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Appunti di LETTERATURA 1 Alberto Vipraio Tiberi - 5 a T serale 2014/15 1 Appunti forniti dalla Prof.ssa C. Stanizzi IL NEOCLASSICISMO Il Neoclassicismo, in letteratura, fu un movimento artistico-letterario che si sviluppò in Europa tra la seconda metà del 700 e il primo decennio dell‟‟800, manifestando un orientamento del gusto e delle predilezioni culturali verso la civiltà antica, soprattutto greca, scelta come modello da emulare. Nata nellambito delle arti visive, tale tendenza ricevette un forte impulso dagli importanti ritrovamenti archeologici di Ercolano e Pompei, effettuati nell ultimo trentennio del secolo. Tali rinvenimenti furono fondamentali per lorganizzazione dellarcheologia in scienza moderna e contribuirono alla nascita di un turismoaristocratico diretto verso i luoghi della classicità, soprattutto in Italia e in Grecia. Cominciarono così a moltiplicarsi le testimonianze di viaggio. Nell ambito delle arti figurative, la riflessione teorica, trovò la sua formulazione nellopera di due tedeschi, il pittore Anton Raphael Mengs e larcheologo e storico dellarte Johann Joachim Winckelmann, che aveva visitato Pompei e Paestum intuendone per primo l importanza archeologica. Winckelmann propugnò l ideale di unarte equilibrata e composta, priva di passionalità, capace di rievocare la naturale semplicità dei tempi remoti della civiltà nell età di Pericle (Atene, 461 - 429 a C). Limitazione dei modelli dellantichità corrispose alla volontà di recuperare non soltanto le antiche forme di bellezza, ma anche la razionalità e lequilibrio morale che quelle forme esprimevano, partecipando in questo degli ideali tipicamente illuministici. La classicità, soprattutto greca, fu vista come una mitica età dell oro, in cui lumanità viveva in armonia con la natura ed il bene coincideva con la bellezza. Il neoclassicismo vagheggiò un bello idealenitido, raffinato, lontano dalla passione. Lesigenza di creare un punto di riferimento e dordine fra i grandi sconvolgimenti dellepoca, generò un neoclassicismo scenografico, di composta bellezza, largamente adottato in epoca napoleonica, che divenne moda e improntò anche larchitettura, larredamento e labbigliamento. In ambito letterario, il neoclassicismo si tradusse nel ricorso alla mitologia (la mitologia greca si compone di una vasta raccolta di racconti che spiegano l origine del mondo ed espongono dettagliatamente la vita e le avventure di un gran numero di dei, eroi, mostri e altre creature mitologiche) e, se il riferimento era al presente, allallegoria. La lingua, modellata su quella dei classici greci e latini, è artefatta, lontana da quella corrente. Fuori dItalia, soprattutto in Francia con André de Chénier, i principi neoclassici si legarono al presente e, in particolare, alle istanze rivoluzionarie. In Italia, centro del classicismo fu la capitale del Regno allepoca di Napoleone, Milano, dove lavorava lo scultore Antonio Canova e dove fu avviata l edizione della Collezione dei classici italiani (1802-1814), che raccoglieva gli autori maggiori della tradizione italiana fornendo un canone ben preciso di letterarietà. I generi letterari più coltivati furono quelli tradizionali della classicità: Vittorio Alfieri fece rivivere la tragedia, ambientando le sue storie nel mondo antico. Il maggiore scrittore neoclassico italiano fu Vincenzo Monti, che tradusse in endecasillabi sciolti lIliade di Omero, completata nel 1810. In Italia Ugo Foscolo scrisse, oltre a un romanzo che manifestava una sensibilità preromantica come Le ultime lettere di Jacopo Ortis (1802), due odi allegoriche neoclassiche (A Luigia Pallavicini caduta da cavallo, del 1799, e All amica risanata, del 1802) e, a conclusione della sua carriera poetica, le Grazie, poema rimasto frammentario, dedicato a tre divinità minori che secondo la mitologia classica sono al seguito di Venere. Nelle Prose e poesie campestri (1788 e 1817), Ippolito Pindemonte celebrò piaceri eruditi e tranquillisullo sfondo di uno scenario campestre. Lautore ricorda la tradizione pastorale che risale a Teocrito, ma, invece del distacco neoclassico, compare una vena melanconica. Il neoclassicismo sfumò nel romanticismo ed è interessante il fatto che l articolo di Madame de Staël Sullutilità delle traduzioni in Italia, destinato a scatenare nel 1816 la polemica tra classicisti e romantici, apparve sulla rivista La Biblioteca italiana proprio nel periodo in cui Monti era condirettore. A tradurlo fu un classicista illuminato, Pietro Giordani. Il classicismo fu una scelta formale che influì anche sulla nuova sensibilità patetica e sentimentale manifestatasi verso la fine del secolo e che in Italia assunse il significato di una tradizione nazionale che rallentò la diffusione del romanticismo e ne modificò alcuni tratti.

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Appunti forniti dalla Prof.ssa C. Stanizzi

IL NEOCLASSICISMO

Il Neoclassicismo, in letteratura, fu un movimento artistico-letterario che si sviluppò in Europa tra la seconda metà del ‟700 e il primo decennio dell‟‟800, manifestando un orientamento del gusto e delle predilezioni culturali verso la civiltà antica, soprattutto greca, scelta come modello da emulare.

Nata nell‟ambito delle arti visive, tale tendenza ricevette un forte impulso dagli importanti ritrovamenti archeologici di Ercolano e Pompei, effettuati nell‟ultimo trentennio del secolo. Tali rinvenimenti furono fondamentali per l‟organizzazione dell‟archeologia in scienza moderna e contribuirono alla nascita di un “turismo” aristocratico diretto verso i luoghi della classicità, soprattutto in Italia e in Grecia. Cominciarono così a moltiplicarsi le testimonianze di viaggio. Nell‟ambito delle arti figurative, la riflessione teorica, trovò la sua formulazione nell‟opera di due tedeschi, il pittore Anton Raphael Mengs e l‟archeologo e storico dell‟arte Johann Joachim Winckelmann, che aveva visitato Pompei e Paestum intuendone per primo l‟importanza archeologica. Winckelmann propugnò l‟ideale di un‟arte equilibrata e composta, priva di passionalità, capace di rievocare la naturale semplicità dei tempi remoti della civiltà nell‟età di Pericle (Atene, 461 - 429 a C).

L‟imitazione dei modelli dell‟antichità corrispose alla volontà di recuperare non soltanto le antiche forme di bellezza, ma anche la razionalità e l‟equilibrio morale che quelle forme esprimevano, partecipando in questo degli ideali tipicamente illuministici. La classicità, soprattutto greca, fu vista come una mitica età dell‟oro, in cui l‟umanità viveva in armonia con la natura ed il bene coincideva con la bellezza. Il neoclassicismo vagheggiò un “bello ideale” nitido, raffinato, lontano dalla passione. L‟esigenza di creare un punto di riferimento e d‟ordine fra i grandi sconvolgimenti dell‟epoca, generò un neoclassicismo scenografico, di composta bellezza, largamente adottato in epoca napoleonica, che divenne moda e improntò anche l‟architettura, l‟arredamento e l‟abbigliamento.

In ambito letterario, il neoclassicismo si tradusse nel ricorso alla mitologia (la mitologia greca si compone di una vasta raccolta di racconti che spiegano l‟origine del mondo ed espongono dettagliatamente la vita e le avventure di un gran numero di dei, eroi, mostri e altre creature mitologiche) e, se il riferimento era al presente, all‟allegoria. La lingua, modellata su quella dei classici greci e latini, è artefatta, lontana da quella corrente. Fuori d‟Italia, soprattutto in Francia con André de Chénier, i principi neoclassici si legarono al presente e, in particolare, alle istanze rivoluzionarie. In Italia, centro del classicismo fu la capitale del Regno all‟epoca di Napoleone, Milano, dove lavorava lo scultore Antonio Canova e dove fu avviata l‟edizione della Collezione dei classici italiani (1802-1814), che raccoglieva gli autori maggiori della tradizione italiana fornendo un canone ben preciso di letterarietà.

I generi letterari più coltivati furono quelli tradizionali della classicità: Vittorio Alfieri fece rivivere la tragedia, ambientando le sue storie nel mondo antico. Il maggiore scrittore neoclassico italiano fu Vincenzo Monti, che tradusse in endecasillabi sciolti l‟Iliade di Omero, completata nel 1810. In Italia Ugo Foscolo scrisse, oltre a un romanzo che manifestava una sensibilità preromantica come Le ultime lettere di Jacopo Ortis (1802), due odi allegoriche neoclassiche (A Luigia Pallavicini caduta da cavallo, del 1799, e All‟amica risanata, del 1802) e, a conclusione della sua carriera poetica, le Grazie, poema rimasto frammentario, dedicato a tre divinità minori che secondo la mitologia classica sono al seguito di Venere. Nelle Prose e poesie campestri (1788 e 1817), Ippolito Pindemonte celebrò “piaceri eruditi e tranquilli” sullo sfondo di uno scenario campestre. L‟autore ricorda la tradizione pastorale che risale a Teocrito, ma, invece del distacco neoclassico, compare una vena melanconica. Il neoclassicismo sfumò nel romanticismo ed è interessante il fatto che l‟articolo di Madame de Staël Sull‟utilità delle traduzioni in Italia, destinato a scatenare nel 1816 la polemica tra classicisti e romantici, apparve sulla rivista La Biblioteca italiana proprio nel periodo in cui Monti era condirettore. A tradurlo fu un “classicista illuminato”, Pietro Giordani. Il classicismo fu una scelta formale che influì anche sulla nuova sensibilità patetica e sentimentale manifestatasi verso la fine del secolo e che in Italia assunse il significato di una tradizione nazionale che rallentò la diffusione del romanticismo e ne modificò alcuni tratti.

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IL ROMANTICISMO IN ITALIA

La caratteristica fondamentale del Romanticismo italiano è l‟esigenza di una letteratura nuova, popolare. Le prime affermazioni si incontrano dal 1816 in poi, dopo la pubblicazione dell‟articolo di Madame de Stael “Sulla maniera e l‟utilità delle traduzioni”. La scrittrice francese invitava gli italiani a liberarsi dai legami della loro cultura, a tradurre e a studiare le grandi letterature d‟oltralpe e a rinnovare le lettere. Ne segue un‟accesa polemica. All‟esortazione della Staël rispondono offesi i nostri classicisti, tra i quali Giordani, dichiarando dannoso ogni suo rapporto con le lettere straniere, in quanto queste la corromperebbero invece di arricchirla. Alla replica della Staël che conoscere i grandi scrittori stranieri non significa imitarli totalmente, i dotti italiani si divisero: sostenitori della Staël, e difensori della tradizione classica. Questi ultimi tra cui Giordani e Monti, hanno come organo ufficiale il giornale austriacante “La Biblioteca Italiana”; i romantici, il giornale “Il Conciliatore” di cui il redattore capo è Silvio Pellico e collaboratori come Giovanni Berchet, Confalonieri e Manzoni.

Il loro pensiero si svolge su un piano conciliativo: - respingono l‟imitazione dei classici, pur affermando che devono essere studiati, le regole prestabilite dalla poetica classica, i modelli, le norme pseudoaristoteliche, i modelli letterari immutabili nelle loro forme; - sostengono la necessità di una letteratura moderna, umana, popolare, accettando in tal modo del movimento europeo romantico i concetti dell‟origine della poesia dall‟impeto del sentimento, della popolarità dell‟opera d‟arte che non deve isolarsi in chiusi ambienti accademici, della necessità dello scrittore di cercare gli argomenti dei suoi lavori in avvenimenti contemporanei e di essere interprete dell‟anima collettiva, ed il concetto della funzione pedagogica dell‟arte: la quale deve essere rivolta ad elevare spiritualmente il popolo e a chiarire problemi ed ideali del tempo.

Tali motivi vengono svolti, prima del “Conciliatore”, da Berchet nella “Lettera semiseria di Grisostomo sul Cacciatore feroce e sulla Eleonora” di G.A. Burger edita a Milano nel 1816. È una lettera di carattere critico con cui il Berchet sostiene che si può scrivere poesia anche al di fuori dei modi e dei tempi consueti della poesia classicheggiante e che la sola vera poesia è la “popolare”. “La Lettera” è detta semiseria perché verso la fine di essa il Berchet assume un tono scherzoso affermando di aver parlato sino a quel momento per spassarsela a spese dei novatori romantici. Nel resto della lettera fingendo di deridere i romantici, deride invece i classicisti e conferma i principi del nuovo movimento.

Nel settembre del 1823 si ha una nuova esposizione dei caratteri e degli ideali del nuovo movimento nella lettera del Manzoni a Cesare d‟Azeglio “Sul Romanticismo”. Il Manzoni dice che: nel sistema romantico si possono distinguere due parti principali: la negativa e la positiva. La negativa tende a escludere l‟uso della mitologia, l‟imitazione servile dei classici, le regole fondate su fatti speciali e non su principi generali, sull‟autorità dei retori e non sul ragionamento, e specialmente quella delle così dette unità drammatiche, di tempo e di luogo, opposte ad Aristotele. La parte positiva del romanticismo si riassume nella formula che la poesia deve “proporsi l‟utile per iscopo, il vero per soggetto, l‟interessante per mezzo”: - l‟utile per iscopo: la poesia deve contribuire ad allargare l‟orizzonte del nostro spirito e a migliorarlo: rappresentare le passioni attraverso un processo psicologico e ricavarne un insegnamento morale; - il vero per soggetto: la verità è l‟unica sorgente di diletto nobile e durevole; e per verità Manzoni intende il rappresentare l‟uomo nel suo interiore più vero; - l‟interessante per mezzo: per rendere più facili e più estesi gli effetti della poesia si devono scegliere argomenti che interessino tutte le classi sociali, in modo tale che la poesia possa esercitare una larga efficacia sulla coscienza collettiva. L‟arte deve avere funzione educatrice.

La polemica non finisce. Nel 1825, in opposto al movimento, Vincenzo Monti scrive il sermone Sulla mitologia, combattendo le esasperazioni del Romanticismo.

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UGO FOSCOLO tra neoclassicismo e preromanticismo

Foscolo è il primo vero “personaggio” romantico che appare nella storia della letteratura italiana, appassionato, impetuoso, “ricco di vizi e virtù” come egli stesso si definisce nel “Sonetto Autoritratto”. Ma se Foscolo fu il primo, Leopardi ne fu il massimo esponente, con la sua poesia del contrasto tra la ragione e il sentimento. Nasce a Zante (l‟antica Zacinto), una delle isole Ionie allora appartenente alla Repubblica Veneta, il 6 febbraio 1778, dal medico Andrea Foscolo, di antica famiglia veneziana, e dalla greca Diamantina Spathis. Il suo nome di battesimo è Niccolò, ma dal 1795 preferisce farsi chiamare Ugo. Compiuti i primi studi presso il seminario arcivescovile di Spalato, in Dalmazia, nel 1792, dopo la morte improvvisa del padre (1788), si trasferisce a causa delle difficoltà economiche, con la madre e i suoi tre fratelli, nella mondana, salottiera e letteraria Venezia. Abbandonati gli studi regolari, il giovane Ugo s‟immerge nella lettura dei classici greci e latini e degli scrittori italiani e stranieri, mostrando tra l‟altro un vivo interesse per i filosofi e gli ideologi del Settecento (in particolar modo per Rousseau). Nel 1796 pubblica il suo primo componimento, l‟ode religiosa La Croce. Grazie al suo singolare selvatico e sdegnoso fascino, rapidamente riesce a farsi ammettere nei salotti dell‟aristocrazia, tra cui quello assai esclusivo e raffinato della bellissima e brillante Isabella Teotochi Albrizzi, con cui, lui sedicenne e lei trentaquattrenne, ha un‟ardente relazione amorosa. E proprio nel suo salotto conosce Ippolito Pindemonte insieme ad altri intellettuali. Dopo la discesa dei francesi in Italia, sotto l‟influenza delle idee giacobine s‟impegna nell‟attività politica, suscitando i sospetti del governo veneto ed è costretto a rifugiarsi sui Colli Euganei. A seguito, tuttavia, del grande successo ottenuto dalla tragedia Tieste, costruita sui modelli alfieriani e piena di furore libertario, i sospetti nei suoi confronti aumentano. Quindi, nell‟aprile del ‟97 fugge a Bologna dove si arruola nell‟esercito napoleonico e pubblica l‟ode A Bonaparte liberatore. A maggio, dopo l‟arrivo dei francesi e l‟instaurazione del regime democratico, fa ritorno a Venezia e vi svolge un‟intensa attività politica fino all‟amara delusione del trattato di Campoformio (1797). Venduta la sua patria all‟Austria, lascia per sempre Venezia e la madre. Quindi, parte in volontario esilio, per la capitale della Repubblica Cisalpina, Milano, dove si lega ai più attivi gruppi giacobini italiani, conosce il vecchio Parini e diviene amico di Vincenzo Monti, con la cui moglie vive un‟intensa e infelice relazione d‟amore. Collabora, inoltre, con Melchiorre Gioia alla redazione del “Monitore italiano”, pubblicando articoli in difesa di una visione patriottica della rivoluzione. Alla chiusura del giornale da parte dei francesi, nell‟estate del „98 torna a Bologna, dove collabora al “Genio democratico” e al “Monitore bolognese” e avvia la stampa delle Ultime lettere di Jacopo Ortis. Ma, al ritorno degli austriaci nel „99, interrompe in tronco l‟edizione per arruolarsi volontario nella Guardia Nazionale di Bologna. Insieme con i francesi, combatte valorosamente in Emilia e Romagna, ma rimane ferito sia a Cento sia, poi, una seconda volta, a Genova assediata. Nel frattempo scrive l‟ode A Luigia Pallavicini caduta da cavallo e riesce a ristampare l‟ode A Bonaparte, premettendovi una lettera dedicatoria in cui esorta Napoleone a vincere la tentazione della tirannide. Dopo la battaglia di Marengo, si stabilisce a Milano ed entra a far parte dello stato maggiore del generale Pino, assolvendo vari incarichi in Lombardia, in Emilia e in Toscana. E per l‟appunto a Firenze nel 1801 si innamora di Isabella Roncioni, promessa ad un nobile e ricco marchese. Rientrato a Milano (1801-1803), intreccia una relazione amorosa con Antonietta Fagnani Arese, per la quale scrive l‟ode All‟amica risanata. Per i comizi di Lione del 1802, che confermano il ruolo subalterno toccato all‟Italia nel sistema napoleonico, pubblica la spregiudicata Orazione a Bonaparte. Inoltre, mentre entrano definitivamente in crisi le sue idee giacobine, pubblica l‟Ortisnella nuova redazione (1802), le Poesie, comprendenti, oltre alle due odi, dodici Sonetti, (tra i quali i celebri Alla sere, A Zacinto, In morte del fratello Giovanni) e il lavoro erudito-filologico su La chioma di Berenice (1803). La sua naturale irrequietezza e le crescenti difficoltà economiche lo inducono nel 1804 a recarsi in Francia, per partecipare all‟invasione dell‟Inghilterra. Qui, sulle coste della Manica, si dedica alle traduzioni dal greco dell‟Iliade e dall‟inglese del Viaggio sentimentale di Sterne. Dalla relazione con la giovane inglese, Lady Mary Hamilton, nasce una figlia di nome Mary, ma che egli chiamerà sempre Floriana. Avendo poi Napoleone rinunciato all‟impresa contro l‟Inghilterra, dopo un breve soggiorno a Parigi (dove incontra il giovane Manzoni), nel marzo 1806 ritorna a Milano. E a seguito della liberazione del Veneto dal dominio austriaco, corre a Venezia a rivedere la madre, il Cesarotti e la sua prima protettrice, Isabella Teotochi Albrizzi. Proprio dai colloqui con Isabella e con il Pindemonte nasce l‟idea del carme Dei Sepolcri, edito nel 1807, quasi ad un tempo con l‟Esperimento di traduzione dell‟Iliade di Omero. Continua intanto una vita piena di passioni e relazioni amorose con Marzia Martinengo, Maddalena Bignami e Francesca Giovio. Ottiene la cattedra di Eloquenza presso l‟Università di Pavia, nel 1809 pronuncia, con grande successo, l‟orazione inaugurale Dell‟origine e dell‟ufficio della letteratura. La cattedra tuttavia viene soppressa pochi mesi dopo. Foscolo ricade in nuove difficoltà economiche; si infittiscono le invidie, le maldicenze e gli attriti nell‟ambiente letterario milanese, e alla fine viene meno anche l‟amicizia con il Monti. Continua la sua vita travagliata anche a Firenze dove intreccia altre relazioni amorose.

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Nell‟ottobre del 1813, approssimandosi dopo la sconfitta di Lipsia il crollo del regime napoleonico, rientra a Milano per riprendere il suo posto nell‟esercito e difendere il Regno Italico. Ma alla vigilia del giuramento di fedeltà all‟Austria, tenendo fede ai suoi principi di “libero scrittore”, il 30 marzo del 1815, fugge da Milano e prende la via dell‟esilio. Dapprima ripara in Svizzera, dove attende ad una nuova edizione dell‟Ortis (1816), porta a termine la satira Ipercalisse e compone i discorsi Della servitù dell‟Italia. Poi, dopo varie peregrinazioni, essendo perseguitato dalla polizia, si stabilisce alla fine del 1816 a Londra. Qui inizialmente viene accolto con favore nei circoli letterari e culturali, ma presto, per il desiderio di vivere in un ambiente di raffinata eleganza, si avventura in imprese economiche rovinose. Dopo aver passato un breve periodo in prigione a causa dei debiti contratti, è costretto a vivere sotto falso nome per non farsi raggiungere dai creditori. La vicinanza amorosa della figlia Floriana e l‟affetto di alcuni pochi amici vengono a temperare la solitudine, i disagi, le tristezze e la malattia degli ultimi anni. Niccolò Ugo Foscolo muore, per idropisia, il 10 settembre 1827 nel sobborgo londinese di Turnham Green e viene sepolto nel vicino cimitero di Chiswick. Solamente, dopo l‟unità d‟Italia, nel 1871, le spoglie sono state collocate a Firenze, nella chiesa di Santa Croce, accanto ai grandi italiani che aveva celebrato nel carme Dei Sepolcri.

IL PENSIERO

Foscolo nella sua concezione del mondo e della vita segue le dottrine materialistiche e meccanicistiche dell‟Illuminismo, secondo le quali il mondo è fatto di materia sottoposta ad un processo incostante di trasformazione governato da leggi meccaniche. Anche l‟uomo è soggetto alla stessa legge di dissolvimento della materia, perciò compiuto il suo ciclo biologico, si annulla completamente come individuo. Per i filosofi dell‟Illuminismo questa concezione materialistica della realtà e dell‟uomo era motivo di ottimismo perché liberava l‟animo dalle superstizioni, dalla paura della morte, inducendoli a vivere più serenamente, invece per il Foscolo queste teorie erano motivo di pessimismo e disperazione. La visione materialistica, lo porta a considerare l‟uomo come prigioniero della natura, che, compiuto il suo ciclo vitale, piomba nel “nulla” eterno. Così il Foscolo considera la ragione un dono malefico della natura, causa di disperazione tale da trovare nel suicidio l‟unica liberazione possibile. Tuttavia il Foscolo non soccombe al pessimismo e alla disperazione, ma reagisce vigorosamente, creandosi una nuova fede in valori universali, che danno un fine ed un significato alla vita dell‟uomo. Questi valori universali sono la bellezza, l‟amore, la libertà, la patria, la virtù, l‟eroismo, la poesia, l‟arte, la gloria, tutti sentimenti che i filosofi materialistici e scettici chiamavano “illusioni”, cioè idee vane. Tra le “illusioni” la più grande per il Foscolo è la gloria poiché egli ha perduto la fede cristiana nell‟immortalità dell‟anima, allora vede nella gloria l‟unico mezzo di sopravvivenza ideale dopo la morte. Per il Foscolo le illusioni, però, non furono mai una realtà assoluta ma spesso erano accompagnate dalla consapevolezza dei limiti della natura umana e dalla minaccia sempre incombente della morte e del nulla eterno. Le opere più importanti del Foscolo sono: “Le ultime lettere di Jacopo Ortis”, “Le Odi”, “I sonetti”, “I Sepolcri” e “Le Grazie” (opera incompiuta).

LE OPERE MAGGIORI

Le ultime lettere di Jacopo Ortis Prima esperienza cospicua dell‟operosità del Foscolo è costituita da “Le ultime lettere di Jacopo Ortis”, un romanzo epistolare a carattere autobiografico. Attraverso le lettere dirette da Jacopo all‟amico Lorenzo Alderoni, il Foscolo narra le vicende dolorose dello spirito del suo personaggio, che è travagliato dalla sorte della sua patria, Venezia, vilmente ceduta all‟Austria e da un suo infelice amore per una fanciulla, Teresa, già promessa sposa di un altro giovane. Jacopo Ortis così per sfuggire all‟amore e alle persecuzioni viaggia per molte regioni d‟Italia; infine tornerà a trovare Teresa e deciderà di uccidersi . Il tono dell‟Ortis è caldo, appassionato, ma quasi scontato infatti il personaggio non arriva al suo gesto attraverso un processo spirituale, ma ha già deciso il suicidio sin dalle prime pagine. Il valore dell‟Ortis è principalmente autobiografico ed è facile riconoscere in Jacopo Ortis il Foscolo della giovinezza. Esso è uno dei libri più significativi della nuova letteratura ed ha un grande valore spirituale; rispecchia la concezione pessimistica del Foscolo nei confronti della vita. Troviamo quindi in quest‟opera il tono più alto del pessimismo foscoliano, il suicidio, considerato come una forma di liberazione e di protesta. Liberazione, nei confronti della vita; protesta nei confronti della natura che ha destinato l‟uomo all‟infelicità.

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I Sonetti Pur essendo contemporanei all‟Ortis, I Sonetti , rappresentano il secondo momento dello svolgimento spirituale e artistico del Foscolo, quello del superamento del pessimismo e della virile accettazione della realtà. Nei sonetti maggiori il Foscolo appare mutato, disposto ad accettare virilmente la realtà e il dolore, essi sono quattro: “La Musa”, “A Zacinto”, “In Morte del fratello Giovanni” e “Alla sera”. In queste opere si nota che per il Foscolo le meditazioni sulla natura sono suggerite dalla vista di un paesaggio come avviene nel sonetto “Alla Sera”. In esso è il calar delle tenebre, sia di un sereno tramonto estivo sia di una cupa sera invernale, le cui ombre che scendono dal cielo nevoso sembrano allungarsi inquiete ed inghiottire tutto l‟universo, a spingere i pensieri del poeta “sull‟orme che vanno al nulla eterno”. L‟alternanza è costante, nei “Sonetti”, all‟immaginazione della tenebrosa sera invernale di “Alla Sera” si contrappongono le limpide nubi e le fronde di “A Zacinto” che evocano la serenità del paesaggio classico.

Le odi Le odi del Foscolo sono due: “A Luigia Pallavicini caduta da cavallo” e “All‟amica risanata”. Esse sono considerate il primo manifestarsi del risorgere del Foscolo alla vita, il superamento cioè del momento dell‟Ortis cupo e disperato fino al suicidio, con la consolazione del dolore nel culto della bellezza e nell‟accettazione virile dell‟umana esistenza. L‟ode “A Luigia Pallavicini” svolge uno dei motivi più cari al Foscolo, quello della bellezza “serenatrice”, sentita cioè, come balsamo e conforto dell‟uomo; essa però è trattata superficialmente perché la bellezza è contemplata esteriormente come armonia di forma e piacere visivo, più che consolazione e lenimento del dolore, come invece avviene nella seconda ode “All‟amica risanata”. Rispetto alla prima, la seconda ode, alla bellezza “serenatrice” aggiunge un altro motivo quello della poesia “eternatrice”. La bellezza come tutte le cose di questo mondo è anch‟essa peritura, sottoposta alla legge universale della materia. Ma a salvarne lo splendore e il ricordo interviene la poesia, che le dona l‟immortalità, poiché essa vince l‟oscurità e la morte. Quindi da queste opere si evince la concezione foscoliana della poesia, che è eternatrice, l‟unica in grado di opporsi all‟immutabile destino umano.

I Sepolcri Nati in seguito alla discussione sull‟editto di Saint-Cloud, in vigore in Francia fin dal 1804, che imponeva la sepoltura dei morti fuori dai centri abitati, in cimiteri pubblici. Il carme de “I Sepolcri” è un opera didascalica e lirica; didascalica perché mira a inculcare il culto delle tombe, dimostrandone il valore ideale e l‟utilità civile, ma è anche un opera lirica, perché esprime i sentimenti profondi del poeta, la sua concezione pessimistica, ma nello stesso tempo agonistica, eroica e costruttiva della vita. Il Foscolo afferma inizialmente che le tombe sono, dal punto di vista razionale, inutili, perché con la morte finisce tutto; ma contro le affermazioni della ragione insorge il sentimento, il quale afferma che le tombe sono necessarie, perché sono “tramite di corrispondenza di amorosi sensi tra l’estinto e i vivi”, e segno della sopravvivenza ideale dell‟estinto nel ricordo dei vivi, a condizione però che l‟estinto abbia lasciato ai suoi un‟eredità di affetti, ossia un buon ricordo di sé, altrimenti su di lui scende l‟oblio totale. Egli considera il culto dei morti nato con la civiltà e segno di civiltà. I sepolcri svolgono il motivo centrale del Romanticismo che consiste nel sentimento drammatico della vita confortato nella fede nelle “illusioni”. Il motivo unitario del carme è il sentimento della vita che trionfa sulla morte, accostato tuttavia al sentimento del dolore e del nulla eterno, infatti “I Sepolcri” sono pressoché la continua coesistenza dei due sentimenti di dolore e di morte, che si accompagnano come la luce accompagna l‟ombra.

Conclusioni Motivo centrale, quindi, della poesia del Foscolo è questa continua lotta tra: vita e morte; dolore e nulla eterno; elementi sublimemente accostati alla descrizione della natura che rappresenta la proiezione del proprio stato d‟animo; questo permette che necessariamente si venga a creare un rapporto tra l‟individualità del poeta e la natura descritta. Così se nel sonetto “Alla Sera” il poeta si sofferma sulla descrizione di un paesaggio invernale che lo porta ad una attenta meditazione, nel sonetto “A Zacinto” Foscolo evoca un paesaggio prettamente classico, suggerito dalla descrizione del “greco mar”. Allo stesso modo ne “Le ultime lettere di Jacopo Ortis” si rievocano i paesaggi romantici e cupi che richiamano quelli descritti da Ossian e così anche ne “I Sepolcri” in cui alla “deserta gleba”, simbolo di siccità e quindi di morte, si contrappongono visioni decisamente più serene suggerite dai cipressi, dai cedri, dalle fontane che rappresentano simboli evidenti di fecondità e quindi di vita.

