Antropologia delle religioni

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 LA RELI GIONE COME PROBLEMA STORICO DEFINIZIONE DEL CAMPO DI STUDI Il primo problema che incontra chi si accinge per la prima volta ad occuparsi di Storia delle religioni è proprio la definizione del campo di studi. Di che si occu pa la Storia del le relig ioni? A prima vista que- sto non sembra affatto un problema e la risposta appare, al senso co- mune, scontata: compit o della Storia delle rel igi oni sarebbe di ricostruire, e descrivere, le manifestazioni di quel particolare aspetto della cultura costituito dalla religione, illustrando come sono mutate secondo le varie epoche e presso i vari popoli le concezioni e le dot- trine religiose. Così come la Storia dell’arte ricostruisce il susseguirsi delle manifestazioni artistiche dall’antichità ad oggi, con specializ- zazioni per le varie epoche (ad esempio l’arte medievale) e per le varie civiltà (ad esempio l’arte egiziana o cinese), analogamente la Storia delle religioni dovrebbe mostrare il susseguirsi delle varie re- ligioni nella nostra cultura (per esempio la religione greca, quella ro- mana, il Cristianesimo) o nelle altre (per esempio le religioni  primitive o il Buddismo o l’Islam). A distinguere la Storia dell’arte dalla Storia delle religioni sarebbe dunque la diversità dell’oggetto: l’arte nel primo caso e la religione nel secondo. Data per scontata l’esistenza di un oggetto particolare (l’arte, ma anche la filosofia o il diritto ecc.), ne seguirebbe per conseguenza la possibilità di fare la sua storia nel tempo e presso le varie civiltà: così come vi è una Sto- ria della filosofia, una Storia dell’arte, una Storia del diritto, esisterà anche una Storia delle religioni. La religione viene in questo modo vista come una realtà autonoma,  particolare, presente in tutte le culture: si da per scontato dunque che ogni cultura abbia un insieme di teorie e pratiche che si possano in- tendere come “religione ”, così come ogni cultura avrà le sue pratiche

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Risultato di una lunga esperienza didattica e di ricerca, seguendo un orientamento rigidamente storicista, il volume vuole offrire un contributo alla comprensione dei fenomeni religiosi in un periodo nel quale tale comprensione appare determinante per orientarsi nel mondo moderno. Attraverso un percorso che dipana uno ad uno tutti i principali nodi concettuali della Storia delle religioni (il mito, il rito, gli dei, i re sacri, l'origine del desiderio di immortalità), il lettore è condotto a confrontarsi con usanze a volte affascinanti e lontane a volte sorprendentemente vicine, per giungere ad una continua e benefica messa in discussione di tanti pregiudizi storicamente sedimentati.

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LA RELIGIONE COME PROBLEMA STORICO

DEFINIZIONE DEL CAMPO DI STUDI

Il primo problema che incontra chi si accinge per la prima volta adoccuparsi di Storia delle religioni è proprio la definizione del campodi studi. Di che si occupa la Storia delle religioni? A prima vista que-sto non sembra affatto un problema e la risposta appare, al senso co-mune, scontata: compito della Storia delle religioni sarebbe diricostruire, e descrivere, le manifestazioni di quel particolare aspettodella cultura costituito dalla religione, illustrando come sono mutatesecondo le varie epoche e presso i vari popoli le concezioni e le dot-

trine religiose. Così come la Storia dell’arte ricostruisce il susseguirsidelle manifestazioni artistiche dall’antichità ad oggi, con specializ-zazioni per le varie epoche (ad esempio l’arte medievale) e per levarie civiltà (ad esempio l’arte egiziana o cinese), analogamente laStoria delle religioni dovrebbe mostrare il susseguirsi delle varie re-ligioni nella nostra cultura (per esempio la religione greca, quella ro-mana, il Cristianesimo) o nelle altre (per esempio le religioniprimitive o il Buddismo o l’Islam). A distinguere la Storia dell’artedalla Storia delle religioni sarebbe dunque la diversità dell’oggetto:l’arte nel primo caso e la religione nel secondo. Data per scontatal’esistenza di un oggetto particolare (l’arte, ma anche la filosofia o ildiritto ecc.), ne seguirebbe per conseguenza la possibilità di fare lasua storia nel tempo e presso le varie civiltà: così come vi è una Sto-ria della filosofia, una Storia dell’arte, una Storia del diritto, esisteràanche una Storia delle religioni.

