API E MIELE NEL MEDITERRANEO ANTICO · 2020. 5. 4. · miele per come descritti dalle fonti...

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Acme 1/2014 p.7-50 - DOI 10.13130/2282-0035/3869 API E MIELE NEL MEDITERRANEO ANTICO Abstract L’importanza del miele come sostanza culturalmente ed economicamente rilevante nel mondo antico non è stata ancora del tutto indagata. Il miele e le api sono nondimeno presenze assidue e trasversali ai generi e alle tipologie di fonti antiche greche e romane, ed è pertanto da esse che una ricerca sull’argomento deve partire. I manufatti, le tec- niche e i concetti descritti dagli antichi devono però essere relazionati con cautela al ma- teriale archeologico rinvenuto, per fare ciò pare indispensabile un approccio che tenga conto delle nozioni biologiche, etologiche e zootecniche di base. Attraverso quest’ottica sono state ricapitolate le evidenze materiali provenienti dal bacino del Mediterraneo e concernenti gli strumenti e le strutture relative all’apicoltura, dalle arnie agli apiari, per il lungo arco cronologico che va dall’età del bronzo alla tarda antichità. Ciò è possibile per la tematica apicola grazie alla conservatività delle tecniche, strettamente legate ai severi dettami della natura fino alla rivoluzione ottocentesca delle arnie razionali a te- lai mobili del reverendo Langstroth. Sono inoltre analizzati gli utilizzi più frequenti del miele per come descritti dalle fonti letterarie nonché le implicazioni di api e miele nella ritualità e nel simbolismo della morte, del genere e della regalità, sebbene i risultati sia- no scarsi data la povertà dei riscontri archeologici e la limitata attenzione di cui questo argomento ha fin ora goduto. The importance of honey as a cultural and economic relevant substance in the ancient world has not yet been fully investigated. Honey and bees shown nevertheless an assid- uous and transversal presence in different kinds and types of ancient Greek and Roman sources, therefore an exploration of the archaeological sources concerning honey and the honeybees, cannot leave out literary sources as a starting point. The artifacts, techniques and concepts explained by the ancients has to be related carefully to the archaeological material found and it is essential to approach them considering the basic biological, etho- logical and zootechnical notions. By this perspective known Mediterranean material evi- dence concerning the beekeeping, starting from hives to other beekeeping tools and the apiaries, are summarised for the very long period from Bronze age to late Roman age. This has been possible thanks to the conservativeness of the beekeeping techniques, due to the strict rules imposed by the nature until the 19 th century when Langstroth movable frames’ revolution occurs. Furthermore are analysed the most relevant uses of the honey as de- scribed by written sources and the implications of bees and honey in the ritual and sym- bolism of death, gender, and royalty, although the results are poor due to the poverty of the archaeological evidence and the limited attention that this topic has so far enjoyed. Nella quotidianità del mondo mediterraneo antico il miele ha certamente avu- to un ruolo di assoluto rilievo: in primo luogo come alimento, ma anche come sostanza dalle proprietà magiche e farmacologiche e nondimeno come vettore di significati simbolici e metaforici. In ogni ambito sua compagna naturale è la sua produttrice, l’ape, le cui peculiarità etologiche e biologiche non fanno che ac- crescerne la ricchezza semantica e vanno pertanto conosciute. La curiosità che

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  • Acme 1/2014 p.7-50 - DOI 10.13130/2282-0035/3869

    API E MIELE NEL MEDITERRANEO ANTICO

    AbstractL’importanza del miele come sostanza culturalmente ed economicamente rilevante

    nel mondo antico non è stata ancora del tutto indagata. Il miele e le api sono nondimeno presenze assidue e trasversali ai generi e alle tipologie di fonti antiche greche e romane, ed è pertanto da esse che una ricerca sull’argomento deve partire. I manufatti, le tec-niche e i concetti descritti dagli antichi devono però essere relazionati con cautela al ma-teriale archeologico rinvenuto, per fare ciò pare indispensabile un approccio che tenga conto delle nozioni biologiche, etologiche e zootecniche di base. Attraverso quest’ottica sono state ricapitolate le evidenze materiali provenienti dal bacino del Mediterraneo e concernenti gli strumenti e le strutture relative all’apicoltura, dalle arnie agli apiari, per il lungo arco cronologico che va dall’età del bronzo alla tarda antichità. Ciò è possibile per la tematica apicola grazie alla conservatività delle tecniche, strettamente legate ai severi dettami della natura fino alla rivoluzione ottocentesca delle arnie razionali a te-lai mobili del reverendo Langstroth. Sono inoltre analizzati gli utilizzi più frequenti del miele per come descritti dalle fonti letterarie nonché le implicazioni di api e miele nella ritualità e nel simbolismo della morte, del genere e della regalità, sebbene i risultati sia-no scarsi data la povertà dei riscontri archeologici e la limitata attenzione di cui questo argomento ha fin ora goduto.

    The importance of honey as a cultural and economic relevant substance in the ancient world has not yet been fully investigated. Honey and bees shown nevertheless an assid-uous and transversal presence in different kinds and types of ancient Greek and Roman sources, therefore an exploration of the archaeological sources concerning honey and the honeybees, cannot leave out literary sources as a starting point. The artifacts, techniques and concepts explained by the ancients has to be related carefully to the archaeological material found and it is essential to approach them considering the basic biological, etho-logical and zootechnical notions. By this perspective known Mediterranean material evi-dence concerning the beekeeping, starting from hives to other beekeeping tools and the apiaries, are summarised for the very long period from Bronze age to late Roman age. This has been possible thanks to the conservativeness of the beekeeping techniques, due to the strict rules imposed by the nature until the 19th century when Langstroth movable frames’ revolution occurs. Furthermore are analysed the most relevant uses of the honey as de-scribed by written sources and the implications of bees and honey in the ritual and sym-bolism of death, gender, and royalty, although the results are poor due to the poverty of the archaeological evidence and the limited attention that this topic has so far enjoyed.

    Nella quotidianità del mondo mediterraneo antico il miele ha certamente avu-to un ruolo di assoluto rilievo: in primo luogo come alimento, ma anche come sostanza dalle proprietà magiche e farmacologiche e nondimeno come vettore di significati simbolici e metaforici. In ogni ambito sua compagna naturale è la sua produttrice, l’ape, le cui peculiarità etologiche e biologiche non fanno che ac-crescerne la ricchezza semantica e vanno pertanto conosciute. La curiosità che

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    questo argomento può suscitare è scarsamente appagata dalla conoscenza che di esso singoli campi di studio possono fornirci. Se le fonti letterarie delineano un quadro piuttosto ricco dei vari aspetti della questione, è pur vero che non ci consentono che una visione parziale, da completare con i dati forniti dalle scar-se testimonianze archeologiche, la cui interpretazione è debitrice dei confronti etnografici. Si intende pertanto in questa sede proporre un’analisi delle tecniche apicole antiche, degli svariati utilizzi del miele ed infine, attraverso alcune esem-plificazioni, dei valori che api e miele assumono nella ritualità, nella rappresen-tazione del potere nonché dei loro significati simbolici.

    1. L’APICOLTURA1

    1.1 LE API: BIOLOGIA, HABITAT E CONSEGUENTE GEOGRAFIA DELLA PRODUZIONE

    Volendo reperire e analizzare le tracce materiali della produzione del miele, al fi-ne di studiarne l’influsso sulla cultura mediterranea, è assolutamente indispensa-bile individuare dove questa attività fosse praticata e in quale misura. La specie che ci interessa, poiché l’unica sfruttata per la produzione del miele nell’area studiata, è l’apis mellifera, nativa dell’Asia centro-meridionale2 con un vastissimo areale di diffu-sione che si estende, già prima della sua artificiale introduzione nel Nuovo Mondo, a tutta l’Africa, il Vicino e Medio Oriente e l’Europa con l’esclusione della Scandinavia3.

    In quanto animale sociale l’ape è parte di una comunità, detta sciame, che vi-ve all’interno di un alveare. L’alveare è il nido dell’ape, ovvero il luogo dove essa trova rifugio dalle intemperie, tiene al sicuro la prole e accumula scorte di cibo. L’alveare viene costruito in luoghi riparati, di solito chiusi e bui come cavità tra le rocce o tronchi d’albero cavi. L’oscurità sembra non essere indispensabile, tutta-via contribuisce alla conservazione delle scorte di miele4 e alla tenuta della cera.

    1. Riguardo ai materiali archeologici legati all’apicoltura sono fondamentali i recenti lavori di Raffaella Bortolin, nei confronti dei quali è fortemente debitrice la prima parte di questo contributo. Vd. Bortolin 2008 e Bortolin 2011

    2. Preston 2006, p.11.

    3. Per l’areale di diffusione di questa e delle altre specie di api produttrici di miele si vedano i capitoli introduttivi di Crane 1983 o Crane 2001.

    4. La luce distrugge il perossido di idrogeno contenuto nel miele, essenziale nella pro-tezione dalla decomposizione batterica del miele prima che abbia raggiunto un contenu-to in zuccheri sufficiente a svolgere la stessa funzione. Crane 1980, p. 19.

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    L’alveare all’interno è costituito da una serie di favi, ovvero dei “fogli” costituiti da celle esagonali di cera, paralleli tra loro, di solito pendenti dall’alto e di forma analoga a quella dello spazio in cui sono contenuti.

    L’apicoltura è un’attività strettamente legata agli aspetti vegetazionali quindi climatici e ambientali, pertanto è possibile individuare le aree principali di pro-duzione incrociando i dati ambientali con le informazioni fornite dalle fonti sto-riche e dal quadro attuale della produzione. La totalità delle aree citate dalle fon-ti come produttrici di miele lo sono infatti tutt’ora, a volte ancora con l’impiego di tecniche tradizionali (etnograficamente documentate anche laddove sia stata poi introdotta l’arnia a telai mobili5) e ciò consente di ipotizzare che i cambia-menti climatici non siano stati tali da pregiudicare o alterare l’attività apistica6.

    Per quanto riguarda le testimonianze archeologiche di arnie ed apiari, anch’es-se dove presenti confermano il quadro delineato. Il fatto che i ritrovamenti non siano frequenti e che riguardino soltanto alcune aree circoscritte non deve trar-re in inganno: sono giunti a noi soltanto quegli oggetti e quelle strutture che, per la durevolezza del materiale o per frutto del caso, sono riusciti a passare in-denni il distruttivo scorrere del tempo. In ogni caso la scelta di materiali non deperibili è da considerarsi eccezionale in apicoltura. Attraverso le fonti lette-rarie, epigrafiche e toponomastiche è possibile distinguere alcune importanti aree di produzione7.

    In Egitto l’apicoltura è attestata almeno dal 2400 a.C.8 ed è documentata da tre rilievi9 e da iscrizioni di carattere commerciale, amministrativo o giuridico. I te-sti evidenziano la grande importanza di questa sostanza negli ambiti economi-co, medico e cultuale10. Nella titolatura faraonica è inoltre presente un geroglifi-co che ricorre in innumerevoli casi su monumenti dell’Egitto dinastico dal 3000 a.C al 350 a.C. circa: è l’ape simbolo del Basso Egitto11. Per quanto attiene invece al periodo tolemaico le testimonianze papiracee ci offrono la più grande docu-

    5. Bortolin 2008, pp. 82-86.

    6. Bortolin 2008, p. 39.

    7. Raffaella Bortolin distingue otto macro-aree di produzione: Egitto, Grecia e Mare Egeo, Asia Minore e Mediterraneo orientale, Nord Africa, Spagna, Sicilia e Malta, Penisola italica e Isole tirreniche, Germania e Norico. Si veda: Bortolin 2008, pp.40-48.

    8. Da un bassorilievo del tempio solare di Niuserra, Abu Ghorab cfr. Crane 1983, p. 36

    9. Kueny 1950.

    10. Si veda a tale proposito Zecchi 1997.

    11. L’utilizzo dell’ape come simbolo regale implica tra l’altro una conoscenza della vita dell’alveare ottenibile soltanto con la pratica dell’apicoltura. Crane 1983, p. 43.

