APPUNTI DI STORIA DEL DIRITTO ROMANO e Linee Di Diritto Privato Le Costituzionali

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LE FORME COSTITUZIONALI L’ETA’ DELLE ORIGINI La nascita di Roma L’orientamento prevalente è per una datazione alta della fondazione del primo nucleo della città, che si fa risalire approssimativamente alla metà dell’ottavo secolo a.C., confermando il racconto tradizionale, dove si parla di anni intorno al 750. Colui al quale venne attribuita la fondazione della città, in un’area compresa fra l’ultimo tratto del Tevere e una breve catena di colli, già al centro di un intenso traffico commerciale e di una serie di insediamenti “precittadini” - una persona chiamata Romolo – lascia intravedere, pur attraverso la rielaborazione leggendaria, tutti i caratteri di uno di questi personaggi: un guerriero “senza famiglia”, figlio di un dio, e immaginato capace di uccidere il fratello pur di affermare l’inviolabilità del nuovo spazio che aveva appena fatto nascere. La città e i re La prima città prende dunque forma entro una rete di poteri fragile, fluida, ma ben delineata: il culto, le armi, il popolo, la proprietà della terra. Al centro vi era una mentalità aristocratica. Intorno alle pratiche magico-religiose dei sacerdoti, e con le imprese dei condottieri a capo del popolo, prese forma la più antica dimensione unitaria della città. La socializzazione attraverso i legami di clan (e non tramite circuiti politici di un corpo civico) e la differenziazione aristocratica marcarono indelebilmente la città nel suo sviluppo. La più remota struttura di potere da identificare nella storia della città è una specie di “meccanismo unico” re-sacerdoti: la chiave di tutta l’età pre-etrusca di Roma. Oltre le figure del re e dei sacerdoti, la Roma più arcaica aveva visto emergere, intorno ai legami tra il popolo, anche l’inizio di una trama istituzionale, che però dovette formarsi successivamente alla fondazione della città. Si può identificare i punti salienti in due elementi. Il primo è in un’assemblea di ‘notabili’, costituita dai padri a capo delle popolazioni più importanti. Era il nucleo del successivo senato. Il secondo era invece rappresentato dalla presenza di una specie di reticolo distributivo che divideva l’intera popolazione maschile della città in tre “tribù” (i RAMNES, i TITIES e i LUCERES), ognuna di

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LE FORME COSTITUZIONALI

L’ETA’ DELLE ORIGINILa nascita di Roma

L’orientamento prevalente è per una datazione alta della fondazione del primo nucleo della città, che si fa risalire approssimativamente alla metà dell’ottavo secolo a.C., confermando il racconto tradizionale, dove si parla di anni intorno al 750. Colui al quale venne attribuita la fondazione della città, in un’area compresa fra l’ultimo tratto del Tevere e una breve catena di colli, già al centro di un intenso traffico commerciale e di una serie di insediamenti “precittadini” - una persona chiamata Romolo – lascia intravedere, pur attraverso la rielaborazione leggendaria, tutti i caratteri di uno di questi personaggi: un guerriero “senza famiglia”, figlio di un dio, e immaginato capace di uccidere il fratello pur di affermare l’inviolabilità del nuovo spazio che aveva appena fatto nascere.

La città e i re

La prima città prende dunque forma entro una rete di poteri fragile, fluida, ma ben delineata: il culto, le armi, il popolo, la proprietà della terra.Al centro vi era una mentalità aristocratica. Intorno alle pratiche magico-religiose dei sacerdoti, e con le imprese dei condottieri a capo del popolo, prese forma la più antica dimensione unitaria della città.La socializzazione attraverso i legami di clan (e non tramite circuiti politici di un corpo civico) e la differenziazione aristocratica marcarono indelebilmente la città nel suo sviluppo. La più remota struttura di potere da identificare nella storia della città è una specie di “meccanismo unico” re-sacerdoti: la chiave di tutta l’età pre-etrusca di Roma. Oltre le figure del re e dei sacerdoti, la Roma più arcaica aveva visto emergere, intorno ai legami tra il popolo, anche l’inizio di una trama istituzionale, che però dovette formarsi successivamente alla fondazione della città. Si può identificare i punti salienti in due elementi. Il primo è in un’assemblea di ‘notabili’, costituita dai padri a capo delle popolazioni più importanti. Era il nucleo del successivo senato. Il secondo era invece rappresentato dalla presenza di una specie di reticolo distributivo che divideva l’intera popolazione maschile della città in tre “tribù” (i RAMNES, i TITIES e i LUCERES), ognuna di esse, a sua volta, frazionata in dieci unità. Queste formavano le trenta curie, la cui convocazione congiunta dava vita a una riunione in seguito nominata comizio curiato, soprattutto con funzioni rituali. Nel sento secolo si assiste all’emergere del primo cittadino: con il grande periodo etrusco. Il “meccanismo unico” re-sacerdoti comincia a perdere peso: il nuovo equilibrio si sposta ora sull’asse non mistico ma propriamente politico fra re e d esercito.

La monarchia etrusca nella tradizione romana

Almeno due degli ultimi tre re furono di origine etrusca, Tarquinio Prisco e Tarquinio il Superbo, qualche dubbio su Servio Tullio. Con Tarquindio Prisco la città fu invasa da una serie di iniziative: una grandissima serie di opere pubbliche, come acquedotti, fognature, lastricati delle strade, templi, circo e ippodromo. In

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particolare la pavimentazione fece del Foro il centro degli affari pubblici e privati. Inoltre fu introdotta la coltivazione dell’olivo. La città crebbe anche dal punto di vista demografico e territoriale. La città dopo il regno di Anco Marcio si sarebbe fatta più sapiente, secondo cicerone, per l’innesto di una cultura estranea a quella delle origini.

La riforma serviana

Tarquinio Prisco , succeduto ad Anco Marcio, elevò il numero dei senatori portandolo da duecento a trecento. Lo scopo sembrava quello di creare un gruppo certamente favorevole al nuovo monarca.Sembra che Servio abbia deciso un’ulteriore suddivisione della cittadinanza ripartendola in tribù territoriali, di cui quattro urbane e altre extra-urbane: dividere i cittadini in base alla localizzazione degli immobili di loro proprietà. Queste tribù dovevano funzionare come distretti di leva e curare l’esazione dei tributi direttamente dai singoli cittadini. Avvenne la trasformazione dell’adunata dei militari per centurie in una vera e propria assemblea politica: non sarebbe stato possibile escludere a lungo dalla partecipazione dell’esercizio del potere pubblico, quei cittadini che pur sostenevano le spese, le fatiche, i lutti di guerra.

Verso la Repubblica

Con i nuovi legami “politici” tra i cittadini-soldati dell’esercito centuriato, il potere supremo non poteva non risultare modificato. La tradizione riferisce che fu il patriziato a scacciare Tarquinio il Superbo: il suo regno avrebbe assunto un carattere tirannico, avendo governato contro la volontà del popolo e del senato. Tito Livio narra che, a seguito dello spostamento dell’ultimo monarca, la creazione dei primi consoli sarebbe avvenuta, nel comizio centuriato, in corrispondenza alle regole stabilite in certi commentari scritti dallo stesso Servio Tullio.

L’ETA’ DELLA REPUBBLICAAlle radici del costituzionalismo moderno: la costituzione della repubblica romana

Charles-Louis de Secondat, teorico del costituzionalismo moderno, nel suo capolavoro, lo Spirito delle leggi (1748), sostiene ch, in Roma, il passaggio dal regno alla repubblica avrebbe cambiato la forma del governo, ma non il carattere della società: lo spirito del popolo romano sarebbe rimasto integro e per questo il cambiamento avrebbe determinato un miglioramento e consentito a quella piccola comunità di sottomettere quasi tutto il mondo antico, almeno in base alla dimensione geografica. Montesquieu scrive: “il governo di Roma fu straordinario, in quanto, sin dall’origine, sia per lo spirito del popolo che per la forza del senato o l’autorità di certi magistrati, la sua costituzione rese sempre possibile l’eliminazione di ogni abuso di potere”. Per lui la decadenza della repubblica romana sarebbe causata dalla rottura di questo equilibrio, quando, nel corso del primo secolo a.C., il potere non fu più conferito, con distribuzione e successione regolare, a numerose magistrature, ma accentrato nelle mani di uno solo o di pochi. Inoltre dice che il

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popolo romano, fin quando vide sfilare tanti personaggi, non si abituò mai a nessuno di loro. In questa visione c’è la teoria della divisione dei poteri, che garantirebbe un “governo libero”, cioè un “governo moderato” (“nel quale non si abusa del potere”) e quello in cui “il potere arresta il potere”.

Le origini del consolato

Sugli avvenimenti del passaggio dalla monarchia alla repubblica ci informa Tito Livio. Tra i giuristi, solo Sesto Pomponio ne parla nel suo libro del singolo manuale, sulla cui scia ci si può riferirsi:

• La monarchia finì violentemente con la cacciata dell’ultimo re, Tarquinio il Superbo (510 a.C.)

• Al posto del monarca, si istituirono da subito (509 a.C.) i due consoli, cui fu dato il potere supremo, limitato, a differenza del potere del re, dal diritto di appellarsi al popolo (PROVOCARE AD POPULUM), di invocare cioè il giudizio popolare per sottrarsi alla condanna a morte ordinata dal console.

• Le frequenti guerre cominciate da Roma con i popoli confinanti indussero talvolta alla nomina di un dittatore, il cui potere non era limitato dall’appello al popolo, e tuttavia non durava oltre 6 mesi dal conferimento: al dittatore si affiancava, come comandante in sottordine, MAGISTER EQUITUM (comandante della cavalleria).

Per quanto riguarda il racconto tradizionale, una delle ipotesi avanzate è che, nel quadro generale della fine della potenza etrusca certamente registrata sul finire del sesto secolo a.C., al monarca si sia piuttosto sostituito un MAGISTER POPULI (dittatore), aiutato da un magistrato in sottordine, comandante della cavalleria. Da questa coppia, a collegialità diseguale, avrebbe poi avuto origine la coppia consolare a collegialità eguale. Altri hanno pensato alla denominazione dei PRAETORES (pretori), derivata dalla loro funzione di comandanti militari; ed ha collegato tale nominazione con la notizia dell’esistenza di un PRAETOR MAXIMUS (dittatore), così pervenendo a supporre che, prima della coppia consolare, vi sia stata una coppia di PRAETORES-CONSULES (pretori-consoli), a collegialità diseguale. E’ stato ipotizzato che i pretori potessero essere più di due, altrimenti uno solo veniva dato il titolo di MAIOR, almeno tre. Un’ipotesi attendibile è che si sostituì, per contrappasso, nella titolarità del potere già del monarca etrusco, una coppia di magistrati temporanei, indicati dall’oligarchia patrizia, e la cui nomina era poi approvata dal popolo inteso più come esercito schierato che vera e propria assemblea.

L’emergere del conflitto tra patrizi e plebei

Il periodo che c’è tra l’instaurazione della repubblica e il decemvirato legislativo (451-450 a.C.) è segnato dall’inizio del contrasto tra i due ordini sociali del patriziato e della plebe: dal punto di vista istituzionale, questo conflitto condusse innanzi tutto alla creazione di magistrature plebee, le cui caratteristiche appaiono simili a quelle che saranno delle magistrature repubblicane in genere. I patrizi erano coloro che avevano una famosa stirpe, appartenendo ai popoli che avevano

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partecipato alla fondazione di Roma. Dalle fonti è detto che i patrizi sarebbero i discendenti dei padri scelti da Romolo quali propri consiglieri, e facenti parte del primo senato cittadino. Controversa è invece l’origine della plebe. E’ stato supposto che i plebei fossero di stirpe etnica diversa dai patrizi: questi ultimi etruschi o sabini, i primi, invece, latini. Da qui anche una diversità dei culti praticati nei due ordini, e delle rispettive divinità.All’epoca dell’instaurazione della repubblica e nel corso del conflitto tra i due ordini, la plebe rappresentava in primo luogo un ceto economico minore rispetto al patriziato, e quindi la contrapposizione ha assunto i toni di una specie di una lotta sociale. Lo strumento di pressione più efficace nei riguardi del patriziato era, per la plebe, la minaccia di sottrarsi alla leva militare, poiché ciò finiva col mettere in pericolo la sopravvivenza di Roma. D’altra parte, nelle fonti si nota la situazione di disagio economico nella quale si trovavano i plebei: i debitori, i cosiddetti NEXI (assoggettati al creditore, titolare di una potestà personale), erano soprattutto plebei. In questo contesto la plebe deve avere cominciato a premere sul patriziato per ottenere la liberazione dai debiti: le fonti narrano che i plebei sarebbero passati dalla renitenza alla leva militare alla secessione vera e propria. Pomponio riferisce che dopo diciassette anni dopo la cacciata dei re, i plebei si fossero ritirati sul monte Sacro e qui avrebbero creato i primi giudici plebei, nominati tribuni, perché un tempo il popolo era diviso in tre parti: o perché venivano creati con il suffragio delle tribù. In tale occasione la plebe avrebbe creato ulteriori propri magistrati; gli edili, così chiamati in quanto preposti ai templi, in cui la plebe si sarebbe riunita per deliberare. Livio narra inoltre che nell’accordo tra i due ordini per porre fine alla secessione, sarebbe stata garantita ai magistrati plebei la SACROSANCTITAS, cioè l’inviolabilità della loro persona, e riconosciuta la facoltà di intervenire in aiuto di ciascun plebeo minacciato dai consoli patrizi. Nello stesso accordo, sarebbe anche stata negata ai patrizi la capacità di essere eletti tribuni della plebe. La tradizione riferisce ancora di una decisione assunta dalla plebe nel 471 a.C., su proposta del tribuno Publilio Volerone, secondo cui i magistrati plebei si sarebbero dovuti eleggere comizi tributi, cioè da assemblee organizzate sulla base di una ripartizione dei votanti per tribù territoriali. Con ciò si toglieva ai patrizi la possibilità di manovrare, grazie al voto dei loro clienti, l’elezione dei tribuni.

Dal decemvirato legislativo al compromesso patrizio-plebeo

Il decemvirato legislativo governò Roma nel biennio 451-450 a.C. il collegio dei decemviri è una magistratura temporanea, creata dopo l’accantonamento di una proposta di origine plebea, presentata nell’anno 462 in avanti, dal tribuno Terentilio Arsa, e volta all’istituzione di un collegio di cinque cittadini con il compito di scrivere leggi limitando il potere supremo dei consoli. Livio narra che la successiva creazione del decemvirato è legata all’opportunità di elaborare un corpo di leggi utili ad entrambi i contrapposti ordini, ed idonee ad eguagliare la libertà tra questi, e quindi essere scritti da legislatori con comuni interessi. È il segno dell’intervento compromesso tra le due parti, conseguente alla netta opposizione del patriziato alla originaria proposta plebea, che voleva sovvertire l’ordine aristocratico, la cui garanzia era nell’illimitatezza del potere del console patrizio. Nel biennio di decemvirato legislativo, nessun altro magistrato fu eletto; e fu conferito al collegio il supremo potere della città, per cui nei suoi confronti non era ammesso, a differenza

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degli altri magistrati, il ricorso all’appello al popolo.Nel primo anno i decemviri avrebbero operato bene, riordinando il testo delle leggi, come era stato loro richiesto, esse, iscritte su tavole bronzee, furono disposte lungo il foro allo scopo di renderne più agevole l’esame da parte dei cittadini, che le avrebbero poi approvate nei comizi centuriati. Ma l’anno successivo i decemviri si sarebbero prorogati da soli e non avrebbero voluto farsi sostituire da altri magistrati, con l’intento di trattenere definitivamente il governo della repubblica. Il secondo decemvirato avrebbe governato in modo autoritario; sarebbero state compilate le due ultime Tavole, che riaffermavano il divieto di matrimonio tra patrizi e plebei. Da qui la reazione popolare, e plebea in particolare, che avrebbe condotto alla cacciata dei decemviri e al ripristino del consolato come magistratura suprema. I consoli del 449 avrebbero provveduto a fare approvare dai comizi del popolo (centuriati) tre leggi. Una relativa alla SACROSANCTITAS, e le altre due, dette leggi Valerie-Orazie, che sono controverse: l’una avrebbe parificato i plebisciti alle leggi; l’altra avrebbe proibito, sotto minaccia di morte, di creare magistrature senza appello, in reazione al deposto decemvirato. Ci furono tribuni plebei militari solo a partire dal 400: erano magistrati minori rispetto ai pretori-consoli, ma il loro potere, come supremo comando militare, era tuttavia pieno, e il conferimento anche a plebei del potere caratteristico del magistrato patrizio, aprì la strada verso la magistratura suprema. Si capisce così che i plebei non fossero soddisfatti con l’accesso al tribunato militare. Furono ragioni di tipo economico a sospingere la plebe ad andare avanti. Nel 377 a.C. i tribuni della plebe Caio Licinio Stolone e Lucio Sestio Laterano avrebbero proposto tre leggi, “tutte contro il potere dei patrizi e per il vantaggio della plebe”. La prima imponeva, sulla somma dei debiti, la sottrazione dal capitale degli interessi pagati fino a quel momento e ammetteva i debitori al pagamento del saldo del residuo capitale in tre rate eguali nel successivo triennio. La seconda vietava il possesso di un campo pubblico oltre il limite di cinquecento iugeri a testa. La terza stabiliva la fine del tribunato militare e la restaurazione del consolato, stabilendo inoltre che uno dei due consoli eletti annualmente dovesse essere plebeo. Nel 367 a.C. venne eletto al consolato Lucio Sestio (il primo console plebeo). La plebe minacciò una nuova secessione se i patrizi non avessero riconosciuto la validità delle elezioni, e così i due ordini si accordarono: i patrizi concessero che uno dei due consoli fosse plebeo, i plebei che fosse creato un nuovo magistrato preso dall’ordine patrizio, il pretore a cui fu data la funzione di amministrare la giustizia in città. Il senato decise di celebrare l’accordo con i grandi giochi: gli edili plebei si sarebbero rifiutati di assumersene l’onere, e di fronte alla disponibilità manifestata dai giovani patrizi, il senato avrebbe disposto di due edili patrizi.Il pareggiamento tra patrizi e plebei si manifestò, più tardi, anche sul piano dei sacerdozi. Il numero dei pontefici fu portato da quattro a otto e da quattro a nove quello degli auguri, con un plebiscito del 300 a.C.

