Appunti per il corso di Elettrodinamica: (A.A....

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Appunti per il corso di Elettrodinamica: (A.A. 1993/94) Roberto Casalbuoni Dipartimento di Fisica dell’Universita’ di Firenze, 50019, Firenze Sezione INFN, 50019 Firenze Contents I. Introduzione. 3 II. Unit` a naturali. 12 III. Il propagatore non-relativistico. 14 IV. Le propriet` a formali del propagatore. 19 V. La matrice di scattering. 25 VI. Scattering coulombiano. 30 VII. Le teorie relativistiche. 35 VIII. La teoria dei buchi di Dirac. 40 IX. Soluzioni dell’equazione di Klein-Gordon. 46 X. Il propagatore relativistico. 49 XI. La matrice S. 56 XII. Formalismo lagrangiano per l’equazione di Klein-Gordon. 60 XIII. L’interazione elettromagnetica. 62 XIV. Lo scattering coulombiano relativistico. 70 Electronic address: [email protected]

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  • Appunti per il corso di Elettrodinamica:

    (A.A. 1993/94)

    Roberto Casalbuoni∗

    Dipartimento di Fisica dell’Universita’ di Firenze, 50019, FirenzeSezione INFN, 50019 Firenze

    Contents

    I. Introduzione. 3

    II. Unità naturali. 12

    III. Il propagatore non-relativistico. 14

    IV. Le proprietà formali del propagatore. 19

    V. La matrice di scattering. 25

    VI. Scattering coulombiano. 30

    VII. Le teorie relativistiche. 35

    VIII. La teoria dei buchi di Dirac. 40

    IX. Soluzioni dell’equazione di Klein-Gordon. 46

    X. Il propagatore relativistico. 49

    XI. La matrice S. 56

    XII. Formalismo lagrangiano per l’equazione di Klein-Gordon. 60

    XIII. L’interazione elettromagnetica. 62

    XIV. Lo scattering coulombiano relativistico. 70

    ∗Electronic address: [email protected]

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    XV. L’equazione d’onda per il fotone. 72

    XVI. Scattering di particelle scalari. 77

    XVII. Scattering Compton. 88

    XVIII. L’equazione di Dirac. 93

    XIX. Covarianza dell’equazione di Dirac. 96

    XX. Soluzioni dell’equazione di Dirac per particella libera. 101

    XXI. Limite non relativistico dell’equazione di Dirac. 108

    XXII. Coniugazione di carica, inversione temporale e CPT. 111

    XXIII. Normalizzazione delle soluzioni dell’equazione di Dirac. 117

    XXIV. Il propagatore di Dirac e la matrice S. 119

    XXV. L’interazione elettromagnetica per una particella di Dirac. 122

    XXVI. Scattering e−µ− → e−µ− (caso con spin). 125

    XXVII. Conservazione dell’elicità ad alte energie. 132

    XXVIII. Ampiezze di elicità. 138

    XXIX. Scattering Compton (caso con spin). 140

    XXX. Le proprietà del protone. 145

    XXXI. Il modello a quark. 150

    XXXII. Scattering elastico elettrone-protone. 163

    XXXIII. Scattering anelastico elettrone-protone. 173

    XXXIV. Il modello a partoni. 178

    XXXV. Le funzioni di struttura. 187

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    XXXVI. Cromodinamica quantistica (QCD). 194

    XXXVII. Correzioni di ordine superiore. 203

    XXXVIII. Lamb-shift e g − 2. 208

    XXXIX. Rinormalizzazione. 212

    XL. Interazioni deboli. 220

    XLI. Probabilità di decadimento e decadimento del µ. 226

    XLII. I bosoni vettoriali intermedi. 233

    XLIII. Il modello standard per le interazioni elettro-deboli. 241

    XLIV. l meccanismo di Higgs e modello standard. 249

    XLV. Determinazione di sin2 θ. 259

    XLVI. Scattering elettrone positrone in coppie di fermioni. 266

    XLVII. Proprietà della Z. 273

    A. Calcolo di un integrale 280

    I. INTRODUZIONE.

    Nell’arco di questo corso ci occuperemo dello studio dei processi fondamentali che avven-

    gono tra particelle elementari. Il primo problema é dunque quello di definire le particelle

    elementari e le loro interazioni. Il concetto di particella, o di costituente fondamentale della

    materia, si è evoluto in modo drammatico nel corso dei secoli ed in un certo senso non può

    dirsi completamente acquisito. Possiamo ricordare che Anassimene di Mileto pensava alla

    materia come costituita da acqua, fuoco, aria e terra, mentre 25 secoli dopo Mendeleev la

    immaginava costituita da circa 100 elementi. L’enorme regolarità della tavola di Mendeleev

    fu successivamente spiegata immaginando i nuclei atomici costituiti da protoni (in numero

    Z) e da neutroni (in numero A−Z, dove A è il cosi detto numero atomico), rispettivamentedi carica elettrica pari ad e (e = 1.602 × 10−19C.) e zero. I neutroni ed i protoni, detti

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    genericamente nucleoni, sono tenuti assieme da una forza, detta forza forte, entro distanze

    dell’ordine di 10−13 cm. (raggio tipico nucleare). Evidentemente questa forza deve essere

    molto più forte della forza elettromagnetica che altrimenti renderebbe instabile il nucleo. I

    nuclei si legano poi agli elettroni (in numero pari ai protoni) in modo da formare i familiari

    atomi neutri che altro non sono che gli elementi di Mendeleev. In questo modo la strut-

    tura della tavola di Mendeleev viene riportata alla descrizione delle interazioni tra 3 soli

    componenti, il protone (p), il neutrone (n) e l’elettrone (e).

    Nel 1896, con la scoperta della radioattività fatta da Bequerel, la situazione diventava

    più complessa. Nel decadimento β un nucleo con A nucleoni e Z protoni, (A,Z), decade in

    nucleo di tipo (A,Z + 1) con emissione di un elettrone (raggio β):

    (A,Z) → (A,Z + 1) + e− (1.1)

    Questo processo può anche pensarsi direttamente a livello di nucleoni, come il decadimento

    di un neutrone

    n→ p+ e− (1.2)

    Osservando lo spettro di energia degli elettroni emessi in questo decadimento si può verificare

    che l’energia non è conservata. Pauli nel 1930 osservò che si poteva salvare la conservazione

    dell’energia pur di ammettere che nel processo prendesse parte un’ulteriore particella neutra,

    che fu chiamata neutrino da Fermi. Dunque il decadimento del neutrone deve essere visto

    come un decadimento a 3 corpi:

    n→ p+ e− + ν̄e (1.3)

    Occorre anche osservare che nel 1930 le uniche particelle conosciute erano il protone e l’e-

    lettrone, mentre il neutrone sarebbe stato scoperto solo due anni dopo da Chadwick, però

    Rutherford ne aveva ipotizzato l’esistenza sin dal 1920. Il processo di decadimento β non

    può essere attribuito all’interazione forte, infatti la lunga vita media del neutrone (circa

    10 minuti) implica che l’interazione responsabile debba essere molto più debole della stessa

    interazione elettromagnetica.

    A partire dal 1947 con la scoperta del pione (mesone π) e poi successivamente nel 1952

    con la cosi detta ∆++, il numero delle particelle soggette ad interazioni forti cominciò ad

    aumentare fino a raggiungere un numero dell’ordine di duecento nel giro di pochi anni.

    Tutte queste particelle sono instabili con vite medie molto piccole, dell’ordine di 10−23 s.

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    Questo fatto porta alla conclusione che l’interazione responsabile di questi decadimenti sia

    la stessa interazione forte responsabile del legame nucleare. Inoltre si arriva anche alla

    conclusione che queste particelle (i barioni) siano stati eccitati del protone e del neutrone, e

    che questi ultimi non siano dunque particelle elementari ma dotati di gradi di libertà interni.

    I barioni, che sono un sottoinsieme degli adroni (particelle che interagiscono fortemente),

    sono caratterizzati da avere spin semiintero, contrariamente ai mesoni (l’altra sottoclasse dei

    barioni) che hanno spin intero. In opposizione agli adroni si hanno i leptoni, costituiti da

    elettrone e neutrino, che sono caratterizzati oltre che dal fatto di essere leggeri (il protone

    ha una massa circa 2000 volte più grande dell’elettrone ed il neutrino ha probabilmente

    massa nulla), anche dalla circostanza di non essere soggetti ad interazione forte. L’elettrone

    ha interazioni elettromagnetiche e deboli, mentre il neutrino ha solo interazioni deboli (è

    elettricamente neutro). Anche la classe dei leptoni era destinata ad ingrandirsi, infatti nel

    1936 fu scoperto il muone che ha le stesse proprietà dell’elettrone, salvo avere una massa

    circa 200 volte più grande, inoltre successivamente è stato scoperto una nuova specie di

    neutrino associato al muone, ed infine un altro leptone pesante, il τ con il suo neutrino.

    Sebbene anche i leptoni siano cresciuti in numero, le loro proprietà sono consistenti con il

    considerarli come oggetti privi di struttura interna, e quindi sono considerati a tutt’oggi

    particelle elementari. Per quanto invece riguarda gli adroni, gli esperimenti effettuati a

    SLAC alla fine degli anni ’60 hanno mostrato in modo inequivocabile la struttura composta

    del protone, ed inoltre hanno confermato il modello a quark che era stato introdotto nel

    1964 da Gell-Mann e Zweig. Nel modello originario erano presenti tre tipi di quark, il qurk

    up (u), il quark down (d) ed il quark strano (s). Le cariche elettriche di questi quark sono

    rispettivamente +2/3, −1/3 e −1/3. I quark u e d sono quelli importanti per quanto concernela materia ordinaria, infatti il protone è costituito da uud, mentre il neutrone da udd. Il

    quark strano è invece necessario per spiegare le cosi dette particelle strane, quali i mesoni

    K, o i barioni Λ. Ma il fatto che convinse maggiormente i fisici dell’esistenza dei quark, fu la

    scoperta della particella J/Ψ nel Novembre del 1974 (quel periodo viene oggi ricordato come

    la rivoluzione di Novembre). Infatti questa particella è uno stato composto di una coppia

    di quark charm (c) la cui esistenza era stata predetta da Glashow. Il quark charm ha carica

    +2/3 e può essere considerato come un partner del quark strano. Successivamente è stata

    osservata un’altra risonanza che è stata interpretata come uno stato composto di una nuova

    coppia di quark, il bottom (b) di carica −1/3. Infine la teoria attuale prevede l’esistenza di

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    un sesto quark, il top (t), di carica +2/3, partner del bottom. Ci sono evidenze indirette

    sull’esistenza e sulla massa di questa particella dalle osservazioni fatte all’acceleratore LEP

    del CERN di Ginevra, e ci sono un certo numero di eventi attribuibili al top, osservati

    al FERMILAB di Chicago. È probabile che ne venga annunciata ufficialmente l’esistenza

    nel corso del 1994. La situazione dei quark è analoga a quella dei leptoni, cioè tutte le

    osservazioni sono consistenti con il considerarli privi di struttura interna. Dunque, in questo

    corso, chiameremo particelle elementari i quark ed i leptoni (per una descrizione delle loro

    proprietà vedi la tabella nella pagina successiva).

    Dobbiamo ora discutere un momento le interazioni tra queste particelle. Abbiamo già

    visto che si hanno tre tipi di forze, quella elettromagnetica, la debole e la forte. Quest’ultima

    deve essere ora pensata come una interazione tra quark. La forza di interazione tra i nucleoni,

    è invece il residuo dell’interazione tra quark, cosi come la forza di Van der Waals è la forza

    residua tra atomi neutri della forza elettrica tra i loro costituenti. Avremo infine l’interazione

    gravitazionale che però risulta essere di gran lunga la più debole. Queste sono le forze a

    tutt’oggi conosciute e tutti i fenomeni fin qui noti sono riconducibili a questo schema di

    particelle elementari e di forze. Discuteremo più avanti come si descrivano queste forze ed a

    quali fenomeni danno luogo. È però opportuno fare adesso alcune considerazioni sugli ordini

    di grandezza in gioco.