La religione viene in questo modo vista come una realtà autonoma,particolare, presente in tutte le culture: si da per scontato dunque cheogni cultura abbia un insieme di teorie e pratiche che si possano in-tendere come “religione”, così come ogni cultura avrà le sue pratiche

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che deve essere possibile intendere come “diritto” ben distinte daaltre che definiremo “arte” e così via. Ciascuno di questi settori avràpoi la sua “storia” particolare e queste “storie”, pur avendo occasio-

nalmente argomenti in comune si distingueranno le une dalle altreper la differenza dell’oggetto.

Questo ragionamento, in apparenza così sensato, nasconde perògravi difficoltà teoriche e presenta forti rischi di fraintendimento.

Una prima conseguenza è che in questo modo si viene a conside-rare riduttivamente il compito della storia come quello di descriverei vari modi di manifestarsi nel tempo di una realtà, mentre la storia è

molto più di una semplice descrizione cronologica. Considerare laStoria delle religioni come una generica “storia di tutte le religioni”esistenti o esistite, equivale a trasformarla in una disciplina compi-latoria e classificatoria, attività erudite che solo parzialmente copronol’area della ricerca storica.

Una seconda, e ben più grave, conseguenza è che si da per scontatoproprio ciò che è invece il principale argomento in questione, la re-ligione, e si presuppone proprio ciò che andrebbe indagato: dare per

scontato che esista sempre qualcosa come la religione equivale difatto ad un pregiudizio. Non appena, infatti, abbandoniamo la nostracultura per rivolgere l’indagine alle culture di altri popoli ci troviamoimmediatamente in difficoltà. È lecito, ad esempio, inquadrare nellenostre categorie l’Induismo come religione? O non è piuttosto una fi-losofia? Se badiamo al fatto che le tradizioni indiane presentano mi-lioni di dei allora verrebbe naturale ritenerlo una religione. Se inveceguardiamo alle profonde riflessioni sul senso della vita e dell’uni-verso presenti nell’Induismo allora potrebbe apparire utile definirlocome una filosofia. Se poi guardiamo alle normali pratiche delle po-polazioni indiane, come il timore estremo del contagio dell’impurità,il rispetto per le vacche, le usanze di casta ed altro ancora, allora po-tremmo qualificarlo come magia, superstizione, ma anche morale,diritto. Eccoci in una confusione classificatoria dalla quale non siesce isolando gli aspetti “autenticamente” religiosi distinguendoli da

altri, culturali e sociali, “accessoriamente” religiosi: in questo caso in-fatti la scelta di ciò che è religioso e di ciò che è non-religioso ri-mane largamente soggettiva ed arbitraria. Né si esce da questaconfusione dicendo che l’Induismo è un insieme di tutte quelle realtà

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(magia, religione, diritto ecc.) unite, magari, ad altro ancora. Direche l’Induismo è tutto, infatti, non ci aiuta a capirlo meglio. Tantovale allora rinviare il problema di come classificare l’Induismo e de-

dicare la nostra attenzione ad una analisi critica delle nostre catego-rie interpretative. Tra queste, per i nostri scopi, la prima da sottoporrea verifica è proprio la nozione di religione.

Quello che dobbiamo chiederci è se sia lecito, in sede storica, in-terpretare elementi culturali di altre culture utilizzando la nostra ca-tegoria di religione. Un dubbio che è tanto più lecito in quanto innessuna delle altre culture del mondo, oltre alla nostra, esiste un con-

cetto paragonabile o analogo al nostro concetto di religione e in nes-suna lingua non occidentale esiste un termine in grado di tradurre lanostra parola “religione”. Naturalmente a seguito del contatto conl’Occidente, sia a seguito della colonizzazione sia per acculturazione,oggi tutti i popoli, praticamente, dispongono e utilizzano il terminee il concetto di religione: lo hanno però mutuato da noi e non si trattadi un elemento culturale originario. Non a caso in tutte le lingue delmondo il termine religione è derivato, tramite la mediazione delle

lingue dei popoli colonizzatori, dal termine latino religio. Il Cristia-nesimo, elemento determinante nella definizione della cultura occi-dentale (al punto che i fondamentalisti islamici per designare glioccidentali li definiscono Cristiani), ha portato alle varie popolazionila nozione di religione: tuttavia, prima dell’incontro/scontro conl’Occidente, nessuna cultura possedeva la categoria di religione perdesignare certi aspetti del reale (pratiche, comportamenti, credenze)e per distinguerli da altri ritenuti non-religiosi.

