Appunti Psicoanalisi

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OPsonline.it – la principale web community italiana per studenti e professionisti della Psicologia Appunti d’esame, tesi di laurea, articoli, forum di discussione, eventi, annunci di lavoro, esame di stato, ecc… E-mail: [email protected] – Web: http://www.opsonline.it Gestito da Obiettivo Psicologia srl, via Castel Colonna 34, 00179, Roma - p.iva: 07584501006 Storia della psicoanalisi La psicoanalisi come sovversione del sapere. Freud non intende fare della psicoanalisi una Weltanschauung, ma vuole produrre un punto prospettico dal quale nessun sapere possa prescindere. Nella psichiatria classica l’oggetto di indagine è l’organo sofferente o la funzione distorta. La finalità è l’intellegibilità del sintomo. Il sintomo è la connessione necessaria tra causa organica ed effetto patologico. Il nesso ottenuto è la sindrome. Lo psichiatra reifica il malato nel sintomo. Freud sostituisce all’evidenza del sintomo la domanda del paziente. Nel momento in cui non è più l’arto malato che fa problema ma il soggetto che attraverso di esso si manifesta, la psicoanalisi si distacca dalla medicina. Al centro della sua costruzione concettuale vi è l’inconscio, che in se stesso rimane inconoscibile. Ci è dato di coglierlo solo nei suoi derivati (il sogno, il sintomo, il lapsus, il motto di spirito, il gioco) attraverso i quali possiamo risalire alle sorgenti, al desiderio inconscio che anima la nostra vita. La psicoanalisi è una “scienza delle tracce”. Negando allo psichico ogni casualità, collega tutti i nostri atti in una catena associativa ferrea (determinismo inconscio). In Freud, della originaria appartenenza alla medicina rimangono soprattutto i privilegi attribuiti alla patologia (come possibilità di cogliere in forma abnorme ed evidente il funzionamento normale) e alla terapia (come campo sperimentale dal quale trarre gli interrogativi e verificare le ipotesi esplicative). La psicoanalisi riesce come terapia dell’isteria. Come Freud definisce la psicoanalisi? Nel Dizionario di sessuologia, egli articola la definizione in tre distinti livelli: 1. un procedimento per l’indagine dei processi psichici altrimenti inaccessibili alla conoscenza; 2. un metodo terapeutico per il trattamento dei disturbi nevrotici; 3. una serie di conoscenze psicologiche che convergono in una nuova disciplina scientifica (pg. 7). E’ possibile cogliere due cardini epistemologici: la psicoanalisi è intesa in costante riferimento alla sua pratica; la psicoanalisi opera una rottura nei confronti della tradizione scientifica precedente. Per quanto riguarda i metodi, li ritroviamo nella magia, nella pratica della confessione e nella psichiatria. Per quanto riguarda i concetti, invece, li ritroviamo nel mito, nella tradizione filosofica, nella produzione artistica. E’ nuovo il punto di vista: la prospettiva dell’inconscio. La psicoanalisi offre anche un codice di lettura delle produzioni culturali: conoscenze apprese nella terapia del sintomo individuale possono estendersi all’indagine delle formazioni sociali (Psicologia delle masse e analisi dell’io, 1910). Della psicoanalisi è da mettere in rilievo la sua capacità di decostruzione, di mettere in moto alcune domande, di far scricchiolare elementari certezze, di apportare una maggiore consapevolezza della complessità degli scambi dell’uomo con l’uomo e dell’uomo col mondo. (pg. 8) Gli scambi interpersonali sono investiti da tensioni emotive che deformano costantemente la nostra intenzionalità. L’eccessiva luminosità produce opacità. Occorre che la conoscenza riconosca le zone d’ombra, le commistioni che la ragione intrattiene con l’irrazionale. CRISI UMANESIMO CLASSICO. Con la psicoanalisi vengono meno l’immagine di mondo e le figure di uomo costruite intorno alla solidità del “cogito” nei confronti della storia della scienza. In effetti, i modelli teorici che organizzano visioni del mondo mutano, nel loro succedersi, il nostro modo di

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Storia della psicoanalisi La psicoanalisi come sovversione del sapere. Freud non intende fare della psicoanalisi una Weltanschauung, ma vuole produrre un punto prospettico dal quale nessun sapere possa prescindere. Nella psichiatria classica l’oggetto di indagine è l’organo sofferente o la funzione distorta. La finalità è l’intellegibilità del sintomo. Il sintomo è la connessione necessaria tra causa organica ed effetto patologico. Il nesso ottenuto è la sindrome. Lo psichiatra reifica il malato nel sintomo. Freud sostituisce all’evidenza del sintomo la domanda del paziente. Nel momento in cui non è più l’arto malato che fa problema ma il soggetto che attraverso di esso si manifesta, la psicoanalisi si distacca dalla medicina. Al centro della sua costruzione concettuale vi è l’inconscio, che in se stesso rimane inconoscibile. Ci è dato di coglierlo solo nei suoi derivati (il sogno, il sintomo, il lapsus, il motto di spirito, il gioco) attraverso i quali possiamo risalire alle sorgenti, al desiderio inconscio che anima la nostra vita. La psicoanalisi è una “scienza delle tracce”. Negando allo psichico ogni casualità, collega tutti i nostri atti in una catena associativa ferrea (determinismo inconscio). In Freud, della originaria appartenenza alla medicina rimangono soprattutto i privilegi attribuiti alla patologia (come possibilità di cogliere in forma abnorme ed evidente il funzionamento normale) e alla terapia (come campo sperimentale dal quale trarre gli interrogativi e verificare le ipotesi esplicative). La psicoanalisi riesce come terapia dell’isteria. Come Freud definisce la psicoanalisi? Nel Dizionario di sessuologia, egli articola la definizione in tre distinti livelli: 1. un procedimento per l’indagine dei processi psichici altrimenti inaccessibili alla conoscenza; 2. un metodo terapeutico per il trattamento dei disturbi nevrotici; 3. una serie di conoscenze psicologiche che convergono in una nuova disciplina scientifica (pg. 7). E’ possibile cogliere due cardini epistemologici: • la psicoanalisi è intesa in costante riferimento alla sua pratica; • la psicoanalisi opera una rottura nei confronti della tradizione scientifica precedente. Per quanto riguarda i metodi, li ritroviamo nella magia, nella pratica della confessione e nella psichiatria. Per quanto riguarda i concetti, invece, li ritroviamo nel mito, nella tradizione filosofica, nella produzione artistica. E’ nuovo il punto di vista: la prospettiva dell’inconscio. La psicoanalisi offre anche un codice di lettura delle produzioni culturali: conoscenze apprese nella terapia del sintomo individuale possono estendersi all’indagine delle formazioni sociali (Psicologia delle masse e analisi dell’io, 1910). Della psicoanalisi è da mettere in rilievo la sua capacità di decostruzione, di mettere in moto alcune domande, di far scricchiolare elementari certezze, di apportare una maggiore consapevolezza della complessità degli scambi dell’uomo con l’uomo e dell’uomo col mondo. (pg. 8) Gli scambi interpersonali sono investiti da tensioni emotive che deformano costantemente la nostra intenzionalità. L’eccessiva luminosità produce opacità. Occorre che la conoscenza riconosca le zone d’ombra, le commistioni che la ragione intrattiene con l’irrazionale. CRISI UMANESIMO CLASSICO. Con la psicoanalisi vengono meno l’immagine di mondo e le figure di uomo costruite intorno alla solidità del “cogito” nei confronti della storia della scienza. In effetti, i modelli teorici che organizzano visioni del mondo mutano, nel loro succedersi, il nostro modo di

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pensare e di pensarci. La conoscenza scientifica, smantellando false sicurezze, ha provocato vere e proprio ferite narcisistiche al simulacro ideale che l’uomo si era costruito di se stesso (Copernico, Darwin, Freud). L’io si inganna costantemente ritenendo che psichico sia identico a cosciente. Ricoeur definisce Freud, Nietzsche e Marx “maestri del sospetto”. L’intenzione comune è quella di considerare la coscienza come “falsa coscienza”. In realtà, accadono nella mente molte più cose che la coscienza ne controlli o conosca. Con Aristotele e oltre la psicologia era tutta compresa all’interno dei sistemi filosofici. Il suo patrimonio di sapere, fondato sul senso comune, era inventariato e concluso. E’ riconosciuta la presenza dell’inconscio ma è collocato oltre il suo sapere (come il sesso e la morte). Per Cartesio l’evidenza dell’esistenza poggia sulla trasparenze del pensiero a se stesso. Col ‘700 la possibilità di una psicologia filosofica si esaurisce a motivo delle critiche mosse dall’empirismo inglese: la coscienza dell’io è semplicemente fenomenica. L’eclisse dell’io travolge l’esistenza della psicologia che aveva riconosciuto nell’unità della coscienza il suo oggetto. E’ la filosofia a decretare la fine della psicologia filosofica (empirismo). Sorge in area tedesca una psicologia sperimentale, che cerca di costruire un oggetto inscrivibile nell’ambito delle scienze della natura. Partendo da unità elementari (le soglie sensoriali), ci si propone di ricompattare quella coscienza unitaria che la critica filosofica aveva negato. Ma anche in quest’ambito altamente e artificialmente protetto, la presenza di attività mentali inintenzionali e di interferenze psichiche non misurabili, sussiste. Fechner, a tal proposito, utilizza l’espressione “l’altra scena”, utilizzata poi da Freud per definire l’inconscio. Freud assume gli scarti, i margini del discorso, le cadute di intenzionalità come oggetto di indagine privilegiato. SESSUALITA’ E PAROLA. All’epoca di Freud faceva scandalo parlare di sessualità e neppure di patologia sessuale. La perversione era oggetto di ricerca e di divulgazione. Non si accetta invece la sessualità umana come questione di pensiero, di fantasia, di parola. Il sesso è pura funzione biologica. Ogni comportamento erotico che non fosse volto alla procreazione veniva tacciato di anormalità. Freud separa l’energia sessuale dal meccanismo generativo. La sessualità è energia vitale e non oggetto opaco riducibile a parti del corpo anatomico. Dunque, il “corpo può parlare”. Freud chiamerà il sintomo isterico “linguaggio d’organo”. E’ qui importante il superamento del dualismo anima/corpo. Foucault cerca di descrivere il sistema con cui la sessualità viene socialmente amministrata. Avviene la trasformazione del sesso come pura condotta, reattività animale, in sessualità, cioè in un sistema di discorsi. (pg. 13) La sessualità funziona secondo un duplice rapporto di: • esortazione: parlare a tempo debito, nel luogo opportuno, con persone competenti (sistema di posizioni e gioco di ruoli); • interdizione: uno spazio di silenzio al di là dello spazio istituzionale; uno spazio di competenza dove spetta solo l’espressione del sintomo. La società civile affida alla famiglia un compito di riproduzione sociale che richiede una messa in ordine della sessualità Nella sfera del privato, la sessualità viene sequestrata dalla coppia coniugale e dalla funzione riproduttrice. Per la sessualità infantile vige una vera e propria repressione, una negazione all’esistenza. Le sessualità “sterili”, pregenitali, non conoscono uno spazio legittimo. Cadono nella patologia e il discorso medico le fa oggetto del suo sapere e del suo potere. Attraverso la pratica della confessione, la sessualità si psicologizza. Diventa questione di parole, di silenzi, di pensieri ancor prima che di atti

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(discorso inquisitorio). Con la controriforma si mette in moto una modalità di interrogazione sistematica che verrà ripresa al di fuori dal confessionale. Una volta estorta la confessione sessuale, la si inserisce in un campo di osservazione scientifica. Ciò che i discorsi sulla sessualità non dicono è il sesso inconscio, frammentario, errante, irriducibile a ogni norma e normalità. L’isterica rappresenta il sesso non sessualizzato e non traducibile in discorso. L’isteria, in quanto mima tutte le malattie, è uno scacco per la scienza. Biografia di una scoperta. ROMANZO FAMILIARE DI FREUD. I ricordi subiscono elaborazioni nella forma del “romanzo familiare” nel tentativo di preservare l’immagine narcisistica di sé. L’impresa psicoanalitica appare come l’estremo tentativo della ragione di annettere nel suo ambito anche gli elementi ad essa più estranei. Nella psicoanalisi abbiamo una eco dello “chassidismo”, una forma di misticismo ebraico che si organizza intorno al sapere della cabala. Testo più importante è lo Zohar, lungo commentario dei brani della Torah. Da considerare che la cabala è un sapere segreto. MONDO DI IERI. E’ una stagione (quella di Vienna tra XIX e XX secolo) pervasa da un senso di precarietà e fine imminente. Stefan Zweig. “Il mondo di ieri”: il sistema era così repressivo che ogni pensiero o attività non dichiaratamente conforme all’autorità tradizionale si traduceva in senso di colpa. (pg. 22) L’estetismo (alla Oscar Wilde) diviene un modo “individuale” per sottrarsi alle determinazioni sociali. Si costituisce un equilibrio precario caratterizzato dalla contrapposizione delle spinte contrarie che lo dilaniavano. Si tratta di una immobilità carica di tensione; attimi di sospensione che preludono alla tempesta. Otto Weininger “Sesso e carattere (1902)”. Dice che l’idea maschile è il culmine della razionalità e della creatività. L’idea femminile è costituita da un puro bisogno di gratificazione sessuale destinato a perenne insoddisfazione. Vengono riciclati temi di lunga durata nella tradizione occidentale: la concezione aristotelica, che attribuisce alla natura femminile l’eccesso del desiderio; l’idea platonica dell’opposizione tra anima razionale e anima concupiscibile; l’antifemminismo della tradizione giudaica e della patristica. (pg. 23) FORMAZIONE CULTURALE DI FREUD. Von Brücke rappresentava a Vienna la scuola di von Helmhotz. Ci si proponeva di realizzare un netto distacco dalla scienza romantica. Si perseguiva la generalizzazione del metodo sperimentale e dei principi teorici della fisica. Freud fu suo allievo. Freud poi lavorò nella clinica di Meynert. Qui avvicinò per la prima volta pazienti psicotici. Il suo interesse era volto alle allucinazioni. Qui intravide il germe di quella che sarà poi la teoria dell’appagamento del desiderio. Da Brücke Freud acquisì un metodo e un quadro teorico generle. Nel 1860 Fechner pubblicò la sua prima opera di psicologia sperimentale. La psicologia moderna nasce da una rottura deliberata con la psicologia spiritualista e sotto l’urgenza della teoria positivistica della scienza. La stessa teoria psicofisica di Fechner nasce dall’esigenza di cogliere il filo che unisce il mondo fisico a quello spirituale e di esprimerlo con una legge matematica. Già Herbart (metà ‘600) aveva fissato la tre condizioni essenziali della psicologia scientifica: esperienza, metafisica, matematica.

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Un vasto spiegamento di procedure sperimentali era volto a determinare le soglie percettive: unità minime esprimibili in termini matematici, cumulabili e generalizzabili in un sistema di leggi capaci di fissare il funzionamento della vita psichica umana. L’isteria, una patologia tipicamente femminile (Freud dimostrerà che può essere anche maschile) che la medicina classica attribuiva a malformazioni o disfunzioni uterine, aveva ottenuto dignità di fenomeno scientifico. Charcot ne ordinò la caotica sintomatologia (fobie, contrazioni muscolari, paralisi temporanee, convulsioni e tremori) in precisi quadri nosografici. Egli aveva intuito l’incidenza della sessualità e le possibilità terapeutiche della parola accanto alla tradizionale ipnoterapia. Tutto ciò non si sedimentò in un quadro di sapere. Freud riconobbe inefficaci le terapie più diffuse per la cura dei disturbi nervosi: idrologia ed elettroterapia. Anche l’ipnotismo parve inefficace perché i suoi effetti erano momentanei e sporadici. Freud continua a interrogarsi sul rapporto tra disturbo psichico e substrato organico, avendo notato che la paralisi isterica differisce da quella organica perché la sua distribuzione non rispetta le carte anatomiche ma risponde a un concetto psichico di corpo. E’ dunque possibile recuperare contenuti psichici che si credevano perduti. Ma quanto più il suo interesse si allontana dall’eziologia organica, tanto più investe il campo della parola il rapporto che si stabilisce nel corso della terapia tra medico e paziente. Isteria: un paradigma di spiegazione scientifica. ISTERIA E LINGUAGGIO DEL SINTOMO. Breuer narrò a Freud la terapia a cui stava sottoponendo una giovane paziente, Anna O. Da qui si fa discendere la psicoanalisi. La ragazza era stata colpita da una costellazione di sintomi isterici: paralisi rigida e insensibilità lato destro, deficienza della funzione visiva, difficoltà del portamento del corpo, intensa tosse nervosa, incapacità di comprendere la lingua materna, stati di assenza, di confusione, di delirio, di anoressia e idrofobia (incapacità di bere). Tali sintomi erano sorti dopo che ella si era dedicata alle cure del padre, deceduto poi in seguito a malattia. Aveva sofferto in quel periodo di un acuto esaurimento, denominato da Breuer “stato ipnoide”. In analogia a tale stato ipnoide iniziale, egli suggeriva che fosse necessario riprodurre con l’ipnosi una situazione simile, in cui opera l’abreazione, la scarica emozionale con la quale il paziente si libera dell’effetto connesso a un evento traumatica. Anna gli riferì in che situazione era sorto uno dei sintomi e, al termine della rievocazione fortemente emotiva, il sintomo scomparve. Breuer denominò questo metodo, metodo catartico. Breuer individua nel ricordo l’eziologia psicologica l’unica via di risoluzione. E sembra aver colto anche il filo che riconduce alla causa: il discorso. Breuer abbandonerà la terapia di Anna. Egli rifiuta ciò che in realtà ha determinato il blocco nella sua paziente: la sessualità. Egli, come Anna del resto, non accetta le proprie pulsioni erotiche e aggressive perché le ritiene incompatibili con l’immagine idealizzata di sé che la cultura richiede. E Breuer fugge di fronte all’amore per la sua giovane paziente . Per Freud è proprio la relazione affettiva ad essere parte essenziale del processo terapeutico. L’affettività del rapporto terapeutico, che Freud chiamò traslazione e che ora viene denominato tranfert, permette al nevrotico di abbandonare le proprie difese che aveva eretto intorno all’avvenimento traumatico. Il sintomo ha raggiunto il suo primo scopo: quello di comunicare, simbolicamente, una impossibilità di espressione. Freud chiamerà il sintomo “discorso d’organo”. Tale atteggiamento sorge in risposta a una domanda di cura proveniente da ceti altoborghesi. L’analisi psichica catartica apparve opportuno nei confronti di pazienti colti che intendevano essere i protagonisti della propria cura. La loro

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sofferenza è espressione di insofferenza, di disagio sociale. Anna era sottoposta a una duplice interdizione: in quanto “sessualità” e in quanto “femminile”. Ai suoi caratteri notturni e demoniaci si contrapponeva l’angelicità della donna, incastrata nella fissità dei suoi ruoli familiari: figlia, sorella, moglie e madre. La sessualità femminile è incanalata nelle forme patologiche ma socialmente accettate del sintomo. Freud vede nel sintomo il bandolo terminale di una matassa da dipanare sino all’altro estremo, quello del trauma. In “Psicoterapia dell’isteria” Freud afferma che molto si sarà guadagnato trasformando la “miseria isterica” in “infelicità comune”. (pg. 34) FREUD E IL SUO ALTRO. Freud fu avversato. Con Breuer il rapporto del terapeuta col paziente è manipolatorio: il medico, attraverso l’ipnosi, riattiva i processi psichici connessi agli stati morbosi sino a scaricarli attraverso l’attività cosciente. Freud rinuncia all’ipnosi ma continua ad attivare tale processo sollecitando il ricordo con una ingiunzione autoritaria. Il campo indagato è quel del ricordo o meglio del suo fallimento. Le isteriche soffrono di ricordi. La paziente ricostruzione del passato evidenzia una zona d’ombra. Le isteriche hanno sofferto, nel corso della prima infanzia, di un trauma di natura sessuale (es. tentativi di seduzione da parte del padre). Al posto della causa c’è il trauma della seduzione. Nella teoria del trauma è scorgere una prima intuizione del rapporto erotico che lega il genitore al figlio di sesso opposto (Edipo/Elettra). Tale teoria, costruendo un sistema esplicativo di causa/effetto tra avvenimento obiettivo e sintomi psichico, cade nell’aporia di una radicale eterogeneità tra i due termini. Freud vede nel transfert la riedizione dei primi rapporti affettivi, il passaggio all’atto delle tracce mnestiche connesse alle figure parentali. Freud si avvede ben presto che le sue pazienti, nel corso dell’analisi, avevano mentito, anche se la loro menzogna contiene più verità di una narrazione obiettiva. Gli avvenimenti traumatici cui le isteriche fanno riferimento non sono necessariamente avvenuti, almeno nel senso degli avvenimenti fattuali. Essi sono stati però pensati, immaginati, vissuti sulla scena dello psichico producendo ivi i suoi effetti. Di conseguenza, traumatizzante non è l’evento ma il ricordo dell’evento. (pg. 38) La verità è ciò che non è immediatamente evidente, ma che può essere ricostruito a partire dalle sue manifestazioni sintomatiche. La regola fondamentale è lasciare che il paziente segua liberamente il filo del discorso. Sussiste un’apparente libertà associativa. Ricordare, ripetere, elaborare è il compito dell’analisi. L’Edipo è un’esperienza della pratica analitica e viene formulato da Freud nella forma universale della tragedia classica. La struttura che organizza le relazioni primordiali del triangolo padre/madre/figlio viene strappata alla contingenza del vissuto individuale per assumere la necessità e l’immutabilità delle forme categoriali. Il bambino si rivela preso da sempre nella trama dei rapporti familiari, elaborati dai suoi flussi affettivi, siano essi d’amore e d’odio. All’analisi, dunque, la manifestazione isterica si rivela una formazione di compromesso tra il desiderio di espressione e il desiderio di repressione. Teoria di Fliess. Le teorie di Fliess sulla periodicità dei fenomeni vitali (periodicità ricostruibile attraverso una combinatoria di numeri, in cui è possibile intravedere una trasposizione del sapere cabalistico), miravano a una trascrizione della quantificazione matematica proposta dalla scuola di Helmholtz; una trascrizione nella forma mediata della numerologia.

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La pratica freudiana: nosografia e tecnica. TEORIA E TERAPIA: CONVERGENZE E DIVERGENZE. In Freud è difficile distinguere il momento applicativo dalla elaborazione teorica. Il rapporto tra pratica analitica e il quadro teorico è sottoposto a compattamenti. Alcuni scritti metodologici di Freud (Tecnica della psicoanalisi) sono stati scritti tra il 1911 e il 1914, mentre altri (Costruzioni in analisi; Analisi terminabile e interminabile) sono del 1937. Due contesti culturali diversi. Negli anni ’30, la cultura europea appare dominata da uno sforzo di rifondazione categoriali (neokantismo, fenomenologia, Circolo di Vienna). Nei primi scritti tecnici restano alcune certezze di stampo positivistica, come la possibilità di ricostruire nella sua integrità la storia del soggetto, la fiducia che tutto il passato è conservato nella memoria. La metafora assimila la psicoanalisi all’archeologia. Prevale una concezione ottimistica dell’io. Successivamente, la ricostruzione della storia passata dal paziente cessa di essere la messa in ordine di eventi fattuali per divenire “costruzione” di una vicenda che si situa a metà strada tra la realtà della storia e quella della fantasia. Le resistenze alla cura si rivelano col procedere del lavoro analitico costruite della stessa delle pulsione a loro congiunte. Le metafore sono la spia del mutato quadro teorico: la psicoanalisi viene assimilata ora all’anatomia. Freud, sin dagli anni ’10, aveva distinto almeno sul piano operativo la cura della teoria. La pratica professionale è garantita dal metodo. Si costituisce un corpus dottrinale riconosciuto che funzioni da canone all’ortodossia (la psicoanalisi si organizza in forme affini a quelle della istituzione ecclesiastica). Il sapere analitico si trasmette attraverso l’analisi propedeutica. La dissimetria fra terapeuta e paziente si ripropone in quella tra analista didatta e analista allievo. La pratica analitica, soffocata dai richiami all’ortodossia, tende a sclerotizzarsi in forme ripetitive (pg. 44) NOSOGRAFIA E DELIMITAZIONI DI COMPETENZE. L’inizio della terapia analitica coincide con l’abbandono dell’ipnosi. E’ con l’adozione della “regola fondamentale” (ognuno deve comunicare, senza sottoporre a critica, tutto ciò che gli viene in mente) che la psicoanalisi costruisce il proprio oggetto. Partendo dalla definizione psichiatrica di nevrastenia (quadro sintomatico di affaticamento nervoso), Freud opera una prima grande distinzione: nevrosi attuali, con sintomatologia prevalentemente organica che deriverebbero da una disfunzione somatica della sessualità, e psiconevrosi, ove sarebbe determinante il conflitto psichico. Tra le nevrosi attuali, Freud isola la nevrosi di angoscia, caratterizzate da un nucleo di angoscia non riportabile a una causa specifica anche se suscettibile di legarsi, a posteriori, a qualsiasi motivazione. L’angoscia, provocata da tensione sessuale, non è di derivazione psichica. L’eccitazione, non legandosi a rappresentazioni psichiche, rimane puramente corporea e si esprime in rossori, vertigini, brividi: sintomi che mimano l’orgasmo mancato. Il sintomo, in quanto prende il posto di un atto mancato, è un simbolo; cioè, sta al posto di altro che non può trovare espressione. Per Freud, nella pratica terapeutica nevrosi attuali si presentano contemporaneamente. Il grande tentativo è quello di costruire una teoria ma tematizzabile, secondo i principi delle scienze naturali. Già nel “Progetto di una psicologia” (con Fliess) emerge il tentativo di costruire una psicologia neurologica su base quantitativa (1895)

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Nello stesso periodo Freud abbozza una concezione generale delle nevrosi capaci di dar conto di importanti fenomeni emersi nel corso della terapia: “difese”, processi psichici che si presentano nel caso delle verbalizzazioni del paziente, come repentina interruzione di una catena associativa. Nell’isteria, il processo di difesa, si converte in innervazioni somatiche. Nella nevrosi ossessiva esso rimane nella sfera psichica, aderendo però ad altre rappresentazioni che vengono a sostituire così la rappresentazione rimossa. LA RIMOZIONE E IL DESIDERIO DI NON SAPERE. Dalla individuazione e descrizione dei fenomeni di resistenza (blocco associazioni libere, dimenticanze, distrazioni, oppositività al terapeuta), Freud formulò la teoria della rimozione. L’amnesia diviene un processo attiva dove una barriera energetica viene opposta alla libera circolazione del ricordo. In “Meccanismo psichico della dimenticanza” (1898), Freud afferma che gli isterici non sanno quello che non vogliono sapere. La rimozione non solo produce il vuoto dell’amnesia, ma lo aumenta coi vividi colori di un altro ricordo che ha la funzione di copertura. E’ opportuno un lavoro di composizione e scomposizione. Ma perché, si chiede Freud, (Vie della terapia psicoanalitica, 1918) dobbiamo utilizzare proprio l’analisi, un metodo che procede per scomposizione dissezione? Perché i sintomi e le manifestazioni patologiche del paziente hanno un carattere fortemente composito: gli elementi di questa composizione sono i moti pulsionali. Il sintomo, in definitiva, non è che un modo di espressione, simbolizzato, di un conflitto che non ha trovato altra via d’espressione. Il sintomo ha una funzione di soddisfacimento sostitutivo e il suo abbandono provoca una frustrazione. IL TRASFERT COME DIMENSIONE DELLO SCAMBIO ANALITICO. Se l’eliminazione dei sintomi attenuando la sofferenza, allontana dalla guarigione, tale sofferenza va ripristinata altrove sottoforma di privazione. Spesso il paziente investe le energie psichiche su soggetti sostitutivi, sottraendoli così al conseguimento della guarigione. Il paziente cerca un sostituto gratificante. Freud così ha elevato a principio lo stato di astinenza. Si tratta in pratica di sottrarsi alla richiesta che il paziente avanza nell’ambito della relazione da transfert: richiesta di amore, di aiuto, di consiglio, di approvazione. Freud qui affronta lo spinoso problema della neutralità della psicoanalisi. E’ una neutralità che non lo obbliga come uomo, ma solo come terapeuta che riconosce e accetta i limiti del proprio intervento senza abbandonarsi a fantasie di onnipotenza. Freud qui elabora un quadro nosografici nuovo: le nevrosi da transfert; una patologia provvisoria dalla quale il paziente può essere liberato con la terapia analitica. Nel transfert il paziente trova presentificati (oggettivati) non solo le sue esperienze rimosse, ma anche i suoi desideri e fantasmi inconsci. Nello spazio di transfert, l’analizzato non solo rievoca, ma rivive il rimosso. Quanto più un contenuto psichico si sottrae alla rievocazione, cioè alla sua trascrizione in discorso, tanto più è soggetto a ricomparire come atto, come esperienza immediata, sospinto da una coazione a ripetere. Il terapeuta non è estraneo alle vicende transferali. Tale coinvolgimento è un ostacolo alla cura (Breuer e Anna O.). Dunque, anche il terapeuta si farà paziente: per non cedere alle lusinghe e alle richiesto dell’analizzato (transfer positivo) né cogliere le sue provocazioni, i suoi tentativi di fuga o di capovolgimento del rapporto analitico (transfer negativo). La nevrosi da transfert ha carattere secondario, di riedizione della nevrosi infantile. Jung proporrà una distinzione tra nevrosi da transfert e nevrosi narcisistiche (psicosi). Qui la nevrosi da transfert cessa di essere una nevrosi indotta per assumere il valore di una categoria.

