Appunti Economia Imprese e Settori 2006-2007_V1 by Dani&Anto

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ECONOMIA DELLE IMPRESE E DEI SETTORI VERSIONE 1 PREMESSA: I SEGUENTI APPUNTI SONO STATI SCRITTI DURANTE I CORSI DI ECONOMIA DELLE IMPRESE E DEI SETTORI DELL’ANNO ACCADEMICO 2006/2007 LA CORRETTEZZA DI QUESTI APPUNTI NON E’ GARANTITA IN ALCUN MODO SEBBENE SIANO STATI TRASCRITTI TRAMITE L’ASCOLTO DELLE REGISTRAZIONI DELLE LEZIONI. PER QUESTO MOTIVO LE PARTI DI PROGRAMMA NON SPIEGATE A LEZIONE SONO MENO ATTENDIBILI. LA PARTE RIGUARDANTE L’INTERNALIZZAZIONE MANCA PERCHE’ ESCLUSA DAL PROGRAMMA PER L’ANNO 2006/2007 MANCANO ALCUNI GRAFICI RIGUARDANTI LE TEORIE DELL’OLIGOPOLIO EVENTUALI CORREZIONI, INTEGRAZIONI E MIGLIORI FORMATTAZIONI DEL TESTO SONO BEN ACCETTE APPUNTI SCRITTI DA DANI&ANTO

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Appunti completi di economia delle imprese e dei settori anno 2006/2007. \Versione 1 non revisionata.\Modifiche e correzioni sono ben accette.

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ECONOMIA DELLE IMPRESE E DEI SETTORI VERSIONE 1

PREMESSA:

I SEGUENTI APPUNTI SONO STATI SCRITTI DURANTE I CORSI DI

ECONOMIA DELLE IMPRESE E DEI SETTORI DELL’ANNO ACCADEMICO

2006/2007

LA CORRETTEZZA DI QUESTI APPUNTI NON E’ GARANTITA IN ALCUN

MODO SEBBENE SIANO STATI TRASCRITTI TRAMITE L’ASCOLTO DELLE

REGISTRAZIONI DELLE LEZIONI. PER QUESTO MOTIVO LE PARTI DI

PROGRAMMA NON SPIEGATE A LEZIONE SONO MENO ATTENDIBILI.

LA PARTE RIGUARDANTE L’INTERNALIZZAZIONE MANCA PERCHE’

ESCLUSA DAL PROGRAMMA PER L’ANNO 2006/2007

MANCANO ALCUNI GRAFICI RIGUARDANTI LE TEORIE

DELL’OLIGOPOLIO

EVENTUALI CORREZIONI, INTEGRAZIONI E MIGLIORI FORMATTAZIONI

DEL TESTO SONO BEN ACCETTE

APPUNTI SCRITTI DA DANI&ANTO

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R1_L’IMPRESA NEL SISTEMA ECONOMICO

Funzioni economiche e soggetti economici Il sistema economico è un insieme di individui e organizzazioni, in relazione gli uni con gli altri, per il raggiungimento di un obiettivo, ovvero il soddisfacimento dei bisogni individuali mediante certe risorse. I soggetti economici sono:

1. imprese: soggetti che svolgono attività produttive. 2. famiglie 3. stato

Sono funzionalmente distinti. Le funzioni sono: a) produzione di beni b) consumo

Lo stato può esercitare entrambe le funzioni, per di più ha anche la funzione di decurtare la ricchezza. Esistono diversi tipi di bene di consumo:

− beni di consumo finale: il bene è venduto sul mercato finale per soddisfare un bisogno personale.

− Bene di consumo intermedio: bene per uso produttivo. LO STATO La creazione di un sistema economico è necessaria per dare credibilità agli atti economici e per individuare i ruoli che ciascun soggetto deve assumere. Un sistema economico necessita di un insieme di regole, e queste sono stabilite da un soggetto esterno dotato di supremazia sugli altri. Tale soggetto è lo Stato. Esso svolge le seguenti attività: − Tutelare sia le imprese che operano sul mercato sia i consumatori, soprattutto quelli più deboli.

Ad esempio deve assicurare che un’impresa fornitrice di un bene ritenuto di pubblico interesse o primario fornisca tale bene a tutti i cittadini, indipendentemente dalla convenienza economica. Il bene o servizio deve essere diffuso, seppur in maniera minima, in tutte le aree geografiche ad un prezzo accessibile e con una certa continuità, come nel caso dell’erogazione di energia elettrica o dei servizi di telecomunicazione.

− Evitare l’instaurarsi di posizioni dominanti (es: regole antitrust) − Assicurare che l’impresa operi in efficienza (?????) − Partecipare alla funzione produttiva e di consumo. Infatti, da un lato lo Stato può intervenire nel

caso in cui manchino i capitali necessari per mandare avanti la produzione, dall’altro è anche un consumatore di beni, come nel caso dell’amministrazione pubblica. (da chiarire)

− Emanare le leggi che ordinano il sistema economico, riducono il contenzioso, semplificano e mettono in chiaro il sistema delle relazioni.

− Creare infrastrutture che facilitino gli scambi. Lo Stato per poter assolvere a tali compiti necessita di risorse, ovvero di entrate fiscali. Esse si distinguono i tre tipi:

1. Tasse: si tratta di prelievi che lo Stato effettua soltanto su richiesta del cittadino di un certo servizio, come ad esempio avviene per le tasse universitarie, il bollo di circolazione, ecc. La tassa ha un valore inferiore rispetto al servizio o bene reso, la restante parte viene finanziata dallo Stato stesso. Rappresentano circa il 9÷10% delle entrate.

2. Imposte: sono un prelievo coattivo. Imposte indirette: applicate su uno scambio È il caso dell’ IVA (imposta sul valore aggiunto) .

Imposte dirette: applicate sul patrimonio del cittadino, quindi sia sulle proprietà che sul lavoro.

3. Contributi: si tratta di prelievi coattivi. nel nostro sistema economico rappresentano un’entrata gestita dallo stato (non è così per tutti i paesi). Alcuni esempi sono i contributi per il servizio

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sanitario, contro gli infortuni, pensionistici. Questi ultimi vanno a coprire solo in parte la pensione che il contribuente riceverà. La restante viene elargita dalla Stato stesso.

I Circuito economico semplice e allargato L CIRCUITO ECONOMICO

IMPRESE FAMIGLIE

Beni e servizi

Pagamento dei fattori di produzione

Fattori di produzione

Pagamento beni e servizi

Il circuito economico rappresenta bene il sistema economico in quanto contempla sia i soggetti che le funzioni economiche di produzione e di consumo, e ne evidenzia i legami. Ciò che mette in relazione i soggetti è il mercato, il quale non spiega però le funzioni. Esistono diversi tipi di classificazioni del mercato. In base al bene scambiato abbiamo:

− Mercato del lavoro − Mercato dei beni immobili − Mercato dei beni finanziari − Mercato sei beni e dei servizi

In base alla collocazione nel processo economico: − Mercato intermedio: quando famiglie hanno una funzione di consumo verso le imprese. − Mercato finale: quando le famiglie forniscono risorse per la produzione.

Facciamo delle ipotesi: consideriamo solo imprese e famiglie. Le famiglie possiedono certe risorse e servizi necessari per la produzione, come il proprio lavoro, offerto in cambio di un salario, e risorse reali quali immobili e terreni che le imprese possono acquistare o prendere in affitto. I mercati sulla base della tipologia del bene scambiato possono dividersi in:

− Beni e servizi − Lavoro (rappresentano anomalie rispetto gli altri − Finanziari ( sono i più organizzati)

È possibile schematizzare le relazioni tra i soggetti economici. Ciò che ci interessa sapere è il rapporto tra le entrate e le uscite delle famiglie. Circuito economico semplice: Famiglie e imprese. Facciamo alcune ipotesi: Hyp1 : le imprese producono beni utilizzando risorse delle famiglie e semilavorati prodotti dalle categorie di imprese a monte. Hyp2 : le imprese produttrici di materie prime non hanno altre imprese a monte, utilizzano solo lavoro. Hyp3: prezzo = costo di produzione. ( salario + semilavorato).

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Hyp4: le famiglie non risparmiano. W= salario Y= reddito C= consumo(PIL, reddito) S= risparmi Π= profitti Is= investimenti in scorte Il reddito di un’economia è dato dalla somma dei valori di tutte le produzioni detratte le duplicazioni. Poiché le famiglie non risparmiano, il reddito Y è interamente impiegato per acquistare i beni di consumo e i servizi prodotti dalle imprese. Per le ipotesi fatte, reddito, produzione e spesa coincidono (Y = C )

W= 350 Y= 350 C= 350

Impresa 1 VBS: 100

Impresa 2 VBS: 150

Impresa 3 VBS: 350

famiglia

W=100

W=50

W=200

C=350

Flusso monetario

Flusso monetario

Risparmio e investimento: Eliminiamo l’assunzione dell’ Hyp4, e consideriamo che le famiglie, oltre a fornire il proprio lavoro, possono dare alle imprese anche risorse finanziarie mediante l’acquisto di titoli emessi dalle imprese stesse o da intermediari. Ovviamente, da tali finanziamenti, le famiglie attendono un profitto (Π). Il risparmio è definito come: S = Y – C che corrisponde all’ammontare di reddito che le famiglie non consumano. Poiché le famiglie risparmiano, le imprese non vendono tutto ciò che hanno prodotto alle famiglie, ma parte rimarrà come scorte e parte verrà venduta ad altre imprese. Quindi, al risparmio corrisponde una somma pari al valore degli Investimenti delle imprese, S=I. Se ragioniamo in termini di PIL si ha: − Spesa aggregata = PIL Y = C+I − Impieghi del reddito = PIL Y=C+S Quindi C+S = C+I S=I Nella realtà i risparmi finanziano gli investimenti solo se le famiglie prestano il denaro alle imprese in cambio di titoli o obbligazioni.

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W= 350 Π= 150 Y= 500 C= 400 S= 100 Is= 100

Impresa 1 VBS: 110

Impresa 2 VBS: 200

Impresa 3 VBS: 500

famiglia

W=100

W=50

W=200

C=400

Π= 10

Π= 40

Π= 100

Circuito economico allargato: lo stato.

W = 350 Π = 150 C = 400 Tf = 50 S = 50 Is = 50 Ti = 75 T =125 G = 125 Y = W+Π+Ti = 575

Impresa 1VBS: 115

Impresa 2VBS: 225

Impresa 3VBS: 575

famiglia

W=100

W=50

W=200

C=400

Π= 10

Π= 40

Π= 100

STATO T=125

Tf=50

Ti=5

Ti=50

Ti=20

G=125

Consideriamo oltre ad imprese e famiglie anche lo Stato. Hyp5: lo stato assolve a due funzioni, da un lato riscuote le tasse (Ti= tasse imprese; Tf = tasse famiglie) e dall’altro eroga la spesa pubblica (G), che rappresenta la domanda verso le imprese. In questo caso abbiamo quindi due consumatori, famiglia e stato. − Spesa aggregata = PIL Y = C+I+G − Impieghi del reddito = PIL Y=C+S+T Il concetto di circuito economico permette di evidenziare: A. Relazioni macroeconomiche:

1. Y=W+Π+Ti equilibrio delle imprese 2. Y= W+Π = C+S+Tf equilibrio dele famiglie 3. I = S equilibrio della produzione le imprese devono crescere, e lo fanno

mediante gli investimenti. Essi sono utilizzati per l’acquisto di beni di produzione. Il flusso di risparmio può finanziare gli investimenti solo se le famiglie prestano denaro alle imprese attraverso i canali finanziari come la borsa o le banche. Spesa aggregata = PIL Y = C+I; Impieghi del reddito = PIL Y=C+S. Quindi C+S = C+I S=I

4. T = Ti+Tf = G nel caso ottimale , quando tutte le entrate tributarie sono spese per opere pubbliche. Il pareggio è una situazione difficile da raggiungere, infatti si può

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verificare che T>G o più spesso T<G. Nel secondo caso lo stato si trova in deficit, e deve risanare il bilancio. A tale scopo, può: a. Aumentare le imposte b. Diminuire la spesa pubblica ( non in maniera immediata) c. Emettere dei titoli in modo da farsi finanziare dai risparmiatori. Ovviamente, in questo

caso vanno pagati gli interessi, che sommati vanno ad aggravare ancor di più il bilancio dello stato. A questo proposito è utile richiamare il concetto di avanzo primario.

5. Y = C+I+G componenti della domanda aggregata, equazione fondamentale. Si ottiene combinando la 1 e la 2.

È fondamentale essere a conoscenza del deficit pubblico, poiché lo Stato si finanzia sullo stesso mercato delle imprese. Se lo stato deve coprire i suoi debiti, aumenta i tassi d’interesse sui titoli. Le imprese si trovano quindi in un situazione di svantaggio che le costringe o a non intervenire o ad aggravare i propri costi ed offrire maggiori interessi. Poiché: Y = C+G+I e Y = C+S+T C+G+I = C+S+T S = I+ (G-T) T-G rappresenta il risparmio pubblico, allora: G>T I<S quando lo stato entra in competizione con le imprese vi è una depressione degli investimenti G<T I>S Lo stato drena risorse e ne utilizza una parte per coprire la spesa pubblica, la restante per finanziare le imprese.

6. Meccanismo di creazione e circolazione del reddito e gli apparati (produzione e scambio) che lo costituiscono.

7. Relazioni tra le imprese e tra i mercati. L'avanzo primario del bilancio dello Stato è la differenza fra gli incassi e le spese, esclusi gli interessi pagati sul debito pubblico. L’avanzo primario è dunque la somma disponibile per pagare gli interessi sul debito pubblico (BOT, CCT, ecc.) e, se dopo ne avanza, per ridurre questo debito. Se invece l'avanzo primario non è sufficiente per coprire gli interessi da pagare, lo Stato in qualche modo deve pur finanziarsi. Può stampare nuova moneta oppure può indebitarsi ulteriormente. E’ quello che fanno certe ditte che cadono in mano agli strozzini: chiedono ulteriori prestiti per pagare gli interessi, e poi falliscono. Nel caso dello Stato, con questo comportamento, viene traslato il problema degli equilibri finanziari alle generazioni successive, che si troveranno a dover bilanciare i conti, e questo succederà o con l’inflazione (ma l’essere nell’area della moneta unica europea rende queste operazioni monetarie difficili per i singoli stati) o con un aumento delle imposte. Il cuneo fiscale o cuneo contributivo è rappresentato dalla variazione tra l'onere del costo del lavoro e il reddito effettivo percepito dal prestatore d'opera: in pratica è la differenza tra quanto pagato dal datore di lavoro e quanto incassato effettivamente dal lavoratore, essendo il restante importo versato al fisco e agli enti di previdenza. Il cuneo fiscale è la differenza fra i costi sostenuti dall'imprenditore per l'assunzione di un lavoratore (il salario più i contributi alla sicurezza sociale) e il reddito del lavoratore dopo le tasse e le indennità (il reddito netto). In Italia il cuneo fiscale è determinato sostanzialmente dai contributi previdenziali a carico dell'imprenditore.

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Sistema produttivo e suoi livelli di analisi 1) Unità tecnica di produzione (azienda, fabbrica, stabilimento, cantiere, negozio, studio): rappresenta la dotazione di elementi produttivi conferiti dall’impresa ossia l’insieme coordinato di macchine, lavoratori, materiale e competenze, cui sono connesse capacità produttiva ed efficienza propria dei livelli tecnologici raggiungibili. 2) Impresa: è una struttura organizzativa a fini produttivi definita da canali di autorità e comunicazione, composta da aziende o da un insieme di aziende nelle quali si concentrano le risposte imprenditoriali alle opportunità e ai vincoli presenti in un determinato contesto storico rappresentati da: tecnologie, mercati, disponibilità finanziarie, condizioni legali e azioni dei pubblici poteri, risorse tecnico-manageriali interne ed esterne. 3) Ambiente operativo (configurazione industriale, mercato, distretto): è l’ambito, caratterizzato da un insieme dei soggetti e relazioni, in cui l’impresa mette in atto le sue decisioni strategiche.

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R2_MERCATO E IMPRESA Definizioni e caratteri del mercato Il mercato rappresenta la modalità contrattuale (orizzontale) di coordinamento dei comportamenti economici che attiva un sistema di decisioni decentrato. Le sue caratteristiche sono:

− È un sistema − Ha come obiettivo di promuovere gli scambi. − È uno strumento per portare avanti questo tipo di attività economica. − Come ogni organizzazione economica il soggetto ordinatore è al suo esterno, ed esso è lo

Stato. − Non ha caratteri di moralità, ma di legalità ( gli scambi sono consentiti o meno). − È efficiente se ben organizzato − Nel capitalismo è efficiente se è capace di diffondere e migliorare gli scambi che aiutano

l’economia. − È libero quando da a tutti i contraenti l’accesso alle stesse condizioni ( non quando è libero

da vincoli). Il mercato è lo strumento attraverso cui si aumentano gli scambi, si migliorano le condizioni economiche e si aumenta il decentramento decisionale. Si presuppone che lo scambio sia volontario sia nel senso debole, il soggetto può scegliere tra alternative, sia nel senso forte, il soggetto sceglie le alternative. Una transazione di mercato non può peggiorare le condizioni di una parte delle contraenti. Ciò può avvenire solo per mutamenti successivi alla stipula dell’accordo. Vige cioè il “teorema fondamentale dello scambio” secondo cui se:

− Le transazioni devono essere volontarie e accessibili a tutti. − Tutti i soggetti interessati dalla transazione devono essere parte della transazione stessa. − I termini della transazione sono noti − Ciascun soggetto è protetto da estorsioni o comportamenti sleali,

allora lo scambio è il mezzo attraverso il quale gli individui conseguono i propri obiettivi personali e le imprese mettono in atto le proprie strategie. Quando si chiude un contratto c’è un accordo sulle quantità, sul prezzo e su alcuni obblighi quali tempi di consegna, scadenze del pagamento, etc. Prezzo e quantità sono la coppia di valori che caratterizzano lo scambio di un bene o servizio. Il mercato è tanto più efficiente quanto maggiori sono gli scambi e quanto minori sono i prezzi a cui avvengono. Definizione di domanda e di offerta La domanda di mercato rappresenta la disponibilità degli acquirenti a pagare per un bene o un servizio un certo prezzo in relazione ad una certa quantità. La domanda(D) è una funzione inversamente proporzionale al prezzo ( constatazione empirica):

D = D(p) Ad ogni prezzo corrisponde un livello di quantità. La domanda è espressa dal consumatore, che fa la propria richiesta in base alla propria disponibilità. Essa può essere influenzata da:

1. prezzo 2. gusti del consumatore: pensare alle mode. 3. il reddito a disposizione: l’ammontare di reddito di ciascun individuo è pari alla disponibilità

a pagare una certa cifra per una certa quantità di prodotto. Quindi, maggiore è il reddito, maggiore è la disponibilità a pagare.

4. prezzi degli altri beni, sia complementari sia sostitutivi.

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5. ampiezza del mercato. L’ offerta di mercato rappresenta la quantità di un bene che le imprese sono disposte a cedere in cambio del prezzo corrispondente in un dato istante. L’offerta (S) è una funzione direttamente proporzionale al prezzo ( constatazione empirica):

S = S(p) Ad ogni prezzo corrisponde un livello di quantità. Essa può essere influenzata da:

1. prezzo. 2. la tecnologia a disposizione dei produttori. 3. prezzi di altri beni su mercati limitrofi. 4. prezzi futuri del mercato in questione. 5. eventi casuali. 6. costi d’acquisizione dei fattori produttivi.

Posizione della curva di domanda e della curva di offerta La curva di domanda indica la disponibilità a pagare una determinata quantità di bene, viene rappresentata su un asse cartesiano che ha la variabile prezzo indipendente e sull’asse delle ordinate e la variabile quantità dipendente sull’asse delle ascisse, ha un andamento decrescente perché la disponibilità a pagare decresce con l’aumentare della quantità disponibile

Il variare di uno dei cinque parametri che influenzano la domanda di mercato generano una nuova curva di domanda. Un aumento del gradimento genera uno spostamento verso destra della curva di domanda mentre una diminuzione uno spostamento verso sinistra. Inoltre all’aumentare del reddito le spese dei consumatori si spostano verso beni normali a scapito dei beni inferiori, questo provocherà un cambiamento delle curve di domanda dei beni normali e dei beni inferiori.

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I mutamenti dei prezzi di altri beni possono influire sull’andamento della curva di domanda nel caso questi siano beni succedanei o complementari: la diminuzione del prezzo di un bene succedaneo provoca una diminuzione della domanda da cui il primo è sostituito, mentre la diminuzione del prezzo di un bene complementare provoca un aumento della domanda del primo bene. Allo stesso modo della domanda di mercato può essere rappresentata la curva di offerta S. La posizione della curva di offerta sarà influenzata dai sei fattori che influenzano l’offerta di mercato. Ad esempio ad un aumento dei salari la curva di domanda si sposterà verso l’alto S’’ ed ad uno stesso prezzo si acquisterà una quantità minore, mentre per un progresso tecnologico ci sarà uno spostamento della curva di offerta verso il basso S’ ed ad uno stesso prezzo si acquisterà una quantità maggiore di prodotto.

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L’equilibrio di mercato è lo stato in cui, sotto un certo insieme di condizioni di mercato, la quantità complessivamente domandata uguaglia quella offerta (D(p) = S(p)). Il prezzo corrispondente è detto prezzo d’equilibrio. Non sempre esiste tale equilibrio.

E1

S1

E3

E4

E2

S2

D1

D2

Q

P

q*

p*

pII

pIII

qIIIqII

Se l’offerta aumenta in corrispondenza di ciascun prezzo l curva S si sposta verso destra Se la domanda aumenta in corrispondenza di ciascun prezzo la curva D si sposta verso sinistra Per p> p* c’è un eccesso di offerta per p< p* c’è un eccesso di domanda

Concetti di elasticità 1) Elasticità della domanda Se le curve della domanda e dell’offerta si muovono contemporaneamente, l’analisi qualitativa non basta, bisogna ricorrere ad una quantitativa. È necessario, infatti, in questo caso, conoscere la pendenza delle curve. Per capire quale sarà il nuovo livello del prezzo di equilibrio al variare di D ed S, ricorriamo alla nozione di elasticità della domanda rispetto al prezzo. L’elasticità al prezzo di una curva di domanda rappresenta la variazione relativa alla variabile dipendente a seguito della variazione della variabile indipendente.

εD = -(Δq /q) / (Δp/p) = (Δq/Δp) x (p/q) poiché l’elasticità è data dal rapporto tra la variazione della quantità e la variazione del prezzo, è un numero puro. Rappresenta la reattività della quantità domandata ad una variazione di prezzo.

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εD = - (BP/BC) / (BP/OB)= BC/OB

Dove BP/BC è il coefficiente angolare della retta tangente della curva in P. l’elasticità dipende dalla pendenza della retta rispetto le ordinate e dal rapporto p/q nel punto in considerazione. l’elasticità della domanda è un valore puntuale, varia cioè da punto a punto.

Q

P

A

B

P

O C

Q

P

Apa

pb

B1B

A1

qa qb q1a q1b

D1

D

infatti, consideriamo due curve di domanda parallele. Δp/p è identico per entrambe. per costruzione Δq è uguale. in A e A1 il p è uguale ma q1a>qa quindi εD è minore in A1. se ho un decremento di prezzo, ho elasticità diverse, poiché i punti di partenza sono diversi.

consideriamo ora una curva di domanda lineare che interseca gli assi εD appartiene a [0, ∞] in H εD =∞ in C εD =0 in P εD =1 dove OB=BC

Solo nel caso di un’iperbole ecquilatera avremo lo stesso valore di elasticità lungo tutta la curva.

Q

P

A

B

P

O C

H

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Esistono categorie di curve con elasticità costante. Esse sono:

− curve perfettamente elastiche: lineari e parallele alle ascisse εD = -∞ − curve perfettamente rigide: lineari e parallele alle ordinate εD = 0 − curve a elasticità unitaria: iperbole equilatera εD = 1

Il valore dell’elasticità al prezzo di una curva di domanda dipende da: − grado di sostituibilità di un bene: quanto più sostituti esistono tanto più il bene è sensibile al

prezzo. Se i prezzi dei sostituti calano gli acquirenti preferiscono acquistare questi ultimi. − Tipo di bene: di lusso o primario. − Dalla percentuale di spesa per quel bene sul reddit − o: il sale influisce poco sulla spesa mensile, e le variazioni di prezzo sono talmente basse

che non le percepiamo neanche. − Livello del pezzo.

2) Elasticità della spesa la spesa del consumatore è data da: E = p x q. quindi l’elasticità della spesa è: εE = (ΔE/E) / (Δp/p) = (Δpq/pq) / (Δp/p) L’elasticità della spesa indica la reattività della spesa (Ricavo) ad una variazione di prezzo e può essere >=< 1. Ad esempio nel caso di elasticità maggiore di 1 una diminuzione del prezzo genera un aumento della spesa più che proporzionale. 3) Elasticità dell’offerta È possibile analizzare la curva dell’offerta mediante il concetto coefficiente di elasticità dell’offerta rispetto al prezzo. Esso rappresenta il rapporto tra la variazione relativa della quantità offerta e la corrispondente variazione relativa del prezzo. Poiché la curva d’offerta è direttamente proporzionale al prezzo, il coefficiente avrà sempre segno positivo, a differenza del coefficiente d’elasticità della domanda. εs = (Δq/q) / (Δp/p) = (Δq/ Δp) x (p/q) La εs puntuale è data dal rapporto tra il prezzo corrispondente al punto in cui viene calcolata e la differenze tra quest’ultimo e l’intercetta verticale della tangente nel punto considerato.

H

S

Q

P

A

B

P

C

O

εs = (BC/ HC) x (HA/OA) BC=OA εs = HA/HC

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intercetta verticale

positiva

nell’origine

negativa

elasticità

>1

=1

<1

ε=1ε<1

Q

P

PbPa

ε>1

Pc

O

L’elasticità dell’offerta dipende dai seguenti fattori:

− Gli stock di merce disponibili nel periodo preso in considerazione. − Costi di conservazione e trasporto merci: se sono elevati la curva d’offerta risulterà

anelastica, e viceversa. − Costi di produzione delle merci: se ad esempio aumentano i salari, aumentano i costi di

produzione e quindi la curva d’offerta si sposta in alto ( S2 ). − I prezzi futuri ai quali i venditori pensano di vendere le merci: se il p attuale< p futuro, i

produttori collocheranno la merce sul mercato in un periodo successivo, sempre se il prodotto stesso lo permette. Quindi la curva d’offerta si sposta in alto ( S2 ). Ad esempio questo discorso non può essere fatto per beni deperibili come nel settore alimentare o farmaceutico.