    Gli esperimenti che vengono effettuati nel campo delle particelle elementari sono tipica-

    mente esperimenti di scattering. Vedremo in seguito in maggior dettaglio la loro descrizione

    ed il tipo di informazioni che permettono di ottenere. Per il momento ci limitiamo a descri-

    vere in modo molto qualitativo ciò che viene fatto. L’ idea è quella di far urtare un fascio

    preparato di particelle su di un bersaglio e contare le particelle diffuse. È comodo però

    definire una quantità che sia specifica dell’interazione e non dipenda dall’intensità del fascio

    o dal numero di centri diffusori. Questa grandezza è la sezione d’urto. Essa è definita come

    il rapporto tra il numero di particelle diffuse per unità di tempo e centro di scattering, N

    ed il numero di particelle incidenti per unità di tempo e di superficie trasversale al fascio, n.

    Quindi, se Ni è il numero di particelle incidenti nel tempo ∆t (vedi Fig. 1),

    Ni = nS∆t (1.4)

    e se Nd è il numero di particelle diffuse nel tempo ∆t e per centro di scattering

    Nd = N∆t (1.5)

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    Nome Spin Numero Barionico Numero Leptonico Carica Massa

    Quarks

    u 1/2 1/3 0 + 2/3 2 ÷ 8 MeV

    d 1/2 1/3 0 - 1/3 5 ÷ 15 MeV

    c 1/2 1/3 0 + 2/3 1.3 ÷ 1.7 GeV

    s 1/2 1/3 0 - 1/3 100 ÷ 300 MeV

    t 1/2 1/3 0 + 2/3 175 ± 6 GeV

    b 1/2 1/3 0 - 1/3 4.7 ÷ 5.3 GeV

    Leptoni

    e 1/2 0 1 -1 0.511 MeV

    νe 1/2 0 1 0 ≤ 7.3 eV

    µ 1/2 0 1 -1 105.7 MeV

    νµ 1/2 0 1 0 ≤ 0.27 MeV

    τ 1/2 0 1 -1 1784 MeV

    ντ 1/2 0 1 0 ≤ 35 MeV

    si ha per la sezione d’urto

    σ =N

    n=

    (Nd/∆t)

    (Ni/(S∆t))=NdNiS (1.6)

    È uso introdurre la sezione d’urto differenziale allorché si misurino le particelle scatterate

    per unità di angolo solido. Se invece si misura il totale delle particelle diffuse si parla di

    sezione d’urto totale. In ogni caso la sezione d’urto è una grandezza delle dimensioni di

    una superficie, ed almeno nei casi semplici è essenzialmente data dall’area geometrica del

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    bersaglio. Questo succede in particolare quando questa sia la sola grandezza con dimensioni

    di un’area che entra nel problema. Per esempio, se si illumina un bersaglio con luce avente

    lunghezza d’onda molto maggiore delle dimensioni del bersaglio, la sezione d’urto è data da

    σ ≈ 4πR2 (1.7)

    dove R è la dimensione lineare del bersaglio stesso. Per esempio, se si fanno scatterare fotoni

    su elettroni, con

    λfotone >> λCompton =/h

    mec(1.8)

    cioè il caso dello scattering Thompson, si trova

    σThompson =2

    34πR2cl (1.9)

    dove Rcl è il raggio classico dell’elettrone, definito come il raggio che l’elettrone dovrebbe

    avere se tutta la sua massa fosse di origine elettromagnetica

    e2

    4π�0Rcl= mec

    2 (1.10)

    da cui

    Rcl =e2

    4π�0mec2(1.11)

    È importante osservare che il raggio classico si può scrivere in modo leggermente diverso

    introducendo la lunghezza d’onda Compton dell’elettrone

    Rcl =e2

    4π�0/hc

    /h

    mec= αλeCompton (1.12)

    dove si è introdotta la costante di struttura fine

    α =e2

    4π�0/hc(1.13)

  • 9

    Poiché e2/(4π�0) ha le dimensioni di una energia per una lunghezza si vede che α è adi-

    mensionale (anche /hc ha le dimensioni di un’energia per una lunghezza). La quntità che

    è misurata in modo migliore negli esperimenti è proprio questa costante, piuttosto che la

    carica elettrica dell’elettrone. Il suo valore (misurato nel limite di bassa energia del fotone

    qui considerato) è

    α =1

    137.0359895(61)(1.14)

    (le due cifre in parentesi sono l’incertezza sulle ultime due cifre). Usando

    me = 9.1093897(54)× 10−31 Kg

    /h = 1.05457266(63)× 10−34 J sec, c = 2.99792458 × 108 mt/sec (1.15)

    (ricordiamo che adesso la velocità della luce è presa come unità di misura per le lunghezze,

    cioè il metro è definito come la distanza percorsa dalla luce in un tempo pari a 1/299792458

    sec), si trova

    λeCompton =/h

    mec= 3.862 × 10−13 mt = 386.2 fermi (1.16)

    (1 fermi = 10−13cm). Pertanto

    Rcl = 2.82 fermi (1.17)

    e

    σThompson = 66.5 × 10−26 cm2 = 665 mbarn (1.18)

    (1 barn= 10−24 cm2, 1 mbarn = 10−3 barn). Con la decomposizione effettuata del raggio

    classico dell’elettrone, la formula dello scattering Thompson ammette l’intepretazione pit-

    torica data in Fig. 2 (vedremo poi in realtà come questa interpretazione possa rendersi

    rigorosa). Il fotone e l’elettrone iniziali interagiscono con un’ampiezza di probabilità pro-

  • 10

    porzionale a√α dando luogo ad un elettrone intermedio che successivamente produce un

    fotone, ancora con ampiezza di probabilità proporzionale a√α. La sezione d’urto, che è

    proporzionale alla probabilità per un fotone ed un elettrone iniziali di produrre ancora un

    fotone ed un elettrone, risulta a sua volta proporzionale a

    (√α×

    √α)2 = α2 (1.19)

    Notiamo anche che la condizione che qui abbiamo richiesto per lo scattering Thompson,

    λfotone >> λeCompton, implica

    λfotone =2πc

    ω>>

    /h

    mec=⇒ /hω

  • 11

    da cui

    αH ≈ 1 ÷ 10 (1.25)

    Questo ci dà una misura della forza dell’interazione forte. Un risultato consistente con questa

    interpretazione si può ottenere anche studiando la vita media di decadimento delle risonanze

    adroniche, cioè di quegli stati che abbiamo detto potersi interpretare come eccitazioni del

    protone. Poiché l’accoppiamento è di ordine uno, ci possiamo aspettare che la vita media di

    un adrone sia data dalla scala di tempi tipica del problema, cioè

    τ ≈λpCompton

    c=

    /h

    mpc2= 6.8 × 10−25 sec (1.26)

    (λpCompton = 2.04 × 10−14 cm = 0.2 fermi). Infatti le tipiche vite medie misurate nei de-cadimenti adronici sono dell’ordine di 10−23 sec. Le vite medie che si osservano invece nei

    decadimenti elettromagnetici (quali π0 → 2γ) sono di circa 104 ÷ 106 volte più lunghe. Equesto è in accordo con quanto visto sopra, dato che gli accoppiamenti forti sono 105 ÷ 106

    volte più intensi, se si assume (τelettr.τforte

    )≈(αHα

    )2(1.27)

    Come abbiamo già osservato all’inizio, oltre alle interazioni forti ed elettromagnetiche ci sono

    anche le interazioni deboli. I decadimenti corrispondenti danno luogo a vite medie molto

    più lunghe che vanno dai circa 10 minuti del neutrone ai 10−12 sec. per π− → e− + ν̄e o ai10−10 sec. per Σ+ → n+π+. Per analogia introduciamo un accoppiamento debole, αW , taleche (

    τforteτdebole

    )≈(αWαH

    )2≈ 10

    −23

    10−10= 10−13 (1.28)

    Quindi, con αH ≈ 1 segueαW ≈ 10−6 (1.29)

  • 12

    Fino a questo momento non abbiamo specificato quale sia l’effettivo meccanismo di inte-

    razione responsabile delle interazioni forti o delle interazioni deboli. Abbiamo visto però

    che nel caso delle interazioni elettromagnetiche si suppone che l’interazione avvenga tramite

    i fotoni. Noi considereremo l’interazione forte a livello dei quark e quella debole a livello

    dei quark e dei leptoni. Come si vedrà l’interazione forte è assunta simile a quella elettro-

    magnetica, ma invece di avvenire tramite una singola particella vettoriale a massa zero (il

    fotone), avviene tramite 8 particelle vettoriali a masssa nulla (i cosi detti gluoni). Per quanto

    concerne l’interazione debole invece l’interazione avviene tramite 3 particelle vettoriali ma

    aventi massa dell’ordine di 100 GeV (lo Z0 ed i W±). Menzioniamo qui questo fatto perché

    come apparirà chiaro, l’interazione debole è tale a causa del fatto che i mediatori di queste

    interazioni hanno massa, e non a causa della piccolezza dell’accoppiamento. Mostreremo

    infatti che la relazione precedente va piuttosto reinterpretata come

    αW =α

    (mW/mp)2≈ 10−6 (1.30)

    II. UNITÀ NATURALI.

    Nella prima sezione abbiamo visto che in tutte le formule entrano le due costanti fonda-

    mentali, c e /h, la velocità della luce e la costante di Planck rispettivamente. Quando si sia

    in situazione di questo genere è sempre conveniente scegliere un sistema di unità di misura

    (detto di unità naturali) in cui queste costanti abbiano un valore numerico uguale ad uno.

    Quindi in tutto il corso adotteremo il sistema di unità in cui

    c = /h = 1 (2.1)

    Per quanto riguarda le unità elettriche assumeremo ulteriormente �0 = 1 (sistema di

    Heaviside-Lorentz). Dalla relazione �0µ0 = 1/c2 segue allora che anche µ0 = 1. In questo

    sistema la forza di interazione Coulombiana si scrive

    |�F | = e1e24π

    1

    |�x1 − �x2|2(2.2)

    Inoltre le equazioni di Maxwell assumono la forma più semplice possibile. Per esempio la

    legge di Gauss è semplicemente

    �∇ · �E = ρ (2.3)

    dove ρ è la densità di carica.

  • 13

    Se consideriamo le grandezze fisiche introdotte nella sezione precedente abbiamo

    λCompton =1

    m, α =

    e2

    4π(2.4)

    ed analogamente per la vita media forte si ha

    τ ≈ 1mp

    (2.5)

    Come vediamo tutte le grandezze possono essere espresse in dimensioni di energia, di massa,

    di lunghezza o di tempo indifferentemente. Infatti si hanno le seguenti equivalenze

    ct ≈ =⇒ tempi ≈ lunghezzeE ≈ mc2 =⇒ energie ≈ masseE ≈ pv =⇒ energie ≈ impulsiEt ≈ /h =⇒ energie ≈ (tempi)−1 ≈ (lunghezze)−1

    Se si ha una grandezza data in unità di energia, per scriverla in unità di lunghezza si può

    osservare che il prodotto c/h ha dimensioni [E · ]. Dunque

    c/h = 3 · 108 mt · sec−1 · 1.05 · 10−34 J · sec = 3.15 · 10−26 J · mt (2.6)

    e ricordando

    1 eV = e · 1 = 1.602 · 10−19 J (2.7)

    segue

    c/h =3.15 · 10−261.6 · 10−13 MeV · mt = 197 MeV · fermi (2.8)

    Da cui

    1 MeV−1 = 197 fermi (2.9)

    Tramite questa relazione possiamo convertire immediatamente un’energia data in MeV (che

    è la tipica unità di misura usata in particelle elementari) in fermi, notiamo a questo proposito

    cha anche le masse delle particelle vengono date in MeV . Per esempio, la lunghezza d’onda

    Compton dell’elettrone sarà

    λeCompton =1

    me≈ 1

    0.5 MeV≈ 200 MeV · fermi

    0.5 MeV≈ 400 fermi (2.10)

    È dunque sufficiente ricordarsi la relazione 1 = 200 MeV · fermi. Inoltre da

    c = 3 · 1023 fermi · sec−1 (2.11)

  • 14

    si ha

    1 fermi = 3.3 · 10−24 sec (2.12)

    e quindi

    1 MeV−1 = 6.58 · 10−22 sec (2.13)

    Infine usando

    1 barn = 10−24 cm2 (2.14)

    segue da (2.9)

    1 GeV−2 = 0.389 mbarn (2.15)

    III. IL PROPAGATORE NON-RELATIVISTICO.

    In questa sezione introdurremo il metodo del propagatore per trattare i problemi di scat-

    tering. Inizieremo la discussione dal caso non-relativistico perché solo dopo aver ben capito i

    problemi in questo caso saremo in grado di discutere cosa succede allorché le energie in gioco

    nel problema sono sufficentemente grandi da produrre coppie di particelle-antiparticelle. Il

    problema della produzione di coppie può essere affrontato in modo completo facendo uso

    della teoria quantistica dei campi. Noi faremo uso invece del metodo del propagatore che

    evita l’introduzione di un cospicuo bagaglio di nozioni matematiche ma che rende molto

    esplicita la fisica del problema tramite una opportuna reinterpretazione delle antiparticelle.

