Arte contemporanea - Castello di Rivoli
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Finita la fiaba che vedeva castelli antichi e opere d’avanguardia sposarsi in armonia, a Torino
cosa resta? Lo abbiamo chiesto a esperti, curatori e direttori di musei di altre città, che ci
osservano dall’esterno: «il sistema va ripensato, prima di toccare il fondo».
d i L E T i Z i a T o r T E L L o
extra
Intervengono:luigi fassiCuratore delle arti visive del Festival Steirischer Herbst di Graz
Antonio giulianiFondatore dell’omonima fondazione per il sostegno, la ricerca e l’esposizione dell’arte contemporaneamaurizio morra grecoCollezionista e presidente della fondazione per l’arte
dedicata al padre Antoniobartolomeo pietromarchiDirettore del Macro di Roma e curatore del Padiglione Italia alla Biennale di Venezia
Alberto SalvadoriDirettore artistico del Museo Marino Marini di Firenzemarco ScotiniDirettore del dipartimento educazione del Naba di Milano
rie
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“Dunque il museo è ancora aperto!”
All’ingresso del Castello di Rivoli (ci met-
ti i piedi sopra quando prendi l’ascenso-
re, posi il soprabito, chiedi informazioni
riguardo alla collezione permanente) il
pettinatissimo tappetone di Cattelan con l’Italia
fatta a formaggino Belpaese ti dice subito che qui
c’è e c’è stata la crème de la crème dell’arte con-
temporanea internazionale. Era il 1994, il genio
terribile di origini padovane preparava una schiera
trionfale di opere che da Rivoli avrebbero fatto il
giro del mondo. Erano gli anni del Cavallo in tas-
sidermia (“Novecento”, 1997) e di “Charlie don’t
surf” (sempre 1997).
Il Castello era un’isola felice, un paradiso in colli-
na. Amato, stimato, riverito, ossequiato. C’era una
castellana, Ida Gianelli. C’erano i soldi per pensare
in grande. C’era un progetto, un’identità ricono-
sciuta da Tokyo a New York, di questa maestosa
residenza sabauda che dall’84 a oggi ha vissuto
fasi alterne e alterne vicende. «Il museo è ancora
aperto? Chiedono stupiti gli stranieri. Molti colle-
ghi del settore credono che l’esperienza di Rivoli
e della straordinaria stagione del Contemporaneo
sia conclusa. All’estero Rivoli non interessa più a
nessuno, è uscito completamente dalle mappe. Lo
dimostra il bando per la selezione del nuovo diret-
tore, completamente assente dai siti più famosi a
livello internazionale. Sembra un gioco al ribasso.
Rivoli snobbata, ignorata, in dismissione, di fatto è
così, la gente non lo sente come un luogo proprio,
qualche errore ci sarà stato”, commenta Luigi Fassi,
torinese stimatissimo all’estero: oggi è curatore delle
Arti Visive dello Steirischer Herbst di Graz, il presti-
gioso festival austriaco, il più antico d’Europa. Pro-
vincialismo o pura tattica per scegliere un italiano
a Rivoli, quella del bando? Una delle condizioni per
gareggiare è la conoscenza dell’inglese e dell’italiano,
bizzarra restrizione. La caccia è aperta, fino a giungo.
Ma di curricula, è triste dirlo, a metà aprile ancora
non ne erano arrivati.
A dispetto di quel che pensano gli stranieri malin-
formati, però, il museo è apertissimo. Vivo, vivissi-
mo, con una mostra di grande impatto dell’artista
e performer cubana Ana Mendieta, curata dall’uni-
ca direttrice rimasta, Beatrice Merz, che ha scelto
di non abbandonare la scialuppa in un momento
in cui i venti su Rivoli soffiano contrari (sebbene
il pubblico sia in aumento). C’è una mostra itine-
rante, “Disobedience Archive (The Republic)”, che
indaga le relazioni esistenti tra pratiche artistiche
contemporanee, cinema, media tattici e attivismo
politico. E c’è la collezione straricca, anche se mol-
to resta nei magazzini.