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    mentazione testuale per quest’area (in età romana e bizantina la documentazio-ne diminuisce di nuovo) dandoci un’idea dell’organizzazione della produzione e della legislazione a riguardo12.

    Famosa per qualità e quantità di miele prodotto è la Grecia, ed in particolare l’Attica con il suo pregiatissimo e proverbiale miele di timo dell’Imetto13. Un al-tro miele famoso era quello dell’isola di Kalymnos14 nelle vicinanze di Kos15. Da un passo di Columella16 ricaviamo la notizia che la pratica apicola fosse diffusa anche in Acaia, donde poi gli sciami erano trasportati in Attica. Stessa cosa avve-niva nell’Eubea e nelle Cicladi con destinazione Sciro. La motivazione di questi spostamenti è da ricercarsi nel fatto che le isole a queste latitudini (quindi non soltanto quelle greche ma anche Malta, di cui si parlerà più avanti), sono intera-mente ricoperte di fiori in primavera ma sono caratterizzate da un aspetto arido e brullo d’estate, privo di fioriture significative. Le isole di maggiore estensione e varietà morfologica godono di una varietà climatica e vegetazionale superiore e perciò non necessitano dei metodi di apicoltura nomade; ne sono, caso mai, de-stinatari. Cipro, Creta17 e Rodi18 sono un esempio. Non stupisce quindi che l’area egea abbia più delle altre fornito riscontri archeologici di attività apicola con al-cuni ritrovamenti di arnie in terracotta e con l’importante caso della fattoria di Vari19 nella zona dell’Imetto.

    Strabone ci informa che il miele ispanico, di buona qualità20, e in particolare quello della Turdetania, era tra le materie prime esportate21 anche verso la peni-sola italica. Il rinvenimento, in Editania, di svariati siti di età pre-romana con un

    12. Bortolin 2008, p. 41.

    13. Del quale si ha una straordinaria quantità di citazioni: Colvm. 9,14,19; Ov. Ars. 2,517; Petron. 38,3; Mart. 5,37,10; 9,11,3; Gp, 15,7,1; Plin. Nat. Hist.. 11,13,32; Pavs. 1,32,1.

    14. Ci sono numerose prove che la città di Theangela, presso Alicarnasso, fosse un im-portante centro di produzione del miele tra cui l’attestazione epigrafica del “trattato di Theangela” ed un’ansa bollata rinvenuta nei pressi di Alessandria: Bortolin 2008, p. 44 s. Si noti anche la prossimità geografica della costa caria all’isola di Kalymnos.

    15. Particolarmente celebre, vantava un miele che poteva rivaleggiare con quello dell’Imetto o dell’Ibla. Si veda: Plin. Nat. Hist. 11,13,32; Gp. 15,7,1 e Str. 10,5,19.

    16. Colvm. 9,14,19.

    17. Creta e Cipro sono citate insieme ad altri luoghi in Plin. Nat. Hist. 11,14,33 per l’ab-bondante produzione, mentre in Gp. 15,7,1 per la qualità.

    18. Chouliara Raios 1989, p. 81.

    19. Jones - Graham - Sackett 1973, pp. 355-443.

    20. Petron. 66,3.

    21. Str. 3,2,6.

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    alto numero di arnie rende probabile una pratica apicola di notevole entità già prima dell’ingresso di questa regione nel sistema economico romano22.

    Paragonabile al miele dell’Imetto per qualità e fama era il miele di timo di Ibla23. Più in generale in Sicilia si è sviluppata una tradizione apicola che non ha subito interruzioni fino all’età contemporanea. Anche Malta ha una lunga e ininterrotta tradizione apistica che ci è attestata dalla toponomastica, dalle fonti scritte e da quelle archeologiche. Per quanto concerne la toponomasti-ca, si hanno nomi che fanno riferimento alle api e al miele, come il nome greco dell’isola, Melita e i numerosi toponimi di origine araba attestati soprattutto nella parte settentrionale dell’isola24, zona poco popolata prima del XVII seco-lo. Proprio in questa zona, a Imgiebaħ (la cui traduzione è apiario), sono stati individuati tre apiari rupestri, forse di età punica. Sempre in quest’area, signi-ficativamente vicino alla villa di San Pawl Milqi, si trova Wied El Aafel, che si-gnifica eloquentemente “torrente del miele”25. Il nome di una cittadina vicina, Mellieħa, non sarebbe invece attinente in quanto derivante da una radice se-mitica significante il sale26.

    All’interno delle macro-aree di produzione del miele ci sono poi dei criteri per individuare siti di possibile (se non probabile) attività apistica, criteri non solo derivati dalla pratica attuale ma anche facilmente rintracciabili nelle fonti scritte, romane nello specifico, dato che della trattatistica agronomica in lin-gua greca poco ci è pervenuto27. Le fonti principali sul tema sono notoriamen-te Varrone28, Columella29, Plinio30 e, seppur all’interno del contesto poetico,

    22. Bortolin 2008, p. 46.

    23. Varro Rust. 3,16,13-14; Plin. Nat. Hist. 11,13,32; Mart. 13,105 e Gp. 15,7,1.

    24. In quest’area vi è una delle maggiori concentrazioni di ville rinvenute. Cfr. Bru-no 2004, p. 43.

    25. Ivi, p. 65.

    26. Da http://www.mellieha.com/about_mellieha.htm. Nonostante ciò non posso pe-rò fare a meno di ritenere quanto meno suggestiva l’assonanza di questo toponimo con il termine greco mèli.

    27. A riguardo possediamo solo gli scritti di Aristotele e i Geoponica bizantini. Plinio ricorda Filisco di Taso e Aristomaco di Soli per aver dedicato la loro vita all’apicoltura e averne scritto, purtroppo dei loro scritti nulla ci rimane. Cfr. Plinio. Nat. Hist. 11,9,19.

    28. Varro Rust. 3,16,15.

    29. Colvm. 9,5,1-2; 9,5,3 e 9,5,5.

    30. Plin. Nat. Hist. 21,47,80.

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    Virgilio31. Pur nella genericità delle considerazioni32 questi autori illustrano concordemente un identico paesaggio ideale per l’allevamento delle api. So-no prescritti luoghi ampi, asciutti e ventilati ma riparati da pioggia e vento33. È bene che le arnie siano collocate in zone isolate da altri animali e dall’uomo, che ci siano abbondanti piante bottinabili nel raggio di 1-2 km e disponibili-tà d’acqua nelle immediate vicinanze. L’ambiente ideale sembrerebbe quindi identificarsi in una valle fluviale isolata ricca di prati naturali o di alberi da frutto. Vanno poi predilette quelle località che presentano più di una fioritu-ra all’anno affinché la sopravvivenza della colonia sia assicurata e il raccolto di miele sia superiore in quantità. Per aumentare la produzione approfittando delle fioriture successive un metodo correntemente usato è quello dell’apicol-tura nomade, ovvero il trasporto degli alveari di località in località seguendo i ritmi delle varie flore a seconda dell’ambiente e dell’altitudine. Questo siste-ma è attestato in antico da un passo di Columella34, da un papiro greco di età ellenistica35 e da Plinio che narra, definendolo un fatto straordinario36, del tra-sporto delle arnie su chiatte lungo il Po nell’ager veronese37 e dell’impiego di muli al medesimo fine in Spagna38.

    1.2 LA PRODUZIONE E LA RACCOLTA DEL MIELE: ARNIE, APIARI, UTENSILI

    Il miele è prodotto a partire dalle sostanze zuccherine che l’ape rinviene in natura, perlopiù nettare e melata39. Una colonia normalmente comincia a bot-tinare le fonti nettarifere più vicine, allargando a mano a mano che si esauri-

    31. Verg. Georg. 4,8-12 e 4,18-24.

    32. Sul carattere di letteratura di erudizione della trattatistica agronomica latina cfr. Marcone 1997, p. 17.

    33. Per un esempio contemporaneo di orientamento delle arnie a seconda dei venti prevalenti cfr. Crane 1983, p. 41.

    34. Colvm. 9,14,19.

    35. P. Cair. Zen. 59520,10 (da Bortolin 2008).

    36. Il termine usato è mirum, non mi sento di escludere nessuna delle varie accezio-ni del termine.

    37. Plin. Nat. Hist. 21,43,73.

    38. Ivi 21,43,74.

    39. La melata è la secrezione zuccherina (di scarto) di alcuni insetti che si nutrono della linfa degli alberi.

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    scono il raggio d’azione e spingendosi oltre per bottinare specie non presenti nelle vicinanze (fino a tre chilometri di distanza)40. L’ape è partecipe di coevo-luzione con le specie vegetali del suo vasto areale di diffusione e risulta esse-re uno dei principali animali impollinatori41, addirittura indispensabile per la sopravvivenza di alcune specie. Raggiunta la fonte, l’ape succhia la maggior quantità possibile di nettare e la immagazzina nell’ingluvie, dove cominciano i primi processi chimici di idrolisi del saccarosio in fruttosio e glucosio. Du-rante l’operazione un gran numero di granuli pollinici rimangono intrappo-lati tra le setole che ricoprono il corpo dell’ape, questi, oltre ad essere raccolti dall’insetto e destinati alla sua alimentazione, finiscono inevitabilmente per impollinare gli stigmi di altri fiori. Tornata all’alveare l’ape bottinatrice passa il carico a giovani operaie per trofallassi42. Queste poi lavoreranno il nettare introducendovi enzimi e riducendone il tasso di umidità. Il nettare così tra-sformato finisce la sua trasformazione in miele all’interno delle celle dove gli enzimi hanno il tempo di agire e il grado di umidità scende ancora grazie al calore43 e alla ventilazione prodotta dalle api stesse, che a tale proposito sven-tagliano le ali44. Una volta riempita una cella le operaie addette alla produzio-ne della cera procedono all’opercolatura.

    Per quanto riguarda le modalità di sfruttamento da parte dell’uomo bisogna innanzitutto distinguere tra attività di tipo predatorio e produttivo. La raccolta del miele “selvatico”, ovvero la predazione degli alveari presenti in natura, pre-cede ovviamente la pratica apicola. Le prime attestazione sicure della raccolta del miele sono le pitture rupestri del levante spagnolo. La prima ad essere indi-viduata nonché la più famosa è situata nella “Cueva de la Araña” presso Bicorp,

    40. Sulle modalità di ricerca delle fonti nettarifere si veda Crane 1980, pp. 7-14.

    41. L’impollinazione è il meccanismo con cui il polline o microspora passa dalla par-te maschile a quella femminile dell’apparato riproduttivo di uno o più esemplari della stessa specie appartenente alle divisioni angiosperme o gimnosperme. A seconda della specie o del caso il mezzo attraverso il quale questo avviene può essere il vento, l’acqua, o un animale (principalmente insetti, uccelli e pipistrelli, più raramente altre specie di mammiferi o molluschi).

    42. L’ingluvie è detto anche stomaco sociale in quanto consente il trasferimento di cibo da un insetto all’altro (trofallassi), integrando elementi di socialità. La nutrizione per trofallassi è tipica degli insetti sociali ed alcune caste possono alimentarsi soltanto in questo modo, ne è un esempio l’ape regina.

    43. La temperatura è quella ideale per aumentare la concentrazione di zuccheri otte-nendo una soluzione supersatura con solo il 18% di acqua. Crane 1980, p. 18.

    44. Le operazioni di trasformazione del nettare in miele compiute all’interno dell’al-veare sono descritte in Crane 1980, pp. 15-19.