    In un tipico problema di scattering siamo interessati alla descrizione delle soluzioni del-

    l’equazione di Schrödinger che si evolvono nel tempo a partire da certe condizioni iniziali

    assegnate. La domanda è quella di calcolare l’ampiezza di probabilità per una particella,

    che nel lontano passato è descritta da una soluzione libera (per esempio da un autostato

    dell’impulso), dopo aver subito l’azione di un potenziale, dia luogo ancora ad uno stato

    libero nel lontano futuro (descritto ancora da un autostato dell’impulso). Questa doman-

    da corrisponde ad una idealizzazione di un esperimento di scattering in cui si prepara un

    fascio di particelle con impulso più o meno ben definito, successivamente si fa interagire il

    fascio con un bersaglio, ed infine si vanno ad osservare a grande distanza dalla regione di

    interazione, le particelle diffuse. In queste condizioni sperimentali è in genere una buona

    approssimazione considerare le particelle entranti ed uscenti come autostati dell’impulso.

    Per risolvere questo tipo di problema dovremo per prima cosa, data la condizione al con-

    torno a t = −∞, studiare l’evoluzione della funzione d’onda a t = +∞ nel potenziale dato.

  • 15

    Successivamente, a partire da quest’ultima potremo calcolare l’ampiezza di probabilità per

    trovare il nostro sistema in un dato stato a t = +∞. Prima di passare ad una descrizioneformale del problema, possiamo cercare di visualizzare il processo a partire dal principio di

    Huygens. L’idea è molto semplice, se noi conosciamo la ψ(�x , t) ad un particolare istante t,

    la potremo calcolare ad ogni istante successivo considerando ogni punto �x al tempo t come

    una sorgente di onde sferiche che si propagano a partire da questo stesso punto. Ovviamente

    l’ampiezza dell’onda in (�x ′, t′) sarà proporzionale all’ampiezza in (�x , t). Indicando questa

    costante di proporzionalità con iG(�x ′, t′; �x , t), avremo

    ψ(�x ′, t′) = i∫

    d3�x G(�x ′, t′; �x , t)ψ(�x , t), t′ > t (3.1)

    La quantità G(�x ′, t′; �x , t) è nota come funzione di Green o propagatore. Essa ci permette

    di determinare l’evoluzione temporale della funzione d’onda e quindi la sua conoscenza è

    equivalente a risolvere l’equazione di Schrödinger. Vediamo dunque che in generale il calcolo

    del propagatore sarà estremamente complicato. D’altra parte ci aspettiamo di poter calcolare

    esattamente il propagatore libero G0(�x′, t′; �x , t). Faremo adesso vedere in modo euristico

    come sia possibile calcolare perturbativamente il propagatore in presenza di un’interazione.

    Ovviamente la condizione essenziale è che questa interazione sia piccola (in qualche senso

    che specificheremo nel seguito). Per fare questa discussione cominciamo con il supporre di

    avere un potenziale di interazione V (�x 1, t1) che è diverso da zero solo per un intervallo di

    tempo piccolo ∆t1 nell’intorno di t1. Prima dell’stante t1 la funzione d’onda si evolverà in

    modo libero e la sua propagazione sarà descritta da G0. Nell’intervallo ∆t1 avremo invece(i∂

    ∂t1−H0

    )ψ(�x 1, t1) = V (�x 1, t1)ψ(�x 1, t1) (3.2)

    Qui H0 è l’hamiltoniana libera data da

    H0 = −1

    2m�∇2 (3.3)

    Il potenziale V crea una perturbazione all’onda libera φ. Ponendo ψ = φ+ ∆ψ, avremo che

    ∆ψ sarà del primo ordine in ∆t1 e quindi sostituendo

    i∂

    ∂t1∆ψ(�x 1, t1) = V (�x 1, t1)φ(�x 1, t1) +H0∆ψ(�x 1, t1) + V∆ψ(�x 1, t1) (3.4)

    Integrando questa equazione al primo ordine in ∆t1 si ha (nota che ∆ψ∆t è del secondo

    ordine)

    ∆ψ(�x 1, t1) = −iV (�x 1, t1)φ(�x 1, t1)∆t1 (3.5)

  • 16

    Questa onda addizionale, dopo l’istante t1, continuerà a propagarsi in modo libero. Quindi

    al tempo t′ > t1 si avrà

    ψ(�x ′, t′) = φ(�x ′, t′) + ∆ψ(�x ′, t′) (3.6)

    Ma come osservato, sia φ che ∆ψ si evolvono adesso in modo libero. Se la condizione iniziale

    è data a t < t1, si avrà

    φ(�x ′, t′) = i∫

    d3�x G0(�x′, t′; �x , t)φ(�x , t) (3.7)

    e

    ∆ψ(�x ′, t′) =∫

    d3�x 1 G0(�x′, t′; �x 1, t1)V (�x 1, t1)φ(�x 1, t1)∆t1 (3.8)

    Si ha dunque, sostituendo nella (3.6)

    ψ(�x ′, t′) = φ(�x ′, t′) +∫

    d3�x 1∆t1G0(�x′, t′; �x 1, t1)V (�x 1, t1)φ(�x 1, t1) (3.9)

    od anche

    ψ(�x ′, t′) = i∫

    d3�x[G0(�x

    ′, t′; �x , t) +

    +

    ∫d3�x 1∆t1G0(�x

    ′, t′; �x 1, t1)V (�x 1, t1)G0(�x 1, t1; �x , t)]φ(�x , t) (3.10)

    Da questa espressione possiamo leggere il propagatore corretto per effetto della perturbazione

    V :

    G(�x ′, t′; �x , t) = G0(�x′, t′; �x , t) +

    ∫d3�x 1∆t1G0(�x

    ′, t′; �x 1, t1)V (�x 1, t1)G0(�x 1, t1; �x , t)

    (3.11)

    Il grosso vantaggio di questa descrizione è quello di avere una interpretazione molto semplice

    in termini di eventi spazio-temporali, fatto che ci permetterà di estendere facilmente il

    formalismo al caso relativistico. L’interpretazione è data in Fig. 4.

    Il propagatore consiste di due termine, il primo dà la propagazione libera da (�x , t) a

    (�x 1, t1), il secondo rappresenta invece una propagazione libera della particella da (�x , t) a

    (�x 1, t1) dove subisce uno scattering da parte del potenziale V (�x 1, t1) (che agisce in modo

    praticamente istantaneo al tempo t1). Successivamente la particella si propaga ancora in

    modo libero da (�x 1, t1) a (�x′, t′). Nel secondo termine si deve anche integrare su tutti i

    possibili punti �x 1 dove il potenziale è diverso da zero. Mostriamo adesso come si estende il

    formalismo se il potenziale ha una dipendenza temporale arbitraria. È abbastanza intuitivo

  • 17

    che ciò che dovremo fare è di effettuare anche un’integrazione su tutti i possibili tempi in

    cui V è diverso da zero. Per convicersene assumiamo che oltre a V (�x 1, t1) diverso da zero

    nell’intorno di t1 esista anche un altro potenziale V (�x 2, t2) diverso da zero in un intorno

    ∆t2 di t2, con t2 > t1. Per semplicità introduciamo adesso notazioni quadri-dimensionali.

    Poniamo x′ = (�x ′, t′), x = (�x , t) e denotiamo con i = (�x i, ti) il punto in cui agisce il

    potenziale V . Il potenziale V (2) darà un contributo all’onda ψ(x′) che si potrà calcolare

    ancora con la (3.8)

    ∆ψ(x′) =∫

    d3�x 2 G0(x′; 2)V (2)ψ(2)∆t2 (3.12)

    Possiamo calcolare ψ(2) dall’espressione (3.9) che vale per ogni t′ > t1,

    ∆ψ(x′) =∫

    d3�x 2 G0(x′; 2)V (2)∆t2

    [φ(2) +

    ∫d3�x 1∆t1G0(2; 1)V (1)φ(1)

    ]=

    =

    ∫d3�x 2∆t2G0(x

    ′; 2)V (2)φ(2) +

    +

    ∫d3�x 1 d

    3�x 2∆t1∆t2G0(x′; 2)V (2)G0(2; 1)V (1)φ(1) (3.13)

    Questi due contributi vanno aggiunti ai due precedenti e sono rappresentati in Fig. 5.

    Vediamo come il secondo termine produce un doppio scattering da parte del potenziale.

    L’onda totale al tempo t′ > t2 > t1 sarà allora

    ψ(x′) = φ(x′) +∫

    d3�x 1∆t1G0(x′, 1)V (1)φ(1) +

    ∫d3�x 2∆t2G0(x

    ′, 2)V (2)ψ(2) =

    = φ(x′) +∫

    d3�x 1∆t1G0(x′, 1)V (1)φ(1) +

    ∫d3�x 2∆t2G0(x

    ′, 2)V (2)φ(2) +

    +

    ∫d3�x 1∆t1 d

    3�x 2∆t2G0(x′, 2)V (2)G0(2, 1)V (1)φ(1) (3.14)

    Se adesso scomponiamo il generico potenziale V (t) in tanti potenziali V (ti) con t1 < t2 <

    · · · < tn nell’intervallo temporale t < t′, dovrebbe essere abbastanza evidente come si

  • 18

    generalizza la precedente formula

    ψ(x′) = φ(x′) +∑

    i

    ∫d3�x i∆tiG0(x

    ′; i)V (i)φ(i) +

    +∑ti>tj

    ∫d3�x i∆ti d

    3�x j∆tjG0(x′; i)V (i)G0(i, j)V (j)φ(j) +

    +∑

    ti>tj>tk

    ∫d3�x i∆ti d

    3�x j∆tj d3�x k∆tk G0(x

    ′; , i)V (i)G0(i; j)G0(j; k)V (k)φ(k) +

    + · · · (3.15)

    Ricordando infine che ciascuna φ(i) si evolve liberamente a partire da x

    φ(i) =

    ∫d3�x G0(i; x)φ(x) (3.16)

    si ha

    ψ(x′) = i∫

    d3�x[G0(x

    ′; x) +∑

    i

    ∫d3�x i∆tiG0(x

    ′; i)V (i)G0(i; x) +

    +∑ti>tj

    ∫d3�x i∆ti d

    3�x j∆tjG0(x′; i)V (i)G0(i, j)V (j)G0(j; x) + · · ·

    ]φ(x) (3.17)

    L’espressione per il propagatore sarà allora

    G(x′; x) = G0(x′; x) +∑

    i

    ∫d3�x i∆tiG0(x

    ′; i)V (i)G0(i; x) +

    +∑ti>tj

    ∫d3�x i∆ti d

    3�x j∆tjG0(x′; i)V (i)G0(i, j)V (j)G0(j; x) + · · · (3.18)

  • 19

    Adesso vorremmo prendere il limite continuo di questa relazione. È però scomoda la re-

    strizione che si ha sull’ordinamento temporale ti > tj. Possiamo però omettere questa

    restrizione se definiamo il propagatore libero G0(x′; x) nullo per t′ < t:

    G0(x′; x) = 0 per t′ < t (3.19)

