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VERONICA SBERGIA & MAX DE BERNARDI MARCUS EATON MADAME GUITAR MUSIC IS LOVE TECNICA Stefan Grossman Peter Finger Dino Fiorenza Daniele Bazzani Antonio Forcione Sketches of Africa Strumenti: Peavey Composer Parlor, Martin DRS 1, Gold Tone mic e preamp Poste Italiane S.p.A. – Spedizione in abbonamento postale – D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n.46) art. 1, comma 1, CN/BO

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Veronica Sbergia & Max de bernardi

MarcuS eaton

MadaMe guitar

MuSic iS loVe

tecnicaStefan grossmanPeter Fingerdino Fiorenzadaniele bazzani

antonio ForcioneSketches of africa

Strumenti: Peavey composer Parlor, Martin drS 1, gold tone mic e preamp

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chitarra acustica 11 duemiladodici

EditorialeChitarra Acustica Winter di Andrea Carpi pag. 3

Il silenzio della musica di Reno Brandoni pag. 5

NotizieDue chitarristi e un cantautore-chitarrista a Sarzana pag. 6

BlogPrima chitarra: scelta accurata di Luca Francioso pag. 8

Quelli che… costruiscono le chitarre, oh yeah! di Mario Giovannini pag. 9

Perché non parli? di Daniele Bazzani pag. 10

Il palco di Reno Brandoni pag. 11

Recensioni pag. 12

Chitarra Acustica WinterIn questo numero ‘festeggia-

mo’, si fa per dire, la fine della bel-la stagione dei festival di chitarra acustica, con un ampio servizio dedicato alla settima edizione di Madame Guitar, che si è tenuta alla fine del mese di settembre.

Ma non per questo, adesso, il popolo della chitarra acustica se ne starà con le mani in mano ad aspettare il ritorno della pri-mavera. Si annunciano già degli eventi importanti. A partire dal 16 novembre, con un concerto di Gaspare Bonafede e di François Sciortino, prende il via “Acoustic Franciacorta in Castello”, una rassegna di sette concerti a ca-denza mensile, che andrà avanti fino al mese di maggio per tenere accesa la fiammella. Il 4 dicem-bre ci sarà poi a Milano una sera-ta in onore di Michael Hedges a quindici anni dalla sua morte, or-ganizzata da Ezio Guaitamacchi, uno dei pionieri della promozione della musica acustica nel nostro paese. Durante il mese di dicem-bre si svolgeranno inoltre le tour-née italiane di Michael Manring e di Bob Brozman.

D’altra parte è già iniziato il con-to alla rovescia in attesa del pros-simo Acoustic Guitar Meeting di Sarzana, che si terrà dal 22 al 26 maggio del 2013: sono aperte

infatti le selezioni per il concorso New Sounds of Acoustic Music – Premio Carisch (In memoria di Stefano Rosso), alle quali parte-cipano anche fingerpicking.net e Chitarra Acustica, e che porte-ranno alla finale del 23 maggio sei chitarristi solisti e quattro can-tautori-chitarristi.

La scorpacciata di musica che ci siamo fatti tra maggio e settembre, inoltre, è stata l’oc-casione per raccogliere molto materiale che dobbiamo ancora gustare. In questo numero pub-blichiamo innanzitutto un’inter-vista ad Antonio Forcione, che abbiamo incontrato ad Acoustic Franciacorta, e un suo spartito molto accurato. Antonio ha pre-sentato ad agosto il suo nuovo bellissimo disco Sketches of Africa, che è stato indicato come disco del mese nel numero di novembre della rivista Guitar Techniques in Inghilterra, paese dove vive da anni. Noi abbiamo voluto dargli la copertina, perché ci piacerebbe che fosse cono-sciuto di più e che avesse tutto il successo che merita anche nel suo paese di origine.

Tra le diverse interviste rac-colte al Meeting di Sarzana, pubblichiamo quelle a Veronica Sbergia e Max De Bernardi, re-

duci dall’eccellente album Old Stories for Modern Times, e a Marcus Eaton, cantautore-chitar-rista di grande talento, che David Crosby ha voluto con sé per il suo nuovo disco in lavorazione. Marcus appare anche in un re-cente disco tributo a CSN&Y pro-dotto dall’etichetta italiana Route 61, Music Is Love – A Singer-Songwriters’ Tribute to the Music of CSN&Y, di cui parliamo diffu-samente in questo numero e che offre l’occasione di conoscere un vasto mondo di interpreti legati al cantautorato indipendente an-gloamericano, poco frequentato da noi e di grande interesse.

Andrea Carpi

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chitarra acustica 11 duemiladodici

www.chitarra-acustica.net

Direttore responsabileAndrea [email protected]

EditoreFingerpicking.netVia Prati, 1/1040057 Granarolo dell’Emilia (BO)[email protected]

CoordinamentoReno [email protected]

StampaPromographVia Torino, 1620093 Cologno Monzese (Mi)

PubblicitàTel. +39 349 [email protected]

ArtistiIntervista ad Antonio Forcione di Andrea Carpi pag. 16

Madiba’s Jive di Antonio Forcione pag. 21

Intervista a Veronica Sbergia e Max De Bernardi di Dario Fornara pag. 28

Madame Guitar 2012 di Andrea Carpi pag. 32

Music is Love di Alfonso Giardino pag. 38

Intervista a Marcus Eaton di Lauro Luppi e Frank Varano pag. 42

StrumentiChitarra acustica Peavey Composer Parlor di Mario Giovannini pag. 46

Chitarra acustica Martin DRS 1 di Mario Giovannini pag. 48

Microfono e preamplificatore Gold Tone ABS di Daniele Bazzani pag. 50

Suono e sellette di Dario Fornara pag. 51

GAS Addiction di Mario Giovannini pag. 54

TecnicaGuitar Workshop di Stefan Grossman pag. 56

The Blue Horizon di Peter Finger pag. 60

Basso Acustico - 4 di Dino Fiorenza pag. 64

L’improvvisazione - 5 di Daniele Bazzani pag. 66

La rivista viene realizzata interamente senza ricevere

alcun tipo di contributo o finanziamento pubblico

Impaginazione e coordinamento webMario [email protected]

Chitarra Acustica è una pubblicazione mensileRegistrazione del Tribunale di Bolognan. 8151 del 07.12.2010Iscrizione al R.O.C. n° 21782

Manoscritti e foto originali, anche se non pubblicati, non si restituiscono. È vietata la riproduzione anche parziale di testi, documenti, disegni e fotografie.

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Il silenzio della musicaSe la vita non mi avesse aggre-

dito con il suo fardello di incon-trollabili eventi, se il destino non mi avesse aiutato a scavare nella mia identità sopita, forse non lo avrei mai capito. Certamente lo avrei notato con difficoltà.

La musica si è associata al ru-more. Oggi non distinguiamo più musica e rumore, ma ogni mu-sica è rumore e ogni rumore è musica. Bisogna vivere un lungo periodo di disintossicazione per capire l’abisso in cui siamo finiti. Io l’ho vissuto per varie vicende personali: un lungo periodo di si-lenzio, lontano dalla musica, ma molto vicino ai rumori. E dopo un poco ho iniziato a desiderare la musica, la melodia e l’armonia. Ogni volta che potevo arricchire la mia giornata di qualche suono, tutta la mia concentrazione era protesa verso quell’evento: nes-suna distrazione, solo il piacere di assorbire l’energia sprigionata da quelle note, raggi di sole in un’oscurità perenne. Seleziona-vo con cura ogni brano per go-

dere appieno di quei momenti di gioia, mi lasciavo trascinare e sommergere da cascate di note. Ma più ne ricevevo, più cercavo di distinguere nel ‘frastuono” ar-monico l’essenza della musica: quella misurata, fatta di essen-zialità e completezza, sfuggendo all’effetto coinvolgente di un’at-mosfera artificiosamente creata per soddisfare il solo godimento emotivo. Sono arrivato a sele-zionare l’essenziale, come le sei Suites di Bach per violoncello solo. ‘Abnormi’, ma dense della completezza da me cercata. Poi, dopo quattro mesi di silenzio, ec-comi di nuovo nel nostro mondo, il supermercato, la stazione, il treno, la TV, la radio in macchina, quintali di note gettate lì, regala-te, svendute, spinte nella testa di ognuno, ma spesso ignorate o evitate. Nessuno si ferma più ad ascoltare la musica, ma la musi-ca stessa accompagna ogni quo-tidiano gesto e momento, come il rumore dell’acqua che scorre la mattina nella doccia, il borbottìo

della lavatrice o della caffettiera che avverte che il caffè è pron-to. Rumori mischiati a rumori, note su note che hanno fatto del mondo musicale, del piacere dell’ascolto, un incontrollato e ag-gressivo pianeta, ormai remoto e incomprensibile. Spegniamo per un attimo tutte le fonti, chiudia-mo ogni sorgente, ritorniamo al silenzio assoluto, per riprendere un’approccio con la musica e ri-cominciare da subito a subire il suo fascino e il suo potere.

Reno Brandoni

ACOUSTIC FRANCIACORTA IN CASTELLOA partire dal mese di novembre, presso il Castel-

lo Oldofredi di Iseo, prende il via un’edizione stra-ordinaria di Acoustic Franciacorta. L’idea è che il festival non termini alla fine dell’estate, ma continui a tener vivo l’interesse per la musica acustica. Così l’evento che ormai da nove anni anima il periodo di fine estate franciacortino, quest’anno per la prima volta continuerà anche nella stagione invernale e oltre, fino al mese di maggio 2013, con sette appun-tamenti a cadenza mensile, che prevedono due mo-menti musicali e che si terranno nella affascinante cornice dell’auditorium del Castello Oldofredi.

Info: Libera Accademia in Franciacorta, tel. 320 7038793, www.franciacortalaif.it.

MICHAEL HEDGES TRIBUTE– 4 dicembre, Milano, Salumeria della musica,

ore 21.30: “Il Jimi Hendrix della chitarra acustica a quindici anni dalla morte”, serata speciale presen-tata da Ezio Guaitamacchi con la partecipazione di beppe gambetta, guitar republic, Pino Fora-stiere in duo con il vocalist boris Savoldelli, Finaz della Bandabardò; ospite speciale: Michael Man-ring.

Nel corso della serata verranno proiettati estratti dall’ultimo concerto di Michael Hedges in Italia, te-nuto Il 23 novembre 1991 al Teatro di Porta Roma-na di Milano, dove Michael concluse il festival Musi-ca & Natura aprendo lo spettacolo di Angelo Bran-duardi. Insieme, i due musicisti suonarono “Woman

of the World”, un pezzo di Michael che Angelo ha accompagnato con il violino, e “Il dono del cervo”, la classica ballata branduardiana impreziosita dal flauto traverso di Hedges.

Info: tel. 02 56807350, www.lasalumeriadellamu-sica.com.

MICHAEL MANRING– 4 dicembre: Milano, Salumeria della Musica, “Mi-chael Hedges Tribute”;– 5 dicembre: Milano, Accademia del Suono, ore 16, seminario (tel. 02 2593869);– 8 dicembe: rieti, TBA;– 9 dicembre: roma, Big Mama, ore 22, concerto con Pino Forastiere;– 10 dicembre: roma, TBA, seminario.Info: Armadillo Club, [email protected].

BOB BROZMAN– 7 dicembre: arcola (SP), G & G Guitar Sound Center, seminario (tel. 0187 1997983);– 8 dicembre: Savona, TBA ([email protected]);– 9 dicembre: Poggio berni (RN), Circolo dei Mal-fattori, ore 22;– 11 dicembre: Firenze, Teatro del Sale (tel. 055 2001492);– 12 dicembre: cecina (LI), Birroteca Doppio Malto (tel. 0586 018125);

– 14 dicembre: Soresina (CR), Teatro Soresina (tel. 0374 340454, [email protected]).

Info: Armadillo Club, [email protected].

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Come ormai consuetudine, la prima serata di concerti della prossima XVI edizione dell’acoustic guitar Meeting, che si terrà alla Fortezza Firmafe-de di Sarzana dal 22 al 26 maggio 2013, sarà con-sacrata al concorso new Sounds of acoustic Mu-sic – Premio carisch 2013 (In memoria di Stefano Rosso), vinto nell’edizione precedente dal chitarri-sta Matteo crugnola e dal cantautore-chitarrista daniele li bassi.

Dieci giovani chitarristi acustici, dell’età massima di 35 anni, si alterneranno alle ore 19 di giovedì 23 maggio sul palco centrale della manifestazione per presentare due brani a testa, che potranno essere inediti per chitarra di propria composizione o adatta-menti originali per chitarra di brani musicali di qual-siasi origine, oppure brani cantati composti perso-nalmente e accompagnati con la chitarra acustica. La lunghezza dei due brani deve essere contenuta in 4 minuti ciascuno. Sarà possibile utilizzare chi-tarre acustiche con corde metalliche o anche con corde di nylon, ma lo stile dei brani dovrà essere di chiara matrice moderna e non classica.

La selezione dei 10 giovani artisti emergenti – 6 chitarristi solisti più 4 cantautori-chitarristi – è affi-data all’associazione culturale armadillo club che organizza la manifestazione (selezionerà 3 cantau-tori-chitarristi), al centro Studi Fingerstyle (sele-zionerà 2 chitarristi), a lizard accademie Musicali (selezionerà 1 chitarrista), alla rivista GTR & Bass (selezionerà 1 chitarrista) oltre che al nostro portale fingerpicking.net, che selezionerà 2 chitarristi e 1 cantautore-chitarrista. I partecipanti dovranno invia-re entro il 28 febbraio i propri nominativi, una breve biografia e le registrazioni dei brani da proporre ad una soltanto delle citate organizzazioni che effet-tuano la selezione. Alla fine del mese di marzo sarà comunicato agli interessati l’eventuale superamen-to della selezione in vista della partecipazione alla serata finale.

Per chi desidera inviare il materiale a fingerpi-cking.net, è possibile inviare direttamente il mate-riale a [email protected].

Nella serata finale, una giuria selezionata premie-rà la migliore esibizione chitarristica e la migliore esibizione cantautorale. I premi saranno messi a disposizione dalla ditta carisch, partner dell’even-to, e si tratterà di strumenti e accessori di grande

DUE CHITARRISTI E UN CANTAUTORE-CHITARRISTA A SARZANA Con fingerpicking.net e Chitarra Acustica

qualità. Altri omaggi sono previsti dalle aziende John Pearse Strings e b-band. Inoltre, i due primi classificati saranno ospiti della successiva edizio-ne dell’Acoustic Guitar Meeting e parteciperanno ad altre manifestazioni chitarristiche organizzate dall’Armadillo Club. Una serie di altri riconoscimenti e menzioni saranno assegnati a tutti i partecipanti.

Un grande artista internazionale sarà ospite spe-ciale della serata finale e ‘tutore’ dei partecipanti, esibendosi successivamente in concerto e pren-dendo parte alla giuria. Faranno parte della giuria: Stefania rosso, figlia di Stefano Rosso; davide Mastrangelo, direttore del Centro Studi Fingerstyle; andrea carpi; giovanni unterberger, fondatore di Lizard Accademie Musicali; giovanni Pelosi per fingerpicking.net; Marino Vignali per la ADGPA Italiana; claudio chianura per GTR & Bass; ger-mano dantone per Carisch; Fiorenzo baruzzo per Heineken Italia; alessio ambrosi, direttore artisti-co del festival, e infine un artista e un liutaio tra le presenze internazionali della manifestazione.

Info: www.acousticguitarmeeting.net.Affrettatevi a inviare i vostri brani a:[email protected].

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Prima chitarra: scelta accuratadi Luca Francioso

Troppo spesso sento dire da genitori di piccoli e aspiranti chitarristi la parola ‘chitarra da studio’ ri-ferita per lo più a strumenti in compensato super economici e quasi impossibili da suonare, più o meno dei giocattoli che non gravano sul portafogli familiare, ma che non hanno niente a che fare con il concetto di studio.

Questo ormai obsoleto luogo comune, come un ritornello di una canzone poco riuscita, mi suona nelle orecchie da quando anche i miei genitori ne hanno cantato qualche verso, spinti anche loro dal comprensibile timore che un ragazzino, circondato da mille attrazioni, possa perdere presto interesse. In effetti di frequente accade che uno strumento venga seppellito in cantina perché la curiosità del suo apprendista esecutore ha tirato le cuoia prima di esalare il primo accordo, e il rammarico dei ge-nitori solitamente è pari alla soddisfazione di non aver speso cifre esose per un capriccio passeggero del figlio.

Il fatto è, però, che uno strumento di pessima fat-tura non agevola affatto l’apprendimento, anzi mol-to spesso ne ostacola il percorso, rendendo difficile ciò che è semplice e impossibile ciò che è difficile.

Ecco che al primo barré anche i più volenterosi stu-denti potrebbero arrendersi di fronte al dolore fisico e all’impostazione sbilenca che strumenti economi-ci causano. È vero che a volte il talento non viene fermato neppure da chitarre di compensato, ma è altrettanto vero che non sempre sono i più talen-tuosi a regalare musica raffinata, di conseguenza credo che vada tutelata la possibilità di riuscita di ogni mano, anche la meno portata, con un’accura-ta scelta del primo strumento e non con l’acquisto ottuso di una chitarra qualsiasi, purché economica.

Non dico certo che la ‘chitarra da studio’ debba per forza essere uno strumento di liuteria, ma vero è che migliore è la fattura costruttiva della chitarra con cui si studia, migliore sarà il risultato dello stu-dente.

