Appunti per il corso di Elettrodinamica: (A.A....
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Appunti per il corso di Elettrodinamica:
(A.A. 1993/94)
Roberto Casalbuoni∗
Dipartimento di Fisica dell’Universita’ di Firenze, 50019, FirenzeSezione INFN, 50019 Firenze
Contents
I. Introduzione. 3
II. Unità naturali. 12
III. Il propagatore non-relativistico. 14
IV. Le proprietà formali del propagatore. 19
V. La matrice di scattering. 25
VI. Scattering coulombiano. 30
VII. Le teorie relativistiche. 35
VIII. La teoria dei buchi di Dirac. 40
IX. Soluzioni dell’equazione di Klein-Gordon. 46
X. Il propagatore relativistico. 49
XI. La matrice S. 56
XII. Formalismo lagrangiano per l’equazione di Klein-Gordon. 60
XIII. L’interazione elettromagnetica. 62
XIV. Lo scattering coulombiano relativistico. 70
∗Electronic address: [email protected]
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XV. L’equazione d’onda per il fotone. 72
XVI. Scattering di particelle scalari. 77
XVII. Scattering Compton. 88
XVIII. L’equazione di Dirac. 93
XIX. Covarianza dell’equazione di Dirac. 96
XX. Soluzioni dell’equazione di Dirac per particella libera. 101
XXI. Limite non relativistico dell’equazione di Dirac. 108
XXII. Coniugazione di carica, inversione temporale e CPT. 111
XXIII. Normalizzazione delle soluzioni dell’equazione di Dirac. 117
XXIV. Il propagatore di Dirac e la matrice S. 119
XXV. L’interazione elettromagnetica per una particella di Dirac. 122
XXVI. Scattering e−µ− → e−µ− (caso con spin). 125
XXVII. Conservazione dell’elicità ad alte energie. 132
XXVIII. Ampiezze di elicità. 138
XXIX. Scattering Compton (caso con spin). 140
XXX. Le proprietà del protone. 145
XXXI. Il modello a quark. 150
XXXII. Scattering elastico elettrone-protone. 163
XXXIII. Scattering anelastico elettrone-protone. 173
XXXIV. Il modello a partoni. 178
XXXV. Le funzioni di struttura. 187
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XXXVI. Cromodinamica quantistica (QCD). 194
XXXVII. Correzioni di ordine superiore. 203
XXXVIII. Lamb-shift e g − 2. 208
XXXIX. Rinormalizzazione. 212
XL. Interazioni deboli. 220
XLI. Probabilità di decadimento e decadimento del µ. 226
XLII. I bosoni vettoriali intermedi. 233
XLIII. Il modello standard per le interazioni elettro-deboli. 241
XLIV. l meccanismo di Higgs e modello standard. 249
XLV. Determinazione di sin2 θ. 259
XLVI. Scattering elettrone positrone in coppie di fermioni. 266
XLVII. Proprietà della Z. 273
A. Calcolo di un integrale 280
I. INTRODUZIONE.
Nell’arco di questo corso ci occuperemo dello studio dei processi fondamentali che avven-
gono tra particelle elementari. Il primo problema é dunque quello di definire le particelle
elementari e le loro interazioni. Il concetto di particella, o di costituente fondamentale della
materia, si è evoluto in modo drammatico nel corso dei secoli ed in un certo senso non può
dirsi completamente acquisito. Possiamo ricordare che Anassimene di Mileto pensava alla
materia come costituita da acqua, fuoco, aria e terra, mentre 25 secoli dopo Mendeleev la
immaginava costituita da circa 100 elementi. L’enorme regolarità della tavola di Mendeleev
fu successivamente spiegata immaginando i nuclei atomici costituiti da protoni (in numero
Z) e da neutroni (in numero A−Z, dove A è il cosi detto numero atomico), rispettivamentedi carica elettrica pari ad e (e = 1.602 × 10−19C.) e zero. I neutroni ed i protoni, detti
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genericamente nucleoni, sono tenuti assieme da una forza, detta forza forte, entro distanze
dell’ordine di 10−13 cm. (raggio tipico nucleare). Evidentemente questa forza deve essere
molto più forte della forza elettromagnetica che altrimenti renderebbe instabile il nucleo. I
nuclei si legano poi agli elettroni (in numero pari ai protoni) in modo da formare i familiari
atomi neutri che altro non sono che gli elementi di Mendeleev. In questo modo la strut-
tura della tavola di Mendeleev viene riportata alla descrizione delle interazioni tra 3 soli
componenti, il protone (p), il neutrone (n) e l’elettrone (e).
Nel 1896, con la scoperta della radioattività fatta da Bequerel, la situazione diventava
più complessa. Nel decadimento β un nucleo con A nucleoni e Z protoni, (A,Z), decade in
nucleo di tipo (A,Z + 1) con emissione di un elettrone (raggio β):
(A,Z) → (A,Z + 1) + e− (1.1)
Questo processo può anche pensarsi direttamente a livello di nucleoni, come il decadimento
di un neutrone
n→ p+ e− (1.2)
Osservando lo spettro di energia degli elettroni emessi in questo decadimento si può verificare
che l’energia non è conservata. Pauli nel 1930 osservò che si poteva salvare la conservazione
dell’energia pur di ammettere che nel processo prendesse parte un’ulteriore particella neutra,
che fu chiamata neutrino da Fermi. Dunque il decadimento del neutrone deve essere visto
come un decadimento a 3 corpi:
n→ p+ e− + ν̄e (1.3)
Occorre anche osservare che nel 1930 le uniche particelle conosciute erano il protone e l’e-
lettrone, mentre il neutrone sarebbe stato scoperto solo due anni dopo da Chadwick, però
Rutherford ne aveva ipotizzato l’esistenza sin dal 1920. Il processo di decadimento β non
può essere attribuito all’interazione forte, infatti la lunga vita media del neutrone (circa
10 minuti) implica che l’interazione responsabile debba essere molto più debole della stessa
interazione elettromagnetica.
A partire dal 1947 con la scoperta del pione (mesone π) e poi successivamente nel 1952
con la cosi detta ∆++, il numero delle particelle soggette ad interazioni forti cominciò ad
aumentare fino a raggiungere un numero dell’ordine di duecento nel giro di pochi anni.
Tutte queste particelle sono instabili con vite medie molto piccole, dell’ordine di 10−23 s.
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Questo fatto porta alla conclusione che l’interazione responsabile di questi decadimenti sia
la stessa interazione forte responsabile del legame nucleare. Inoltre si arriva anche alla
conclusione che queste particelle (i barioni) siano stati eccitati del protone e del neutrone, e
che questi ultimi non siano dunque particelle elementari ma dotati di gradi di libertà interni.
I barioni, che sono un sottoinsieme degli adroni (particelle che interagiscono fortemente),
sono caratterizzati da avere spin semiintero, contrariamente ai mesoni (l’altra sottoclasse dei
barioni) che hanno spin intero. In opposizione agli adroni si hanno i leptoni, costituiti da
elettrone e neutrino, che sono caratterizzati oltre che dal fatto di essere leggeri (il protone
ha una massa circa 2000 volte più grande dell’elettrone ed il neutrino ha probabilmente
massa nulla), anche dalla circostanza di non essere soggetti ad interazione forte. L’elettrone
ha interazioni elettromagnetiche e deboli, mentre il neutrino ha solo interazioni deboli (è
elettricamente neutro). Anche la classe dei leptoni era destinata ad ingrandirsi, infatti nel
1936 fu scoperto il muone che ha le stesse proprietà dell’elettrone, salvo avere una massa
circa 200 volte più grande, inoltre successivamente è stato scoperto una nuova specie di
neutrino associato al muone, ed infine un altro leptone pesante, il τ con il suo neutrino.
Sebbene anche i leptoni siano cresciuti in numero, le loro proprietà sono consistenti con il
considerarli come oggetti privi di struttura interna, e quindi sono considerati a tutt’oggi
particelle elementari. Per quanto invece riguarda gli adroni, gli esperimenti effettuati a
SLAC alla fine degli anni ’60 hanno mostrato in modo inequivocabile la struttura composta
del protone, ed inoltre hanno confermato il modello a quark che era stato introdotto nel
1964 da Gell-Mann e Zweig. Nel modello originario erano presenti tre tipi di quark, il qurk
up (u), il quark down (d) ed il quark strano (s). Le cariche elettriche di questi quark sono
rispettivamente +2/3, −1/3 e −1/3. I quark u e d sono quelli importanti per quanto concernela materia ordinaria, infatti il protone è costituito da uud, mentre il neutrone da udd. Il
quark strano è invece necessario per spiegare le cosi dette particelle strane, quali i mesoni
K, o i barioni Λ. Ma il fatto che convinse maggiormente i fisici dell’esistenza dei quark, fu la
scoperta della particella J/Ψ nel Novembre del 1974 (quel periodo viene oggi ricordato come
la rivoluzione di Novembre). Infatti questa particella è uno stato composto di una coppia
di quark charm (c) la cui esistenza era stata predetta da Glashow. Il quark charm ha carica
+2/3 e può essere considerato come un partner del quark strano. Successivamente è stata
osservata un’altra risonanza che è stata interpretata come uno stato composto di una nuova
coppia di quark, il bottom (b) di carica −1/3. Infine la teoria attuale prevede l’esistenza di
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un sesto quark, il top (t), di carica +2/3, partner del bottom. Ci sono evidenze indirette
sull’esistenza e sulla massa di questa particella dalle osservazioni fatte all’acceleratore LEP
del CERN di Ginevra, e ci sono un certo numero di eventi attribuibili al top, osservati
al FERMILAB di Chicago. È probabile che ne venga annunciata ufficialmente l’esistenza
nel corso del 1994. La situazione dei quark è analoga a quella dei leptoni, cioè tutte le
osservazioni sono consistenti con il considerarli privi di struttura interna. Dunque, in questo
corso, chiameremo particelle elementari i quark ed i leptoni (per una descrizione delle loro
proprietà vedi la tabella nella pagina successiva).
Dobbiamo ora discutere un momento le interazioni tra queste particelle. Abbiamo già
visto che si hanno tre tipi di forze, quella elettromagnetica, la debole e la forte. Quest’ultima
deve essere ora pensata come una interazione tra quark. La forza di interazione tra i nucleoni,
è invece il residuo dell’interazione tra quark, cosi come la forza di Van der Waals è la forza
residua tra atomi neutri della forza elettrica tra i loro costituenti. Avremo infine l’interazione
gravitazionale che però risulta essere di gran lunga la più debole. Queste sono le forze a
tutt’oggi conosciute e tutti i fenomeni fin qui noti sono riconducibili a questo schema di
particelle elementari e di forze. Discuteremo più avanti come si descrivano queste forze ed a
quali fenomeni danno luogo. È però opportuno fare adesso alcune considerazioni sugli ordini
di grandezza in gioco.
Gli esperimenti che vengono effettuati nel campo delle particelle elementari sono tipica-
mente esperimenti di scattering. Vedremo in seguito in maggior dettaglio la loro descrizione
ed il tipo di informazioni che permettono di ottenere. Per il momento ci limitiamo a descri-
vere in modo molto qualitativo ciò che viene fatto. L’ idea è quella di far urtare un fascio
preparato di particelle su di un bersaglio e contare le particelle diffuse. È comodo però
definire una quantità che sia specifica dell’interazione e non dipenda dall’intensità del fascio
o dal numero di centri diffusori. Questa grandezza è la sezione d’urto. Essa è definita come
il rapporto tra il numero di particelle diffuse per unità di tempo e centro di scattering, N
ed il numero di particelle incidenti per unità di tempo e di superficie trasversale al fascio, n.