− Le tecnologie: una nuova tecnologia che aumenta la capacità produttiva e diminuisce i costi di produzione comporta un abbassamento della curva d’offerta in basso a destra (S1).

Surplus del produttore e del consumatore L’equilibrio di mercato è lo stato in cui, sotto un certo insieme di condizioni di mercato, la quantità complessivamente domandata uguaglia quella offerta (D(p) = S(p)). Il prezzo corrispondente è detto prezzo d’equilibrio. Non sempre esiste tale equilibrio.

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Nella posizione di equilibrio sarà realizzato sia un surplus per il consumatore Surplus Cons. = Valore per il consumatore – prezzo pagato dal consumatore Surplus Prod. = prezzo ricevuto dal produttore – costo per il venditore Surplus Totale = Valore per il consumatore – costo per il venditore Mercati fix-price e mercati flex-price In un mercato FIX PRICE i venditori decidono ilo prezzo (con la tecnica del mark-up cioè prezzo = costo + un determinato margine di profitto) fino ad una quantità produttiva limitata q* mentre i consumatori decidono la q di equilibrio. Se la quantità richiesta è superiore alla capacità q* allora i consumatori ingaggiano un rialzo dei prezzi per accaparrasi la quantità scarsa. In questo modo la q (fissata dalla capacità produttiva offerta) sarà sempre la stessa ma il prezzo lo decideranno i consumatori (grafico S ad L e tre D) Il mercato FIX PRICE si verifica in quei mercati di carattere monopolistico (sigarette). In un mercato FLEX PRICE il prezzo e la quantità sono congiuntamente determinate da domanda ed offerta (grafico). Un mercato del genere è equo perché non c’è una dominanza di una parte, ma riflette gli interessi di entrambi i contraenti. Mercati di questo tipo sono quelli di tipo primario o mercati altamente organizzati. Aggiustamento walrasiano e marshalliano del mercato flex-price La posizione di equilibrio viene identificata per tentativi di un banditore esterno che non conosce ne la domanda nell’offerta a priori. Ci sono due metodi:: AGGIUSTAMENTO WALRASIANO: Il banditore (soggetto esterno) cerca l’equilibrio tramite tentativi fino a che la funzione “eccesso di domanda” μd= qe-qs si annulla. (grafico con flex price da un lato e sulla destra la funzione eccesso di domanda sulle ascisse che si annulla sulle ordinate e identifica p*) AGGIUSTAMENTO MARSHALLIANO: Il banditore cerca l’equilibrio per tentativi fino a che la funzione “eccesso di prezzo” λp = pd-ps si annulla. (grafico con flex price sopra e sotto funzione eccesso di prezzo sulle ordinate che si annulla sulle ascisse identificando q*).

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R3_CARATTERI PER UNA TASSONOMIA ECONOMICO-ORGANIZZATIVA DELL’EVOLUZIONE DELLE FORME D’IMPRESA 1.dinamica dimensionale: imprese più grandi sono imprese più complesse. 2.scissione tra proprietà e gestione: con l’aumentare delle dimensioni e la diversificazione,

aumenta anche la specializzazione del lavoro. La proprietà non ha le competenze per poter controllare tutta l’impresa, si fa affiancare quindi dalla nuova classe manageriale. Possono nascere dei conflitti tra di essi, sia perché la proprietà vuole mantenere il proprio potere, sia perché hanno obiettivi diversi.

3.core-tecnoloqy: MODELLI D’IMPRESA 1. Impresa familiare. Si afferma durante la prima rivoluzione industriale in Inghilterra, soprattutto nei settori tessili. È di medio-piccole dimensioni, monoprodotto. Si tratta di imprese a livello di contea, che soddisfano il mercato locale, e hanno bisogno ci farsi concorrenza, preferiscono invece instaurare rapporti di non belligeranza. Si basa sulla funzione produttiva e la tecnologia e i macchinari sono standardizzati. Non vi è scissione tra proprietà e controllo, in quanto il proprietario si occupa della supervisione, coordinamento e controllo. 2. Impresa funzionale ( U-form). Si afferma durante la seconda rivoluzione industriale, grazie al notevole sviluppo tecnico, economico e umano. Si afferma in quei settori che in quegli anni hanno un grande progresso, come le ferroviario, siderurgico, elettrico, chimico e meccanico Cambiano notevolmente i processi produttivi, viene introdotto il lay-out per aumentare l’efficienza e il coordinamento, ed inoltre i grandi volumi permettono il raggiungimento di economie di scopo e di ampiezza. Tutto ciò permette di ridurre i costi di produzione. . Le aumentate dimensioni aziendali comportano la necessità di definire rapporti di autorità, responsabilità e comunicazione. Nasce così l’organigramma. Un’importante novità è la nascita di una gerarchia imprenditoriale che coadiuva la proprietà nella sempre più complicata gestione dell’impresa. 3. Impresa multidivisionale (M-form). Si afferma all’inizio del ‘900. Le dimensioni crescono ulteriormente e possono diventare causa di fragilità. Per difendersi dal rischio l’impresa ricorre alla diversificazione dei prodotti, e all’ampliamento della gamma offerta. Si costituiscono così delle divisioni per prodotto o area geografica, che si comportano come delle imprese U-form, e che hanno una base tecnologica comune, vicina alla core technology. Permane comunque un centro dirigente, supportato da uno staff, che si occupa della supervisione, coordinamento, valutazione e allocazione delle risorse. Nascono conflitti d’interesse tra la proprietà e la gestione. 4. Impresa conglomerata. Si afferma tra i due conflitti mondiali negli USA in risposta all’accresciuta competizione. È l’evoluzione della multidivisionale estesa a settori non correlati. La vastità di tale impresa ne diminuisce la coesione, e complica la gestione da parte dei vertici imprenditoriali, i quali devono basare le loro decisioni su rapporti finanziari. Il nucleo decisionale si concentra sulle acquisizioni, la finanza e il controllo, mentre sono escluse marketing, produzione e R&S. Cambia anche la proprietà, non solo individui, famiglie, banche, ma anche fondi pensionistici e comuni. 5. Holding. È un insieme di imprese facenti capo ad un’unica funzione finanziaria, con capitale azionario in proprietà incrociata. Si tratta di un gruppo finanziario e produttivo allo stesso tempo, ma si focalizza sempre di più sull’aspetto finanziario e sulla ricerca di capitali. 6. Impresa multinazionale. Ha una storia a sé, che confluisce poi nella conglomerata. Si tratta d’imprese, che possiedono interesse economico e attività in più paesi del mondo. AMBIENTI NAZIONALI E PROCESSI EVOLUTIVI DELLE FORME D’IMPRESA Durante la prima rivoluzione industriale si afferma in GB l’impresa di tipo familiare. Nonostante il progresso tecnologico non si sente ancora l’esigenza di una crescita dimensionale. Le dimensioni sono piccole, la funzione principale è la produzione e la proprietà assolve ai compiti gestionali. La

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nascita della moderna grande impresa si ha con la II Rivoluzione industriale, alla fine dell’800., Determinante fu in particolare lo sviluppo dei sistemi di comunicazione, telegrafo, ed in particolar modo delle ferrovie. Esse rappresentano la prima grande impresa, dove si mette in evidenza la necessità di definire i rapporti d’autorità, comunicazione e responsabilità. Nasce un importante strumento, l’organigramma. Il grande sviluppo tecnologico, in particolare nel settore meccanico, chimico ed elettrico, permette di produrre elevati volumi con tempi ridotti, inoltre, per la prima volta, dato il crescere degli stabilimenti e il complicarsi della produzione, viene disegnato il lay-out, per migliorare il coordinamento e aumentare l’efficienza. Tutto ciò si riflette sui costi che diminuiscono, grazie anche al raggiungimento delle economie di scala e ampiezza. La grande novità è l’affermarsi di una nuova classe manageriale, che coadiuva la proprietà nella gestione dell’impresa. Tale rivoluzione ha investito i paesi più industrializzati, ma ha prodotto effetti diversi, che dipendono da una serie di variabili: − Caratteristiche dei mercati: GB subì lo svantaggio del pioniere, era già in uno stato di benessere e progresso, ciò non la spinse a rinnovarsi. In USA c’è una grande diffusione delle ferrovie che provocano la nascita del management e permettono di creare un vasto mercato unico. In G è come in USA, ma non bisogna trascurare le dimensioni ridotte. − Regolamentazione da parte dei pubblici poteri: in USA si instaura da subito una legge antitrust che favorisce la concorrenza e bandisce le alleanze, con l’intento di evitare il formarsi di grandi imprese. L’effetto fu però contrario, in quanto le imprese, per essere efficienti e migliorare le loro performance, ricorsero alla crescita dimensionale, mediante l’interazione verticale o le fusioni, non vietate dalla legge. In GB gli accordi sono tacitamente accettati dallo Stato, le imprese quindi continuano a mantenere le proprie quote di mercato e non hanno stimoli al cambiamento. In G addirittura i cartelli sono legalmente tutelati dallo Stato per l’interesse comune, ma anche in questo paese non ci sono grossi stimoli al cambiamento. − Atteggiamenti sociali nei confronti della grande impresa: in USA si guarda con fiducia alla nuovo assetto imprenditoriale, e la categoria manageriale è incoraggiata. In G anche si accetta di buon grado la nuova grande impresa, con qualche riserva da parte sella proprietà, che vuole preservare i suoi poteri. In GB c’è un totale rifiuto delle nuova società industriale, e la proprietà non vuole dividere col management il controllo dell’impresa. − Risorse culturali: USA e G supportano la nascita della grande impresa istituendo una serie di scuole tecniche specializzate e di business. In GB non è dato tutto questo interesse, tanto che conta un numero di affluenze alle università molto inferiore rispetto le altre due. SCUOLE DI PENSIERO DELLA SCIENZA ECONOMICA 1) CLASSICA (Economia Politica): (Smith, Marx). Si focalizza sullo sviluppo della produzione, sui processi produttivi e sulle classi. Queste ultime, grazie al loro operare e interagire tra loro, determinano lo sviluppo del sistema economico. Si tratta di classi funzionali, distinte cioè dalla particolare funzione svolta rispetto al processo produttivo, e sono: salariati, imprenditori/ capitalisti, meno abbienti. 2) NEOCLASSICA o ECONOMICA (Economia): (Walras, Mengel,). Si afferma attorno al 1870, in un periodo di cambiamenti politici (creazione degli Stati) e tecnologici (II rivoluzione industriale). S’introduce un concetto innovativo, l’individualismo. Il sistema economico evolve ad opera di singoli individui razionali e con l’obiettivo di massimizzare i loro interessi. Indipendentemente dalle loro condizioni di partenza, possono svolgere funzioni produttive o di consumo. A scapito della produzione, assume un ruolo fondamentale lo scambio, come mezzo per massimizzare gli obiettivi individuali e allocare in maniera più efficiente le risorse. 3) MACROECONOMIA: la crisi del ’29 mette in discussione il filone neoclassico, e si arriva a credere che i comportamenti individuali non sono sufficienti a reggere l’equilibrio del sistema economico, è necessario un’azione complessiva. Questa scuola di pensiero si afferma nel ’36 con Keynes il quale sposta l’attenzione sulle macrovariabili come la domanda aggregata, la spesa pubblica, il consumo, etc. Per prima cosa mette in discussione la teoria dei neoclassici, secondo la

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quale il raggiungimento dell’equilibrio comporta la totale utilizzazione delle risorse, quindi domanda e offerta coincidono sempre sia nel mercato dei beni, sia in quello del lavoro, sia in quello finanziario. Secondo Keynes è possibile un’evoluzione del sistema economico anche in caso di sottoccupazione. ECONOMIA INDUSTRIALE L’economia industriale è una scienza empirica che si occupa principalmente di: − Organizzazione della produzione settoriale. − Rapporti tra mercato e impresa. − Rapporti tra stato e impresa. E possibile individuare tre gruppi di tematiche affrontate in periodi differenti: 1) Marshall (trade&industry, 1880). È a cavallo tra la scuola classica e neoclassica, ed è il primo

ad occuparsi della configurazione industriale. Focalizza il suo studio su: a) Concentrazione di mercato. b) Integrazione. c) Rapporti con le imprese d) Complessità settoriale. e) Accrescimento delle imprese.

2) Industrial organization: si afferma negli anni 30 in USA, e studia: a) Metodo di fissazione del prezzo e quantità da produrre. b) Condizioni che determina la concorrenza all’interno di un settore.

3) Market competition: studia a) Mercati al fine di creare ambienti competitivi. b) Monopolio. c) Intervento di autorità a garanzia della concorrenza.

PARADIGMI INTERPRETATIVI DELL’ECONOMIA INDUSTRIALE 1) Il paradigma dominante degli anno ’50 si compone di più contributi.

a) L’interpretazione del processo concorrenziale e dei mercati è del tipo Struttura-comportamento-performance: (‘60,’70). La tecnologia e l’elasticità della domanda sono elementi esogeni all’impresa, che determinano le barriere all’entrata che influiscono a loro volta sul numero d’imprese nel mercato, e quindi sulla concentrazione del mercato. Dalla concentrazione dipende il comportamento dell’impresa e quindi il suo potere di mercato di fissare i prezzi e quantità. Da questi comportamenti derivano, infine i risultati. b) teoria della grande impresa: l’obiettivo è spiegare perché esistono, sono competitive e crescono, e chi le controlla. Un aspetto caratterizzante di questo paradigma è quello di cercare riscontri empirici ai modelli teorici, quindi si dedica molto allo studio di casi pratici. Le due relazioni empiriche più studiate sono concentrazioni- profitti e fusioni-profittabilità. c) Altre tematiche che vengono affrontate nell’economia industriale sono

− Creazione di mercati borsistici − Integrazione verticale. − Innovazione e pubblicità. − Politiche per la concorrenza.

2) Nuovo paradigma interpretativo. Si sente la necessità di una maggiore coerenza teorica. Riprende i principi della scuola neoclassica ed ha come punto di partenza dell’analisi del sistema industriale l’impresa, non il settore. La chiave interpretativa è la dinamica contrattuale, l’impresa è un insieme di contratti, e la sua dimensione dipende dalla capacità contrattuale dei suoi componenti. Il processo Struttura-comportamento-performance viene rivisitato, si riprende sostanzialmente il modello tradizionale, ma si mette in evidenza che vi possono essere una serie di feedback tra struttura, comportamenti e performance. Al centro dell’interesse vi è il comportamento strategico

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delle imprese come il risultato di scelte ragionate. Questo tipo di analisi si avvale di alcuni strumenti

a) Teoria dei giochi. b) Teoria costi di transazione. c) Teoria dei diritti di proprietà. d) Teoria dell’informazione.

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R4_TEORIA TRADIZIONALE DELL’IMPRESA: COSTI, RICAVI, PROFITTI Uno schema analitico per l'analisi economica dell'impresa Nella teoria economica lo studio dell’impresa parte dalla considerazione di condizioni fondamentali:

1) Le “CONDIZIONI DI PRODUZIONE” influenzate dalle tecnologie, si riflettono come dati nei COSTI.

2) Le “CONDIZIONI DI MERCATO” (tipologia di clienti, qualità dei clienti etc.) “misurate” come dati tramite i RICAVI.

Queste due condizioni non sono sufficienti per spiegare l’impresa, di conseguenza è stata identificata una modalità di confronto tra costi e ricavi tramite:

3) Le “CONDIZIONI DI EQUILIBRIO” che tenendo conto dei due vincoli (costi-ricavi) riescono ad inquadrare l’impresa il suo comportamento e i suoi obiettivi. Il dati di misura di questa condizione sono i PROFITTI

L’impresa è dunque un soggetto massimizzante, funzione di PROFITTO TOTALE ПT = RT – CT Nello studio delle forme di impresa le condizioni dei ricavi variano, mentre le condizioni dei costi rimangono stabili. Questo perché i costi (dipendenti dalla tecnologia e dal progresso scientifico-tecnico) possono essere considerati fissi nel breve periodo. Le condizioni di mercato invece variano e si riflettono in modo diverso sulla funzione dei ricavi nei diversi ambienti operativi. La funzione del ricavo e le tipologie di mercato Si esamina un caso limite analizzando una curva di domanda che attraversa tutti i valori dell’elasticità, ottenendo una retta che interseca entrambi gli assi che avrà elasticità infinita nel punto A elasticità uguale ad 1 nel punto B ed elasticità uguale a 0 nel punto C. Rappresentando la funzione del ricavo totale in corrispondenza dei punti della curva di elasticità si otterrà una parabola rovesciata in quanto gli incrementi della superficie saranno crescenti fino al punto B e decrescenti oltre, annullandosi negli estremi A e B. La curva del ricavo totale avrà sempre il suo massimo in corrispondenza del valore unitario dell’elasticità sulla curva di domanda. Questo tipo di funzione del ricavo totale è caratteristica di un monopolio.

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Esaminando un altro caso limite si rappresenta una curva di domanda perfettamente elastica (una retta perpendicolare all’asse delle ordinate in quanto ad una variazione infinitesima del prezzo si ottiene una variazione infinita della quantità). Questo tipo di curva di domanda è quella del mercato a concorrenza perfetta dove il prezzo rappresenta un vincolo stabilito dal mercato. La funzione del ricavo totale sarà rappresentata da una retta uscente dall’origine.

La funzione del ricavo totale dunque si muoverà tra i due casi limite esaminati e descriverà il tipo di mercato a cui è riferita. Teoria marginalista dei costi L’obiettivo dell’impresa è quello di massimizzare i profitti totali. Sappiamo che ПT = RT – CT. Per massimizzare questa funzione dovremmo risolvere l’equazione: δRT/δq – δCT/δq = 0 Quindi la massimizzazione dei profitti si ha quando i costi marginali (variazione dei costi totali dovuta all’ultima unità di prodotto aggiunta) sono uguali ai ricavi marginali (variazione dei ricavi totali dovuta all’ultima unità di prodotto aggiunta. MAX ПT = > CMg = RMg L’impresa deve trovare le condizioni di equilibrio tali che questa uguaglianza sia verificata. RMg = δRT/δq = δpq/δq = δp/δq x q + δq/δq x p = δp/δq x q + p Si ricava una relazione più stretta tra ricavo marginale ed elasticità: RMg = p (1-1/ εp) Graficando l’andamento della funzione del ricavo marginale si ottiene una retta che interseca l’asse delle ascisse nel punto in cui l’elasticità è uguale ad 1 e diventa negativa per valori <1 dell’elasticità. L’impresa dunque non ha convenienza a muoversi sulla curva di domanda su valori <1 in quanto non ci sarà alcun incremento dei ricavi totali. I ricavi medi totali saranno uguali a p (RMT = pq/q = p)

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Costi di produzione I costi di produzione sono i costi sostenuti dall’impresa durante la creazione di un prodotto. Considerando come orizzonte temporale il breve periodo è possibile parlare di costi fissi e costi variabili (nel lungo tutti sono variabili). I costi fissi sono principalmente i costi di impianto, i costi di stabilimento, i costi di assicurazione, i costi di brevetti e i costi indiretti. I costi variabili invece sono definiti in base alla variabile quantità. Rappresentando le curve dei costi si noterà che i costi variabili sono a tratti decrescenti fino al punto di flesso F e crescenti oltre il punto F, quindi producendo quantità superiori a qf determinano un incremento più che proporzionale dei costi totali. I costi fissi totali saranno rappresentati da una retta mentre i costi totali dalla sommatoria dei costi variabili totali e dei costi fissi totali.

I Costo medi saranno: CM = CT /q = (CFT + CVT )/q = CFT/q + CVT/q = CFM + CVM Il significato geometrico del CVM è costo totale su quantità, dunque valore di ordinata su valore di ascissa ed è identificabile tramite i valori dell’angolo della congiungente il punto O ai punti della curva. Noteremo che l’angolo più piccolo si otterrà nel punto M tangente alla curva CVT che

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corrisponderà al punto di minimo dei CVM. Lo stesso discorso vale per i costi medi totali. In questo caso il punto di minimo sarà identificato dal punto N dei costi totali. Definendo il Costo marginale come: CMg = δCT/δq = δ(CFT+CVT)/ δq = δCFT/δq+δCVT/δq = δCVT/δq (il contributo dei costi fissi si annulla in quanto costanti). È possibile rappresentare anche la curva di questo tipo di costi in quanto geometricamente è definito dall’angolo della tangente sui punti della curva. Quindi in corrispondenza del punto di flesso F avremo una discontinuità dei costi marginali: fino al punto F decresceranno, dopo cresceranno. Nei punti M ed N la congiunte a CVT e CT sarà anche tangente a CVT e CT. Quindi i costi marginali saranno rappresentati da una curva che ha il suo minimo in corrispondenza del punto di flesso F e intercetterà i punti di minimo sia dei Costi medi variabili sia dei Costi medi totali.

R4_ V2 TEORIA TRADIZIONALE DELL’IMPRESA: COSTI, RICAVI, PROFITTI SCHEMA ANALITICO PER L’ANALISI ECONOMICA DELL’IMPRESA. Secondo la teoria economica, l’impresa è soggetta a vincoli interni ed esterni. I primi possono essere rappresentati dai costi, i quali rappresentano le condizioni di produzione, tecnologiche e di approvvigionamento dell’impresa. I vincoli esterni sono rappresentati dai ricavi, i quali riflettono le condizioni di mercato. Nel breve termine l’impresa non può mutare né le condizioni di produzione, né quelle di mercato, in quanto per cambiare la produzione bisogna effettuare investimenti, acquistare nuovi impianti, cambiare le procedure, invece, per cambiare le condizioni di mercato bisogna riuscire ad accaparrarsi nuove quote di mercato, tutte azioni che richiedono un certo tempo per essere realizzate. Per poter spiegare il comportamento dell’impresa è necessario individuare con quali modalità l’impresa confronta costi e ricavi. Tale modalità è costituita dalle condizioni di equilibrio che sono specificate attraverso l’obiettivo dell’impresa.

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Secondo la teoria economica dell’impresa tradizionale l’obiettivo è quello della massimizzazione del profitto totale. I profitti rappresentano la variabile attraverso la quale è possibile identificare il comportamento dell’impresa, in quanto rappresenta un variabile strategica:

ΠT = RT – CT L’impresa è un soggetto massimizzante una funzione di profitto, che comprende i vincoli cui è soggetta l’impresa. Se l’impresa massimizza il suo profitto raggiunge una posizione di equilibrio, quindi ha un comportamento efficiente che le permette di restare sul mercato. Lo studio delle forme d’impresa della teoria tradizionale individua la posizione di equilibrio sulla base delle condizioni di costo e di ricavo, mantenendo le prime fisse e variando invece le seconde. Per ipotesi i costi sono considerati fissi in quanto l’impresa, una volta scelta una tecnologia produttiva, produce a livelli di costo che tale tecnologia permette e solo dopo aver immesso i prodotti sul mercato può verificare quali sono le condizioni di domanda. L’impresa, nel lungo termine, se massimizza i profitti totali può rendere i costi totali una variabile, in quanto può permettersi di adottare nuove tecnologie che solitamente abbassano i costi di produzione unitari e aumentano la capacità produttiva. La funzione di ricavo ci fa capire in quale ambiente operativo si trova l’impresa, quindi, le varie forme di mercato sono riassunte nell’andamento della curva di domanda di ciascuna impresa, in quanto le coppie (p,q) rappresentano sia la spesa del consumatore sia il ricavo del produttore.

Q

P

A

Qa

Pa

O

RT = pxq RT = f(q)

Il rettangolo ApaOqa rappresenta il ricavo del produttore.

L’inclinazione della curva di domanda dipende dal tipo di mercato in cui ci troviamo e ad ogni inclinazione corrisponde anche una certa elasticità della domanda. Bisogna quindi innanzitutto analizzare la funzione di ricavo.

Q

P

A

Qa

Pa

O

D1

D

q1 q

D1= oligopolio D= concorrenza perfetta In concorrenza perfetta essa è meno inclinata rispetto al caso dell’oligopolio. Infatti, se ipotizziamo che un’impresa può variare il prezzo più consumatori si rivolgono ad essa e quindi aumenta notevolmente le quantità vendute. Quindi la domanda è molto reattiva al variare del prezzo. Dal grafico si può vedere che ad una stessa diminuzione di prezzo nell’oligopolio corrisponde un aumento della quantità inferiore.

Studiamo ora l’andamento della funzione di ricavo totale. Prendiamo un caso limite, ovvero un andamento lineare della curva di domanda, che mostra tutti i possibili valori dell’elasticità della domanda al prezzo.

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Q

PQ

A

B

P

O

C

EF

A ε = ∞ B ε = 1 C ε = 0 nel grafico di sotto è mostrato l’andamento dei ricavi totali al variare della quantità. Supponiamo di aumentare poco alla volta la q. da A B ε>1 : aumento più che proporzionale della q al variare del p. da B C ε<1: aumento meno che proporzionale della q al variare di p. la curva dei ricavi assume un andamento di parabola rovesciata ε>1, RT crescente ε<1 RT decrescente ε=1. RT punto di massimo

Ovviamente si possono fare altre ipotesi circa l’andamento della curva di domanda. Ad esempio si può considerare un curva perfettamente elastica ( ε=∞).

p

q

pq

q

Un’infinitesima variazione del prezzo determina un’infinita variazione della quantità. la curva di ricavo totale ha un andamento lineare.

Quelle rappresentate sono le due forme estreme all’interno delle quali si muove la curva di ricavo. La parabola rovesciata rappresenta il monopolio, mentre la retta uscente dell’origine rappresenta la concorrenza perfetta. CONCETTI DI COSTO E DI ECONOMIE 1.1 La teoria economica distingue tra costi privati:

a) Costi di produzione b) Costi opportunità: sacrificio derivante dalla rinuncia ai benefici ricavabili da un scelta

alternativa rispetto a quella scelta. c) Costi di transazione: costo sostenuto dalle parti per effettuare uno scambio.

1.2 Costi sociali: effetti esterni di una scelta di consumo o produzione individuale, come le diseconomie esterne (congestione del traffico, inquinamento..).