Dall’altra parte, invece, c’è chi pensa che un co-spicuo investimento corrisponda sempre e senza eccezioni al migliore strumento in commercio. Inuti-le dire che non è così. Più volte ho visto chitarre dal nome imbarazzante avere più personalità di chitar-re rinomate.

È l’equilibrio fra il budget a disposizione e la quali-tà della chitarra la soluzione a cui aspirare.

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Quelli che… costruiscono le chitarre, oh yeah!di Mario Giovannini

Decidere di farsi costruire una chitarra da un liu-taio è un passo importante, possiamo anche dire fondamentale, nella vita di un artista. Implica una certa maturità, sia tecnica che musicale, oltre a una profonda consapevolezza di quelle che sono le pro-prie reali necessità. E la capacità di trasmettere tutto questo a chi dovrà realizzare lo strumento. O alme-no così dovrebbe essere… ma di questo parleremo un’altra volta.

Presa la storica decisione, fatto partire il piano quinquennale di accantonamento fondi necessario perché, sia chiaro – com’è giusto che sia – nessu-no regala nulla, a meno che non si sia amici d’in-fanzia di uno di questi signori, si deve poi scegliere il ‘Mastro Geppetto’ che realizzerà la nostra crea-tura. Il sistema migliore, naturalmente, è visitare il più possibile le fiere di settore in cui questi artigiani espongono le loro opere. Per poi rendersi conto di essere precipitati in una sorta di universo parallelo, in cui valgono strane regole e curiose convenzioni sociali.

I liutai si conoscono tutti fra loro. Tutti. Sono sem-pre cordialissimi e molto gentili. E ognuno è con-vinto di essere l’unico a saper lavorare. Tutti gli altri sono dei dilettanti. Magari qualcuno non è poi così malaccio, ma ne ha ancora di strada da fare. Ciascuno è convinto di essere il depositario della verità assoluta.

Ci sono quelli che “usano solo colla animale” per-ché le Martin pre-war sono le uniche chitarre degne di tale nome. E niente trussrod, solo barre a T nel manico. Quindi, in cento anni non abbiamo fatto un solo passo avanti. Del resto già fanno sistematica-mente strage di piante, che gli frega di qualche ani-maletto.

Ci sono quelli che “mettono le tavole armoniche a riposare sul fondo di un torrente per anni, perché assorbano le vibrazioni della Terra”, in modo che acquisiscano sonorità uniche. Di solito lavorano solo di notte, preferibilmente quando c’è luna piena, biascicando frasi incomprensibili.

Ci sono quelli che “cianno da fare”, sempre da fare, troppo da fare. E non hanno tempo. Per nulla. Se vuoi una loro chitarra devi chiedere, implorare, sperare. E alla fine te la danno, ma con almeno un anno di ritardo. Perché cianno da fare!

Ci sono quelli che “hanno il campionario”, ovvero le chitarre da esposizione. E a ogni fiera, anno dopo anno, li vedi sempre con gli stessi strumenti. Poi, se ne provi una e ti piace, se la vuoi comprare, non te la danno. Perché è il campionario. Se la vuoi, te ne fanno un’altra, uguale. Ma senza fretta, perché, comunque, cianno da fare!

Ci sono quelli che “niente foto alle mie chitarre, grazie”. Ha sei corde, una cassa, un ponte e un ma-nico. È una OM. Non avendo a disposizione una macchina a raggi X portatile e, comunque, non ca-pendoci una beata mazza di niente su incatenature e affini, cosa potrò mai copiare dalla foto della tua chitarra?

Quelli che “io la cassa/la paletta/il manico così non faccio, assolutamente”… ma non dovresti ascoltare le richieste del cliente, cioé io?

Quelli che “la chitarra è garantita a vita”, ma sono pochissimi. E di solito molto anziani. Immagino non si riferiscano allo strumento.

Quelli che “fanno tutto a mano, niente macchine”. E fanno tutto a mano, effettivamente. Quella che gli è rimasta. Ma comunque un paio di dita se le sono giocate anche in quella.

Quelli che “il liutaio non deve suonare la chitarra, perché i calli sui polpastrelli non ti fanno sentire le vibrazioni del legno”. Di solito, ma non sempre, ap-partengono anche alla categoria niente macchine e il problema dei calli sulle dita lo hanno già risolto. Alla radice.

Quelli che “in America sono avanti mille anni, per-ché la chitarra l’hanno inventata loro”… e io che ero convinto che fosse nata in Europa dal liuto arabo.

Quelli che “in America non capiscono un c…o”… e io che ero convinto che… Oddìo non sono più convinto di nulla, che confusione. Oh yeah!

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Perché non parli?di Daniele Bazzani

Parto da una veloce considerazione: a me, se un musicista parla durante il concerto, non dispiace. Mi fa piacere sentire storie che riguardino le canzoni o i brani strumentali (se non hanno testo), o aneddoti e storie simpatiche, qualora il musicista fosse in gra-do di raccontarne in maniera divertente e intrigante. Non lo nego. Il problema è un altro. Ho sentito spes-so commentare il concerto del taciturno artista di turno (perdonate l’orrendo gioco di parole) con frasi tipo: “Si ma due parole poteva anche dirle”.

Chi è abituato a stare sul palco sa bene che una frase azzeccata al momento giusto può portare il pubblico dalla propria parte, lo ben dispone anche riguardo alla musica, non che si possa essere sim-patici e suonare male, ma sembra che il contrario non si possa fare. Vengo al punto.

Il mio obbiettivo, quando compro il biglietto di un concerto, è andare a sentire musica, non voglio al-tro. Se poi altro c’è, me lo prendo. Ho visto Frank Zappa negli anni ’80, un’ora e un quarto di musica senza una sola pausa, poi se ne è andato per non rientrare, non una parola, uno dei concerti più stra-ordinari della mia vita. Ho visto Paco De Lucia più volte, non so che voce abbia se non per un bellissi-mo documentario su Dvd dove si racconta, non cer-to per quello che dice durante i concerti. Non credo ci sia bisogno di dire quanto belli siano stati i suoi spettacoli. Ho visto Bob Dylan e non lo ricordo pre-sentare nulla, o dirci qualcosa. Meraviglioso.

Che voglio dire? Che se il concerto è bello, sono lì per quello, non per altro. Se vado al cinema a ve-dere un film con Robert De Niro, non mi aspetto che all’intervallo (o fra due scene clou) mi dica qualcosa, sono lì per vedere come recita, e vedere il film. A teatro mi basta la presenza sul palco e magari un inchino di ringraziamento alla fine, ma nessuno si aspetta un grande attore prendere la parola. Perché ai musicisti questo sembra non essere concesso, o concesso con fastidio?

Alla base di tutto c’è una semplice considerazio-ne: il rispetto per il pubblico di un concerto sta nel cercare di offrirgli il miglior spettacolo musicale pos-sibile, non credo ci sia altro. Va detto anche che al-cuni (molti) artisti, hanno trovato il modo di comuni-care attraverso la loro musica, perché con le parole non riescono, non sono proprio capaci, non è che non vogliano.

Oltretutto se si parla a sproposito (chi è mai salito su un qualsiasi palco sa bene cosa intendo) si ri-schia di rovinare tutto, di fare la figura degli imbecil-li, quando magari stiamo solo cercando di sforzarci per compiacere chi abbiamo davanti.

L’unico vero, grande impegno che ha un musicista è quello di dare il massimo, tutto quello che abbia-mo e nel miglior modo possibile, sapendo che a vol-

te suoneremo meglio, altre peggio, ma il tentativo deve essere fatto. Troppe volte ho visto gente salire sul palco pensando di tirar via la serata, magari rac-contando qualche storiella simpatica, ma si capisce quasi subito se per montare lo show abbiamo lavo-rato un anno, o un’ora. Quello è il vero “rispetto” che il pubblico merita.

Dagli americani ho imparato una grande lezione anche riguardo a come ci si presenta sul palco, c’è un episodio che mi ha fatto sorridere ma anche ri-flettere.

Ero a Nashville in occasione della CAAS, il festi-val dedicato a Chet Atkins, sul palco c’era Boots Randolph, un grandissimo sassofonista americano, celebre fra le altre cose per aver portato al succes-so negli anni ’60 “Yakety Sax”, scritta da James Q. ‘Spider’ Rich (ricordate la musica di Benny Hill?). Randolph è stato l’unico ad aver suonato il sax da solista su un disco di Elvis, e ha contribuito in ma-niera importante a creare, con il suo strumento, il famoso ‘Nashville Sound’, insieme a Atkins che produsse molta musica di quel periodo scoprendo talenti incredibili.

Torniamo allo spettacolo, perché a un certo punto Randolph si avvicina al microfono, proprio prima del brano in questione e dice: “Questa è la canzone che mi ha fatto scendere dalle colline del Kentucky... e mi ha fatto salire su quelle del Tennessee”.

La battuta mi ha fatto ridere, ma avevo accanto un signore piuttosto anziano che rimaneva del tutto impassibile, quasi infastidito. Gli chiedo, visto che avevamo chiacchierato brevemente poco prima, se non la trovasse una cosa divertente, lui fa una pausa e mi dice: “L’ho visto 40 anni fa e ha detto la stessa battuta”. A quel punto ho riso davvero.

Poi però ho ragionato su quanto si possa prepa-rare anche una singola frase messa al punto giusto, se la si ritiene opportuna, e ho capito che se ogni sera ci esibiamo in un contesto differente, lo show non sembrerà mai una ripetizione, anche se a dire frasi sempre allo stesso modo, nello stesso punto, forse ci sentiremo limitati, ma è meglio una frase preparata bene che una improvvisata male, non c’è dubbio.

La lezione può quindi essere: cercate di dare tutto quello che potete quando siete sul palco, se questo comprende anche il parlare e dire cose sensate o divertenti va bene, in caso contrario state zitti, che è meglio.

Se siete spettatori, non pensiate che il musicista sia vostro amico e sia lì per parlare, il biglietto lo avete pagato per la musica, non per sentirlo chiac-chierare. Tanto se il concerto è bello, avrete speso bene i vostri soldi, se è brutto, non saranno due bat-tute azzeccate a renderlo migliore.

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Il palcodi Reno Brandoni

È certo che quando vado a un concerto mi aspet-to qualcosa!

Qualcosa in più di quello che posso avere com-prando il CD del musicista o ascoltando i suoi brani su iTunes, YouTube o dalla radio della mia macchi-na. È certo che se vado a un concerto e il musicista mi risuona esattamente tutto il suo CD, magari con qualche brano a sorpresa o qualche cover d’effet-to, tutto sommato so di aver avuto ciò per cui ho pagato, ma sicuramente non era il vero motivo per cui ero li.

Solitamente vado ad un concerto per incontrare l’uomo, misurare il suo carisma e le sue debolezze, e mi aspetto che mi comunichi qualcosa di suo, di personale che non può essere impresso o svela-to in una registrazione. E chissenefrega se fa delle battute stupide o balbetta, non tutti possiamo esse-re fantastici oratori: mi basta che sia se stesso, che scopra le sue carte, che mi racconti della sua vita, che mi faccia capire il perché della sua musica, il senso delle sue composizioni.

Mi sono un po’ stancato dei maestri dell’arrogan-za che salgono sul palco per darti una lezione su come si suona, pronti a ‘regalarti’ l’ultima loro evolu-zione, e che si compiacciono di se stessi. Ho voglia di umanità, di errori, di verità, forse anche di frasi trite e ritrite che annoieranno i fan più assidui. Ma il palco è vita e io mi aspetto un musicista vivo.

Suonare la musica è una cosa, salire su un palco è completamente un’altra, un’altra arte. Magari certi musicisti sono fantastici a casa o meravigliosi nel proporre la propria musica su un CD, poi sul pal-co sono una frana; mentre altri non trasferiscono nessuna emozione dai loro CD, ma sul palco hanno forza e carisma e regalano più emozioni di tecni-ci ‘sperduti’ o di vani eroi. Allora salire su un palco significa qualcosa di preciso: mostrarsi al pubbli-co, esporsi, raccontarsi, condividere musica e vita, avere il coraggio di svelarsi, confrontarsi, regalare la propria essenza, esporsi a un pubblico con il vero volto, senza schermature o effetti speciali, tu, la tua musica e il tuo essere.

Perché pagare per tutto questo? Perché sorbirsi incapaci oratori che calpestano il palco, spaventati o timorosi, nervosi e ansiosi, preoccupati di sbaglia-re ed emozionati dalla luce che li illumina sottraen-doli al contesto? Perché la musica è anche tutto questo: sbagliare, lasciare alle spalle la perfezione figlia di un progresso deleterio, suonare per godere, per piacere, sopratutto a se stessi.

Vaneggio, lo so, so anche che è dura subire tra le poltrone della platea l’intrepido tentativo di qual-

cuno sul palco che cerca di comunicarmi qualcosa senza riuscirci. So che sarebbe fastidioso sentire frasi scoordinate o concetti stralunati tenuti insieme da nessun pensiero logico. Poi ripenso a un film in-titolato Oltre il giardino con Peter Sellers, dove uno sconnesso giardiniere veniva genialmente ‘interpre-tato’ nel suo vaneggiare; oppure più di recente a Francesco De Gregori, che a chi gli chiedeva detta-gli sui suoi testi rispondeva con una storica “Niente da capire”.

Un concerto allora forse non è fatto di sola musi-ca, ma è fatto di persone che provano sentimenti.

In un tour di tanti anni fa ricordo un mio amico/collega chitarrista che era stato lasciato dalla mo-glie e piangeva tutto il giorno, ma la sera, salito sul palco, rideva, scherzava e faceva divertire. Un gior-no gli chiesi come mai. Mi sembrava strano que-sto contrasto tra la grande tristezza nel retropalco e la grande allegria sul palco, e lui mi rispose che la gente pagava per divertirsi…

Ecco, ora non sono più tanto d’accordo su que-sto concetto, oggi mi verrebbe voglia di dirgli che forse la gente pagava per capire, per capirti, darti una mano ad affrontare la vita ed essere te stesso. E poi non è proprio vero che «Ma cosa gliene frega agli altri dei nostri sentimenti»… Forse il mondo è quello che è proprio per questo, perché pensiamo che a nessuno freghi niente di noi. Invece no, pro-viamo ad esporci con coraggio e orgoglio, onestà e sincerità e una spolverata di emozioni. Ed il gioco è fatto, nessun mistero ma solo verità.

E che si spengano le luci e la musica abbia inizio. Ecco a voi l’uomo!

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Nibs van der Spuya House across the river2 Feet Music – Sheer Group

Quest’ultima produzione, usci-ta nel 2010, è già il nono album di Nibs van der Spuy. Una lunga carriera che, nonostante l’ancora giovane età, lo ha fatto ricono-scere come uno dei più originali esponenti del Nu Folk e che gli ha consentito di affermarsi sem-pre più sulla ribalta internaziona-le.

Nove brani originali (tra i quali due strumentali) e due cover (l’a-custica “Little Martha” di Duane Allman e “Cripples Cry” di Tim Buckley), che confermano le grandi doti artistiche di questo chitarrista-cantautore sudafrica-no. Tutte le tracce vedono Nibs protagonista strumentale: armo-nica, chitarre acustiche ed elettri-che sono tutte suonate da lui, ol-tre alla voce e al cuatro portorica-no (lo strumento a cinque corde doppie che imbraccia nella foto di copertina), con il quale richiama le tipiche sonorità degli strumenti a corda africani come la kora.

Le percussioni e il piano di Gareth Gale, insieme al basso e al violoncello di Kieran Smith, completano l’ensemble in stu-dio, senza dimenticare le pre-stigiose partecipazioni di Piers Faccini e dell’amico Guy Buttery, con il quale divide spesso il pal-co nei suoi tour com’è accaduto quest’ultimo settembre al festival internazionale Madame Guitar di Tricesimo in provincia di Udine.

Fin dalla prima traccia “A Hou-

se Across The River”, compreso “Nieu Bethesda” all’odor di Ben Harper, in tutti i brani è sempre presente una leggera vena ma-linconica, maggiormente carat-terizzata dal particolare timbro vocale che ci riporta alla mente un certo Nick Drake (“My Little Singing Bird” è illuminante sotto quest’aspetto, grazie anche alla presenza di un violoncello nel de-licato arrangiamento) o il primo Cat Stevens (“Once I Climbed A Lion Mountain” sembra estratta da Teaser and the Firecat) .

Quella di van der Spuy è una musica che mira prima di tutto al cuore, che all’influenza della musica anglosassone bianca as-socia le forti radici della musica corale Zulu, il tutto riproposto con una veste acustica e molto intimi-sta.

Alfonso Giardino

Béla Fleck and the Marcus Ro-berts Trioacross the imaginary divideRounder/EgeaMusic

Già da tempo Béla Fleck ci ha abituati al suo newgrass, quel-la forma di bluegrass cosiddetto progressivo con marcati elementi swing. E i musicisti di area jazz-fusion con i quali ha dato vita al suo gruppo più famoso, i Fleckto-nes, stanno lì a dimostrarlo.

Ma qui si sta prendendo in con-siderazione un jazz neoclassico, che recupera gli elementi migli-ori del primo jazz adulto, quello di Thelonious Monk, Art Tatum, Duke Ellington, lo stesso George

Gershwin. Può il bluegrass in-contrare questo jazz? Ebbene sì. Ancora una volta le sonorità del banjo di Fleck trovano la chiave giusta per entrare in un mondo solo apparentemente lontano e sconosciuto.