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PRESCRIZIONI TERAPEUTICHE. Freud paragona l’analisi al gioco degli scacchi dove solo le mosse iniziali e quelle finali possono venire teorizzate. Il primo passo nell’intraprendere la terapia analitica è quello di accettare il paziente in via provvisoria. Sembra che la psicoanalisi sia inaccessibile ai poveri. Forse è giustificata l’asserzione secondo cui cade meno facilmente preda della nevrosi chi dalle necessità della vita è costretto a un duro lavoro. Per coloro ai quali una sicura rendita permette di abbandonarsi ai tormenti della nevrosi e alle fatiche della terapia, Freud appronta quella situazione protetta e controllata che ora viene denominata “setting”. INTERPRETAZIONE. L’analista, colto finora nella passività dell’ascolto, ha un suo potere: comunicare al paziente il senso latente dei suoi atti: la parola, il silenzio, il sintomo, il gesto, l’atto mancato e il sogno. Interpretazione è soprattutto costruzione di un senso che prende corpo nel lavoro analitico che compare in quello spazio di esperienza sfuggente all’intenzionalità e al sapere. L’interpretazione è uno dei nuclei organizzativi dell’analisi. Agli esordi della psicoanalisi, l’interpretazione era rivolta a dar voce a delle esperienze vissute, conservate integralmente nell’inconscio sottoforma di tracce mnestiche. Psicoanalisi qui è intesa nel senso di anamnesi, ritrovamento e ricostruzione del passato. Ben diverso è il procedere della costruzione (1937). L’analista deve scoprire, costruire il materiale dimenticato a partire dalle tracce che di esso sono rimaste. Si tratta di ricercare le tracce, di un metodo poliziesco che evoca il personaggio di Sherlock Holmes che scopre l’autore del delitto sulla base di indizi (tracce, orme, segni). Un altro riferimento va a Morelli, un critico d’arte contemporaneo a Freud, che propose un metodo per l’attribuzione delle opere iconografiche distinguendo con sicurezza le imitazioni dall’originale. Egli sottolineava l’importanza caratteristica dei dettagli secondari, di particolari insignificanti come la conformazione delle unghie, dei lobi auricolari, dell’aureola e di altri elementi che di solito passano inosservati. (pp. 53-55) In tutti e tre i casi, analista, poliziotto e critico d’arte, tracce magari infinitesimali consentono di cogliere una verità profonda. Queste tracce sono sintomi (analista), indizi (poliziotto), segni pittorici (arte). Le caratteristiche di queste discipline indiziarie sono: 1. essere basate sulla decifrazione dei segni; 2. avere per oggetto casi, situazioni e documenti individuali; 3. raggiungere una conoscenza implicante un margine ineliminabile di congettura. Quesiti (nel lavoro analitico; la pratica terapeutica) • Come individuare parametri di riferimento sicuri tali da garantire al terapeuta di procedere sulla retta via? • Qual è il ruolo dell’analizzato nel decidere della correttezza o meno dell’interpretazione? • (a livello epistemologico). Cosa garantisce la validità del sapere analitico? Freud risponde con due saggi: “La negazione (1925); “Costruzione dell’analisi (1937). Nel primo saggio, “La negazione”, prende in analisi il caso in cui il paziente rifiuti l’interpretazione dell’analista. La negazione può essere utilizzata per preservare l’essenziale della rimozione, ammantandola di un riconoscimento intellettuale. Nel secondo saggio, “Costruzioni dell’analisi”, considera l’eventualità della piena accettazione dell’interpretazione. L’assenso può servire per mascherare il conflitto con l’analista e mantenere

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celata una verità che non è stata ancora scoperta. Siamo esterni ai parametri di vero e di falso del giudizio aristotelico. Ciò che prevale è l’esercizio del sospetto. Freud pone convalide dirette come l’aumento della produttività del paziente che, posto di fronte a una interpretazione o a una costruzione riuscita, dovrebbe reagire connettendovi sogni, ricordi, associazioni. Interpretazione e costruzione hanno inizialmente un valore ipotetico e solo alla fine, se si saranno rivelate compatibili con tutti gli altri apporti che non meno si aggiungono all’edificio delle congetture, perderanno la loro provvisorietà. Freud opera uno scollamento tra verità (prodotto dell’analisi) e realtà. Il risultato è non il disvelarsi del già noto, ma la costruzione di qualcosa: la costruzione di un nuovo rapporto conoscitivo con il reale. OLTRE LA TERAPIA. L’importanza della psicoanalisi come scienza dell’inconscio oltrepassa di gran lunga la sua importanza terapeutica. E’ dal materiale dell’analisi (lapsus, sogno, sintomo) che il nuovo procedimento prende la via del largo affrontando “per analogia” sempre nuove produzioni psichiche come l’opera d’arte, il mito, il teatro, la civiltà, le guerre, la morte. La vita è sintomo. INTERPRETAZIONE DEI SOGNI. Il negare alla normalità uno statuto diverso da quello della malattia, rintracciare nei comportamenti più quotidiani e generalizzati come il sogno, le azioni marginali, le improvvise amnesie, i lapsus, rappresenta un’impresa scientifica notevole. L’ombra della malattia sembra diffondersi su tutto lo spazio dell’attività umana e dei loro prodotti culturali e sociali. Lo sguardo analitico, reso acuto dal sospetto, si pone sui margini dell’attività consapevole, sui bordi del comportamento, sul balbettio più che sulla parola. Freud, nel 1899, pubblica “L’interpretazione dei sogni”. Egli “nasconde” l’aspetto di novità del suo libro e lo iscrive in una tradizione forte che risale a Ippocrate, Aristotele, Artemidoro e che si è tramandato anche attraverso la tradizione popolare, che da sempre ha attribuito al sogno un senso profondo e capacità divinatoria. Già nel Progetto (con Fliess) abbiamo alcuni elementi della teoria del sogno. Per il ritiro dell’attività sensoriale, la scena del sogno diviene l’unica realtà, una realtà allucinatoria. Il significato del sogno va ricercato nel desiderio che esso attua. La logica del sogno è la mappa che indica la strada nell’esplorazione dell’inconscio. Il sogno non è l’inconscio me ne è una delle sue rappresentazioni più fedele e generalizzata. La censura è una funzione psichica che si frappone tra il sistema inconscio e quello preconscio/conscio della rimozione. Poiché i desideri inconsci, urgendo verso la coscienza, mettono in pericolo il sonno, la censura interviene, tentando di accordare le due istanze. La censura, da una parte cerca di soddisfare i desideri inconsci nelle forme allucinatorie della realtà onirica; dall’altra, di mantenerli mascherati in modo che risultino accettabili da quella parte conscia della psiche che non cessa mai una certa vigilanza. Il sogno dunque è la realizzazione di un desiderio inconscio rimosso. Poiché nulla nello sviluppo psichico è superato una volta per tutte, i desideri infantili si ripresentano alle soglie della coscienza, sorprendendola nel momento di debolezza in cui il sogno allenta le sue difese. Ma le residue funzioni di censura sottopongono i contenuti latenti a una deformazione che li rende più o meno irriconoscibili. Questi mascheramento è il risultato del lavoro onirico. Quello che il paziente porta in analisi non è il sogno, ma il ricordo di una esperienza onirica successivamente organizzata in un discorso. Un sovvertimento il quale farà dire a Freud che nel sogno non esiste un segno di realtà.

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La forma enigmatica del contenuto manifesto svanisce una volta che il lavoro di interpretazione, ripercorrendo a ritroso il lavoro onirico, disfacendo i suoi nessi, colmando le sue cancellazioni, riesce a ricostruire il contenuto latente. Nel sogno non è tanto importante il materiale onirico, spesso mediato dalle esperienze della giornata (i resti diurni), quanto la sintassi secondo cui questo materiale si organizza. Tale sintassi è sintetizzata dallo stesso Freud in quattro attività: rifacimento visivo, condensazione, spostamento e ordinamento. In primo luogo i pensieri latenti vengono messi in scena (rifacimento visivo). Il materiale visualizzato viene poi condensato in modo che più elementi si compattino in uno solo in base a relazioni di somiglianza, di comunanza, di concordanza, anche molto flebili (condensazione). Si ha poi un movimento di fuga che porta il contenuto rimosso, affettivamente pregnante, verso contenuti sempre più neutri emotivamente (spostamento). E’ possibile infine ripercorrere a ritroso la trama del sogno, sino a giungere al punto di partenza, al contenuto latente (ordinamento). L’impresa è garantita da dal principio di determinazione che regge la vita psichica. Nulla vi accade casualmente ma ogni manifestazione è prodotta dal desiderio inconscio. I pensieri latenti consono diversi da quelli consapevoli. Sono della stessa natura. Essi sono necessari per passare la censura onirica. Nel processo di decostruzione, l’analisi si trova di fronte un testo più o meno organizzato, la facciata del sogno. E’ una sorta di interpretazione provvisoria con cui il sognatore cerca di controllare l’irruzione del materiale onirico più inquietante. Le rappresentazioni oniriche subiscono, a livello stesso del sogno, una prima messa in ordine. Ogni sogno ha per lo meno un punto in cui esso è insondabile, quasi un ombelico attraverso il quale esso è congiunto all’ignoto. Il testo del sogno giunge già sottoposto a due elaborazioni: una elaborazione primaria, simultanea al sognare, e una elaborazione secondaria, della sua trascrizione in racconto, ove il vissuto onirico si linearizza nelle forme logiche del discorso. Al termine del viaggio lungo i percorsi del sogno ritroviamo l’infanzia con le sue esperienze costitutive. Non è solo l’infanzia del soggetto, quella che sta alle sorgenti del sogno; vi è anche l’infanzia dell’umanità. Il sogno conduce a una dimensione culturale esterna allo psichismo individuale. Per questo il lavoro analitico si giova della interpretazione dei simboli, un materiale onirico sedimentato nella cultura. Vi sono simboli comuni a contesti culturali diversi: il re e la regina rappresentano sempre i genitori; le stanze le donne, le case la madre, le armi il sesso maschile, le scale l’atto sessuale. Il simbolismo onirico attraversa il sogno ma non è un elemento esclusivo del sogno: sta nel mito, nel rito, nelle favole, nel folklore, nelle battute di spirito. Il ricorso alla traduzione nei simboli onirici conserva in Freud una funzione marginale. La via maestra è costituita dalle libere associazioni, le sole che conducono l’analisi nel luogo dove le dimensioni della cultura e della storia si incarnano nella vicenda del soggetto. Lo sguardo psicoanalitico ha una capacità sua propria di cogliere le componenti sintomali dell’esperienza che spazierà dalla scena notturna del sogno, alla dimensione del quotidiana, investendo i gesti, le parole, i silenzi con la sua martellante interrogazione. PSICOPATOLOGIA DELLA VITA QUOTIDIANA. In questo suo lavoro del 1901 egli tratta principalmente della memoria. I ricordi e le connessioni delle tracce mnestiche con le esperienze passate costituiscono l’asse dell’intervento psicoanalitico. Nel concreto del lavoro analitico sorge anche e soprattutto la necessità di spiegare il contrario della memoria: l’oblio. Perché certi elementi subiscono una cancellazione mentre altri si impongono con eccezionale intensità. L’amnesia non è né marginale né casuale. Nulla, però, è mai dimenticato una volta per tutte, ma assistiamo continuamente a tentativi di ritorno del rimosso, che operano una perturbazione delle attività delle attività correnti. Mentre nel nevrotico il rimosso investe e disturba le prestazioni psichiche più importanti (alimentazione, sessualità, lavoro), nella persona considerata “normale” sono le attività marginali

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quelle che subiscono più frequentemente perturbazioni dell’inconscio. Il lavoro dell’inconscio lavora anche qui secondo la modalità compromissoria di esprimere celando, ove verità e menzogna si intrecciano indissolubilmente, lasciando trapelare effetti di rivelazione dell’inconscio. Il materiale su cui lavora l’analisi è sempre prodotto da una rimozione riuscita a metà. Freud si imbatte anche in una produzione verbale particolare, caratteristica dell’ambiente ebraico, il Wiltz (motto di spirito). Da questa riflessione esce l’opera “Il motto di spirito e la sua relazione con l’inconscio” (1905). Si tratta di un’opera sottovalutata dallo stesso Freud, ma che si è rivelata importante nel definire il rapporto tra psicoanalisi e creazione artistica. Gli autori di questi motti sono per lo più figure obsolete come il sensale di matrimoni o il pitocco, grotteschi residui sociali cui tocca incarnare il contrasto tra la legge religiosa e il costume. In queste rapide battute, ove il non detto eccede sempre il detto, Freud scorge in atto lo stesso ritorno del rimosso individuato all’origine del sogno. La civiltà esige che le nostre più potenti passioni siano limitate e rimosse a favore di superiori esigenze comuni. Ma poiché la rimozione totale è impossibile, si lasciano degli spiragli attraverso i quali il rimosso incontenibile possa fluire, purché canalizzato in forme controllate. Il bambino psicoanalitico. IL PICCOLO PERVERSO. Come è possibile che funzioni una eziologia sessuale in un’epoca infantile caratterizzata dalla immaturità anatomica e funzionale? Freud ritratta la vecchia dottrina secondo cui all’origine delle nevrosi si trova un trauma reale e spiega che si tratti di avvenimenti sessuali della prima infanzia, dove è determinante l’elemento fantastico, successivamente allucinati come ricordi fattuali. Tradizionalmente la sessualità veniva associata alla facoltà riproduttiva. Freud dimostra invece che essa è anticipata da una sessualità infantile relativamente autonoma, sterile, finalizzata al piacere autoerotico. Freud intende dimostrare che ciò che appare patologico nell’adulto costituisce la normalità per il bambino. Già alla nascita il piccolo è dotato di una precisa organizzazione sessuale e di una energia sessuata. Le organizzazioni sessuali immature in parte evolvono spontaneamente in quelle successive in parte vengono rimosse. La sessualità infantile viene avvertita come il maggior ostacolo alla educabilità del bambino, al suo ingresso nella società. Per quanto riguarda i residui di sessualità infantile, essi saranno organizzati sotto il primato della genialità. Ove questo non accada la sessualità si organizza in modi devianti. Nel caso che la sessualità infantile abbia resistito ai processi inibitori, si esprimerà attraverso le perversioni, ove invece la rimozione sia stata eccessiva emergerà sotto forma di nevrosi. La psicoanalisi legge il sintomo come l’enigmatica trascrizione di impulsi ideativi ed affettivi rimossi da riportare, attraverso l’interpretazione, alla coscienza. Per pulsione, dice Freud, si intende la rappresentanza psichica di una fonte di stimolo in continuo flusso, endosomatica, a differenza dello stimolo, che è prodotto da eccitamenti isolati e provenienti dall’esterno. L’oggetto della pulsione è quello mediante il quale la pulsione raggiunge il suo scopo; è strettamente variabile e può essere interno ed esterno al corpo. Bisogna prendere atto che esistono delle parti del corpo che si presentano, in un dato momento, con un alto indice di investimento energetico (eccitazione) Queste parti vengono dette zone erogene. Freud ha bisogno di un elemento intermedio tra la fonte e l’oggetto. E’ la libido, una definizione quantitativa, seppur non misurabile dell’energia psicofisica di natura sessuale.

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Ogni parte del corpo può divenire zona erogena, anche se vi sono zone erogene predestinate (bocca, ano, uretra, genitali) caratterizzate da una trasformazione della pelle in mucosa, in un tessuto cioè particolarmente sensibile. La sessualità è già presente nel neonato. In un primo tempo serve da sostegno a processi vitali, ma se ne distacca presto cercando il piacere per se stesso. Il piccolo, una volta sazio, ricerca il piacere della suzione per se stesso, mettendosi in bocca un dito o altri oggetti che presentificano l’oggetto primario della soddisfazione, il seno, che compare qui solo come fantasma. Quando il bambino succhia il proprio dito, ricerca un piacere autoerotico, in quanto il tramite verso la soddisfazione è costituito dal proprio corpo. Inizialmente la libido si concentra intorno alla zona orale, a sostegno della vitale attività di suzione. La libido orale organizza un primo rapporto affettivo con il mondo. Poi, attraverso un passaggio dettato tanto da una sollecitazione endogena quanto da un richiamo esterno, la libido si concentra intorno alla zona anale. Il bambino, che deve trattenere le feci per espellerle a tempo debito, utilizza ben presto questa funzione a fini erotici. Non solo perché la massa fecale sollecita la mucosa anale ma anche perché le feci, investite affettivamente, funzionano come un dono da offrire alla madre, stabilendo in tal modo nei suoi confronti un primo scambio amoroso. Si arriva, dunque, alla fase fallica. Un oggetto d’amore completo ed esterno al proprio corpo prende forma solo con il concentrarsi della libido in zone genitale, il pene per il maschietto e il clitoride per la bambina. In questa fase abbiamo una completa esperienza di amore, con le sue componenti di erotismo e di sessualità, del tutto prematura rispetto alla maturità organica dei bambini. Essa risulta inaccettabile dagli adulti che mettono in atto tutto un sistema di interdizioni e di divieti che provocherà il suo inabissamento. L’organizzazione fallica della libido (dopo quella orale e anale che permangono come strati soggiacenti) rappresenta il vertice delle vicende pulsionali dell’infanzia. Il desiderio di conoscere del bambino urge sulla sessualità. Il bambino vi sperimenta le sue capacità di conoscere, di organizzare, di immaginare il mondo, al di fuori almeno una volta della invadente normatività degli educatori. La teorie infantili sulla nascita si possono così sintetizzare: 1. sia i bambini che le bambine pensano che entrambi i sessi siano dotati di pene; 2. il neonato è analogo a una massa fecale e può essere generato da entrambi i sessi; 3. il rapporto sessuale è uno scambio di bambino oppure un’aggressione del padre nei confronti della madre. IL COMPLESSO DI EDIPO Verso il terzo anno di età sorge un rapporto di fiducia e una corrente di tenerezza con la madre. Questa a sua volta tende a considerare suo figlio come il suo oggetto privilegiato. Qui il padre viene vissuto come l’ostacolo che impedisce alla diade madre/figlio di chiudersi nell’autosufficienza e, come tale, diviene oggetto di odio. Nel caso del presidente Schreber (1910), Freud afferma un famoso caso di paranoia, riportandolo a un distorto rapporto col padre. I vissuti che il paranoico si impedisce di sentire dentro sé si ripresentano dal di fuori, come avvenimenti reali,alimentando il suo delirio di persecuzione. Il padre Schreber, un celebre medico e pedagogista, si presenta al figlio come la legge, il tutto e non gli lascia spazio alcuno per la costruzione di una sua storia, di una sua soggettività, per la quale è necessario che la figura paterna dell’immaginario infantile muoia per far posto alla dimensione simbolica della legge. Nel caso del piccolo Hans si tratta della vicenda di una terapia infantile che porta, per la prima volta, sulla scena scientifica, il parlottio sconnesso, l’erranza del desiderio, l’originale concezione del mondo di un bambino di cinque anni. Hans è affetto da una fobia per i cavalli che gli impedisce di uscire di casa. Attraverso l’analisi, il suo sintomo si rivelerà uno spostamento dell’aggressività, e di riflesso della paura, dalla figura del padre a quella affettivamente più neutrale del cavallo. L’amore per il genitore del sesso opposto e la rivalità nei confronti di quello del proprio sesso è solo l’Edipo semplice, accanto al quale Freud porrà anche la forma inversa (amore per il genitore dello

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stesso sesso e rivalità per quello del sesso opposto). Freud non ha mai dato una esposizione sistematica di quello che chiamerà complesso di Edipo, una costellazione di elementi cognitivi ed affettivi che si struttura secondo lo schema drammatizzato nell’Edipo di Sofocle. La tragedia mette in scena, congiuntamente, l’esaudimento del desiderio (sposare la madre e uccidere il padre) con la sua interdizione (cecità e morte). Gli effetti che generano negli spettatori sembrano a Freud la prova che la tragedia di Edipo coinvolge ciascuno di noi. Se non nella realtà, almeno nella immaginazione, ogni bambino ha sognato di uccidere il padre e di prenderne il posto accanto alla madre. L’intimità della coppia parentale è presente nell’inconscio nella forma archetipa della scena primaria. Questa diviene, nel caso clinico dell’Uomo dei lupi (1914), un fondamentale luogo teorico. Ricostruendo, attraverso i ricordi di un adulto, l’esperienza (reale o immaginaria?) di un bambino che assiste al rapporto sessuale dei genitori, Freud delinea gli assi portanti dello spazio psicoanalitico ove convergono strutture categoriali a priori con elementi fenomenici e successive elaborazioni mnestiche (pg. 77). Ciò che nella tragedia di Edipo è rappresentato come tentativo di uccisione da parte del padre (l’abbandono del neonato) viene vissuto, nella esperienza di ogni bambino, nella forma della paura della castrazione. Ma perché si chiede alla fine Freud tutto questa vicenda termina con la rimozione? La risposta è data dalla impossibilità intrinseca di qualsiasi soluzione: nel suo ambito non vi sono che sconfitte e frustrazioni. Il complesso di Edipo svanisce perché la sua stagione è finita e perché, nel conflitto tra interesse narcisistico (il timore di soggiacere a alla castrazione) ed investimenti libidici sugli oggetti parentali, prevale il primo. Di fronte all’impari contesa con il rivale adulto, il bambino compie quello che sarà un meccanismo di reazione generalizzato: si identifica con l’aggressore, lo introietta, lo assimila. L’autorità paterna e parentale, fatta propria, costituisce il nucleo del Super io. Nella comunità umana il nuovo nato, divenuto bambino civile, viene desessualizzato nello stacco degli oggetti del desiderio, neutralizzato secondo quel processo di sublimazione, che permette alla pulsione di cambiare di oggetto e di meta senza perdere potenziale energetico. Il tramonto del complesso edipico coincide con l’inizio del periodo di latenza. Esso va dal termine dell’infanzia sino alla pubertà (dai sei ai dieci anni) e costituisce una parentesi di bonaccia tra due tempeste emotive. Il padre, il quale ha deluso l’onnipotenza che il figlio un tempo gli attribuiva, non sembra più abbastanza prestigioso per giustificare un completo investimento oggettivo. UN MASCHIO MANCATO Freud postula una originaria bisessualità psichica di tutti gli esseri umani, ma oggetto privilegiato della sua osservazione è il bambino maschio. Nei Tre saggi la bambina è considerata un maschietto in tutto e per tutto sino alla fase fallica. Condividerebbe con il bambino una sessualità orale, anale e, inizialmente, anche fallica. Il bambino vede, nel corpo della coetanea, la conferma dei propri timori di castrazione, mentre la bambina sperimenta con vergogna un senso di inferiorità organica. Mentre il bambino è indotto, dal timore di perdere la propria integrità anatomica, ad uscire dall’Edipo, ad abbandonare la contesa con il padre, di contro, entra nell’Edipo proprio nel momento in cui si riconosce biologicamente deprivata. Nella bambina si assiste a un mutamento di oggetto (dalla madre al padre) e si accompagna un cambiamento di zona erogena; la libido trasmigra dal clitoride alla vagina, trasformandosi da attiva in passiva, ricettiva. Contemporaneamente le pulsioni aggressive verranno distolte dell’oggetto e introiettate su di sé , dando origine alla disposizione masochistica femminile, indispensabile alle vicende riproduttive del coito, della gestazione, del parto, dell’allattamento. La donna materna, così costituita, troverà nel figlio la completezza agognata, l’appagamento ultimo del suo desiderio.