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Appunti forniti dalla Prof.ssa C. Stanizzi ALESSANDRO MANZONI Alessandro Manzoni nacque a Milano nel 1785, dal conte Pietro, un uomo di mediocre cultura, ma benestante, della zona di Lecco, e da Giulia Beccaria, figlia del giurista Cesare Beccaria, uno dei più illustri rappresentanti dell‟Illuminismo lombardo, l‟autore de Dei delitti e delle pene. In realtà Manzoni ebbe come padre naturale Giovanni Verri, che fu amante della madre. I genitori del Manzoni si separarono quando egli era ancora molto giovane. Per questo motivo dovette trascorrere l‟infanzia e la prima giovinezza, fino al 1801, in collegi di padri Somaschi (prima a Merate, poi a Lugano) e Barnabiti (a Milano), dove ricevette un‟educazione classica, ma dovette subire le rigide regole tipiche di quegli ambienti. Quando uscì dal collegio aveva sedici anni e si era convertito alle idee illuministiche. Si inserì presto nell‟ambiente culturale milanese del periodo napoleonico, strinse amicizia con i profughi napoletani Cuoco e Lomonaco, frequentò poeti già affermati e noti come Foscolo e Monti. Trascorse questo periodo lietamente, tra il gioco e le avventure galanti, ma dedicandosi anche al lavoro intellettuale e alle composizioni poetiche: l‟esempio più illustre è rappresentato dal poemetto Trionfo della libertà. Deluso dal giacobinismo scrisse sonetti e idilli, il più maturo dei quali sembra essere Adda (1803). L‟anno successivo terminò la stesura di quattro Sermoni: Amore a Delia, Contro i poetastri, Al Pagani, Panegirico a Trimalcione, composizioni satiriche influenzate dalle opere di Parini e Alfieri. Nel 1805 lasciò la casa paterna e raggiunse la madre a Parigi. Carlo Imbonati, compagno della madre dopo la separazione, era ormai morto. In suo ricordo, Manzoni scrisse un carme in 242 versi sciolti, intitolato In morte di Carlo Imbonati. Egli non aveva mai avuto un rapporto stretto con la madre, ma tra loro si creò ben presto una affettività intensa, che fu destinata a cambiare la vita dello scrittore. A Parigi frequentò ambienti intellettuali popolati da personaggi come Cabanys, Thierry, Tracy, di posizioni liberali e forte rigore morale. Il rapporto più importante, però, per Manzoni fu quello stretto con Claude Fauriel: attraverso un fitto scambio epistolare durato qualche anno, a poco a poco, questi divenne per il giovane Manzoni un importante punto di riferimento nella sua attività di scrittore. A Parigi, il contatto con ecclesiastici di orientamento giansenista incise anche sulla conversione religiosa, sul suo ritorno alla fede cattolica, Manzoni non ne parla molto e mantiene un certo riserbo sul percorso interiore. Dovette essere importante l‟influsso della giovane moglie, Enrichetta Blondel, figlia di un banchiere ginevrino, conosciuta a Blevia sulle colline bergamasche. Anche la Blondel subì un rivolgimento interiore significativo: sotto la guida dell‟abate genovese Eustachio Degola, si avvicinò al cattolicesimo e fece battezzare col rito romano la primogenita Giulia Claudia, convincendo il marito, in seguito, a risposarsi con rito cattolico. Precedentemente, infatti, il loro matrimonio era stato celebrato con rito calvinista. È da dire che, in Manzoni, la conversione si accompagnò al primo manifestarsi di certe crisi nervose, che poi lo angustiarono per tutta la vita. Nel 1810 lo scrittore lasciò Parigi per tornare definitivamente a Milano. La sua visione della realtà era ormai completamente improntata al cattolicesimo. Il mutamento si ripercosse anche sulla sua attività letteraria: smise di comporre versi dal tono classicheggiante, (l‟ultimo esemplare rimane Urania, un poemetto del 1809) per dedicarsi alla stesura degli Inni sacri ( 1812-1815), che aprirono la strada ad una successiva produzione di stampo romantico, oltre che storico e religioso. Una volta tornato in Italia, poi, Manzoni condusse la vita del possidente, dividendosi tra la casa milanese e la villa di Brusuglio. La sua esistenza fu dedicata allo studio, alla scrittura, alle intense pratiche religiose, alla famiglia che, nel frattempo, diveniva numerosa. Fu vicino al movimento romantico milanese e ne seguì tutti gli sviluppi (un gruppo di intellettuali si riuniva a discutere a casa sua), ma non partecipò mai, direttamente, alle polemiche con i classicisti e declinò l‟invito a partecipare al “Conciliatore”. Anche nei confronti della politica ebbe un atteggiamento analogo, di sinceri sentimenti patriottici e unitari, seguì con entusiasmo gli avvenimenti del 1820-1821, ma non vi partecipò attivamente e non venne colpito dalla dura repressione austriaca che ne seguì. Sono questi gli anni di più intenso fervore creativo, in cui nacquero le odi civili, la Pentecoste, le tragedie (Il conte di Carmagnola, Adelchi), le prime due stesure de I promessi Sposi (inizialmente intitolato Fermo e Lucia), oltre alle Osservazioni sulla morale cattolica, al Discorso sopra alcuni punti della storia longobardica in Italia, ai saggi di teoria letteraria sulle unità drammatiche e sul Romanticismo. Con la pubblicazione de I promessi sposi nel 1827, si può dire concluso il periodo creativo di Manzoni. Successivi tentativi lirici, come un inno sacro sull‟Ognissanti, rimangono incompiuti.

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L‟amicizia con Claude Fauriel venne sostituita da quella con Antonio Rosmini, un filosofo cattolico, che presto divenne la sua guida spirituale. Negli anni della maturità, la vita di Manzoni fu funestata da crisi epilettiche, una serie interminabile di lutti (la morte della moglie, della madre, di parecchi dei figli) e dalla condotta dissipatrice dei figli maschi. Nel 1837 si risposò con Teresa Borri Stampa, che morì poi nel 1861. Scrivendo nel 1842 Storia della colonna infame, Manzoni evita qualsiasi spunto narrativo, rimettendo in questo modo al lettore, posto di fronte alla crudezza di quanto accaduto, ogni giudizio. Il saggio è una cronaca asciutta e distaccata dei fatti che si svolsero intorno al processo ai presunti untori che ebbero la sfortuna di essere accusati di aver propagato la peste che sconvolse Milano nel XVII secolo. Ormai lo scrittore era divenuto un personaggio pubblico, nonostante il suo atteggiamento sempre schivo e appartato. Durante le Cinque giornate, nel 1848, seguì con vigore gli eventi politici, pur senza parteciparvi attivamente e diede alle stampe Marzo 1821, per anni tenuta nascosta. Quando il regno d‟Italia si ricostituì nel 1860, fu nominato senatore. Pur essendo profondamente cattolico, era contrario al potere temporale della Chiesa, e favorevole a Roma capitale. Nel 1861, infatti, votò a sfavore del trasferimento della capitale da Torino a Firenze, come tappa intermedia verso Roma. Nel 1872, dopo la conquista della città da parte delle truppe italiane, ne accettò la cittadinanza onoraria, con scandalo degli ambienti cattolici più retrivi. Negli anni della sua lunga vecchiaia fu circondato dalla venerazione della borghesia italiana, che vedeva in lui non solo il grande scrittore, ma anche un maestro, una guida intellettuale, morale e politica. Soprattutto il suo romanzo fu assunto nella scuola con tale funzione. Morì a Milano nel 1873, a ottantotto anni, nella casa di via del Morone, in seguito a una caduta che gli aveva provocato gravi sofferenze per due mesi. Gli furono tributati solenni funerali, alla presenza del principe ereditario Umberto. Verdi gli dedicò la sua Messa da Requiem al primo anniversario dalla morte. Fu sepolto nel cimitero monumentale della città. IL PENSIERO L‟ambiente culturale milanese e quello parigino instillarono nell‟animo del giovane Manzoni un insieme di ideali illuministici a cui egli sarebbe rimasto fedele sempre: libertà, fraternità e giustizia. L‟amicizia col Cuoco gli infuse invece l‟amore per la storia e la coscienza che tale storia fosse prodotta anche dalle masse. La vita delle classi popolari confluì nel Discorso sopra alcuni punti della storia longobardica in Italia. Ne I promessi sposi il popolo sarebbe stato elevato al rango di protagonista di un‟opera letteraria. La sua conversione al Cattolicesimo non lo portò a tradire i valori dell‟Illuminismo: anzi, Manzoni riconobbe la loro presenza nel Vangelo; nel testo sacro era però bandita la violenza, professata invece dai rivoluzionari, ed egli non esitò a condannarla come tradimento dell‟umanità. Rigettò poi ogni forma di miserabile politica fatta di sopraffazione e vagheggiò un‟umanità redenta da un rinnovamento spirituale, dalla riscoperta di Dio. La fede consentì al Manzoni di superare il pessimismo dovuto alla presenza del male e del dolore nella storia, a cui nessuna filosofia avrebbe potuto rimediare. Il Dio-Provvidenza garantiva difatti il trionfo finale del bene nella storia. Il male era semplicemente frutto della libera volontà dell‟uomo. Così, nella Storia della colonna infame, raccontò il processo contro i presunti untori della peste, facendo ricadere tutta la responsabilità morale sull‟ignoranza dei giudici, sulle loro colpevoli decisioni. LA POETICA Manzoni espresse in maniera esemplare la sua poetica in una concisa dichiarazione del 1823: la poesia doveva proporsi “il vero per oggetto, l‟utile per iscopo e l‟interessante per mezzo”. Il punto focale della sua riflessione è il vero, di cui l‟utile e l‟interessante sono solo dei momenti, delle parziali manifestazioni. L‟utile coincide infatti con la moralità cristiana, con la capacità del poeta di far riflettere l‟uomo sulla sua vicenda terrena di peccato e redenzione, quindi sulla verità della sua vita. Anche l‟interessante è riconducibile al vero, perché solo un argomento desunto dalla storia dell‟uomo può realmente suscitare la sua curiosità e un piacere non effimero. L‟autore dei Promessi sposi si sforzò brillantemente di distinguere il vero poetico dal vero storico, giungendo così ad attribuire un ambito e una finalità specifica all‟attività artistica. Il poeta non deve offrirci una conoscenza esteriore dei fatti, collegati da rapporti causali e temporali: tale compito è assolto infatti dagli storici. L‟artista deve invece penetrare nel guazzabuglio del cuore umano, afferrando il processo spirituale che ha generato gli eventi e dunque il loro profondo significato. Il magistero che ci ha consegnato Manzoni si nasconde proprio nella sua capacità di scavo della coscienza, nell‟introspezione dentro le zone oscure dell‟Essere, alla ricerca di una traccia del divino. Il risultato non è però un‟arte religiosa, tutta incentrata sulla trascendenza: per citare il Sapegno, Manzoni

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tendeva ad una poesia “che avesse per oggetto la realtà umana, che aderisse alla vita per diventare a sua volta strumento di vita, patrimonio di civiltà per tutti”. Su queste basi avvenne il suo incontro con gli sviluppi più recenti della letteratura europea, cioè col Romanticismo, impegnato nella lotta contro il Classicismo. Così nella Lettera allo Chauvet sull‟unità di tempo e di luogo nella tragedia del 1820, Manzoni difese appassionatamente Il conte di Carmagnola, destituendo di ogni fondamento due capisaldi della poetica classicista, l‟unità di tempo e di luogo. Un letterato francese si era permesso di condannare la tragedia manzoniana proprio in nome del mancato rispetto delle sopradette unità aristoteliche che assegnavano alla tragedia una durata fittizia di 24 ore e fissavano la scena in un luogo determinato. Per il Manzoni, il rispetto pedissequo di tali indicazioni avrebbe contravvenuto alla suprema finalità dell‟arte che consisteva nella rappresentazione della verità storica e di quella psicologica. Orbene, nessuna delle due procedeva ad una velocità e ad un ritmo che potessero essere stabiliti una volta per tutte. Nella lettera Sul Romanticismo del 1823, fece aperta professione di fede nei confronti della nuova “scuola” e della sua poesia dal contenuto moderno, cioè morale, popolare, vero. In tale vocazione realistica, nei suoi accenti nazional-popolari, Manzoni si rivelava capostipite non solo del Romanticismo, ma anche del nostro Risorgimento.

IL CINQUE MAGGIO - Analisi e commento

Introduzione L‟ode è stata scritta da Manzoni in soli tre giorni (17-19 luglio 1821) subito dopo la notizia della morte di Napoleone, giunta a Milano il 16 luglio, che doveva provocare nel poeta una notevole impressione che creò quello sgomento che sempre coglie gli uomini quando muoiono i grandi che sembrano indistruttibili, una certa commozione che nel Manzoni si traduce nella meditazione sulla vita e sulla morte, sulla fragile transitorietà delle glorie umane e terrene, sulla dolorosità della solitudine acuita dal ricordo delle grandezze passate e dall‟ansietà di un desiderio, talvolta potente, di un aiuto che non arriva (Napoleone che scruta l‟orizzonte lontano sul mare), e infine la pacificazione nella Benefica Fede, con una preghiera “a speredere ogni ria parola” superando la condizione umana contingente nell‟attesa di raggiungere il premio / che i desideri avanza. Possiamo dividere l‟ode manzoniana, composta da 18 sestine per complessivi versi 108, in due distinte parti simmetriche, comprendenti ciascuna 9 sestine:

la prima fino al verso 54, dominata dalla presenza dell‟uomo di fronte a se stesso, alla sua storia terrena, alla sua gloria umana, al premio / ch’e follia sperar; domina Napoleone e la sua storia, per il quale Manzoni non si era prodigato in elogi negli anni in cui dominò l‟Europa, e non aveva neanche pensato un codardo oltraggio quando il destino dell‟uomo era ormai segnato solo dalla sconfitta; di fronte alla morte di Napoleone il poeta e la terra tutta restano muti nella meraviglia un pò dolorosa di una morte “incredibile”.

la seconda dal v. 55 alla fine, dominata dall‟incontro tra l‟uomo e Dio, la benefica / Fede ai trionfi avvezza, che sola può dare quel premio / che i desideri avanza, / dov’è silenzio e tenebre / la gloria che passò. I verbi al passato remoto in questa seconda parte sono soltanto sei, le tre coppie sparve/chiuse, imprese/stette, ripensò/disperò ed esprimono una escalation verso una condizione di disperazione e di solitudine assoluta che può essere risolta solo attraverso l‟intervento di una Forza esterna all‟uomo. Per questo, finita l‟escalation verso la disperazione, si impone una presenza diversa.

Entrambe cominciano con la realtà presente della morte di Napoleone (Ei fu al v. 1, E sparve al v. 55), di un Napoleone che è solo uno dei due centri costitutivi dell‟ode (l‟altro è Dio). Ciò che colpisce l‟immaginazione e la spiritualità del Manzoni non è la figura di Napoleone, dominatore degli eventi a cavallo fra il Settecento e l‟Ottocento, o la storia dei fatti o delle idee di quegli anni, quanto il silenzio e la solitudine vissuti nell‟isola di Sant‟Elena, e la possibilità di un profondo pentimento maturato nella meditazione sulla sua vita passato e di un affidamento alla pietà di Dio all‟avvicinarsi della fine dei propri giorni. Il poeta rimane muto ripensando agli ultimi attimi della vita di un uomo che il Fato aveva voluto arbitro della storia e di tanti destini umani, di un uomo che si era posto lui stesso come Fato/arbitro dei destini dei popoli e che racchiuse in sé le aspettative di un‟epoca; e allora non può che ripensare a quando potrà esistere nuovamente un uomo altrettanto decisivi per i destini umani, che, calpestando la sanguinosa polvere del mondo e della vita, lascerà nella storia un‟orma altrettanto grande. E quegli ultimi attimi sono fusi nell‟ansietà di un naufrago, oppresso dalla solitudine e dal peso delle memorie e delle immagini che si affollano nella memoria; e da quel naufragio lo salverà solo la benefica Fede nel Dio che atterra e suscita / che affanna e che consola.

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MARZO 1821 - Analisi e commento Introduzione L‟ode fu scritta da Manzoni in occasione dei moti carbonari piemontesi del 1821, quando l‟atteggiamento riformistico e liberale del giovane Carlo Alberto, erede al trono piemontese e Reggente in attesa dell‟arrivo del Re Carlo Felice di Savoia, che sembrava stesse per varcare il Ticino ed entrare con le armi in Lombardia per aiutare i patrioti a liberare il Lombardo-Veneto dall‟oppressivo dominio austriaco, aveva acceso le speranze dei liberali e di coloro che aspiravano all‟unificazione dei vari stati italiani sotto un‟unica bandiera. Ma le speranze vennero ben presto vanificate sia dall‟intervento di Carlo Felice che della polizia austriaca, che procedette a una dura repressione nella quale furono coinvolti, tra gli altri, Silvio Pellico e Federico Confalonieri. L‟entusiasmo di quei giorni venne quindi subito stroncato dagli eventi, ma l‟ode rispecchiò profondamente uno spirito che non verrà mai soffocato e che ha rappresentato uno degli elementi politici e culturali fondamentali dell‟Ottocento, elemento che, dopo circa trentanni di discussioni e approfondimenti, che toccarono non solo le sfere della politica e del diritto, ma anche quella della religione (pensiamo ad esempio al Neoguefismo), a partire dal 1848 in poi, comincerà a trovare una sua qualche realizzazione, non appena i sentimenti liberali si diffonderanno nelle classi sociali medio-basse e diventeranno popolari, non appartenenti più a una ristretta élite. Nel timore di una perquisizione della polizia, il Manzoni nascose o addirittura distrusse il manoscritto dell‟ode, ma qualche copia venne conservata da amici, e fu pubblicata solo nel 1848, a cura del Governo provvisorio di Milano, a seguito del successo delle Cinque Giornate che facevano ben sperare in una felice conclusione della liberazione dallo straniero, devolvendo i proventi ai patrioti. Alla base dell‟ode si trovano, quindi motivi storici e politici e di esaltazione della libertà dallo straniero insieme a una presenza di Dio, viva e puntuale nelle vicende umane, una presenza che aiuta l‟uomo a combattere non solo per il personale riscatto dal peccato, ma anche in senso più universale a combattere per il riscatto della patria dallo straniero, portando gli uomini verso la creazione di un mondo in cui ci sia veramente un maggiore rispetto dell‟uomo per gli altri uomini, superando la barriera dell‟egoismo personale e dell‟interesse politico di una classe sociale che pensa solo e innanzitutto a mantenere il proprio potere. L‟ode è un appello alla libertà di tutti i popoli, che va al di là della polemica contro i princìpi (soprattutto quello di legittimità) sanciti dal Congresso di Vienna, princìpi che non tenevano conto delle nuove aspirazioni dei popoli e della nuova situazione europea, venutasi a creare sia con la Rivoluzione francese (sul piano ideologico e politico) che con la Rivoluzione industriale (sul piano economico); l‟ode è un appello, infine, contro ogni forma di violenza, ad abbandonare la via del male per seguire quella del diritto dei popoli, rivolto proprio a quei popoli e a quei governi che solo qualche anno prima l‟avevano sbandierato per liberarsi dall‟oppressione napoleonica. Per questo diventa fondamentale un concetto in questo appello: Dio protegge gli uomini oppressi, e come aveva già protetto a suo tempo i Tedeschi (accomunati agli Austriaci) così avrebbe protetto gli Italiani; ed è proprio il concetto della protezione degli oppressi che troverà la sua grandiosa e definitiva sistemazione ideologica ed artistica ne I Promessi Sposi. Il Poeta dedicò l‟ode a Teodoro Koerner, patriota e poeta romantico tedesco, autore di drammi e canti patriottici contro l‟oppressione napoleonica, morto combattendo nel 1813 combattendo nella battaglia di Lipsia, secondo il Manzoni. “In questa poesia il Manzoni esprime il proprio ideale nazionale unitario, fondato sull‟unità di lingua, di religione, di tradizioni, di stirpe e di aspirazioni, superando ogni forma politicamente gretta o vuotamente retorica dell‟ideale patriottico e incentrandolo su un‟effettiva comunione di vita, materiale e spirituale, del popolo, sancita da una tradizione nazionale (le memorie del v. 32). Altrettanto importante è l‟ammonimento rivolto agli stranieri che si sono serviti degli ideali nazionali per far ribellare i popoli a Napoleone, ma subito dopo hanno sostituito la loro oppressione a quella dell‟imperatore francese. Qui c‟è un‟altissima e nobile protesta contro la bassa politica della violenza e dell‟intrigo, totalmente opposta al messaggio cristiano. È la voce di un cattolico liberale, che esorta gli italiani a insorgere contro l‟oppressione in nome di un Dio che è amore ma anche giustizia. Il diritto alla libertà diviene così un dovere, un momento della lotta per l‟affermazione del bene contro il male; Il Manzoni, che nelle Tragedie esecra la guerra, non esita qui a invocare il Dio degli eserciti, a incitare gli Italiani a combattere in nome della giustizia. (Pazzaglia)

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IL CINQUE MAGGIO - Commento e parafrasi

La lirica è stata scritta di getto da Manzoni subito dopo aver appreso, sulle colonne della «Gazzetta di Milano» del 17 luglio 1821, la notizia della morte di Napoleone Bonaparte, avvenuta il 5 maggio precedente. Obiettivo dell‟ode non è tanto glorificar la figura straordinaria del generale francese, né suscitare la commozione per la sua morte (del resto, già con Marzo 1821 il poeta aveva chiarito di non essere tra gli ammiratori dei dominatori stranieri in Italia…), quanto sviluppare attraverso la figura di questo “uom fatale” (v. 7) una personale riflessione sui limiti dell’agire umano e sul grande disegno della Provvidenza divina, cui occorre, cristianamente, adeguarsi. Ed è a partire da questa lettura tra etica e storia della figura del generale francese che l‟ode sviluppa tematiche che, negli stessi anni, troviamo sia nelle tragedie (il Conte di Carmagnola e l‟Adelchi su tutte) sia nel Fermo e Lucia, primo nucleo dei Promessi Sposi.

Metro: Strofe geminate di settenari, rimati secondo lo schema abcbde fghgie. I versi dispari sono sdruccioli, quelli pari sono piani, l‟ultimo è tronco.

vv 1-12 Napoleone è morto. Come il suo corpo è immobile dopo aver esalato l‟ultimo respiro, dimentico della sua vicenda terrena e privo della tanta vitalità d‟un tempo, così è rimasta sconvolta e smarrita tutta la terra alla notizia della morte di un uomo così potente, e resta muta, pensando all‟ultima ora dell‟uomo fatale che è stato così importante, e non sa quando nascerà un altro uomo altrettanto grande che calpesterà la polvere da lui insanguinata.

[Manzoni non ha il mito del grand‟uomo ma del mistero del destino che dio riserva agli uomini attraverso questi grandi personaggi della storia, che sono stati feroci con gli uomini avversi alle loro idee. Un uomo della “Provvidenza” (“uom fatale”)? No, perché non era cristiano; sì, perché la Provvidenza ha propri disegni, che gli uomini di potere realizzano senza volerlo. Le sue idee borghesi erano più giuste di quelle aristocratiche, ma il modo di realizzarle era sbagliato. Però le idee sono rimaste. Manzoni non crede che il popolo possa liberarsi da solo dei propri tiranni, almeno non fino a quando continuerà a credere in questi eroi leggendari.]

vv. 13-24 Il mio genio poetico (cioè io stesso) lo ha visto folgorante, vincitore ed in auge, ma ha taciuto e così ha continuato a tacere anche quando, con alterne vicende è caduto [sconfitta di Lipsia, esilio dell‟isola d‟Elba] ed è ritornato potente [i 100 giorni] e ricadde [a Waterloo, esilio di Sant‟Elena] e non ha unito la sua voce a quella di altri poeti che lo osannavano o lo condannavano. Così Manzoni dice che il suo spirito poetico pulito e limpido sia da servili lodi, che da vigliacchi oltraggi e solo ora, commosso per la repentina morte, scrive un‟ode su quest‟ uomo così importante che forse resisterà nel tempo.

[Manzoni diplomatico, attendista: non crede nei grandi eroi e fa fatica a credere nel popolo. Crede però che dalle vicende dei grandi eroi possa venir fuori una situazione favorevole al popolo, ma ci vuole il concorso della Provvidenza divina.]

vv. 25-36 Ricorda le rapidissime campagne di Napoleone, come un fulmine, che coinvolsero tutta l‟Europa fino all‟Egitto, dall‟uno all‟altro mare. Alpi=Italia, Piramidi=Egitto, Manzanarre=Spagna, Reno=Germania, Scilla=Meridione italiano, Tanai=il Don della Russia. Fu vera gloria? Lasciamo ai posteri la difficile sentenza, mentre noi chiniamo il capo al divino fattore (dio) che volle in Napoleone, dar un segno più grande della sua forza creatrice.

[Manzoni evita di dare giudizi come storico e come politico. Teme la censura austriaca? Da un lato lo esalta come militare, dall‟altro si astiene dal giudicarlo come imperatore. Però aggiunge che in lui dio manifestò la sua grandezza. In che senso non lo spiega. Gli riconosce la capacità di realizzare in breve tempo ciò che pensava: cosa che il Manzoni non può riconoscere a se stesso. Vedendo questa grande capacità di coerenza tra teoria e prassi, Manzoni non può non immaginare che Napoleone fosse uno strumento nelle mani di dio.]

vv. 37-48 La tempestosa e trepida gloria di un grandissimo disegno di guerra, l‟ansia di un cuore che serve impaziente [quando era solo un oscuro militare], pensando di divenire re e poi vi giunge e ottiene un premio che sarebbe stato una follia sperare. Egli provò tutto: la più grande gloria dopo il pericolo, la fuga e la vittoria; provò ad essere re e fu anche

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esiliato, fu due volte sconfitto nella polvere (Elba e Sant‟Elena) e due volte fu adorato come una divinità (Cento giorni e Waterloo).

[Manzoni non fa un‟analisi storica, ma mostra la gloria altalenante di un eroe indomabile, che non cedeva al destino avverso, come se sapesse di dover compiere qualcosa che sarebbe rimasto nella storia.]

vv. 49-60 Egli pronunciò il suo nome: due secoli così diversi tra loro (Illuminismo ateo e materialista e la Restaurazione dell‟Ottocento) si rivolsero a lui docili, come aspettando il loro destino; egli fece silenzio e si sedette tra loro come arbitro. Nonostante tanta grandezza, improvvisamente scomparve e finì la sua vita in ozio, prigioniero in una piccola isola ed egli suscita ancora grande invidia e profonda pietà, grande odio e grande amore.

[Manzoni forse vuol far capire che un singolo eroe non può decidere le sorti dell‟umanità. Occorre il concorso dei popoli, che però, nel caso di Napoleone, non fu sufficiente. Egli infatti improvvisamente scomparve, abbandonato da tutti, pur avendo ogni ragione contro la restaurazione aristocratica del Congresso di Vienna e della Santa Alleanza.]

vv. 61-78 Come sul capo del naufrago si rovescia e pesa l‟onda dove poco prima scorreva la vista del naufrago a cercare terre lontane, così sull‟anima di Napoleone è sceso il peso delle memorie. Oh , quante volte egli ha iniziato a scrivere le sue memorie! E quante volte su quelle pagine cadde la sua stanca mano. Quante volte al tramonto stette con gli occhi bassi e le braccia conserte e lo assalì la malinconia e il ricordo del passato (che egli ora vede come inutile).

[Ecco la parte fantastica, poetica del Manzoni, che fa seguire sempre alla parte storica.]

vv. 79-96 E allora ripensò agli accampamenti sempre spostati da un posto all‟altro, alle trincee, lo scintillare delle armi e l‟avanzare della cavalleria e i suoi secchi comandi e come questi venivano soddisfatti rapidamente. Ah, forse a tanto dolore cadde il suo spirito e si disperò, ma valido venne l‟aiuto di dio, che lo trasportò pietroso in un‟aria più respirabile. E lo guidò per i floridi sentieri delle speranze verso i campi eterni (aldilà), lo guidò verso la beatitudine eterna, che supera qualunque desiderio umano, lo guidò verso quel luogo dove la gloria terrena non vale nulla.

[Per il Manzoni cattolico, Napoleone è morto cattolico. Le sue idee non potevano essere realizzate sulla terra ma solo nei cieli. La sofferenza della sconfitta viene riscattata dalla beatitudine ultraterrena, proprio in quanto Napoleone sapeva di trasmettere idee più giuste di quelle reazionarie del clero e della nobiltà. Tuttavia Manzoni non può affatto sapere che Napoleone sia morto con la certezza religiosa d‟aver compiuto una missione divina. Napoleone viene paragonato quasi a Cristo.]

vv. 97-108 Bella, immortale, benefica fede, così solita a trionfare. Scrivi anche questo tuo trionfo, rallegrati perché nessuna personalità più grande si è mai chinata davanti alla croce. Tu, o fede, allontana dalle stanche spoglie di quest‟uomo ogni parola malvagia: il dio che può tutto, che ci dà i dolori e ci consola, si è posato accanto a lui, per consolarlo nel momento della sua morte.

[L‟ode non poteva essere accettata dagli austriaci cattolici, proprio perché per loro Napoleone era ateo e illuminista, e Manzoni non poteva farlo passare per un credente migliore di loro. Tuttavia Manzoni racchiude la grandezza di Napoleone in un orizzonte mistico, che peraltro è di pura finzione. In realtà la grandezza di Napoleone fu quella d‟aver diffuso idee borghesi (conseguenti alla rivoluzione francese) in un ambiente che era ancora profondamente conservatore. E i moti del 1820-21, 1830-31, 1848, 1860-61… gli daranno ragione. Gli aspetti relativi all‟ateismo erano una conseguenza di queste idee illuministico-borghesi. Cosa che però Manzoni non può dire, benché lo pensi, poiché il suo appoggio all‟Illuminismo e alla classe borghese era da parte di un intellettuale cattolico, che rifiutava non solo il terrore giacobino e la violenza napoleonica, ma anche uno sviluppo radicale della democrazia. Il popolo vien sempre visto con occhi paternalistici e bonari.]

FONTE: www.homolaicus.com

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MARZO 1821 - Commento e parafrasi

Marzo 1821 appartiene alla fase poetica manzoniana di ispirazione civile e patriottica, insieme a Aprile 1814 (sul tremendo linciaggio da parte della folla milanese del ministro delle finanze Giuseppe Prina, alla caduta del Regno d‟Italia nell‟aprile del 1814) Il proclama di Rimini (che rievoca l‟appello all‟indipendenza della peinisola lanciato da Gioacchino Murat, fedelissimo di Napoleone ed ex re di Napoli) e Il cinque maggio, in cui si ricorda la figura del grande generale francese.

Questa ode venne scritta tra il 15 ed il 17 marzo del 1821, sull‟onda dell‟entusiasmo per il probabile intervento sabaudo (Vittorio Emanuele I il 13 marzo aveva abdicato in favore del fratello Carlo Felice, e il reggente Carlo Alberto di Savoia aveva manifestato simpatie per gli insorti). Tuttavia, Carlo Alberto tolse presto l‟appoggio ai moti piemontesi, stroncando sul nascere le speranze e le illusioni che potesse unirsi alle forze lombarde per liberare il Nord Italia dal dominio austriaco.

Secondo alcune fonti, la lirica venne distrutta in seguito ai fallimenti dei moti e per evitare possibili ritorsioni austriache (la battaglia di Novara, in cui gli insorti piemontesi sono sconfitti dalla truppe lealiste austriache, è dell‟8 aprile 1821). Manzoni avrebbe poi riscritto a memoria l‟ode per pubblicarla nel 1848, durante le “Cinque giornate” di Milano (18-22 marzo), come sintesi ideale tra i due momenti di lotta per l‟indipendenza nazionale. L‟ode è introdotta da una articolata dedica al poeta e patriota tedesco Karl Thedor Koerner

1, morto durante la battaglia di Lipsia (16-19 ottobre 1813), detta anche “battaglia delle

Nazioni” e considerata (oltre che la battaglia che causò la prima caduta di Napoleone e il suo esilio all‟isola d‟Elba) una fondamentale affermazione dell‟identità nazionale tedesca contro l‟oppressione napoleonica.

Metro: strofe di otto decasillabi piani, tranne il quarto e l‟ottavo tronchi, rimati secondo lo schema ABBCDEEC (come si vede, il primo e il quinto verso sono liberi, cioè non rimati; rimano tra loro solo nella prima strofe).

Soffermandosi sulla sponda arida, rivolto lo sguardo al Ticino appena attraversato, pensando intensamente a ciò a cui stavano andando incontro, rassicurati nel cuore dall‟antico valore [dell‟Italia romana], hanno giurato: che non accada mai più che questo fiume segni il confine tra due rive straniere: non ci sian più barriere all‟interno dell‟Italia!

Lo hanno giurato: altri valorosi hanno risposto a quel giuramento provenienti da altre parti d‟Italia, affilando di nascosto le spade che ora levano alla luce del sole. Si sono già stretti le mani e hanno pronunciato il giuramento: insieme moriremo, o insieme vinceremo.

Solo chi fosse in grado di dividere le acque della Dora Baltea, della Dora Riparia, del Tanaro e il suo affluente Bormida, del Ticino, dell‟Orba le cui sponde sono ricche di vegetazione, quando si confondono confluendo nel Po; chi riuscirà a distinguere le rapide correnti del Mella e dell‟Oglio quando al Po si mischiano e così i molti torrenti che già confluiscono nell‟Adda,

quello solo potrà dividere le genti insorte e farle ridiventare un volgo disprezzato, riportandolo al passato, infliggendogli gli antichi dolori: un popolo che sarà completamente libero solo se libero tutto dalle Alpi al mare; unito nelle armi, nella lingua, nella religione, nelle memorie, nel sangue e nei sentimenti.

Con lo stesso volto sfiduciato e dimesso, con lo sguardo abbattuto e intimorito con il quale un mendicante tollerato per pietà sta in una terra straniera, allo stesso modo doveva stare in Lombardia il lombardo. Quello che volevano gli altri era legge per lui; il suo destino era un segreto di altri; il suo ruolo era servire e tacere.

Oh stranieri, l‟Italia ritorna a vendicare quel che gli compete, e si riprende la propria terra; oh stranieri, andatevene via da una terra che non vi ha dato i natali. Non vedete che tutta la gente insorge dal Cenisio fino alla Sicilia? non la sentite vacillare infida sotto il peso dell‟oppressione straniera?

Oh stranieri, sulle vostre bandiere sta il disonore di un giuramento tradito; un giuramento da voi pronunciato vi porta ad una guerra ingiusta; voi che tutti insieme avete gridato in quei giorni: Dio rifiuta il dominio straniero; tutte le genti siano libere e che muoia la ragione ingiusta all‟origine della guerra.

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Se la terra dove avete portato sofferenze si rivolta ai vostri oppressori, se la faccia degli stranieri tanto amata vi appariva in quei giorni, chi vi ha detto che le sofferenze degli italiani non avrebbero portato mai a niente? chi vi ha detto che Dio che ha ascoltato i vostri lamenti, non avrebbe ascoltato anche i nostri?

proprio quel Dio che chiuse le acque del Mar Rosso sui crudeli Egiziani che inseguivano gli Ebrei, quel Dio che aveva messo nelle mani della forte Giaele il martello e che aiutò a dare il colpo [a Sisara]. Quello che è il padre di tutte le genti, che non ha mai detto ai Tedeschi: andate, raccogliete i frutti che non avete coltivato, stendete la mano: vi do l‟Italia.

Cara Italia! ovunque il grido di dolore della tua schiavitù è arrivato; ovunque l‟umanità ha ancora speranza: ovunque la libertà è già fiorita, o dove ancora nel segreto matura, in ogni dove gli uomini piangono la loro sventura, lì non c‟è nessun cuore che non batta per te.

Quante volte hai aspettato sulle Alpi l‟arrivo di una bandiera amica! quante volte hai voltato lo sguardo ai due mari deserti! ecco, infine, le tue stesse genti, tutte unite intorno alla tua bandiera, forti e spinte dalle loro sofferenze, si sono levate pronte a lottare.

