“DALLA PROPRIETÀ AL ONDOMINIO” - Overlex - Diritto · 2013-11-30 · Dispensa riservata agli...

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Dispensa riservata agli allievi del corso on line per amministratori di condominio tenuto su www.overlex.com Aggiornata con la Legge 11.12.2012 n° 220 - G.U. 17.12.2012 (c.d. riforma del condominio) © Copyright 2013 www.overlex.com tutti i diritti sono riservati “DALLA PROPRIETÀ AL CONDOMINIO” La proprietà costituisce l’istituto giuridico più diffuso nella coscienza comune: ognuno di noi è proprietario di qualche cosa ed ha intuitivamente una nozione ben precisa di che cosa significhi dire che un bene è di sua proprietà. Nella Costituzione la norma fondamentale in materia di proprietà è l’art. 42 secondo cui la proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge, che ne determina i modi di acquisto e godimento nonché i limiti allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti. Si precisa, inoltre, che può essere sottoposta ad espropriazione per motivi di interesse generale e salvo indennizzo. Il riconoscimento della proprietà privata avviene per la sua stessa funzione sociale, in quanto utile a realizzare gli interessi generali dell’intera collettività: il diritto di proprietà viene garantito nella misura in cui non contrasti con le esigenze sociali. Infatti nella valutazione compiuta dall’ordinamento, l’interesse pubbli co prevale su quello privato e questo spiega perché si possa giungere sino alla espropriazione. Nel Codice Civile, all’art. 832 si definisce la proprietà come il diritto di godere e disporre delle cose in modo pieno ed esclusivo, entro i limiti e con l’osservanza degli obblighi stabiliti dall’ordinamento giuridico. Godere una cosa significa utilizzarla per soddisfare i propri bisogni, trarre le utilità, anche economiche, che il bene è in grado di arrecare. Disporre di una cosa significa trasferire la proprietà o costituire sulla cosa dei diritti a favore di altri, rinunciando alla proprietà o ad alcune delle facoltà che ne fanno parte. Tendenzialmente il proprietario può esercitare il suo diritto in modo pieno ed esclusivo, esercitando liberamente le facoltà di godimento e di disposizione della cosa, tranne quelle vietate. CARATTERI DELLA PROPRIETÀ ASSOLUTO Il proprietario può far valere il suo diritto verso chiunque PATRIMONIALE Soggetto ad un indennizzo REALE Il diritto viene esercitato direttamente sulla cosa IMPRESCRITTIBILE Non si estingue per il solo non uso del proprietario L’art. 832 c.c. introduce, infatti, i limiti e l’osservanza degli obblighi statuiti dall’ordinamento giuridico. I limiti possono essere stabiliti: nell’interesse privato, in quanto si cerca di contemperare gli interessi del proprietario con quelli di altri soggetti privati nell’interesse pubblico, allorchè gli stessi mirano a realizzare quella funzione sociale e quegli interessi generali della collettività (es. espropriazione per pubblica utilità, requisizione, servitù pubbliche). Le servitù prediali Le servitù prediali, dal latino che significa fondo, consistono nel peso imposto sopra un fondo (detto servente) per l’utilità di un altro fondo (detto dominante) appartenente ad un diverso proprietario. Il peso imposto al fondo servente consiste in una limitazione della facoltà di godimento, mentre l’utilità per il fondo dominante è costituita da una migliore utilizzazione del bene. Le servitù affermative e negative Sono affermative quando consentono al proprietario del fondo dominante di svolgere una determinata attività sul fondo servente. Impongono al proprietario del fondo servente l’obbligo di tollerare sul proprio fondo lo svolgimento di una determinata attività che, se non ci fosse la servitù avrebbe il diritto di impedire.

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“DALLA PROPRIETÀ AL CONDOMINIO” La proprietà costituisce l’istituto giuridico più diffuso nella coscienza comune: ognuno di noi è proprietario di qualche cosa ed ha intuitivamente una nozione ben precisa di che cosa significhi dire che un bene è di sua proprietà. Nella Costituzione la norma fondamentale in materia di proprietà è l’art. 42 secondo cui la proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge, che ne determina i modi di acquisto e godimento nonché i limiti allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti. Si precisa, inoltre, che può essere sottoposta ad espropriazione per motivi di interesse generale e salvo indennizzo. Il riconoscimento della proprietà privata avviene per la sua stessa funzione sociale, in quanto utile a realizzare gli interessi generali dell’intera collettività: il diritto di proprietà viene garantito nella misura in cui non contrasti con le esigenze sociali. Infatti nella valutazione compiuta dall’ordinamento, l’interesse pubblico prevale su quello privato e questo spiega perché si possa giungere sino alla espropriazione. Nel Codice Civile, all’art. 832 si definisce la proprietà come il diritto di godere e disporre delle cose in modo pieno ed esclusivo, entro i limiti e con l’osservanza degli obblighi stabiliti dall’ordinamento giuridico. Godere una cosa significa utilizzarla per soddisfare i propri bisogni, trarre le utilità, anche economiche, che il bene è in grado di arrecare. Disporre di una cosa significa trasferire la proprietà o costituire sulla cosa dei diritti a favore di altri, rinunciando alla proprietà o ad alcune delle facoltà che ne fanno parte. Tendenzialmente il proprietario può esercitare il suo diritto in modo pieno ed esclusivo, esercitando liberamente le facoltà di godimento e di disposizione della cosa, tranne quelle vietate.

CARATTERI DELLA PROPRIETÀ

ASSOLUTO Il proprietario può far valere il suo diritto verso chiunque PATRIMONIALE Soggetto ad un indennizzo REALE Il diritto viene esercitato direttamente sulla cosa IMPRESCRITTIBILE Non si estingue per il solo non uso del proprietario L’art. 832 c.c. introduce, infatti, i limiti e l’osservanza degli obblighi statuiti dall’ordinamento giuridico. I limiti possono essere stabiliti: nell’interesse privato, in quanto si cerca di contemperare gli interessi del proprietario con quelli di altri soggetti privati nell’interesse pubblico, allorchè gli stessi mirano a realizzare quella funzione sociale e quegli interessi generali della collettività (es. espropriazione per pubblica utilità, requisizione, servitù pubbliche). Le servitù prediali Le servitù prediali, dal latino che significa fondo, consistono nel peso imposto sopra un fondo (detto servente) per l’utilità di un altro fondo (detto dominante) appartenente ad un diverso proprietario. Il peso imposto al fondo servente consiste in una limitazione della facoltà di godimento, mentre l’utilità per il fondo dominante è costituita da una migliore utilizzazione del bene. Le servitù affermative e negative Sono affermative quando consentono al proprietario del fondo dominante di svolgere una determinata attività sul fondo servente. Impongono al proprietario del fondo servente l’obbligo di tollerare sul proprio fondo lo svolgimento di una determinata attività che, se non ci fosse la servitù avrebbe il diritto di impedire.

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Sono negative quando attribuiscono al titolare del fondo dominante il potere di impedire determinate utilizzazioni del fondo servente. Impongono, quindi, al titolare del fondo servente l’obbligo di non fare una determinata attività che gli sarebbe normalmente consentita in assenza di servitù. Le servitù coattive e volontarie Si dicono coattive, in relazione al titolo, se la loro costituzione è imposta dalla legge. In tal caso le modalità d’esercizio e l’indennità dovuta al proprietario del fondo servente possono essere stabilite attraverso un contratto od anche una sentenza (in difetto di un accordo tra i proprietari). È ovvio che in caso di mancato pagamento dell’indennità il proprietario del fondo servente ha il diritto di opporsi all’esercizio della servitù. Si dicono volontarie le servitù costituite per contratto o testamento per mera volontà dell’uomo. Le servitù apparenti e non apparenti Si dicono apparenti quelle che per il cui esercizio necessitano di qualche opera visibile e permanente: si acquistano per usucapione, destinazione del buon padre di famiglia, contratto e testamento. Sono non apparenti quelle prive di qualsiasi opera e si acquistano per contratto o testamento.

L’ipoteca

È un diritto reale di garanzia che attribuisce al creditore una prelazione in caso di espropriazione, anche in confronto del terzo acquirente. I beni vincolati a garanzia del suo credito in tal modo tendono a soddisfare il creditore ipotecante con preferenza sul prezzo ricavato dall’espropriazione. La costituzione di ipoteca È una fattispecie complessa in quanto richiede il concorso di un titolo giustificativo (atto o fatto giuridico) e dell’iscrizione nei pubblici registri. L’ipoteca è quindi un mezzo di pubblicità con efficacia costitutiva, nel senso che sorge solo nel momento in cui si perfeziona l’iscrizione stessa. Ipoteca: legale, giudiziale e volontaria In relazione alla fonte, cioè al titolo da cui deriva l’iscrizione, l’ipoteca si distingue in legale, giudiziale e volontaria. Legale: la stessa legge attribuisce a determinate categorie di creditori il diritto di iscrivere l’ipoteca. Giudiziale: il titolo è costituito da un provvedimento dell’autorità giudiziaria. Volontaria: il titolo è costituito da un contratto tra il proprietario della cosa ed il creditore o da una dichiarazione unilaterale, escluso il testamento. È richiesta la forma dell’atto pubblico. La rinnovazione L’iscrizione dell’ipoteca ha un’ efficacia di 20 anni. Prima della scadenza del termine il creditore, per evitare l’estinzione, può procedere alla rinnovazione. In tal modo l’ipoteca precedente continua a dispiegare in pieno i suoi effetti. In difetto di rinnovazione, se il titolo è ancora valido, può precedersi ad una nuova iscrizione. L’estinzione Il difetto di rinnovazione ed il pagamento dell’obbligazione garantita determinano l’estinzione dell’ipoteca. La cancellazione dell’ipoteca deve essere annotata a margine dell’iscrizione, su domanda contenente il consenso del creditore o la sentenza definitiva che accerti la causa di estinzione. L’inadempimento comporta la possibilità da parte dei creditori ipotecari di richiedere la vendita forzata.

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Il divieto degli atti emulativi Il codice vieta gli atti che hanno il solo scopo di nuocere o recare molestie agli altri. Contro tali atti il portatore di interesse può chiedere la cessazione dell’attività lesiva ed il risarcimento danni.

Locazione, uso e abitazione

La locazione è il contratto attraverso il quale il proprietario o locatore si obbliga a concedere il diritto di utilizzare un bene (nel nostro caso immobile) verso corrispettivo. I diritti di uso e di abitazione sono forme personalissime di usufrutto e consistono nel diritto di godere di una cosa altrui con l’obbligo di rispettarne la destinazione economica. L’uso ha per oggetto il godimento di una cosa con eventuale raccolta di frutti. L’abitazione consiste nel diritto di abitare una casa. In ogni caso il diritto è limitato ai bisogni del titolare e della sua famiglia e non può essere ceduto o locato a terzi. Diritti ed obblighi del conduttore Il conduttore è posto nella stessa posizione del suo dante causa ed ha diritto al rispetto delle condizioni contrattuali assunte dal locatore.

I modi di acquisto ed estinzione del diritto di proprietà

L’estinzione del diritto di proprietà avviene con uno dei modi di acquisto della proprietà (ad es.: usucapione) ed anche con la vendita. L’acquisto a titolo originario e derivativo Si definiscono modi di acquisto della proprietà gli atti e i fatti giuridici che producono l’acquisto del diritto di proprietà (Art.422 Cost.). Possono essere a titolo originario e a titolo derivativo. A titolo originario ricorrono quando non si ha il trasferimento del diritto da un precedente nuovo titolare. Sono modi di acquisto a titolo originario: - L’occupazione. Consiste nell’impossessarsi, con l’intenzione di farla propria, di cose mobili che non appartengono a nessuno, in quanto sono state abbandonate volontariamente dal proprietario o non hanno mai avuto un proprietario (Art. 923 cc). - L’invenzione. Consiste nel ritrovamento di cose mobili smarrite dal proprietario oppure gli sono state rubate o sottratte. Chi ritrova delle cose deve consegnarle al proprietario o al sindaco del luogo dove è avvenuto il ritrovamento (Art.927 cc) che rende nota la consegna tramite pubblicità (Art 928 cc). Decorso un anno dal giorno dell’ultima pubblicazione senza che le cose ritrovate siano state reclamate, il ritrovatore ne acquista la proprietà; se invece il proprietario le recupera il ritrovatore ha diritto al pagamento di un premio stabilito dalla legge in proporzione al loro valore (Art. 929-930 cc). - L’accessione. Si verifica quando il proprietario di una cosa considerata principale diventa proprietario anche di un’altra cosa accessoria, che si unisce o si incorpora a questa. Può essere: artificiale (si tratta dell’ipotesi in senso verticale di un bene mobile ad un altro bene immobile) (Art.935-941 cc). - L’unione o commistione. Ricorre quando più cose mobili appartenenti a persone diverse sono state unite o mescolate in modo tale da formare un tratto unico e non sono più facilmente separabili (Art.939 cc). - La specificazione. Consiste nella creazione di una cosa nuova con una materia appartenenti ad altri (Art.940 cc).