Passiamo ora a parlare più in dettaglio dei costi di produzione. Essi costituiscono la spesa sostenuta dall’impresa per l’acquisto di beni e servizi utilizzati nella produzione. Essi possono dipendere da diversi fattori, quali la dimensione degli impianti e la loro localizzazione. Nella teoria tradizionale si distinguono i costi in base e all’orizzonte temporale. Si definisce breve periodo, quel periodo nel quale uno o più imputs di produzione sono fissi. Si definisce lungo periodo, il periodo nel quale tutti gli imputs possono variare. Analizziamo per il momento il breve periodo. il costo totale è:

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CT = CFT + CVT CFT: sono le spese che l’impresa sostiene per il capitale fisico( immobili, impianti, etc) e per il capitale umano (ricerca, pubblicità, etc), per organizzare il processo produttivo ( progettazione, controllo, amministrazione) e conservarlo (manutenzione). Rappresentano le caratteristiche tecniche dell’impresa. CVT: variano col variare della quantità. Si tratta del lavoro diretto, materie prime, energia, etc. Essi sono crescenti a tassi prima decrescenti, poi crescenti. La curva dei costi variabili presenta un punto di flesso ( F) in cui cambia l’andamento della curva. Esso rappresenta il punto di efficienza tecnica, ovvero individua la quantità per cui si raggiunge la migliore combinazione di tutti gli elementi. Fino ad una certa quantità, l’aumento di unità lavorative determina maggiori sinergie, quindi i costi unitari si riducono. Lo stesso incremento di quantità determina un aumento meno che proporzionale dei costi. Raggiunta una certa quantità vi potrebbe essere un’eccessiva usura dei macchinari, potrebbe diventare più complicato organizzare il lavoro, in poche parole le sinergie vengono meno, e quindi per lo stesso incremento di quantità si ha un aumento più che proporzionale dei costi.

qf

CT

Q

CFT

CT

O

F

CVT

− economie di scala: Riduzione del costo medio di produzione all’aumentare del volume della produzione (della scala produttiva). Le motivazioni sono da un lato di tipo pecuniario, in quanto vi sono sconti associati all’acquisto di grandi volumi, dall’altro reali. Si verificano le economie stocastiche di scala (all’aumentare della domanda, ne diminuisce la varianza); economie dei fattori comuni (spalmare costi una tantum, es. R&D, all’interno del costo medio di produzione); economie ingegneristiche (legate al fatto che il volume di proporzione aumenta in maniera meno che proporzionale al costo di produzione). − economie di varietà (o scopo): Il costo della produzione congiunta di 2 beni è inferiore alla somma dei costi delle 2 produzioni separate.

C(q1 + q2) < C(q1,0) + C(0,q2) − economie di multilocalizzazione: riduzione del costo di trasporto dell’output o dei fattori produttivi; differenziazione del prodotto più sensibile alle peculiarità della domanda locale; costi di approvvigionamento inferiori − economie di apprendimento (learning by doing): Riduzione del costo medio di produzione all’aumentare della produzione cumulata. Tale riduzione è dovuta a migliore organizzazione interna; specializzazione della forza lavoro; maggiore programmabilità dell’attività. I settori in cui tali economie sono particolarmente rilevanti sono quelli con forte componente del lavoro manuale, e quelli con molte fasi distinte del processo di produzione. Oltre un certo livello non è più conveniente per l’imprese aumentare la produzione perché ciò determina delle diseconomie di scala. TEORIA MARGINALISTA DEI COSTI Abbiamo detto che l’obiettivo dell’impresa è quello di massimizzare il profitto definito come ΠT=RT–CT. Poiché RT=f(q) e CT=f(q) anche ΠT=f(q). Max ΠT dΠT/dq=0 (dCT/dq – dRT/dq)=0

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Definiamo: − ricavo marginale Rmg = dRT/dq: variazione del ricavo dovuta all’ultima unità aggiuntiva di

prodotto − costo marginale Cmg = dCT/dq: variazione di costo dovuta all’ultima unità aggiuntiva di

prodotto. − Ricavo medio RM = RT/q = pxq/q = p Allora si ha max ΠT quando Rmg=Cmg CONDIZIONE DI EQUILIBRIO. L’impresa individua la quantità ottimale quanto costo marginale e ricavo marginale coincidono, ovvero nel punto di equilibrio. Cerchiamo ora una relazione più stretta tra Rmq ed elasticità. Rmg= dRT/dq = d(pxq)/dq = px(dq/dq) + qx(dp/dq) = p + qx(dp/dq) εp = - (dq/q) x (p/dp) = - (p/q)x(dq/dp) da qui si può ricavare che: dp/dq = -(1/εp)x(p/q) sostituendo alla prima: Rmg = p(1-1/εp) p

B

qRmg

D

B εp=1 Rmg = 0 RT è massimo εp>1 Rmg > 0 RT aumenta εp<1 Rmg < 0 RT diminuisce l’andamento della domanda non è l’unico ammissibile.

F punto di flesso = efficienza tecnica. O – F : aumento meno che proporzionale dei CVT F - ∞ : aumento più che proporzionale dei CVT La curva CT è data dalla somma delle due curve. CMT =CT/q =(CFT+CVT)/q=CFT/q + CVT/q= CFM + CVM IL CM ha il significato geometrico Y/X= tg α CFM ha una andamento iperbolico in quanto il suo significato geometrico è K/X

Per individuare i punti del costo medio traccio le congiungenti dall’origine ad un punto della curva.

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Per la curva CVT l’angolo individuato dalla congiungente diminuisce fino alla tangente alla curva. Dopo di che i valori dell’angolo aumentano. Quindi la curva CVT ha un punto di minimo dove la congiungente è anche tangente. Anche per la curva CT l’angolo individuato dalla congiungente diminuisce fino alla tangente alla curva per poi cominciare a crescere. Quindi, CMT ha un punto di minimo la dove la congiungente è anche tangente. Questo punto è più a destra di CVM per via dell’aggiunta dei costi fissi. Definisco ora: − Costo marginale Cmg = dCT/dq = dCFT/dq + dCVT/dq = 0 + dCVT/dq Geometricamente il costo marginale è rappresentato dall’angolo della tangente a ciascun punto della curva (mentre il costo medio è rappresentato dall’angolo della congiungente). Sappiamo che F è un punto di flesso e in corrispondenza di esso vi è una discontinuità nella funzione del costo marginale. Fino al punto di flesso l’angolo della tangente diminuisce, dopo cresce. La curva costo marginale è quindi una curva con minimo nel punto di flesso. Tale curva fino al punto di flesso si trova sotto la curva di costo medio, poiché l’angolo della tangente è inferiore a quello di qualsiasi congiungente. Raggiunto il punto di minimo l’angolo della tangente comincia a crescere finché esso coincide con quello della congiungente. In questo caso il costo marginale coincide con il costo medio. Come visto prima ciò avviene nel punto di minimo della CMT e della CMV. In definitiva si può dire che la curva di costo marginale è una curva con minimo nel punto di flesso e passante per i punti di minimo delle CM e CMV.

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R5_TEORIA DELLA STRUTTURA INDUSTRIALE Per struttura industriale intendiamo indicare il modo in cui la produzione di un cero bene si ripartisce tra tutte le imprese che appartengono all’industria e lo producono. Per industria s’intende l’insieme delle imprese che producono beni simili per il consumatore. Secondo la teoria tradizionale la struttura di un industria dipende dall’interazione tra due fattori:

− La tecnologia rappresentata dalla funzione di costo. − L’operare dei meccanismi di concorrenza.

La teoria tradizionale si basa su una serie di ipotesi semplificative e molto drastiche. Innanzitutto lo studio è adatto a rappresentare il tipo di impresa delle origini, ovvero l’impresa familiare, nota anche come 1x1x1: un’impresa monoprodotto, che utilizza una risorsa fondamentale, quale ad esempio il lavoro. In secondo luogo, si considera l’industria come sistema isolato rispetto al resto del sistema economico. Inoltre si considerano i consumatori come soggetti price-taker, ovvero la variazione della propria domanda non altera il volume della domanda complessiva. L’oggetto della teoria della struttura industriale è quello di studiare le configurazioni industriali d’equilibrio. Una configurazione industriale è caratterizzata dal numero d’imprese attive nell’industria, dalla quantità prodotta dalla singolo impresa e dal prezzo praticato da ognuna di esse. Una configurazione industriale è in equilibrio quando nessuna impresa dell’industria varia le decisioni relative ad uno dei fattori che definiscono la stessa. Le decisioni che un’impresa può prendere sono:

− Quali beni produrre. − Quanto produrre di ciascun bene. − A che prezzo offrire il bene sul mercato.

Secondo la teoria tradizionale la struttura effettiva di un’industria coincide con quella ideale se vigono le condizioni di concorrenza perfetta. Ed è per questo che la prima struttura analizzata è proprio questa. EQUILIBRIO DELL’IMPRESA IN CONCORRENZA PERFETTA Per prima cosa facciamo alcune ipotesi semplificative.

− Le imprese prese in esame sono del tipo 1x1x1. − L’obiettivo dell’impresa è la massimizzazione del profitto. − L’impresa, come la domanda, è un soggetto price-taker, ovvero non ha alcuna influenza sul

prezzo di mercato che viene preso come dato. La sola decisione che compete l’impresa è quella legata alla quantità da produrre.

L’ipotesi che le imprese sono price-taker, implica che vengano soddisfatte le seguenti condizioni: − Elevato numero di offerenti e acquirenti; nessun produttore è chiaramente identificabile. − Beni e servizi omogenei e non distinguibili. − Non esistono barriere all’ingresso e all’uscita. − Non esistono asimmetrie informative; il prodotto dice tutto di se tramite il prezzo, esiste

trasparenza. La concorrenza perfetta è un mercato in cui una moltitudine di imprese, tecnologicamente uguali, producono una piccola frazione della domanda di mercato. Sono imprese talmente piccole che il loro ingresso o la loro uscita dal mercato, non si riflette sullo stesso. L’equilibrio di mercato può essere turbato solamente dal cambiamento di condizioni della domanda, come i gusti o il reddito dei consumatori. Per quanto riguarda le condizioni dell’offerta, esse possono influire solo se un gran numero di imprese decide di uscire o entrare nel mercato, e ciò può avvenire solo nel lungo periodo. .

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Massimizzazione del profitto Poiché ΠT = RT – CT, se l’impresa vuole massimizzare il profitto deve scegliere il livello di produzione in corrispondenza del quale la differenza tra costi e ricavi è maggiore. Tracciamo su un grafico le curve dei ricavi e dei costi totali. La pendenza della RT è rappresentata dal ricavo marginale ( Rmg = dRT/dq ), mentre quella della CT è rappresentata dai costi marginali ( Cmg = dCT/dq ).

qa q* qb

RT

CT

ΠT

A

B

O

K

J

Possiamo notare che: • O-qa : RT<CT ΠT < 0 ; il ricavo non copre

sia i costi variabili che quelli fissi. • qa-qb: RT>CT ΠT > 0 ; • qb-∞: RT<CT ΠT < 0

La quantità per cui il profitto ha valore massimo, è quella in corrispondenza della quale le curve CT e RT sono più distanti, (K e J), ovvero quella per cui Rmg=Cmg, ovvero, quando le tue curve hanno stessa pendenza e sono quindi parallele. A questo risultato si poteva giungere anche in maniera algebrica, come abbiamo già visto. ΠT=RT–CT. Poiché RT=f(q) e CT=f(q) anche ΠT=f(q). Max ΠT dΠT/dq=0 (dCT/dq – dRT/dq)=0 − ricavo marginale Rmg = dRT/dq − costo marginale Cmg = dCT/dq Allora si ha max ΠT quando Rmg=Cmg CONDIZIONE DI EQUILIBRIO. Questo vale per tutte le imprese, sia che esse siano in concorrenza perfetta o meno. Concorrenza perfetta nel breve periodo. Nel breve periodo il prezzo è un dato e l’obiettivo dell’impresa è quello di individuare la quantità che le permette di massimizzare il proprio profitto

p*

D

S

mercato impresa

H

L

Cmg

CMT

D=RM=Rmg=P*

C1

E

q* qiL qi*

T

M

KC

OO

p*

Nel caso particolare della concorrenza perfetta, poiché il prezzo è immutabile, la curva di domanda della singola impresa in concorrenza perfetta è una retta parallela alle ascisse pari al prezzo di equilibrio del mercato. Inoltre poiché:

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RT = pxq RM = RT/q = pxq/q= p Rmg = dRT/dq = d(pxq)/dq = px(dq/dq) + qx(dp/dq) = p + 0 = p Allora si conclude che Dimpresa = RM = Rmg = p La singola impresa realizza il massimo profitto, in base alle considerazioni precedenti, nel punto d’incontro tra Cmg e Rmg ( H ). Ci si chiede a questo punto perché il punto di efficienza dell’impresa non è L dato che in corrispondenza di esso si hanno costi medi variabili minimi e quindi profitto unitario massimo. Per capire ciò analizziamo la figura. In corrispondenza di H: RT = Oqi* x Op* superficie del rettangolo O-qi*-H-p* CT = Oqi* x OC superficie del rettangolo O-qi*-T-C ΠT = (O-qi*-H-p*) - (O-qi*-T-C) = C-T-H-p* In corrispondenza di L: RT = OqiL x Op* superficie del rettangolo O-qiL-M-p* CT = OqiL x OC1 superficie del rettangolo O-qiL-L-C1 ΠT = (O-qiL-M-p*) - (O-qiL-L-C1) = C1-L-M-p* Per individuare in quale caso si ha massimo profitto dobbiamo confrontare i due rettangoli C-T-H-p* e C1-L-M-p*. In realtà si può notare che essi hanno in comune un parte corrispondente al rettangolo C-K-M-p*, quindi ci riduciamo a confrontare i rettangoli C1-L-KC e K-T-H-M . Si dimostra analiticamente che K-T-H-M> C1-L-KC, quindi il profitto totale si massimizza in corrispondenza del punto H come volevasi dimostrare. Nel punto L invece ciò che si massimizza è il profitto unitario, in quanto si ha il minimo costo medio totale, e quindi lo si può considerare un punto subottimale. Solo quando la curva/ retta di domanda passa per il punto L, allora l punto subottimale coincide con quello ottimale. Possiamo a questo punto distinguere due tipi di efficienza:

− efficienza economica: l’impresa cerca l’ottimo economico, definito come massimo profitto totale;

− efficienza tecnica: l’impresa produce ai minori costi una quantità inferiore rispetto a quella corrispondente all’efficienza economica.

La concorrenza perfetta nel lungo periodo Gli economisti concordano sul fatto che i mercati sono comunicanti per quanto riguarda la profittabilità. Ipotizzando che sia semplice disinvestire e che non vi siano barriere all’ingresso, ogni qual volta un mercato risulta più profittevole, e quindi il prezzo a cui è venduto un bene è maggiore rispetto al suo costo, gli imprenditori di altri mercati abbandoneranno questi ultimi vendendo gli impianti, e cominceranno a produrre nel mercato in esame. Ciò comporta ovviamente della conseguenze. L’ingresso di nuovi produttori in un mercato, allarga le dimensioni dello stesso, la quantità offerta aumenta e quindi si ha uno spostamento della curva di offerta verso destra.

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p*

D

S

mercato impresa

H

H2

Cmg

CMTD=RM=Rmg=P*

E

q* qi*

H1

OO

p*

S1

S2

CMVp**

p***

qi**qi***q** q***

E1

E2

L’aumento dell’offerta provoca un abbassamento del prezzo, quindi una diminuzione del profitto, fino ad annullarlo. Ciò avviene quando dalla curva S si passa alla curva S1 e si viene ad individuare un nuovo punto di equilibrio E1 al quale corrispondono p** e q** e quindi qi**. In questo punto P = RM = Rmg =CMTmin = Cmg ( H1). Poiché il profitto si annulla l’impresa dovrebbe cessare di produrre. In realtà se si riqualifica il termine profitto le cose cambiano. Supponiamo che nei costi fissi siano già stati compresi la remunerazione del capitale investito e dell’attività organizzativa dell’imprenditore. Allora, il profitto di cui abbiamo sin ora parlato rappresenta un margine che si realizza sul mercato per effetto della relativa scarsità dell’offerta rispetto la domanda. È un fatto momentaneo derivante dalle condizioni di mercato. Può essere chiamato quindi extraprofitto, che è estremamente gradito dall’impresa, ma si realizza perché i capitali non sono distribuiti nei mercati in modo tale da dare identica remunerazione a tutte le produzioni. Supponiamo che la curva di offerta si sposti fino ad arrivare a S2. In questo caso P = RM = Rmg = CMVmin = Cmg. In questo punto l’impresa non solo vede annullare l’extraprofitto, ma non riesce nemmeno a pagare i costi fissi, come ammortamenti, interessi, etc. Questa situazione è sicuramente insostenibile dall’impresa nel lungo periodo, invece lo è nel breve. Infatti, l’impresa può cercare di resistere in attesa che qualcosa cambi e che possa quindi ricompensare le perdite e i mancati profitti. Oltre il punto H2 l’impresa non può comunque andare, in quanto scomparirebbe dal mercato. La curva di offerta della singola impresa, in concorrenza perfetta, è il luogo geometrico dei punti di equilibrio. Essa rappresenta il livello di produzione in funzione di un dato prezzo. abbiamo visto che l’impresa aumenta la produzione finché i Cmg = p e cessa di produrre quando p < CMV. Allora la curva di offerta corrisponde alla parte di curva di Cmg in cui il Cmg > CMV. L’andamento di tale curva ricorda quello della curva di offerta del mercato poiché quest’ultima è data dalla somma delle singole curve di offerta delle imprese appartenenti al mercato in esame. La curva di mercato sarà però più inclinata rispetto a quella della singola impresa, in quanto presenta una maggiore elasticità. Le imprese vogliono fare extraprofitto, e quando lo ottengono cercano di preservare lo status quo. Trovandoci in concorrenza perfetta le imprese non possono fare accordi (cartelli), a differenza dell’oligopolio, ma devono adottare dei comportamenti individuali. Poiché la singola impresa non può intervenire sulle condizioni di domanda, l’unica cosa che può fare è intervenire sulle condizioni di offerta, e quindi sui costi. È possibile intervenire su di essi solo nel lungo periodo, in quanto questo richiede investimenti per l’ampliamento della dimensione degli impianti. I vantaggi derivanti da tali investimenti sono:

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− aumento della produttività: generalmente una nuova tecnologia migliora la produttività , e quindi per ogni unità di capitale investito ottengo più unità di prodotto.

− Diminuzione del costo fisso unitario: ciò è dovuto al fatto che producendo di più, i costi fissi verranno spalmati su più unità.

− Diminuzione dei costi variabili: dovuta a impianti migliori. In definitiva si riescono a raggiungere le così dette economie di scala.

H

Cmg

CMT D=RM=Rmg=P*

q* q**

H1

O

p*

Cmg1

CMT1

Curva d’inviluppo

Possiamo notare che nel punto H i CMT = Rmg, quindi il profitto si annulla. Se l’impresa adotta una nuova tecnologia la curva dei costi si abbassa e poiché il prezzo rimane costante, i CMT < Rmg, e riesce quindi a realizzare ancora extraprofitto ( siamo nel punto H1). Ovviamente, man mano, tutte le imprese adotteranno la nuova tecnologia, quindi si ritorna nella situazione iniziale, in cui non è possibile realizza extraprofitto. Ancora una volta l’impresa può cambiare la tecnologia produttiva e ottenere i risultati noti. I costi non possono comunque essere abbassati all’infinito. Oltre un certo punto i costi ricominceranno a crescere a causa delle diseconomie. Possibili cause di tali diseconomie sono varie: l’aumentare delle dimensioni ostacola in normale svolgimento delle funzioni; sono necessari maggiori sforzi di coordinamento; potrebbe diventare difficile il reperimento di grandi quantità di materie prime. Esiste quindi un punto di minimo dei costi. Definiamo ora una nuova funzione: curva di inviluppo: è la funzione del costo al variare delle dimensioni dell’impianto; è il luogo geometrico dei costi al variare delle dimensioni dell’impianto. La curva di inviluppo è rappresentata dai punti di tangenza alla curva dei Cmg di breve periodo. Incontra la curva dei Cmg a sinistra del punto di minimo quando decresce, a destra quando cresce e coincide col minimo della minor curva dei Cmg. L’EQUILIBRO DELL’IMPRESA IN MONOPOLIO Le caratteristiche di un mercato monopolistico sono:

− Un solo offerente. − Beni e servizi omogenei e non distinguibili; la differenziazione non serve. Al massimo si

può operare una discriminazione dei prezzi per ottenere maggiori benefici dalla vendita di uno stesso bene.

− Esistono molte asimmetrie informative. − Le barriere all’ingresso sono elevate: sono l’elemento che garantisce l’esistenza del

monopolista. Possono essere di diverso tipo:

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• Barriere legislative: in alcuni settori i costi fissi sono così elevati che non è possibile l’esistenza di una vera e propria concorrenza. È il caso della fornitura di energia elettrica. In italia, la fornitura di tale servizio è stata nazionalizzata, in quanto, se fosse stata lasciata alla libera concorrenza nessuno avrebbe servito quelle aree economicamente non redditizie. Concedendo il monopolio, invece, si è potuto imporre di assicurare la fornitura del servizio a tutti e con costi accessibili. Altra barriera legislativa sono le concessioni rilasciate dalla pubblica autorità. • Barriere tecnologiche: un’impresa può avere il monopolio per un certo bene poiché detiene un brevetto che consiste nell’esclusiva di produzione di tale bene tutelata dalla legge. Ciò ovviamente non lo salvaguardia da imitazioni. Altro tipo di barriera è data dal fatto che se un’impresa ha effettuato ingenti investimenti, difficilmente nuovi entranti potranno mettersi al suo passo, come è avvenuto nel caso del settore biotecnologico e farmaceutico.

Facciamo ora alcune considerazioni sul monopolio: − L’obiettivo del monopolista è la massimizzazione del profitto. Quindi l’equilibrio si ha

quando Cmg = Rmg. − In realtà, il monopolista è un soggetto altamente vincolato, poiché una volta individuato il

punto di equilibrio, desume da esso quantità e prezzo. Finisci con l’essere un soggetto economico che combina condizioni di costo con condizioni di ricavo. Al di fuori della teoria tradizionale, si può dire che il monopolista stabilisce prezzo e quantità, per via del processo di discriminazione del pezzo.

− Le condizioni di costo non sono dissimili rispetto a quelle in concorrenza perfetta, sono quindi le condizioni di domanda che determinano le variazioni. Sia in concorrenza perfetta che in monopolio l’equilibrio si ha quando Cmg=Rmg, ma nel prima caso essi coincidono anche col prezzo che è costante, nel secondo caso invece no.

− Il monopolista fronteggia da solo tutta la domanda, quindi la curva di domanda di mercato coincide con quella dell’impresa. Sono entrambe decrescenti.

p

A

QRmg

DE

Cmg

p*

q*

CMTT

C1H

q

p

Il Rmg è positivo per ε>1 E Rmg = Cmg. q* : La quantità ottimale è quella in corrispondenza di E, p* : il prezzo non può essere ottenuto tracciando l’intercetta alle ordinate, in quanto tale valore coincide con quello dei Cmg e dei Rmg. Devo quindi tracciare la perpendicolare da E alla curva di domanda, che è il luogo geometrico delle combinazioni di prezzi e quantità. Individuo cos’ il punto A. da questo traccio l’intercetta alle ordinate, che individua il prezzo di equilibrio. T : è il punto d’incontro tra i CMT e la perpendicolare condotta da E alla curva D. Individua il costo medio totale a livello della q*.

Vogliamo ora individuare quando l’impresa crea extraprofitto. RT = Oq* x Op* rettangolo O-q*-A-p* CT = Oq* x OC1 rettangolo O-q*-T-C1 ΠT = (O-q*-A-p*) – (O-q*-T-C1) = C1-T-A-p* Il monopolista può appropriarsi di parte del surplus del consumatore. In H ho l’intersezione tra i CMT e la domanda, ossia ho la condizione in cui l’impresa, in un ipotetico mercato, produce una quantità q ad un prezzo pari al CMT. È questa la situazione in concorrenza nel lungo periodo nella quale le imprese producono per p=CMT e quindi dove il loro profitto è nullo. H può essere

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considerato quindi il punto di equilibrio in concorrenza perfetta, in cui la domanda è uguale all’offerta. Il segmento pH separa la rendita del consumatore da quella del produttore. Se il prezzo è individuato dall’intercetta sulle ordinate di un punto a sinistra di H, allora il monopolista si appropria di parte del surplus del consumatore, per effetto del fatto che è l’unico produttore. In definitiva, il fatto di essere l’unico produttore comporta un doppio vantaggio :

− Si realizza sempre extraprofitto. − Si appropria di parte del surplus del consumatore.

LA DISCRIMINAZIONE DEL PREZZO NEL MERCATO MONOPOLISTICO Nella teoria tradizionale il monopolista non può agire sulla quantità o sul prezzo , in quanto si sposterebbe dal punto di equilibrio. In una situazione più realistica però ciò avviene, rimuoviamo quindi l’ipotesi per cui l’impresa ha come obiettivo la massimizzazione del profitto e supponiamo che possa discriminare il prezzo sulla disponibilità dei consumatori a pagare un certo bene. Idealmente, un’impresa vorrebbe praticare un prezzo diverso ad ogni consumatore pari al massimo prezzo che questi sarebbe disposto a pagare. Mediante questa discriminazione continua, che prende il nome di discriminazione di primo grado, riuscirebbe ad accaparrarsi tutta la rendita del consumatore. In questo caso è come se il mercato fosse sezionato in una serie di singoli soggetti che si relazionano con il monopolista. In questo caso, non ci troviamo più nel mercato Walrasiano, in quanto non ho un unico prezzo.

p

A

QRmg

D=RME

Cmg

p*

q*

CMTT

C1H

q

p

A’

A’’p’p’’

q’ q’’

E equilibrio del monopolio H equilibrio concorrenza perfetta nel lungo periodo T equilibro concorrenza perfetta nel breve periodo

Questo in realtà non è raro se non impossibile, in quanto un’impresa non può conoscere esattamente la disponibilità a pagare di ciascun consumatore. L’impresa può introdurre sul mercato quote di produzione a prezzi man mano decrescenti (es. Sony Playstation), ci troviamo in questo caso in un mercato marshalliano. Offrirebbe quindi ad un prezzo p1 la quantità q1 (A’), ad un prezzo p2 la quantità q2 (A’’), e così via, finché il Cmg è inferiore della curva di domanda. In questo modo il monopolista riesce ad accaparrarsi parte della rendita del consumatore (pari all’area celeste). Un altro modo di discriminare il prezzo è quello che prevede l’utilizzo di elementi aggiuntivi al bene o al servizio, in modo da catturare la maggiore disponibilità a pagare. In questo caso l’impresa suddivide la domanda in due porzioni alle quali sono venduti due prodotti discriminati. L’esempio più calzante è quello della prima e della seconda classe per i viaggi aerei o ferroviari. Il servizio è lo stesso, cambia il trattamento a bordo. La grande differenza rispetto alla metodologia di discriminazione precedente è che i prodotti vengono messi sul mercato contemporaneamente, non in istanti di tempo diversi. C’è anche da dire che il produttore sa perfettamente qual è la quantità richiesta dalle due porzioni della domanda.