La struttura della repubblica

La libera repubblica era fondata sull’interazione tra magistrati, assemblee popolari e senato. La costituzione romana continuò a svilupparsi, anche se la raggiunta parità tra patrizi e plebei, l’unione dei ceti dirigenti, il consolidarsi di procedure abituali e istituzioni fecero sì che quest’evoluzione fosse né drammatica, né innovatrice della situazione esistente.Dai romani la repubblica non fu mai vista come è intesa nel mondo moderno, cioè come ente astratto, elevato a soggetto giuridico distinto dai cittadini, dotato di una propria volontà, manifestata attraverso rappresentanti istituzionali appositamente delegati: essa costituiva

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invece una diretta espressione del popolo romano, con il quale si identificava. Viene fuori così l’idea di una partecipazione organica del cittadino alla repubblica, di cui egli si sentiva parte costitutiva.

Le magistrature repubblicane

Ai magistrati era assegnata la titolarità, e l’esercizio, del poter del popolo romano.

• I consoli. Erano i magistrati supremi della repubblica. Eletti dai comizi centuriati, duravano in carica un anno Secondo Pomponio competeva ai consoli di provvedere alla repubblica al “massimo grado”: il loro potere comprendeva ogni prerogativa necessaria al governo della città.Il console era titolare del potere, che gli assicurava una potestà di comando indefinita, però con dei limiti: la titolarità assegnata a due consoli; l’annalità; l’appello al popolo; il veto tribunizio; la creazione di altri magistrati cui si davano singoli poteri che erano già nel potere consolare.Il potere consolare si manifestava a pieno in funzione della guerra: ordinavano la leva militare, nominavano gli ufficiali, prelevavano dall’erario, conducevano gli eserciti,punivano i subordinati.Il potere in funzione del governo cittadino, gli permetteva di riunire e presiedere le assemblee popolari e il senato, di far proposte a entrambi questi consessi, di curare l’esecuzione delle decisioni prese, di disporre il prelievo tributario. Inoltre spettava al console di creare il dittatore. Il consolato era una magistratura collegiale: i consoli avevano ugualmente la titolarità del potere, che spettava a ciascuno dei due per intero e quindi poteva essere esercitato da ciascuno separatamente dall’altro, salvo il veto preventivo di quest’ultimo.

• I censori. Si occupavano di tutti gli affari pubblici. All’inizio i consoli si occupavano anche del censimento, poi non furono più in grado di farlo, e quindi vennero creati i censori. Essi erano eletti dai comizi centuriata ogni cinque anni e duravano in carica fino all’esaurimento delle loro funzioni , comunque non oltre diciotto mesi, in base a una LEX AEMILIA DE CENSURA MINUENDA del 434 a.C. non erano titolari di potere; e dovevano quindi ricorrere ai consoli dove c’èra la necessità di imporre. Le operazioni del censimento erano disciplinate, nello svolgimento, dai censori stessi con la LEX CENSENDI; e si chiudevano con una cerimonia religiosa nominata LUSTRATIO (purificazione). I censori non si limitavano a registrare le dichiarazioni dei cittadini riguardo alla composizione delle famiglie e dei patrimoni, ma in base ai dati raccolti essi provvedevano a distribuire i padri delle famiglie nelle diverse centurie dell’ordinamento centuriato e nelle diverse tribù dell’ordinamento tributo. L’iscrizione del singolo cittadino all’una o l’altra tribù o centuria non era indifferente, ma incideva direttamente sui diritti politici dello stesso, misurandone la capacità di contribuire alla formazione dell’indirizzo politico del governo della repubblica. In questa distribuzione della cittadinanza, in centurie e tribù, i censori godevano di una certa discrezionalità. Essi potevano anche valutare di attribuire il cittadino a una centuria o a una tribù meno qualificate: così il voto di quel cittadino avrebbe contato meno, addirittura nulla ai fini della maggioranza e quindi l’approvazione di una certa

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deliberazione. Ai censori spettava anche la cura del settore economico-finanziario della repubblica, provvedendo in ordine alle entrate e alle spese. Disciplinavano, tramite capitolati, gli appalti per la riscossione delle imposte e per la costruzione e la manutenzione delle opere pubbliche.

• Il dittatore. Pomponio dice che la dittatura sarebbe stata creata nella prima metà del quinto secolo a.C., per necessità di ordine militare, a causa delle numerose guerre che Roma dovette combattere. Al dittatore si conferiva il potere supremo, in quanto nei suoi confronti non era concesso di appellarsi al popolo. Questo potere on poteva durare più di sei mesi. Accanto al dittatore c’era il comandante della cavalleria: un magistrato nominato dal dittatore, al quale restava subordinato e la cui carica coincideva con quella del dittatore. Il dittatore non veniva eletto, ma nominato da uno dei consoli, di solito su autorizzazione senatoria. Tutti dovevano obbedire al potere supremo, anche gli stessi consoli. Nella dittatura si vede come l’idea romana per la quale il supremo potere, nella repubblica come nella famiglia, on deve essere frazionato.Nel 217 a.C., mori entrambi i consoli, la regola della nomina consolare venne sovvertita: Quinto Fabio massimo fu eletto dittatore. Venne fuori un processo di snaturamento che portò al non uso di questa magistratura.

• I tribuni della plebe. Eletti dai concili tributi della plebe, duravano in carica un anno. I loro poteri potevano esercitarsi solo a Roma: erano obbligati a non allontanarsi dalla città. I tribuni mantennero integro la funzione di divieto dell’azione pubblica espressa negli atti di esercizio dei poteri della comunità cittadina e dei suoi rappresentanti. Così attraverso il veto, il tribuno era in grado di proibire qualsiasi atto dei magistrati della repubblica. Potevano intercedere anche contro le deliberazioni del senato; e addirittura opporsi all’esecuzione delle sentenze giudiziarie. Dall’inviolabilità della loro persona e della loro attività, derivò ai tribuni la cosiddetta il potere supremo di reprimere (SUMMA COERCENDI POTESTAS), cioè di promuovere processi criminali; di eseguire le sentenze capitali, di sequestrare beni ecc.I tribuni cessarono di essere dei capi rivoluzionari dopo il pareggiamento tra patrizi e plebei, collocandosi a fianco della nobiltà patrizio-plebea al governo della repubblica. Così essi aggiunsero alla facoltà di convocare e presiedere l’assemblea della plebe, nel corso del terzo secolo a.C., quella in confronto dell’assemblea senatoria. Il veto e la repressione divennero strumenti disponibili dalla nobiltà, assicurando così il più efficace controllo del pubblico potere.

• Il pretore. La tradizione riferisce che il pretore urbano sarebbe stato creato per compensare i patrizi della perdita del monopolio in ordine alla titolarità della magistratura suprema. Ad esso gli venne data una funzione tecnica qual era la giurisdizione civile. Il pretore era un magistrato maggiore eletto dai comizi centuriati, ed era titolare di un potere non diverso da quello dei magistrati supremi, anche se egli era subordinato. Aveva pertanto l’iniziativa legislativa. Durava in carica un anno.

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Le principali funzioni giudiziarie dei pretori nelle questioni civili, consistevano nel dare un giudizio. Era solo nel caso delle interdizioni, che decidevano in maniera sommaria. I procedimenti davanti al pretore erano tecnicamente detti essere in iure.Accanto al pretore urbano, siccome non poteva occuparsi anche di tutti gli stranieri che arrivavano nella città, si creò un altro pretore nominato peregrino perché esercitava la giurisdizione sugli stranieri.

• Gli edili. Dopo il 367 a.C., esistevano a Roma due coppie di edili, la curule, riservata ai patrizi, e quella plebea. Alla fine le funzioni era pressoché identiche: attenevano alla sorveglianza della città, al controllo dell’approvvigionamento alimentare e dei prezzi, all’organizzazione dei giochi pubblici. I due edili inoltre erano titolari anche di una limitata giurisdizione in base alle controversie che si presentavano nei mercati.

• Magistrature minori. La più importante è la questura, come aiuto dei consoli per quanto riguardava all’amministrazione del denaro pubblico. In la col tempo vennero istituiti specifici questori provinciali per aiutare i governatori, sempre nel settore economico-finanziario. Altri magistrati furono i quattuorviri per la cura delle vie, i triumviri, detti MONETALES, per il conio delle monete, i triumviri capitali addetti alla custodia del carcere pubblico e all’esecuzione delle sentenze capitali.

Le assemblee popolari

L’idea di fondo era che il popolo, inteso come ordine a se stante, fosse in una situazione di minorità, e dovesse star soggetto all’indirizzo e al controllo di altri organi e degli stessi cittadini più abbienti.

• Comizi centuriati. L’assegnazione dei cittadini alle centurie continuava a esser operata in base all’ammontare dei patrimoni, che già nel terzo secolo a.C., dovevano essere valutati in denaro. Secondo Livio, al vertice dell’ordinamento centuriato c’erano le diciotto centurie di cavalieri, dove venivano distribuiti i cittadini più ragguardevoli. Dopo venivano i centosessanta centurie di fanti. A queste i cittadini erano assegnati in vario numero a seconda della loro appartenenza a una o all’altra delle cinque classi di censo, nelle quali erano stati inseriti dai censori, in base alla loro ricchezza. Livio aggiunge che il suffragio non era dato comunemente a tutti con lo stesso valore, ma dipendeva dalla centuria del votante. Ogni voto del cittadino contribuiva a determinare la maggioranza della centuria di appartenenza. L’ordine della chiamata alla votazione rispettava l’ordine del censo: i cavalieri, i cittadini di prima classe. Se c’era subito l’accordo non si chiamavano nemmeno quelli delle classi inferiori.I comizi centuriati potevano essere convocati solo da magistrati titolari di potere. Si convocavano per emanare una legge o una sentenza criminale o per nominare i magistrati maggiori.

• Comizi tributi. Nuova assemblea politica. Prima del 312, alle tribù territoriali partecipavano solo gli assegnatari di un fondo. Comprendevano sia patrizi che plebei, distribuiti in trentacinque tribù territorialmente,

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nelle quali tutti i cittadini romani venivano collocati per scopi elettorali e amministrativi. La vasta maggioranza della popolazione di Roma era distribuita tra quattro tribù urbane, il che significava che i loro voti erano individualmente insignificanti; come per il Comitato delle Centurie, il voto era indiretto, con un voto assegnato ad ogni tribù. Il voto era quindi pesantemente sbilanciato a favore delle trentuno tribù rurali. I Comizi Tributi si riunivano alla sorgente Comizia, nel Foro Romano, ed eleggevano gli Edili (solo quelli curulis), i Questori e i tribuni dei soldati (tribuni militum). Conducevano gran parte dei processi, finché il dittatore Lucio Cornelio Silla stabilì le corti permanenti (quaestiones).

• Concili tributi della plebe. Erano presieduti da un tribuno o da un edile, potevano deliberare leggi o sentenze; eleggevano i magistrati. Ci furono molti plebisciti legislativi, soprattutto in materia privatistica.

Il senato repubblicano

Il senato approvava e consigliava. L’approvazione si manifestava nell’autorità dei padri che consisteva nell’approvazione delle deliberazioni, legislative ed elettorali, dei comizi centuriati: solo con l’aggiunta dell’autorità la deliberazione comiziale poteva entrare in vigore. Polibio riferisce che al senato spettava il controllo di tutte le entrate e tutte le spese, ma anche di intervenire nell’amministrazione della giustizia criminale, dove c’erano reati politici, o comunque da scuotere l’opinione pubblica. Esso disponeva con piena discrezionalità, e senza che il popolo potesse interferire, nelle questioni della politica estera. Nel governare la repubblica, il senato si serviva dei propri consigli, soprattutto a quei magistrati supremi che ne facevano richiesta. Addirittura, tramite l’ultimo consulto del senato (SENATUS CONSULTUM ULTIMUM), l’assemblea poteva decretare, in un pericolo supremo per la sopravvivenza della repubblica, la sospensione delle massime garanzie costituzionali, dando ai consoli poteri che non erano titolari. Il senato decideva la presentazione si proposte ai comizi, la leva dei soldati e il loro congedo, la nomina del dittatore, l’assegnazione delle province, l’organizzazione dei territori conquistati, la deduzione di colonie ecc. La prassi precedente prevedeva che si doveva scegliere i senatori guardando gli ex magistrati. Ma in teoria qualunque cittadino ottimo poteva esser chiamato a far part del senato. Si venne così a formare una gerarchia di senatori: i censori, gli ex consoli, i pretori, i giudici, i tribuni, i questori. Il principe del senato, il più anziano dei censori, era colui che aveva il diritto di esprimere il proprio parere per primo. Senatori si restava tutta la vita. Il senato poteva esser convocato da un magistrato che avesse il diritto di agire con i padri: un dittatore, un console, un pretore, e più in la anche un tribuno plebeo. Il magistrato esponeva l’argomento sul quale i senatori sarebbero stati chiamati a deliberare. Aveva poi luogo la discussione: i senatori esprimevano la loro opinione in ordine di rango senza che vi fossero limiti di tempo all’intervento, cosa che favoriva l’eventuale ostruzionismo. Alla fine si passava alla votazione, che avveniva di solito per la materiale separazione, da una parte e dall’altra dell’aula, dei favorevoli e dei contrari alla proposta di senatoconsulto che era venuta fuori dalla discussione. Il testo del senatoconsulto era compilato per iscritto e depositato presso l’erario di Saturno.

Repubblica e tradizione familiare aristocratica

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La gestione del potere pubblico era affidata a uomini educati a non soddisfare eccessivamente ambizioni o avidità personali, ma a realizzare soprattutto gli interessi dei cittadini e delle proprie famiglie. Prima della crisi del primo secolo a.C. i governanti romani sono mediamente soddisfatti del premio della dignità: essi volevano operare bene perché così avrebbero goduto , per il coraggio e i meriti dimostrati, del pubblico riconoscimento, e con il ricordo di cercare di eguagliare la tradizione di famiglia. Inoltre erano le famiglie a impartire ai giovani destinati alle magistrature l’educazione politica, in base a un modello di comportamento condiviso tra gli aristocratici e in grado di garantire le aspettative dei cittadini. La trasformazione di Roma in impero mondiale, dopo il vittorioso scontro con Cartagine, porta con sé un cambiamento di mentalità nelle classi dirigenti: incomincia a non essere più soddisfacente l’esercizio del potere magistratuale ai fini della ricompensa della dignità pubblica e familiare. Il modello politico fondato sul senato come effettivo titolare dell’azione di governo finirà col divenire in breve inattuale: né l’aristocrazia aveva la forza per imporlo ai nuovi corpi sociali affermatisi dopo la guerra annibalica. Oramai la politica si faceva attraverso gli eserciti; e cominciava ad esserci un problema grave nell’attribuire ai governatori delle province un potere così ampio come il comando.

La crisi della costituzione repubblicana

Patercolo attribuisce l’inizio della crisi all’assassinio di Tiberio Gracco. Nel 133 a.C. Gracco aveva fatto votare un plebiscito che imponeva ai nobili latifondisti la restituzione al popolo romano del campo pubblico se lo possedevano in misura superiore ai cinquecento iugeri. Lo scopo di Gracco era quello di rigenerare quella classe di piccoli contadini che, a causa delle numerose guerre, avevano trascurato la cura dei propri terreni, inoltre danneggiate dalle devastazioni delle guerre annibaliche e non più competitivi con il mercato estero. Questi campi pubblici venivano quindi usati e sfruttati dai privati che avevano i mezzi necessari: si erano formati così, veri e propri latifondi, coltivati dalla manodopera servile, monopolizzati dall’aristocrazia senatoria, che ormai li considerava propri. Il progetto di Gracco prevedeva la restituzione del campo pubblico da parte dei latifondisti, con la ricostruzione del ceto dei piccoli proprietari, così che questi ultimi avrebbero contribuito all’incremento demografico e quindi recuperare nell’esercito la sua base di leva. Però era un progetto non facile da realizzare. Affinché gli effetti della legge non fossero annullati, Tiberio aveva previsto l’istituzione di un’apposita commissione di triumviri, alla quale erano stati attribuiti i poteri necessari alle assegnazioni, ivi compreso quello giudiziario. Per di più lo stesso tribuno aveva imposto agli assegnatari il divieto di alienazione. La LEX SEMPRONIA non era gradita alla nobiltà, la quale si opponeva perché erano state fatte delle spese per il miglioramento e che ivi si trovavano le tombe delle famiglie e che adesso erano date alle figlie. Alla fine i nobili si resero conto che non avrebbero fatto nulla se non con la violenza. Il pontefice Nasica prese spontaneamente l’iniziativa chiamando a raccolta quei cittadini che avessero voluto salvare la patria ritenendola minacciata dal movimento gracchiano: fu così che il tribuno e trecento seguaci furono uccisi dagli aristocratici capeggiati da nasica.