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    nella provincia di Valencia45. Di datazione controversa ma sicuramente postgla-ciale46 (Fig. 1), rappresenta due figure umane che si arrampicano su delle funi per raggiungere un alveare situato in una cavità rocciosa identificabile per via delle numerose api che vi girano intorno47. Al Mesolitico e al Neolitico risalgo-no anche le altre pitture rupestri spagnole interpretate come scene di “caccia al miele” mentre non ci sono dati certi per il Paleolitico. È stato ipotizzato che alcune pitture all’interno delle grotte di Altamira, quindi databili al Paleolitico tra il 18.000 a.C. e l’11.000 a.C., possano essere associate alle api e alla raccolta del miele48. Le scene non sono affatto esplicite e rappresentano motivi a forma di scala e alcuni motivi simili ai formling del sud dell’Africa49: non essendoci né

    45. Crane 2001, p. 19 s.

    46. Bortolin 2008, p. 57.

    47. Questa modalità di caccia è simile a quella dei Gurung del Nepal, che calano scale di corda dalla sommità di falesie alte centinaia di metri. Vd. Crane 1983, p. 30.

    48. Crane 2001.

    49. I formling sono motivi compositi di linee curve, di forme variabili riducibili ap-prossimativamente ad alcune di quelle della geometria euclidea (ellissoidale, circolare, etc.). Sono presenti soprattutto nell’arte rupestre San di Zimbabwe e Sud Africa. Per una descrizione accurata delle varie forme si veda: Mguni 2005, p. 38.

    Figure 1 - Scena di raccolta del miele nelle pitture rupestri della Cueva de la Araña. Da http://www.abejas.org/noticias/2011/histor1.jpg.

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    figure umane né api, ed essendo la diffusione delle rappresentazioni apistiche altrimenti coerente con i cambiamenti climatici all’ingresso nell’Olocene, sem-bra lecito dubitare di questa ipotesi, tanto più che l’interpretazione dei formling come alveari è controversa50.

    La predazione del miele può avvenire in modo rudimentale infilando un ba-stone direttamente nel nido, ricavando così una piccola quantità di miele per uso personale, oppure allargando il buco di ingresso ed estraendo i favi. L’uso di entrambi questi metodi è stato osservato negli scimpanzé51, pertanto non richiede capacità cognitive o tecnologiche tali da impedirci di pensare che sia-no stati praticati in ogni momento della storia del genere homo, ogni qualvolta esso abbia condiviso l’habitat di una qualsiasi specie di ape produttrice di mie-le; eventuali eccezioni dovranno essere imputate a fattori culturali. Le uniche possibili rappresentazioni iconografiche della raccolta di miele selvatico in età storica vengono invece da un’anfora attica a figure nere proveniente da Vulci (540 a.C.), in cui quattro uomini sono ritratti interamente nudi mentre scac-ciano le api con dei ramoscelli al fine di sottrarre loro il miele (il cacciatore più a destra ha un favo in mano) e da un’anfora attica a figure nere di soggetto analogo attribuita allo “Swing Painter” e perciò ascrivibile al terzo quarto del VI secolo a.C.52. Si è abbastanza certi di questa interpretazione anche se non si può escludere che rappresentino l’inarniamento di uno sciame selvatico53. Al-trettanto grave incertezza si ha sulla quota cronologica in cui l’apicoltura fece i suoi esordi.

    Pare ovvio inquadrare l’apicoltura tra le attività di allevamento e certamente dal punto di vista formale è così. Tuttavia vi sono alcune importanti questioni da definire. L’apicoltura detiene uno statuto ambiguo poiché l’ape:• Non viene allevata per essere mangiata o per ottenere un prodotto secreto dal

    suo corpo (come il latte o la seta).• È tra i pochi animali a svolgere un lavoro di tipo “artigianale” trasformando il

    nettare in miele.• È indissolubilmente legata ai cicli di fioritura della flora che bottina e que-

    sto, insieme alle modalità di raccolta del miele, rende l’apicoltura simile

    50. Per le ragioni a favore dell’identificazione come alveari si veda Crane 2001, pp. 37-43, mentre per una rassegna delle varie interpretazioni e per quella come nidi di termiti si veda Mguni 2005.

    51. Crane 2001, p. 8.

    52. Giuman 2008, p. 139. L’anfora si trova nelle collezioni dell’Antikenmuseum di Ba-silea.

    53. Bortolin 2008, p. 58.

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    all’agricoltura. Ciò è alla base di tutta la terminologia antica riguardante la raccolta54.

    • Rimane, almeno fino alle più recenti scoperte tecniche e scientifiche55, un ani-male non domestico: la specie allevata è la stessa presente in natura e il fatto di costruire il proprio alveare in un’arnia artificiale è per lei assolutamente incidentale.Le cause di questa particolarità vanno ricercate principalmente nella natura

    di insetto sociale dell’ape. Ciò che qui preme sottolineare è il fatto che per sua stessa natura l’apicoltura rimane fino in tempi recenti in quello stadio transi-zionale tra la caccia e la produzione (proto-agricoltura, proto-allevamento) che doveva essere proprio del periodo di transizione tra Mesolitico e Neolitico56. Possiamo quindi ipotizzare che la nascita dell’apicoltura sia concomitante o suc-cessiva a questa fase o almeno che, come concordemente si ritiene per quanto attiene alle altre forme produttive, la stanzialità ne sia un prerequisito neces-sario. L’apicoltura nomade è invece un fatto successivo ed affine ai fenomeni di alpeggio e transumanza.

    In apicoltura viene utilizzata una vasta gamma di strumenti e soluzioni tec-niche che variano per motivi materiali e culturali a seconda dell’area geogra-fica e dell’epoca considerata. Il comune denominatore della pratica apicola di ogni tempo e luogo è l’arnia. Essa riveste pertanto, tra i resti di cultura mate-riale, un ruolo di assoluto rilievo tra gli indicatori della pratica effettiva dell’a-picoltura. Con arnia si intende un qualunque manufatto replichi le condizioni indispensabili per la vita di un alveare. In latino i due termini coincidono ed al-veare pare derivare da alveus (vaso di legno)57. Arnia è una definizione generica che comprende al suo interno una grande varietà di forme e materiali per cui corrispondono diversi accorgimenti e tecniche se non addirittura modi diffe-renti di intendere l’apicoltura stessa. Le condizioni ideali o quantomeno accet-tabili per la vita di un alveare in natura si trovano all’interno di alberi cavi e di cavità rocciose con preferenza dei primi soprattutto nelle regioni caratterizza-te da clima rigido, per banali motivi di isolamento termico. Le stesse vanno ri-cercate nella scelta del materiale da costruzione impiegato per la realizzazione

    54. Giuman 2008, p. 72. La raccolta è definita in antico indifferentemente come ca-stratio, vindemia o messis.

    55. Vannier 2002, p. 26.

    56. Sulla domesticazione delle varie specie si veda: Brothwell - Brothwell 1969, pp. 35-50.

    57. Da DELI – Dizionario Etimologico della Lingua Italiana, a cura di M. Cortelazzo e M.A. Cortelazzo, Bologna 2008.

  • 17API E MIELE NEL MEDITERRANEO ANTICO

    di un’arnia. Dalla tradizione letteraria (soprattutto agronomica) romana pos-siamo estrarre una lista dei materiali usati, la quale può essere integrata con le notizie da fonti iconografiche e dai confronti tra materiale archeologico ed esperienza etnografica.

    Vimini intrecciati Columella, Plinio, Varrone, Virgilio, Ovidio58.

    Assi di legno Columella.

    Ferula Columella, Plinio, Varrone, confronti con i vasceddi siciliani in uso in tempi recenti59.

    Letame Columella.

    Argilla60 Columella, Varrone, rappresentazioni nei contesti tombali egiziani citati in precedenza, resti archeologici di cui si tratterà parlando delle tipologie.

    Mattone Columella.

    Pietra Omero61, confronti con le arnie di pietra sull’isola di Brač in Dalmazia62.

    Varrone, Columella e Plinio tracciano ognuno una sorta di classifica dei mate-riali migliori, forse influenzandosi a vicenda. Emerge chiaramente come la pre-ferenza cada sulla corteccia, in particolare quella delle piante ricche di sughero (come il Quercus Suber). Vengono poi le arnie intrecciate di vimini (in particolare di salice) o di ferula, ricoperte di letame per migliorarne le qualità isolanti (per lo stesso motivo Plinio consiglia di ricoprirle di paglia durante l’inverno). Accetta-bili sono anche le arnie costruite con assi di legno o scavate all’interno di tronchi, dato che riproducono le stesse condizioni dell’alveare selvatico. Universalmente disprezzate sono invece le arnie fictiles, quod et frigore hieme et aestate calore vehe-

    58. Ov. Rem. 185 s.

    59. Bortolin 2008, p. 84.

    60. Il termine latino usato è fictilis. Si è portati a interpretarlo come argilla e non ter-racotta perché non vi sono tracce archeologiche di arnie romane. Tuttavia nelle fonti l’arnia di argilla, che sia cotta oppure no, è deprecata. Ciò potrebbe indicare tanto la co-noscenza dell’uso di arnie in terracotta in area egea quanto un reale sporadico utilizzo di arnie in argilla cruda o fango che sono d’altronde testimoniate etnograficamente in Egitto ed archeologicamente in Israele.

    61. Hom. Od. 13,105 s.

    62. Crane 1983, pp. 196-200.

  • 18 Matteo Bormetti

    mentissime haec commoventur63. Columella è l’unico a parlarci di arnie in letame e in mattone, citando però Celso. Come il suo illustre predecessore, verso il quale esprime deferente ossequio, condanna le prime perché facilmente infiammabili mentre dissente sulla bontà delle seconde, che ritiene contrarie alle esigenze di api e apicoltori per la scarsa mobilità, suggerendo invece di realizzare una strut-tura protettiva con essi, per mantenere gli stessi effetti di sicurezza dalle fiamme e dai ladri. L’affermazione di Plinio sulla diffusione di arnie in “pietra speculare”, per poter osservare il lavoro delle api all’interno, è di difficile interpretazione e necessita di un approfondimento. Il termine usato poteva indicare diversi mate-riali, come mica64, alabastro o più probabilmente selenite, una varietà di gesso che si deposita a strati trasparenti. Questi materiali erano usati per le finestre in età antica prima dell’invenzione di soluzioni tecniche adatte all’impiego del vetro. Di questa particolare pietra Plinio parla diffusamente nella sezione mineralogi-ca della sua opera, indicandone i luoghi di estrazione65. Il suo uso deve ritenersi comunque eccezionale.

    Nella classificazione delle arnie66 i criteri utilizzabili sono quelli della forma e dello sviluppo in senso orizzontale o verticale. Un’ulteriore discriminante tipo-logica è l’adozione della tecnica a “favi fissi” o di quella a “favi mobili”, verrà in seguito trattata la controversia sull’esistenza della seconda nel mondo antico. È bene notare che, qualunque sia il criterio adottato, si tratta di categorie moder-ne, assenti nelle fonti antiche che distinguevano soltanto in ragione del materiale impiegato, un criterio tutto sommato sufficiente vista l’influenza delle proprietà fisiche delle materie prime sulle possibilità costruttive.