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- Il principio possesso vale titolo (Art.1135 cc) e l’usucapione (Art.1158 cc) Sono modi di acquisto della proprietà a titolo originario per effetto del possesso, cioè dell’esercizio di poteri di fatto su una cosa e degli altri requisiti indicati dalla legge. I presupposti dell’usucapione sono: il possesso e il decorso del tempo. Per dare luogo all’usucapione il possesso deve essere: pacifico e pubblico, continuo e ininterrotto. Pacifico e pubblico, cioè non deve essere stato acquistato in modo violento oppure clandestino, contro la volontà del titolare ovvero senza che questi ne fossi a conoscenza (Art. 1163 cc). Continuo e ininterrotto, cioè non deve essere stato abbandonato volontariamente dal possessore oppure fatto cessare da parte del proprietario o di terzi. Non è invece richiesto che il possessore sia di buona fede, potendo anche trattarsi di un possessore in male fede. Il tempo necessario per acquistare la proprietà dipende dalla natura dei beni e dalle caratteristiche del possesso. In particolare (Art.1158 cc) si segua lo schema giù riportato. A titolo derivativo il nuovo proprietario (o avente causa) acquista il diritto che gli viene trasferito dal precedente titolare (o dante causa). L’ipotesi più importanti sono costituite dai contratti (mutuo, donazione, compravendita), che trasferiscono la proprietà, e dalla successione a causa di morte (eredità). Colui che diventa proprietario non acquista un diritto nuovo ma lo stesso diritto di cui era titolare il precedente proprietario.

La vendita

Nella presente trattazione occorre solo mettere in evidenza alcuni aspetti della vendita ed in particolare le forme e modalità in cui la stessa deve svolgersi per essere valida ed efficace. Innanzitutto si tratta di un contratto, quindi presuppone l’incontro di due o più volontà. Deve rivestire la forma scritta ad substantiam: requisito di esistenza del contratto. L’atto scritto deve essere redatto per atto pubblico, o scrittura privata autenticata da Notaio competente nel territorio. Il contratto va poi trascritto nella Conservatoria dei Registri Immobiliari (RR.II.) competente. Si tratta di un requisito molto importante perché determina il perfezionamento dell’iter di acquisizione dell’immobile. Infatti ipotizziamo l’esistenza di un venditore di immobile che, con intenti truffaldini, voglia alienare il bene due volte ad acquirenti diversi. Entrambi, in tempi diversi, concluderanno un contratto ed entrambi pagheranno il corrispettivo. A questo punto proprietario del bene immobile sarà quello dei due che per primo ha richiesto la trascrizione dell’immobile a suo favore. L’altro, anche se per ipotesi aveva concluso per primo l’atto, conserverà solo un diritto di credito verso l’alienante truffatore. È quindi bene importante conoscere il modo di registrazione in proprio favore delle proprietà immobiliari, anche per evitare sorprese. L’amministratore che nel dubbio circa la identità e qualità di un condomino volesse effettuare accertamenti, dovrà riferirsi all’ufficio della Conservatoria dei RR.II.: con data e luogo di nascita della persona perverrà in possesso dell’elenco delle trascrizioni a favore della persona oggetto di indagine. Potrà in tal modo risalire al bene sito in condominio. Le azioni a tutela La proprietà viene tutelata in sede civile attribuendo al suo titolo un diritto di azione consistente nel potere di rivolgersi all’autorità giudiziaria per ottenere il riconoscimento del proprio diritto e la cessazione delle eventuali molestie o turbative da parte dei terzi.

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Le azioni a difesa della proprietà, dette anche petitorie, sono: -L’azione di rivendicazione È l’azione con la quale il proprietario di una cosa agisce in giudizio per recuperarla da chi ne abbia illegittimamente la materiale disponibilità. Questa azione è diretta ad ottenere dal giudice l’accertamento del diritto di proprietà sulla cosa e la condanna del possessore o del detentore abusivo a restituirla al legittimo proprietario (Art.948 cc). -L’azione negatoria Il proprietario, quando abbia motivo di temere pregiudizio, agisce nei confronti di chi pretende di avere diritti sulla cosa di sua proprietà oppure compie atti di turbativa o di molestia. Questa azione è diretta a ottenere dal giudice l’accertamento della pienezza della proprietà e dell’inesistenza dei diritti affermati dal terzo nonché, nel caso in cui vi siano molestie o turbative di fatto, l’ordine di cessazione dei comportamenti lesivi oltre all’eventuale risarcimento di danni subiti (Art. 949 cc). - L’azione di regolamento di confini È diretta a stabilire l’esatta posizione del confine esistente tra due fondi. Presuppone un’incertezza sulla linea di confine che separa due fondi contigui: il giudice, in mancanza di altri elementi probatori, deve attenersi a quanto risulta dalle mappe catastali (Art.950 cc). - L’azione di apposizione di termini È diretta a rendere visibile la linea di confine esistente tra due fondi vicini. Con questa azione ciascun confinante può chiedere al giudice che tali termini vengano posti o ristabiliti a spese comuni (Art. 951 cc).

La comunione

La comunione dei diritti in generale Un diritto oltre che a una singola persona può appartenere anche a più persone insieme: si ha in tal caso la comunione, che ricorre quando più soggetti sono contitolari del medesimo diritto. Il codice civile disciplina in particolare la comunione di proprietà o comproprietà (Art.110 cc), ma la relativa disciplina è applicabile, in quanto compatibili, anche alla comunione avente per oggetto altri diritti. Le disposizioni sulla comunione sono norme dispositive destinate ad essere applicate soltanto quando dal titolo (contratto,testamento) non risulti una diversa volontà delle parti interessate. Nella comunione ciascun partecipante non è titolare di una parte fisicamente individuata del bene ma di una quota ideale o astratta, espressa da una frazione aritmetica (1/2, 1/3, 1/5), della cosa o del diritto considerato nella sua unità. La quota misura la partecipazione di ciascuno nella comunione e quindi nei diritti e negli obblighi che ne derivano. Comunione volontaria, incidentale e forzosa La comunione può essere: - Volontaria: quando deriva dalla volontà dei partecipanti che, d’accordo tra loro, divengono contitolari di un medesimo diritto; - Incidentale: quando deriva da qualsiasi fatto o atto diverso dalla volontà dei partecipanti; - Forzosa: quando è imposta dalla legge anche contro la volontà dei soggetti interessati. Di regola quando la comunione volontaria e quella incidentale possono essere liberamente sciolte per volontà di

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coloro che vi partecipano, quella forzosa non può costituire oggetto di divisione in quanto è prevista in considerazione dell’obiettiva utilità di determinati beni. La comproprietà Come detto, la comproprietà consiste nel fatto che più persone sono contitolari di un diritto di proprietà su uno stesso bene. Nella comunione di proprietà la partecipazione di ciascun partecipante ai vantaggi e ai pesi che ne derivano è in proporzione delle rispettive quote e le quote si presumono uguali, a meno che dalla legge o dal titolo non risulti diversamente (Art.1101 cc). I diritti e gli obblighi dei comproprietari Ciascun comproprietario ha i diritti qui di seguito elencati: - Utilizzare la cosa comune (Art.1102 cc) e goderne gli eventuali frutti, sia naturali sia civili, in proporzione della propria quita; - Disporre della propria quota (alienandola, donandola, ipotecandola, ecc.)e, nei limiti della quota stessa, cedere ad altre persone il godimento della cosa (Art.1103 cc); - Chiedere lo scioglimento della comunione in ogni tempo, salvo che egli stesso o il suo dante causa si sia vincolato a rimanere in comunione per un tempo determinato (ma comunque non superiore a 10 anni – Art.1111 cc). Correlativamente agli accennati diritti ciascun comproprietario ha l’obbligo, sempre in proporzione della propria quota, di concorre alle spese necessarie per la conservazione e il godimento della cosa comune nonché a quelle deliberate dalla maggioranza (Art.1104 cc). Può peraltro liberarsi degli oneri suddetti rinunciando al suo diritto sulle cose comuni salvo che abbia già approvato, anche se soltanto tacitamente, la spesa in oggetto. L’amministrazione della cosa comune L’amministrazione della cosa comune spetta congiuntamente a tutti i partecipanti alla comunione: 1. ciascuno di essi ha dunque il diritto di concorre a prendere le decisioni relative alla sua gestione; 2. (Art.11051 cc).Di regola le deliberazioni attinenti all’amministrazione del bene comune devono essere approvate da tanti comproprietari che rappresentino la maggioranza di quota (50% +1 dei partecipanti). Le deliberazioni prese con la maggioranza richieste dalla legge sono vincolanti per tutti i comproprietari, anche se assenti o dissenzienti, salvo la facoltà di ciascuno di essi, qualora le ritenga illegittime, di impugnarle davanti all’autorità giudiziaria per ottenere l’annullamento. L’impugnazione deve essere proposta, a pene decadenza, entro 30 giorni (Art.1109 cc). Lo scioglimento Lo scioglimento della comunione si attua con la divisione che attribuisce a ciascun partecipante, in sostituzione del diritto su una quota ideale dell’intero, un diritto esclusivo di proprietà su una parte concreta e fisicamente determinata del bene oppure, qualora la cosa oggetto della comunione non sia “comodamente divisibile, su una parte della somma di denaro ricavata dalla sua vendita. Quando la divisione in natura non risulti possibile, lo scioglimento della comunione può anche avvenire, anziché con la vendita del bene e la successiva ripartizione del ricavato tra i comproprietari, con l’assegnazione in proprietà a uno o più contitolari che ne facciano richiesta, accollandosi il rimborso in denaro agli altri del valore delle loro quote.

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Divisione amichevole e giudiziale La divisione può essere: - Amichevole o convenzionale: quando risulta da un accordo dei comproprietari (contratto di divisione) che determina le modalità di scioglimento della comunione; - Giudiziale: quando, in mancanza di un accordo dei partecipanti e in seguito alla richiesta di uno o più di essi, viene adoperata dall’autorità giudiziaria con una sentenza di divisione. L’atto di divisione,sia convenzionale sia giudiziale, ha natura dichiarativa ed efficacia retroattiva:in altri termini si considera come ciascun comproprietario fosse stato,fin dall’inizio, proprietario esclusivo soltanto della parte che gli è stato poi assegnato con la divisione (Art. 757 cc). Il condominio di edifici Il condominio di edifici è una figura particolare di comunione che ricorre nei fabbricati formati da più unità immobiliari appartenenti a diversi proprietari. La normativa di riferimento è il Codice Civile (dall’art. 1117 al 1139). Per quanto non espressamente previsto il rinvio è alla normativa generale della comunione. La proprietà esclusiva e le parti comuni Nel condominio di edifici coesistono due situazioni giuridiche distinte e complementari: ogni condomino, infatti, è titolare di un diritto di proprietà esclusiva su uno o più piani, ma nel contempo partecipa con gli altri proprietari ad una comunione di proprietà sulle parti comuni del fabbricato, che analiticamente, ma non esaustivamente, sono indicate nell’art. 1117 c.c., come rinovellato dalla riforma del 2012: «Art. 1117. -- (Parti comuni dell’edificio). -- Sono oggetto di proprietà comune dei proprietari delle singole unità immobiliari dell’edificio, anche se aventi diritto a godimento periodico e se non risulta il contrario dal titolo: 1) tutte le parti dell’edificio necessarie all’uso comune, come il suolo su cui sorge l’edificio, le fondazioni, i muri maestri, i pilastri e le travi portanti, i tetti e i lastrici solari, le scale, i portoni di ingresso, i vestiboli, gli anditi, i portici, i cortili e le facciate; 2) le aree destinate a parcheggio nonché i locali per i servizi in comune, come la portineria, incluso l’alloggio del portiere, la lavanderia, gli stenditoi e i sottotetti destinati, per le caratteristiche strutturali e funzionali, all’uso comune; 3) le opere, le installazioni, i manufatti di qualunque genere destinati all’uso comune, come gli ascensori, i pozzi, le cisterne, gli impianti idrici e fognari, i sistemi centralizzati di distribuzione e di trasmissione per il gas, per l’energia elettrica, per il riscaldamento ed il condizionamento dell’aria, per la ricezione radiotelevisiva e per l’accesso a qualunque altro genere di flusso informativo, anche da satellite o via cavo, e i relativi collegamenti fino al punto di diramazione ai locali di proprietà individuale dei singoli condomini, ovvero, in caso di impianti unitari, fino al punto di utenza, salvo quanto disposto dalle normative di settore in materia di reti pubbliche». La comunione sulle parti comuni dell’edificio, trattandosi di parti indispensabili per il separato ed autonomo godimento delle singole unità immobiliari, ha carattere necessario. Il che è sufficientemente supportato dal nuovo art. 1118 c.c.: «ART. 1118. – (Diritti dei partecipanti sulle parti comuni). Il diritto di ciascun condomino sulle parti comuni, salvo che il titolo non disponga altrimenti, è proporzionale al valore dell’unità immobiliare che gli appartiene. Il condomino non può rinunziare al suo diritto sulle parti comuni. Il condomino non può sottrarsi all’obbligo di contribuire alle spese per la conservazione delle parti comuni, neanche modificando la destinazione d’uso della propria unità immobiliare, salvo quanto disposto da leggi speciali.