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All’esterno di questo microcongegno vi è per la donna solo la mascolinità e la nevrosi. Freud, in realtà, fa della posizione femminile il limite dell’impresa psicoanalitica. TEORIE FEMMINILI SULLA FEMMINILITA’ Freud aveva individuato nel rapporto madre/figlia precedente la triangolazione edipica il luogo determinante della femminilità. Secondo Freud, inoltre, il transfert che si stabilisce con una analista donna tende ad attualizzare il legame materno ed è particolarmente idoneo ad esplorare le fasi preedipiche dello sviluppo. Due psicoanaliste, Janine Lampl-de-Groot e Ruth McBrunswick, approfondirono il rapporto madre/figlia, inserendo il complesso di castrazione femminile nell’ambito dell’elaborazione dell’Edipo negativo. Helene Deutsch fa propria la teoria freudiana del masochismo femminile sviluppandola in senso naturalistico. La psicologia della donna è un derivato della sua costituzione anatomica e della sua fisiologia. I fattori sociali sono sempre subordinati a quelli costituzionali. Karen Horney non accetterà mai la dichiarazione di Freud secondo cui l’anatomia è un destino e vi contrapporrà un modello esplicativo alternativo, in cui non le pulsioni, ma i condizionamenti sociali e culturali giocano un ruolo determinante. Richiamandosi alla posizione di Georg Simmel, secondo cui la nostra civiltà è una civiltà maschile, la Horney denuncia l’ottica di parte con cui è stato costruito il modello psicoanalitico di femminilità. L’invidia del pene si rivela la conseguenza della situazione di inferiorità della donna, indotta da tutto il contesto ambientale. La Horney propone che la psicoanalisi esca dalla sfera del privato, confrontandosi criticamente con la sociologia e l’antropologia. Ernest Jones notò che le osservazioni degli analisti uomini sulla sessualità femminile sono viziate da uno sorta di fallocentrismo. Vide poi nel timore di castrazione il simbolo di una paura più grande e universale, che egli denominò aphanisi, la perdita di ogni possibile piacere sessuale. Anche Marie Bonaparte pone l’accento sulle radici biologiche della specificità femminile. La donna si trova in una situazione di svantaggio rispetto all’uomo perché possiede un minor patrimonio libidico. La frigidità femminile è anche provocata dalla cultura patriarcale che reprime con particolare accanimento la sessualità femminile. Una teoria dello sviluppo femminile autonoma viene proposta da Melanie Klein. Lou Andreas Salomé elabora il tema dell’essenza femminile. Ella teorizza un’esperienza complessiva che chiama femminile, senza ancorarla ad alcuna specificità biologica, caratterizzata dalla felicità di un erotismo che basta a se stesso, di un narcisismo che si appaga dell’autocontemplazione. Luce Irigaray ha segnato un punto di non ritorno. Ella denuncia l’impossibilità del pensiero occidentale di pensare il diverso. Poiché il nostro pensiero poggia sul predominio dell’Uno rispetto al molteplice, sul principio di non contraddizione, sull’identità, ci riesce impossibile teorizzare a un tempo un sesso e l’altro, se non nella forma della specularità negativa, della sottrazione, della mancanza. Riprendendo i temi di “Totem e tabù”, la Irigaray sostiene che, all’origine della civiltà, ci fu un assassinio più arcaico del parricidio, quello della donna/madre. Esso costituì l’atto inaugurale della società maschile, fondata sulla negazione del femminile. Il disagio della civiltà UOMO ANIMALE INFELICE. Il modello freudiano conduce all’obsolescenza un modello esplicativo secondo cui la sessualità è composta da un insieme di comportamenti istintuali finalizzati alla riproduzione. La psicoanalisi incontra nella sessualità una storia, tracce di vicende remote, un sistema di rapporti interpersonali. La sessualità umana si svolge tra la pluralità delle fonti, l’intercambiabilità degli oggetti e la labilità del fine. Per il fatto di non essere una ma un coagulo di pulsioni parziali contraddittorie, la meta della soddisfazione le è preclusa in se stessa. Freud non risolve mai il dramma della insoddisfazione in una piatta contrapposizione tra istinto e società, tra natura e cultura; egli ne vede piuttosto la commistione. Nessuna conquista dell’uomo sarebbe possibile senza una

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costante sottrazione di energie sessuali che, attraversi i processi della rimozione e della sublimazione, vengono posti al servizio di mete collettive. Come è possibile pensare a una separazione tra sessualità e civiltà, visto che le pulsioni si costituiscono e si combinano nel corso di una storia all’interno di una struttura, l’Edipo, che è un tutt’uno con esse? In Totem e tabù (1912/13) , Freud opera un serrato confronto fra la struttura psichica individuale (l’Edipo), nella sua formulazione di base (divieto di amare la madre e odiare il padre) e le strutture sociali nucleari che l’antropologia evoluzionistica di fine ‘800 aveva messo in luce nello studio delle popolazioni primitive: il totem e il tabù. Il totem, rappresentato per lo più da un animale, fonda l’appartenenza alla medesima tribù, simbolizzando l’identità sociale. All’interno del gruppo totemico vi sono due tabù (due divieti sacri): Non uccidere l’animale totem e non avere rapporti sessuali con i membri dello stesso totem. Freud interpreta l’animale totemico come una simbolizzazione del padre e traduce il tabù come l’interdizione edipica, estesa qui ad un’area sociale molto più vasta di quella strettamente familiare. Freud si interroga anche sull’origine dell’orrore per l’incesto. Egli utilizza il modello interpretativo e i presupposti metodologici dell’antropologia del suo tempo. La sua descrizione va più ascritta nell’ambito del mito (un mito borghese) che a quello della scienza. L’uomo primitivo sarebbe vissuto in piccole comunità (orde) in cui un solo maschio adulto possiede tutte le femmine, scacciando i figli rivali. E’ la prima applicazione della regola esogamica. E’ questa solo una ipotesi, in quanto ciò che si situa prima dei tempi storici può essere solo inferito in termini di necessità logica che cronologica. (pg. 91). Un giorno i fratelli cacciati si riunirono, abbatterono il padre e lo divorarono, ponendo così all’orda paterna. Il pasto totemico, la prima festa dell’umanità, celebra l’immedesimazione dei figlio col padre e stabilisce il primo legame tra i figli parricidi, accomunati dalla colpa e dal rimorso. Per evitare che un crimine così non avvenga più, un sistema di divieti regola i rapporti sociali. Ma poiché il desiderio incestuoso si ripresenta, la vicenda si ripete attualizzata nella società attraverso i miti e, nella storia individuale, attraverso l’elaborazione dell’immaginario edipico. Da qui il parallelismo tra la gestualità ripetitiva e coatta dell’ossessivo e il cerimoniale religioso; l’uno e l’altro volti a controllare il sentimento di colpevolezza. Per Freud la religione stessa può essere fatta risalire a queste primordiali vicende. Da qui anche la idealizzazione della figura paterna che viene socialmente rievocata nelle figure della divinità e della regalità. In “Considerazioni attuali sulla guerra e sulla morte” (1915), Freud nota che il comportamento della società moderna è analogo a quello dei popoli primitivi. L’azione vietata ai singoli diviene lecita e si fa opera collettiva. Nell’inconscio permane, nonostante ogni imposizione etica, un’aggressività mortale della quale cogliamo soprattutto le conseguenze in termini di senso di colpa. Freud sembra prospettare una antropologia, l’immagine di un uomo che si accontenta di vivere nella dimensione finita della sua condizione, senza abbandonarsi all’allucinazione dell’esaudimento del desiderio rappresentata dalle promesse della religione. Con il saggio “L’avvenire di una illusione” (1927), Freud tenta l’impresa di smantellare la necessità della religione che gli appare essenzialmente come un narcotico. Per Freud comunque non vi sono dubbi: il fine dell’uomo è la felicità, intesa sia come assenza del dolore che come fruizione del piacere. Sin dalla nascita l’uomo è programmato a tale scopo che tuttavia si rivela impossibile. Per provare piacere è necessario che prima ci sia stata deprivazione e l’intensità del godimento è direttamente proporzionale a quella della sofferenza provocata dal bisogno. L’infelicità si dimostra una componente essenziale della felicità ed entrambe appaiono inserite in un complesso sistema di scambi tra l’individuo, la natura e la società. Tre pericoli minacciano la vita dell’uomo: il deperimento organico, le forze distruttive della natura, le relazioni con gli altri uomini, dalle quali provengono le maggiori cause di sofferenza. Nel “Disagio della civiltà” (1930), Freud sottolinea come egli abbia cercato di tenersi lontano dal pregiudizio entusiastico secondo cui la nostra “civiltà” sarebbe la cosa più preziosa che possediamo o

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che potremmo acquisire. Freud utilizza il termine “Kultur”, Freud intende l’insieme delle norme e delle istituzioni dirette a regolare la distribuzione dei beni e l’insieme delle tecniche dirette a procurare i beni essenziali alla sopravvivenza della società. Con il patto sociale l’uomo rinuncia alla felicità in cambio della sicurezza. La società si configura come il campo di battaglie di forze contrapposte che Freud denomina, utilizzando il dualismo platonico, Eros e Thanatos; amore e morte. UNA CONFLITTUALITA’ INSANABILE. In “Al di là del principio di piacere” (1920), Freud aveva applicato la nozione di pulsione, ipotizzando accanto alle pulsioni sessuali, una antagonista pulsione di morte. In “Psicologia delle masse e analisi dell’Io” (1920), Freud ricerca le motivazioni che spingono gli individui, una volta aggregati collettivamente, a comportarsi in modo diverso da quanto farebbero isolatamente. Motivazioni che sono da ricercarsi in una dimensione non sociologica ma psicologica. Si tratta di rapporti amorosi sublimati che uniscono l’individuo alla massa e la massa al suo capo. Da ricordare che, nel bambino, in un primo momento, la rinuncia pulsionale era provocata dal timore dei castighi ma, progressivamente, per l’accumulo di forze aggressive, viene gestita da un’istanza interna, da una coscienza morale astratta, il Super-io. Paradossalmente, le rinunce pulsionali, anziché ridurle aumentano le pretese del Super-io che si fa sempre più tirannico ed esigente. A Freud sembra necessario, quanto doloroso, ammettere che se, in parte, l’aggressività è prodotta dalla società stessa, dalle frustrazioni che essa provoca con le sue esose richieste; dall’altra, si rivela una dotazione originaria dell’uomo, un suo bagaglio costituzionale, a pari titolo delle energie sessuali vere e proprie. Essere uomini civili significa allora rinunciare a una gestione libera, spontanea e felice della sessualità e dell’aggressività. Se, a livello cosciente, la rinuncia pulsionale viene mascherata da tutta una serie di razionalizzazioni, nell’inconscio essa permane come una protesta disperata il cui urlo imbavagliato è soffocato. Si rivelerà allora sottoforma di malessere diffuso, sottile ma ineliminabile che si chiama “disagio della civiltà”. In un certo senso, il processo di incivilimento della specie umana e l’educazione dell’individuo procedono parallelamente. Corrispondono alla medesima necessità (Ananke) di vivere in comunità. Contro l’angoscia ineliminabile, prodotta dalla impossibilità dell’uomo di vivere isolato e dalla sua costitutiva insofferenza alla vita di gruppo, sono stati individuati diversi rimedi. Abbiamo il ricorso alle droghe, ma sottrae energie vitali. Ma si può anche abbandonare il prioritario principio del voglio tutto e subito, che si è dimostrato fonte di continue frustrazioni, e scegliere investimenti a lungo termine ma più sicuri secondo ciò che Freud chiama “principio di realtà”. Questo principio opera in due sensi: nella modificazione del mondo esterno e nella elaborazione dell’economia psichica interna. Alcuni operano uno spostamento delle energie lipidiche dagli oggetti e dalle mete specifiche a fini diversi come l’arte e la cultura. Altri ancora, si pensi alla significativa figura dell’eremita, negano e fuggono il mondo oppure ne allucinano uno diverso come accade con l’illusione religiosa. La stessa ricerca del bello rappresenta un tentativo in consolatorio. La soluzione più generalizzabile consiste nell’amore del prossimo. Da esser deriviamo alcune delle gioie più grandi della vita ma nulla ci garantisce dalla sua permanenza in quanto l’oggetto d’amore è sempre minacciato di perdita. Non resta allora che moltiplicare gli oggetti d’amore. Il comandamento “Ama il prossimo tuo come te stesso” rappresenta appunto questo tentativo di diffusione universale dell’amore che appare però incompatibile con le esigenze psicologiche della relazione erotica in cui è essenziale la scelta e la sopravvalutazione dell’amato. Quello che Freud definisce come il processo inflattivo dell’amore, gli appare allora come tentativo di celare le componenti aggressive che accompagnano qualsiasi relazione tra gli uomini. La religione pregiudica il gioco individuale di scelte e adattamenti, imponendo a tutti un’unica via per il raggiungimento della felicità, forte di una promessa che però non è in grado di mantenere.

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Via via che la psicoanalisi amplia il suo punto di vista sino ad inglobare la dimensione sociale oltre a quella individuale, muta la sua immagine dell’uomo. La primitiva formulazione del modello psichico intorno al paradigma dell’isteria appare insufficiente. In Freud, concludendo, permane la consapevolezza del disagio, della crisi, dell’inconciliabilità degli opposti come la condizione nella quale si inscrive la storia del paziente, colta nelle sue coordinate storico sociali e nell’irripetibilità delle vicende personali. La metapsicologia Con “metapsicologia” Freud intese indicare la dimensione teorica della psicoanalisi. Essa intende infatti fornire un modello concettuale delle dinamiche psichiche che si colloca al di là dell’esperienza empirica. Più volte Freud ha avvertito il pericolo che una teorizzazione prematura producesse un irrigidimento del pensiero a scapito della esperienza analitica. Nello stesso tempo avverte però la necessità di fissare il sapere raggiunto in un corpus che ne garantisca la conservazione, la cumulazione, la trasmissione, il confronto. Mentre nel prematuro “Progetto” vi è l’ambizione di costituire una scienza unificata del corpo e della mente, nella più tarda “Metapsicologia” la psicoanalisi si presenta come un discorso parziale, ma che si è ritagliato un suo oggetto: lo psichico. Nel corpus freudiano manca quindi una compiuta e definitiva sistemazione teorica. Elementi di teoria sono però presenti in tutti gli scritti. La pulsione, ai confini tra il somatico e lo psichico, occupa nel sistema freudiano una posizione analogica a quelle delle soglie sensoriali della neurofisiologia: è un concetto limite. La pulsione si differenzia dagli stimoli esterni perché proviene dall’interno dell’organismo. La pulsione, non elusa, determina uno stato di eccitazione, avvertito come sofferenza, che richiama l’intervento del sistema nervoso. Va premesso che il modello esplicativo freudiano presume un postulato, il principio di costanza, secondo cui il sistema nervoso può essere inteso come un apparato cui è conferita la funzione di eliminare gli stimoli che gli pervengono o di ridurli al minimo livello. Nell’analisi della pulsione, Freud distingue tre elementi fondamentali: la fonte, l’oggetto, la meta. La fonte è la zona dell’organismo dove compare l’eccitazione. La meta della pulsione è la soddisfazione. L’oggetto della pulsione è il tramite attraverso cui si ricerca il soddisfacimento. Si tratta prima di un oggetto parziale come il seno e solo poi di un oggetto totale come il partner sessuale. Un altro termine fondamentale è quello di libido. La libido è una quantità finita (anche se non misurabile) di energia fisiopsichica. La natura della libido è esclusivamente sessuale anche se, successivamente, può subire processi di neutralizzazione (ad es. sublimazione). L’inconscio, secondo Freud, non è una voragine inerte: è qualcosa di vivo. Noi non ne cogliamo mai il nucleo generativo ma solo le propaggini ultime, i suoi derivati. Freud, in funzione metapsicologica, qui cerca di considerare il funzionamento formale dell’apparato psichico che si articola in tre coordinate: dinamica, economica e topica. Coordinata dinamica. Dal punto di vista dinamico, tutti i processi psichici sono ricondotti a un gioco di forze che si muovono e inibiscono a vicenda, sotto il dominio di tre polarità: mondo interno/mondo esterno; piacere/dispiacere; attivo/passivo. La pietra angolare dell’edificio psicoanalitico è costituita dalla rimozione, l’operazione con cui il soggetto mantiene inconsci o respinge rappresentanti pulsionali, per lo più di natura sessuale, che ritiene inaccettabili. Esiste una rimozione primaria, di nuclei ideativi che non sono mai giunti a livello della coscienza. Tutte le rimozioni successive richiedono, oltre a uno spiegamento di energie contropulsionali attuali, l’intervento del rimosso originario che provoca un

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campo di attrazione. Anche la rimozione è retta dal principio di piacere. Vi è, almeno nel momento in cui scatta, l’intenzione di evitare gli svantaggi della manifestazione pulsionale. Analogamente alla censura in atto nei regimi totalitari,sussiste una barriera censoria che separa l’inconscio dal conscio e opera cancellazioni e deformazioni così estese che solo un paziente lavoro di analisi può giungere a ristabilire un senso. L’istanza che sovrintende l’attività censoria è l’Io che comunque si oppone alla pulsione. Arbitro delegato a conservare e ristabilire l’equilibrio perturbato è l’Io. Prototipo delle difese messe in atto dall’Io è la rimozione. Il rimosso comunque preme per riaffiorare alla coscienza. Noi conosciamo solo gli scacchi della rimozione; la rimozione perfettamente riuscita non lascia tracce. E’ il sintomo che funziona da spia, che rivela l’esistenza di un conflitto tra forze pulsionali e contropulsionali. Coordinata economica. Le rappresentazioni psichiche delle pulsioni hanno un investimento energetico e l’apparato psichico tende a mantenere il più basso possibile l’ammontare totale degli eccitamenti. Nell’inconscio la carica energetica trascorre da una rappresentazione all’altra lungo catene associative talvolta molto lasse (energia libera). Nella coscienza invece ogni carica tende a rimanere coesa alla rappresentazione conveniente (energia legata). Nell’inconscio, dunque, le cariche affettive fluiscono senza inciampi da una rappresentazione all’altra tramite spostamenti e condensazioni. Il loro movimento (processo primario) è retto dal principio del piacere; tendono a investire le tracce mnestiche inerenti a esperienze di precoci soddisfazioni. Effetti di questi investimenti sono le allucinazioni primitive. Possiamo presupporre che, nel neonato, lo stato psichico di quiete venga in origine turbato dall’insorgere di pulsioni interne. L’apparato psichico reagisce investendo affettivamente le tracce mnestiche di soddisfacimento, allucinando dunque lo stato di benessere desiderato. In un secondo tempo, la mancanza di un attivo appagamento del bisogno obbliga l’apparato psichico a rappresentarsi non già le condizioni proprie, ma quelle del mondo esterno e a modificare la realtà frustrante. Si instaura un nuovo principio: non ciò che è piacevole viene rappresentato, ma ciò che è reale (anche se spiacevole). Mentre il principio di piacere vuole tutto e subito, il principio di realtà è in grado di differire il soddisfacimento del bisogno. Non vi è tra i due principi totale contrapposizione, in quanto il principio di realtà si prende in carico e gestisce le esigenze del principio di piacere. In definitiva, mentre il sistema primario tende, sotto il principio di piacere, alla scarica motoria (gesto, mimica, locomozione), il sistema secondario, retto dal principio di realtà, predilige l’azione. Coordinata topica. Essenziale nella metapsicologia freudiana è la prospettiva topica. Per Freud spiegare significa far vedere, mostrare. Pertanto la sua costruzione di due modelli topologici dell’apparato psichico non va intesa come una localizzazione anatomica ma come una metafora per oggettivare diversi processi psichici. PRIMA TOPICA E LUOGHI DELLA MENTE. Nella prima topica la distinzione fondamentale è tra Inconscio, Preconscio e Conscio. L’Inconscio è caratterizzato dall’assenza di reciproca contraddizione. E’ atemporale. Sostituisce la realtà esterna con la realtà psichica. In sé i processi psichici inconsci sono inconoscibili e addirittura inesistenti. Ma sono ricostruibili attraverso i loro derivati (sogni e sintomi). Il nucleo dell’Inconscio è costituito da precoci esperienze infantili, vissuti sottoposti a una duplice rimozione: rimozione originaria (più un presupposto logico che un dato sperimentale) e rimozione secondaria che conclude la prima infanzia e inaugura, al termine delle vicende edipiche, il periodo di latenza. Nell’Inconscio le tracce mnestiche sono prevalentemente di cose, cioè di percezioni visive, mentre nelle altre topiche, prevalgono le percezioni di parole, cioè di tracce mnestiche auditive. Il Preconscio non possiede la qualità della coscienza, tuttavia si distingue dall’inconscio perché la sua energia non è fluida ma legata. La rappresentazione preconscia è fatta di parole sì che sembra provenire dal di fuori anziché, come i rappresentanti pulsionali, dall’interno. I suoi contenuti sono caratterizzati da pensieri latenti, da ricordi suscettibili di essere attualizzati. Il Conscio, detto anche Percezione/coscienza, è situato alla periferia dell’apparato psichico e riceve informazioni sia dal mondo esterno che da quello interno (sensazioni di dispiacere/piacere e reviviscenze mnestiche). Freud parla di stati di coscienza come di

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un susseguirsi di quadri fluttuanti, momentanei. SECONDA TOPICA E FIGURE DELL’INCONSCIO. Nella seconda topica la distinzione fondamentale è tra Es, Io e Super-Io. Con il termine tedesco di Es, Freud intende indicare quanto nel nostro esservi è di estraneo all’Io e di impersonale. Suo contenuto è tutto ciò che è ereditato, presente sin dalla nascita. La più importante caratteristica dell’Es è la sua impersonalità. E’ una dimensione psichica che travalica il perimetro dell’esperienza individuale e che si contrappone alla coscienza dell’anima individuale, elaborata dal pensiero cristiano, dove l’estensione della forma tende a coincidere con quella della materia. Nell’Es non troviamo negazione, né categorie spazio temporali, ma formazioni di compromesso che ci avvertono dell’inesistenza di contenuti psichici puramente istintuali, astorici, naturali. Accade che impressioni accadute in un passato remoto permangono cristallizzate nell’Es con la immediatezza del presente. Comunque l’Es è definibile soprattutto in una prospettiva economica: investimenti pulsionali che esigono una scarica. L’Io rappresenta l’istanza più complessa e contraddittoria dell’intera metapsicologia freudiana. L’Io compare sin nei primi Studi sull’isteria (1892-95). E vi appare come una istanza difensiva, incaricata di vagliare le rappresentazioni psichiche provenienti dall’inconscio e di allontanarle, qualora si dimostrino incompatibili con le rappresentazioni dominanti. Ma come è possibile che un’istanza, prevalentemente conscia, presiede a un processo, di difesa, per definizione inconscio. Nel Progetto (1895), l’Io si accresce di attività positive come l’esame di realtà, la percezione, la memoria, il pensiero, l’attenzione. L’Io viene identificato con la parte conscia dello psichico e descritto in termini di processo secondario e di energia legata. Solo nel 1911, elaborando una teoria delle pulsioni, Freud mette appunto un modello esplicativo dell’Io. Qui l’Io compare appunto in una dicotomia: quella tra pulsioni di autoconservazione e pulsioni sessuali. Tale dicotomia, a ogni modo, era destinata a essere superata dall’irruzione, nella clinica, di problemi nuovi. Si tratta della necessità di spiegare fenomeni come la scelta omosessuale dell’oggetto, le tendenze megalomani osservate nei bambini e nei primitivi, l’allontanamento dal mondo esterno accompagnato dal sovra investimento dell’Io che si osserva nelle psicosi narcisistiche. Ora questi importi energetici, rivolti sull’Io, rivelano una qualità chiaramente sessuale, che contraddice la convinzione di un’energia neutrale dell’Io. Nasce l’esigenza di una nuova ipotesi teorica: alla nascita, il neonato è investito di energie libidiche indifferenziate (narcisismo primario) che possono successivamente essere inviate sugli oggetti (libido oggettuale) per poi essere ritirate nuovamente sull’Io (narcisismo secondario) . Il passaggio dal narcisismo primario al narcisismo secondario è denso di pericoli, soprattutto se l’Io non riesce a riconvertire l’energia libidica di ritorno in nuovi legami oggettuali. L’Io non è ancora un’istanza psichica ben determinata, come avverrà con la seconda topica, ma un sintomo di Sé, cioè del soggetto libidicamente investito. Freud, nel 1920 (Al di là del principio di piacere), partendo dalla con stazione della coazione a ripetere, la tendenza dei nevrotici a ripetere le esperienza più dolorosa, si interroga nuovamente sul primato sinora attribuito al principio di piacere e introdurre una pulsione di morte che si contrapporrebbe alla pulsione di autoconservazione e alle pulsioni sessuali. Thanatos, o principio di morte, rappresenta un elemento di disgregazione che riconduce l’organico allo stato inanimato. La pulsione di morte può essere colta sottoforma di aggressività distruttiva tanto nel sadismo quanto nel masochismo. L’Io, lungi dal coincidere con il luminoso piano della coscienza, si rivela una istanza inquietante. Nell’opera “L’Io e l’Es” (1921), Freud costruisce la seconda topica. L’Io vi compare come quella parte di Es che è stata modificata dal mondo esterno. All’inizio della vita psichica ci sarebbe l’Es, rappresentato come un nucleo vitale, separato dal mondo esterno da una pellicola sensibile: il mondo percettivo. Da questa superficie di contatto, l’Io gradualmente si differenzia e si separa conformandosi come una proiezione psichica della superficie corporea. La percezione ha per l’Io la

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stessa funzione dinamica che nell’Es spetta alla pulsione. L’Io funziona da mediatore tra elementi conflittuali: mondo esterno/mondo interno (conflitto interpsichico); pulsioni dell’Es e richieste del Super-io (conflitto intrapsichico). L’Io rappresenta, nei confronti dell’Es, la realtà esterna e, nell’adempiere a tale funzione, deve osservare il mondo, distinguere ciò che è obiettivo dalle deformazioni apportate dai desideri (esame di realtà). L’Io deve tener conto anche delle pressanti richieste del Super-io. La più alta prestazione dell’Io è data dalla trasformazione del mondo esterno in vista del fondamentale appagamento delle richieste pulsionali. L’Io mantiene sempre un atteggiamento critico decidendo quali pulsioni devono essere rimosse in quanto pericolose. Il segnale che mette in atto le difese (inconsce) è l’angoscia. Sebbene l’Io sia l’istanza preposta alla coscienza, nella misura in cui rifiuta l’accesso alla coscienza di dati contenuti inconsci, svolge anche una funzione opposta di misconoscimento. Freud non ha dedicato alle difese una trattazione sistematica; descrive però alcuni processi (introiezione, proiezione, formazione reattiva e sostitutiva, repressione, isolamento, negazione, spostamento, razionalizzazione, conversione), oltre i quali evidenzia la rimozione e la sublimazione. L’Io non rimane indenne dall’utilizzo dei suoi meccanismo di difesa, ma ne viene plasmato. Modalità abituali di difesa tendono a cristallizzarsi in tratti caratteriali. Il sintomo può costituire una spiegazione delle nevrosi. Il sintomo, dapprima avvertito come estraneo all’Io e disturbante può alla fine esservi integrato tramite il riconoscimento dei benefici secondari che esso apporta. Una malattia (conversione somatica) può risultare utile per evitare incombenze sgradevoli. L’Io è, in definitiva, è un’istanza polivalente e complessa, dalla quale si staccheranno alcune formazioni particolari: l’Io ideale, una rappresentazione eroica ed idealizzata di sé, è l’Ideale dell’Io, un modello cui l’Io cera di conformarsi. Le teorie dell’Io ideale e dell’Ideale dell’Io convergeranno nella terza istanza: il Super-io. Esso si contrappone all’Io; lo giudica criticamente e lo assume come oggetto. Si tratta di una istanza prevalentemente censoria che comprende la coscienza morale. Gli si attribuisce la definizione di erede del conflitto edipico. Quando il bambino rinuncia ai suoi desideri incestuosi, di fronte alla minaccia di castrazione, incorpora i suoi genitori proprio secondo le modalità della introiezione orale. Il Super-io del figlio non si forma tanto a immagine del padre, quanto del suo Super-io, di quella istanza cioè che si è costituita, nell’infanzia del padre, dalla introiezione del nonno. Si stabilisce così una trasmissione generazionale che trascende la famiglia nucleare.. Il Super-io appare tanto più crudele quanto più è prossimo ai vissuti infantili, alla temibilità delle onnipotenti figure parentali. Man mano che il bambino si socializza, la funzione dei genitori viene assolta da altri adulti: gli insegnanti, il medico, il sacerdote e poi le istituzioni stesse. Tuttavia nell’inconscio perdura sempre un nucleo infantile, come appare nella clinica, soprattutto dei vissuti dei malinconici, del loro sentirsi colpevoli e minacciati da punizioni spaventose o dal desiderio di sofferenze espiatorie proprio dei masochisti. Jung: una psicologia ideale. Jung non ha dubbi: la psicoanalisi è un metodo di cura, ma anche una scienza complessiva, un sistema del mondo, degno di interloquire con la più alta tradizione filosofica. E’ in quanto teorico della psicologia che Jung si distanzia man mano da Freud. Jung, erede dell’idealismo tedesco che riconosce nell’autonomia dello spirito (Geist) non può accettare un modello psicologico che si fonda sul concetto spurio di libido, energia psichica di natura sessuale radicata nel corporeo. Dunque, egli procede a una relativizzazione del pensiero di Freud e innalza un grande edificio sistematico. La psicoanalisi, secondo Jung, non può dire niente di vero e di giusto sulla psiche, ma solo qualche cosa di veritiero, di inerente a una esperienza soggettiva. Anche l’esperienza più personale ed