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A

Q

RmgDE

Cmg

p*

q*q’

p

p’

O

L’impresa divide la q* in due parti, Oq’ e Oq*. si appropria così della rendita del consumatore, rettangolo blu e di quella in più rispetto al mercato in concorrenza perfetta, rettangolo rosso.

È come se l’impresa divide la domanda in due subdomande, una con una maggiore disponibilità a pagare rispetto all’altra.

A’’

Q

Rmg’DE

Cmg

p*

q*q’

p

p’’

O

D’

A

E’H

per semplicità consideriamo Oq’ = q’q*. in questo modo le due domande coincidono e la loro somma è pari alle domanda di mercato D.

Al mercato con minore disponibilità a pagare vende la quantità Oq’ ad un prezzo p*. L’impresa realizza ΠT max, poiché a tale quantità corrisponde il punto di equilibrio E in cui Cmg = Rmg’ (della domanda con minore disponibilità). Al mercato con maggiore disponibilità pagare vende un’altra quantità Oq’=q’q’’. Il prezzo al quale vende tale quantità è individuato dal punto A’’, che è pari quindi a p’’. Anche in questo caso, essendo tale curva uguale alla precedente, l’impresa si trova in una situazione d’equilibrio. La somma delle due quantità, pari a Oq*, si trova ancora una volta in corrispondenza di un punto d’equilibrio tradizionale, E’, dove Cmg= Rmg. La discriminazione è una pratica molto usata, ma per essere attuata non deve essere possibile vendere un bene acquistato ad un prezzo più basso ad un prezzo più alto.

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La curva di profitto in un mercato monopolistico

qcq*qb

RT

C

ΠT

A

B

O

KH

O

q’

CT

RT

CT

ΠT

P

Q

Cf

ε = 1 RT max A ε > 1 RT crescono ε < 1 RT decrescono − O-qb : RT<CT ΠT < 0 − qb-qc: RT>CT ΠT > 0 ; − qc-∞: RT<CT ΠT < 0

B: CT = RT ΠT = 0 C: CT = RT ΠT = 0 ΠT max si ha quando CT e RT hanno massima distanza, quindi quando hanno stessa tangente e quindi quando Rmg = Cmg. Ciò avviene nel punto H che non coincide col punto di massimo ricavo, K a cui corrisponde q’. è possibile a questo punto tracciare la curva di profitto che ha massimo in corrispondenza della q*.

L’impresa tradizionale, poiché ha come obiettivo la massimizzazione del profitto, produce una quantità inferiore a quella di massimo ricavo totale. Quindi, invece di espandersi, tende a comprimersi. Tale impresa massimizza il profitto di breve periodo e non quello di lungo periodo, questo atteggiamento le impedisce di crescere e ciò la porterà ad uscire dal mercato, in quanto finisce col perdere quote di clienti. L’EQULIBRIO DELL’IMPRESA IN CONCORRENZA MONOPOLISTICA. La concorrenza monopolistica può essere considerata una via di mezzo tra la concorrenza perfetta e il monopolio. È caratterizzata dai seguenti aspetti:

− alto numero d’imprese che godono di potere di mercato. − Prodotto differenziato. La differenziazione permette di separare i mercati delle singole

imprese. La curva di domanda è discendente e per ogni livello di prezzo l’impresa ha una clientela fissa.

− Ci sono forti barriere all’entrata, ciò riduce il flusso d’ingresso nel mercato, ma stabilizza i rapporti interni. Le barriere sono di solito di tipo istituzionale, come le licenze, che in un primo momento impediscono l’ingresso di nuovi soggetti economici nel mercato, poi diventano oggetto di scambio. In questo modo, pur cambiando il detentore della licenza, non cambia il numero delle stesse.

Secondo la teoria tradizionale, l’obiettivo dell’impresa è la massimizzazione del profitto. Il problema sta quindi nell’individuare la quantità corrispondente. Per rappresentare il mercato in concorrenza monopolistica, partiamo da una situazione di monopolio e supponiamo che entri un nuovo produttore. Per semplicità rappresentativa consideriamo un duopolio, ma le considerazioni sono generali. Il nuovo entrante deve avere le stesse caratteristiche produttive dell’incumbent, e quindi la stessa curva di costi, in quanto se fossero peggiori non costituirebbe una minaccia, se fossero migliori, invece, sbaraglierebbe il concorrente e ci ritroveremmo di nuovo nella situazione di monopolio. È plausibile che quindi la domanda di mercato si divide in maniera equa tra le due imprese, che hanno quindi stessa curva di domanda, traslata a sinistra rispetto quella di mercato.

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Dobbiamo trovare il punto oltre il quale l’ex monopolista deve uscire dal mercato perché sconfitto dal nuovo. Tale punto individua l’equilibrio del mercato in concorrenza monopolistica. Man mano che la curva di domanda si sposta verso sinistra, la differenza tra le ordinate della domanda e dei CMT, rispetto una certa quantità, diminuisce. Così facendo, si arriva ad una situazione in cui il punto d’equilibrio della singola impresa (E’), individua sulla domanda (D’), un punto (A’) in cui domanda e CMT sono tangenti. In questo punto si annulla l’extraprofitto. L’ex monopolista può accettare la riduzione del suo extraprofitto, in quanto ricordiamo che esso rappresenta una remunerazione aggiuntiva rispetto ai profitti normali già compresi nei costi. Di certo non può sopportare una situazione in cui RT<CMT. A’ rappresenta dunque l’equilibrio del mercato in concorrenza monopolistica nel lungo periodo, dove però non si massimizza l’extraprofitto. D’altronde, ciò si realizza anche per il punto d’equilibrio nel lungo periodo in concorrenza perfetta. Il prezzo d’equilibrio in concorrenza monopolistica è inferiore rispetto a quello nel mercato monopolistico, e ciò è dovuto al meccanismo di concorrenza per il quale, se un’impresa si vuole accaparrare clienti, deve offrire un prezzo più vantaggioso per il consumatore.

A’

RmgRmg’D

E

Cmg

p*

q*q**

p**

O

D’

A

E’

CMT

T

q**m

K

p

q

E equilibrio monopolio A=(p*,q*) E’ equilibrio della singola impresa nel

lungo periodo A’=(p**,q**)

In A’, p** = CMT, ma anche Cmg = Rmg, esso corrisponde proprio con il punto di equilibrio in concorrenza perfetta. Il prezzo p** individua sulla domanda D il punto T, al quale corrisponde la quantita q**m, che rappresenta le condizioni di equilibrio di mercato di concorrenza monopolistica. CONFRONTI DI BENESSERE TRA LE FORME D’IMPRESA Vogliamo ora dare un giudizio sulla bontà delle varie forma d’impresa. Essa dipende dall’ottica che si assume, quella del consumatore o quella del produttore. Dal punto di vista del produttore la condizione più favorevole è quella più statica possibile, quindi quella di monopolio. Il fatto di essere l’unico produttore non induce il monopolista ad investire in impianti, quindi non diminuisce i costi, né i prezzi, né aumenta la quantità offerta. quanto più un mercato è statico, tanto più l’equilibrio si avrà per prezzi alti e quantità basse. È noto che la concorrenza varia questa situazione, e porta l’equilibrio a livelli di prezzi più bassi e quantità più alte. Gli imprenditori, se da un lato decantanto i vantaggi della concorrenza, dall’altro non appena possono mantenere lo status quo lo fanno. Dal punto di vista del consumatore le cose sono differenti. Un mercato è tanto più efficiente quanti più scambi vengono effettuati e quanto più bassi sono i prezzi a cui avvengono. Infatti, aumentando la quantità offerta e diminuendo il prezzo si permette ad una maggiore parte di consumatori di accedere al bene. Quindi, la forma teorica migliore di mercato è la concorrenza perfetta. Possiamo dimostrare che le imprese in concorrenza perfetta sono quelle che offrono una maggiore quantità di bene ad un prezzo inferiore.

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Precedentemente abbiamo individuato l’equilibrio per il monopolio (A) e per la concorrenza monopolistica (T). Adesso individuiamo quello in concorrenza perfetta. Sappiamo che deve essere p = RMT = Rmg = Cmg = CMT min. K individua il minimo della curva CMT. L’intercetta sulle ordinate determina prezzo di equilibrio, mentre la quantità d’equilibrio si ricava individuando prima l’intercetta da K alla D e poi da tale punto tracciando l’intercetta sulle ascisse. La coppia (p***,q***) individua il punto d’equilibrio in concorrenza perfetta, che corrisponde sulla curva di domanda D al punto M. M presenta una coppia (p,q) migliore rispetto a T e A, come volevasi dimostrare. In realtà M non rappresenta la condizione d’equilibrio della singola impresa, sarebbe infatti paradossale che una sola impresa produce di più del monopolista. Si può considerare come la sommatoria dei punti di equilibrio delle singole imprese in concorrenza monopolistica. Per dire tutto ciò sono state fatte delle semplificazioni pesanti ma alquanto plausibili.

A equilibrio monopolio T equilibrio concorrenza monopolistica M equilibrio in concorrenza perfetta

R5_ V2 TEORIA DELLA STRUTTURA INDUSTRIALE Le forme di domanda differenziano l’ambiente operativo dell’impresa quindi le forme di mercato si differenziano per la funzione di ricavo totale (PxQ) Equilibrio dell’impresa in concorrenza perfetta Ipotesi di partenza:

1) L’impresa è 1x1 (un’impresa che produce un solo prodotto con una sola risorsa) 2) L’obiettivo dell’impresa è la massimizzazione del profitto totale 3) Numerosità dei contraenti 4) Omogeneità dei prodotti 5) Assenza di barriere all’entrata 6) Informazione perfetta e simmetrica

Ci sono due modalità tecniche per identificare il punto di equilibrio dell’impresa in concorrenza perfetta: ci sarà un equilibrio determinato dallo studio dei costi totali e del ricavo medio ed un equilibrio determinato dallo studio dei costi totali e del ricavo totale. Primo metodo: RT = pq RM = RT/q = pq/q = p

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Il prezzo è un dato immutabile, l’impresa non può scegliere il prezzo. Dato che il prezzo è costante anche il ricavo marginale è costante. La quantità intercettata in H è quella che massimizza il profitto ed è il punto di equilibrio per tutte le imprese in concorrenza perfetta. E’ possibile notare che in M si ha la massima distanza tra costi marginali e ricavi quindi sembrerebbe il punto di massima efficienza per l’impresa. La superficie rettangolo O-qi*-H-p* identifica i ricavi totali in quanto Oqi* (quantità) Op* (prezzo). I costi totali sono dati dal prodotto di Oqi* (quantità) per CO (costo unitario). In termini geometrici dunque il profitto totale è dato dalla superficie del rettangolo CTHp* Si vuole dimostrare che il profitto totale è massimo per qi* e diminuisce per valori diversi in particolare per ql. Il ricavo totale in questo caso sarà uguale alla superficie del rettangolo O-qil-M–p* mentre i costi totali saranno uguali alla superficie del rettangolo O-qil-L-C’. Il profitto dunque sarà uguale alla superficie C’-L-M-p*. E’ possibile dimostrare analiticamente che il rettangolo KTHM è maggiore del rettangolo C’LKC , di conseguenza i profitti totali sono maggiori alla quantità q*.

L’impresa dunque in qi* massimizza il profitto totale, l’obiettivo è la massimizzazione del profitto totale, non la minimizzazione dei costi. L’efficienza tecnica è nel punto di flesso dei costi medi totali, mentre l’efficienza economica sta nell’intersezione tra costi marginali e ricavi marginali Secondo metodo: E’ possibile ricavare il punto di equilibrio anche con la rappresentazione grafica di ricavi totali e costi totali. Fino alla quantità qa il profitto sarà negativo in quanto i costi totali saranno maggiori dei ricavi totali. A partire dalla quantità qa i profitti cresceranno fino alla quantità q* identificata dal punto di tangenza tra la curva dei costi totali e la retta parallela alla retta dei ricavi totali. In quel punto infatti la distanza tra RT e CT sarà massima.

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(ATTENZIONE MANCA PARTE) Nel lungo periodo l’impresa non può sostenere un punto di equilibrio al di sotto di H’, mentre nel breve periodo questo è possibile. Quindi nel breve periodo l’impresa deve coprire almeno i costi medi variabili, mentre nel lungo periodo l’imprese deve coprire tutti i costi (ATTENZIONE MANCA PARTE) Concorrenza Monopolistica La concorrenza monopolistica ha sia caratteri della concorrenza perfetta sia caratteri di monopolio precisamente:

1) alto numero di contraenti 2) prodotto differenziato 3) presenza di barriere all’entrata

Molto frequente nel terziario commerciale. Ipotizziamo che in un mercato monopolistico con una sola impresa entri una seconda impresa con le medesime caratteristiche della prima. La domanda della prima impresa D diventerà la domanda totale di mercato, mentre la domanda delle singole imprese sarà D’ per entrambe e le imprese produrranno la quantità q** (la metà di q*). La curva si sposterà sempre più verso destra riducendo sempre di più l’extraprofitto fino al punto in cui la curva di domanda sarà tangente al costo medio totale minimo. La nuova posizione di equilibrio sarà nel punto in cui costo marginale e ricavo marginale si intersecano cioè E’ vale a dire il punto A’ sulla retta della domanda La condizione di equilibrio per la concorrenza monopolistica si ha dunque laddove la domanda per la singola impresa è tangente alla curva dei costi medi totali, corrispondente al punto T sulla retta della domanda totale di mercato.

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Confronti di benessere tra le forme di imprese La miglior forma di mercato per le imprese è il monopolio in quanto le imprese gradiscono staticità. In un mercato statico l’equilibrio di mercato si pone tendenzialmente a quantità basse e prezzi alti. Il mercato però è uno strumento che è tanto più efficiente quanto più riesce a veicolare gli scambi, un sistema economico infatti è tanto migliore quanto maggiori sono gli scambi di mercato, infatti tanto maggiori sono i consumatori, tanto maggiori dovranno essere i prodotti per soddisfarli tanto maggiori saranno i posti di lavoro che si creeranno etc. Bisogna quindi incentivare configurazioni di mercato che incentivano gli scambi, cioè configurazioni che aumentano le quantità e riducono i prezzi. Questo significa adottare l’ottica del consumatore per giudicare la bontà di un mercato. La forma teorica migliore è, dunque, quella del mercato a concorrenza perfetta. E’ possibile dimostrare sul grafico che in K (il punto d’equilibrio in concorrenza perfetta) viene intercettato un prezzo p*** < p** e una quantità q*** > qm** (considerata però come sommatoria delle quantità di tutte le imprese in concorrenza perfetta).

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R6_TEORIE DELL’OLIGOPOLIO CARATTERI GENERALI DELLA TEORIA TRADIZIONALE DELL’OLIGOPOLIO Studiamo l’oligopolio mediante l’approccio strategico della Teoria dei giochi. L’oligopolio è l’industria nel quale le imprese sanno che le proprie decisioni sono interdipendenti da quelle delle altre. Le caratteristiche principali di questo tipo di mercato sono:

− Pochi offerenti/ produttori. − Differenziazione del prodotto: utile per la competitività. − Barriere all’ingresso: oltre a quelle tradizionali, come quelle implicite nella struttura del

settore o quelle istituzionali, si aggiungono le così dette barriere strategiche per scoraggiare l’entrate di nuove imprese; le imprese incumbent possono stringere accordi, ad esempio, possono minacciare una guerra di prezzo, ovvero possono abbassare il al di sotto di quello esercitabile dai nuovi entranti . Questo tipo di comportamento è volto a mantenere lo status quo, le imprese infatti preferiscono mantenere inalterate le quote di mercato detenute piuttosto che farsi eccessiva concorrenza. Ovviamente ciò fa si che le imprese non sentano la necessità di investire, quindi non mirano ad innovarsi e a diventare più efficienti, a scapito dei consumatori. Questi tipi di accordi sono vietati per legge e controllati da un apposito garante.

− Asimmetrie informative. Consideriamo tre domande diverse, esse determinano tre situazioni di ricavo totale diverse, e quindi configurazioni di profitto diverse. Per ipotesi, consideriamo che le condizioni di costo siano uguali. per ε=1 RT è massimo per disegnare le curve di ΠT ho bisogno di tre punti notevoli: CT = RT ΠT = 0 Rmg = Cmg ; RT e CT max distanza ΠT massimo Imprese con medesimi costi che fronteggiano domande diverse, presentano curve di profitto maggiori per domande maggiori. Supponiamo che le domande si riferiscano ad un’unica impresa che cresce, quindi la sua domanda si sposta man mano verso destra con continuità. Definiamo allora funzione di risposta ottima il luogo geometrico delle combinazioni di equilibrio dell’impresa all’aumentare della domanda dell’impresa stessa. Individua, in sostanza, la quantità per la quale l’impresa massimizza il profitto. individuiamo un valore di profitto e tracciamo la retta parallela alle ascisse con ordinata pari al valore del profitto che interseca le curva di profitto delle imprese. Tale retta prende il nome di curva isoprofitto, che è il luogo geometrico che individua per ogni impresa la quantità corrispondente al profitto dato. Almeno un punto della isoprofitto corrisponderà al massimo profitto di un impresa. Per ogni isoprofitto, ho una ed una sola posizioni di ottimalità per l’impresa

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MODELLO DI COURNOT Innanzi tutto facciamo alcune ipotesi preliminari: − Esaminiamo un duopolio, in cui le imprese producono un bene omogeneo e conoscono la

curva di domanda del mercato, che è discendente. − L’obiettivo delle imprese è la massimizzazione del profitto. − Le imprese si ripartiscono in parti uguali la domanda di mercato. − Ogni imprese deve decidere quanto produrre, e le due imprese decidono simultaneamente. − Per individuare un equilibrio di mercato ogni impresa deve tenere in considerazione l’altra e

deve fare delle congetture sul suo comportamento. − Non esistono vincoli di capacità produttiva.

B

C

A D

QB

QA

AB e CD sono funzioni di risposta ottima: individuano le quantità per cui l’impresa massimizza il profitto. Inoltre individuano i punti per cui l’impresa raggiunge l’equilibrio. la funzione di risposta ottima indica la via di espansione ottima dell’impresa. Poiché il mercato è diviso in due parti uguali, il luogo geometrico delle combinazioni di equilibrio di mercato è rappresentato da una retta a 45°.

Tracciamo una serie di isoprofitto. Queste convergono su un punto che è l’unico per cui l’impresa ha un equilibrio e coincide con il punti di massimo della isoprofitto, che si trova sulla funzione di risposta ottima. Il punto d’incontro tra le sue risposte ottime rappresenta l’equilibrio di Cournot. Nessuna delle due imprese ha convenienza a spostarsi da tale punto poiché in esso massimizzano il proprio profitto, dato il livello di produzione del concorrente. Supponiamo ad esempio che l’impresa A produca di più per aumentare i propri profitti. Anche B potrebbe fare lo stesso. Così facendo si avrebbe un eccesso di offerta e le imprese dovrebbero diminuire le quantità immesse sul mercato, e tornare in definitiva nel punto E. La somma delle quantità prodotte dalle due imprese danno la quantità scambiata sul mercato. Il prezzo al quale le imprese venderanno i proprii prodotti si determina, dato E, in corrispondenza del punto in cui l’offerta è uguale alla domanda. MODELLO DI OSBORNE Supponiamo che le imprese vogliano aumentare i loro profitti, dalla posizioni l’equilibrio di Cournot si dovrebbero spostare verso isoprofitto più basse, quindi da I°a/ I°b a I’a/I’b, da E a A’/B’. In corrispondenza di tali punti le impresa hanno un profitto maggiore, però, producono una quantità eccedente la domanda, quindi non si ha in una posizione d’equilibrio di mercato. Per individuare un punto di equilibrio ci si deve spostare lungo le isoprofitto verso il punto K, detto ottimo paretiano. In tale punto si ha che:

− Le isoprofitto I’a e I’b sono tangenti − Per entrambe ΠT > ΠTE. − qE < qK le imprese si possono collocare in una posizione della domanda più profittevole

ed accaparrarsi quindi parte del surplus del consumatore. Ci troviamo in una condizione sicuramente non ottima per i consumatori.

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Tale punto ottimizza la posizione di entrambe le imprese, ma può essere raggiunto solo se vi sono accordi tra le due. In tale punto le imprese non sono in equilibrio singolarmente ma lo sono tra loro. Nel momento in cui una delle parti viene meno all’accordo, le cose cambiano. Supponiamo che A non si accontenti del ΠTK e per aumentarlo decide di produrre una maggiore quantità, si sposta quindi in una isoprofitto maggiore, I’’a. B si comporta di conseguenza. L’impresa A sceglie di porsi sulla isoprofitto I’’a in quanto per H passa la isoprofitto minima accettabile dall’altra impresa, I°b.Ora che le imprese non sono più in equilibrio tra di loro, devono cercare il proprio equilibrio individuale e ciò significa spostarsi sulla isoprofitto fino a raggiungere il punto d’incontro con la curva di risposta ottima ( da H/L H’/L’). La somma delle quantità corrispondenti ad H’ ed L’, non è assorbibile dal mercato, per questo le imprese sono spinte a diminuire la produzione fino a tornare nel punto E. Quindi, quando viene meno l’accordo, dall’equilibrio paretiano si torna a quello di cournot. L’ipotesi fondamentale è che le imprese non sanno cosa succede se non rispettano l’accordo. Lo svantaggio di tale modelle è che è falsamente dinamico.

B

C

A D

QB

QA

MODELLO DI STACKELBERG A differenza di Cournot, Stackelberg ipotizza che vi sia un’impresa leader ed una follower. Supponiamo che l’impresa leader non si accontenti di produrre la quantità q*a e voglia aumentare il proprio profitto. Allora si posiziona su una isoprofitto più bassa, più vicina alle ascisse. Ora l’impresa A produce qHa, mentre B qHb, inferiore a q*b, l’impresa B vede diminuire il suo profitto, ma essendo H sulla risposta ottima di B, quest’ultima è in equilibrio e accetta le decisioni della leader. Nonostante A abbia costretto B a produrre meno ed ha un maggiore profitto, non si trova in una posizione del tutto soddisfacente, in quanto, nonostante si sia spostata su una isocosto migliore, non si trova in un punto ottimo. Decide allora di spostarsi da H verso A, in cui ha lo stesso maggiore profitto, ma produce meno. In A, però, l’impresa B non è più in equilibrio, quindi decide di tornare a produrre q*b. L’impresa A si trova a produrre una quantità eccedente, e allora è costretta anch’essa a produrre nuovamente q*a, si torna così nell’equilibrio cournotiano.

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B

C

A D

QB

QA

I’a isoprofitto tangente in H alla risposta ottima di B H equilibrio di Stackelberg. E equilibrio di Cournot

MODELLO DI BERTRAND Questo modello, come quello di Cournot si applica a imprese che producono beni omogenei e prendono decisioni simultaneamente. Invece di agire sulla quantità agiscono sul prezzo. secondo Bertrand se le imprese si fanno concorrenza mediante il prezzo, l’oligopolio degenera nella concorrenza perfetta. Supponiamo che i costi sono costanti e che la capacità produttiva non è infinita. Se i costi sono costanti Cmg = CMT = K = Rmg

R

D

Rmg

p

q

K P

p* A

L

Rmg0

q*qH

H

O

KR = RP R equilibrio del monopolista, il cui prezzo

d’equilibrio è p* Se le imprese fossero 2 Rmg = D1 = D2 = D0 L Rmg0 = Cmg equilibrio di ciascuna impresa

oligopolista. OqH = ½ Oq* ogni impresa oligopolista vende la

metà della monopolista allo stesso prezzo p*.

Supponiamo ora di rimuovere l’ipotesi che le imprese hanno capacità produttiva limitata, e supponiamo inoltre che esse inizino a farsi concorrenza sul prezzo. Allora esse offriranno maggiori quantità a prezzi inferiori. Fanno ciò fino ad arrivare al punto P in cui CMT = Cmg = K = p = Rmg. Questo non è altro che l’equilibrio di lungo periodo in concorrenza perfetta. MODELLO DI SWEEZY È un modello che analizza situazioni non perfettamente concorrenziali e si differenzia dagli altri poiché si basa sul presupposto che la domanda non è conoscibile a priori. Viene quindi costruita ex-post. La domanda in questo caso non rappresenta più la disponibilità a pagare, ma da una descrizioni delle situazioni di equilibrio passate. Per capire come è fatta la curva di domanda, l’impresa immette una quantità sul mercato e vede cosa succede. Poiché l’impresa è massimizzante, si trova in equilibrio quando Cmg = Rmg. L’impresa immette una quantità qE sul mercato a cui corrisponde un certo valore dei costi marginali. In base al ricavo ottenuto trovo il punto A che si appartiene sicuramente ad una curva di domanda. In E passa sicuramente anche la curva dei costi marginali, rappresenta quindi un punto d’equilibrio.

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A questo punto l’impresa inizia a far leva su quantità e prezzi per vedere cosa accade. Supponiamo che voglia aumentare il prezzo, si trova quindi a dover diminuire la quantità. L’impresa si aspetta di vendere q’ corrispondente a B, invece in realtà vende q’’, corrispondente a C, che si trova sulla curva di domanda D’. Ciò significa che B non appartiene alla curva di domanda, e che la curva di domanda è più elastica di quanto ci si aspettasse. Questo avviene perché le altre imprese non alzano i prezzi, quindi i consumatori si rivolgono ad esse. Supponiamo ora che l’impresa voglia aumentare la quantità e, pensando di trovarsi su D’, si voglia collocare il L; deve dunque diminuire il prezzo fin a pL in corrispondenza del quale si aspetta di vendere una quantità qL. In realtà riesce a vendere qD poiché anche le altre imprese hanno abbassato i prezzi per paura di perdere clienti. La quantità qD individua il punto D sulla curva di domanda Do. La domanda in questo caso risulta meno elastica. La curva di domanda individuata dall’impresa è una spezzata, molto elastica da A verso l’alto, poco elastica da A verso il basso. Si dice che la domanda presenta un gomito di elasticità diversa.