Quindi, se Ni è il numero di particelle incidenti nel tempo ∆t (vedi Fig. 1),
Ni = nS∆t (1.4)
e se Nd è il numero di particelle diffuse nel tempo ∆t e per centro di scattering
Nd = N∆t (1.5)
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Nome Spin Numero Barionico Numero Leptonico Carica Massa
Quarks
u 1/2 1/3 0 + 2/3 2 ÷ 8 MeV
d 1/2 1/3 0 - 1/3 5 ÷ 15 MeV
c 1/2 1/3 0 + 2/3 1.3 ÷ 1.7 GeV
s 1/2 1/3 0 - 1/3 100 ÷ 300 MeV
t 1/2 1/3 0 + 2/3 175 ± 6 GeV
b 1/2 1/3 0 - 1/3 4.7 ÷ 5.3 GeV
Leptoni
e 1/2 0 1 -1 0.511 MeV
νe 1/2 0 1 0 ≤ 7.3 eV
µ 1/2 0 1 -1 105.7 MeV
νµ 1/2 0 1 0 ≤ 0.27 MeV
τ 1/2 0 1 -1 1784 MeV
ντ 1/2 0 1 0 ≤ 35 MeV
si ha per la sezione d’urto
σ =N
n=
(Nd/∆t)
(Ni/(S∆t))=NdNiS (1.6)
È uso introdurre la sezione d’urto differenziale allorché si misurino le particelle scatterate
per unità di angolo solido. Se invece si misura il totale delle particelle diffuse si parla di
sezione d’urto totale. In ogni caso la sezione d’urto è una grandezza delle dimensioni di
una superficie, ed almeno nei casi semplici è essenzialmente data dall’area geometrica del
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bersaglio. Questo succede in particolare quando questa sia la sola grandezza con dimensioni
di un’area che entra nel problema. Per esempio, se si illumina un bersaglio con luce avente
lunghezza d’onda molto maggiore delle dimensioni del bersaglio, la sezione d’urto è data da
σ ≈ 4πR2 (1.7)
dove R è la dimensione lineare del bersaglio stesso. Per esempio, se si fanno scatterare fotoni
su elettroni, con
λfotone >> λCompton =/h
mec(1.8)
cioè il caso dello scattering Thompson, si trova
σThompson =2
34πR2cl (1.9)
dove Rcl è il raggio classico dell’elettrone, definito come il raggio che l’elettrone dovrebbe
avere se tutta la sua massa fosse di origine elettromagnetica
e2
4π�0Rcl= mec
2 (1.10)
da cui
Rcl =e2
4π�0mec2(1.11)
È importante osservare che il raggio classico si può scrivere in modo leggermente diverso
introducendo la lunghezza d’onda Compton dell’elettrone
Rcl =e2
4π�0/hc
/h
mec= αλeCompton (1.12)
dove si è introdotta la costante di struttura fine
α =e2
4π�0/hc(1.13)
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Poiché e2/(4π�0) ha le dimensioni di una energia per una lunghezza si vede che α è adi-
mensionale (anche /hc ha le dimensioni di un’energia per una lunghezza). La quntità che
è misurata in modo migliore negli esperimenti è proprio questa costante, piuttosto che la
carica elettrica dell’elettrone. Il suo valore (misurato nel limite di bassa energia del fotone
qui considerato) è
α =1
137.0359895(61)(1.14)
(le due cifre in parentesi sono l’incertezza sulle ultime due cifre). Usando
me = 9.1093897(54)× 10−31 Kg
/h = 1.05457266(63)× 10−34 J sec, c = 2.99792458 × 108 mt/sec (1.15)
(ricordiamo che adesso la velocità della luce è presa come unità di misura per le lunghezze,
cioè il metro è definito come la distanza percorsa dalla luce in un tempo pari a 1/299792458
sec), si trova
λeCompton =/h
mec= 3.862 × 10−13 mt = 386.2 fermi (1.16)
(1 fermi = 10−13cm). Pertanto
Rcl = 2.82 fermi (1.17)
e
σThompson = 66.5 × 10−26 cm2 = 665 mbarn (1.18)
(1 barn= 10−24 cm2, 1 mbarn = 10−3 barn). Con la decomposizione effettuata del raggio
classico dell’elettrone, la formula dello scattering Thompson ammette l’intepretazione pit-
torica data in Fig. 2 (vedremo poi in realtà come questa interpretazione possa rendersi
rigorosa). Il fotone e l’elettrone iniziali interagiscono con un’ampiezza di probabilità pro-
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porzionale a√α dando luogo ad un elettrone intermedio che successivamente produce un
fotone, ancora con ampiezza di probabilità proporzionale a√α. La sezione d’urto, che è
proporzionale alla probabilità per un fotone ed un elettrone iniziali di produrre ancora un
fotone ed un elettrone, risulta a sua volta proporzionale a
(√α×
√α)2 = α2 (1.19)
Notiamo anche che la condizione che qui abbiamo richiesto per lo scattering Thompson,
λfotone >> λeCompton, implica
λfotone =2πc
ω>>
/h
mec=⇒ /hω
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da cui
αH ≈ 1 ÷ 10 (1.25)
Questo ci dà una misura della forza dell’interazione forte. Un risultato consistente con questa
interpretazione si può ottenere anche studiando la vita media di decadimento delle risonanze
adroniche, cioè di quegli stati che abbiamo detto potersi interpretare come eccitazioni del
protone. Poiché l’accoppiamento è di ordine uno, ci possiamo aspettare che la vita media di
un adrone sia data dalla scala di tempi tipica del problema, cioè
τ ≈λpCompton
c=
/h
mpc2= 6.8 × 10−25 sec (1.26)
(λpCompton = 2.04 × 10−14 cm = 0.2 fermi). Infatti le tipiche vite medie misurate nei de-cadimenti adronici sono dell’ordine di 10−23 sec. Le vite medie che si osservano invece nei
decadimenti elettromagnetici (quali π0 → 2γ) sono di circa 104 ÷ 106 volte più lunghe. Equesto è in accordo con quanto visto sopra, dato che gli accoppiamenti forti sono 105 ÷ 106
volte più intensi, se si assume (τelettr.τforte
)≈(αHα
)2(1.27)
Come abbiamo già osservato all’inizio, oltre alle interazioni forti ed elettromagnetiche ci sono
anche le interazioni deboli. I decadimenti corrispondenti danno luogo a vite medie molto
più lunghe che vanno dai circa 10 minuti del neutrone ai 10−12 sec. per π− → e− + ν̄e o ai10−10 sec. per Σ+ → n+π+. Per analogia introduciamo un accoppiamento debole, αW , taleche (
τforteτdebole
)≈(αWαH
)2≈ 10
−23
10−10= 10−13 (1.28)
Quindi, con αH ≈ 1 segueαW ≈ 10−6 (1.29)
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Fino a questo momento non abbiamo specificato quale sia l’effettivo meccanismo di inte-
razione responsabile delle interazioni forti o delle interazioni deboli. Abbiamo visto però
che nel caso delle interazioni elettromagnetiche si suppone che l’interazione avvenga tramite
i fotoni. Noi considereremo l’interazione forte a livello dei quark e quella debole a livello
dei quark e dei leptoni. Come si vedrà l’interazione forte è assunta simile a quella elettro-
magnetica, ma invece di avvenire tramite una singola particella vettoriale a massa zero (il
fotone), avviene tramite 8 particelle vettoriali a masssa nulla (i cosi detti gluoni). Per quanto
concerne l’interazione debole invece l’interazione avviene tramite 3 particelle vettoriali ma
aventi massa dell’ordine di 100 GeV (lo Z0 ed i W±). Menzioniamo qui questo fatto perché
come apparirà chiaro, l’interazione debole è tale a causa del fatto che i mediatori di queste
interazioni hanno massa, e non a causa della piccolezza dell’accoppiamento. Mostreremo
infatti che la relazione precedente va piuttosto reinterpretata come
αW =α
(mW/mp)2≈ 10−6 (1.30)
II. UNITÀ NATURALI.
Nella prima sezione abbiamo visto che in tutte le formule entrano le due costanti fonda-
mentali, c e /h, la velocità della luce e la costante di Planck rispettivamente. Quando si sia
in situazione di questo genere è sempre conveniente scegliere un sistema di unità di misura
(detto di unità naturali) in cui queste costanti abbiano un valore numerico uguale ad uno.
Quindi in tutto il corso adotteremo il sistema di unità in cui
c = /h = 1 (2.1)
Per quanto riguarda le unità elettriche assumeremo ulteriormente �0 = 1 (sistema di
Heaviside-Lorentz). Dalla relazione �0µ0 = 1/c2 segue allora che anche µ0 = 1. In questo
sistema la forza di interazione Coulombiana si scrive
|�F | = e1e24π
1
|�x1 − �x2|2(2.2)
Inoltre le equazioni di Maxwell assumono la forma più semplice possibile. Per esempio la
legge di Gauss è semplicemente
�∇ · �E = ρ (2.3)
dove ρ è la densità di carica.
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Se consideriamo le grandezze fisiche introdotte nella sezione precedente abbiamo
λCompton =1
m, α =
e2
4π(2.4)
ed analogamente per la vita media forte si ha
τ ≈ 1mp
(2.5)
Come vediamo tutte le grandezze possono essere espresse in dimensioni di energia, di massa,
di lunghezza o di tempo indifferentemente. Infatti si hanno le seguenti equivalenze
ct ≈ =⇒ tempi ≈ lunghezzeE ≈ mc2 =⇒ energie ≈ masseE ≈ pv =⇒ energie ≈ impulsiEt ≈ /h =⇒ energie ≈ (tempi)−1 ≈ (lunghezze)−1
Se si ha una grandezza data in unità di energia, per scriverla in unità di lunghezza si può
osservare che il prodotto c/h ha dimensioni [E · ]. Dunque
c/h = 3 · 108 mt · sec−1 · 1.05 · 10−34 J · sec = 3.15 · 10−26 J · mt (2.6)
e ricordando
1 eV = e · 1 = 1.602 · 10−19 J (2.7)
segue
c/h =3.15 · 10−261.6 · 10−13 MeV · mt = 197 MeV · fermi (2.8)
Da cui
1 MeV−1 = 197 fermi (2.9)
Tramite questa relazione possiamo convertire immediatamente un’energia data in MeV (che
è la tipica unità di misura usata in particelle elementari) in fermi, notiamo a questo proposito
cha anche le masse delle particelle vengono date in MeV . Per esempio, la lunghezza d’onda
Compton dell’elettrone sarà
λeCompton =1
me≈ 1
0.5 MeV≈ 200 MeV · fermi
0.5 MeV≈ 400 fermi (2.10)
È dunque sufficiente ricordarsi la relazione 1 = 200 MeV · fermi. Inoltre da
c = 3 · 1023 fermi · sec−1 (2.11)
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si ha
1 fermi = 3.3 · 10−24 sec (2.12)
e quindi
1 MeV−1 = 6.58 · 10−22 sec (2.13)
Infine usando
1 barn = 10−24 cm2 (2.14)
segue da (2.9)
1 GeV−2 = 0.389 mbarn (2.15)
III. IL PROPAGATORE NON-RELATIVISTICO.
In questa sezione introdurremo il metodo del propagatore per trattare i problemi di scat-
tering. Inizieremo la discussione dal caso non-relativistico perché solo dopo aver ben capito i
problemi in questo caso saremo in grado di discutere cosa succede allorché le energie in gioco
nel problema sono sufficentemente grandi da produrre coppie di particelle-antiparticelle. Il
problema della produzione di coppie può essere affrontato in modo completo facendo uso
della teoria quantistica dei campi. Noi faremo uso invece del metodo del propagatore che
evita l’introduzione di un cospicuo bagaglio di nozioni matematiche ma che rende molto
esplicita la fisica del problema tramite una opportuna reinterpretazione delle antiparticelle.