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Il condomino può rinunciare all’utilizzo dell’impianto centralizzato di riscaldamento o di condizionamento, se dal suo distacco non derivano notevoli squilibri di funzionamento o aggravi di spesa per gli altri condomini. In tal caso il rinunziante resta tenuto a concorrere al pagamento delle sole spese per la manutenzione straordinaria dell’impianto e per la sua conservazione e messa a norma». Ne consegue che: Le parti comuni non possono essere divise. In realtà prima della novella del 2012 la norma di cui all’art. 1119 c.c., rubricata indivisibilità, subordinava lo scioglimento al semplice presupposto che la divisione potesse compiersi senza rendere più incomodo l’uso della cosa per ciascun condomino. Ma la nuova formulazione prevede: ART. 1119. – (Indivisibilità). Le parti comuni dell’edificio non sono soggette a divisione, a meno che la divisione possa farsi senza rendere più incomodo l’uso della cosa a ciascun condomino e con il consenso di tutti i partecipanti al condominio. In effetti l’aggiunta dell’inciso finale determina nella pratica l’impossibilità di raggiungere lo scopo della divisione. La quota di ciascun condomino sulle parti comuni non può essere ceduta separatamente dalla proprietà esclusiva, il cui trasferimento implica, necessariamente, quello della relativa quota di comproprietà sulle cose comuni. La quota di partecipazione di ogni singolo condomino sulle parti comuni è determinata in proporzione al valore del piano o della parte di piano di sua esclusiva proprietà. Viene normalmente espressa in millesimi in base ad un’apposita tabella millesimale nella quale il valore dell’intero fabbricato, fatto convenzionalmente uguale a mille viene ripartito tra le diverse unità immobiliari in relazione alle caratteristiche di superficie, cubatura, altezza di piano, destinazione d’uso, etc. La presunzione di comproprietà Poiché in mancanza di contrarie indicazioni del titolo e, cioè, in assenza di diversa regolamentazione stabilita dall’autonomia privata, le parti dell’edificio elencate dall’art. 1117, Codice civile sono da considerarsi, a tutti gli effetti, comuni, si parla di presunzione legale di proprietà comune delle parti stesse. L’elencazione delle parti comuni contenute nell’art. 1117, Codice civile non è tassativa e altre parti dell’edificio, pur se non espressamente menzionate, possono ritenersi, a seconda dei casi e, soprattutto, della loro posizione nei confronti di quelle di proprietà esclusiva, soggette al regime di comunione ed alla relativa presunzione. Il criterio per determinare l’oggettiva natura di una parte dell’edificio, si afferma in giurisprudenza, è costituito dal rapporto pertinenziale che unisce la singola parte considerata al complesso della proprietà del gruppo condominiale ovvero a singole porzioni di esso (Tribunale Milano Sez. VIII, 28 maggio 1992, n. 6183; Tribunale Milano Sez. VIII, 14 dicembre 1992, n. 12464; Cass. Sez. II, 6 maggio 1993, n. 5224); a tal fine occorre verificare se quel bene per la sua attitudine funzionale al godimento collettivo sia destinato all’uso comune oppure serva esclusivamente all’interesse dei singoli condomini (Tribunale Firenze, 17 febbraio 1995, n. 40). La presunzione di comproprietà si configura come relazione di strumentalità necessaria tra la parte in questione l’uso comune (Tribunale Milano, Sez. VIII civ., 14 giugno 1993, n. 6488). Si configura, poi, l’ipotesi del cosiddetto «condominio parziale», allorché le cose, servizi e impianti comuni siano destinati all’uso di una sola parte dell’edificio o di alcune parti di esso; da ciò derivano implicazioni inerenti alla gestione e alla imputazione delle spese, sicché sono legittimati ad intervenire alle assemblee in cui vengano in esame questioni relative alle cose di appartenenza ad un gruppo di condomini, soltanto i comproprietari di esse, ai quali occorre far riferimento per la determinazione delle maggioranze (Cass. Sez. II, 27 settembre 1994, n. 7885). Ciò deriva dal carattere chiaramente dispositivo della norma, la quale, così come non esclude che una delle parti espressamente indicate possa non essere oggetto di comunione, così, per converso, non può escludere che la volontà delle parti sottoponga una parte dell’edificio, non menzionata dalla legge, al regime dell’uso comune ovvero che una parte risulti soggetta alla presunzione di appartenenza alla comunità, quando, per la sua funzione strutturale, sia tale da servire necessariamente all’utilità

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di tutti i condomini (Cass., 18 agosto 1981, n. 4931); per quanto riguarda i locali destinati ad alloggio del portiere, si è escluso che rientrassero nelle parti comuni se il regolamento non li prevede come tali (Tribunale Milano Sez. VIII, 11 maggio 1992) 1. D’altra parte, la presunzione non opera solo per le cose indicate dal n. 1 dell’art. 1117, Codice civile, ma anche per quelle di cui ai successivi nn. 2 e 3, e pertanto vi sono soggetti i beni pertinenziali destinati a fornire aria e luce ai beni condominiali (Cass. Sez. II, 16 aprile 1988, n. 2999); ne sono esclusi, invece, beni esterni al condominio, quali aree adiacenti all’edificio, per i quali la destinazione pertinenziale comporta una valutazione dello stato dei luoghi e della funzione che detti beni sono chiamati a svolgere in rapporto alle strutture condominiali (Cass. Sez. II, 16 aprile 1988, n. 2999; Cass. Sez. II, 29 agosto 1990, n. 8962). In un caso, gli impianti per il riscaldamento a servizio di immobile condominiale erano stati installati in locali siti in una proprietà vicina e separata. La Corte di Appello di Genova con sentenza 2 marzo 1985 riteneva, che gli impianti fossero comuni alle proprietà dei due edifici applicando in via analogica l’art. 1117 «nei rapporti fra due autonomi e distinti fabbricati». La Corte di Cassazione (Cass. Sez. II, 26 aprile 1990, n. 3483) riteneva invece che l’art. 1117 dettasse una norma di natura processuale disciplinante l’onere della prova, mentre l’acquisto della proprietà fosse regolato dalle norme generali in materia (artt. 922, 934, Codice civile) e affermava che gli impianti per il riscaldamento e per l’acqua potabile, salvo che non risulti il contrario da un titolo, appartengono sempre al proprietario dei locali e del suolo su cui sono installati e non è sufficiente che detti impianti siano destinati anche a vantaggio di edificio costruito su area di proprietà diversa perché la presunzione di cui all’art. 1117, Codice civile operi in via analogica. La stessa Corte di Cassazione è poi tornata sull’argomento avvicinandosi alla opinione espressa dalla citata Corte di Appello di Genova con argomenti più articolati; ha infatti ritenuto che in analogia al principio tratto dall’art. 1117 c.c. la presunzione legale di comunione si applica anche nel caso in cui si tratti di parti comuni di edifici limitrofi ed autonomi oggettivamente e stabilmente destinate alla conservazione all’uso o al servizio di detti edifici «ancorché insistenti su area appartenente al proprietario di uno solo degli immobili». Il principio troverebbe applicazione, peraltro, solo nel caso in cui l’area e gli edifici fossero appartenuti ad una stessa persona - o a più persone pro indiviso - nel momento della costruzione della cosa o del suo adattamento o trasformazione all’uso comune. Nel caso in cui l’area sulla quale le cose destinate al servizio dei due edifici fossero appartenute sin dall’origine al proprietario di uno solo di essi, la proprietà è da questi acquistata per accessione in via esclusiva (Cass.Sez. II, 26 aprile 1993, n. 4881). Le norme sul condominio sono state ritenute applicabili anche nel caso in cui più edifici autonomi appartenenti a proprietari diversi abbiano o creino beni o servizi destinati permanentemente ed oggettivamente all’uso e al godimento di tutti; la norma, in particolare, dell’art. 1117 Codice civile si applica, anche se gli edifici siano tra loro separati da un muro verticale e siano indipendenti in senso statico e funzionale (Tribunale Milano, 16 novembre 1995, n. 10310). Fra i beni che l’art. 1117 Codice civile presume comuni rientrano anche i cortili, funzionalmente destinati a dar luce ed aria alle unità che vi si affacciano, e a consentire l’accesso ad esse o alla pubblica via. I cortili devono ritenersi comuni anche fra gli edifici che li delimitano benché formalmente autonomi; in caso di scioglimento di un condominio e di nascita di più condominii autonomi, il cortile continua ad essere comune e si applica la disciplina condominiale (Tribunale Milano, Sez. VIII civ., 14 giugno 1993, n. 6488). Spesso è necessario esaminare la natura di tale presunzione onde verificarne i limiti di operatività e vedere in che modo essa possa essere superata e vinta a favore della proprietà esclusiva del singolo. È necessaria la prova scritta dell’eventuale diversa convenzione stipulata tra le parti, vertendosi in tema di diritti reali immobiliari (Cass., 25 febbraio 1975, n. 758). A tal fine si chiarisce che il titolo richiesto per vincere la presunzione è costituito solo dal contratto di compravendita (Cass. Sez. II, 4 novembre 1994, n. 9062), mentre il frazionamento-accatastamento e la relativa trascrizione eseguiti dal venditore-costruttore, trattandosi di atti unilaterali, sono inidonei ad escludere il bene dal novero dei beni comuni (Cass. Sez. II, 23 febbraio 1991, n. 1915). I beni esclusi dalla presunzione di comunione devono risultare dal titolo, e non è lecito ricomprenderne altri che non siano specificamente indicati. Se