    L’arnia orizzontale si caratterizza per un corpo sviluppato in senso longitudi-nale, di forma variabile a seconda del contesto storico-culturale e del materia-le, ma in ogni caso con favi fissi attaccati generalmente alla parte superiore ed asportabili da aperture corrispondenti ad uno o entrambi i lati corti. Le forma è pressoché cilindrica, “a tubo” per gli esemplari in terracotta o argilla cruda. Le arnie in materiale organico sono invece più facilmente conformabili come parallelepipedi ed è pertanto in questa forma che si presentano nella maggior parte delle situazioni di apicoltura tradizionale in epoca contemporanea. I dati archeologici purtroppo sono limitati ad un buon numero di arnie in terracotta

    63. Varro Rust. 3,16,17.

    64. Bortolin 2008, p. 64.

    65. Plin. Nat. Hist. 36,45,160-162.

    66. Per una rassegna dei tentativi di classificazione tipologica di questi materiali si veda Bortolin 2008, p. 61 s.

  • 19API E MIELE NEL MEDITERRANEO ANTICO

    rinvenute in Grecia appartenenti ad un vasto arco cronologico che spazia dall’e-tà classica a quella tardo bizantina, alle arnie spagnole prodotte tra il III ed il I sec. a.C. e a quelle del sito di Tel Rehov in Israele. Le arnie greche (Fig. 2), rea-lizzate in terracotta, presentano una lunghezza doppia o superiore di un terzo all’altezza ed uno o entrambi i lati corti aperti a formare imboccature con orlo estroflesso ed ispessito67. Le pareti interne recano linee solcate ottenute in va-rio modo (con un pettine per esempio) prima della cottura e distribuite in pat-tern variabili. Queste linee, limitate alla porzione di arnia destinata a fungere da soffitto, avevano la funzione di favorire l’aderenza dei favi e sono definite com-bing68. Questo espediente tecnico, che la tradizione greca ha conservato soltanto a Creta, è confrontabile con quello di funzione analoga osservato negli alleva-menti di apis cerana in Kashmir69.

    L’arnia poteva essere ampliata tramite l’utilizzo di estensori, che negli esem-plari in terracotta consistono in anelli dello stesso diametro dell’arnia, ma con

    67. Bortolin 2008, p. 69.

    68. Crane 1983, p. 47.

    69. Ivi, p. 48.

    Figure 2 - Arnie orizzontali in terracotta: un esemplare tardo romano (1) da Isthmia ed esemplari ellenistici da Trachones, Attica, con e senza anello estensore. Da Anderson Stojanovic, Jones 2002, p. 347.

  • 20 Matteo Bormetti

    entrambe le imboccature leggermente ingrossate ed esoverse. Gli estensori pre-sentano linee solcate su tutta la superficie interna, probabilmente per facilitarne la delicata operazione di posizionamento su di un’arnia popolata70. R. Bortolin non esclude che siano in realtà la semplice conseguenza della lavorazione a tornio71, ma non sembrano esserci motivi per cui un’ipotesi debba escludere l’altra. L’arnia era poi chiusa da coperchi circolari piatti con la superficie interna liscia e quella esterna dotata di rinforzi circolari concentrici a rilievo. Vi sono poi nei coperchi due o tre fori e due protuberanze semilunate disposte simmetricamente rispet-to ad un foro centrale, utilizzati per allacciare il sistema di chiusura in corda e legno72 ed un’apertura ovale, da intendersi come foro di volo, in corrispondenza della parte di bordo che va posizionata rivolta verso il basso. L’estensore, posto tra il coperchio e il corpo dell’arnia, sfrutta la tendenza delle api ad immagazzi-nare il miele fino all’esaurimento dello spazio disponibile in vista della sciamatu-ra che è quindi impedita dall’apicoltore con la raccolta. Mentre in un’arnia sem-plice il numero dei favi raccolti è limitato a quelli immediatamente raggiungibili da una o, se presenti, da due imboccature, con l’estensore aumenta la quantità e anche la qualità del prodotto raccolto, diminuendo o eliminando la necessità di fare ricorso alla fumigazione. Plinio e Varrone accennano, relativamente ad ar-nie in materiale organico, alla possibilità di utilizzare un coperchio mobile73 con le stesse funzioni dell’estensore. Un’altra importante funzione che si desume an-che dai passi citati è quella esattamente contraria: quando una colonia è piccola o debole, ridurre le dimensioni dell’alveare ne facilita la crescita, incentivando la riproduzione e facilitando la regolazione termica. Dallo stesso passo di Plinio si ottiene poi un’altra informazione fondamentale: l’affermazione che il coperchio mobile vada posto a tergo implica l’utilizzo di arnie a doppia imboccatura oppure la pratica di costruire arnie con il foro di volo nell’estremità chiusa, mantenendo quella col coperchio come operativa. La doppia imboccatura è una soluzione tec-nica che da notevoli vantaggi garantendo una più semplice fuga della api durante la fumigazione e consentendo all’apicoltore di raccogliere i favi più “giovani”74 da entrambe le estremità. Conferma diretta che gli oggetti sin qui trattati siano arnie ci è data dal sito di Vari. Situato in Attica, nella zona dell’Imetto, è stato scavato nel 1966 dalla Scuola Britannica di Atene, che ha riportato alla luce un impianto

    70. Jones - Graham - Sackett 1973, p. 411.

    71. Bortolin 2008, p. 70.

    72. Geroulanos 1973, p. 443 s.

    73. Plin. Nat. Hist. 21,47,80 e Varro Rust. 3,16,15.

    74. Sull’importanza di garantire il ricambio dei favi si veda Colvm. 9,15,11.

  • 21API E MIELE NEL MEDITERRANEO ANTICO

    abitativo rurale di età ellenistica75 (IV-III sec. a.C.). La forte presenza di combed ware tra i materiali ceramici rinvenuti ha reso auspicabili analisi gascromatografi-che che hanno rivelato la presenza di cera, confermando le ipotesi interpretative. Non si tratta tuttavia di un caso isolato: materiale ceramico assolutamente ana-logo è stato ritrovato in vari altri siti dell’Attica e di altre parti della Grecia76. Tra le testimonianze più significative troviamo la fortezza di Giustiniano nell’Istmo di Corinto, dove sono state riconosciute per la prima volta arnie in terracotta77, il villaggio attico di Trachones78 nella zona dell’Imetto, l’Agorà di Atene79, il sito denominato “Torre della Principessa” presso Capo Sounion80, il complesso bizan-tino di Akra Sofia sul golfo Saronico81 e le isole di Keos, Creta e Cipro82.

    Da una ricerca sistematica condotta in settantotto siti spagnoli tramite ricogni-zioni di superficie e scavi83 è emersa una notevole quantità di arnie cilindriche in terracotta con doppia imboccatura, probabilmente chiuse con coperchi di mate-riale organico (forse sughero, fango o sterco). I dati raccolti hanno permesso di in-dividuare in Edeta (odierna Llíria, nella provincia di Valencia) il centro di un’area circoscritta nella quale la tradizione apicola sembra essere stata particolarmente radicata già dal III sec. a.C., con un aumento produttivo in funzione commercia-le con l’ingresso nel mercato romano nel periodo della conquista (II-I sec. a.C.).

    Le arnie più antiche ancora conservate sono quelle rinvenute in un grande apiario databile ai secoli X e IX a.C. a Tel Rehov, nella valle del Giordano. Si tratta di arnie cilindriche in argilla cruda impastata con paglia e letame, con una del-le due estremità chiusa e dotata di foro di volo mentre l’altra era aperta e dotata di un coperchio rimovibile sempre in argilla84. Le dimensioni sono le stesse per ognuno degli esemplari, con ottanta centimetri di lunghezza, quaranta centime-tri di diametro e quattro centimetri di spessore delle pareti. Importanti affinità tra questi esemplari e, da un lato quelli etnograficamente attestati in Israele ed

    75. Jones - Graham - Sackett 1973, pp. 355-443.

    76. Per una rassegna esaustiva dei rinvenimenti in area greca: Bortolin 2011, pp. 156-161.

    77. Broneer 1959, p. 337.

    78. Geroulanos 1973, p. 443 s.

    79. Sparkers - Talcott 1970, p. 217 s.

    80. Jones - Graham - Sackett 1973, pp 443-452.

    81. Gregory 1985, pp. 411-428.

    82. Bortolin 2008, pp. 75-78.

    83. Bonet Rosado - Mata Parreño 1997, pp. 36-45.

    84. Mazar - Panitz-Cohen 2007, p. 205.

  • 22 Matteo Bormetti

    Egitto85, dall’altro le rappresentazioni iconografiche di pratica apistica nell’an-tico Egitto86, evidenziano come nel Mediterraneo sud-orientale la tecnica di co-struzione e disposizione delle arnie all’interno degli apiari abbia subito variazioni minime nell’arco di quasi tremila anni.

    Per quanto riguarda le arnie a sviluppo verticale disponiamo di una quantità di dati decisamente minore. Alcune testimonianze iconografiche87 ci mostra-no oggetti che, dal contesto e dalla forma molto simile alle arnie tradizionali anglosassoni di età moderna, realizzate intrecciando la paglia (skep), rappre-sentano probabilmente delle arnie a campana in vimini intrecciati, materiale d’altronde ben attestato dalle fonti scritte. D’altro canto questo tipo di arnia presenta notevoli inconvenienti nella fase di raccolta, tanto che in Inghilterra la soluzione più comune era l’apicidio per fumigazione o annegamento88. Come abbiamo già avuto modo di vedere, Plinio consiglia l’utilizzo di coperchi mobi-li89, ma non si preoccupa di specificare per quali arnie questo espediente fosse utilizzabile. Questo mi induce a pensare che Plinio avesse in mente un unico modello di arnia o comunque che non conoscesse modelli arnie simili agli skeps. Tuttora aperta è invece la questione riguardante un altro modello di arnia ver-ticale: quello a favi mobili.

    Nel 1682 Sir George Wheler scrive A Journey into Greece in cui riporta con me-raviglia di aver visto presso il monastero di San Ciriaco sul monte Imetto un ti-po di arnia con favi mobili a cui da il nome di “arnia greca”90. Si trattava di cane-stri di vimini intrecciati con la parte più larga rivolta verso l’alto e chiusa da un coperchio rimovibile sotto al quale stavano allineate assicelle di legno a partire dalle quali le api realizzavano i favi. Arnie simili ma realizzate in argilla sono do-cumentate anche a Creta ed è probabile che le arnie in pietra dell’isola dalmata di Brač funzionassero allo stesso modo. La straordinarietà di questi esemplari sta nel fatto che tutti i favi possono essere facilmente rimossi rendendo possibile una vasta gamma di interventi di razionalizzazione della produzione in modo analo-

    85. Mazar - Panitz-Cohen 2007, pp. 214-217.

    86. Dal tempio solare di Niuserra (Abu Ghorab, 2400 a.C.), dalle tombe di Rekhmire (Luxor, 1450 a.C.) e Pabesa (Luxor, 660-525 a.C.). Cfr. Crane 1983, pp. 36-39.

    87. Un mosaico di VI sec. d.C. da Madaba in Giordania e la riproduzione grafica, set-tecentesca, di un rilievo di età romana rappresentante Cerere attualmente perduto. Si veda Bortolin 2008, p. 63 s.

    88. Crane 1983, p. 91.

    89. Plin. Nat. Hist. 21,47,80.

    90. Crane 1983, pp. 196-200.

  • 23API E MIELE NEL MEDITERRANEO ANTICO

    go alle moderne arnie a telai mobili. Nel 1955, durante la terza campagna di scavi a Isthmia91, viene alla luce nell’insediamento di Rachi un vaso in forma di kala-thos appartenente ad un contesto di fine III sec. a.C.92 con diametro massimo 38 cm, alla base 23 cm e altezza 30 cm. Il vaso, chiamato ΟΡΕΣΤΑΔΑ dal nome inciso dopo la cottura sotto l’orlo, è dotato di due prese poco sopra la metà delle pare-ti, un piccolo foro rettangolare sulla parete in prossimità del fondo e di una serie di solcature a pettine (combing) che ricoprono i 4/5 della superficie interna dalla base all’imboccatura93 (Fig. 3). Inizialmente è stato interpretato come un conte-nitore per spremere il mosto dopo la pigiatura. In seguito vari frammenti di vasi analoghi sono stati ritrovati nelle varie aree degli scavi di Isthmia ed in altri siti greci94 ed è stato supposto che si trattasse di una serie di arnie verticali a favi mo-bili. Purtroppo la campagna di analisi chimico-fisiche per individuare residui or-ganici assorbiti (gascromatografia e spettrometria di massa), che ha individuato tracce di cera in sedici casi su quarantuno, è stata eseguita soltanto su frammen-

    91. Broneer 1958, pp. 1-37.

    92. Kardara 1961, p. 263.

    93. Broneer 1958, p. 32 e Anderson Stojanovič - Jones 2002, p. 349.

    94. Alcune forme ceramiche ed un ideogramma minoici sono stati identificati anch’es-si come arnie verticali di questo tipo. Bortolin 2011, pp. 151-154.