Dieci anni dopo la morte di Gracco, il movimento tornò a galla (a. 123 a.C.) con il fratello di

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Tiberio, Caio. Attuò una serie di interventi tra cui quello di riprendere in mano la riforma agraria dando nuovo impulso alle assegnazioni del campo pubblico, che si erano arenate dopo la scomparsa di Tiberio. Con questa legge si capisce come Caio abbia inteso innanzi tutto restituire alla commissione la sua originaria competenza. Egli cercò di favorire il ceto più povero, attraverso una LEX FRUMENTARIA che imponeva la vendita di partite di grano ad un prezzo fisso, inferiore a quello di mercato. Tra l’altro Caio era il fautore dell’estensione della cittadinanza romana ai latini. La nobiltà senatoria era il ceto sacrificato dalla larga composizione perseguita da Caio: per questo essa, nel 121 a.C., avvalendosi dello strumento del dell’ultimo consulto del senato, decise di sopprimere Gracco e i suoi partigiani, e il programma riformatore fu così messo di nuovo da parte.Dopo qualche decennio i popolari ripresero vigore appoggiandosi a Caio Mario. In quegli anni egli fu ripetuto console, sostenuto dai cavalieri e dai nullatenenti. Per questo gli si erano avvicinati i nuovi capi popolari, i tribuni Glaucia e Saturnino, la cui politica aveva ripreso qualche idea graccana ma con finalità faziose e talvolta violente: essi, a differenza di Gracco, ricercavano il sostegno nell’esercito mariano. Anche nei confronti di questi la nobiltà tramite l’ultimo consulto del senato soffocò il movimento nel sangue.Ma gli scontri tra le due fazioni erano destinati ad assumere gravità sempre maggiore a causa del progressivo venir meno del carattere non professionale dell’esercito, nel quale proprio Caio Mario aveva cominciato ad arruolare anche i nullatenenti, formando così eserciti mercenari e permanenti, disposti ad obbedire solo al loro comandante, in cambio del bollettino bellico, e di lotti di terra.

Dalla guerra sociale a Silla Alle contrapposizioni all’interno della città si aggiunse, agli inizi del I secolo a.C., il conflitto tra Roma, da una parte, e i suoi alleati latini e italici, dall’altra, che divenne guerra vera e propria (a. 91-88 a.C.) con l’obiettivo, per gli alleati di ottenere la cittadinanza romana o l’indipendenza, formando così una nuova struttura sociale di tipo federale. Roma si rese presto conto che l’esito della guerra sociale era incerto, e che la secessione degli alleati avrebbe messo in forse la sopravvivenza della repubblica romana. Così, attraverso due leggi successive (la legge Giulia che da la cittadinanza a latini e alleati del 90 a.C. e la legge Plautia Papiria che da la cittadinanza agli alleati dell’89 a.C.), fu concessa la cittadinanza a latini e italici, prima a coloro che fossero rimasti fedeli alla repubblica, astenendosi dal partecipare alla insurrezione, poi tutti i residenti in Italia che avessero dichiarato, nel termine di due mesi, e a un magistrato romano, di voler diventare cittadino. Così l’insurrezione venne bloccata e Roma torno a prendere il controllo delle terre insorte. Nel frattempo il confronto tra popolari e ottimati riprendeva a Roma, dando via a una cruentissima guerra civile, che vide contrapporsi Caio Mario e il console dell’88 a.C., Lucio Cornelio Silla. Quest’ultimo, a cui era stato tolto - per darlo a Mario – il comando della guerra contro Mitridate, re del Ponto, non esitò a marciare, con il proprio esercito, su Roma. Sconfitto l’avversario, lasciò Roma per la guerra in Oriente. A Roma così potevano riprendere il sopravvento i popolari, ma Silla vittorioso su Mitridate e tornato in Italia (a. 83 a.C.), li sconfisse definitivamente, diventando signore assoluto di Roma, nell’82 a.C. Silla si fece nominare dittatore delle leggi scritte e della costituzione repubblicana: era una magistratura differente dall’antico dittatore, in quanto il dittatore, a tempo indeterminato,

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avrebbe dovuto provvedere, con poteri illimitati e senza essere soggetto all’appello , alla riforma della costituzione repubblicana. Egli cercò di indebolire il ceto equestre. Così rese di nuovo attuale, per la riscossione delle imposte nella provincia asiatica, il sistema precedente della Legge Sempronia della provincia dell’Asia: i pubblicani venero esclusi e si assegnò l’esazione dei tributi al governatore. Ma l’esclusione più significativa riguardò l’albo dei giudici dai processi criminali delle QUESTIONES PERPETUAE, nei quali Silla sostituì i cavalieri con i senatori. Inoltre elevò il numero dei senatori portandoli a seicento, mettendovi anche esponenti del ceto equestre, sperando di attenuare la protesta. Nel contempo privò i censori del potere di escludere taluno dall’assemblea perché indegno. Alterò il tribunato plebeo togliendogli il suo potere di veto, e lasciandogli solo il compito di intervenire in favore del singolo cittadino minacciato da un atto magistratuale. In più escluse che potessero gestire magistrature curuli gli ex tribuni, che diventavano così magistrati di second’ordine. Dando ai senatori l’ufficio di giudici nei processi criminali, aveva così tolto la funzione giudiziaria ai comizi.Inoltre Silla ridusse il potere e il prestigio dei consoli: con la legge Cornelia dell’ordinamento provinciale trasformò la tradizionale distinzione tra potere di governo civile e comando militare in una rigida ripartizione di competenza tra consoli e pro magistrati. Proibendo ai consoli di esercitare il comando militare in Italia e obbligandoli a non allontanarsi da Roma trasformò i supremi magistrati della repubblica a semplici funzionari civili. Nel 79 a.C. Silla rinunciò spontaneamente dalla dittatura sostituente, , perché era convinto che con quelle riforme la repubblica avrebbe ritrovato il suo equilibrio. Ma, nei fatti, il nuovo assetto costituzionale si rivelò di breve durata, cercando di ripristinare l’ordine tradizionale.

Pompeo e Cesare

Negli anni successivi si affrontarono due altri personaggi, Gneo Pompeo e Caio Giulio Cesare. Il primo ottenne un comando straordinario per sconfiggere i pirati del Mediterraneo, che disturbavano i traffici dei cavalieri. Si trattava di un comando destinato ad essere esercitato su tutto il mediterraneo, per tre anni successivi. Un comando infinito, che suscitò la protesta dell’aristocrazia, perché avrebbe rappresentato un attentato alla libertà repubblicana. L’anno successivo (66 a.C.), inoltre, venne conferito a Pompeo il comando proconsolare per la guerra in oriente con Mitridate e Tigrane. Ristabilito l’ordine in oriente tornò in Italia e congedò gli eserciti presentandosi al senato rispettoso della legalità repubblicana. Ma finì col ritrovarsi ostacolato dall’aristocrazia impaurita dal prestigio acquisito. Per questo Pompeo preferì stringere un’alleanza con Cesare, pretore nel 62 a.C., e con Licinio Crasso: si parla di primo triumvirato. Dopo questo patto Cesare divenne console nel 59 a.C., e fece votare una serie di provvedimenti favorevoli ai suoi due alleati e, in cambio, ottenne il comando sulla Gallia cisalpina e sull’illirico per cinque anni, con tre legioni.Nel 55 a.C. fu rinnovata l’alleanza tra i triumviri, e vennero eletti al consolato Pompeo e Crasso e, con una legge di Pompeo e Crasso della provincia di Caio Giulio Cesare, fu prorogato per altri cinque anni il comando di Cesare sulle Gallie. Nel 53 a.C. morì Crasso, e, scoppiati gravi disordini a Roma tra le opposte fazioni di Pulcro e Milone, Pompeo fu eletto, per volere del senato (timoroso del potere acquistato da Cesare) console senza collega. A questo punto ci furono i presupposti per una nuova guerra civile tra Pompeo e Cesare.

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Quest’ultimo, sperando che la legge di Pompeo gli avesse prorogato il proconsolato fino al tutto il 49, contava di presentarsi come candidato al consolato per il 48 senza aver prima deposto il comando degli eserciti, in modo da avere una maggiore influenza sull’elettorato, e evitando di vedersi accusato dagli avversari. Allo scopo di indebolire questa posizione il console Pompeo fece approvare due leggi generali, ma che in realtà volevano mettere in difficoltà Cesare: la prima prevedeva che i candidati al consolato dovevano essere presenti a Roma; la seconda, doveva intercorrere almeno l’intervallo quinquennale tra la gestione di una magistratura urbana e quella di una promagistratura. Inoltre si aera fatta nascere l’incertezza sulla data di scadenza del proconsolato sulle Gallie, sostenendo dagli anticesariani che il quinquennio di proroga del comando decorresse dal 55 a.C., per cui sarebbe scaduto nel 50 a.C.In ogni caso il senato, in base al primo orientamento, dichiarò Cesare decaduto dal proconsolato alla fine del 50 a.C. e poi gli chiese di congedare l’esercito. Fu il segnale dell’inizio della guerra civile: Cesare varcò (49) il confine dell’Italia alla testa di una legione e in breve si impadronì di Roma. Dal Dicembre del 49 fu dittatore, e console nell’anno successivo. Sconfisse Pompeo nell’agosto del 48 a Farsalo. Cesare assunse subito una serie di magistrature, poteri, prerogative, titolazioni: dittatura decennale, consolato decennale, potere censorio, il potere dei tribuni a vita, potere di conferire il patriziato, di scegliere la metà dei candidati alle magistrature, di emanare editti vincolanti per tutti, di prelevare dall’erario, di far guerra e pace. Ai primi del 44 a.C. gli fu conferita dittatura a vita. Aumentò il numero dei magistrati e scelse figure nuove (legati, prefetti urbani, familiari) per una migliore azione amministrativa. Aumentò anche il numero dei senatori portandoli a novecento e l’introduzione di nuovi cittadini. Emersero nuove idee sociali nuove, che si possono cogliere dalle nuove leggi, come l’aiuto dei bisognosi, il freno del lusso.Eliminato Cesare, questa tensione civile e spirituale scomparve e si tornò alla guerra civile, in cui si affrontarono il migliore dei cesariani, Marco Antonio, e il figlio adottivo di Cesare, Caio Giulio Cesare Ottaviano. Antonio aspirava, senza la mentalità di Cesare, al controllo della repubblica: si fece conferire il comando proconsolare sulle Gallie per cinque anni, intimando al proconsole in carica di lasciargli il posto. Anche per questo Antonio entrò in contrasto con senato, che conferì al giovanissimo Ottaviano un comando propretorio. Anche se Antonio fu sconfitto a Modena (43 a.C.), Ottaviano, anche lui in lite con il senato, decise di allearsi con il rivale: da ciò sortì il secondo triumvirato, vera e propria magistratura quinquennale, riconosciuta per legge, con poteri costituenti, con i quali i triumviri governarono l’impero, dividendosi le provincie tra loro. Il triumvirato fu rinnovato per altri 5 anni nel 37 a.C.: con la nuova divisione delle provincie si posero le basi del conflitto finale, ad Antonio essendo stato affidato l’oriente e ad Ottaviano l’occidente. E’ probabile che Antonio desiderasse, insieme a Cleopatra, regina d’Egitto, la costituzione di una monarchia ellenistica indipendente da Roma: Ottaviano allora presentò mise sotto gli occhi Antonio come un traditore. Scaduti i poteri triumvirali nel 33 a.C., non essendosi riformata la repubblica, Ottaviano preparava il conflitto. Forte di un giuramento datogli da tutta l’Italia e tutte le provincie occidentali, Ottaviano ottenne dal senato la revoca di Antonio dal comando dell’oriente e dichiarò guerra a Cleopatra. Nel 31 a.C. Ottaviano sconfisse Antonio ad Azio. Sostenendo di essersi impadronito di tutto per universale consenso, egli fece il gesto di restituire la repubblica alla libera decisione del senato e del popolo romano. Tuttavia, nel 27 a.C. inaugurò una nuova struttura costituzionale che, basata sul principe, verrà nominata principato.

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L’ETA’ DEL PRINCIPATOFratture e crisi della costituzione repubblicana

Mutamento rispetto alla repubblica: formazione di una elite di governo, da ricondurre alla capacità politica di un solo uomo, Ottaviano, il figlio adottivo di Cesare. Ottaviano riuscì ad attuare il piano di Cesare (le forze) verso il raggiungimento di un equilibrio, da cui furono generate istituzioni più nuove.Le istituzioni della repubblica non sono più in grado di amministrare un territorio che si stava allargando sempre più.Mario, formando un proprio esercito (formato da volontari spinti dalla speranza di terra e di prede), aveva fatto nascere un potere indipendente dal senato e dal comizio, mostrando così la scarsa vitalità del regime oligarchico della repubblica. Anche se non riuscì a portare a termine il suo disegno costituzionale, perché ucciso nel 44 a.C., essendo legato a Cesare, si può intuire quale era il suo piano: arrivare alla creazione di una costituzione monarchica. Moderata però dalla partecipazione al governo di elementi scelti anche nelle elites periferiche, per mezzo delle quali Cesare intendeva bilanciare la creazione di un potere centralizzato, e ad una diminuzione delle posizioni di privilegio delle antiche oligarchie.Ma è con la LEX TITIA che si vede di più questo intento. Alla fine del 43 a.C., dopo un plebiscito proposto da Titius e subito votato, Lepido, Antonio e Ottaviano ottengono il riconoscimento della magistratura straordinaria dei triumviri per la riorganizzazione della repubblica, che essi avevano deciso di istituire, di durata quinquennale e con compiti costituenti.La statuizione conferiva alla nuova magistratura poteri di uguale spessore rispetto ai consoli, riconoscendo inoltre ai triumviri la prerogativa di nominare i magistrati. Da ciò si capisce che il regime instaurato si poneva al di fuori dell’assetto precedente. La LEX TITIA consentì a costoro di esercitare questo potere straordinario per ben 5 anni, prorogato nel 37 per un secondo quinquennio, alla fine del quale Ottaviano ne rimase l’unico, eliminato Lepido e Antonio dopo la battaglia di Azio.Dal 31 a.C., e fino al 23, si assiste ad uno sforzo continuo da parte di Ottaviano, indirizzato a plasmare le forme del suo governo in base a schemi tratti dalle istituzioni antiche, affinché non si interrompesse la continuità di una identità formale.Ottaviano vuole mostrare come tutte queste vicende erano legali (es. il potere per la lotta contro Antonio viene fatto dipendere dall’impegno di fedeltà conferito con il comando delle forze armate). Il gesto più significativo fu la rinuncia a una parte dei poteri attuata in senato nel 27 a.C. Dichiarando di voler restituire la sovranità ai soggetti che ne erano titolari secondo la costituzione repubblicana. Ottaviano allontana da sé l’immagine del DICTATOR, del TYRANNUS, del DOMINUS, arrivando a cogliere ciò che aveva sperato: la ratifica giuridico - politica della sua supremazia da parte di quegli organi, ai quali la sola enunciazione dei suoi rapporti era evidentemente riuscita a dare loro la sensazione di riprendere l’esercizio legittimo delle loro funzioni.Infatti, tre giorni dopo, in riconoscimento della posizione conseguita nel nuovo assetto, egli viene definito AUGUSTUS.Ma è 4 anni dopo, nel 23 a.C., che si ha una più definita precisazione costituzionale. Siccome è investito dagli organi sovrani del vecchio ordinamento di prerogative che gli danno una potestà permettendogli di determinare diritti e obblighi, Augusto si colloca al di sopra dello schema

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costituzionale. Egli stesso ammette di sovrastare tutte le magistrature per AUCTORITAS (termine che non coincide con quello moderno, ma derivante dal patrimonio linguistico latino, dove si definisce la qualità dell’AUCTOR: condizione di AUCTOR ESSE, l’autorità con cui i PATRES e i senatori convalidavano le decisioni delle assemblee popolari.Abbandonato il consolato, gli viene conferita, a vita e separatamente dalla relativa magistratura, la TRIBUNICIA POTESTAS. Con ciò egli non solo si distacca dall’ordine senatorio ergendosi a difensore della plebe, ma viene posta nelle sue mani l’iniziativa politica: l’INTERCESSIO senza alternanza contro tutti gli atti dei magistrati cittadini ed il IUS AGENDI CUM PLEBE gli renderanno possibile il controllo della dinamica interna alle assemblee popolari.Con l’assunzione della PERPETUA CURA LEGUM ET MORUM, PONTIFICATUS MAXIMUS, e dell’IMPERIUM PROCONSOLARE MAIUS ET INFINITUM (titolarità del supremo comando militare), si delineano le caratteristiche della figura del PRINCEPS.Siccome Augusto aveva conseguito tribunato e IMPERIUM separatamente dalle cariche di tribuno e di proconsole, si comincia a notare la diversità del potere imperiale. Investito solo delle funzioni e non dalle cariche, il PRINCEPS dunque non è un magistrato, né ordinario né straordinario, ma solo il titolare di un potere senza uguali, per la sua supremazia che gli deriva dall’AUCTORITAS, e non per l’INTERCESSIO o dalla molteplicità delle prerogative. Inoltre assumendo dopo il cognome di Augusto, il PRAENOMEN di IMPERATOR, il titolo cioè di generale vittorioso, il principe mostra di volere assimilare i CIVES ai soldati. Ciò fa capire che c’è un passo da una parte verso la disintegrazione del vecchio edificio istituzionale e dall’altra in direzione dell’ampliamento e trasformazione del termine IMPERIUM. Forme e svolgimenti del nuovo assetto istituzionale

Il fondamento effettivo del potere dell’imperatore deve essere riconosciuto, oltre che nella forza delle armate, nell’AUCTORITAS della sua persona: pari agli altri magistrati per POTESTAS, Augusto dichiara di essere superiore a tutti per AUCTORITAS, con cui si riconosce l’autorità del principe. Evitando di ricevere i poteri dal predecessore, cercando invece di ricevere l’investitura dal senato e dal popolo, il principe sembra trarne giustificazione continua della propria collocazione, consentendo a questo termine di acquisire valore giuridico e insieme portata politica.Un’altra dei tratti caratteristici del nuova costituzione sono il conferimento Di una POTESTAS TRIBUNICIA e di un IMPERIUM PROCONSOLARE, nonché la subordinazione delle antiche istituzioni ad un organo nuovo.Principi da cui questo potere è retto: La creazione di nove CORTES PRAETORIAE, a guardia della persona dell’imperatore a sua disposizione, fa capire quanto il principe consideri determinante la forza delle armi per il mantenimento del nuovo assetto. L’introduzione di un culto imperiale dimostra altresì quanto l’imperatore ritenga utile collegare il suo potere anche su basi religiose.Inoltre, essendo proprietario di sconfinate ricchezze, l’imperatore fa del suo patrimonio uno strumento prezioso di conquista e di mantenimento del consenso.Senza dimenticare l’uso politico del matrimonio, il principe svolge il suo potere con manifestazioni solidaristiche, riassunte nel cosiddetto evergetismo: nella amplificazione cioè di quella generosità attuata dai ricchi quasi come adempimento di un obbligo sociale, servendo essa di fatto a garantire una distribuzione meno squilibrata delle risorse. L’evergetismo praticato

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dal principe divenne pubblica beneficienza.