La cronaca ci racconta di quella sera in cui il grande banjoista si reca al Savannah Music Festival solo per ascoltare il pianista Mar-cus Roberts, di essere invitato sul palco per suonare con la band, e… che la cosa ha maledetta-mente funzionato! Un anno dopo Béla Fleck e Marcus Roberts ac-cettano di esibirsi ufficialmente insieme per la prima volta proprio al Savannah Music Festival.

Il trio di Marcus Roberts, nato nel 1995, è un ensemble, si di-ceva, d’impostazione classica, dallo stile melodico, ma allo stes-so tempo pieno di contrasto di-namico. Oltre al pianista leader, che ha iniziato la carriera nella big band del trombettista Wyn-ton Marsalis, il trio conta Rodney Jordan al contrabbasso e Jason Marsalis (sì, la famiglia è la stes-sa di Branford e Wynton) alla bat-teria, una ritmica di gran classe.

Dal canto suo Béla Fleck è da tempo riconosciuto come il più importante virtuoso di banjo del mondo. Ha letteralmente re-inventato l‘immagine e il suono del banjo attraverso una carriera straordinaria e una serie di pro-getti musicali innovativi.

Come questo Across The Ima-ginary Divide, naturale seguito dell’esperienza positiva degli in-contri al Savannah Music Festi-val.

Un disco divertente, fresco, brillante, dove la maestria tecni-ca, i funambolismi stilistici non sempre naturalmente contigui e la grande cantabilità s’intrecciano magistralmente. I due leader sembrano suonare insieme da una vita. A volte, come in „Petu-nia“, il terreno comune del blues richiama entrambi ad un’intesa ancestrale; in altri casi, come in „Kalimba“, va reinventato tutto,

rc recensioni

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c’è da dissodare un terreno ver-gine che porta verso scenari ar-monici e ritmici assolutamente inediti. Naturalmente c’è anche lo swing tradizionale, che riporta il banjo di Fleck ad accenti più ‚do-mestici‘, pur se comunque non proprio consoni alla sua gram-matica originaria, ma con il risul-tato comunque di essere sempre credibile, sempre dentro il pezzo.

Una bella prova discografica dove il virtuosismo è sempre al servizio della classe, del grande gusto musicale.

Gabriele Longo

Massimo Variniurban guitarKymotto Music

Chi conosce Massimo capirà subito che in questo nuovo CD c’è dentro tutta la sua vita, un la-voro in qualche modo riepilogati-vo di un lungo percorso, un som-mario di eventi che descrivono la storia di questo musicista che ha fatto della chitarra la propria arte e il proprio mestiere.

Urban Guitar è un viaggio alla scoperta di mondi diversi non sempre contigui od omogenei, ma che hanno alla base le sei corde e la maestria interpretativa di Varini. La chitarra si presenta sia nuda che vestita della voce di Rossella Zanasi, una voce grintosa e determinata che com-batte ad armi pari con la tecnica chitarristicha di Massimo. “Luce”, “Sign Your Name”, “Smooth Ope-rator”, “Come Together” sono i brani cantati, che danno a que-sto lavoro un’impronta diversa dai precedenti e aprono il CD a

un pubblico più vasto, che difficil-mente tollererebbe un disco solo suonato. Quello di non ‘annoiare’ è un vecchio problema dei chitar-risti acustici, e questi inserimenti cantati danno a tutto il percorso d’ascolto una piacevole diversità.

Descrivere brano per brano le emozioni di ogni singolo pezzo sarebbe complesso e il giudizio sarebbe troppo personale. Certo è che durante l’ascolto si crea-no delle preferenze legate alle proprie esperienze e ai propri gusti: io per esempio reputo un bel gioiello “When the Castles Crumbled” (composto la notte del terremoto in Emilia), un brano nel quale ho trovato molta italianità, molte citazioni – forse inconsce – della musica di Piovani. Sarà questione di gusti, ma le cose più ‘romantiche’ di Varini sono quelle che mi catturano di più: sembra proprio che in quei brani Vari-ni trovi la sua giusta lunghezza d’onda comunicativa. Neanche una nota si perde e alla fine del brano ogni singola nota suonata la ritrovi dentro di te, conservata nel giusto ordine pronta a esse-re riassaporata dalla memoria. “Leonanna” è un altro pezzo im-portante della vita del chitarrista, un brano in cui il cuore scivola attraverso le mani bagnando le corde della chitarra di passione e amore.

Questo lavoro restituisce a Massimo la sua dimensione pop, che è un po’ all’origine di una così lunga carriera: un CD auto-biografico, che evidenzia le diver-se esperienze musicali maturate negli anni e che qui ritrovano un giusto momento di riflessione. In effetti questo disco lo trovo molto ‘da palco’, molto suonato, molto ritmico, deciso e aggressivo. “Il mio mondo è in Do settima” è un esempio di set live, che identifica questa voglia di spettacolo e di musica dal vivo. Che il ‘vecchio’ rocker sia tornato tra noi armato di una chitarra acustica?

Registrazione e suono come sempre impeccabili.

Reno Brandoni

Finazguitar SoloMojito Records

Finaz, la ‘chitarra virtuosa e solitaria’ della Bandabardò, si ci-menta in un disco di sola chitarra acustica. Ed è sempre un gran piacere quando un chitarrista proveniente dal mondo dei grup-pi e della musica pop e rock si avvicina al mondo della chitarra acustica, un mondo che rischia a volte di rinchiudersi in se stesso e nel quale elementi esterni pos-sono portare tutta l’energia che deriva da una maggiore consue-tudine con un rapporto vivo con il pubblico. Questo è tanto più vero nel caso di un musicista della Bandabardò, da sempre una delle band più attive nel cir-cuito dei concerti dal vivo.

Come ci si poteva aspetta-re, gran parte di Guitar Solo si esprime in un linguaggio di ‘rock acustico’, che si manifesta tecni-camente attraverso un uso effi-cacissimo del plettro, del plettro unito alle dita e dello strumming. Ma si tratta di un rock acustico che, com’è nelle corde della Bandabardò, assorbe molti ge-neri diversi in uno spirito di con-taminazione, attraverso citazioni e sviluppi originali, senza mai di-menticare l’amore per i frenetici ritmi popolareschi e i ritornelli da intonare assieme a squarciago-la. Si va dalla Spagna di “Mala-gueña”, con suoni ispirati all’oud sulle corde di nylon, al flamenco di “Como el sol”; dal Brasile di “One by One”, con l’imitazione del berimbao, a “Tango” e “Ta-rantella”.

Finaz fa anche un uso esteso dei nuovi stili chitarristici a due mani, del tapping e delle percus-

rc

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sioni sulla chitarra. E qui viene fuori prepotentemente la sua tecnica notevolissima: a tratti sembra di ascoltare delle so-vraincisioni ma, guardando i suoi video di alcuni di questi brani su YouTube, ci si rende conto che sono effettivamente suonati a solo e in diretta. Il fatto è che Fi-naz riesce sempre a incastonare in modo serrato queste nuove tecniche nell’insieme del brano, in modo sempre funzionale al senso della composizione, sen-za cedere mai alle lusinghe del solo virtuosismo, ma facendolo sempre convivere con la neces-saria energia espressiva. Ascol-tare “Blue Haze”, originale cita-zione dello spirito hendrixiano, per credere.

Non mancano poi gli esempi di vero e proprio fingerstyle, più vicini al mondo specifico della chitarra acustica. Sono esempi che ripropongono soprattutto i nuovi orientamenti del genere, basati sulle accordature alterna-tive e sulle tecniche percussive, come “51st Street” nella classica accordatura DADGAD dagli ac-centi celtici, o la meno tradizio-nale “New Song” in DADG#AD, che evoca le lezioni di Michael Hedges.

Insomma un disco molto va-rio, suonato benissimo, che si ascolta con piacere dall’inizio alla fine, grazie anche all’inseri-mento di alcuni brani più intimi e di atmosfera. L’esordio solista di Finaz ha superato brillantemen-te la prova, ma non poteva es-sere altrimenti con una ‘chitarra virtuosa e solitaria’ come la sua.

Andrea Carpi

tà, profondità e poesia si incon-trano, con così tanta naturalezza. Brano bellissimo, che – non so per quale ragione (probabilmente la cadenza, visto che non ci sono altri punti di contatto) – trasmet-te qualcosa di quella struggente melancolia cubana che pervade-va un capolavoro come Buena Vista Social Club.

Quella di Davide Peron è cer-to canzone d’autore di qualità. È evidente, infatti, la lezione nobi-le di grandi maestri tra i quali De André e De Gregori (aggiungerei anche Massimo Bubola – veneto anch’egli – soprattutto per la sua produzione al fianco di De An-dré) nella scelta dei temi (le cose semplici della vita vera, la terra, l’amore, la guerra), nel ‘senso della frase’ (mi riferisco al rap-porto linea melodica/testo), nella scelta di sonorità che spaziano dal blues acustico alla ballad, a certa world music. Lezione prima sapientemente interiorizzata, poi intelligentemente dimenticata – come dovrebbe fare ogni artista – e, alla fine, sublimata in una lingua personale (sia in termini vocali che compositivi) fra le più interessanti tra quelle che si pos-sono ascoltare oggi nel nostro paese.

Canzone d’autore, dunque, ma soprattutto canzone d’altura. Mu-sica – verrebbe da dire – per le ‘alte vie’. Non è affatto un caso, infatti, che nell’estate 2008 il mu-sicista vicentino abbia dato vita ad un progetto affascinante come “Mi rifugio in tour”, suonando nei rifugi di montagna delle piccole Dolomiti. Per Davide la monta-gna non è semplice sfondo. È ben altro. È fondo. Vale a dire: senso delle cose. Una compagna di viaggio irrinunciabile, grazie

alla quale è davvero possibile dare il giusto significato alla pa-rola panorama: ‘vedere tutto’. Sì, perché la montagna è così: più sali su di lei, più scendi dentro di te. Un cammino, lento e fatico-so, che è sia ascesa che ascesi. «Ho sbiancato la mia anima col sudore che mi ha lavato il cuo-re», canta nella bellissima “Na stela alpina”. E ancora: «E lassù sulla cima, che mi aspettava da prima ancora che partissi, ho tro-vato una stella alpina che sapeva già tutto di me» (la traduzione è della mia metà di sangue vene-to. Spero che sia buono – il san-gue, intendo – e che non menta). Salendo, dunque, ci si allontana dalla superficie delle cose, per avvicinarsi alla loro sostanza. Dal fenomeno, avrebbe detto qual-cuno, al noumeno. Dall’apparen-za – diciamo noi comuni mortali – all’essenza. Dall’alto, infatti, le cose ritrovano le giuste propor-zioni e noi riusciamo, finalmente, a distinguere cosa e chi conta davvero e cosa e chi, invece, è solo ‘chiacchiere e distintivo’, or-pello, ingombro, ostacolo. Salire per capire, verrebbe da dire. E ascoltare per risalire. E le canzo-ni – quelle buone, almeno – sono montagne rovesciate. «Più le mandi giù, più ti tirano su», come avrebbe recitato un vecchio spot del caffè. Ascoltare per credere.

Belle le canzoni, belli gli arran-giamenti, bella l’ambientazione ‘unplugged’, bellissime le chitar-re (grazie anche alla sapienza di un certo Andrea ‘Manne’ Balla-rin), bella e profonda la batteria (piena e tonda come nel miglior Bandini), belli i sax, belle le voci: più di così! Che altro dire? Nul-la. Solo: grazie, caro Davide, di averci portati Fin qui. Alla prossi-ma scalata.

Se, in chiusura, mi è permes-so suggerire un abbinamento, direi che ideale contrappunto di quest’album potrebbe essere Sulla traccia di Nives (Mondado-ri, 2006), straordinario incontro di anime e montagne, firmato da Erri de Luca e Nives Meroi.

Giuseppe Cesaro

Davide PeronFin qui www.davideperon.it

Lo dico subito: anche se que-sto nuovo album di Davide Peron fosse composto da un’unica trac-cia – “Na stela alpina” (non è un errore: il testo è in lingua veneta), ripresa in chiusura da una inten-sa versione corale – varrebbe la pena averlo e ascoltarlo. Rara-mente, infatti, capita di trovarsi ad un crocicchio nel quale semplici-

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Michelangelo PipernoMP3MP Music Production fingerpicking.net

Nella nostra recensione del metodo Original Compositions, realizzato dal fondatore della scuola Music Academy Roma per fingerpicking.net – Carisch (Chi-tarra Acustica, aprile 2012), ave-vamo scritto, presentandoli, che i brani che lo compongono fanno parte del suo repertorio live: ed ecco che ben otto su nove sono anche in questo suo terzo lavoro discografico. A questi si aggiun-gono due suoi arrangiamenti per omaggiare la canzone d’autore italiana (“Attenti al lupo” di Lucio Dalla e “Vieni via con me” di Pa-olo Conte), una sua composizio-ne di nuova produzione (“Buddy Brothers” ed il groove la fa da prodone) ed un vivace medley in fingerpicking (“Miss Medley”, con “Donna” del Quartetto Cetra e “Amarcord” e “8 ½” di Nino Rota). Con questo suo lavoro Michelan-gelo Piperno conferma di essere in possesso di ottima tecnica, gu-sto ed ispirazione artistica, tutto in egual misura, grazie ai mol-teplici stimoli che la sua intensa attività di didatta e concertista gli offrono.

Alfonso Giardino

Matt Eppnever Have i loved like this Acoustic Music Records

È canadese. Suona la chitarra e l’armonica. Canta. A chi state pensando? No, siete sulla cattiva strada. Anche se non è difficile immaginare che l’accostamento con ‘Nello il Giovine’ potrebbe non dispiacere al buon Epp. Che non è dotato di una tecnica chi-

BREVI, SEGNALAZIONI, OLDIES BUT GOODIES

tarristica inarrivabile, tutt’altro. E non ha la classica voce imposta-ta e ‘studiata’. Ma ha qualcos’al-tro: quel leggero alone di magia che impone il silenzio, attorno, quando imbraccia uno strumen-to e si mette a cantare. Anche la produzione in studio è stata mol-to attenta a mantenere questo ef-fetto, sincero e immediato, anche su disco. Bisogna approfittarne.

Markus SegschneiderHands at Work Acoustic Music Records

Terzo CD solista del chitarrista tedesco, sempre per la Acoustic di Peter Finger, che mette in bel-la evidenza la maturazione di un ottimo musicista. Markus è un fin-gerstyler duro e puro, in grado di regalare brani eleganti, con belle melodie e un solido impianto di arrangiamento. Ha anche un bel ‘tiro’, cosa che non guasta, e non disdegna un certo ecletismo nella scelta del repertorio e dei gene-ri da affrontare. Manca niente? Pare di no… infatti è un gran bel lavoro.

Martin Hegelbach Solo Acoustic Music Records

Ci vuole un gran coraggio per proporre arrangiamenti origina-li di brani di uno dei più grandi compositori della storia. Oltre a una profonda conoscenza del-la materia. Vincitore della prima edizione della “Bach International Competition”, Martin Hegel ha evidentemente grande dimesti-chezza con la musica del grande Thomaskantor. Così come è lam-pante, sin dalle prime note, il soli-do bagaglio tecnico su cui si pog-gia questa impresa. Dalle mani

del chitarrista berlinese esce un Bach sorprendentemente moder-no e coinvolgente, e la scelta del repertorio è un’ottima ‘scusa’ per scoprirne le composizioni meno note e popolari. Per andare oltre la solita “Bourrée”, insomma, è il disco giusto.

Sándor Szabó & Dean Magrawreservoir Acoustic Music Records

Se si prendono un ungherese e un americano (no, non è l’attacco della solita barzelletta), preferibil-mente chitarristi di livello altissi-mo, magari dediti alla sperimen-tazione e all’improvvisazione, e li si chiude in uno studio di registra-zione per qualche giorno, i risul-tati possono essere sorprendenti. Soprattutto se si tratta di Sándor Szabó e Dean Magraw. Certo non si tratta di un disco ‘facile’ e necessita di qualche ascolto, anche piuttosto attento. I brani sono lunghi – si arriva a superare gli 8 minuti in “Cloud” – articolati e complessi. Non c’è niente di prevedibile in un lavoro di questo genere. Ed è proprio il suo bello.

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Fortunatamente, da qualche anno a questa parte, Antonio Forcione si fa vedere più spesso nel nostro paese, anche grazie al felice diffondersi dei festival di chitarra acustica. Lo abbiamo incontrato l’anno scorso a Mada-me Guitar, per due edizioni di seguito a Un Paese a Sei Corde e infine a settembre ad Acoustic Franciacorta, incontro dal quale è scaturita questa intervista. La sua partecipazione alla rassegna in Franciacorta è stata di poco successiva alla presentazione ufficiale del suo nuovo disco Sketches of Africa, avvenuta all’Edinburgh Festival Fringe lungo tutto lo scorso mese di agosto. Sketches of Africa, da noi recensito nel precedente numero di ot-tobre, era un disco molto atteso, poiché giunto dopo parecchi anni dai suoi ultimi lavori, Antonio Forcione Quartet in Concert del 2007, edizione in CD delle registrazioni contenute nel precedente DVD omonimo del 2005, e lo splendido album in duo con Charlie Haden, Heartplay del 2006.