In un tipico problema di scattering siamo interessati alla descrizione delle soluzioni del-
l’equazione di Schrödinger che si evolvono nel tempo a partire da certe condizioni iniziali
assegnate. La domanda è quella di calcolare l’ampiezza di probabilità per una particella,
che nel lontano passato è descritta da una soluzione libera (per esempio da un autostato
dell’impulso), dopo aver subito l’azione di un potenziale, dia luogo ancora ad uno stato
libero nel lontano futuro (descritto ancora da un autostato dell’impulso). Questa doman-
da corrisponde ad una idealizzazione di un esperimento di scattering in cui si prepara un
fascio di particelle con impulso più o meno ben definito, successivamente si fa interagire il
fascio con un bersaglio, ed infine si vanno ad osservare a grande distanza dalla regione di
interazione, le particelle diffuse. In queste condizioni sperimentali è in genere una buona
approssimazione considerare le particelle entranti ed uscenti come autostati dell’impulso.
Per risolvere questo tipo di problema dovremo per prima cosa, data la condizione al con-
torno a t = −∞, studiare l’evoluzione della funzione d’onda a t = +∞ nel potenziale dato.
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Successivamente, a partire da quest’ultima potremo calcolare l’ampiezza di probabilità per
trovare il nostro sistema in un dato stato a t = +∞. Prima di passare ad una descrizioneformale del problema, possiamo cercare di visualizzare il processo a partire dal principio di
Huygens. L’idea è molto semplice, se noi conosciamo la ψ(�x , t) ad un particolare istante t,
la potremo calcolare ad ogni istante successivo considerando ogni punto �x al tempo t come
una sorgente di onde sferiche che si propagano a partire da questo stesso punto. Ovviamente
l’ampiezza dell’onda in (�x ′, t′) sarà proporzionale all’ampiezza in (�x , t). Indicando questa
costante di proporzionalità con iG(�x ′, t′; �x , t), avremo
ψ(�x ′, t′) = i∫
d3�x G(�x ′, t′; �x , t)ψ(�x , t), t′ > t (3.1)
La quantità G(�x ′, t′; �x , t) è nota come funzione di Green o propagatore. Essa ci permette
di determinare l’evoluzione temporale della funzione d’onda e quindi la sua conoscenza è
equivalente a risolvere l’equazione di Schrödinger. Vediamo dunque che in generale il calcolo
del propagatore sarà estremamente complicato. D’altra parte ci aspettiamo di poter calcolare
esattamente il propagatore libero G0(�x′, t′; �x , t). Faremo adesso vedere in modo euristico
come sia possibile calcolare perturbativamente il propagatore in presenza di un’interazione.
Ovviamente la condizione essenziale è che questa interazione sia piccola (in qualche senso
che specificheremo nel seguito). Per fare questa discussione cominciamo con il supporre di
avere un potenziale di interazione V (�x 1, t1) che è diverso da zero solo per un intervallo di
tempo piccolo ∆t1 nell’intorno di t1. Prima dell’stante t1 la funzione d’onda si evolverà in
modo libero e la sua propagazione sarà descritta da G0. Nell’intervallo ∆t1 avremo invece(i∂
∂t1−H0
)ψ(�x 1, t1) = V (�x 1, t1)ψ(�x 1, t1) (3.2)
Qui H0 è l’hamiltoniana libera data da
H0 = −1
2m�∇2 (3.3)
Il potenziale V crea una perturbazione all’onda libera φ. Ponendo ψ = φ+ ∆ψ, avremo che
∆ψ sarà del primo ordine in ∆t1 e quindi sostituendo
i∂
∂t1∆ψ(�x 1, t1) = V (�x 1, t1)φ(�x 1, t1) +H0∆ψ(�x 1, t1) + V∆ψ(�x 1, t1) (3.4)
Integrando questa equazione al primo ordine in ∆t1 si ha (nota che ∆ψ∆t è del secondo
ordine)
∆ψ(�x 1, t1) = −iV (�x 1, t1)φ(�x 1, t1)∆t1 (3.5)
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Questa onda addizionale, dopo l’istante t1, continuerà a propagarsi in modo libero. Quindi
al tempo t′ > t1 si avrà
ψ(�x ′, t′) = φ(�x ′, t′) + ∆ψ(�x ′, t′) (3.6)
Ma come osservato, sia φ che ∆ψ si evolvono adesso in modo libero. Se la condizione iniziale
è data a t < t1, si avrà
φ(�x ′, t′) = i∫
d3�x G0(�x′, t′; �x , t)φ(�x , t) (3.7)
e
∆ψ(�x ′, t′) =∫
d3�x 1 G0(�x′, t′; �x 1, t1)V (�x 1, t1)φ(�x 1, t1)∆t1 (3.8)
Si ha dunque, sostituendo nella (3.6)
ψ(�x ′, t′) = φ(�x ′, t′) +∫
d3�x 1∆t1G0(�x′, t′; �x 1, t1)V (�x 1, t1)φ(�x 1, t1) (3.9)
od anche
ψ(�x ′, t′) = i∫
d3�x[G0(�x
′, t′; �x , t) +
+
∫d3�x 1∆t1G0(�x
′, t′; �x 1, t1)V (�x 1, t1)G0(�x 1, t1; �x , t)]φ(�x , t) (3.10)
Da questa espressione possiamo leggere il propagatore corretto per effetto della perturbazione
V :
G(�x ′, t′; �x , t) = G0(�x′, t′; �x , t) +
∫d3�x 1∆t1G0(�x
′, t′; �x 1, t1)V (�x 1, t1)G0(�x 1, t1; �x , t)
(3.11)
Il grosso vantaggio di questa descrizione è quello di avere una interpretazione molto semplice
in termini di eventi spazio-temporali, fatto che ci permetterà di estendere facilmente il
formalismo al caso relativistico. L’interpretazione è data in Fig. 4.
Il propagatore consiste di due termine, il primo dà la propagazione libera da (�x , t) a
(�x 1, t1), il secondo rappresenta invece una propagazione libera della particella da (�x , t) a
(�x 1, t1) dove subisce uno scattering da parte del potenziale V (�x 1, t1) (che agisce in modo
praticamente istantaneo al tempo t1). Successivamente la particella si propaga ancora in
modo libero da (�x 1, t1) a (�x′, t′). Nel secondo termine si deve anche integrare su tutti i
possibili punti �x 1 dove il potenziale è diverso da zero. Mostriamo adesso come si estende il
formalismo se il potenziale ha una dipendenza temporale arbitraria. È abbastanza intuitivo
-
17
che ciò che dovremo fare è di effettuare anche un’integrazione su tutti i possibili tempi in
cui V è diverso da zero. Per convicersene assumiamo che oltre a V (�x 1, t1) diverso da zero
nell’intorno di t1 esista anche un altro potenziale V (�x 2, t2) diverso da zero in un intorno
∆t2 di t2, con t2 > t1. Per semplicità introduciamo adesso notazioni quadri-dimensionali.
Poniamo x′ = (�x ′, t′), x = (�x , t) e denotiamo con i = (�x i, ti) il punto in cui agisce il
potenziale V . Il potenziale V (2) darà un contributo all’onda ψ(x′) che si potrà calcolare
ancora con la (3.8)
∆ψ(x′) =∫
d3�x 2 G0(x′; 2)V (2)ψ(2)∆t2 (3.12)
Possiamo calcolare ψ(2) dall’espressione (3.9) che vale per ogni t′ > t1,
∆ψ(x′) =∫
d3�x 2 G0(x′; 2)V (2)∆t2
[φ(2) +
∫d3�x 1∆t1G0(2; 1)V (1)φ(1)
]=
=
∫d3�x 2∆t2G0(x
′; 2)V (2)φ(2) +
+
∫d3�x 1 d
3�x 2∆t1∆t2G0(x′; 2)V (2)G0(2; 1)V (1)φ(1) (3.13)
Questi due contributi vanno aggiunti ai due precedenti e sono rappresentati in Fig. 5.
Vediamo come il secondo termine produce un doppio scattering da parte del potenziale.
L’onda totale al tempo t′ > t2 > t1 sarà allora
ψ(x′) = φ(x′) +∫
d3�x 1∆t1G0(x′, 1)V (1)φ(1) +
∫d3�x 2∆t2G0(x
′, 2)V (2)ψ(2) =
= φ(x′) +∫
d3�x 1∆t1G0(x′, 1)V (1)φ(1) +
∫d3�x 2∆t2G0(x
′, 2)V (2)φ(2) +
+
∫d3�x 1∆t1 d
3�x 2∆t2G0(x′, 2)V (2)G0(2, 1)V (1)φ(1) (3.14)
Se adesso scomponiamo il generico potenziale V (t) in tanti potenziali V (ti) con t1 < t2 <
· · · < tn nell’intervallo temporale t < t′, dovrebbe essere abbastanza evidente come si
-
18
generalizza la precedente formula
ψ(x′) = φ(x′) +∑
i
∫d3�x i∆tiG0(x
′; i)V (i)φ(i) +
+∑ti>tj
∫d3�x i∆ti d
3�x j∆tjG0(x′; i)V (i)G0(i, j)V (j)φ(j) +
+∑
ti>tj>tk
∫d3�x i∆ti d
3�x j∆tj d3�x k∆tk G0(x
′; , i)V (i)G0(i; j)G0(j; k)V (k)φ(k) +
+ · · · (3.15)
Ricordando infine che ciascuna φ(i) si evolve liberamente a partire da x
φ(i) =
∫d3�x G0(i; x)φ(x) (3.16)
si ha
ψ(x′) = i∫
d3�x[G0(x
′; x) +∑
i
∫d3�x i∆tiG0(x
′; i)V (i)G0(i; x) +
+∑ti>tj
∫d3�x i∆ti d
3�x j∆tjG0(x′; i)V (i)G0(i, j)V (j)G0(j; x) + · · ·
]φ(x) (3.17)
L’espressione per il propagatore sarà allora
G(x′; x) = G0(x′; x) +∑
i
∫d3�x i∆tiG0(x
′; i)V (i)G0(i; x) +
+∑ti>tj
∫d3�x i∆ti d
3�x j∆tjG0(x′; i)V (i)G0(i, j)V (j)G0(j; x) + · · · (3.18)
-
19
Adesso vorremmo prendere il limite continuo di questa relazione. È però scomoda la re-
strizione che si ha sull’ordinamento temporale ti > tj. Possiamo però omettere questa
restrizione se definiamo il propagatore libero G0(x′; x) nullo per t′ < t:
G0(x′; x) = 0 per t′ < t (3.19)
Il propagatore cos̀ı definito è chiamato propagatore ritardato. Il suo significato fisico è
connesso alla causalità, cioè nessuna delle onde che ha origine al tempo ti per effetto del-
l’interazione può apparire ad un tempo precedente a ti. In altri termini G0 può solo pro-
pagare le particelle in avanti nel tempo. Con l’uso del propagatore ritardato, nel limite di
una interazione continua nel tempo, possiamo sostituire le somme sugli intervalli temporali
discretizzati, con un integrale temporale. Avremo allora
G(x′; x) = G0(x′; x) +∫
d4x1G0(x′; x1)V (x1)G0(x1; x) +
+
∫d4x1 d
4x2G0(x′; x1)V (x1)G0(x1, x2)V (x2)G0(x2; x) + · · · (3.20)
dove abbiamo posto
d4x = d3�x dt (3.21)
Da questa espressione vediamo che anche G(x′; x) è nullo per t′ < t. Se supponiamo che il
precedente sviluppo converga, possiamo effettuare esplicitamente la somma. Infatti possiamo
riscrivere l’espressione per G(x′; x) nel seguente modo
G(x′; x) = G0(x′; x) +∫
d4x1G0(x′; x1)V (x1)
[G0(x1; x) +
+
∫d4x2G0(x1, x2)V (x2)G0(x2; x) + · · · (3.22)
ed osservare che l’espressione in parentesi non è altro che il propagatore stesso
G(x′; x) = G0(x′; x) +∫
d4x1 G0(x′; x1)V (x1)G(x1; x) (3.23)
IV. LE PROPRIETÀ FORMALI DEL PROPAGATORE.
Nel paragrafo precedente abbiamo derivato in modo euristico il propagatore e alcune
delle sue proprietà. Vogliamo adesso mostrare come sia possibile costruirlo direttamente a
partire dall’equazione di Schrödinger. Il tipo di problema che si ha è che viene assegnata
la funzione d’onda del problema ad un certo istante (usualmente −∞) e vogliamo costruire
-
20
la soluzione ad un generico istante successivo. Poiché l’equazione di Schrödinger è lineare
anche la soluzione del nostro problema sarà lineare rispetto alla funzione d’onda iniziale.