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ad esempio emerge dal titolo che una porzione di scantinato è sottratta alla comunione, non si può ritenere che siano esclusi da essa anche le opere che si trovano nel piano cantina e che assolvono ad una funzione comune (Pretura Capri, 16 ottobre 1990; Cass. Sez. II, 29 ottobre 1992, n. 11775; Tribunale Milano Sez. VIII, 28 maggio 1992). Secondo un indirizzo giurisprudenziale la destinazione della cosa, ricavabile dalla sua attitudine strutturale e funzionale a servire solo una parte dell’immobile, vince la presunzione di comunione di cui all’art. 1117, Codice civile ed equivale ad un titolo contrario (Tribunale Milano Sez. IV, 26 giugno 1995, n. 6438); si ha, cioè, un’inversione dell’onere della prova (Cass., 10 marzo 1980, n. 1591; Cass., 24 giugno 1980, n. 3965; Tribunale Milano Sez. VIII, 28 maggio 1992, n. 6176; Tribunale Milano Sez. VIII, 28 maggio 1992, n. 6183; Tribunale Milano Sez. VIII, 28 maggio 1992, n. 6181; Tribunale Milano Sez. VIII, 28 maggio 1992), per vincere la presunzione, occorre, tuttavia, che il titolo di acquisto indichi in maniera chiara ed inequivocabile gli elementi utili ad escludere la natura comune della cosa (Cass. Sez. II, 7 giugno 1988, n. 3862; Cass. Sez. II, 7 novembre 1994, n. 9221), dovendosi far riferimento all’atto costitutivo del condominio, cioè al primo atto di trasferimento di una unità immobiliare dall’originario unico proprietario ad altro soggetto (Cass. Sez. II, 1° giugno 1993, n. 6103). Un altro indirizzo giurisprudenziale attribuisce, invece, essenziale rilevanza al fine del carattere comune della proprietà dei beni al titolo ed alle sue indicazioni (Cass., 24 aprile 1981, n. 2451; Cass., 18 gennaio 1982, n. 318; Cass., 22 giugno 1982, n. 3787; Appello Milano, 18 gennaio 1983, n. 16). Non c’è dubbio, che l’esistenza del titolo prevalga sulla presunzione di cui all’art. 1117, Codice civile, nel senso che la volontà delle parti può sottrarre alla proprietà comune beni che, per loro destinazione strutturale di assolvimento ad una funzione collettiva, vi rientrerebbero (Tribunale Napoli Sez. X, 26 settembre 1991, n. 10840); destinazione che non sussiste in maniera evidente, e conseguentemente la presunzione in parola non opera, se il bene sia dotato di una propria «autonomia ed indipendenza» rispetto all’edificio condominiale tale da escludere un rapporto di servizio col medesimo e da renderlo accessorio ad un bene di proprietà esclusiva (Cass. Sez. II, 8 agosto 1986, n. 4897). In caso di conflitto tra il condominio e un condomino circa la proprietà di un bene (locale) compreso nell’edificio, ma non rientrante tra i beni elencati dall’art. 1117 c.c., è onere del condomino che pretende di esserne proprietario, provare tale qualità col titolo di acquisto (Cass. Sez. II, 10 febbraio 1994, n. 1366). In altre parole, la «destinazione particolare» di un bene, che «per obiettive caratteristiche strutturali e funzionali» serva in modo esclusivo al godimento di una porzione esclusiva opera alla stessa stregua di un titolo contrario alla presunzione legale di comunione (Cass. Sez. II, 29 dicembre 1987, n. 9644) 1. Al contrario, se un bene è dotato di piena autonomia rispetto all’edificio condominiale, ed è suscettibile per le sue caratteristiche strutturali di godimento esclusivo, ogni presunzione di comunione viene meno (Cass. Sez. II, 24 agosto 1991, n. 9084). Per determinare la destinazione oggettiva del bene occorre verificare quale utilità permanente esso sia in grado di fornire; e se detto bene risulta destinato al servizio o ornamento di una porzione immobiliare esclusiva di un condomino o di alcune porzioni soltanto, allora è di proprietà di quel condomino, o del gruppo di condomini (nella specie trattavasi di porzione di pianerottolo antistante due appartamenti e considerata di pertinenza di questi); a diversa soluzione occorre pervenire se la cosa è destinata a servizio di tutti i condomini perché, in questo caso, essa va classificata tra le cose comuni (Tribunale Milano Sez. VIII, 17 dicembre 1990); ancora, che il titolo cui si deve far riferimento, non è l’atto di acquisto del singolo appartamento, bensì il primo atto di frazionamento della proprietà e il Regolamento del Condominio che lo integra. Pertanto, se da tali atti non emerge in maniera «chiara ed univoca», che un bene, potenzialmente destinato a servire la collettività dei condomini, è di proprietà individuale, esso deve intendersi oggetto di comunione e non può tale natura venir meno in forza di negozio proveniente da uno solo dei condomini originari col quale costui intendesse trasferirne la proprietà esclusiva ad un terzo acquirente (Tribunale Milano Sez. VIII, 23 maggio 1994). È frequente che il condomino proprietario della porzione sita all’ultimo piano dell’edificio condominiale rivendichi la proprietà del sottotetto sovrastante, per il quale la presunzione di comproprietà non opera, in quanto questa

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parte dell’edificio non è inclusa tra quelle comuni dall’art. 1117 Codice civile. Per stabilire se esso sia di proprietà comune o singola, occorre innanzi tutto verificare se il titolo di acquisto contenga previsioni al proposito. In difetto, si deve fare riferimento alla destinazione funzionale ed obiettiva del sottotetto nel singolo edificio. Poiché il sottotetto in genere svolge la funzione di isolare l’appartamento all’ultimo piano dagli agenti esterni, solo se tale funzione è esclusiva esso può essere considerato pertinenza dell’appartamento in questione. Se al contrario il sottotetto svolge anche altre funzioni e ha dimensioni e caratteristiche tali da consentirne l’utilizzo come vano autonomo, e risulti destinato anche potenzialmente ad uno scopo comune, il sottotetto deve essere riguardato come bene comune indipendentemente dall’uso concreto che ne sia stato fatto dai singoli (Tribunale Milano Sez. VIII, 28 maggio 1992, n. 6183). In alternativa al criterio strutturale, si ritiene che la presunzione di comunione sia vinta anche nell’ipotesi in cui l’originario proprietario, prima del frazionamento, abbia destinato il bene al suo uso esclusivo (Cass. Sez. II, 8 ottobre 1990, n. 9858; Tribunale Milano Sez. VIII, 28 maggio 1992, n. 6176; Tribunale Milano Sez. VIII, 28 maggio 1992, n. 6181). Il titolo può anche operare nel senso opposto, in quanto determini l’assoggettamento alla disciplina della proprietà comune un bene che sarebbe altrimenti assorbito nella proprietà individuale. In tal caso, il regime di comunione non viene meno se, per eventi successivi, la destinazione al fine collettivo si esaurisca, perché, appunto, la disciplina dei beni comuni è la medesima, quale ne sia la fonte, il titolo ovvero la presunzione di cui all’art. 1117, Codice civile (Tribunale Padova, 21 marzo 1986). I condomini potranno consensualmente procedere alla divisione; in caso di mancato accordo, dovrà essere osservata la regola di cui all’art. 1119, Codice civile, e quindi la divisione stessa non sarà possibile se non garantisca a tutti i condomini di continuare ad usare comodamente della cosa (Tribunale Padova, 21 marzo 1986). Va ancora osservato, che il vincolo collettivo sulla cosa di proprietà individuale può sussistere e perpetuarsi anche indipendentemente dalla trascrizione dell’atto, ove le parti abbiano inteso assoggettare il bene (locali di portineria) ad un vincolo obbligatorio propter rem fondato su una limitazione del diritto del proprietario (Cass. Sez. II, 25 agosto 1986, n. 5167). D’altra parte, opere, che, nonostante siano strutturalmente staccate dall’edificio, appaiono destinate ad assolvere una funzione comune a tutti i proprietari esclusivi, sono soggette al regime di presunzione legale di cui all’art. 1117, Codice civile. Tali sono, ad esempio, i locali di portineria, la piscina, le scuderie annesse ad un «villaggio turistico o centro residenziale», per i quali beni si è esclusa la natura di pertinenze. La giurisprudenza, al proposito, ha affermato che la distinzione tra pertinenze e parti di un tutto è concetto relativo e dipendente dal comune modo di sentire in un certo aggregato sociale. Nel caso di specie, i servizi di un «centro residenziale» «specie se ubicato in zona isolata e scarsamente dotata» dovevano riguardarsi come un complesso inscindibile dal resto degli immobili, un elemento costitutivo di questo, consentendo agli abitanti di conseguire le finalità ricreative e di relazione proprie di tali centri (Appello Roma Sez. I, 11 maggio 1987; Cass. Sez. II, 26 aprile 1990, n. 3483). Quanto sopra anche nell’ipotesi di parti comuni, nella specie tubature, che attraversano proprietà private pur essendo finalizzate ad un uso comune dell’intero condominio (Tribunale Milano Sez. VIII, 27 febbraio 1992). Ribadito il carattere non tassativo dell’elencazione contenuta nella norma di legge in esame, per cui non è da escludere che una parte dell’edificio espressamente non menzionata possa essere ugualmente soggetta al regime della comunione; ferma restando, tale possibile estensione ad altri manufatti, l’art. 1117, Codice civile elenca le parti comuni dell’edificio e precisamente: 1) le parti dell’edificio condominiale indispensabili alla sua stessa esistenza, senza le quali, cioè, sarebbe dubbia la sussistenza della situazione condominiale; qualora si verifichino inscindibili connessioni fra più fabbricati (nella specie: esistenza di un fabbricato sito nel cortile interno di uno stabile condominiale attraverso il cui androne si accede al primo), la presunzione di comproprietà si estende a tutti gli elementi costitutivi dei fabbricati, quali il suolo, le fondazioni, i muri maestri, la facciata (Tribunale Torino Sez. III, 3 giugno 1987, n. 3576); 2) i locali, facenti parte dell’edificio, ma destinati ad essere la sede per i servizi in comune; i manufatti esterni al fabbricato non rientrano nella presunzione, salvo che non risulti la loro destinazione comune da titolo idoneo o non siano stati effettivamente adibiti al servizio comune (Cass. Sez. II, 6 novembre 1987, n. 8222); infine, 3) gli impianti, cioè, tutte quelle parti mobili dell’edificio, di cui l’edificio stesso può non essere dotato (come, per esempio, l’ascensore, le cisterne ecc.), ma che, dal momento in cui ne viene dotato si presumono

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comuni, in quanto servono generalmente all’uso e al godimento comune. Si è ritenuto che le seguenti porzioni rientrino tra le parti comuni: 1) una pensilina sovrastante la mansarda che assuma per i balconi sottostanti funzione protettiva (Appello Milano Sez. I, 14 gennaio 1992, n. 24); 2) la struttura costituita dal soffitto e dalla soletta che orizzontalmente divide in piani separati il corridoio di accesso ai box condominiali e la sovrastante costruzione costituisce un «andito» (Pretura Monza, 29 luglio 1992); 3) l’intercapedine creata dal costruttore tra il muro di contenimento del terreno che circonda i piani interrati o seminterrati dell’edificio e il muro che delimita detti piani, se risulti che detta intercapedine sia destinata a proteggere sia le unità interrate sia i pilastri e le fondamenta del fabbricato (Cass. Sez. II, 10 maggio 1996, n. 4391); 4) il pavimento in vetrocemento di galleria condominiale che fornisce luce al piano interrato di proprietà individuale, se non risulti un titolo che costituisce un vincolo pertinenziale a vantaggio esclusivo di detta unità (Cass. Sez. II, 10 maggio 1996, n. 4392). Non rientrano al contrario tra i beni comuni le seguenti entità: 1) il vano sottoscale (Tribunale Milano Sez. VIII, 8 giugno 1992); 2) gli spazi di parcheggio, pur costituendo pertinenze ai sensi dell’art. 41 sexies, legge 17 agosto 1942, n. 1150, sono soggetti al vincolo di destinazione, ma non rientrano tra le parti comuni ex art. 1117 Codice civile (Cass. Sez. II, 16 luglio 1994, n. 6696). Va ricordato che la natura comune dei beni e servizi è alla base del potere di gestione dell’amministratore, ma, allo stesso tempo, ne costituisce anche il limite, in quanto l’amministratore non può intervenire su beni esclusivi. Eccezionalmente, tuttavia, può ritenersi legittima l’iniziativa dell’amministratore, il quale disponga l’esecuzione di lavori necessari al ripristino di impianto comune (riscaldamento), anche intervenendo su parti private, ove queste siano inscindibilmente connesse per la loro struttura alle parti comuni (Tribunale Milano Sez. VIII, 5 ottobre 1995, n. 9012).

Diritti, obblighi e divieti dei condomini

Ciascun condomino può godere in modo pieno ed esclusivo della sua proprietà in base alle norme generali, con il limite del rispetto delle disposizioni che riguardano i rapporti tra le proprietà immobiliari confinanti. È quindi ovvio che il proprietario non può nella sua proprietà eseguire opere che rechino danno alle parti comuni dell’edificio. A tal proposito sorregge la nuova introduzione dell’art. 1117 ter c.c., secondo cui:

ART. 1117-ter. – (Modificazioni delle destinazioni d’uso e sostituzioni delle parti comuni)

- Per soddisfare esigenze di interesse condominiale, l’assemblea, con un numero di voti che rappresenti i quattro quinti dei partecipanti al condominio e i quattro quinti del valore dell’edificio, può modificare la destinazione d’uso delle parti comuni. La convocazione dell’assemblea deve essere affissa per non meno di trenta giorni consecutivi nei locali di maggior uso comune o negli spazi a tal fine destinati e deve effettuarsi mediante lettera raccomandata o equipollenti mezzi telematici, in modo da pervenire almeno venti giorni prima della data di convocazione. La convocazione dell’assemblea, a pena di nullità, deve indicare le parti comuni oggetto della modificazione e la nuova destinazione d’uso.