Da Montecilfone all’AfricaIntervista ad Antonio Forcione

di Andrea Carpi

Ora possiamo dire che le aspettative non sono state disattese, visto che questi ‘Schizzi dell’Africa’ si dimostrano un’opera molto ricca e coinvolgente, accolta subito con favore dalla stampa specializza-ta tanto da meritarsi, tra gli altri riconoscimenti, di figurare come “Disco del mese” su questo numero di novembre della prestigiosa rivista inglese Guitar Techniques. Insieme all’intervista, Antonio ci ha an-che concesso la pubblicazione di una trascrizione molto completa, con tanto di parti percussive e so-vraincise di chitarra, del brano di apertura dell’al-

bum, “Madiba’s Jive”, che presenteremo in due puntate su questo e sul prossimo numero. È con queste parole che Antonio ha introdotto il pezzo: «“Madiba’s Jive” è un omaggio a Nelson Mandela, un uomo tra gli uomini, che ha ispirato e combat-tuto per intere generazioni di persone con la sua visione e la sua umanità. In questa traccia volevo fondere gli elementi che, a mio parere, sarebbero stati appropriati per descrivere l’aspetto umano di questo grande uomo. Anche se lui è principalmente associato alla dignità, alla saggezza e alla grazia,

ar artisti

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ho cercato di catturare con semplicità il suo umori-smo e il suo sorriso nel groove della musica, come la positività che mi ispirava». Questa descrizione, in fondo, vale anche per l’intero Sketches of Africa.

in occasione di un tuo concerto di due estati fa nel tuo paese d’origine in Molise hai raccontato: «avevo circa otto anni quando, passeggiando per le strade di Montecilfone sono stato attratto dalla musica che veniva fuori da un’osteria, una classica osteria con gli uomini che giocavano a carte e bevevano vino e due musicisti con fi-sarmonica e chitarra. Ecco, sono rimasto colpi-to da quell’atmosfera fantastica fatta di allegria e musica. È questa stessa atmosfera che cerco sempre di ricreare nei miei concerti dovunque io vada, perché credo fermamente nel potenziale sociale della musica». Quanto è stata importan-te l’africa di Sketches of Africa per mantenere vivo questo potenziale sociale?

Il primo invito a suonare in Africa mi è arrivato nel 2006 dall’Harare International Festival of the Arts (HIFA) nello Zimbabwe, dopo un’esibizione del mio Antonio Forcione Quartet al Festival di Edimburgo. Sapevamo che lo Zimbabwe stava attraversando un periodo particolarmente difficile ma, nonostan-te il rischio e i pochi soldi disponibili, abbiamo ac-cettato l’invito. Sono seguiti due bellissimi concerti sotto le stelle, in una specie di ‘anfiteatro’ di mille posti costruito su una struttura semplice di travi di legno, con cavi di corrente pericolosamente colle-gati e uno staff di tecnici simpatici, che lavoravano con ritmi molto lenti. Ad un certo punto in concerto, durante il mio solo di chitarra, l’elettricità è andata in black out e ci siamo ritrovati tutti al buio senza luci e senza impianto di amplificazione. A quel punto, non potendo continuare, ho salutato e mi sono di-retto verso il retropalco. Mentre uscivo, però, mi è sembrato sbagliato abbandonare la scena e lascia-re il pubblico alle precarietà del sistema, così sono tornato indietro e mi seduto sul bordo del palco in-vitandoli a schioccare le dita al ritmo della “Pantera rosa” di Henry Mancini. Be’, non vorrei esagerare, ma la reazione del pubblico è stata immediata: im-provvisamente si era creata una complicità in un gioco collettivo tra me e il pubblico, dove la musica fungeva da veicolo e la precarietà del buio si è tra-sformata in magia sotto le stelle. Un rito antico che mi ha ricordato quell’energia dell’osteria di tanti anni prima… Un’esperienza che non dimenticherò mai. È stata la bellezza e la forza di quella gente che mi ha ispirato a scrivere il brano “Song for Zimbabwe” per Sketches of Africa.

a proposito di un altro brano del disco, “tari-fa”, ispirato dalla località che si trova nella punta più meridionale della Spagna, hai raccontato la grande emozione che aveva suscitato in te la vi-sta in lontananza delle coste dell’Africa. Avendo già abbracciato altri universi musicali come la musica spagnola, brasiliana, popolare italiana,

cosa hai trovato su quelle rive lontane, com’è avvenuto l’impatto tra il tuo retroterra prevalen-temente latino e la musica del continente afri-cano?

Posso dire che le lancette della bussola dei miei viaggi puntano spesso e volentieri verso le direzioni di una musica che cerca le radici. L’Africa la sento come la madre di tutto questo. Ho la fortuna di vive-re a Londra da circa trent’anni e ho potuto verificare direttamente gli intrecci musicali di tutto il mondo e la validità di questa idea. Nella musica, diversamen-te dalla realtà politica, le frontiere non esistono e c’è un po’ di Africa in ogni cultura.

l’ossatura dell’album è realizzata con i com-ponenti dell’Antonio Forcione Quartet, la vio-loncellista inglese di origini nigeriane Jenny adejayan, l’australiano nathan thomson al con-trabbasso, flauti e kalimba, e il brasiliano adria-no adewale alle percussioni: puoi raccontarci come si è formato questo gruppo di ‘musica del mondo’ e come è entrato nel progetto africano?

Ho conosciuto Jenny Adejayan nel ’96-97 durante un evento a Londra, nel quale si alternavano mu-sicisti, umoristi e poeti. Quella sera le ho dato un passaggio a casa e regalato il mio album Acoustic Revenge. L’ho rivista un anno più tardi in occasio-ne di un mio concerto, e mi ha confessato di aver letteralmente consumato il mio CD per le tante volte che lo aveva ascoltato. Poco dopo abbiamo a pro-vare insieme e da lì è nata una delle collaborazioni più durature della mia carriera. Jenny non è sol-tanto una grande violoncellista con un’educazione musicale classica, un orecchio assoluto e capacità melodico-ritmiche impressionanti. Jenny è anche una gran bella persona, con una sensibilità, umiltà e onestà disarmanti, una delle mie amiche più care.

Il tocco bellissimo di Adriano l’ho intuito mentre viaggiavamo in macchina ascoltando la sua musica registrata… Rimasi talmente colpito dalla delicatez-za del suo stile e dall’affinità che sentivo col mio modo d’intendere la musica, che ho voluto cono-scerlo immediatamente. È nato subito un bel rap-porto con lui e lo sento come un fratello più piccolo. La sua energia e la passione per il suo lavoro lo rendono un artista speciale. La sinergia che si crea

Con la chitarra Uddan

Intervista ad Antonio Forcione ar

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sul palco con lui rende la performance un’esperien-za elettrizzante.

Riguardo a Nathan, Jenny mi parlò molto bene di lui, con il quale aveva lavorato qualche anno prima. Lo contattai e cominciammo a registrare l’album Tears of Joy. Per la sua estrema riservatezza, ho scoperto con fatica altre sue doti: suonava bene il flauto, aveva un bagaglio di esperienza di musica africana e di radici etniche, aveva vissuto e suonato con musicisti della Tanzania; in ultimo, ma non per minore importanza, si dedica ad attività di recupe-ro di bambini con difficoltà psichiche e motorie. Lo ringrazio per avermi coinvolto insieme agli altri in questa attività.

al disco hanno collaborato anche musicisti provenienti da diverse parti dell’Africa. In parti-colare sono curioso di conoscere come si è svi-luppata la già citata “Song for Zimbabwe”, inter-pretata dalla cantante dello Zimbabwe, chiwoni-so Maraire, e costruita su un suo testo.

Durante la mia prima visita al Festival di Harare, ho avuto l’occasione di ascoltare molta musica del posto e di conoscere, tra i tanti musicisti, la bravis-sima cantante Chiwoniso Maraire. Dopo un suo bel-lissimo concerto, siamo andati in un caffè e abbia-mo parlato di interessi comuni, quindi ovviamente di musica e musicisti. Quando ci siamo salutati, mi ha regalato un CD stupendo di materiale originale. Al ritorno ad Harare nel 2011, avevo già pronto quasi tutto il materiale per il progetto Sketches of Africa. Sentivo però il bisogno che Chiwoniso cantasse il brano “Song for Zimbabwe”, in quanto lei – non solo come artista di cui apprezzavo le doti, ma avendola conosciuta personalmente – aveva un forte valore di riferimento per rappresentare il meraviglioso po-polo dello Zimbabwe che avevo conosciuto.

Mi chiese un po’ di tempo per scrivere le paro-le e disse che mi avrebbe contattato più in là per spedirmi le tracce con le voci. È stato un giorno di pura gioia per me e il co-produttore Chris Chimsey, quando abbiamo ascoltato le tracce della sua regi-strazione.

altri musicisti africani sono Seckou Keita del Senegal all’arpa-liuto kora, Juldeh camara dal gambia al violino monocorde riti e il cantante sudafricano Zamo Mbutho. Ci puoi raccontare il tuo incontro e la tua collaborazione con loro?

Ho conosciuto Seckou Keita tramite il contrab-bassista Davide Mantovani. L’ho invitato a casa per una jam e abbiamo suonato per ore ininterrotta-mente, sembravamo come due bambini in un luna park. Così abbiamo deciso di mettere su un reper-torio e, poco dopo, abbiamo debuttato in una chie-sa sconsacrata qui a Londra, una bella esperienza da ripetere al piu presto. Infatti, nel 2011, ci siamo presentati insieme ad Adriano Adewale al Festival di Edimburgo come AKA Trio. I concerti sono sta-ti molto apprezzati dai critici e dal pubblico, culmi-nando in una apparizione nella rete nazionale della BBC.

Per quanto riguarda Julde Camarah, una sera al ritorno da un concerto, il mio fonico mi parla di un musicista del Gambia che suona un violino ad una corda… Fermo subito la macchina e chiedo il suo contatto! Vive in Inghilterra e tra l’altro ha lavorato anche con Robert Plant. Lo contatto e gli propongo di registrare un paio di brani nel mio album, “Africa” e “Sun Groove”. In studio la sua perplessità iniziale, che avvertivo nel suo sguardo, si scioglie poco dopo in un grande sorriso durante l’ascolto di “Africa”. Si siede, parte la registrazione e lui comincia subito a partecipare con movimenti del corpo, mentre dal

Festival di Edimburgo con Anselmo Netto, Matheus Nova e Mother Africa

Intervista ad Antonio Forcionear

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suo ‘violino’ partono fraseggi di un linguaggio estre-mamente espressivo e privo di regole, bellissimo e indecifrabile. Sempre durante la registrazione, io e Chris rimaniamo ancora piu stupiti quando Julde abbandona il violino e comincia, ad occhi chiusi, a parlare in un dialetto africano: ci spiegherà dopo che era per raccontare l’emozione del momento che stava vivendo con noi, in una dimensione ‘ritrovata’.

Infine Zamo Mbutho: ero in uno studio di regi-strazione a Johannesburg, alla ricerca di una voce idonea per la parte del coro di “Song for Zimbab-we”; mi fanno ascoltare diverse voci e mi colpisce in particolare quella di Zamo. Ho la fortuna di poterlo contattare e nel giro di due ore concludiamo il la-voro con reciproca soddisfazione. Vengo a sapere, chiacchierando con lui, che per più di venticinque anni ha lavorato con Miriam Makeba in tournée e registrazioni!

l’album è registrato e co-prodotto da chris Kimsey, notissimo in particolare per avere a lun-go collaborato con i Rolling Stones. Come si è svolto il vostro lavoro insieme?

Io e Chris Kimsey siamo amici da più di sette anni e abbiamo diverse conoscenze in comune. Quando mi ha sentito suonare dal vivo la prima volta, ricor-do che alla fine del concerto venne in camerino per complimentarsi e mi abbracciò. In seguito ci siamo visti in più occasioni e, ogni volta, ci riprometteva-mo di collaborare. Così, un anno fa, l’ho chiamato senza esitare e gli ho proposto il progetto. Collabo-rare con un mostro sacro del rhythm and blues può sembrare un po’ contraddittorio per uno come me che opera in una dimensione acustica. Però, devo dire che la sua concezione di sintesi, com’è quella del R&B, è stata a mio parere un giusto equilibrio per il progetto Sketches of Africa. La professionalità e la lunga esperienza di Chris mi hanno permesso di ‘volare in alto’, sapendo di avere un tecnico con i piedi ben saldi per terra e le mani sui tasti giusti.

nel disco si ascoltano molti riff, molta melo-dia, molto ritmo, alcune divisioni ritmiche com-plesse, molte sonorità diverse: quali sono stati gli elementi principali con cui hai cercato di cat-turare lo spirito delle musiche africane?

La musica ‘africana’, come quasi tutte le musiche etniche, muove qualcosa che non ha molto a che fare con gli studi musicali. È qualcosa di sofisticata-mente primordiale, è una lingua parlata con il corpo, con lo spirito e con un’istintualità infantile, che mi af-fascina e coinvolge per la profondità emozionale…

È difficile ormai collocare il tuo stile chitarri-stico: in effetti c’è un po’ di tutto, dal fingerstyle all’uso del plettro, dagli stacchi ritmici agli as-soli, dalle corde di nylon alle corde di metallo, dalla sei corde alla dodici corde, dai fraseggi ‘stoppati’ all’uso di chitarre fretless… come ti definiresti oggi come chitarrista?

Non saprei proprio definirmi come chitarrista. Non lo sento come un mio bisogno. Per me, comunque,

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l’uso di tecniche, gli strumenti, gli stili diversi non sono l’obiettivo vero, ma appunto gli ‘strumenti’ che ritengo più idonei di volta in volta a inseguire un’i-dea musicale che ho in mente.

la tua ‘portata’ come musicista tende a trava-licare i limiti di un pubblico di appassionati della chitarra e a toccare una platea più vasta: qual è il segreto attraverso il quale un chitarrista ‘soli-sta’ può raggiungere ogni tipo di pubblico?

Non so e non credo ci siano formule. Io non faccio altro che inseguire il mio istinto e il mio senso artisti-co. Il fatto di voler raggiungere ogni tipo di pubblico non è certo un mio obiettivo, anche se non nascon-do che – quando vedo tre generazioni coinvolte nei miei concerti – mi fa molto piacere scoprire che la mia musica tocca molte persone.

ci puoi parlare della tua strumentazione in studio e dal vivo?

In studio tendo a privilegiare molto di più il suono acustico rispetto a quello dei pickup. Quindi cerco di fare un buon uso di microfoni esterni, di solito due, come il Neumann o l’AKG 114, posizionati l’uno vi-cino alla buca e l’altro vicino al dodicesimo tasto. Premetto, però, che queste non sono regole che valgono per tutte le occasioni e per tutte le chitarre. È sempre bene usare l’orecchio. A volte, per dare un po’ più di presenza sui medio-bassi, aggiungo un venti per cento di pickup al suono microfonico. Nel caso della registrazione del brano “Madiba’s Jive” ho utilizzato due microfoni esterni, un Fishman Rare Earth e un Boss Super Octave OC-3 per arric-chire le linee di basso.

Dal vivo uso chitarre Yamaha: una NCX-2000FM con pickup Yamaha e microfono interno; e una

APX-10 con pickup Yamaha SPX-10, Fishman Rare Earth e microfono interno. La mia pedaliera com-prende un pedale volume Boss FV300L, un Boss Super Octave OC-3, un Fishman Pro EQ Platinum per il pickup, un Fishman Dual Parametric D.I. per il microfono interno e un riverbero Strymon Bluesky.

in particolare cosa sono le admira uddan e Octan fretless che usi nel disco? Cosa signifi-cano i loro nomi?

L’idea di avere uno strumento fretless mi è venuta dopo aver ascoltato il suono dell’oud, che ha origini risalenti all’antica Persia. La chitarra Uddan è una chitarra a sei corde di nylon modificata, con l’ag-giunta di altre otto corde trasversali. L’Octan è a sua volta una chitarra a sei corde di nylon modificata, senza corde supplementari e con corde molto più grosse, per ottenere un’accordatura all’ottava infe-riore. Lo strumento è stata rinforzato internamente perché le corde, essendo molto più spesse, produ-cono una maggiore tensione sul manico e sulla cas-sa armonica. Il nome Uddan è composto da ‘udd’, che sta per ‘oud’, e da ‘an’, che sono le due prime lettere del mio nome. Il nome Octan invece è com-posto da ‘oct’, che sta per ‘octave’, e ‘an’.

con che formazione hai presentato Sketches of Africa all’edinburgh Festival Fringe?

Il Festival di Edimburgo è l’appuntamento più im-portante dell’anno per la mia attività. Ho partecipato a circa diciannove edizioni negli ultimi ventun’anni ed è stato senza dubbio la mia miglior palestra, non solo dal punto di vista artistico, ma anche di vita. La scelta di presentare il mio album Sketches of Africa al mio pubblico più fedele in un teatro di trecento-settanta posti per ventiquattro sere consecutive era una decisione più che ovvia. Ho suonato all’inizio in trio con Seckou Keita alla kora e Dado Pasqua-lini alle percussioni, che mi hanno accompagnato per undici serate. Poi ho continuato con un nuovo trio insieme ad Anselmo Netto alle percussioni e Matheus Nova al basso acustico. E abbiamo avuto anche la fortuna di ospitare artisti provenienti dallo Zimbabwe e dal Sudafrica, ospiti speciali come le cantanti e ballerine del gruppo Mother AfricaUn’e-sperienza indimenticabile.

a cosa stai lavorando attualmente e quali sono i tuoi prossimi progetti?