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esclusiva possiede però un valore conoscitivo in quanto testimonianza. Ciò che è stato vissuto, seppure da un uomo solo, ha una sua validità perché è accaduto a un appartenente alla specie umana. Il soggetto è un dato oggettivo, una frazione del mondo. Secondo Jung le nostre idee non sono prodotte da noi, ma ci producono (pg. 134). Ci si dovrebbe chiedere: “Perché quel pensiero è entrato in me in quel modo? Cosa significa in rapporto a me stesso?” Jung prepara il grande scenario di una psicologia hegeliana. Le idee che conquistano, le idee vere hanno in sé un che di particolare: sorgono da una regione atemporale, da un essere/sempre/esistente, da un terreno psichico primordiale su cui lo spirito effimero del singolo cresce come una pianta che porta fiori, frutti, semi; poi appassisce e muore. Non siamo noi a produrre le idee ma le idee a produrre noi. Jung, inoltre, distingue un inconscio personale e un inconscio collettivo. Postulato della teoria junghiana è un’immagine dell’uomo come natura fondamentalmente sana, complesso di forze in espansione. L’introduzione di un’unica forza, simile all’élan vital di Bergson, è null’altro che un’ipotesi, ma necessaria al costituirsi di un campo scientifico dotato di omogeneità e regolarità. La libido junghiana è un concetto essenzialmente dinamico, che spiega sia la possibilità di evoluzione (stadi libidici) sia quella di regressione (nevrosi). La nevrosi non è realizzata tanto dagli avvenimenti della prima infanzia, quanto dal conflitto attuale, cioè dall’incapacità dell’individuo di adattarsi alle richieste del suo ambiente o di trasformarlo in base alle sue esigenze evolutive. Quando il conflitto appare insuperabile, la libido ad esso applicata regredisce a forme più arcaiche. Un ruolo nella formazione della mente collettiva è dato dal mito. Tracce di elementi mitologici si trovano anche nella psicosi e nel sogno. Jung si propone una filogenesi dello spirito. Come l’uomo primitivo riuscì a strapparsi allo stadio primordiale con l’aiuto dei simboli religiosi e filosofici, così anche il nevrotico può sottrarsi, per questa via, alla sua malattia. Il simbolo ha una funzione di mediazione tra coscienza e inconscio. Sussistono simboli che hanno una esistenza oggettiva, indipendentemente da chi i guarda. In tal caso ciò che si manifesta è l’archetipo. Si tratta di immagini originarie che partecipano dell’istinto, del sentimento e del pensiero. Costituiscono la memoria dell’umanità e vanno a formare l’inconscio collettivo. Gli archetipi sono da intendersi come potenzialità espressive, forme vuote in senso gestaltico. Tra gli archetipi più importanti, rintracciabili nei miti, nelle favole, nel sogno, nella mente patologica : il Vecchio, la Grande Madre, il Bambino, il Mandala, la Ruota, le Stelle, l’Animale. Il movimento dell’analisi si configura come espansione da un massimo di soggettività a un massimo di obiettività: dal sintomo al complesso, dal complesso al simbolo, dal simbolo all’archetipo. Oggetto della psicologia junghiana risulta l’inconscio collettivo. Fine della terapia è la realizzazione del Sé, archetipo dell’unità. Le tappe della terapia ricalcano le linee dello sviluppo normale inteso come un progressivo emergere dell’inconscio collettivo per guadagnare la coscienza e il predominio dell’Io. Sussistono due dinamiche differenti: la relativizzazione dell’Io e il recupero delle immagini archetipe. Ciò comporta la rivisitazione delle immagini archetipe che attraversano l’inconscio senza coincidere con la sua dimensione individuale. La psicosi si configura come l’irruzione destrutturata delle immagini archetipe in tutta la loro incandescenza. Occorre lasciarsi invadere dall’inconscio non per perdersi nella sua in finitezza, ma per allargare i confini della nostra psiche a un divenire continuo. Divenire che realizza la coesistenza dei contrari che ci dividono: razionalità ed irrazionalità. Si tratta, nella cura, di assecondare le tendenze vitali del paziente, seguendolo per i sentieri della sua autorealizzazione. L’analista non è tanto colui che detiene un sapere, quanto una guida che ha già sperimentato l’esistenza di un luogo extra individuale convergono i fini ultimi del nostro destino. La terapia junghiana non è rigidamente codificata. Il transfert non è indispensabile; è solo la proiezione di contenuti inconsci sull’analista. Il Sé rappresenta il telos della maturazione psicologica, così come quello della terapia, lo scopo ultimo della educazione e della socializzazione.

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Il tratto caratterizzante ciascun individuo non esclude il suo opposto, che rimane psicologicamente attivo, benché eclissato. Ogni particolarità è vista come una unilateralità impoverente che reclama un processo di integrazione della parte complementare. La via salutis, la strada che conduce alla totalità del Sé, passa perciò attraverso una serie di integrazioni della personalità originariamente frammentata. Si mira a una psiche interamente pacificata nella sintesi dei suoi opposti, la Persona (la maschera sociale), l’Ombra (il suo negativo rimosso), l’Animus (la potenzialità sessuale maschile che domina l’inconscio della donna), l’Anima (la potenzialità sessuale femminile che regna nell’inconscio dell’uomo). Per Jung il motto è: “Diventa tu chi sei”. Nel Medioevo l’uomo è tutto immerso in un ordine istituzionale che lo governa e lo rappresenta. Partecipa della chiesa, l’ecclesia mater, una collettività in cui l’archetipo eterno della madre si storicizza. Questa appartenenza comporta che l’uomo realizzi prevalentemente il lato femminile della personalità (passività, obbedienza, conservatorismo), a scapito di quello maschile. Nel Rinascimento la figura dell’uomo moderno, dominato dal lato maschile, inquieto, attivo, ribelle all’autorità, è l’abbandono della concezione geocentrica a favore di una antropocentrica dell’universo. Il protagonista è Paracelso.. L’uomo contemporaneo rappresenta la massima espressione del processo di individuazione con la conseguente ipertrofia della coscienza maschile a scapito delle femminili inconsce. E’ fondamentale anche l’esegesi della simbologia, orientale, cristiana ed alchemica. Qui la psicoanalisi trascende il suo oggetto e si fa teoria della cultura. La psicologia analitica, così Jung denominerà la sua disciplina, fuoriesce dalle coordinate culturali del positivismo. Si è già citato l’interesse di Jung per la cultura medievale: nell’alchimia, egli individua un precedente della psicologia analitica. Essa avrebbe avuto lo stesso dine di integrazione ed amplificazione del Sé, con la differenza di proiettare sull’esterno ciò che era un processo tutto interno. Quanto alle fonti della sua formazione, oltre alla psicologia del profondo, abbiamo la storia delle religioni, l’etnologia, l’antropologia, capaci di amplificare l’inconscio personale. Altre fonti culturali sono Nietzsche e il Cassirer della “Filosofia delle forme simboliche” (1923). L’utilizzazione dei miti si inscrive nel dibattito nell’area culturale di lingua tedesca tra i filologi classici, rappresentati da Wilamowitz, assertori della necessità di ricostruire e spiegare i miti e coloro che aderivano invece a una prospettiva più antropologica, quali Creuzer, Bachofen, Burckardt, portatori di una più complessa esigenza di comprensione del materiale mitologico. Jung, secondo quanto proposto da Dilthey e Rickert, afferma che le scienze della cultura debbono tendere alla comprensione anziché alla spiegazione. L’effetto di questa costruzione è quello di rendere sincronico ciò che è diacronico, prossimo il distante, di organizzare insomma quel tessuto connettivo che è l’inconscio collettivo. La terapia junghiana, mentre tiene conto delle concrete esigenze del paziente, cerca di trascendere questa strategia difensiva, proponendo un ideale positivo di perfezionamento. DOPO JUNG. In Jung il senso drammatico della condizione umana, dilaniata dall’insanabile conflittualità tra le esigenze pulsionali e le richieste sociali, viene sostituito da una visione eroica dell’uomo e del suo destino. Jung adotta uno schema hegeliano che prevede il superamento dialettico dei contrasti in una sintesi pacificatrice. La psicologia analitica di Jung rappresenta una sintesi potente, che attende ancora di essere adeguatamente elaborata dalla cultura europea. Tra i principali seguaci di Neumann introduce nella psicologia archetipa di Jung la dimensione evolutiva. L’evoluzione, che Neumann individua a livello filogenetico, poi si riverbera sulla ontogenesi, orientando l’andamento delle vicende individuali. Nella sua opera “La psicologia del femminile” (953), Neumann denuncia lo sviluppo ipertrofico che, nella nostra società, ha assunto la componente maschile coscienziale della psiche di gruppo a scapito delle potenzialità femminili soffocate

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dall’assetto patriarcale della coscienza occidentale. Altro seguace di Jung è Hillman che privilegia gli aspetti generali di teoria della cultura e ridimensiona le componenti psicoterapeutiche. Egli critica il razionalismo della cultura occidentale, fondata sulla centralità dell’Io e sul linguaggio analitico. Egli si propone di recuperare una visione del mondo che utilizzi la fantasia e che si esprima nel linguaggio metaforico e poetico proprio dell’anima. La psiche è immagine e il suo logos è metafora. Archivio delle immagini archetipe è il mito. Le figure mitiche (dei e demoni) sono le forme dell’immaginazione. I miti non presumono interpretazione perché sono autorivelazione degli archetipi. Hillman giunge a negare il concetto stesso di inconscio per sostituirlo con la memoria mitica e la capacità mitopoietica. Marie Louise von Franz ricerca l’espressione degli archetipi della fiaba. Secondo la von Franz tutte le fiabe rivelano un unico significato: il Sé, inteso a un tempo come totalità psichica dell’individuo e come centro regolatore dell’inconscio collettivo. In definitiva, mentre Jung si manteneva attento al contesto epocale delle sue indagini, questi suoi seguaci perseguono una archeologia dell’immaginario in una dimensione atemporale. Silvia Montefoschi identifica, nello scambio tra singolo e società, un punto di convergenza con il materialismo storico. L’uomo è ostacolato nella realizzazione del Sé dalla struttura sociale. Per giungere alla integrazione del Sé, la psicoanalisi deve individuare gli ostacoli, di natura storico sociale, che si oppongono all’autorealizzazione. Essa deve farsi critica della ideologia. La Montefoschi individua il principale ostacolo alla integrazione del Sé, alla socializzazione e a un armonico rapporto col mondo nel divieto dell’incesto. Infine,l’esplicito impiego filosofico del pensiero di Jung si caratterizza negli scritti di Mario Trevi e del suo allievo Umberto Galimberti. Psicologia e società: Albert Adler. I primi pazienti di Freud appartengono alla borghesia ebraica medio alta. Emerge in questo ceto una visione pessimistica della civiltà. Ma l’individuo ha la possibilità di superare i condizionamenti grazie a una consapevolezza stoica del negativo, ad una sublimazione culturale delle impossibilità. Delle due componenti della civiltà (società e cultura) solo la cultura può essere dominata e risarcire l’uomo delle menomazioni pulsionali subite per via della società. Con Jung la figura di riferimento non è più l’intellettuale prestatore d’opera privato, il terapeuta del disagio, ma il grande funzionario di un impero ideale che, sapiente, saggio e potente, è in grado di indicare finalità positive metastoriche, alle quali possono convergere società e individuo. Quando la psicoanalisi verrà a contatto con pazienti appartenenti ad ambiti sociali radicalmente nuovi, ciò comporterà mutamenti della sua tecnica, delle sue modalità di rapporto e del suo assetto teorico. E’ qui che incontriamo la figura di Adler. Egli, di idee socialiste e sostenitore della necessità che la cura fosse un servizio sociale gratuito per i lavoratori, si rivolge a un altro tipo di utenza, a un altro soggetto sociale: il proletariato urbano. I suoi scritti non sono certo cumulabili in un corpus dottrinale, ma sono testimonianza viva del clima sociale dell’epoca. Importante uno scritto del 1897 di medicina psicosomatica sui sarti. Ivi si dimostra il rapporto esistente tra situazione economica e malattia nell’ambito di una data attività produttiva. Egli identifica come interlocutore principale, il proletariato; una classe sociale in ascesa che riconosce nella organizzazione il proprio punto di forza. Il tentativo di Adler è quello di dar conto di questa ascesa sociale, rintracciandone gli effetti nel cuore degli individui. Ciò spiega il paradosso di come la prima psicologia sociale si chiami “Psicologia Individuale”. Adler avverte il pericolo che la disciplina possa trasformarsi in una sociologia perdendo di vista l’unicità dell’individuo. L’esistenza è concepita come una lotta che si conclude con la sopravvivenza del più adatto (influenze del darwinismo sociale). Adler, con la sua teoria dell’inferiorità, vuol dimostrare che il più adatto è il più debole e non il più forte. L’inferiorità, infatti, contiene la spinta al suo ribaltamento. Dapprima questa inferiorità si presenta nei termini della malattia. Egli si chiede, nel suo “Studio sulla inferiorità organica” perché le malattie si localizzino in date zone del corpo e postula una inferiorità per tali zone.

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L’uomo tende a ipercompensare le proprie deficienze e a ribaltarle in una volontà di potenza. Nel 1928, nel libro “Conoscenza dell’uomo”, la psicologia individuale tenta di esprimersi in una teoria compiuta. Vi si sostengono alcuni principi basilari: 1. Principio dell’unità. Ogni essere umano è un unico indivisibile. 2. Principio del dinamismo. La lotta per la superiorità è un principio vitale analogo allo sviluppo dell’organismo. 3. Principio dell’influenza cosmica. La realizzazione individuale è temperata con il senso di comunità. 4. Principio della spontanea strutturazione delle parti. Gli elementi della vita psichica vanno a costituire dinamicamente l’unità della personalità. 5. Principio di azione e reazione tra individuo e ambiente. Si definisce una modalità di interrelazione tra le due dimensioni. Su tutto domina il sentimento di comunità che inserisce l’individuo nella società. Ciò che contraddistingue il nevrotico (che strumentalizza la malattia al fine di sottomettere gli altri) è l’individualismo sfrenato delle sue mete. Siccome viviamo in una società basata su valori maschili, la lotta per la supremazia viene vissuta, dagli uomini e dalle donne, come proposta virile. Essenziale nella vita è il dinamismo, la spinta evolutiva. La linea che uno segue è quello che interessa. E il senso della linea è dato dalla meta, dallo scopo finale. (pg. 154). Questa visione finalistica minimizza il ruolo della causalità freudiana nella vita psichica. Il bambino, secondo Adler, poiché non possiede niente, il futuro diventa per lui una terra promessa dove la povertà si trasformerà in ricchezza, la sottomissione in dominio, il dolore in gioia e piacere, l’ignoranza in scienza, l’incapacità in arte. E’ la meta fittizia che forma il piano di vita dell’inconscio. Il termine è mediato dall’opera di Vaihinger “La filosofia del ‘come se’ ” del 1911. Vi si sostiene una sorta di teoria dell’ideologia, secondo cui vi sarebbero idee fittizie, del tipo “tutti gli uomini nascono uguali”, “il fine giustifica i mezzi” che non hanno realtà obiettiva ma validità psichica. La credenza che i buoni vadano in paradiso e i cattivi all’inferno influenza la condotta di un individuo indipendentemente dalla sua realtà (pg. 154). Il ricorso all’artificio viene suggerito ad Adler dalla tendenza del proletariato a far propri le credenze, i modi di vita, i valori della borghesia, un’adesione che conserva un valore provvisorio. Ogni individuo vive secondo uno stile di vita irripetibile, unico, caratteristico, determinato dal suo corpo, dalle sue predisposizioni, dalla sua storia familiare e sociale. Ma ha anche la possibilità di elaborare attivamente ciò che riceve in eredità o ciò che è il suo ambiente. Questo fattore fu denominato da Adler “Sé creativo”. La nevrosi, in questo discorso, si configura come il prevalere del polo individuale a scapito di quello collettivo. La terapia individuale o di gruppo è al contempo anche educazione. La clinica psicoanalitica dopo Freud. KARL ABRAHAM: L’ESTENSIONE DELLA CLINICA. Abraham rappresenta la figura del discepolo e del continuatore. E’ il protagonista ideale della trasformazione di una esperienza in istituzione. Egli rappresenta la figura dell’intransigente custode di un sapere che identifica nel fondatore. Come terapeuta, Abraham si trova ad affrontare il problema interpretativo delle psicosi e a indagare sulle più precoci fasi dello sviluppo infantile. Il suo studio del 1908 “Le differenze psicosessuali tra isteria e dementia precox” segna una pietra miliare. Qui Abraham rileva la componente sessuale di entrambe le sindromi (nevrosi e psicosi). Mentre la sessualità isterica è pur sempre un’energia rivolta all’oggetto e possibile di sublimazione, la sessualità psicotica è priva di oggetto, rivolta esclusivamente sul sé, non sublimabile. Per quanto riguarda lo sviluppo infantile, Abraham scorge, già nella fase orale, un abbozzo di rapporto oggettuale. Il neonato esce dal narcisismo primario nel momento in cui instaura

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con il seno, il primo oggetto parziale, un rapporto funzionale (la poppata), che si accompagna a un desiderio di incorporazione totale che suscita fantasie cannibaliche. Lo stadio anale, poi sarebbe caratterizzato dalla ambivalenza nei confronti dell’oggetto e dall’incertezza fra il trattenere e l’espellere il medesimo (stiamo parlando delle feci). La psicosi trova uno schema esplicativo agli stadi più precoci dello sviluppo sessuale. Abraham, inoltre distingue tra psicosi organiche (epilettiche, senili) e psicosi indotte da un blocco dell’emotività (dementia precox). Qui il patrimonio intellettuale del malato rimane bloccato ma integro. I deliri di grandezza non sono dunque da imputare a un deterioramento delle facoltà logiche ma solo alla sopravvalutazione sessuale di sé, conseguente alla fissazione della libido allo stadio autoerotico. Il blocco emotivo che provoca la fissazione è spesso determinato da un trauma sessuale. Per Abraham il trauma è storicamente avvenuto, ma il bambino, lungi dal subirlo passivamente, ne è stato protagonista attivo. Egli lo ha intenzionalmente, ma inconsciamente, provocato. Per Abraham la libido è sempre sessuale e l’inconscio è sede di un desiderio erotico volitivo. Il suo maggior contributo alla psicoanalisi è un saggio del 1923: “Tentativo di storia evolutiva della libido sulla base della psicoanalisi dei disturbi psichici”. Ciascuno dei tre stadi fondamentali dello sviluppo libidico viene suddiviso in due fasi: • Stadio orale distinto nel succhiare e nel mordere. • Stadio anale distinto nel trattenere e nell’espellere. • Stadio fallico distinto investimento parziale e totale dell’oggetto. Per quando riguarda il sogno e il mito, Abraham ne individua i punti comuni: entrambi sono prodotti della fantasia, hanno come meta l’appagamento dei desideri inconsci, sono deformati dalla censura e contraddistinti dalla formazione di parole nuove. Il mito è un frammento, conservato intatto, della vita psichica del popolo e il sogno è il mito dell’individuo. I miti appartengono, così come i sogni, a una trascrizione del mondo nelle forme dei desideri sessuali. I simboli che essi utilizzano, il serpente, il mare, la mela, sono comuni non solo al mito e al sogno, ma anche alla malattia mentale. Mirabile è l’analisi del mito di Prometeo, in cui si rintraccia, al di là dei significati sociali, culturali ed etici, la manifestazione di una precoce fantasia sessuale. A Abraham riprende i temi freudiani di “Psicologia delle masse e analisi dell’Io”. Trattando degli aspetti politici della psicologia delle masse, egli prevede avvenimenti storici ai quali non potrà assistere come la manipolazione delle masse da parte di grandi capi carismatici. Nell’amore per il capo che accomuna gli adepti si realizzano fantasie edipiche infantili, si appagano desideri erotici onnipotenti che fanno perdere di vista il proprio reale interesse poiché la sessualità è una forza molto più potente delle pulsioni di autoconservazione. SÁNDOR FERENCZI E LA PSICOANALISI COSMICA. Egli vive gli anni della grande speranza socialista. Elabora faticosamente gli spazi di una psicoterapia. Il suo sforzo è duplice: salvaguardare la dignità scientifica dell’intervento e piegarlo alle esigenze di economia e di efficienza di una utenza più estesa. Vi è una attenta considerazione per le condizioni sociali che inducono la nevrosi e la convinzione che la rimozione delle pulsioni sessuali produce energie psichiche soggiogate, particolarmente idonee a essere manipolate dall’autorità e pertanto ostili al progresso civile. L’avventura dell’analisi procede in modo imprevedibile dalla interazione irripetibile di due soggettività, quella del terapeuta e quella dell’analizzato. Convinto che il trauma più acuto sia connesso al rapporto del bambino con la madre nel corso della primissima infanzia, Ferenczi tende a ricreare le condizioni stesse che lo hanno provocato. Ciò che maggiormente differenzia la terapia attiva di Ferenczi da quella classica è la concezione del sintomo. Nei suoi primi studi sull’isteria, Freud aveva parlato di linguaggio d’organo ma,

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successivamente, aveva iniziato a ricercare, come oggetto principale dell’analisi, il fantasma che si sottende al sintomo stesso. Ferenczi vede nelle espressioni corporee un sapere e un piacere. Il sintomo è una regressione in atto a funzionamenti autoerotici, indotta da inconsce carenze affettive. Carenze alle quali l’analista deve rispondere con una disponibilità e un amore tipicamente materni. Ferenczi giunse a baciare e ad accarezzare i pazienti; una violazione della regola analitica (che riconosce come unico medium la parola). Il corpo, come la mente, ha un linguaggio, un sapere, un patrimonio di ricordi che gli sono pervenuti tanto dalle esperienze individuali quanto da quelle filogenetiche. Ferenczi subì profondamente l’influsso di Ernest Haeckel e della sua legge biogenetica fondamentale, che connette lo sviluppo embrionale (ontogenetico) con quello evolutivo della specie (filogenetico). Secondo Haeckel l’ontogenesi è una ricapitolazione abbreviata ed incompleta della filogenesi. Ferenczi ha scritto una difficile ed inquietante opera: “Thalassa” (1932). L’opera si collega al pensiero di Freud. In “Al di là del principio di piacere, Freud aveva postulato un traumatismo originario, perduto nella notte dei tempi. “In un certo momento le proprietà della vita furono suscitate nella materia inanimata dall’azione di una forza che ci è ancora completamente ignota” (pg. 214). La speculazione di Ferenczi si inserisce nel tentativo di ricostruire, nella storia del corpo vivente, i tempi e i luoghi di una mutazione inconcepibile e fredda. Presupposto dell’epopea cosmogonia di Ferenczi è che la sessualità tenda a ristabilire l’unità con il corpo materno e che il coito sia il tentativo più riuscito di regressione alla situazione intrauterina, quando non si era ancora verificata la penosa frattura tra mondo interno e mondo esterno. Tutta la sessualità pregenitale è finalizzata a questo ritorno alla fusione originaria. L’organo genitale maschile, investito dell’intero rapporto allora l’Ego, l’oggetto della prima identificazione narcistica. Ferenczi scende sino alla biologia dei vertebrati per costruire la sua teoria dell’evoluzione genitale. Egli tenta di ricondurre il desiderio dell’uomo per il grembo femminile all’arcaica nostalgia dell’Oceano provata dai primi maschi. Nel rapporto sessuale l’uomo riproduce realmente (seppure in forma simbolica) l’agognato ricongiungimento al corpo materno e al liquido delle origini. Il coito scarica le pulsioni pregenitale e ripete l’evoluzione della specie. Si rivive la catastrofe del parto. Mentre il neonato sperimenta il parto in modo angoscioso, come frantumazione dell’unità originaria, il coito celebra la ricomposizione e il superamento vittorioso del trauma. Anche la donna può soddisfare, seppure per interposta persona, il suo desiderio di ritorno al corpo materno, identificandosi prima con l’uomo e poi con il feto. L’atto sessuale è la sintesi di una molteplicità di processi. L’intuizione fantastica in cui culmina la bioanalisi di Ferenczi è che vi sia una conoscenza filogenetico inconscia della nostra discendenza dai vertebrati acquatici. Non a caso il pesce nell’acqua rappresenta, nell’inconscio individuale e collettivo, il pene e il bambino. L’opera teorica di Ferenczi non ebbe, proprio per la sua natura di prodotto poetico, un seguito dichiarato. I suoi contributi tecnici sono stati così profondamente assimilati che Freud scrisse, di lui, che ogni analista può dirsi suo allievo. Gli si deve anche la prima formulazione del concetto di introiezione. Un discepolo di Ferenczi, Imre Hermann, ha ricercato nella zoologia dei primati una serie di modelli estensibili all’analisi dei comportamenti umani. Lavorando sulle frontiere comuni tra le diverse scienze (biologia, antropologia, etnologia, archeologia) Hermann ha indagato le radici degli istinti più arcaici dell’uomo, tra i quali l’istinto di aggrapparsi, in cui reperisce il modello dell’attaccamento filiale. OTTO RANK. Egli osserva che la posizione stessa dell’analizzato (sdraiato sul divano) riattualizza la situazione passiva del feto nel grembo materno. Subito l’analista interpreta questa dipendenza e la collega al proto trauma, quello della nascita. Il suo tentativo di una biopsicanalisi si colloca nel clima