Si potrebbe obiettare che all’assenza del termine non deve corri-spondere necessariamente l’assenza del fatto. Pur non conoscendo enon utilizzando un termine/concetto di religione, questi popoli po-trebbero avere ugualmente un insieme di pratiche e di norme che poinoi potremmo legittimamente definire religiosi. Secondo questa obie-zione anche se nessuno, oltre agli Occidentali, ha un termine equi-valente al nostre termine “religione” nondimeno “l’essenza” del fatto

religioso sarebbe presente in tutti i popoli: tutti avrebbero una reli-gione, magari inconsapevolmente, mescolata ad altre pratiche, ma-gari rozza e primitiva ma pur sempre riconoscibile come religione.

Prescindendo dall’arbitrio di presupporre che un popolo abbia una

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religione anche se non lo sa, così operando trasformiamo però la re-ligione da problema storico in problema metafisico. La religione di-viene una categoria eterna dello spirito, una dimensione permanente

dell’animo umano, un tratto universale in grado di manifestarsi nellastoria e di condizionarla ma che in sé è sottratto alla storia, è primadella storia nel senso che la sua genesi sarebbe esterna alla storiastessa. Secondo questo ragionamento vi sarebbe prima la Religione,con la maiuscola, e poi la descrizione delle sue manifestazioni stori-che: religioni primitive, Cristianesimo, Buddhismo, Islam, e via diseguito. Tutte le religioni storiche risulterebbero essere aspetti di-

versi di un’unica realtà fondamentale: ciascuna di esse mostrerebbeun aspetto del vasto campo della Religione senza però mai esaurirlocompletamente. In questo modo la religione viene intesa come unacomponente universale dell’uomo, un elemento della civiltà separatodalle altre componenti e dagli altri prodotti culturali, una dimensionedel reale autonoma rispetto alle altre. La conseguenza però è che cosìsepariamo la religione di ciascun popolo dal resto dei rapporti cultu-rali di quella civiltà, ci allontaniamo dalla realtà e inseriamo la reli-

gione in un contesto puramente ideale rispetto al quale il compitodella storia risulta assai ridotto. Scivoliamo lentamente ma inesora-bilmente nel campo della metafisica: se la religione è qualcosa diconnaturato all’uomo, qualcosa che precede la storia, potremo almassimo descriverne le manifestazioni storiche ma non compren-derla per intero come fatto storico. Le stesse esperienze religiose vis-sute dagli uomini nelle varie culture potrebbero al massimo veniredescritte ma non mai spiegate completamente in termini storici poi-ché per definizione la religione rimanderebbe al metastorico. Le ca-tegorie razionali potrebbero avvicinarsi ma mai comprenderetotalmente l’esperienza religiosa.

Simile in realtà, anche se muove su un piano materialistico, è latesi che riduce la religione a fatto psicologico. La religione sarebbeun fatto innato dell’uomo, un prodotto del suo inconscio, interpreta-bile, a seconda delle varie scuole, come sublimazione di pulsioni,

come manifestazione di archetipi pan-umani, come espressione in-nata dei bisogni dell’uomo. In questo modo la spiegazione psicolo-gica sposta l’accento dalla storia alle scienze della natura: lareligione, fenomeno secondario di altre realtà psichiche primarie, è

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ridotta a fattori inconsci, individuali o collettivi che siano. Fattori de-terminabili tutti sulla base delle leggi naturali che regolano la psiche.In questa ritirata dalla storia alla natura, quello che si perde è pro-

prio la ricchezza della varietà storica. Puntando tutta l’attenzione sul-l’origine psichica della religione si finisce per perdere di vista laspiegazione della straordinaria varietà delle concrete, storiche, ma-nifestazioni religiose. Naturalmente questo non significa che la psi-cologia non trovi posto nello studio dei problemi storico-religiosi.Ammettendo che lo stesso ambito della psiche sia, almeno in certilimiti, storicamente e culturalmente condizionato, può essere utile

per la Storia delle religioni considerare i fattori psicologici. Ma inquesto uso non si tratta più di interpretare la religione come sempliceprodotto psichico su un piano ideale pan-umano.