    Figure 3 - Il vaso Orestada, esemplare delle arnie verticali in terracotta. Da Anderson Stojanovic, Jones 2002, p. 356.

  • 24 Matteo Bormetti

    ti95 di dimensione non sufficiente a distinguere l’appartenenza a questo tipo o a quello delle arnie orizzontali ugualmente presente nel sito96. E. Crane elenca una serie di ragioni contrarie all’interpretazione come arnia97:• Le fonti antiche non ne fanno menzione e anzi lamentano difficoltà nella pu-

    lizia e nutrizione delle api, difficoltà che non si incontrano nella gestione di un’arnia a favi mobili.

    • Aristotele lamenta difficoltà di osservazione della vita delle api. • Le dimensioni di questi vasi e di quello ΟΡΕΣΤΑΔΑ in particolare sono notevol-

    mente inferiori agli alveari moderni.Se nulla dalle fonti lascia supporre la conoscenza di questo tipo di arnia è però

    vero che questa tipologia, non universalmente diffusa, poteva essere ignota agli autori di cui ci sono pervenute le opere. Il vaso ΟΡΕΣΤΑΔΑ ha una capacità di circa ventidue litri, le arnie orizzontali rinvenute ad Isthmia di circa trentacinque litri98. Varrone descrive arnie in ferula di forma “quadrata99” larga un piede, ovvero 29,6 cm100, e lunga tre. Nel caso anche l’altezza misurasse un piede (questo potrebbe es-sere il senso di “quadrata”) l’arnia descritta da Varrone raggiungerebbe la capacità di settantasette litri, simile a quella delle arnie moderne. Bisogna però dire che la ca-pacità in sé non è un parametro fondamentale in quanto molta importanza ha l’effi-cienza con cui i favi occupano lo spazio. Nuovi ritrovamenti, analisi ed un program-ma di archeologia sperimentale potrebbero chiarire definitivamente la questione.

    Gli apiari potevano consistere, come spesso ancora oggi, semplicemente in ra-dure dove venivano raggruppate le arnie di un singolo proprietario. Potevano pe-rò esistere delle strutture volte a migliorare la sicurezza e ad agevolare la raccolta. Ancora una volta è Columella a fornirci dettagliate informazioni sull’argomento. Possibilmente comunicante con la villa rustica, ma in un contesto che soddisfi le necessità delle api, l’apiario deve essere in una posizione che consenta al padro-ne di controllarlo di frequente, ma lontana da ogni fonte di cattivo odore come

    95. I pezzi più consistenti erano ormai inventariati e restaurati da tempo.

    96. Anderson Stojanovič - Jones 2002, p. 350 s.

    97. Crane 1983, p. 200 s.

    98. Mancando il dato nelle pubblicazioni ho eseguito il calcolo basandomi sulle misure medie riportate in Broneer 1958, p. 32 per il vaso ΟΡΕΣΤΑΔΑ e in Jones - Graham - Sackett 1973, p. 446 per un esempio di arnia orizzontale. I valori sono indicativi e consentono di valutare su di un dato soltanto la differenza di ordini di grandezza delle dimensioni del-le arnie descritte.

    99. Varro Rust. 3,16,15: … alii etiam ex ferulis quadratas longas pedes circiter ternos, latas pedem.

    100. . Marcone 1997, p. 14.

  • 25API E MIELE NEL MEDITERRANEO ANTICO

    le cucine o i bagni. La frequenza dei controlli è consigliata come rimedio alla te-muta pigrizia dei servi, che non manterrebbero gli standard adeguati di pulizia delle arnie, nonché alla loro possibile fraudolenza101. Per proteggere gli apiari da-gli incendi, dai furti umani e da quelli animali va poi eretto un muro non ecces-sivamente alto o, se per sicurezza lo si vuole più alto, si pratichino almeno delle aperture a tre piedi da terra per consentire il passaggio delle api. Va poi costruita nei pressi una capanna per gli attrezzi e per ospitare eventuali guardiani102. Ne-cessitando le api di acqua pulita per tutte le esigenze dell’alveare, occorre che si facciano passare attraverso l’apiario dei canali dove scorra acqua corrente, pre-feribilmente sorgiva ma all’occorrenza anche di pozzo103. Ulteriori accorgimenti consistono nel munire i canali di argini di rami o pietre per la comodità delle api, di piantare nei dintorni arbusti che abbiamo proprietà benefiche sulla loro salu-te e di evitare nella scelta del luogo dove porre l’apiario la presenza di fenomeni di eco che le disturberebbero104. Questa dettagliata descrizione fornisce delle basi essenziali per l’identificazione di eventuali apiari all’interno di siti archeologici a carattere rurale. I tentativi di identificazione fatti finora non sono in realtà mol-ti e comprendono, oltre ai già ricordati apiari maltesi, il sito preromano di Pun-tal dels Lops nella regione di Valencia, riconosciuto come fattoria con apiari105, e alcune serie di nicchie rupestri rinvenute a Soriano del Cimino in provincia di Viterbo106. Questi ultimi sembrano confrontabili con gli apiari di epoca moderna ancora visibili nelle Isole Britanniche107. Vi è poi la possibilità che alcune struttu-re di diversa epoca identificate come colombaie siano in realtà degli apiari o che, come attestato in vario modo a partire dal XV secolo d.C.108, prevedano la coesi-stenza di entrambe le attività109. Lo scarso numero di apiari ritrovati presenta un

    101. Colvm. 9,5,1-2.

    102. Ivi 9,5,3.

    103. Ivi 9,5,5.

    104. Ivi 9,5,6.

    105. Bonet Rosado - Mata Parreño 1997, p. 41.

    106. Scardozzi 2004, p. 98 s.

    107. Per un esaustivo quadro sugli apiari britannici cfr. Crane 1983, pp. 117-191.

    108. Quattro i casi conosciuti per il XIX secolo ma esistono testimonianze iconogra-fiche dei due tipi di allevamento affiancati e trattati che ne parlano consequenzialmen-te. Cfr. Roussel 2000.

    109. Attività che d’altro canto Varrone associa nella categoria di allevamento villati-cum, comprendente anche quello del pollame e contrapposto a quello agreste dei pecuaria, ovvero gli armenti. Si veda Varro Rust. 3,2,13.

  • 26 Matteo Bormetti

    problema affine a quello delle arnie: molti sono stati realizzati in materiale depe-ribile mentre anche quelli in laterizio possono non essere sopravvissuti per via delle spoliazioni110. Alla consunzione da parte del tempo sarebbe stato destinato anche l’apiario di Tel Rehov senonché, come per ironia della sorte spesso accade, l’incendio che ha posto fine alla sua vita ne ha favorito la conservazione cuocendo in parte strutture ed arnie in argilla. Nel corso degli scavi diretti da Amihai Mazar dell’Università Ebraica di Gerusalemme, sono state rinvenute nel 2005 le prime arnie del tipo descritto precedentemente. Il proseguire delle attività di scavo ha rivelato un complesso di notevoli dimensioni comprendente almeno un centina-io111 di arnie disposte su tre filari paralleli racchiusi ai lati da muri, impilate una sopra l’altra su tre file (Fig. 4). La straordinarietà della scoperta è ulteriormente accresciuta dal fatto che l’apiario si trovasse in connessione ad un area cultuale dotata di altare e nel mezzo di una zona intensamente urbanizzata112.

    110. Crane 1999, p. 319 s.

    111. Probabilmente di più; stime basate su evidenze negative arrivano fino a centoot-tanta esemplari. Si veda Mazar - Panitz-Cohen 2007, p. 207.

    112. Mazar - Panitz-Cohen 2007, p. 210.

    Figure 4 - Ricostruzione prospettica dell’apiario di Tel Rehov. Da Mazar, Panitz-Cohen 2007, p. 207.

  • 27API E MIELE NEL MEDITERRANEO ANTICO

    Lo scopo ultimo dell’apicoltura è ovviamente la raccolta dei favi per ricavarne cera e miele. A seconda dei climi e delle tradizioni questa avviene un determinato numero di volte l’anno, di solito almeno due, possibilmente in concomitanza con determinati eventi astronomici, a volte intesi come semplici coordinate calen-dariali, a volte percepiti come influenti sull’abbondanza del raccolto. La raccolta viene definita dagli autori antichi in vario modo, alcuni esempi sono μελίτωσις e τρυγᾶν μέλι in greco113 e mellatio114, mellis vindemia115, e castratio alvorum116 in la-tino. La prima fase del processo, interamente descritto da Columella117, consiste nell’estrazione dei favi. Operazione preliminare necessaria è la fumigazione, che avviene introducendo del fumo dalla parte posteriore dell’arnia. Il fumo era ot-tenuto bruciando letame secco o galbanum118 in un “affumicatore” che ci viene descritto come un vaso ansato simile ad un olla stretta ma con una parte allun-gata dalla quale emana il fumo attraverso un buco e un’altra dove l’imboccatura si allarga in modo che vi si possa soffiare dentro. L’unico esemplare antico che sembra corrispondere a queste caratteristiche è stato rinvenuto nella villa roma-na di Peymeinade, nelle Alpi Marittime francesi, benché al posto dell’imboccatu-ra più larga presenti una parete con cinque fori119. Tra gli affumicatori utilizzati nel XVIII sec. d.C. vi è invece un esemplare che ricalca fedelmente la descrizione, mentre affumicatori in terracotta di forma completamente diversa sono ancora oggi utilizzati nel Maghreb120 . Data la scarsità delle testimonianze archeologiche sembra assai probabile che venissero utilizzati, nella maggior parte dei casi, dei semplici bracieri121 o delle fiaccole. La fumigazione è percepita dalle api alla stre-

    113. Gp. 15,5,1.

    114. Colvm. 11,2,50 e Plin. Nat. Hist. 11,15,40.

    115. Colvm. 9,15,1.

    116. Colvm. 11,2,50.

    117. Colvm. 9,15.

    118. In Bortolin 2008 p. 92 è tradotto con malva selvatica. Trovo più sensato tradurre con “galbano” nome volgare della ferula gummosa, derivato direttamente dal latino. Questa pianta d’altronde è utilizzata sin dall’antichità in cosmetica e medicina per le sue proprietà terapeutiche e per il suo profumo particolare, il che potrebbe essere stato ritenuto vantag-gioso per la salute delle api. Le piante del genere ferula poi, hanno un fusto che da secco si presta molto bene come combustibile tanto da essere impiegato per la realizzazione di tor-ce e da essere il mezzo con il quale Prometeo avrebbe trasportato il fuoco (Hyg. Fab. 144).