    Il propagatore cos̀ı definito è chiamato propagatore ritardato. Il suo significato fisico è

    connesso alla causalità, cioè nessuna delle onde che ha origine al tempo ti per effetto del-

    l’interazione può apparire ad un tempo precedente a ti. In altri termini G0 può solo pro-

    pagare le particelle in avanti nel tempo. Con l’uso del propagatore ritardato, nel limite di

    una interazione continua nel tempo, possiamo sostituire le somme sugli intervalli temporali

    discretizzati, con un integrale temporale. Avremo allora

    G(x′; x) = G0(x′; x) +∫

    d4x1G0(x′; x1)V (x1)G0(x1; x) +

    +

    ∫d4x1 d

    4x2G0(x′; x1)V (x1)G0(x1, x2)V (x2)G0(x2; x) + · · · (3.20)

    dove abbiamo posto

    d4x = d3�x dt (3.21)

    Da questa espressione vediamo che anche G(x′; x) è nullo per t′ < t. Se supponiamo che il

    precedente sviluppo converga, possiamo effettuare esplicitamente la somma. Infatti possiamo

    riscrivere l’espressione per G(x′; x) nel seguente modo

    G(x′; x) = G0(x′; x) +∫

    d4x1G0(x′; x1)V (x1)

    [G0(x1; x) +

    +

    ∫d4x2G0(x1, x2)V (x2)G0(x2; x) + · · · (3.22)

    ed osservare che l’espressione in parentesi non è altro che il propagatore stesso

    G(x′; x) = G0(x′; x) +∫

    d4x1 G0(x′; x1)V (x1)G(x1; x) (3.23)

    IV. LE PROPRIETÀ FORMALI DEL PROPAGATORE.

    Nel paragrafo precedente abbiamo derivato in modo euristico il propagatore e alcune

    delle sue proprietà. Vogliamo adesso mostrare come sia possibile costruirlo direttamente a

    partire dall’equazione di Schrödinger. Il tipo di problema che si ha è che viene assegnata

    la funzione d’onda del problema ad un certo istante (usualmente −∞) e vogliamo costruire

  • 20

    la soluzione ad un generico istante successivo. Poiché l’equazione di Schrödinger è lineare

    anche la soluzione del nostro problema sarà lineare rispetto alla funzione d’onda iniziale.

    Scriveremo dunque

    θ(t′ − t)ψ(x′) = i∫

    d3�x G(x′; x)ψ(x) (4.1)

    La θ(t) è l’usuale funzione a gradino:

    θ(t) = 1, t > 0

    θ(t) = 0, t < 0 (4.2)

    e ricordiamo che ha la rappresentazione integrale

    θ(t) = lim�→0+

    i

    ∫ +∞−∞

    e−iωtω + i�

    dω (4.3)

    Inoltre ha la proprietà che la sua derivata è una funzione δ di Dirac

    dθ(t)

    dt=

    1

    ∫ +∞−∞

    e−iωtdω = δ(t) (4.4)

    Con questa assunzione per la soluzione, vogliamo vedere quali siano le proprietà della G

    e mostrare che essa coincide infatti con la soluzione dell’equazione (3.23). Se applichiamo

    l’operatore di Schrödinger alla (4.1) si trova(i∂

    ∂t′−H(x′)

    )θ(t′ − t) = iδ(t′ − t)ψ(x′) = i

    ∫d3�x

    (i∂

    ∂t′−H(x′)

    )G(x′; x)ψ(x) (4.5)

    da cui confrontando

    δ(t′ − t)ψ(x′) =∫

    d3�x

    (i∂

    ∂t′−H(x′)

    )G(x′; x)ψ(x) (4.6)

    cioè (i∂

    ∂t′−H(x′)

    )G(x′; x) = δ4(x′ − x) (4.7)

    Dobbiamo dunque risolvere questa equazione differenziale con l’ulteriore condizione al

    contorno

    G(x′; x) = 0, t′ < t (4.8)

    Se l’hamiltoniana H è della forma H = H0 + V , potremo scrivere(i∂

    ∂t′−H0(x′) − V (x′)

    )G(x′; x) = δ4(x′ − x) (4.9)

  • 21

    od anche (i∂

    ∂t′−H0(x′)

    )G(x′; x) = δ4(x′ − x) + V (x′)G(x′; x) (4.10)

    Introducendo la funzione di Green per il problema libero (V = 0)(i∂

    ∂t′−H0(x′)

    )G0(x

    ′; x) = δ4(x′ − x); G0(x′; x) = 0, t′ < t (4.11)

    si può integrare la (4.9), ottenendo

    G(x′; x) = G0(x′; x) +∫

    d4x1 G0(x′; x1)V (x1)G(x1; x) (4.12)

    Queste manipolazioni si semplificano di gran lunga se usiamo un formalismo operatoriale.

    Se pensiamo a G(x′; x) come all’elemento di matrice di un operatore G tra autostati dell’o-

    peratore di quadri-posizione xµ, l’equazione (4.7) ci dice semplicemente che G è l’operatore

    inverso dell’operatore di Schrödinger. Infatti l’espressione si può riscrivere come∫d4x′′〈x′|L− V |x′′〉〈x′′|G|x〉 = 〈x′|x〉 (4.13)

    dove

    〈x′|L− V |x′′〉 =(i∂

    ∂t′−H0(x′) − V (x′)

    )δ4(x′ − x) (4.14)

    In termini di operatori l’equazione per G diventa allora

    (L− V )G = 1 (4.15)

    Riscrivendo questa equazione nella forma

    LG = 1 + V G (4.16)

    Poichè G0 è l’operatore inverso di L, moltiplicando questa equazione per G0 si trova

    G = G0 +G0V G (4.17)

    che è giusto l’equazione (4.12) in forma operatoriale.

    Vediamo ora che la funzione di Green ritardata è completamente determinata se si conosce

    un set completo di soluzioni dell’equazione di Schrödinger. Sebbene questa proprietà non

    sia molto utile in pratica, serve invece per determinare alcune proprietà caratteristiche del

    propagatore. Supponiamo dunque di avere un set di soluzioni che soddisfino la relazione di

    completezza ∑n

    ψn(�x′, t)ψ�n(�x , t) = δ

    3(�x ′ − �x ) (4.18)

  • 22

    La funzione di Green è data allora dall’espressione

    G(x′; x) = −iθ(t′ − t)∑

    n

    ψn(x′)ψ�n(x) (4.19)

    dove la somma è una somma generalizzata sui numeri quantici, cioè è una somma sugli

    autovalori discreti ed un integrale sugli autovalori continui. Infatti questa verifica in modo

    ovvio la condizione al contorno (4.8), e l’equazione del moto (4.7)

    −i(i∂

    ∂t′−H0(x′) − V (x′)

    )θ(t′− t)

    ∑n

    ψn(x′)ψ�n(x) = δ(t

    ′− t)∑

    n

    ψn(x′)ψ�n(x) = δ

    4(x′−x)

    (4.20)

    Da questa rappresentazione segue subito la relazione (4.1), infatti

    i

    ∫d3�x G(x′; x)ψm(x) = θ(t′ − t)

    ∑n

    ψn(x′)∫

    d3�x ψ�n(x)ψm(x) = θ(t′ − t)ψm(x′) (4.21)

    dove si è usato l’ortogonalità delle autofunzioni. Poiché ogni funzione d’onda si può scrive-

    re come una combinazione lineare di autofunzioni, la (4.1) segue per una generica funzione

    d’onda. Come abbiamo già osservato, il significato fisico di questa equazione è che il propaga-

    tore ritardato propaga avanti nel tempo le soluzioni dell’equazione di Schrödinger. Possiamo

    ottenere una relazione simile alla precedente per la funzione d’onda complessa coniugata:

    i

    ∫d3�x ′ ψ�m(x

    ′)G(x′; x) = θ(t′ − t)∑

    n

    (∫d3�x ′ψ�m(x

    ′)ψn(x′))ψ�n(x) = θ(t

    ′ − t)ψ�m(x)

    (4.22)

    Questa relazione mostra invece che il propagatore ritardato propaga indietro nel tempo

    la complessa coniugata dell’equazione di Schrödinger. Questo si può capire fisicamente se

    consideriamo una soluzione stazionaria che avrà una dipendenza temporale exp(−iEt). Lasua complessa coniugata ha allora una dipendenza data da exp(−iE(−t)). Od anche seguardiamo all’equazione di Schrödinger e ne prendiamo la complessa coniugata, vediamo

    che per potenziali reali questo è equivalente a mandare t→ −t.Calcoliamo adesso la funzione di Green nel caso libero. Poiché l’hamiltoniana si riduce a

    H0 = −1

    2m�∇2 (4.23)

    ed è quindi invariante per traslazioni spaziali, il propagatore può dipendere solo dalla dif-

    ferenza delle coordinate. Infatti in queste condizioni l’onda che arriva al punto x′ essendo

    emessa ad x può essere funzione solo di x′ − x. Se introduciamo la trasformata di Fourier

  • 23

    di G0

    G0(x′ − x) =

    ∫d3p dω

    (2π)4e−iω(t

    ′ − t) + i�p · (�x ′ − �x )G0(ω, �p) (4.24)

    Se applichiamo l’operatore di Schrödinger a questa espressione si ha(i∂

    ∂t′+

    1

    2m�∇2x′

    )G0(x

    ′ − x) =

    =

    ∫d3p dω

    (2π)4e−iω(t

    ′ − t) + i�p · (�x ′ − �x )(ω − �p

    2

    2m

    )G0(ω, �p) (4.25)

    Poiché questa espressione deve dare la delta di Dirac si ha per ω = �p2/2m

    G0(ω, �p) =1

    ω − �p2

    2m

    (4.26)

    Evidentemente occorre assegnare una regola per trattare la singolarità che si ha nel

    propagatore. Questa regola discende dalla condizione al contorno

    G0(x′ − x) = 0, t′ < t (4.27)

    La condizione si può soddisfare facilmente specificando l’integrazione nel piano complesso

    della variabile ω. La rappresentazione integrale per G0 converge nel semipiano superiore

    di ω per t′ − t < 0. Poiché in questo caso il risultato dell’integrazione deve essere nullo èsufficiente prendere il cammino di integrazione un poco sopra all’asse reale (vedi Fig. 6).

    Se invece t′ − t > 0 possiamo chiudere l’integrale nel semipiano inferiore. Questo è allora

    equivalente a spostare leggermente il polo nel semipiano inferiore. Scriveremo cioè

    G0(x′ − x) = lim

    �→0+

    ∫d3�p

    (2π)3ei�p · (�x

    ′ − �x )∫dω

    e−iω(t′ − t)

    ω − �p2

    2m+ i�

    (4.28)

  • 24

    Possiamo ora mostrare, effettuando l’integrazione su ω, che si riproduce la relazione (4.19).

    Consideriamo infatti l’integrale su ω

    lim�→0+

    ∫dω

    e−iω(t′ − t)

    ω − �p2

    2m+ i�

    (4.29)

    ed effettuiamo il cambiamento di variabile di integrazione ω′ = ω − �p 2/2m

    lim�→0+

    ∫dω′

    e−iω′(t′ − t)e−i(t

    ′ − t)�p 2/2mω′ + i�

    =

    = e−i(t′ − t)�p 2/2m lim

    �→0+

    ∫dω

    e−iω(t′ − t)

    ω′ + i�=

    = iθ(t′ − t)e−i(t′ − t)�p 2/2m (4.30)

    Poiché gli autovalori di H0 sono

    E�p =�p 2

    2m(4.31)

    si ottiene, sostituendo nella (4.28)

    G0(x′ − x) = −iθ(t′ − t)

    ∫d3�p

    (2π)3ei�p · (�x

    ′ − �x ) − iE�p(t′ − t) (4.32)

    Se introduciamo le autofunzioni normalizzate di H0

    φ�p =1

    (2π)3/2e−iE�p t+ i�p · �x (4.33)

    segue

    G0(x′ − x) = −iθ(t′ − t)

    ∫d3�p φ�p(�x

    ′, t′)φ��p(�x , t) (4.34)

    Nel caso in cui H è indipendente dal tempo, è interessante studiare la trasformata di Fourier

    temporale della G. In questo caso il problema ha autostati dell’energia che formano un set

    completo. Possiamo allora scrivere la (4.19) nella forma

    G(x′; x) = −iθ(t′ − t)∑

    n

    e−iEn(t′ − t)ψn(�x ′)ψ�n(�x ) (4.35)

    Usando la rappresentazione integrale della funzione θ (eq. (4.3)) si trova

    G(x′; x) =∑

    n

    ∫dω

    e−i(En + ω)(t′ − t)

    ω + i�ψn(�x

    ′)ψ�n(�x ) =

    =∑

    n

    ∫dω′

    e−iω′(t′ − t)

    ω′ − En + i�ψn(�x

    ′)ψ�n(�x ) (4.36)

  • 25

    Introducendo allora la trasformata di Fourier in energia

    G(ω; �x ′; �x ) =∫

    dt′ G(x′; x)eiω(t′ − t) (4.37)

    si trova

    G(ω; �x ′; �x ) = lim�→0+

    ∑n

    ψn(�x′)ψ�n(�x )

    ω −En + i�(4.38)

    L’interesse di questa espressione è che mostra come la conoscenza del propagatore equivalga

    in effetti alla soluzione completa dell’equazione di Schrödinger. Infatti vediamo come G(ω)

    abbia una struttura analitica con poli alla posizione degli autovalori discreti dell’hamilto-

    niana, (in corrispondenza degli autovalori continui ha un taglio) con residuo dato dal proiet-

    tore sull’autostato. Infatti considerando l’operatore G come definito in (4.13) l’espressione

    precedente si legge

    G(ω) = lim�→0+

    ∑n

    |ψn〉〈ψn|ω − En + i�

    (4.39)

    od anche

    G(ω) = lim�→0+

    1

    ω −H + i� (4.40)

    Quando espresso in questa forma il propagatore viene anche detto l’operatore risolvente.