Scriveremo dunque
θ(t′ − t)ψ(x′) = i∫
d3�x G(x′; x)ψ(x) (4.1)
La θ(t) è l’usuale funzione a gradino:
θ(t) = 1, t > 0
θ(t) = 0, t < 0 (4.2)
e ricordiamo che ha la rappresentazione integrale
θ(t) = lim�→0+
i
2π
∫ +∞−∞
e−iωtω + i�
dω (4.3)
Inoltre ha la proprietà che la sua derivata è una funzione δ di Dirac
dθ(t)
dt=
1
2π
∫ +∞−∞
e−iωtdω = δ(t) (4.4)
Con questa assunzione per la soluzione, vogliamo vedere quali siano le proprietà della G
e mostrare che essa coincide infatti con la soluzione dell’equazione (3.23). Se applichiamo
l’operatore di Schrödinger alla (4.1) si trova(i∂
∂t′−H(x′)
)θ(t′ − t) = iδ(t′ − t)ψ(x′) = i
∫d3�x
(i∂
∂t′−H(x′)
)G(x′; x)ψ(x) (4.5)
da cui confrontando
δ(t′ − t)ψ(x′) =∫
d3�x
(i∂
∂t′−H(x′)
)G(x′; x)ψ(x) (4.6)
cioè (i∂
∂t′−H(x′)
)G(x′; x) = δ4(x′ − x) (4.7)
Dobbiamo dunque risolvere questa equazione differenziale con l’ulteriore condizione al
contorno
G(x′; x) = 0, t′ < t (4.8)
Se l’hamiltoniana H è della forma H = H0 + V , potremo scrivere(i∂
∂t′−H0(x′) − V (x′)
)G(x′; x) = δ4(x′ − x) (4.9)
-
21
od anche (i∂
∂t′−H0(x′)
)G(x′; x) = δ4(x′ − x) + V (x′)G(x′; x) (4.10)
Introducendo la funzione di Green per il problema libero (V = 0)(i∂
∂t′−H0(x′)
)G0(x
′; x) = δ4(x′ − x); G0(x′; x) = 0, t′ < t (4.11)
si può integrare la (4.9), ottenendo
G(x′; x) = G0(x′; x) +∫
d4x1 G0(x′; x1)V (x1)G(x1; x) (4.12)
Queste manipolazioni si semplificano di gran lunga se usiamo un formalismo operatoriale.
Se pensiamo a G(x′; x) come all’elemento di matrice di un operatore G tra autostati dell’o-
peratore di quadri-posizione xµ, l’equazione (4.7) ci dice semplicemente che G è l’operatore
inverso dell’operatore di Schrödinger. Infatti l’espressione si può riscrivere come∫d4x′′〈x′|L− V |x′′〉〈x′′|G|x〉 = 〈x′|x〉 (4.13)
dove
〈x′|L− V |x′′〉 =(i∂
∂t′−H0(x′) − V (x′)
)δ4(x′ − x) (4.14)
In termini di operatori l’equazione per G diventa allora
(L− V )G = 1 (4.15)
Riscrivendo questa equazione nella forma
LG = 1 + V G (4.16)
Poichè G0 è l’operatore inverso di L, moltiplicando questa equazione per G0 si trova
G = G0 +G0V G (4.17)
che è giusto l’equazione (4.12) in forma operatoriale.
Vediamo ora che la funzione di Green ritardata è completamente determinata se si conosce
un set completo di soluzioni dell’equazione di Schrödinger. Sebbene questa proprietà non
sia molto utile in pratica, serve invece per determinare alcune proprietà caratteristiche del
propagatore. Supponiamo dunque di avere un set di soluzioni che soddisfino la relazione di
completezza ∑n
ψn(�x′, t)ψ�n(�x , t) = δ
3(�x ′ − �x ) (4.18)
-
22
La funzione di Green è data allora dall’espressione
G(x′; x) = −iθ(t′ − t)∑
n
ψn(x′)ψ�n(x) (4.19)
dove la somma è una somma generalizzata sui numeri quantici, cioè è una somma sugli
autovalori discreti ed un integrale sugli autovalori continui. Infatti questa verifica in modo
ovvio la condizione al contorno (4.8), e l’equazione del moto (4.7)
−i(i∂
∂t′−H0(x′) − V (x′)
)θ(t′− t)
∑n
ψn(x′)ψ�n(x) = δ(t
′− t)∑
n
ψn(x′)ψ�n(x) = δ
4(x′−x)
(4.20)
Da questa rappresentazione segue subito la relazione (4.1), infatti
i
∫d3�x G(x′; x)ψm(x) = θ(t′ − t)
∑n
ψn(x′)∫
d3�x ψ�n(x)ψm(x) = θ(t′ − t)ψm(x′) (4.21)
dove si è usato l’ortogonalità delle autofunzioni. Poiché ogni funzione d’onda si può scrive-
re come una combinazione lineare di autofunzioni, la (4.1) segue per una generica funzione
d’onda. Come abbiamo già osservato, il significato fisico di questa equazione è che il propaga-
tore ritardato propaga avanti nel tempo le soluzioni dell’equazione di Schrödinger. Possiamo
ottenere una relazione simile alla precedente per la funzione d’onda complessa coniugata:
i
∫d3�x ′ ψ�m(x
′)G(x′; x) = θ(t′ − t)∑
n
(∫d3�x ′ψ�m(x
′)ψn(x′))ψ�n(x) = θ(t
′ − t)ψ�m(x)
(4.22)
Questa relazione mostra invece che il propagatore ritardato propaga indietro nel tempo
la complessa coniugata dell’equazione di Schrödinger. Questo si può capire fisicamente se
consideriamo una soluzione stazionaria che avrà una dipendenza temporale exp(−iEt). Lasua complessa coniugata ha allora una dipendenza data da exp(−iE(−t)). Od anche seguardiamo all’equazione di Schrödinger e ne prendiamo la complessa coniugata, vediamo
che per potenziali reali questo è equivalente a mandare t→ −t.Calcoliamo adesso la funzione di Green nel caso libero. Poiché l’hamiltoniana si riduce a
H0 = −1
2m�∇2 (4.23)
ed è quindi invariante per traslazioni spaziali, il propagatore può dipendere solo dalla dif-
ferenza delle coordinate. Infatti in queste condizioni l’onda che arriva al punto x′ essendo
emessa ad x può essere funzione solo di x′ − x. Se introduciamo la trasformata di Fourier
-
23
di G0
G0(x′ − x) =
∫d3p dω
(2π)4e−iω(t
′ − t) + i�p · (�x ′ − �x )G0(ω, �p) (4.24)
Se applichiamo l’operatore di Schrödinger a questa espressione si ha(i∂
∂t′+
1
2m�∇2x′
)G0(x
′ − x) =
=
∫d3p dω
(2π)4e−iω(t
′ − t) + i�p · (�x ′ − �x )(ω − �p
2
2m
)G0(ω, �p) (4.25)
Poiché questa espressione deve dare la delta di Dirac si ha per ω = �p2/2m
G0(ω, �p) =1
ω − �p2
2m
(4.26)
Evidentemente occorre assegnare una regola per trattare la singolarità che si ha nel
propagatore. Questa regola discende dalla condizione al contorno
G0(x′ − x) = 0, t′ < t (4.27)
La condizione si può soddisfare facilmente specificando l’integrazione nel piano complesso
della variabile ω. La rappresentazione integrale per G0 converge nel semipiano superiore
di ω per t′ − t < 0. Poiché in questo caso il risultato dell’integrazione deve essere nullo èsufficiente prendere il cammino di integrazione un poco sopra all’asse reale (vedi Fig. 6).
Se invece t′ − t > 0 possiamo chiudere l’integrale nel semipiano inferiore. Questo è allora
equivalente a spostare leggermente il polo nel semipiano inferiore. Scriveremo cioè
G0(x′ − x) = lim
�→0+
∫d3�p
(2π)3ei�p · (�x
′ − �x )∫dω
2π
e−iω(t′ − t)
ω − �p2
2m+ i�
(4.28)
-
24
Possiamo ora mostrare, effettuando l’integrazione su ω, che si riproduce la relazione (4.19).
Consideriamo infatti l’integrale su ω
lim�→0+
∫dω
2π
e−iω(t′ − t)
ω − �p2
2m+ i�
(4.29)
ed effettuiamo il cambiamento di variabile di integrazione ω′ = ω − �p 2/2m
lim�→0+
∫dω′
2π
e−iω′(t′ − t)e−i(t
′ − t)�p 2/2mω′ + i�
=
= e−i(t′ − t)�p 2/2m lim
�→0+
∫dω
2π
e−iω(t′ − t)
ω′ + i�=
= iθ(t′ − t)e−i(t′ − t)�p 2/2m (4.30)
Poiché gli autovalori di H0 sono
E�p =�p 2
2m(4.31)
si ottiene, sostituendo nella (4.28)
G0(x′ − x) = −iθ(t′ − t)
∫d3�p
(2π)3ei�p · (�x
′ − �x ) − iE�p(t′ − t) (4.32)
Se introduciamo le autofunzioni normalizzate di H0
φ�p =1
(2π)3/2e−iE�p t+ i�p · �x (4.33)
segue
G0(x′ − x) = −iθ(t′ − t)
∫d3�p φ�p(�x
′, t′)φ��p(�x , t) (4.34)
Nel caso in cui H è indipendente dal tempo, è interessante studiare la trasformata di Fourier
temporale della G. In questo caso il problema ha autostati dell’energia che formano un set
completo. Possiamo allora scrivere la (4.19) nella forma
G(x′; x) = −iθ(t′ − t)∑
n
e−iEn(t′ − t)ψn(�x ′)ψ�n(�x ) (4.35)
Usando la rappresentazione integrale della funzione θ (eq. (4.3)) si trova
G(x′; x) =∑
n
∫dω
2π
e−i(En + ω)(t′ − t)
ω + i�ψn(�x
′)ψ�n(�x ) =
=∑
n
∫dω′
2π
e−iω′(t′ − t)
ω′ − En + i�ψn(�x
′)ψ�n(�x ) (4.36)
-
25
Introducendo allora la trasformata di Fourier in energia
G(ω; �x ′; �x ) =∫
dt′ G(x′; x)eiω(t′ − t) (4.37)
si trova
G(ω; �x ′; �x ) = lim�→0+
∑n
ψn(�x′)ψ�n(�x )
ω −En + i�(4.38)
L’interesse di questa espressione è che mostra come la conoscenza del propagatore equivalga
in effetti alla soluzione completa dell’equazione di Schrödinger. Infatti vediamo come G(ω)
abbia una struttura analitica con poli alla posizione degli autovalori discreti dell’hamilto-
niana, (in corrispondenza degli autovalori continui ha un taglio) con residuo dato dal proiet-
tore sull’autostato. Infatti considerando l’operatore G come definito in (4.13) l’espressione
precedente si legge
G(ω) = lim�→0+
∑n
|ψn〉〈ψn|ω − En + i�
(4.39)
od anche
G(ω) = lim�→0+
1
ω −H + i� (4.40)
Quando espresso in questa forma il propagatore viene anche detto l’operatore risolvente.