    119. Bortolin 2008, p. 92.

    120. Crane 1999, p. 342.

    121. Nella pittura della tomba di Rekhmire uno dei due uomini impegnati nell’estra-zione dei favi sembra reggerne uno.

  • 28 Matteo Bormetti

    gua dell’incendio dell’alveare e ciò le induce a fuggire, non prima di aver ingurgi-tato tutto il miele possibile. Con l’ingluvie melaria piena il pungiglione non può più essere utilizzato e le api rimaste nei dintorni dell’arnia sono quindi inoffensive per l’apicoltore122. A questo punto i favi possono essere recisi facendo attenzione a prendere solo quelli privi di covata e a lasciare sufficienti scorte per la soprav-vivenza dell’alveare123. Gli strumenti descritti da Columella sono due coltelli della lunghezza di un piede e mezzo (44,4 cm). Uno, piatto e molto affilato da un lato, è utilizzato per tagliare i favi. L’altro, utile per le operazioni di pulizia e disoper-colatura, è oblungo, con la lama affilata da entrambi i lati e uno scalpello ricurvo ad una estremità. L’unico ritrovamento archeologico di quello che potrebbe es-sere un coltello utilizzato in apicoltura è uno strumento in ferro proveniente da La Bastida de les Alcuses, vicino a Valencia, datato al IV sec. a.C.124. I favi poi veni-vano portati in una stanza buia e chiusa affinché il miele non si alterasse e le api non entrassero per riprenderselo. Venivano quindi disopercolati e posti su di un paniere di salice o un sacco intessuto a larghe maglie con vimine sottile125, da cui il miele colava in vasi di terracotta. Questo era il miele di maggiore qualità, i favi venivano poi spremuti con le mani e forse pressati per ottenere miele via via di minore qualità. Per le operazioni di colatura e spremitura erano probabilmente utilizzati imbuti o colini. Dal sito preromano di Coímbra Barraco Ancho (V-II sec. a.C.) nella regione di Murcia in Spagna, provengono alcuni imbuti in terracotta che potrebbero aver avuto questa funzione126. Lo stesso vale per quello provenien-te da Tossal de Sant Miquel (Edeta), nella zona di Valencia127. Non ci sono inve-ce indizi concreti su quali fossero i contenitori nei quali avvenivano i processi di decantazione e schiumatura. Nelle pitture della tomba egizia di Rekhmire (1450 a.C., Fig. 5), nella scena rappresentante l’intero ciclo di lavorazione del miele, si vedono raffigurati alcuni contenitori di forma conica aperta, con imboccatura

    122. Preston 2006, p. 48.

    123. Secondo Columella se ne può lasciare una quinta parte alla prima raccolta e una terza parte alla raccolta che precede la stagione invernale, le diverse opinione di Varro-ne e Plinio sono probabilmente dovute al differente contesto ecologico da cui ognuno di essi trae le sue informazioni. Cfr. Colvm. 9,15,8, Varro Rust. 3,16,33-34 Plin. Nat. Hist. 11,14,34-35.

    124. Bonet Rosado - Mata Parreño 1997, p. 43 s.

    125. Simile a un cono rovesciato, Columella stesso afferma che si tratta dello stesso tipo di sacco che si usa per colare il vino. Si veda Colvm. 9,15,12.

    126. Bonet Rosado - Mata Parreño 1997, p. 45.

    127. Ivi, p. 44 s.

  • 29API E MIELE NEL MEDITERRANEO ANTICO

    molto larga e chiusi da contenitori dello stesso tipo128. La collocazione all’inter-no della scena rende verosimile la loro interpretazione come vasi utilizzati per l’immagazzinamento del miele, confortata dal paragone etnografico con conte-nitori del tutto simili utilizzati a tale scopo in Kashmir129.

    In un altro affresco all’interno della stessa tomba sono rappresentati dei per-sonaggi intenti al trasporto di anfore che, come le iscrizioni geroglifiche ci in-formano, contengono olio d’oliva, incenso, miele e vino mielato. Queste anfore sono tutte dello stesso tipo e presentano un’imboccatura di grandezza media, collo cilindrico, corpo ovale con la parte inferiore appuntita e manici verticali. Sono identificabili come anfore cananee130. Altre tipologie di rappresentazione iconografica difficilmente possono fornire informazioni utili in mancanza di iscrizioni. Le fonti scritte invece, soprattutto i documenti papirologici egiziani di lingua greca131, ci riportano una grande quantità di informazioni, soprattutto riguardo ai nomi di vasi impiegati per contenere e trasportare il miele132, ma an-che all’esistenza di mercanti di miele133 e alla sua importanza economica. Iden-tificazioni puntuali di materiali archeologici pertinenti avvengono soltanto in presenza di iscrizioni o di residui organici identificabili con analisi archeome-triche134. Raffaella Bortolin, utilizzando tutte le tipologie di fonti e documenti

    128. Chouliara Raios 1989, p. 27.

    129. Crane 1983, p. 37.

    130. Bortolin 2008, p. 119.

    131. Per un esame approfondito di tutte le testimonianze papirologiche greche rela-tive all’apicoltura di veda Chouliara Raios 1989.

    132. Per un’analisi completa dei vari termini attestati dalle fonti greche si veda Bor-tolin 2008, pp. 102-104. In latino vengono invece genericamente definiti vasa mellaria.

    133. Chiamati μελιτοπώλης ne I cavalieri di Aristofane (Ar. Eq. 853-854) e mellari in al-cune iscrizioni epigrafiche romane: Bortolin 2008, p. 118.

    134. Bortolin 2008, pp. 104-114; 124-133.

    Figure 5 - Il ciclo della lavorazione del miele nella pittura parietale della tomba di Rekh-mire. Da Kueny 1950, p. 85.

  • 30 Matteo Bormetti

    sopra citati identifica un gran numero di forme ceramiche in qualche modo col-legate al miele. A mio parere risulta evidente come nella maggior parte dei ca-si, tanto le forme di grandi dimensioni destinate allo stoccaggio, quanto quelle piccole per la distribuzione e la conservazione nelle case private, abbiano delle caratteristiche comuni. Solitamente infatti si tratta di giare come lo στάμνος o la sua variante più piccola σταμνίον, oppure di vasetti come urcei ed olle ansati. In generale si tratta di contenitori con un corpo rigonfio, un collo leggermente strozzato ed una bocca estroflessa e piuttosto larga. Queste caratteristiche evi-dentemente rispondono ad esigenze di tipo funzionale tant’è che sono le stesse dei moderni vasetti da miele. Non costituiscono tuttavia la regola dato che esi-genze e contesti culturali differenti hanno reso appetibili svariate altre forme tra cui vari tipi di anfora135, di κάλαθος136 e probabilmente askòs137. Sicuramente bisogna poi prendere in considerazione la questione del reimpiego di vasellame utilizzato per altre derrate alimentari ed in questo senso è significativo notare l’associazione al miele di molte forme tipiche del vino. Non vanno poi esclusi dalla ricerca i contenitori vitrei né la possibilità che per il trasporto venissero impiegati contenitori in materiale organico come otri e botti.

    2. GLI UTILIZZI ED IL SIMBOLISMO

    2.1 GLI USI NELLA QUOTIDIANITÀ

    L’utilizzo del miele a noi più familiare è sicuramente quello alimentare. Tut-tavia bisogna tenere presente che sebbene oggi costituisca un’alternativa non comune agli zuccheri raffinati, nel mondo antico era il principale dolcificante usato138. Venivano utilizzati anche sciroppi di datteri, uva e fichi che erano però considerati “mieli” (in un’accezione per antonomasia assolutamente analoga all’odierna “zuccheri”)139 di minore qualità140. Anche la canna da zucchero era conosciuta ma, importata dall’Oriente, era ritenuta una spezia rara da utilizzar-

    135. Come le sopra citate anfore cananee.

    136. È il caso dei cosiddetti “sombreros de copa”. Si veda Bonet Rosado - Mata Par-reño 1997, p. 43 s.

    137. Sparkers - Talcott 1970, p. 157.

    138. Wilkins - Hill 2006, p. 160 s.

    139. Brothwell - Brothwell 1969, p. 84.

    140. Bortolin 2008, p. 20.

  • 31API E MIELE NEL MEDITERRANEO ANTICO

    si in campo medico141. Come dolce il miele poteva essere consumato in forma di favo142 oppure costituiva un ingrediente fondamentale di torte e focacce143 ana-logamente all’uso moderno che se ne fa, in particolar modo nel Mediterraneo orientale. La dolciaria non era tuttavia l’unico ambito di utilizzo del miele, che di fatto compare nella stragrande maggioranza delle ricette descritte nel De re coquinaria di Apicio. Il palato romano apprezzava infatti la cucina agrodolce: il miele insieme a garum o aceto era utilizzato per cucinare o condire la carne, la selvaggina, il pesce, i legumi e le verdure. Tra le altre pietanze il fegato cucinato in acqua mielata e il ghiro al miele erano considerate prelibate144. Non stupisce quindi che fosse tra gli ingredienti di numerose salse e condimenti come il cu-minatum, il laseratum, l’aenogarum, e l’oxymel145. Il miele era poi impiegato tanto per la realizzazione di confetture, in particolare di cotogne146, che per la conser-vazione di frutti interi e carni, che vi venivano completamente immersi147. Un importante ruolo il prodotto delle api lo aveva anche nelle bevande alcoliche e non. La più famosa è sicuramente l’οἰνομέλι o mulsum, il vino mielato che i ro-mani preparavano coi vini più pregiati come il Falerno148. Simile, ma realizzato col mosto anziché col vino era il melitites149. Vi erano poi l’idromele, chiamato aqua mulsa inveterata se fatto fermentare o subita in caso contrario150 e il μελί-κρατον, che è nome antico dell’idromele151 (in luogo di ὑδρόμελι) ma anche una bevanda di latte e miele152.

    141. Plin. Nat. Hist. 12,32,17.

    142. Bortolin 2008, p. 22.

    143. Wilkins - Hill 2006, pp. 120-129.

    144. Sulle pietanze cucinate con il miele si veda André 1981, p. 122.

    145. Quest’ultimo utilizzato anche in medicina e forse come bevanda. André 1981, p. 175.

    146. André 1981, p. 69.

    147. André 1981, pp. 89 e 143.

    148. André 1981, pp. 166-174. Sarebbe soprattutto un vino da antipasto. Plinio riporta l’aneddoto di tale Romilio Pollione, vigoroso ultracentenario che avrebbe risposto alla curiosità di Augusto riguardo al suo eccezionale stato psicofisico con la frase intus mul-so, foris oleo. Per questo aneddoto e per l’utilizzo del mulsum in campo medico cfr. Plin. Nat. Hist. 22,53.

    149. Plin. Nat. Hist. 14,11,85.

    150. André 1981, p. 175.

    151. Ibid.

    152. Bortolin 2008, p. 24 e André 1981, p. 63.

  • 32 Matteo Bormetti

    Le proprietà medicinali del miele sono conosciute sin dall’antichità. Oggi sappia-mo che l’enzima ossidasi del glucosio presente nella sacca mellifera dell’ape inte-ragisce con il glucosio presente nel nettare a formare acido gluconico, diminuen-do il “ph” del miele e ottenendo come sottoprodotto perossido di idrogeno (acqua ossigenata). Mentre l’ambiente acido funge da batteriostatico inibendo la crescita batterica, il perossido di idrogeno, che viene rilasciato lentamente poiché inserito in una sostanza viscosa, è invece battericida in conseguenza della denaturazione chimica delle proteine. I due effetti combinati fanno del miele un ottimo antiset-tico e la sua viscosità lo rende adatto a fasciare bruciature e ferite dato che non si solidifica e quindi non strappa la pelle. Il miele è poi una soluzione supersatura ad alta osmolarità, possiede quindi un’alta capacità di disidratare batteri e cellu-le fungine. I flavonoidi presenti in grande quantità nel miele sono poi in grado di penetrare il cristallino (lente oculare)153. Queste sono solo le principali tra le pro-prietà scientificamente verificate o solo presunte che il miele possiede, e trovano diretta corrispondenza nelle fonti antiche. Per le sue proprietà curative e come dolcificante per rimedi composti di ingredienti poco appetibili154, è il più frequen-te eccipiente e rimedio della medicina egizia155 e greco-romana156. Tra gli impie-ghi più comuni vi erano i rimedi contro contusioni e ferite157 (anche provocate da animali)158, le infezioni dell’apparato respiratorio159, le malattie oftalmologiche160,

    153. Tutte le nozioni mediche riportate fino a questo punto sono tratte da Preston 2006, pp. 122-124.

    154. Troviamo numerosi rimedi in cui il miele si trova mescolato a sterco, fiele o san-gue di vari animali come il lupo, la capra o l’orso. Per esempio in Plin. Nat. Hist. 28,47,167.