La persistenza degli antichi organi della costituzione repubblicana

La sopravvivenza degli organi della costituzione repubblicana: anche se le funzioni adempiute non sono più le stesse, consolato, pretura, censura, tribunato e edilità plebea, questura comizi e senato rimangono tutti in vita con ovvie limitazioni e ampliamenti.Per quanto riguarda i consoli la sfera della loro giurisdizione si allarga: quando il senta si costituisce come corte di giustizia di appello per le liti dei provinciali è ai consoli, infatti, che tocca presiederlo.Per la PRAETURA, questa mantiene fino ad Adriano le competenze assegnatele dalla costituzione repubblicana sia nella sfera giuridica civile che in quella penale. La censura viceversa, rivestita solo da alcuni imperatori e da Domiziano ricoperta a vita, viene alla fine inclusa nella somma dei poteri imperiali. Quanto al tribunato, la sua sopravvivenza appare funzionale solo a giustificare la TRIBUNICIA POTESTAS conferita ai principi.L’edilità plebea vede invece esaurire le sue mansioni in dipendenza della concorrenza dei nuovi funzionari, che gli imperatori destineranno alla cura dell’annona e della polizia urbana.Per quanto riguarda il numero e alla competenza dei questori, questi vengono ricondotti al numero di venti, due dei quali si occupano della persona dell’imperatore, i restanti del disbrigo di altri affari.Per i comizi, la loro funzione è quella che più chiaramente evidenzia la inadeguatezza delle istituzioni della città-stato ai nuovi compiti di governo mondiale. Tuttavia alcune competenze comiziali si conservano: non quella giurisdizionale criminale, ma quella legislativa, e quella relativa all’elezione dei magistrati.Per quanto riguarda il senato, a causa del progressivo insterilirsi delle funzioni comiziali, l’antico consesso repubblicano diventa il solo organo in cui si perpetua lo spirito del vecchio ordinamento. E così la vigilanza sulla vita religiosa continua ad essere esercitata dai PATRES insieme con il principe, come pure l’amministrazione delle provincie più antiche e la giurisdizione criminale.

I rapporti tra principe e senato

Nell’impero il senato viene visto come un’assemblea la cui attività sarà, sempre di più, strumentalmente utilizzata dal principe nello svolgimento della sua politica. Con l’accrescersi del potere degli imperatori, il senato, dopo Augusto, non svolgerà più alcun ruolo determinante nei destini dell’impero.Comunque rimane sempre il senato a conferire l’IMPERIUM, la TRIBUNICIA POTESTAS o il PONTIFICATUS MAXIMUS all’aspirante o al designato; ed sarà sempre l’assemblea a conservare il diritto di procedere alla nomina dell’imperatore. L’assemblea senatoria perciò fini con l’esercitare spesso un ruolo determinante, non solo formalmente, ma anche sul piano sostanziale, nella risoluzione di molte delle crisi che ci furono nella storia di Roma.Poi la creazione, da parte di Augusto, di una commissione senatoria con compiti di collegamento conferma quanta accortezza il principe facesse uso di questo delicato strumento di equilibrio nella progressiva definizione del suo disegno di riforma costituzionale.

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Il senato può porre sotto processo il principe e dichiararlo, se ne ricorrono le circostanze, HOSTIS PUBLICUS, pronunciandone pure la DAMNATIO MEMORIAE con tutto quello che ne consegue: eliminazione del nome da qualsiasi documento, rimozione di statue ecc. L’assemblea senatoria vede inoltre aumentare, durante il principato, i poteri legislativi attraverso il senatoconsulto, e lo svolgimento di competenze giurisdizionali.

Le vicende del potere imperiale dalla fine di Augusto a quella dei Giulio-claudii; dall’avvento dei Flavi alla scomparsa di Adriano; dall’età degli Antonini a quella dei Severi.

Dopo alcuni tentativi di successioni per legittimità, pian piano si affermò il principio di successione naturale: criterio differente rispetto a quello della scelta del migliore o combinandolo con il medesimo a mezzo del ricorso alla pratica adottiva, cui il governante in carica veniva a volte indotto al fine di non interrompere la catena delle soluzioni dinastiche.A determinare l’uno o l’altro criterio era il senato. Le crisi del 37 d.C., nel 41 e nel 68-69 mettono in chiara evidenza che uno dei problemi centrali del nuovo ordinamento costituzionale fosse quello del meccanismo successorio.Nel 37 s’era posto il problema della successione di Tiberio, mancato a Miseno. Il 41 invece era stato l’anno dell’eliminazione di Caligola, succeduto al suo predecessore non in virtù di meriti acquisiti nella carriera politico-militare, ma solo in esecuzione del testamento di Tiberio, il quale aveva così mandato in pezzi le basi su cui Augusto aveva cercato di costruire la successione al principato. E’ l’anno anche della salita al trono di Claudio, zio paterno di Caligola, imposto dai pretoriani e con il quale la GENS claudia viene annessa alla famiglia imperiale. Con lui avviene il ritorno dall’esilio del filosofo Seneca: venne richiamato a Roma per educare il figlio di Agrippina, moglie dell’imperatore. Nel 54, dopo la scomparsa di Claudio, il figlio allevato dal filosofo, verrà acclamato imperatore, ancora dai pretoriani, col nome di Nerone. Ma il suo principato, e con esso la dinastia giulio-claudia, si conclude tragicamente nel 68, anche se è stato caratterizzato da un periodo di buona amministrazione durato oltre un quinquennio, quello del cosiddetto governo di Seneca.

Proprio nel 68 si affaccia il criterio adottivo. L’anno (68-69) è caratterizzato, non solo dalla successione di quattro imperatori, ma anche dal fatto che non si conclude con l’ascesa di Pisone Liciniano, scelto da Galba, ma con Flavio Vespasiano. Famoso per la LEX DE IMPERIO, e noto pure per quella sua politica di integrazione dei provinciali nella cittadinanza oltre che per le opere di rafforzamento delle linee difensive dell’impero, non è da escludere che il fondatore della dinastia dei Flavi si sia imposto per via della prospettiva che i figli, Tito e Domiziano, potevano offrire di una già preordinata successione dinastica. Per una migliore sistemazione della medesima e ad evitare di richiamare i fantasmi delle sanguinose lotte per il potere, Vespasiano, il quale morirà nel 79, giunse poi addirittura ad ideare la doppia successione. Stabilì infatti che Domiziano dovesse succedere a Tito.Con Domiziano, succeduto al fratello nel 81, si estingue la dinastia dei Flavi: l’imperatore infatti cade ucciso nel 96 in una congiura di palazzo provocata dalle sue concezioni autocratiche rivelatrici dei suoi propositi di annientamento degli oppositori, dopo quindici anni di governo.

Dal momento che sale al potere un senatore anziano di nome Nerva, il principato adottivo comincia a trovare molte applicazioni.

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Infatti Traiano, Adriano e Antonino Pio provvidero ad adottare il migliore dei loro collaboratori designandolo loro successore. Essi, venendo dalla provincia, furono i primi tra i provinciali a salire al trono.Con Traiano (98 - 117) vennero estesi i territori dell’impero. Adriano, al potere fino al 138, fu conosciuto per la svolta impressa all’amministrazione dell’impero con una serie di riforme da cui prende forma una vera e propria idea di ‘stato’ accentratore.

Pio governò per oltre vent’anni, e con lui si comincia a vedere i limiti del governo di fronte ad alcuni mutamenti che diventano sempre più repentini. Il problema della sua successione lo risolve anticipatamente ripristinando il criterio dinastico: nel 147, infatti, egli si associa nelle funzioni di governo il figlio adottivo, imperatore poi nel 161 col nome di Marco Aurelio. Anch’esso non seppe sottrarsi alla tentazione di associarsi , nello svolgimento dei compiti di governo, prima il fratello adottivo Lucio vero, poi nel 177 il proprio figlio Commodo.Così, quando Marco Aurelio, nel 180, muore di peste, il figlio diventerà imperatore a soli diciotto anni, ristabilendo la continuità dinastica. Verrà ucciso in una congiura nel 192, dopo dodici anni di esercizio del potere contraddistinti da un’evidente connotazione antisenatoria, di intrighi e repressione, oltre che da gesti di megalomania, volendo cambiare il nome di Roma in Commodiana.

Dopo il breve periodo di Pertinace e Didio Giuliano, nel 193 Settimio Severo salì al trono con il motivo dell’autoadozione. Presentandosi come figlio di Marco Aurelio e fratello di Commodo, tese non solo a legittimare l’acquisizione di un patrimonio, ma anche a ribadirne una continuità dinastica. L’ultimo dei Severi, Ulpiano, viene eliminato nel 235.

In definitiva i romani danno l’impressione che erano a favore della successione naturale.

Tacito ci fa notare che, l’assenza di una previsione normativa delle modalità, attraverso le quali attuare la successione nel principato, contribuì a determinare le armate ad esprimere un loro candidato sempre più di frequente: lo storico ammette che non è più a Roma, ma sui campi di battaglia, che si fanno gli imperatori. E’ soprattutto nel terzo secolo, per sua larga parte, che si fa l’arbitro per scegliere il candidato al potere: le sue armate, anche se ai confini dell’impero, si resero protagoniste, di vere e proprie guerre civili dato il loro interesse a promuovere alla suprema carica i loro comandanti.

Molti imperatori furono nominati per un gesto che aveva visto come protagonista Augusto: un gesto di rifiuto.Inoltre alcune cariche avvenivano per usurpazione.

I nuovi organi imperiali dell’amministrazione centrale

Al di là dei CURATORES AQUARUM, OPERUM PUBLICORUM e VIARUM, cui competono la sorveglianza degli acquedotti, delle opere pubbliche e delle grandi vie di comunicazione militare, la figura tipica di funzionario imperiale è quella del PRAEFECTUS ANNONAE. Istituito da Augusto, questo funzionario ha come compito quello di sovrintendere ai problemi di una città in cui c’erano molte difficoltà di reperimento e trasporto dei rifornimenti alimentari.Tra gli organi di creazione originale vanno inoltre considerati gli OFFICIA PALATINA

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prevalentemente affidati ai liberti imperiali. Costoro si videro assegnate funzioni sia di governo che di amministrazione a partire dagli anni di Claudio. Sotto il governo di questo principe innovatore cominciò infatti a prendere forma il nuovo nucleo di quelli che diventeranno poi i grandi dipartimenti dell’amministrazione imperiale, le cui competenze si estenderanno dalla gestione finanziaria a quella della giurisdizione. In questa burocratizzazione dell’impero si possono notare alcuni uffici come quello AB EPISTULIS che si occupa dell’evasione della corrispondenza imperiale; quello A LIBELLIS e A COGNITIONIBUS cui è affidato l’esecuzione delle suppliche dei privati; quello A MEMORIA cui competono determinate pratiche amministrative; quello A RATIONIBUS la cui funzione è di sovrintendere all’amministrazione finanziaria.Mentre sotto Augusto e i suoi successori immediati, coloro che venivano affiancati al principe erano considerati dei dipendenti privati dell’imperatore, da Adriano in poi, si considerano dei protagonisti con il loro carattere pubblico. I funzionari imperiali furono divisi in quattro classi gerarchiche, caratterizzate da stipendi diversi, dando luogo a una carriera parallela a quella magistratuale, pur se con profonde differenziazioni. Mentre il magistrato, eletto dal popolo, incontrava i limiti della temporaneità e della collegialità della carica e non riceveva nulla per il suo servizio, il funzionario, di norma pagato, non conosceva nessuna limitazione nell’esercizio delle sue attribuzioni, al di fuori di quelle stabilite dall’imperatore da cui dipendeva direttamente.I funzionari di grado più elevato prendono il nome di PROCURATORES; sopra di loro si trovano le grandi PRAEFECTURAE.Insieme con il PRAEFECTUS ANNONAE, sono importanti i funzionari con compiti di mantenimento dell’ordine pubblico come il PRAEFECTUS URBIS, l’unico di rango senatorio e di origine antichissima, e il PRAEFECTUS, VIGILUM, titolari rispettivamente delle funzioni di polizia dentro Roma e per cento miglia intorno e di quelle di presidio stradale notturno. Ma è il PRAEFECTUS PRAETORIO il primo dignitario della corte imperiale. Preposto, insieme a un collega per evitare che acquisisse più potere, egli agiva spesso come sostituto del principe, soprattutto nel presiedere i CONSILIA, nell’esercizio della funzione giurisdizionale che costui si attribuiva, quale giudice di ultima istanza, ogni volta che ricorreva in appello davanti a lui contro le sentenze provenienti dall’ORDO IUDICORUM.

I CONSILIA PRINCIPUM

Siccome la sfera delle funzioni dei principi si andava sempre più allargandosi, ci fu bisogno di una collaborazione da parte di persone esperte nei singoli settori di intervento.Questo è il motivo per cui ci furono nell’ambiente di corte spesso dei giuristi: non solo si affidavano poteri nell’amministrazione delle regioni periferiche, ma si chiedeva anche di ascoltare l’opinione nello svolgimento sia delle funzioni di governo che delle altre attribuzioni legislative e giudiziarie. Lo sviluppo dell’usanza della consultazione da parte degli imperatori con i propri collaboratori più intimi accompagnò così l’intera fase di transizione dallo stato augusteo a quello costantiniano.Fino all’età di Costantino, i CONSILIA PRINCIPUM sono allora tanti quanti sono i casi per la cui soluzione vengono costituiti: variano perciò continuamente tanto nella composizione, di volta in volta adattata alla specificità della questione oggetto di discussione, quanto nelle procedure che non sono mai le medesime.

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Tenuto conto della specifica competenza dei soggetti cui di regola ci si rivolgeva, era la volontà dell’imperatore a determinare numero e composizione delle eventuali riunioni di consiglieri in uno con le modalità da seguire nelle stesse.

L’amministrazione dell’Italia

Il territorio dell’impero continua ad essere amministrato prevalentemente secondo le forme della città-stato, nel pieno riconoscimento, delle autonomie cittadine e delle loro domande di autogoverno. Esse infatti trovavano un loro fondamento nella precisa e sperimentata attribuzione di poteri ai magistrati cittadini, DUOVIRI o QUATTUOVIRI, esecutori dei DECRETA ORDINIS, cioè dei deliberati dell’ORDO DECURIONUM.Sorta di senato delle singole città, questo era formato, almeno nei primi secoli dell’impero, ad opera dei magistrati locali supremi, i quali lo costituivano, ogni cinque anni, scegliendo le persone da nominare tra quelle in possesso dei requisiti richiesti per la nomina a magistrato e che erano l’INGENUITAS, il censo, l’età minima e ovviamente il rispetto del CURSUS HONORUM.Ma la divisione dell’Italia in undici regioni, attuata da Augusto probabilmente per migliorare i livelli d’efficienza finanziaria e dei beni propri, fu il veicolo attraverso il quale cominciò a manifestarsi, in maniera sempre più pronunciata col passare dei decenni, la tendenza del principe a deprimere le autonomie locali.La competenza per la giurisdizione criminale passa al PRAEFECTUS URBI e PRAEFECTUS PRAETORIO. La funzione giurisdizionale civile viene trasferita, in Italia, a quattro CONSULARES, anche con compiti amministrativi.Si moltiplicano anche le attribuzioni dei CURATORES VIARUM (sorveglianza delle arterie stradali) ai quali venne assegnata pure l’amministrazione di quelle fondazioni alimentari istituite in epoca traianea in favore dei bisognosi con denaro della cassa imperiale.Altri aspetti dell’istanza accentratrice vanno visti nei CURATORES REI PUBBLICAE (commissari straordinari inviati presso enti locali finanziariamente dissestati) e dei CORRECTORES. Figure occasionali e saltuarie, che diventeranno sotto Diocleziano funzionari stabilmente preposti al controllo amministrativo dell’intero territorio italico.

L’amministrazione delle provincie

Dal 27 a.C. le provincie vennero distinte in senatorie e imperiali secondo quanto si apprende da Strebone. La distinzione determinò una specie di doppio riferimento dei territori provinciali al POPULUS e al PRINXCEPS e conseguentemente una duplicità nelle forme di governo e di amministrazione, in maniera tale che il senato conservasse una sua sfera di influenza anche fuori dall’Italia. Le provincie senatorie sono quelle, civilizzate e ricche, situate sotto il governo di uomini estratti dall’ordine senatorio. Governavano per un anno, assistiti e condizionati da funzionari nominati dall’autorità imperiale cui solo rispondevano, restringendo la loro attività a quella di amministrazione e di esercizio di compiti di giurisdizione in prima istanza. Le provincie imperiali sono viceversa quelle solitamente di nuova istituzione, bisognose di stanziamenti di legionari a causa della turbolenza delle loro popolazioni. Su di esse l’imperatore esercita direttamente il proprio potere di amministrazione a mezzo di uomini, LEGATI AUGUSTI, scelti tra i senatori di rango consolare e proprio. Senza limitazioni di tempo, costoro governavano nel solo rispetto delle istituzioni, MANDATA, che venivano loro consegnate al

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momento della partenza per il luogo cui erano stati destinati.