Operare una simile ritirata nell’irrazionalismo metafisico o nel na-turalismo psicologico, è esattamente ciò che non è concesso allo sto-rico. Naturalmente nulla vieta a chi è mosso da altri interessi(filosofici, teologici, fenomenologici) di occuparsi della religionecome se fosse una dimensione eterna dello Spirito o una dimensione

permanente della mente o dell’animo dell’uomo, come se fosse unarealtà naturale o metafisica sottratta al divenire storico: una realtàsempre esistita ma della quale solo a partire da una certa epoca si siacompreso il concetto. Si tratta di interessi legittimi ai quali corri-spondono metodi di indagine particolari e adeguati alle differenti pro-spettive. Non sono però questi né i metodi né gli interessi dellostorico il quale, per definizione, ha a che fare solo con prodotti sto-rici e deve guardare alla religione come se fosse unicamente un fattostorico. La Storia delle religioni studia la religione (anzi: le religioni)come prodotto storico indipendentemente da ogni riferimento tra-scendentale rispetto alla storia (come ad esempio la verità oggettivao la salvezza che il credente si aspetta dalla sua fede, aspetti questiche rientrano nella sfera di competenza della teologia). La religionenon può essere vista come un fatto autonomo, separato dal resto delcontesto storico e slegata rispetto al resto della cultura bensì va vista

come un prodotto culturale umano, un fatto esclusivamente storico.L’ipotesi corretta da cui partire è che se un popolo non ha ritenuto didefinire alcuni aspetti della vita come religiosi è perché non possiedeaspetti della vita che sono religiosi.

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IL CRISTIANESIMO E LA NASCITA DELLA RELIGIONE

Lo stesso nostro concetto di religione, infatti, non è sempre esistitoma è esso stesso un prodotto storico che si è formato (e continua aformarsi) nel corso della nostra civiltà, a partire dallo scontro del Cri-stianesimo con altre correnti ideologiche e culturali del mondo antico,mediante la trasformazione del termine latino religio. Questo terminedesignava inizialmente certi atteggiamenti e pratiche (timori, tradi-zionalismi, divieti) che solo in minima parte coincidono con ciò che

oggi intendiamo per religione. Neanche nella cultura romana, dallaquale abbiamo derivato il termine religio, esisteva qualcosa di corri-spondente al nostro concetto di religione. Questo concetto è nato a se-guito dell’incontro tra Cristianesimo e cultura romana. Per poter fartrionfare il suo messaggio universalista ed evangelico, con una fortecomponente di proselitismo, il Cristianesimo dovette qualificarsi edindividuarsi in opposizione ad alcuni aspetti culturali romani. Con-siderata la natura “religiosa” del Cristianesimo, questi fatti romani

ai quali si voleva opporre vennero considerati anch’essi come reli-giosi, di una religiosità però sbagliata, opera del demonio: nacquecosì il paganesimo come religione negativa. Assumendo il Cristia-nesimo e il paganesimo come religioni opposte, i Cristiani poteronodefinire la loro diversità rispetto ai pagani mediante la diversità deicontenuti di fede. I contenuti religiosi del paganesimo, gli dei e i ritidel politeismo, erano falsi, mentre i contenuti religiosi del Cristiane-simo erano veri. Questa scelta ebbe notevoli conseguenze per la no-stra storia culturale. La prima conseguenza è che da allora sonodivenuti centrali, nella definizione di religione e quindi anche per di-stinguere una religione vera da una falsa, i contenuti della fede, iltipo di fede. La seconda è che distinguendo all’interno della culturaromana una sfera religiosa, ovvero il paganesimo, da una sfera chedefiniremo “civica”, il Cristianesimo poté sostituirsi come religionevera al falso paganesimo, lasciando però intatti tutti quegli aspetti

della cultura romana classica che potevano essere valorizzati. Pre-sentandosi come una religione vera che va a sostituire una religionefalsa, il Cristianesimo poté ritagliarsi, all’interno della stessa culturaromana, un proprio un campo d’azione, quello religioso, nel quale