    V. LA MATRICE DI SCATTERING.

    In questa sezione ci occuperemo di costruire la matrice di scattering. Come si è già osser-

    vato in un esperimento di scattering di particelle elementari si prepara un fascio di particelle,

    tipicamente in uno stato di impulso definito, ad un tempo che è molto maggiore dei tempi di

    interazione tipici, e si va ad osservare il risultato dello scattering a tempio molto posteriori,

    cercando ancora stati finali di particelle con impulso definito. In sostanza vogliamo calco-

    lare l’ampiezza di probabilità per trovare nello stato evoluto, per effetto dell’interazione da

    t = −∞ a t = +∞, una componente ad impulso definito. In altri termini, detta

    ψ(+)i (�x , t) (5.1)

    quella soluzione dell’equazione completa di Schrödinger si riduce a t = −∞ all’onda pianaincidente, cioè

    limt→−∞

    ψ(+)i (�x , t) = lim

    t→−∞φi(�x , t) (5.2)

  • 26

    dove

    φi(�x , t) =1

    (2π)3/2e−iEit+ i�ki · �x (5.3)

    la matrice S o matrice di scattering è definita da

    Sfi = limt→∞

    ∫d3�x φ�f(�x , t)ψ

    (+)i (�x , t) (5.4)

    dove

    φf(�x , t) =1

    (2π)3/2e−iEf t+ i�kf · �x (5.5)

    (naturalmente non è necessario usare autostati di impulso come stati asintotici, questo di-

    pende da come si prepara il fascio incidente e che cosa si vuol rivelare dopo l’interazione).

    Questo modo di analizzare il problema è analogo all’impostazione classica in cui si assume

    che la particella incidente abbia asintoticamente (t = −∞) un certo impulso e ci chiediamodopo l’interazione quale sarà asintoticamente l’impulso finale (vedi Fig. 7). L’effetto della

    diffusione può essere visto come una trasformazione dallo stato di impulso iniziale allo stato

    di impulso finale, che nel caso di scattering elastico si riduce ad un cambiamento della dire-

    zione di propagazione. La descrizione dello scattering si riduce in questo caso a specificare

    l’angolo di cui sarà ruotata la direzione iniziale per effetto dell’interazione (o la distribuzione

    di probabilità). Questo è l’analogo classico della matrice di scattering quantistica che può

    essere vista (come vedremo meglio tra poco) come una trasformazione unitaria tra gli stati

    asintotici a (t = −∞) e gli stati asintotici a (t = +∞). È dunque chiaro che dobbiamo dareuna descrizione accurata di questi stati asintotici. La descrizione che appare più conveniente

    è quella di assumere che gli stati asintotici siano stati liberi. In generale non è detto che

    l’interazione sia tale da svanire a tempi grandi (vedremo che questo problema è presente

  • 27

    nei casi di autointerazione di una particella), quindi ciò che viene fatto è di introdurre uno

    smorzamento adiabatico dell’interazione. Cioè tra t = −∞ ed un tempo −T , molto primache avvenga l’interazione tra particelle e bersaglio, facciamo crescere il potenziale di inte-

    razione da zero al suo valore reale. Manteniamolo poi al suo valore sino ad un tempo T

    molto dopo che è avvenuto lo scattering, ed infine facciamolo ritornare a zero per t→ +∞.Praticamente questo si può effettuare cambiando il potenziale di interazione nel seguente

    modo

    Vint(t, �) = e−�|t|Vint(t) (5.6)

    effettuando tutti i calcoli e prendendo poi il limite per � → 0+ alla fine. In questo modogli spazi degli stati asintotici a −∞ e +∞ sono isomorfi e quello che fa la matrice S è unatrasformazione (unitaria) tra questi due spazi. Nel caso classico questa pittura corrisponde

    quindi a considerare tutte le possibili direzioni di incidenza e tutte le possibili direzioni di

    uscita (per scattering elastico ad energia fissata). Date queste specificazioni non è difficile

    calcolare gli elementi di matrice S. Infatti la ψ(+)i sarà data da

    ψ(+)i (�x

    ′, t′) = limt→−∞

    i

    ∫d3�x G(�x , t′; �x , t)φi(�x , t) (5.7)

    con φi definita in (5.3). Segue allora dalla (5.4)

    Sfi = limt′→+∞,t→−∞

    i

    ∫d3�x ′d3�x φ�f(x

    ′)G(x′; x)φi(x) (5.8)

    Usiamo adesso l’equazione integrale (4.12) per G e si trova

    Sfi = limt′→+∞,t→−∞

    i

    ∫d3�x ′d3�x φ�f(x

    ′)[G0(x

    ′; x)+

    +

    ∫d4x′′ G0(x′; x′′)V (x′′)G(x′′; x)

    ]φi(x) (5.9)

    Possiamo valutare il primo termine tramite la (4.1)

    θ(t′ − t)φi(x′) = i∫

    d3�x G0(x′; x)φi(x) (5.10)

    (le φi sono funzioni d’onda libere) ed usando∫d3�x ′φ�f(x

    ′)φi(x′) = δif (5.11)

    (dove per onde piane δif = δ3(�kf − �ki)). Si ottiene dunque

    Sfi = δfi + limt→−∞

    ∫d3�x d4x′′ φ�f(x

    ′′)V (x′′)G(x′′; x)φi(x) (5.12)

  • 28

    dove si è usato la (4.22) per far evolvere la φ�f da x′ a x′′ (ricordiamo che x′ è associato ad

    un tempo +∞, e che G0 propaga la funzione d’onda libera complessa coniugata indietro neltempo). Questa è la formula fondamentale per il calcolo della matrice S. Il primo termine δfi

    corrisponde ad una situazione in cui non succede niente e quindi viene normalmente ignorato.

    Quello che poi possiamo fare è di effettuare un’espansione perturbativa del propagatore come

    abbiamo visto in Sezione 3. Usando la (3.20) si ha

    Sfi = δfi + limt→−∞

    ∫d3�x d4x1φ

    �f(1)V (1)

    [G0(1; x) +

    ∫d4x2G0(1; 2)V (2)G0(2; x)+

    +

    ∫d4x2d

    4x3G0(1; 2)V (2)G0(2; 3)V (3)G0(3; x) + · · ·]φi(x) (5.13)

    Ancora per la (5.10) si ha

    Sfi = δfi − limt→−∞

    i[ ∫

    d4x1φ�f(1)V (1)φi(1)θ(t1 − t)+

    +

    ∫d4x1d

    4x2φ�f(1)V (1)G0(1; 2)V (2)φi(2)θ(t2 − t)+

    +

    ∫d4x1d

    4x2d4x3φ

    �f(1)V (1)G0(1; 2)V (2)G0(2; 3)V (3)φi(3)θ(t3 − t) + · · ·

    ](5.14)

    Ma limt→−∞ θ(ti − t) = 1 e quindi

    Sfi = δfi − i[ ∫

    d4x1φ�f(1)V (1)φi(1)+

    +

    ∫d4x1d

    4x2φ�f (1)V (1)G0(1; 2)V (2)φi(2)+

    +

    ∫d4x1d

    4x2 · · · d4xnφ�f(1)V (1)G0(1; 2)V (2) · · ·G0(n− 1;n)V (n)φi(n) + · · ·]

    =

    = δfi − i∞∑

    n=1

    ∫ ( n∏i=1

    d4xi

    )φ�f(1)V (1)G0(1; 2)V (2) · · ·G0(n− 1;n)V (n)φi(n)

    ](5.15)

    Nella pratica useremo al più i primi due termini di questa espansione. Per terminare questa

    Sezione mostriamo anche che la matrice S è unitaria. Per questo facciamo uso della con-

    servazione della probabilità. Ricordiamo che se ψ e φ sono due soluzioni dell’equazione di

    Schrödinger, allora l’espressione

    (ψ, φ) =

    ∫d3�x ψ�(�x , t)φ(�x , t) (5.16)

    è indipendente dal tempo. Questa è una conseguenza immediata della hermiticità della

    hamiltoniana

    id

    dt(ψ, φ) =

    ∫d3�x ((−Hψ(�x , t))�φ(�x , t) + ψ�(�x , t)Hφ(�x , t)) = 0 (5.17)

  • 29

    È questa proprietà che permette una interpretazione probabilistica della meccanica quan-

    tistica. Applichiamo allora questa proprietà a ψ(+)i che, ricordiamo, si riduce ad un’onda

    piana per t = −∞,

    (ψ(+)i , ψ

    (+)j ) =

    ∫d3�x ψ

    (+)i

    �(�x , t)ψ

    (+)j (�x , t) =

    = limt→−∞

    ∫d3�x ψ

    (+)i

    �(�x , t)ψ

    (+)j (�x , t) =

    = limt→−∞

    ∫d3�x φ�i (�x , t)φj(�x , t) = δij (5.18)

    Facendo uso della seguente identità

    limt′→+∞

    ψ(+)i (�x

    ′, t′) = limt′→+∞

    ∫d3�x δ3(�x ′ − �x )ψ(+)i (�x , t′) =

    = limt′→+∞

    ∫d3�x

    ∑n

    φn(�x′, t′)φ�n(�x , t

    ′)ψ(+)i (�x , t′) =

    = limt′→+∞

    ∑n

    φn(�x′, t′)

    ∫d3�x φ�n(�x , t

    ′)ψ(+)i (�x , t′) (5.19)

    Dove si è usato la relazione di completezza per le funzioni d’onda libere φn. Dalla definizione

    di matrice S data in eq. (5.4) segue

    limt′→+∞

    ψ(+)i (�x

    ′, t′) = limt′→+∞

    ∑n

    φn(�x′, t′)Sni (5.20)

    Inserendo questa espressione nella relazione (5.18) si trova

    δij = limt′→+∞

    ∫d3�x

    ∑nm

    φ�n(�x′, t′)S�niφm(�x

    ′, t′)Smj =∑nm

    δnmS�niSmj =

    ∑n

    (S†)inSnj (5.21)

    da cui

    S†S = 1 (5.22)

    Vediamo dunque come il contenuto fisico associato all’unitarietà della matrice S sia nella

    conservazione della probabilità.