Le finanze imperiali

L’amministrazione finanziaria durante il principato, viene progressivamente sottratta ai rispettivi governatori e legati per essere direttamente gestita dall’autorità centrale tramite i PROCURATORES FISCI. La riscossione dei TRIBUTA, nelle provincie imperiali, avveniva ad opera dell’amministrazione del fisco; in quelle senatorie, ritenute, al contrario, nella più piena disponibilità del popolo romano, si procedeva invece alla riscossione degli STIPENDIA attribuendo l’onere dell’esazione alle amministrazioni locali.Mentre il gettito che derivava dal pagamento delle imposte delle provincie imperiali alimentava la cassa del principe, quello che nelle senatorie proveniva dalla esazione dei tributi andava ad incrementare l’AERARIUM POPULI ROMANI, interamente gestito dal massimo consesso durante la repubblica e chiamato AERARIUM SATURNI in quanto collocato presso il tempio omonimo. Contrapponendosi a questo, sia l’AERARIUM MILITARE, che il FISCUS, il PATRIMONIUM e la RES PRIVATA, la sua presenza si allontana sempre più dai nostri occhi fino a dissolversi completamente confondendosi con queste altre istituzioni fiscali.Né risulta più chiaro il criterio di differenziazione delle due contabilità del PATRIMONIUM PRINICPIS e della RE PRIVATA, entrambe affidate a dei PROCURATORES.Alcuni punti essenziali dell’amministrazione finanziaria del principato. In primo luogo, si vede come ad u patrimonio sterminato sembri sovrintendere un’organizzazione burocratica capillare, impersonata prima da schiavi e liberti, poi da funzionari. Questi PROCURATORES ebbero non solo funzioni amministrative, ma anche giudiziarie, in materia di IUS FISCUS.Sotto Nerva assume poi consistenza la visibilità del PRAETOR FISCALIS, e più avanti, dell’ADVOCATUS FISCI.Fu infine Adriano a dare una struttura più definita all’ufficio A RATIONIBUS di istituzione tiberiana: da allora vennero ad esso affidati compiti di coordinamento dell’attività dei PROCURATORES, dei PRAETORES, e degli ADVOCATI FISCI.

Dal principato alla monarchia assoluta

E’ con un provvedimento adottato da Antonino Caracalla all’esordio del nuovo governo, che si conclude, in età severiana, la storia degli assetti istituzionali del principato.Il famoso intervento fu la COSTITUTIO ANTONINIANA del 212 d.C., che servì a concedere la cittadinanza a quasi tutti gli abitanti liberi nel territorio romano. Le eccezioni furono trascurabili e contemplarono solo i DELDITICII, di incerta identificazione. Quanto a statuto giuridico personale, tutti i provinciali di tutti i territori dell’impero furono quindi uguagliati di fronte al potere centrale, il quale così non riconobbe più, neanche sul piano formale, distinzione alcuna tra romani originarii e popoli annessi.Così dunque cominciò ad attuarsi il passaggio dalla costituzione del principato a quella della monarchia assoluta. La concessione della cittadinanza diede innanzi tutto incremento alla costituzione di centri locali di autogoverno: molteplici invero furono le organizzazioni e autonomie amministrative cui si diede luogo ad opera di quelle aggregazioni formatesi intorno agli accampamenti dei militari

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sparsi lungo tutto l’impero e diventati poi nuclei di un discreto numero di moderne città europee.Gli appellativi di DOMINUS ET DEUS, i quali si da Domiziano avevano documentato la devozione dei cittadini per i loro imperatori, cominciano ad assumere, con la conclusione dell’età severiana, piena valenza. Essi avvicinano realmente la figura dell’imperatore a quella del DOMINUS, se non a volte addirittura a quella di un tiranno: da un lato per il crescere della forza militare, la quale veniva utilizzata dai singoli comandanti come mezzo per un rapido conseguimento dello scettro imperiale; dall’altro lato per lo sforzo, che diventa sempre più diffuso, di fondare il potere, oltre che sulla forza delle armi, su una vocazione trascendente in grado di darne una nuova legittimazione.

LA PRODUZIONE DEL DIRITTOL’ETA’ DELLA REPUBBLICA

Le XII tavole fra patriziato e plebe

Il quinto e il quarto secolo possono essere considerati il “laboratorio” della repubblica.In tutto il corso del quinto secolo , si fronteggiarono due ipotesi di ordinamento e di potere. La prima aveva al centro la restaurazione di una intransigente egemonia da parte dei vecchi gruppi gentilizi. Il secondo progetto doveva presentarsi invece in modo più ambiguo e più vago. Esso mirava comunque a contrastare la preminenza patrizia, e a portare sulla scena politica le masse plebee, ma si venne progressivamente spezzando in due versioni distinte. In una emergeva un orientamento “democratico”, che voleva affermare nel cuore della repubblica il controllo assembleare delle forze plebee. L’altra meno drastica e sempre più vincente dalla fine del quinto secolo, prevedeva la possibilità di un compromesso tra patriziato ed èlites plebee, e la conseguente formazione di un nuovo blocco aristocratico patrizio-plebeo, in grado di terminare il periodo di conflitti, e di assicurare un governo unitario alla città. Il sapere giuridico dei pontefici si trovò subito coinvolto nei nodi e nei contrasti della nuova politica.L’episodio più significativo è senza dubbio quello delle XII tavole, alla metà del quinto secolo: improvviso, misterioso, drammatico. Dopo il trauma della caduta della monarchia, un’altra forte discontinuità veniva a frapporsi rispetto al passato e alla tradizione. Le XII tavole furono composte fra il 451 e il 450 a.C. da una commissione di decemviri dotata di poteri consolari, e formata con il compito di tradurre in forma di leggi generali rivolte a tutta la città il vecchio IUS pontificale, che fino ad allora si manifestava attraverso la pronuncia dei RESPONSA. Dietro questa novità vi era la pressione plebea. Il disegno era chiaro. Si voleva spezzare l’esclusività patrizia nella creazione del IUS cittadino, nella statuizione del disciplinamento civile della collettività. si voleva fissare quelle che erano pronunce individuali di sacerdoti in un insieme di regole, conoscibili da tutti con certezza. Ora, sarebbe stata la città con le sue leggi a porre se stessa a garanzia del comportamento dei propri cittadini, senza più dover riferirsi a consuetudini del passato, affidate alla memoria di una cerchia di sacerdoti. In un primo momento la pressione plebea sembrò avere successo. La legislazione fu emanata, e fu imposta come regolamento supremo della vita cittadina. Le XII tavole non contenevano norme che si riferivano agli assetti istituzionali della città: non

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erano simili a una “carta costituzionale”. Riguardavano piuttosto i rapporti – familiari e patrimoniali – tra i cittadini. Sostituivano cioè le pronunce pontificali. Le leggi fissavano e rendevano certo e conoscibile un diritto non condizionato da una preliminare discriminazione all’interno del corpo civico. Il testo raccoglieva l’insieme delle formule inventate dai pontefici per ritualizzare la vita sociale della comunità (il IUS) e nominava gli atti solenni collegati ai meccanismi di scambio e di reciprocità delle famiglie; le forme di appartenenza e di trasferimento dei beni; l’elenco dei crimini capitali. Uno spazio era poi riservato alla descrizione dei rituali delle ACTIONES, cioè della più antica tutela processuale conosciuta nella città, che una volta si svolgeva davanti al REX in persona, e non dinanzi alla magistratura suprema della repubblica.

La rivincita pontificale: come si forma un ‘diritto giurisprudenziale’

I patrizi reagirono al progetto plebeo (sin dal 449). I pontefici ripresero il sopravvento . e non soltanto per ragioni politiche. Con la nuova promulgazione la laicità della città non era in grado di reggere, al di la della cerchia pontificale, lo sforzo interpretativo necessario per applicare le leggi nella vita quotidiana della comunità. I pontefici divennero i custodi di una legislazione che era riuscita a nascere non senza ostilità.Le XII tavole smisero perciò di avere una esistenza autonoma. I sacerdoti se ne appropriarono del tutto. Si ritornava al vecchio ordinamento: fra LEX e RESPONSUM era il secondo a prevalere come fonte primaria di IUS.La produzione del diritto era di nuovo nelle mani dei pontefici, ma dal 300 a.C. in poi, in seguito al plebiscito Ogulnio, anche le famiglie plebee più importanti furono ammesse al collegio pontificale. Primo segno che poi porterà ala nascita di una NOBILITAS patrizio-plebea.Nel corso del quarto secolo, con i plebei al governo e la forma oligarchica dell’ordinamento politico, il diritto romano assunse i caratteri di un diritto ‘giurisprudenziale’. Di un diritto cioè costruito intorno al sapere particolare di esperti cui la collettività riservava il compito di dettare le regole della convivenza sociale dei cittadini, e non intorno alla forma della legge ‘generale’, votata dall’assemblea.

L’eclissi dei pontefici: il IUS dalla religione alla politica

Secondo il racconto di Pomponio intorno alla metà del terzo secolo a.C. Tiberio Coruncanio, un pontefice massimo di famiglia plebea, decise per primo di “professare pubblicamente” il suo sapere, violandone la tradizionale segretezza.Fra quarto e terzo secolo a.C., infatti, l’immagine del sacerdote sapiente comincia a venir meno, e prende il suo posto quella del nobile-sapiente. Dare i RESPONSA era un privilegio aristocratico, legato alla superiorità della nobiltà patrizio-plebea, senza più un rapporto con la religione. Nel cambiamento restò ferma tuttavia una costante: la conoscenza del diritto rimase comunque una funzione legata all’esercizio del potere nella città. La forza del responso adesso si basava su nozioni e dottrine, già nel pieno del terzo secolo, che dovevano apparire del tutto “laiche”. La sua padronanza era sempre patrimonio di uomini influenti, impegnati nel governo, ma non più sacerdoti.All’antico intreccio fra sacro e diritto, si affiancava, e poi sostituiva, una diversa connessione, fra sapere giuridico e potere politico, mentre anche la religione subiva una forte pressione da parte

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del nuovo blocco dominante. Tuttavia le nuove figure di nobili sapienti non identificavano già dei “giuristi”. Lo spostamento del IUS dalla religione alla politica non modificò tuttavia dall’interno i tratti costitutivi del sapere giuridico. La forma mentale del nuovo esperto aristocratico, non presentava fratture rispetto a quella pontificale.

Il IUS CIVILE: un diritto per la repubblica

I RESPONSA costituivano il IUS vivente della città repubblicana, la base portante delle relazioni sociali fra i cittadini. Essi tuttavia continuavano a non stabilire regole generali. Valevano solo per la domanda proposta. La realtà sociale era registrata attraverso un reticolo di tasselli verbali, uno solo dei quali poteva bastare a determinare la soluzione. L’insieme di queste prescrizioni formò la base dell’interno diritto repubblicano, chiamato, a partire dal secondo secolo a.C., IUS CIVILE, che vuol dire “il diritto della città”. Esso atteneva allo stato delle persone, alle questioni ereditarie, alle forme dell’appartenenza della terra e di altri beni mobili e immobili, alle obbligazioni e agli atti solenni di trasferimento di diritti sulle cose, ad alcuni comportamenti illeciti, al possesso regolato dalle XII tavole.Al suo interno si possono distinguere tre strati: il primo era costituito dai MORES arcaici; il secondo dalle leggi delle XII tavole, e il terzo dai RESPONSA della nuova giurisprudenza ‘laica’. Al centro in posizione dominante, l’attività dei giuristi.I giuristi oltre al RESPONDERE, svolgevano altre due attività:CAVERE e AGERE. Il èprimo indicava il lavoro di consulenza privata svolto gratuitamente dai giuristi in favore dei cittadini in origine non solo di pari livello sociale, che venivano protetti e guidati in modo preventivo nel difficile compito di liberarsi nel groviglio di vincoli imposti dai rituali del diritto sui comportamenti sociali della vita quotidiana. Con il secondo ci si riferiva all’assistenza nella fase del diritto nel processo civile, prima in quello per LEGIS ACTIONES, poi in quello cosiddetto “formulare”.

Popolo e leggi

Con l’affermarsi del modello “giurisprudenziale” non cancellò tuttavia la LEX. La sua importanza si rafforzò nel corso della repubblica, quando si consolidò il rapporto fra legge e comizio, centuriato o tributo.Di regola un testo di una legge si apriva con la prescrizione, nome e carica del magistrato proponente, e il tempo e luogo della votazione. Seguiva poi la (ROGATIO) domanda di approvazione del magistrato al comizio, con il vero e proprio dispositivo della legge, talvolta diviso in capitoli. Infine la sanzione, il complesso delle disposizioni a garanzia della validità della norma.Ma l’attività legislativa dei comizi non riguardò quasi mai i temi che rientravano nel campo del diritto civile. Questa separazione portò a un dualismo fra IUS e LEX. Il primo esprimeva il nucleo elitario e aristocratico del disciplinamento civile romano; il secondo rappresentava la presenza regolatrice di una volontà popolare ritenuta essenziale e irrinunciabile negli equilibri costituzionali repubblicani. Questa funzione normativa si occupava solo dello spazio ‘pubblico’ della vita comunitaria, lasciando i rapporti personali e patrimoniali fra i singoli ai giuristi ‘privati’.

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Pretori ed editti

Con lo stabilizzarsi dell’ordinamento repubblicano fra quarto e terzo secolo a.C., la funzione giurisprudenziale si concentrò nella figura dei pretori (magistrati maggiori dotati di IMPERIUM).Essi avrebbero dovuto amministrare la giustizia civile unicamente sulla base del LEGE AGERE, dell’agire secondo quanto stabilito dalla LEX.I caratteri del processo: si svolgeva in due parti distinte. Nella prima, detta IN IURE, i litiganti raffiguravano i loro comportamenti secondo le prescrizioni rituali. Nella seconda parte, detta APUD IUDICEM, il magistrato spariva, e al suo posto entrava in scena un cittadino privato in funzione di giudice o arbitro. Toccava a lui stabilire chi avesse torto o ragione. I magistrati dotati di IMPERIUM avevano la facoltà di emettere ordini, cui tutti dovevano obbedire. Era il cosiddetto IUS EDICENDI, il poter di emanare dichiarazioni della propria volontà che impegnavano l’intera cittadinanza. Sfruttando ciò, i pretori iniziarono a dichiarare che, per i litiganti disponibili a farne richiesta, non avrebbero amministrato la giustizia secondo le regole del ELGE AGERE, ma attraverso un nuovo tipo di procedura, fondato su parole concordate e messe insieme caso per caso dalle parti e dal pretore, insieme scelti nella formula più adatta a esprimere le opposte pretese in gioco nella controversia. Il processo rimaneva sempre diviso in due parti e si conservava l’originaria frattura tra funzione del magistrato e accertamento concreto della questione. Ogni valutazione restava rimessa al giudizio di un privato cittadino.Adesso si realizzava una specie di accordo flessibile fra il magistrato e le parti, uniti dalla comune ricerca di una formulazione che consentisse di dare qualificazione giuridica alle pretese in campo.Gli anni che vanno dal 120-110 al 20-10 a.C. possono essere considerati come il grande secolo dell’editto: il solo in cui si incrociarono spinta creativa e tensione stabilizzante, determinando una combinazione e un equilibrio destinati a non ripetersi più.Il IUS CIVILE era un diritto che spettava solamente ai cittadini romani. L’attenzione da parte dei pretori alla protezione delle nuove realtà economiche della società schiavistico-mercantile mediterranea, portò alla formazione di un “diritto commerciale romano”. Esso si articolava in quattro contratti fondamentali: di compravendita, di locazione, di società e di mandato, e intorno a tre principi guida: il consensualismo; la buona fede; la reciprocità.

Il pensiero giuridico: oralità e scrittura

Ancora fino al cuore del secondo secolo a.C., il sapere dei giuristi aristocratici era quasi per intero affidato all’oralità. Ma un sapere orale non poteva disciplinare universi sociali complessi.Prima del cambiamento, il sapere giuridico aveva conosciuto solo due testi: il DE USURPATIONIBUS di Appio Claudio Cieco, censore nel 312, e I TRIPERTITA di Sesto Elio Peto Cato, console nel 198, censore nel 194.

La ‘rivoluzione scientifica’

Il prestigioso sapere politico verso la fine del secondo secolo a.C. si stava avviando verso un cambiamento, per poi diventare il modello millenario del diritto romano.I punti intorno ai quali si concentrò la trasformazione devono essere individuati intorno a tre serie di eventi.

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Innanzitutto il definitivo passaggio dall’oralità alla scrittura, e la nascita di una autentica letteratura giuridica.Poi, l’invenzione di concetti giuridici astratti, cui si collegò l’uso di tecniche classificatorie di origine platonico-aristotelica ed ellenistica.Infine, la rottura di un legame diretto fra conoscenza giuridica e primato politico, simbolo di tutta la giurisprudenza aristocratica. Il sapere giuridico si proponeva adesso come ‘scienza’ autonoma, in grado di auto legittimarsi senza più ricorrere al sostegno della superiorità aristocratica.Poteva prendere corpo così per la prima volta nella storia un diritto razionale e formale ( cioè fondato sul’uguaglianza della posizione dei soggetti innanzi alla norma), elaborato in forme astratte, nei termini di una vera e propria ontologia giuridica. A questo risultato viene dato il nome di ‘rivoluzione scientifica’. La rivoluzione intellettuale si caratterizza sulla biografia di alcune figure della giurisprudenza tardo repubblicana, in quattro generazioni: Publio Mucio Scevola, console nel 133; suo figlio Quinto Mucio, console nel 95; Servio Sulpicio Rufo, console nel 51; Marco Antistio Labeone, pretore.

Del pensiero di Publio Mucio, il materiale utilizzato era rappresentato dalla registrazione dei propri RESPONSA. Due aspetti colpiscono nell’insieme dei pareri di Publio: la notevole presenza di dispute dottrinali e la presenza di una vera e propria definizione: quella di AMBITUS AEDIUM.

Quinto Mucio è il primo a pensare per concetti il proprio sapere e a scrivere un’opera che possiamo considerare l’autentico esordio della letteratura giuridica romana. Primo problema che dovette affrontare riguardò l’ordine degli argomenti trattati: sistemò l’intera materia in CAPITA, imponendo al IUS CIVILE di trasformarsi in un autentico principio ordinatore.

Il lavoro di Sestio Rufo rifiutò ogni orientamento sistematico. Nella sua produzione sviluppa la trama delle ricerche logiche di Mucio, le libera da ogni ipoteca arcaizzante e le spinge ancor più lontano da ogni ipotesi di ‘normalizzazione’ ellenistica.