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irrazionalistico del vitalismo tedesco di inizio ‘900. Alimentata dalla filosofia della vita, si era diffusa la convinzione che il significato autentico della natura era da ricercare nell’ambito dell’esperienza spirituale. Nella concezione filosofica del paleontologo tedesco Edgar Dacqué ogni spiegazione meccanicistica della natura termina nell’ignoto, in una realtà profonda che è l’anima del mondo, di cui l’uomo stesso è parte. Rank si propone di applicare la psicoanalisi alla comprensione dell’evoluzione dell’umanità nel suo complesso, alla espressione di una concezione unitaria dell’uomo e della storia tenendo conto di ciò che rappresenta la storia; cioè, la storia dello spirito umano. Il trauma della nascita è un vissuto psicologico ma ci permette di pensare il somatico, di cogliere il nocciolo dell’inconscio. A questo avvenimento si connette poi tutta la dinamica psichica che è finalizzata al superamento dell’angoscia originaria. Analogamente, le manifestazioni dello spirito umano possono essere spiegate come tentativi di ricomporre l’unità dilacerata di quel primo fatale distacco. Rank ricollega al parto nevrosi, psicosi, perversioni, nonché i miti, i riti, le manifestazioni religiose ed artistiche. Per Rank il legame madre figlio è biologicamente fondato sulla felice intimità intrauterina, mentre quello col padre è molto più tardivo e di natura esclusivamente fantastica. Ulteriori contributi di Rank riguardano la psicoanalisi applicata alle opere d’arte e alle biografie degli artisti. Ne “Il mito della nascita dell’eroe”, si dimostra che i miti sono l’espressione di fantasie infantili e la proiezione di desideri pregenitali. Nel successivo “Il nudo nella poesia e nella saga”, Rank affronta l’importante tema della pulsione scopica e della conseguente punizione, la cecità. Nel “Don Giovanni” compaiono tutti i temi della speculazione di Rank. Analizzando sia l’opera di Mozart sia l’autobiografia del compositore, Rank dimostra che il dongiovannismo non è che una metonimia dell’amore materno e che la rivalità tra gli uomini per il possesso della donna è solo una riattualizzazione del conflitto edipico. L’opera di Rank influenzò in particolar modo l’antropologia. GÉZA ROHEIM E L’ANTROPOLOGIA PSICOANALITICA. Presupposto più importante del suo pensiero è che tutti i prodotti culturali possono essere interpretati in termini psicologici. La mente umana, alla sua massima profondità, resta costante nel corso di tutta la storia. Vi è quindi una psiche eterna, statica, sulla quale si fondano le somiglianze delle istituzioni e del pensiero umano. In “L’enigma della Sfinge”, Roheim ricostruisce il passaggio dall’animalità all’umanità. Egli ritiene che la cultura debba essere intesa come una reazione alla costitutiva esperienza di abbandono dell’unità con la madre, del suo ventre protettivo. Il seguace più importante di Roheim è Georges Deveraux, psicoanalista ed etnologo. Raffinato conoscitore della cultura classica greca, in particolare dei miti, accosta la nostra tradizione culturale agli apporti forniti dai suoi studi etnologici su campo. Geografia della psicoanalisi in Europa. Con la diffusione nel resto di Europa, la psicoanalisi viene a contatto con culture molto differenziate. In GERMANIA spiccala figura di Georg Walther Groddeck (1886-1934). Egli scrisse a Freud di essersi avvicinato alla psicoanalisi dalla constatazione della natura psichica di molte malattie. Freud, del resto, si riconobbe sempre debitore del termine “Es” da Groddeck. Egli si autodefinì “analista selvaggio”, termine poi entrato in uso per indicare i terapeuti indisciplinati e impazienti. Groddeck, nel suo lavoro più importante “Il libro dell’Es” (1923), espone una straordinaria teoria sulla natura e sui poteri dell’inconscio. Egli identifica l’inconscio con l’Es, una forza coestesa alla natura, di origine erotica, che anima il mondo. Attraverso la ricostruzione di casi clinici, di ricordi, aneddoti e citazioni, Groddeck dimostra che noi siamo vissuti dall’Es, determinati da un desiderio inconscio impersonale. Ogni comportamento, organico o psichico, è letto come simbolo di una intenzionalità inconscia che ci

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domina a nostra insaputa. Può essere molto utile chiedersi (come egli propone) quale sia il beneficio secondario che ogni malattia ci arreca, se il sintomo ci serve a risollevare un conflitto. Sganciato dalla concretezza della storia individuale, l’Es di Groddeck diviene una entità mistica. Nella sua terapia (un misto di fisioterapia e di analisi), egli cerca di modificare non la malattia, ma l’atteggiamento del paziente nei confronti della malattia (considerata come un ritorno all’infanzia). Groddeck crede che la psicoanalisi abbia una funzione liberatoria e che la repressione sessuofobica possa essere vinta da una visione ironica, permissiva e gioiosa della vita. Nel suo ultimo libro, L’uomo come simbolo (1933), Groddeck affronta il problema dell’arte e del linguaggio. Per Groddeck, dunque, l’artista è il vero interprete dell’inconscio. Con il suo esilio a motivo del nazismo, la psicoanalisi in Germania, per riemergere, dovrà attendere il 1956, quando Alexander Mitscherlich fonda la clinica psicoanalitica di Heidelberg. Il suo più noto contributo concerne un’analisi molto articolata delle conseguenze derivanti dalla figura paterna nella società industriale avanzate. Mitscherlich ritiene che la cultura possa offrire alle masse gli strumenti (critici e interpretativi) per uscire dal mutismo e dalla passività e per evolvere verso la coscienza. Tra i filosofi francofortesi della seconda generazione Jürgen Habermas riprenderà con vigore la riflessione sui rapporti tra psicoanalisi e marxismo, mentre Alfred Lorenzer, rifacendosi alle teorie di Habermas, elaborerà una proposta di psicoanalisi su basi materialistiche. Habermas, nel suo libro “Conoscenza e interesse” distingue, nell’impresa freudiana, l’apparato concettuale, ancora legato alla concezione positivistica della scienza, dalla metodologia veramente innovativa. (Vegetti pag. 239) Linguaggio privato sono i sogni così come i sintomi che, esclusi dalla comunicazione pubblica, divengono incomprensibili al soggetto stesso. La terapia consiste allora nel restituire al paziente le possibilità e le impossibilità del soggetto che si riconosce sottomesso a un’economia sociale. Vi è, per Habermas, una repressione socialmente necessaria e una repressione supplementare, indotta dalle forze sociali dominanti, che può essere rifiutata. Lorenzer riprende questi stessi temi ma rifiuta di risolvere tutta la problematica della relazione sociale nel linguaggio. Infatti è la prassi, cioè le forme determinate di interazione, a fondare il linguaggio. Nella psicoanalisi oggetto di indagine è il comportamento linguistico del paziente, ma l’ermeneutica materialistica deve superare il momento puramente verbale per giungere alle forme di interazione sociale che si sono cristallizzate nel soggetto senza che questi possa comprenderle perché non sono mai state simbolizzate. Le forme dominanti di socializzazione si trasmettono precocemente, attraverso un codice pratico/gestuale, all’interno della diade madre bambino e costituiscono il soggetto a sua insaputa. Non avendo rappresentazione simbolica esse si perpetuano, senza modificarsi, come cliché o stereotipi. La problematizzazione di Lorenzer si fonda sul privilegio accordato al comprendere rispetto allo spiegare. La comprensione psicoanalitica accade a tre livelli: logico, psicologico e scenico. Il primo è il ricorso al piano linguistico comune che implica una visione del mondo condivisa; il secondo è il livello della comprensione empatica che non basta però a capire il funzionamento dell’inconscio; il terzo e ultimo livello presuppone infine il transfert come possibilità di “mettere in scena” le relazioni prelogiche che consntono allo psicoanalista di accedere alla prassi vitale dell’altro. Una volta rivissute, queste modalità arcaiche di relazione vengono verbalizzate attraverso l’integrazione e riconsegnate al paziente affinché le comprenda e le integri nella sua storia. Per Lorenzer l’Io è il centro del soggetto; la sua verità è la sua storia.

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La SVIZZERA è la patria della psicologia junghiana. Uno dei protagonisti fu Oskar Pfister (1873-1956) che, insieme a Bleuler, fu fondatore della Società Svizzera di Psicoanalisi, di cui fece parte anche Hermann Rorschach. Pfister pose per primo il problema dell’applicazione della psicoanalisi all’educazione. Già Freud propone che gli educatori acquisiscano una cultura psicoanalitica preferibilmente vivendo un’analisi sulla loro pelle. Realtà è, per Freud, essenzialmente realtà psichica, cioè riconoscimento del desiderio inconscio e della impossibilità di soddisfarlo pienamente. Scopo dell’educazione è, dunque, l’abbandono di ogni illusione e l’accettazione dell’inevitabile disagio della civiltà. Pfister cerca di applicare la psicoanalisi alla educazione degli adolescenti e, in particolare, all’educazione religiosa. Freud non si pronuncia in merito. Vede comunque, nell’educazione, la più importante applicazione della psicoanalisi, quella destinata a sostituire la terapia delle nevrosi. Il bambino, non il nevrotico, sarà il futuro protagonista dell’analisi. In FRANCIA il nuovo verbo psicoanalitico si scontra subito con il fronte compatto della psichiatria. Negli ambienti medici la psicoanalisi entra, agli inizi del XX secolo, per l’opera di A. Hesnard, che fa tradurre alcuni libri di Freud. In Francia, comunque, si giunge alla psicoanalisi seguendo due vie diverse: l’una psichiatrica e l’altra letteraria. In un primo tempo la psicoanalisi viene recepita, negli ambienti psichiatrici, quasi esclusivamente come “tecnica” ed utilizzata per polemizzare contro la medicina organicistica. Eugénie Sokolnicka, psicoanalista junghiana di origine polacca, giunge nel 1921 in Francia, dove riesce a sensibilizzare i letterati ai temi della psicoanalisi. Nel 1924 il primo Manifesto surrealista identifica nell’inconscio la possibilità di appropriarsi di nuove potenzialità espressive. André Breton scorge nel linguaggio onirico modalità creative ignote alle lingue codificate. Nel 1923, invece, lo psichiatra Laforgue prende contatti con Freud con l’intento di fondare un movimento psicoanalitico in Francia. All’interno della Società fondata si delineano subito due correnti: l’una, di freudiani ortodossi, che si riconosce in Marie Bonaparte; l’altra, minoritaria, è formata da medici che si propongono di adattare la nuova disciplina alla mentalità nazionale ed è rappresentata da Pichon. Una posizione molto particolare è quella assunta da Georges Politzer (1903-1942), un filosofo ungherese militante nel Partito comunista francese. Egli scorge nella psicoanalisi gli embrioni di quella che dovrà essere una psicologia marxista. Mentre tradizionalmente la psicologia ha descritto l’uomo in generale, l’uomo metafisico, la psicoanalisi cerca per la prima volta di raggiungere il concreto della individuale. Politzer ritiene che, attraverso l’interpretazione, soprattutto dei sogni, si possa giungere al dramma vissuto dall’uomo attore. Egli utilizza la concretezza di Freud per demolire lo spiritualismo di Bergson ma il suo orizzonte è ancora quello della filosofia umanistica. Lacan gli rimprovera la sua adesione alla centralità dell’Io che misconosce il senso della sovversione freudiana. Il decentramento dello psichico, proposto da Lacan, sarà ripreso da Louis Althusser sino al punto da negare ogni soggettività umana a favore di puri rapporti strutturali. Come Marx ha dimostrato, sostiene Althusser, che non vi è alcuna centro nella storia, così Freud ha provato che non vi è alcun centro nell’uomo. L. Sève, nel suo lavoro “Marxismo e teoria della personalità” (1969), propone una complessa teoria. Per lui l’essenza dell’uomo non è nello psichismo individuale, ma nell’insieme dei rapporti sociali che gli uomini stabiliscono tra loro. Marie Bonaparte (1882-1962) è tra i protagonisti dell’avvento della psicoanalisi in Francia. Benché accusata di una eccessiva fedeltà al pensiero di Freud, in realtà la Bonaparte si colloca in una prospettiva molto prossima a Ferenczi. Ella privilegia i punti di vista filogenetico e psicobiologico della

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teoria freudiana, a capito di quelli ontogenetico e culturale. Secondo lei il timore di castrazione dei bambini ed il complesso di effrazione delle bambine riattualizzano riflessi difensivi della sostanza vivente. Ponendo l’accento sulle radici biologiche del problema, afferma l’esistenza di una originaria bisessualità. Il maggior contributo di Marie Bonaparte è però costituito dall’applicazione della psicoanalisi alla interpretazione del testo letterario, soprattutto degli scritti di Edgar Allan Poe. Questo suo metodo, di tipo biografico e patografico, è ormai datato. Nessuno ormai cerca più di analizzare l’autore attraverso la sua opera. Questo tentativo costituisce però una tappa importante nella storia della psicoanalisi applicata. L’INGHILTERRA diviene la seconda patria del Movimento psicoanalitico, dopo il trasferimento a Londra di Freud. Nonostante l’omogeneità linguistica, la cultura inglese è assai diversa da quella americana. Se entrambe respingono la teorizzazione astratta, la cultura americana si appella primato dell’applicazione (il pragmatismo di James sostiene che la verità di una teoria dovrebbe essere verificata dalle sue conseguenze pratiche), mentre quella inglese si rifà alla necessità della verifica sperimentale. La psicologia inglese è tradizionalmente di matrice fisiologica e sperimentale. La psicoanalisi viene accolta come una terapia per le nevrosi da guerra. La fama di Ernest Jones (1879-1958) è così legata alla sua monumentale biografia di Freud che si rischia di dimenticare il suo non indifferente contributo alla teoria. Egli notò come le libere associazioni dei bambini ritardati fossero organizzate da un inconsapevole senso di colpa. Insofferente del paternalismo autoritario della società vittoriana, il giovane Jones vide nella psicoanalisi un mezzo di emancipazione e di liberazione. Dobbiamo a Jones indubbi apporti di sapere. La sua produzione non ha una struttura sistematica e felici intuizioni vennero spesso più enunciate che dimostrate. Le sue prime monografie sono “Dell’incubo” (1909) e “Amleto e Edipo” (1910-1923). Nella prima Jones sostiene che gli incubi rappresentano un meccanismo di difesa perché sostituiscono un sogno erotico di natura incestuosa. Nella seconda, seguendo un’indicazione dello stesso Freud, interpreta l’Amleto di Shakespeare come impossibilità del protagonista di uscire vittorioso dal conflitto edipico. E’ pero nei lavori sulla sessualità femminile che Jones darà la miglior prova del suo intuito clinico. Egli depreca, d’accordo con la Horney, il pregiudizio fallocentrico che porta gli uomini a sottostimare la specificità del corpo femminile nella costituzione dell’identità di genere. Secondo Jones, inoltre, l’angoscia fondamentale è rappresentata, per entrambi i sessi, dalla paura di perdere la sessualità (afanisi). Per Jones, ancora, la femminilità non è (come per Freud) una conquista evolutiva, ma un dato che di fatto è radicato nella biologia, dotato di una evidenza obiettiva che si tratta solo di riconoscere. Uno degli argomenti che più stanno a cuore a Jones è poi quello (molto attuale nel dibattito psicoanalitico degli anni 20/30 del secolo scorso) della creatività artistica e del genio. La possibilità di superamento del conflitto psichico sono fornite, secondo Jones, dalla sublimazione che, attuata in forma perfetta, produce l’atto creativo. Anche l’educazione deve essere intesa come trasformazione della sessualità infantile in interessi più elevati, tramite processi di sublimazione. Jones, Hanns Sachs e Otto Rank , Ferenczi : tutti questi autori sono comunque d’accordo nel distinguere, da una parte, la metafora, l’allegoria, l’illusione e le figure retoriche del linguaggio in generale; dall’altra, il simbolo in quanto essenzialmente legato al rimosso. Le prime appartengono, secondo Jones, ai processi secondari; il secondo al processo primario.

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Infine, Jones, nella sua opera più importante “Teoria del simbolismo” (1916), contro Jung, sostenne che l’apparente universalità dei simboli arcaici dipende solo dalla uniformità della psiche umana e non da esperienze culturali comuni. Se il meccanismo dell’ortodossia resta implicito in Jones, così come in Abraham, esso si svela pienamente in quel “codificatore” che fu Edward Glover (nato nel 1888). La sua maggior preoccupazione fu quella di salvaguardare il credo freudiano dalla dispersione. Con lui la teoria diventa un canale imperativo che decide di ciò che è non è scientifico. Tra le sue opere maggiori sono il “Trattato teorico e pratico di psicoanalisi” e “Tecnica della psicanalisi”. Con il suo lavoro “La nascita dell’Io” (1930), Glover tenta una ricostruzione genetica dello sviluppo di questa istanza che non si presenta certo, alle origini della vita, nella forma sintetica e conclusa propria dell’adulto. Per Glover le teorie psicologiche sono semplici ipotesi fantastiche che chiedono la verifica sperimentale della clinica. Tra i molti allievi di Glover emerge Ella Freeman Sharp (1875-1947). Condivise con Sachs (a Berlino) l’interesse per l’applicazione della psicoanalisi ai prodotti artistici. Lei sostenne che il pensiero e la parola traggono origine da sensazioni fisiche ma incorporano, progressivamente, sempre nuovi significati. Le parole usate nel testo del sogno non sono casuali ma contengono in sé la storia del paziente. Rilevò, inoltre, un’analogia tra i processi del sogno e quelli della composizione poetica: metafora, similitudine, metonimia sono mezzi espressivi comuni alle due esperienze. Un posto particolare nell’ambito della psicoanalisi inglese merita infine James Strachey per la sua enorme impresa di curare e tradurre in inglese l’opera omnia di Freud. Ancora, tra i maggiori contributi forniti dalla Tavistock Clinic di Londra, vi è la psicoterapia medica di Michael Balint che iniziò nel 1949 i suoi seminari di formazione. Il suo tentativo è quello di comprendere l’ammalato nella sua totalità, di superare le scissioni indotte da un approccio settoriale: spesso lo specialista organico e quello psichico sono in competizione tra loro. Le due competenze andrebbero integrate. Il paziente deve essere trattato, in ogni momento, con un metodo psicologicamente corretto. Anna Freud e la Psicologia dell’Io. La Freud si occupa delle funzioni dell’Io. Il suo funzionamento, infatti, rimane ancora indefinito. Perché l’Io deve opporsi alle funzioni che sono rette dal principio del piacere? Se l’Io trae le sue energie esclusivamente dall’Es, come può svolgere una funzione antipulsionale? Come può l’Io essere coinvolto in processi patologici? L’analisi dell’Io sarà ripresa e teorizzata da Anna Freud. Ella concorre a spostare l’asse della psicoanalisi dall’economia delle pulsioni e delle fantasie inconsce alla dinamica adattativa dell’Io. Il campo che si dimostrò più produttivo fu quello della analisi infantile perché permise di cogliere molti dati e di confrontarli con quelli emersi dall’analisi con gli adulti. La psicoanalisi infantile suscitò un vivace dibattito che ebbe due protagoniste di eccezione in Anna Freud e Melanie Klein. Gli psicoanalisti infantili riformularono un modello dell’apparato psichico nel quale fossero privilegiati gli aspetti genetici e la prospettiva maturativa, invece che quelli strutturali propri della meta psicologia freudiana. Anna Freud fa propria l’esortazione del padre di studiare le fantasie ad occhi aperti che avrebbero integrato l’interpretazione dei sogni. I temi del lavoro di Anna Freud possono essere così sintetizzati: i processi intermedi tra l’inconscio e il conscio (come la fantasia, il gioco, la creatività), il passaggio dal principio del piacere a quello di realtà, l’aprirsi progressivo alle esigenze del mondo esterno. La sua teoria entra in contrapposizione netta con quella di Melanie Klein. Questa aveva sostenuto che l’analisi

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può eliminare o ridurre i disturbi psichici del bambino ed aveva concluso auspicandone l’estensione a tutti i bambini. Anna Freud, invece, limita l’opportunità di una terapia infantile ai casi di vera e propria nevrosi infantile. Il rapporto che la psicoanalisi infantile deve intrattenere con la pedagogia è individuato in alcuni punti fondamentali: critica dei metodi educativi in atto; ampliamento della conoscenza dell’uomo; approfondimento dei rapporti interpersonali tra bambini e adulti, educati ed educatori. Come terapia la psicoanalisi infantile deve preoccuparsi di riparare i danni inflitti al bambino nel corso del processo educativo. La migliore educazione è la minor educazione. Le differenze tra l’analisi infantile e quella adulta, in sintesi, vendono a coincidere con la particolare modalità con la quale il bambino entra nel rapporto terapeutico. Non è il bambino a decidere di intraprendere un’analisi ma gli adulti che se ne occupano. E spesso il bambino non è consapevole di costituire un problema. Dei quattro elementi dell’analisi adulta individuati da Freud, Anna Freud ritiene che il più facilmente trasferibile all’analisi infantile sia l’interpretazione dei sogni perché i bambini non sono ancora giunti a svalutare l’attività onirica, come fa il “razionalismo” adulto. Anna Freud, inoltre, nel criticare la Klein, sottolinea l’inutilità per l’analisi del gioco infantile, in quanto esso è egocentrico e solipsistico. Il bambino, ancora, non può elaborare una nevrosi da transfert perché i rapporti parentali non sono per lui il passato da rivivere, ma la realtà e il presente. Per Anna Freud, ad ogni modo, l’ideale sta nell’analizzare (separatamente) anche i genitori in modo da ottenere la loro collaborazione. L’ideale di Anna Freud è uno sviluppo armonico, dove siano minimizzati i conflitti tra mondo esterno e mondo interno e delle istanze psichiche tra loro. Il suo testo più importante è “L’Io e i meccanismi di difesa” (1936). Il teso si occupa dei modi e dei mezzi con i quali l’io respinge il dispiacere e l’angoscia. Questo compito richiede di assumere l’Io come oggetto e come strumento di indagine. In alcuni la difesa si cristallizza, come aveva notato Reich, in una struttura caratteriale; in altri si stereotipizza nel sintomo. I meccanismi di difesa sono messi in moto dai tre tipi di angoscia che colpiscono l’Io: di fronte alla morale, alla realtà, alle pulsioni. Freud aveva individuato questi problemi in “Inibizione, sintomo e angoscia” considerando la rimozione, il meccanismo di difesa più efficace e più pericoloso in quanto richiede un costante impiego energetico. Altri meccanismi sono da Freud in diverse opere. Anna Freud li raccoglierà in una sintesi coerente e vi aggiungerà nuovi elementi. Essi sono: regressione, formazione reattiva, isolamento, rendere non avvenuto, proiezione, introiezione, volgere su se stessi, inversione nel contrario, sublimazione, negazione (nella fantasia, nelle parole, nell’azione), la restrizione dell’Io, identificazione con l’aggressore e una forma di ascetismo ed intellettualizzazione propria dell’adolescenza. Scopo dell’Io è quello di armonizzare le esigenze dell’Es, del Super-io e del mondo esterno. Anna Freud, inoltre, elabora uno schema che definisce l’infanzia nella specificità ed individua quattro settori: 1. Egocentrismo. La madre esiste solo in quanto risponde ai bisogni del bambino. 2. Immaturità apparato sessuale. Riporta le conoscenze sessuali a spiegazioni connesse con fasi pregenitali. 3. Debolezza del pensiero. Debolezza del processo secondario di fronte alla forza degli impulsi e delle fantasie. 4. Diversa valutazione del tempo. Gli impulsi dell’Es sono per loro natura insofferenti ad ogni dilazione. Anna Freud mette a punto un insieme di scale evolutive e cerca, con il suo gruppo di lavoro, di costruire elementi che colgono, ad ogni livello di sviluppo, l’interazione fra Es, Io, Super-io e le loro reazioni alle influenze ambientali. Vi sono alcune tappe fondamentali. Inizialmente l’unità biologica madre bambino è caratterizzata dal narcisismo. Solo in una seconda fase il neonato giunge a

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costituire un rapporto parziale con l’oggetto intermittente (seno), che esiste nel momento del bisogno e scompare in quello della sazietà. Successivamente, l’oggetto viene interiorizzato ed ottiene una presenza psichica costante. I successivi periodi sono i medesimi descritti da Freud: fase fallico/edipica, di latenza, preadolescenziale, adolescenziale. Anna Freud è molto attenta alla dimensione relazionale nella quale inscrive anche il rapporto che il bambino intrattiene con il proprio corpo. L’evoluzione infantile non conosce l’inevitabilità e ovvietà che normalmente si attribuisce ai processi naturali. Ogni fase possiede una “patologia fisiologica”. L’adolescenza in particolare si situa in una zona intermedia tra la salute e la malattia. Poiché i dati da prendere in esame in fase diagnostica e prognostica si sono molto ampliati, il gruppo della Hampstead Child-Therapy, nel 1953, promosse un progetto noto come Indice Hampstead. L’Indice è costituito da una serie di categorie e da una struttura generale di classificazione atta a contenere la casistica. Il risultato è una serie di schede che compendiano il caso del paziente, secondo un profilo, nel quale la diagnosi si distanzia dagli aspetti puramente sintomatici e si orienta verso le modalità genetiche, dinamiche, economiche e adattive della personalità del bambino. Anna Freud intende riportare la psicoanalisi alla sua specificità: alla diagnosi e alla terapia. L’interesse della psicoanalisi si è progressivamente spostato dalla fase edipica a quella preedipica, arcaica, preverbale; cioè al rapporto tra il bambino e la madre nei primi mesi di vita. La figura del padre, centrale nella elaborazione freudiana, è divenuta marginale. L’analisi del transfert diviene il luogo privilegiato di questa “archeologia delle origini” dove però il ricordo lascia il posto alla ripetizione, la verbalizzazione alla messa in atto. Freud considerava il transfert un’esperienza che riattualizza il conflitto edipico. La ricerca psicoanalitica, precisa Anna Freud, ha dimostrato che molte capacità che si ritenevano innate sono invece acquisite nel corso dei primissimi scambi con la madre. Le due tendenze rilevate (ricerca teorica di tipo accademico e terapia esclusivamente) hanno prodotto un divario tra la meta psicologia e la cura, perdendo di vista l’unità tra momento teorico ed applicativo, caratteristico della psicoanalisi. Le attuali ricerche prediligono la prospettiva genetica esasperandola nella ricerca delle origini. LA PSICOLOGIA DI HEINZ HARTMANN. Diversi autori vanno sotto la comune etichetta di “psicologi dell’Io”. I loro nomi sono noti: Heinz Hartmann, Ernst Kris, Rudolf Loewenstein, David Rapaport. Ora, mentre lo psicoanalista europeo è un professionista isolato, agli psicoanalisti americani fu offerta la possibilità di lavorare in grande associazioni culturali. Nello stesso tempo vennero investiti da richieste sociali, di tipo psicodiagnostico, volte non solo a individuare i quadri patologici classici, ma anche a selezionare e orientare gli individui in base alle richieste della società. La psicoanalisi viene definita “scienza naturale dello psichico”. E’ evidente che si smarrisce in tal modo la specificità di una disciplina che si fonda empiricamente su uno scambio di parole. Hartmann tenta una risposta complessiva ai problemi inerenti il funzionamento dell’Io, che si presenta come un completamento della meta psicologia. Il termine chiave di questa fondamentale trasformazione è il concetto di adattamento. L’adattamento consiste in una situazione di equilibrio tra organismo e ambiente. La psicoanalisi si configura come un sapere provvisorio in vista di una psicofisiologia generale. L’ambiente diviene qui un contenitore neutrale, analogo all’habitat naturale. L’adattamento si realizza prevalentemente come modificazione del soggetto. Ciò che qui viene meno è la situazione conflittuale secondo la quale Freud aveva descritto le dinamiche intrapsichiche e interpsichiche. Il predominio del principio di piacere viene sostituito da quello di realtà, secondo il quale l’individuo valuta obiettivamente le esigenze del mondo esterno e fornisce risposte adeguate. Per Hartmann l’Io è una istanza autonoma che utilizza un’energia propria alla quale si aggiunge