Adesso, o forti, vediamo sul vostro viso la rabbia che avete tenuto nascosta dentro di voi: si combatte per l‟Italia, vincete! La sorte dell‟Italia dipende da voi. O grazie a voi la vedremo libera, seduta accanto agli altri popoli liberi, o di nuovo si troverà sotto il dominio straniero, più vile, più sottomessa e più derisa di prima.

Oh giornate della nostra rivincita! oh sventurato chi le udirà da lontano, come un uomo straniero che le sente raccontate da altri! chi narrerà questi fatti ai propri figli dovendo aggiungere sospirando: io non ero lì; chi la bandiera vincitrice quel giorno salutato non avrà.

FONTE: manzoni.letteraturaoperaomnia.org

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GIACOMO LEOPARDI

Giacomo Leopardi nacque a Recanati il 29 giugno 1798. Sua madre, Adelaide dei marchesi Antici, era nota per la sua esagerata parsimonia, al punto (si dice) da rallegrarsi della morte di un figlio neonato, in prospettiva del risparmio che ne sarebbe derivato. Forse per compensare questa maniacale avarizia, suo padre, il conte Monaldo, nobile reazionario e intellettuale conservatore, si dedicò a dissipare la fortuna di famiglia. In compenso accumulò una vastissima biblioteca. Cresciuto con una rigida educazione religiosa, Giacomo Leopardi al posto dei giochi dell‟infanzia lesse tutti i libri della fornita biblioteca di suo padre. A 15 anni conosceva già diverse lingue e aveva letto quasi tutto: lingue classiche, ebraico, lingue moderne, storia, filosofia e filologia (nonché scienze naturali e astronomia). Nei sette anni che seguirono, Leopardi si buttò in uno studio “matto e disperatissimo”, in cui tradusse i classici, praticò sette lingue, scrisse un dotto testo di astronomia e scrisse un falso poema in greco antico, sufficientemente convincente da ingannare un esperto. Il culto della gloria generava nel giovane Leopardi un forte desiderio di primeggiare, che lo spingeva a cimentarsi in opere di vario genere. Risalgono a questo periodo le tragedie La virtù indiana e Pompeo in Egitto; La storia dell’astronomia dalla sua origine fino all’anno 1811 (1813); il Saggio sopra gli errori popolari degli antichi (1815) e infine l‟Orazione degli italiani in occasione della liberazione del Piceno (1815). Divenne saggista e traduttore, specialmente di classici. Del 1816 fu il suo passaggio “dall‟erudizione al bello”, ossia dallo studio alla produzione poetica. Tra le prove poetiche più originali, ricordiamo l‟idillio Le rimembranze e la cantica Appressamento della morte. e iniziò la stesura dello Zibaldone; sempre in questo periodo s‟innamorò della cugina del padre, Geltrude Cassi, alla quale dedicò la poesia Diario del primo amore e L’elegia prima. Non gli fu concesso di uscire di casa da solo finché non compì vent‟anni. Le sue ambizioni accademiche furono compromesse dall‟insistenza del padre perché diventasse sacerdote. Esasperato dall‟ambiente familiare e dalla chiusura, soprattutto culturale, delle Marche, cercò di fuggire da casa, ma suo padre riuscì a prevenirlo e a sventare i suoi piani. Cominciò a soffrire di una salute cagionevole, che egli attribuì ai suoi studi sregolati. Aveva una vista debole, soffriva d‟asma ed era effetto da una forma di scoliosi. Si autodefiniva un “sepolcro ambulante” ed era consapevole dell‟effetto che il suo aspetto provocava sulle persone che incontrava. Ciò nonostante, non cessò di invaghirsi di fanciulle che non ricambiavano il suo affetto o lo ignoravano totalmente. Del „18 sono le canzoni “civili” All’Italia e Sopra il monumento di Dante, nonché lo scritto Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica, testi nei quali è già presente il cosiddetto pessimismo storico, ossia quell‟atteggiamento agonistico verso la società contemporanea, considerata come corruttrice dei valori autentici della natura. Persa la fede, Leopardi rivolse le sue attenzioni alla filosofia sensistica e materialistica (Pascal, Voltaire, Rousseau). Si compì così la sua conversione filosofica. A questo periodo (1819-1823) appartengono anche la composizione degli idilli L’infinito, Alla luna e altre Canzoni (pubblicate poi a Bologna nel 1824). Quando finalmente, nel 1822, i suoi genitori gli concessero di far visita a un cugino a Roma, la capitale lo deluse e perfino lo disgustò. Tuttavia i suoi scritti trovarono numerosi estimatori nei migliori circoli letterari di Roma, molti dei quali egli trovava insopportabili, né si curava di dissimulare il suo fastidio. Nel 1823 fece ritorno nelle Marche, dove nel 1824 iniziò a comporre le Operette morali e la formulazione del “pessimismo cosmico”: la Natura veniva accusata di essere la fonte delle sventure umane, in quanto instilla nelle persone un continuo desiderio di felicità destinato ad essere sistematicamente frustrato. Nel 1825 Leopardi riuscì a lasciare Recanati grazie all‟avvio di una collaborazione con l‟editore milanese Stella che gli garantì una certa indipendenza economica: fu a Milano, a Bologna (dove conobbe il conte Carlo Pepoli e pubblicò un‟edizione di Versi), a Firenze (dove incontrò Manzoni e scrisse altre due operette morali) e a Pisa (dove compose Il risorgimento e A Silvia). Mangiava disordinatamente, prediligendo i dolci, si lavava poco e si cambiava raramente d‟abito. Ridicolizzava chi gli stava antipatico, non importa quanto lo ammirassero, e diceva “peste e corna” sia della visione secolare e liberale del mondo che della consolazione della religione. Costretto a tornare a Recanati nel 1828, proseguì la produzione lirica che aveva iniziato a Pisa con l‟approfondimento delle tematiche della «natura matrigna» e della caduta delle illusioni. Nel „30 uno stipendio mensile messogli a disposizione da alcuni amici gli permise di lasciare nuovamente Recanati e di stabilirsi a Firenze, dove iniziò una vita di più intesi rapporti sociali. Qui s‟innamorò di Fanny Targioni Tozzetti (la delusione scaturita dall‟amore per lei gli ispirerà il ciclo di Aspasia) .Nel 1831 uscì la prima edizione dei Canti. Aggravatasi la sua malattia agli occhi, nel 1833 si trasferì a Napoli. Durante questo soggiorno napoletano Leopardi approdò a un nuovo senso della comune sorte degli uomini, ossia a quel senso della solidarietà umana fondata sulla conoscenza del “vero”. Quando la sua salute peggiorò, gli amici e la sorella Paolina lo assistettero con grande affetto. Un attacco d‟asma ebbe la meglio su di lui, esaudendo l‟unico desiderio che pensava un uomo potesse sinceramente custodire.

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Morì a Napoli, dove infuriava il colera, il 14 giugno del 1837. Venne sepolto nella chiesetta di San Vitale e nel 1839 le sue spoglie vennero trasferite presso la cosiddetta “tomba di Virgilio” a Mergellina.

L‟INFINITO - Analisi e commento

«Sempre caro mi fu quest’ermo colle, e questa siepe, che da tanta parte dell’ultimo orizzonte il guardo esclude. Ma sedendo e mirando, interminati spazi di là da quella, e sovrumani silenzi, e profondissima quïete io nel pensier mi fingo, ove per poco il cor non si spaura. E come il vento odo stormir tra queste piante, io quello infinito silenzio a questa voce vo comparando: e mi sovvien l’eterno, e le morte stagioni, e la presente e viva, e il suon di lei. Così tra questa immensità s’annega il pensier mio: e il naufragar m’è dolce in questo mare»

Parafrasi

Questo solitario colle (monte Tabor) mi è sempre stato caro, insieme con questa siepe e gli alberi che nascondono allo sguardo una cosi grande parte dell‟orizzonte più lontano. Ma sedendo dietro la siepe e immaginando col pensiero io mi costruisco nella mente spazi illimitati, che vanno oltre la siepe, silenzi sconosciuti agli uomini e una quiete profondissima, tanto che, davanti a questo infinito provo sgomento.Non appena però sento il fruscio del vento che passa tra le piante, io paragono l‟infinito, all‟eternita‟ che racchiude i tempi passati e la vita presente, di cui mi arrivano le voci e i rumori. Cosi, in questa immensità formata dall‟infinito dello spazio e dall‟infinito del tempo, si annega ilmio pensiero. E il naufragare, l‟annientarmi in questo mare mi è dolce

ENJAMBEMENT= interminati spazi-sovrumani silenzi ANASTROFE=sempre caro mi fu quest‟ermo colle IPERBOLE= Sovrumani-profondissima-interminati Antitesi= questa siepe-quella, quell‟infinito silenzio-quella voce morta- stagione viva METONOMIE= cor v8, animo “morte stagioni” v12 METAFORA= mare in cui annega il pensiero e poi naufraga OSSIMORO= lega un verbo come naufragar appartenente alla sfera della morte all‟aggettivo dolce INVERSIONI= V4-7 v 9-13 CHIASMO= V14 POLISINDETO= congiunzione “a” ripetuta al v11-13 Grande impiego di dimostraticvi come “ questo e quello” SIEPE= limite della possibilità di conoscenza umana

Il brano può essere ripartito in quattro sezioni, ognuna delle quali è marcata dalla presenza di uno o più dei pronomi aggettivi dimostrativi

Nei versi 1-3 abbiamo rappresentata la realtà fisica: il poeta è sul colle (questo) accanto alla siepe (questa) nei versi 4-7 il poeta, sedendosi dietro la siepe immagina nel suo pensiero un panorama così grande da poterlo identificare con l‟infinito; egli dunque si trova Nell‟irrealtà Nei versi 7-13 richiamato dallo stormire del vento fra le fronde degli alberi il poeta torna nella realtà Nei versi 13-15 l‟irrealtà è cosi piacevole da essere considerata l‟unica realtà possibile.

Fonte: www.controcampus.it

Le proprie esperienze e la voglia di raccontare emozioni, sensazioni, ricordi e sentimenti costituiscono il terreno sul quale nasce la nuova poesia di Giacomo Leopardi, espressa con forza e vigore negli Idilli, componimenti in endecasillabi sciolti nei quali i riferimenti storici e culturali (ridotti al minimo) lasciano il passo all‟io più profondo e interiore. Giacomo sceglie l‟idillio per avvalersi di una poetica libera da vincoli,

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perciò capace di riportare alla luce quelle sensazioni ineffabili, cui dedicava un‟ampia riflessione nell‟ambito della sua teoria del piacere, ora indagata rispetto alla natura e ai moti emozionali dell‟anima. Le Operette morali, il libro “più caro dei miei occhi” come ebbe a definirlo lo stesso Leopardi, sono una raccolta di prose (ventiquattro ) tra satiriche, fantastiche e filosofiche, scritte tra il 1824 e il 1832, dopo la delusione subita nel suo primo contatto con la realtà esterna alla “prigione” di Recanati. Molte delle Operette sono dialoghi, i cui interlocutori sono personaggi fantastici o mitici (Ercole e Atlante, il mago Malambruno e il diavolo Farfarello, la Natura ed un‟anima, la Terra e la Luna, un folletto ed uno gnomo, la Moda e la Morte, la Natura ed un Islandese), oppure personaggi storici (Colombo e Gutierrez, Plotino e Porfirio), oppure ancora personaggi storici ed esseri bizzarri o fantastici (Federico Ruysch e le sue mummie, Torquato Tasso e il suo genio familiare). Altre invece sono esposte in forma narrativa, come la Storia del genere umano e La scommessa di Prometeo (specie di racconto filosofico alla Voltaire). Altre infine sono prose liriche (L’elogio degli uccelli, Il cantico del gallo silvestre), raccolte di aforismi (Detti memorabili di Filippo Ottonieri) e discorsi che si rifanno alla trattatistica classica (Il Parini, ovvero della gloria). Le Operette riflettono stati d‟animo e atteggiamenti sentimentali e mentali diversi, anche perché in esse si accavallano due posizioni diverse del Leopardi di fronte alla vita: pessimismo storico e pessimismo cosmico. Leopardi, scolaro del ‟700 sensista, aveva posto, come fine dell‟uomo, il piacere raggiungibile nello stato di natura, perduto poi per colpa di un processo storico falsato e distorto. Ma, più avanti nel tempo, avvertì che se fine dell‟uomo è il piacere, e questo gli è negato, vi è un contrasto tragico tra ciò a cui l‟uomo aspira e ciò che può raggiungere, e si convinse che un essere che non può raggiungere il fine per cui è stato creato, è “naturalmente” cioè necessariamente infelice.

IL PASSERO SOLITARIO - Analisi e commento

Tutta la poesia è costruita su una similitudine tra il comportamento del passero e quello del poeta: come il passero trascorre solitario la primavera, spandendo il suo canto per la campagna, così Leopardi trascorre solo, incompreso e sentendosi estraneo nel suo luogo natale, la giovinezza. Il passero non avrà rimpianti, perché ha vissuto secondo natura, mentre il poeta sente che, se giungerà alla vecchiaia, rimpiangerà le gioie di cui non ha goduto. La struttura della poesia è simmetrica: la prima strofa è dedicata al passero e alle sue abitudini di vita, la seconda al poeta, la cui condizione è associabile a quella del passero, mentre la terza svolge il confronto, confrontando la vecchiaia di entrambi: infatti, se per l'uccellino la vecchiaia è solo la parte finale della vita che il destino gli ha concesso, per il poeta invece è una “detestata soglia”, fonte di pentimenti e rimpianti. Si tratta di una lirica che nasce dalle più profonde contraddizioni (pessimismo vs gioia di vivere, vecchiaia vs giovinezza, dolore e rifiuto della vita vs amore per l'esistenza, follia vs solitudine). Il tema principale, che è quello della lacerazione tra la gioia di vivere e l'angoscia generata dalla riflessione sulla realtà, si articola principalmente proprio attraverso un contrasto tra la vecchiaia, vissuta come “detestata soglia” e il rimpianto della giovinezza, considerata “il tempo migliore” e come tale associata alla primavera. Al rimpianto si aggiunge la nostalgia del tempo perduto, di una vita straordinariamente ricca di emozioni lasciate, non vissute e quindi rimpiante. Leopardi, in questo suo efficace autoritratto giovanile, non attribuisce la sua infelicità alla natura o alla società, ma alla sua insicurezza e al suo senso di impotenza che gli impedivano di rapportarsi con gli altri e di partecipare alle gioie della vita. La giovinezza non è vista attraverso il filtro del ricordo, come in altri idilli, ma rivissuta (si noti l'uso dell'indicativo presente) come se fosse ancora attuale.

ALLA LUNA - Analisi e commento

In questa poesia si affronta il tema del ricordo (La ridondanza era il titolo originale) che trasforma la realtà, migliorandola. Infatti il ricordo, anche se è triste e doloroso, ha un potere consolatorio e la rimembranza rende poeticissimo ogni oggetto, in quanto “è essenziale e principale nel sentimento poetico”, come leggiamo nella nota dello Zibaldone del 14 dicembre 1828. La lontananza nel tempo, come quella spaziale, rende le immagini indeterminate, quindi particolarmente poetiche. La poesia, come tutti primi idilli, è costruita sull'opposizione tra il presente e il passato. In questo caso ai sentimenti dell'anno precedente, quando il poeta ammirava la luna piena di angosce, e quelli del momento presente. Il dolore è sempre lo stesso, nulla è cambiato nella vita di Leopardi, ma il ricordo addolcisce la tristezza, perché appartiene al tempo della gioventù, quando c'era ancora tanto spazio per la speranza, data dalle illusioni, contrapposta alla memoria, che ha ancora un percorso breve dietro di sé. Gli ultimi due versi sono stati aggiunti, con ogni probabilità, in un momento successivo per prendere le distanze dalle illusioni giovanili: infatti, compaiono solo nell'edizione dei “Canti” del 1845. Con la luna, la sua interlocutrice prediletta, il poeta instaura un dialogo affettuoso, chiamandola

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“graziosa” e “diletta”, poiché si illude che essa possa partecipare al suo dolore: siamo ancora nella prima fase della politica leopardiana, quella in cui la natura è considerata una madre benigna. Dieci anni dopo, infatti, nel “Canto notturno di un pastore errante dell'Asia”, la luna sarà totalmente indifferente al dolore del poeta, ormai giunto alla fase del pessimismo “cosmico”, in cui la natura è “madre di parto e di voler matrigna”. Il componimento “Alla luna” appare dolce e pacato, caratterizzato da quell'atmosfera di “vago e di indefinito”, che per Leopardi e sommamente poetica. Angoscia e dolcezza coesistono tranquillamente, poiché il ricordo mitiga il dolore e provoca sentimenti di pacatezza: a creare tale atmosfera contribuisce anche la frequente allitterazione della consonante “l”. Lo stile è letterario e nel componimento sono presenti diversi riferimenti alla tradizione di cui possiamo citare sicuramente il Petrarca del “Canzoniere”.

IL POSITIVISMO Il Positivismo è un movimento filosofico e culturale ispirato ad alcune idee guida fondamentali, riferite in genere all‟esaltazione del progresso e del metodo scientifico, che nasce in Francia nella prima metà dell‟800 e che si diffonde nella seconda metà del secolo a livello europeo e mondiale. Henri de Saint-Simon introdusse per la prima volta il termine Positivismo che si configura come un movimento per certi aspetti simile all‟Illuminismo, di cui condivide la fiducia nella scienza e nel progresso e per altri affine alla concezione romantica della storia. Positivo vorrà dire allora:

• ciò che è reale, concreto, sperimentale, contrapponendosi a ciò che è astratto; • ciò che è utile, efficace, produttivo in opposizione a ciò che è inutile.

Nel Positivismo si possono distinguere due fasi: • nella prima metà del XIX secolo, ad iniziare dal periodo della Restaurazione, il Positivismo si

presenta come il progetto di superamento della crisi politica e culturale seguita all‟Illuminismo e alla Rivoluzione francese, tramite un programma politico antiliberale e venne diffuso da Auguste Comte quando nel 1830 pubblicò il primo volume del Corso di filosofia positiva;

• nella seconda metà dell‟Ottocento il Positivismo rappresenta l‟elaborazione ideologica di una borghesia industriale e progressista per cui, in particolare in Inghilterra, ma anche nel resto d‟Europa, trova corrispondenze con l‟affermazione del pensiero economico del liberismo.

È in questa fase che il Positivismo si caratterizza per la fiducia nel progresso scientifico e per il tentativo di applicare il metodo scientifico a tutte le sfere della conoscenza e della vita umana. Il Positivismo diviene la cultura predominante della classe borghese e ha rappresentato anche e in modo rilevante gli ideali borghesi quali l‟ottimismo nei confronti della moderna società industriale e il riformismo politico in opposizione al conservatorismo e nello stesso tempo al rivoluzionarismo marxista fortemente critico nei confronti del moderno sistema industriale che non teneva conto dei “costi umani” collegati allo sviluppo economico. Non a caso il Positivismo si diffonde soprattutto nei paesi più progrediti industrialmente mentre è limitatamente presente in quelli meno sviluppati come l‟Italia. Il Positivismo si sviluppa in un periodo in cui l‟Europa, dopo la guerra di Crimea e quella Franco-prussiana sta attraversando un periodo di pace che favorisce la borghesia nell‟espansione coloniale in Africa e in Asia e nella contemporanea evoluzione del capitalismo industriale in un fenomeno economico internazionale. C‟è una profonda trasformazione anche nei modi di vita della città, dove si verificano, in pochi anni, cambiamenti più incisivi di quelli avvenuti nei secoli precedenti con le innovazioni tecnologiche dell‟uso della macchina a vapore, dell‟elettricità, delle ferrovie che mutano profondamente non solo le dimensioni spazio-temporali ma anche quelle intellettuali. Tutto questo porterà nei primi anni del „900 a quella esaltazione delle “magnifiche sorti e progressive” raggiunte dall‟Europa della “Belle Epoque” che si avvia al crollo delle illusioni nel baratro della Prima guerra mondiale. Assumendo come spartiacque le teorie di Charles Darwin, secondo la tradizione, il Positivismo è stato diviso in due correnti fondamentali:

• Positivismo sociale, nella prima metà del XIX secolo, che ha come rappresentanti Saint-Simon, Auguste Comte e John Stuart Mill;

• Positivismo evoluzionista con Herbert Spencer, il materialismo tedesco e Roberto Ardigò . Per certi aspetti il Positivismo appare una originale riproposta del programma illuministico con cui presenta delle affinità quali:

• la fiducia nella ragione e nel sapere al servizio dell‟uomo come mezzi per conseguire la “pubblica felicità”, obiettivo questo fallito dagli illuministi per cui i positivisti si propongono di portare ordine, tramite il metodo scientifico applicato in ogni campo delle conoscenze umane, per una riorganizzazione globale della società resa caotica dalle rivoluzioni che l‟hanno sconvolta;

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• esaltazione della scienza vista in contrapposizione alla metafisica: il metodo scientifico avrebbe dovuto sostituire la metafisica nella storia del pensiero;

• una visione laica e tutta immanente della vita dell‟uomo in contrasto con i pensatori cattolici. Il Positivismo ebbe per le sue concezioni più importanti, una dimensione internazionale: la biologia darwiniana, si diffuse in Europa e in America settentrionale e le nascenti scienze della sociologia, psicologia, antropologia diedero avvio in Occidente a nuovi settori di studio dell‟uomo; ma anche per gli aspetti minori e negativi, come la fiducia acritica e superficiale nella scienza, il pensiero positivista ebbe vasta risonanza sino a divenire un fenomeno di costume per la borghesia colta occidentale. Il Positivismo influì fortemente nella cultura ottocentesca sino a divenire una “moda culturale” tanto che si può parlare di una “civiltà positivistica” che ha improntato di se correnti culturali come il realismo, il verismo, la nuova pedagogia incentrata su una scuola “laica” e su una didattica “scientifica”. Nonostante i suoi aspetti critici il Positivismo ha lasciato in eredità alla cultura moderna la considerazione dell‟importanza per la conoscenza e per la trasformazione della società della ricerca scientifica. Dobbiamo inoltre al Positivismo la codificazione delle “scienze umane” della sociologia e della psicologia. IL REALISMO LETTERARIO Il nuovo pensiero scientifico e filosofico ebbe immediati riflessi sulla letteratura del tempo, anche se non bisogna dimenticare che una tendenza realistica era già presente nel Romanticismo: ne sono un esempio Manzoni, Dickens, Stendhal, Balzac, ritenuto infatti il precursore del Realismo vero e proprio della seconda metà dell‟Ottocento; la differenza tra il Realismo romantico e quello positivistico consiste nel fatto che il primo fu illuminato da una concezione religiosa e idealistica della vita, mentre il secondo fu materialistico e scientifico. In precedenza la letteratura aveva avuto come protagonista l‟uomo, ritenuto un essere privilegiato, dotato di spirito, autocoscienza e libero arbitrio, dominatore della natura e della storia. Con l‟avvento del Realismo, invece, l‟uomo viene considerato una creatura come le altre, sottoposta agli stessi condizionamenti, come dice Hyppolite Taine (1828-1893), dell‟ereditarietà (la race), dell‟ambiente (il milieu), del momento storico (il moment). La letteratura che lo rappresenta deve quindi essere realistica, abbandonando il suggestivo, il sentimentale, il fantastico e attenendosi al positivo, al reale, all‟oggettivo. Rispettando tale concezione la poetica del Realismo si fonda su due principi fondamentali:

• il reale-positivo come oggetto; • l‟impersonalità dell‟opera d‟arte.

Attenendosi al primo principio gli scrittori posero l‟attenzione sulle classi più umili, in quanto più vicine alla “natura” e al “vero”, così facendo essi rappresentarono l‟arretratezza e la miseria delle plebi, del proletariato e della piccola borghesia richiamando lo stato al dovere di realizzare l‟uguaglianza ed il benessere, ovvero, come dice il De Sanctis, di “calare l‟ideale nel reale”. Per quanto riguarda invece il secondo principio, esso venne interpretato diversamente dai naturalisti e dai veristi: i primi lo esasperarono, riducendo l‟opera d‟arte ad una rappresentazione fotografica e scientifica della realtà, i secondi lo considerarono un freno al soggettivismo dello scrittore. Al fine di rispettare questi due principi venne abbandonato il romanzo storico e ci si rivolse a quello sociale, vennero esclusi i lirismi, le rievocazioni autobiografiche, i commenti dello scrittore e furono inoltre inseriti l‟uso di un linguaggio semplice e popolare, con l‟introduzione di termini e costrutti dialettali, di monologhi e dialoghi, e la descrizione particolareggiata di paesaggi, personaggi e ambienti. Il Realismo fu dunque l‟indirizzo generale della cultura europea della seconda metà dell‟‟800, esso comunque si adeguò alle particolari condizioni politiche, economiche e sociali di ciascun popolo e assunse in rapporto ad esse caratteristiche diverse. Il Realismo letterario sorse in Francia, dove assunse il nome di Naturalismo, ed ebbe il suo precursore in Honoré de Balzac (1799-1850), autore di una serie di romanzi che vanno sotto il titolo generale di “Commedia umana”; uno dei suoi scrittori più significativi fu invece Gustave Flaubert (1821-1880), autore del celebre romanzo “Madame Bovary”. Egli a differenza di Stendhal e Balzac, che intervenivano nel corso della narrazione con commenti e giudizi, si limitò a scegliere i fatti e a tradurli in linguaggio, convinto che la perfetta espressione di un fatto bastasse ad interpretarlo; lo scrittore doveva quindi rinunciare a confessarsi e a prendere posizione, vivendo unicamente in funzione dell‟opera. A tale concezione, che può essere considerata una prima definizione della teoria dell‟impersonalità, Flaubert giunse reprimendo le tendenze romantiche del suo temperamento senza tuttavia sopraffarle completamente. Altra importante figura del Naturalismo fu Emile Zola (1840-1902), considerato per esattezza il suo caposcuola: egli tentò di dare una veste teorica al movimento, giustificando la trasposizione del metodo sperimentale dall‟ambito delle scienze fisiche a quello dei fenomeni morali e spirituali. Seguono poi Alphonse Daudet (1840-1897), Guy de Maupassant (1850-1893), i fratelli Edmond (1822-1896) e Jules (1830-1870) de Gouncourt.

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Dalla divulgazione dei prototipi francesi e dalle discussioni condotte da filosofi e storici circa la portata dello scientismo positivista francese prese le mosse il Realismo letterario italiano, che va sotto il nome di Verismo e i cui maggior rappresentanti furono Luigi Capuana, considerato il teorico riconosciuto del Verismo, Giovanni Verga e F. de Roberto. Naturalismo e Verismo furono due momenti letterari affini , che ebbero in comune i due canoni del Realismo letterario, ma che essendosi svolti in ambienti culturalmente, economicamente e socialmente diversi, finirono con il differenziarsi assumendo caratteristiche proprie. Prima di tutto erano differenti gli ambienti e le classi sociali oggetto di studio: i naturalisti ritraevano la vita dei quartieri periferici delle grandi metropoli e dei bassifondi di Parigi, popolati da esseri depravati, emarginati, abbrutiti dalla miseria, dall‟alcool e dal vizio, in contrasto con la borghesia affaristica. L‟Italia, a causa del ritardo del suo sviluppo industriale non aveva grandi metropoli né bassifondi periferici nelle sue città, perciò i veristi ritraevano la vita stentata e primitiva della piccola borghesia e delle classi più umili, quali pescatori, contadini, minatori, ecc. Differente era inoltre il porsi dei veristi e dei naturalisti di fronte alla realtà: l‟atteggiamento dei naturalisti era attivo, polemico, provocatorio, volto alla denuncia delle ingiustizie sociali, accompagnata dalla fiducia ottimistica nel loro superamento; quello dei veristi era invece più contemplativo, volto a ritrarre le miserie degli umili senza volontà di denuncia, e soprattutto senza fiducia nel loro riscatto. Altra differenza è il rapporto tra lo scrittore ed il pubblico: i naturalisti operavano in una società più solidale, matura ed evoluta, sensibile all‟ansia di rinnovamento da loro auspicata; i veristi operavano invece in una società ancora arretrata, sia a livello di plebi, incapaci di recepire un messaggio di riscossa ad esse rivolto, sia a livello della borghesia e dell‟aristocrazia, sorde ai problemi sociali. Infine, il naturalismo assunse subito un carattere nazionale in quanto operante in una nazione socialmente omogenea quale era appunto la Francia; il verismo ebbe invece un carattere meridionale, regionale, dialettale. Dopo l‟unità rimasero infatti le vecchie strutture economiche, aggravate dalla differenza di sviluppo tra Nord Italia in ascesa e il Sud rimasto arcaico, immobile e chiuso in una sorta di fatalistica rassegnazione. A prescindere da tali differenze, il Naturalismo ed il Verismo ebbero comunque il merito di aver reagito all‟inconcludente sentimentalismo del secondo Romanticismo per una concezione più concreta, vigorosa ed operosa della vita; di aver riaperto all‟arte il campo del reale; di aver evidenziato le miserie e le pene delle classi più umili e di aver infine creato una lingua ed uno stile più semplici, agili, vigorosi e popolari. Il Realismo inglese: Thomas Hardy Nella seconda metà del XIX secolo, ovvero verso la fine dell‟età vittoriana, il romanzo inglese assunse caratteristiche chiaramente differenti da quelle della prima metà del secolo: gli scrittori cessarono di considerarsi degli intrattenitori o dei riformatori sociali, quali erano stati, ad esempio, Dickens e Thackeray, furono sempre più influenzati dai grandi scrittori continentali come Flaubert, Tolstoy e Dostoevskij e mostrarono una tendenza verso il realismo (lontana però dai canoni del naturalismo) visibile specialmente in George Elliot (1819-1880), pseudonimo di Mary Ann Evans, ed in Thomas Hardy (1840-1928), con cui sembra culminare quella tradizione realistica del romanzo ottocentesco, che aveva avuto inizio con il realismo romantico di Dickens. Hardy è uno dei migliori esempi di romanziere della fine dell‟epoca vittoriana. Il suo primo successo, “Via dalla pazza folla” (1874), è già caratterizzato da quella visione amara e desolata della vita, in cui l‟uomo è schiacciato da un fato indifferente o spesso ostile, che caratterizzerà le opere successive, e che assumerà accenti sempre più foschi. Egli si presenta come un narratore onnisciente e “riservato”, mostra un atteggiamento compassionevole verso i suoi personaggi, i quali non perdono mai la dignità morale e mostrano un certo tipo di stoicismo nell‟accettare l‟inevitabile. Per la descrizione delle scene egli si serve di una tecnica di tipo cinematografico: inizia con una visione panoramica, per poi focalizzare i vari elementi, attraverso un dettagliato primo piano. Con questo tipo di descrizione, egli riesce a dare una percezione della scena attraverso i sensi: vista, udito e perfino tatto. La ricchezza delle immagini e l‟uso del linguaggio parlato contribuiscono poi a creare un‟intensa atmosfera e ad accrescere il realismo delle sue descrizioni. La stagione realistica russa Un interessante caratteristica dell‟età del Realismo è l‟allargamento della geografia letteraria dell‟Europa, che ora comprende anche la Russia. Alla nascita del Realismo narrativo russo concorrono numerosi fattori quali, ad esempio, il naturalismo satirico di Gogol‟, il realismo sentimentale di Balzac, ma soprattutto la nuova attenzione ai problemi sociali. Tra le costanti di questa realtà letteraria si possono indicare un atteggiamento di comprensione verso tutti gli esseri umani, la volontà di portare alla ribalta gli aspetti finora sottaciuti e più infamanti della realtà russa, una relativa trascuratezza per la costruzione e l‟intreccio narrativo a favore della psicologia, dell‟introspezione e dell‟analisi sociale, ed infine l‟impegno a scegliere i soggetti esclusivamente dalla realtà contemporanea. Tra i nomi più importanti troviamo quello di Aksakov, il quale rappresenta un momento di pura oggettività,