    Per il seguito ci sarà utile la seguente espressione:

    ψ(+)i (x

    ′) = φi(x′) +∫

    d4x′′ G0(x′; x′′)V (x′′)ψ(+)i (x

    ′′) (5.23)

    ottenuta dalla (5.7), usando la (4.12) per il propagatore, e la (5.10). Si ottiene l’espres-

    sione alternativa per la matrice S, che usata insieme alla precedente riproduce lo sviluppo

    perturbativo (5.15)

    Sfi = δfi − i∫

    d4x1φ�f(x1)V (x1)ψ

    (+)i (x1) (5.24)

  • 30

    VI. SCATTERING COULOMBIANO.

    Come semplice applicazione del formalismo precedente consideriamo lo scattering di un

    elettrone non relativistico su un nucleo di carica Ze. Ignoreremo per il momento le com-

    plicazioni dovute allo spin e schematizzeremo il nucleo come un oggetto infinitamente pe-

    sante situato nell’origine delle coordinate. L’elettrone è allora soggetto ad un potenziale di

    interazione pari a (e > 0)

    −eφ(�x ) = − Ze2

    4π|�x | ≡ V (�x ) (6.1)

    Usando la (5.15) al primo ordine

    Sfi = δfi − i∫

    d4x φ�f(x)V (�x )φi(x) (6.2)

    Quando si discutono problemi di scattering è più conveniente pensare di essere in un volume

    finito (quantizzazione nel box). In questo caso, richiedendo condizioni al contorno periodiche,

    la funzione d’onda deve soddisfare

    ψ(x+ L, y, z, t) = ψ(x, y + L, z, t) = ψ(x, y, z + L, t) = ψ(x, y, z, t) (6.3)

    dove abbiamo immaginato il volume finito come un cubo di lato L. Se, in particolare, la ψ

    è una autofunzione dell’impulso

    ψ(�x , t) = A(t)ei�k · �x (6.4)

    segue

    �k =2π

    L�n (6.5)

    dove �n è un vettore avente per componenti numeri interi

    �n = n1�i+ n2�j + n3�k, (n1, n2, n3) ∈ ZZ (6.6)

    Dunque nel caso di una particella libera l’autofunzione dell’energia e dell’impulso sarà

    φ�k(�x , t) =√ce−i(Et − �k · �x ), E = |

    �k|22m

    (6.7)

    con �k dato dalla (6.4) e c una costante di normalizzazione che lasceremo qui arbitraria per

    mostrare che la sezione d’urto non ne dipende. Conviene invece interpretare qui la densità

  • 31

    di probabilità come una densità di particelle. Quindi la normalizzazione di φ�k è fissata dal

    numero di particelle nel volume V

    NV =

    ∫V

    d3�x φ��kφ�k = cV (6.8)

    Se siamo interessati alla diffusione degli elettroni in direzione diversa da quella di incidenza

    conviene estarre dalla matrice S il primo termine

    S = 1 + iT (6.9)

    in modo che T contenga la sola parte relativa all’interazione. Si ha allora

    Tfi = −∫

    d4x cei(Ef t− �kf · �x )V (�x )e−i(Eit− �ki · �x ) = −2πδ(Ef − Ei)cV (�q) (6.10)

    dove abbiamo definito �q = �kf − �ki, l’impulso trasferito, e

    V (�q) =

    ∫d3�x e−i�q · �x V (�x ) (6.11)

    la trasformata di Fourier del potenziale. Per il calcolo della sezione d’urto necessitiamo del

    numero di particelle diffuse e quindi, in particolare, della probabilità per unità di tempo di

    avere uno stato finale con impulso �kf . Dobbiamo allora calcolare il modulo quadro della

    matrice T . Dobbiamo allora definire il prodotto di due delta di Dirac. Come è noto il

    prodotto di due distribuzione non è definibile in maniera univoca. Possiamo però far ricorso

    alla fisica del processo di diffusione. In effetti è una idealizzazione il fatto che il processo

    di scattering avvenga tra t = −∞ e t = +∞. In realtà sia il processo di preparazionedela fascio incidente che la rivelazione avvengono a tempi finiti, l’unica cosa necessaria per

    l’idealizzazione che si ha in mente è che questi tempi siano molto grandi rispetto al tempo

    tipico di interazione (che come vedremo è essenzialmente 1/(Ef − Ei). Dunque dovremmosostituire la delta di Dirac ottenuta nella (6.9) con

    2πδ(Ef −Ei) =⇒∫ +T/2−T/2

    e−i(Ef − Ei)tdt = 2sin

    (T∆E

    2

    )∆E

    (6.12)

    dove ∆E = Ef − Ei. Quindi

    |2πδ(Ef −Ei)|2 =⇒ 4sin2

    (T∆E

    2

    )∆E2

    (6.13)

    Questa funzione di ∆E ha un picco a ∆E = 0 ed oscilla rapidamente per ∆E = 0. Quindiil limite per T → ∞ di questa espressione è zero a meno che ∆E = 0. Questa è la proprietà

  • 32

    che definisce una successione di funzioni convergente alla delta di Dirac. Dobbiamo solo

    controllare la normalizzazione calcolandone l’integrale su ∆E. Ponendo x = T∆E/2

    ∫ +∞∞

    4sin2

    (T∆E

    2

    )∆E2

    d∆E = 2T

    ∫ +∞∞

    sin2 x

    x2dx = 2πT (6.14)

    dove abbiamo usato il risultato di Appendice 1. Pertanto

    limT→∞

    4sin2

    (T∆E

    2

    )∆E2

    = limT→∞

    2πTδ(Ef − Ei) (6.15)

    Useremo dunque la regola

    |2πδ(Ef −Ei)|2 =⇒ 2πTδ(Ef − Ei) (6.16)

    Supponiamo di voler poi osservare le particelle diffuse con impulso compreso tra �kf e �kf +d�kf .

    Ma nel volume V l’impulso è quantizzato (eq. (6.4))

    �kf =2π

    L�n (6.17)

    Segue che il numero di stati finali nel volume V è dato da

    d3�n =V

    (2π)3d3�kf (6.18)

    e che il numero di stati finali a disposizione di ogni singola particella è

    V

    (2π)3d3�kfNV

    =d3�kf

    (2π)3c(6.19)

    La probabilità di transizione per unità di tempo è data da

    w =|Tfi|2T

    (6.20)

    per cui il numero di particelle diffuse per unità di tempo e con impulso compreso tra �kf e

    �kf + d�kf è

    dN = wd3�kf

    (2π)3c(6.21)

    Dobbiamo poi calcolare il numero di particelle incidenti per unità di tempo e di superficie.

    Questo non è altro che il flusso incidente per unità di superficie e quindi è dato dal modulo

    della corrente di probabilità (eq. (1.6))

    n = |�j| =∣∣∣− i

    2m

    (φ�i�∇φi − (�∇φ�i )φi

    ) ∣∣∣ = c|�vi| (6.22)

  • 33

    Infatti |�j|∆S∆t è il numero di particelle che nel tempo ∆t attraversano la superficie ∆S.Quindi la sezione d’urto differenziale è data da

    dσ =dN

    n= w

    1

    c|�vi|d3�kfc(2π)3

    = 2πδ(Ef − Ei)c2|V (�q)|21

    c21

    |�vi|d3�kf(2π)3

    (6.23)

    Come è ovvio dalla definizione di sezione d’urto, la densità di particelle c scompare. Anche

    la dipendenza dal volume di quantizzazione V non appare nell’espressione finale. Possiamo

    usare la conservazione dell’energia (data dalla delta di Dirac) per effettuare l’integrazione

    sul modulo dell’impulso finale dell’elettrone. Infatti usando

    d3�kf = |�kf |2d|�kf |dΩ (6.24)

    con dΩ = sin θdθdϕ l’elemento di angolo solido, e

    dEf =|�kf |m

    d|�kf | (6.25)

    si può integrare su Ef ottenendo

    dΩ=m2

    4π2|V (�q)|2 (6.26)

    dove si è usato |�kf | = |ki|. Per calolare V (�q) si può invertire la (6.11)

    −eφ(�x ) = V (�x ) =∫

    d3�q

    (2π)3ei�q · �x V (�q) (6.27)

    ed usare l’equazione di Poisson

    �∇2φ(�x) = −ρ(�x ) = −Zeδ3(�x ) (6.28)

    Si ottiene in questo modo

    eρ(�x ) = Ze2δ3(�x) = −∫

    d3�q

    (2π)3ei�q · �x |�q|2V (�q) (6.29)

    e quindi (q ≡ |�q|)V (�q) = −Ze

    2

    q2(6.30)

    V (�q) può anche essere calcolato facilmente in modo esplicito

    V (�q) = −Ze2

    ∫d3�x e−i�q · �x 1|�x | (6.31)

  • 34

    Passando in coordinate polari ed effettuando l’integrazione sull’angolo solido

    V (�q) = −Ze2

    2

    ∫ ∞0

    eiqr − e−iqriq

    dr (6.32)

    L’integrando è oscillante rapidamente per r → ∞, lo possiamo allora definire nel seguentemodo

    V (�q) = −Ze2

    2lim

    �→0+

    ∫ ∞0

    ei(q + i�)r − e−i(q − i�)riq

    dr (6.33)

    Effettuando l’integrale e poi il limite si ritrova facilmente il risultato precedente. La sezione

    d’urto differenziale è alloradσ

    dΩ=m2

    4π2Z2e4

    q4(6.34)

    Ricordando poi l’espressione (2.4) per la costante di struttura fine si ha

    dΩ= m2

    4Z2α2

    q4(6.35)

    Possiamo infine esprimere il risultato in termini dell’angolo di scattering usando

    q2 = |�kf − �ki|2 = 4k2 sin2θ

    2(6.36)

    con |�kf | = |�ki| ≡ |�k|. Quindidσ

    dΩ=

    Z2α2

    16E2kin sin4 θ

    2

    (6.37)

    dove Ekin = k2/2m è l’energia cinetica della particella incidente L’espressione trovata è la

    formula per lo scattering Rutherford.

    I calcoli precedenti mostrano che la sezione d’urto permette una misura del modulo della

    trasformata di Fourier del potenziale atomico. Da questa trasformata si hanno allora in-

    formazioni importanti circa la distribuzione di cariche nell’atomo. Se applichiamo infatti la

    (6.27) ad una generica distribuzione di cariche si ha

    eρ(�x ) = −∫

    d3�q

    (2π)3ei�q · �x |�q|2V (�q) (6.38)

    ed invertendo la trasformata

    V (�q) = − e|�q|2∫

    d3�x e−i�q · �x ρ(�x ) (6.39)

    Poichè la misura della sezione d’urto ci dà il modulo di questa espressione si vede come si

    abbiano importanti informazioni sulla distribuzione di carica nell’atomo. Per esempio, se si

  • 35

    considera un atomo neutro si può pensare che la sua distribuzione di carica sia dovuta ad

    una carica elettrica nucleare concentrata nell’origine e ad una densità elettronica. Quindi

    ρ(�x ) = Zeδ3(�x ) − eρe(�x ) (6.40)

    A causa della neutralità dovremo avere

    0 =

    ∫d3�x ρ(�x ) = Ze− e

    ∫d3�x ρe(�x ) (6.41)

    Si ottiene allora

    V (�q) = − e|�q|2∫

    d3�x e−i�q · �x (Zeδ3(�x ) − eρe(�x ) = −e2

    |�q|2

    [Z −

    ∫d3�x e−i�q · �x ρe(�x )

    ](6.42)

    L’espressione

    f(�q) = Z −∫

    d3�x e−i�q · �x ρe(�x ) (6.43)

    si chiama fattore di forma atomico ed ha la proprietà

    f(�0) = 0 (6.44)

    in virtù della condizione di neutralità.