V. LA MATRICE DI SCATTERING.
In questa sezione ci occuperemo di costruire la matrice di scattering. Come si è già osser-
vato in un esperimento di scattering di particelle elementari si prepara un fascio di particelle,
tipicamente in uno stato di impulso definito, ad un tempo che è molto maggiore dei tempi di
interazione tipici, e si va ad osservare il risultato dello scattering a tempio molto posteriori,
cercando ancora stati finali di particelle con impulso definito. In sostanza vogliamo calco-
lare l’ampiezza di probabilità per trovare nello stato evoluto, per effetto dell’interazione da
t = −∞ a t = +∞, una componente ad impulso definito. In altri termini, detta
ψ(+)i (�x , t) (5.1)
quella soluzione dell’equazione completa di Schrödinger si riduce a t = −∞ all’onda pianaincidente, cioè
limt→−∞
ψ(+)i (�x , t) = lim
t→−∞φi(�x , t) (5.2)
-
26
dove
φi(�x , t) =1
(2π)3/2e−iEit+ i�ki · �x (5.3)
la matrice S o matrice di scattering è definita da
Sfi = limt→∞
∫d3�x φ�f(�x , t)ψ
(+)i (�x , t) (5.4)
dove
φf(�x , t) =1
(2π)3/2e−iEf t+ i�kf · �x (5.5)
(naturalmente non è necessario usare autostati di impulso come stati asintotici, questo di-
pende da come si prepara il fascio incidente e che cosa si vuol rivelare dopo l’interazione).
Questo modo di analizzare il problema è analogo all’impostazione classica in cui si assume
che la particella incidente abbia asintoticamente (t = −∞) un certo impulso e ci chiediamodopo l’interazione quale sarà asintoticamente l’impulso finale (vedi Fig. 7). L’effetto della
diffusione può essere visto come una trasformazione dallo stato di impulso iniziale allo stato
di impulso finale, che nel caso di scattering elastico si riduce ad un cambiamento della dire-
zione di propagazione. La descrizione dello scattering si riduce in questo caso a specificare
l’angolo di cui sarà ruotata la direzione iniziale per effetto dell’interazione (o la distribuzione
di probabilità). Questo è l’analogo classico della matrice di scattering quantistica che può
essere vista (come vedremo meglio tra poco) come una trasformazione unitaria tra gli stati
asintotici a (t = −∞) e gli stati asintotici a (t = +∞). È dunque chiaro che dobbiamo dareuna descrizione accurata di questi stati asintotici. La descrizione che appare più conveniente
è quella di assumere che gli stati asintotici siano stati liberi. In generale non è detto che
l’interazione sia tale da svanire a tempi grandi (vedremo che questo problema è presente
-
27
nei casi di autointerazione di una particella), quindi ciò che viene fatto è di introdurre uno
smorzamento adiabatico dell’interazione. Cioè tra t = −∞ ed un tempo −T , molto primache avvenga l’interazione tra particelle e bersaglio, facciamo crescere il potenziale di inte-
razione da zero al suo valore reale. Manteniamolo poi al suo valore sino ad un tempo T
molto dopo che è avvenuto lo scattering, ed infine facciamolo ritornare a zero per t→ +∞.Praticamente questo si può effettuare cambiando il potenziale di interazione nel seguente
modo
Vint(t, �) = e−�|t|Vint(t) (5.6)
effettuando tutti i calcoli e prendendo poi il limite per � → 0+ alla fine. In questo modogli spazi degli stati asintotici a −∞ e +∞ sono isomorfi e quello che fa la matrice S è unatrasformazione (unitaria) tra questi due spazi. Nel caso classico questa pittura corrisponde
quindi a considerare tutte le possibili direzioni di incidenza e tutte le possibili direzioni di
uscita (per scattering elastico ad energia fissata). Date queste specificazioni non è difficile
calcolare gli elementi di matrice S. Infatti la ψ(+)i sarà data da
ψ(+)i (�x
′, t′) = limt→−∞
i
∫d3�x G(�x , t′; �x , t)φi(�x , t) (5.7)
con φi definita in (5.3). Segue allora dalla (5.4)
Sfi = limt′→+∞,t→−∞
i
∫d3�x ′d3�x φ�f(x
′)G(x′; x)φi(x) (5.8)
Usiamo adesso l’equazione integrale (4.12) per G e si trova
Sfi = limt′→+∞,t→−∞
i
∫d3�x ′d3�x φ�f(x
′)[G0(x
′; x)+
+
∫d4x′′ G0(x′; x′′)V (x′′)G(x′′; x)
]φi(x) (5.9)
Possiamo valutare il primo termine tramite la (4.1)
θ(t′ − t)φi(x′) = i∫
d3�x G0(x′; x)φi(x) (5.10)
(le φi sono funzioni d’onda libere) ed usando∫d3�x ′φ�f(x
′)φi(x′) = δif (5.11)
(dove per onde piane δif = δ3(�kf − �ki)). Si ottiene dunque
Sfi = δfi + limt→−∞
∫d3�x d4x′′ φ�f(x
′′)V (x′′)G(x′′; x)φi(x) (5.12)
-
28
dove si è usato la (4.22) per far evolvere la φ�f da x′ a x′′ (ricordiamo che x′ è associato ad
un tempo +∞, e che G0 propaga la funzione d’onda libera complessa coniugata indietro neltempo). Questa è la formula fondamentale per il calcolo della matrice S. Il primo termine δfi
corrisponde ad una situazione in cui non succede niente e quindi viene normalmente ignorato.
Quello che poi possiamo fare è di effettuare un’espansione perturbativa del propagatore come
abbiamo visto in Sezione 3. Usando la (3.20) si ha
Sfi = δfi + limt→−∞
∫d3�x d4x1φ
�f(1)V (1)
[G0(1; x) +
∫d4x2G0(1; 2)V (2)G0(2; x)+
+
∫d4x2d
4x3G0(1; 2)V (2)G0(2; 3)V (3)G0(3; x) + · · ·]φi(x) (5.13)
Ancora per la (5.10) si ha
Sfi = δfi − limt→−∞
i[ ∫
d4x1φ�f(1)V (1)φi(1)θ(t1 − t)+
+
∫d4x1d
4x2φ�f(1)V (1)G0(1; 2)V (2)φi(2)θ(t2 − t)+
+
∫d4x1d
4x2d4x3φ
�f(1)V (1)G0(1; 2)V (2)G0(2; 3)V (3)φi(3)θ(t3 − t) + · · ·
](5.14)
Ma limt→−∞ θ(ti − t) = 1 e quindi
Sfi = δfi − i[ ∫
d4x1φ�f(1)V (1)φi(1)+
+
∫d4x1d
4x2φ�f (1)V (1)G0(1; 2)V (2)φi(2)+
+
∫d4x1d
4x2 · · · d4xnφ�f(1)V (1)G0(1; 2)V (2) · · ·G0(n− 1;n)V (n)φi(n) + · · ·]
=
= δfi − i∞∑
n=1
∫ ( n∏i=1
d4xi
)φ�f(1)V (1)G0(1; 2)V (2) · · ·G0(n− 1;n)V (n)φi(n)
](5.15)
Nella pratica useremo al più i primi due termini di questa espansione. Per terminare questa
Sezione mostriamo anche che la matrice S è unitaria. Per questo facciamo uso della con-
servazione della probabilità. Ricordiamo che se ψ e φ sono due soluzioni dell’equazione di
Schrödinger, allora l’espressione
(ψ, φ) =
∫d3�x ψ�(�x , t)φ(�x , t) (5.16)
è indipendente dal tempo. Questa è una conseguenza immediata della hermiticità della
hamiltoniana
id
dt(ψ, φ) =
∫d3�x ((−Hψ(�x , t))�φ(�x , t) + ψ�(�x , t)Hφ(�x , t)) = 0 (5.17)
-
29
È questa proprietà che permette una interpretazione probabilistica della meccanica quan-
tistica. Applichiamo allora questa proprietà a ψ(+)i che, ricordiamo, si riduce ad un’onda
piana per t = −∞,
(ψ(+)i , ψ
(+)j ) =
∫d3�x ψ
(+)i
�(�x , t)ψ
(+)j (�x , t) =
= limt→−∞
∫d3�x ψ
(+)i
�(�x , t)ψ
(+)j (�x , t) =
= limt→−∞
∫d3�x φ�i (�x , t)φj(�x , t) = δij (5.18)
Facendo uso della seguente identità
limt′→+∞
ψ(+)i (�x
′, t′) = limt′→+∞
∫d3�x δ3(�x ′ − �x )ψ(+)i (�x , t′) =
= limt′→+∞
∫d3�x
∑n
φn(�x′, t′)φ�n(�x , t
′)ψ(+)i (�x , t′) =
= limt′→+∞
∑n
φn(�x′, t′)
∫d3�x φ�n(�x , t
′)ψ(+)i (�x , t′) (5.19)
Dove si è usato la relazione di completezza per le funzioni d’onda libere φn. Dalla definizione
di matrice S data in eq. (5.4) segue
limt′→+∞
ψ(+)i (�x
′, t′) = limt′→+∞
∑n
φn(�x′, t′)Sni (5.20)
Inserendo questa espressione nella relazione (5.18) si trova
δij = limt′→+∞
∫d3�x
∑nm
φ�n(�x′, t′)S�niφm(�x
′, t′)Smj =∑nm
δnmS�niSmj =
∑n
(S†)inSnj (5.21)
da cui
S†S = 1 (5.22)
Vediamo dunque come il contenuto fisico associato all’unitarietà della matrice S sia nella
conservazione della probabilità.