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aliena da motivazioni ideologiche riscontrabili invece in Goncarov e Turgenev. La stagione del realismo russo culmina però in L. Tolstoj (1828-1910) e in Dostoevskij (1821-1881), il quale partito dall‟iniziale influsso di Gogol‟, Balzac, Dickens, giunse, sotto l‟impulso di una profonda crisi religiosa e di una fortissima tendenza all‟introspezione, a risultati che si pongono all‟inizio del moderno romanzo psicologico. EMILE ZOLA Emile Zola nacque a Parigi nel 1840, a seguito della prematura morte del padre iniziò a lavorare in giovane età impegnandosi in umili lavori e, in seguito, come pubblicitario e giornalista nutrendo la sua passione per la letteratura. Venne attratto dal Positivismo. Le sue prime opere “Teresa Raquin” e “Rougon-Macquart, storia naturale e sociale di una famiglia sotto il Secondo Impero” presero in esame tutti gli strati sociali attraverso le vicende dei protagonisti. Tra i venti romanzi ebbero grande successo soprattutto “Il ventre di Parigi”, “L‟Assommoir “ e “Germinale”. Emile Zola è il più grande esponente del Naturalismo francese. Autore che si esprimeva liberamente, scrisse “il Manifesto” francese. Espose le sue idee nel “Romanzo sperimentale”, opera vicina al mondo della scienza dove si ricalcavano le teorie della sperimentazione alla ricerca della verità. Questa narrazione descriveva le situazioni nella loro realtà e i protagonisti parlavano con un linguaggio non artificioso. Elaborò la teoria del romanzo sotto l‟influsso del pensiero deterministico di Hippolyte Taine il quale riteneva che il comportamento dell‟uomo e la sua produzione artistica fosse determinata da tre elementi fondamentali al di fuori dell‟uomo stesso: la razza, l‟ambiente e il contesto storico nel quale vive. Zola si interessa anche agli studi di fisiologia di Claude Bernard che sosteneva esistere uno stretto legame tra lo studio della psiche e la fisiologia, quindi molte reazioni dell‟uomo dipendono dalla sua natura fisica. Per Zola scrivere un romanzo sperimentale significava lavorare in due direzioni: l‟osservazione della realtà come può fare lo scienziato e quindi capire questi uomini approfondendo l‟essere umano da ogni punto di vista, sia con se stesso ma anche nel rapporto che ha con l‟ambiente circostante. Secondo Zola chi si accinge a scrivere un romanzo sperimentale prima di avvicinarsi alla stesura del romanzo deve possedere tutti i dati e osservazioni, conoscendo l‟uomo come vive, come si comporta e con chi vive. Lo stile del romanzo sperimentale è impregnato di vitalità perché vengono messi in evidenza degli aspetti di un tale realismo che dà la sensazione di essere di fronte a personaggi esistenti in un ambiente reale e non immaginario. Il romanzo sperimentale di Zola è un connubio tra romanzo scientifico e la sua stilistica indisciplinata. L‟autore si serve di molte immagini, simboli e metafore per evidenziare il malessere della sua società. Per rendere evidenti certi problemi l‟autore esaspera le situazioni e i comportamenti. Alla denuncia del malessere sociale cresciuto con l‟industrializzazione e il cattivo rapporto tra l‟imprenditore e il lavoratore, l‟autore associa le condizioni disumane delle persone che dalle campagne si sono trasferite nelle periferie delle grandi città per lavorare nelle fabbriche con la perdita della personalizzazione che si ha lavorando con le macchine, alle problematiche interne dovute alle negative esperienze di vita passata dei protagonisti. Morì a Parigi nel 1902. L‟ASSOMMOIR - Analisi e commento In questo brano di Emilio Zola, appartenente alla corrente del Naturalismo, l'autore narra uno dei momenti più tragici della già disperata vita della protagonista Gervasia, una donna a cui la vita non ha risparmiato sofferenze e delusioni. Si ritrova una sera ad andare alla ricerca del marito in una bettola, rifugio di alcolisti della società operaia parigina della fine dell‟‟800. Il senso di sottomissione al marito e il disgusto per l'ambiente della taverna chiamata “L‟Assommoir” (l‟Ammazzatoio, per la morte dello spirito e del pensiero del genere umano che viene attuato in esso) sono sopraffatti dalla curiosità della donna di comprendere fino dove si possa spingere l‟autoannullamento del marito. Entrata nella locanda, Gervasia viene assalita dal disgusto per la visione del locale, degli strumenti della distilleria e dei molteplici personaggi imbruttiti dalla schiavitù del bere. La stanchezza di vivere ai margini, di lottare senza ottenere risultati e della scarsa considerazione per la figura femminile, fanno porgere l'indifeso fianco della donna al carnefice nemico: il desiderio di non lottare e di non vedere più brutture fanno sedere la donna al tavolo dei bevitori dove il marito ha già perso il lume della ragione. I loro destini si uniscono e quel momento rappresenta la partenza per il viaggio senza ritorno dell'annientamento della donna. Un viaggio iniziato addietro, dove questa fermata temporanea conferma l'inesorabile capolinea di morte ai margini della società. L'atteggiamento della protagonista nei confronti dell'uomo assume due differenti aspetti: l'attesa del marito a casa, la delusione del procrastinarsi dell'appuntamento che l'avrebbe condotta ad un attimo di svago, il ripensare a tutti i sacrifici che gli gravano la vita di duro lavoro e la rinuncia ad attimi di spensieratezza. Il fatto di andare ad affrontarlo alla taverna, dove stava dilapidando quella parte del salario che avrebbe potuto spendere per accompagnarla al circo, accresce ulteriormente la sua collera. La paura di subire

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maltrattamenti per la sua “discesa” in campo nel locale è ridimensionata dal desiderio di rivalsa e giustizia fomentato dalla collera. La situazione cambia con l'entrata nell‟“Ammazzatoio”. L'ambiente influisce sul suo temperamento, la visione negativa stempera le sue lire e l'atteggiamento di rivalsa finora provato nei confronti dell'uomo viene ad annullarsi per l'effetto dell'alcol che assume; la donna accetta di divenire spettatrice passiva e vittima del vizio che cancella le sue delusioni. L'ambiente viene descritto dall'autore con dovizia di particolari. Tutto viene preso in considerazione, dalla struttura del locale all'aria che vi si respira, dei colori cupi agli scarsi contorni visibili appena illuminati dalla fioca luce, dall'odore ripugnante dei mobili impregnati di esso a quello dei frequentatori, uomini sporchi trascurati che sono un tutt'uno con l'ambiente che li ospita e che solo lui può cogliere. Il fumo avvolge tutto nella sua coltre e tutto sembra uniformare. Gli uomini sono ai tavoli con le loro brutture fisiche e morali, soggetti schiacciati dalla nuova società industriale che tutto chiede ai lavoratori in cambio di una misera sopravvivenza. Dietro a tutto ciò lo spettro della sagoma dell'alambicco, il vero sovrano di quel microambiente, il silente detentore del potere sul controllo della mente dei malcapitati frequentatori. La sua struttura, i suoi dubbi e le sue spirali, il riflesso della debole luce sul rame della cisterna panciuta gli fanno assumere connotati di un mostro che si nutre delle vite di chi è schiavo del vizio. Tutte queste impressioni negative si pacano nella mente di Gervasia quando l'alcol passa dalle viscere al sangue ed è la donna stessa ad abbracciare la sconfitta per non vivere più negativamente la sua esistenza. La tipologia naturalistica della letteratura viene evidenziata nel brano di Zola per l'utilizzo del linguaggio popolare e diretto, privo di artifici. I termini utilizzati sono quelli del ceto popolare dell'ambiente di lavoro manovale e le caratterizzazioni dei soggetti sono dedotte dalle loro qualità fisiche e dalla povertà di spirito. Ritengo che l'autore in questo capitolo del racconto, omaggi la protagonista perché la rende cosciente della negatività dell'ambiente che la circonda e la conduce, sì alla schiavitù del vizio, ma la pone come una vittima che non implode nell'estrema volgarità. Proseguendo nella lettura del libro si vedrà soccombere Gervasia alla bassezza più profonda della figura femminile e con sé tutto l'ambiente che la circonda, compresa la figlia che scapperà per divenire ballerina dalla dubbia moralità (come se le caratteristiche negative si tramandassero geneticamente da genitori a figli, come Zola sosteneva). L'evoluzione negativa della vicenda è anche l'espressione dello stile naturalista, causa-effetto. Zola narra cronologicamente le sventure della lavandaia, dall'umile partenza all'illusoria salita dell'autonomia lavorativa, dal risentire delle prime problematiche allo sprofondare nel baratro senza uscita. È da notare anche la grande capacità di Zola di non porsi mai come giudice delle persone e delle situazioni. L'autore lascia il libero arbitrio espressivo ai soggetti della storia e delle loro discussioni-situazioni il lettore può trarre delle conclusioni o dei giudizi, che sono quelli che vuole trasmettere in definitiva l'autore. “L' Ammazzatoio” è indiscutibilmente un titolo esplicito ed esaustivo, condivido pienamente la scelta “ad effetto” dell'autore. Personalmente lo ritengo anche un titolo contemporaneo (come titoli che sovente incontriamo nella produzione letteraria e cinematografica contemporanea). Ritengo Zola, tra gli autori finora studiati, quello più attuale come stile narrativo e tematiche. Sicuramente questa mia opinione è determinata dal degrado che incombe nei nostri giorni. Il disagio sociale ottocentesco, rappresentato dalla separazione marcata tra ricchi, lavoratori e poveri, nel nostro secolo si è “spalmata” tra nuovi sottogruppi. Ai ricchi e poveri si interpongono i lavoratori sottopagati, i lavoratori in cassa integrazione o licenziati, il disoccupato, il delinquente “per scelta di vita” o quello “costretto dalla vita”. La negatività di un periodo storico non svanisce con esso, può trasformarsi ma quasi mai scompare. È lodevole in Zola la capacità di catturare le sfumature del linguaggio degli aspetti fisici degli ambienti poveri come un attento osservatore che si siede e, accuratamente, prende nota di tutto ciò che lo circonda o sente. Attraverso queste osservazioni possiamo renderci conto degli aspetti negativi della società a cavallo tra l'‟800 e il ‟900. Il mondo del lavoro, lo sfruttamento degli uomini, la perdita di speranza in un futuro migliore e l'accettazione della ingloriosa sopravvivenza, la condizione della donna paragonabile ad elemento di contorno che non ha diritto a migliorarsi e deve solo assecondare il capofamiglia o la società che detengono gelosamente le chiavi della sua esistenza.

avt GUY DE MAUPASSANT Nacque nel 1850 in Normandia da una famiglia della piccola nobiltà di provincia. I suoi genitori si separarono e fu cresciuto dalla madre che era frequentatrice dei salotti letterari di Flaubert che l‟aiutò nell‟educazione del figlio e lo instradò agli studi letterari. Nel 1980 Zola gli diede la possibilità di pubblicare il suo primo romanzo “Palla di sego” che poi farà parte della raccolta “Le serate di Médan”. Incoraggiato dalla buona accoglienza del pubblico si dedicò molto alla composizione e scrisse trecento racconti distribuiti in quindici raccolte nei dieci anni successivi. Scrisse sei romanzi tra cui “Una vita”, “Bel-Ami” e “Pierre e Jean”. Esuberante e passionale non condusse una vita monotona per le sue passioni trasgressive e per il suo bisogno di

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spostarsi sovente. Sono riferite anche problematiche allucinatorie. Nel 1892, dopo un tentato suicidio fu ricoverato in una clinica psichiatrica dove morì nel 1893. Il suo romanzo più conosciuto è sicuramente “Bel-Ami”. È ambientato a Parigi nel 1870. Narra la storia di un giovane di umili origini, Georges Duroy, proveniente dalla provincia, che aspira al successo e al danaro. Per il protagonista lo scopo giustifica i mezzi. Sebbene Maupassant fosse stato allevato dal Naturalismo di Zola, il suo stile non attinge al Naturalismo scientifico ma è più vicino alla lezione di semplicità e oggettività di Flaubert. Nei suoi racconti appare evidente una visione fantastica simbolica della realtà che anticiperà nuovi gusti letterari. L‟autore si pone come spettatore di eventi che possono sfociare in tragedia senza che nessuno possa intervenire per mutare il destino; i protagonisti abbracciano le categorie di tutti i livelli sociali che compongono la società francese, personaggi gretti ed egoisti che popolano il periodo della Terza repubblica. LUIGI CAPUANA Nacque nel 1839. Siciliano come Verga, si era trasferito a Firenze dopo aver lavorato come giornalista e scrittore a Catania. A Firenze aveva collaborato al giornale “La Nazione” come critico letterario. Su consiglio di Verga, che aveva conosciuto a Firenze nei circoli letterari, si trasferì a Milano nel 1887 dove lavorò al “Corriere della Sera”. In seguito si trasferì a Roma dove diresse “Il Fanfulla della domenica”. Insieme ad amici e colleghi letterari si interessò alla corrente letteraria proveniente dalla Francia, particolarmente alle opere di Zola, dei fratelli Goncourt, contribuendo alla conoscenza del Naturalismo in Italia. Tornato in Sicilia insegnò all‟università di Catania e con Verga dettò la poetica del Verismo. Le sue opere più importanti sono “Studi sulla letteratura contemporanea”, con la raccolta di saggistica, articoli critici di letteratura contemporanea “Per l‟arte”, un‟analisi su “gli ismi contemporanei” (Verismo, Naturalismo, Positivismo, eccetera) dove fu molto critico nei confronti del Naturalismo. Le opere di narrativa di Capuana non ebbero un grande successo. Furono vicine al Verismo, perché i soggetti si avvicinavano alle caratteristiche del naturalismo francese nonostante le ambientazioni si discostassero da quelle tipiche della narrativa francese perché non precise e generiche e i personaggi risultassero artificiosi. Nel Naturalismo francese l‟analisi scientifica sosteneva la veridicità della realtà e dei personaggi ma questa obiettività, razionalità e rigore non sono presenti nelle opere di Capuana. Il primo romanzo tipicamente verista fu “Giacinta” e venne pubblicato dopo che Verga aveva già realizzato numerose opere. L‟opera “Il marchese di Roccaverdina” del 1901, ambientata in Sicilia, è sicuramente il componimento più famoso ma che lo allontana dal Verismo poiché Capuana si sofferma sulla psicologia dei personaggi, come nella scelta stilistica degli scrittori russi Dostoevskij e Tolstoj, preferendo lo studio introspettivo. Capuana morì a Catania nel 1915. IL MARCHESE DI ROCCAVERDINA - Analisi e commento Il protagonista è il Marchese di Roccaverdina, Antonio Schirardi, un latifondista che si innamora di una giovane contadina. La giovane, Agrippina Solmo, rispettosa e devota nei confronti del signore, a causa delle differenze sociali non può sposare il marchese ma viene data in nozze dal marchese al fattore Rocco Criscione con l‟obbligo di vivere come fratello e sorella anziché come marito e moglie. Il marchese, accecato dalla gelosia perché conscio dell‟improponibilità della situazione, uccide Rocco. La morte del fattore non viene attribuita al marchese ma al contadino Neli Casaccio. Nonostante il marchese abbia timore che l‟infamia del delitto possa sporcare il suo nome, si sente in obbligo di confessare la sua colpa al prete del paese, Don Silvio, il quale però non gli dà l‟assoluzione. In lui cresce anche il timore che il prete possa rivelare il suo segreto, questo è l‟aspetto del dramma introspettivo del personaggio. Nel frattempo, il contadino accusato del delitto muore di tifo, ma nonostante non vi siano più testimoni, nel marchese cresce il rimorso (aspetti similari del dramma “Delitto e castigo” di Dostoevskij) che lo porterà alla pazzia. Viene allontanato da tutti e l‟unica persona che si prende cura di lui è Agrippina. I temi fondamentali del romanzo sono il turbamento psicologico e il rimorso. GIOVANNI VERGA È l‟autore più importante di questo periodo. Nacque a Catania nel 1840 da una famiglia di nobili latifondisti con propensione per le idee liberiste. Trascorse la gioventù a Catania frequentando la scuola del letterato Antonino Abate il quale lo indirizzò verso gli ideali patriottici e la narrativa francese romantica con cui si cimentò scrivendo i suoi primi romanzi. “Amore e patria” fu il suo primo romanzo di ambientazione storica. Nonostante la sua passione per la letteratura s‟iscrisse alla facoltà di legge, ma grazie agli avvenimenti della liberazione della Sicilia da parte delle truppe di Garibaldi, abbandonò gli studi arruolandosi nella Guardia Nazionale. Lo spirito patriottico prese il sopravvento e lui fu protagonista di quegli avvenimenti. Tra il 1861 e il 1863 Verga pubblicò altri romanzi storico-patriottici, ma decise di allontanarsi da Catania per recarsi a Firenze, poiché la realtà provinciale non lo soddisfaceva, decidendo di ampliare i suoi spazi

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frequentando altri letterati e arricchendo le proprie esperienze. In questa occasione conobbe Luigi Capuana con cui intraprese un‟amicizia che durò tutta la vita. Durante la sua frequentazione fiorentina scrisse un romanzo, “Una peccatrice”, a tematica romantica, con cui ottenne un discreto successo e ampi riconoscimenti in ambito letterario. Seguì un periodo di trasferimenti tra Firenze e Catania, con la seguente trasferta a Milano, nel 1872, poiché centro culturale più importante del momento e dove si verificavano gli incontri e gli scambi di opinione a cui lui teneva tanto. A Milano conobbe i fratelli Boito, Emilio Praga e altri esponenti della Scapigliatura milanese che era il corrispondente italiano del simbolismo francese con i suoi poeti maledetti. Frequentando i salotti milanesi pubblicò tre romanzi borghesi dove i temi predominanti furono quelli dell‟amore e della passione “Eva”, “Tigre reale” ed “Eros”. A Milano ebbe anche modo di leggere le opere dei grandi naturalisti francesi tra cui Balzac, Flaubert, i fratelli Goncourt, Zola e Maupassant da cui venne influenzata la sua futura produzione. A Milano, dopo aver scritto la novella “Nedda” che si avvicinava alla corrente del naturalismo, nel 1874, contribuì alla nascita del Verismo e la sua opera “Rosso Malpelo” ne fu testimone. Da lì a poco si cimentò nella stesura di cinque romanzi (la raccolta de “Il ciclo dei Vinti”) che trattavano le sorti di personaggi che non riuscivano a sollevarsi dal decadimento della loro condizione. Questa raccolta non venne portata a compimento e le prime due opere furono “Mastro don Gesualdo” e “I Malavoglia”. Seguì l‟adattamento teatrale della sua famosa novella “Cavalleria rusticana” e altre raccolte di novelle (“Vita dei campi”, “Novelle rusticane”, “Vagabondaggio”) che possono essere paragonate alle opere-denuncia dei naturalisti francesi. Nel 1893 Verga ritorna a stabilirsi a Catania, a questo nuovo trasferimento coincide però una crisi creativa. Non concluse “Il ciclo dei Vinti” ma compose dei drammi teatrali tra cui “La Lupa” tratto da “Vita dei campi” e “Dal tuo al mio”. Quest‟ultimo componimento rappresenta l‟ambiente siciliano con le sue problematiche sociali che si verificarono subito dopo l‟unità d‟Italia, la liberazione non era stata recepita da alcuni operai e contadini siciliani che si erano ribellati ad essa. Verga vive questa situazione e la rappresenta secondo il suo pensiero che lo porterà ad essere convinto sostenitore dell‟interventismo nel primo conflitto mondiale. Nel 1920 fu nominato senatore, morì a Catania nel 1922. Giovanni Verga (approfondimento) Nacque a Catania, il 2 settembre 1840, da una famiglia di proprietari terrieri di origini nobili e liberali. Il suo patriottismo è originario dall'infanzia trascorsa nella città natale, in contatto con il letterato Antonio Abate. La sua prima opera, il romanzo “Amore e patria”, è ricca di questi sentimenti. Abbandonò gli studi di legge per dedicarsi interamente agli eventi storici legati alle imprese di Garibaldi, aderì alla Guardia Nazionale e fondò il giornale “Roma agl‟italiani”. Nel 1865, stanco della sua vita popolare, si trasferì a Firenze, che nel frattempo era divenuta capitale d'Italia e frequentò i salotti letterari, stimolato dall'intense attività sociali e politiche che avvenivano nell‟allora capitale. Proprio a Firenze conobbe il concittadino letterato Luigi Capuana con cui mantenne buoni rapporti per tutta la vita. È proprio nel soggiorno fiorentino che pubblicò il romanzo “Una peccatrice” che lo fece conoscere al grande pubblico. Dopo numerosi spostamenti tra Firenze e Catania, si trasferì definitivamente a Milano nel 1872, città che era divenuta il centro dell'attività culturale e politica del Paese. A Milano conobbe i fratelli Boito e numerosi esponenti della Scapigliatura milanese; in questo periodo pubblicò tre romanzi densi di sentimenti e di amore passionale (“Eva”, “Tigre reale” ed “Eros”). Si avvicinò alla corrente del Naturalismo e, insieme a Capuana, contribuì alla nascita del Verismo. Collegabili a questo suo impegno sono le opere “Nedda” e “Rosso Malpelo”. A seguire pubblicò il ciclo narrativo composto dai cinque romanzi (“Il ciclo dei vinti”) che narravano la lotta per la vita in differenti classi sociali. Sono di pochi anni a seguire le pubblicazioni di novelle “Vita dei campi”, “Novelle rusticane” e “Vagabondaggio”; i primi due romanzi del “Ciclo dei vinti”, “I Malavoglia” e “Mastro Don Gesualdo”; l'adattamento teatrale della “Cavalleria rusticana”. Nel 1893 fece ritorno a Catania dove lo colse un periodo di crisi creativa alla quale infierì una controversia legale intentatagli da Mascagni per l'adattamento teatrale della “Cavalleria rusticana”. La sua attività letteraria rallentata di questo periodo vede solo la stesura teatrale de “La Lupa” (tratto da “Vita dei campi”) e “Dal tuo al mio”, che manifesta la sua opposizione all'ideologia socialista. Nasce in lui lo spirito reazionario, già manifestato con il suo pensiero di repressione verso i fasci siciliani e con l'appoggio dell'impiego dell'esercito per contrastare i movimenti operai milanesi. Agli albori della prima guerra mondiale, il suo pensiero si allinea a quello degli interventisti. Nel 1920 viene nominato senatore. Morì a Catania nel 1922. I MALAVOGLIA - Analisi e commento Nel capitolo primo del romanzo “I Malavoglia”, “La famiglia Malavoglia”, Giovanni Verga introduce i componenti della famiglia Toscano, questo in effetti era il vero nome che apparteneva alla famiglia nei registri parrocchiali. Verga sposa l'usanza popolare di attribuire un nomignolo ad ogni personaggio, usanza

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che contraddistingueva le vere opposte caratteristiche dell'interessato: i Malavoglia erano in realtà una famiglia umile ma laboriosa e seria, con caratteristiche adeguate al contesto sociale ed economico del Meridione italiano di fine ‟800. Ogni personaggio viene descritto dall'autore in rapida sequenza:

padron ‟Ntoni, il rappresentante di una famiglia che, nei tempi passati, era rappresentata da molti nuclei familiari stanziati a Trezza (Acitrezza), ma che nel romanzo di Verga era rimasta unica nel paese. Padron ‟Ntoni spiega la tenacia e la resistenza della sua famiglia alzando il pugno, forte e sicuro come un legno di noce, al cielo e proclamando che per controllare un remo le cinque dita si devono aiutare l'una con l'altra;

Bastianazzo, il figlio Bastiano, grande e grosso ma succube al comando del padre. Talmente rispettoso nei confronti di lui che non aveva obiettato la scelta della sposa per suo conto;

la Longa, moglie di Bastianazzo, donna minuta (e da questa caratteristica nomignolo di opposta descrizione); dedita ai lavori domestici, a salare le acciughe e a fare figli;

i nipoti - ‟Ntoni, il più grande, di vent'anni. Un ragazzo svogliato e disinteressato a tutto, solitamente preso a

scappellotti dal nonno; - Luca, ritenuto dal nonno più giudizioso del fratello maggiore; - Mena (Filomena) soprannominata Sant'Agata, per la sua dedizione alle faccende di casa e al telaio; - Alessi (Alessio), il più piccolo dei maschi, che il nonno definiva tale e quale lui (questa impressione

verrà confermata dagli eventi; Alessi sarà l'unico nipote in grado di riacquisire le proprietà di padron ‟Ntoni che saranno messe in vendita per disavventure economiche della famiglia);

- Lia (Rosolia) una bambina con fattezze di transizione tra l'infanzia e il divenire donna. I Malavoglia reggono il loro tenore economico con un'attività di pesca; considerando il periodo storico e l'ambiente sociale del Meridione italiano non è un lavoro facoltoso ma in grado di permettere un minimo sostentamento, efficace per la numerosa famiglia. I problemi sorgeranno con l'evolversi della storia e, di particolare rilievo, sarà l'acquisto di un carico avariato di lupini che innescherà la caduta economica della famiglia. Vediamo che il brano è ricco di citazioni e proverbi popolari che, trasmessi dai personaggi non letterati, aumentano la loro saggezza basata sull'esperienza di vita. Detti popolari che denotano “il vivere semplice ma onesto” di ceti sociali che non hanno conosciuto gloria e fasti, ma che hanno dedicato la loro esistenza all'onestà e all'amore verso la famiglia:

“Per menare il remo…” il valore della famiglia unita, dove tutti componenti collaborano e si aiutano;

“Gli uomini sono fatti…” all'interno della famiglia ogni componente occupa il proprio posto gerarchico e deve rispettare le posizioni;

“perché il motto degli…” i detti popolari che hanno origine dagli antenati sono veritieri perché soggetti ed esperienza;

“Senza pilota barca…” è necessaria una guida alla famiglia che sia in grado di controllarla e guidarla;

“Per far da Papa...” ogni incarico, o responsabilità, necessita di esperienza per compiti di livello inferiore o gavetta, per comprendere tutti i livelli di applicazione;

“Fa il mestiere che sai…” applicati nel lavoro secondo le tue possibilità e conoscenze, senza esagerare o avventurarti in situazioni di cui non hai esperienza. Al limite, se non ti arricchirai con il tuo lavoro, potrei vivere serenamente;

“Contentati di quel che t'ha…” sii soddisfatto dell'impegno dei genitori, perché il loro lascito più importante sarà quello di averti educato come uomo onesto;

“Chi ha carico di casa…” il responsabile di una famiglia non può tralasciare nessun particolare perché ha la responsabilità verso essa e i suoi componenti.

In questo brano l'autore esalta i valori della famiglia e il senso di responsabilità e il controllo di essa. Vediamo che le umili origini, coadiuvate da un impegno costante nel lavoro con dedizione, hanno dato la possibilità ai Malavoglia di mantenere un tenore, sì modesto, ma sereno. La visione pessimistica della vita prende campo quando, nonostante il ligio comportamento dei protagonisti, le avversità e la sfortuna della vita bussano alla porta: la partenza di uno dei nipoti per l'esercito, che priva delle braccia-lavoro di un componente; il carico avariato dei lupini; la perdita del figlio maggiore in mare. Tutte situazioni che determineranno la perdita di controllo di quell'equilibrio che aveva regolato la stabilità familiare. La tecnica narrativa dell'autore è caratterizzato dalla sua eclissi, Verga si ritrae e cela il suo pensiero. Lascia il primo piano ai personaggi e dona loro la libertà di recitare la loro vita reale. I protagonisti parlano la lingua del tempo, del luogo e delle loro capacità espressive. Li vediamo rifarsi ai detti popolari e caratterizzare aspetti riscontrabili sono nel loro contesto sociale e territoriale. Anche i riferimenti storici sono limitati alla

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condizione di influenzare l'ambiente familiare. La partenza del nipote per la Lega Navale viene ricordata solo per il disagio arrecato dalla famiglia e non per l'importanza dell'evento storico dell'Unità d'Italia. Il disagio con il prete e la sua non ritenuta idonea salita ad incarichi comunali, colloca la figura di padron ‟Ntoni alle considerazioni del periodo del punto di vista storico; il collegare i sui capelli raccolti alle capigliature dei reazionari francesi fa comprendere la difficoltosa formazione politica italiana, accentuata particolarmente nel Meridione.

avt LA SCAPIGLIATURA Fu un movimento che nacque nella seconda metà dell‟Ottocento ed ebbe come centro creativo la città di Milano. Prese il suo nome dal romanzo di Cletto Arrighi “La Scapigliatura e il 6 febbraio”. Fu un movimento tipicamente italiano che prese spunto dall‟esperienza francese bohemienne (boemo-zingaro, ossia uomo libero). Il bohemienne fu il tipico artista parigino, libero da ogni schema, che esprimeva la sua ribellione verso la società e il rivendicare un suo comportamento libero. Questo fenomeno, sotto molti aspetti, si può riferire all‟esperienza dei poeti maledetti e dei simbolisti francesi. Fu un modo di protestare verso la società e contro un certo tipo di novità del periodo che loro non accettavano. Era espressa come una forma di ribellione verso il conformismo e i loro autori potevano essere considerati estranei al periodo e pronti ad esperienze nuove. Le novità da loro espresse furono in contrasto con l‟attività letteraria del periodo e degli autori (come Manzoni) e della corrente del Positivismo. Contemplando la teoria del vero e del reale si distaccarono dalle tesi degli altri osservatori. Tra gli artisti scapigliati vi furono artisti di varie esperienze: scrittori, poeti, musicisti e pittori. Avevano tutti il desiderio di fare della loro arte la vita e vivere per l‟arte, questi due aspetti furono molto importanti e anche affrontare la vita con questo spirito tante volte tormentato interiormente. Erano anticonformisti e scandalosi come gli artisti d‟oltralpe: Baudelaire, Verlaine o Rimbeaud. Per il periodo storico, ebbero grande importanza perché nei circoli del loro movimento si scambiarono opinioni e idee. Un loro pregio fu anche quello di aver fatto conoscere autori e opere europee come quelle dei simbolisti francesi o di Edgar Allan Poe con il suo gusto del macabro, dell‟orrido e della spettacolarizzazione delle situazioni drammatiche. Gli scapigliati furono ostili soprattutto con il Romanticismo. Riconobbero che l‟Italia era un Paese dove molte esperienze non si erano potute fare perché molto arretrato dal punto di vista economico-sociale, religioso e per la questione dell‟unità territoriale che aveva influenzato molto lo scambio delle esperienze. Dimostrarono questo disagio verso la modernità proposta dagli industriali e che già aveva preso campo negli altri Paesi poiché il progresso aveva agevolato solo determinate categorie sociali mentre altre erano rimaste escluse dalla fase del miglioramento. Il disagio divenne la loro bandiera di battaglia come lo era per i veristi. Rifiutarono i valori della classe dominante quindi l‟efficienza, la produttività e le regole. I principali motivi a cui si ispirarono gli scapigliati furono:

- le esperienze quotidiane, anche quelle più triviali; - l‟anticonformismo e la ribellione contro la società borghese; - la predilezione per il patologico, l‟orrido, il macabro; - il dualismo tra il bene e il male, la virtù e il vizio, la bellezza e la corruzione e la degradazione.