    Problema: Calcolare la sezione d’urto differenziale e totale per il potenziale coulombiano

    schermato

    V (r) = −Ze2

    4πre−r/a, r = |�x |

    dove a è un parametro dell’ordine del raggio atomico (in questo modo il potenziale elettrico

    va correttamente a zero per r >> a). Il risultato è

    dΩ=

    4Z2α2m2

    (8mEkin sin2 θ

    2+ a−2)2

    σTOT =

    ∫dΩ

    dΩ= πa2

    (k

    Ekin

    )2Z2α2

    1 + (2ka)−2

    VII. LE TEORIE RELATIVISTICHE.

    La trattazione della meccanica quantistica relativistica ha presentato sin dall’inizio una

    serie di problemi assolutamente non banali. In maniera concisa questi problemi derivano dal

  • 36

    fatto che la relazione di dispersione relativistica, cioè la relazione tra impulso ed energia, è

    di tipo quadratico

    E2 = |�p|2 +m2 (7.1)

    Questa relazione da luogo a due soluzioni

    E = ±√

    |�p|2 +m2 (7.2)

    Il problema è che a livello quantistico non è possibile scartare le soluzioni ad energia ne-

    gativa. In effetti, come vedremo, esse vanno associate all’esistenza di antiparticelle. Si ha

    allora un problema connesso con la localizzazione di particelle relativistiche su distanze del-

    l’ordine della lunghezza d’onda Compton (≈ 1/m) delle particelle stesse. Infatti a causadel principio di indeterminazione ∆x∆p ≈ 1, vediamo che per localizzare una particellacon una precisione dell’ordine 1/m, occorre che l’impulso sia indeterminato di una quantità

    dell’ordine di m. Questo significa che l’impulso, e quindi l’energia, della particella nelle loro

    fluttuazioni possono assumere valori sufficientemente grandi per dar luogo alla creazione di

    coppie. L’energia richiesta per questo scopo è infatti 2m. Naturalmente questa sarà una

    coppia virtuale, nel senso che nel periodo della sua creazione la conservazione dell’energia

    sarà violata. Ma questo risulterà possibile solo per tempi ∆t ≈ ∆x 1/m. Quindi sudistanze piccole rispetto a 1/m si perde il concetto di particella singola, ma il fenomeno che

    avviene è uno in cui c’è una creazione continua di coppie che esistono per tempi molto brevi

    prima di riannichilarsi. La rappresentazione è quindi di una specie di nuvola di particelle ed

    antiparticelle che circondano quella che noi ci aspetteremo essere considerata una particella

    singola. Il punto è che l’aspetto di particella singola è inestricabile da questa nuvola.

    Vediamo dunque che le teorie relativistiche non sono teorie con numero fissato di particel-

    le, infatti ciò che risulta possibile definire è piuttosto la differenza tra il numero di particella

    ed il numero di antiparticelle NP − NP̄ . Il formalismo della meccanica quantistica ordina-ria non è più applicabile, ma occorre invece un meccanismo che ci permetta naturalmente

    sistemi con numero variabile di particelle. Il formalismo più naturale per trattare questa

    problematica è quello della quantizzazione dei campi. Per campi si intendono le soluzioni

    delle equazioni d’onda relativistiche, cioè sono quelle che nel formalismo non-relativistico

    si chiamano funzioni d’onda. La quantizzazione consiste nel considerare queste soluzioni

    come operatori, per questo motivo la quantizzazione dei campi viene chiamata anche secon-

    da quantizzazione. Noi non useremo questo metodo ma seguiremo invece la trattazione di

  • 37

    Feynman e Stückelberg che è una generalizzazione del metodo dei propagatori, che abbiamo

    introdotto precedentemente, atta a trattare le soluzioni ad energia negativa.

    Ci sono varie vie attraverso le quali uno è condotto a formulare una teoria di campo per

    sistemi con numero variabile di particelle. Per esempio, storicamente fu prima realizzato che

    la luce aveva, oltre all’aspetto ondulatorio, un aspetto corpuscolare nei processi di emissione

    ed assorbimento. Fino al 1927 gli elettroni furono descritti come particelle, ma in quell’an-

    no Davisson e Germer misero in luce sperimentalmente il comportamento ondulatorio degli

    elettroni. Questo sugger̀ı un principio di complementarità onda-corpuscolo valido in tutta

    generalità per ogni tipo di onda o di particella. Sull’analogia della radiazione elettromagne-

    tica, il cui aspetto ondulatorio è descritto classicamente da una teoria di campo, è naturale

    introdurre un campo per ogni tipo di onda o corpuscolo.

    Storicamente furono ricercate equazioni relativistiche che generalizzassero l’equazione di

    Schrödinger. Una equazione relativistica libera descrive la relazione energia-impulso e lo spin

    della particella. Le soluzioni di questa equazione forniscono le funzioni d’onda di particella

    singola. Inoltre tutte le equazioni d’onda relativistiche, dato che descrivono la relazione

    energia-impulso data in eq. (7.1), possiedono soluzioni ad energia negativa. Tali soluzioni

    verranno reinterpretate come corrispondenti ad antiparticelle.

    Vogliamo ora mostrare (trascurando per il momento lo spin) come un’equazione d’onda

    libera descrive la relazione energia-impulso. Iniziamo dall’ equazione di Schrödinger per una

    particella libera:

    i∂ψ

    ∂t= Hψ (7.3)

    dove H è l’hamiltoniana libera

    H =|�p|22m

    = − 12m

    |�∇|2 (7.4)

    Se ψ è uno stato stazionario, cioè

    ψ ≈ e−iEt (7.5)

    allora il contenuto dell’equazione di Schrödinger è semplicemente quello di fornirci la

    relazione di dispersione non relativistica

    E =|�p|22m

    (7.6)

    (qui �p è l’autovalore dell’operatore di impulso). Nel caso relativistico la relazione di disper-

    sione che invece vogliamo riprodurre è la (7.1). Se per riprodurre tale relazione assumessimo

  • 38

    come hamiltoniana

    H =√

    |�p|2 +m2 (7.7)

    si otterrebbe la seguente equazione di tipo Schrödinger

    i∂ψ

    ∂t=

    √−|�∇|2 +m2ψ (7.8)

    Questa equazione ha due ovvi difetti:

    • l’equazione tratta in modo asimmetrico la derivata temporale e le derivate spaziali;• l’equazione è non locale. Dipende cioè da un numero infinito di derivate spaziali:

    √−|�∇|2 +m2ψ = m

    √1 − |

    �∇|2m2

    ψ = m∑

    k

    ck

    (|�∇|2

    )kψ (7.9)

    Entrambe queste difficoltà possono essere rimosse se iteriamo questa equazione:

    −∂2ψ

    ∂t2=(−|�∇|2 +m2

    )ψ (7.10)

    Questa equazione è locale e invariante per trasormazioni di Lorentz

    (∂2 +m2

    )ψ = 0 (7.11)

    dove

    ∂2 =∂2

    ∂t2− |�∇|2 (7.12)

    è l’operatore di D’Alembert in (3 +1) dimensioni. Notiamo che per risolvere i nostri proble-

    mi connessi con la località e l’invarianza di Lorentz, siamo stati forzati a dover introdurre,

    accanto alle soluzioni ad energia positiva E =√

    |�p|2 +m2, le soluzioni ad energia negativaE = −

    √|�p|2 +m2. L’equazione precedente è nota come equazione di Klein-Gordon e fu ini-

    zialmente scartata (come generalizzazione relativistica dell’equazione di Schrödinger) perché

    dava luogo ad una probabilità non definita positiva. Prima di vedere questo stabiliamo le

    nostre convenzioni per le notazioni relativistiche. I quadrivettori di posizione e di impulso

    sono definiti da

    xµ = (t, �x), pµ = (E, �p), µ, ν = 0, 1, 2, 3 (7.13)

    Il tensore metrico gµν ha solo componenti diagonali uguali a (+1,−1,−1,−1). L’operatoredi quadrimpulso nello spazio delle coordinate è dato da

    pµ → i ∂∂xµ

    =

    (i∂

    ∂t,−i�∇

    )≡ i∂µ (7.14)

  • 39

    Si ha anche

    p2 = pµpµ → −∂

    ∂xµ

    ∂xµ= −∂2 (7.15)

    x · p = Et− �p · �x (7.16)

    Consideriamo adesso due soluzioni ψ e ψ� dell’equazione di Klein-Gordon, potremo scrivere

    0 = ψ�(∂2 +m2)

    )ψ − ψ

    (∂2 +m2)

    )ψ� = ∂µ [ψ

    �∂µψ − (∂µψ�)ψ] (7.17)

    Quindi la corrente

    Jµ = i (ψ�∂µψ − (∂µψ�)ψ) (7.18)

    è conservata e la quantità ∫d3x J0 = i

    ∫d3x(ψ�ψ̇ − ψ̇�ψ) (7.19)

    è una costante del moto. Però questa costante non può essere interpretata come densità di

    probabilità in quanto non è definita positiva. Consideriamo in particolare un’onda piana

    ψ+(x) = ce−i(Et− �p · �x ), (E > 0) (7.20)

    ψ+ soddisfa l’equazione di Klein-Gordon se è soddisfatta la relazione energia-impulso

    E2 = �p 2 +m2 (7.21)

    Posto

    Jµ = (ρ, �J) (7.22)

    segue

    ρ(ψ+) = i(ψ�+ψ̇+ − ψ̇�+ψ+

    )= 2E|c|2 (7.23)

    �J(ψ+) = −i(ψ�+

    �∇ψ+ − (�∇ψ+)�ψ+)

    = 2�p |c|2 (7.24)

    od anche

    Jµ(ψ+) = 2pµ|c|2 (7.25)

    Notiamo che è da aspettarsi che l’integrale in d3�x della ρ sia un invariante rispetto a tra-

    sformazioni di Lorenz perché rappresenta una probabilità. Infatti rispetto a trasformazioni

    di Lorentz si ha

    d3�x →√

    1 − β2d3�x , E → E√1 − β2

    (7.26)

  • 40

    dato che i volumi si contraggono, mentre le quarte componenti dei quadrivettori si dilatano

    (ricordarsi della dilatazione dei tempi). Quindi∫d3�x ρ(x) (7.27)

    è una quantità invariante.

    Il problema è però che l’equazione di Klein-Gordon possiede anche soluzioni del tipo

    ψ−(x) = ce+i(Et− �p · �x ), E > 0 (7.28)

    che soddisfano la stessa relazione energia-impulso delle ψ+. D’altra parte le ψ− hanno energia

    negativa, dato che

    i∂ψ±∂t

    = ±Eψ± (7.29)

    Queste soluzioni hanno anche una densità di probabilità negativa

    ρ(ψ−) = −2E|c|2 (7.30)

    �J(ψ) = −2�p |c|2 (7.31)

    o

    Jµ(ψ−) = −2pµ|c|2 (7.32)

    Dunque la generalizzazione relativistica più semplice dell’equazione di Schrödinger dà luogo

    a soluzioni ad energia negativa con densità di probabilità negativa.

    VIII. LA TEORIA DEI BUCHI DI DIRAC.

    Nel tentativo di evitare i problemi connessi con la probabilità negativa, nel 1927 Dirac

    sviluppò una equazione d’onda del primo ordine nelle derivate con la conseguenza di ottenere

    delle funzioni che descrivono particelle con spin 1/2 che furono interpretate come descriventi

    elettroni. Vedremo successivamente come si ricava l’equazione e ne discuteremo a fondo le

    proprietà. Per il momento diremo solo che anche quest’equazione presenta il problema delle

    soluzioni ad energia negativa. Per capire il motivo per cui le soluzioni ad energia negativa

    sono inaccettabili da un punto di vista classico, osserviamo la Fig. 8 nella quale è riportata

    la relazione energia impulso, considerando per semplicità l’impulso come una variabile uni-

    dimensionale. Quindi uno stato di moto corrisponde ad un punto su una delle due linee in

  • 41

    figura. Se forniamo energia ad uno stato ad energia positiva il suo impulso (e quindi la sua

    velocità) aumenta, se invece aumentiamo l’energia di uno stato ad energia negativa il suo im-

    pulso diminuisce. Questo è il motivo per cui tali soluzioni sono inaccettabili. Classicamente

    sarebbe però possibile supporre che inizialmente non ci fossero particelle ad energia negativa.

    Poiché le energie classiche possono variare solo con continuità, e gli stati ad energia positiva

    e negativa sono separati da un gap energetico pari a 2m, questi non porrebbero un problema

    perché non sarebbero mai raggiungibili. Da un punto di vista quantistico la situazione è

    diversa perché l’energia può variare in modo discontinuo. Per esempio una particella con

    energia positiva potrebbe emettere un fotone con energia superiore a 2m e finire in uno stato

    ad energia negativa. Poiché la tendenza di ogni sistema è quella di andare nello stato di mi-

    nor energia, tutte le particelle ad energia positiva tenderebbero ad effettuare una transizione

    verso questi stati. Dirac cercò allora una soluzione a questo problema assumendo che tutti

    gli stati ad energia negativa fossero occupati da elettroni. In questa situazione il principio

  • 42

    di Pauli impedisce ad un elettrone ad energia positiva di decadere in uno stato ad energia

    negativa (vedi Fig. 9). Può però accadere un fenomeno del tutto nuovo, vale a dire che un

    elettrone in uno stato ad energia negativa può ricevere energia a sufficienza, per esempio

    assorbendo un fotone, per fare una transizione ad uno stato ad energia positiva. In questo

    caso si crea una lacuna tra gli stati ad energia negativa. Cerchiamo allora di comprendere

    quale sia il comportamento di questa lacuna. Per comodità consideriamo gli stati di impulso

    discretizzati e supponiamo che per ciascuno di questi valori ci possa essere un solo elettrone

    (in realtà per il principio di Pauli ce ne potrebbero stare due, ma questo non è rilevante

    per gli argomenti che seguono). Avremo allora una situazione del tipo rappresentato in Fig.