L’età della rivoluzione scientifica si conclude con la riflessine di Antistio Labeone.

L’ETA’ DEL PRINCIPATOIl IUS PUBLICE RESPONDENDI e il problema della certezza del diritto

Anche nella prima fase del principato il diritto romano mantiene la caratteristica di un diritto essenzialmente giurisprudenziale, nel quale cioè i giureconsulti, utilizzando i loro tradizionali metodi interpretativi, danno la norma ad applicare al caso concreto.Con un provvedimento , Augusto stabilì che determinati giuristi, da lui scelti, potessero dare i propri RESPONSA fondandoli sull’autorità del principe, con ciò trasferendo loro, unici tra tutti i cittadini romani, la sua UCTORITAS. Non bisogna pensare che ai giuristi a cui il principe non avesse concesso il diritto di RESPONDERE EX AUCTORITATE fosse impedito di dare RESPONSA o di scrivere libri giuridici.Pomponio ricorda che Augusto aveva concesso ai giuristi il IUS PUBLICE RESPONDENDI “onde

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accrescere l’autorità del diritto”. Con questa disposizione, il principe tendeva anche a esercitare un controllo politico della giurisprudenza.La connessione del IUS PUBLICE RESPONDENDI non soddisfa il bisogno degli imperatori di porre in qualche modo sotto controllo la giurisprudenza ma anche quello di mettere ordine nella confusione delle risposte dei giureconsulti, attribuendo con grande moderazione solo a alcuni di essi il diritto di fornire pareri che potessero vincolare i giudici e, quindi di creare istituzioni giuridiche nuove. Col passare del tempo, però, anche questo sistema manifestò i propri limiti, poiché, non potendosi evitare le divergenze, spesso profonde, tra le opinioni dei vari giuristi ufficiali, i magistrati e i giudici si videro allegare dalle parti opinioni ugualmente autorevoli ma il più delle volte contraddittorie, che li ponevano in imbarazzo creando loro ulteriori difficoltà per l’impostazione delle controversie. Già dunque a partire dalla seconda metà del primo secolo, i principi limitarono sempre più l’elargizione del IUS PUBLICE RESPONDENDI.

Le principali caratteristiche della giurisprudenza del principato

Mentre nel primo secolo d.C., i giuristi provenivano dal senato o erano di origine romano-italica, nel corso del secondo secolo d.C., divennero sempre più numerosi quelli di rango equestre o provenienti dalle provincie; in particolare modo, a cominciare dall’età di Adriano, i giureconsulti esercitarono la loro attività no per percorrere la carriera politica ma per guadagnare posizioni all’interno dell’apparato burocratico-amministrativo.L’emissioni di risposte su richiesta dei privati, nel corso degli anni ebbe dei cambiamenti. La tecnica del responso tese a diminuire, facendo spazio all’argomentazione, da parte dei respondenti, delle loro opinioni. Allo stesso tempo, con l’esaurirsi del diritto pretorio, si ridusse l’attività del cosiddetto AGERE, consistente nel dare risposte in tema di azioni processuali; come si ridusse anche l’attività del c.d. CAVERE, cioè la collaborazione al compimento di atti negoziali, che, più a lungo occupandosi soprattutto dei testamenti, andò ad estinguersi quasi completamente a causa del diffondersi dei formulari.Le forme letterarie divennero più numerose e articolate. Tra di esse ci furono:

• Opere di casistica, consistenti di casi e problemi e che comprendono: LIBRI RESPONSUM, pareri dati dal giurista su fatti reali; LIBRI QUAESTIONUM, casi per lo più immaginari ma aderenti all’esperienza giuridica romana; LIBRI DIGESTORUM, antologie molto ampie di RESPONSA e QUAESTIONES, con lo scopo di un’esposizione complessiva del diritto onorario e di quello civile;

• Opere di commento a testi giurisprudenziali, edittali e legislativi, che riguardavano: i commentari ai LIBRI IURIS CIVILIS di Quinto Mucio e Sabino; quelli AD EDICTUM, del pretore urbano in primis ma anche degli edili e governatori provinciali; i commenti alle principali LEGES e ai SENATUCONSULTA normativi;

• Opere di carattere didattico, consistenti in trattazioni sistematiche elementari, alcune proprio per l’insegnamento, come i manuali di INSTITUTIONES, per i giovani discendenti, altre, che sono raccolte di massime, definizioni, regole, opinioni, quali i LIBRI REGULARUM, SENTENTIARUM, OPINIONUM, DIFFERENTIARUM;

• Opere monografiche, su specifici temi, sia di diritto privato e di processo privato sia di diritto pubblico, dal diritto fiscale e finanziario al diritto criminale, da quello militare al diritto che disciplinava l’esercizio delle cariche pubbliche.

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Le scuole dei Sabiniani e dei Proculiani

La giurisprudenza, tra l’epoca di Augusto e Adriano, si caratterizzò per l’attività di due scuole rivali, la sabiniana e la proculiana. Entrambe fondate da giuristi di età augustea, la prima da Ateio Capitone, la seconda da Labeone, esse presero il nome dagli allievi di questi due grandi maestri, e cioè da Masurio Sabino e da Proculo. Comunque gli storici convengono che non appaiono reali distinzioni sul piano scientifico e metodologico.La scuola sabiniana incluse: Ateio Capitone, Masurio Sabino, Cassio Longino, Celio Sabino, Giavoleno Prisco, Aburnio Valente.Capitone scrisse i LIBRI IURE PONTIFICIO, sul diritto pontificio, e i LIBRI CONIECTANEORUM, in cui si raccolsero pareri e congetture su vari problemi di diritto privato e diritto pubblico.Masurio Sabino, ammesso solo in avanzata età all’ordine equestre, scrisse i famosi LIBRI TRES IURIS CIVILIS e anche opere di diritto pubblico e sacro.Cassio Longino , raggiunte cariche elevate, compose l’opera LIBRI IURIS CIVILIS, che gli diede grande fama.Celio Sabino compose un’opera sull’editto degli edili curuli (sedile simbolo della Roma giudiziaria), e libri di diritto civile.Giavoleno Prisco, fu console e governatore provinciale; scrisse libri di EPISTULAE, raccolta di QUAESTIONES e RESPONSA su argomenti di diritto civile.Aburnio Valente compose un’opera sui fedecommessi in 7 libri.La scuola proculiana ebbe trai suoi principali esponenti: Nerva padre, Proculo, Nerva figlio, Pegaso, Celso padre, Celso figlio, Nerazio. Nerva padre fu giurista di grande cultura ma non si conoscono le opere.Proculo scrisse libri di EPISTULAE e fu autore anche di alcuni RESPONSA.Nerva figlio si occupò dell’istituto dell’usucapione, scrivendo i LIBRI DE USUCAPIONIBUS e trasmise molti RESPONSA.Pegaso scrisse il SC. PEGASIANUM, promulgato dal senato in tema di diritto ereditario.Celso padre non si conoscono le opere.Celso figlio, giurista di grande valore, scrisse i famosi 39 LIBRI DIGESTORUM, dedicati al IUS HONORARIUM, con integrazioni tratte dal IUS CIVILE, e alle principali leggi dalle XII tavole alla LEX CINCIA, a quella IULIA ET PAPIA.Nerazio Prisco scrisse i libri di REGULAE e quelli di RESPONSA.

La giurisprudenza da Adriano a Commodo

Nell’età di Adriano, il contrasto tra Sabiniani e Proculiani fu superata soprattutto grazie all’influenza di un grande giurista del mondo romano, Salvio Giuliano. Nato in Africa, egli ricoprì per due volte il consolato e fece parte del consiglio di Adriano e dei successori fino a Marco Aurelio. La sua opera più famosa è i 90 libri di DIGESTA. Essi espongono in una prima parte, seguendo l’ordine edittale, il diritto onorario e quello civile, in una seconda, analizzano varie leggi e costituzioni.Tra il 134 e il 138, Adriano affidò a Giuliano il compito di compilare un testo unico e definitivo dell’editto perpetuo, il quale d’ora in avanti avrebbe perso l’accezione di “annuale”, per acquisire quella di “stabile”, “duraturo”.Discepolo di Giuliano è il giurista Cecilio Africano; autore di libri di QUAESTIONES.Nell’età tra Adriano e marco Aurelio vive Sesto Pomponio, autore di ampi commentari all’Editto

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e alle opere di Mucio e Masurio Sabino. E’ anche l’autore di un’opera insolita: il LIBER SINGULARIS ENCHIRIDII, quasi una storia giuridica di Roma.Nell’età degli Antonini vive il giurista Gaio, ma di lui non si sa nulla, a parte la sua opera più nota le ISTITUTIONES, formato da quattro libri, diretto all’insegnamento nelle scuole, che tratta, in successione di argomenti, persone, cose e azioni. A lui sono attribuite anche le RES COTTIDIANAE, un manuale per uso degli operatori del diritto. Durante gli Antonini un altro giurista fu Florentino, che scrisse un manuale delle ISTITUTIONES, ma diverso da quello gaiano, diviso in 12 libri, trattando prima i contratti, poi le persone, infine il diritto ereditario. Giurista molto acuto fu poi Ulpio Marcello, che in alcuni suoi scritti, soprattutto nei LIBRI DIGESTORUM, riesamina criticamente il pensiero dei suoi predecessori. Nel consiglio di Marco Aurelio è presente Cervidio Scevola, autore di LIBRI DIGESTORUM, libri di RESPONSA, di QUAESTIONES, di REGULAE.Infine figura singolare fu quella di Papirinio Giusto, autore di 20 LIBRI COSTITUTIONUM,dove sono presenti costituzioni di Marco Aurelio e Lucio Vero.

Giuristi e principe

All’inizio del principato, Labeone è l’unico che si distacca da questo nuovo corso politico. Era un uomo invaso da un’idea folle e smisurata di libertà. Il suo modello di sapere giuridico chiude quella che è stata definita “rivoluzione scientifica” del pensiero giuridico romano, e pone le basi di una nuova grande scienza con la quale gli imperatori dovranno fare i conti.Però una parte della giurisprudenza andava maturando. Con le posizioni di Sabino che, prendendo le distanze da Labeone, negava che le regole introdotte dai giuristi potessero di per sé avere un diretto valore normativo. Inoltre insiste sul fatto che la regola debba anche fondarsi sulla BREVITAS, rendendo cioè il più chiaro e certo possibile quello stesso diritto. E’ nell’età degli Antonini che la giurisprudenza più illuminata compie un passo verso un’opera di intervento col potere imperiale: se essa riconosce alla costituzione del principe tutta la sua importanza come fonte di produzione normativa di un impero universale e comincia a utilizzarla nelle sue opere, l’imperatore a sua volta riconosce alla scienza giuridica la sua funzione di consigliare e orientare a tal punto da essere decisiva nelle stesso processo di formazione della LEX; i giuristi diventano così gli autentici custodi della legittimità del potere, di una legalità che tutela ogni popolo dell’impero.Questo intervento non sarebbe stato possibile senza l’aiuto decisivo dei funzionari della cancelleria imperiale. I funzionari di tali uffici dovevano avere una profonda conoscenza delle opere dei giuristi: nella redazione dei provvedimenti imperiali, essi erano tenuti a valutare le differenti correnti scientifiche, estrarre i principii, adattare le soluzioni prospettate dalla dottrina ai fatti concreti sottoposti all’attenzione del principe. Giuristi, principe, funzionari della cancelleria rappresentano i tre soggetti protagonisti della nascita di un diritto che ha il compito di rielaborare parametri giuridici universali, accettabili o condivisibili, sul piano della ragione sia dell’etica, da un numero di uomini sempre più ampio.

La giurisprudenza dell’età dei Severi

L’epoca (193 – 235 d.C.) segnata dai principi appartenenti alla famiglia dei Severi ved e il

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definitivo affermarsi dell’idea di un impero cosmopolitico. L’editto del 212 di Caracalla che concede la cittadinanza romana a tutti i sudditi dell’impero costituisce l’emblema di questa nuovo storia.Ciò che il principe dice e dispone costituisce la fonte principale dell’ordine giuridico. Non solo a causa di tendenze assolutistiche verso cui l’impero stava andando, ma anche per oggettive necessità. Infatti, siccome i funzionari non sempre conoscevano a pieno il diritto romano, l’attività del principe era l’unico modo per risolvere dubbi di interpretazione e risolvere casi su opinioni diverse.La funzione del giureconsulto non consiste più tanto nel dare responsi, ma piuttosto nell’interpretare e divulgare il nuovo diritto nel partecipare al lavoro legislativo. Tra i giuristi di maggior spicco, nell’età dei severi, sono Papiniano, Paolo e Ulpiano. Papiniano, prefetto del pretorio sotto Settimio Severo, scrisse 37 libri di domande, seguendo lo schema dei DIGESTA e utilizzando le costituzioni imperiali, poi 19 libri di risposte, de di definizioni e due sull’adulterio. Ulpiano, prefetto del pretorio sotto Alessandro Severo, tra il 212 e 222 scrisse opere di carattere casistico, come discussioni e risposte, libri dedicati all’insegnamento, come quelli di istituzioni, e commentari di insieme, quali i libri sull’editto del pretore e quelli sull’opera di Sabino. Importanti le monografie pubblicistiche riguardo ai compiti dei funzionari imperiali, come i proconsoli e i prefetti. Paolo, anche lui prefetto del pretorio sotto Alessandro Severo, giurista di grande dottrina, scrisse numerosi libri di domande e di risposte, di commento a leggi pubbliche, a senatoconsulti, all’editto del pretore e alle opere dei giuristi anteriori, e anche brevi monografie su istituti di diritto civile. Un ruolo significativo lo ebbero anche Marciano e Modestino, i quali si pongono il problema di divulgare il diritto romano ai nuovi cittadini dell’impero, adoperando anche in qualche caso, le volgarizzazioni per renderlo più chiaro e accessibile. Nel complesso una caratteristica importante dei giuristi severiani è quella di essersi posti il problema di raccogliere le molteplici fonti, dando a esse una prima sistemazione. Nell’esigenza di rendere chiaro il diritto, di offrire a chi opera nell’ordinamento giuridico materiali certi per risolvere dubbi e controversie, di raccogliere e riordinare le leggi dei principi, si comincia già a vedere la codificazione che si avrà nel terzo secolo con il codice Gregoriano e Ermogeniano. Dopo i giuristi severiani si è solito parlare di un tramonto della giurisprudenza a causa della terribile crisi del terzo secolo che colpirà a breve l’impero. Dopo i severi si conoscono solo due nomi di giuristi di levatura scarsa, Ermogeniano e Arcadio Carisio, di epoca diocleziana-costantiniana. Affiora un nuovo modello di giurista. Quello che lavora all’interno della cancelleria imperiale o a stretto contatto con essa in maniera più anonima rispetto al passato, ma che è lo stesso indispensabile.

IL DIRITTO PRODOTTO DAI COMIZI , DAL SENATO, DAI MAGISTRATI, DAL PRINCIPEL’ultima produzione legislativa dei comizi

Osservando le ultime leggi comiziali, del periodo augusteo, si capisce che il principe cercò di

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realizzare la sua volontà riformatrice attraverso questi strumenti.si può ricordare la legge IULIA ET PAPIA o le leggi FUFIA CANINIA, AELIA SENTIA e IUNIA NORBANA, tutt’e tre votate negli anni compresi tra il 2 e il 4 d.C., con l’intento di limitare le manomissioni. Lo scopo era anche quello di puntualizzare la condizione dei liberti, al fine di contenere gli effetti che poteva avere un acquisto generalizzato della libertà e della cittadinanza: è attraverso questi mezzi che Augusto portò avanti il suo programma di difesa e di incremento della popolazione italica. Inoltre attraverso le leggi IULIAE DE AMBITU, DE VI PUBLICA ET PRIVATA, SAMPTUARIA, DE COLLEGIIS, che il principe mostra attenzione verso i problemi di ordine pubblico, comprendendo tra questi anche la legge IULIA DE ADULTERIIS COERCENDIS: questi interventi normativi confermano come fu proprio la repressione dei comportamenti criminali nel loro complesso ad essere al vertice delle preoccupazioni di Augusto.Infine è con le due leggi IULIAE IUDICIARIE, IUDICIORUM PRIVATORUM e IUDICIORUM PUBLICORUM, che fu ordinato nel 17 d.C. il processo criminale che si svolgeva davanti alle QUAESTIONES PERPETUAE, mentre per il processo civile fu eliminato quello per legis actiones e reso obbligatorio quello formulare.

La produzione normativa del senato

Durante i primi secoli dell’impero, comincia a nascere un potere normativo del senatoOltre a compiti di guerra, finanze ecc, il senato aveva l’attribuzione di fornire direttive ai magistrati sotto forma di consiglio: dando un parere sulle proposte di legge attraverso il senatoconsulto. All’inizio del terzo secolo, il senato assunse la forma di un atto di normazione.Il senatoconsulto sembra essere considerato, in questo periodo, non più come un esito interlocutorio, ma conclusivo e finale di un procedimento di formazione della legge, perché ritenuto emanazione di un potere diretto. Gaio informa che le norme senatorie sono ciò che l’assemblea prescrive e stabilisce ed hanno forza di leggeIn età severiana un altro celebre giurista, Ulpiano, afferma categoricamente che il senato può fare il diritto

Cognitio praetoris e diritto prodotto dai magistrati

L’attività autonoma della normativa imperiale era ostacolata dal diritto pretorio.Il diritto così prodotto in sede giurisdizionale viene descritto come un complesso di regole di cui si evidenzia la funzione pratica di volta in volta sviluppata, che è ora d’aiuto come nel caso in cui un singolo mezzo venga applicato al fine potenziare la tutela prevista; altre volte correttiva come quando si tende ad una parziale modifica o ad una totale disapplicazione della disciplina esistente; infine integrativa, come nell’ipotesi in cui si tenti di colmare eventuali lacune. Al pretore si riconobbe la facoltà e la capacità di modificare l’assetto civilistico che era stato chiamato ad applicare: non mettendo formalmente in discussione la supremazia dei quell’ordinamento, ma di volta in volta regolando in secondo piano, fino a farla scomparire, la previsione normativa esistente.La giurisdizione del pretore finì col dar luogo ad un diritto sostanziale completamente nuovo. Questo diritto si definiva per la sua flessibilità.Prodotto della giurisdizione magistratuale, il diritto pretorio dunque nasce e si consolida per

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stratificazioni successive attraverso la normativizzazione che conseguono le singole decisioni, nei limiti in cui, astrattizzate, vengono richiamate nell’editto di coloro che si susseguono nella carica.Ad indirizzare sempre più i magistrati giusdicenti verso il compimento di questa funzione creatrice del diritto, è proprio la natura stessa dell’editto giurisdizionale.