Il linguaggio utilizzato nello stile degli scapigliati fu quello normale che non raggiunge una perfezione, ricercarono il suono e la musicalità del verso che era anticonvenzionale, usarono il dialetto e forme estreme. Tra gli esponenti più significativi della scapigliatura ricordiamo Emilio Praga, pittore e poeta milanese che morì giovane, distrutto dall‟alcol e in miseria, la cui poesia “Preludio” raccoglie le ideologie della scapigliatura, il rifiuto della tradizione (rappresentata da Manzoni “tu puoi morir!… Degli antecristi è l‟ora!”); il romanziere e poeta milanese Iginio Ugo Tarchetti, anch‟esso seguace dell‟orrido e del macabro, antimilitarista convinto; Arrigo Boito, musicista e librettista, autore di Mefistofele e dei libretti di Otello e Falstaff di Verdi. Una corrente meno estremista della Scapigliatura, che si riavvicina al classicismo e alla tradizione, è rappresentata da autori come Giosuè Carducci. PRELUDIO - Analisi e commento Preludio fu composta nel novembre del 1864, è quindi tra le ultime poesie, in senso cronologico, della raccolta. E‟ una delle più famose liriche di Praga e della Scapigliatura. Costituisce una sorta di manifesto nel quale lo scrittore sottolinea l‟opposizione personale ai valori e alla poesia del recente passato. Il tema principale, che indica nella poesia, è la conflittualità dell‟uomo contemporaneo. Polemizza aspramente con Manzoni, glorificato e adorato poeta di un passato ormai inattuale, infatti gli Scapigliati, tra cui lo stesso Praga, furono animati dall‟esigenza di novità e di rottura col passato. La poesia, posta all‟inizio della raccolta Penombre (1864), ha il valore di un manifesto poetico. Vi si trovano temi e movenze comuni agli scapigliati: la coscienza di un‟irreparabile crisi di ideali e del tramonto di ogni fede, il sentirsi “generazione bruciata”, il gusto delle proclamazioni genericamente blasfeme, del

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sovvertimento anarchico del costume borghese, l‟affermata esigenza di dire il vero, sia in senso oggettivo (addentrandosi nella zona irrazionale e tormentata della coscienza) sia in senso oggettivo (riproducendo una realtà che si vive squallida e moralmente repellente). Nelle due strofe finali si avverte un romanticismo languido e sentimentale (le ebbrezze dei bagni d‟azzurro portano fino al pianto e ad una tenera autocommiserazione. Il satanico Praga era in fondo, come altri Scapigliati, un idealistico nostalgico portato ad una nuova ricerca di nuovi valori in una nuova prospettiva individualistica. Praga è uno degli scrittori più rappresentativi della Scapigliatura perché mostra come la ribellione, che espresse in termini esasperati, fosse incapace di giungere ad una critica veramente rivoluzionaria della società, alla creazione di una nuova ideologia. Schema metrico: 8 quartine. Ogni quartina è composta di 3 endecasillabi piani (con l‟accento sulla penultima sillaba) e di un verso più breve, alternativamente un settenario piano e un quinario piano (ABab, CDcd). IL DECADENTISMO Il Decadentismo può essere considerato il superamento del Positivismo. La parola Decadentismo deriva dal francese “décadent”, con riferimento al poeta francese Verlaine dalla lirica “Languore” (definizione del suo stato d‟animo nei confronti della società contemporanea: “Sono l‟Impero alla fine della decadenza/che guarda passare i grandi barbari bianchi [i popoli germanici che invasero l‟impero romano]”). Decadenza usata da Verlaine stava a significare che un certo tipo di cultura e tradizione ormai aveva fatto il suo corso e stava per terminare. Le tematiche fondamentali di questi poeti erano rifiutare la morale borghese e porsi al di fuori della norma, quindi loro non si riconoscevano negli ideali della società e si definivano “decadenti” sia per essere considerati diversi dagli altri componenti della società che avevano preso come riferimento il progresso tecnologico, sia nei confronti della tradizione culturale che finora si era affermata. Il termine Decadentismo viene spiegato sotto due aspetti fondamentali: la stagione della sensibilità, del gusto e della natura che si imposero nella seconda metà dell‟‟800 principalmente in Francia e nel resto d‟Europa, e poi come movimento culturale letterario che si affermò in tutta Europa sulla base del rifiuto della tradizione letteraria precedente. Non si può considerare come fenomeno unico il Decadentismo perché da esso nascono numerosi diversi tipi di esperienze letterarie. Col Decadentismo venne pian piano meno quella definizione di uomo intellettuale colto e di cultura che apparteneva alla classe dirigente, anche perché erano ancora poche le persone non appartenenti alle classi abbienti che potevano permettersi l‟acculturamento. I letterati aderirono ai movimenti ed alle correnti con le loro sedi, statuti, finanziatori, editori e riviste che pubblicarono le loro opere, ma vi furono anche autori che decisero di intraprendere carriere autonome che gli permettessero di percorrere un cammino indipendente. Per questo motivo la libertà fu l‟ideale condiviso da questi poeti. Per quanto riguarda la diffusione delle idee del Decadentismo numerose riviste e giornali contribuirono alla divulgazione, come la rivista “Le Décadent” fondata a Parigi nel 1884 da Verlaine stesso e dai poeti a lui vicino. I testi che possono essere considerati manifesti programmatici sono “I fiori del male” di Baudelaire e l‟”Arte poetica”di Verlaine. Per quanto riguarda la narrativa possiamo ricordare “A ritroso” di Huysmans considerato il testo simbolo di tutto il Decadentismo insieme a quello più rappresentativo de “Il ritratto di Dorian Gray” di Oscar Wilde che rappresenta il personaggio decadente per eccellenza. Nel giro di pochi anni quella fiducia limitata riservata alla tecnologia, alla scienza e al progresso venne intaccata da nuove intuizioni filosofiche e da nuove teorie scientifiche. Venne messa in discussione la fiducia del pensiero positivista dalla corrente del nichilismo (dal latino nihil, “nulla”), ossia la dottrina che nega l‟universalità e il valore assoluto di qualsiasi verità e il valore intrinseco delle convinzioni delle persone. Il maggiore rappresentante del nichilismo fu Friedrich Nietzsche, il filosofo che interpretò questa crisi nella fiducia, nella ragione e nel progresso. Nietzsche analizzò a fondo gli aspetti dell‟uomo a lui contemporaneo e formulò il concetto di “superuomo” (uomo nuovo, libero, indipendente), che verrà preso ad esempio dai dittatori del „900 ma utilizzato per diffondere negatività e supremazia. Il superuomo di Nietzsche darà sfogo a tutte le sue risorse per esprimere le sue doti migliori e capacità per realizzarsi al meglio, per costruire una vita straordinaria. Ogni tendenza di quest‟individuo, anziché rimanere statico, lo porterà a voler tirare fuori il meglio da sé per realizzare se stesso sotto ogni aspetto. Il concetto di superuomo si intreccia anche con la volontà di potenza e di “spirito dionisiaco” (dal dio Dionisio senza freni, potente, amante della musica e della vita sfrenata, che si contrappone al dio greco Apollo amante dell‟arte e dell‟armonia). Secondo il pensiero di Nietzsche, Dionisio incarna lo spirito istintivo dell‟uomo, la parte più sfrenata, violenta e potente dell‟animo umano mentre Apollo rappresenta la calma, la tranquillità, la compostezza e l‟equilibrio. Altro concetto che venne riconsiderato fu quello del tempo. Il filosofo francese Henri Bergson, incarna la tradizione spiritualistica in cui scienza e religione non sono in contrasto ma procedono di pari passo, con la sua teoria sul tempo afferma che questo sfugge alle regole matematiche perché abbiamo due tempi: quello cronologico, come successione di eventi uguali e misurabili e il “tempo interiore” fatto di stati simultanei dove passato, presente e futuro si intrecciano con simultaneità.

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Nel campo della scienza umana fu molto importante l‟esperienza della psicanalisi scoperta da Sigmund Freud che affermò che l‟inconscio condiziona tutta l‟attività dell‟uomo cosciente. Secondo questa teoria l‟inconscio è più importante della coscienza poiché indica l‟insieme dei processi psichici che rimangono sotto la soglia della coscienza. Non possono essere conosciuti volontariamente, perché rimossi, ma è necessario che lo faccia un esperto, lo psicanalista, che utilizza dei mezzi per far affiorare dalla coscienza ciò che è stato rimosso. Questa realtà interna fa parte dell‟Es (corrisponde agli istinti e alle pulsioni più profonde, le paure, tutto ciò che ci infastidisce e che abbiamo rimosso), del Super-Io (l‟insieme delle regole, convenzioni sociali, insegnamenti, regole familiari imposte fin dalla nostra nascita) e dall‟Io (la parte cosciente dell‟uomo, che si sforza per raggiungere un certo equilibrio tra il Super-Io e l‟Es). L‟Io è impegnato in un lavoro profondo e quando non riesce ad equilibrare gli altri due aspetti subentrano le nevrosi. Secondo Freud tutta l‟attività dell‟inconscio, quella che non affiora alla coscienza, è causa di malattie psichiche quali l‟isteria e le depressioni. Albert Einstein, con la sua teoria della relatività, esprimendo l‟equivalenza tra la massa e l‟energia diede luogo alla teoria che rivoluzionò il mondo della fisica. I caratteri fondamentali del decadentismo furono:

la critica al mondo borghese;

l‟anticonformismo;

il rifiuto del positivismo;

il rifiuto dell‟impegno politico e sociale dell‟artista;

il concerto dell‟artista che è unico ed eccezionale;

l‟artista è anche un veggente perché riesce a capire delle verità nascoste, vedendo oltre;

l‟artista è esteta, alla ricerca del bello e dell‟arte;

la decisione di descrivere la realtà non attraverso realtà oggettive ma criteri soggettivi, quali la razionalità e la bellezza vissuta in maniera soggettiva e l‟intuizione.

I temi ricorrenti del decadentismo furono:

il rifiuto dei valori;

l‟interiorità;

la malattia e la morte;

La superiorità e lo stato privilegiato;

l‟alterazione della coscienza per sfuggire alle prigioni della vita (con l‟utilizzo di droghe, alcol e costumi impopolari;

il vitalismo, che è l‟argomento centrale dell‟opera dannunziana, si traduce nell‟esaltare la vita senza alcun freno ed è legato al concetto di superuomo;

il sogno, spiegato da Freud come qualcosa di irrazionale e che, se compreso, aiuta a capire gli aspetti della vita perché attività dell‟inconscio;

il vagheggiamento di epoche e paesi lontani, esotismi che si narrano in racconti di viaggi in terre lontane.

Tra le figure del periodo decadente troviamo:

il poeta maledetto, la cui figura più rappresentativa è sicuramente Oscar Wilde;

l‟esteta, di cui lo stesso protagonista Dorian Gray del racconto di Oscar Wilde incarna il culto del bello. Personaggio aristocratico, corrotto che ama circondarsi di oggetti preziosi e raffinati. Ricerca per tutta la sua vita l‟ebbrezza di tutto ciò che può procurargli piacere e quindi si allontana dalla vita comune delle altre persone;

il superuomo, rappresentato dalle gesta di D‟Annunzio;

il malato, quasi sempre presente nelle opere di narrativa del „900, sono personaggi con malattie dei tempi moderni, da ipocondriaci vivono con queste malattie vere o inventate;

l‟inetto, rappresentativo dell‟epoca moderna. In contrapposizione al superuomo, l‟inetto si arrende e non si assume nessuna responsabilità, nevrotico e debole lo troviamo nel romanzo “La coscienza di Zeno” di Svevo e ne “Il fu Mattia Pascal” di Pirandello;

la donna ambigua e sensuale come Ippolita Sanzio nel romanzo “Trionfo della morte” di D‟Annunzio, solitamente queste donne contrastano, il protagonista in modo tale da non fargli raggiungere i suoi scopi.

Tra le correnti più importanti del Decadentismo ricordiamo:

il Preraffellismo, tra i cui esponenti troviamo il pittore e poeta Gabriel Rossetti. La caratteristica di questa corrente è il ritorno ai caratteri tipici del medioevo rifacendosi alla semplicità pittorica dei pittori di quel periodo, la semplicità dell‟arte nell‟espressione artistica;

il Parnessianesimo, riguarda la seconda metà dell‟‟800 questo movimento si richiama ad alcuni poeti che inseguono una poesia colta e raffinata badando alla struttura e alla forma. Si rifanno all'arte per l'arte, ossia l'arte fine a se stessa e separata dalla vita e dai valori morali, senza funzione educativa.

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Il Parnessianesimo ci ricorda l‟epoca classica del periodo greco che è alle basi del nostro classicismo;

i Simbolisti, di cui il maggior rappresentante è Baudelaire. Gli aspetti che ci interessano maggiormente sono gli approcci di questi poeti maledetti verso la società moderna, che si estraniano ed esasperano il loro modo di vivere. Anche Verlaine analizza queste tematiche.

CHARLES BAUDELAIRE Poeta francese, considerato il precursore del Simbolismo. Amante dell'estetismo rinnovò la tradizione poetica tanto da essere indicato come l'iniziatore della poesia moderna. Elaborò il concetto di poesia pura, ossia la poesia fine a se stessa formulata amando il componimento e senza preoccuparsi del fine istruttivo. I simbolisti ricercano la musicalità, la purezza della forma e la loro sensibilità fuori dal comune traspare dalle forme. Lo stato d'animo di queste persone, perennemente in preda al vizio, è pervaso dalla malinconia. Nella lirica “Spleen” di Baudelaire il sentimento della noia è preponderante. La noia di carattere esistenziale è tipica di parecchi personaggi del ‟900 ed è definita dai critici “come una disperazione senza via d'uscita” che non ha un riferimento completo ma fa parte di questa esistenza, un'esistenza che non dà soddisfazione. Alla base della poesia di Baudelaire c'è la poetica delle “corrispondenze”. Nelle corrispondenze la natura è rappresentata come un tempio, un luogo del sacro e del mistero, da cui trarre ispirazione e da cui nascono parole libere e di illusione. L'uomo fa parte del mistero della natura e avverte che tra tutti gli elementi presenti in natura ci sono delle corrispondenze. L'uomo comune non riesce ad interpretarle mentre il poeta è in grado di raccogliere questi aspetti. Quest'intuizione poetica la troveremo anche nel Pascoli, che può essere considerato un poeta simbolista (nella sua poetica “del fanciullino” dirà che proprio questo suo modo di vedere le cose, come un bambino che è al di fuori dalle convenzioni sociali, che guarda le cose, anche le più piccole, con gli occhi meravigliati, stupefatto anche dalle cose minime ed essenziali come un adulto non è più in grado di fare). IL SIMBOLISMO Nacque come movimento poetico in Francia alla fine dell'‟800. Si basò sulle teorie del Decadentismo, il rifiuto della scienza, delle teorie positivistiche, la realtà che non è sempre quella che si percepisce, il valore che provengono dall'interiorità stessa dell'uomo. Con la raccolta poetica “I fiori del male”, Baudelaire inaugurò la stagione dei poeti maledetti che vivevano una vita sregolata, abusavano di alcol e droghe e rifiutavano la morale della borghesia. In quest'opera il tema fondamentale è l'alienazione dell'individuo in una società che non riconosce, viene messa in evidenza il degrado morale dell'uomo, l'eccezionalità del poeta, viene adottato un nuovo stile musicale. Questi versi assumono un'importanza fondamentale nella storia letteraria perché il modo personale di vedere del poeta il quotidiano e il vizio viene esaltato. PAUL VERLAINE Per quanto riguarda Verlaine il linguaggio è evocativo, richiama altre situazioni, è musicale, usa versi e suoni brevi e fluidi. Per questo autore la descrizione della realtà non deve essere corrispondente ma deve trasmettere le impressioni che il poeta percepisce dalla stessa, quindi suscitare emozioni e stati d'animo. Le parole devono evocare delle situazioni (“il potere evocativo delle parole” che ritroveremo in Ungaretti, Montale e Quasimodo con l'Ermetismo) assumendo diverse sfumature e significati tante quante vuole trasmetterne il poeta. ARTHUR RIMBAUD Amico di Verlaine, con la sua breve attività letteraria riuscì a rivoluzionare la poesia moderna per il suo modo di indagare l'ignoto e a fondo negli aspetti abbandonandosi a visioni allucinatorie. STÉPHANE MALLARMÉ È considerato il simbolista per eccellenza, la sua concezione della figura del poeta è importante perché riesce a indagare nei significati più reconditi dei simboli e delle corrispondenze tra le cose. I temi essenziali della sua poesia sono quelli dell'elevazione dalla normalità, di andare oltre la vita reale e di cogliere il mistero che vi è nelle cose andando nell'essenza di esse. Tra le sue opere più famose ricordiamo il poemetto “Il pomeriggio di un fauno” in cui si concentrano poesia, musica e cultura. In questo poema è rilevante la compenetrazione tra uomo e natura, come unica cosa, il “panismo” (dal dio Pan) che verrà affrontato anche nella poetica di D'Annunzio.

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LE VARIE CORRENTI DEL DECADENTISMO Le tendenze del Decadentismo non possono essere considerate in un'unica tipologia perché raggruppano numerose correnti. Con il Simbolismo sono stati protagonisti dei personaggi che si sono voluti allontanare dai normali schemi e che hanno voluto utilizzare una loro forma espressiva (come gli Scapigliati ed i Simbolisti). Il punto comune è stato il contrastare le nuove tendenze offerte dal progresso portato all'esasperazione, sostenendo che vi fossero delle incongruenze in ciò che stava avvenendo. Si avvertivano i miglioramenti a cui andava incontro la nuova società; le tecnologie e le nuove scoperte portavano benessere che per molti non era inteso come il massimo valore; alcune persone avevano migliorato il loro stile di vita mentre altre vivevano ancora in condizioni molto precarie. Come le correnti letterarie, che nascono in contrapposizione al Positivismo, anche le nuove correnti politiche come il socialismo, il marxismo, i movimenti operai e sindacali cercano di evidenziare le situazioni di disagio perché non c'è un modello di società che possa andare bene per tutti. Molti aspetti del Decadentismo possiamo trovarli anche in autori più moderati. Oltre agli autori critici del periodo ve ne furono altri che attinsero qualcosa dalle novità non tradendo la nostra tradizione culturale poiché ritenevano la nostra classicità un valore. Carducci, Pascoli e D'Annunzio furono il connubio tra la nostra tradizione e gli elementi nuovi introdotti da esperienze culturali diverse. Carducci rimase più ancorato alla tradizione non prendendo gli schemi delle novità, ma attinse alla metrica classica, come nelle “Odi Barbare”, mantenendo i temi caratteristici della poesia del ‟900 ed esprimendo l‟interiorità, i propri sentimenti, gli affetti per i propri cari, l'ambiente e la natura. Questi sentimenti sono anche rappresentati nelle liriche di Pascoli. Altra necessità di esprimere le vicende del quotidiano nell'essenzialità è riscontrabile nell'Ermetismo di Ungaretti. L'essenzialità dell'Ermetismo di Ungaretti è determinato dal volere del poeta di dare la massima importanza alla parola che rinchiude in sé molti concetti. Non sono necessari i virtuosismi della metrica perché si ritiene che una parola possa rinchiudere in sé molti aspetti e significati. Di contro, l'esaltazione del progresso trova la sua massima espressione nel Futurismo che esalta tutto ciò che è nuovo. Le novità rappresentate dalla velocità e dalla magnificenza delle opere sono sostenute da questa corrente che ha come organo di diffusione “Il Manifesto” di Marinetti. GIOVANNI PASCOLI Nacque nel 1855, a San Mauro di Romagna, da una famiglia numerosa, quarto di dieci figli. Suo padre Ruggero era amministratore della tenuta La Torre dei principi Torlonia. Giovanni fu instradato agli studi classici presso il collegio dei Padri Scolopi di Urbino. Gli eventi della sua vita condizionarono molto la sua esistenza e principalmente la sua opera. L'evento tragico del 10 agosto 1867, la morte del padre ucciso al ritorno dalla fiera di Cesena, lo segnò per sempre, anche perché non si seppe mai il motivo e neanche i colpevoli di questo delitto (le più probabili cause vennero ricondotte a gelosie nell'ambito lavorativo o l'essere testimone di traffici irregolari). Altri lutti che funestarono la vita del poeta furono prima la morte della sorella e poi della madre, a breve distanza di tempo anche quella del fratello. I rimanenti fratelli si stabilirono a Rimini e Giovanni, dovendo lasciare gli studi a causa della situazione economica, li riprese e li concluse in seguito a Firenze. Nel 1873 vinse una borsa di studio con la quale ebbe la possibilità di iscriversi alla facoltà di lettere all'università di Bologna dove fu allievo di Giosuè Carducci. Nell'ambiente universitario Pascoli fece parte di alcuni movimenti studenteschi socialisti e, coinvolto in scontri con movimenti opposti, venne arrestato nel 1879 e condannato a tre mesi di carcere. Quest'esperienza e la paura di compromettere la sua carriera mirata alla docenza, gli fecero abbandonare l'attività politica e si dedicò con maggiore impegno agli studi. Si laureò all'età di 27 anni e incominciò ad insegnare nei licei. I primi incarichi di docenza gli vennero assegnati inizialmente nel liceo di Matera, in seguito gli venne assegnato l'incarico a Massa dove si stabilì con le sole due rimanenti sorelle, Ida e Maria. Con le due donne il poeta diede vita alla sua concezione di famiglia, di nido familiare. La parola “nido” racchiuse, per Pascoli come per altri autori, il significato di famiglia intesa come punto d'appoggio, ritrovo di affetto e di forza per proseguire il cammino. Il matrimonio della sorella Ida venne vissuto dall'autore come un tradimento degli ideali familiari, stesso sentimento venne approvato dalla sorella Maria quando si paventò il possibile matrimonio del fratello con una loro cugina. Per questo gruppo familiare, che aveva perso prematuramente gran parte dei componenti, ogni possibilità di ulteriore divisione veniva vissuta come una minaccia al tentativo di mantenere unita l'entità superstite. Nel 1887 Pascoli si stabilì a Livorno dove nel 1891 pubblicò, presso l'editore Giusti, la prima raccolta di poesie con il titolo latino “Myricae” (in riferimento ai semplici arbusti che nascono spontanei). Il nome della raccolta fa già intuire l'amore del poeta verso la semplicità e purezza delle cose. L'anno seguente la raccolta venne ulteriormente ampliata e vinse un premio internazionale di poesia latina ad Amsterdam, questo riconoscimento gli venne attribuito per ulteriori tredici edizioni. Dopo il matrimonio della sorella Ida, Pascoli e la sorella Maria si trasferirono a Castelvecchio di Barga dove pubblicò la prima edizione dei “Poemetti” e nello stesso anno venne nominato professore ordinario di

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letteratura presso l'Università di Messina dove rimase fino al 1903 per poi trasferirsi all'università di Lucca. A cavallo della fine dell'‟800 e gli inizi del ‟900 pubblicò “I canti di Castelvecchio” con numerose riedizioni. Opere che seguirono furono “I poemi conviviali”, “Odi e inni” e il saggio che racchiude la sua poetica “Il fanciullino”. Ne “Il fanciullino” è racchiuso il concetto di poeta secondo Pascoli; in questa opera l'autore spiega che il poeta riesce a carpire il linguaggio nascosto e misterioso delle cose che ci circondano. Questo modo di vedere il mondo, la natura e le persone è proprio del poeta che sa cogliere la profondità e la bellezza della natura. Solo chi ha l'animo semplice di un fanciullo può cogliere il lato misterioso della vita e delle cose, questa semplicità d'animo di un bambino rimane inalterata nel poeta. Questo concetto è alla base della poetica di Pascoli e ci fa comprendere che Pascoli è il poeta della semplicità, della purezza e la meraviglia per tutto ciò che ci circonda. L'uomo crescendo, nel tempo, perde la spontaneità di visione del bambino ma questa dote rimane immutata nel poeta. Altri saggi oltre “Il fanciullino” sono “Minerva oscura”, “Sotto il velame” e “La mirabile visione”. Nel 1905 Pascoli subentra a Carducci nella cattedra dell'università letteraria di Bologna, seguirono i saggi “Canzoni di re Enzio” e i “Poemi italici”. Sempre più vicino all'ideologia nazionalista aderì all'impresa coloniale dell'Italia, convinto che la colonizzazione avrebbe permesso all'Italia di uscire dalle problematiche della disoccupazione. Quest'opinione lo portò ad esporre numerosi discorsi di sostegno alla politica coloniale come ne “La grande Proletaria si è mossa” del 1911. Nel 1912 si ammalò e morì a Bologna. Sua sorella Maria, a seguire, pubblicò postume molte poesie giovanili riunite nelle raccolte “Poesie varie”, “Poemi del Risorgimento”, e i “Carmina” (raccolte di poesie in latino). La raccolta più conosciuta è senza dubbio “Myricae” dove i temi che ispirano l'autore solo i temi familiari, della campagna, delle piccole cose di tutti i giorni e degli affetti intimi. Accanto a questi temi troviamo il dolore, il tema del “nido” legato al concetto di famiglia e dei lutti che ne hanno segnato profondamente il percorso. In alcune di queste poesie è possibile ravvisare lo stile degli Impressionisti che esprimono con i loro quadri il loro personalissimo modo di vedere il mondo. Questa singolare caratteristica è similare nella poetica di Pascoli con il suo cimento nel dare musicalità alle parole con una nuova sintassi e metrica. Le opere scritte in latino trasmettono la preparazione classica del poeta in contrapposizione alla sua opera semplice; il suo linguaggio ricercato in endecasillabi sciolti, che determinano eleganza al verso, fanno comprendere la sua preparazione approfondita e la sua curiosità per i nuovi movimenti letterari. Pascoli, dopo le esperienze politiche giovanili, riprese queste tematiche con il discorso del nazionalismo e dell'affermazione dell'Italia come paese forte, come nazione che si stava costruendo. Visse il fenomeno del proletariato, della disoccupazione, dei lavoratori che per lui rappresentavano un problema di grave sofferenza; quando scrisse “La grande Proletaria si è mossa” cercò di capire come queste persone che erano stata lasciate alla loro sorte avevano bisogno di un cambiamento e di una possibilità di nuovo lavoro. IL FANCIULLINO - Analisi e commento In quest'opera Pascoli declama la capacità del poeta di esprimersi con l'intimità dell'animo tipica del bambino, come un fanciullo sa cogliere la gioia e la malinconia degli eventi è capace di essere allegro e di addolcire anche il dolore. Lo scopo importante del poeta è quello di dover aiutare il popolo ispirandolo a buoni e civili costumi, quindi relegandolo alla funzione di educatore. La poesia è la vera espressione del fanciullino che è in noi e dentro di noi vi è un fanciullino che non solo ha brividi (come credeva Cebes Tebano, personaggio dell'opera “Fedone” di Platone). Ne “È dentro di noi un fanciullino” vi è la sintesi del suo modo di pensare alla poesia. Il poeta deve far emergere quella parte che ha dentro di sé, il sentimento e di modo di vedere le cose tipiche del bambino, che procedendo nella crescita si perdono. Anche il modo di vivere il dolore e la gioia di un bambino sono differenti da quelli di un adulto, ma il poeta li mantiene vivi in sé e riesce a comunicarli trasmettendoli agli altri. La teoria del fanciullino è legata anche al suo linguaggio; un linguaggio che evoca, suggerisce, rappresenta e descrive. Pascoli è ricco, allusivo ed è poeta perché riesce a svelare l'interiorità delle cose. Ogni cosa nasconde in sé qualcosa di bello che il poeta riesce a svelare. La poesia di Pascoli è libera e spontanea, dà libero sfogo all'immaginazione e non è contenuta negli schemi tipici della ragione; è frutto di sentimento, di passione e di vivere la vita in modo non razionale. Ciò rappresenta la novità stilistica proposta da Pascoli. X AGOSTO - Analisi e commento Fra tutte le poesie che si riconducono alla tematica della famiglia, del dolore e del lutto familiare, questa è quella più significativa. La notte di San Lorenzo, quando è più frequente il fenomeno delle scie delle stelle cadenti, per Pascoli simbolicamente rappresenta un cielo che piange. Un cielo che comprende il dolore dell'autore e che si trasforma in dolore universale nei confronti dell'umanità.

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L'autore sembra conoscere il segreto di questo pianto di stelle perché il poeta deve porsi nella ricerca del segreto delle cose: “… io lo so perché…”. Prima di svelare l'arcano Pascoli racconta di una rondine uccisa nel tornare al suo nido (dove il “nido” assume il significato di “famiglia”). Utilizza il paragone della rondine uccisa per far comprendere il dolore provato per la sua famiglia per l'uccisione del padre. Questa poesia è stata composta e pubblicata nel 1896 sulla rivista “Il Marzocco” ed in seguito inclusa nella quarta edizione di Myricae nella sezione “Elegie”. Predominante in questa poesia è il parallelismo tra l'uccisione del padre e l'uccisione della rondine con tutti i collegamenti che seguono: la rondine che tornava a casa per portare la cena ai rondinini che l'aspettano mentre il padre tornava a casa da una fiera portando in dono le bambole alle sorelle. Il motivo centrale di questa lirica è la malvagità umana che non risparmia neanche le persone buone e che sono vittime della cattiveria. Le due creature innocenti sono accomunate dalla morte e diventano il simbolo dell'ingiustizia del male che regna nel mondo, definito “atomo opaco” (la poesia di Pascoli è estremamente simbolica ed evocativa, in essa troviamo anche i caratteri dell'impressionismo). La rondine tornava al tetto, un uomo al suo nido. L'autore scambia i termini tetto-nido per rafforzare l'analogia e il parallelismo tra la morte della rondine è quella dell'uomo. Il “nido” per Pascoli è la famiglia, il rifugio dove ci si ritrova negli affetti, un nido da lui stesso ricreato dopo la morte di gran parte dei componenti della sua famiglia con le sorelle Ida e Maria. La lirica si porta in questa dimensione, non è solo lui a soffrire. La malvagità è di tutta l'umanità e a soffrire è tutto l'universo rappresentato da questo cielo di stelle che quando cadono sembrano piangere. Pascoli spiega appunto che il cielo sembra piangere stelle per la malvagità dell'uomo, in questo modo il suo dolore diventa un dolore universale e il cielo partecipa con il suo pianto di stelle. X AGOSTO (approfondimento) Una rondine ed un uomo, due figure che vivono la loro esistenza nello stesso mondo. Due corpi diversi con differenti capacità e di intelletti distanti. L'istinto guida una, la ragione conduce all'altra. Il pathos, il logos e l'amore sono ponti che collegano le loro esistenze. La rondine e l'uomo volano alto e attraversano il ponte in un tutt'uno. Il loro amore li conduce alla casa-nido dove i loro affetti li attendono. Un abbraccio, un insetto, una carezza, un pigolio; sfaccettature di vita quotidiana che confrontate con il metro della ragione o dei sentimenti assumono differenti valori. Come paragonare un uomo ad un animale? Come attribuire uguale valore al pensiero di un uomo colto all'istinto di un animale? Valutando l'amore che un essere può donare è il metodo che è suggerito da Pascoli, che ci permette di comprendere come l'amore per gli affetti familiari assuma un ruolo di connessione tra le due esistenze. Una così semplice da sembrare inutile e ininfluente per la complessità dell'universo, l'altra così importante da costituire le fondamenta di una famiglia. Casa-nido, nido-casa; due mondi confinati di aspetto differente eppure così simili da essere accomunati nel rendere il concetto di famiglia, di focolare, di affetti, di protezione e di amore. Pascoli svela il suo intimo concetto di interpretazione della famiglia e la sensazione di protezione che ne deriva da essa. La data strugge il cuore dell'autore, una beffarda coincidenza. La notte del martirio di San Lorenzo, dove anche il cielo piange con le sue lacrime di stelle, è l'anniversario della morte del padre del Pascoli. La morte dell'uomo che faceva ritorno al tetto per riabbracciare i cari portando dei doni, come quella della rondine che faceva ritorno al nido dei suoi piccoli per sfamarli. Una luce abbagliante, un buio profondo. Un vortice di immagini che scaturiscono da spente pupille. Come in un film introspettivo, dove il pensiero del regista è rappresentato più dai fermo-immagine, dai silenzi e dai forti contrasti che dalle parole e dalle azioni, ecco allargarsi l'immagine. Degli occhi immobili forzati in un'espressione di stupore, il volto stupefatto e quel becco rivolto al cielo che protende ad esso l'insetto, come alla ricerca di qualcuno che possa recapitarlo ai piccoli. Le ali e le braccia spiegate al suolo, come crocifissi e donate al sacrificio sulla croce. Drammatiche pose assunte da corpi inermi. Il tempo di realizzare, il tempo di perdonare, il tempo di disperarsi per non poter raggiungere i piccoli, il tempo di rammaricarsi per non poter più accarezzare le teste dei figli; un attimo e tutto svanisce, tutto quello che rimane è un corpo disteso al suolo mentre immaginiamo l'anima staccarsi da esso e urlare al cielo il proprio dolore. L'intensità e la drammaticità del Pascoli sono profonde perché sono nel profondo dei suoi sentimenti che vanno ad esplorare. Nell'alto del cielo possiamo librare il volo di analisi dei sentimenti, nel cielo che tutto sembra guardare. Dall'alto si è spettatori di un dramma, la morte di un uomo e di un animale, entrambi genitori mossi da eguali sentimenti di passione ed amore per la famiglia. L'insetto e le bambole, il cielo non può dirigere un vento provvidenziale che riconduca i doni ai figli. Può solo guardare passivamente e piangere con le sue stelle. Lacrime splendenti che trafiggono l'animo di chi rimane e donate al suolo che abbraccia corpi immobili, il suolo di questa terra di malvagità che non è null'altro che un atomo opaco nell'immensità dell'universo. L'autore si chiede se gli altri pianeti siano in grado di rendersi conto della malvagità che regna sulla Terra, il nostro pianeta che si autocelebra su altri mondi sicuramente più puri del nostro.

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Il poema “X Agosto” viene composto nel 1896 da Pascoli e pubblicato lo stesso anno sulla rivista “Il Marzocco”. Viene incluso in seguito nella raccolta, dalle molteplici edizioni, “Myricae” (dal nome della pianta erbaccia rustica). Questa fase produttiva dell'autore è legata all'osservazione ed all'analisi del mondo contadino con incursioni nella sua vita familiare. Gli aspetti della vita rupestre sono narrati con immagini e suoni reali puri che si allineano al pensiero del Pascoli. Il nido assume la connotazione simbolica del nucleo familiare e la famiglia quella del nido dove i componenti della famiglia trovano protezione, amore, collaborazione, sostentamento e sicurezza. La verità, nascosta fino alla conclusione del poema, riguardante le lacrime versate dal cielo sotto forma di stelle, svelano la causa componitiva incentrata sulla malvagità che regna nel mondo. La metrica del brano è rappresentata da sei quartine in decasillabi e novennari a rima alternata. La forma espressiva da inizialmente scorrevole, diviene lenta, maggiormente cadenziale per l'aumento della punteggiatura e delle pause che inducono alla riflessione sul pensiero dell'autore. Nei primi due versi della prima quartina troviamo una consonanza della lettera “l” e un'assonanza tra le parole “arde e cade”. Tra il primo e secondo verso, sempre della prima quartina, troviamo l‟enjambement “tanto-di stelle”. Nella terza quartina troviamo la metonimia “e il suo nido è nell'ombra, che attende-che pigola sempre più piano” dove non è il nido che pigola nei piccoli dentro di esso. La similitudine delle figure della rondine e dell'uomo è sottolineata dagli stessi termini utilizzati dall'autore nella seconda e quarta quartina: “Ritornava/tornava”, “tetto-nido/nido-tetto”, “l'uccisero”, “il portare il verme-portare due bambole” (sostentamento comune). Similitudine sintattica ed espositiva è rappresentata dalla seconda e quarta quartina confrontate con la terza e la quinta. Entrambe le coppie esprimono causa-effetto; la rondine fa ritorno con il pasto, viene uccisa, i piccoli sono condannati a morire; il padre fa ritorno a casa, viene ucciso, i familiari sono condannati a vivere senza la guida paterna.

avt L'ASSIUOLO - Analisi e commento La lirica si apre con la descrizione di una notte chiara dove si avvertono presenze (introduce la novità apportata da Pascoli dei suoni onomatopeici). È una notte che sembra magica, che porta a pensare qualcosa di bello. Il cielo è chiaro e gli alberi sembrano ergersi verso la luna per vedere l'alba. L'atmosfera sembra incantata e resa magica dal rumore del mare e dai misteriosi suoni che provengono dall'erba e dai cespugli. A questo momento estatico, di bellezza e di attesa, subentra l'angoscia che nasce nell'udire un suono che determina un senso di impotenza. Il verso dell'uccello, che si scaglia nella notte, sembra un cattivo presagio. L'ambiente cambia aspetto. La notte porta questa angoscia nell'animo umano, il senso di morte (che è sempre presente nella poesia di Pascoli). La lirica si distacca piano piano dalla dimensione della realtà per arrivare alla dimensione simbolica, della suggestione che ha in quel momento il poeta. Ci sono motivi descrittivo-pittorici e caratteristiche di musicalità nuova dettata dai versi e dai suoni. La lirica si arricchisce di pennellate pittoriche perché la tipologia di descrizione della realtà è consona alla pittura impressionistica. Il poeta sembra cercare qualcosa che apparentemente non si vede, che è oltre la realtà e l'apparenza, approfondendo questi aspetti. Questa poesia venne composta nel 1897 e venne introdotta nella raccolta Myrice, nella sezione “In campagna”.