Sto lavorando a un progetto che mi coinvolge come direttore artistico, arrangiatore e chitarrista. La lineup comprenderà il coro delle Voci Bulgare, un percussionista spagnolo, un cantante di flamen-co e un famoso contrabbassista… Ti saprò dire di più quando le cose cominceranno a prendere for-ma!

Andrea Carpi

www.antonioforcione.com

Festival di Edimburgo con Mother Africa

Intervista ad Antonio Forcionear

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Madiba’s Jivedi Antonio Forcione

dall’album Sketches of Africa (parte I)

Chitarra acustica steel-stringAccordatura standard – Capo IIIN.B.: la tablatura è scritta come se il terzo tasto fosse il tasto 0Video: http://www.youtube.com/watch?v=LJSxY-5YePI

ar

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Madiba’s Jivear

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Madiba’s Jive ar

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Quando penso a Veronica Sbergia e a Max De Bernardi mi arriva subito un ‘segnale’ positivo. A dire il vero niente di così strano, considerata la simpatia che sono in grado di trasmettere durante i loro concerti e non solo, ma… non lasciamoci ingannare! Dietro a questa facciata un po’ ironica e scanzonata si nascondono, neanche troppo velatamente, due grandi musicisti, due artisti autentici che, al contrario di molti altri, non concedono alcun compromesso nel (ri)proporre un genere che sembra essere ormai parte di loro, allo stesso modo dei grandi ai quali si ispirano. E tutto questo con una naturalezza quasi imbarazzante. L’Acoustic Guitar Meeting di Sarzana è sempre una grande occasione di incontri ma, complice un maledettissimo microregistratore digi-tale che ha fatto tutto quanto era nelle sue possibilità per riuscire a cancel-lare questa intervista, recuperati i file miracolosamente, con un po’ di ritar-do vi propongo questa chiacchierata. Ora provate a immaginare il classico marasma acustico di sottofondo che accompagna solitamente le giornate dell’AGM… intanto io schiaccio ‘Play’, si parte!

Vecchie storie per tempi moderniIntervista a Veronica Sbergia e Max De Bernardi

di Dario Fornara foto di Mario Giovannini

ar artisti

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ciao Veronica e ciao Max, ormai siete di casa qui all’Acoustic Guitar Meeting di Sarzana. Vista l’abituale frequentazione, penso siate partico-larmente legati a questa manifestazione.

Max: Si è vero. Penso sia il decimo anno che par-tecipo a questa manifestazione! A volte mi definisco ‘musicista in affitto’ e in passato ci sono venuto an-che come dimostratore di strumenti. Ma a Sarzana si viene soprattutto per proporre la propria musica, per presentare i propri lavori… e poi qui si fanno conoscenze, si mantengono e si creano rapporti, nascono collaborazioni. Un chitarrista acustico non può non esserci!

Pagato il giusto tributo all’agM, partiamo dal-la fine: Old Stories for Modern Times è il vostro ultimo lavoro; intanto, complimenti! com’è nato questo progetto?

Veronica: All’inizio pensavamo semplicemente di fare un disco in duo, solo Max e io, un lavoro per an-dare a riscoprire quelle che erano state le voci fem-minili folk-blues ’minori’, intese come popolarità, ma importanti per la storia di questa musica. Artisti che, per scarsità di materiale, ancora oggi sono quasi sconosciuti. Durante la realizzazione abbiamo però cambiato leggermente direzione: alcuni brani del progetto iniziale sono rimasti, ma abbiamo deciso di inserire anche la musica di quei personaggi fonda-mentali della musica che amiamo, quindi di propor-re un excursus di tutta quella che è la vecchia tradi-zione americana, con il blues, il folk, il ragtime… la musica delle radici.

Max: E poi scopri che nelle vecchie storie, raccon-tate da questi artisti, c’è anche tanta attualità, quindi povertà, mancanza di soldi e di lavoro: alcune can-zoni del CD parlano di queste cose e sono passati ottant’anni!

Vorrei soffermarmi sul ‘suono’ di questo cd: avete adottato delle tecniche di registrazione particolari per ricreare quest’originale sonorità old-time music che caratterizza l’intero lavoro?

Max: Guarda, in realtà noi non siamo poi dei ma-niaci del vintage a tutti i costi, il titolo stesso del di-sco ne è una dimostrazione. Sicuramente ci interes-sano le sonorità acustiche, nessuno degli strumenti che suonano sul disco e stato ‘pluggato’, abbiamo registrato solo dei suoni naturali. Cerchiamo, però, di essere moderni e di proporre una versione di queste sonorità sicuramente più attuale. La regi-strazione è avvenuta sfruttando la tecnologia digi-tale, ma tutto è stato poi riversato su nastro, per poi terminare il missaggio in mono di nuovo sul di-gitale. Il missaggio in mono non vuole ricreare una timbrica vintage, lo abbiamo utilizzato per riuscire a ottenere una sonorità più compatta e diretta, che ci permettesse di ottenere una maggiore spinta e un

maggiore groove, una dimensione che reputo ne-cessaria soprattutto a chi suona in duo come noi.

Si possono ascoltare gli interventi di alcuni ospiti illustri come bob brozman, leo di gia-como, Massimo gatti: come sono nate queste collaborazioni? immagino vi accomuni una cer-ta amicizia…

Veronica: Come nel progetto The Red Wine Se-renaders, anche qui ci siamo ritrovati soprattutto con degli amici. Ad esempio abbiamo chiesto a Massimo Gatti, che conosciamo da tempo, e a Leo Di Giacomo di suonare su una traccia, “Some of These Days”, un brano che abbiamo definito gipsy grass per il tipo di arrangiamento un po’ alla Django Reinhardt abbinato a sonorità marcatamente blue-grass. Abbiamo chiamato Sugar Blue, con la sua armonica, e poi il grande Bob Brozman, del quale vorremmo fregiarci del titolo di amici, anche se in realtà abbiamo avuto modo di suonare insieme solo in qualche occasione: una persona gentilissima che ha espresso dei pareri molto lusinghieri su di noi… è stato un vero onore la sua partecipazione a que-sto lavoro. Poi c’è Dario Polerani, un carissimo ami-co contrabbassista che collabora con Max, penso, dall’età scolare!

che strumenti avete usato durante le registra-zioni?

Max: Abbiamo utilizzato davvero parecchi stru-menti in questo disco. Per un vecchio pezzo di Jimmie Rodgers, “Miss the Mississippi and You”,

Intervista a Veronica Sbergia e Max De Bernardi ar

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abbiamo rispolverato un glockenspiel… e poi una vecchia Dobro square neck con una sonorità tipica-mente hawaiiana, una Martin 000, alcune National resofoniche; abbiamo utilizzato il kazoo e la wa-shboard, la tipica ‘asse da lavare’ che Veronica usa creando questa sua sonorità molto simile a quella di un rullante, suonandola con le spazzole e ottenen-do un suono molto più morbido rispetto all’originale, realizzato con i ditali e con una componente timbri-ca molto più percussiva. Poi, ancora, una chitarra tenore resofonica National, uno strumento alquanto atipico al giorno d’oggi, un modello molto raro del 1933; e svariati mandolini e ukulele di varie epoche. Le session delle registrazioni sono avvenute nell’ar-co di circa sei mesi e, a dire il vero, non mi ricordo neppure tutto!

ascoltando il cd, ma soprattutto ascoltandovi dal vivo, si rimane sinceramente stupiti sia per la naturalezza, sia per la ‘credibilità’ con la quale proponete un genere che – almeno virtualmen-te, per localizzazione sia fisica che temporale – dovrebbe essere a voi molto lontano…

Veronica: ...Ma che bella domanda! Davvero… [risate]

Max: Quando ho iniziato a suonare la chitarra, mi sono subito innamorato di queste sonorità acu-stiche e mi sono messo a imparare il fingerpicking tradizionale. Direi, molto semplicemente, che vole-vo suonare questo genere e farlo in questo modo.

Intervista a Veronica Sbergia e Max De Bernardi

L’apprendimento è stato un processo molto natu-rale, perché era veramente quello che desideravo fare. Questa cosa non dipende dall’appartenenza a una certa cultura, la stessa identica cosa può ca-pitare, e capita allo stesso modo, a un chitarrista americano, magari con influenze differenti vista la distanza spazio-temporale. Ho imparato tutto dai di-schi, e parlo di vinili anche vecchissimi [non ne ave-vamo dubbi, Max! – ndr]: mi sono ‘tirato giù’ di tutto, veramente, molte cose me le sono dovute reinter-pretare, ma così facendo le ho fatte veramente mie.

Veronica: Sono cresciuta con la musica ‘nera’! Mio padre è un grande appassionato di jazz e ho avuto un’educazione musicale che mi ha avvicina-to, sin dagli inizi, alla musica americana. Ho iniziato a studiare canto quando ero molto piccola e il mio modo di cantare è sempre stato in continua evo-luzione. Anche rispetto alle prime registrazioni con Max, riascoltandomi oggi mi trovo quasi irriconosci-bile! Più canti questo tipo di musica, maggiormente entri nel suo spirito, lo interiorizzi e ne diventi parte. Mi fa piacere che tu abbia notato questa ‘naturalez-za’ perché è uno dei nostri obiettivi, uno dei più diffi-cili da far arrivare alla gente che ci ascolta. Diciamo che, a distanza di anni, si è creata un po’ questa osmosi e oggi siamo veramente ‘dentro’ la musica che suoniamo.

Ma riuscite a staccarvi da tutto questo nella quotidianità della vita? È difficile pensarlo.

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Intervista a Veronica Sbergia e Max De Bernardi

Veronica: No, no, noi siamo proprio così! La no-stra vita s’incastra continuamente con la nostra mu-sica, e viceversa!

Max: La musica è talmente parte del quotidiano che a volte non mi rendo neppure conto della sua presenza. Anche con Veronica, nei nostri discorsi, c’è sempre qualcosa, un pensiero, un’idea legata alla musica o comunque qualcosa che ne è influen-zato. La musica è una parte di me, e non ci faccio più caso!

Max, il blues è una malattia o una medicina?Max: Ma, guarda, onestamente non credo che sia

né una cosa né l’altra! Sono lontano dallo stereotipo e dall’idea un po’ romantica della tristezza legata al blues. Quando sono triste non ascolto solitamente un disco di blues e soprattutto non ci soffro insie-me! Potrei mettermi ad ascoltare tranquillamente gli Emerson Lake & Palmer! Il blues è la musica che amo, e basta.

i vostri concerti sono sempre molto coinvol-genti, il pubblico si diverte e sembra sempre apprezzare la vostra proposta musicale: quanto è difficile proporre nel nostro paese il vostro ge-nere al di fuori del circuito delle manifestazioni legate alla chitarra e dei locali specializzati? È così anche all’estero?

Max: In Italia, molto semplicemente, questa mu-sica non esiste, non è contemplata da nessuna for-

ma di comunicazione di massa, radio, televisione. La musica, da noi, è un’altra cosa: un’autoradio in macchina con in sottofondo la Pausini, con tutto il rispetto. Da noi si è anche perso soprattutto il gusto di andare a scoprire, magari pagando un biglietto, un musicista poco conosciuto. La gente non ha nep-pure più voglia di informarsi prima su chi sei e cosa proponi. Tutto funziona solo se sei già molto famo-so e popolare. In Inghilterra, in Francia, in Svizzera, la gente che viene ai nostri concerti, magari, non ci ha mai ascoltato, ma si è informata e viene per conoscerci! Una cosa assolutamente normale, ma in Italia è più difficile che accada.

Due parole sui prossimi vostri progetti.Veronica: Abbiamo in programma parecchie date

per promuovere Old Stories for Modern Times. Anche nei teatri, dove proponiamo questa sorta di concerto raccontato, cercando anche di spiegare la musica che suoniamo, sempre nel nostro stile un po’ scanzonato, senza assolutamente far sembrare il tutto una sorta di lezione! Ci piace dare, a chi par-tecipa a un nostro concerto, la possibilità di portarsi a casa anche qualche notizia in più su quello che ha ascoltato. Poi suoneremo in Francia e in Inghilterra, e c’è questo progetto di Max interamente dedicato all’ukulele, un CD che s’intitolerà Ukeology, dove comparirò anch’io in un paio di brani!

Dario Fornara

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Madame Guitar 2012di Andrea Carpi Foto di Riccardo Bostiancich

Madame Guitar è giunta alla sua settima edizione, da venerdì 21 a domeni-ca 23 dello scorso settembre, e ancora una volta l’art director Marco Miconi è riuscito a superarsi, costruendo un cartellone folto e di grande qualità. Seguendo una tendenza che si era già manifestata nelle ultime edizioni, il festival ha cercato quest’anno di equilibrare il più possibile il livello dei con-certi diurni nel centro cittadino rispetto a quelli serali in teatro, evitando di relegare i primi a eventi di contorno. Non più soprattutto artisti locali e propo-ste ‘emergenti’ nelle esibizioni in piazza, quindi, ma anche musicisti noti, nel tentativo di calibrare le scelte tra i vari generi musicali, individuando gli artisti più adatti a richiamare l’attenzione di un pubblico diurno non pagante e non specificamente motivato, e quelli più idonei nella circostanza attuale ad atti-rare un pubblico pagante, più orientato e determinato. Un pubblico pagante che – Miconi ci ha tenuto a precisarlo – non ha dovuto sopportare aumenti di prezzo, che i maggiori sforzi organizzativi avrebbero potuto giustificare, ma che i morsi crescenti della crisi economica rendevano inopportuni. I concerti diurni, inoltre, si sono tutti concentrati nel collaudato spiazzo antistante il Municipio, sul quale si affacciavano anche le mostre di liuteria e di dischi da collezione, che hanno potuto godere così di un afflusso di visitatori più omo-geneo e meno dispersivo. Ma cerchiamo di andare con ordine.

Guitar RepublicNibs van der Spuy & Guy Buttery

Hussy Hicks Andrea Castelfranato

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Guitar Republic. Hanno aperto il festival nel con-certo serale di venerdì e la loro musica è ‘arrivata’ immediatamente agli spettatori. L’efficace idea della formazione in trio, in grado di catturare l’attenzione anche del pubblico meno orientato, rappresenta si-curamente una testa di ponte importante per l’affer-mazione di Sergio Altamura, Stefano Barone e Pino Forastiere. I tre sono abituati a suonare soprattutto all’estero e in particolare in America, ma da qualche tempo a questa parte riusciamo ad ascoltarli più spesso anche nel nostro paese. Del resto, com’è naturale, il loro affiatamento cresce di continuo, la loro performance dal vivo è sempre più collaudata, il loro suono invidiabile. Speriamo che, continuando così, anche il lavoro dei singoli componenti possa suscitare un uguale interesse.

Nibs van der Spuy & Guy Buttery. Negli ultimi anni sembra essersi creato un filo rosso che unisce Madame Guitar ai chitarristi acustici del Sudafrica: nel 2008, segnalato da Beppe Gambetta, è venuto a suonare Guy Buttery, seguito nel 2009 da uno dei suoi principali ispiratori e icona del fingerstyle su-dafricano, Tony Cox; l’anno scorso ha riscosso un grande successo Nibs van der Spuy, che quest’an-no è tornato insieme a Buttery, complice un bell’al-bum appena inciso insieme, In the Shade of the Wild Fig, già premiato con un prestigioso Silver Ovation Award al National Arts Festival di Grahamstown. I due non sono soltanto degli artisti raffinati, ma an-che delle persone squisite, estremamente disponi-bili, che il mattino dopo il concerto hanno tenuto un incontro sul tema “La musica in e del Sudafrica”, incentrato sulla formazione musicale dei sudafricani di origini europea della loro generazione. Nibs, in particolare, ha raccontato la sua vita emblematica: nato a Johannesburg nel 1966 nel periodo dell’a-partheid, non aveva come riferimento una musi-ca originale della comunità bianca ed è cresciuto ascoltando la musica angloamericana. Sua nonna era nata in Inghilterra e andava ogni anno nel suo paese d’origine, dal quale riportò in quegli anni i di-schi dei Beatles e dei Rolling Stones. Negli anni ’70, la prima musica nera che Nibs ha ascoltato è stata quella di Jimi Hendrix, Little Richard, James Brown, il blues rock. Nel frattempo la nonna era andata a vivere a Durban nella provincia di KwaZulu-Natal a cinque ore da Johannesburg, dove vive la comunità zulu. Nibs ci andava per le vacanze ed è lì che ha ascoltato per la prima volta la musica tradizionale zulu chiamata maskanda, caratterizzata in parti-colare dalle oil drum guitars (chitarre con il corpo ricavato da taniche d’olio) suonate in una forma di fingerpicking. Questa musica, che per lungo tempo non è stata registrata e documentata a livello disco-grafico, e della quale sentiva profonde somiglianze con la musica di John Lee Hooker e del Delta blues, lo ha influenzato in modo determinante. Nibs e Guy ci hanno così proposto un breve percorso di ascolti, per descrivere la progressiva penetrazione di quella forma musicale nella musica sudafricana attuale: si è partiti da Shiyani Ngcobo, rappresentante fonda-mentale della tradizione maskanda, con Introducing Shiyani Ngcobo (World Music Network, 2004), per arrivare alla collaborazione tra Madala Kunene, al-tro esponente del maskanda, con il cantautore folk bianco Syd Kitchen nell’album Bafo Bafo – What Kind?! (Melt Music Phase 2, 2005); dal zulu pop

della cantante Busi Mhlongo con Urbanzulu (1998) alla musica dei Tananas, primo gruppo dell’integra-zione formato dal chitarrista bianco Steve Newman, dal bassista Gito Baloi del Mozambico e dal percus-sionista meticcio Ian Herman, con i dischi Tananas (1988), Spiral (1990) e Time (1994); per concludere con l’album Matabele Ants (2001) del già citato ma-estro Tony Cox.