Per il seguito ci sarà utile la seguente espressione:
ψ(+)i (x
′) = φi(x′) +∫
d4x′′ G0(x′; x′′)V (x′′)ψ(+)i (x
′′) (5.23)
ottenuta dalla (5.7), usando la (4.12) per il propagatore, e la (5.10). Si ottiene l’espres-
sione alternativa per la matrice S, che usata insieme alla precedente riproduce lo sviluppo
perturbativo (5.15)
Sfi = δfi − i∫
d4x1φ�f(x1)V (x1)ψ
(+)i (x1) (5.24)
-
30
VI. SCATTERING COULOMBIANO.
Come semplice applicazione del formalismo precedente consideriamo lo scattering di un
elettrone non relativistico su un nucleo di carica Ze. Ignoreremo per il momento le com-
plicazioni dovute allo spin e schematizzeremo il nucleo come un oggetto infinitamente pe-
sante situato nell’origine delle coordinate. L’elettrone è allora soggetto ad un potenziale di
interazione pari a (e > 0)
−eφ(�x ) = − Ze2
4π|�x | ≡ V (�x ) (6.1)
Usando la (5.15) al primo ordine
Sfi = δfi − i∫
d4x φ�f(x)V (�x )φi(x) (6.2)
Quando si discutono problemi di scattering è più conveniente pensare di essere in un volume
finito (quantizzazione nel box). In questo caso, richiedendo condizioni al contorno periodiche,
la funzione d’onda deve soddisfare
ψ(x+ L, y, z, t) = ψ(x, y + L, z, t) = ψ(x, y, z + L, t) = ψ(x, y, z, t) (6.3)
dove abbiamo immaginato il volume finito come un cubo di lato L. Se, in particolare, la ψ
è una autofunzione dell’impulso
ψ(�x , t) = A(t)ei�k · �x (6.4)
segue
�k =2π
L�n (6.5)
dove �n è un vettore avente per componenti numeri interi
�n = n1�i+ n2�j + n3�k, (n1, n2, n3) ∈ ZZ (6.6)
Dunque nel caso di una particella libera l’autofunzione dell’energia e dell’impulso sarà
φ�k(�x , t) =√ce−i(Et − �k · �x ), E = |
�k|22m
(6.7)
con �k dato dalla (6.4) e c una costante di normalizzazione che lasceremo qui arbitraria per
mostrare che la sezione d’urto non ne dipende. Conviene invece interpretare qui la densità
-
31
di probabilità come una densità di particelle. Quindi la normalizzazione di φ�k è fissata dal
numero di particelle nel volume V
NV =
∫V
d3�x φ��kφ�k = cV (6.8)
Se siamo interessati alla diffusione degli elettroni in direzione diversa da quella di incidenza
conviene estarre dalla matrice S il primo termine
S = 1 + iT (6.9)
in modo che T contenga la sola parte relativa all’interazione. Si ha allora
Tfi = −∫
d4x cei(Ef t− �kf · �x )V (�x )e−i(Eit− �ki · �x ) = −2πδ(Ef − Ei)cV (�q) (6.10)
dove abbiamo definito �q = �kf − �ki, l’impulso trasferito, e
V (�q) =
∫d3�x e−i�q · �x V (�x ) (6.11)
la trasformata di Fourier del potenziale. Per il calcolo della sezione d’urto necessitiamo del
numero di particelle diffuse e quindi, in particolare, della probabilità per unità di tempo di
avere uno stato finale con impulso �kf . Dobbiamo allora calcolare il modulo quadro della
matrice T . Dobbiamo allora definire il prodotto di due delta di Dirac. Come è noto il
prodotto di due distribuzione non è definibile in maniera univoca. Possiamo però far ricorso
alla fisica del processo di diffusione. In effetti è una idealizzazione il fatto che il processo
di scattering avvenga tra t = −∞ e t = +∞. In realtà sia il processo di preparazionedela fascio incidente che la rivelazione avvengono a tempi finiti, l’unica cosa necessaria per
l’idealizzazione che si ha in mente è che questi tempi siano molto grandi rispetto al tempo
tipico di interazione (che come vedremo è essenzialmente 1/(Ef − Ei). Dunque dovremmosostituire la delta di Dirac ottenuta nella (6.9) con
2πδ(Ef −Ei) =⇒∫ +T/2−T/2
e−i(Ef − Ei)tdt = 2sin
(T∆E
2
)∆E
(6.12)
dove ∆E = Ef − Ei. Quindi
|2πδ(Ef −Ei)|2 =⇒ 4sin2
(T∆E
2
)∆E2
(6.13)
Questa funzione di ∆E ha un picco a ∆E = 0 ed oscilla rapidamente per ∆E = 0. Quindiil limite per T → ∞ di questa espressione è zero a meno che ∆E = 0. Questa è la proprietà
-
32
che definisce una successione di funzioni convergente alla delta di Dirac. Dobbiamo solo
controllare la normalizzazione calcolandone l’integrale su ∆E. Ponendo x = T∆E/2
∫ +∞∞
4sin2
(T∆E
2
)∆E2
d∆E = 2T
∫ +∞∞
sin2 x
x2dx = 2πT (6.14)
dove abbiamo usato il risultato di Appendice 1. Pertanto
limT→∞
4sin2
(T∆E
2
)∆E2
= limT→∞
2πTδ(Ef − Ei) (6.15)
Useremo dunque la regola
|2πδ(Ef −Ei)|2 =⇒ 2πTδ(Ef − Ei) (6.16)
Supponiamo di voler poi osservare le particelle diffuse con impulso compreso tra �kf e �kf +d�kf .
Ma nel volume V l’impulso è quantizzato (eq. (6.4))
�kf =2π
L�n (6.17)
Segue che il numero di stati finali nel volume V è dato da
d3�n =V
(2π)3d3�kf (6.18)
e che il numero di stati finali a disposizione di ogni singola particella è
V
(2π)3d3�kfNV
=d3�kf
(2π)3c(6.19)
La probabilità di transizione per unità di tempo è data da
w =|Tfi|2T
(6.20)
per cui il numero di particelle diffuse per unità di tempo e con impulso compreso tra �kf e
�kf + d�kf è
dN = wd3�kf
(2π)3c(6.21)
Dobbiamo poi calcolare il numero di particelle incidenti per unità di tempo e di superficie.
Questo non è altro che il flusso incidente per unità di superficie e quindi è dato dal modulo
della corrente di probabilità (eq. (1.6))
n = |�j| =∣∣∣− i
2m
(φ�i�∇φi − (�∇φ�i )φi
) ∣∣∣ = c|�vi| (6.22)
-
33
Infatti |�j|∆S∆t è il numero di particelle che nel tempo ∆t attraversano la superficie ∆S.Quindi la sezione d’urto differenziale è data da
dσ =dN
n= w
1
c|�vi|d3�kfc(2π)3
= 2πδ(Ef − Ei)c2|V (�q)|21
c21
|�vi|d3�kf(2π)3
(6.23)
Come è ovvio dalla definizione di sezione d’urto, la densità di particelle c scompare. Anche
la dipendenza dal volume di quantizzazione V non appare nell’espressione finale. Possiamo
usare la conservazione dell’energia (data dalla delta di Dirac) per effettuare l’integrazione
sul modulo dell’impulso finale dell’elettrone. Infatti usando
d3�kf = |�kf |2d|�kf |dΩ (6.24)
con dΩ = sin θdθdϕ l’elemento di angolo solido, e
dEf =|�kf |m
d|�kf | (6.25)
si può integrare su Ef ottenendo
dσ
dΩ=m2
4π2|V (�q)|2 (6.26)
dove si è usato |�kf | = |ki|. Per calolare V (�q) si può invertire la (6.11)
−eφ(�x ) = V (�x ) =∫
d3�q
(2π)3ei�q · �x V (�q) (6.27)
ed usare l’equazione di Poisson
�∇2φ(�x) = −ρ(�x ) = −Zeδ3(�x ) (6.28)
Si ottiene in questo modo
eρ(�x ) = Ze2δ3(�x) = −∫
d3�q
(2π)3ei�q · �x |�q|2V (�q) (6.29)
e quindi (q ≡ |�q|)V (�q) = −Ze
2
q2(6.30)
V (�q) può anche essere calcolato facilmente in modo esplicito
V (�q) = −Ze2
4π
∫d3�x e−i�q · �x 1|�x | (6.31)
-
34
Passando in coordinate polari ed effettuando l’integrazione sull’angolo solido
V (�q) = −Ze2
2
∫ ∞0
eiqr − e−iqriq
dr (6.32)
L’integrando è oscillante rapidamente per r → ∞, lo possiamo allora definire nel seguentemodo
V (�q) = −Ze2
2lim
�→0+
∫ ∞0
ei(q + i�)r − e−i(q − i�)riq
dr (6.33)
Effettuando l’integrale e poi il limite si ritrova facilmente il risultato precedente. La sezione
d’urto differenziale è alloradσ
dΩ=m2
4π2Z2e4
q4(6.34)
Ricordando poi l’espressione (2.4) per la costante di struttura fine si ha
dσ
dΩ= m2
4Z2α2
q4(6.35)
Possiamo infine esprimere il risultato in termini dell’angolo di scattering usando
q2 = |�kf − �ki|2 = 4k2 sin2θ
2(6.36)
con |�kf | = |�ki| ≡ |�k|. Quindidσ
dΩ=
Z2α2
16E2kin sin4 θ
2
(6.37)
dove Ekin = k2/2m è l’energia cinetica della particella incidente L’espressione trovata è la
formula per lo scattering Rutherford.
I calcoli precedenti mostrano che la sezione d’urto permette una misura del modulo della
trasformata di Fourier del potenziale atomico. Da questa trasformata si hanno allora in-
formazioni importanti circa la distribuzione di cariche nell’atomo. Se applichiamo infatti la
(6.27) ad una generica distribuzione di cariche si ha
eρ(�x ) = −∫
d3�q
(2π)3ei�q · �x |�q|2V (�q) (6.38)
ed invertendo la trasformata
V (�q) = − e|�q|2∫
d3�x e−i�q · �x ρ(�x ) (6.39)
Poichè la misura della sezione d’urto ci dà il modulo di questa espressione si vede come si
abbiano importanti informazioni sulla distribuzione di carica nell’atomo. Per esempio, se si
-
35
considera un atomo neutro si può pensare che la sua distribuzione di carica sia dovuta ad
una carica elettrica nucleare concentrata nell’origine e ad una densità elettronica. Quindi
ρ(�x ) = Zeδ3(�x ) − eρe(�x ) (6.40)
A causa della neutralità dovremo avere
0 =
∫d3�x ρ(�x ) = Ze− e
∫d3�x ρe(�x ) (6.41)
Si ottiene allora
V (�q) = − e|�q|2∫
d3�x e−i�q · �x (Zeδ3(�x ) − eρe(�x ) = −e2
|�q|2
[Z −
∫d3�x e−i�q · �x ρe(�x )
](6.42)
L’espressione
f(�q) = Z −∫
d3�x e−i�q · �x ρe(�x ) (6.43)
si chiama fattore di forma atomico ed ha la proprietà
f(�0) = 0 (6.44)
in virtù della condizione di neutralità.
Problema: Calcolare la sezione d’urto differenziale e totale per il potenziale coulombiano
schermato
V (r) = −Ze2
4πre−r/a, r = |�x |
dove a è un parametro dell’ordine del raggio atomico (in questo modo il potenziale elettrico
va correttamente a zero per r >> a). Il risultato è
dσ
dΩ=
4Z2α2m2
(8mEkin sin2 θ
2+ a−2)2
σTOT =
∫dΩ
dσ
dΩ= πa2
(k
Ekin
)2Z2α2
1 + (2ka)−2
VII. LE TEORIE RELATIVISTICHE.
La trattazione della meccanica quantistica relativistica ha presentato sin dall’inizio una
serie di problemi assolutamente non banali. In maniera concisa questi problemi derivano dal
-
36
fatto che la relazione di dispersione relativistica, cioè la relazione tra impulso ed energia, è
di tipo quadratico
E2 = |�p|2 +m2 (7.1)
Questa relazione da luogo a due soluzioni
E = ±√
|�p|2 +m2 (7.2)
Il problema è che a livello quantistico non è possibile scartare le soluzioni ad energia ne-
gativa. In effetti, come vedremo, esse vanno associate all’esistenza di antiparticelle. Si ha
allora un problema connesso con la localizzazione di particelle relativistiche su distanze del-
l’ordine della lunghezza d’onda Compton (≈ 1/m) delle particelle stesse. Infatti a causadel principio di indeterminazione ∆x∆p ≈ 1, vediamo che per localizzare una particellacon una precisione dell’ordine 1/m, occorre che l’impulso sia indeterminato di una quantità
dell’ordine di m. Questo significa che l’impulso, e quindi l’energia, della particella nelle loro
fluttuazioni possono assumere valori sufficientemente grandi per dar luogo alla creazione di
coppie. L’energia richiesta per questo scopo è infatti 2m. Naturalmente questa sarà una
coppia virtuale, nel senso che nel periodo della sua creazione la conservazione dell’energia
sarà violata. Ma questo risulterà possibile solo per tempi ∆t ≈ ∆x 1/m. Quindi sudistanze piccole rispetto a 1/m si perde il concetto di particella singola, ma il fenomeno che
avviene è uno in cui c’è una creazione continua di coppie che esistono per tempi molto brevi
prima di riannichilarsi. La rappresentazione è quindi di una specie di nuvola di particelle ed
antiparticelle che circondano quella che noi ci aspetteremo essere considerata una particella
singola. Il punto è che l’aspetto di particella singola è inestricabile da questa nuvola.