IL GELSOMINO NOTTURNO - Analisi e commento

I gelsomini notturni, detti anche “le belle di notte”, aprono i loro fiori al calar della sera quando il poeta rivolge il pensiero ai suoi morti. Anche le farfalle del crepuscolo iniziano il loro volo nelle ore della notte tra i viburni, altrimenti detti “palloni di neve”, perché fiori bianchi di forma sferica. Tutto tace: insieme alla notte è calato il silenzio: solo in una casa ancora si veglia: i rumori sommessi, che ne provengono, non turbano la pace notturna, paiono un bisbiglio di voci. Nel nido i piccoli dormono sotto le ali della madre. Dai calici aperti dei fiori di gelsomino esala un profumo che fa pensare all‟odore di fragole rosse. Mentre nella casa palpita ancora la vita e una luce splende nella sala, l‟erba cresce sulle fosse dei morti. Un‟ape, che si è attardata nel volo, trova tutte occupate le cellette del suo alveare. La costellazione delle Pleiadi risplende nel cielo azzurro e il tremolio della sua luce richiama alla mente l‟immagine di una piccola chioccia circondata dai suoi pulcini, intenti a pigolare. Per tutta la notte esala il profumo dei gelsomini che il vento porta via con sé. La luce accesa nella casa sale su per la scala, brilla al primo piano e si spegne . E‟ chiara l‟allusione agli sposi che si uniscono nell‟oscurità. Al sopraggiungere dell‟alba si chiudono i petali e il fiore “cova” “nell‟urna molle e segreta” “non so che felicità

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nuova”. Il poeta allude al germogliare di una nuova vita nel grembo della sposa, ora madre. Il poeta, immerso in un‟atmosfera di trepidazione e indefinibile smarrimento coglie il mistero che palpita nelle piccole cose della natura. Si accorge che nella notte, quando tutto intorno è pace e silenzio, vi sono fiori che si aprono e farfalle che volano. Una vita inizia quando la vita consueta cessa. L‟ora della vita notturna è anche un‟ora di malinconia per il poeta che pensa ai suoi morti. Il buio avvolge le cose in un profondo silenzio, cui si contrappone il misterioso agitarsi della vita “là” nella casa: Il bisbiglio desta fascino e curiosità: “è indice di una presenza umana che si accorda con l‟atmosfera di arcani silenzi e di attese inespresse” Nei versi successivi appare l‟immagine dei nidi in cui i piccoli dormono sotto le ali della madre. Affiora l‟idea rassicurante del nido come rifigio sicuro, tema caro al poeta. La musicalità dei versi crea un‟eco suggestiva, un‟atmosfera sospesa, incantata, di seduzione, di fascino, di veglia, contrapposta al torpore e al sonno. Nella sinestesia “l’odore di fragole rosse”, in cui il profumo, una percezione olfattiva, sembra acuito dal colore rosso delle fragole, percezione visiva, è evidente il tema dell‟attrazione, della tentazione sensuale che si accosta, nei versi successivi, al risplendere della luce nella sala, alla curiosità per la vicenda degli sposi. Ma su tutto si diffonde un senso di mistero per il compenetrarsi inesplicabile di vita e morte: “nasce l’erba sopra le fosse”. L‟ape, che, essendosi attardata, trova già prese le celle del suo alveare, potrebbe allora tradurre in immagine il senso di esclusione che il poeta, incuriosito dall‟eros, avverte rispetto alla propria famiglia di origine. Ma subito ricompaiono immagini apparentemente rassicuranti del nido. Le Pleiadi nel cielo appaiono per un procedimento analogico come una chioccetta, che in un‟aia si trascina dietro la covata dei suoi pulcini e il pigolio potrebbe offrirsi come una sinestesia che trasferisce nella percezione uditiva la percezione visiva del tremolio della luce stellare. All‟intenso odore del fiore che passa col vento si accompagna il salire della luce lungo la scala e il suo spegnersi al primo piano con i puntini di sospensione che seguono e alludono al congiungersi degli sposi, ma soprattutto al mistero della vita che continua a palpitare nel buio. La lirica si chiude nuovamente con un ossimoro: “E’ l’alba”, il momento del risveglio, e “si chiudono i petali un poco gualciti. “Nell’urna molle e segreta”, che simbolicamente rappresenta il grembo della madre, si dischiude una nuova vita, si cova “non so che felicità nuova”. “ E‟ qui il segreto della lirica, nel miracolo notturno della gestazione di una nuova vita. Un altro gelsomino si apre e, come l‟erba silenziosa sopra le fosse, va segretamente dal nulla verso la rinnovata fertilità. In quel dolce silenzio, in quell‟ombra profumata dalla passione del fiore, quando l‟ultimo lume è spento nella casa, forse comincia a germinare, anche nel grembo della madre, un nuovo essere, capace di arrecare una sconosciuta felicità. Le nozze dell'amico Emanuele Briganti costituiscono un momento di riflessione per il poeta, per la sua vita che è lontana dall'amore coniugale. Lui desiderava ardentemente costruirsi un suo nucleo familiare ma i suoi timori lo portarono a rinunciare a quel progetto, ciò determinò un continuo e profondo senso di malinconia. In questo poema è molto presente la sua attenta visione alla simbologia naturale e, attraverso questi elementi naturali, lui evoca altre sensazioni utilizzando le figure retoriche, le analogie la fonetica e il suono delle parole e dei versi.

Figure retoriche

La Metrica: Sei quartine di novenari. Rime alternate ad eccezione del 23° verso. Nella poesia vi è alternanza tra suoni duri e morbidi. Enjambements: tra i versi 3 e 4, 9 e 10, 13 e 14, 15 e 16, 17 e 18, 21 e 22. Personificazioni: là sola una casa bisbiglia. Un'ape tardiva sussurra Passa il lume su per la scala; Similitudine: come gli occhi sotto le ciglia Metonimia: le farfalle crepuscolari Sinestesie: l'odore di fragole rosse (sensazione visiva "rosse" + sensazione olfattiva "profumo") va col suo pigolio di stelle (sensazione visiva "luce intermittente" + sensazione olfattiva "pigolio pulcini")

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Metafore: Un'ape tardiva sussurra (rappresenta il poeta escluso dall'attività amorosa di quella casa) La Chioccetta per l'aia azzurra dentro l'urna molle e segreta (l'utero appena fecondato)

LA MIA SERA - Analisi e commento

Anche in questa poesia sono presenti suoni, simbologie e gli aspetti tipici della poesia pascoliana. Il componimento è basato sul momento dell'arrivo della sera, quando il cielo sembra presagire una situazione serena e pacifica. Nel parallelismo di Pascoli il giorno rappresenta la giovinezza dell'autore che è stata funestata da lutti e da dolori. L'età matura subentra alla giovinezza e con essa l'autore raggiunge la serenità, è proprio la serenità che simboleggia la sera. La lirica è composta da cinque strofe formate da novenari ed un senario che termina con la parola sera. È una specie di ritornello; una promessa, una speranza e l'augurio che la sera gli possa portare la pace e la tranquillità che lui ha tanto desiderato. Ne “La mia sera” ci sono diverse figure retoriche che possono essere evidenziate:

tacite stelle, sinestesia che avvicina la sfera sensoriale dell'udito a quella della vista;

nella prima strofa troviamo, al suo inizio e alla sua fine, il chiasmo (incrocio tra parole) giorno-stelle;

sono presenti onomatopeiche dei suoni;

metafore (similitudini senza “ come”);

alliterazioni (ripetizioni di alcune lettere) per creare i suoni.

Poemetti I “Poemetti” raccolgono numerosi racconti brevi che vennero pubblicati in prima edizione nel 1897 (12 brani) e nel 1900 con l'aggiunta di altri racconti. Nella veste definitiva furono divisi in due raccolte: i “Primi poemetti” del 1904 e i “Nuovi poemetti” del 1909. ITALY - Analisi e commento Fa parte dei “Primi poemetti”, composto da 450 versi e diviso in due canti. È un componimento ispirato all'emigrazione degli italiani verso l'America, problema molto sentito dall‟autore. In esso si narra la storia di Ghita e Beppe, due fratelli che ritornarono dal loro lungo periodo di emigrazione negli Stati Uniti, in Ohio. Con loro giunge anche la nipotina Maria, detta Molly, ammalata di tubercolosi e che, grazie al buon clima della Garfagnana, riesce a guarire. Nel racconto, Netta, la madre dei due fratelli, rappresenta la diversità della provincialità italiana paragonata ad un paese evoluto come l'America. Molly, americana di nascita, non comprende la lingua italiana e a causa delle differenze con il suo paese progredito non si adatta alla vita italiana di paese. Traspare evidente il senso di disagio della bambina, la quale è portata a pensare che tutta la realtà italiana sia riconducibile all'aspetto di quel paese e a quella casa rurale. La differenza tra il mondo sviluppato e quello contadino è sottolineato anche dalla lingua, la nipotina e la nonna non riescono a comunicare. In questo brano appare palese l'aspetto multilinguistico di Pavese e la sua caratteristica di porre il linguaggio nella sua purezza espressiva per la componente verista che traspare. Il titolo, volutamente dall'autore in inglese, rafforza il suo convincimento favorevole per le colonizzazioni e unioni tra i popoli.

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GABRIELE D'ANNUNZIO Nacque a Pescara, nel 1863, da una famiglia agiata. Il padre, Francesco Rapagnetta, aveva aggiunto al proprio cognome quello di uno zio che l'aveva adottato, D'Annunzio. Gabriele alla nascita venne registrato solo con quello dello zio. Frequentò gli studi elementari privatamente ed in seguito conseguì la licenza liceale presso il Reale Collegio Cicognini di Prato. Dedito agli studi riscosse molte soddisfazioni e già in giovane età scrisse una lettera al poeta Carducci. Raccolse le sue prime poesie in un libro finanziato dal padre, intitolato “Primo vere”. Questa sua prima pubblicazione ottenne numerosi consensi e curiosità poiché il giovane autore attribuì le liriche ad un giovane poeta morto in un incidente a cavallo. Nel 1881 si trasferì a Roma e venne subito accolto nei salotti letterari. Collaborò con giornali e riviste pubblicando articoli di critica letteraria ed artistica. In questo soggiorno, oltre che dedicarsi all'attività letteraria, visse numerose avventure sentimentali e una vita dispendiosa all'insegna del divertimento. Nel 1883 sposò la duchessina Maria Hardouin di Gallese, dalla quale ebbe tre figli. Quattro anni dopo intraprese una relazione durata cinque anni, con Barbara Leoni che gli ispirò i personaggi femminili dei romanzi “Il piacere” e “Il trionfo della morte”. Nel 1891, a causa dei suoi debiti, si trasferì a Napoli dove conobbe e amò Maria Gravina Cruyllas, da cui nacque la figlia Renata. Da questo soggiorno ebbero origine i romanzi “L‟innocente” e “Il trionfo della morte” e la raccolta poetica “Poema paradisiaco”. Da Napoli ritornò in Abruzzo per qualche anno e da lì si diresse per un lungo viaggio in Grecia. Nel 1897 conobbe l'attrice teatrale Eleonora Duse con la quale visse un'intensa e lunga relazione. Di quel periodo fu anche il suo tentativo di farsi eleggere come deputato nelle liste di destra ma, in contrasto con le leggi liberticide, si schierò con la sinistra. Nel 1898 si trasferì con la Duse nella lussuosa villa “la Capponcina” nei pressi di Firenze e trasformò questa con i dettami del gusto decadente. Di quel periodo fu l'intenso impegno dedicato al teatro, ispirato dalla sua relazione con la Duse che interpretò numerose sue opere, realizzando numerosi drammi in prosa e versi diretti ad un pubblico di massa. Un'intensa produzione poetica, i primi tre libri delle “Laudi”, precedettero di poco la fine del rapporto con l'attrice a causa della pubblicazione del romanzo “Il fuoco”, in cui si narrava molto dettagliatamente aspetti privati della loro relazione. Altre relazioni con donne di rilievo sociale seguirono negli anni a venire presso la residenza della sua villa. Dopo la pubblicazione nel 1910 del romanzo “Forse che sì forse che no”, D'Annunzio si trasferì a Parigi per sfuggire a numerosi creditori e lì rimase fino allo scoppio della prima guerra mondiale. Nel 1914 collaborò per la realizzazione del film muto “Cabiria” che riscosse un notevole successo anche oltre oceano. Da acceso interventista, nel 1915 intrattenne numerosi discorsi a favore della partecipazione dell'Italia nel conflitto, questi vennero raccolte nel volume “Per la più grande Italia”. Questo suo impegno lo portò alla consacrazione di poeta “vate”, profeta della patria in grado di guidare la nazione verso un glorioso destino nazionalistico ed imperialistico. Con l'entrata in guerra dell'Italia, nonostante la sua età matura, decise di arruolarsi e partecipò a numerose azioni belliche che gli accreditavano meriti e onori. Famosi furono i suoi interventi in azioni belliche quali la “beffa di Buccari” (incursione con motosiluranti nel golfo del Carnaro, sulla costa della Dalmazia) e il “volo su Vienna” (dove per dimostrare il coraggio del popolo italiano fece piovere sulla capitale asburgica una pioggia di volantini propagandistici). Altra importante impresa, a guerra finita, nel 1919, fu l'occupazione della città di Fiume; secondo il pensiero del poeta la vittoria italiana fu una “vittoria mutilata” per il mancato riconoscimento dei meriti di guerra non ottenuti dalla classe dirigente italiana nei trattati stipulati a fine conflitto. Occupò la città con legionari a lui fedeli per oltre un anno, fino a che il governo italiano non lo costrinse a ritirarsi per non violare i trattati internazionali. L'impresa di Fiume, dai forti connotati populisti e nazionalisti, lo avvicinò al nascente partito fascista. Il suo forte sostenimento al movimento intimorì Mussolini che vedeva in lui un avversario interno alla corrente. Per non coinvolgerlo troppo, senza renderlo pubblicamente un avversario, Mussolini lo emarginò dalla vita politica regalandogli un imponente villa sul Lago di Garda dove il poeta, con la sua compagna Luisa Baccara trascorse gli ultimi anni occupato nel suo allestimento a “casa-museo”. Morì il 1 marzo del 1938 e donò questa dimora al popolo italiano dandole il nome di “Vittoriale degli Italiani”. Le raccolte poetiche Le prime due raccolte di poesie risalgono al periodo adolescenziale:

“Primo vere”, del 1879, pubblicata nel periodo del liceo. Riscosse critiche presso i professori per l'eccessiva libertà dei temi e del linguaggio e per la forte sensualità. La metrica è influenzata da quella “barbara” carducciana e i versi sono densi di entusiasmo giovanile e tratti personali;

La raccolta “Canto novo”, nel 1882, è un'opera di realizzazione più matura. In essa la tecnica compositiva tradizionale è affiancata da uno stile nuovo: la natura viene personificata e diviene simbolo di energia vitale con sensualità ed erotismo, non mancano toni intimistico-malinconici. Nel 1896 una seconda edizione venne fortemente rielaborata e pubblicata.

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Nel 1883 accese critiche accolsero la pubblicazione della raccolta di poesie “Intermezzo di rime” poiché opera tipicamente decadente densa di scene di distruzione, corruzione ed erotismo. Una seconda edizione del 1894, intitolata “Intermezzo”, venne influenzata dalla poesia simbolista con temi riguardanti la lussuria e un linguaggio artificioso;

Le poesie contenute in “Isaotta Guttadauro ed altre poesie”, del 1886, furono opere dense di languore, erotismo e mondanità;

Nel 1892 videro compimento le “Elegie romane” (che D'Annunzio aveva iniziato a comporre dal 1887), componimenti classici ispirati al modello del Carducci e dalla storia sentimentale con Barbara Leoni, sullo sfondo di una Roma seducente.

Le novelle: La raccolta “Terra vergine” nel 1882 si ispirò alle novelle veriste del Verga, i racconti in essa contenuti trattano istinti vitali ed erotici forti, talvolta bestiali; “Il libro delle vergini” e “San Pantalone”, del 1884 e 1886, non si discostano dalla morbosità di “Terra

vergine”. Queste due raccolte verranno riunite nelle “Novelle della Pescara”, del 1902.

D'Annunzio si ispira anche alla letteratura russa per l'indagine psicologica dei personaggi. In essi possiamo ritrovare gli stati alterati e patologici di alcune figure di Dostoevskij e Tolstoj. Da questo studio nacquero due opere: “Giovanni Episcopo” e “L'innocente”. “Giovanni Episcopo” narra la sudditanza psicologica del protagonista, un uomo bravo e onesto, nei confronti di Giulio Wanzer, che era divenuto l'amante della moglie. La mitezza del protagonista si trasforma ben presto in un atteggiamento molto poco tollerante nei confronti dell'avversario fino al raggiungimento del degrado totale con il compimento dell'omicidio dello stesso. In questo romanzo ritroviamo le caratteristiche fondamentali dei lavori di Dostoevskij, il carattere buono e mite che a seconda degli eventi e delle offese e umiliazioni ricevute si trasforma in personaggio che trova una forza inusuale per reagire. Nel romanzo “L'innocente” il protagonista è Tullio Hermil, esponente del bel mondo romano che aspira ad essere un buono e puro e che volendo recuperare il rapporto coniugale, si spinge fino all'omicidio. In queste opere troviamo una psicologia contorta che deturpa l'animo dei protagonisti. Per quanto riguarda la composizione poetica, un'altra raccolta che si rifà alla letteratura russa, è il “Poema paradisiaco” caratterizzato da forme colloquiali che si riconducono ad una narrazione in versi. Nel “Poema paradisiaco” i temi trattati sono quelli familiari, l'innocenza e la purezza che si discostano con i caratteri erotici e trasgressivi precedentemente trattati dall'autore. Un altro filone trattato da D'Annunzio è quello che riguarda il superuomo di Nietzsche. Il poeta rimane affascinato da questa teoria e colloca idealmente la caratteristica del superuomo per antonomasia al poeta. Per D'Annunzio il poeta è un essere superiore (contrastando l'opinione di Pascoli che colloca il poeta come fanciullo innocente che guarda con i suoi occhi puri i fenomeni del mondo). Il poeta si deve ritenere un essere superiore perché svincolato da ogni regola morale, come ritenevano i Simbolisti, e cultore del bello. Un superuomo con una sua precisa idea politica, aggressiva ed imperialista. Inoltre il superuomo di D'Annunzio si identifica in una classe sociale privilegiata, violenta e raffinata. Seguendo queste idee progetta una serie di romanzi: i “Romanzi della rosa", i “Romanzi del giglio" e i “Romanzi del melograno". Il concetto del superuomo vedrà nascere anche numerose opere teatrali e un ciclo di sette raccolte poetiche, le "Laudi". Non tutte queste opere vengono però portate a compimento. Il superuomo è incarnato nelle figure di quattro protagonisti:

"Il trionfo della morte" narra l'amore folle di Giorgio Aurispa per Ippolita, dove il sentimento torbido morboso condurrà ad un omicidio-suicidio;

“Il piacere” e “L'innocente”, che fanno parte dei “Romanzi della rosa” (la rosa incarna il senso di piacere e voluttuosità), dove ne “Il piacere” il protagonista Andrea Sperelli è un uomo molto sensibile, intellettualmente molto arguto ma privo di carattere e volontà, che non riesce a realizzare la vita che vorrebbe non raggiungendo gli obiettivi prefissati.

Claudio Cantelmo è il protagonista de "Le vergini delle rocce". La sua unione con una nobile donna gli fa sognare di generare un figlio di sangue puro, futuro re di Roma, in grado di far risorgere la potenza latina. In questo romanzo esalta l'ideologia nazionalistica e antidemocratica di una patria per pochi eletti, ideologia che andava ad affermarsi e diffondendo nella società italiana negli anni antecedenti il conflitto mondiale.

Nel romanzo "Il fuoco" è trattata l'esaltazione dell'estetismo e del superomismo del protagonista Stelio Èffrena. Quest'opera fa parte dei “Romanzi del melograno” (frutto simbolo di vitalità e di gioia). È un'opera autobiografica che trae ispirazione dall'amore e passionalità dell'autore verso la compagna Eleonora Duse.

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"Forse che si forse che no" è l'ultimo romanzo che consacra l'ideologia del superuomo, dove l'aspetto della tecnologia avanzata e l'esaltazione della velocità, della macchina e dell'aereo vedono nel protagonista Paolo Tarsis, un aviatore, un uomo ossessionato dall'amore per le due sorelle Inghirami che ostacolano i suoi sogni di grandezza.

D'Annunzio prende spunto e ispirazione dalla produzione artistica del periodo, rimane profondamente

influenzato dal decadentismo e dalle varie forme che questo movimento ispira. Incarna la figura dell'eroe

decadente poiché raffinato, amante del bello, aristocratico distaccato dalla mediocrità e dalla massa,

esaltato dalle esperienze che vive e che vuole vivere. Tutta la sua vita può essere considerata grandiosa.

Il prototipo dell'eroe decadente a cui lui si ispira è il protagonista di “A ritroso” di Huysmans, che impersona

l'ideale della sensualità e della ricercatezza. La vita intesa come opera d'arte trova fondamento nel suo

essere esteta e amante dell'arte, letteratura, poesia e tutto ciò che lo circonda. Tutto si concretizza con

un'estenuante ricerca del piacere dei sensi. L'incarnazione letteraria è nel personaggio di Andrea Sperelli, de

“Il piacere”. L'aspetto di esteta di Sperelli, tuttavia, si limita sì distinguendosi dalla mediocrità ma

confermandosi come un perdente perché lo conduce alla solitudine, con la chiusura nel suo mondo fittizio

colmo di menzogne. D'Annunzio, con questa indagine psicologica del protagonista, smaschera la sua

fragilità rivelando la trasposizione del suo alter ego.

Altro aspetto della sua evoluzione politica è l'ispirazione al modello wagneriano, fondato sulla ricerca del

teatro con una perfetta fusione tra parole, musica e danza.

Le “Laudi” (del cielo, del mare, della terra e degli eroi - titolo completo) sono la raccolte poetiche della maturità. Inizialmente pensata per essere sviluppata in sette volumi, corrispondenti alla costellazione delle Pleiadi (Maia, Elettra, Alcyone, Merope, Asterope, Taigete e Selene), il progetto non venne ultimato e vennero completati solo i primi quattro volumi. D'Annunzio si ispirò ad un paesaggio mitologico, come quello dell'antica Grecia, rivisitando il superomismo con la narrazione di eroi e celebrando il progresso tecnologico e il sentimento di nazionalismo che andava affermandosi nel paese. La raccolta trova l'ispirazione del nome nel “Cantico delle creature” di San Francesco e ripropone la contemplazione del creato e della natura. I primi tre volumi della “Laudi” vennero pubblicati in contemporanea, nel 1903.

Il primo, “Maia” propone il culto degli eroi antichi e include due componimenti che costituiscono la premessa al ciclo delle “Laudi”. Di questi, quello più vasto (8000 versi), “Lode alla vita” celebra il superuomo narrando la gloria di Ulisse nell'antico mondo greco che riscatta l'uomo dal degrado e dalla decadenza.

Nel secondo libro, “Elettra”, vengono osannati dall'autore i grandi della letteratura e della storia come Dante, Garibaldi, Verdi e Vittorio Emanuele III (spazia su differenti periodi temporali e ideologie). In questo volume vengono trattate anche tematiche storiche riguardanti città come Ferrara, Pisa e Ravenna (... liriche delle città del silenzio - antiche regine decadute di cui si rievocano i felici trascorsi).

“Alcyone”, il terzo volume (a detta di tanti critici, il migliore), trovò l'ispirazione dopo una vacanza dell'autore con Eleonora Duse in Versilia. Diviso in cinque sezioni e costituito da 88 liriche viene introdotto dalla poesia “La tregua” e chiuso da un commiato. Le cinque sezioni sono separate da un “ditirambo” (poesia lirica corale della letteratura greca espressa in più voci in onore del culto dionisiaco) che rappresentano il momento di grandezza, di ebbrezza ed entusiasmo in opposizione ad Apollo e preciso riferimento al pensiero di Nietzsche. Queste liriche trovano ambientazione in un periodo preciso dell'anno (prima sezione-giugno, seconda sezione-luglio e così via fino al giungere dall'autunno) divenendo il diario del superuomo. La massima vitalità del poeta è espressa con la stagione estiva dove il pieno processo produttivo corrisponde alla potenzialità massima della natura. Questa simbiosi è esaltata dal sentimento del panismo, con il sentirsi del poeta un tutt'uno con l'ambiente che lo circonda, considerando l'estate come un'entità divina. L'autunno, con la sua malinconia, conclude l'esaltante arco psichico-letterario.

Lo stile di D'Annunzio, dal punto di vista formale, è molto raffinato. Usa una rinnovata metrica tradizionale introducendo molti aspetti nuovi come il verso libero di varie misure tipico della poesia moderna del ‟900. La sua poesia può essere definita anche evocativa poiché le parole riportano a momenti, il verso fluisce con una ricercata musicalità grazie anche ai suoni delle parole che conducono il lettore ad elaborare un concetto collegato alla natura (corrispondenza dell'animo del poeta con ciò che ci circonda). “La sera fiesolana”, contenuta nell'“Alcyone” fu composta presso “la Capponcina”, pubblicata nel 1899 nella “Nuova Antologia” e, di seguito, inserita nelle “Laudi”. Il poeta, nella sua intimità, immagina di parlare alla sua

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donna mentre la osserva e, insieme a lei, contempla un dolce paesaggio collinare dopo la pioggia, al tramonto di una sera di giugno. La sera assume delle sembianze umane e viene personificata e rapportata ad un effetto tranquillizzante e rasserenante, portatrice di mistero (riferimento al Pascoli). Ne deriva il senso di bellezza e d'armonia che il poeta trasmette attraverso la fonetica dei versi. Il ritmo delle parole, e l'effetto creato da queste, è evidenziato dall'assenza completa di punteggiatura dei primi versi. Nonostante questa licenza poetica l'autore è stato in grado di rendere fluido il periodo. Le tre strofe lunghe sono intercalate dal “Laudate”, per rivolgersi alla sera come ad una persona, come nell'opera di San Francesco. Le prime due strofe si aprono con gli aggettivi “fresche” e “dolci”, parole riferite anche alla donna amata. Le emozioni dell'autore vengono trasmesse dalle similitudini che descrivono la trasformazione del paesaggio con l'arrivo della sera che preannuncia con il suo torpore l'arrivo dell'estate. La luna ha un effetto positivo sugli uomini perché con il suo sorgere tutto si lenisce e si calma. I versi a seguire sono dominati dalla pioggia, a cui è collegato un sentimento di dolcezza. Il commiato lacrimoso della primavera, che bagna tanti aspetti della natura che assumono sembianze umane (i nuovi germogli di pini come rosee dita). Nella terza strofa la sera è vissuta come qualcosa di misterioso, come le promesse che porta con sé. Il ruolo del poeta è quello di interpretare il mistero che lo circonda, perché essendo immerso nella natura più di ogni altro può comprendere quest'aspetto e lo può esprimere (il potere della parola poetica). La musicalità dei versi e resa anche da questo linguaggio molto raffinato, nello stile utilizzato si ritrovano molte assonanze, ripetersi di suoni e l'uso della figura retorica di non concludere il verso al termine del periodo ma di perseguirlo nel verso successivo. Nelle lodi della sera si possono evincere le sensazioni sensoriali, comprese le olfattive e di tatto, che trasportano il lettore nell'ambiente per goderne gli aspetti. Il considerare la sera come la morte di una situazione temporale la accomuna con il sentimento dell'amore e sminuisce la sensazione di disagio di una conclusione. Da grande cultore riesce a riportare la considerazione sacra dell'ulivo per gli antichi greci con il sentimento di fratellanza verso le piante espresse nelle laude francescane al creato. Oltre le parole assumono notevole importanza le immagini, rivelando un'attenzione impressionistica all'ambiente. IL PIACERE - Analisi e commento “Il verso è tutto” è il primo brano dell'opera in cui il protagonista, Andrea Sperelli, elogia la forza e la capacità del verso. Per D'Annunzio l'arte stessa ha una grande importanza, lui considera la vita come un'opera d'arte e allo stesso modo anche la poesia. L'arte “è tutto e può tutto” è l'enunciazione della poetica del decadentismo quale uno dei concetti più importanti, considerare l'arte come uno dei valori più assoluti. Già nelle prime frasi del brano si può evidenziare il linguaggio utilizzato dal poeta, artificioso, appariscente e ricco di virtuosismo. Sono presenti anche molte figure retoriche che aumentano l'enfasi e la musicalità molto ricercata e raffinata. Se l'arte deve tramandare una buona impressione questo è il compito anche della poesia che, oltre che evocare, deve trasmettere delle belle emozioni con la musicalità, il ritmo e la ricerca delle parole che assumono un'importanza fondamentale. “Nella imitazione della Natura nessuno strumento d’arte è più vivo, agile, acuto, vario, multiforme, plastico, obbediente, sensibile, fedele. Più compatto del marmo, più malleabile della cera, più sottile d’un fluido, più vibrante d’una corda, più luminoso d’una gemma, più fragrante d’un fiore, più tagliente d’una spada, più flessibile d’un virgulto, più carezzevole d’un murmure, più terribile d’un tuono, il verso è tutto e può tutto.”. Con questo lungo elenco di aggettivi il poeta vuole accentuare l‟aspetto de “Il verso è tutto”. LA PIOGGIA NEL PINENTO - Analisi e commento La pioggia nel pineto composta da D'Annunzio nel 1902 e inclusa l'anno seguente nell'“Alcyone” (nel terzo libro delle “Laudi”) è una lode celebrativa della bellezza della natura. Il poeta concentra la sua “attenzione lirica” alle stagioni estivo-autunnali. Il pensiero e il corpo dell'autore sembrano amalgamarsi con l'ambiente fino a sposarsi con esso per vivere e provare le stesse sensazioni. Questo sodalizio di sensi arricchisce l'animo del poeta e la sua percezione del mondo. In questa vacanza, iniziata sulle colline di Fiesole all'inizio dell'estate e conclusa sulle coste versiliane in autunno, l'autore spiega come l'uomo può raggiungere l'essenza della natura abbandonando il limite della dimensione umana. La pioggia nel pineto è il poema più noto e rappresentativo della raccolta; in esso l'autore fa comprendere come l'uomo può entrare in contatto con la natura avviando un processo di naturalizzazione e, di conseguenza, invitando la natura stessa ad un processo di avvicinamento a se. L'autore e la sua compagna si avviano ad un processo empatico che li porta a condividere aspetti segreti e nascosti. D'Annunzio

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contempla i cambiamenti naturali e la sua donna assume i connotati di tutti gli elementi che compongono la natura. La pioggia accarezza i fiori, le piante e i frutti ed essi vengono a rappresentare la donna. L'imperativo “Taci” iniziale indica l'ordine di prepararsi al processo di trasformazione, il passaggio al rito di iniziazione e di comprensione che viene ordinato alla donna (e ai lettori). Questo momento è così profondo che deve essere vissuti in silenzio assoluto. Il poeta invita la donna a “focalizzare” nel silenzio i suoni che abitualmente verrebbero trascurati. Vengono definiti suoni “inusitati” (poco usati-suoni nuovi) della natura, come parole sussurrate da gocce e foglie che arrivano fino al confine del bosco. L'invito ad ascoltare è rivolto dall'autore alla donna più volte; Ermione, figlia di Elena e Menelao della mitologia greca, è il nome che D'Annunzio le attribuisce e il livello culturale ed artistico dell'attrice Eleonora Duse spiega il riferimento referenziale dell'autore. La donna-compagna vivrà un'intensa relazione sentimentale che determinerà uno scambio complice di affetti ed esperienze. Fin dai primi versi della lirica si attiva il processo di trasformazione della coppia. A seguire di un elenco di piante e fiori viene narrata la trasformazione dei volti della coppia che assume connotati di elementi naturali del bosco. La donna viene paragonata e descritta con gli aspetti della natura: “volto come una foglia”, “profumo emanato dei capelli come quello delle ginestre”. Le similitudini della lirica dipingono la donna come una pianta verdeggiante che nasce dalla corteggia di un tronco come una ninfa, il cuore di essa vive una nuova vita e ricorda il frutto della pesca, gli occhi ridenti si trasformano anch'essi per sposare la nuova dimensione. L'autore descrive accuratamente il temporale estivo e grazie all'uso di onomatopee e di un linguaggio accurato e attento lo rende pregevolmente musicale. Non si limita a narrare musicalmente il suono della pioggia ma, con l'adozione di stile panistico, si avvicina con un contatto estremo alla natura riuscendo a far comprendere al lettore il collegamento panistico-metaforico dell'uomo e della donna. L'espressione massima di quest'aspetto è raggiunto quando l'autore descrive il raggiungimento del contatto del suo spirito con la natura. Un altro aspetto che analizza il poema è l'amore ma questo viene sempre descritto sotto l'aspetto di contatto con la natura. La pioggia non ringiovanisce solo le piante ma anche i sentimenti degli amanti che sono ora consapevoli di aver vissuto e continuare a vivere una bella storia, paragonabile ad una favola. Il poeta applica una grande tecnica di studio della lirica con la frantumazione e brevità dei versi, con le ripetizioni che creano un grande affetto musicale. Con l'imitazione dei suoni della pioggia si crea una melodia che viene arricchita da un nuovo lessico. Questa tecnica che arricchisce i poemi viene utilizzata da D'Annunzio avendola appresa dai simbolisti francesi. Figure retoriche:

allitterazioni, il poema è ricco di allitterazioni e suoni fonici;

onomatopee, “Fresche le mie parole, ti sien come il fruscio che fan le foglie” (imitazione del suono delle foglie);

metafore, “soglie,cerule”, “beva la sperata pace”, “grandi e umidi occhi ove si tace/l'acqua del ciel”;

similitudini, “come il fruscio”, “come la pioggia”, …;

personificazioni, “Luna”, “o Sera”, “pini vari novelli rosei diti”, “fratelli olivi”, …;

anafore, “ti sien come…”, “Laudata sii…/o Sera”;

enjambements, “foglie/del gelso”, “soglie/cerule”, “si tace l‟acqua del cielo”, “fonti eterne”, “novelle, consolatrice”.