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ulteriore energia neutralizzata. L’Io conserva il compito di far da argine alle pretese dell’Es. Hartmann gli attribuisce anche una serie di funzioni che denomina “interessi dell’Io”, finalizzati all’autorealizzazione e all’autoaffermazione del soggetto e svincolati dall’economia pulsionale. Hartmann rifiuta di basare tutto il funzionamento psichico sul conflitto. Gli interessi dell’Io sono tenuti al riparo dalle influenze del narcisismo. SISTEMATIZZAZIONE E FORMALIZZAZIONE DELLA PSICOANALISI: DAVID RAPAPORT E ERNST KRIS. Mentre Freud, mantenendo costante la tensione tra ipotesi ed esperienze, mirava a elaborare una teoria, Rapaport, privilegiando la coerenza logica, costruisce un sistema. Egli trasforma la concettualizzazione freudiana, mobile e aperta, in un insieme di strutture cognitive fisse. A Kris si devono alcune riflessioni sul concetto di osservazione. L’osservazione non è finalizzata all’individuazione della patologia, ma è volta alla formulazione di una previsione di sviluppo che tenga conto anche delle capacità adattive del bambino e delle potenzialità adattive del bambino e delle potenzialità auto curative insite nella maturazione infantile. La psicoanalisi così si apre alla previsione del futuro, propria delle scienze sperimentali. Kris, inoltre, considerò la sublimazione una via importante per la comprensione dell’attività artistica che sentì prossima alla magia. Egli, rifacendosi al saggio di Freud “Il motto di spirito”, pose in evidenza non tanto i contenuti quanto il lato formale, costruito dell’opera d’arte, l’effetto codice che agisce in essa, la sua caratteristica di testo relativamente autonomo rispetto all’autore. Secondo Kris la differenza tra l’artista e il nevrotico è che il primo ha la capacità di operare una regressione al servizio dell’Io, là dove il secondo si trova in preda a dinamiche incontrollate. Egli indagò i motivi che stanno alla base della leggenda dell’artista individuando i temi tipici che informano la tradizione aneddotica di molti paesi. Le costanti biografiche vengono interpretate come reazioni universali di fronte al mistero della creazione artistica. L’allievo di Kris, E. H. Gombrich, cerca di spiegare l’opera d’arte attraverso certe costanti figurative. ERIK ERIKSON: FUNZIONE SINTETICA DELL’IO ED EVOLUZIONE SOCIALE DELL’UOMO. Erikson accetta la centralità dell’Io senza ricorrere mai alla sua presunta autonomia funzionale. L’Io, inteso come principio di sintesi, connette le diverse parti del mondo interno tra di loro e con la realtà esterna. Egli reintroduce la clinica e valorizza la funzione costitutiva dei rapporti oggettuali, descritti nella concretezza della società e della storia, anziché nella staticità naturalistica di Melanie Klein. Erikson appare più vicino alle posizioni di Anna Freud, al suo tentativo di salvaguardare la specificità del campo psicoanalitico. Egli conserva, del modello freudiano, la centralità dello sviluppo sessuale, integrandolo però in un più vasto schema di evoluzione psicosociale finalizzata a conseguire l’adattamento nella relazione individuo/ambiente, dove l’ambiente è inteso in senso storico sociale. L’educazione è intesa come una operazione di sintesi e di conciliazione delle contraddizioni culturali di un gruppo sociale. Dopo quello di “Io”, l’ “identità” è un altro concetto portante della teoria eriksoniana. L’identità esprime soprattutto una funzione di sintesi tra le diverse parti della personalità, soggette a una evoluzione diacronica. Il senso di identità sorge come concordanza tra l’interiorità e l’esteriorità del Sé. La discrepanza tra le due istanze viene superata con l’acquisizione di uno stile personale. La capacità di sintetizzare l’immagine che ho di me stesso con quella che mi rimandano gli altri provoca un vissuto di autenticità e di spontaneità. Erikson elabora uno schema dello sviluppo umano diviso in otto tappe. 1. Contrapposizione fiducia/sfiducia. E’ decisiva la qualità del rapporto orale che si instaura con il primo oggetto d’amore. 2. Contrapposizione autonomia/vergogna e dubbio. E’ contrassegnata dallo sviluppo muscolare. E’ un dilemma che sorge in coincidenza con l’educazione sfinterale, tra il trattenere le feci ed espellerle.

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3. Contrapposizione iniziativa/colpa. Mentre il maschio si lancia alla conquista dello spazio esterno, la femmina agisce prevalentemente delimitando e organizzando uno spazio chiuso. In questa fase il complesso edipico attiva sessualità e aggressività e il bambino cade in preda a sensi di colpa per azioni agite o solo fantasticate. 4. Contrapposizione industriosità/inferiorità. Qui è descritta la latenza. Il bambino impara a padroneggiare oggetti e ogni fallimento gli provoca sentimenti di inferiorità. 5. Contrapposizione identità/dispersione. E’ la fase dell’adolescenza. Le conquiste delle fasi precedenti sono messe in discussione. L’identità non è più la somma delle identificazioni infantili ma coincide con la loro ricomposizione. 6. Contrapposizione isolamento/intimità con se stessi e intimità con altro sesso. Uno dei principali contributi di Erikson riguarda il problema della crisi dell’identità adolescenziale. Soltanto quando è stato raggiunto un sufficiente senso di identità è possibile sperimentare l’intimità con se stessi e con l’altro sesso. Anche questa esperienza non va esente da timori e la reazione può essere quella di sfuggire alla dipendenza e al sacrificio pulsionale nell’isolamento. 7. Contrapposizione generatività/stagnazione. Sono questi gli anni della procreazione. Alternativa esistenziale dove da una parte sta la realizzazione di un compito biologico e un attesa sociale, dall’altra la chiusura narcisistica su di sé. 8. Contrapposizione integrità personale/isolamento. L’identità dell’Io supera la dimensione della storia individuale per farsi solidarietà umana e senso della propria appartenenza storica. Erikson considera il problema dell’identità grave ed urgente nella società americana, una società in rapida trasformazione che propone all’individuo ideali contraddittori come la migrazione e la sedentarietà, l’individualismo e la convenzionalità, la competitività e l’altruismo. La psichiatrizzazione della società, iniziata con la diffusione delle nevrosi da guerra, aveva indicato nella figura della tipica madre americana (mom) la causa del diffuso disagio giovanile. Erikson riprende questa figura della ginecofobia statunitense e dimostra come quella che sembra un carnefice sia in realtà una vittima su cui sedimentano le conflittualità di un sociale che privilegia le contraddizioni dell’individualismo alla costruzione di rapporti integrati e integranti. Identità sociale e identità individuale sono funzioni complementari, come dimostra un’altra figura familiare cruciale, quella del padre di famiglia tedesca all’avvento del nazismo. (287-292) La “psicologia del Sé”. Qui il termine “psicologia” intende sottolineare il progetto, analogo a quello della “Psicologia dell’Io”, di una scienza generale dello psichico. Vi emergono attributi che spostano l’Io da una posizione prevalentemente intrapsichica (seconda topica) a una posizione interpsichica. Nel modello di Hartmann si è visto che questi mette in rapporto l’Io con l’ambiente esterno, con i suoi oggetti, tra i quali colloca l’Io stesso nella forma riflessa del Sé. Fairbain considera il mondo interiore della sua paziente non una dimensione astratta in cui agiscono forze impersonali, ma un teatro privato dove vivono i personaggi costituiti dalla interiorizzazione delle prime relazioni oggettuali. Fairbain considera l’oggetto non un mezzo, ma un fine. La libido si definisce non come ricerca del piacere, ma dell’oggetto. Fairbain propone una teoria evolutiva centrata sulla dipendenza degli oggetti. La dotazione del bambino consiste originariamente in un Io unitario, destinato a scindersi nel corso delle vicende oggettuali. Il bambino incontra oggetti buoni e oggetti cattivi. Di fronte ai cattivi oggetti interiorizzati, il bambino ricorre alla difesa più elementare, la rimozione. Il processo di rimozione (spostamento nell’inconscio) porta con sé le parti di Io legate agli oggetti in questione. Poiché ogni oggetto è ambivalente, composto da una parte accettante e una parte rifiutante, anche l’Io rimosso si

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scinde in due parti: l’una libidica e l’altra aggressiva, denominata quest’ultima “sabotatore interno”. Alla triade freudiana di Io, Es e Super-io, Fairbain sostituisce tre strutture egoiche corrispondenti all’Io centrale e a due Io sussidiari, libidico e sabotatore, prodotti dalle vicissitudini delle prime relazioni oggettuali. L’opera di Bruno Bettelheim è caratterizzata dall’intreccio fra teoria e prassi. Nella prima fase egli utilizza come modello teorico quello fornito dalla Psicologia dell’Io di Anna Freud. “Prima di capire i bambini, bisogna capire se stessi”, afferma. Bettelheim teme che le diffuse teorie sulla dipendenza infantile e la consuetudine delle madri di prevenire ogni richiesta del lattante, finiscano con l’inibire la capacità del bambino nel chiedere aiuto. Egli si reca in Israele per studiare le modalità collettive di allevamento dei bambini nei Kibbutz. Egli scopre che, vivendo una esistenza collettiva, il bambino evita molte delle crisi esistenziali descritte da Erikson. Ma questo ha il suo prezzo in termini di impoverimento della identità personale, della intimità emotiva e della autorealizzazione individuale. Uno dei contributi più importanti dell’esperienza di Bettelheim è l’attenzione costante per il corpo e le sue funzioni, considerate come momenti essenziali della socializzazione infantile. Nel caso di problemi psichici, egli ritiene che il sintomo vada affrontato là dove si manifesta. Sempre convinto che la comprensione degli altri poggi sulla comprensione di sé, Bettelheim fa appello alla sua terribile esperienza di prigioniero nei campi di concentramento nazista. Tra i prigionieri ve ne erano alcuni che reagivano alla situazione abnorme nella quale si trovavano, e che sentivano immodificabile, rinunciando alla loro stessa umanità e rifugiandosi nella psicosi. I bambini autistici, analogamente, si ritraggono dalla realtà prima che la loro umanità possa realmente vedere la luce. Quali esperienze disumane li hanno respinti dal mondo? Per provocare una psicosi, le angosce fantasmatiche, che caratterizzano la vita neonatale, devono aver trovato conferma nel mondo reale. La cura consiste nel raggiungere il bambino là dove si trova e nell’offrirgli un mondo totalmente diverso da quello che, nella sua disperazione, ha abbandonato. Il metodo ortogenetico, prossimo per questi aspetti alla proposta di Rogers, non è una tecnica ma un atteggiamento interiore verso la vita, verso gli altri e, in primo luogo, verso se stessi. L’impresa più importante è portare lo psicotico ad attribuire un significato alla propria esistenza. Non un significato astratto, moralistico, ma una concreta soluzione ai suoi problemi. Uno dei modi più concreti per comunicare a questo livello con l’infanzia è costituito dai racconti di fiabe. La fiaba raggiunge il bambino dove realmente si trova nel suo essere emotivo e gli dà la possibilità di rappresentare le pressioni dell’Es. Bettelheim sottolinea come anche la lettura non debba mai essere intesa come una tecnica. Non bisogna dimenticare che esiste l’inconscio e che i processi inconsci svolgono una funzione fondamentale nella determinazione dei comportamenti umani e perciò anche nell’apprendimento della lettura. Educare significa prima di tutto amare il bambino ma l’amore non si impara, si conquista soltanto realizzando se stessi insieme agli altri. Una completa teoria delle psicosi, che si traduce in un modello del funzionamento mentale generale, la si avrà con Silvano Arieti. Egli pone al centro della sua riflessione il Sé come nucleo della coscienza autoriflessiva. I sentimenti, le idee, le scelte e le azioni dell’uomo raggiungono il suo più alto sviluppo nella reciprocità sociale, ma iniziano nell’intimità del Sé cosciente. Vi sono diversi Sé e immagini di sé a seconda dello stadio di sviluppo. L’intento di Arieti è quello di mostrare l’intima correlazione esistente fra i processi cognitivi e quelli affettivi. Sono i primi che determinano la persistenza di stati d’animo altrimenti episodici. Ad esempio, sono i pensieri che trasformano una paura momentanea in un’angoscia simbolica prolungata oppure una collera improvvisa in un odio freddo e calcolato. Arieti elabora un modello evolutivo a tre livelli: filogenetico, ontogenetico e microgenetico. Per livello microgenetico intende quello capace di spiegare un modello psicologico. Nel suo ambito il rapporto

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con l’oggetto non contempla (come per Fairnban) l’esistenza di una cosa, ma semplicemente la ricezione di uno stimolo. Tutto ciò che accade tra l’individuo e il soggetto viene sperimentato all’interno dell’organismo. L’apporto più importante è costituito dalla individuazione di un processo terziario. Per Arieti, il fine dell’uomo non è l’adattamento né, come per i culturalisti, l’autorealizzazione, ma è una meta che trascende la realtà e le potenzialità individuali: l’espansione del Sé. Essa non dipende dalle nostre dotazioni innate ma dal loro superamento nella creatività. La creatività è la capacità di far interagire i processi primari con quelli secondari ricavandone un risultato nuovo rispetto ad entrambi. La creatività si manifesta in una molteplicità di esperienze che vanno dall’intuizione dello schizofrenico al successo sociale, dalla produzione dell’artista alla scoperta dello scienziato. I tre processi descritti da Arieti permettono di inscrivere le anomalie del pensiero schizofrenico all’interno di un sistema che comprende e valorizza gli scarti della logica aristotelica. In Arieti il Sé ha una posizione centrale, un funzionamento articolato ma non costituisce ancora un’istanza autonoma come avverrà nella teoria di Kohut. Carl Rogers, noto per la sua terapia centrata sul cliente, è uno psicologo americano che ha ricevuto una preparazione prevalentemente pedagogica. La sua teoria poggia sulla convinzione della positività dello sviluppo umano. La personalità possiede innate tendenze all’integrazione, all’attuazione di sé, alla relazione con gli altri. L’unità della personalità non è strutturale ma dinamica e può essere colto solo nel divenire, nel mutamento. Ma il mutamento è spesso impedito dalla paura del nuovo. La cura è l’incontro tra due uomini: il terapeuta e il paziente. Il modello di Rogers conserva il suo valore storico che consiste nell’aver denunciato ogni tecnicismo e nell’aver spostato l’attenzione dal sintomo al rapporto interpersonale. La convinzione di Rogers che le convenzioni sociali, sedimentate in ruolo, incapsulino l’Io impedendogli la sua naturale evoluzione è condivisa da Jacob Moreno, medico viennese appassionato di teatro. Questi elabora una teoria (sociometria) ed una tecnica precisa (sociodramma). Moreno definisce la sociometria come la disciplina che persegue un’indagine metodica sullo sviluppo e sull’organizzazione dei gruppi. La sua teoria poggia su tre basi: 1. Ipotesi della spontaneità creativa come forza propulsiva; 2. Fiducia nei compagni umani; 3. Ipotesi di una comunità basata su questi principi e realizzabile mediante tecniche nuove. La spontaneità creativa, soffocata nel ruolo sociale, può essere recuperata per mezzo dell’azione scenica. Nel sociodramma il vecchio divano dello psicoanalista è stato sostituito dal teatro della spontaneità. Recitando più ruoli, il paziente realizza la possibilità di portare alla luce anche le sue fantasie più represse. In America il tema del narcisismo venne riattivato dalla constatazione che la personalità più diffusa è organizzata secondo una economia narcisistica. Freud aveva descritto un narcisismo primario (autoerotico e indistinto) e un narcisismo secondario provocato dalla dinamica di investimento di energie dell’Es sull’Io. Quando l’Io infantile è sufficientemente forte, pone se stesso come oggetto privilegiato dell’Es e sottrae in suo favore cariche libidiche legate agli oggetti. Heinz Kohut coniugò la dimensione sociologica con quella psicologica. La sua formazione è psicoanalitica ma la sua elaborazione se ne allontana progressivamente. Per Kohut è necessario introdurre nella psicoanalisi classica una Psicologia del Sé. L’uomo sta cambiando così come cambia il mondo in cui vive. La società americana degli anni ’70 gli appare molto lontana dall’Europa di Freud e dei suoi primi seguaci. La solitudine del bambino di oggi, secondo Kohut, provoca, invece della tradizionale patologia edipica,una nuova malattia del Sé, un disturbo narcisistico più o meno intenso della personalità. Il Sé è colto, in forma rudimentale, sin dalla nascita, perché il bambino viene

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considerato dalla madre e da tutte le persone del suo ambiente come dotato di un Sé. Come l’organismo neonatale ha bisogno d’ossigeno, la psiche ha bisogno d’oggetto. L’empatia con la quale l’oggetto/madre accoglie le richieste infantili sovraccarica il Sé del bambino di un investimento narcisistico essenziale. Da questo potenziamento del Sé derivano le configurazioni del Sé grandioso e della imago parentale idealizzata. Kohut sostiene l’esistenza di due linee evolutive separate, una per il narcisismo, l’altra per le relazioni oggettuali. Qualora manchi la corrispondenza empatica, lo sviluppo infantile si fissa e il bambino, invece di sperimentare la gioia del Sé intero, si disintegra e si cristallizza in modo difensivo in un frammento della sua esperienza psicologica. I disturbi pulsionali dell’Io sono la conseguenza del crollo prematura di un Sé grandioso arcaico. La prima teoria di Kohut sembra colpevolizzare il narcisismo, considerarlo come un fallimento esistenziale ed una responsabilità. Egli postula, accanto all’asse evolutivo che va dall’autoerotismo al narcisismo e all’amore oggettuale (secondo la dottrina freudiana), una linea di sviluppo che porta dall’autoerotismo al narcisismo e a forme più elevate di narcisismo. Inizialmente Kohut prevedeva la coesistenza di due metodi terapeutici: quello classico, interpretativo, per le patologie vertenti sul conflitto edipico, e quello dell’analisi del Sé, empatico, per le patologie narcisistiche. Progressivamente la prima alternativa scompare e non rimane che la terapia centrata sulla accettazione e sulla ricostruzione del Sé frammentato. Otto Kernberg utilizza, per le sue teorie, le ricerche cliniche della Jacobson e della Mahler, che sostengono l’intima connessione tra l’investimento del Sé e dell’oggetto. L’esigenza di elaborare una nuova prospettiva teorica sorge dalla terapia dei casi borderline, posti in una situazione intermedia tra la nevrosi e la psicosi. Kernberg si imbatte in pazienti che presentano, al contempo, simboli di debolezza e di rigidità dell’Io. Essi esprimono diversi “stati dell’Io”, talora contraddittori, senza che questo generi conflitti. Kernberg scopre che ogni stato è caratterizzato da una relazione oggettuale interiorizzata ma non metabolizzata. Ogni relazione costituisce una unità dove coesistono una rappresentazione dell’oggetto, una rappresentazione di Sé ed uno stato affettivo corrispondente. L’identità dell’Io è il massimo livello raggiunto dai processi di interiorizzazione ed è rappresentato dalla correlazione sintetica di Sé e del mondo. Le relazioni oggettuali, una volta interiorizzate, vengono spersonalizzate, riplasmate nelle strutture dell’Io, del Super-io e del Sé. La scissione che inizialmente l’Io opera tra interiorizzazioni buone e cattive, ove non venga superata, è la principale causa di debolezza dell’io stesso. Parallelamente a questo modello evolutivo che integra Sé, relazioni oggettuali e valente affettive, Kernberg ricostruisce una mappa molto articolata e graduata delle patologie. La teoria di Kernberg appare più funzionale ad una terapia di sostegno che a un intervento psicoanalitico in senso classico. Béla Grunberger non accetta la teoria di Hartmann dell’autonomia dell’Io ma condivide invece quella del Sé come polo dell’investimento narcisistico. Per lui il narcisismo è un’istanza provvista di una sua autonomia e specificità. Corrisponde a un vissuto di unicità, di pacificazione, di soddisfacimento privo di bisogni che è stato sperimentato nel corso della vita prenatale e che Grunberger denomina elazione. L’elazione non è un mito ma l’esperienza più profonda e la maggior aspirazione del soggetto: il suo passato e la sua utopia. La difficoltà consiste nel connettere questo stato di quiete con la dialettica degli oggetti e la conflittualità delle pulsioni. Il narcisismo infatti è inalterabile, atemporale; ciò che evolve è l’Io che, ad ogni tappa del suo sviluppo, deve ricevere il contrassegno narcisistico che gli permette di riconoscere la continuità nel cambiamento. Grunberger ritiene che la nascita spezzi prematuramente lo stato di narcisismo primario e che le cure materne servano a reintegrarlo finché gli apparati del bambino non sono pronti ad affrontare lo sconvolgimento indotto dalle pulsioni e dalla realtà oggettuale. Egli strappa il narcisismo alla condanna moralistica che lo

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accompagna idealizzandolo in una polarità totalmente positiva. La contrapposizione, anche freudiana, tra narcisismo e altruismo è per lui effetto della morale cristiana. L’ideale narcisistico, al contrario, è profondamente religioso in quanto fa coincidere la situazione del feto con quella di Dio. Scopo della terapia non è quello di aiutare coloro che si amano ad amarsi meno ma ad amarsi meglio, diminuendo lo scarto tra l’Io e il suo modello ideale. Fare del periodo fetale un’utopia permette di inserire nella teoria psicoanalitica il principio di morte (come ritorno allo stato originario) depurandolo però delle componenti depressive a favore di quelle consolatorie, un mito che si riveste di svariati orpelli di scientificità. La Psicologia del Sé cerca di costruire un modello adeguato alle nuove domande che si presentano come richieste di adattamento e di integrazione sociale. Lo psicoterapeuta, nella figura dello psichiatra libero professionista, le accoglie e fornisce loro una risposta efficace ed efficiente. Negli Stati Uniti va segnalato Thomas Szasz, una voce che si leverà contro il tecnicismo psicoterapeutico. Egli accusa le psicoterapie di svolgere una funzione di tranquillanti sociali. La malattia mentale, alla luce di un’indagine critica, si rivela solo un “mito”. Con questo termine, mediato dalla epistemologia di Popper, Szasz intende una credenza ascientifica, un’illusoria evidenza. Melanie Klein e il teatro dell’inconscio. Quando la Klein fa il suo ingresso sulla scena psicoanalitica, Freud ha elaboratola sua definitiva proposta teorica: dualità delle pulsioni di vita e di morte e la seconda topica. Oltre a Freud, suoi maestri saranno Ferenczi, dal quale mediò il concetto di introiezione, ed Abraham, che aveva analizzato le fasi pregenitali dello sviluppo e in particolare la fase orale. Mentre Freud aveva descritto l’economia dell’inconscio come dinamica pulsionale, Melanie Klein organizza la vita psichica intorno al rapporto con l’oggetto, privilegiando l’asse relazionale rispetto a quello intrapsichico. Mentre l’edificio freudiano poggiava sul concetto di rimozione, quello kleiniano si fonda sui concetti di scissione e di identificazione proiettiva. Prima esistevano precedenti all’uso di giocattoli, ma solo la Klein teorizza che questo non è un surrogato, ma esattamente l’analogo delle libere associazioni degli adulti. Il gioco esprime un significato simbolico che può e deve essere interpretato. In questo tipo di analisi è molto importante l’ambiente terapeutico, che deve essere distinto dall’abitazione del bambino, lontano dai genitori, arredato in modo semplice e funzionale e dotato di un lavabo per i giochi con l’acqua. I problemi infantili nascono da un Super-io troppo esigente e ciò indipendentemente dai genitori reali. Sono le immagini arcaiche, filogenetiche, le imago, a svolgere una funzione determinante. Solo in un secondo tempo il bambino giunge a rendersi conto che le sue pulsioni non si rivolgevano solo contro i fantasmi interiori ma investivano gli oggetti reali. L’angoscia non è paura di un pericolo esterno, ma è la reazione provocata dalla incapacità di far fronte a bisogni e impulsi interni. Il compito del terapeuta kleiniano è di consegnare al bambino le sue potenzialità espressive. La Klein considera l’analisi il luogo della rappresentazione dei primi conflitti infantili, conflitti che non coinvolgono tanto i genitori reali quanto fantasmi remoti, che sopravvivono in quell’altrove che è l’inconscio kleiniano. Per Melanie Klein esiste un Io estremamente precoce che, già alla nascita, è capace di provare angoscia, di usare meccanismi di difesa, di stabilire rapporti oggettuali primitivi nella fantasia e nella realtà. L’inconscio kleiniano è una dimensione dinamica nella quale preesistono oggetti indipendenti dagli apporti percettivi del mondo esterno. Sono formazioni fantasmatiche, preverbali, finalizzate a orientare gli impulsi istintuali. Ad esempio, l’impulso alla nutrizione è organizzato intorno a una imago di mammella che preesiste alla scoperta del seno reale ma che interagisce con esso.