    155. Poole 2001, p. 177.

    156. Il miele ricorre innumerevoli volte nel Corpus Hippocraticum, nelle opere di Celso, Plinio, Galeno e di qualunque autore abbia trattato occasionalmente di ricette mediche (per esempio in Marco Porcio Catone, De agri cultura, 127). Numerose sono le attestazioni anche nei papiri greco-romani. Cfr. Chouliara Raios 1989, pp. 146-150.

    157. Salazar 2000, p. 59.

    158. Plin. Nat. Hist. 20,13,24; 20,23,50; 20,84,230.

    159. Con fiele di orso o rafano per la tosse, con il burro per la polmonite, con il coco-mero asinino per tonsillite e affezioni della trachea. Plin. Nat. Hist. 28,53,193-195; 20,13; 20,3,8. Un composto di miele, rafano e latte rappreso è il rimedio per la tosse descritto nel papiro Berlin 3038 che, unico tra i testi medici dell’Egitto pre-tolemaico, trova corri-spondenza epigrafica in una tazza posseduta dal Museo Archeologico Nazionale di Napoli. L’iscrizione è analizzata in rapporto al papiro berlinese in Poole 2001.

    160. Per ogni genere di affezione che colpisca gli occhi, cataratta e congiuntivite in particolare. Plin. Nat. Hist. 25,91,142; 29,38; 32,14,38.

  • 33API E MIELE NEL MEDITERRANEO ANTICO

    quelle gastro-intestinali161, quelle stomatologiche162 e quelle dermatologiche163. Il miele era poi impiegato nella produzione di oli aromatici, unguenti e profumi164.

    Secondo quanto racconta Plutarco, Alessandro Magno entrando a Susa trovò panni di porpora provenienti da Hermione per il valore di cinquemila talenti, anco-ra intatti e splendidamente colorati dopo cento e novant’anni da che erano stati ivi depositati165. Plutarco spiega la straordinaria conservazione del colore con l’utiliz-zo del miele per la realizzazione della tintura di porpora. Anche Vitruvio accenna all’utilizzo del miele in processi artigianali relativi alla porpora ma non per quanto riguarda la tintura dei panni bensì l’estrazione della tinta dalla conchiglia del mu-rice, al fine di impedirne l’essiccazione dovuta alla salsedine166. Tra i siti identifi-cati come impianti artigianali per la tintura di porpora dei tessuti167 vi è quello di Rachi presso Isthmia, che abbiamo già ricordato per il rinvenimento di numerose arnie fittili, questa connessione non sembra essere casuale. Plinio poi collegava il miele (quello còrso in particolare perché troppo aspro per altri utilizzi) alla la-vorazione delle gemme: oltre a donare lucentezza alle pietre, era utilizzata per la realizzazione di cochlides, sorta di gemme artificiali di difficile identificazione168.

    2.2 GLI USI NELLE PRATICHE RITUALI

    Spesso il culto delle divinità ctonie e la pratica funebre si confondono nel co-mune e timoroso riconoscimento del potere detenuto dagli abitanti del mondo infero, a cui sono dovuti sacrifici e libagioni, per allontanarne gli influssi nefasti o per attirarne la benevolenza. Il miele è per la sua carica simbolica uno dei prin-cipali “ingredienti” di queste pratiche cultuali ma il suo apporto alla ritualità fu-neraria non si ferma qui. Per la sua vicinanza all’ambrosia, cibo dell’immortali-tà, nonché per le sue reali proprietà conservanti ha infatti rivestito un ruolo di rilievo nelle pratiche funerarie di ascendenza ellenica.

    161. Con rafano per vermi intestinali e ulcere intestinali, mescolato con melanthium e oro, applicato sull’ombelico funzionerebbe come purgante. Plin. Nat. Hist. 20,13,26; 33,25,85.

    162. Per combattere il lichen (lichen planus). Plin. Nat. Hist. 20,84,234.

    163. Plin. Nat. Hist. 23,42,85; 32,27,84.

    164. Crane 1999, p. 511; Chouliara Raios 1989, pp. 22-23; Plin. Nat. Hist. 13,2,8.

    165. Plvt. Alex. 36,2-3,686b.

    166. Vitr. 7,13,3.

    167. Kardara 1961, pp. 262-265.

    168. Plin. Nat. Hist. 37,74,194-195.

  • 34 Matteo Bormetti

    Il miele rientrava sicuramente nel banchetto funebre, data la sua importanza nell’alimentazione quotidiana, più difficile scorgerne altri utilizzi, tra questi la libagione. Il tipo di libagione più comune e noto è quello del versare vino169 ma sono note libagioni effettuate con il miele o con bevande a base di miele, olio e acqua. Il libare, a differenza dei sacrifici cruenti e di quelli dei prodotti agricoli, si caratterizza per l’irrecuperabilità, non è un pasto condiviso, bensì il riconosci-mento del potere delle divinità o delle anime dei defunti attraverso una forma di rinuncia170 che doveva servire ad ingraziarseli, μειλίσσειν per l’appunto. Il miele era anche usato come cibo di accompagno nel viaggio attraverso l’oltretomba e per conservare realmente o simbolicamente il defunto. Allo stesso modo in cui i morti “bevevano” il miele libato durante i riti è probabile che necessitassero an-che di scorte od in ogni caso si trattava ancora del privarsi, da parte dei familiari, di un bene costoso per onorare la memoria del defunto.

    È ragionevole supporre che il miele offerto al defunto fosse conservato in con-tenitori analoghi a quelli utilizzati per la sua dispensa in ambito domestico171, allo stesso modo venivano offerti favi interi. I favi potevano essere tanto dei veri e pro-pri favi di cera naturali quanto favi fittili intesi a ricoprirne il significato simbolico e forse riempiti di miele172. Purtroppo anche per i favi fittili le attestazioni archeo-logiche sono molto rare, riporto i tre casi che ho potuto censire, prelevati da con-testi cronologici e geografici distanti fra loro. Il più antico è un modellino fittile di imbarcazione con all’interno un’imitazione, parimenti fittile, di favo d’api, consi-stente in novantanove celle esagonali. L’esatta provenienza è sconosciuta ma, da confronti con altre ceramiche, sembra plausibile che sia stato rinvenuto in una tom-ba a tholos della parte centro-meridionale dell’isola di Creta, con una probabile da-tazione al MMI173. Secondo quanto riportato nel bollettino del comune di Viggiano, in alcune tombe lucane della necropoli di Catacombelle (IV secolo a.C.), nella val-le dell’Agri, sarebbero state trovate riproduzioni in terracotta di frutti (alcuni con significato funebre evidente, come il melograno), di focacce, di formaggi e infine di favi174. L’ultimo caso è una riproduzione di favo in terracotta proveniente da una

    169. Sull’ordine delle dediche durante le libagioni: Burkert 2003, p. 171.

    170. Burkert 2003, p. 173.

    171. Per questo motivo una identificazione certa a livello archeologico non è ancora avvenuta.

    172. In Davaras 1984, p. 94 si nota che un favo fittile riempito di miele non dovrebbe avere un aspetto molto differente da uno vero.

    173. Davaras 1984, pp. 55-95.

    174. Russo 2006. Questi materiali non sono stati pubblicati, rappresentazioni coro-

  • 35API E MIELE NEL MEDITERRANEO ANTICO

    tomba punica di Cartagine e conservato al Museo Nazionale di Cartagine175. Data la grande potenza e particolarità delle valenze simboliche del miele è poi ragione-vole supporre che venisse, a volte, deposto in contesti tombali dentro a recipienti dalle caratteristiche insolite od in ceramiche figurate che richiamino, attraverso le immagini, alla sua presenza. Riporto quindi due casi significativi in tale senso.

    Un esempio di recipiente che suggerisca la sua pertinenza al miele per morfolo-gia si può trovare tra i materiali provenienti dalle necropoli etrusche di età elleni-stica di IV e III secolo: si tratta di una varietà di olla stamnoide che viene definita alternativamente come olla a colletto176 (con accento sulla peculiarità morfologi-ca della forma ceramica) od ossuario a listello177 (con accento sulla funzione che essa ricopre nei contesti tombali). Il vaso (Fig. 6) presenta corpo ovale più o me-no panciuto, collo conico con un un listello impostato sopra le anse appena al di

    plastiche probabilmente confrontabili sono quelle di area metapontina descritte in Mei-rano 1996.

    175. . Vazquez Hoys 1991, p. 75. Priva di ulteriore bibliografia.

    176. Cavagnaro Vanoni 1996.

    177. Serra Ridgway 1996.

    Figure 6 - Esemplare di olla a colletto dalla tomba 83 del Fondo Scataglini di Tarquinia. Da Serra Ridgway 1996

  • 36 Matteo Bormetti

    sopra del diametro massimo e labbro verticale segnato esternamente alla base da un collarino leggermente aggettante. Il fondo è solitamente piano, le anse a ma-niglia, a bastoncello o a nastro insellato. Alcuni esemplari sono muniti di coperchi che tuttavia non sono specificamente pertinenti ma appartengono al generico ti-po dei coperchi conici grezzi. L’aspetto è insomma qualcosa che ricorda quello di due vasi infilati uno dentro l’altro178. La misura varia tra i venti e i trenta centime-tri di altezza, l’impasto, generalmente di colore crema, più o meno duro e granu-loso è semidepurato o sabbioso (mai del tutto fine o con superficie lisciata). La de-corazione consiste normalmente in fasce a vernice rosso-bruna opaca sul labbro, sull’orlo del listello e sotto le anse; spesso presenta una fascia ondulata sul collo/spalla e gocce (brevi tratti paralleli) sulle anse. Qualche esemplare appare inor-nato ma ciò potrebbe essere dovuto al cattivo stato di conservazione. Si tratta di una forma tipica dell’ager Tarquiniensis tra la fine del IV e il corso del III secolo a.C., certamente prodotto a Tarquinia stessa179 e probabilmente esportato o adottato da officine locali in varie località del versante tirrenico tra il Lazio settentrionale e Genova180. I corredi delle tombe (soprattutto pertinenti alla necropoli del Calva-rio) nelle quali è stato rinvenuto questo particolare vaso non permettono di infe-rire questioni legate al rango del defunto, essendo materiali di corredo canonici e talora oltretutto in tombe violate, da cui non possiamo trarre delucidazioni in merito all’attuazione di rituali particolari. L’unico utilizzo testimoniato (ma non provato per tutti i casi)181 è quello come ossuario e ciò depone a favore di un suo utilizzo primario in tale funzione, questione che allo stato attuale non è possibile chiarire. Una funzione primaria come vaso da dispensa182 o per particolari prati-che rituali è invece ipotizzabile sulla base della particolare sagoma, ben diversa da tutte le olle della stessa categoria (anch’esse riutilizzate come ossuario). Que-sti suoi tratti unici alludono certamente ad un contenuto od utilizzo particolare. Tralasciando il colletto, si tratta sostanzialmente di un’olla stamnoide biansata, e assomma quindi tutte le caratteristiche che abbiamo visto essere comuni nei contenitori da miele183. La funzione del listello è invece di difficile interpretazio-

    178. NSc 1920, p. 256.

    179. Ibid.

    180. Ibid.

    181. Ad esempio non per l’esemplare della tomba T5512 della necropoli del Calvario, la quale però risulta violata.

    182. Per un qualche liquido pregiato o sostanza viscosa, prerogative entrambe del miele. Chiesa 2005, p. 64.

    183. . Bortolin 2008, pp. 104-133.

  • 37API E MIELE NEL MEDITERRANEO ANTICO

    ne: poteva servire ad evitare la perdita del prezioso e vischioso alimento quando veniva versato oppure avere una funzione specifica all’interno dei rituali funera-ri184. Nessuna di queste ipotesi è tuttavia al momento comprovabile.