avt LA LETTERATURA DELLA CRISI Il positivismo degli ultimi decenni entrò in crisi con i nuovi orientamenti filosofici e le nuove teorie scientifiche di Nietzsche, Freud, Bergson e Einstein. La nuova narrativa si concentra soprattutto su un solo personaggio, un personaggio che è visto in chiave antieroica. Solitamente malato o con qualche problema di tipo psichico (è il caso per esempio dei romanzi di Thomas Mann), personaggio nevrotico, la figura dell'inetto (che è la caratteristica principale dei personaggi di Svevo) e personaggi di Pirandello. L‟autore rinuncia a descrivere in maniera dettagliata il contesto esteriore o l‟ambiente perché si concentra maggiormente sulla caratterizzazione psicologica dei personaggi, a meno che gli ambienti non aiutino la comprensione psicologica dei protagonisti. Il tempo del racconto anziché essere cronologico, come nella narrazione tradizionale, è deformato e subordinato al flusso di coscienza e ai ritmi della personalità perché spesso il modo di ricordare della mente non è in senso cronologico. I pensieri dilatano il racconto, o lo rallentano, e vi è un continuo passaggio dal presente al passato con l'intreccio dei racconti nel senso voluto dall'autore, con riflessioni di ordine morale, esistenziale e psicologico. Anche le strategie narrative che vengono impiegate sono varie: il monologo interiore, il flusso di coscienza e con la registrazione di quello che avviene dentro la mente del personaggio. Il narratore usa molto la prima persona e la focalizzazione interna dei protagonisti

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il patto narrativo su cui si era basato, per esempio, il romanzo realista è sostituito da un nuovo patto; il narratore parla di una realtà soggettiva e dà adito a numerose chiavi interpretative. I principali autori del romanzo della crisi sono Thomas Mann (nelle cui opere si intravedono le sue riflessioni contro il mondo borghese). Molte sue opere sono ambientate a Venezia dove vengono descritte le decadenze dell'arte, sfumate con tanta malinconia (“Morte a Venezia”). Altre sue opere sono “La montagna incantata” e “Giuseppe i suoi fratelli” dove vengono narrate altre tematiche quali l'avventura interiore, la riflessione filosofica morale e la coscienza del declino della civiltà europea. Thomas Mann è uno dei rappresentanti più significativi di questa corrente e si discosta da quella dell'Ottocento. Altro importante autore del romanzo del Novecento è Franz Kafka la cui produzione comprende racconti tra cui “La condanna”, “Medico di campagna”, “La metamorfosi” e tre romanzi postumi. Franz Kafka ci mostra un mondo moderno pieno di problemi, rivelatore di angosce e difficile da comprendere come le sue poesie ermetiche. Lo stile che utilizza è basato su uno stile piano, tradizionale, però utilizzato per scrivere storie strane (in questo suo stile si incontra una sorta di divario). Il lettore può sentirsi un po' disorientato di fronte a questo tipo di narrativa. Altro autore è Marcel Proust con il suo romanzo “Alla ricerca del tempo perduto” dove l'autore inserì tutta la sua vita. Ha una struttura complessa, paragonabile a quella di una cattedrale. Il ruolo essenziale di quest'opera spetta alla memoria e al modo con cui la memoria ricorda certi avvenimenti, sensazioni e aspetti del passato. Siccome la memoria non ricorda tutto, a volte sono ricordati solo dei particolari o degli spezzoni di situazioni ad intermittenza. Altro aspetto particolare riguardo al tempo è che Marcel Proust riprende la considerazione di Bergson con la concezione del tempo interiore, così anche un evento minimo e casuale (come il ricordo scaturito dal bere una tazza di caffè o di un dolce mangiato) può portare alla mente del protagonista un periodo intero della sua infanzia. Marcel Proust si svincolò dal modo di narrare dei Naturalisti e dei Realisti utilizzando un modo di narrare estremamente libero attraverso delle illuminazioni interiori molto soggettive. AVANGUARDIE STORICHE Questi movimenti artistici e culturali che si affermarono in Europa nel ‟900, a metà degli anni ‟20, sono denominati “Avanguardie Storiche” e si distinguono dalle “Neo-Avanguardie” che vedranno la luce in America e in Europa negli anni ‟50 e ‟60. Nascono nuove forme espressive il cui loro aspetto fondamentale è nello sperimentalismo come orientamento metodologico. Gli artisti delle avanguardie lavorano in gruppo condividendo dei programmi; a questi gruppi appartenevano letterati, cineasti, pittori e il loro comune denominatore fu la critica alla società borghese, l'allontanarsi dei codici estetici tradizionali (quindi il concetto di bellezza era molto relativo perché non intesa come canone tradizionale dell'estetica classica). La funzione poetica che doveva avere il poeta era quella di divenire un manifesto, un proclama. Con le Avanguardie si rompono i codici artistici tradizionali e tutte le convenzioni, sia dal punto di vista artistico che culturale. Prendono spunto dall'accelerazione che viene data alla vita contemporanea, si superano alcuni valori costituiti come il valore assoluto dell'arte (fine etico-sociale di essa, non deve essere vissuta passivamente dalle persone ma scuoterle e coinvolgerle per scatenare energie). La nuova idea è che l'arte deve uscire dai musei e dalle accademie in modo da sconvolgere la vita degli uomini. Per attuare queste convinzioni l'arte deve ricercare nuove forme espressive tramite nuove forme e sperimentazioni di nuovi modi di operare. Vi era contaminazione fra le arti con differenti codici espressivi. Nelle avanguardie operano gruppi con idee condivise e fanno parte di esse autori, pittori, cineasti e musici. I caratteri comuni tra questi movimenti culturali sono:

la critica alla società borghese;

l'opposizione ai codici estetici tradizionali;

la funzione delle dichiarazioni politiche da parte degli autori che vengono pubblicizzate (come sul “Manifesto del Futurismo”);

la contaminazione tra le arti;

differenti codici espressivi (letteratura, pittura, arti visive, eccetera). Tra le correnti d'avanguardia le più importanti in ambito letterario furono l'Espressionismo, il Futurismo, il Dadaismo e il Surrealismo. Dal punto di vista pittorico e artistico dobbiamo ricordare il Cubismo e il Movimento Impressionista che interessò la pittura e il teatro in Germania nei primi anni del ‟900. Per quanto riguarda l'Espressionismo la realtà era vista in maniera soggettiva quindi l'artista rappresentava artisticamente ciò che lui vedeva attraverso la sua personalità e il suo modo di vedere le cose.

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Spesso la realtà era vista in maniera disarmonica, oppure deformata. La figura non era evidente in modo palese e a tratti la si individuava con difficoltà. Il linguaggio era rappresentato attraverso le linee, i segni e colori. Le immagini rappresentavano le problematiche della società e trovarono la massima espressione nelle opere precedenti il primo conflitto mondiale e, successivamente, nel dopoguerra con le problematiche sorte a causa delle tragedie con l'umanità triste per gli accaduti. FUTURISMO Il Futurismo nasce il 20/02/1909 con la pubblicazione del “Manifesto del Futurismo” redatto da Filippo Tommaso Marinetti nel quotidiano parigino “Le Figaro”. Marinetti con questa pubblicazione volle rappresentare proprio la rottura con il passato e la tradizione, quella rottura fu rappresentata soprattutto dal progresso e dalle nuove tecnologie e quindi sostituendo alla tradizione e al mito della bellezza la macchina, che divenne il nuovo ideale e il superamento dei canoni tradizionali. L'artista futurista fu colui che si fece interprete di questa nuova visione della vita e della realtà. Si sperimentarono nuove vie di comunicazione, più veloci ed immediate, e si superarono i confini tradizionali con le nuove arti e tecniche. Il Futurismo interessò tutte le forme artistiche e tra queste il teatro e la pittura. Di questa forma espressiva ne risentirono gli usi e costumi, la cucina e la pubblicità per i prodotti di consumo. Nel “Manifesto del Futurismo” Marinetti indicò quali erano i cardini dell'ideologia futurista: il rifiuto dei valori e della società borghese, il culto della modernità, l'esaltazione degli ideali eroici (dell'aggressività, della violenza e quindi anche della guerra), il gusto della provocazione e della sorpresa, il rifiuto di quelle componenti irrazionali soggettive dell'arte, l'arte che doveva essere frutto dell'intuizione e dell'istinto, la celebrazione della vitalità e del movimento (che richiamava la componente di Nietzsche e dannunziana). FILIPPO TOMMASO MARINETTI Nacque nel 1856 ad Alessandria d'Egitto, dove il padre aveva fatto fortuna come avvocato. Studiò, in giovane età, in un istituto di Gesuiti francesi e poi si trasferì a Parigi dove terminò le scuole superiori. In seguito si trasferì a Genova dove si laureò in giurisprudenza. Nel 1899 pubblicò la sua prima opera, un poemetto, "I vecchi marinai", che fu ben accolto dalla critica e ciò gli servì da incoraggiamento a proseguire. Fu attratto dalla poesia francese romantica e simbolista e da queste letture nacquero diverse rappresentazioni per i teatri italiani. Ai simbolisti francesi si ispirò per le sue prime opere: "La conquista delle stelle", "Distruzione", "La città carnale". Nel 1905 si trasferì a Milano dove fondò la rivista "Poesia" e nel 1909 pubblicò il "Manifesto del Futurismo". Nel “Manifesto del Futurismo” l'incontro con i miti del periodo (tra cui l'automobile) gli suggerì di scrivere sulla velocità. Il breve testo doveva essere di provocazione contro il perbenismo. Con il Futurismo, attirando la curiosità delle persone, si organizzarono "le serate futuriste" che coinvolgevano il pubblico in animate discussioni. Nel 1911 Marinetti si recò in Libia come corrispondente di guerra e sono di questo periodo le opere "Parole in libertà" e il poema "Zang Tumb Tumb" con le onomatopee presenti a spiegare il conflitto tra la Bulgaria e l'impero Ottomano. Durante la Prima Guerra Mondiale Marinetti fu volontario ma venne ferito al fronte e al ritorno venne decorato al valore. Fu a capo del Partito popolare futurista da lui fondato e sostenitore del fascismo. Partecipò ai movimenti fascisti di distruzione come nell'attentato al giornale "Avanti" e venne rinchiuso per pochi giorni insieme a Mussolini. Per alcune divergenze ideologiche si allontanò dal fascismo per qualche anno per riavvicinarsi con l'affermazione al potere del Partito nazionale fascista. Mussolini, per la sua partecipazione, riconobbe a Marinetti numerosi incarichi ed onori prestigiosi che vennero ricambiati con la pubblicazione del "Manifesto degli intellettuali fascisti" (anche se questa pubblicazione non venne firmata da tutti gli intellettuali italiani, quelli che si rifiutarono continuarono la loro opera al di fuori degli schemi fascisti). Marinetti scrisse anche romanzi come "Otto anime in una bomba", "Spagna veloce, toro futurista", e altre opere autobiografiche come "La grande Milano tradizionale futurista" e "Una sensibilità italiana nata in Egitto". Sostenne il fascismo fino alla fine e aderì alla Repubblica di Salò, tornò malato dalla Campagna di Russia dove partecipò come volontario a 66 anni. Morì a Bellagio nel 1944. Commento al Manifesto

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L‟ideologia dell‟attivismo e del dinamismo che caratterizza il Futurismo diviene un vero e proprio intento programmatico nel “Manifesto del Futurismo”, nel quale vengono espressi i capisaldi della poetica di questo movimento. L‟impegno alla trasformazione che si estende a tutti gli aspetti dell‟esistenza coinvolge in primo luogo l‟opera d‟arte e la letteratura, la cui originalità si misura a partire dalla sua distanza dalla tradizione, dalla sua capacità di invenzione e creazione, inscindibile, quest‟ultima, dall‟energia, dal pericolo, dall‟audacia e dalla ribellione. Partendo da questo presupposto, il testo si costruisce sull‟opposizione fra l‟ideologia futurista e la cultura del passato, immobile, basata sulla riflessione, fissa nelle sue forme sclerotizzate. A questa Marinetti contrappone un movimento che è energico, febbrile, “aggressivo”, e che sfocia nei gesti fisici della corsa, del «pugno» e dello «schiaffo» che richiamano per analogia la lotta e la guerra. Il Manifesto propone una vera e propria estetica del progresso e della velocità, che si sostituisce ai canoni classici rappresentati nel brano dalla “Vittoria di Samotracia”. L‟esaltazione della macchina, la cui forza è celebrata ancora con riferimenti impliciti alla guerra («alito esplosivo», «mitraglia»), esprime il culto della modernità e del vitalismo, caratteristiche che devono essere proprie anche della poesia, la quale può lottare contro le forze del mistero per annientarlo e cogliere quell‟assoluto che non risiede nell‟interiorità dell‟anima, ma che l‟uomo stesso ha già creato con «l‟eterna velocità onnipresente». L‟ansia di rinnovamento trova la propria espressione più esasperata nella celebrazione diretta della guerra, «sola igiene del mondo», che insieme al progresso distrugge i tradizionali valori borghesi, per produrre una rivoluzione sociale che investe ogni aspetto dell‟esistenza. L‟esposizione programmatica della poetica futurista è scritta con uno stile che mette in atto quegli stessi princìpi che viene esprimendo: il tono è infatti concitato, energico e volitivo, il linguaggio è ricco di vibranti esortazioni che esprimono in modo deciso la volontà di agire, di cambiare, di trasformare. «Noi vogliamo», «Noi affermiamo», «Noi saltiamo»: è il gruppo dei poeti nuovi che parla e agisce, che asserisce e distrugge, che celebra nuovi miti e cancella il passato. Commento a Zang Tumb Tumb Un poemetto provocatorio. Nel poema “Zang Tumb Tumb” (1914) Marinetti volle rappresentare e celebrare, secondo la sua innovativa e provocatoria poetica, il conflitto bulgaro-turco scoppiato nel 1912 per contrasti etnici e territoriali. La Bulgaria aveva fatto parte dell‟Impero ottomano dalla fine del „300 fino al 1878, e nel 1912 i due paesi erano confinanti. Il poema “parolibero” di Marinetti è basato sulla ricerca fonosimbolica, cioè sull'uso di parole il cui suono e la cui disposizione sulla pagina dovrebbero trasmettere simultaneamente la realtà sul piano sia visivo sia uditivo. Rinunciando alla tradizionale suddivisione in versi, in base alle idee esposte nel “Manifesto della letteratura futurista” (1910), che teorizzava fra l'altro l‟abolizione della sintassi e, di conseguenza, la tecnica delle parole in libertà, l'autore si concentrò sull'aspetto grafico della pagina poetica, allo scopo di rendere con maggiore efficacia e immediatezza la percezione anche fisica della guerra. GIUSEPPE UNGARETTI Nacque da Alessandria d'Egitto il 10/02/1888 da genitori emigrati dalla Puglia. Il padre era impiegato per la costruzione del Canale di Suez e quando morì rimase la madre ad occuparsi della sua istruzione. Frequentò la scuola superiore ad Alessandria e li incontrò gli anarchici italiani. Si appassionò alla poesia italiana e gli autori che seguì particolarmente furono Leopardi, Carducci, Pascoli e D'Annunzio ma seguì anche Baudelaire e Mallarmé di cui apprezzò i versi e la politica. Ungaretti disse di Mallarmé: "Lo lessi con passione ed è probabile, alla lettera non lo dovevo capire, ma poco importa capire alla lettera la poesia, la sentivo". Si applicò alla scrittura e all'attività di traduttore e di corrispondente per la rivista fiorentina "La voce". Nel 1912, dovendo andare a Parigi, si fermò in Italia ed è qui che incontrò alcuni intellettuali che lavoravano alla rivista dove lui era corrispondente (Prezzolini e Jahier). A Parigi seguì con molto interesse i corsi alla Sorbona del filosofo Henri Bergson. In quel periodo approfondì lo studio della poesia simbolista e decadente, ebbe contatti con le avanguardie europee sia artistiche che letterarie. Incontrò artisti e letterati di grande caratura come Picasso e Modigliani, De Chirico e tutti i grandi innovatori della poesia del ‟900 come Apollinaire che era il maggior esponente francese del Populismo. Conobbe anche altri futuristi come Papini, Soffici e Palazzeschi e furono loro che lo invitarono a scrivere sulla rivista "la Cerba" dove nel 1915 pubblicò le sue prime poesie. Nel 1916 pubblicò la prima raccolta "Il porto sepolto" a cui seguì un'altra raccolta molto importante, "L'Allegria di naufragi". Le due opere riunite, in seguito, si intitoleranno semplicemente "L'Allegria".

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Allo scoppio della Prima Guerra Mondiale Ungaretti si trasferì a Milano. Di idee interventistiche, in quanto nazionalista e patriottico, riteneva la guerra un modo per riscattarsi del passato e per ritrovare l'unità. La guerra gli servì anche per rafforzare il legame con l'Italia e si arruolò volontario come soldato semplice combattendo sull'altopiano del Carso e poi sul fronte francese nel 1918. Tuttavia sul fronte si accorse ben presto della triste realtà della guerra e il contatto odierno con la morte lo misero di fronte all'assurdità dell'azione. Lui disse: "Posso essere un rivoltoso ma non amo la guerra, sono anzi un uomo della pace. Non l'amavo neanche allora ma pareva che la guerra si imponesse per liberarsi finalmente della guerra. Erano bubbole. Gli uomini, a volte, si illudono e si mettono in fila dietro le bubbole". Dopo la guerra si stabilì a Parigi come corrispondente per il "Popolo d'Italia" (giornale che era stato fondato da Benito Mussolini). Nel 1920 Ungaretti tornò in Italia con sua moglie Jeanne Dupoix e si stabilì a Roma dove vi rimase dal 1921 al 1936. Ungaretti aderì al fascismo perché trovava che si potesse affermare quello spirito patriottico nazionalistico dando all'Italia la possibilità di fare ciò che non era ancora riuscita a compiere, accomunando gli italiani in questo afflato. Questi furono gli anni in cui collaborò con la rivista "La Ronda", diretta da Cardarelli, che proponeva il ritorno all'ordine, al classicismo, in opposizione all'esperienza dell'avanguardia. Di questo periodo è una sua crisi religiosa che la fece avvicinare alla fede cristiana che abbracciò definitivamente nel 1928. Fu la guerra che lo avvicinò a Dio, a ricercare nei valori cristiani i valori in cui credere che erano stati persi durante il conflitto e le sue esperienze dolorose. È di questo periodo la nascita della necessità di creare un nuovo ordine interiore con le liriche del "Sentimento del tempo", dal 1981 al 1935 fu inviato speciale della "Gazzetta del popolo". Venne spesso invitato per conferenze sulla letteratura italiana contemporanea, non solo in Italia ma anche in Europa, per la sua notorietà. Nello stesso tempo organizzò le sue raccolte "Il porto sepolto" e "L'Allegria di naufragi" in un'unica opera intitolata "L'Allegria". Nel 1936 Ungaretti si trasferì in Brasile e vi rimase fino al 1942 come professore universitario di lingua e letteratura italiana all'Università di San Paolo. Questo periodo in Brasile fu segnato da un dolore familiare molto grande per la morte di suo figlio Antonietto e di suo fratello. Rientrò in Italia nel 1943 e insegnò lingue e letteratura italiana all'università di Roma e in questo periodo pubblicò altre raccolte poetiche tra cui "Il dolore" del 1946. La moglie morì nel 1958 e lui continuò la sua attività di poeta e traduttore. Nel 1969 venne pubblicata la raccolta completa delle sue opere intitolata "Vita di un uomo". Morì a Milano nel 1970. Per quanto riguarda la prima parte della produzione poetica di Ungaretti si può notare la voglia di sperimentare come avevano già fatto in Francia i simbolisti e la prima parte della sua produzione poetica ha un'impronta autobiografica con l'esternazione della sua esperienza. Parla di luoghi e del periodo in cui compone ma non si esaurisce in questa sfera individualistica che vuole sollevarsi (come aveva fatto Pascoli) all'universalismo (non è più il sentimento del singolo individuo ma il sentimento che prende tutti gli esseri umani). Ungaretti, sull'esempio dei Simbolisti, indaga la realtà in tutti i suoi aspetti più profondi e per spiegare questa realtà usa molte metafore e le analogie per cui si basa molto su queste figure retoriche per riunire delle immagini che appaiono molto distanti tra loro. La poesia di questa fase risente di un impegno per cambiare il linguaggio poetico che era stato promosso dai futuristi e che lui rigettava cercando di allontanarsene. La poetica delle "Parole in libertà" non lo interessava perché mettere insieme casualmente delle parole in maniera meccanica non lo attraeva; per lui la parola assume il significato profondo e serve per cogliere l'assenza delle cose scavando profondamente e facendogli assumere un concetto profondo. L'esperienza della guerra è presente e vissuta in molte delle sue poesie, anche in quelle che non affrontano direttamente il problema, come nelle poesie "Veglia", "Fratelli" e "San Martino del Carso". Veglia Scritta alla fine del 1915, legata alla sua vita e alla sua esperienza. Il poeta si trova vicino ad un cadavere che veglia per tutta la notte, perché nessuno giunge per rimuoverlo. La sua esperienza con la morte, così vicina gli fa pensare di più alla vita. Cita il luogo, e questo fa parte della novità della poesia di Ungaretti. In un momento così triste e così duro, dove la morte la si sente fisicamente con il suo gelo al fianco, il poeta pensa alla vita come fonte d'amore e capisce di non esserne mai stato così tanto attaccato. In quel momento e in quel buio totale la luna illumina la speranza e la voglia di pensare ad un futuro migliore. Fratelli

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Nella guerra che si affronta come da nemici, armati l'uno contro l'altro, all'insaputa e che non avrebbe mai voluto combattere, ci si ritrova di fronte a condividere un'esperienza dolorosa. La consapevolezza di avere un comune destino terribile, anche se nemici e di diverso reggimento, accomuna nella fragilità umana. La parola isolata "Fratelli" evidenzia la fragilità dell'umanità stessa, dà un senso di fratellanza, di un qualcosa di precario portato dalla guerra. Questo sentimento comune porta gli uomini a sentirsi fratelli riscoprendo la solidarietà. Fiumi La poesia più rappresentativa della vita del poeta. Rappresenta come lo scorrere di un fiume può rapportarsi allo scorrere della vita di un uomo. Il poeta si trova, sempre durante la Prima Guerra Mondiale, sul fiume Isonzo, luogo di tante battaglie, e vi si immerge per rinfrescarsi. Il poema narra dei tanti fiumi che hanno accompagnato la sua esistenza in ogni momento della sua vita. Di fronte all'Isonzo ricorda e si sente parte di un'armonia universale. L'Isonzo è quello che sta vivendo in quel tragico momento. Ricorda il Serchio, vicino a Lucca, fiume dei suoi antenati e dei suoi genitori. Ricorda il Nilo, dove è nato e cresciuto. La Senna e il fiume dove si è formato. Di ognuno di essi ricorda momenti fondamentali. Il silenzio di quella notte di guerra lo avvolge, come una corona di fiore abbraccia il pistillo, e lo fa sentire in piena armonia. Metafore: albero-mutilato. San Martino del Carso Sono tanti i riferimenti alla guerra, a quello che è successo, ai morti e alle persone che mancano. Il vuoto è rappresentato dalla perdita delle persone e delle case distrutte (ridotte a brandelli). Tutti sono ricordati, sono tutti presenti nel suo cuore e nella sua memoria. Il suo cuore è il paese più straziato perché il dolore che provava dentro di sé è maggiore della tragedia che lo circonda. "Sentimento del tempo" appartiene alla seconda fase della sua attività produttiva. Nel momento in cui vive la sua crisi spirituale, il dissidio interiore che lo porta a vivere in una nuova dimensione di religiosità. In questa fase recupera la tradizione, anche perché si accosta alle direttive della rivista "La ronda" con cui collaborava. "Il dolore" Segna un nuovo passaggio per la sua produzione. Rappresenta il momento più intimistico della sua vita per la perdita delle persone più care e perché comprende come la guerra può essere tremenda e non ci sia nulla che possa giustificarla. Il vuoto che si crea per la perdita dei cari e per la guerra è in parte colmato dalla poesia. "La terra promessa". Il poeta vi lavorò negli anni ‟30. È un'opera incompiuta che viene comunque pubblicata nel 1950. Si trattava del progetto di un melodramma dove vi sono personaggi, musiche e colori che richiamano le vicende di Enea nei pressi delle coste del Lazio. Vi fu una sperimentazione di racconto poetico in chiave moderna. Le raccolte "Un grido" e "I paesaggi", del 1952 comprendono sette liriche che sono state composte dal 1930 al 1951 dove l'autore ricorda le sue esperienze. EUGENIO MONTALE Nacque a Genova, il 12 ottobre 1896, da famiglia benestante. Il padre possedeva una ditta di importazione di prodotti chimici. Visse nelle Cinque Terre, a Monterosso, dove la sua famiglia possedeva un podere. Da giovane Montale ebbe numerosi problemi di salute che lo costrinsero a seguire non regolarmente gli studi. Riuscì a conseguire il diploma di ragioneria nel 1915 ma, essendo appassionato di musica e canto, si dedicò con dedizione a queste passioni. Ebbe modo di frequentare e condividere le esperienze letterarie del periodo con i Simbolisti francesi e gli scrittori delle Avanguardie. Nel 1917 si arruolò volontario e combatté nella Prima Guerra Mondiale in Trentino, a Vallarsa, e poi nella zona di Rovereto. Al termine della guerra ritornò a Genova e alla fine del 1920, a Monte Rosso, fece la conoscenza di Anna Degli Uberti che, col nome di Arletta (o Annetta), fu una delle donne ispiratrici della sua poesia. Per Montale le donne ebbero un

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significato molto importante, furono le ispiratrici della sua poesia, ebbe per ognuna una particolare attenzione che espresse poeticamente. Nel 1922 pubblicò alcune sue liriche (“Riviere” e le sette poesie di “Accordi”) sulla rivista "Primo Tempo" diretta da Piero Gobetti. Nel 1925 venne pubblicata la raccolta "Ossi di seppia" che è da considerare la prima raccolta poetica dell'autore (il minimalismo dell'osso della seppia rispecchia il concetto di Montale per la poesia e la sua visione essenziale della realtà). Nello stesso anno Montale firma il “Manifesto intellettuale degli antifascisti”, documento voluto da Benedetto Croce e a cui avevano aderito numerosi intellettuali che, grazie alla loro notorietà e levatura, non vennero perseguitati dal regime. Sempre in quegli anni Eugenio Montale si dedicò all'attività di critico letterario, curando molte riviste e mostrandosi aperto verso tutte le attività culturali. Fu di quel periodo la pubblicazione di " Omaggio a Svevo", autore che non venne ben accolto dalla critica di romanzi e che non aveva riscosso immediato successo se non dopo l'interessamento di Montale. Montale diresse i suoi interessi anche verso la letteratura inglese, particolarmente dopo aver conosciuto il poeta americano Ezra Pound e il poeta inglese Thomas Stearns Eliot che ammirava. Nel 1927 si trasferì a Firenze ed ebbe un impiego presso l'editore Bemporad, due anni dopo ottenne la direzione del Gabinetto Vieusseux, un importante istituto culturale del periodo, dove conobbe il critico Gianfranco Contini. Collaborò alla rivista “Solaria” e grazie ad essa conobbe altri importanti scrittori del periodo come Vittorini, Bonsanti e Gadda. L'influenza di Contini e di Eliot lo avvicinarono agli studi danteschi. Questo interesse venne alimentato pure dalla conoscenza della giovane ebrea americana Irma Brandeis (chiamata Clizia nelle sue poesie) a cui l'autore dedicò un‟edizione della sua seconda raccolta poetica, "Le occasioni" del 1939. Nel 1938 venne allontanato dal regime dall'incarico prestigioso del Gabinetto Vieusseux. Nel 1939 andò a convivere con Drusilla Tanzi, detta “Mosca”, che dopo molti anni (1962) diventerà sua moglie. Durante la Seconda Guerra Mondiale rimase Firenze scrivendo per vari giornali, ospitò numerosi amici ebrei tra cui Carlo Levi e Umberto Saba. Dopo la liberazione di Firenze si iscrisse al Partito d'azione e ricevette un incarico culturale dal Comitato di liberazione culturale, ma la politica non faceva per lui e quest'esperienza fu breve. Riteneva che lui e la poesia mal si conciliassero con la vita politica. Nel 1948 si trasferì a Milano dove collaborò con il “Corriere della Sera” per il quale scrisse delle recensioni letterarie, articoli musicali e reportage di viaggi in tutto il mondo in seguito pubblicati nella raccolta "Fuori di casa", nel 1969. Nel 1956 venne pubblicata le raccolte di racconti "La bufera e altro" e "Farfalla di Dinard". Nel 1963 rimase vedovo e quattro anni dopo venne nominato senatore a vita. Negli anni successivi continuò con la sua attività politica pubblicando le raccolte "Satura", "Diario del ‟71 e del ‟72" e "Quaderno di quattro anni". Nel 1975 Eugenio Montale fu insignito del premio Nobel per la letteratura e nel discorso pronunciato all'Accademia di Svezia pose la domanda: <<è ancora possibile la poesia?>> contestualizzata in un mondo distratto da tanti cambiamenti. Montale morì a Milano nel 1981. Opere La prima opera importante "Ossi di seppia" del 1925 nasce negli anni di crisi tra le due grandi guerre. La profonda crisi di valori determinata da motivi economici e di ideali veniva avvertita tra le persone e maggiormente dagli intellettuali. Il poeta prende coscienza del "male di vivere" che si ritrovava in tutti gli autori del periodo come Svevo e Pirandello, come nel pessimismo di Schopenauer e Nietzsche. Il paesaggio delle sue poesie e quello della Liguria, sotto certi aspetti brullo e scarno, arso come definito dall'autore e rappresentativo di questa scabrosità interiore. L'io poetico ben si confà con l'ambiente circostante e non è capace di cogliere gli aspetti più belli della vita che potrebbero far risollevare l'animo dalla pesantezza. Entrare in contatto con il paesaggio e gli oggetti in esso diventa un'impresa irrealizzabile, si cerca il modo di penetrare a fondo e di capire gli aspetti del mondo ma tutto diventa difficile anche perché bisogna andare oltre trovando il varco che permette di oltrepassare il muro di separazione. Proprio per l'incapacità di trovare questo passaggio l‟uomo si chiude nella solitudine e il modo di esprimersi della poesia diventa più chiuso e aspro. La raccolta "Le occasioni" del 1939 racchiude le esperienze, i ricordi e le occasioni della vita del poeta. Hanno tutte il filo conduttore della rievocazione degli eventi della vita dell'autore e nel rievocare emergono degli aspetti che prima non si erano colti. A tratti, le poesie di questa raccolta, assumono un significato oscuro. A differenza della raccolta "Ossi di seppia", che tratta della consapevolezza del “male di vivere”, ne "Le occasioni" vi è la ricerca di una via d'uscita dalla negatività dell'esistenza. In questa raccolta compaiono alcune figure femminili, come quella dell'ebrea americana Clizia che assume una funzione salvifica.