Hussy Hicks & Kristy Lee. Hanno concluso nel migliore dei modi la serata di venerdì. Il pubblico dei festival di chitarra acustica le ha viste crescere di anno in anno fino a diventare una certezza. Se il talento della chitarrista Julz Parker è stato da subito evidente, la potenza espressiva della cantante Le-esa Gentz è stata una scoperta che si è rafforzata di giorno in giorno. Il loro set è stato un crescendo esaltante ma, giunto al suo culmine e quando era-vamo tutti soddisfatti e felici di aprire il rito dei bis, le due australiane hanno chiamato sul palco una ‘ragazzona’ dell’Alabama, che si chiama Kristy Lee. Appena ha iniziato a cantare, l’emozione è salita alle stelle: una voce ‘soul’ potente ma, soprattutto, intensa, vibrante e sensibilissima. Quando poi ha intonato con il supporto delle Hussy Hicks il ritor-nello di “Baby of Mine”, «Let there be peace down in your soul, for the things of this world we can’t control» (‘Fai che scenda la pace nella tua anima, per le cose di questo mondo che non possiamo controllare’), i brividi sono corsi lungo la schiena. Kristy, sempre insieme alle beniamine australiane, ha presentato il suo repertorio la domenica matti-na in piazza, ricevendo dal pubblico un’accoglienza generosissima. Abbiamo scoperto che il suo nuovo disco Raise the Dead, realizzato proprio con la col-laborazione delle Hussy Hicks, è di imminente usci-ta: lo aspettiamo con ansia.

Lino Straulino. Lino Straulino ha sempre seguito in un certo senso le note indicazioni di Alan Lomax e Pete Seeger, che predicavano alle giovani gene-razioni di cantare le proprie tradizioni, e si è sempre dedicato con amore e perseveranza a riproporre il folklore musicale della propria terra, a rivalutare la lingua friulana e a scrivere nuove canzoni in quella lingua. Ma al tempo stesso covava nel suo intimo un’attrazione emozionale nei confronti delle musi-che angloamericane dal folk inglese alla West Co-ast, che in qualche misura traspare nei suoi lavori. Non è forse un caso allora se – nel presentarsi il sabato mattina a Madame Guitar e al mondo della chitarra acustica, che notoriamente fa riferimento soprattutto al fingerstyle di matrice angloamerica-na – abbia voluto riproporre il repertorio del suo recente album L’alegrie (Nota, 2010) nel quale esplicitamente riarrangia in chiave country e blues alcune delle più conosciute villotte friulane, vesten-do con ironia i panni del cowboy e armato di ar-monica blues e banjo chitarra, uno strumento che più di ogni altro può richiamare l’incontro tra i nostri vecchi emigranti e la musica del nuovo mondo. Un operazione di grande interesse, che a mio parere richiederebbe però un ulteriore sforzo di amalgama. So che Lino sta lavorando anche a un repertorio di balli tradizionali del Norditalia rielaborati in fin-gerstyle attraverso l’uso di accordature aperte: ne ha suonati alcuni al seminario di John Renbourn a Madame Guitar del 2009, e Renbourn ha dimostra-

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to di apprezzarli. Credo che questo lavoro sarebbe sicuramente un tassello importante nella direzione intrapresa e aprirebbe ancor più le porte del popolo della chitarra acustica.

Martin Moro. Ha suonato sabato pomeriggio ed è stato una sorpresa per me: suona la chitarra (una bellissima Breedlove), la chitarra resofonica e il mandolino; tecnicamente è molto bravo e ha un suono molto curato. Nel suo paese, l’Austria, porta avanti attività multiformi come solista, componente di gruppi folk e non solo, musicista di studio, produt-tore, arrangiatore e compositore. Credo che varreb-be la pena riascoltarlo.

Gabor Lesko. Viene da un passato legato so-prattutto a una musica fusion, elettrica e acustica, molto arrangiata e orchestrata. Come Massimo Va-rini, viene a sua volta da un passato di collabora-zioni con importanti artisti pop e, da qualche tempo, si è avvicinato a una dimensione più intima della musica, più concentrata e legata al fingerstyle per chitarra sola. Come Varini, anche lui è un acquisto prezioso per il nostro piccolo grande mondo della chitarra acustica, perché può portarci una visione forse più ampia dell’attività musicale e una mag-giore esperienza delle esigenze del pubblico non specialistico. Nel suo set in piazza del Municipio ha mostrato la capacità di creare atmosfere varie, dai brani delicati in fingerstyle alle evoluzioni dinamiche in strumming, dalle canzoni morbide alle plettrate virtuosistiche, dagli effetti percussivi all’uso dei loop.

Andrea Castelfranato. Ha aperto con successo il concerto serale del sabato. Molto migliorato e atten-to sul piano della presenza scenica e della tenuta del palco, con la capacità già collaudata di gestire al meglio la sua doppia anima di chitarrista latino e flamenco sulle corde di nylon, e di chitarrista fin-gerstyle attento all’uso delle accordature aperte e delle nuove tecniche a due mani sulle corde metal-liche, può essere oggi considerato tranquillamente nel numero dei migliori chitarristi acustici italiani. Nei giorni precedenti il concerto, inoltre, Andrea ha tenuto dei seguitissimi seminari di introduzione alla chitarra acustica per due scuole medie di Udine e nella scuola media di Tricesimo.

Bob Bonastre. Ha uno stile molto personale, ca-ratterizzato costantemente da un fingerstyle svinco-lato da modelli sulle corde di nylon, da intermezzi di parti percussive e da inserti vocali senza parole, di grande estensione fino al falsetto. Uno stile talmen-te personale che, a un ascolto distratto, potrebbe apparire ripetitivo. Ma, a ben ascoltare, ci si rende conto che di ogni viaggio musicale che intraprende, di ogni idea che vuole esprimere, riesce a cogliere certi aspetti intimi e a evocare certi dettagli impor-tanti. Quando suona “Bamako”, la capitale del Mali, si sentono le sonorità della kora e il timbro della voce è proprio quello della regione del Niger. Quan-do esegue un nuovo brano dal titolo provvisorio “Can You Hear The Children Playing”, si sentono i bambini giocare. E così via. Sembra forse un modo di comporre e di procedere molto ‘pensato’, molto riflessivo, che potrebbe rispecchiare la parte fran-cese della sua natura (lui è nato in Senegal da una famiglia per metà francese e metà spagnola). Ma

quello che è certo è che vale la pena prestare l’at-tenzione necessaria alla sua musica effervescente ma sofisticata.

Amine & Hamza. Amine e Hamza M’raihi sono due giovani fratelli tunisini nati tra il 1986 e il 1987, che suonano rispettivamente l’oud e il kanoun, un grande salterio trapezoidale a corde pizzicate, che si suona appoggiato sulle ginocchia con dei plettri digitali. Educati alla musica classica araba, sono però aperti alle nuove composizioni e alla collabora-zione con musicisti classici occidentali e di altre cul-ture. Sono molto attivi nei circuiti della world music e hanno già inciso sei album a partire dal 2003, quan-do avevano cioè rispettivamente sedici e diciasset-te anni. La loro musica, spesso meditativa e ricca di sviluppi improvvisativi, può sembrare ‘difficile’ a un ascolto superficiale, ma è sicuramente di alto livello e di grande interesse.

W.I.N.D. unplugged. Di unplugged avevano solo la chitarra acustica, accompagnata dal basso elet-trico e da una batteria ‘dura’. Ma è pur vero che un po’ di sano rock blues a volte ci vuole. E loro il rock blues lo sanno suonare, cantare e anche comporre. Così come si capisce che nel loro campo sono uno dei gruppi italiani più riconosciuti in campo interna-zionale. E quando alla fine hanno intonato un inno come “I Shall Be Released”, ci siamo ritrovati tutti a cercare di cantare il ritornello assieme a loro.

Springsteen, Buckley & The Beatles. La dome-nica mattina si è svolta la presentazione di tre novità librarie, coordinata da Nicola Cossar, uno dei soci fondatori del Folk Club di Buttrio e giornalista del Messaggero Veneto, alla presenza dei tre autori. Il primo libro, All the way home – Bruce Springsteen in the Italian Land 1985-2012 di Daniele Benvenuti, edito dalla casa editrice Luglio, è un appassionato e puntuale studio sul rapporto tra il rocker del New Jersey e l’Italia: contiene un’analisi di tutti i quaranta concerti tenuti dal Boss in Italia, indagini sociologi-che sul fenomeno condotte con il supporto di esper-ti del settore, una bibliografia italiana commentata, il censimento di tutti i fan club, le fanzine e le mailing list, gli eventi a tema e le centinaia di artisti italiani legati più o meno esplicitamente alla musica e alla poetica di Springsteen. Durante la presentazione, il cantautore ‘springsteeniano Miky Martina ha can-tato alcune canzoni di Bruce e alcune canzoni pro-prie.

daniele bazzani, giorgio cordini e giovanni Pelosi. Il secondo libro è stato The White Book – I Beatles e la chitarra di Daniele Bazzani e Davide Canazza, edito da fingerpicking.net/Carisch, che i frequentatori di fingerpicking.net e i lettori di Chitar-ra Acustica ben conoscono, per essere stato pub-blicato prima in dodici puntate sul sito, poi come numero speciale estivo della rivista.

Daniele Bazzani, che ha partecipato alla presen-tazione del volume, si è unito più tardi a Giorgio Cordini e Giovanni Pelosi, per aprire il concerto se-rale con un festeggiamento del cinquantesimo an-niversario dalla pubblicazione del primo singolo dei Beatles, “Love Me Do / P.S. I Love You”, avvenuta il 5 ottobre 1962. I tre convinti beatlesiani si sono alternati ciascuno con i propri arrangiamenti prefe-

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riti delle canzoni dei Fab Four, a volte riunendosi in duo. Il pubblico ha apprezzato molto, canticchiando in sottofondo alcune delle più belle canzoni ‘popola-ri’ dei nostri tempi.

Gary Lucas. Il terzo libro è stato Touched by Gra-ce – La mia musica con Jeff Buckley di Gary Lu-cas, edito da Arcana. Una bella sintesi dello spirito dell’opera si può trovare subito nel primo capitolo: «Attenzione, però, questa non è né una biografia di Jeff né un libro che parla di me. Quella che voglio raccontare è la storia – vera e vista dall’interno – di come io, collaboratore storico di Jeff e coautore di due dei suoi capolavori, l’ho conosciuto, e di come ho lavorato con lui. Negli anni sono usciti tanti docu-mentari e biografie di Jeff, tutti zeppi di errori riguar-do alla mia relazione con lui: il mio intento è quello di mettere una volta per tutte i puntini sulle i e di fare un resoconto affettuoso, ma senza censure né rica-mi, di come ci siamo prima alleati, poi separati con dolore, e infine ritrovati in un ultimo dolceamaro in-contro. Sarà anche l’occasione per dare uno sguar-do approfondito al processo creativo che ha dato vita alle nostre immortali “Grace” e “Mojo Pin”». Un argomento appassionante, ma anche spinoso: l’incontro-scontro di due ego importanti che, rac-contato a quindici anni di distanza dalla scomparsa dell’uno, potrebbe suscitare qualche disagio. Gary era molto emozionato nel parlare di questo lavoro.

Nel concerto serale Gary non mi è parso in buo-na forma. Quest’anno, a differenza della sua prima apparizione a Madame Guitar nel 2009, aveva a disposizione tutti i suoi pedalini per la chitarra elet-trica e la sua amplificazione. E ha costruito un set molto elettronico, con un uso esteso dei loop, molto libero, forse un po’ slegato. Lucas è un tipo di rocker sperimentale e di artista d’avanguardia, rispetto al quale a volte faccio fatica a comprendere fin dove arriva la sua bravura di musicista, e fin dove arriva il suo genio e la sua inventiva. Credo che buona parte del pubblico presente, in questo contesto di festival di chitarra acustica, sia rimasto spiazzato da questa esibizione. E anche per me resta qualcosa di indecifrabile, a confronto con la statura del suo curriculum.

Silvia & the Fishes on Friday. Una delle cose più belle nel seguire queste manifestazioni, è ve-der crescere i giovani artisti di anno in anno, segno tangibile dell’applicazione che riversano in questa loro passione. È il caso di Silvia & the Fishes on Friday, che hanno suonato nel pomeriggio di dome-nica. Rispetto alla loro esibizione dell’anno scorso, sono apparsi molto più amalgamati e compatti negli arrangiamenti, e la voce di Silvia Guerra ha acqui-stato molta più definizione e sicurezza.

Andrea Valeri. Anche lui ha suonato domenica pomeriggio, con una nuova fiammante Maton con la sua firma. Dopo il suo ultimo album DayDream, è decollato per una tournée internazionale che ha toccato Sudafrica, Australia, Russia, Polonia, Ger-mania e Nuova Zelanda. Lo abbiamo ritrovato a sua volta molto cresciuto, non tanto per l’aspetto musicale, quanto sul piano personale. Ma di que-sto parleremo più profondamente in una prossima intervista.

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Morin Khuur State Ensemble. L’ultimo set del festival è stato affidato a un’orchestra di stato della Mongolia, un ensemble di strumenti ad arco basato sul tradizionale morin khuur, sorta di violino a due corde dal corpo trapezoidale, tenuto verticalmente in grembo o tra le gambe dell’esecutore; le note non vengono ottenute premendo le corde su una tastie-ra, ma semplicemente ‘stoppate’ attraverso tecni-che specifiche delle dita della mano sinistra. Ai mo-rin khuur si affiancano gli ikh khuur, fratelli maggiori a due o tre corde dal suono più basso, e l’organico si completa con il limbe, flauto a becco, lo yatga, grande cetra a corde pizzicate con la tavola supe-riore convessa, e lo yoochin, grande cetra a corde percosse, ai quali si aggiunge infine un pianoforte occidentale. La presenza del pianoforte testimonia di una musica complessa, radicata nella tradizione popolare e classica della Mongolia e, al tempo stes-so, aperta a nuove composizioni e ad elementi di contaminazione con la musica classica occidentale. Tra i vari e affascinanti brani strumentali, si sono inserite le esibizioni di alcuni cantanti, che hanno dato dimostrazione dei due stili vocali fondamentali della tradizione mongola: lo urtyn duu, forma di can-to lirico ‘alla longa’, caratterizzato da note lunghe, e il khöömii, lo straordinario canto difonico o armoni-co, nel quale la cavità orale è disposta in modo da far risaltare gli armonici presenti nella voce, così da produrre simultaneamente due o più linee melodi-che distinte. Ascoltare dal vivo questo tipo di canto è un’esperienza veramente emozionante, che ha impreziosito l’esibizione trionfale del Morin Khuur Ensemble.

Il gran finale. Per celebrare il rito tradizionale di chiusura della manifestazione, è salita sul palco enrica bacchia. Cantante jazz di Conegliano Ve-neto, nota a livello internazionale, ha iniziato nel 1999 una serie di viaggi in Cina che l’hanno vista nella duplice veste di interprete e di insegnante di canto ‘occidentale’ presso il Beijing Contemporary Institute of Music di Pechino. Ha viaggiato inoltre tra Siberia e Mongolia, alla scoperta della cultura,

dei suoni e dei ritmi degli tsaatan, gruppo etnico che pratica lo sciamanesimo, e da questa esperienza è nato il libro Mongolia – La via dell’acqua (Il Filo, 2009). Era quindi la persona più adatta a interpre-tare in conclusione, con il supporto del Morin Khuur Ensemble, l’inno del festival, “Madame Guitar” di Sergio Endrigo.

Resta infine lo spazio solo per alcune altre se-gnalazioni: Veronica Sbergia & Max de bernardi, che hanno suonato in piazza e che sono presenti in questo numero con un’intervista; Kiana, folksin-ger e songwriter nata in Giappone da padre giap-ponese e madre americana, oggi trapiantata alle Hawaii; il trio Yerba, impegnato in un vasto reper-torio tradizionale e d’autore latinoamericano; guitar Soundtracks, duo formato dai chitarristi Michele Pirona e Alain Fantini, i cui arrangiamenti di colonne sonore hanno mostrato forse troppa separazione tra la parte solista e la parte ritmica di accompa-gnamento; raqs Sharqi, gruppo friulano dedito alle danze mediorientali, composto di tre strumentisti e due ballerine; giorgio tosolini, solitario responsa-bile dell’ottimo suono in teatro, e gianfranco luga-no, responsabile del suono negli interventi esterni nelle scuole.

Ma il ricordo finale va a Luisa Terrenzani, moglie di Marco Miconi, che è venuta a mancare all’inizio dell’estate e alla quale è stata dedicata la rassegna di quest’anno. Luisa ha sempre sostenuto con to-tale disponibilità Marco nelle sue infinite peripezie tra il Folk Club Buttrio e Madame Guitar, curando le questioni di segreteria, le pratiche burocratiche, la biglietteria, accompagnando gli artisti a destra e a sinistra, eventualmente cucinando per gli ulti-mi arrivati. Lei sarà stata triste di non aver potuto partecipare a questa bellissima settima edizione del festival. Ma si sarà rasserenata nel constatare che la volontà di portare avanti le cose, malgrado tutte le difficoltà, è ferrea e la fede incrollabile.