Il potere normativo imperiale: a) il fondamento; b) le forme della sua manifestazione; c) la durata delle norme

• Con il termine (Gaio) CONSTITUTIO che si indicano i vari atti normativi del principe, assai diversi l’uno dall’altro per quanto riguarda la loro efficacia nel tempo e nello spazio.

I segni dell’attività normativa imperiale sono da rintracciarsi negli editti, nei decreti, nelle Lettere, nei riscritti, negli incarichi.

Il fondamento della costituzionalità di questi atti viene identificato ricollegando il potere normativo del principe ad una legge dell’impero con cui si effettuò da popolo e senato un totale trasferimento di funzioni.

• Le forme con cui si manifesta l’attività imperiale.Con gli editti si può cogliere una somiglianza con la forma legislativa comiziale. Essi contengono norme di carattere generale fondate sullo IUS EDICENDI, attributo del potere. Non tutti potevano avere conoscenza degli editti imperiali, prima di tutto perché gli editti magistratuali contengono solo un programma di giurisdizione; secondo, perché la loro durata è limitata dal tempo della carica chi lo ha emanato; infine perché i confini del territorio italico rappresentano il limite oltre il quale non si può estendere l’efficaci.Invece egli editti imperiali disciplinano questioni generali ed astratte rivolgendosi a tutti cittadini, la loro durata va oltre il tempo in carica del preponente; la loro efficacia si estende a tutto il territorio imperiale.

Il decreto e la lettera definiscono delle decisioni giurisdizionali imperiali su singoli rapporti controversi sottoposti alla cognizione civile o criminale del principe. Il decreto contiene la sentenza che conclude un procedimento svoltosi davanti al tribunale imperiale, a volte in un'unica domanda, più di frequente in sede di appello, contro un precedente provvedimento di primo grado.Il decreto presuppone un’attività completa da parte del principe, dovendo anche occuparsi dei fatti concreti, regolando ragioni e torti in base alle norme vigenti. Rispetto a questi i decreti hanno perciò una funzione ricognitiva e confermativa.

L’EPISTULA contiene la decisione di una controversia di cui è investito un tribunale diverso da quello imperiale. Essa viene trasmessa dall’imperatore al magistrato, risolvendo solo la questione di diritto, chiama il giudice a riscontrare la concordanza della decisione dei fatti.

Il RESCRIPTUM è la risposta che si scrive in calce alla richiesta di parere avanzata da un privato. Queste domande sono prodotte attraverso LIBELLI, PRECES, e SUPPLICATIONES, rivolte all’autorità imperiale per conoscerne il giudizio, mirano a mettere fine a una controversia che si svolge davanti a un tribunale che non è quello imperiale: anche in questo

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caso l’applicabilità della decisione è subordinata all’attività del giudice che valuta la possibilità di risolverla.

Né la lettera né il rescritto estendono però immediatamente la loro efficacia al di là del caso concreto.

L’attività rescribente comincia a farsi più viva a partire dall’età degli Antonini per diventare poi il principale strumento di manifestazione della volontà normativa imperiale.

I MANDATA erano istruzioni generali in materia processuale, amministrativa, e finanziaria, consegnate o trasmesse dal principe ai propri funzionari e ai governatori delle provincie senatorie. Solo con Marciano che vengono richiamate le norme che attraverso i MANDATA sarebbero state introdotte.

• L’efficacia nel tempo.Per quanto riguarda gli editti, contenendo un GENERALE PRAECEPTUM, viene riconosciuta una efficacia duratura.

Per quanto riguarda, invece, le decisioni adottate dal principe in sede giurisprudenziale (DECRETA, EPISTULAE, RESCRIPTA) la loro efficacia si estende nel tempo solo quando si riesce a sollevarle dal piano dei provvedimenti giurisprudenziali a quello delle manifestazioni normative attraverso l’opera mediatrice dell’interprete, che ne rivela i principi normativi dopo aver eliminato sia le decisioni aventi ad oggetto fatti particolarissimi, sia quelle non suscettibili di applicazione analogica perché animate solo dall’intento di favorire persone o comunità determinate.

Cognitio principis e diritto privato dai funzionari imperiali.

Portatosi al vertice delle istituzioni ed assunta la titolarità esclusiva delle funzioni legislative, l’imperatore sembra proporsi come propulsore e moderatore unico dell’evoluzione dell’ordinamento.Il principe cioè tende a succedere al pretore nel disimpegno della funzione giurisprudenziale presiedendo un tribunale privo di limiti, quanto a competenza per materia e per territorio, e con funzioni di giudice di secondo grado sulle decisioni già rese e non solo dai funzionari gerarchicamente subordinati all’autorità imperiale. Dal secondo secolo in avanti, l’imperatore si era sforzato di adeguare il proprio tribunale alla manifestazione di compiti di giurisdizione: da un lato regolandone il funzionamento e coinvolgendovi i rappresentanti più autorevoli del pensiero giuridico, dall’altro disciplinando la COGNITIO PRINCIPIS di origine augustea. Tramite essa gli imperatori avevano cominciato a intervenire EXTRA ORDINEM IUDICIORUM. A volte per modificare il deliberato di un giudice, per il cui riesame si ricorreva al principe. Altre volte, per dare tutela giuridica a rapporti rimasti estranei alla sfera dell’ordinamento, o per far rientrare in quella dei funzionari imperiali destinati alla giurisdizione rapporti un tempo di competenza del giudice ordinario. Aveva così preso vita una nuova attività giurisdizionale, strutturalmente più incline ad intrecciarsi con lo svolgimento di funzioni normative.

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L’ETA’ TARDOANTICAIl quadro generale

L’unica fonte viva del diritto è riconosciuta dall’assolutismo imperiale nell’imperatore. Il termine LEX, riservato in precedenza alle sole disposizioni normative provenienti dal popolo, viene ora a indicare direttamente la costituzione imperiale. Si assiste anzi a una sorta di identificazione dell’imperatore con la legge: egli viene definito LEX ANIMATA, legge vivente. Per altri aspetti della produzione del diritto si ha invece una evidente frattura tra principato e impero tardo antico.Mentre nel principato i giuristi svolgono un’insostituibile e pienamente riconosciuta funzione di guida nello sviluppo e nella creazione del diritto, a partire da Diocleziano essi perdono in gran parte tale ruolo. Il giurista tardo antico è, per lo più, un anonimo burocrate che lavora nelle cancellerie imperiali alla preparazione di testi normativi del principe, oppure è un professore di diritto che nelle scuole, esercita un insegnamento non disgiunto, talora, da una riflessione originale, ma teorizzante. Al lavoro del giurista non è più riconosciuto alcun rilievo nella creazione del diritto; si comprende così come scompaia il IUS RESPONDENDI EX AUCTORITATE PRINCIPIS. Giustiniano, con una famosa costituzione che rappresenta una specie di “manifesto” dell’assolutismo imperiale, giungerà a riservare all’imperatore non soltanto la creazione del diritto, ma anche la stessa interpretazione. Ai sudditi non resta che la fedele applicazione delle leggi.L’opera della giurisprudenza del principato non è dimenticata. Gli scritti dei giuristi precedenti vengono infatti utilizzati come diritto vigente, a fianco delle costituzioni imperiali. In contrapposizione alle leggi (costituzioni imperiali), l’insieme degli scritti giurisprudenziali del principato è di solito denominato diritti, con terminologia efficace per evidenziare la bipartizione delle fonti del diritto di questo periodo tra fonti vive e fonti che sono ereditate dalla grande tradizione del passato, ma costituiscono ormai un organismo in sé chiuso e compiuto.Legge e diritti, unitariamente considerati, formano il ‘diritto scritto’ (ius ex scripto), che è distinto dal diritto consuetudinario (ius ex non scripto). La consuetudine ha tuttavia una posizione marginale nel sistema normativo. Nel diritto giustinianeo è ammessa soltanto la consuetudine c.d. SECUNDUM LEGEM, cioè quella espressamente chiamata dalla legge, mentre non trovano spazio né la consuetudine PRAETEM LEGEM, che va a colmare le lacune legislative, né quella contraria alla legge (CONTRA LEGEM).La divisione dell’impero in due parti, l’Occidente e l’Oriente, comprende un dualismo legislativo. L’impero è sempre sentito come un’entità politico-costituzionale unitaria e indivisa. I provvedimenti legislativi sono emanati formalmente nel nome di tutti gli imperatori regnanti, ma ciascun imperatore legifera esclusivamente per la parte di sua spettanza e le costituzioni sono di conseguenza applicate solo in essa.

L’età tardo antica, anche per le fonti del diritto, è un’epoca di incertezza e di crisi. La concentrazione nelle mani dell’imperatore del potere normativo non risolve i problemi, ma pare aggravarli. Prima di tutto si vuole una maggiore certezza, che proviene dal disordine e dall’occasionalità della legislazione imperiale. I testi delle costituzioni sono scritti spesso in un

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linguaggio esagerato e oscuro, che aumenta le ambiguità normative. Si sente l’assenza di una giurisprudenza guida che, come nel passato, con l’interpretazione, faccia da filtro tra l’abbondante produzione normativa imperiale e la sua concreta applicazione. Problemi in parte simili presenta l’impiego degli scritti giurisprudenziali del passato come diritto vigente.

Le costituzioni imperiali

Nel tardo impero sono due le categorie principali di costituzioni, le leggi generali e i rescritti. I MANDATA (istruzioni che l’imperatore dà ai suoi funzionari) scompaiono, mentre i DECRETA (decisioni giurisdizionali) si confondono con i rescritti. Le LEGES GENERALES, sono le costituzioni aventi carattere generale e si contrappongono ai rescritti, che sono invece misure particolari. Ci sono due nuovi tipi di costituzione. La PRAGMATICA SANCTIO (sanzione pragmatica) e l’ADNOTATIO (notazione). La prima appare nel corso del quinto secolo. Sembra che sia un provvedimento avente carattere particolare, utilizzato a vari scopi, soprattutto per rispondere a domande di province, città o corporazioni. L’ADNOTATIO è una risposta a domande presentate all’imperatore scritta a margine della richiesta, e non in calce. Tramite essa si concedevano privilegi o esenzioni di vario genere.A poco a poco emerge la necessità di avere dei criteri oggettivi per poter distinguere le leggi generali dai rescritti. Ci potevano essere delle situazioni marginali dove la distinzione non era chiara. ne conseguiva un rischio che si consolidasse nella prassi come soluzione generale quella che era stata prevista invece per un caso particolare. Per evitare ciò bisognava fare chiarezza sul grado di valore normativo da attribuirsi alle costituzioni imperiali. Il riferimento al solo contenuto delle stesse non era sufficiente. La soluzione infine, fu perciò quella di indicare dei criteri formali, cui ricorrere per stabilire se una costituzione fosse da considerare o meno d’applicazione generale.Nel 426 la cancelleria imperiale occidentale di Valentiniano III affrontò il problema con un’importante costituzione che i compilatori teodosiani e giustinianei hanno diviso in vari frammenti. Con questo provvedimento viene per prima cosa ribadita la distinzione tra rescritti e leggi generali, riconfermando l’efficacia limitata dei primi. Per le leggi generali, si dispone che siano considerate tali le costituzioni che, anche quando sono prese da un caso particolare, rispondo ad almeno uno di questi requisiti: siano trasmesse al senato sotto forma di orazione imperiale, abbiamo l’espressa denominazione di editto o legge generale, siano rese note presso tutte le popolazioni dell’impero tramite avvisi dei governatori affissi in pubblico, avvertano in maniera chiara che quanto stabilito per certi casi debba essere applicato anche per i casi simili, contengano l’ordine che debbano concernere tutti.

Le compilazioni private di costituzioni imperiali

Il problema della conoscibilità delle costituzioni imperiali si presenta in modo nuovo nel tardo impero. Il fattore discriminante è l’assenza di una giurisprudenza guida. Un altro aspetto problematico era dato dalla stessa materiale reperibilità dei testi delle costituzioni.Molto carente era la diffusione delle costituzioni tra i privati. Esse infatti non avevano una circolazione ufficiale ed era lasciata all’iniziativa dei singoli il trarne copia per la diffusione, prendendo dagli archivi centrali o periferici o dagli albi pubblici, in cui esse erano affisse.

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D’altra parte la necessità dei privati di procurarsi e disporre del testo delle costituzioni dipendeva anche dal fatto che nei processi era onere delle parti indicare espressamente il materiale normativo, su cui poggiavano le rispettive difese: è la cosiddetta RECITATIO, tipico atto del processo tardo antico. Nel tardo impero si moltiplicano i lavori di compilazione, e in particolare quelli di sole costituzioni imperiali. Tutto questo lavoro compilatorio si avvalse di uno strumento, per così dire editoriale, relativamente nuovo: il CODEX (codice), cioè il libro formato da pagine legate insieme, che sostituì il rotolo di papiro (VOLUMEN). E’ un cambiamento che coinvolse tutta la cultura letteraria antica. Il nuovo strumento fu adottato con successo per compilare le prime compilazioni di costituzioni imperiali, tanto che il termine codice finì per designare in modo tecnico le raccolte di costituzioni. La ragione di questo successo è evidente: il lettore disponeva, con il codice, del testo delle più importanti costituzioni, che sennò avrebbe dovuto trovare con difficoltose ricerche d’archivio; le costituzioni inoltre erano collocate in un quadro sistematico e distribuite, sotto vari titoli a seconda del contenuto. Le prime compilazioni di costituzioni imperiali risalgono alla fine del terzo secolo, inizio quarto. Sono il CODEX GREGORIANUS e il CODEX HERMOGENIANUS. Entrambi i codici raccoglievano rescritti imperiali, il cui testo era ridotto alla sola parte contenente disposizioni normative, con l’omissione di tutto ciò che fungeva da introduzione o contorno alla norma vera e propria.Il codice gregoriano includeva rescritti a partire dall’imperatore Adriano sino a Diocleziano, distribuiti in libri (almeno 15), che, a loro volta, si dividevano in titoli piuttosto numerosi. Il codice ermogeniano (forse opera del giurista Ermogeniano) era composto da rescritti di Diocleziano degli anni 293-294 d.C., distribuiti in un solo libro diviso in titoli. Sembra che si trattasse di un completamento del codice gregoriano. In entrambi si trattò del lavoro compilatorio scaturito dall’iniziativa privata di singoli giuristi. Però solo personaggi ben inseriti a corte e con agevole accesso agli archivi delle cancellerie avrebbero potuto avere l’opportunità e la capacità di compilare simili raccolte.

Il codice teodosiano

Siccome i tentativi di aggiornamento dei due codici non furono sufficienti a dar conto della produzione legislativa che si stava accumulando, riapparve così ben presto il problema della certezza del diritto, legato al disordine legislativo e alla stessa conoscibilità delle costituzioni imperiali.A questa diffusa esigenza di darà finalmente una risoluzione in oriente, nel 439, sotto il regno di Teodosio II, con la pubblicazione della prima compilazione ufficiale di costituzioni imperiali: il Codice teodosiano (CODEX THEODOSIANUS). Il codice fu costituito tramite due processi, di cui il primo non andato in porto.Con una costituzione del 429 venne nominata una commissione con un doppio compito: realizzare una raccolta, per gli studiosi, di tutte le costituzioni emanate da Costantino in avanti, anche quelle non più in vigore, ordinandole secondo il sistema dei due codici privati precedenti; compilare una seconda raccolta, a carattere pratico, in cui ci fossero solo le costituzioni vigenti, prendendole dai codici gregoriano ed ermogeniano e dal terzo codice appena composto; il testo delle costituzioni doveva essere accompagnato da brani scelti dalle opere della giurisprudenza

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del principato. Questo progetto non fu realizzato. Non viene però abbandonata l’idea di attuare una compilazione. Nel 435 si ritirano su un processo meno ambizioso: si rinuncia di inserire nella raccolta anche passi tratti dai diritti e si nomina una seconda commissione con l’incarico di raccogliere tutte le leggi generali emanate da Costantino in poi, anche quelle abrogate, con la facoltà di modificarne i testi per eliminare ambiguità, parti ridondanti e così via. Il nuovo codice si sarebbe affiancato a quelli gregoriano ed ermogeniano.La commissione concluse in poco più di due anni i suoi lavori; il Codice teodosiano fu pubblicato in Oriente il 15 febbraio del 438, ed entrò in vigore il 1 gennaio del 439. Contestualmente venne inviato a Valentiniano III, che regnava in Occidente, dove fu pubblicato con la sua presentazione al senato di Roma, che lo accolse con grande favore.Il Codice teodosiano è composto di sedici libri, divisi in titoli. All’interno di ciascun titolo le costituzioni si susseguono in ordine cronologico; per ognuna di esse è indicato il nome dell’imperatore o degli imperatori che le avevano emanate; il destinatario e la data.Lo schema seguito è grosso modo quello dei DIGESTA del principato. Però c’è una forte prevalenza di materie di diritto pubblico, rispetto ad argomenti privatistici, il che forma una delle più importanti caratteristiche. Un’altra novità è la presenza di un intero libro dedicato soltanto alla legislazione in materia ecclesiastica e religiosa. Ciò fa capire la grande importanza che il cristianesimo aveva ormai assunto nell’ordinamento giuridico dell’impero. In Oriente il Codice teodosiano rimase in vigore sino al 529, anno in cui fu emanato il primo Codice di Giustiniano, che lo sostituì. In Occidente la sua influenza si fece sentire più a lungo: nelle zone in cui la compilazione giustinianea non fu introdotta (perché non riconquistate dagli eserciti di Giustiniano) il destino del diritto romano sino all’alto medioevo fu anche legato all’utilizzo dei testi del teodosiano, tramite l’intervento delle c.d. leggi romano-barbariche che li avevano inclusi.