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Ogni tentativo di risollevamento è vanificato dalla subdola presenza della guerra e la successiva raccolta del 1956, "La bufera e altro", contiene numerose poesie scritte durante la Seconda Guerra Mondiale. L'iniziale titolo "Romanzo" venne sostituito con "La bufera e altro" ad indicare una narrazione in cui si intrecciava la sua vita sentimentale con le vicende reali. Nelle periodo che va dal 1940 al 1954 vediamo l'autore partecipe del dramma della società coinvolta nella tragicità della guerra ma, ancora una volta, gli avvenimenti sono delle occasioni per riflettere sulla situazione esistenziale. Ne "La bufera e oltre" ricompare la figura di Clizia che può essere accomunata alla figura di Beatrice di Dante. Alla figura di Clizia si contrappone la figura della Volpe (la poetessa Maria Luisa Spaziani, donna inquieta e sensuale) che non contribuiva al risollevamento psicologico dell'autore. I toni cupi della guerra si scontrano con il clima entusiastico del dopoguerra, clima oscurato dalla difficile ricostruzione ma allietato dai barlumi di miglioramento e positività che aiutano ad uscire dalla crisi. "La bufera e altro" segna una battuta d'arresto nella produzione poetica dell'autore che si protrarrà sino agli anni 60. "Satura", del 1971, contiene alcune sezioni dedicate alla moglie appena scomparsa, in cui gli aspetti che si possono evidenziare maggiormente sono la nostalgia, il rimpianto e il dolore. Nella raccolta "Diario del ‟71 e del ‟72" emerge la critica alla società di massa che ha un difficile approccio con la poesia (da qui l'interrogazione <<è ancora possibile la poesia?>>). La lirica di Montale, in quest'ultima raccolta, assume la tipologia tipica di un diario di narrazione, i temi sono spesso legati ad eventi quotidiani o a fatti d'attualità che vengono trattati in tono satirico (come ne "Il trionfo della spazzatura" che prende ispirazione da uno sciopero dei netturbini) e lo allontanano dalle sue iniziali produzioni letterarie. La traduzione in prosa più rappresentativa della sua essenza spirituale fu "Farfalla di Dinard" del 1969. In questa raccolta, che racchiude le produzioni dal 1946 al 1959, è evidente il pessimismo del poeta poiché il tema trattato è l'impossibilità di salvezza per l'uomo. Inoltre Montale dedicò molta produzione giornalistica ad indagini sui cambiamenti della società e i fenomeni di costume. Importanti furono i suoi lavori che trattavano gli anni del boom economico, la società di massa, l'uso dell'automobile e i cambiamenti della figura della donna. Si interroga sul destino della libertà personale in una società controllata dai Mass media. Parla dell'uomo alienato invitando a recuperare la figura dell'homo sapiens (l'uomo che pensa) su la figura de l'homo faber (l'uomo che fa). Montale, oltre che come poeta profondo, viene ricordato come rappresentante per eccellenza dell'Ermetismo in quanto non esprime chiaramente con le parole il suo pensiero ma i suoi concetti sono compresi conoscendo la sua vita, il suo pensiero, il contesto e la sua poetica. "La parola è tutto" è il concetto cardine che pone la parola con un significato pregnante e la poesia nasce, secondo l'autore e da altri poeti, da una meditazione dolorosa. Come riferito da Montale in una autointervista, l'autore ha sempre avuto la sensazione di vivere sotto una campana di vetro (per la fragilità dell'elemento e la protezione che esso offre) ma provando la sensazione di raggiungere l'essenzialità delle cose con un minimo distacco da essa e questo filo che separa il raggiungimento della conoscenza assoluta è insuperabile. Da questo concetto nasce il dramma dove tra la vita reale e la parola non c'è possibilità di conciliazione. Il poeta comprende che c'è la possibilità di oltrepassare quel limite invalicabile ma non trova il mezzo perché le parole, a volte, non sono sufficienti e idonee a spiegare i sentimenti provati e ci si deve limitare alla rappresentazione della vita. Per Montale la poesia non è un modo per esprimere i propri sentimenti e neanche un modo per andare a fondo concretamente nella realtà ma è una testimonianza; il poeta affida ad un interlocutore le sue confidenze, trasmette i suoi momenti difficili e il suo disagio. Diversamente dai Simbolisti o da Ungaretti, Montale ritiene che la poesia non possa aprirsi su altre realtà e che il poeta non possa mettersi in sintonia con la realtà circostante. Nel 1960, in un'intervista, Montale definì la propria poesia non-realistica, non-romantica e neppure decadente. Lui la definì espressamente "metafisica" proprio per l'incapacità di cogliere concretamente gli aspetti più nascosti. C'è una parte della realtà che non può essere tradotta in concetti razionali e questa parte irrazionale non può essere raggiunta dal poeta, a fondo di questo concetto vi è il pessimismo della vita di cui Montale ne è vittima. L'autore traduce questo pessimismo con il "male di vivere" che può essere ricondotto a quella sorta di depressione, sopraffazione e noia che spesso che ci accompagna tutta la vita. Per il poeta l'esistenza non riserva gioie, tanto meno non ne sono in grado la religione e il conforto divino. Questo concetto è alla base delle sue raccolte "Ossi di seppia" e "Le occasioni". Dal pessimismo esistenziale, nel 1956 con la raccolta "La bufera e altro", Montale passa ad un pessimismo storico-sociale (riferito alla società, ai costumi e a come il momento storico porta a divenire pessimisti) e questa sua idea si rafforza sino a divenire inamovibile ed inattaccabile. Nel dopoguerra, dove l'intellettuale è chiamato a contribuire alla ricostruzione culturale e mentale dell'esistenza, Montale, concludendo la terza

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raccolta, capisce che la poesia rimane a sé stante dalla vita e quindi arriva alla conclusione che il poeta deve tacere perché non ha nulla da dire (da qui l'interrogazione <<...è ancora possibile la poesia?...>>. Quando, negli anni ‟60, Montale interrompere il suo silenzio poetico accentua ancora di più la sua visione negativa del mondo perché avverte che la società ha nuovamente intrapreso una non adeguata direzione. La società del benessere, indirizzata al consumismo, a lui non sta bene perché i valori che dovrebbero essere coltivati stanno svanendo definitivamente. Come risposta Montale usa l'ironia, anziché adottare la musicalità tipica dei suoi versi utilizza una musicalità che lui definisce "dissonante" perché la dissonanza è l'espressione tipica di quella società frenetica, rumorosa e confusa (con una conseguente confusione di valori). Nonostante le sue impressioni negative, nel suo discorso all'Accademia di Svezia conferma la sua speranza nella sopravvivenza della poesia in una società proiettata al consumismo. Nella sua poesia Montale è sempre alla ricerca del passaggio del varco, pensa sempre ad una sorta di miracolo che debba avvenire e che sia in grado di rimuovere il velo che ricopre le cose, diretti alla conoscenza reale di esse. La parola diviene uno strumento del poeta per confrontarsi con il mondo; attraverso la parola lui parla, osserva, comunica qualcosa sugli oggetti e sui paesaggi. I momenti e gli eventi più importanti dove Montale entra in contatto con la dimensione più autentica sono con la poetica degli oggetti e le figure femminili. Questi sono depositari di un valore simbolico che va oltre la realtà concreta. Le parole privilegiate da Montale sono quelle con un suono puro, che indirizzano la sua riflessione agli elementi della realtà comune dove l'uomo vive la sua realtà quotidiana con le immagini e i suoni che vi appartengono e che sono da lui prodotti. La "poetica degli oggetti" è esprimere i propri sentimenti attraverso gli oggetti che li evocano (correlativo oggettivo ideato da Eliot è ripreso da Montale). Le numerose figure di donne presenti nelle poesie di Montale, con diverso valore e significato attribuito dal poeta (la speranza salvifica, la visione di un ricordo, un fantasma del passato, ecc.), non sono mai descritte fisicamente ma vengono evocate attraverso un gesto, un particolare (cappelli, sguardo, oggetto personale) che le caratterizzano. Sono trasfigurazioni poetiche di donne reali che possono essere assenti o reali, con cui il poeta non ha un rapporto diretto perché sono donne che possono sopraggiungere in un sogno, in una fantasia o in un ricordo e hanno quindi nella poesia dell'autore una dimensione diversa da quella della realtà. La licenza poetica dell'autore gli consente, per esempio, di parlare di Arletta (Anna degli Uberti) come se fosse morta in giovane età, cosa non vera; i suoi versi sono quindi indirizzati al ricordo della donna e alla sua assenza relegandola ad una apparizione dove, nello squarcio di cielo, gli si possa rivelare l'essenzialità della vita. Crisalide è la donna ricca di sensualità che condivide insieme al poeta gli aspetti negativi dell'esistenza. Mosca rappresenta la concretezza e il buon senso che guiderà il poeta e guiderà il passaggio della produzione poetica dell'autore nella quotidianità della vita. “I LIMONI”

Testo d‟apertura degli Ossi di seppia, dopo l‟introduzione de Godi se il vento ch’entra nel pomario della sezione In limine, I limoni è una delle poesie più note di Montale proprio perché costituisce un vero e proprio manifesto della poetica dello scrittore. Il primo verso, con la sua richiesta di ascolto, è determinante per segnare la distanza rispetto alla tradizione dannunziana, identificabile appunto nei “poeti laureati” e nei loro pregiati “bossi ligustri o acanti” (v. 3), di cui si avverte ormai tutta l‟artificiosa convenzionalità. Il diverso atteggiamento montaliano è esplicito soprattutto nella scelta dei nuovi referenti, più quotidiani e meno nobili, della propria poesia. Le “pozzanghere | mezzo seccate” (vv. 5-6), le “viuzze che seguono i ciglioni” (v. 8), e gli “alberi dei limoni” (v. 10) definiscono allora l‟importanza del paesaggio (ligure, innanzitutto) nel primo Montale. La realtà circostante diviene, all‟occhio del poeta, il simbolo concreto di una dimensione esistenziale dominata da un senso di inautenticità e disarmonia (la “guerra” cui allude il v. 19); ma a riscattare questa situazione negativa, in alcuni attimi di sospensione quasi magica, c‟è “l‟odore dei limoni” (v. 21), che diventa preziosa chiave d‟accesso ad un mondo „altro‟, dove è possibile entrare grazie ad un “anello che non tiene” (v. 27) della nostra realtà. Si capisce quanto Montale si distacchi qui dalle pose del poeta-vate, che rivelava una verità superiore al devoto pubblico degli ascoltatori: quelli qui presentati non possono che essere frammenti di una felicità sfuggente e sempre in bilico, cui si arriva spezzando in maniera istintiva il velo della convenzione del mondo (e delle parole: e non a caso Montale ammetterà che tra le sue fonti c‟era lo Schopenauer de Il mondo come volontà e rappresentazione). E tanto impagabili saranno questi attimi, che coloro i quali vi hanno attinto assumono quasi i tratti di una “divinità” (v. 36), che però resta sempre laica e filosofica, senza prendere affatto fattezze da superuomo o connotazioni religiose. Il “male di vivere” (che qui il poeta percepisce, e che teorizzerà lucidamente anche in altri testi degli Ossi di seppia) è sempre in agguato: il paesaggio urbano della parte conclusiva de I limoni sembra infatti svilire ogni “illusione” (v. 37) di trovare una verità delle cose umane; eppure non viene meno un bagliore di speranza. Dal “malchiuso portone” (v. 43) che riconferma il ruolo fondamentale degli oggetti nella poetica montaliana potrebbe infatti uscire, un giorno, il colore solare del limoni, per offrire una nuova occasione di provvisoria felicità. Se certo Montale, come affermato da lui stesso in una Intervista immaginaria del 1946, voleva “torcere il

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collo” ai modelli letterari e “all‟eloquenza della nostra vecchia lingua aulica”, tuttavia ne I limoni il piano tecnico-retorico è tutt‟altro che secondario: nei versi liberi si susseguono, spesso ben mimetizzati, endecasillabi e settenari (questi ultimi a volte doppi), legati da rime al mezzo (vv. 1-3: “laureati | usati”; vv. 31-32: “indaga | dilaga”) e da un apparato metrico-fonico molto curato. Si susseguono infatti, ne I limoni, suoni aspri e secchi (v. 6: “mezzo seccate”; v. 8: “le viuzze”; v. 11: “gazzarre”), endecasillabi ipometri o ipermetri (e cioè, con una sillaba in meno o in più rispetto alla misura tradizionale), ed una calibrata scelta di immagini visivo-coloristiche, come quelle che chiudono la poesia sfociando nelle “trombe d‟oro della solarità” (v. 49).

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“SPESSO IL MALE DI VIVERE HO INCONTRATO”

“Spesso il male di vivere ho incontrato” è una delle più alte poesie della raccolta “Ossi di seppia” presente nella sezione eponima. Già partendo dal titolo dell‟intera raccolta e della particolare sezione in cui risiede la poesia, è possibile segnalare alcune caratteristiche fondanti di tutta l‟opera. La poesia di Ossi di seppia è una poesia che, come l‟osso di seppia, si lima, si fa «scabra ed essenziale», riduce le pretese eroiche e celebrative dei “poeti laureati” (in particolare Gabriele D‟Annunzio, come si legge nei “I limoni”), per avvicinarsi alla quotidianità, alla concretezza delle cose e spostandosi verso l‟uso di toni ironici e colloquiali desunti in parte dal crepuscolare Guido Gozzano. D‟altro canto però, non manca da parte di Montale il recupero di forme colte e preziose (non di rado attinte proprio da D‟Annunzio) e la ripresa, a livello propriamente metrico, delle forme tradizionali della letteratura italiana (rifiutando lo stravolgimento metrico dalle avanguardie storiche): recupera in particolar modo l‟endecasillabo e la rima. Potremmo dire che Montale rinnova la grande tradizione letteraria italiana (caratterizzata da forme ampie) su una nuova base linguistica. Nell‟intera opera, Montale indaga il male di vivere, che si rivela nitidamente in un paesaggio scarno ed arido (di cui l‟Osso di seppia è evidentemente simbolo) ed in cui tutta la vita si rivela nel suo sgretolarsi. Il poeta è intento, con difficoltà, ad interrogare la natura tentanto di recuperare un qualche «sterile segreto», e la poesia “Spesso il male di vivere ho incontrato” non può che essere una delle poesie in cui l‟indagine che il poeta svolge si fa maggiormente serrata ed evidente. Il male di vivere che Montale descrive è un male oggettivo, radicato ed evidente già dall‟osservazione della natura quotidiana. Non c‟è violenza nella poesia di Montale e la tecnica del correlativo oggettivo (=evocare un‟idea o una sensazione indicandola con gli oggetti, le cose) tende ad identificare questo male così radicato con il rivo strozzato, con l‟incartocciarsi della foglia riarsa, con il cavallo stramazzato. Un dolore ed un male che è dunque presente nella normalità della vita e non derivante da un qualsivoglia atto violento. Il significante (=forma esteriore della parola) della prima quartina, dato con forza dalle allitterazioni del gruppo “rs”, “rt”, e comunque dalla forte presenza di consonati come “r”, “s” e “z”, realizza, a livello ritmico/musicale (evocando suoni duri ed aspri) il male di vivere di cui Montale ci parla. Nella seconda quartina invece, il tono si acquieta e la maggior presenza delle vocali interrompe il malessere di quella precedente. Montale individua l‟unico bene esistente che risiede, cito dal verso, nel «prodigio/che schiude la divina indifferenza». Un bene che consiste in un puro esistere senza tempo e senza memoria; dunque la statua nella sonnolenza del meriggio, la nuvola e il falco alto levato.

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“HO SCESO DANDOTI IL BRACCIO, ALMENO UN MILIONE DI SCALE”

“Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale” fa parte della sezione Xenia, contenuta nella raccolta Satura, pubblicata da Montale nel 1971. Dopo anni di silenzio il poeta fa partire una nuova fase poetica, in cui abbassa lo stile e il tono, scrivendo poesie più prosastiche. Il titolo ha un doppio significato, in quanto da un lato fa riferimento alla satira, cioè alla polemica nei confronti della società e degli pseudovalori del proprio tempo, e dall‟altro alla mescolanza di cose di diverso tipo (dal latino satura). Montale, inoltre, raccoglie le proprie memorie private, sostituendo alle donne simboliche delle raccolte da lui pubblicate in passato la figura della moglie, morta nel 1963. Si tratta di Drusilla Tanzi, soprannominata dal poeta Mosca, a causa della sua forte miopia. Il poeta dedica la lirica Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale alla moglie: la poesia nasce, infatti, dal sentimento di dolore provato dal poeta che soffre la solitudine a causa dell‟assenza della moglie. Soltanto in questo momento Montale capisce che, nonostante la miopia, Mosca sapeva leggere più attentamente la realtà per quella era realmente e non per quella che appariva. Nonostante ciò che sembrava a prima vista non era lui ad evitare alla moglie d‟inciampare, tenendole il braccio lungo il percorso, ma era lei

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a guidare il viaggio di entrambi nella vita e a penetrare nelle cose con uno sguardo più profondo. Montale offriva alla moglie il braccio e condivideva con lei le difficoltà quotidiane e ora sente la sua mancanza, nonostante il viaggio della loro vita sia stato al contempo lungo perché la loro relazione è duramente parecchi anni, e breve perché il poeta vorrebbe ancora condividere con la moglie emozioni e speranza. L‟iperbole dei versi 1 ed 8 indica la vastità delle esperienze vissute in comune dalla coppia e la consuetudine del gesto di aiutare amorevolmente la compagna a scendere i gradini. Il poeta avverte con sofferenza l‟assenza della moglie nella sua vita che lo porta a sentirsi profondamente solo (è il vuoto ad ogni gradino) ed inutile. Nella seconda strofa di Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale, che riprende attraverso un‟anafora il primo verso, emerge il contrasto fra la posizione del poeta di fronte alla vita e il modo più acuto della moglie di guardare il mondo. Montale esprime il contrasto fra la realtà e l‟apparenza delle cose attraverso le immagini delle coincidenze, delle prenotazioni, delle trappole, degli scorni che nascondono la vera essenza della vita. La realtà per il poeta è caratterizzata da necessità e incarichi noiosi che nascondono la sua vera essenza perché vengono confuse con la realtà, pur essendo solo apparenza. Solo poche persone riescono a cogliere la realtà più profonda e fra queste c‟è Mosca che, nonostante le pupille offuscate dalla miopia, riusciva a comprendere in maniera autentica e profonda la realtà.

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LUIGI PIRANDELLO Pirandello nacque nel 1867, ad Agrigento (che allora si chiamava Girgenti) nella tenuta di famiglia chiamata "Caos" (il nome stesso sarà emblematico dell'esistenza e del modo di vedere la vita dell'autore). Il padre apparteneva ad una famiglia di imprenditori liguri che si erano stabiliti in Sicilia all'inizio del secolo e avevano preso in affitto alcune solfatare. In famiglia non vi era un'atmosfera serena poiché il padre era molto autoritario. Da quell'ambiente Pirandello maturò il pensiero della famiglia come una trappola, come un luogo soffocante dove i rapporti, spesso, non sono vissuti nell'autenticità. Frequentò il liceo nella sua città e poi si iscrisse alla facoltà di Palermo, continuò gli studi a Roma e a Bonn dove si laureò e approfondì la conoscenza della lingua e della letteratura tedesca. Lesse Goethe e Schopenhauer e pubblicò la prima raccolta di versi intitolata "Mal giocondo" nel 1889. Dopo essersi laureato si trasferì a Roma dove strinse amicizia con numerosi letterati, tra cui Luigi Capuana che lo incoraggiò a proseguire la sua attività di letterato. Nel 1894 sposò Antonietta Portulano, una donna molto bella ma fragile psicologicamente e fisicamente, figlia di un socio del padre. Dall'unione nacquero tre figli, Stefano, che diventerà scrittore e commediografo, Lietta e Fausto. Dall'esperienza delle nevrosi della moglie nacquero molte delle sue opere, si ispirò molto a queste situazioni familiari dopo aver approfondito gli studi psicanalitici di Freud e aver avuto spesso a che fare con persone affette da depressione e problemi psichici. Avvertì il malessere di queste persone e cercò di descriverlo nelle sue opere. Nel 1893 scrisse suo primo romanzo intitolato "L'esclusa" e dal 1897 incominciò la sua attività di commediografo. Scrisse molti brani per il teatro che non vennero subito accolti con entusiasmo dalle varie compagnie di teatro. Nello stesso periodo ottenne l'incarico di insegnante di lingua italiana presso il Magistero di Roma ma il 1903, per Pirandello e la sua famiglia, fu un anno molto brutto perché una frana distrusse la miniera di zolfo, dove il padre aveva investito tutto il suo denaro e anche la dote di Antonietta. Alla notizia del disastro finanziario Antonietta incominciò ad accusare i primi problemi psichici, ebbe una crisi nervosa che si manifestò prima con una paralisi isterica che la costrinse a letto per lungo tempo e in seguito si trasformò in una vera e propria malattia mentale. Mentre assisteva la sua moglie malata, Pirandello compose il suo romanzo più famoso, "Il fu Mattia Pascal", pubblicato a puntate sulla rivista "Nuova Antologia" tra l'aprile e il giugno del 1904. Non avendo più i proventi finanziari della sua famiglia dovette continuare ad insegnare, dando anche lezioni private di italiano e di tedesco e nel 1908 pubblicò l'importante saggio "L'umorismo" per accedere al concorso per l'assegnazione a posto d'insegnante al Magistero di Roma. Si trattò di una dissertazione accademica che divenne in seguito una sorta di dichiarazione della sua poetica. Nel saggio introdusse il concetto di differenza tra comico e umoristico. Se noi ci poniamo la domanda: <<che differenza c'è tra un fatto comico e un fatto umoristico?>> Pirandello ci fornisce la risposta con "Il sentimento del contrario" che troviamo nella seconda parte del saggio "L'umorismo" (il cui titolo per esteso è " Essenza, caratteri e materia dell'umorismo). Pirandello ci spiega che la differenza tra il comico e l'umoristico è il fatto di riflettere su un fatto o meno. Mentre su un fatto comico si ride superficialmente e non ci si addentra in riflessioni, su un fatto umoristico la riflessione è evidente, non si nasconde. Oltre ad avvertire il senso del contrario, nel fatto

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umoristico si ravvisa la tristezza e la malinconia che nascono da situazioni che superficialmente paiono divertenti. Il sentimento del contrario è affrontato da Pirandello anche dal significato di indossare quotidianamente una maschera, la realtà dell'inconscio, dove neanche noi stessi sappiamo ciò che siamoperché condizionati dalle regole e dalle convenzioni sociali. Al giudizio degli altri non ci mostriamo come realmente siamo ma indossiamo una maschera, volenti o nolenti. Su questi dualismi Pirandello lavora a fondo perché fanno parte della vita. Anche la verità per Pirandello non è mai unica, non esiste una sola verità, e nelle sue opere l'autore lascia sempre il lettore nel dubbio o con un'idea personale su un determinato fatto (come in "Uno, nessuno, centomila", "Così è se vi pare" o nello stesso "Il fu Mattia Pascal"). La definizione di sentimento del contrario ha però delle implicazioni più profonde nel contesto della politica di Pirandello: il contrario infatti è generato dalla consapevolezza dell'oltre, da parte dell'osservatore. Di qualcosa che va oltre l'apparenza che è la realtà che altrimenti non potrebbe essere conosciuta. Lo scrittore umorista vede nella realtà una costruzione finta o fittizia del sentimento e porta alla luce le contraddizioni e le assurdità della vita. Sono frequenti in questo saggio i riferimenti ad Alfred Binet (che è l'inventore di alcuni test per valutare il quoziente intellettivo delle persone, da cui prende anche la concezione del io-diviso), a Henri Bergson (con il suo concetto che il riso è il mezzo per scardinare le convenzioni sociali, «proprio come la vita dello spirito può essere ostacolata nel suo realizzarsi dalle esigenze della macchina corporea, così la forma della vita sociale può soffocarne il senso»). IL FU MATTIA PASCAL Per quanto riguarda "Il fu Mattia Pascal", Pirandello lo scrisse a Roma nel 1903 dopo che erano sorti i problemi della sua famiglia per la perdita della solfatara e la conseguente malattia mentale della moglie. Questo testo venne rivisitato numerose volte, aggiungendo nel 1921 una vertenza sugli scrupoli della fantasia per controbattere attraverso fatti di cronaca le accuse di mancata verosimiglianza delle vicende e di eccessivo celebralismo. Il protagonista, Mattia Pascal, vive in un piccolo paese della Liguria (Miragno, che è un nome di fantasia). È una situazione opprimente in una società che non permette all'individuo di mostrarsi realmente e di agire secondo le proprie convinzioni. Il protagonista aveva vissuto l'infanzia nell'agiatezza e non aveva mai cercato di gestire con oculatezza i propri averi, dando vita poi alla figura dell'inetto (già considerata da Svevo) che è colui che non ha nessuno scopo nella vita e della mancanza della necessità di reagire agli eventi. Scoprì che l'amministratore, nominato dalla madre, lo aveva ridotto in rovina e che questo era diventato il marito della ragazza, di cui lui era innamorato e che dalla coppia era nato anche un figlio. Matteo sposò quindi un'altra donna, Romilda Pescatore, che aveva avvicinato prima come intermediario per conto di un amico. Per i troppi debiti contratti in famiglia si trovò un impiego di bibliotecario, prigioniero di una vita familiare in cui non credeva molto e che non dava nessuna soddisfazione a causa dei continui litigi con la moglie e con la suocera. Giunse alla decisione di abbandonare una vita così inutile e di scappare all'estero. Si fermò a Montecarlo dove decise di giocare al Casinò e dove, con un'incredibile fortuna, riescì a vincere una bella somma di denaro. Mentre faceva ritorno a casa lesse sul giornale che era stato ritrovato il cadavere di un suicida che venne identificato nel disperso Mattia Pascal. Consapevole di questo nuovo colpo di fortuna che la vita gli stava offrendo, decise di farsi credere morto per cominciare una nuova vita. Assunse il nome fittizio di Adriano Meis e iniziò a viaggiare in Italia e in Germania. Ad un certo momento sentì la necessità di ritornare alle proprie origini, quindi decise di stabilirsi a Roma dove affittò una camera presso la casa di Anselmo Paleari, uno strano personaggio che viveva in un mondo tutto suo e che si interessava di filosofia e spiritismo. Qui si innamorò ricambiato dalla figlia del Paleari attirandosi le ostilità del cognato Terenzio Papiano, il quale dopo la morte della moglie si voleva sposare con la ragazza per non restituire al padre di questa i soldi della dote. Durante una seduta spiritica Papiano ruba una parte dei soldi del protagonista e questo episodio innescò in lui una serie di riflessioni: era privo di identità, non poteva denunciare il ladro e non poteva neanche sposare Adriana. Decise allora di far ritorno al suo paese e di assumere la vecchia identità inscenando il finto suicidio di Adriano Meis. Una volta giunto al suo paese Mattia Pascal si ritrovò in una situazione completamente cambiata da come l'aveva lasciata: la moglie si era sposata col suo miglior amico e il suo posto di bibliotecario era stato assegnato ad un'altra persona. Mattia decise di scrivere le sue memorie, ormai rassegnato a restare fuori dalla vita ed essere il fu Mattia Pascal. Le memorie che Mattia Pascal trascrive solo l'origine di quest'opera composta da 18 capitoli che possono essere suddivise in quattro parti. La premessa è costituita dai capitoli I e II, nei quali il protagonista racconta la sua trasformazione da Mattia al “fu Mattia” e commenta l'accaduto quando i fatti sono già accaduti. Questi capitoli, insieme al XVII e al XVIII, formano una specie di cornice. Tra di essi vi è la narrazione dei fatti come sono accaduti. La seconda parte corrisponde ai capitoli che vanno dal III al VI e in essi si descrive il periodo che va dalla giovinezza di Mattia Pascal, in uno scenario campestre idilliaco e non contaminato dal progresso, all'episodio negativo che è rappresentato dal matrimonio con la donna di cui lui non era innamorato. Il capitolo VII è lo snodo tra la seconda e la terza parte ed esso tratta la fuga e la vincita al

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Casinò con il punto più importante rappresentato dalla notizia del suo presunto suicidio con la conseguente decisione di volgere ad una vita migliore. La terza parte, costituita dai capitoli che vanno dall'VIII al XVI, trattato con la forma di genere di romanzo di formazione (che ha delle caratteristiche formative, dando consigli e per educare le persone che leggono il romanzo). La quarta parte, i capitoli XVII e XVIII, chiude la storia in modo circolare riportandola all'origine, spiegando come Mattia Pascal sia divenuto “il fu Mattia Pascal” e come, per forza di cose, abbia dovuto rinunciare alla sua vita. Tematiche affrontate dal romanzo "Il fu Mattia Pascal" In questo romanzo la famiglia in cui è nato Mattia Pascal rappresenta il nido mentre la famiglia che è nata dal matrimonio è vista come una prigione. Vive con la moglie e la suocera una conflittualità continua costituita da litigi e nasce spontaneo in lui il desiderio di evadere. Questo aspetto si collega direttamente alla vita autobiografica di Pirandello, la famiglia reale con la figura materna con cui lui aveva un ottimo rapporto è contrapposta all'infelicità della vita coniugale. Mattia Pascal confessa che in gioventù era un inetto, non avendo voglia di impegnarsi in nulla e perché si riteneva incapace di affrontare certe situazioni. Mattia Pascal ha lasciato che la vita gli scivolasse addosso e non fu stato capace ad imporsi nella conquista della donna amata. La fuga da casa rappresenta una svolta dall'inettitudine. La crisi di identità di quest'opera anticipa le tematiche dei nostri tempi e Mattia Pascal è uno dei personaggi che rappresenta meglio la crisi di identità dell'uomo dei primi del ‟900 e dei periodi seguenti. Mattia Pascal appare nello sdoppiamento dei tratti fisici e psicologici che si intravedono nel corso del romanzo. Ha difficoltà ad identificarsi con se stesso e questa caratteristica è rappresentata anche dal difetto fisico dell'occhio strabico che deforma la visione della realtà. Il protagonista si pone spesso davanti allo specchio per riconoscersi nell'immagine di come la vedono gli altri. Mattia si configura come un antieroe, emarginato dalla vita incapace di capire realmente chi egli sia e di ritrovare se stesso. All'inizio del romanzo il protagonista dice che: <<Una delle poche cose, anzi forse la sola ch‟io sapessi di certo era questa: che mi chiamavo Mattia Pascal>>. Questo rappresenta l'unica certezza della sua vita come se il resto non avesse fondatezza. A testimonianza della sua identità, a chiusura del romanzo, dice: <<io non saprei proprio dire ch'io mi sia>>. Non è che una tragica conferma di un'identità non recuperata. La forma-trappola, con cui la vita imprigiona gli individui, in Mattia Pascal lo rende incapace di sfuggire alla trappola dell'esistenza. Il protagonista si trova obbligato suo malgrado ad assumere una nuova identità per vivere una nuova vita e divenire artefice del proprio destino. Il tentativo è vanificato dalla società che non glielo permette, un'illusione destinata a fallimento. La tematica contro il progresso è evidente nei capitoli centrali, quando Meis si trasferisce prima a Milano e poi a Roma, dove vedendo quello che sta succedendo nella società che progredisce con tutte le novità tecnologiche il protagonista si interroga sul progresso e polemizza contro la scienza e contro le macchine, particolarmente contro il tram che erano stati introdotti da poco in Italia. A Roma, ammirando le antichità, ne esalta lo splendore e le contrappone allo squallore del presente. Vedendo Roma il protagonista afferma: «I papi ne avevano fatto – a modo loro, s‟intende – un‟acquasantiera; noi italiani ne abbiamo fatto, a modo nostro, un portacenere». A questi temi si accompagna anche la sfiducia verso il mondo politico liberale. Lo spiritismo ed altri strani fenomeni che emergono nel periodo a cavallo tra il XIX e il XX secolo. Il gioco d'azzardo che è descritto dal protagonista come viene svolto nel Casinò e veste anche il significato più profondo della casualità, dove ti può aiutare come rovinare. Il fu Mattia Pascal rappresenta molto significativamente il pensiero di Pirandello riguardo la piccolezza dell'uomo. Mattia risponde con una frase apparentemente priva di senso: «Maledetto sia Copernico!». Questa affermazione sta a significare che dopo la rivoluzione copernicana del ‟500 l'uomo ha perso la sua certezza di essere al centro dell'universo nel quale non conta più nulla. Deriva da questo motivo la scelta di Pirandello di uno stile umoristico che conduce alla riflessione della disarmonia della vita, dove l'uomo guarda la sua vita ma alla fine non ne è più il protagonista.

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Per quanto riguarda le tecniche narrative la vicenda è narrata in prima persona, per cui si parla di “focalizzazione interna”. Il lettore segue gli avvenimenti che via via si susseguono. Gli imprevisti, le scelte, gli errori, i tormenti e tutte le svolte della vicenda vengono osservate attraverso il punto di vista di Mattia, del Meis e del “fu Mattia”. Questa narrazione in prima persona contrasta con la narrativa Verista che si esprime in terza persona e che da impersonale assume la caratteristica di soggettiva, il lettore percepisce ogni avvenimento come imprevedibile e frutto del caso (Mattia vince per caso e per caso si rende conto che non può ritornare alla sua identità). Altra innovativa tecnica assunta da Pirandello è la diversificazione tra l'io narrante e il personaggio con il conseguente passaggio dal piano temporale del passato a quello del presente (riferendosi al passato racconta e riferendosi al presidente riflette ed esamina). Il linguaggio assume anche una caratteristica teatrale perché c'è il monologo interiore, si interroga, esclama e videndo la vicenda si pone di fronte alla realtà di quel momento. Queste nuove tecniche superano la narrativa tradizionale del romanzo producendo la concezione dell'antiromanzo di formazione. Questo personaggio non riesce a superare se stesso e a cambiare perché le vicende bloccheranno le possibili evoluzioni. Secondo il critico Luperini, Pascal non è guarito né sicuramente si è realizzato; è rimasto imbrigliato in quella vita che si è cercato e da cui non è riuscito a fuggire. Incominciando dal fatto che quel tipo di vita non poteva durare per tanto tempo ritorna sui suoi passi ma, tornando sui suoi passi, non riesce comunque né a cambiare né a ritornare alla sua vita perché ormai non è più riconosciuto da nessuno. Ha imparato ad accettare la sua diversità e a vivere in una striscia di terra di nessuno, ai confini tra la vita e la morte.