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inserirsi senza distruggerla totalmente. Tutti i tratti culturali dellasfera “civica” – si pensi alla dialettica tipica della cultura di Roma trapubblico e privato, allo Stato come Res pubblica, alla giurisprudenza

e, in età imperiale, alla filosofia greca – vennero non solo lasciati in-tegri ma anzi valorizzati dal Cristianesimo. Questo consentiva di uti-lizzare tutta quella parte della cultura romana che non sembravainconciliabile con il proprio messaggio religioso ed anzi apparivautile: ad esempio la giurisprudenza per le formulazioni del diritto ca-nonico e la filosofia classica per le formulazioni teologiche. Ebbecosì origine quella distinzione tra la sfera religiosa e quella civile che

caratterizza la nostra cultura ma che era sconosciuta alla cultura ro-mana. Distrutta nella sua organicità la cultura romana sfiorisce enasce a questo punto la Civiltà Cristiana. Una rivoluzione culturaledella quale noi ancora oggi siamo il prodotto.

Il termine religio, nel nuovo significato di religione, venne impo-sto dal Cristianesimo a tutte le lingue indoeuropee e il concetto di re-ligione finì per essere usato per indicare ciò che, nelle altre culture,aveva riscontri analogici con i fatti cristiani. Rimane da spiegare per-

ché il Cristianesimo abbia scelto proprio il termine religio per defi-nire se stesso. Una risposta certa necessiterebbe di un’indagine cheè ancora largamente da completare. Si possono però avanzare delleipotesi. Nella cultura romana per indicare alcuni culti rivolti in esclu-siva ad una divinità, e pertanto che caratterizzavano esclusivamentequella divinità, si utilizzava il termine religio. I misteri eleusini chesi svolgevano a Roma, ad esempio, con il loro insieme di culti rivoltiesclusivamente a Cerere, venivano definiti religio Cereris. Il Cri-stianesimo, con il suo intransigente monoteismo e con il culto rivoltoesclusivamente al suo Dio unico, poteva facilmente essere definitoreligio, ed i suoi fedeli essere religiosi.

La nostra abitudine a distinguere i fatti religiosi dal resto delle ma-nifestazioni culturali di un popolo (a distinguere il religioso dal ci-vile) si rivela pertanto, quando ci occupiamo di culture diverse daquella occidentale, solo un arbitrio. Separare certi tratti culturali, qua-

lificandoli come religiosi, da altri non religiosi equivale a frainten-dere la realtà storica. Il compito dello storico è dissolvere tutti queifatti qualificati a lungo come religiosi nella concretezza culturaledelle altre civiltà, evitando di imporre le nostre categorie interpreta-

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tive e cercando invece di ricostruire le logiche interne di queste cul-ture. In alcuni casi saremo autorizzati a usare il concetto di religione,in tutti quei casi nei quali abbiamo a che fare con la cultura occiden-

tale o con altre (per esempio l’Islam) che si sono strettamente con-frontate con essa. In altri casi, invece, questa possibilità ci è preclusa.Di volta in volta sarà il concreto contesto storico a suggerirci quali ca-tegorie sia lecito usare. Rimane comunque che non potremo mai se-parare alcuni fatti sottraendoli alle interpretazioni storiche per inserirlisu un piano ideale, attingibile solo dai metafisici o dagli psicologi. Ilcompito dello storico è cancellare ogni assolutezza e relativizzare ogni

valore e tratto culturale alla civiltà che ne è portatrice.Anche se a voltepuò essere corretto usare la religione come un elemento di qualifica-zione di determinate unità culturali (ad esempio possiamo parlare di Ci-viltà Cristiana o Islamica) rimane comunque che si tratta di un usoderivante da un giudizio storico e non basato su diversità qualitative deifatti religiosi rispetto al resto dei fatti culturali.

I diversi fatti storici che qualifichiamo come religiosi sono legatistrettamente agli altri aspetti culturali delle varie popolazioni e delle

varie civiltà e, tranne che per la civiltà occidentale, non abbiamoalcun diritto di distinguerli dal resto della cultura. Ciò di cui occorrerenderci conto è che la stessa concettualizzazione della religione è,per noi, un fatto storico. La religione non è sempre esistita ma è unprodotto della cultura occidentale nel suo sviluppo ed anzi un pro-dotto rivoluzionario tale da connotare in modo decisivo l’Occidente.Si è costruita un’abitudine nostra, un nostro condizionamento cultu-rale, a pensare certi fatti in termine di religione. Condizionamentodel quale dobbiamo prendere coscienza per eliminarlo. Non solo dun-que non abbiamo alcun diritto, se non quello derivante da un pregiu-dizio, di interpretare come “religiosi” fatti di altre culture madobbiamo anche ammettere che se il concetto di religione si è for-mato nella nostra civiltà, e con essa si trasforma, non potrà avere unsignificato eterno.