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La deliberazione deve contenere la dichiarazione espressa che sono stati effettuati gli adempimenti di cui ai precedenti commi. Sono vietate le modificazioni delle destinazioni d’uso che possono recare pregiudizio alla stabilità o alla sicurezza del fabbricato o che ne alterano il decoro architettonico. Riteniamo particolarmente opportuno l’ultimo comma che rafforza le tutele per stabilità, sicurezza e decoro, ma meglio sarebbe stato aggiungere anche un obbligo di certificazione e/o asseverazione di opera non incidente sul decoro e/o la stabilità e sicurezza. In tal modo si sarebbero fatte scattare tutta una serie di tutele, non ultime le conseguenze in caso di dichiarazioni mendaci. Ora la domanda che sorge spontanea è: come superare il problema della prova in ordine al fatto che: “La deliberazione deve contenere la dichiarazione espressa che sono stati effettuati gli adempimenti di cui ai precedenti commi.”? Fortunatamente in tal caso sorregge l’avanzamento tecnologico, grazie al quale alcune aziende di software hanno previsto dei particolari strumenti informatici che potremmo chiamare “Bacheche condominiali Digitali”, grazie alle quali nei posti più visibili del condominio vengono installati dei terminali video collegati a mezzo rete telefonica o con scheda sim ad un server che funge da collegamento con lo studio dell’amministratore. Ogni volta che l’amministratore voglia effettuare una comunicazione diretta a quel determinato condominio non ha bisogno di recarsi in loco, ma accede attraverso il web al server, nella sua area riservata, ed inserisce i dati o le notizie che vuole dedicare ai condomini di quell’edificio. Di questa attività dell’amministratore rimane traccia sul server gestito dalla Software House, la quale, a sua volta, può attestare che: “ la comunicazione recante il seguente oggetto: convocazione dell’assemblea concernente modificazioni delle destinazioni d’uso e sostituzioni delle parti comuni, è rimasta visibile per il periodo dal …….. al ……. (affissa per non meno di trenta giorni consecutivi), sulla piattaforma internet cui accede il terminale posizionato presso il condominio”. Ovviamente sarà cura dell’amministratore predisporre l’ulteriore prova che il terminale video era presente in loco e perfettamente funzionante. La novella ha previsto anche delle azioni a tutela delle destinazioni d’uso con la recente introduzione dell’art. 1117-quater c.c.: ART. 1117-quater. – (Tutela delle destinazioni d’uso). – In caso di attività che incidono negativamente e in modo sostanziale sulle destinazioni d’uso delle parti comuni, l’amministratore o i condomini, anche singolarmente, possono diffidare l’esecutore e possono chiedere la convocazione dell’assemblea per far cessare la violazione, anche mediante azioni giudiziarie. L’assemblea delibera in merito alla cessazione di tali attività con la maggioranza prevista dal secondo comma dell’articolo 1136». Ciascun condomino ha diritto di utilizzare le parti comuni, ma deve anche contribuire, in misura proporzionale al valore della sua proprietà alle spese che si rendano necessarie per la loro gestione e manutenzione. Se si tratta di cose destinate ad essere utilizzate in modo disuguale dai diversi condomini, le relative voci di spesa devono essere ripartite in proporzione all’uso presumibile che ciascuno ne può fare (vedasi il caso dell’ascensore). A differenza di quanto avviene nella comproprietà, il condomino non può liberarsi dall’obbligo delle spese necessarie per la conservazione delle parti comuni rinunciando al suo diritto su di esse.

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Esempi di divieti

Il divieto di alterare la destinazione del bene Il limite essenziale posto dalla citata norma alla facoltà di uso riconosciuta al condomino può essere individuato nel divieto di alterare la destinazione della cosa comune, potendosi avere salvaguardia degli interessi dei condomini solo col rispetto della destinazione attualmente impressa alla cosa (Cass. Sez. II, 18 luglio 1984, n. 4195), anche in vista del suo futuro ripristino. Il danno arrecato ad un condomino mediante l’alterazione della cosa comune sussiste in re ipsa, e va ricercato nella limitazione del suo diritto ad usare di essa, mentre è compito del giudice di merito accertare se gli atti e le opere dei singoli condomini, miranti ad una intensificazione del proprio godimento sulla cosa comune, siano conformi o meno alla sua destinazione (fattispecie in tema di apposizione sul muro comune di cartelli pubblicitari, che non può essere considerata esplicazione del normale godimento della cosa in mancanza della prescritta autorizzazione condominiale) (Cass. Sez. II, 18 luglio 1984, n. 4195). In altri casi la richiesta avanzata da alcuni condomini in via possessoria diretta ad ottenere la rimozione di insegne apposte sul muro comune, non è stata accolta dal giudice (il quale si pronunciava con ordinanza interinale, peraltro compiutamente motivata), sul presupposto che l’utilizzazione del muro per sistemarvi insegne non ne alterava la naturale destinazione di sostegno dell’edificio, e costituiva pertanto normale esercizio del diritto di usare la cosa comune. Esisteva nella specie una delibera condominiale in senso negativo, anteriore all’acquisto di porzione del fabbricato da parte del condomino utilizzatore, che è stata riconosciuta non opponibile a costui in quanto comportava limiti ai diritti dei singoli, né risultava recepita dall’atto di acquisto o altrimenti portata a conoscenza dello stesso condomino (Pretura Trani, 25 luglio 1989). L’alterazione della destinazione del bene comune implica che l’intervento sia permanente o quanto meno caratterizzato da stabilità; in cir nze eccezionali, un uso provvisorio e ragionevole della cosa in contrasto con un divieto anche regolamentare può ammettersi. Il pretore di Milano nell’ambito di un procedimento di urgenza ex art. 700, Codice procedura civile, ha ritenuto che il divieto regolamentare di far sostare veicoli in una data area non fosse incompatibile con una utilizzazione temporanea da parte del condomino che avesse necessità di eseguire opere di manutenzione e ristrutturazione nel proprio appartamento, a condizione che l’area non subisse danni e che risultasse una evidente sproporzione tra il sacrificio anche economico che il condomino avrebbe dovuto affrontare qualora detto uso gli fosse negato e l’accettabile disagio che si sarebbe prodotto nella comunità condominiale (Pretura Milano Sez. IV, 23 dicembre 1992, n. 5159). Interventi attuati dai condomini che alterino lo stato di fatto o la destinazione della cosa oggetto del comune possesso in pregiudizio degli altri partecipanti in modo da impedire o restringere il godimento di ciascuno costituiscono illecito tutelabile in sede di azioni possessorie (fattispecie in tema di lastrico solare (Cass. Sez. II, 11 marzo 1993, n. 2947). In un altro caso la norma del regolamento condominiale vietava «di applicare sulle pareti comuni dell’edificio senza il permesso scritto dell’assemblea, targhe insegne o tende di qualsiasi genere...». Sennonché il condomino aveva collocato intorno alla porta nella parte di pianerottolo strettamente di servizio al proprio alloggio, delle piastrelle di ceramica pare (secondo il pretore) di pregio artistico, suscitando la reazione del condominio. Il pretore ha ritenuto che le piastrelle non rientrassero nella categoria delle targhe o insegne, ma erano state apposte per «abbellire» il vano, lasciando libero il resto della parete, non danneggiando alcuno, e non impedendo ad altri di fare delle pareti comuni pari uso; aveva pertanto concluso che la modifica operata dal condomino doveva ritenersi lecita ex art. 1102 Codice civile. La sentenza, che sembrerebbe consentire una sorta di personalizzazione delle parti comuni secondo criteri di scelta e gusto individuali, non appare convincente avendo trascurato di esaminare la ragione del divieto regolamentare al di là dell’elenco degli oggetti di cui era vietata la collocazione sulle pareti, e avendo trascurato di esaminare se l’alterazione così prodotta, e che dava mano libera a ciascuno di «abbellire» parti comuni fuori da ogni controllo assembleare, incidesse sulla uniformità estetica al quale la norma regolamentare evidentemente tendeva (Pretura Ravenna Sez. Faenza, 24 marzo 1992, n. 29). L’alterazione della destinazione del bene comune si verifica non solo quando opere visibili e stabili siano realizzate (Appello Napoli Sez. II, 30 marzo 1987, n. 574): il condomino aveva incorporato una parte del cortile comune dopo avere sopraelevato il piano di calpestio del cortile stesso per portarlo al livello della pavimentazione del locale di

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sua proprietà esclusiva ma, altresì, quando il bene sia sottoposto dal condomino ad uno sfruttamento particolarmente intenso, tale da snaturare la funzione che al bene stesso è stata assegnata (per es.: occupazione permanente con oggetti, transennamento di spazi condominiali ad iniziativa di alcuni condomini del piano terreno con paletti) (Cass. Sez. II, 5 febbraio 1982, n. 663; Cass. Sez. II, 28 novembre 1984, n. 6192; Tribunale Napoli Sez. III, 19 maggio 90, n. 5640); utilizzazione dell’androne e del cortile condominiali per l’accesso del pubblico ad un locale adibito a sala di spettacoli. Per valutare la legittimità di un uso diverso e più intenso, il giudice dovrà procedere al confronto tra tale uso e le destinazioni possibili della cosa quali emergono anche implicitamente dalla volontà comune dei condomini: risulta certamente incompatibile con la destinazione della cosa comune l’occupazione di parte del cortile per realizzare la costruzione di alcuni gabinetti (Cass. Sez. II, 21 maggio 1990, n. 4566). Egualmente si è deciso che l’apposizione da parte di un condomino sul muro perimetrale di tre bacheche illuminate per l’esposizione di quadri in vendita fosse tale da alterare il rapporto di equilibrio tra i condomini. Secondo la Corte, per compiere una corretta valutazione circa la legittimità di uso più intenso, occorreva considerare non tanto l’uso in concreto che di tali spazi veniva fatto, ma «quello potenziale in relazione ai diritti di ciascuno», tra i quali rientrava la facoltà di apporre targhe professionali o commerciali, che sarebbe nella specie risultata impedita (Cass. Sez. II, 11 dicembre 1992, n. 13107). D’altra parte, la destinazione del bene non va valutata con criteri di assoluta rigorosità, perché un bene è suscettibile di fornire, oltre alle utilità ordinarie e principali, anche utilità aggiuntive ed accessorie, e può essere utilizzato da taluni condomini in maniera diversa o più intensa senza per questo superare i limiti di cui all’art. 1102, Codice civile. Il singolo condomino può servirsi, dunque, della cosa comune per un uso particolare purché la destinazione ulteriore e specifica sia tale da costituire una utilità aggiuntiva e non comprometta la destinazione essenziale della cosa, e purché, inoltre, non impedisca agli altri di fare parimenti uso della medesima cosa secondo il loro diritto (Cass. Sez. II, 13 dicembre 1979, n. 6502; Cass.Sez. II, 24 aprile 1981, n. 2451; Cass. Sez. II, 9 giugno 1975, n. 2293; Cass. Sez. II, 9 giugno 1986, n. 3822; Cass. Sez. II, 21 febbraio 1976, n. 579; Cass. Sez. II, 28 novembre 1984, n. 6192; Cass. Sez. II, 28 novembre 1984, n. 6192; Cass. Sez. II, 8 settembre 1984, n. 5465; Cass. Sez. II, 23 febbraio 1987, n. 1911), ad analoghe condizioni è consentito al condomino realizzare un uso del bene con intensità maggiore di altri, o apportare modificazioni alla cosa comune sia pure a spese del condomino stesso (Cass. Sez. II, 18 marzo 1987, n. 2722). Si sottolinea in giurisprudenza, nell’intento di ricercare un principio generale al quale il condomino deve ispirarsi allorché fa della cosa comune un uso più intenso, che tale uso deve sempre avvenire nel rispetto del concorrente diritto che spetta agli altri contitolari del diritto sulla cosa. Nel condominio infatti, a causa dell’intersecarsi delle proprietà singole e di quella comune si impone, al di là delle norme legali o regolamentari scritte, un armonico uso delle rispettive facoltà (Tribunale Milano, 12 maggio 1994, n. 4673). L’uso più inteso può anche comportare, che un condomino finisca per essere il solo a godere del bene; ciò è lecito, purché siano rispettate le solite condizioni che la destinazione di esso non venga alterata e non sia impedito agli altri di farne pari uso, né costituisce un limite per il condomino il fatto che, in precedenza, gli altri condomini abbiano attuato sul bene forme di godimento più limitato (Cass. Sez. II, 5 settembre 1994, n. 7652). A questo proposito, non può confondersi il concetto di uso più intenso attuato dal condomino sulla cosa comune, con la vera e propria attrazione del bene nella sfera esclusiva del singolo. Giustamente, è stata ritenuta illegittima la trasformazione di una pensilina di copertura del corridoio comune che univa i due androni di un edificio in balcone ad uso esclusivo dell’appartamento posto sul piano attiguo, avendo il proprietario di tale appartamento praticato delle aperture per accedervi: in tal modo infatti veniva snaturata la originaria destinazione della pensilina ed il bene veniva attratto nella proprietà individuale (Cass. Sez. II, 27 dicembre 1994, n. 11202). Nello stesso senso, si è ritenuto che la realizzazione di opere in cortile comune, ad opera di un condomino, costituisse alterazione vietata dello cosa comune, a nulla rilevando il fatto che al condomino fosse stato concesso l’uso esclusivo del cortile, perché tale uso deve essere sempre compatibile con la natura e destinazione del bene comune (Tribunale Milano, 7 marzo 1996, n. 2206).