BCA D

P, C

Qqc qb qa

L

ql

pbp*pl

qd

D’Do

ECmg°

da A in su ε elevata da A in giù ε bassa perdita di competitività se aumento il prezzo stessa competitività se lo diminuisco.

R6_V2 TEORIE DELL’OLIGOPOLIO - Un mercato di tipo oligopolistico è caratterizzato da una numerosità bassa di offerenti, da differenziazione del prodotto,da barriere all’entrata dovute, oltre ai costi da sostenere per l’entrata, agli accordi fra le imprese già presenti nel mercato che spingono per mantenere lo satus quo tramite il mantenimento del prezzo limite, cioè quel prezzo oltre al quale le imprese nuove non hanno domanda, rendendo in questo modo l’entrata nel mercato economicamente non sostenibile. Nell’oligopolio l’informazione è in mano alle imprese già presenti nel mercato. Il mercato di tipo oligopolistico è tipico nei settori dei servizi. - La funzione di risposta ottima rappresenta il luogo geometrico delle condizioni di equilibrio dell’impresa al variare del mercato. L’isoprofitto è il luogo geometrico delle combinazioni delle quantità prodotte che rappresentano una certa quantità di profitto al variare della domanda. Per ogni funzione di isoprofitto (posta la continuità della crescita di domanda) si intercetta una sola combinazione ottima per l’impresa. (grafico) - Modelli di Oligopolio - Il modello di Cournot-Bowley (grafico) Ipotesi di partenza: 1) Le imprese hanno le stesse condizioni di costi

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2) Le imprese sono massimizzanti (perseguono il massimo profitto) 3) Le imprese si ripartiscono la domanda di mercato in parti uguali 4) Le imprese agiscono sulla quantità e si fanno concorrenza con la quantità 5) Le imprese congetturano il comportamento e le reazioni delle imprese concorrenti Le rette rappresentano le funzioni di risposta ottima per le due imprese,le curve rappresentano le curve di isoprofitto. La bisettrice è il luogo geometrico delle combinazioni di equilibrio tra le due imprese. Laddove le curve intersecano le risposte ottime avremo una quantità corrispondente massimizzata in condizioni d’equilibrio per l’impresa. In questa situazione ogni impresa cercherebbe di produrre ad una quantità maggiore rispetto a quella in E (la funzione di risposta ottima individua profitti crescenti al crescere della quantità). In questo modo però ci sarebbe un eccesso di quantità prodotta che non sarebbe assorbita dal mercato, per questo le imprese si assesteranno sulla quantità intercettata da E nonostante il profitto sia minore. Tale punto rappresenta l’equilibrio di Cournot. Il prezzo risulterà dalla sommatoria delle quantità immessa dalle imprese. Le imprese dunque stabiliranno la quantità e successivamente si otterrà il prezzo. - Il modello di Osborne (grafico) Le imprese abbandonano il punto di equilibrio E e si collocano in K che rappresenta una situazione di equilibrio in quanto punto della bisettrice. Osborne afferma che le imprese per rimanere sul punto K si accordano in un cartello in quanto ritengono più profittevole produrre una quantità al di sotto della domanda totale di mercato. Il punto K è un ottimo Paretiano e definisce una situazione ottimale solo per i soggetti coinvolti (in questo caso le imprese). Ipotizziamo che un impresa voglia aumentare il proprio profitto aumentando la quantità prodotta e passa da K ad H (punto situato sulla curva di isoprofitto minima accettata dall’altra impresa). L’altra impresa reagirà passando da K ad L. In questi punti nel momento in cui riconfigureranno la propria produzione non si troveranno più in una condizione di ottimalità pertanto si muoveranno lungo le curve di isoprofitto fino ad intersecare la funzione di risposta ottima nei punti H’ ed L’. In questa situazione ci sarà una quantità prodotta in eccesso non assorbita dal mercato pertanto le imprese ritornano in E. Quindi K è un punto di equilibrio instabile: se qualche impresa abbandona il cartello costituitosi in K le imprese ritornano in E. -Il modello di Stakelberg (grafico) Stakelberg introduce una variante rispetto al modello di Cournot. Egli ipotizzia che sul mercato ci sono due imprese:l’impresa leader (A) e l’impresa follower (B). L’impresa A sa che l’impresa B si adatterà alle sue decisioni pertanto deciderà di aumentare la quantità prodotta collocandosi sul punto H e l’impresa B sarà costretta a produrre una quantità qBh. L’impresa A non si trova però in un punto di ottimo perciò si sposta sul punto A mantenendo lo stesso profitto, ma riducendo la quantità e generando domanda insoddisfatta. L’impresa B per soddisfare questa domanda tornerà sul punto di ottimo Cournotiano E. L’impresa A si troverà a produrre quantità in eccesso pertanto tornerà in E. -Il modello di Bertrand (grafico) Bertrand introduce il vincolo di capacità produttiva introducendo così una funzione dei costi diversa da quella Cournotiana in quanto i costi sono costanti. La domanda inoltre è lineare. R rappresenta la condizione di equilibrio dell’impresa monopolista Bertrand arriva alla conclusione che in un mercato oligopolistico caratterizzato da curve dei costi costanti rimuovendo l’ipotesi dei vincoli di capacità produttiva le imprese che si faranno concorrenza ridurranno il prezzo fino a giungere in condizioni di concorrenza perfetta annullando gli extraprofitti. Considerando invece i vincoli di capacità produttiva allora le imprese produrranno esattamente la quantità che si produce in monopolio.

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-Il modello di Sweezy (grafico) Sweezy afferma che è possibile identificare la curva di domanda solo ex-post tramite tentativi. Sweezy afferma che l’impresa tenta di immettere una certa quantità nel mercato (qe) e sulla base di tentativi costruisce la curva di domanda in quanto non conosce a priori la disponibilità a pagare (esempio grafico).Noterà che la domanda risultante non è una retta, ma è una spezzata ad angolo in A in quanto avrà una elasticità maggiore se la quantità sarà minore di qe ed elasticità minore ad una quantità maggiore di qe. Queste variazioni dell’elasticità sono dovute alle diverse reazioni delle imprese concorrenti al variare della quantità immessa: non la seguiranno nella diminuzione della quantità, mentre la imiteranno nell’ aumentare della quantità.

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R7_TEORIA MANAGERIALE DELL’IMPRESA

CARATTERI GENERALI DELL’IMPRESA MANAGERIALE. L’assunzione della massimizzazione del profitto totale come obiettivo dell’impresa è stata alla base della teoria economica tradizionale. Tutte le considerazioni fatte sulla base di tale assunzione si addicono per le imprese della prima rivoluzione industriale e per un ambiente piuttosto statico. Con la seconda rivoluzione industriale, le cose cambiano, l’ambiente operativo diventa più dinamico, bisogna quindi abbandonare i vecchi modelli e formularne di nuovi. Vengono messe in discussione alcune assunzioni: − Le imprese non sono tutte di piccole dimensioni, quindi viene meno il presupposto della

concorrenza perfetta. − Viene abbandonato l’obiettivo di massimizzazione del profitto totale in quanto potrebbe essere

d’ostacolo alla crescita dell’impresa, che come detto non è più statica ma dinamica. − Nasce l’idea dell’impresa come aggregato, s’indaga sempre di più sulla sua strutture interna. Tra gli anni ’50, ’60, nascono nuovi modelli, sicuramente semplificati, ma che mettono in evidenza le nuove peculiarità dell’impresa e i nuovi soggetti coinvolti. S’inizia a parlare delle “teoria manageriali dell’impresa”. Le caratteristiche principali della teoria manageriale sono: • Scissione tra proprietà e gestione.

Si viene ad affermare una nuova classe di professionisti, quella dei manager. Questo nuovo soggetto economico viene analizzato sotto tutti i punti di vista, e vengono indagati i suoi rapporti con la proprietà.

• Comportamento manageriale in base a funzioni di utilità manageriale. Bisogna considerare che il manager influenza notevolmente il perseguimento degli obiettivi dell’impresa. Per analizzare le funzioni bisogna distinguere tra: − Motivazioni personali: s’intende ciò che si vuole raggiungere indipendentemente dal

particolare ambiente in cui ci si trova ad operare. Marris individua i tre motivi principali che sono: reddito, status quo e potere, alle quali si può anche aggiungere la sicurezza.

− Obiettivi: sono i desideri personali all’interno dell’organizzazione. − Fini aziendali: desideri per l’organizzazione nel suo complesso; quello più comune è

l’espansione dell’impresa. • Influsso del mercato di borsa.

La borsa ha un ruolo fondamentale nei nuovi modelli in quanto grazie ad essa l’impresa si finanzia con la vendita di azioni e obbligazioni, inoltre fornisce una continua valutazione dell’impresa espressa dalla quotazione azionaria. Il manager deve garantire una regolare retribuzione di dividendi, altrimenti gli azionisti potrebbero disfarsi delle proprie azioni, questo porterebbe una diminuzione del loro prezzo fino ad incorrere nel rischio di scalate, take overs, che causerebbero la sostituzione del gruppo manageriale esistente.

• Estensione dell’orizzonte temporale. Bisogna sottolineare che non è raro che ci siano delle divergenze tra i manager e gli azionisti. Questo perché ragionano con ottiche differenti; il manager ha come orizzonte temporale il medio lungo periodo, mira alla sopravvivenza dell’impresa, il che significa in un ambiente dinamico far crescere l’impresa per far fronte alla domanda in continuo aumento. Ovviamente ciò richiede forti investimenti ed un’attenta analisi per valutarne la redditività. L’azionista guarda nel breve periodo e investe in ciò che per lui risulta più redditizio. Il manager quindi deve tener conto di questo aspetto, in quanto se non riesce ad invogliare gli investitoti e quindi ad accaparrarsi gli investimenti non può perseguire gli obiettivi di lungo periodo. Un espediente per sensibilizzare il manager alle necessità degli azionisti è quello di concedergli, come incentivo, le stock option.

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IL MODELLO DI BOUMOL ( massimizzazione delle vendite vincolate) I manager, invece di massimizzare il profitto, massimizzano il valore delle vendite dell’impresa sotto un dato vincolo di profitto. È più semplice individuare il massimo ricavo piuttosto che il massimo profitto. Finché il profitto uguaglia un livello minimo sufficiente ad assicurare l’autofinanziamento dell’impresa e a soddisfare gli azionisti, il manager ha interesse ad accrescere le dimensioni dell’impresa. Il tasso di profitto minimo è quindi una grandezza strategica che individua la condotta dell’impresa e la misura in cui vengono ricompensati gli azionisti.

qcq*qb

RT

C

ΠT

B

O

K H

qRT

CT

RT

CT

ΠT

Q

CfΠRTΠTSΠT*

qS

LV M

q* desiderate dagli azionisti ΠT* massimo qRT desiderata dai manager ΠTRT RT max qS compromesso ΠTS ΠTs è soddisfacente per entrambe le parti, è un giusto compromesso.

IL MODELLO DI MARRIS ( massimizzazione del saggio di crescita bilanciato) Le decisioni di crescita riguardano:

− Investimenti in una stessa linea produttiva o in nuove linee. − Acquisizioni e fusioni. − IDE: investimenti diretti all’estero per creare nuove attività produttive in un altro paese.

L’obiettivo dell’impresa è quello di massimizzare il saggio di crescita bilanciato dell’impresa, cioè la massimizzazione del saggio di crescita della domanda per l’impresa e la massimizzazione del saggio di crescita del capitale. Al primo sono correlati gli obiettivi del manager, al secondo quelli degli azionisti. Perché l’impresa cresca e soddisfi una maggiore domanda sono necessario investire ed indebitarsi, ciò influisce ovviamente sui profitti. Bisogna trovare quindi un giusto trade-off. Il tasso di crescita dipende da:

− Saggio di crescita della domanda che è determinato dal tasso di diversificazione dei prodotti ( spese R&S, pubblicità…).

− Indici d’indebitamento (debiti/ valore del capitale). Le conseguenze di un eccessivo indebitamento sono crisi d’insolvenza, acquisizioni, vincoli di reperimento di fondi in borsa, rischi di take-over e cali di immagine.

Per risolvere il modello bisogna individuare i fattori che influenzano il tasso di crescita della domanda e il tasso di crescita del capitale. Supponendo che siano dati:

− Valore massimo dell’indice d’indebitamento Vm; − Valore minimo dell’indice di valutazione (valore delle azioni)

il modello si riduce nelle seguenti funzioni 1. D = D(d,Π) funzione di saggio di sviluppo della domanda d = saggio di diversificazione ( o differenziazione, Marris non fa distinzione), definito dal numero di nuovi prodotti per unità di tempo che hanno avuto successo sul mercato. È direttamente proporzionale al saggio di domanda ed inversamente proporzionale al saggio di profitto, poiché la diversificazione comporta spese in R&S, commerciali ed altre, quindi porta ad accrescere l’indebitamento ed ad aggravare i tassi d’interesse che ovviamente influiscono negativamente sul margine di profitto.

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m = margine di profitto. È inversamente proporzionale alle spese di R&S. Lungo ciascuna curva il margine di profitto è costante, ma la domanda cresce in funzione del saggio di diversificazione a tassi via via decrescenti.

d* d

D

D’D’’D’’’

D’’’’

A parità di saggio di diversificazione d*, se maggiori sono le spese di R&S, maggiore è la domanda, ma minore è il margine di profitto. d* cost Π1<Π2<Π3

2. c = c(d) funzione di saggio di crescita del rapporto capitale, prodotto

d

C

c = c(d)

Quest’equazione mette in evidenza che il rapporto capitale/prodotto è una funzione crescente del tasso di diversificazione. Maggiore diversificazione maggiore necessità di capitale.

3. C’ = αp – βvk = α(m/c) – βvk funzione di saggio di crescita del capitale α = percentuale di profitti non distribuiti. p = profitti totali. Dipendono dal margine di profitto. Sono in parte distribuiti agli azionisti, in parte accantonati per precauzione ed in parte reinvestiti. β = parametro. vk = indice d’indebitamento costante. m = margine sui costi ( mark-up). c = capitale / prodotto, ossia intensità d’investimento.

d

C

C’’’’

C’’’C’’

C’

Il saggio di crescita del capitale dipende prevalentemente dai profitti. Il livello di profitti dipende dal margine, quanto maggiore è il margine maggiore sarà la crescita del capitale dell’impresa e dunque la curva risulterà spostata più a destra rispetto l’origine. d* cost Π1<Π2<Π3 A parità di margine di profitti, la curva di offerta del capitale cresce inizialmente col crescere della diversificazione fino ad un punto ottimale della d, per poi decrescere perché la diversificazione diventa eccessiva.

4. C’ = D funzione d’equilibrio tra il saggio di crescita del capitale e della domanda.

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L’equazione di bilancio è soddisfatta solo quando la curva di crescita della domanda s’incontra con quella di crescita del capitale. Unendo tutti i punti d’incontro tra le due curve, a parità di margine, si ottiene la curva di crescita bilanciata. L’equilibrio dell’impresa si raggiungerà nel punto più alto di tale curva cui corrisponde il massimo tasso di crescita compatibile con un’unica coppia di valori di m e d.

d

C

C’’’’

C’’’C’’

C’

D’D’’

D’’’

D’’’’A

BEF

d*

E rappresenta il punto più alto della curva di crescita bilanciata quindi individua il livello d diversificazione ottimale per l’impresa.

Il manager deve trovare il saggio di diversificazione che massimizza quello di crescita. Inoltre, ricordando che p = m/c occorre che la scelta di d sia comunque congruente con quella di p, in modo da determinare una crescita possibile, cioè finanziata. In definitiva si può capire che la crescita dimensionale ottimale dell’impresa dipende dal manager e più precisamente dalla sua propensione al rischio. Il manager sceglie a che punto fermarsi nella crescita in quanto non otterrebbe né vantaggi di crescita né di valore azionario. Qual è allora la combinazione ottimale di tasso di crescita e valore azionario? Sappiamo che il valore azionario dipende da fattori, alcuni reali altri legati al giudizio che gli investitori hanno dell’impresa. Esiste inoltre un valore minimo oltre il quale gli azionisti si allontanano dall’impresa.

Gg* g**

V

vm

Curve d’indifferenza dei manager: sono combinazioni di G e V e possono avere forme diverse. Esprimono l’avversione al rischio dei manager. manager sicuro alto V, basso G manager rischioso alto G, basso V. Ad esempio la curva che individua il valore g** indica una situazione molto rischiosa, in cui basta poco perchè si vanifichi la stabilità finanziaria.

R7_V2 TEORIA MANAGERIALE DELL’IMPRESA - Caratteri generali dell’impresa manageriale La teoria manageriale considera, a differenza delle teorie precedenti, la classe manageriale Il primo compito dei manager è quello di far crescere l’impresa, i manager che vogliono crescere devono avere come orizzonte temporale un arco temporale sufficiente per apprezzare la crescita. Il manager deve considerare però che il risparmiatore-azionista ha un orizzonte temporale di breve-medio termine. La finanziarizzazione infatti comporta una necessità di un rendimento immediato il più alto possibile e questo acuisce il divario di orizzonti fra i manager e gli azionisti. Le teorie

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manageriali considerano anche gli aspetti “psicologici” cioè tiene conto anche di benefici non prettamente economici. Caratteri fondamentali:

1) Scissione fra proprietà e gestione 2) Comportamento manageriale in cui figurano motivazioni personali (reddito, status, potere,

sicurezza), obiettivi aziendali, fini aziendali (ad es. aumento della dimensione dell’impresa) 3) Influsso del mercato di borsa (problema del take over cioè della scalata) 4) Estensione dell’orizzonte temporale

Il modello di Baumol (grafico) Il modello di Baumol considera come obiettivo delle imprese la massimizzazione del ricavo totale, non il profitto totale. L’impresa dunque desidererebbe produrre in qh.Questo modello però considera anche i bisogni degli azionisti i quali hanno come desiderio la massimizzazione dei profitti cioè la produzione in qk. L’impresa finirà per produrre una quantità t.c. il profitto sia >= al profitto totale soddisfacente, cioè quel profitto che permette agli azionisti di mantenere il capitale investito. L’obiettivo dell’impresa secondo Baumol è dunque la massimizzazione delle vendite vincolata dal profitto totale soddisfacente per gli azionisti. Il modello di Marris Marris considera nel suo modello il continuo confronto con la borsa. L’obiettivo dell’impresa è la massimizzazione del saggio di crescita bilanciata, cioè la massimizzazione del saggio di crescita della domanda per l’impresa (obiettivo dei manager) e del saggio di crescita del capitale dell’impresa (interesse degli azionisti: crescita dei dividendi e del valore delle azioni) Le decisioni di crescita riguardano:

1) gli investimenti in una stessa linea di produzione o in nuove linee di produzione; 2) acquisizioni e fusioni; 3) investimenti diretti all’estero, vale a dire creazione di nuove attività produttive in un altro

paese. Il tasso di crescita dipende:

1) dal saggio di crescita della domanda che è determinato dal tasso di diversificazione dei prodotti (a sua volta dipendente dalle spese in R&D, pubblicità, etc.)

2) dall’indice di indebitamento (debiti/valore del capitale dell’impresa) Siano dati il valore massimo possibile dell’indice di indebitamento Vm e il valore minimo dell’indice di valutazione (valore delle azioni), definiamo: 1)- la funzione del saggio di sviluppo della domanda

D= D(d,π) con d = saggio di diversificazione (relazione diretta) e π = saggio di profitto inversamente relazionato alle spese in R&D

Lungo ciascuna curva il margine di profitto è costante, ma la domanda dell’impresa cresce nel momento in cui cresce il saggio di diversificazione e differenziazione

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I primi investimenti in ricerca e sviluppo incrementeranno la domanda ma successivamente gli incrementi di domanda saranno nulli. Di conseguenza per avere un incremento della domanda (al crescere della domanda) dovrò aumentare il capitale investito. 2)- Funzione del saggio di crescita del rapporto capitale/prodotto

C = C(d)

3)- La funzione del saggio di crescita del capitale

C’= α p - β Vk = α (m/c) – βVk Questa equazione afferma che il saggio di crescita C’ del capitale, quando il rapporto di indebitamento (rapporto tra indebitamento e capitale è costante, dipende principalmente dai profitti, per i quali tuttavia esiste un limite superiore, rappresentato dall’obbligo di fornire agli azionisti un dividendo che non li induca a vendere le loro azioni. α indica la proporzione di profitti non distribuiti (cioè l’autofinanziamento dell’impresa) mentre v indica il rapporto di valutazione sul mercato borsistico. Il tasso di profitto p è uguale al rapporto fra il margine e il rapporto capitale/prodotto (c) ossia l’intensità degli investimenti.

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4)- Funzione di equilibrio tra il saggio di sviluppo del capitale e il saggio di sviluppo della domanda

C(d,m) = D (d, m) Questa equazione sarà soddisfatta solo quando il saggio di crescita del capitale si incontrerà con il saggio di sviluppo della domanda per lo stesso margine di profitto. Noteremo che la funzione del saggio di crescita del profitto risultante avrà un andamento crescente nella prima fase di differenziazione, ma poi, a causa degli elevati oneri che si devono sostenere all’aumentare della differenziazione, decresce.

L’impresa può dunque operare, secondo il modello di Marris in base a diverse variabili strumentali:

1) può operare sul saggio di diversificazione (decidendo di innovare o meno in un settore produttivo o in un mercato)

2) può operare sui margini di profitto (variando il prezzo dei propri prodotti) 3) può operare sulla quota di profitti non distribuiti (aumentando la quota del proprio

autofinanziamento), e sui saggi di emissione di nuove azioni (oltre che sul rapporto di indebitamento, che nel modello è assunto costante).

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R8_L’IMPRESA COME ISTITUZIONE L’impresa come istituzione: approcci e teorie Agli inizi degli anni ’70, si afferma la visione dell’impresa come istituzione, ovvero un soggetto che elabora comportamenti operativi. La teoria istituzionalista si divide in due approcci fondamentali, quello sistemico e quello contrattualista. All’ approccio contrattualista fanno capo le seguenti teorie:

− La teoria contrattualista di Coase e Williamson: Nel 1937 Coase pubblica un saggio nel quale prende in esame la natura dell’impresa e del mercato. Agli inizi degli anni ’70 Williamson riprende le idee di Coase e comincia una nuova indagine.

− Teoria dei diritti di proprietà di Hart. Vede l’impresa come un insieme di contratti fra i proprietari e i fornitori di input, il cui scopo è la minimizzazione dei costi di transazione.|| Affronta sostanzialmente il problema del make or buy. Williamson, afferma che impresa e mercato sono due modi diversi di organizzare l’attività economica, e la scelta dell’uno o dell’altro dipende dal confronto tra costi di transazione e costi d’organizzazione. La produzione di gruppo all’interno di un’impresa comporta alcuni problemi: asimmetrie informative, comando e controllo, distribuzione del prodotto. La teoria di gruppo risolve tali problemi attribuendo all’imprenditore poteri di controllo e diritti sul residuo. La teoria d’agenzia, invece, crede che l’imprenditore sia al centro del sistema di contratti ma non è solo nell’attività di controllo, si deve affidare anche ai manager. A causa delle asimmetrie informative i contratti che vengono stipulati sono incompleti. Secondo Hart il diritto di proprietà non lascia aperte opzioni, mentre i contratti incompleti offrono l’opportunità di revisioni continue. Proprio l’esistenza dei contratti incompleti giustifica l’esistenza dell’impresa come istituzione più efficiente del mercato nel governare le relazioni contrattuali che coinvolgono diversi fornitori di inputs. L’approccio sistemico è costituito da un insieme di teorie, che sono accomunate dall’idea dell’impresa come sistema, l’impresa è composta di varie parti che si congiungono insieme e ci mostrano cos’è l’organizzazione e come si opera al suo interno.|| Le teorie sono: − La teoria dell’organizzazione di Simon: studia l’impresa come soggetto organizzato. Simon afferma che non si può pensare agli individui come razionali in maniera illimitata. Ciò comporta che essi possono acquisire solo un certo numero di informazioni e possono basare le proprie decisioni solo su di esse. Quindi piuttosto che cercare la massimizzazione del loro obiettivo, devono scegliere la prima alternativa che permetto un soddisfacente raggiungimento dello stesso. − La teoria comportamentistica di Cyert e March: l’impresa è come una coalizione i cui soggetti sono portatori d’interessi differenti e per questo devono conciliarsi affinché il sistema non crolli. − Le teorie evolutive di Nelson e Winter (’80): si basano sul cambiamento tecnologico. − La teoria delle risorse, capacità, competenze (RCC) di Penrose e Richardson: Penrose riprende le idee di Simon. Il modello comportamentista di Cyert e March. Vedono l’impresa come un soggetto olistico, simile ad un’istituzione politica. L’impresa è un insieme di soggetti, ognuno portatore d’interessi, che formano una coalizione. Per questo motivo, è conflittuale nel momento in cui si stabiliscono gli obiettivi da raggiungere, è cooperativa quando nel momento operativo. Si assume che vi sia un numero limitato di obiettivi, che essi siano fissi e unici per la coalizione e che sia possibile determinare empiricamente quali di essi ordinariamente influiscono sul prezzo e sul prodotto. I cinque obiettivi operativi sono:

1. produzione 2. scorte 3. vendite 4. quote di mercato 5. profitti

Le scelte oltre che dagli obiettivi dipendono dalle informazioni, dalle stime, dalle aspettative e da un insieme limitato di alternative.

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Fatte queste assunzioni Cyert e March analizzano un modello semplice, in cui il prodotto è omogeneo, il prezzo determinato, quindi le decisioni riguardano sola la quantità da introdurre sul mercato; si assume inoltre che vi sia una perfetta corrispondenza tra vendite e produzione. Tale modello differisce dagli altri perché:

− E’ costruito sulla base del processo decisionale. − Specifica le condizioni e le aree nelle quali l’informazione è richiesta. − L’obiettivo del profitto cambia nel tempo, secondo le esperienze passate. − L’organizzazione modifica le proprie previsioni in base alle esperienze passate. − S’introducono le distorsioni dell’organizzazione nelle stime di mercato. − S’introduce l’organization slack, ovvero essa dedica parte delle risorse a soddisfare obiettivi

individuali.

