia, non si può accusare la situazione locale, il problema da affrontare è quello di un rimodellamento istituzionale”.

Di troppa rigidità si muore. «Bisogna andare ver-so strutture più flessibili, penso a Frieze a Londra, al Palais de Tokyo, alla Fondation Cartier a Parigi. Sempre più il sistema cultura genera processi che vivono di temporalità”. Buona, dunque, per Scoti-ni, l’apertura «al sociale degli ultimi mesi, che han-no trasformato un luogo elitario in un servizio che vuole includere nuovi pubblici”. Fermo restando che l’invecchiamento precoce delle nostre istitu-zioni, che procedono bradipe e burocratizzatissi-me in confronto alle sorelle dell’Est Europa, non parliamo del Giappone, di Beirut.

«Rivoli è un museo che si è perso per strada e dev’essere completamente ridisegnato, parten-do dalla sua collezione, che per fortuna non può essere erosa, e ripartendo dalla storia del luogo”. Il pubblico, comunque, non manca. Fassi guarda oltre: «A chi si vuole che parli rivoli? È un museo pubblico, ma qual è l’idea di pubblico? E’ andata

Il Castello era un’isola felice, un paradiso in collina. Amato, stimato, riverito, ossequiato. C’era una castellana, Ida Gianelli. C’erano i soldi per pensare in grande. C’era un progetto, un’identità riconosciuta da Tokyo a New York

Molti colleghi del settore

credono che l’esperienza

di Rivoli e della

straordinaria stagione

del Contemporaneo sia

conclusa

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Il momento è

senz’altro delicato.

I franchi tiratori

sono pronti a

sparare contro

chiunque provi a

fare un mezzo

passo verso una

“rinascenza”

perduta l’idea di museo come luogo che produce

qualcosa a favore di chi vive nella città. Un’idea di

servizio, dove le mamme vanno il martedì mattina

ad allattare, come accade nei musei finlandesi, per-

ché si sentono a casa, aiutate, assistite con servizi

e comfort. La collezione, a mio giudizio, andrebbe

esibita a ingresso gratutito, perché è patrimonio

collettivo, come gi fanno molti grandi musei del

mondo. Oggi, se giri per Rivoli la domenica vedi

sì e no 20 persone e ti spaventi per il rumore dello

scricchiolio delle scarpe”.L’ingerenza della politica è senz’altro troppa.

«Non si può trasformare quel luogo in un’occasio-

ne per curatori e assessori di fare passerella di se

stessi e della propria ambizione per due o tre anni,

per poi abbandonare il progetto sul nascere. Ci

vuole una visione almeno decennale, che prescin-

da solo dalla logica delle poltrone». Sulla stessa li-

nea è anche Bartolomeo Pietromarchi, direttore

del Macro di Roma e curatore del Padiglione Italia

alla Biennale di Venezia che apre a giugno. Secon-

do lui, «con una strategia che veda punti ad allar-

gare i pubblici e anche i finanziatori, istituzionali

e privati, si deve creare una cornice chiara, una di-

mensione scientifica forte, affinché gli investitori

possano intervenire, una volta capita l’importanza

del museo come punto di riferimento forte per la

collettività». È il tentativo che ha “faticosamente”

messo in atto a Venezia: «Ci è voluto un corposo

sforzo per mettere insieme il Padiglione, ma nono-

extra rie

stante la devastante crisi, i numeri mi stanno dan-

do ragione: il sistema del crowfunding ha ottenu-

to gli effetti sperati, ho aperto la partecipazione a

tutti, ho cercato i privati partendo da un contratto

chiaro, pulito, trasparente su quel che volevo fare,

restituire al pubblico”.Agonia delle casse di Rivoli, a parte, tra gli “aficio-

nados” al castello c’è anche chi pensa che la crisi

parta prima di tutto dal pubblico. «Non sono poi

convintissimo che Torino abbia perso smalto. Cer-

to, bisogna fare largo a una mentalità di tipo pro-

vatistico, ma il punto nodale di cui nessuno parla

è l’assenza del pubblico pagante», sentenzia Mau-

rizio Morra Greco, dentista-collezionista napole-

tano, proprietario dell’omonima fondazione cultu-

rale, assai rinomata nell’ambiente. «È un problema

nazionale. Non è possibile pensare che un’attività

che deve “vendere” arte, abbia gli stessi clienti di

un museo di provincia americana. Lo stesso dico,

in proporzione, degli Uffizi, di Pompei». Zero o

quasi capacità d’impresa. A suo giudizio è questio-

ne culturale, l’assistenzialismo del pubblico è la

malattia, e mai impareremo a non accontentarci

del «respiro corto e della poca autonomia dei no-

stri musei pubblici».

L’appello salvifico è rivolto ai manager della cul-

tura. A coloro che sappiano «far quadrare i con-

ti e riavvicinino gli investitori privati», aggiunge

Morra Greco. Non certo ai politici, che di danni

ne hanno già creati abbastanza. Piuttosto ai di-

rettori puri, «come un Eccher alla Gam – dice il

romano Antonio Giuliani, anch’egli proprietario

di una imponente collezione e di una fondazione

privata no profit –. Tenetevelo stretto, lui sì che sa

fare mostre buone con pochissimi soldi». Anche la

Gam è un capitolo davvero dolente. In predicato di

diventare membro di una Superfondazione dell’ar-

te contemporanea, che dovrebbe razionalizzare

fondi e idee tra le istituzioni di Torino, sembra

sempre più isolata. Un po’ al confine dell’impero,

in attesa che passi la tempesta.

Il momento è senz’altro delicato. I franchi tiratori

sono pronti a sparare contro chiunque provi a fare

un mezzo passo verso una “rinascenza”. Qualcuno

dice «Rivoli è al tramonto», «Rivoli è morta come

Marx e Dio». La valutazione, al netto del buon

senso, è di Alberto Salvadori, direttore artistico

del museo Marino Marini di Firenze: «Siamo tut-

ti in sofferenza, certo dispiace per Rivoli che era il

fiore all’occhiello. ».

Agonia delle casse di Rivoli a parte,

tra gli “aficionados” al castello c’è anche

chi pensa che la crisi parta prima di tutto

dal pubblico