Andrea Carpi

Madame Guitar 2012

Daniele Bazzani, Giovanni Pelosi, Giorgio Cordini

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La musica è amore e sicuramente era questo (e ancora lo è…) il sentimento che ha guidato l’intera carriera artistica dei quattro musicisti che – più di tutti – hanno caratterizzato e influenzato quel genere che negli anni ’70 prendeva il nome di West Coast. Ed è ancora l’amore, la passione, ad aver guidato un progetto che ha voluto rendere omaggio a chi ha influenzato, musicalmente e spiritualmente, al-meno un paio di generazioni. Per chi non l’avesse ancora capito, stiamo parlando di un disco tributo per i leggendari David Crosby, Stephen Stills, Graham Nash e Neil Young. Music Is Love – A Singer-Songwriters’ Tribute to the Music of Crosby, Stills, Nash & Young è un progetto italiano e ad oggi unico, ideato da Ermanno Labianca, Francesco Lucarelli e Peter Holmstedt, prodotto dall’etichetta Route 61 Music dello stesso Labianca, in collaborazione con la svedese Hemifrån, e distri-buito in tutto il mondo dalla BTF.

MUSIC IS LOVEUn tributo a Crosby, Stills, Nash & Young

di Alfonso Giardino

Music Is Love non si limita ad omaggiare CSN&Y nella loro unica veste di supergruppo. Basterà leg-gere le note di copertina per comprenderne la vera portata: «A tribute to the outstanding body of work produced by Crosby, Stills, Nash and Young». Con questa produzione, infatti, si è voluto cogliere l’oc-casione di ricordare il quarantennale della mitica stagione musicale che tra il 1971 e il 1972, sulla spinta di album come Déjà Vu e After the Gold Rush, ha visto la produzione di pietre miliari quali 4 Way Street (CSN&Y), Stills 2, If I Could Only Re-member My Name (Crosby), Songs for Beginners (Nash), Harvest (Young), Manassas e il primo al-bum di Crosby & Nash. Senza dimenticare però altri lavori che i nostri eroi, in formazione sparsa, han-no realizzato, compresi quelli dei loro esordi come Buffalo Springfield (tra le loro fila i giovanissimi

Stills e Young), Everybody Knows This Is Nowhere (Young) o il primo di Crosby, Stills & Nash.

Un cofanetto con CD doppio molto ben confezio-nato, che ha visto la luce lo scorso mese di ottobre e ha richiesto circa due anni di duro lavoro, correda-to di un booklet di trentasei pagine contenente an-che inedite foto offerte da Henry Diltz, il memorabile fotografo dei Doors, e una presentazione di Dave Zimmer, biografo di CSN. Immaginate un po’: ven-tisette canzoni per altrettanti artisti provenienti da ambienti e generi diversi (folksinger, rocker, band vocali, country e alternative, americani, inglesi, au-straliani e irlandesi), tutte registrate a Nashville (e l’elevata qualità delle registrazioni lo testimonia) con la prestigiosa collaborazione in studio di musi-cisti del calibro di Tony Levin (King Crimson, Peter Gabriel, Paul Simon), Marty Rifkin (da Tom Petty

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MUSIC IS LOVE

alla Seeger Sessions Band di Bruce Springsteen), Victor Blasetti (Los Lobos), Richard Dodd (Foo Fighters, Johnny Cash). I nomi dei titolari delle varie tracce testimoniano la presenza di artisti che sono oggettivamente più famosi oltreoceano che qui da noi. Tra questi, comunque, spiccano artisti ben noti anche ad italiche orecchie.

C’è elliott Murphy, cantautore e giornalista new-yorkese spesso in tour in Italia e amico personale del Boss Springsteen, che, da rocker qual è, pro-pone una versione di “Birds” (N.Y.) in versione bal-lad, preferendo sonorità chitarristiche (acustica e slide) a quelle più intimiste e liriche (pianoforte e background vocals) dell’originale. Il contributo di un altro nome noto non può certo lasciare indifferenti i fan in particolare di Crosby: Steve Wynn, chitarri-sta e cantautore californiano ex leader dei Dream Syndicate, mette in pratica tutta la sua esperienza maturata nel rock alternativo anni ’80, trasformando l’essenziale “Triad” (D.C.) in una quasi irriconosci-bile, comunque affascinante, ossessione psichede-lica. Altro approccio è quello di Willie nile, classe ’48, che il New York Times ha definito «uno dei più dotati cantautori ad emergere dalla scena di New York», il quale canta e suona “Rockin’ in the Free World” (N.Y.) con la medesima grinta e determina-zione delle esibizioni live di Neil Young.

Non solo glorie ‘stagionate’, c’è anche un certo Marcus eaton, ormai nuova star del firmamento statunitense, giovane e raffinato singer-songwriter che (come abbiamo già accennato nella nostra re-censione del suo ultimo album nello scorso numero di settembre) sta collaborando al nuovo CD di Cro-sby e la cui versione di “Bittersweet” (D.C.) è una prova delle sue grandi capacità di arrangiatore.

Ai tanti americani si alternano anche artisti pro-venienti dal vecchio mondo come ian Mcnabb, cantante e compositore di Liverpool ex voce solista degli Icicle Works (negli anni ha suonato anche con personaggi come Ringo Starr, Crazy Horse, Mike Scott dei Waterboys, Danny Thompson dei Pentan-gle), e liam o’Maonlai, musicista irlandese meglio conosciuto come voce degli Hothouse Flowers. Il primo affronta la title track “Music Is Love” (CN&Y) in un crescendo di sovraincisioni vocali e strumen-tali, elettriche ed elettroniche, che ben richiamano quelle per lo più acustiche dell’originale, mentre il secondo decide di fare il pari con la ben nota “Lady of the Island” (G.N.) abbandonando, però, la chitar-ra e preferendo accompagnarsi con un più etereo pianoforte.

Altri nomi, poi, anche se a noi forse non cono-sciuti per meriti prettamente musicali, non passano di certo inosservati, visto il loro stretto legame con il mondo di CSN&Y. Si va da Sonny Mone, voce, chitarra e membro fondatore dei Crazy Horse (con i quali ha suonato con e senza Neil Young), che propone una “You Don’t Have to Cry” (S.S.) mol-to fedele all’originale di CS&N, compreso l’acustica ’alla Stills. E volendo continuare ad avere a che fare

con il biondo chitarrista di Dallas, eccoci a Jennifer Stills e Judy collins: la prima (non è così difficile intuirlo) è proprio la figlia di cotanto padre, anche lei musicista, molto attiva specialmente nell’area di Hollywood, che qui interpreta “Love the One You’re With” (S.S.) con animo romantico e quasi malinco-nico, nonostante il crescendo ritmico, a differenza della sfrontata allegria che la versione originale ha avuto fin dalla sua prima apparizione nell’album dell’esordio solistico nel 1970. Della seconda inter-prete avranno, forse, sentito parlare solo i biografi più informati o gli appassionati della folk music: la Collins, infatti, oltre ad essere una cantautrice e at-trice statunitense conosciuta come una delle mag-giori esponenti della musica popolare degli Stati Uniti tra gli anni ’60 e ’70, è stata la musa ispiratrice di “Suite: Judy Blue Eyes” (vedere una sua qualsia-si foto sul web per capirne il motivo), brano che però ha deciso di non riproporre (questione di buon gu-sto…), optando invece, per una “Helplessly Hoping” (S.S.) anch’essa fedele all’originale nello spirito, ma nella quella l’amato fingerpicking, con il quale Stills sosteneva tutte le voci, non è più l’unico protago-nista strumentale, avendo abdicato in favore di un pianoforte forse più adatto alla bella e dolce voce della cantante.

Ma, al di là di queste prestigiose partecipazioni, è forse la presenza di altri nomi ad impreziosire que-sta produzione. Artisti ’di nicchia’, appartenenti a quel mondo immenso che è il panorama musicale americano e anglosassone in genere, che solo un pubblico nostrano specializzato ha fino ad oggi ap-prezzato. Riteniamo quindi opportuno mettere sotto la lente questi musicisti, per capirne la qualità e ap-prezzare la scelta fatta dai produttori.

Jennifer e Judy non sono le sole donne ad aver partecipato a questo lavoro, nel quale le quote rosa sono state sicuramente rispettate, a testimonianza di come l’altra metà di questo cielo musicale sia, for-se, meno condizionato dai pregiudizi. Sadie Jem-mett, cantautrice e polistrumentista britannica nota in patria anche per la sua attività di compositrice di musica per teatro, contribuisce con una versione di “Teach Your Children” (G.N.) priva di qualsiasi riferimento country (ricordate le frasi della lap ste-el?), più ariosa e leggera, con qualche spruzzatina di pop. Torniamo al continente americano e in par-ticolare al sole californiano con la cantante Jenai Huff che, dopo molta gavetta e un lunghissimo pe-riodo di inattività, pubblica il suo primo CD nel 2011 con il produttore Ben Wisch (due volte vincitore del Grammy) e la collaborazione di un certo Jeff Pevar (sì, quello dei CPR: Crosby, Pevar & Raymond!), e con cindy lee berryhill, cantante e songwriter con una carriera che la trasforma da rude ed essenziale folksinger a quasi diva del pop. Le loro interpreta-zioni, rispettivamente “I’ll Be There for You” (Dou-glas Ingoldsby, G.N., Joseph A. Vitale) e “It Doesn’t Matter” (Chris Hillman, S.S.), sostanzialmente non

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si discostano dalle versioni originali, pur avendone entrambe sottratto qualcosa (di certo non la bellez-za): la prima un po’ di ritmo, la seconda… l’assolo di Stills!

Scendiamo ora fin quasi in Messico con la texana carrie rodriguez, stella del nuovo folk americano: paragonata a Norah Jones e Lucinda Williams, è stata una degli ospiti internazionali sul palco del Teatro Ariston al Premio Tenco dello scorso anno. Sarà per le sue inequivocabili origini latine o per un gioco del destino, ma a lei tocca “Cortez the Killer” (N.Y.), forse meno tagliente e spigolosa dell’intermi-nabile versione di Zuma, ma ugualmente ipnotica e con un bel solo di elettrica sorretto dal violino della stessa Carrie.

Come la Rodriguez anche altri artisti, dei venti-sette qui presenti, hanno avuto modo di attraversa-re l’oceano per esibirsi su palchi italiani. C’è ron laSalle, newyorkese trapiantato a Nashville, che si è posto sulla scia di Van Morrison, John Hiatt, Bob Seger e Tom Waits: a lui il compito della prima traccia, “For What It’s Worth” (S.S.), una versione leggermente più ruvida e nera di quella dei Buffalo Springfield, grazie anche alla sua voce di cartave-trata.

C’è poi chi, come il già citato Marcus Eaton nel maggio scorso, ha calcato un palco a noi molto noto e familiare, quello dell’Acoustic Guitar Meeting di Sarzana: the coal Porters, nel 2005, ed eileen rose & the legendary rich gilbert nel 2010. La band british-american, guidata da Sid Griffin (fonda-tore dei Long Ryders) e da Neil Robert Herd, si è tro-vata più che a proprio agio nell’originale bluegrass di “Fallen Eagle” (S.S.), tanto da sembrare di stare a una festa paesana nell’immancabile fienile. Dall’al-tro canto la songwriter di Nashville (a metà strada tra Neil Young e Nico dei Velvet Undergroud), con il fido Rich alla chitarra elettrica e alla pedal steel, propone una bella versione di “Just a Song Before I Go” (G.N.) caratterizzata dall’intensa voce di Eileen ed un arrangiamento vagamente psichedelico.

Non solo solisti, quindi, ma anche gruppi. Tra que-sti spiccano i Venice: gruppo vocale californiano nato nel 1977 e composto dai fratelli-cugini Lennon, vantano una serie infinita di collaborazioni alle spal-le da Bruce Springsteen, Elton John, Phil Collins a Sting, Melissa Etheridge, Cher, Ozzy Osbourne fino a Jackson Browne, David Crosby, Doobie Brothers, Linda Ronstadt e tantissimi altri. La loro versione di “After the Gold Rush” (N.Y.) presenta una scelta apparentemente improbabile, ma liricamente effica-ce: a sorreggere le quattro voci dei Lennon, solo una chitarra in fingerpicking e un filo di tastiere. Con “Tracks in the Dust” (D.C.) anche i Mary lee’s cor-vette sono intervenuti solo sull’arrangiamento. La band newyorkese guidata dalla cantante Mary Lee Kortes (la critica colloca la sua voce tra Dolly Par-ton e Chrissie Hynde) ha deciso di non stravolgere lo spirito originario, cambiandone semplicemente la veste (e non avrebbe potuto fare altrimenti, visto

che in Oh Yes I Can c’era la sola chitarra di Michael Hedges a tesserne le armonie).

Gruppi di lungo corso, ma anche formati appo-sitamente per l’occasione, come bonoff, cowan, Szcześniak & Waldman. A Karla Bonoff e Wendy Waldman, due singer-songwriter di successo che hanno sempre alternato la loro carriera solista a quella dei Bryndle (una band di folk-rock formatasi a Los Angeles negli anni ’60, che tra vicissitudini e variazioni d’organico è attualmente inattiva), si sono uniti per l’occasione John Cowan, bassista e voce solista dei New Grass Revival (gruppo statunitense di progressive bluegrass, prodotto in passato dalla stessa Waldman) e Mietek Szcześniak, cantante polacco di estrazione jazz (anche nella produzione del suo recente primo disco in inglese c’è lo zampino della Waldman). Insieme propongono una “Guinne-vere” (D.C.) di grande fascino, con le quattro splen-dide voci che si alternano e rincorrono (nota chitar-ristica: l’arpeggio portante è stato sostanzialmente riproposto uguale alla versione originale).

Tra le varie categorie, se vogliamo dire così, rap-presentate in questo album doppio c’è anche quel-la delle ‘coppie di fatto’. I Sugarcane Jane sono composti da Anthony Crawford e da sua moglie Savana Lee, lui songwriter e strumentista con una lunga collaborazione in tour con gente come Neil Young, Steve Winwood e Nicolette Larson, lei con innumerevoli collaborazioni ed esperienze musicali. La loro versione di “Bluebird” (S.S.) abbandona le sonorità elettriche dei Buffalo Springfield per quelle più accattivanti di un country rock contemporaneo. Analoga operazione la fanno anche Michael Mc-dermott & Heather Horton, trasformando l’origina-le “Southern Cross” (S.S., Richard Curtis, Michael Curtis) da brano corale a ballata country, solo chi-tarra (sembra di sentire il tipico picking di Stills) e violino. Qualche cenno alla particolare storia artisti-ca di Michael: dopo un esordio folgorante nel 1991, giunge ad essere catturato dal mondo del cinema, dove il produttore Brian Koppelman realizza un film ispirato alla sua gioventù, Rounders – Il Giocatore con Matt Damon ed Edward Norton, mentre lo scrit-tore Stephen King lo cita in più di un romanzo; si è poi sposato due anni fa in Italia con Heather Horton, che già lo accompagnava sul palco.

Questo ‘gioco delle coppie’ si chiude con andy Hill & Renée Safier, protagonisti con i loro Hard Rain di molti degli eventi live presenti nell’area di L.A. (più di duecento concerti l’anno, dai festival agli house concert) oltre ad essere anche da più di ventidue anni gli organizzatori del Bob Dylan Fest. E l’anima dylaniana traspare chiaramente dalla loro interpretazione di “Thrasher” (N.Y.), più ricca grazie anche ad un arrangiamento dalle venature folk.

L’enorme varietà artistica è evidente già da quan-to sopra presentato, ma non finisce qui. Abbiamo ancora personaggi come neal casal, cantautore e chitarrista statunitense già lead guitarist dei Cardi-nals di Ryan Adams (forse pochi lo sanno, ma c’è

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Jennifer Stills

MUSIC IS LOVE

anche un suo fan club italiano): canta e suona tutto da solo “Hey You (Looking at the Moon)” (G.N.), alla quale sottrae un po’ di quelle cadenze cantalenan-ti tipiche del suo autore. Oppure louis ledford, cantore appassionato della realtà rurale degli Ap-palachi, con la sua versione di “Wasted on the Way” (G.N.) più malinconica di quella presente in Daylight Again grazie anche a una lap steel che so-stituisce il fiddle dell’originale. E ancora bocephus King (Jamie Perry, il suo vero nome), artista indie proveniente da Vancouver, Canada, che trasforma “Down by the River” (N.Y.) in una sorta di preghiera mistica orientaleggiante.

Non tutti made in USA, quindi, come nick barker (da non confondere con l’omonimo batterista me-tal), cantautore e chitarrista pop-rock australiano di Melbourne, che sceglie la strada della fedeltà con una versione di “Long May You Run” (N.Y.) che pre-senta la medesima ambientazione country rock da-tagli in origine dalla Stills-Young Band. Operazione diversa, invece, quella di clarence bucaro. Sarà per la sua ancor giovane età o le influenze musicali ricevute dagli artisti con i quali ha condiviso il pal-co (da Aaron Neville a The Blind Boys of Alabama e Chrissie Hynde and the Pretenders) ma questo cantautore originario di Cleveland, dalla voce calda e dolce allo stesso tempo, compie una operazione molto originale: ci regala una “Out on the Weekend”

(N.Y.) tutta nuova, con un arrangiamento soul jazz impreziosito da una sezione di trombe, nella quale ha voluto, però, incastonare il solo di armonica così come è possibile ancora ascoltarlo in Harvest.