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La fantasia inconscia non è solo sostitutiva della realtà (come nella teoria freudiana dell’appagamento allucinatorio) ma ha una funzione strutturante il mondo esterno e il mondo interno. L’Io primitivo è quindi animato dalle energie istintuali suddivise in libidiche e aggressive, ha due direzioni di scarica, verso l’interno e verso l’esterno, ed è costituito dall’insieme degli oggetti fantasmatici dell’istinto, oggetti parziali come il seno, il pene, le feci. L’Io è qui una istanza poco integrata che può ricorrere alla scissione di sé e del mondo quando l’angoscia si fa insopportabile. Questa modalità di organizzazione dell’Io in certa misura normale viene descritta da Melanie Klein in termini di posizione schizo/paranoide. Secondo la Klein, l’Io è preda sin dalla nascita dell’istinto di morte. Per fronteggiare l’angoscia che tale istinto provoca, in parte viene proiettato verso l’esterno, in parte costituisce una riserva interna di aggressività. L’oggetto esterno (il seno), investito della pulsione di morte, diviene un oggetto cattivo e persecutorio. L’impulso sadico di morderlo si trasforma così nella paura speculare di essere divorato. Se per difendersi il neonato attiva il meccanismo di introiezione, sarà invaso dall’angoscia di essere deprivato dei suoi contenuti buoni ad opera di un aggressore interno. L’oggetto cattivo, in quanto investito di impulsi sadico/orali, viene frammentato in una molteplicità di parti persecutorie. Anche l’istinto di vita viene scisso: la parte proiettata sul seno buono ne fa un oggetto ideale, quella rimasta in sé viene utilizzata per stabilire il rapporto amoroso. L’oggetto parziale “seno”, intorno a cui si organizza la dinamica della fase schizo/paranoide, è quindi esterno e interno, buono o cattivo, incorporato e proiettato, unitario e frammentato. Solitamente accade che: le parti dell’oggetto del sé buono vengono introiettate, le parti del sé e dell’oggetto cattivo vengono proiettate. In tal modo l’Io scinde e sperimenta una situazione schizoide. Nello stesso tempo vive l’angoscia di essere distrutto dagli oggetti cattivi, angoscia di tipo paranoide (quando l’oggetto è esterno), ipocondriaco (quando l’oggetto è interno). Gli oggetti ideali e persecutori formano le radici del super-Io. Nel caso che questa organizzazione primitiva dell’apparato psichico divenga rigida e permanente (fissazione), il soggetto funziona in modo psicotico. In questa fase di sviluppo o in questa posizione, le relazione oggettuali si basano sulla identificazione proiettiva, una fantasia onnipotente per cui parti non desiderate di sé e degli oggetti interni possono essere scisse, proiettate e controllate nell’oggetto esterno. Il meccanismo dell’identificazione proiettiva sta alla base del delirio psicotico di essere un’altra persona. Il processo di scissione permette all’Io di emergere progressivamente dall’indistinzione originaria e di ordinare la realtà esterna secondo due categorie elementari (buono e cattivo). L’idealizzazione dell’oggetto persiste nello stato di innamoramento, nel piacere estetico, nella costruzione di ideali e di valori. Esiste anche il caso che, nonostante l’ambiente favorevole, il bambino sia impedito nella sua evoluzione. Uno di questi fattori di perturbazione è l’invidia che viene sperimentata sin dalla prima infanzia. Si tende a confondere l’invidia con la gelosia. L’invidia è molto più precoce. La gelosia si fonda sull’amore e tende al possesso dell’oggetto amato e alla rimozione del rivale, mentre l’invidia è una relazione a due che investe l’oggetto per qualche suo possesso o qualità. L’invidia viene manifestata nei confronti di oggetti parziali. Il desiderio che il bambino prova per il suo oggetto vitale si può ammantare di aggressività sino a perseguire la sua distruzione. Si ha allora il vissuto inconscio di bramosia. Se l’invidia è troppo intensa non permette i processi schizo/paranoidi e proibisce il riconoscimento dell’oggetto ideale. L’individuo si sente allora solo. Nell’evoluzione normale all’invidia si contrappone la gratitudine, l’oggetto ideale diviene parte dell’Io e ne accresce la capacità di amore. Tratti di invidia rimangono sempre ed animano la rivalità non distruttiva. Il bambino, poi, diviene capace di riconoscere la madre come una persona intera. Prima la madre era seno, occhi, bocca, mani. Ora è un oggetto intero che può essere presente o assente, buona o cattiva. La madre unificata assomma in sé le caratteristiche prima scisse della bontà e della cattiveria

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e diventa un oggetto ambivalente. Nello stesso tempo il bambino scopre che la madre non esiste solo in funzione dei suoi bisogni ma ha una vita autonoma. Mentre teme di perderla, si sente impotente a trattenerla e si riconosce totalmente dipendente da lei per la sua sopravvivenza. Dipendenza e impotenza provocano l’insorgere della posizione depressiva. Nella posizione schizo/paranoide la maggior angoscia consisteva nella distruzione dell’Io da parte degli oggetti cattivi, nella posizione depressiva l’angoscia sorge dal timore che i propri impulsi aggressivi distruggano l’oggetto amato. In questa fase il bambino diventa consapevole di sé e dei suoi oggetti, comincia a distinguere la realtà esterna da quella interna. Se giunge a questo stadio di integrazione avrà evitato il rischio della psicosi che si instaura soprattutto sulla cerniera tra la fase schizo paranoide e quella depressiva. Accanto alle difese riparative esistono quelle maniacali che consistono nella negazione dell’angoscia depressiva e della colpa. Il rapporto maniacale con gli oggetti è caratterizzato da tre sentimenti: dominio, trionfo, disprezzo. Man mano che il bambino sperimenta la permanenza dell’oggetto, sente di procedere verso l’indipendenza confortato da un oggetto positivo interno che arricchisce il suo Io e lo rende capace di abbandonare le fantasie di onnipotenza per l’accettazione della realtà. La posizione depressiva però non è mai superata una volta per tutte. Ambivalenza, angoscia, colpa, privazione e lutto sono sempre latenti e qualsiasi perdita della vita li riattiva. Melanie Klein non ritiene che il conflitto edipico insorga nel corso della fase fallica. La sua concezione dei fantasmi inconsci, che preesistono a qualsiasi esperienza, rende inutile interrogarsi sull’inizio di situazione che sono coestese alla vita stessa Nel patrimonio istintuale del neonato è compresa una rappresentazione arcaica della coppia parentale. Si tratta di una figura il cui contenitore è femminile e possiede dentro di sé il padre, il pene, il seno, i bambini. Essa poi si differenzia in una coppia strettamente unita in uno scambio di gratificazioni orali, anali, uretrali, genitali. Il piccolo reagisce aggredendo i rivali con tutti i contenuti del suo corpo. Si tratta di una fantasia di onnipotenza volta ad annientare la coppia parentale che viene introiettata e sentita come parte del proprio mondo interiore. Inoltre, entrambi i sessi provano, nei confronti dei genitori, desideri omo ed eterosessuali, a seconda che la libido assuma forma attiva o passiva, si rivolga al padre o alla madre. Ad un certo punto, il bambino scinde la coppia parentale nei suoi due componenti e si atteggia in modo diverso a seconda della sua identità sessuale che, progressivamente, si definisce. Inizia così l’Edipo descritto da Freud nel modello di amore per il genitore di sesso opposto e di rivalità per il genitore dello stesso sesso. Accanto alla forma dominante persistono tracce del suo contrario, l’Edipo negativo. Il Super-io è fatto anche delle figure parentali introiettate. E’ perciò importante che il bambino impari a distinguere tra realtà esterna e realtà interna. A questo punto muta il rapporto con gli oggetti: scissione e proiezione (con i loro effetti di persecuzione ed idealizzazione) lasciano il posto a una discriminazione più obiettiva. Il concetto di posizione depressiva, le dinamiche riparative e il riconoscimento simmetrico della realtà esterna ed interno servono a Melanie Klein per avanzare una teoria estetica. L’opera d’arte è finalizzata alla ricreazione degli oggetti d’amore perduti e si fonda dunque sulle esperienze di colpa e di lutto. A differenza del nevrotico, l’artista è in grado di sopportare e di ricreare una produzione che risponde a due requisiti: di essere conforme alla realtà interiore e di accettare tutti i vincoli imposti dalla realtà esteriore. Il piacere estetico, suscitato dalla fruizione dell’opera d’arte deriva dal rivivere inconsciamente l’esperienza creativa dell’artista, dal condividere il suo mondo interno. (Vegetti Finzi, 323).

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La psicoanalisi di Melanie Klein può essere considerata implicitamente morale in quanto è organizzata come un’ascesa dalla follia, malattia, morte, solitudine e malvagità della nascita alla genialità, armonia, comunicatività, creatività della maturità. Donald Meltzer, uno dei maggiori rappresentanti della scuola kleiniana, persegue nelle sue opere un serrato confronto tra Sigmund Freud e Melanie Klein. Non si tratta però di raccordare tra di loro due sistemi conclusi, due tecniche codificate, ma di sperimentare nell’ambito della singola esperienza clinica il loro valore esplicativo e applicativo. Egli non solo acquisisce nuovi ambiti di esperienza ma produce anche nuovi apporti di teoria. Il frammento di teoria rimane strettamente connesso al segmento di analisi senza che impegni a ridiscutere il modello meta psicologico complessivo. Meltzer ci restituisce, in frammenti di rara efficacia, il mondo interno dei suoi pazienti, bambini affetti da precoci turbe affettive, borderline e psicotici, utilizzando il loro lessico per l’interpretazione. Si costituisce così un gergo infantile o psicotico con il quale la psicoanalisi non solo dà voce al suo oggetto (l’inconscio) ma anche costruisce i suoi schemi esplicativi. Roger Money-Kyrle, uno dei più autorevoli esponenti della scuola kleiniana, alla sua formazione analitica accompagna studi antropologici e filosofici. Egli sviluppa due filoni di ricerca: l’uno approfondisce l’idea di imago innate nel senso di definirle in termini biologici ed etologici; l’altro indaga sulla funzione etica della psicoanalisi. Egli, ad esempio, si interroga sull’acquiescenza delle masse proletarie di fronte al predominio nazifascista così contrario ai loro interessi reali. Una interrogazione che riattiva i temi dell’aggressività e della colpa. Appaiono essenziali nel suo modello evolutivo gli stadi preverbali ove predominano le componenti innate della conoscenza che saranno confrontate, modificandosi, con la realtà sociale. Conoscere la propria storia affettiva, rintracciare gli effetti di questa storia nella costruzione della nostra immagine del mondo è, per Money-Kirle, un’impresa conoscitiva ed etica al tempo stesso in quanto rappresenta l’unico modo per controllare i residui psicotici e deliranti che deformano la realtà ed allontanano dalla verità. Riflettendo sulla storia del Movimento psicoanalitico, egli individua, in base alla concezione della malattia mentale, tre tappe: nella prima epoca la malattia mentale appare come il risultato di inibizioni sessuali, nella seconda epoca la malattia mentale è considerata effetto di un conflitto morale inconscio, nella terza epoca (dal 1960) il paziente, clinicamente malato o meno, soffre di fraintendimenti e di deliri inconsci. La psicoanalisi kleiniana si presentò subito come un corpus teorico particolare da accettare o respingere. In Melanie Klein la fantasia svolge la fantasia svolge un ruolo prioritario e determinante. Anche Freud aveva parlato di “fantasmi originari”, un patrimonio trasmesso filogeneticamente che organizza la vita fantastica del soggetto, ma lo aveva considerato uno schema inerte senza l’apporto dell’esperienza. Per Melanie Klein la fantasia inconscia si inscrive nella biologia e, come tale, preesiste e rimane parzialmente indipendente dai processi psichici successivi. Se la metapsicologia freudiana è sempre consapevole di operare su di un piano metaforico, per Melanie Klein i contenuti del pensiero inconscio (i fantasmi) hanno la concretezza delle cose. La griglia fantasmatica tende a prevalere sulla realtà esterna deformandola. Questo filtro “a priori” è così potente che l’ambiente diviene insignificante di fronte ai processi psicologici. Le relazioni oggettuali reali (la madre, il padre, i fratelli) non sono che impressioni volte a confermare o disconfermare interiori e anteriori vissuti affettivi e cognitivi. Il mondo reale è lasciato fuori dalle porte dell’analisi. E’ stato possibile costruire un archivio di contenuti

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paradigmatici ma si dà per scontato che essi si concretizzino sempre negli stessi simboli, mentre il bambino crea di volta in volta il suo materiale espressivo. Per la Klein vi è una corrispondenza fissa tra materiale prodotto nel gioco e contenuto dell’inconscio tanto che l’interpretazione giunge rapidissima e definitiva. Sempre per Melanie Klein il programma evolutivo e terapeutico è garantito dalla corrispondenza prestabilita dell’istinto con i suoi oggetti, una concordanza strutturale che non coglie la specificità del desiderio umano. L’inventario kleiniano ci propone un mondo fantastico infantile così insopportabile ed ingestibile che non resta che auspicarne la catastrofe. Alla ricerca del primo rapporto oggettuale. TRA ANNA FREUD E MELANIE KLEIN. Il centro del modello psichico si sposta dall’Es all’Io. Ma mentre per A. Freud l’Io opera sul versante esterno, per la seconda l’Io funziona soprattutto nella dialettica con gli oggetti fantasmatici interni. La convergenza di base è costituita dall’importanza assunta dalla psicoanalisi infantile. In quest’ambito la diade madre/figlio assume una funzione essenziale. La madre è considerata il prototipo di tutti gli ulteriori rapporti oggettuali. Mentre i kleiniani delimitano un mondo interno come autonomo e sufficiente a rappresentare tutte le dinamiche psichiche, i seguaci della psicologia dell’Io appiattiscono il sociale sull’analogia con l’ambito naturale, implicita nel finalismo adattivo mediato dalle scienze della natura. La divergenza tra le due scuole si evidenzia sui metodi di indagine. Quella kleiniana privilegia l’approccio clinico centrato sul transfert. L’indagine parte dal sintomo per ricostruire a ritroso le alterazioni che debbono essere intervenute nel corso dello sviluppo precedente. L’ambito della ricerca è costituito dalla patologia dalla quale si desume il funzionamento normale. La scuola dell’Io preferisce affidarsi all’osservazione del comportamento infantile in condizioni normali che permettono di acquisire all’indagine le fasi preverbali dello sviluppo. Non è tanto il piccolo a essere osservato, quanto la diade madre/bambino. L’atteggiamento dell’osservatore psicoanalitico è profondamente diverso da quello psicologico. Nel primo caso vi è una attenzione meno finalizzata e selettiva, un controllo maggiore sulle distorsioni indotte dalla propria struttura cognitiva ed affettiva, una maggiore attenzione per le dinamiche di transfert. Infine, mentre la corrente kleiniana accentuerà, con Bion, le componenti filosofiche del suo pensiero, la corrente adattiva cercherà di realizzare forme di integrazione interdisciplinare: con l’etnologia e la sociologia (Erikson), con l’embriologia (Spitz), con la neurologia (Bowlby). OSSERVAZIONE PRIMI RAPPORTI OGGETTUALI. René Arpad Spitz ha tentato per primo di inquadrare lo sviluppo neonatale in una prospettiva interdisciplinare. Egli si concentra sulle fasi iniziali dello sviluppo umano, sul progressivo e reciproco definirsi dell’Io e dell’oggetto. In lui si ampliano i metodi di indagine perché accanto alla ricostruzione psicoanalitica intervengono nuove metodologie di osservazione longitudinale, l’uso di reattivi, il ricorso a registrazioni e riprese filmiche. L’economia pulsionale scompare a favore della prospettiva evolutiva dell’Io e del suo reciproco, l’oggetto. Inoltre Spitz non condivide il modello kleiniano della preesistenza dei fantasmi istintuali. Lo psichismo del neonato si trova, alla nascita, in uno stato di indifferenziazione. Lo sviluppo consiste nella transizione dal fisiologico al psicologia e, poi, dal narcisismo alla relazione oggettuale. Il processo avviene in tre tappe fondamentali, caratterizzate ciascuna da un “organizzatore”, termine preso a prestito dalla embriologia e che esprime il punto in cui convergono diverse linee di sviluppo integrandosi in un livello di crescente complessità gerarchica. Il I STADIO (0-3 mesi) è detto preoggettuale ed è caratterizzato dalla indifferenziazione tra mondo interno e mondo esterno. Il II STADIO (3-8 mesi) è denominato dell’oggetto precursore. Il primo organizzatore è la risposta del sorriso con la quale il bambino mostra di aver riconosciuto il viso

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umano. In questa fase l’affettività della madre conferisce all’esperienza del figlio la qualità della vita. E’ una relazione diadica in cui il neonato passa dalla passività alla attività, dalla recezione alla percezione. Si costituiscono elementi di Io. Questa esperienza aurorale è il prototipo di tutte le ulteriori relazioni sociali. Il linguaggio è solo una scarica pulsionale ma il gioco della ripetizione (ecolalia) connette la parola al piacere. Il III STADIO (8-15 mesi) definito dell’ oggetto libidico, fa emergere il secondo organizzatore: l’angoscia dell’8° mese. Di fronte ad un estraneo il neonato prova improvvisamente una acuta frustrazione per l’assenza della madre e rivela tentativi di sottrazione e di fuga. Il IV STADIO (dai 15 mesi in poi) è organizzato dal gesto e dalla parola “no”. Si tratta di un segno che, rendendo intenzionale un gesto istintuale (rooting), inaugura la comunicazione semantica. Ad ogni fase è possibile una disfunzione del rapporto madre/figlio cui fa riscontro un preciso quadro patologico. Il modello di Spitz fu confermato, nell’ambito dell’etologia, dagli studi di Hans Seyle sullo stress e la privazione sensoria degli animali. Anche i famosi esperimenti di Harry Harlow sulle scimmie Rhesus provarono la gravità dei disturbi provocati dalle carenze materne e rivelarono che persino presso gli animali il rapporto madre/figlio non è basato tanto sul bisogno quanto sull’affettività. L’ambito di ricerca delineato da Spitz sarà ripreso con maggiore rigore metodologico da Margaret S. Mahler. Il suo maggior contributo consiste nell’aver sistematizzato il campo sperimentale dell’osservazione infantile mettendo a punto una situazione e un metodo standardizzati. Nell’ambito della psicologia, il suo principale apporto risiede nella individuazione delle psicosi simbiotiche. L’interesse della Mahler si rivolge ai primissimi stadi dello sviluppo infantile; quelli che si svolgono entro i primi due anni e mezzo di vita, precedenti cioè all’acquisizione del linguaggio. La funzione dell’ascolto, svolta dalla psicoanalisi classica, è qui sostituita dallo sguardo, volto a cogliere l’interazione del bambino con la madre. La Mahler distingue tra nascita biologica e nascita psicologica. Nella prima fase, detta di “autismo normale” (sino alla IV/V settimana), il bambino è un puro organismo biologico, racchiuso in un guscio impermeabile agli stimoli esterni. Man mano che cadono le barriere che lo separano dagli stimoli esterni, l’Io infantile, ancora immaturo, si deve mettere alla prova nell’adattamento alla realtà. E’ la vera nascita psicologica. In questa fase “simbiotica”, che si protrae per due anni e mezzo, si verifica una fusione allucinatoria onnipotente con la rappresentazione della madre. Progressivamente si dipartono, da questa indistinzione, le linee evolutive di separazione che portano all’identità. Mentre le ricerche della Mahler colgono gli effetti della presenza materna, quelle di John Bowlby si centrano sulla carenze di cure materne. Egli sostenne che è essenziale che il bambino istituisca con la figura materna un legame intimo e profondo che arrechi ad entrambi gioia e soddisfazione. Nel caso di privazione materna, individuò un periodo particolarmente critico che va dal sesto mese ai 3/4 anni. Il bambino reagisce con un vissuto di lutto che si esprime in tre fasi: protesta, disperazione e distacco. Dal 1969 Bowlby cercò di elaborare una sintesi teorica delle sue osservazioni centrata sul concetto di “attaccamento”, con cui si intende una classe di comportamenti dotati di una dinamica specifica, centrale della costituzione della personalità. A questo scopo egli utilizzò i dati forniti dall’etologia, dalla teoria dei sistemi di controllo, dalla psicologia cognitivista. Il termine “attaccamento” si contrappone a quello di dipendenza con cui il comportamentismo classico descriveva il legame passivo del bambino con la madre nutrisce, ma si differenzia anche dal modello kleiniano, prevalentemente intrapsichico e predeterminato dalle fantasie inconsce. Per Bowlby il bambino nasce con una serie di predisposizioni tra le quali è compresa quella a socializzare. Il nuovo nato ha appetito di stimoli, appetito di affetti. In questo non differisce dagli altri animali, solo che, in ogni specie, il comportamento di attaccamento è determinato e proporzionale al bisogno di

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cure richiesto L’attaccamento di Bowlby appare analogo all’imprinting studiato negli animali da Lorenz (1935). Lo scambio madre/bambino, che avviene all’interno del legame di attaccamento, è straordinariamente vario ed attivo. La Bick studierà gli effetti del toccamento del neonato da parte della madre, considerandolo non solo una fonte di sicurezza ma anche come base del processo di identificazione. La ricerca di Bowlby si propone finalità di prevenzione e di intervento per evitare le conseguenze più dannose della perdita degli oggetti d’amore. Contrariamente alla psicoanalisi, il suo schema indagine non parte dal sintomo ma dalla situazione di deprivazione che egli considera sempre patogena. Il modello teorico proposto da Bowlby, privilegiando le dinamiche interattive, interpsichiche, a scapito di quelle intrapsichiche, si colloca agli antipodi di quello di Melanie Klein, sino ad estraniarsi dall’ambito epistemologico della psicoanalisi. Mary Ainsworth, invece, ha studiato il comportamento di attaccamento nei bambini ugandesi e ha individuato una sequenza di atti paradigmatici. Schaffer, infine, privilegia i processi cognitivi e presuppone l’esistenza di fattori genetici per cui il neonato è da sempre attirato verso gli altri membri della specie. All’interazione diadica madre/bambino si sostituisce quindi il rapporto bambino/ambiente considerato nella complessità del suo sistema di scambi. DONALD W. WINNICOTT E LA DIMENSIONE TRANSIZIONALE. In lui la teoria non è un’opzione a priori, ma un tentativo di risposta ai quesiti sorgenti della clinica. La sua pratica terapeutica rifiuta di attenersi a un modello predisposto, ritenendo che ogni caso comporti una modalità di intervento specifica. Winnicott si mantiene fedele alla centralità della sua teoria che è rappresentata dall’attività del gioco. Il rapporto psicoterapeutico è considerato come una esperienza di gioco condiviso dove i bambini manipolano delle cose, gli adulti combinano delle parole. L’analista non assiste al di fuori interpretando ma si immerge nel gioco. Un esempio è dato dalla tecnica dello scarabocchio dove terapeuta e bambino intervengono a turno sullo stesso disegno. Possiamo scorgere quella zona intermedia, dove i confini psichici precostituiti si fondono. Questa zona, detta spazio transazionale, costituirà la maggiore scoperta di Winnicott. Il rapporto madre/bambino viene ridefinito da Winnicott secondo nuovi parametri. La prima esperienza che il bambino ha della madre è quella di un involucro che lo contiene: è la madre/ambiente. Così come il bambino è normalmente attrezzato per superare senza danni l’esperienza della nascita, la madre possiede di solito un adattamento precostituito ai suoi compiti. Si ha così una convergenza tra eredità (potenzialità di sviluppo) e ambiente (insieme delle cure materne). Psicologicamente il contributo materno allo sviluppo, denominato holding, si basa sull’empatia. Il bambino abbandona la fusione originaria reagendo alle pressioni (impigment) che gli provengono dal suo ambiente. Più kantiano di Melanie Klein, Winnicott pensa al fantasma precursore dell’oggetto come a uno schema vuoto che acquista efficacia conoscitiva solo quando entra in rapporto con l’oggetto della percezione. Il primo oggetto trovato e scoperto dal bambino è la madre. La creatività è una allucinazione onnipotente: il bambino si illude di essere il creatore del suo oggetto. Saranno le inevitabili delusioni provocate dalla madre che faranno convergere sull’oggetto la distruttività infantile. Il bambino perde la sua onnipotenza ed acquisisce la permanenza dell’oggetto. L’assenza della madre non provoca più un vissuto di annichilimento ma può essere riempita da quella presenza fantastica che è l’oggetto transazionale, che non è la madre, non è il bambino ma rappresenta la possibilità della loro unione. L’oggetto transazionale scompare quando il bambino ritira le cariche affettive che lo animavano. Lo spazio transazionale e i processi transazionali che vi si svolgono permettono alla psicoanalisi di

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pensare alla cultura non solo come un insieme di processi difensivi (sublimazione) ma anche come creatività condivisa, come piacere. La zona dell’Io libera da conflitti, teorizzata da Hartmann in termini intrapsichici, acquista qui una funzione interpsichica. Se il bambino avrà potuto sperimentare questa dimensione, il suo Io immaturo, sorretto da quello materno, potrà affrontare la solitudine e raggiungere la capacità di “preoccuparsi” dei propri impulsi istintuali. Rispondendo ai bisogni della madre il neonato struttura, nel confronto dei propri impulsi, un involucro difensivo che tende a stabilire nella forma del falso Sé. Esso circonda e cela il vero Sé, la parte più vitale del soggetto, la fonte della spontaneità e della autenticità (il santuario dell’individuo). Winnicott ritiene che la maggior parte dei bambini siano attrezzati per superare le difficoltà evolutive e che lo sviluppo stesso contenga in sé potenziali virtù terapeutiche. La terapia, riservata soprattutto ai comportamenti antisociali, alle psicosi e ai casi borderline è volta a costituire, intorno al paziente, quell’ambiente disponibile e accogliente che gli è mancato nella prima infanzia. Nella elaborazione teorica, la prima infanzia serve per spiegare la possibilità della psicosi. L’altro è veramente tale solo quando abbiamo sperimentato che sopravvive alla nostra distruttività, che si sottrae alla nostra fantasia di onnipotenza. Questa visione fiduciosa nelle risorse spontanee dell’individuo si basa sulla convinzione di una natura buona, rivolta alla realizzazione dell’essere e sufficientemente equipaggiata a questo scopo. Winnicott ha mutato radicalmente l’etica della psicoanalisi: dalla difesa alla creatività, dall’adattamento alla felicità. La sua psicoanalisi persegue la pacificazione dei contrari nel nome della unità originaria dell’essere. Tra i seguaci di Winnicott, oltre allo psichiatra Laing, lo psicoanalista Masud Khan e Renata Gaddini. Lo psicoanalista Eugenio Gaddini, invece, condividendo la teoria e il metodo di Winnicott, ha esplorato i primi stati mentali del lattante, quelli che sono ancora strettamente correlati con le sensazioni organiche. In questo ambito egli ha operato una importante distinzione tra le fantasie espresse dal corpo e le fantasie come immagini mentali. Le prime non vengono ulteriormente elaborate e costituiscono il tessuto delle sindromi psicosomatiche. Un altro psicoanalista che si richiama all’insegnamento di Winnicott, H. Guntrip, tenterà di chiuderne le proposte in una teoria sistematica e conclusa quanto mai lontana dal senso di “avventura intellettuale” che l’opera di Winnicott comunica. La psicoanalisi nasce e si sviluppa come terapia della parola e che il linguaggio rimane, pertanto, il suo ambito specifico. L’indagine del legame madre/figlio ha, però, investito negli ultimi anni una fase evolutiva esclusa dalla comunicazione verbale, la fase della gestazione. L’indagine della prenatalità conduce la psicoanalisi ad una frontiera tra lo psichico e il biologico esterna alla sua mappa storica. Sinora la ricerca si è rivolta principalmente al bambino non ancora nato, ma sarebbe importante cogliere anche la recezione materna ai messaggi che le provengono dal suo prodotto, indagare la possibilità di “agire” tramite processi di pensiero, sulla gestazione stessa. L’intensità e la complessità del primo rapporto madre/figlio lascia presupporre che già durante la gravidanza intercorrano, oltre agli scambi biologici, relazioni emotive e mentali. Mauro Mancia, neurofisiologo e psicoanalista, media dai postkleiniani (Bion e Money-Kyrle), la possibilità che il bambino, alla nascita, possieda già preconfezioni innate, trasmesse geneticamente, che costituiscono il supporto biologico delle successive attività mentali. Mancia osserva che il bambino, nell’ultimo periodo della vita gestazionale, è in grado di percepire numerosi stimoli (tattili, uditivi e anche visivi) e di fornire risposte sempre più articolate. Quadri rappresentativi e informazioni sensoriali costituiscono un nucleo proto mentale. Infine, una sintesi molto produttiva è quella proposta da D.N. Stern, uno psichiatra newyorkese, che pone a confronto le conoscenze sull’infanzia emerse nella terapia psicoanalitica degli adulti (il bambino clinico) con i dati emersi nelle ricerche osservative sul bambino (il bambino storico).