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G1_IL SETTORE COME SOTTOSISTEMA DELL’ECONOMIA Problemi definitori “Un settore industriale è una porzione del sistema economico nella quale sono aggregate imprese simili che producono beni simili e sono tra loro interdipendenti”. Per imprese simili si intende che hanno una somiglianza nei processi produttivi e dunque sono sostituibili dal lato dell’offerta, per beni simili si intendono prodotti sostituibili dal lato della domanda mentre per interdipendenza si intende che le azioni di un impresa influenzano quelle dell’altra impresa. Il problema di questa definizione è la sua soggettività in quanto non è definito il peso di ogni caratteristica rispetto all’altra e non è definito un valore di soglia da utilizzare per calcolare la similitudine e l’interdipendenza. La teoria economica Sono diverse le teorie economiche che sono state applicate per la definizione di settore. Inizialmente la teoria della CONCORRENZA PERFETTA di Marshall è stata utilizzata per definire i settori in base all’omogeneità del prodotto, ma questa teoria si dimostrava insufficiente nel momento in cui si verificava la differenziazione così CHAMBERLAIN introduce una definizione più elastica in cui il settore corrisponde ad un area di consumo in cui i beni sono almeno parzialmente sostitutivi. Con questa definizione però si intercettano grandi gruppi in cui nel loro interno ci sono prodotti con gradi di sostituibilità non omogenea. Si focalizza pertanto l’attenzione sull’aspetto dell’interdipendenza e in particolar modo KALDOR propone l’elasticità incrociata

(x

y

y

xPyQx Q

PdPdQe ., = ) per la misurazione del grado di interdipendenza. I problemi di questa definizione

sono quelli della definizione di un valore di soglia tale che le imprese possano definirsi interdipendenti e la scelta del prodotto di riferimento all’interno di un settore da inserire nella formula di elasticità incrociata. L’attenzione a questo punto si sposta verso la similitudine dei processi produttivi e si cerca di definire in base a dei criteri tecnologici (ANDREWS, CHAMBERLAIN). ROBINSON sintetizza questo percorso affermando che la produzione settoriale è valutata in base alla similitudine di processo mentre l’offerta di mercato è valutata in base alla similitudine di prodotto. Due scuole di pensiero diverse nascono nel momento in cui si vuole dare una definizione completa di settore: i teorici cercano di dare una definizione universale mentre gli empiristici valutano la condizione di ogni singola impresa. Secondo i teorici “un settore è formato da imprese in concorrenza diretta o indiretta” uno di questi, HOTELLING, propone il modello della

“competizione spaziale” ( se allora concorrenza diretta) dove i = consumatore,

j, k = beni di imprese concorrenti, r = prezzo di riserva (max disponibilità a pagare), d = “distanza” del bene dal consumatore. In sostanza se due imprese hanno un consumatore in comune allora sono in concorrenza diretta, se A e C sono concorrenti diretti e A e B sono concorrenti diretti allora B e C sono in concorrenza indiretta. Questo tipo di modello considera la sostituibilità del prodotto e l’interdipendenza, ma non la similitudine di processo. Gli empirici spostano l’attenzione del settore all’arena competitiva. All’interno di questo filone troviamo BAIN che evidenzia come un’analisi di settore non può prescindere dall’analisi dei concorrenti potenziali, MOMIGLIANO che focalizza l’attenzione sulla concorrenza evidenziando la capacità di sottrazione della domanda, GRILLO SILVA che focalizza l’attenzione sull’elasticità incrociata definendo il settore come composto da imprese che hanno una elasticità incrociata maggiore di un valore di soglia k, e infine PORTER introduce le quattro forza di mercato. Ciascuna di queste teorie pone l’attenzione sul fattore dell’interdipendenza.

ik

ij

k

j

ki

ji

dd

cc

rr

cti++

⎩⎨⎧

≥≥

∃,

,..

Definizioni operative

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L’ISTAT e gli altri istituti statistici internazionali classificano gli impianti produttivi in base all’attività economica prevalente (quella a cui corrisponde il maggiore valore aggiunto) in una matrice industriale che abbia comparabilità internazionale (in Italia, ATECO, a livello comunitario NACE, a livello internazionale ISIC). La matrice è composto da 17 sezioni di partenza dalle quali a cascata si scende per 5 livelli fino ad ottenere 874 categorie finali. L’unico criterio utilizzato in questa classificazione è quello della sostituibilità dei processi produttivi. Le autorità antitrust Finalità: identificazione del “mercato rilevante”, ovvero un contesto competitivo nel quale

vi possa essere una violazione del gioco concorrenziale vi sia una posizione/abuso di posizione dominante potrebbe costituirsi/rafforzarsi una posizione dominante a seguito di una fusione

Definizione dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato nella relazione del 1993: “il più piccolo contesto (…) in cui, se si creassero condizioni di monopolio, il monopolista potrebbe profittevolmente fissare un prezzo significativamente superiore a quello concorrenziale e mantenerlo a tale livello per un rilevante periodo di tempo”

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G2_APPROCCIO ALL’ANALISI DEL SETTORE E INFLUENZA DELLE FORZE ESTERNE

L’APPROCCIO STRUTTURA- COMPORTAMENTI- RISULTATI Per analizzare il settore, ci avvaliamo di due strumenti: 1. Il paradigma interpretativo Struttura-Comportamenti-Performance, preso dall’economia

industriale. Il primo strumento si afferma negli anni ’50, e consiste in un approccio deterministico che si può così schematizzare:

− definire e analizzare la struttura del settore, caratterizzato dal grado di concentrazione e dalle barriere di mobilità.

− Dalla struttura del settore derivano i comportamenti dell’impresa, che si concretizzano nelle strategie aziendali.

− Dai comportamenti derivano i risultati economici o performance, intesi sia come performance gestionali che come redditività media del settore.

Questo approccio comporta 2 vantaggi: la linearità e la possibilità di trovare relazioni tra le strutture, i comportamenti e i risultati. Negli anni ’70, però, viene messo in crisi da un nuovo approccio, che tiene conto dei feed-backs che vi sono tra un livello ed un altro. Il nuovo approccio non ha più una logica deterministica che segue un percorso dalla struttura, passando per i comportamenti fino ad arrivare ai risultati, ma essi si influenzano a vicenda. È questo lo strumento che utilizziamo per l’analisi del settore. 2. l’analisi delle 5 forze competitive di Porter, preso dall’economia aziendale:

− Potere contrattuale dei fornitori. − Competizione di prodotti sostitutivi. − Potere contrattuale dei clienti. − Minaccia di potenziali nuovi entranti. − Grado di concentrazione tra imprese.

LA STRUTTURA DEL SETTORE Ci sono 4 forza che influiscono sulla struttura del settore: 1. lo Stato. 2. Ambiente macroeconomico. 3. Domanda. 4. Offerta. LO STATO Può interferire o influenzare la struttura del settore secondo diversi elementi: 1. Consumo pubblico: in determinati settori lo Stato rappresenta il cliente principale (es.

armamenti, aeronautica, …). Lo stato può rappresentare anche il produttore principale, come fino a pochi anni fa avveniva per le TLC o le ferrovie. Con le privatizzazioni, però, il suo ruolo come produttore si è notevolmente ridimensionato.

2. Politiche economiche (monetarie e fiscali): da quando esiste UE il lato monetario dipende da essa e non più dal singolo stato. Possono essere di tipo espansivo, atte alla promozione della produzione mediante l’aumento della spesa pubblica, la diminuzione del tasso d’interesse e dell’imposizione fiscale, oppure restrittive, atte a contenere gli effetti negativi in una fase di recessione. a) Una politica economica agisce su due aspetti principali: b) Livello del reddito: l’impatto dell’aumento del reddito sarà diverso in base all’elasticità della

domanda rispetto al reddito. Non in tutti i settori la domanda aumenta se il reddito della popolazione cresce.

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c) Variazione del reddito: una politica economica influenza il PIL, somma dei valori aggiunti delle imprese private e della pubblica amministrazione, la variazione che subisce ogni settore dipende dal fatto che esso sia ciclico o meno; nel primo caso segue l’andamento del PIL, nel secondo va in controtendenza.

3. Politiche industriali: prevedono una serie di strumenti capaci d’influenzare la performance di un settore (es. sovvenzioni, sgravi fiscali, …) . Non supportano una singola impresa, questo sarebbe contro legge, ma offrono a tutte le imprese appartenenti ad un settore gli strumenti per promuovere la competitività.

4. Politiche commerciali: i principali strumenti a disposizione sono dazi, tariffe ( aumentano il valore delle merci in entrata imponendo una tassa), quote (limitano la quantità vendibile in un paese), oltre al supporto offerto da enti pubblici (ICE). Da quando esiste l’Unione Europea, non sono più i singoli stati ad attuare tali politiche, inoltre esiste l’Organizzazione Mondiale del Commercio ( OMC) che mira ad abbattere progressivamente dazi, quote e tariffe. Al contrario si vanno sempre più affermando le barriere non tariffarie, ovvero le merci possono liberamente circolare in un certo paese se rispettano determinati vincoli di qualità

5. Attività legislativa a) regolamentazione statale, definisce requisiti e doveri degli operatori attivi in determinati

settori, specie i quelli di pubblico interesse (es. bancario, telecomunicazioni). b) normativa fiscale.

AMBIENTE MACROECONOMICO Le variabili macroeconomiche che influenzano il settore sono: 1. Tassi di cambio: le sue variazioni influenzano in modo diverso i vari settori. Nel caso degli

export-oriented, se vi è una rivalutazione del tasso di cambio per gli stranieri è eccessivamente caro acquistare nel nostro paese, gli acquisti diminuiscono con un conseguente effetto negativo sul settore. Se invece un’impresa si approvvigiona su mercati esteri (import-oriented) più vantaggiosi e rivende i prodotti ne proprio paese ottiene dei grandi vantaggi.

2. Tassi d’interesse: le sue variazioni influenzano soprattutto i settori a più elevata intensità di capitale per cui un’ abbassamento del tasso d’interesse ha un effetto positivo.

3. Tasso d’inflazione: può avere due effetti. − Differenziale positivo rispetto ad altri paesi. A parità di tasso di cambio, se in Italia il tasso

d’inflazione aumenta in maggiore entità rispetto ad un altro paese, quest’ultimo avrà meno convenienza ad acquistare in Italia, quindi l’Italia diventa meno competitiva.

− Influenza sulla percezione dei prezzi relativi dei prodotti sostituti. Se aumentano tutti i prezzi, è difficile per il consumatore percepire la variazione del prezzo relativo.

4. Costo del lavoro e delle materie prime: varia da settore a settore, ed influenza maggiormente quelli ad elevata intensità salariale.

Un analista non può analizzare tutte le variabili, è necessario che prenda in considerazione quelle più significative per il settore in questione. Sicuramente, la prima cosa da fare, è un’analisi preliminare della correlazione tra variazione del PIL (che riassume l’andamento delle varabili precedenti) e dell’output del settore. Il secondo passo da fare è analizzare il peso del settore rispetto al sistema economico:

peso settore = valore della produzione / PIL A parità di correlazione con il ciclo economico, minore è il peso, più forte è il legame con il sistema economico. Se il mio settore segue il PIL e pesa poco, il legame è forte, poiché non contribuisce a crearlo, ma lo segue strettamente. Tutti i settori sono legati all’andamento del PIL poiché tutti insieme contribuiscono a crearlo. Un altro elemento chiave è individuare l’interdipendenza con i settori limitrofi e collegati:

− Settori dei beni o servizi complementari − Settori dei beni o servizi sostituti − Settori a monte

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− Settori a valle Questo tipo di analisi dovrebbe essere fatta preliminarmente, per individuare i confini del settore preso in esame. Comunque, serve anche per prevedere cosa succederà al nostro settore a fronte di certi cambiamenti in quelli limitrofi. I legami tra settori si concretizzano sotto forma di:

− Legami di comportamento − Flussi di scambio

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G3_L’ANALISI DELLA DOMANDA L’analisi delle tipologie della domanda All’interno di un settore avremo una serie di prodotti e consumatori non omogenei, avremo quindi delle porzioni di domanda eterogenee. Per individuare e circoscrivere le diverse porzioni di domanda presenti in un settore si applicano due tipi di analisi complementari: l’analisi della segmentazione (studiata dall’economia aziendale) e l’analisi della differenziazione (studiata dall’economia industriale). “Un segmento di mercato indica un sottoinsieme distinto di clienti, omogeneo al proprio interno per atteggiamenti di consumo o d’acquisto, ma disomogeneo rispetto ad altri segmenti” Ogni segmento può essere scelto come obiettivo di mercato da raggiungere attraverso una strategia competitiva (posizionamento strategico). La segmentazione, dunque, indica dove l’impresa compete. Esistono infiniti tipi di segmentazioni. I più tradizionali sono per consumatore (quindi in base a caratteristiche del consumatore come aspetti di natura demografica, industriale/privato, canale di vendita, etc.) e per prodotto (prezzo, qualità, tecnologia, etc.). All’interno di uno stesso mercato omogeneo (o segmento), la differenziazione indica come l’impresa compete. Nel caso volessimo analizzare un settore con domanda sostanzialmente eterogenea sarà necessaria solo un analisi della differenziazione, altrimenti, nel caso di domanda omogenea, sarà necessario prima una analisi della segmentazione e successivamente l’analisi della differenziazione per ogni segmento. La segmentazione “Esistono 2 o + segmenti quando oltre il 50% dei consumatori di ognuno dei segmenti non prende in considerazione i prodotti di tutti gli altri segmenti” Questa definizione può essere utilizzata come criterio di verifica ma non fornisce indicazioni su come identificare segmenti esistenti e/o potenziali, ovvero i criteri di scelta del consumatore. Le principali tecniche utilizzate per l’identificazione dei segmenti sono:

1) FOCUS GROUP (qualitativa) 2) FUNZIONI EDONICHE 3) CONJOINT ANALYSIS 4) MULTIDIMENSIONAL SCALING

1) La tecnica del FOCUS GROUP è solitamente riferita ad oggetti di largo consumo e

semidurevoli e consiste in sessioni ripetute d’interviste ad un gruppo ristretto di clienti potenziali (consumatori e non) con l’obbiettivo di identificare i parametri della scelta (criteri soggettivi che orientano la scelta del consumatore) e gli attributi del prodotto (caratteristiche tecniche che il prodotto deve avere, che il consumatore da per scontate).

2) Le FUNZIONI EDONICHE sono delle funzioni di regressione avente come varabile dipendente il prezzo (P) (misura del valore attribuito dai consumatori) e come variabili indipendenti i parametri di scelta (X). L’obiettivo di questa tecnica è l’identificazione dei parametri di scelta. Questa tecnica si basa sull’ipotesi che il consumatore assegna un valore in termini di prezzo ad ogni caratteristica. I limiti di questa tecnica sono dovuti al fatto il prezzo dovrebbe riflette il valore che ogni consumatore assegna al prodotto e che tutti i prodotti sono trattati allo stesso modo.

3) La CONJOINT ANALYSIS ha anch’essa come obiettivo l’individuazione dei parametri di scelta. La tecnica è fondata sull’identificazione di parametri non correlati ai quali vengono assegnati dei livelli verosimili; successivamente si creano dei set di prodotti aventi tutte le combinazioni possibili di parametri e vengono sottoposti a dei possibili consumatori

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identificando quali sono i parametri che sono predominanti nella scelta. Infine vengono rappresentate (su assi cartesiani assegnati ai parametri predominanti) le imprese presenti nel settore.

4) Il MULTIDIMENSIONAL SCALING è una tecnica statistica esplorativa dei dati che permette di ottenere una rappresentazione di n prodotti in uno spazio di 2-3 dimensioni, partendo da informazioni relative alla “similarità” (o non similarità) tra ciascuna coppia di prodotti. Partendo da una matrice di similarità tra i prodotti e una matrice di valutazione oggettiva o soggettiva di alcuni parametri si ottiene una mappa dove le distanze tra i prodotti riflettono le distanze percepite dai consumatori. A differenza della conjoint analysis sugli assi non ci saranno i valori attribuiti dai consumatori alle caratteristiche del prodotto, ma numeri risultanti da algoritmi che rappresentano le distanze tra prodotti.

La differenziazione La differenziazione indica come l’impresa compete all’interno di un settore. Gli aziendalisti, nello studio delle strategie, si sono interessati al posizionamento delle imprese e dei loro prodotti tramite mappe di posizionamento bidimensionali che hanno come variabili dipendenti prezzo e costo d’uso e come variabili indipendenti caratteristiche fisiche del prodotto, quantità e caratteristiche del prodotto, caratteristiche associate alla vendita. L’economia industriale ha iniziato ad occuparsi della differenziazione con Chamberlin (concorrenza monopolistica, 1933). Chamberlin parte dall’ipotesi che i prodotti non sono omogenei come in concorrenza perfetta e le imprese possono competere differenziando i prodotti. Questa differenziazione comporterà una minore elasticità della curva di domanda delle imprese e di conseguenza un maggiore potere monopolistico. L’elasticità della domanda rispetto al prezzo è inversamente correlata al grado di potere monopolistico, misurato dall’indice di Lerner (P-Cmg) / P = 1/ε . Esistono due tipologie di differenziazione: la differenziazione orizzontale, a costo di produzione omogeneo, incide sui caratteri distintivi (es. colore, confezione) ma non sulla qualità complessiva del prodotto mentre la differenziazione verticale è basata sulla differenza della qualità complessiva del prodotto. Il modello di Hoteling studia la differenziazione orizzontale come differenziazione spaziale. Le ipotesi di partenza di questo modello sono: (1) i prodotti possono essere differenziabili in base ad un’unica caratteristica, (2) vengono analizzate due imprese concorrenti con i medesimi costi di produzione (e quindi gli stessi prezzi), (3) i consumatori hanno preferenze eterogenee distribuiti uniformemente fra i 2 estremi, (4) i costi di trasporto sono lineari (CT = tx), (5) l’obiettivo dei produttori è la massimizzazione del profitto, (5) l’obiettivo dei consumatori è la minimizzazione dei costi e quindi la minimizzazione della disutilità e dei costi di trasporto, (6) i mercati hanno ampiezza diversa. Il risultato di questo modello è che entrambi i produttori venderanno la bevanda in cui sono specializzati e cercheranno di acquisire nuovi clienti: si localizzano quindi a metà esatta dell’ampiezza dell’area dei 2 mercati in base al principio di minima differenziazione dei prodotti. La critica a questo modello è che una leggera riduzione dei prezzi condurrebbe ad una posizione di monopolio (si innescherà una concorrenza alla Bertrand che si concluderà con profitti nulli).Il modello è dunque privo di equilibrio. Se sostituiamo l’ipotesi di costi di trasporto lineari con costi di trasporto quadratici il costo di disutilità per i consumatori sarà maggiore. Le imprese in questo caso si posizioneranno sugli estremi della linea di differenziazione spaziale in base al principio della massima differenziazione dei prodotti raggiungendo una situazione di equilibrio. In conclusione soluzioni opposte derivano dai costi di trasporto, che a loro volta dipendono dalla funzione d’utilità dei consumatori.

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Metodi statistici per la stima della domanda (modelli causali ed autocorrelati) La stima della domanda ha due obiettivi fondamentali: l’obiettivo primario è la previsione della domanda all’istante (t+1) sulla base dei dati storici disponibili sino all’istante t. L’obiettivo secondario è l’individuazione dei parametri che influenzano l’andamento della domanda all’interno di un settore. Esistono due metodi quantitativi per stimare la domanda: il modello causale (o esplicativo) e il modello autocorrelato (analisi delle serie storiche). Nel modello causale stimeremo dal domanda partendo da una serie di variabili hanno relazione causale con la domanda Qdi = f (Pi, Pn-i, Y, …) individuando una relazione tra variabili dipendenti ed indipendenti. Il modello causale necessita di una banca dati sufficientemente completa. Il modello autocorrelato, invece, stima la domanda futura in base alle indicazioni fornite dall’andamento della domanda passata Qdi, (t) = f (Qdi, (t),Qdi, (t-1), Qdi, (t-2), …). Questo modello necessita di dati di input facilmente reperibili ed è utilizzato nell’analisi tecnica finanziaria. Un modello causale con reddito e prezzo quali variabili indipendenti permette d’identificare l’elasticità della domanda rispetto al prezzo e l’elasticità della domanda rispetto al reddito. Il modello causale con una sola variabile indipendente è il metodo più semplice ed immediato ed è utilizzato, nel caso di variabili dipendenti e indipendenti fortemente correlate, per stime di breve e brevissimo periodo. Avremo in questo caso una regressione semplice lineare (Qd = a + bx + e) ad es. batterie vendute nell’anno t correlato al numero di immatricolazioni avvenute nell’anno t-2. Il metodo di regressione più usato è quello dei minimi quadrati, ovvero la minimizzazione della

somma dei quadrati degli errori (Error Sum of Square) . La bontà della stima

risultante da questo metodo è data da diversi indicatori di verifica ad es. dal coefficiente di

determinazione

∑=

−=n

iii yySSE

1

2)ˆ(

=

=

−== n

ii

n

ii

yy

yy

SSTSSRr

1

2

1

2

2

)(

)ˆ( (con = valore stimato, iy y = valore medio, = valore

reale, SSR = Regression Sum of Square, SST = Total Sum of Square). Più il valore di

iy

2r sarà prossimo ad 1 più le variabili utilizzate nella regressione saranno in relazione causale tra loro e dunque la stima ottenuta sarà attendibile, al contrario, più 2r sarà prossimo a 0 meno la stima sarà attendibile. Per stime di medio/lungo periodo solitamente si utilizzano modelli causali con più variabili indipendenti. In questo caso parleremo di regressione multipla (Qdi = f (x1, x2, …, xm)). I modelli autocorrelati hanno come oggetto l’analisi delle serie storiche, ovvero una raccolta di dati ottenuta dall’osservazione del comportamento di una varabile ad istanti periodici di tempo La natura di una serie storica può essere analizzata attraverso lo studio di quattro componenti:

1) componente di trend (variazione regolare delle vendite nel tempo) 2) componente ciclica di lungo periodo (es. ciclo economico) 3) componente stagionale, o di breve periodo 4) variazioni irregolari/residuali dovute ad eventi specifici od imprevedibili (shock)

Non sempre i dati temporali hanno lo stesso peso (quelli più recenti posso essere più significativi) Per isolare il trend si utilizza la tecnica della media mobile cioè si sostituisce il valore reale con quello medio di n periodi. Inoltre un’altra tecnica utilizzata è l’ Exponential smoothing che attribuisce maggiore peso alle osservazioni più recenti rispetto a quelle più vecchie.

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G4_L’ANALISI DELL’OFFERTA L’ANALISI DEI PRODUTTORI L’insieme delle imprese può essere scomposto secondo diversi criteri o caratteristiche della concorrenza:

1. Classi dimensionali (piccole, medie, grandi imprese). 2. Tipo di prodotto. 3. Tipo di cliente. 4. Collocazione/destinazione geografica della produzione.

1.L’analisi per classi dimensionali È il criterio più comunemente usato. Innanzitutto bisogna identificazione le classi dimensionali più significative in un dato settore (max. 6/7, altrimenti perde di significato), questo perché imprese di diverse dimensioni hanno caratteristiche differenti. Inoltre, non bisogna avere una visione statica del settore diviso in classi dimensionali, ma bisogna analizzarlo sotto una prospettiva storica che evidenzia il tasso di natalità e mortalità delle imprese per ogni classe dimensionale. In altre parole si va a verificare come è evoluta nel corso del tempo la numerosità delle classi e s’individua la dimensione maggiormente “idonea”(classe overperforming), quella in cui si vanno ad accorpare la maggior parte degli operatori. Le Motivazioni della concentrazione in una determinata classe:

− dimensione del processo produttivo che minimizza i costi medi (economie di scala, Stigler) − motivazioni di natura strategica (maggiore potere contrattuale verso i fornitori, dimensione

minima per accedere ai mercati esteri,…) GRADO DI CONCENTRAZIONE DI SETTORE Se voglio fare un’analisi cross-dimensionale tra settori distinti, l’analisi dimensionale perde di significato, e mi devo avvalere di indicatori validi per tutti i settori. Tali indici si basano sulla quota di mercato dell’impresa i-esima: qmi = Fi / Fs = fatturato dell’impresa / fatturato del settore Si possono usare altre varabili dimensionali (addetti, capitale investito, VA, …), ma il fatturato è quella preferita. Nel caso di elevate importazioni (IMP) la formula va modificata: qmi = Fi/(FS + IMP) Nel caso di imprese diversificate/integrate bisogna considerare solo il fatturato attribuibile al settore, altrimenti si potrebbe incorrere in una sovrastima. − Indice di Herfindal-Hirschman : H = ∑i qmi2 ;

H = 0 concorrenza perfetta; H = 1 monopolio. − Numero equivalente: 1/H

Numero medio d’imprese nel settore se tutte hanno la medesima quota di mercato. − Concentration Ratio: CR = ∑x

i qmi x = numero delle principali imprese del settore. Se la quota cumulata delle principali imprese, in termini di fatturato, è bassa, il settore è poco concentrato, e viceversa.

− Coefficiente di Gini e curva li Lorenz: misura generale del grado di distribuzione in una popolazione, può essere utilizzato per valutare il grado di concentrazione del fatturato all’interno di un settore. Si vanno ad ordinare le imprese di un settore in maniera crescente in base al valore delle quote di mercato, e si calcola per ognuna il valore della quota cumulata. Si va a costruire un grafico, in ascisse la percentuale cumulata del numero d’imprese, sulle ordinate la percentuale cumulata delle quote di mercato. Vado poi ad identificare sul grafico i valori delle quote di mercato per ciascun livello di numerosità delle imprese. Unendo tutti i punti identificati, costruiamo la curva li Lorenz. Più la curva li Lorenz è distante dalla retta di equidistribuzione ( retta che congiunge l’origine con il punto corrispondente al 100% delle quote di mercato cumulate e il 100% della percentuale cumulata della numerosità delle imprese.