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Le modificazioni possono consistere, a loro volta, nella realizzazione di opere, che sfuggono alla delibera assembleare in tema di innovazioni, alla condizione che il risultato non sia tale da comportare l’alterazione della cosa comune ovvero l’impedimento alla pari utilizzazione da parte degli altri condomini, o in ogni caso un pregiudizio allo stabile. Il pretore di Milano, decidendo ex art. 700, Codice di procedura civile, sulla richiesta di un condomino portatore di handicap di installare un ascensore a proprie spese, contrastata dagli altri partecipanti, ha affermato, innanzitutto, che la delibera a maggioranza qualificata prevista per le innovazioni è richiesta solo per quegli interventi che impongono a tutti i condomini la partecipazione alle spese, mentre trova applicazione l’art. 1102, Codice civile, ogni volta in cui il condomino tenga le spese a proprio carico. L’indagine tecnica poi espletata in corso di causa ha consentito di escludere che le parti comuni dello stabile venissero alterate nella loro destinazione dalle nuove opere, o che ne derivasse una limitazione di uso per gli altri condomini, ovvero un pregiudizio per l’edificio (Pretura Milano, 19 maggio 1987 (ord.). È stato anche affermato, che è nullo il patto col quale il condomino, per realizzare l’opera alla quale comunque ha diritto in quanto rientrante nelle sue facoltà, si sia obbligato ad una data prestazione nei confronti del condominio (Cass. Sez. II, 27 luglio 1987, n. 6492). Interessante è il principio affermato da sentenza pretorile (Pretura Foligno, 12 marzo 1987, n. 16) per la quale, in immobile esclusivamente residenziale, la sosta continuativa di un grosso veicolo industriale (autocisterna) nel cortile comune contrasta con la destinazione abitativa dell’intero complesso immobiliare e deve essere considerata illegittima. Nella decisione, il giudice ha preso in esame elementi di fatto quali l’aspetto gradevole della costruzione e la non grande estensione del cortile, escludendo che la persistente possibilità per gli altri condomini di parcheggiare le proprie autovetture fosse ragione sufficiente per consentire la sosta del grosso veicolo. Il divieto di impedire il pari uso della cosa comune Viene dunque in considerazione la regola, sussidiaria, del divieto di impedire agli altri partecipanti il «pari uso» della cosa, alla stregua della quale dovranno essere valutati quegli atti di godimento, che, pur non determinando una alterazione della cosa nella sua destinazione essenziale, comportano un pregiudizio per gli altri condomini impossibilitati a svolgere un godimento di analoga portata. La giurisprudenza ha osservato che, per delimitare il concetto del pari uso, occorre aversi riguardo non solo alla destinazione ma anche alle aspettative desumibili dall’uso che ciascun partecipante alla comunione faccia della sua proprietà, se siano prevedibili modificazioni uguali od analoghe a quelle progettate da uno di essi. Ed ancora, parità di uso non significa uso del tutto identico nello spazio e nel tempo, perché una visione così ristretta potrebbe determinare il pratico divieto per ogni condomino di fare della cosa comune un uso particolare o addirittura un uso a proprio vantaggio (Cass. Sez. II, 14 luglio 1981, n. 4601), bensì qualsiasi uso che gli altri condomini possano convenientemente fare in altra parte della cosa comune, sempre nel rispetto dei limiti di cui all’art. 1102, Codice civile (Cass. Sez. II, 23 marzo 1995, n. 3368). In applicazione di tali principi è stato ritenuto che non possa prospettarsi una ipotesi di sottrazione all’uso degli altri condomini nella iniziativa di un condomino che abbatte parte del muro condominiale, e che costituiva la delimitazione della proprietà esclusiva del medesimo, per aprirvi una porta, e di conseguenza il Tribunale dichiarò la nullità della delibera che non aveva concesso l’autorizzazione all’interessato che aveva fatto richiesta di eseguire le opere (Tribunale Milano, 1° aprile 1996, n. 3147). I diritti degli altri condomini al pari uso sul bene comune subiscono una lesione allorché uno dei partecipanti abbia attratto il bene comune in tutto o in parte nella propria sfera esclusiva di godimento, sottraendola alla possibilità di sfruttamento comune (Pretura Tarant, 16 aprile 1991). Si è ritenuto, che la sistemazione su un viottolo comune di un cancello da parte di un condomino per suo esclusivo vantaggio, anche se accompagnato dalla consegna delle chiavi agli altri condomini, interferisce col pari uso spettante a costoro (Cass. Sez. II, 25 novembre 1995, n. 12227). Il divieto di arrecare comunque un pregiudizio Esiste infine un ulteriore limite desumibile dai principi generali, e che soccorre come norma di chiusura dell’intero sistema delle facoltà concesse al condomino e cioè il divieto di arrecare, comunque, pregiudizio ad altri; pregiudizio che, peraltro, assume rilievo giuridico quando consista in una lesione «apprezzabile» del diritto altrui (Cass. Sez. II, 5 febbraio 1982, n. 663; Cass. Sez. II, 23 febbraio 1987, n. 1911).

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In definitiva, il condomino incontra nell’uso della cosa comune il limite essenziale consistente nel divieto di alterarne la destinazione attuale o potenziale (Cass., 21 maggio 1976, n. 1836; Cass., 14 dicembre 1982, n. 6869) secondo un ragionevole sviluppo, comprensiva delle prestazioni aggiuntive o anche diverse che non ne snaturano la funzione, purché, ad ogni modo, sia consentito anche agli altri partecipanti di farne un pari uso, inteso non nel senso di uso eguale, ma simile, analogo, valutato il bene nella complessità delle sue prestazioni presenti o future; se tali limiti siano rispettati, è consentito al condomino fare della cosa il più ampio uso possibile, purché ancora non venga arrecato un pregiudizio «sensibile» agli altri. Con una formula sintetica, ma significativa sulla via della crescente liberalizzazione dei poteri del condomino, la giurisprudenza ha affermato che a costui è richiesto di non turbare «l’equilibrio» degli interessi che nel regime condominiale viene realizzato. È stato affermato che costituisce pregiudizio per il singolo condomino il fatto che altro condomino parcheggi il proprio veicolo nella prossimità della finestra limitando la possibilità del primo di ricevere aria e luce dal cortile comune, la cui funzione essenziale è appunto quella di dare aria e luce alle proprietà individuali che vi si affacciano (Appello Milano, 6 luglio 1993, n. 1490). Se il condomino ha acquisito il diritto di mantenere una luce all’esterno aperta sul muro comune, un altro condomino non può eseguire opere sul muro stesso a seguito della quale la luce venga a trovarsi all’interno, privando il condomino interessato della luce ed aria di cui prima godeva (Cass. Sez. II, 6 maggio 1993, n. 5223). Al proposito, è stato ritenuto, che un’attività di tipo poliambulatoriale, che determina continuo afflusso di pubblico, sosta ripetuta di persone nell’atrio e sulle scale condominiali è incompatibile con l’utilità generale dei condomini e deve essere inibita (Tribunale Milano, Sez. VIII, 30 gennaio 1989). Talvolta viene richiesto, addirittura, che, per non turbare detto equilibrio i condomini prestino la loro collaborazione attiva al fine di consentire al condomino il raggiungimento del proprio interesse (Cass. Sez. II, 5 giugno 1978, n. 2816). Il Tribunale di Milano ha riconosciuto la legittimità della installazione da parte di un condomino nel pianerottolo comune di una telecamera che consentisse la diretta osservazione del portone di ingresso comune e dell’area antistante la porta di ingresso della singola unità immobiliare in quanto non lesiva del diritto degli altri condomini. Al contrario riteneva illegittimo il fatto che l’impianto desse facoltà al condomino di portare l’osservazione su scale anditi e pianerottoli comuni, in quanto ciò comporterebbe «una possibile lesione e compressione dell’altrui diritto alla riservatezza» che negli edifici privati deve essere assicurata per i condomini e le persone che frequentano le loro unità immobiliari (Tribunale Milano, Sez. VIII, 6 aprile 1992, n. 4164).

Lo scioglimento del condominio - Disciplina ed aspetti procedurali

Disciplina Appare opportuno ricordare, che, nell’ambito della comunione ordinaria, ciascun partecipante può sempre chiedere lo scioglimento della comunione, salva la «congrua dilazione» che l’Autorità giudiziaria è in facoltà di stabilire, in ogni caso per un periodo non superiore a cinque anni, se l’immediato scioglimento arrechi pregiudizio agli interessi degli altri; inoltre, il patto «di rimanere in comunione» è ammissibile solo nel limite temporale di dieci anni (art. 1111, primo e secondo comma, Codice civile). Lo scioglimento non è tuttavia attuabile nell’ipotesi in cui le cose, se divise, cesserebbero di servire all’uso cui sono destinate (art. 1112 Codice civile). Ben diversa disciplina si rinviene nel regime condominiale. Qui, infatti, la stretta connessione tra cose comuni e cose di proprietà individuali determina la normale indivisibilità delle cose comuni stesse, e, verificatasi la detta connessione anche per volontà delle parti, il patto di indivisibilità può essere stipulato per una durata superiore ai dieci anni. L’art. 1119 Codice civile ammette, peraltro, che, pur continuando a sussistere il condominio nel suo complesso, singole cose comuni siano assoggettate a divisione, se questa possa farsi «senza rendere più incomodo l’uso della cosa a ciascun condomino». La condizione giuridica è divenuta ancor più gravosa se si considera che la novella del 2012 subordina la divisibilità

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all’ulteriore presupposto del consenso di tutti i partecipanti al condominio. Il tutto deve essere ragguagliato agli artt. 61 e 62 d.a.c.c., secondo i quali: Art. 61 Qualora un edificio o un gruppo di edifici appartenenti per piani o porzione di piano a proprietari diversi si possa dividere in parti che abbiano le caratteristiche di edifici autonomi, il condominio puo’ essere sciolto e i comproprietari di ciascuna parte possono costituirsi in condominio separato. Lo scioglimento È deliberato dall’assemblea con la maggioranza prescritta dal secondo comma dell’art. 1136 del codice, o È disposto dall’autorità giudiziaria su domanda di almeno un terzo dei comproprietari di quella parte dell’edificio della quale si chiede la separazione. Art. 62 La disposizione del primo comma dell’articolo precedente si applica anche se restano in comune con gli originari partecipanti alcune delle cose indicate dall’ art. 1117 del codice. Qualora la divisione non possa attuarsi senza modificare lo stato delle cose e occorrano opere per la sistemazione diversa dei locali o delle dipendenze tra i condomini, lo scioglimento del condominio deve essere deliberato dall’assemblea con la maggioranza prescritta dal quinto comma dell’art. 1136 del codice stesso. In ogni caso, ricorrendone i presupposti, ciascun condomino, non diversamente da quanto avviene in regime di comunione ordinaria, è legittimato a chiedere che la cosa comune sia frazionata e la porzione risultante gli venga attribuita in proprietà esclusiva; nulla vietando, che il residuo della cosa rimanga in proprietà comune degli altri partecipanti che lo vogliano, purché il frazionamento non produca un notevole deprezzamento della cosa stessa rispetto alla utilizzabilità del complesso indiviso e consenta la formazione di quote suscettibili di autonomo e libero godimento (Cass. Sez. II, 21 aprile 1976, n. 1410). L’accertamento sulla comodità di uso, che deve permanere sostanzialmente inalterata dopo la divisione ai sensi dell’art. 1119, Codice civile, comporta un giudizio complesso, in quanto non deve essere riferito unicamente alla cosa comune riguardata in se stessa come sembrerebbe dire la massima sub (Cass. Sez. II, 14 aprile 1982, n. 2257), ma deve essere anche oggetto di valutazione l’eventuale pregiudizio che derivi alla cosa in proprietà singola come conseguenza della divisione. In altre parole, pur se la cosa comune sia divisibile nella sua materialità, la divisione non è egualmente attuabile, se ne risulti diminuita la funzionalità, consistente nella capacità di servire la cosa singola secondo la destinazione originaria. La giurisprudenza ha, sul punto, affermato che, allo scopo, bisogna considerare la cosa comune «nella sua funzionalità e non nella sua materialità» (Cass. Sez.II, 24 ottobre 1978, n. 4806). Pertanto, come non è divisibile il complesso unitario costituito dall’impianto di riscaldamento centrale e dei locali ad esso destinati (Cass. Sez. II, 26 giugno 1976, n. 2419), per ragioni strutturali, altrettanto indivisibile va considerato un cortile destinato dopo la divisione a fabbricarvi autorimesse, in considerazione delle limitazioni di luce e delle immissioni moleste che ne sarebbero derivate agli appartamenti dei piani inferiori (Cass. Sez. II, 24 ottobre 1978, n. 4806). Il giudizio concreto sulla comoda divisibilità di immobile è rimesso al prudente apprezzamento del giudice di merito (Cass. Sez. II, 26 giugno 1976, n. 2419), il quale può anche ritenere compatibile con la divisibilità la formazione di servitù non eccessivamente gravose (Cass. Sez. II, 21 aprile 1976, n. 1410). Come osserva in motivazione il Tribunale di Padova (Tribunale Padova, 21 marzo 1986), la norma di cui all’art. 1119 Codice civile è stata generalmente interpretata nel senso che la divisione non è consentita allorché per attuarla si renda necessaria una spesa sproporzionata rispetto al valore della cosa. Intervenuta la divisione, le limitazioni reali gravanti sulla cosa comune, perdurando la loro obiettiva esistenza nei rapporti tra le proprietà divise, si trasformano in servitù (Cass. Sez. II, 8 settembre 1977, n. 3916). Il contratto di divisione è nullo se stipulato da alcuni comproprietari in assenza di altri cui i beni appartengono pro indiviso, né valgono a sanare tale nullità eventuali successivi trasferimenti di quote attuate in favore di uno dei