    Un esempio di recipienti che suggeriscano la pertinenza al miele per apparato iconografico consiste invece in un corredo rinvenuto sul finire del XIX secolo ad Atene in una tomba, di cui non si conosce né ubicazione né altri dati. Si compone di tre kylikes attiche a fondo bianco (D5, D6 e D7), di cui una apoda185, firmate da Sotades186, due mastoi (D9 e D10), due phialai (98.886 e D8) e due altre kylikes apode (A890 e A891) una a figure rosse ed una a fondo bianco187. Di queste la D5 rappre-senta Glauco e Poliido188, con i nomi iscritti vicino ai personaggi, rappresentati all’interno di una tomba a tholos. Il pittore di Sotades rappresenta vari momenti del mito condensati in uno soltanto: i due serpenti sono entrambi presenti, Glau-co è vivo e rannicchiato sui talloni (in una posa che suggerisce la liminalità del momento, per la posizione di equilibrio instabile e per la rassomiglianza con la posizione fetale), Poliido è pronto a colpire il serpente con la spada. La D6 rap-presenta invece due fanciulle, per le quali nelle iscrizioni si leggono i nomi ΜΕ-ΛΙΣΑ ed un nome di cui si conservano soltanto le lettere Α o Λ , Ρ e Ο. Le fanciulle sono rappresentate nell’atto di cogliere delle mele ed interpretate in modo con-vincente come ninfe nel giardino delle Esperidi.

    L’ultima κύλιξ, catalogata D7, rappresenta un soggetto di più difficile esegesi, un tempo interpretato come morte di Ofelte. Vi sono raffigurati un uomo dai tratti e

    184. Per esempio esporre offerte oppure libare. Non ci sono indizi che ne suggerisca-no la reale funzione, di certo non sembra essere soltanto decorativo.

    185. Quella rappresentante Euridice ed Aristeo.

    186. A lui e al suo pittore è attribuito tutto il corredo ad eccezione della kylix A891 fir-mata da Egesibulo e la kylix A890 sempre attribuita ad Egesibulo.

    187. L’intero corredo è analizzato in Burn 1985.

    188. Il mito di Glauco narra di come egli, figlio di Minosse, cadde in un pithos colmo di miele mentre giocava con la palla o inseguiva un topo e vi affogò. I tentativi di ricerca furono frustrati sinché Apollo non avvisò il re che un prodigio si sarebbe presentato e co-lui che fosse stato in grado di interpretarlo gli avrebbe anche riportato il figlio. Accadde che nelle mandrie regali nascesse un vitello che cambiava colore nel corso della giorna-ta: prima bianco, poi rosso ed infine nero. Soltanto l’indovino Poliido riuscì a spiegarlo nei termini del ciclo di maturazione della mora del gelso che cambia col tempo colore. In virtù delle sue capacità mantiche Poliido riuscì a ritrovare il fanciullo, ma non era un figlio morto che Minosse desiderava ritrovare e così rinchiuse entrambi in una tomba intimando all’indovino di riportarlo in vita o di morire con lui. Poliido vide nella tomba un serpente e temendo che potesse danneggiare il cadavere lo uccise. Presto si presentò un altro serpente e, visto il compagno morto, andò a recuperare un’erba con la quale lo riportò in vita. Sull’esempio del rettile Poliido utilizzò la stessa erba per riportare in vita il fanciullo. Il mito è narrato ad esempio in Apollod. 3,17 e Hyg. Fab. 136.

  • 38 Matteo Bormetti

    dalle vesti di cacciatore o pastore nell’atto contemporaneamente di arrivare, ri-tirarsi e scagliare una pietra verso un mostruoso serpente, ed una donna giacen-te evidentemente uccisa dal rettile. L. Burn ha tuttavia definitivamente superato la prima interpretazione con un’analisi puntuale che ha consentito di dimostra-re senza ombra di dubbio che i soggetti rappresentati siano Euridice ed Aristeo189. Secondo il mito, ritenuto tardo perché raccontato per primo da Virgilio190, Aristeo si sarebbe invaghito di Euridice, promessa di Orfeo, e rincorrendola l’avrebbe in-volontariamente spinta tra le spire fatali di un serpente, causando poi la serie di peripezie patite da Orfeo. Come punizione, in parte voluta da Orfeo, in parte dalle api stesse che non sopportano le trasgressioni sessuali, gli sciami di Aristeo, inven-tore dell’apicoltura, morirono e l’eroe disperato si rivolse alla madre Cyrene che lo consigliò di recarsi da Proteo. Avendolo trovato e catturato Aristeo venne a co-noscenza del modo in cui riportare in vita le sue api ovvero attraverso il sacrificio di alcune giovenche191. I due mastoi a calice sono invece esternamente sagomati ad anelli sovrapposti e decorati da cerchi alternati in nero e bianco su fondo rosso192.

    Tanto il mito di Glauco quanto quello di Aristeo non possono prescindere né dalle api come agenti attivi né dai significati simbolici del miele attinenti alle sfe-re della morte/rinascita, della purezza (in questo caso violata da Aristeo), della liminalità193, e della vita eterna. Per la coppa D6 basta il nome, Melissa, ovvero ape, a rievocare una serie di importanti suggestioni: è infatti il nome, oltre che del gruppo di ninfe a cui la rappresentazione si riferisce, delle sacerdotesse di al-cune divinità femminili194, della moglie di Periandro e delle partecipanti alle te-smoforie195. Dati i forti riferimenti è possibile che tutti o soltanto alcuni dei vasi del corredo siano stati usati durante il rito funebre per libare miele o sostanze contenenti miele (le phialai) oppure per contenerlo (i mastoi che per tipologia va-scolare già richiamano alla fertilità e alla kourotrophia, in questo caso per morfo-logia e decorazione richiamano anche all’addome dell’ape).

    189. Un’ulteriore analisi è stata fatta in Giuman 2008, pp. 6-8; 222-242.

    190. Verg. Georg. 4,425-463.

    191. Questa sarebbe l’origine della pratica della bugonia, ovvero del sacrificio di bovini al fine di far nascere sciami d’api dai loro corpi (o meglio una moltitudine di api/anime da un’anima sola. Sul tema: Roscalla 1998, p. 47; Ransome 2004, pp. 112-118.

    192. In una maniera che li fa rassomigliare molto all’addome stilizzato di un’ape.

    193. Sempre legata alla morte e rinascita ma con rimandi che vanno al passaggio da giovane ad adulto per Glauco e da puro ad impuro e viceversa per Aristeo.

    194. In particolare Demetra. Si vedano: Ransome 2004, pp. 58 e 96; Giuman 2008, p. 157.

    195. Sulle figure di melisse si veda: Giuman 2008, pp. 157-198.

  • 39API E MIELE NEL MEDITERRANEO ANTICO

    Per quanto attiene alle sepolture nel miele196 bisogna constatarne l’estrema ra-rità e l’assoluta assenza di riscontri archeologici. La pratica sembra fosse diffusa in ambito assiro-babilonese197 ma ne rimane traccia, nelle fonti letterarie, in connes-sione alle sepolture regali praticate dai Greci, ma testimoniate soltanto nei casi in cui il sovrano sia morto nel corso di una campagna militare lontano dalla patria: è il caso dei re spartani Agesipoli II198 e Agesilao II199 e di Alessandro Magno200. Lo stesso trattamento sarebbe stato riservato anche all’imperatore Giustiniano201. Più semplice ed economica, per quanto quasi altrettanto rara, doveva essere in-vece la sepoltura simbolica nel miele. A questo concetto dovevano richiamare, se la loro rilettura come arnie fosse corretta, i modellini fittili rinvenuti in alcune tombe del periodo medio e tardo geometrico ad Atene ed Eleusi202.

    A questo genere di simbolismo poteva richiamare la sepoltura infantile rinve-nuta nel 1971 a poca distanza dal Tumulo dei Plateesi. L’analisi antropologica sta-bilì che si trattasse di un individuo maschile dall’età stimata di circa sette anni. Il semplice corredo era composto da una coppa e da un bicchiere cilindrico, che da-tano la sepoltura al II secolo a.C.. Le due arnie, poste affrontate per le imboccature a costituire un sarcofago, erano dello stesso tipo rinvenuto a Vari e a Trachones203. L’interpretazione di John Ellis Jones come tentativo da parte di una famiglia di api-coltori di dare una dignitosa sepoltura al proprio figlio, utilizzando due arnie già scartate o privandosi di due arnie funzionanti204, è certamente corretta ma ridut-tiva. Una scelta tanto particolare potrebbe non essere casuale e deve sottendere non una tradizione, mancando infatti di confronti significativi, ma almeno l’appli-cazione originale ed isolata di una sottesa ideologia. Facile è immaginare in una fa-miglia di apicoltori la coscienza e partecipazione dei significati profondi del miele.

    I rituali e i complessi ideologico-simbolici già enunciati in generale dovettero avere una privilegiata relazione con le sepolture di rango. Questo perché il miele,

    196. Una pratica analoga è quella di cospargere il corpo di cera, attestata presso Per-siani e Sciti. Per i sottesi simbolici di tale pratica si veda: Roscalla 1998 pp. 41-59.

    197. Hdt. 1,198.

    198. X. HG 5,3,19.

    199. D.S. 15,93,6; Plvt. Ages. 40,4.

    200. Stat. Silv 3,2,117 s.

    201. Coripp. Iust. 3.

    202. Cherici 1991, p. 217 s.

    203. Jones 1976, pp. 88-91.

    204. Assai più probabile dato il buono stato di conservazione delle stesse.

  • 40 Matteo Bormetti

    surrogato mondano dell’ambrosia, era avvertito quale un indispensabile trami-te per raggiungere l’immortalità eroica, tanto da essere un elemento chiave nel rituale funebre omerico. A ciò si aggiunge una questione puramente economica: il miele, pur essendo tutt’altro che definibile come bene di prestigio, era un ali-mento costoso che non poteva certamente essere “sprecato”, a meno che ovvia-mente non si disponesse di un ingente potere di acquisto o del controllo diretto sulla produzione205.

    Nell’Iliade, all’interno della descrizione delle dolorose esequie dell’eroe acheo Patroclo206, tra i molti gesti che si susseguono, se ne individua uno di particola-re interesse. Due anfore, colme di miele ed unguento, sono reclinate sul feretro, nell’atto di versare il miele sul corpo, come d’altronde è cosparso di miele e un-guento il corpo di Achille sulla pira in un passo dell’Odissea207. I due passi sono complementari nell’indicarci che il corpo del defunto veniva effettivamente co-sparso di miele, non come preparazione precedente alla sistemazione sulla pira, bensì come uno degli atti che formano il momento culminante della cerimonia. Questi gesti, ricostruibile dalle fonti letterarie, sono difficilmente intellegibili all’interno del contesto archeologico.

    A fine anni Ottanta, nel comune di Casale Marittimo nell’agro volterrano, loca-lità Casa Nocera, è stata indagata una necropoli il cui uso copre l’arco cronologico che va dalla fine dell’VIII al principio del VI secolo a.C.208. Appartenenti ad un uni-co gruppo parentale, le sepolture, in numero di nove, mostrano tipologie diverse: a incinerazione entro cassone litico, inumazione entro fossa terragna e tomba a camera per sepoltura plurima209. La distribuzione topografica prevede una serie di rapporti tra le varie tombe, a partire dalla tomba a cui è stata assegnata la let-tera A210, posta in posizione di rilievo su di una collinetta e centrale rispetto al-la disposizione approssimativamente radiale delle altre sepolture. La tomba A è la sepoltura più antica della necropoli, scavata nel paleosuolo, è stata realizzata

    205. Che, stando a Varrone doveva essere un’attività molto redditizia: Varro Rust. 3,16,10-11.

    206. Hom. Il. 23,164-179.

    207. Hom. Od. 24,65.

    208. I risultati sono stati esposti soltanto nella mostra Principi Guerrieri di Cecina con relativo catalogo. Si vedano: Esposito 1999 e Torelli 2011, pp. 212-235.