Perché, allora, la crisi d’identità? L’apparente de-
clino di una struttura che brillava di luce propria?
«L’arte è la menzogna che ci permette di conoscere
la verità”, diceva Picasso. C’è chi imputa il ripiega-
mento su se stesso del sistema del contemporaneo
torinese all’eccesso di ingerenza della politica che,
dopo l’esperienza di Carolyn Christov-Bakargiev
al comando, nel 2009 ha sostanzialmente impo-
sto la doppia direzione di Bellini-Merz. Una scelta
che alla luce dei fatti si è rivelata sciagurata, finita
con l’abbandono-fuga del primo. E nonostante un
lavoro ricercato e originale – almeno questo non
glielo si può rimproverare –, Bellini non fa certo
rimpiangere in quel di Torino la sua assenza.
Problema di uomini, di idee, di progetto? «Cesa-
re, confidando nella fama delle imprese, partì senza
valide truppe ausiliarie”, direbbero i latini. Il pano-
rama degli esperti che osservano Rivoli da “fuori
confine” si spacca. Assolutori, buonisti, critici, di-
sincantati. C’è un po’ di tutto. Tutti, però, concordi sulla necessità di un ripensamento del sistema Tori-no. L’alternativa è toccare il fondo, dopo i numerosi tentativi di risorgimento messi in atto dalla Merz, o cambiare strada. «Torino spiccava, sembrava una capitale dell’arte all’altezza della situazione del con-temporaneo per numero di collezionisti, istituzio-ni, investimenti, molto più di Milano – commenta, Marco Scotini, il critico d’arte e curatore, direttore del dipartimento educazione del Naba di Milano –. Negli ultimi tempi di certo c’è un declino, che è una crisi endogena di tutta l’Italia, non si può accusare la situazione locale, il problema da affrontare è quello di un rimodellamento istituzionale”.
Di troppa rigidità si muore. «Bisogna andare ver-so strutture più flessibili, penso a Frieze a Londra, al Palais de Tokyo, alla Fondation Cartier a Parigi. Sempre più il sistema cultura genera processi che vivono di temporalità”. Buona, dunque, per Scoti-ni, l’apertura «al sociale degli ultimi mesi, che han-no trasformato un luogo elitario in un servizio che vuole includere nuovi pubblici”. Fermo restando che l’invecchiamento precoce delle nostre istitu-zioni, che procedono bradipe e burocratizzatissi-me in confronto alle sorelle dell’Est Europa, non parliamo del Giappone, di Beirut.
«Rivoli è un museo che si è perso per strada e dev’essere completamente ridisegnato, parten-do dalla sua collezione, che per fortuna non può essere erosa, e ripartendo dalla storia del luogo”. Il pubblico, comunque, non manca. Fassi guarda oltre: «A chi si vuole che parli rivoli? È un museo pubblico, ma qual è l’idea di pubblico? E’ andata
Il Castello era un’isola felice, un paradiso in collina. Amato, stimato, riverito, ossequiato. C’era una castellana, Ida Gianelli. C’erano i soldi per pensare in grande. C’era un progetto, un’identità riconosciuta da Tokyo a New York
Molti colleghi del settore
credono che l’esperienza
di Rivoli e della
straordinaria stagione
del Contemporaneo sia
conclusa
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Il momento è
senz’altro delicato.
I franchi tiratori
sono pronti a
sparare contro
chiunque provi a
fare un mezzo
passo verso una
“rinascenza”
perduta l’idea di museo come luogo che produce
qualcosa a favore di chi vive nella città. Un’idea di
servizio, dove le mamme vanno il martedì mattina
ad allattare, come accade nei musei finlandesi, per-
ché si sentono a casa, aiutate, assistite con servizi
e comfort. La collezione, a mio giudizio, andrebbe
esibita a ingresso gratutito, perché è patrimonio
collettivo, come gi fanno molti grandi musei del
mondo. Oggi, se giri per Rivoli la domenica vedi
sì e no 20 persone e ti spaventi per il rumore dello
scricchiolio delle scarpe”.L’ingerenza della politica è senz’altro troppa.