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condividenti (Cass. Sez. II, 17 gennaio 1975, n. 194). È nullo, altresì, un atto di divisione diretto ad attribuire a persone diverse dai condomini la proprietà esclusiva di area di parcheggio realizzata in osservanza della legge urbanistica; di conseguenza, la titolarità di tale area rimane in capo all’originario proprietario (Tribunale Salerno, 24 febbraio 1981). Dal punto di vista processuale, l’azione diretta all’accertamento delle quote di proprietà indivisa, nonché ad ottenere la divisione del bene, deve essere promossa nei confronti di tutti i partecipanti alla comunione, trattandosi di un caso di litisconsorzio necessario (Cass. Sez. II, 30 giugno 1982, n.3941; Cass. Sez. II, 4 agosto 1990, n. 7862). Anche dopo la divisione, alle cose rimaste in comune che rientrino per struttura e destinazione tra i beni indicati nell’art. 1117 Codice civile, continua ad applicarsi la disciplina del condominio (Cass. Sez. II, 19 marzo 1994, n. 2609). Ben diverso dal caso ora esaminato, che riguarda la divisione di una o alcune cose comuni di un condominio che permane quanto al resto, è quello disciplinato dagli artt. 61 e 62, disp. att., Codice civile che disciplinano lo scioglimento stesso del condominio mediante la divisione in parti che abbiano la consistenza di edifici autonomi. Si osserva qui solo, che, nel regime delineato dai citati articoli, lo scioglimento del condominio può essere attuato, ricorrendone i presupposti, con delibera dell’assemblea condominiale assunta con le maggioranze di cui al secondo comma dell’art. 1136 (maggioranza degli intervenuti - almeno la metà del valore dell’edificio), o con quelle del quinto comma (maggioranza dei partecipanti al condominio - due terzi del valore dell’edificio), se la divisione (dell’edificio o del gruppo di edifici) non possa attuarsi senza modificare lo stato delle cose e occorrano opere per la sistemazione diversa dei locali e delle dipendenze tra i condomini. Secondo la giurisprudenza, il terzo dei comproprietari (art. 61, secondo comma, disp. att., Codice civile) su domanda dei quali lo scioglimento può essere chiesto all’Autorità giudiziaria, deve essere inteso con riferimento al numero dei comproprietari della parte da staccare e non alle quote da ciascuno di essi rappresentate (Tribunale Milano Sez. VIII, 3 settembre 1990, n. 9216/87). Non sussiste l’interesse dei proprietari di un edificio autonomo a chiedere lo scioglimento dell’originario condominio, qualora permanga la comproprietà delle parti comuni del secondo fabbricato e conseguentemente l’obbligo di concorrere alle spese delle parti comuni del fabbricato principale (Tribunale Torino, Sez. III, 3 giugno 1987, n. 3576). È ammissibile lo scioglimento del condominio, qualora la comunione condominiale continui a permanere su alcune soltanto delle cose comuni; ma non può essere pronunciato, se una delle parti dell’edificio che era comune divenisse, per effetto dello scioglimento, di proprietà esclusiva di alcuni soltanto degli originari condomini. Per una fattispecie relativa a locale di centrale termica, che, a seguito dello scioglimento, sarebbe divenuto di proprietà dei condomini titolari di porzioni nell’edificio in cui detto locale era posto (Appello Firenze, 10 aprile 1994, n. 468). Per quanto riguarda il regime giuridico dei beni rimasti in comune dopo lo scioglimento, è opinione prevalente in giurisprudenza che riguardo ad essi si applichi la disciplina condominiale. Una decisione peraltro del Tribunale di Napoli citata sub. Tribunale Napoli Sez. X, 24 febbraio 1995 offre una soluzione più articolata, in quanto riconosce la natura condominiale dei beni che siano legati ai singoli edifici da un rapporto di necessarietà e accessorietà, quali gli impianti idrici, di riscaldamento ed altri, mentre ritiene soggette al regime della comunione le cose non necessarie per l’esistenza dei fabbricati, quali le piscine, i campi da tennis, negozi, ristoranti e parchi. Oggi il tutto deve essere ragguagliato alla recente introduzione dell’art. 1117-bis c.c., secondo cui: “ART. 1117-bis. – (Ambito di applicabilità). – Le disposizioni del presente capo si applicano, in quanto compatibili, in tutti i casi in cui più unità immobiliari o più edifici ovvero più condominii di unità immobiliari o di edifici abbiano parti comuni ai sensi dell’articolo 1117. In definitiva vi è condominio e non comunione ogni qual volta vi siano parti comuni tra più edifici o unità immobiliari.

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Aspetti procedurali La domanda diretta a richiedere la pronunzia di scioglimento va posta con le forme ordinarie della citazione e non con ricorso in sede di volontaria giurisdizione; il relativo giudizio essendo di carattere contenzioso (Tribunale Napoli, Sez. X, 23 marzo 1994 (decr.)). Va infine rilevato che la domanda di scorporo parziale non può ritenersi compresa nella domanda di scioglimento del rapporto condominiale (scorporo totale), presupponendo una diversa determinazione della volontà non surrogabile da parte del giudice. A seguito dello scioglimento di un complesso immobiliare e della costituzione di diversi condominii separati, la causa iniziata contro il condominio originario deve essere proseguita nei confronti dei nuovi condominii (Cass. Sez. II, 11 aprile 1995, n. 4156). Esula dalla presente trattazione l’argomento relativo al problema, se nell’atto che dà vita a un condominio precostituito fra più comproprietari di un terreno edificabile sia ravvisabile una divisione di cosa futura o la costituzione di reciproche concessioni ad aedificandum.

ll Supercondominio ed il condominio parziale

Taluni complessi residenziali, per caratteristiche strutturali e per peculiarità infra-strutturali, sono definibili e configurabili come super- condominii. Con questo termine dottrina e giurisprudenza intendono indicare la situazione che si verifica nel caso di complesso edilizio distinto in diversi corpi di fabbrica che, pur essendo strutturalmente autonomi, sono dotati di strumenti destinati al servizio comune dei diversi corpi di fabbrica stessi (viali di transito, impianto di riscaldamento, zone a verde, guardiola del portiere, illuminazione, distribuzione acqua, etc..). In passato: Si tratta di un istituto individuato dalla giurisprudenza per rendere applicabili le norme del condominio in quei complessi che presentano edifici autonomi e parti comuni, con il risultato che per gli edifici si ricorreva alle norme sul condominio e per le parti comuni a quelle sulla comunione. Evoluzione del supercondominio: Qui di seguito alcune pronunzie che hanno elaborato il concetto di supercondominio: • Il supercondominio è il condominio costituito da più condomini autonomi che condividono necessariamente, per collegamento funzionale o materiale, servizi o aree comuni ( il giardino, il cortile, il portico, il piano terra,l’impianto d’illuminazione, ecc.). • Il supercondominio può nascere dalla volontà dell’originario costruttore, consacrata nel relativo regolamento contrattuale, per volontà di tutti i proprietari o, comunque, in ragione della situazione di fatto che si caratterizza per la necessaria condivisione di servizi o cose che si pongono in un rapporto di accessorietà con i singoli condomini. • È da escludersi che il supercondominio possa costituirsi solo per manifestazione di volontà dell’originario costruttore o di tutti i proprietari, essendo sufficiente a tal fine che singoli edifici, costituiti in altrettanti condomini, abbiano in comune talune cose, impianti o servizi legati – attraverso la relazione di accessorio a principale – con gli edifici medesimi e per ciò appartenenti, “pro quota”, ai proprietari delle singole unità immobiliari comprese nei diversi fabbricati (Cassazione civile, sez. II, n. 2305/2008). • In presenza di una situazione di fatto dalla quale origini necessariamente un supercondominio, a ciascuno dei condomini dei singoli fabbricati spetterà la titolarità “pro quota” su tali parti comuni e l’obbligo di corrispondere gli

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oneri condominiali relativi alla loro manutenzione (in tal senso Cassazione civile, sez. II, 31 gennaio 2008, n. 2305). • Al supercondominio sono applicabili le norme relative al condominio in relazione alle parti necessariamente comuni e la giurisprudenza individua il legame fra impianti e servizi comuni e unità immobiliari a proprietà solitaria come relazione di accessorietà comprendente sia il legame funzionale che la connessione materiale. • In ragione di quanto sopra emerge che, sotto il profilo dell’efficacia delle deliberazioni assembleari del supercondominio, le stesse dovrebbero essere l’espressione di una entità autonoma (il supercondominio), riunita in un organo assembleare diverso e distinto (rispetto alle assemblee degli edifici autonomi), che non abbisognano di alcuna ratifica da parte dei singoli condomini costituenti il supercondominio (Cassazione civile, n. 15476/2001). Altri propendono per l’applicazione della disciplina della comunione (prevista dall’art. 1110 c.c. e ss.) in sostituzione della disciplina del condominio. Tale orientamento, seppur garantirebbe una maggiore flessibilità e facilità di amministrazione dei luoghi comuni è però frenato dalla giurisprudenza la quale, anche recentemente, ha escluso l’applicabilità dell’istituto in questione. La diatriba tra tali opposti orientamenti è ancora accesa, anche se l’applicazione della disciplina della comunione in talune realtà edilizie, se, per un verso, può determinare taluni vantaggi, per altro verso, non è esente da critiche. È pur vero, infatti, che vi sono differenze sostanziali tra la comunione e il condominio: la comunione, riguarda il caso in cui la proprietà spetta in comune a più persone; il condominio, invece, riguarda l’ipotesi in cui un edificio è suddiviso in piani appartenenti a proprietari diversi. La differenza fra i due istituti (che si riflette sulle due discipline giuridiche) consiste nel fatto che mentre nella comunione il bene appartiene nella sua interezza a più proprietari, nel condominio, invece, si presuppone che solo alcune parti siano in comune e tutte le altre appartengano ai singoli proprietari. In ogni caso, sarebbe un’assurdità logico-giuridica che la semplice sostituzione della disciplina condominiale con quella della comunione determini la risoluzione dei problemi esposti, in quanto è necessario compiere opportune differenziazioni. In dottrina, infatti, vi è chi opportunamente segnala, all’interno della realtà condominiale, la distinzione tra condominio verticale e condominio orizzontale, mettendo in luce, altresì, che gli articoli 1117 c.c. e ss. (quelli che appunto disciplinano il condominio negli edifici) si limitano a regolamentare il condominio in senso verticale (da intendere come piani e porzioni di piano facenti parte dell’uguale struttura immobiliare) e non quello in senso orizzontale (da intendere tutti quei beni autonomi dalle singole strutture immobiliari come campi da calcio, fontanelle, guardiola, zone a verde, etc.). Così operando si potrebbe pensare all’utilizzo di una differente disciplina giuridica di riferimento in base alle peculiarità del bene coinvolto ed alla sua appartenenza al c.d. condominio verticale o al c.d. condominio orizzontale. Tale orientamento potrebbe creare talune difficoltà pratiche qualora non si facesse luogo ad una chiara classificazione dei beni nelle singole realtà condominiali facendo salve, comunque, le possibili remore ed incomprensioni, data la complessità del sistema, da parte di taluni condomini. Tale discussione è completamente superata dalla recente introduzione dell’art. 1117-bis c.c., che in combinato disposto con la nuova formulazione degli artt. 1118 e 1119 c.c., rendono applicabile a tali parti comuni, sempre, la disciplina del condominio e praticamente la indivisibilità del bene in comunione. Proprio per superare i problemi di ingovernabilità che spesso sorgevano nei super-condominii a causa del disinteresse di un rilevante numero di condomini, vi è stato chi ha previsto nel regolamento contrattuale di condominio la norma secondo la quale all’assemblea del super-condominio partecipano i soli amministratori in rappresentanza dei singoli edifici. Si è previsto, altresì, che gli amministratori dei singoli edifici possono tra l’altro procedere alla nomina dell’amministratore del super-condominio, il quale in tal modo sarebbe risultato nominato in modo conforme al disposto dell’art. 1129 c.c. Un sistema di tal genere raggiungeva il risultato di garantire una estrema facilità per il raggiungimento dei quorum necessari sia per la costituzione dell’assemblea sia per le deliberazioni, superando certamente la c.d. ingovernabilità per disinteresse. Tale sistema, composto da singoli amministratori dei singoli edifici componenti il complesso residenziale che oltre a svolgere la loro ordinaria attività di amministratori del singolo edificio fungono anche da grandi elettori dell’Amministratore del super-condominio (il quale garantirebbe la governabilità delle parti comuni diverse e distaccate dai singoli edifici), sebbene avallato dalla