    10. Immaginiamo adesso di fornire una quantità di energia all’elettrone tale da farlo pas-

    sare nello stato corrispondente alla lacuna. Come risultato la lacuna si produce nello stato

    originario dell’elettrone ad energia negativa al quale abbiamo fornito energia. Quindi se in-

    terpretiamo queste operazioni in termini di lacune, vediamo che se forniamo energia ad una

  • 43

    lacuna nel mare degli stati ad energia negativa, questa aumenta il proprio impulso. Dunque

    la lacuna si comporta come un normale stato ad energia positiva. Vediamo analogamente in

    Fig. 11 che se applichiamo un campo elettrico diretto verso destra, gli elettroni migreranno

    verso sinistra andando ad occupare la lacuna che come risultato migra a destra. Pertanto la

    lacuna si comporta come uno stato ad energia positiva ma con carica +e opposta a quella

    dell’elettrone (−e). Possiamo mettere queste considerazioni su una base più formale. Pos-siamo, per semplicità, immaginare di avere N elettroni nello stato di energia negativa −E.Se allora la transizione è fatta da uno di questi elettroni, l’energia dello stato fondamentale

    (detto anche stato di vuoto, sebbene sia costituito da infiniti elettroni di energia negativa)

    cambia da

    E −NE → E − (N − 1)E = E −NE + E (8.1)

  • 44

    dove E è l’energia di tutti gli altri elettroni (con energia diversa da −E) nello stato fonda-mentale. In maniera analoga la carica del vuoto risulterà infinita e nel caso della precedente

    transizione avremo ancora

    Q−Ne→ Q− (N − 1)e = Q−Ne+ e (8.2)

    Vediamo cosi che l’energia del vuoto aumenta di E e la sua carica elettrica di +e nella transi-

    zione. Possiamo allora associare al buco lasciato nel vuoto dall’elettrone un’energia positiva

    E ed una carica elettrica positiva +e opposta a quella dell’elettrone. In questo modo il buco

    è reinterpretato come una soluzione ad energia positiva, ma con carica opposta a quella

    dell’elettrone. In termini moderni il buco viene reinterpretato come l’antiparticella dell’e-

    lettrone, cioè come un antielettrone od un positrone. Pertanto il processo in cui estraiamo

    dal mare un elettrone per portarlo in uno stato ad energia positiva, libera una lacuna (Fig.

    12). E quindi abbiamo la creazione di un elettrone e di un positrone (la lacuna). Questo

    è il processo di creazione di coppie. Se viceversa si ha una lacuna, possiamo prendere un

    elettrone ad energia negativa e portarlo ad occupare la lacuna (Fig. 13). In questo caso si

    un processo di annichilazione della coppia elettrone positrone.

  • 45

    La teoria dei buchi in particelle elementari è oggi completamente reinterpretata in termini

    di particelle ed antiparticelle, ma questo modo di pensare è comunque molto utile in varie

    circostanze. Sicuramente risulta molto fruttuoso in altri campi della fisica, per esempio nello

    studio degli elettroni in un metallo, ecc.

    Una volta imparato che le soluzioni ad energia negativa ammettono una reinterpretazione

    in termini di antiparticelle, nel 1934 Pauli e Weisskopf ripresero in considerazione l’equazione

    di Klein-Gordon. In questo caso la funzione d’onda è scalare e rappresenta particelle di spin

    zero, quindi non si può applicare il principio di Pauli. Nondimeno se si inserisce la carica

    elettrica nella corrente

    jµ = −ie(ψ�∂µψ − ψ∂µψ�) (8.3)

    allora j0 = ρ può essere reinterpretata come la densità di carica invece che come densità di

    probabilità e quindi una delle obiezioni contro questa teoria cade. Per quanto concerne invece

    le soluzioni ad energia negativa la lezione interessante che viene dall’argomento di Dirac è

    che esiste una reinterpretazione delle soluzioni ad energia negativa come antiparticelle ad

  • 46

    energia positiva e questa reinterpretazione, come vedremo, è possibile anche nel caso di

    Klein-Gordon.

    IX. SOLUZIONI DELL’EQUAZIONE DI KLEIN-GORDON.

    In questa sezione costruiremo un set completo di soluzioni dell’equazione di Klein-Gordon.

    Innanzitutto dobbiamo avere un prodotto scalare indipendente dal tempo. Poiché abbiamo

    già visto che il caso di Klein-Gordon ammette la corrente conservata (7.18)

    i(ψ�∂µψ − ψ∂µψ�) ≡ iψ�∂(−)µ ψ (9.1)

    il prodotto scalare sarà

    〈f |g〉 = i∫

    d3xf ∗∂(−)t g (9.2)

    se f e g sono due soluzioni. Ricerchiamo delle soluzioni sotto forma di onde piane:

    f�k = A(k)e−ikx = A(k)e−i(k0x0 − �k · �x) (9.3)

  • 47

    Inserendo nell’equazione d’onda si ottiene

    (∂2 +m2)f = (−k2 +m2)f = 0 (9.4)

    da cui segue

    k2 = m2 =⇒ k20 = |�k|2 +m2 (9.5)

    Per fissare la normalizzazione della soluzione si prende una scatola di volume finito e si

    impongono condizioni al contorno periodiche (normalizzazione nel box). Prendendo un cubo

    di lato L richiederemo

    φ(x+ L, y, z, t) = φ(x, y + L, z, t) = φ(x, y, z + L, t) = φ(x, y, z, t) (9.6)

    Pertanto seguirà

    �k =2π

    L�n (9.7)

    dove

    �n = n1�i1 + n2�i2 + n3�i3 (9.8)

    è un vettore con componenti (n1, n2, n3) intere. Richiediamo

    〈f�k|f�k′〉 = i∫

    V

    d3xf ∗�k∂(−)t f�k′ = δ�k,�k′ (9.9)

    dove la delta è un simbolo di Kronecker definito da

    δ�k,�k′ =3∏

    i=1

    δni,n′i (9.10)

    con �n e �n′ due versori a componenti intere collegati agli impulsi come in eq. (9.8). Segue

    allora ∫V

    d3xA∗�kA�k′ei(k0 − k0′)x0 − i(�k − �k′) · �x(k′0 + k0) = δ�k,�k′ (9.11)

    Usando ∫L

    dxei2π

    L(n1 − n′1)x

    = Lδn1,n1′ (9.12)

    segue ∫V

    d3xei(�k − �k′) · �x = L3δ�k,�k′ (9.13)

    e quindi

    i

    ∫V

    d3xf ∗�k∂(−)t f�k′ = |A�k|

    22k0L3δ�k,�k′ (9.14)

  • 48

    dove

    k20 =

    (2π

    L

    )2|�n|2 +m2 (9.15)

    Potremo quindi prendere, scegliendo per il momento la soluzione positiva della (9.5):

    A�k =1

    L3/21√2ωk

    , ωk =

    √(2π

    L

    )2|�n|2 +m2 =

    √|�k|2 +m2 (9.16)

    e quindi la soluzione normalizzata risulta essere

    f�k(x) =1

    L3/21√2ωk

    e−ikx (9.17)

    A volte faremo uso di una normalizzazione diversa, la normalizzazione nel continuo. In

    questo caso l’integrazione spaziale è estesa a tutto R3 e si richiede

    〈f�k|f�k′〉 = i∫

    d3xf ∗�k∂(−)t f�k′ = δ

    3(�k − �k′) (9.18)

    In questo caso non ci sono restrizioni sull’impulso spaziale che assume tutti i posssibili valori

    in R3. Segue allora∫d3xA∗�kA�k′e

    ikx− ik′x(k0 + k′0) = (2π)3δ3(�k − �k′)|A�k|22k0 (9.19)

    La corrispondente normalizzazione è dunque

    A�k =1√

    (2π)31√2ωk

    (9.20)

    dove

    ωk =

    √|�k|+m2 (9.21)

    La transizione dalla normalizzazione nel box a quella nel continuo si fa dunque tramite la

    sostituzione formale1√V

    → 1√(2π)3

    (9.22)

    e la funzione d’onda nel continuo risulta

    f�k(x) =1√

    (2π)31√2ωk

    e−ikx (9.23)

    Notiamo che in entrambi i casi si ha la relazione

    k20 = |�k|2 +m2 (9.24)

  • 49

    che ha due soluzioni

    k0 = ±√

    |�k|2 +m2 = ±ωk (9.25)

    Le f�k(x) sono le soluzioni ad energia positiva, mentre le f∗�k(x) sono ad energia negativa. Per

    miglior comprensione, a volte scriveremo

    f�k(+)(x) = f�k(x), f�k

    (−)(x) = f ∗�k (x) (9.26)

    Segue dalla (9.11)

    〈f�k(+)|f�k′

    (−)〉 = 0, 〈f�k(−)|f�k′

    (−)〉 = −δ3(�k − �k ′) (9.27)

    E relazioni analoghe nel discreto. Vediamo ancora che il prodotto scalare non ha norma

    definita positiva, e che in particolare le soluzioni ad energia negativa hanno norma negativa.

    Dunque l’espansione più generale della funzione d’onda sarà

    ψ(x) =1√

    (2π)3

    ∫d3k

    1√2ωk

    [a(�k)e−iωkx0 + i�k · �x + ã(�k)eiωkx0 + i�k · �x

    ](9.28)

    Nel secondo termine si può mandare �k → −�k. Si ottiene allora

    ψ(x) =1√

    (2π)3

    ∫d3k

    1√2ωk

    [a(�k)e−ikx + ã(−�k)eikx

    ]≡∫

    d3k[f�ka(�k) + f ∗�k ã(−�k)]

    (9.29)

    Quindi si può invertire l’espansione precedente ottenendo

    a(�k) = i

    ∫d3xf ∗�k (x)∂

    (−)t ψ(x), ã(−�k) = i

    ∫d3xψ(x)∂

    (−)t f�k(x) (9.30)

    Definendo

    ã(−�k) = b�(�k) (9.31)

    la forma più generale per la funzione d’onda di Klein-Gordon è data da

    ψ(x) =1√

    (2π)3

    ∫d3k

    1√2ωk

    [a(�k)e−ikx + b�(�k)eikx

    ]≡∫

    d3k[f�ka(�k) + f ∗�k b

    �(�k)] (9.32)

    X. IL PROPAGATORE RELATIVISTICO.

    Dopo aver visto che le equazioni relativistiche danno luogo a soluzioni ad energia nega-

    tiva che a loro volta sono reinterpretabili in termini di stati di antiparticelle, cercheremo

    di generalizzare le considerazioni fatte nelle Sezioni 3 sulla teoria del propagatore al caso

  • 50

    relativistico. Ricordiamo che il propagatore G(x′, x) rappresenta l’ampiezza di probabilità

    per un’onda in x di propagarsi sino al punto x′. Abbiamo anche visto che il propagatore

    ammette un’espansione perturbativa (se il potenziale di interazione è sufficientemente picco-

    lo) data dalla (3.20). Cioè l’ampiezza è rappresentabile come una somma di ampiezze il cui

    termine generico ùn prodotto di fattori corrispondenti al diagramma di Fig. 14 (diagramma

    di Feynman), dove ogni linea rappresenta l’ampiezza G0(xi; xi−1) affinché l’onda generata

    in xi−1 si propaghi liberamente sino al punto xi. Nei punti xi l’onda incidente viene scatte-

    rata con un’ampiezza di probabilità per unità di volume, data dal valore del potenziale di

    interazione in quel punto. Per ottenere l’ampiezza totale occorre integrare su tutti i punti

    nei quali può avvenire l’interazione. Con altro linguaggio si può dire che il potenziale di

    interazione distrugge la particel