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Rappresenta il caso in cui il settore è equamente distribuito, quindi il 20% delle imprese detiene il 20 % delle quote e così via), più è disomogenea la distribuzione delle quote di mercato. L’area compresa tra le due curve è detta area di concentrazione. Il coefficiente di Gini:

Igini = area di concentrazione / area sottesa alla curva equidistribuzione Ig = 0 distribuzione equa; Ig = 1 massimo grado di concentrazione. I confronti intersettoriali sono tesi a verificare due teorie avanzate dagli economisti. La prima teoria, che deriva dal paradigma interpretativo struttura-comportamenti-risultati, afferma che ad un maggiore grado di concentrazione corrisponde un maggiore grado di profittabilità. L’altra teoria afferma che ad un maggiore grado di concentrazione corrisponde un maggiore grado di potere monopolistico, ovvero la possibilità di applicare un prezzo superiore rispetto a quello di mercato. Ricordiamo l’indice di Lerner che misura il grado di potere monopolistico di un’impresa: IL = d (P – Cmgi ) / P = (1/ε) x (qi/Q) Quindi gli indici servono a verificare come il grado d concentrazione influenza la profittabilità e e il grado di potere monopolistico. Il grado di concentrazione è funzione di alcune variabili, che assumono rilevanza diversa da settore a settore:

− dimensione assoluta del mercato − barriere all’entrata − economie di scala

Queste variabili sono determinate in parte da fattori esogeni, in parte da strategie aziendali. 2.Suddivisione per prodotto. E possibile suddividere le imprese, dal lato dell’offerta, per prodotto. Non sempre è un tipo di analisi rilevante, poiché rischia di essere una duplicazione della segmentazione della domanda. Può non coincidere con la segmentazione del mercato, specie se per il consumatore esiste un alto grado di sostituibilità tra prodotti di settori diversi, come nel caso delle settore delle piastrelle. 3.Suddivisione per cliente Come nel caso precedente, rischia di essere una duplicazione della segmentazione. Ciò che ci interessa sono le caratteristiche macro, quindi è differente dall’analisi della domanda. Vogliamo suddividere i consumatori in pochi gruppi in funzioni di poche caratteristiche chiave , ad esempio distinguere i clienti con produzione propria vs. conto terzi, o clienti industriali vs. clienti privati. 4.Suddivisione per area geografica Ci sono due tipi di suddivisione, quella in base all’export e quindi alla destinazione della produzione, in questo caso si parla grado d’internazionalizzazione del settore; e quella in base alla collocazione dell’attività produttiva, s’indaga in questo caso sulle motivazioni che hanno portato alla creazione di distretti industriali. BARRIERE ALL’ENTRATA Le barriere all’entrata sono costituite dalle difficoltà che le imprese esterne al settore devono sostenere per entrarvi. Non è abbastanza intuitiva la loro quantificazione, tant’è che vi sono diverse concezioni. − Bain afferma che una quantificazione può essere effettuata mediante il differenziale tra il prezzo

effettivamente praticato dalle imprese e quello teorico di concorrenza, ricordando che in concorrenza non esistono barriere all’ingresso.

− Stigler crede che il neoentrante dovrà sostenere maggiori costi di produzione rispetto agli incumbent, quindi una valutazione delle barriere all’ingresso è data dal differenziale di tali costi.

− Demsetz crede che i maggiori costi che il nuovo entrante deve sostenere non siano imputabile al fatto di non godere della posizione del first mover, ma sono dovuti al fatto che chi è da tempo nel settore ha già effettuato ed ammortizzato investimenti in R&D, immagine, etc, cosa che il nuovo entrante, invece, deve ancora fare.

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Esistono diversi tipi di barriere all’entrata, che sono di natura: A. Giuridica: si tratta di tutti gli oneri e imposizioni giuridiche che l’impresa deve assolvere per

entrare in un certo settore. Deve ottenere certe licenze, sostenere certe attività burocratiche e amministrative, rispettare i brevetti, etc. si tratta comunque di barriere indifferenziate, che chiunque opera in un certo settore deve sostenere.

B. Economica: ci rifacciamo alla classificazione di Bain. Tre sono le principali determinanti delle barriere all’entrata::

1.Vantaggi assoluti di costo: il costo medio dell’impresa entrante è superiore a quello dell’impresa insediata poiché quest’ultima gode di alcuni vantaggi di costo: non deve sostenere elevate campagne pubblicitarie poiché ha già clienti consolidati; sfrutta le economie d’apprendimento, il così detto learning by doing; possiede canali distributivi già consolidati. Questi minori costi costituiscono una barriera all’entrata per il nuovo entrante, in quanto per offrire lo stesso prezzo degli incumbent l’impresa entrante avrà margini inferiori.

2.Economie di scala: il costo medio di produzione decresce all’aumentare della quantità prodotta, perché posso spalmare i costi fissi su più prodotti. Il nuovo entrante ha due disincentivi. Innanzitutto, entra gradualmente, quindi non può offrire volumi elevati immediatamente. Il costo medio è superiore rispetto a quello dei concorrenti, quindi o vende ad un prezzo superiore, risultando così poco competitivo, o vende allo stesso prezzo, ottenendo una scarsa profittabilità. In secondo luogo, supponiamo che il nuovo entrante possa introdurre immediatamente un grande quantitativo di prodotti, effettuando elevati investimenti. In questo modo, può avvantaggiarsi anch’esso delle economie di scala, ma non tutte le nuove imprese possono permettervi operazioni così costose, quindi per la maggior parte permane la barriera all’entrata.

3.differenziazione del prodotto: può essere effettuata mediante due meccanismi. o Preferenze consolidate/ fidelizzazione: adatto per beni durevoli, per i quali la qualità e l’affidabilità di un marchi conosciuti ha un forte impatto sulle scelte dei consumatori, o per beni di consumo ostentativo, i quali vengono acquistati per lo status che rappresentano. In questo caso è difficile accaparrarsi parte della domanda. o Switching cost: è il costo che il consumatore dovrebbe sostenere per cambiare fornitore. Il consumatore oltre a sostenere il costo del prodotto del nuovo offerente, deve sostenere dei costi aggiuntivi per poterlo utilizzare.

In entrambi i casi, per poter superare le barriere, devo offrire un prezzo inferiore, per invogliare il consumatore, o effettuare una forte campagna pubblicitaria. Sono comunque azioni che non posso sostenere nel lungo periodo, in quanto comportano margini di profitto inferiori.

C. Strategica: barriere istituite volontariamente dalle imprese insediate. 1.sfruttamento aggressivo delle economie di scala ed apprendimento: anche se non mi conviene,

produco elevate quantità, per sfruttare le economie di scala e disincentivare i nuovi entranti. 2.creazione di capacità in eccesso: mi permette di coprire un aumento della domanda, non appena

esso si verifichi, evitando così che se l’accaparri un nuovo entrante. 3.introduzione di nuove varietà di prodotto per riempire tutte le nicchie di mercato: un incumbent

copre una nicchia di mercato, anche se non profittevoli, esclusivamente per impedire l’entrata di una nuova impresa.

4. fissazione di prezzi limite: L’incumbent decide di produrre QL, che rappresenta il punto limite per l’impresa. Vende al prezzo limite PL, per cui non massimizza il profitto ( pari al rettangolo E-C-L-PL), cosa che invece avviene per QM (profitto pari al rettangolo A-B-M-PM). Facendo ciò impedisce al nuovo entrante di produrre la stessa quantità, in quanto, da un lato, il mercato non potrebbe assorbire tutta l’offerta, dall’altro quest’ultimo non può abbassare il prezzo per accaparrarsi la domanda, poiché ha costi superiori. È una situazione ovviamente temporanea, l’incumbent non può produrre sempre a tali livelli che non risultano per esso particolarmente profittevoli.

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QM

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5.ricerca di brevetti e tecnologie per prodotti sostituti: se riesco a fare ciò, escludo la possibilità

che il mio prodotto venga sbaragliato da uno nuovo. BARRIERE ALL’USCITA Le barriere all’uscita sono le difficoltà che l’imprese incontrano se desiderano uscire dal settore. Dipendono principalmente dai costi fissi e dal valore residuo dei beni da ammortizzare. Se:

∑n perdite > ∑n costi fissi annuali – plusvalenze allora decido di uscire dal settore. Le barriere all’uscita sono determinate anche da altri fattori: − costi di trasferimento o di conversione degli impianti − penali derivanti da contratti non onorati − interdipendenze tra aree d’affari che condizionano la strategia aziendale Esistono, quindi, dei settori in cui le barriere all’uscita sono maggiori, e sono quelli caratterizzati da elevati investimenti fissi o da investimenti specialistici. DIVERSIFICAZIONE Per diversificazione s’intende l’operare in settori diversi, quindi bisogna fare un netta distinzione con la differenziazione, che consiste nel vendere prodotti diversi in uno stesso settore. Per verificare il grado di diversificazione di diversificazione di un’impresa posso utilizzare alcuni indicatori: − indice di Berry (Herfindal): D = 1- ∑N

i P2i dove Pi rappresenta il valore della quota di

fatturato in un certo mercato, mentre N è il numero di mercati in cui opera l’azienda. − coefficiente di specializzazione ( Wringley): CS = Fpp / FT = fatturato del prodotto prevalente

fatturato totale. Più è basso il rapporto, più è diversificata l’azienda. INTEGRAZIONE VERTICALE L’integrazione verticale indica il fatto che l’impresa opera in mercati a monte/valle di quello considerato. Ciò avviene per diversi motivi: − incremento del valore aggiunto e diminuzione dei costi di transazione: (riduzione dei costi

amministrativi, ricerca del fornitore,…) − asimmetrie informative: integrando a monte posso ridurre le asimmetrie informative rispetto al

fornitore. Se si integra a valle si acquisiscono maggiori informazioni sui clienti e si può così tarare la produzione in maniera maggiormente confacente alle loro aspettative.

− aumento delle barriere all’entrata: non sempre è possibile farlo. Se esiste, ad esempio, un solo fornitore di una certa materia per un dato settore, e l’impresa si integra a monte acquisendolo, chiunque voglia entrare in quel settore deve fare i conti con l’impresa in questione.

− imperfezioni in uno altro stadio

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− efficiente discriminazione di prezzo: supponiamo che vi sia un monopolista che vende a due imprese, A e B, la prima più elastica (se aumento il prezzo diminuisce la domanda) e l’altra meno. Il monopolista non può discriminare il prezzo altrimenti s’innescherebbero fenomeni d’arbitraggio, deve quindi applicare un prezzo intermedio. Se però il monopolista si integra a valle con l’impresa più elastica A, può vendere a B ad un prezzo più alto, perché so che la sua domanda è meno elastica.

Per misurare il grado d’integrazione si utilizzano i seguenti indici − Indice di Aldeman (integrazione impresa): In = VA / VP = valore aggiunto/ valore di

produzione. − Indice di integrazione (settore): Is = ∑VA / ∑VP. Mi da una valutazione rozza del settore. Si utilizza il VA poiché ad una maggiore integrazione corrisponde un maggior VA. Questo tipo d’indicatori comportano una certa distorsione poiché, dato che il valore aggiunto decresce nelle fasi più a valle, potrebbe valutare maggiormente integrato un settore che integra più a monte. L’ANALISI DEL PROCESSO PRODUTTIVO Non consideriamo l’insieme delle imprese, ma cerchiamo di capire come si sostanzia il processo produttivo in un certo settore e quali siano i fattori critici che caratterizzano in maniera univoca l’offerta di quel dato settore. Il punto di partenza di quest’approccio è comprendere come è composta l’intera filiera produttiva e scomporla in diversi stadi. L’analisi delle filiera produttiva va fatta preliminarmente alla definizione di settore. In seguito bisogna individuare i confini del settore, ovvero quante fasi del processo devono essere incluse nella definizione di settore che stiamo analizzando. Il criterio chiave per fare ciò è quello dell’attività principale. S’includono tutte quelle fasi la cui attività principale è dedicata alla produzione del bene in oggetto. La definizione di un settore dipende dall’ampiezza dei confini che vogliamo considerare. Possiamo considerare il piccolo settore, ovvero imprese manifatturiere e al massimo la distribuzione dedicata, o il grande settore, ovvero il piccolo settore e tutte le imprese che hanno a che fare con esso. Comunque, anche se la nostra analisi si focalizza sul piccolo settore, non bisogna tralasciare l’analisi delle relazione con le altre imprese. Una volta individuate quante e quali sono queste relazioni, bisogna individuare i fattori critici di successo, che variano da settore a settore. Essi possono essere schematizzati nella catena del valore di Porter. La profittevolezza di un settore dipendono da certe attività, che sono divise in primarie, attività generatrice di valore, e secondarie, che sono di supporto alle prime.

Attività generali (pianif. e controllo, finanza, servizi informatici, servizi legali,…)

Risorse umane

Tecnologia, Design

Produ-zione

Distribu-zione

Marketing Servizi post-vendita

Approvv. fattori e semi-lavorati

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Attività generali (pianif. e controllo, finanza, servizi informatici, servizi legali,…)

Risorse umane

Tecnologia, Design

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Marketing Servizi post-vendita

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Attività generali (pianif. e controllo, finanza, servizi informatici, servizi legali,…)

Risorse umane

Tecnologia, Design

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Distribu-zione

Marketing Servizi post-vendita

Approvv. fattori e semi-lavorati

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Non è detto che i migliori risultati sono ottenuti perché l’impresa ha singole attività peculiari eccellenti. Un’impresa potrebbe avere maggiore successo complessivo poiché ha una migliore gestione dell’intero processo, oppure per una migliore performance dal lato della domanda, ad esempio l’impresa potrebbe avere individuato una migliore nicchia di mercato. Un ulteriore strumento che ci fa capire in quale fase del processo produttivo risiedono gli elementi chiave all’interno di quel settore è il costing, che consiste nello scomporre il processo produttivo in

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termini di costo ed andare poi a valutare come ogni voce incide sul costo finale. A questo punto è possibile focalizzarsi sulla fase critica e cercare di migliorarla. L’approvvigionamento delle risorse: la funzione dell’approvvigionamento mira ad assicurare il rifornimento e la gestione degli input produttivi. Gli elementi chiave sono: − disponibilità esclusiva di input: risorse che prendono parte al processo produttore.

L’approvvigionamento di alcune di esse, soprattutto di quelle specializzate, potrebbe determinare il raggiungimento del vantaggi competitivo.

− criticità/prezzo/qualità degli input − velocità dell’approvvigionamento: il sistema just in time permette di diminuire le scorte e quindi

i costi di gestione dei magazzini. − gestione del magazzino − legame contrattuale/integrazione /potere contrattuale dei fornitori La produzione: I principali vantaggi di costo (economie) che caratterizzano i processi produttivi sono: − economie di scala: Riduzione del costo medio di produzione all’aumentare del volume della

produzione (della scala produttiva). Le motivazioni sono da un lato di tipo pecuniario, in quanto vi sono sconti associati all’acquisto di grandi volumi, dall’altro reali. Si verificano le economie stocastiche di scala (all’aumentare della domanda, ne diminuisce la varianza); economie dei fattori comuni (spalmare costi una tantum, es. R&D, all’interno del costo medio di produzione); economie ingegneristiche (legate al fatto che il volume di proporzione aumenta in maniera meno che proporzionale al costo di produzione).

− economie di varietà (o scopo): Il costo della produzione congiunta di 2 beni è inferiore alla somma dei costi delle 2 produzioni separate.

C(q1 + q2) < C(q1,0) + C(0,q2) − economie di multilocalizzazione: riduzione del costo di trasporto dell’output o dei fattori

produttivi; differenziazione del prodotto più sensibile alle peculiarità della domanda locale; costi di approvvigionamento inferiori

− economie di apprendimento (learning by doing): Riduzione del costo medio di produzione all’aumentare della produzione cumulata. Tale riduzione è dovuta a migliore organizzazione interna; specializzazione della forza lavoro; maggiore programmabilità dell’attività. I settori in cui tali economie sono particolarmente rilevanti sono quelli con forte componente del lavoro manuale, e quelli con molte fasi distinte del processo di produzione.

Oltre un certo livello non è più conveniente per l’imprese aumentare la produzione perché ciò determina delle diseconomie.

Cos

to

q1 q2 q

ECONOMIE DI SCALA COSTI

COSTANTI

DISECONOMIE DI SCALA

Cos

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ECONOMIE DI SCALA COSTI

COSTANTI

Cos

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ECONOMIE DI SCALA COSTI

COSTANTI

DISECONOMIE DI SCALA

La distribuzione: distribuzione intesa non semplicemente come distribuzione fisica, ma include anche la gestione della forza vendita, il controllo dei canali distributivi, etc. Gli elementi chiave sono:

− la gestione degli ordini

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− scelta del canale distributivo − scelta della struttura organizzativa della rete di vendita − “lunghezza” del canale di vendita

Page 74: Appunti Economia Imprese e Settori 2006-2007_V1 by Dani&Anto

G5_L’ANALISI DEL COMPORTAMENTO DELLE IMPRESE Oggetto dell’analisi è il comportamento delle imprese e la relazione tra struttura comportamenti e risultati reddituali. Esistono due scuole, l’economia aziendale, che studia la singola strategia dell’impresa, e l’economia industriale, che ha una visione più macro e studia l’intero settore o gruppi d’impresa. L’analisi è comunque focalizzata sui comportamenti strategici effettivamente adottati, e non sulle strategie aziendali. Identifichiamo ora un numero ridotto di raggruppamenti strategici, intesi come gruppi d’imprese del settore caratterizzati dal fatto di adottare un comportamento strategico simile all’interno del mercato. L’analisi dei gruppi strategici è valida se il settore è sufficientemente grande, altrimenti sarebbe meglio analizzare le singole strategie, e se le imprese che vi appartengono sono abbastanza omogenee. Tale analisi serve a mettere in evidenza alcune implicazioni economiche: − Differente grado di profittabilità dei gruppi: premettendo che vi siano barriere alla mobilità che

non permettono di passare da un gruppo all’altro, ad un dato comportamento strategico corrisponde un diverso grado di profittabilità. Non è verificato il contrario, ovvero che ad un certo risultato corrisponde un solo comportamento, quindi non esiste una relazione biunivoca comportamnti-risultati.

− Maggiore competizione all’interno del gruppo: in alcuni settori (in declino in cui i margini sono bassi) si registra una maggiore rivalità inter-gruppo.

− Cambiamenti d’ambiente/tecnologia/prezzi/… influenzano in modo simile le imprese di un gruppo. Esiste una relazione chiara tra la struttura e i comportamenti.

− La configurazione interna di un gruppo può variare nel tempo, a seconda del cambiamento di strategia delle imprese, bisogna quindi effettuare un’analisi di un periodo stabile, 3-5 anni.

Bisogna ora individuare le metodologie di raggruppamento. Innanzitutto c’è da sottolineare che l’omogeneità del comportamento strategico può essere misurata in base a diverse variabili, dette dimensioni strategiche: − scelta del livello di prezzo; − scelta della qualità; − uso dei canali di distribuzione; − tecnologia utilizzata; − strategia finanziaria. È possibile utilizzare alcune o tutte le variabili strategiche. Una possibile classificazione degli approcci per rilevare l’omogeneità del comportamento strategico è fornita da Pitt e Thomas: − essenzialista (top down): misura la similitudine sulla base di due varabili strategiche ritenute

quelle maggiormente rilevanti (Porter) − longitudinale (storico): le varabili strategiche (poche o molte) sono quelle rimaste costanti per

un lungo periodo (3-5 anni). − analista empirico (bottom up): l’omogeneità è misurata su una pluralità di dimensioni grazie a

tecniche di analisi statistica multivariata ( cluster analysis o analisi delle componenti principali). La rilevazione dei gruppi strategici: si divide in alcune fasi. 1° - Creazione di una matrice n x m; n sono il numero d’imprese; bisogna considerare esclusivamente le imprese di medie-grandi dimensioni e raggruppare le piccole nel medesimo gruppo strategico. m sono le dimensioni strategiche valutate quantitativamente per ogni impresa; bisogna evitare variabili relative alla struttura e alla performance (es. profitti) e utilizzare con cautela varabili legate alle dimensioni delle imprese (quota di mercato, fatturato,…). 2° - Uso di una metodologia di rilevazione:Top down di Porter (top down) o Cluster analysis (bottom up).

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3° - Verifica ex-post dei risultati condotta da esperti di settore (“intimate knowledge of an industry”). METODOLOGIA DI PORTER: ANALISI ESSENZIALISTA. 1° fase: selezione tra le m dimensioni strategiche delle due più significative (esperti di settore). 2° fase: creazione di una mappa bidimensionale dove mappare le n imprese. 3° fase: divisione in gruppi delle n imprese, in base a caratteristiche comuni. Vantaggi: semplicità; numero ridotto di dimensioni strategiche richieste. Svantaggi: scelta delle dimensioni strategiche realizzata da esperti; omogeneità di comportamento basata su due sole dimensioni ; identificazione dei gruppi soggettiva; necessità di correzione dovuta alla possibilità che la rivalità reale sia diversa da quella metrica CLUSTER ANALYSIS Tecnica statistica che identifica e classifica, in funzione di alcuni predeterminati criteri di selezione, le osservazioni all’interno di cluster aventi un’alta omogeneità interna ed un’alta eterogeneità esterna. Metodo di classificazione caratterizzato da due fattori: una misura del grado di diversità tra le coppie d’unità, cioè come si misura la similitudine tra ciascuna coppia di imprese; una volta valutata la similitudine si usa un algoritmo con cui procedere alla ricerca dei cluster. 1° fase – Standardizzazione delle variabili: Ogni valore viene espresso in base al numero di deviazioni standard rispetto alla media. 2° fase – Misurazione delle distanze tra le osservazioni sulla base di tutte le dimensioni strategiche Esistono varie tecniche di misurazione, ma la più utilizzata è la distanza euclidea:

212

212

212 )(...)()( mmyyxx −++−+−

3° fase – Aggregazione delle imprese in funzione della distanza, basata su metodi gerarchici e metodi non gerarchici. I metodi gerarchici producono raggruppamenti successivi ordinabili secondo livelli crescenti o decrescenti della distanza, quelli non gerarchici prestabiliscono il numero di gruppi per il sistema. I metodi gerarchici si suddividono in agglomerativi e scissori, i primi sono più usati; partendo da n elementi producono un numero decrescente di cluster di ampiezza crescente, sino ad ottenere un unico gruppo. Metodo del legame singolo (SLM): la distanza tra il gruppo appena formato e le rimanenti unità è calcolata come la minima distanza tra le unità del gruppo e le altre unità; Metodo del legame completo (CLM), la distanza è calcolata come la massima distanza tra le unità del gruppo e le rimanenti unità; Metodo del legame medio (ALM), la distanza è calcolata come la distanza tra l’unità e una unità fittizia in cui ciascun carattere è presente con una media delle modalità presentate dalle unità comprese nel gruppo. La cluster analysis comporta un guadagno nella consistenza dell’analisi, poiché sono considerate tutte le variabili, ma non evidenzia quali sono le variabili determinanti delle distanze tra i vari gruppi, a differenza dell’analisi di Porter. ANALISI DELLE COMPONENTI PRINCIPALI È una tecnica statistica che analizza un gran numero di variabili, come la cluster analysis, ma oltre a creare i gruppi spiega, in termini di alcune componenti principali/dimensioni comuni, 2 o 3 generalmente, le relazioni che intercorrono tra esse. È possibile ridurre la matrice da m variabili a 2 o 3, e spiegare la varianza complessiva del modello con maggiore semplicità. Ogni variabile reale della matrice iniziale è ottenibile come combinazione lineare, utilizzando certi pesi, delle componenti principali.

V*1 = μV1 + sδV1 [(cp1xL1) + (cp2xL2)] V*1 valore stimato della variabile.

Page 76: Appunti Economia Imprese e Settori 2006-2007_V1 by Dani&Anto

μ valore medio della variabile in questione. sδ deviazione standard della variabile in questione. Cp1, cp2 componenti principali. L1, L2 pesi (loading), [0,1]. Tali pesi esprimono la correlazione tra le variabili e le componenti principali. L=1 forte correlazione; L=0 correlazione nulla. Un caso limite è quello in cui la prima componente è perfettamente correlata con alcune variabili e la seconda con altre. Ciò significa che le variabili stimate coincidono con le variabili reali ed è possibile spiegare esattamente la varianza della matrice iniziale. Grazie alla riduzione in 2 o 3 variabili è possibile creare un grafico bi-tridimensionale, inoltre è possibile risalire alle variabili discriminanti per un diverso posizionamento, come nell’analisi di Porter. La bontà dell’analisi è data dalla percentuale della varianza della matrice iniziale spiegata dalla matrice stimata. Se il valore della varianza spiegata è bassa (65%), è possibile o aumentare le componenti principali, o ridurre le variabili reali.

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G6_L’ANALISI DELLE PERFORMANCE I risultati di un’impresa (settore) possono essere valutati in termini:

1) economico-finanziari 2) tecnico-qualitativi 3) di gestione delle risorse 4) di soddisfazione dei consumatori

Stato patrimoniale, conto economico ed indici di bilancio Lo Stato Patrimoniale è il documento che definisce la situazione patrimoniale di una società in un determinato momento. Nello Stato Patrimoniale vengono inseriti tra le ATTIVITA’, il valore dei beni materiali e immateriali impiegati dalla società e tra le PASSIVITA’, le fonti di finanziamento. Le voci sono ordinate in base all’arco temporale di riferimento.

Il Conto Economico è il documento di bilancio che, contrapponendo i costi ed i ricavi di competenza del periodo amministrativo, illustra il risultato economico della gestione del periodo considerato misurando, in questo modo, l'incremento o il decremento che il capitale netto aziendale ha subito per effetto della gestione.