La compilazione del Codice teodosiano non fu solo un tentativo di avere una migliore certezza del diritto tramite una più agevole rintracciabilità delle costituzioni, ma con esso cambiò anche il modo di porsi del legislatore imperiale di fronte alla produzione e all’interpretazione del diritto.

Le opere della giurisprudenza del principato nell’età tardo antica

A proposito della trasmissione dei testi, il passaggio della tecnica editoriale del papiro a quella del codice coinvolse anche le opere giurisprudenziali. Tra il terzo e quarto secolo furono preparate nuove edizioni di molte di esse. Esse subirono qualche aggiornamento o modifica. La parte riguardante gli scritti giurisprudenziali è stata inserita nel Codice teodosiano ed è tradizionalmente denominata “legge delle citazioni”.Questo provvedimento contiene una regolamentazione precisa dell’uso delle opere dei giuristi del passato nei processi. In primo luogo la validità di tutti gli scritti di Gaio, Paolo, Papiniano, Ulpiano e Modestino. Si dispone inoltre che nel caso in cui siano citate in giudizio opinioni giurisprudenziali contrastanti, debba imporsi l’opinione della maggioranza. Se c’è parità di opinione, è il pensiero di Papiniano che prevale. Se Papiniano no è citato, in presenza di parità il giudice può scegliere quella che ritenga più opportuna. La legge prevede che possano essere citate opinioni di altri giuristi, purché richiamate nelle opere dei primi cinque menzionati, e a condizione che si riscontri l’esattezza del riferimento, controllando il manoscritto originale.

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Lo scopo concreto avuto dal legislatore fu quello di regolamentare la citazione dei testi giurisprudenziali nei processi, dando una soluzione al problema della presenza di passi contrastanti citati dalle parti a sostegno delle proprie difese.

La giurisprudenza tardo antica

I principali campi in cui si manifestò l’attività giurisprudenziale tardo antica furono l’insegnamento e il lavoro sui testi normativi. I giuristi prestarono la propria attività anche nelle cancellerie imperiali, come consulenti degli imperatori. La loro opera si svolse nell’anonimato: i testi delle costituzioni redatti come riferentesi direttamente alla volontà del sovrano, senza lasciar nulla intendere sul lavoro preparatorio che stava alla base della loro emanazione. E’ discusso il valore dell’insegnamento e della cultura giuridica tardo antica. Nelle scuole, soprattutto quelle orientali, si mantennero intatti lo studio e la riflessione sulle opere dei giuristi del passato. Ciò contribuì alla conservazione della tradizione giuridica romana, e rese possibile la compilazione del Digesto, tramite il quale il pensiero giurisprudenziale antico influì in modo determinante sulla storia del diritto dal Medioevo ad oggi. Nel tardo impero l’insegnamento si svolgeva sui testi dei giuristi.

I giuristi non si dedicavano soltanto all’insegnamento. Alcune opere giunte sino a noi al di fuori della compilazione giustinianea, mostrano come nell’età tardo antica vi fosse una varia produzione di scritti che avevano l’evidente scopo di rendere più facilmente accessibili i testi della giurisprudenza del principato e delle stesse costituzioni imperiali.

L’attività della giurisprudenza non ebbe solo a oggetto gli scritti dei giuristi. Essa si rivolse anche alle costituzioni imperiali, approntando compilazioni private di sole costituzioni, quali i codici gregoriano ed ermogeniano, o affiancando nelle antologie i testi di leggi imperiali a quelli giurisprudenziali.

La fine della giurisprudenza del principato e della sua funzione di guida nello sviluppo del diritto contribuì, assieme ad altri fattori, al prevalere di impostazioni presenti nella prassi, che condussero in età tardoantica alla trasformazione di alcune peculiari caratteristiche del diritto privato romano. Come: l’abbandono dell’impostazione processualistica del discorso giuridico, il declino della distinzione tra proprietà e possesso, l’affermarsi del principio che il semplice consenso fosse idoneo a trasferire la proprietà senza necessità alcuna di ricorrere ai negozi traslativi tipici, ecc.

Le leggi cosiddette “romano-barbariche”

Dopo la caduta nel 476 dell’impero romano d’Occidente si formarono regni germanici, governati da re, nei quali vigeva il principio della personalità del diritto: le popolazioni di origine romana continuarono perciò a essere rette dal diritto romano, mentre i ‘barbari’ vivevano secondo il loro diritto, per lo più consuetudinario. Per venire incontro alle esigenze dei sudditi romani, i re ‘barbari’ ordinarono la compilazione di alcune raccolte di diritto romano. Agli inizi del sesto secolo si colloca la LEX ROMANA BURGUNDIONUM. In essa si susseguono

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norme liberamente basate sui codici gregoriano, ermogeniano e teodosiano, sulle Istituzioni di Gaio e sulle PAULI SENTENTIAE, senza però alcuna indicazione della fonte e con ampio ricorso alle tarde INTERPRETATIONES di tali testi giuridici. Assai più importante è la LEX ROMANA WISIGOTHORUM, che venne emanata nel 506 nel regno visigoto, che occupava la Spagna e parte della Francia meridionale. Si tratta di una raccolta di diversi testi giuridici romani riportati in successione l’uno dopo l’altro; essa contiene: una parte consistente del Codice teodosiano e delle Novelle post-teodosiane, con le relative interpretazioni, l’EPITOME GAI, gran parte delle sentenze di Paolo, alcune costituzioni tratte dai codici gregoriano ed ermogeniano, un brano dei RESPONSA di Papiniano.La legge romana dei visigoti ebbe un ruolo significativo nella Francia meridionale, fungendo da tramite del diritto romano sino al tredicesimo secolo, allorché si affermò in una sostituzione la compilazione giustinianea nel frattempo riscoperta in Italia. Ci fu anche un editto di Teodorico. Si tratta infatti di una compilazione emanata in Italia intorno al 500 da Teodorico il Grande, re degli ostrogoti, il quale riconosceva la sovranità dell’imperatore d’Oriente, considerandosi suo governatore d’Italia. Per questo motivo prende il nome di editto e non legge, ed è destinata a valere per tutti i suoi sudditi, sia romani, sia ‘barbari’. Comprende 154 brevi articoli, senza nessuna indicazione delle fonti da cui sono tratte le norme.

La compilazione giustinianea

L’opera di compilazione dovuta all’imperatore Giustiniano (527-565), denominata anche, nel suo insieme, CORPUS IURIS CIVILIS (corpo del diritto civile), segna allo stesso tempo la fine e l’inizio di un’epoca per la storia giuridica. Essa si colloca al termine della lunga vicenda del diritto romano, chiudendo la fase antica della sua storia. Il CORPUS IURIS CIVILIS dà inizio a una nuova vicenda del diritto romano, separata e diversa rispetto a quella antica.In essa è contenuta un’opera, il Digesto, che consiste in un’antologia ragionata (seguendo un impianto sistematico) di frammenti tratti da scritti dei giuristi del passato. Il Digesto ci consente di avere un’idea incompleta e in parte distorta, ma preziosissima, del pensiero dei giuristi antichi, del contenuto delle loro opere, delle loro tecniche argomentative, del loro modo di affrontare i problemi giuridici e di risolverli. Il Digesto e il altre opere (Codice, Istituzioni e Novelle) sono il risultato di una felice combinazione tra un rinnovato interesse per la cultura giuridica antica (il c.d. classicismo di Giustiniano) e la ricerca di maggiore efficienza dell’ordinamento giuridico. Giustiniano afferma a ogni passo che egli persegue certezza del diritto e rapidità nei processi. La novità rispetto al passato è costituita proprio dal fatto che si realizza anche una compilazione di scritti giurisprudenziali, abbandonando così la soluzione meccanica e un po’ semplicistica della legge delle citazioni. Lo scopo pratico avuto di mira da Giustiniano si traduce anche in una più approfondita riflessione sul contenuto del potere imperiale e sull’uso degli strumenti legislativi che gli sono propri. La dimensione assolutistica dell’impero tardoantico trova così alcune delle sue più lucide e consapevoli formulazioni. In una famosa costituzione emanata nel 529, Giustiniano afferma solennemente che l’imperatore è l’unico creatore e interprete del diritto. Ai sudditi è lasciato solo il compito di applicare le leggi imperiali. Se c’è in esse qualcosa di oscuro e se si avverte qualche lacuna bisogna rivolgersi al sovrano, perché vi provveda. E’ significativo che proprio nella TANTA, al termine della compilazione più difficile, quella dei

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diritti, sia contenuto il divieto di ogni interpretazione dei testi normativi. Le norme sono ormai chiare e comprensibili; esse si devono perciò applicare e non già interpretare. Si consente soltanto, a scopi didattici, la loro traduzione letterale in greco, la composizione di indici e il richiamo di passi paralleli. Qualsiasi altra riflessione su di esse è vietata. L’assolutismo imperiale esige programmaticamente il monopolio sia sulla produzione che sull’interpretazione del diritto.

Il 13 febbraio 528 l’imperatore Giustiniano, alito al trono da meno di un anno, con la costituzione HAEC QUAE NECESSARIO nominò una commissione per la compilazione di una nuova raccolta di costituzioni imperiali. Ai compilatori vennero date istruzioni di modificare i testi legislativi in modo da renderli più chiari, di eliminarne le parti superflue, di raggruppare le costituzioni riguardanti lo stesso argomento, di tralasciare quelle abrogate, di eliminare ogni contraddizione. L’obiettivo era di arrivare alla compilazione di un codice in cui confluisse il materiale contenuto nei tre codici precedenti (gregoriano, ermogeniano e teodosiano) e le costituzioni successivamente emanate. Lo scopo era soprattutto pratico: sostituire con un’unica opera i tre codici in vigore e le numerose costituzioni che si erano venute accumulando dopo l’emanazione del teodosiano. Il lavoro della commissione durò poco più di un anno e il 7 aprile 529, con la costituzione SUMMA REI PUBBLICAE, venne pubblicato il nuovo codice.

Dopo la compilazione del nuovo codice si considera l’idea di procedere a una compilazione di diritti. Il merito maggiore per aver proposto tale progetto e per esserne stato la guida, va dato a Triboniano, che già presente nella commissione di compilazione del primo codice, divenne ben presto QUAESTOR SACRI PALTII (il questore del palazzo sacro), cioè una specie di ministro della giustizia.Il 15 dicembre 530, con la costituzione DEO AUCTORE, diretta a Triboniano, si dà inizio ufficialmente all’opera di compilazione. A Triboniano viene affidato anche il compito di scegliersi i collaboratori per formare la commissione che dovrà procedere al lavoro. Il materiale da raccogliere doveva essere tratto da scritti di giuristi muniti del diritto di rispondere (IUS RESPONDENDI), senza tener conto dei limiti contenuti nella c.d. legge delle citazioni. I commissari dovevano evitare contraddizioni e ripetizioni. I testi dovevano essere opportunamente modificati, per renderli più chiari e idonei al diritto vigente. I brani così selezionati e adattati erano da distribuirsi in cinquanta libri, ciascuno dei quali diviso in titoli, seguendo l’ordine del Codice, e dell’editto perpetuo. Una volta inseriti nel Digesto i brani giurisprudenziali erano da considerarsi assimilati a costituzioni imperiali. Il lavoro venne svolto assai rapidamente, in circa tre anni, e il 16 dicembre 533, con la costituzione bilingue TANTA-…, Giustiniano pubblicava il digesto, preparando l’entrata in vigore al 30 dicembre dello stesso anno. La costituzione prevede, inoltre, il divieto di far uso di testi normativi che non siano tratti dallo stesso Digesto e dalle altre compilazioni ufficiali (Codice e Istituzioni), e ricorda che il grande “rispetto nei confronti degli antichi” aveva indotto a non tacere il nome dei giuristi, indicando l’autore di ogni frammento. Il Digesto (abbreviato con D.) è diviso in cinquanta libri, ciascuno dei quali diviso a sua volta in titoli, muniti di una rubrica che indica l’argomento trattato nel titolo. All’interno dei titoli seguono i frammenti, tutti preceduti da un breve iscrizione, che indica l’opera da cui il frammento è tratto e il giurista che ne è l’autore. I frammenti più lunghi sono divisi in un principio e in più paragrafi.

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La costituzione TANTA a scopi soprattutto didattici, divide il Digesto in sette parti: 1) comprende i libri 1-4 riguardo ai principi generali e alla giurisdizione; 2) la PARS DE IUDICIIS 8libri 5-11), dedicata al processo; 3) la PARS DE REBUS (12-19), che tratta di obbligazioni e contratti; 4) l’UMBLICUS (20-27) che si occupa di obbligazioni e diritto di famiglia; 5) DDE TESTAMENTIS (28-36), relativa alla successione testamentaria; 6) libri 37-44 dedicati ad altri istituti successori e ad argomenti eterogenei; 7) ultima parte che comprende gli ultimi cinque libri, riguardo a vari argomenti tra cui la STIPULATIO, il diritto criminale, l’appello, il diritto municipale.Giustiniano dichiara in modo esplicito che i brani dei giuristi raccolti nel digesto hanno lo stesso valore delle costituzioni imperiali e che pertanto debbono trovare applicazione in tutti i processi, sia futuri, sia ancora precedenti.

Metodo seguito dai compilatori nel compiere il Digesto: due principali spiegazioni; teoria delle “masse” e l’esistenza di compilazioni a catena, i c.d. Predigesti.

Il 21 novembre 533 Giustiniano con la costituzione IMPERATORIAM pubblicò un nuovo manuale istituzionale: le ISTITUTIONES (Istituzioni). Esse sono costruite sul modello di Gaio, rispettandone la divisione in quattro libri e la distribuzione della materia in tre parti (PERSONAE, RES, ACTIONES). A differenza del manuale gaiano, i libri sono però divisi in titoli e inoltre vi è alla fine un breve titolo dedicato al diritto e al processo penale, che non c’è in Gaio. Non si tratta solo di un manuale scolastico: le Istituzioni giustinianee hanno infatti anche un valore normativo, tanto che in alcuni casi introducono delle riforme. Pochi giorni prima della pubblicazione delle Istituzioni, con la costituzione OMNEM (533), Giustiniano riformò gli studi giuridici. Gli studenti dovevano utilizzare, come tesi di studio, le opere comprese nella compilazione. Non si poteva far più uso degli scritti degli antichi giuristi. C’era però il problema della lingua: i testi del CORPUS IURIS erano scritti in latino, lingua che nno era compresa dagli studenti orientali, i quali conoscevano solo il greco. I professori di diritto apprestarono perciò una serie di opere didattiche, in greco, per rendere accessibili Istituzioni, Digesto e Codice ai loro studenti.

Dalla data di pubblicazione del primo Codice (7 aprile 529) alla costituzione DEO AUCTORE (15 dicembre 530) Giustiniano emanò varie costituzioni, che l’imperatore stesso denomina nel loro insieme cinquanta decisioni (QUINQUAGINTA DECISIONES), tramite le quali vennero affrontate varie questioni controverse. Subito dopo la compilazione del Digesto, l’imperatore diede incarico a Triboniano, posto a capo di una commissione ristretta, di procedere alla necessaria revisione e integrazione del Codice, facendo tutte le modifiche, i tagli e le correzioni che si rendessero necessari. L’opera procedette velocemente e con la costituzione CORDI del 534 venne pubblicato il secondo Codice, il CODEX REPETITAE PRAELECTIONIS che sostituiva integralmente il primo. Il codice è diviso in dodici libri suddivisi in titoli. All’interno di ciascun titolo i frammenti delle costituzioni si susseguono in ordine cronologico. Ogni frammento è preceduto da una prescrizione che contiene il nome dell’imperatore o degli imperatori che emanarono il provvedimento ed è completato da un sottoscrizione con la data di emanazione. Dopo la pubblicazione del CODEX REPETITIAE PRAELECTIONIS Giustiniano proseguì la sua attività legislativa, emanando numerose costituzioni nominate Novelle (NOVELLAE). Esse non si unirono mai in un a compilazione ufficiale, ma circolarono in raccolte private, che finirono per comprendere anche costituzioni emanate dai suoi immediati successori.

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Molte novelle affrontano problemi di diritto amministrativo o di diritto pubblico in genere, ma non mancano i provvedimenti a tematiche privatistiche, soprattutto di diritto successorio e di famiglia. Le Novelle sono scritte in greco, perché in <oriente era la lingua prevalente.

Alla fine del nono secolo ci si ricollega nuovamente al CORPUS IURIS; così l’imperatore Leone il Filosofo realizza una nuova grande compilazione con lo scopo di sostituire definitivamente quella giustinianea. Si tratta dei Basilici, o LIBRI BASILICORUM, che raggruppano in sessanta libri tutto il contenuto del CORPUS IURIS, seguendo l’ordine del Codice. Nei secoli successivi il testo dei Basilici fu terminato da numerosi commenti, detti scoli, tratti anch’essi in parte dalle opere dei giuristi giustinianei e in parte da scritti più recenti. I Basilici sono una raccolta di brani tratti da opere di giuristi antichi (giuristi del sesto secolo). L’ultima opera di questo genere è un manuale in sei libri (Hexabiblos) di Costantino Armenopulo, scritto intorno al 1345.

Per quanto riguarda l’Occidente basta ricordare che la compilazione giustinianea venne introdotta in Italia, dopo la sua riconquista, con la c.d. PRAGMATICA SANCTIO PRO PETITIONE VIGILII, una costituzione inviata da Giustiniano al papa Vigilio nel 554.