Le difficoltà di natura pratica e teorica, nelle quali ci imbattiamo

durante il nostro sforzo di trattare la religione come un fatto auto-nomo, nascono in realtà da una consuetudine: la consuetudine propriadella nostra cultura che ci porta a distinguere e classificare i fatti re-ligiosi come diversi da quelli non religiosi. Nella nostra cultura è pos-

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sibile in effetti isolare un sistema di valori qualificati come religiosie distinguerli da un altro sistema di valori che potremmo definire ci-vici. Si pensi, come esempio, alla distinzione, presente solo nella no-

stra cultura, tra feste civili e religiose, tra il battesimo di un neonatoe la sua iscrizione all’anagrafe. Si tratta di due livelli di realtà checoesistono. Alla sfera del religioso appartiene la dialettica sacro/pro-fano; a quella del civile la dialettica pubblico/privato. Il profano nonsi identifica con il civile, è semplicemente ciò che non è sacro.L’ostia, prima della consacrazione non è “civile”, né è “civile” il fe-dele che non è stato “consacrato” sacerdote. Il civile gioca su un altro

piano, quello sul quale tutti i cittadini (da cives), indipendentementedalla loro fede e dalle loro qualifiche religiose, sono sottoposti al di-ritto pubblico e al diritto privato. Ecco allora la possibilità per noi diisolare la sfera del religioso da quella del civile e di affidarne lo stu-dio ad un’apposita disciplina, la Storia del Cristianesimo destinata astudiare la nostra religione. Non è però lecito operare questa distin-zione tra sfera del religioso e sfera del civile nelle altre culture: farlosignifica ridurre le realtà altrui alla nostra e dunque fraintenderla. Né

è possibile pensare che la nostra sia una definizione riduttiva di reli-gione, alla quale pertanto si potrebbe opporre una definizione piùampia: quella offerta non è una definizione ma la ricostruzione dicome si sia formato questo concetto nella storia. Rifiutare questa ri-costruzione come irrilevante, in nome di una più ampia definizionedi religione, tale ad esempio da includere l’Induismo, significherebbeconsiderare come irrilevante un fatto storico accertato in nome di unadefinizione astratta e in quanto soggettiva, anche arbitraria. Dal puntodi vista storico i fatti non sono mai irrilevanti. Questo significa chel’Induismo non è una religione? Pazienza, l’importante non è dargliquesta o quella qualifica assoluta, poiché la storia non ha per obiet-tivo quello di giungere a definizioni assolute, ma comprenderlo sto-ricamente. Quanto agli dei dell’Induismo, e al problema della fededegli Indiani in questi dei, la domanda corretta, che mette in causa lanozione indiana di “fede” e la nozione indiana di “divinità” (senza

pretendere di applicare meccanicamente all’India le nostre nozioni difede e di divinità), è: «quali funzioni hanno gli dei dell’Induismo?Per quali motivi gli Indiani hanno attribuito agli dei proprio quellefunzioni?»

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LA MAGIA SCOMPARSA

La storicizzazione del concetto di religione, e l’avvertimento circal’impossibilità di usare questo concetto come una definizione univer-sale sotto la quale catalogare fatti diversissimi dai nostri, ci consenteanche di superare una delle più annose questioni storico-religiose: ilproblema della magia.

Si è a lungo discusso sul carattere della magia disputando se essafosse una fase anteriore alla religione, una componente più o meno

necessaria della religione, oppure l’antagonista della religione. È statavista come una religione poco sviluppata, propria di popolazioni “in-civili”, legate a concezioni magiche dell’esistenza. È stata conside-rata come un elemento costante e sempre presente, sia pure in misuravariabile, di ogni esperienza religiosa. È stata infine vista come l’op-posto della religione, il negativo rispetto al positivo religioso; quellache distrugge e nega laddove la religione propone valori positivi e co-struisce la civiltà.