Vediamo dunque che le teorie relativistiche non sono teorie con numero fissato di particel-
le, infatti ciò che risulta possibile definire è piuttosto la differenza tra il numero di particella
ed il numero di antiparticelle NP − NP̄ . Il formalismo della meccanica quantistica ordina-ria non è più applicabile, ma occorre invece un meccanismo che ci permetta naturalmente
sistemi con numero variabile di particelle. Il formalismo più naturale per trattare questa
problematica è quello della quantizzazione dei campi. Per campi si intendono le soluzioni
delle equazioni d’onda relativistiche, cioè sono quelle che nel formalismo non-relativistico
si chiamano funzioni d’onda. La quantizzazione consiste nel considerare queste soluzioni
come operatori, per questo motivo la quantizzazione dei campi viene chiamata anche secon-
da quantizzazione. Noi non useremo questo metodo ma seguiremo invece la trattazione di
-
37
Feynman e Stückelberg che è una generalizzazione del metodo dei propagatori, che abbiamo
introdotto precedentemente, atta a trattare le soluzioni ad energia negativa.
Ci sono varie vie attraverso le quali uno è condotto a formulare una teoria di campo per
sistemi con numero variabile di particelle. Per esempio, storicamente fu prima realizzato che
la luce aveva, oltre all’aspetto ondulatorio, un aspetto corpuscolare nei processi di emissione
ed assorbimento. Fino al 1927 gli elettroni furono descritti come particelle, ma in quell’an-
no Davisson e Germer misero in luce sperimentalmente il comportamento ondulatorio degli
elettroni. Questo sugger̀ı un principio di complementarità onda-corpuscolo valido in tutta
generalità per ogni tipo di onda o di particella. Sull’analogia della radiazione elettromagne-
tica, il cui aspetto ondulatorio è descritto classicamente da una teoria di campo, è naturale
introdurre un campo per ogni tipo di onda o corpuscolo.
Storicamente furono ricercate equazioni relativistiche che generalizzassero l’equazione di
Schrödinger. Una equazione relativistica libera descrive la relazione energia-impulso e lo spin
della particella. Le soluzioni di questa equazione forniscono le funzioni d’onda di particella
singola. Inoltre tutte le equazioni d’onda relativistiche, dato che descrivono la relazione
energia-impulso data in eq. (7.1), possiedono soluzioni ad energia negativa. Tali soluzioni
verranno reinterpretate come corrispondenti ad antiparticelle.
Vogliamo ora mostrare (trascurando per il momento lo spin) come un’equazione d’onda
libera descrive la relazione energia-impulso. Iniziamo dall’ equazione di Schrödinger per una
particella libera:
i∂ψ
∂t= Hψ (7.3)
dove H è l’hamiltoniana libera
H =|�p|22m
= − 12m
|�∇|2 (7.4)
Se ψ è uno stato stazionario, cioè
ψ ≈ e−iEt (7.5)
allora il contenuto dell’equazione di Schrödinger è semplicemente quello di fornirci la
relazione di dispersione non relativistica
E =|�p|22m
(7.6)
(qui �p è l’autovalore dell’operatore di impulso). Nel caso relativistico la relazione di disper-
sione che invece vogliamo riprodurre è la (7.1). Se per riprodurre tale relazione assumessimo
-
38
come hamiltoniana
H =√
|�p|2 +m2 (7.7)
si otterrebbe la seguente equazione di tipo Schrödinger
i∂ψ
∂t=
√−|�∇|2 +m2ψ (7.8)
Questa equazione ha due ovvi difetti:
• l’equazione tratta in modo asimmetrico la derivata temporale e le derivate spaziali;• l’equazione è non locale. Dipende cioè da un numero infinito di derivate spaziali:
√−|�∇|2 +m2ψ = m
√1 − |
�∇|2m2
ψ = m∑
k
ck
(|�∇|2
)kψ (7.9)
Entrambe queste difficoltà possono essere rimosse se iteriamo questa equazione:
−∂2ψ
∂t2=(−|�∇|2 +m2
)ψ (7.10)
Questa equazione è locale e invariante per trasormazioni di Lorentz
(∂2 +m2
)ψ = 0 (7.11)
dove
∂2 =∂2
∂t2− |�∇|2 (7.12)
è l’operatore di D’Alembert in (3 +1) dimensioni. Notiamo che per risolvere i nostri proble-
mi connessi con la località e l’invarianza di Lorentz, siamo stati forzati a dover introdurre,
accanto alle soluzioni ad energia positiva E =√
|�p|2 +m2, le soluzioni ad energia negativaE = −
√|�p|2 +m2. L’equazione precedente è nota come equazione di Klein-Gordon e fu ini-
zialmente scartata (come generalizzazione relativistica dell’equazione di Schrödinger) perché
dava luogo ad una probabilità non definita positiva. Prima di vedere questo stabiliamo le
nostre convenzioni per le notazioni relativistiche. I quadrivettori di posizione e di impulso
sono definiti da
xµ = (t, �x), pµ = (E, �p), µ, ν = 0, 1, 2, 3 (7.13)
Il tensore metrico gµν ha solo componenti diagonali uguali a (+1,−1,−1,−1). L’operatoredi quadrimpulso nello spazio delle coordinate è dato da
pµ → i ∂∂xµ
=
(i∂
∂t,−i�∇
)≡ i∂µ (7.14)
-
39
Si ha anche
p2 = pµpµ → −∂
∂xµ
∂
∂xµ= −∂2 (7.15)
x · p = Et− �p · �x (7.16)
Consideriamo adesso due soluzioni ψ e ψ� dell’equazione di Klein-Gordon, potremo scrivere
0 = ψ�(∂2 +m2)
)ψ − ψ
(∂2 +m2)
)ψ� = ∂µ [ψ
�∂µψ − (∂µψ�)ψ] (7.17)
Quindi la corrente
Jµ = i (ψ�∂µψ − (∂µψ�)ψ) (7.18)
è conservata e la quantità ∫d3x J0 = i
∫d3x(ψ�ψ̇ − ψ̇�ψ) (7.19)
è una costante del moto. Però questa costante non può essere interpretata come densità di
probabilità in quanto non è definita positiva. Consideriamo in particolare un’onda piana
ψ+(x) = ce−i(Et− �p · �x ), (E > 0) (7.20)
ψ+ soddisfa l’equazione di Klein-Gordon se è soddisfatta la relazione energia-impulso
E2 = �p 2 +m2 (7.21)
Posto
Jµ = (ρ, �J) (7.22)
segue
ρ(ψ+) = i(ψ�+ψ̇+ − ψ̇�+ψ+
)= 2E|c|2 (7.23)
�J(ψ+) = −i(ψ�+
�∇ψ+ − (�∇ψ+)�ψ+)
= 2�p |c|2 (7.24)
od anche
Jµ(ψ+) = 2pµ|c|2 (7.25)
Notiamo che è da aspettarsi che l’integrale in d3�x della ρ sia un invariante rispetto a tra-
sformazioni di Lorenz perché rappresenta una probabilità. Infatti rispetto a trasformazioni
di Lorentz si ha
d3�x →√
1 − β2d3�x , E → E√1 − β2
(7.26)
-
40
dato che i volumi si contraggono, mentre le quarte componenti dei quadrivettori si dilatano
(ricordarsi della dilatazione dei tempi). Quindi∫d3�x ρ(x) (7.27)
è una quantità invariante.
Il problema è però che l’equazione di Klein-Gordon possiede anche soluzioni del tipo
ψ−(x) = ce+i(Et− �p · �x ), E > 0 (7.28)
che soddisfano la stessa relazione energia-impulso delle ψ+. D’altra parte le ψ− hanno energia
negativa, dato che
i∂ψ±∂t
= ±Eψ± (7.29)
Queste soluzioni hanno anche una densità di probabilità negativa
ρ(ψ−) = −2E|c|2 (7.30)
�J(ψ) = −2�p |c|2 (7.31)
o
Jµ(ψ−) = −2pµ|c|2 (7.32)
Dunque la generalizzazione relativistica più semplice dell’equazione di Schrödinger dà luogo
a soluzioni ad energia negativa con densità di probabilità negativa.
VIII. LA TEORIA DEI BUCHI DI DIRAC.
Nel tentativo di evitare i problemi connessi con la probabilità negativa, nel 1927 Dirac
sviluppò una equazione d’onda del primo ordine nelle derivate con la conseguenza di ottenere
delle funzioni che descrivono particelle con spin 1/2 che furono interpretate come descriventi
elettroni. Vedremo successivamente come si ricava l’equazione e ne discuteremo a fondo le
proprietà. Per il momento diremo solo che anche quest’equazione presenta il problema delle
soluzioni ad energia negativa. Per capire il motivo per cui le soluzioni ad energia negativa
sono inaccettabili da un punto di vista classico, osserviamo la Fig. 8 nella quale è riportata
la relazione energia impulso, considerando per semplicità l’impulso come una variabile uni-
dimensionale. Quindi uno stato di moto corrisponde ad un punto su una delle due linee in
-
41
figura. Se forniamo energia ad uno stato ad energia positiva il suo impulso (e quindi la sua
velocità) aumenta, se invece aumentiamo l’energia di uno stato ad energia negativa il suo im-
pulso diminuisce. Questo è il motivo per cui tali soluzioni sono inaccettabili. Classicamente
sarebbe però possibile supporre che inizialmente non ci fossero particelle ad energia negativa.
Poiché le energie classiche possono variare solo con continuità, e gli stati ad energia positiva
e negativa sono separati da un gap energetico pari a 2m, questi non porrebbero un problema
perché non sarebbero mai raggiungibili. Da un punto di vista quantistico la situazione è
diversa perché l’energia può variare in modo discontinuo. Per esempio una particella con
energia positiva potrebbe emettere un fotone con energia superiore a 2m e finire in uno stato
ad energia negativa. Poiché la tendenza di ogni sistema è quella di andare nello stato di mi-
nor energia, tutte le particelle ad energia positiva tenderebbero ad effettuare una transizione
verso questi stati. Dirac cercò allora una soluzione a questo problema assumendo che tutti
gli stati ad energia negativa fossero occupati da elettroni. In questa situazione il principio
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di Pauli impedisce ad un elettrone ad energia positiva di decadere in uno stato ad energia
negativa (vedi Fig. 9). Può però accadere un fenomeno del tutto nuovo, vale a dire che un
elettrone in uno stato ad energia negativa può ricevere energia a sufficienza, per esempio
assorbendo un fotone, per fare una transizione ad uno stato ad energia positiva. In questo
caso si crea una lacuna tra gli stati ad energia negativa. Cerchiamo allora di comprendere
quale sia il comportamento di questa lacuna. Per comodità consideriamo gli stati di impulso
discretizzati e supponiamo che per ciascuno di questi valori ci possa essere un solo elettrone
(in realtà per il principio di Pauli ce ne potrebbero stare due, ma questo non è rilevante
per gli argomenti che seguono). Avremo allora una situazione del tipo rappresentato in Fig.