IAccantonamenti ed ammortamenti K = G-HMargine operativo lordo (MOL)

S = Q-RRisultato d’esercizioRImposte

Q = L-M-N-ORisultato ante imposteOSaldo proventi e oneri straordinari (gestione straordinaria)NSaldo gestione atipicaMSaldo proventi e oneri finanziari (gestione finanziaria)

L = K-IRisultato operativo

HCosti del personaleG = D-E-FValore Aggiunto (VA)

FCosti per servizi correlati (e lavorazioni esterne)ECosti operativi (acquisti e var. magazzino acquisti)

D = A+B+CTotale valore della produzioneCAltri ricaviBVariazione scorte ARicavi

Page 78: Appunti Economia Imprese e Settori 2006-2007_V1 by Dani&Anto

Gli indici di Bilancio sono degli indicatori con i quali vengono sintetizzate le informazioni che si possono ottenere dall'esame attento e analitico dei bilanci di esercizio. Servono per studiare e controllare gli aspetti più caratteristici della gestione aziendale. I più comuni sono:

ROS – Return on Sales

ROI – Return on Investment

ROA – Return on Assets

ROE – Return on Equity

Profit/margin ratio

Risultato operativoRicavi

Risultato operativoRicavi

Risultato operativoCapitale investitoRisultato operativoCapitale investito

Risultato ante imposteCapitale investito

Risultato ante imposteCapitale investito

Risultato d’esercizioPatrimonio netto

Risultato d’esercizioPatrimonio netto

Risultato ante imposteRicavi

Risultato ante imposteRicavi

Indici per la misurazione della performance in termini tecnico-qualitativi, di gestione delle risorse e soddisfazione del consumatore I risultati tecnico-qualitativa sono risultati in termini di efficienza tecnica che si riflettono sulla qualità tecnica del prodotto (% prodotti difettosi, vita media prodotto, etc) (lato della domanda). E’impossibile applicare gli stessi indicatori a tutti i settori, al contrario, la scelta dei parametri per valutare la performance tecnico-qualitativo è effettuata ad hoc ogni volta e di conseguenza spesso non sarà possibile fare raffronti tra settori diversi. I risultati di gestione delle risorse sono risultati in termini di efficienza del processo produttivo, ovvero nella gestione ed amministrazione delle risorse (lato dell’offerta). I più comuni indicatori sono:

Produttività media di un fattore

Output (o Ricavi)

Quantità fisica del fattore=Produttività media

di un fattoreOutput (o Ricavi)

Quantità fisica del fattore

Output (o Ricavi)

Quantità fisica del fattore=

Grado di rotazione delle scorte

Ricavi

Giacenze finali di magazzino=Grado di rotazione

delle scorteRicavi

Giacenze finali di magazzino

Ricavi

Giacenze finali di magazzino=

La critica che viene fatta a questo ultimo indicatore è che vengono utilizzate due unità di misura diverse cioè prezzo del venduto (Ricavi) e costo di produzione (Giacenze). Inoltre il calcolo di questo indicatore avviene a fine anno, mentre sarebbe più preciso fare un calcolo mensile e successivamente una media annuale. Per quanto riguarda i risultati di gestione delle risorse finanziarie, gli indicatori più comuni sono:

Quick test =Capitale circolante – Magazzino

Passività a breveQuick test =

Capitale circolante – Magazzino

Passività a breve

Capitale circolante – Magazzino

Passività a breve

Rapp. di indebitamento Debito

Attivo=Rapp. di indebitamento Debito

Attivo

Debito

Attivo=

Il quick test mostra se l’impresa è in grado di fronteggiare le spese future. La critica che viene fatta a questi indici sta nella loro difficoltà di utilizzo per comparazioni inter-settoriali dovuta all’elevata diversità tra le singole imprese. Questi indici vengono invece molto spesso usati per confrontare la posizione dell’impresa rispetto alla media settoriale. Gli indici di customer satisfaction servono per misurare il grado di soddisfazione complessiva del consumatore (non solo la qualità tecnica). La misurazione presenta notevoli difficoltà poiché la

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qualità del prodotto si basa su parametri differenti (estetici, tecnici, funzionali) che variano in base al consumatore ed al prodotto di riferimento. I più comuni sono ACSI (USA), ECSI (pan-europeo). E’ utile attuare una scomposizione delle performance per avere risultati maggiormente attendibili. Le scomposizioni più comuni sono per:

1) Per gruppi strategici (Differenti comportamenti strategici possono accompagnarsi ad un diverso uso della leva finanziaria,… )

2) Per segmenti 3) Per canali di vendita (Differenti quote del fatturato realizzata attraverso un dato canale

(trend) o differente redditività dei canali (legata alla lunghezza)) 4) Per area geografica (Redditività delle diverse aree geografiche oppure penetrazione

geografica (quota di mercato acquista)) La relazione tra performance e struttura/comportamenti Esistono due diverse correnti di pensiero riguardo alla cause che determinano le performance: secondo la versione strutturalista (scuola di Harvard) la struttura è la principale responsabile delle performance medie delle imprese del settore, secondo la versione comportamentista (scuola di Chicago) invece è il comportamento delle imprese il principale responsabile delle performance del settore. Per verificare la relazione tra struttura e performance sono stai attuati diversi metodi. Inizialmente il metodo più semplice utilizzato è stato quello di compiere una regressione con variabile dipendente le Performance e con variabili indipendenti caratteristiche tipiche della struttura. Performance = a + b (Struttura). Le ipotesi di partenza sono che le variabili strutturali siano esogene e che l’effetto delle variabili strutturali sia uguale per tutte le imprese. Benin negli anni ‘50 trovò con questo modello una correlazione tra Concentration Ratio e ROI. Successivamente però il modello di Benin fu considerato lacunoso e si aggiunsero nuove variabili alla regressione, in particolare vennero aggiunte al Concentration Ratio le barriere all’entrata (di diversi tipi) πj = a + b CRj + c BEj1 + d BEj2 + e BEj3. Anche in questo caso fu riscontrata una correlazione positiva tra grado di concentrazione e profitti conseguiti, ma emerse che mancava una relazione lineare in questo rapporto e che tale correlazione era apprezzabile solo ad alti livelli di concentrazione. Fu riscontrata invece una correlazione più apprezzabile e robusta tra barriere all’entrata e grado di profittabilità. La versione comportamentista si contrappose a questo approccio con la critica di Demsetz. Secondo Demsetz l’esistenza di una relazione positiva tra profitti e concentrazione non implica necessariamente che la concentrazione permette di sfruttare il potere di mercato inoltre le imprese più efficienti hanno profitti più alti e quote di mercato più elevate, quindi le differenze tra i costi possono spiegare sia i profitti sia la concentrazione del settore (la concentrazione è la conseguenza dell’esistenza di imprese efficienti e non la causa di una maggiore profittabilità). Le regressioni sulle performance studiate dai comportamentismi aggiungevano alle variabili dei strutturalisti delle variabili riferite alle strategie arbitrariamente adottate dalle imprese (come la dimensione) πij = f (CRj, BEj, SIZE, MSi, R&Di, ADVi). I risultati di queste regressioni hanno evidenziato come le variabili utilizzate dagli strutturalisti avevano un effetto limitato sulle performance a differenza dei quelle dei comportamentismi. Il passo successivo in questa analisi è stato quello di introdurre anche le variabili derivanti dalla linea di business πijh = f (Caratt. settore, Caratt. Impresa, Caratt. Linea di Business). Questo passaggio ha evidenziato che le caratteristiche della linea di business contano per un 80%, le caratteristiche del settore contano per un 20% mentre le caratteristiche dell’impresa contano in modo irrilevante. Le principali variabili che incidono sulla profittabilità (ROI) della linea di business in modo direttamente proporzionale sono:

1) tasso di crescita del mercato

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2) tasso di crescita dei prezzi 3) quota di mercato 4) utilizzazione degli impianti produttivi 5) grado d’integrazione verticale

Le variabili che sono inversamente correlate sono invece: 1) spese per marketing e R&D 2) elevata intensità degli investimenti

La critica a questo modello è che la regressione ipotizza che il profitto sia influenzato, in maniera diversa, da tutte le dimensioni strategiche, ma con un pattern comune a tutte le imprese del settore. Se esistono gruppi d’imprese che fanno un uso differente delle variabili strategiche (bassi volumi ed elevata qualità vs. grandi volumi e bassa qualità), è inutile stimare una relazione di “impatto medio” sul profitto. La relazione tra performance ed efficienza allocativa e produttiva Si ipotizza che settori maggiormente profittevoli potrebbero essere quelli più efficienti in termini produttivi e di allocazione delle risorse oppure settori caratterizzati da un maggiore potere monopolistico (elevate barriere all’entrata). L’efficienza produttiva è raggiunta quando le imprese producono a costi medi minimi, l’efficienza allocativa si raggiunge quando la quantità scambiata è quella socialmente ottimale (prezzo = costo marginale, concorrenza perfetta). Nel caso di concorrenza perfetta il prezzo = costo marginale, esiste efficienza allocativa, esiste efficienza produttiva e l’indice di Lerner = 0. Nel caso di industrie con costi decrescenti lo sfruttamento delle economie di scala produce una crescita dimensionale delle imprese e delle sue quote di mercato, un indice di Lerner > 0 e un’ allocazione non efficiente delle risorse (prezzo ≠ costo marginale). Quindi esiste un trade-off tra efficienza produttiva ed efficienza allocativa.

QM

D

CMe Monopolio

Q

M

CMg Con=CMe Con=Offerta

QC

PC

PM

RMg

QM

D

CMe Monopolio

Q

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CMg Con=CMe Con=Offerta

QC

PC

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In blu area di perdita di efficienza produttiva (caso di concorrenza perfetta), in rosso area di perdita di efficienza allocativa (monopolio). La situazione da preferire è quella che innesca una perdita minore nel caso considerato. Le autorità garanti dei mercati vigilano sulle operazioni di Fusione-Acquisizione per verificare che non comportino esclusivamente un aumento del potere monopolistico, senza alcun beneficio collettivo (anti-trust). Secondo la scuola di Harvard bisogna vigilare sui settori altamente concentrati perché sede di un maggiore potere monopolistico, maggiori profitti e di conseguenza una minore efficienza allocativa. Secondo la scuola liberista di Chicago, invece, una maggiore concentrazione è determinata da una maggiore efficienza produttiva, sono consapevoli comunque che la maggiore concentrazione può a volte essere dovuta a situazioni temporanee di squilibrio, ma considerano l’intervento pubblico costoso ed inefficace.

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G7_I DISTRETTI INDUSTRIALI Principali approcci teorici (neo-marshalliano, cognitivo e relazionale) A cavallo degli anni ’70 il sistema economico nazionale italiano muta e si assiste ad una forte crescita. Questa crescita però, non era spiegabile con i modelli precedentemente conosciuti, infatti non erano presenti imprese in grado di raggiungere quelle economie di scala che garantivano la crescita nel fordismo. Era necessario dunque un nuovo paradigma in grado di interpretare il cambiamento industriale. Tale paradigma fu trovato con l’identificazione di un nuovo soggetto presente nell’economia industriale italiana: il distretto industriale. Secondo l’approccio classico neo-marshalliano economie esterne di localizzazione sono conseguibili da piccoli operatori spazialmente concentrati se il processo produttivo è scomponibile in fasi (concetto analogo alla economie di scala).La concentrazione spaziale e la specializzazione settoriale promuovono: la riproduzione delle competenze, la diffusione della conoscenza, l’impiego di macchinari specializzati, lo sviluppo di attività sussidiarie, la formazione di un mercato del lavoro specializzato, lo sviluppo di industrie complementari. I vantaggi generati dalle economie esterne sono minori costi di produzione, minori costi di transazione, minori asimmetrie informative, maggiore progresso tecnico. Non basta solo la vicinanza tra le imprese a generare il successo di un distretto industriale che è in realtà un ambiente caratterizzato da relazioni tra gli attori specifiche e rappresentative di un aggregato storicamente e geograficamente determinato. Fondamentale per il successo di un distretto è dunque l’atmosfera industriale cioè l’insieme di caratteristiche sociali e produttive (intangible assets) appartenenti al particolare contesto sociale, che lo qualificano come sistema sociale cognitivo. Una definizione di distretto: “un’entità socio-territoriale caratterizzata dalla compresenza attiva, in un’area territoriale circoscritta, naturalisticamente e storicamente determinata, di una comunità di persone e di una popolazione di imprese industriali”. Secondo tale approccio i criteri di identificazione della presenza di un distretto industriale stanno: (1) presenza di divisione e specializzazione del lavoro cioè parcellizzazione del processo produttivo in molteplici fasi distinte ed altamente specializzate e divisione del lavoro orizzontale e verticale tra le imprese. La divisione verticale del lavoro consente di riorganizzare la produzione modificando la combinazione di produttori generando una notevole flessibilità, la specializzazione verticale favorisce l’ uso specializzato della risorse e l’ introduzione d’innovazioni (adattive ed incrementali). La forte divisione del lavoro orizzontale e verticale tra le imprese innesca due meccanismi virtuosi cioè (2) coesistenza di cooperazione e competizione che genera un elevato grado di dinamismo positivo all’interno del distretto. Questi meccanismi sono dovuti dunque al coordinamento automatico tra imprese complementari e alla competizione tra imprese che producono prodotti sostituibili. Il distretto è un incubatore di nuove imprese, ma non di crescita dimensionale, all’interno di un distretto, infatti, è possibile identificare una notevole (3) propensione all’imprenditorialità. La presenza di modello di successo, attraverso processi sociali di tipo imitativo, infatti, riduce i costi percepiti di start-up favorisce fenomeni di spin-off (il meccanismo che si innesca quando una società che faceva parte in origine di una più grande diventa indipendente). Le critiche fatte al modello classico sono quelle di aver focalizzato eccessivamente l’analisi sul distretto nel suo insieme (livello meso), sottovalutando il ruolo fondamentale dell’impresa distettuale (livello micro), inoltre dedica poca attenzione alle modalità di formazione, alle traiettorie di crescita ed alle dinamiche evolutive del sistema. I nuovi approcci evidenziano la natura evolutiva dei distretti e mirano a spiegare la molteplicità di traiettorie di sviluppo emerse in Italia.

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L’approccio cognitivo pone l’attenzione sull’attività di creazione e diffusione della conoscenza all’interno dei distretti. L’evoluzione del distretto è spiegata dai diversi processi di apprendimento:

1) Apprendimento interno (impresa): la specializzazione di fase e la bassa divisione interna del lavoro generano lo sviluppo di specifiche competenze tecniche e meccanismi di learning by doing;

2) Apprendimento collettivo (territorio): l’alta mobilità del lavoro interna al distretto e l’alta contiguità spaziale al suo interno genera meccanismi di replicazione delle conoscenze e di diffusione dell’innovazione; l’innovazione che si genera all’interno del distretto sarà senza “ricerca e sviluppo”, inclusiva verso l’interno (facilmente appropriabile ed imitabile), esclusiva verso l’esterno (utilizzabile esclusivamente in determinati contesti). Queste caratteristiche genereranno delle barriere all’entrata, ma potrebbero condurre a dei meccanismi di stasi e di isolamento (sistema cognitivo chiuso).

3) Apprendimento cooperativo (inter-impresa): la volontà collaborativa e l’instaurazione di rapporti stabili e duraturi (formalizzati e non) genera meccanismi di cooperazione tra imprese che decidono di relazionarsi ad attori esterni. In questo caso il meccanismo di apprendimento è generato dalle imprese stesse che decidono di cooperare, quindi è indipendente dalla struttura del distretto.

L’approccio relazionale utilizza le connotazioni di matrice aziendalista del termine di rete (cioè insieme di unità esterne/interne e ruoli o persone all’interno dell’azienda). Gli elementi costitutivi di una rete sono le relazioni che la compongono e i nodi (gli attori presenti). Esempi tipici di soluzioni organizzative e gestionali che richiamano la rete esterna:

costellazione d’imprese: insieme di aziende, guidate da un leader, che convergono verso un obiettivo comune

hollow corporation: impresa che attua un decentramento estremo, limitandosi alla regia industriale (es. alta moda)

i distretti industriali

Il principale approccio reticolare all’analisi dei distretti si basa su due punti: 1) Individuare l’impresa centrale e quella nodale ed i reciproci legami (accento sulle condotte strategiche, peso minore del sistema) 2) Evidenziare la complessità strutturale dei distretti: distretto come hyper-network (rete di reti)

Le architetture reticolari possibili sono:

1) Raggruppamento di PMI specializzate su singole fasi del processo che interagiscono in condizioni di sostanziale simmetria relazionale per un breve periodo 2) Impresa guida che costituisce il fulcro del network organizzativo stabile (“moderata gerarchizzazione”) 3) Alcune imprese che coordinano la direzione del distretto (una via di mezzo tra le prime due). Simile alla precedente, ma minori asimmetrie relazionali tra impresa centrali (coordinatore) e nodali

La metodologia ISTAT per la rilevazione territoriale dei distretti La metodologia adottata dall’ISTAT per l’individuazione dei distretti assume come unità territoriale d’analisi il sistema locale del lavoro (SLL) e prevede 4 stadi: individuazione dei sistemi locali manifatturieri individuazione dei sistemi locali manifatturieri di PMI individuazione dell’industria principale di ciascun sistema locale manifatturiero di PMI individuazione dei sistemi locali manifatturieri di PMI la cui industria principale è costituita daPMI 1° Stadio – Concentrazione manifatturiera Sono considerati sistemi locali manifatturieri i sistemi locali in cui la concentrazione territoriale di occupazione manifatturiera è superiore alla media nazionale LQm=[(Ama/Ata)/(Ami/Ati)] > 1,00.

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Ama=media addetti locali; Ata=media addetti totali; Ami=media addetti italiani, Ati=media addetti totali italiani. 2° stadio - Concentrazione manifatturiera di PMI Sono considerati sistemi locali manifatturieri di PMI, i sistemi locali in cui la concentrazione territoriale di occupazione manifatturiera di PMI è superiore alla media nazionale LQ250,m=[(A250ma/Ama)/(A250mi/Ami)] > 1,00 3° stadio – Specializzazione produttiva L’industria principale (Ip) di ciascun sistema locale manifatturiero di PMI è quella che presenta il valore massimo del coefficiente di concentrazione, calcolato come quota percentuale degli addetti dell’ industria manifatturiera locale superiore al valore della media nazionale LQp=max[(Asa/Ama)/(Asi/Ami)] 4° stadio – Specializzazione produttiva di PMI L’individuazione dei Distretti Industriali come sistemi locali manifatturieri di PMI la cui Ip è costituita da PMI si basa sull’occupazione PMI operanti nell’industria principale (superiore alla metà degli addetti di tutte le altre imprese operanti nell’Ip), Ip= (A250,pa/Apa)>0,50. Il ciclo di vita dei distretti e traiettorie evolutive Il ciclo di vita dei distretti è costituito da 5 fasi fondamentali: 1) Formazione - Sono due le principali modalità potenziali di formazione (non mutuamente esclusive): il progressivo sviluppo di sistemi ad artigianato diffuso, tipici dei settori tradizionali del Made in Italy (es. Tessile- Carpi) e processi di decentramento produttivo promossi da grandi imprese integrate per fronteggiare crisi di mercati. Questi due meccanismi generano un ispessimento localizzato d’imprese caratterizzato da comportamenti imitativi che difficilmente è riproducibile artificialmente (ad es. con programmi internazionali). L’area è caratterizzata da relazioni tra imprese caratterizzate da individualismo ed assenza di accordi, relazioni di sub-fornitura di monocommittenza di tipo gerarchico e da sviluppo spontaneo estensivo basato sull’imitazione. Si instaura dunque una specializzazione di fase in un sistema locale capace di fornire prodotti finiti o semilavorati di qualità standard a bassi costi. 2) Lo sviluppo: fase caratterizzata da un incremento della numerosità imprese, da occupazione e produzione, specializzazione del processo produttivo, sviluppo di attività sussidiarie e complementari. Si costituisce così un’ area di sistema integrata in cui aumentano le interrelazioni tra imprese e le relazioni di sub-fornitura di pluricommittenza di tipo negoziale. 3) La maturità: fase in cui si verifica il rinnovamento/sostituzione degli elementi di vantaggio competitivo. Si instaurano diverse possibili direttrici di cambiamento promosse da attori interni (o esterni) maggiormente dinamici. Diverse evoluzioni determinano effetti differenti sull’organizzazione interna del distretto e sulle sue connessioni con l’esterno. 4) (Rivitalizzazione): eventuale fase in cui l’impresa, per evitare la fase di declino, attua un riposizionamento. 5) Il declino: è la fase di estinzione del sistemo produttivo locale determinata da fenomeni di natura strutturale (nuovi concorrenti, tecnologie alternative, crisi consumi). Eventi rari data la capacità di riposizionamento e adattamento dei distretti. Fattori critici La rivoluzione tecnologica ha generato una riduzione del costo di elaborazione e circolazione dell’informazione. Più l’informazione può essere formalmente codificata più gli incrementi di produttività derivanti sono maggiori. Inoltre sono più significativi se associati a cambiamenti dell’organizzazione formale delle imprese.

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Globalizzazione: divisione del lavoro tra aree a diverse dotazione di fattori; outsourcing delle multinazionali Dinamiche di mercato: maturità del mercato interno; accresciuta importanza dell’export; forte pressione competitiva internazionale Cambio generazionale Traiettorie evolutivePercorsi path-dependet :Sistemi stazionari che seguono percorsi evolutivi di tipo inerziale senza modifiche sostanziali della struttura interna Percorsi path-breaking: Sistemi che nel corso del tempo registrano sostanziali modifiche della strutturazione interna e del posizionamento strategico PERCORSI PATH-DEPENDENT Rischio di declino più elevato di fronte a cambiamenti esogeni rilevanti La crescente competizione dei paesi di nuova industrializzazione promuove fenomeni di delocalizzazione produttiva (es. TPP del sistema moda): importanti ripercussioni sui distretti, (specie su quelli “satellite”) Effetti della delocalizzazione produttiva sul distretto: riduzione imprese ed occupazione; aumento importazione semi-lavorati; selezione e consolidamento rapporti con fornitori. Si può intervenire con la Rivitalizzazione: Riposizionamento strategico delle imprese minori (riqualificazione); Strategie di nicchia; Rafforzamento della cooperazione commerciale (consorzi per l’export.) O si ha il Declino PERCORSI PATH-BREAKING L’evoluzione non è vincolata dalle peculiari condizioni iniziali ma determinata da attori propulsivi del cambiamento. Si possono avere processi involutivi (dissoluzione della struttura distrettuale) o processi evolutivi (alterazione della struttura organizzativa interna mantenendo il carattere sistemico) Gerarchizzazione sostitutiva endogena Imprese leader internalizzano e/o delocalizzano fasi del processo produttivo Involuzione del distretto che tende ad assumere la connotazione di una rete centrata caratterizzata da: perdita di autonomia delle imprese, riduzione della divisione del lavoro, modifica dei modelli di apprendimento ed innovazione Gerarchizzazione per linee esterne Acquisizione di altre imprese distrettuali miranti a: ridurre concorrenza interna e/o aumentare efficienza produttiva, strategie d’integrazione orizzontale/verticale, Assunzione del controllo diretto delle fasi strategiche del processo produttivo Gerarchizzazione sostitutiva esogena Acquisizioni esterne da parte di imprese multinazionali che internalizzano nella loro rete organizzativa le principali funzioni strategiche distrettuali Compatibilità tra strategie dei leader e l’evoluzione del sistema dipende da:le imprese leader mantengono rapporti con il resto delle imprese del distretto pluralità d’imprese coinvolte nel cambiamento transazioni guidate

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SYLLABUS

Economia dell’impresa e dei settori

Syllabus della PARTE PRIMA: Economia dell’impresa

• L’impresa nel sistema economico (Boccella, D’Orlando: Il flusso circolare del reddito)

Circuito economico semplice e allargato Funzioni economiche e soggetti economici Reddito, domanda aggregata e relazioni macroeconomiche Sistema produttivo e suoi livelli di analisi

• Mercato e impresa (Del Bono, Zamagni: Il meccanismo di mercato e la formazione dei prezzi) Definizioni e caratteri del mercato

Definizione di domanda e di offerta Posizione della curva di domanda e della curva di offerta Concetti di elasticità Elasticità della spesa e del ricavo Surplus del produttore e del consumatore Mercati fix-price e mercati flex-price Aggiustamento walrasiano e marshalliano del mercato flex-price

• L’impresa, la sua evoluzione e i modelli interpretativi (Amatori: Forme di impresa in

prospettiva storica; Grillo-Silva: 1. Economia ed economia industriale) Caratteri per una tassonomia economico-organizzativa dell’evoluzione delle forme di impresa Modelli di impresa Ambienti nazionali e processi evolutivi delle forme di impresa Economia industriale e scienza economica Paradigmi interpretativi dell’economia industriale

• Teoria tradizionale dell’impresa: costi, ricavi, profitti (Grillo, Silva: 5. Costi)

Uno schema analitico per l'analisi economica dell'impresa Concetti di costo e di economie Teoria marginalista dei costi Dimostrazione analitica del rapporto fra curve dei costi e curve di prodotto La funzione del ricavo e le tipologie di mercato

• Teoria tradizionale dell’impresa: concorrenza, monopolio e concorrenza monopolistica (Grillo, Silva: 6: La teoria della struttura industriale)

L'equilibrio dell'impresa in concorrenza perfetta L'equilibrio dell'impresa in monopolio La discriminazione del prezzo L'equilibrio dell'impresa in concorrenza monopolistica Confronti di benessere fra le tre forme di impresa

• Teorie dell’oligopolio (Grillo, Silva: 7. L’oligopolio e i modelli di variazioni congetturali) Caratteri generali della teoria tradizionale dell’oligopolio Funzioni di isoprofitto e di risposta ottima

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I modelli: Cournot, Bowley, Osborne, Bertrand, Sweezy, Stackelberg • Teorie manageriali dell’impresa (Fornengo: 2. L’impresa manageriale occidentale)

Caratteri generali dell’impresa manageriale Il modello di Baumol Il modello di Marris di Marris

• L’impresa come istituzione Fornendo: 1. L’impresa come organizzazione; 3.Le ipotesi

comportamentistiche; 4. L’approccio contrattualistico) L’impresa come istituzione: approcci e teorie L’impresa contrattualista: caratteri generali e organizzazione L’analisi sistemica: concetti, metodologia e applicazione allo studio dell’impresa Il modello comportamentista di Cyert e March L’impresa sistemica

Economia dell’impresa e dei settori – Modulo II Il settore come sottosistema dell’economia:

problemi definitori; teorie economiche; applicazioni operative

L’approccio all’analisi di settore e l’influenza delle forze esterne:

l’approccio struttura–comportamenti–risultati; la struttura del settore; l’analisi dell’influenza dello Stato e dell’ambiente macroeconomico

L’analisi della domanda:

l’analisi delle tipologie di domanda; la segmentazione: definizione e tecniche d’identificazione; la differenziazione: mappe di posizionamento dei prodotti e teorie economiche; metodi statistici per la stima della domanda (modelli causali ed autocorrelati)

L’analisi dell’offerta:

l’analisi delle caratteristiche delle imprese; il grado di concentrazione, integrazione e diversificazione; le barriere all’entrata ed all’uscita; l’analisi delle fasi del processo produttivo e dei fattori critici di successo: la catena del valore di

Porter e gli elementi chiave della fasi di approvvigionamento, di produzione (economie di scala, di varietà, di multilocalizzazione e di apprendimento) e di distribuzione

L’analisi del comportamento delle imprese:

i comportamenti strategici; le principali tecniche di rilevazione dei gruppi strategici: la metodologia di Porter, la cluster

analysis e l’analisi delle componenti principali L’analisi della performance:

stato patrimoniale, conto economico ed indici di bilancio;

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indici per la misurazione della performance in termini tecnico-qualitativi, di gestione delle risorse e soddisfazione del consumatore;

la relazione tra performance e struttura/comportamenti; la relazione tra performance ed efficienza allocativa e produttiva

I distretti industriali:

principali approcci teorici (neo-marshalliano, cognitivo e relazionale); la metodologia ISTAT per la rilevazione territoriale dei distretti; il ciclo di vita dei distretti, traiettorie evolutive ed internazionalizzazione