Falsi problemi che derivavano da una mancata storicizzazione eche ripercorrevano, per la magia, la stessa strada percorsa dalla reli-gione: quella di ritenerla una categoria autonoma della cultura, uninsieme di comportamenti permanenti e irriducibili ad altre valenze.

Proviamo a vedere cosa rimane della magia dopo un’adeguata sto-ricizzazione. Per magia si intese inizialmente, ci riferiamo alla Gre-cia arcaica, un insieme di pratiche divinatorie e di arti rituali propriedei Magi, sacerdoti del Mazdeismo (il monoteismo iranico) e dei Cal-dei. In realtà la cultura indoiranica della Persia e i Caldei erano coseben diverse ma vennero considerati dai Greci un unico, esotico,mondo iranico, dal quale provenivano tutte le stranezze e le novitàconsiderate negative. L’arte divinatoria, considerata magia, era estra-nea alla cultura greca e al culto degli dei: si diffuse tra gli strati menocolti della popolazione, che pur essendo greci erano percepiti come“stranieri”, non perfettamente integrati (schiavi, residenti non citta-

dini, mercanti, servi, donne, prostitute). Di qui il marchio ideologico(ma anche sociale) di attività estranea al culto degli dei e pertantoopponibile all’edificio sociale ed etico che in quel culto si ricono-sceva. Nella Roma repubblicana l’opposizione alla magia orientale

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venne rafforzata con divieti giuridici, gli stessi che perseguivano unaserie di pratiche “negative” quali la preparazione di veleni, incante-simi ed altro. Quanto alla divinazione per sorte, definita “caldea”,

Roma aveva da sempre un orientamento ufficiale contrario sia agli in-dovini sia a ogni forma divinatoria che non fosse quella esercitatadagli àuguri e non poteva che perseguire queste pratiche orientaliestranee alla sua cultura. Il Cristianesimo, che già in sé era origina-riamente privo di elementi divinatori, ereditò da Roma le valenze an-tidivinatorie e antimagiche; intendendo se stesso come religioneintese parimenti la magia come antireligione, non-religione. In que-

sto modo la magia rientrava nella sfera di influenza del demonio. Ciòfornì una giustificazione teologica a molti processi per magia, cherappresentavano la continuazione dei processi intentati ai praticantidi magia già avvenuti in età romana.

Nel periodo dell’umanesimo la “riscoperta” della magia fu lo stru-mento per una riconsiderazione della dimensione umana, in opposi-zione alla cultura scolastica medievale. Naturalmente la riscopertadella magia non significava riscoprire tracce di una sapienza scom-

parsa ma la costruzione di un nuovo universo culturale e di nuovi va-lori che si era deliberatamente scelto di chiamare magia proprioperché il termine magia consentiva di opporli alla cultura religiosadell’epoca. I nuovi contenuti “magici” erano dunque un prodotto cul-turale sorto per esigenze storiche e non la riscoperta di una qualcheverità. Tanto meno erano il risultato di una particolare disposizionedell’animo umano, o la riscoperta di una qualche realtà naturale o, in-fine, una qualche forma di religiosità universale o nascosta. Questarinascita della magia sotto il segno positivo la vedeva infatti comun-que distinta e in opposizione rispetto alla religiosità tradizionale. Ilcambiamento di segno non cancellava la connotazione della magiacome elemento non religioso se non, addirittura, antireligioso. Tantoche, quando la magia è stata poi considerata come una “vera” reli-gione (ad esempio presso alcuni circoli esoterici) la si è comunqueopposta ad un’altra religione, quella ufficiale dominante.

Magia e religione divengono da allora i poli opposti di una alter-nativa che è tutta interna alla nostra tradizione e alla nostra cultura.Solo per noi, grazie alla nostra eredità greco-romana filtrata dal Cri-stianesimo e dall’Umanesimo, esistono queste due categorie distinte

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– magia e religione – ciascuna con una valutazione opposta all’altra.Proiettare questa opposizione in altre culture, con storie e tradizioniestranee alla nostra, che non hanno avuto né la tradizione greco-ro-

mana, con la loro opposizione per Magi e Caldei, né la polemicaumanista, equivale a fraintenderle. Fuori dall’opposizione con la re-ligione, la magia svanisce, e se non possiamo parlare di religione pergli altri a maggior ragione non potremo parlare di magia.

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