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citata sentenza del 1974 della Corte di Cassazione, non è stata più condivisa da Cass. 28 settembre 1994 N° 7894. In quest’ultima sentenza la Suprema Corte ha dichiarato nulla la clausola del regolamento condominiale che statuiva un siffatto sistema perché essa non può derogare alle disposizioni riguardanti l’organizzazione dell’amministrazione e della gestione del condominio e non può derogare altresì alla composizione dell’assemblea, cui devono partecipare tutti i condomini. È, quindi, contrario a norme imperative il regolamento di condominio che sostituisca l’assemblea dei condomini con il collegio degli amministratori dei singoli edifici. Escludendo la soluzione di commistione della disciplina del condominio e della comunione, potrebbero farsi ulteriori approfondimenti sul sistema delle deleghe. È, infatti, vero che la norma del regolamento contrattuale che statuisca una modificazione della composizione dell’assemblea è nulla perché contraria a norme imperative, ma nulla esclude, che ciascun edificio del complesso residenziale nomini un amministratore il quale si occuperà non solo dell’ordinaria amministrazione del singolo edificio e quindi del c.d. condominio verticale, ma anche di interagire, al fine di perseguire gli obiettivi comuni (c.d. condominio in senso orizzontale), con gli altri amministratori dei singoli edifici occupandosi altresì di compiere (annualmente) un’assemblea ordinaria dei condomini dei singoli edifici al fine di discutere, oltre che delle questioni prettamente inerenti al singolo edificio, anche della nomina dell’Amministratore del super-condominio. Il tenere le assemblee dei singoli edifici, entro un congruo termine dall’assemblea di tutti i condomini del super-condominio, potrebbe consentire oltre che un maggiore interesse da parte dei singoli condomini (i quali consapevoli di essere in numero minore potranno con più facilità esprimere le proprie idee ed opinioni), anche il conferimento della delega (all’amministratore del singolo edificio o ad altro condomino che intende essere presente all’assemblea del super-condominio) da parte del condominio disinteressato o impossibilitato ad essere presente all’assemblea del super-condominio. Un siffatto sistema, che non collide con nessuna norma di diritto, consentirebbe non solo la coesistenza di più amministratori-collaboratori (ognuno responsabile del proprio edificio ma che sostengono e coordinano l’operato dell’amministratore del supercondominio), ma anche una maggiore flessibilità e rappresentatività dei singoli condomini nonché una maggiore semplicità per il raggiungimento dei quorum necessari per la validità della costituzione dell’assemblea e delle deliberazioni. Questo è il principio informatore a base della novella che, con la nuova formulazione dell’art. 67 d.a.c.c. ha previsto: «Art. 67. -- Ogni condomino può intervenire all’assemblea anche a mezzo di rappresentante, munito di delega scritta. Se i condomini sono più di venti, il delegato non può rappresentare più di un quinto dei condomini e del valore proporzionale. Qualora un’unità immobiliare appartenga in proprietà indivisa a più persone, queste hanno diritto a un solo rappresentante nell’assemblea, che è designato dai comproprietari interessati a norma dell’articolo 1106 del codice. Nei casi di cui all’articolo 1117-bis del codice, quando i partecipanti sono complessivamente più di sessanta, ciascun condominio deve designare, con la maggioranza di cui all’articolo 1136, quinto comma, del codice, il proprio rappresentante all’assemblea per la gestione ordinaria delle parti comuni a più condominii e per la nomina dell’amministratore. In mancanza, ciascun partecipante può chiedere che l’autorità giudiziaria nomini il rappresentante del proprio condominio. Qualora alcuni dei condominii interessati non abbiano nominato il proprio rappresentante, l’autorità giudiziaria provvede alla nomina su ricorso anche di uno solo dei rappresentanti già nominati, previa diffida a provvedervi entro un congruo termine. La diffida ed il ricorso all’autorità giudiziaria sono notificati al condominio cui si riferiscono in persona dell’amministratore o, in mancanza, a tutti i condomini. Ogni limite o condizione al potere di rappresentanza si considera non apposto. Il rappresentante risponde con le regole del mandato e comunica tempestivamente all’amministratore di ciascun condominio l’ordine del giorno e le decisioni assunte dall’assemblea dei rappresentanti dei condominii. L’amministratore riferisce in assemblea. All’amministratore non possono essere conferite deleghe per la partecipazione a qualunque assemblea.

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L’usufruttuario di un piano o porzione di piano dell’edificio esercita il diritto di voto negli affari che attengono all’ordinaria amministrazione e al semplice godimento delle cose e dei servizi comuni. Nelle altre deliberazioni, il diritto di voto spetta ai proprietari, salvi i casi in cui l’usufruttuario intenda avvalersi del diritto di cui all’articolo 1006 del codice ovvero si tratti di lavori od opere ai sensi degli articoli 985 e 986 del codice. In tutti questi casi l’avviso di convocazione deve essere comunicato sia all’usufruttuario sia al nudo proprietario. Il nudo proprietario e l’usufruttuario rispondono solidalmente per il pagamento dei contributi dovuti all’amministrazione condominiale ». In definitiva la soluzione di prevedere dei grandi elettori per rendere più agevole lo svolgimento delle assemblee è stato recepito, con l’unico limite di non consentire che questa funzione venga svolta dagli amministratori verticali, bensì da delegati dei singoli condomini verticali. Infatti l’impossibilità per l’amministratore di assumere deleghe rende la sua partecipazione all’assemblea supercondominiale impossibile. Si intende per supercondominio la fattispecie legale che si riferisce a una pluralità di edifici, costituiti o meno in distinti condomini, ma compresi in una più ampia organizzazione condominiale, legati tra loro dall’esistenza di talune cose, impianti e servizi comuni (quali il viale d’accesso, le zone verdi, l’impianto di illuminazione, la guardiola del portiere, il servizio di portierato, eccetera) in rapporto di accessorietà con i fabbricati. La dottrina e la giurisprudenza moderna hanno affermato che il condominio è un ente di gestione diretto (e limitato) all’amministrazione e all’uso delle cose comuni. Più specificamente si è precisato che nella comunione la proprietà o altro diritto reale su un determinato bene spetta congiuntamente a più soggetti, ciascuno dei quali è titolare, sia pure pro quota, di un diritto esclusivo sull’intero; nel condominio, invece, ciascun soggetto è titolare di un diritto esclusivo su determinate parti dell’edificio (piani o porzioni di piano), mentre altre parti restano, per necessità pratiche, di proprietà comune e indivisibile di tutti i condomini. Si è, inoltre, affermato che nel condominio degli edifici la contitolarità del diritto di proprietà è “necessaria” e non “incidentale”, mentre nella comunione in generale si realizza una situazione di equilibrio instabile, nel senso che non è prevista normalmente una durata indefinita, anzi di regola è prevista una durata limitata nel tempo. In altri termini, nel condominio negli edifici si realizza – a differenza della comunione – una situazione di equilibrio stabile, nel senso che la contitolarità del diritto che in esso opera è permanente, attesa la natura e la funzione delle cose rispetto alle quali essa si realizza. Nella evidenziata diversità degli istituti (comunione e condominio) l’opinione prevalente è che al supercondominio si applicano le regole del condominio. Applicandosi al supercondominio le stesse regole che vigono in materia di condominio, ne discende, altresì, che nulla muta in materia di tabelle millesimali. È infatti pacifico che anche nel supercondominio le tabelle millesimali rappresentano la misura del diritto dei comproprietari al godimento delle cose comuni, nonché dei loro corrispondenti obblighi di partecipazione alle spese, e pertanto attengono alla concreta configurazione di diritti reali, che può essere modificata soltanto col consenso manifestato da tutti gli interessati e non da deliberazioni dell’assemblea, le cui attribuzioni sono circoscritte all’amministrazione dei beni comuni nel rispetto dei criteri fissati dalla legge o dalla volontà unanime dei condomini.

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Il condominio parziale - L’assemblea del condominio parziale e il ruolo del regolamento.

La nozione di condominio parziale ed i suoi riflessi L’art. 1123, terzo comma, c.c. recita: “ qualora un edificio abbia più scale, cortili, lastrici solari, opere o impianti

destinati a servire una parte dell’intero fabbricato, le spese relative alla loro manutenzione sono a carico del gruppo

di condomini che ne trae utilità”.

Si tratta di una norma dettata in relazione alla ripartizione delle spese di quelle cose che, per le loro caratteristiche

strutturali, sono utili ad una sola parte dei condomini.

Classico l’esempio dell’edificio con più di una scala dove la stesse servono solamente ad un gruppo ben delimitato

di condomini (es. condominio Alfa con scala “A”, “B”, ecc.).

Si tratta del così detto condominio parziale la cui esistenza “ è ritenuta possibile sia dalla dottrina che dalla

giurisprudenza (cfr. ex plurimis: Cass. 27.2.1995 n. 7885; 2.2.1995 n. 1255; 29.10.1992 n. 11775; Sez. Un. 7.7.1993

n. 7449) allorché all’interno del cd. condominio allargato talune cose - qualificate come comuni ex art. 1117 c.c. -

siano per oggettivi caratteri materiali e funzionali necessarie per l’esistenza o per l’uso, ovvero siano destinate

all’uso o al servizio, non di tutto l’edificio, ma di una sola parte o di alcune unità abitative di esso” (così Cass. 12

febbraio 2001 n. 1959).

Il Supremo Collegio ha altresì analizzato i riflessi pratici che l’affermazione dell’esistenza del condominio parziale

porta con sé.

In una sentenza datata 1994 la Corte di Cassazione ebbe ad evidenziare che “ numerose ed evidenti sono le

conseguenze operative del condominio parziale. Alla differente attribuzione della titolarità, si riconducono

implicazioni considerevoli per quanto attiene alla gestione ed imputazione delle spese. Relativamente alle cose, ai

vizi ed agli impianti,dei quali non hanno la titolarità, per i partecipanti al gruppo non si pongono questioni di

gestione e di obbligazioni di contribuire alle spese. In particolare, non sussiste il diritto di partecipare all’assemblea,

ragion per cui la composizione del collegio e delle maggioranze si modificano in relazione alla titolarità delle parti

comuni, che della delibera formano oggetto e non sorge l’obbligazione di contribuire alle spese” (Cass. 27 settembre

1994 n. 7885).

In sostanza non solo le spese vanno divise esclusivamente tra chi trae utilità dalle cose oggetto del condominio

parziale ma anche le decisioni ad esse relative devono essere assunte solamente da questi comproprietari.

È questo il punto nodale della decisione testé citata: la configurazione delle così dette assemblee parziali.

Si pensi ad un edificio in condominio con tre distinte scale tutte dotate di un autonomo portone d’ingresso,

androne, ecc. Stando a quanto detto gli androni, i vani scale, ecc. non saranno di proprietà di tutti i condomini bensì

dovranno essere considerati di proprietà esclusiva del gruppo di condomini cui servono.

S’ipotizzi che si renda necessario effettuare un’opera di pitturazione di uno degli androni. È evidente che in simili

circostanze le decisioni relative agli interventi manutentivi, per quanto ci dicono dottrina e giurisprudenza,

dovranno essere decisi solamente dal gruppo di comproprietari interessati.

Ciò vuol dire che sorta l’esigenza di intervenire sulle parti di proprietà comune ad alcuni, solo questi ultimi

dovranno essere convocati in assemblea per assumere le decisioni del caso.

Non è raro, in virtù della strutturazione del condominio, che siano gli stessi regolamenti a prevedere in relazione

alle parti di “proprietà parziale” delle apposite modalità di convocazione dell’assemblea, nonché delle tabelle

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specificamente necessarie a ciò.

Laddove non vi fosse tale regolamentazione, le regole da seguire sono quelle della convocazione dell’assemblea

“classica” (art. 1136 e art. 66 disp. att. c.c.) e le maggioranze andrebbero riparametrate con un’operazione

aritmetica che tenesse in considerazione solamente i millesimi dei condomini interessati.