«Non si può trasformare quel luogo in un’occasio-
ne per curatori e assessori di fare passerella di se
stessi e della propria ambizione per due o tre anni,
per poi abbandonare il progetto sul nascere. Ci
vuole una visione almeno decennale, che prescin-
da solo dalla logica delle poltrone». Sulla stessa li-
nea è anche Bartolomeo Pietromarchi, direttore
del Macro di Roma e curatore del Padiglione Italia
alla Biennale di Venezia che apre a giugno. Secon-
do lui, «con una strategia che veda punti ad allar-
gare i pubblici e anche i finanziatori, istituzionali
e privati, si deve creare una cornice chiara, una di-
mensione scientifica forte, affinché gli investitori
possano intervenire, una volta capita l’importanza
del museo come punto di riferimento forte per la
collettività». È il tentativo che ha “faticosamente”
messo in atto a Venezia: «Ci è voluto un corposo
sforzo per mettere insieme il Padiglione, ma nono-
extra rie
stante la devastante crisi, i numeri mi stanno dan-
do ragione: il sistema del crowfunding ha ottenu-
to gli effetti sperati, ho aperto la partecipazione a
tutti, ho cercato i privati partendo da un contratto
chiaro, pulito, trasparente su quel che volevo fare,
restituire al pubblico”.Agonia delle casse di Rivoli, a parte, tra gli “aficio-
nados” al castello c’è anche chi pensa che la crisi
parta prima di tutto dal pubblico. «Non sono poi
convintissimo che Torino abbia perso smalto. Cer-
to, bisogna fare largo a una mentalità di tipo pro-
vatistico, ma il punto nodale di cui nessuno parla
è l’assenza del pubblico pagante», sentenzia Mau-
rizio Morra Greco, dentista-collezionista napole-
tano, proprietario dell’omonima fondazione cultu-
rale, assai rinomata nell’ambiente. «È un problema
nazionale. Non è possibile pensare che un’attività
che deve “vendere” arte, abbia gli stessi clienti di
un museo di provincia americana. Lo stesso dico,
in proporzione, degli Uffizi, di Pompei». Zero o
quasi capacità d’impresa. A suo giudizio è questio-
ne culturale, l’assistenzialismo del pubblico è la
malattia, e mai impareremo a non accontentarci
del «respiro corto e della poca autonomia dei no-
stri musei pubblici».
L’appello salvifico è rivolto ai manager della cul-
tura. A coloro che sappiano «far quadrare i con-
ti e riavvicinino gli investitori privati», aggiunge
Morra Greco. Non certo ai politici, che di danni
ne hanno già creati abbastanza. Piuttosto ai di-
rettori puri, «come un Eccher alla Gam – dice il
romano Antonio Giuliani, anch’egli proprietario
di una imponente collezione e di una fondazione
privata no profit –. Tenetevelo stretto, lui sì che sa
fare mostre buone con pochissimi soldi». Anche la
Gam è un capitolo davvero dolente. In predicato di
diventare membro di una Superfondazione dell’ar-
te contemporanea, che dovrebbe razionalizzare
fondi e idee tra le istituzioni di Torino, sembra
sempre più isolata. Un po’ al confine dell’impero,
in attesa che passi la tempesta.
Il momento è senz’altro delicato. I franchi tiratori
sono pronti a sparare contro chiunque provi a fare
un mezzo passo verso una “rinascenza”. Qualcuno
dice «Rivoli è al tramonto», «Rivoli è morta come
Marx e Dio». La valutazione, al netto del buon
senso, è di Alberto Salvadori, direttore artistico
del museo Marino Marini di Firenze: «Siamo tut-
ti in sofferenza, certo dispiace per Rivoli che era il
fiore all’occhiello. ».
Agonia delle casse di Rivoli a parte,
tra gli “aficionados” al castello c’è anche
chi pensa che la crisi parta prima di tutto
dal pubblico