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Teorie delle origini. Sono qui riuniti tre psicoanalisti (Bion, Matte Blanco, Fornari) che convergono nel comune riferimento a Melanie Klein ma che divergono fra di loro nei metodi e nelle teorie. Elemento unificante è il diretto riferimento al problema della verità. Melanie Klein, è da ricordare, affidava alla psicoanalisi unicamente la gestione del mondo psichico, lasciando al di fuori del suo perimetro quello fattuale. Se l’oggetto è l’imago precostituita, investita di volta in volta dalle preformate tendenze d’amore e di odio, tutto è parimenti vero e reale. Psicoanalizzare significa verificare nel concreto della situazione di cura la presa esplicativa della teoria ed esprimere il risultato raggiunto con modalità più artistiche che razionali. Un discorso poetico, considerato da Meltzer come essenziale alla comunicazione psicoanalitica, non mira a convincere ma a suggestionare, non a dimostrare ma a condividere. E’ accaduto che, per accedere ad esperienze alogiche, si siano dovuti abbandonare gli strumenti tradizionali della conoscenza ed i punti di riferimento condivisi. La sonda psicoanalitica (per usare un’espressione di Bion) ha captato e prodotto un materiale di esperienza non traducibile nei termini del linguaggio scientifico ma neppure nei termini del linguaggio comune. Pena l’evanescenza del reperto, è stato necessario costruire un linguaggio specifico, una “lingua bambina” al grado zero della simbolizzazione. Solo questo strumento improprio è parso in grado di cogliere quelle che Freud chiamava “rappresentazioni di cose”, alludendo al pensiero inconscio e psicotico, contrapposto alle “rappresentazioni di parole”, proprie dei processi inconsci e preconsci. Il pensiero psicotico, come quello onirico, si esprime prevalentemente in modo preverbale, per immagini. Come tale può essere colto soprattutto dalla fantasia e trasmesso dalla poetica. Qui, l’attrezzatura logica razionale, con il suo sistema di vincoli, ha rappresentato più un impaccio che un ausilio. E’ stato necessario piuttosto sollecitare il libero dispiegarsi della immaginazione, utilizzare le sue capacità di destrutturare, di prospettare inusuali connessioni, intentate mappe del sapere. Si è in tal modo prodotta (per trasporre un titolo di Maud Mannoni) una teoria come fantasia, come fiction, ove la sistematizzazione concettuale più forte si incontra con l’immaginazione più visionaria. Assistiamo alla riattivazione dei grandi temi della speculazione filosofica occidentale (la verità, il sapere, l’essere, il molteplice e l’uno) da un vertice completamente estraneo al suo perimetro costitutivo: dal punto di vista della follia. WILFRED BION E LA PRECOGNIZIONE DEL MONDO. Bion ritiene, con Freud, che esista, accanto alla realtà obiettiva, una realtà psichica (l’inconscio) altrettanto inconoscibile e dotata parimenti dello statuto di verità. Una verità che Bion colloca nel luogo kantiano della “cosa in sé” e che esprime con il segno “0”. Poiché la realtà dell’ignoto ci attraversa, l’uomo, in quanto persegue l’identità, è necessariamente impegnato al raggiungimento della verità. La verità è la posta della sua esistenza. La differenza tra il pensiero reale e una bugia consiste nel fatto che il pensatore è logicamente necessario per la bugia ma non per il pensiero vero … la bugia e il suo pensatore sono inseparabili. Il pensatore non ha importanza per la verità, ma la verità è logicamente necessaria al pensatore. (Vegetti Finzi cita Bion pag. 353). L’aspetto logico del mondo è un Logos impersonale al quale l’esistenza dell’uomo è indifferente. Altrettanto si può dire per l’inconscio che può agire secondo meccanismi impersonali. Il problema della verità si pone solo quando un oggetto tende alla sua affermazione. Poiché ci si approssima alla verità soprattutto nel riconoscimento dell’assenza, intesa come irraggiungibilità dell’oggetto d’amore, solitudine estrema, l’angoscia del nulla viene esorcizzata dalle strategie conoscitive che sono sempre

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trasformazioni dell’oggetto “0”. Ciò che noi conosciamo è sempre trasformazione di un reale in sé irraggiungibile (pag. 354). Poiché l’origine è inconoscibile, la verità è tale solo per approssimazione. Ma la verità è, oltre che imprendibile, insopportabile e le trasformazioni svolgono la funzione di disvelamento e di occultamento al tempo stesso (pag 354). Ma anche la scienza, benché si sottragga alle lusinghe della religione, rientra in quell’approssimazione al vero che cela più di quanto riveli. Bion elaborerebbe dunque una critica all’epistemologia scientifica. La nostra cultura, sorta sulla conoscenza dell’inanimato, sull’anatomia dell’animale ucciso, non è attrezzata a cogliere la vita. La debolezza del pensiero scientifico è analoga a quella del pensiero psicotico nella misura in cui, entrambi, si rivolgono ad un universo popolato esclusivamente di oggetti inanimati. Bion colloca al centro della sua esperienza e della sua teoria la psicosi. Lo psicotico bioniano incarna l’alienazione nella sua più radicale alterità. Il nuovo paradigma comporta la rappresentazione di una esperienza che sta prima e al di là della mente: il protomentale, una dimensione altra rispetto ai processi mentali. Bion del resto osserva che l’intelligenza umana si espressa per lo più nella forma della metis, nella capacità di imparare dai trucchi. Egli non solo pensa di abbandonare progressivamente il linguaggio scientifico per quello poetico, ma invita anche a dimenticare il sapere. Ciò non significa ignoranza, ma attraversamento del suo ambito verso quell’altrove costituito dal vivente. Impegnato in questa impresa sempre aperta, il suo discorso non satura mai la domanda con la risposta ma rinvia, di domanda in domanda, alla verità dell’interrogazione. La dimensione del protomentale si era presentato, inizialmente, nell’ambito del lavoro nei gruppi. L’esperienza del gruppo svolge un ruolo centrale nell’antropologia bioniana. Il gruppo non è riducibile alla somma degli individui che lo compongono. Bion definisce il gruppo come un fenomeno funzionale, una specie di organismo vivente finalizzato alla sua conservazione. Sono mossi da due tendenze: realizzare un compito comune e opporsi a questo scopo attraverso un’attività regressiva primaria. Nel gruppo diventano osservabili fenomeni mentali molto primitivi, peraltro presenti in ogni individuo. Sono situazioni favorevoli: l’inserimento dell’individuo nella coppia, nel gruppo, nella massa. Per Bion la vita di relazione comporta l’onnipresenza di una dimensione psicotica. Gli assunti di base individuati da Bion sono tre: dipendenza, attacco/fuga, accoppiamento. Il gruppo si trova in un assunto di base di dipendenza quando è convinto di essere riunito affinché qualcuno provveda a soddisfare tutte le sue necessità e desideri. L’assunto attacco/fuga poggia sulla convinzione che esista un nemico esterno da attaccare o distanziare. L’assunto di accoppiamento si basa sulla credenza inconscia del gruppo che le necessità attuali saranno risolte in futuro da un essere non ancora nato (speranza messianica). Queste dinamiche emotive coesistono con un altro livello di funzionamento che è quello del gruppo di lavoro, caratterizzato dal contatto con la realtà, dalla tolleranza alla frustrazione, dal controllo delle emozioni, dalla capacità di collaborazione. Ciascuno dei tre gruppi di base aggrega gli individui secondo una delle posizioni edipiche: il gruppo dipendente è costituito da gruppi in posizione materna; quello di attacco/fuga ha le caratteristiche del padre; quello di accoppiamento del figlio. Ogni gruppo tende a funzionare secondo determinate costanti ed avverte come distruttiva ogni idea nuova che comporti la possibilità di ciò che Bion chiama “mutamento catastrofico”. Il gruppo di lavoro usa il linguaggio per comunicare. L’individuo eccezionale, portatore di un’idea nuova, è sempre sentito come distruttivo per il gruppo. Bion lo definisce “mistico” per indicare il suo rapporto diretto con la verità, non mediato dalla istituzione. La relazione tra il mistico e il gruppo può essere conviviale (coesistenza senza influenza), simbiotica (retta dall’emozione di amore, odio o conoscenza), parassitaria (centrata sull’invidia). Comunque il gruppo cerca di contenere la sua forza esplosiva, rifiutando ciò che avverte come un’intrusione nel suo mondo interiore. L’analista deve saper attendere, porsi in quella che Bion chiama “capacità negativa”, una situazione di sospensione, di accettazione dell’assenza.

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E’ dall’assenza che Bion fa sorgere, nel neonato, la capacità di pensare. L’idea nasce nel luogo del non/seno, nell’assenza assoluta dell’oggetto di desiderio. Ma è necessario che il bambino acquisisca un apparato per pensare i pensieri, cioè che sia stato amato e fantasticato dalla madre, che abbia introiettato questo contenitore originario unitamente alle sue modalità di funzionamento. Per Bion accade un precoce scambio madre/bambino attraverso le variazioni chimiche o meccaniche subite dal liquido amniotico, continua poi nel corso della gravidanza attraverso comportamenti subtalamici. Il feto ama, odia, sogna, processi psichici che troveranno conferma in reperti elettroencefalografici attestanti un’attività mentale prenatale. Scopo di Bion è quello di trovare l’origine della psicosi. Al contempo egli propone un modello dell’apparato psichico che otterrà vasto seguito. Quando Bion intende dar conto della specificità dell’intelligenza umana, colloca la sua insorgenza, analogamente alla Klein, nel passaggio dalla fase paranoide a quella maniaco/depressiva. Bion, inoltre, accetta la teoria freudiana che la coscienza non elabora i dati di esperienza ma si limita a registrare le qualità psichiche secondo cui un oggetto si configura come buono o cattivo. Funziona come un organo di senso che registra sensazioni interne ed esterne senza elaborarle, destinate a rimanere elementi grezzi, non comprensibili, se non intervenisse la funzione alfa. Questa funzione connette i frammenti di realtà percepiti dalla coscienza e li rende pensabili. Questi contenuti non/pensieri, denominati “non/pensieri beta”, possono essere evacuati dal sistema motorio o trattenuti come ammassi inerti e incomprensibili. Gli elementi beta sono per lo più collegati ad impressioni sensoriali ed emotive dolorose come fame, dolore, invidia. La loro trasformazione in elementi alfa richiede il pensiero sognante della madre. Gli elementi beta sono la materia del pensiero, qualcosa di analogo alla “cosa in sé” di Kant o al “reale” di Lacan. In Bion, inoltre, viene meno il concetto di rimozione sostituito da quello,molto più mobile, di barriera di contatto. Rimane invece la funzione strutturante della colpa che viene da Bion strettamente connessa alla conoscenza. I miti più importanti, come quello di Edipo, dell’Eden, della Torre di Babele, esprimono la connessione tra sapere e colpevolezza. Bion conclude che la psicoanalisi non può contenere il campo psichico perché non è un contenitore ma una sonda. Bion si dedicò solo in seguito all’analisi individuale. Analista e paziente costituiscono un gruppo di accoppiamento che si basa su di una speranza messianica. La speranza è quella di un cambiamento catastrofico, desiderato e paventato a un tempo, che destrutturi e trasformi l’organizzazione psicotica. All’interno della coppia terapeutica, l’analizzato emette deboli e confusi segnali, elementi beta che l’analista accoglie in sé come una madre e restituisce elaborati in elementi alfa sottoforma di interpretazioni. L’interpretazione è, secondo Bion, rivelazione e, in quanto tale, è dotata di un potenziale trasformativo (pag 360).I contenuti dell’analisi dovranno essere elaborati in una apposita griglia atta ad individuare e connettere gli elementi simbolici. Il rapporto tra esperienza e teoria viene attribuito alla “immaginazione speculativa” che formula ipotesi da sottoporre successivamente alla prova dei fatti. Corrao e Neri hanno tentato un’analisi della consonanza che si è prodotta tra Bion e la nostra tradizione culturale e l’hanno individuata in questi caratteri: il senso storico, il senso mitico, il senso scientifico “galileiano”,il senso mistico, il senso estetico, la concezione critica dell’ “individuo eccezionale”. Bion, in definitiva, ha collaborato a modificare la posizione della psicoanalista accentuando le componenti materne, ricettive e contentive a scapito di quelle paterne, prevalentemente interpretative. Le analisi di Bion sui fenomeni regressivi nei piccoli gruppi (assunti di base) sono state applicate da Kenneth Rice allo studio delle organizzazioni sociali.

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IGNACIO MATTE BLANCO: GLI INSIEMI INFINITI. L’epistemologia della psicoanalisi viene perseguita e sistematizzata dallo psicoanalista cileno che la espone nella sua monumentale opera “L’inconscio come insiemi infiniti”. Freud aveva descritto l’attività onirica in termini di rappresentazione, spostamento, condensazione. Matte Blanco condivide questo livello dinamico ma contesta il modello esplicativo energetico utilizzato da Freud, che considera incompatibile con l’atemporalità dell’inconscio. Si propone allora di costruire uno schema teorico più avanzato. Con la Psicologia dell’Io, nota Matte Blanco, l’inconscio si è ridotto a semplice contenitore del rimosso ed i suoi contenuti si contraddistinguono, come nella psicologia prefreudiana, solamente per essere privi della qualità della coscienza. Si pone allora la necessità di un ritorno al senso della scoperta freudiana. L’impresa teorica di Matte Blanco poggia, come quella di Bion, su di un’esperienza particolare: la terapia della schizofrenia. Il funzionamento mentale dello schizofrenico procede, in buona parte, seguendo i principi della logica classica, aristotelica e scientifica, in parte lacerando questo tessuto ed introducendo una logica diversa, inquietante ed eversiva. In un certo senso la logica classica è propria del pensiero cosciente e l’altra dell’inconscio; in realtà non appaiono mai separate, ma solo come componenti di un sistema più vasto che Matte Blanco chiama “logica bivalente”. Ad un estremo si colloca il pensiero alogico che, come tale, è pensiero non pensato, adesione totale all’immobilità dell’essere, alla coesione del tutto; all’altro si colloca il pensiero scientifico, che coglie il divenire, ma disconosce la permanenza dell’essere. Comunque, pensare è sempre usare una griglia logica le cui maglie sono più o meno larghe ma, senza la quale, non vi è che la realtà inconoscibile della cosa in sé. Matte Blanco fa dell’inconscio essenzialmente una dinamica, una logica non topologica, una funzione indipendente dai suoi contenuti. Essa organizza aggregati logici che vanno da un massimo ad un minimo di generalizzazione. Tra gli insiemi costruiti dalla logica dell’inconscio che compaiono più frequentemente nella clinica, ricordiamo: la classe delle persone buone, la classe delle persone cattive, quella dei padri, delle madri, degli oggetti penetranti, delle esplosioni e così via. Ogni insieme è concettualmente infinito ed inseribile in un altro insieme infinito. Gli insiemi infiniti sono retti da due principi: il principio di simmetria, per cui l’inconscio tratta la relazione inversa come identità, cioè considera le relazioni asimmetriche come simmetriche; il principio di generalizzazione, secondo cui l’inconscio tratta l’individuale come se fosse membro di un insieme che contiene altri elementi. Da un punto di vista genetico, il pensiero nasce all’interno del processo di soggettivazione, dal momento in cui la frustrazione intacca il primitivo omogeneo rapporto madre/figlio. Improvvisamente il bambino, prima immerso nella fusionalità, avverte che il Seno/Madre è altro da sé. Primo compito del pensiero è superare l’angoscia prodotta dalla sparizione dell’oggetto primario. A questo livello, pensare provoca due antinomie: se il bambino si identifica con l’oggetto, si fonde nell’altro e smarrisce la sua individualità; se invece assume l’oggetto dentro sé, si confronta con il terrore della sparizione dell’oggetto. Sono due modalità onnipotenti di vivere l’ambivalenza. La prima alternativa comporta di morire, la seconda di uccidere. Entrambe esprimono l’origine dell’esperienza religiosa. Poiché per il bambino la madre è tutto, essa è sperimentata come il Dio infinito di fronte al quale non resta che l’annientamento panico o il deicidio. Questa drammatizzazione fantastica, chiamata “condensazione strutturale”, costituisce la matrice del processo di individuazione. Matte Blanco non si limita a proporre un modello del funzionamento mentale, ma ci offre una antropologia, una rappresentazione della duplice natura divisa e indivisa dell’uomo. L’inconscio, in quanto coglie la permanenza dell’essere, la coesistenza dei contrari, è il luogo della verità, la coscienza, invece, attenta al divenire, è il luogo dell’opinione fallace benché indispensabile alla pensabilità dell’essere. Si possono presupporre due logiche in cui la prima, infinita, ingloba la seconda, finita. Ma non si può estendere questo modello all’essere, considerandolo uno, eterno, indivisibile e, al contempo, molteplice, temporale, differenziato. Potremmo dire che la differenza è illusoria e che solo l’unità è

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vera. Ma poiché la follia si colloca dalla parte della verità non si comprende perché il pensiero falso dovrebbe curare quello vero. Osserva Severino che “se si è fuori dalla verità nessuna via potrà condurre a essa. Chi cerca la verità non può trovarla (ed è soprattutto la scienza a cercare la verità). A chi bussa non sarà aperto. La verità è invece è la casa natale”. FRANCO FORNARI: IL CODICE AFFETTIVO. Egli ha elaborato una teoria autonoma, l’analisi coinemica. Fornari è particolarmente attento al discorso filosofico sino a riconoscere nei filosofi i suoi interlocutori privilegiati. Egli, inoltre, privilegia (conseguentemente agli assunti della scuola kleiniana) il mondo interno rispetto alla, secondaria, realtà oggettiva. Nelle sue opere sulla guerra egli sostiene che, storicamente, i conflitti sono stati vissuti come difesa da un nemico esterno. Ma il nemico esterno, alla luce dell’indagine psicoanalitica, si rivela una proiezione del pericolo interno immensamente più minaccioso. Vi sono paure arcaiche, primordiali, che Fornari chiama “Terrificanti primario” che comportano fantasie di distruzione totale di sé e del mondo. Quello di “natura” è il concetto più forte e ambiguo tra quanti organizzano il campo teorico di Fornari. Al tempo degli studi sulla guerra, la natura è intesa come ambiente che fa vivere, e quindi come simbolo materno. L’esistenza di una pulsione di morte, che appare evidente all’interno della cultura ebraica di Freud e di Melanie Klein, del loro urbano e borghese pessimismo, risulta inammissibile nel mutato orizzonte di Fornari, sorretto da una visione sostanzialmente naturalistica, cattolica e provvidenzialistica del mondo. Nel 1976 Fornari pubblica “Simbolo e codice”, ove esplicita la differenza tra processo psicoanalitico e analisi istituzionale. Mentre la psicoanalisi tradizionale cerca di tradurre una esperienza individuale nel suo significato inconscio attraverso il processo privato del transfert, l’analisi istituzionale propone la costituzione di un codice simbolico pubblico e consensuale, un codice minimo costituito dalla competenza affettiva comune a tutti gli uomini. (pag. 369). Il suo modello psicoanalitico (psicoanalisi ostensiva) si basa sulla constatazione che ogni nostro operare, anche il più intenzionale e cosciente, si basa su categorie affettive metastoriche, indipendenti dalle nostre esperienze. Esse costituiscono un patrimonio filogenetico comune a tutti gli uomini e sono chiamate da Fornari coinemi. Egli paragona i coinemi alle idee platoniche o alle categorie a priori di Kant. Il modello più immediato è dato dalle preconcezioni di Bion. I coinemi, analoghi a ciò che Freud aveva chiamato “denotati simbolici del sogno”, sono: il padre, la madre, il bambino, il fratello, gli organi sessuali maschili e femminili, il rapporto sessuale, la nascita, la morte, la nudità, il corpo umano. La loro funzione consiste nell’anticipare, attraverso imago, le unità elementari delle relazioni di parentela (parentemi) e dell’istinto di riproduzione (erotemi). I coinemi si collegano fra loro dando luogo a costellazioni di immagini (il padre buono,il padre madre, la bisessualità, ecc.). Nel 1984, Fornari affiderà all’anima la funzione di “scrigno degli affetti” I messaggi del codice vivente ricevono una prima ricezione durante il sonno, sottoforma di simboli onirici. La rimozione, che Freud attribuiva all’azione censoria svolta dalla coscienza nei confronti dei contenuti inaccettabili dell’inconscio, acquista in Fornari un significato fisiologico e funzionale. Viene descritta infatti come rimozione circadiana. Ciò che anima l’inconscio, secondo Fornari, non è il desiderio erotico ma la volontà di significazione. I significati inconsci (coinemi) tendono alla espressione sia attraverso il sogno sia attraverso il linguaggio. La significazione ha origine, secondo Fornari, nella vita intrauterina. Nella sua indagine sulla vita intrauterina, egli si riferirà agli studi di neurofisiologia prenatale e del sonno ma, con maggior convinzione, farà appello alla potenza evocativa del mito.

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Qualsiasi espressione significante, sostiene Fornari, sia essa conscia o inconscia, poggia sul medesimo sistema di referenti affettivi: i coinemi. La teoria coinemica si configura come una teoria generale della struttura profonda del linguaggio. Il valore del pensiero di Fornari non risiede certo nella scientificità intesa secondo i canoni neopositivi, quanto nell’aver rappresentato i grandi temi della verità e del bene in modo aderente alle speranze e ai timori della nostra epoca. La dimensione in cui il suo pensiero si dispiega è quella del mito come rivelazione del senso essenziale e complessivo del mondo, capace di suscitare una adesione profonda che si colloca al di là delle contingenze storiche. “Nella definizione dello statuto della propria verità, la psicoanalisi quindi si trova più a dipendere dalla verità del mito che non da quella della filosofia e della scienza, ma per farla accettare in era scientifica, la deve vestire di scienza” (pag. 371).L’apparato scientifico si rivela allora un artificio retorico di fronte all’urgenza di convincere e trasformare gli uomini. (pag. 372). Una critica a Bion, Matte Blanco e Fornari fu mossa da Davide Lopez. Egli rimprovera questi autori per aver temuto, analogamente a Freud, il potenziale libidico insito nel sintomo e per essersi affrettati a neutralizzarlo nelle forme interpretative e simbolizzanti. Analogamente a Reich, l’individuo gli appare funzionale a una società alienante. Ad esso Lopez contrappone la persona. La psicanalisi in Argentina. La psicanalisi Argentina ha mantenuto legami strettissimi con l’Europa. Qui, le teorie freudiane e soprattutto il pensiero e il metodo di Melanie Klein vengono assimilati e ripensati in modo originalissimo. Sempre qui, il riconoscimento di una dimensione irrazionale e inconscia dell’uomo e la sua elaborazione scientifica, permettevano di riconnettere la cultura contemporanea alle origine autoctone, di cui restavano in vita tradizioni mitiche e pratiche rituali ispirate a una visione magica del mondo. Apertura all’antropologia culturale, impegno sociale, costante interazione della teoria con la clinica, intenso legame associativo tra psicoanalisti, sono le molteplici dimensioni entro le quali vengono assimilate e ridefinite le proposte teoriche provenienti dall’Europa. Gli psicoanalisti argentini, in maggioranza medici, sin dagli anni trenta del secolo scorso misero alla prova le capacità esplicative e terapeutiche del nuovo sapere al di fuori dell’ambito convalidato delle nevrosi. Affrontarono, infatti, in una prospettiva psicoanalitica, le psicosi, le malattie organiche, le terapie della prima infanzia, i problemi della formazione degli analisti. Data la convergenza di temi ed esperienze, è evidente la prossimità tra la psicoanalisi argentina e l’opera di Melanie Klein, che divenne prevalente in tutto il Sudamerica. Angel Garma, medico spagnolo, ebbe una grande influenza sulla diffusione della psicoanalisi in America Latina. Pur accettando la centralità del conflitto intrapsichico (tra le istanze dell’Es, Io e Super-io), egli sottolineò le frustrazioni che derivano all’individuo dalla realtà esterna, dalla difficoltà di mutare i rapporti sociali esistenti. Difficoltà aggravate dal fatto che già nella prima infanzia, nei confronti dei genitori, vengono introiettate energie aggressive che modificano permanentemente l’equilibrio psichico, instaurando modalità masochistiche di reazione. Le stesse che egli trovò operanti nei disturbi psicosomatici, soprattutto nelle ulcere gastro-duodenali e nelle cefalee. Il suo allievo, A. Rascovsky, estese poi la psicoanalisi allo studio dell’epilessia, dell’obesità e delle affezioni endocrine.

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Il primo psicoanalista argentino di nascita fu Celes Ernesto Carcamo che, formatosi a Parigi, ritornò in patria nel 1939. Egli scrisse un saggio su “Il serpente piumato. Psicoanalisi della religione Maya-Azteca”, che ben rappresenta la connessione tra l’antropologia freudiana e la cultura india. Marie Glass de Langer, ebrea viennese e comunista, riparò in Sudamerica per sfuggire al nazismo. Il suo libro “Maternità e sesso” (1951) si inscrive negli studi delle psicoanaliste donne sul costituirsi della identità femminile. La Langer adotta il modello kleiniano della doppia figura materna (buona e cattiva), ma lo fa interagire, oltre che sui casi clinici, sul patrimonio mitico della Grecia classica, sulle favole, sui miti moderni (come quella del bambino arrostito) e di società fredde (le isole Marchesi). La figura centrale, per riconoscimento unanime, è quella di E. Pichon-Rivière (1907-1977). La sua prima presa di posizione fu contro la psichiatria organicistica e il suo riduttivo connettere la malattia psichica a una presunta causa organica. Il disturbo mentale è invece da riportare prevalentemente a difficoltà interattive, a conflitti insormontabili tra l’individuo e il suo ambiente. L’attenzione peri nessi psichici interni (la mente ha un’organizzazione gruppale), in costante interazione con i legami associativi interni, fa di Pichon-Rivière un pioniere della psicoanalisi relazionale. Poiché la patologia si produce nel gruppo, anche la terapia deve assumere un contesto collettivo dove il paziente possa disaggregare le strutture difensive ed apprendere nuove, più elastiche modalità di reazione. Lavoro di sintesi effettuato da Raffaele Fontanella dal seguente testo: Vegetti Finzi Silvia, Storia della psicoanalisi, Oscar Saggi Mondadori, Milano 1990. Sintesi effettuata da luglio 2008 a gennaio 2009.