10. Immaginiamo adesso di fornire una quantità di energia all’elettrone tale da farlo pas-
sare nello stato corrispondente alla lacuna. Come risultato la lacuna si produce nello stato
originario dell’elettrone ad energia negativa al quale abbiamo fornito energia. Quindi se in-
terpretiamo queste operazioni in termini di lacune, vediamo che se forniamo energia ad una
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lacuna nel mare degli stati ad energia negativa, questa aumenta il proprio impulso. Dunque
la lacuna si comporta come un normale stato ad energia positiva. Vediamo analogamente in
Fig. 11 che se applichiamo un campo elettrico diretto verso destra, gli elettroni migreranno
verso sinistra andando ad occupare la lacuna che come risultato migra a destra. Pertanto la
lacuna si comporta come uno stato ad energia positiva ma con carica +e opposta a quella
dell’elettrone (−e). Possiamo mettere queste considerazioni su una base più formale. Pos-siamo, per semplicità, immaginare di avere N elettroni nello stato di energia negativa −E.Se allora la transizione è fatta da uno di questi elettroni, l’energia dello stato fondamentale
(detto anche stato di vuoto, sebbene sia costituito da infiniti elettroni di energia negativa)
cambia da
E −NE → E − (N − 1)E = E −NE + E (8.1)
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dove E è l’energia di tutti gli altri elettroni (con energia diversa da −E) nello stato fonda-mentale. In maniera analoga la carica del vuoto risulterà infinita e nel caso della precedente
transizione avremo ancora
Q−Ne→ Q− (N − 1)e = Q−Ne+ e (8.2)
Vediamo cosi che l’energia del vuoto aumenta di E e la sua carica elettrica di +e nella transi-
zione. Possiamo allora associare al buco lasciato nel vuoto dall’elettrone un’energia positiva
E ed una carica elettrica positiva +e opposta a quella dell’elettrone. In questo modo il buco
è reinterpretato come una soluzione ad energia positiva, ma con carica opposta a quella
dell’elettrone. In termini moderni il buco viene reinterpretato come l’antiparticella dell’e-
lettrone, cioè come un antielettrone od un positrone. Pertanto il processo in cui estraiamo
dal mare un elettrone per portarlo in uno stato ad energia positiva, libera una lacuna (Fig.
12). E quindi abbiamo la creazione di un elettrone e di un positrone (la lacuna). Questo
è il processo di creazione di coppie. Se viceversa si ha una lacuna, possiamo prendere un
elettrone ad energia negativa e portarlo ad occupare la lacuna (Fig. 13). In questo caso si
un processo di annichilazione della coppia elettrone positrone.
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La teoria dei buchi in particelle elementari è oggi completamente reinterpretata in termini
di particelle ed antiparticelle, ma questo modo di pensare è comunque molto utile in varie
circostanze. Sicuramente risulta molto fruttuoso in altri campi della fisica, per esempio nello
studio degli elettroni in un metallo, ecc.
Una volta imparato che le soluzioni ad energia negativa ammettono una reinterpretazione
in termini di antiparticelle, nel 1934 Pauli e Weisskopf ripresero in considerazione l’equazione
di Klein-Gordon. In questo caso la funzione d’onda è scalare e rappresenta particelle di spin
zero, quindi non si può applicare il principio di Pauli. Nondimeno se si inserisce la carica
elettrica nella corrente
jµ = −ie(ψ�∂µψ − ψ∂µψ�) (8.3)
allora j0 = ρ può essere reinterpretata come la densità di carica invece che come densità di
probabilità e quindi una delle obiezioni contro questa teoria cade. Per quanto concerne invece
le soluzioni ad energia negativa la lezione interessante che viene dall’argomento di Dirac è
che esiste una reinterpretazione delle soluzioni ad energia negativa come antiparticelle ad
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energia positiva e questa reinterpretazione, come vedremo, è possibile anche nel caso di
Klein-Gordon.
IX. SOLUZIONI DELL’EQUAZIONE DI KLEIN-GORDON.
In questa sezione costruiremo un set completo di soluzioni dell’equazione di Klein-Gordon.
Innanzitutto dobbiamo avere un prodotto scalare indipendente dal tempo. Poiché abbiamo
già visto che il caso di Klein-Gordon ammette la corrente conservata (7.18)
i(ψ�∂µψ − ψ∂µψ�) ≡ iψ�∂(−)µ ψ (9.1)
il prodotto scalare sarà
〈f |g〉 = i∫
d3xf ∗∂(−)t g (9.2)
se f e g sono due soluzioni. Ricerchiamo delle soluzioni sotto forma di onde piane:
f�k = A(k)e−ikx = A(k)e−i(k0x0 − �k · �x) (9.3)
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Inserendo nell’equazione d’onda si ottiene
(∂2 +m2)f = (−k2 +m2)f = 0 (9.4)
da cui segue
k2 = m2 =⇒ k20 = |�k|2 +m2 (9.5)
Per fissare la normalizzazione della soluzione si prende una scatola di volume finito e si
impongono condizioni al contorno periodiche (normalizzazione nel box). Prendendo un cubo
di lato L richiederemo
φ(x+ L, y, z, t) = φ(x, y + L, z, t) = φ(x, y, z + L, t) = φ(x, y, z, t) (9.6)
Pertanto seguirà
�k =2π
L�n (9.7)
dove
�n = n1�i1 + n2�i2 + n3�i3 (9.8)
è un vettore con componenti (n1, n2, n3) intere. Richiediamo
〈f�k|f�k′〉 = i∫
V
d3xf ∗�k∂(−)t f�k′ = δ�k,�k′ (9.9)
dove la delta è un simbolo di Kronecker definito da
δ�k,�k′ =3∏
i=1
δni,n′i (9.10)
con �n e �n′ due versori a componenti intere collegati agli impulsi come in eq. (9.8). Segue
allora ∫V
d3xA∗�kA�k′ei(k0 − k0′)x0 − i(�k − �k′) · �x(k′0 + k0) = δ�k,�k′ (9.11)
Usando ∫L
dxei2π
L(n1 − n′1)x
= Lδn1,n1′ (9.12)
segue ∫V
d3xei(�k − �k′) · �x = L3δ�k,�k′ (9.13)
e quindi
i
∫V
d3xf ∗�k∂(−)t f�k′ = |A�k|
22k0L3δ�k,�k′ (9.14)
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dove
k20 =
(2π
L
)2|�n|2 +m2 (9.15)
Potremo quindi prendere, scegliendo per il momento la soluzione positiva della (9.5):
A�k =1
L3/21√2ωk
, ωk =
√(2π
L
)2|�n|2 +m2 =
√|�k|2 +m2 (9.16)
e quindi la soluzione normalizzata risulta essere
f�k(x) =1
L3/21√2ωk
e−ikx (9.17)
A volte faremo uso di una normalizzazione diversa, la normalizzazione nel continuo. In
questo caso l’integrazione spaziale è estesa a tutto R3 e si richiede
〈f�k|f�k′〉 = i∫
d3xf ∗�k∂(−)t f�k′ = δ
3(�k − �k′) (9.18)
In questo caso non ci sono restrizioni sull’impulso spaziale che assume tutti i posssibili valori
in R3. Segue allora∫d3xA∗�kA�k′e
ikx− ik′x(k0 + k′0) = (2π)3δ3(�k − �k′)|A�k|22k0 (9.19)
La corrispondente normalizzazione è dunque
A�k =1√
(2π)31√2ωk
(9.20)
dove
ωk =
√|�k|+m2 (9.21)
La transizione dalla normalizzazione nel box a quella nel continuo si fa dunque tramite la
sostituzione formale1√V
→ 1√(2π)3
(9.22)
e la funzione d’onda nel continuo risulta
f�k(x) =1√
(2π)31√2ωk
e−ikx (9.23)
Notiamo che in entrambi i casi si ha la relazione
k20 = |�k|2 +m2 (9.24)
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che ha due soluzioni
k0 = ±√
|�k|2 +m2 = ±ωk (9.25)
Le f�k(x) sono le soluzioni ad energia positiva, mentre le f∗�k(x) sono ad energia negativa. Per
miglior comprensione, a volte scriveremo
f�k(+)(x) = f�k(x), f�k
(−)(x) = f ∗�k (x) (9.26)
Segue dalla (9.11)
〈f�k(+)|f�k′
(−)〉 = 0, 〈f�k(−)|f�k′
(−)〉 = −δ3(�k − �k ′) (9.27)
E relazioni analoghe nel discreto. Vediamo ancora che il prodotto scalare non ha norma
definita positiva, e che in particolare le soluzioni ad energia negativa hanno norma negativa.
Dunque l’espansione più generale della funzione d’onda sarà
ψ(x) =1√
(2π)3
∫d3k
1√2ωk
[a(�k)e−iωkx0 + i�k · �x + ã(�k)eiωkx0 + i�k · �x
](9.28)
Nel secondo termine si può mandare �k → −�k. Si ottiene allora
ψ(x) =1√
(2π)3
∫d3k
1√2ωk
[a(�k)e−ikx + ã(−�k)eikx
]≡∫
d3k[f�ka(�k) + f ∗�k ã(−�k)]
(9.29)
Quindi si può invertire l’espansione precedente ottenendo
a(�k) = i
∫d3xf ∗�k (x)∂
(−)t ψ(x), ã(−�k) = i
∫d3xψ(x)∂
(−)t f�k(x) (9.30)
Definendo
ã(−�k) = b�(�k) (9.31)
la forma più generale per la funzione d’onda di Klein-Gordon è data da
ψ(x) =1√
(2π)3
∫d3k
1√2ωk
[a(�k)e−ikx + b�(�k)eikx
]≡∫
d3k[f�ka(�k) + f ∗�k b
�(�k)] (9.32)
X. IL PROPAGATORE RELATIVISTICO.
Dopo aver visto che le equazioni relativistiche danno luogo a soluzioni ad energia nega-
tiva che a loro volta sono reinterpretabili in termini di stati di antiparticelle, cercheremo
di generalizzare le considerazioni fatte nelle Sezioni 3 sulla teoria del propagatore al caso
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relativistico. Ricordiamo che il propagatore G(x′, x) rappresenta l’ampiezza di probabilità
per un’onda in x di propagarsi sino al punto x′. Abbiamo anche visto che il propagatore
ammette un’espansione perturbativa (se il potenziale di interazione è sufficientemente picco-
lo) data dalla (3.20). Cioè l’ampiezza è rappresentabile come una somma di ampiezze il cui
termine generico ùn prodotto di fattori corrispondenti al diagramma di Fig. 14 (diagramma
di Feynman), dove ogni linea rappresenta l’ampiezza G0(xi; xi−1) affinché l’onda generata
in xi−1 si propaghi liberamente sino al punto xi. Nei punti xi l’onda incidente viene scatte-
rata con un’ampiezza di probabilità per unità di volume, data dal valore del potenziale di
interazione in quel punto. Per ottenere l’ampiezza totale occorre integrare su tutti i punti
nei quali può avvenire l’interazione. Con altro linguaggio si può dire che il potenziale di
interazione distrugge la particel