Come già detto, Music Is Love è un disco tributo, ma è anche una finestra spalancata su una realtà musicale contemporanea tutta da scoprire, fatta di generi ancora poco frequentati dalle nostre parti e da musicisti di notevole spessore tecnico e artistico, le cui esecuzioni sono state qui esaltate grazie all’e-levata qualità delle registrazioni made in Nashville. Visto che siamo su Chitarra Acustica, be’… forse viene a mancare un po’ della chitarra degli originali ma, come ritengo sia stato giusto fare, questa ope-razione ha voluto far conoscere la musica di CSN&Y a quanti non avessero ancora avuto modo di ascol-tarla, valorizzandone la forza melodica e composi-tiva, seppure correndo il rischio di ‘dechitarrizzare’ quanto è stato fonte di apprendimento per centinaia di migliaia di chitarristi in tutto il mondo… Dopo tutte queste parole, però, dove si può ascoltare un po’ di musica? È possibile averne un assaggio? Andate pure sul ‘tubo’ e cercate il canale “route61music”: troverete un paio di video promo con tante foto e la title track in sottofondo, tanto per farsi venire l’ac-quolina in bocca.

Alfonso Giardino

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Come se avessi le aliIntervista a Marcus Eaton

di Lauro Luppi e Frank Varano

Quest’anno all’AGM di Sarzana abbiamo incontrato un altro cantautore-chitarrista di quelli che piacciono a noi: ottimo cantante, bravo scrittore di canzoni, bravissimo chitarrista! Si chiama Marcus Eaton ed è venuto al Me-eting come dimostratore delle nuove chitarre Martin Performing Artist Series e in compagnia del suo amico Roy McAlister, il grande liutaio che a Sarzana ha lasciato un pezzo di cuore. Suo padre, Steve Eaton, è un autore di can-zoni che ha scritto per artisti del calibro di Art Garfunkel, Glen Campbell, i Carpenters e Anne Murray. Così Marcus è cresciuto con la canzone d’autore nel sangue. I suoi idoli musicali sono poi Tim Reynolds e Dave Matthews, e questo già ci fa capire qualcosa della sua musica. Infine il suo ultimo album If I Had Wings, recensito sul numero di settembre, ci ha dato una prova tan-gibile del suo valore. Del suo talento si è accorto ultimamente anche David Crosby, che lo ha voluto con sé nel suo prossimo disco in lavorazione: mica male, no? Nella propria pagina Facebook, Marcus ha inserito un album di foto dal titolo Falling in love with Italy 2012 (“Innamorandosi dell’Italia 2012”): mentre lo intervistavamo – con in sottofondo, nello stand accanto, il fior fiore dei ‘bluegrassari’ italiani, Davide Facchini, Danilo Cartia, Andrea Tarquini, Paolo Monesi e Leonardo Petrucci in testa, che intonavano “Will the Circle Be Unbroken” – abbiamo avuto la netta sensazione che presto lo rivedremo. (a.c.)

ar artisti

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Intervista a Marcus Eaton

Puoi raccontare come hai cominciato e come sei arrivato a questo tuo quinto disco If I Had Wings?

Ho registrato il mio primo album a diciannove anni, un disco indipendente autoprodotto. In se-guito ho formato un gruppo, Marcus Eaton and the Lobby, e abbiamo inciso un paio di altri dischi per nostro conto, No Way Out nel 1999 e Marcus Eaton and the Lobby nel 2002. Nello stesso anno abbia-mo firmato un contratto con l’etichetta discografica Uninhibited/Universal e nel 2003 è uscito un nuovo album intitolato The Day the World Awoke, che ci ha aperto le porte per avere un impresario, fare un tour negli Stati Uniti e condividere il palco con musi-cisti conosciuti. Purtroppo, nel 2004, la nostra casa discografica è fallita…

È in quel periodo che hai incontrato Tim reynolds?

Dopo il fallimento della casa discografica il gruppo è entrato in crisi, ha perso fiducia, si girava trop-po per troppi pochi soldi. Così ho continuato come solista ed è stato allora che ho iniziato a lavorare con Tim Reynolds. Tim mi ha aiutato molto e in un anno ho diviso il palco con lui in ventisei concerti negli Stati Uniti. È in quello stesso periodo che sono entrato in contatto anche con David Crosby. In oc-casione di un concerto ad Aspen nel Colorado ho conosciuto un certo Norm Waitt, che mi ha invitato a suonare a una sua festa privata ad Omaha nel Nebraska. Grazie a lui ho avuto anche l’opportuni-tà di partecipare a un importante concerto di Dave Matthews con Tim Reynolds al Santa Barbara Bowl in California, anche se poi ci sono state delle restri-zioni sull’orario e non ho potuto realmente suonare. Inoltre ho scoperto che Norm era il titolare dell’eti-chetta Samson Records, che ha pubblicato alcuni album di Crosby con CPR, e un giorno mi disse: «Sono amico di David Crosby e vorrei presentarte-lo, potrebbe essere un buon contatto per te». È così che ho cominciato a collaborare con Crosby!

come mai, secondo te, Waitt ha pensato di presentarti a crosby? Più precisamente, quali sono state le tue doti che hanno convinto Waitt a promuovere l’incontro con crosby?

Be’, Norm ha un buon orecchio! Ed io sono stato molto fortunato nella mia formazione musicale: mio padre è un musicista, i miei nonni erano entram-bi cantanti lirici, cantavano l’opera italiana! E così sono cresciuto con la musica intorno. Sono stato fortunato anche perché mio padre è un autore di canzoni, non si limitava a suonare e riproporre can-zoni di altri. Molti artisti, quando iniziano a cercare la propria identità, di solito continuano a suonare il repertorio di altri musicisti per molto tempo. Io in-vece, non è che non abbia a mia volta suonato il

materiale di altri, ma la capacità di scrivere canzoni mi era familiare e ho cominciato a scriverne fin da molto giovane.

Quindi tu ti consideri in primo luogo un can-tautore?

Dopo essere stato a Sarzana, certamente sì… perché i chitarristi qui sono talmente ‘fottutamente’ bravi, che non oserò mai più considerarmi un chi-tarrista!

a parte gli scherzi, tu sei formalmente un can-tautore, perché canti le tue proprie canzoni, ma non suoni come un cantautore tradizionale…

No, c’è qualcosa di più progressivo. Vorre essere innovativo, non vorrei solo ripetere…

una cosa che ci ha colpito è che tu non sei molto ‘lineare’ nell’esecuzione e nei tuoi brani: hai una bellissima scrittura, ma è veramente nuova, fresca, lontana da formule prestabilite.

È stato difficile per me, perché spesso negli Stati Uniti, quando sembra che le cose non ‘quadrano’, non si ‘adattano’, allora ti dicono: «Ah, questo è reg-gae! Ah, questo è rock!» Ma le cose sono più com-plicate, io cerco di spingermi oltre i limiti. E penso anche che in giro ci siano molti musicisti bravissimi,

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e poi i cantautori. Ma non c’è niente in mezzo, che unisca la grande abilità musicale e la scrittura di canzoni. Io vorrei stare in qualche modo nel mezzo, includere entrambi gli aspetti…

in effetti, nel corso degli anni qui a Sarzana, abbiamo potuto ascoltare da una parte tommy emmanuel, un chitarrista ipervulcanico, dall’al-tra John gorka, un bravissimo cantautore con un approccio alla chitarra totalmente diverso…

Sì, e in un certo senso non hanno nulla in comu-ne, anche se magari l’uno potrebbe dire che gli pia-cerebbe che l’altro suonasse nel proprio disco… Ma io vorrei fare tutte e due le cose! Da questo punto di vista Tim Reynolds è il mio pallino, è un musicista eccezionale. È quello che vorrei fare, suonare al-trettanto bene e al tempo stesso scrivere e cantare canzoni. È difficile farlo. È anche difficile incorpo-rare un bel modo di suonare in un breve spazio di tempo, come avviene in una canzone.

È una domanda quasi stupida, ma mi serve per aprire poi un altro discorso: nelle tue colla-borazioni, con tim reynolds, con david crosby, ti danno delle direzioni? oppure ti dicono «noi conosciamo il tuo stile, sei un musicista con cui vogliamo suonare perché stiamo bene insieme, fai semplicemente un buon lavoro» e ti lasciano libero di esprimerti davvero secondo le tue idee

È un’ottima domanda! Il più delle volte, quando si suona per altri musicisti, credo che i parametri in cui ci si muove siano limitati, l’ambito è ristretto. Personalmente, non ho lavorato molto sul materiale di altri musicisti, per cui l’album di Crosby è stato ve-ramente la mia prima esperienza del genere ed ero un po’ nervoso, non ero sicuro di essere all’altezza, non avevo idea di cosa mi potessi aspettare. Ma fortunamente lui è stato talmente collaborativo, che mi ha permesso di fare quello che pensavo e ad-dirittura di comporre delle cose insieme, una cosa incredibile, al di là di ogni aspettativa! D’altra parte il suo materiale musicale è molto vicino a quello che io faccio, anche grazie a suo figlio James Raymond, che è un pianista eccezionale con il quale mi trovo sulla stessa lunghezza d’onda.

Visto che hai questa libertà, ti faccio una do-manda un po’ provocatoria: ci hai spiegato che sei libero anche di collaborare alla scrittura dei brani, cioè stai collaborando proprio alla na-scita di questo disco, ma saresti libero anche di proporre dei musicisti? tu qui a Sarzana ti sei presentato come un artista solista che usa delle basi e dei loop, ma il tuo disco è realiz-zato in trio: potresti proporre qualche musicista che conosci e che secondo te potrebbe trovarsi bene in questa nuova situazione con crosby?

Vedete, ancora una volta sono molto fortunato: non avevo mai incontrato nessuno veramente come lui, così aperto a nuove idee. È veramente una si-tuazione incredibile, dove l’ego non esiste, dove non c’è spazio per l’egocentrismo. Credo che que-sta sia una cosa rara. E credo anche che sia rara per uno della generazione di David Crosby: perché siamo io, della mia generazione, James, di una di-versa generazione, e David. Siamo tre generazioni a lavorare assieme! David ha un iPad, un iPhone, usa la tecnologia, la capisce, è aperto, è desidero-so di provare nuove idee, di provare qualsiasi cosa. Credo che questo sia ammirevole e sono veramen-te fortunato di condivedere tutta questa situazione.

Fanno della tecnologia lo stesso uso che ne fai tu, oppure tu sei il ‘ragazzino’ del gruppo che ha posto un maggiore accento sulla tecnologia?

Al contrario, è lui a volte a essere più avanzato, a introdurre nuove idee. Per esempio abbiamo appe-na finito di scrivere e registrare un brano a casa sua, tutto tramite iPad, iPhone e iTunes collegati diretta-mente agli speaker. È estremamente intelligente e saggio. Stare accanto a una persona così piena di saggezza e priva di qualsiasi forma di egocentrismo ha rappresentato per me un beneficio immenso.

Ma la tecnologia, mi sembra, è sempre al ser-vizio delle persone e della musica, non c’è mai uno sconfinamento nell’abuso: la usate perché è utile…

Sì, la usiamo per trarne vantaggio. Vi racconto una storiella simpatica: io sono su Facebook e ho un amico in Italia che si chiama Nick. Un giorno mi ha scritto dicendomi: «Sei diventato famoso, sei di-ventato famoso!» E mi ha raccontato che Crosby mi aveva citato in un giornale italiano, la Repub-blica. Così mi ha mandato il link dell’articolo, era poco dopo il mio incontro con David, che diceva: «Uno dei miei cantautori preferiti adesso è Marcus Eaton». Non ci potevo credere, ero assolutamente sconvolto: un giornale italiano che parlava di me, era la mia prima apparizione internazionale! La tec-nologia serve anche a questo…

ti sei quindi ritrovato a collaborare con david crosby, uno dei capisaldi storici della ricerca sulle accordature alternative. Tu le usavi già? lui ti ha trasmesso qualcosa? oppure anche in questo caso è stato così aperto da accogliere delle accordature che tu gli hai proposto?

Buona domanda! Quando ci siamo presentati la prima volta a cena con l’amico Norm, abbiamo molto parlato di musica. Poi lui mi ha scritto delle email dicendo che aveva alcune accordature aperte da mostrarmi e che voleva incontrarmi. Incredibile! Così, la prima volta che abbiamo suonato insieme

Intervista a Marcus Eatonar

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me le ha mostrate e ci siamo scambiati diverse ac-cordature. Per la verità io non uso tante accorda-ture, ma adesso che abbiamo suonato insieme, ho scritto delle canzoni con quelle accordature. E que-ste canzoni funzionano. Ho lavorato un po’ sulle sue accordature e sono tornato da lui con delle canzoni nuove scritte con le sue accordature: una cosa fan-tastica! Un’accordatura era quella per “Dèjà Vu” e “Guinnevere”, l’altra era per “Tracks in the Dust”. La prima è quella che ho usato di più: EBDGAD. L’altra è CGDDAD. Abitualmente suonavo in accordatura standard o in Dropped D, e un’altra delle mie prefe-rite era una Dropped B con il Mi basso abbassato in Si. Inoltre uso anche un’accordatura in Do. Le corde che utilizzo sono delle Martin SP Phosphor Bronze abbastanza grosse, di scalatura media .013-.056.

a parte le accordature, puoi parlarci di qual-che altro elemento essenziale del tuo stile chi-tarristico? un aspetto che ci ha particolarmente colpito è il modo in cui porti il ritmo e l’uso delle stoppate.

Innanzitutto consiglio di usare sempre il metrono-mo quando ci si esercita. Inoltre, c’è da dire che per molto tempo non ho usato il plettro. Per cui sapevo suonare tutte le mie figurazioni ritmiche senza plet-tro. Quando ho cominciato a usarlo, il mio modo di tenerlo era sbagliato, la posizione della mia mano

era chiusa, il mio polso bloccato. Ho dovuto lavorare molto per rendere il mio polso rilassato, decontratto. E nelle figurazioni ritmiche molto veloci, la parte più importante della mia tecnica ricade sulla mano sini-stra. La mano sinistra è fondamentale per guidare la pulsazione, rilasciando ritmicamente la pressione sulle corde. Tra le figurazioni ritmiche suonate dalla mano destra, rilascio la mano sinistra per stoppare le note, è come il pedale di un pianoforte. Alla fine di “Life in Reverse”, il primo brano di As If You Had Wings, questa tecnica è particolarmente evidente.

grazie Marcus, è stata una chiacchierata e un incontro molto piacevole, vorresti aggiungere qualcosa di personale per concludere?

Questo viaggio in Italia è stato il più bello che io abbia mai fatto. Sono stato contentissimo di scopri-re quanto i musicisti, qui, prendano seriamente la musica. Perché questo in effetti è il luogo di nascita dell’arte e della cultura, questo è il posto dove tutto è partito. Anche il mio modo di suonare, sono sicu-ro, proviene in qualche modo da qui. Mi sento pro-prio fortunato di essere entrato in contatto con per-sone così speciali, con musicisti così bravi. Questo festival di chitarra poi è incredibile, mi ha veramente riscaldato il cuore!

Lauro Luppi e Frank Varano

Intervista a Marcus Eaton

Con David Crosby

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Chitarra acusticaPEAVEY Composer Parlor

di Mario Giovannini

Hartley Peavey ha fondato la Pe-avey Elettronics nel 1965, sull’onda del successo ottenuto dal suo primo amplificatore, costruito pochi anni prima. Come tanti suoi coetanei, so-gnava di diventare una rock star ma, anche se le cose non sono andate esattamente come sperava, un’im-pronta tangibile sulla musica di que-sto secolo l’ha sicuramente lasciata. Difficile sapere se immaginasse già allora le dimensioni che la sua azien-da avrebbe raggiunto in poco più di cinquant’anni. Con sedi in Nord America, Europa e Asia, oggi Pea-vey Elettronics è uno dei colossi a livello mondiale della produzione di strumenti musicali e attrezzature au-dio professionali. Il grosso successo, almeno qui da noi, l’ha ottenuto ne-gli anni ’80, soprattutto grazie a una serie di amplificatori valvolari partico-larmente azzeccati per robustezza e rapporto qualità/prezzo.

Ovviamente, non è esattamente il primo marchio che viene alla mente parlando di chitarre acustiche, anzi. È un segmento di mercato che la casa ameri-cana non ha mai frequentato molto. Ma i tempi cam-biano e lo sviluppo esponenziale del settore non poteva lasciarli indifferenti. Per cui sono comparsi in catalogo, nel giro di poco, un ampli per acustica, una serie di chitarre in materiali compositi e la serie Composer Parlor di cui abbiamo ricevuto un esem-plare in prova. Anche se parlare di ‘serie’, almeno per il momento, è abbastanza ottimistico, ne esito-no due versioni: natural e sunburst. Più un ukulele con la stessa forma. A noi è toccata quella natural.

La Composer Parlor ha uno shape del corpo particolare, che ci si potrebbe quasi arrischiare a definire originale. Dimensioni molto ridotte, attacco del manico al XII tasto, spalla mancante a punta – una sorta di venetian estrema – e buca a goccia. Il design di quest’ultima è una ‘citazione’ abbastanza

st strumenti

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PEAVEY Composer Parlor

evidente di quella della C1C della Tacoma – e della sua sorellina economica Olympia – uno strumento che, negli anni ’90, ha avuto un discreto successo; Tacoma, poi inglobata da Fender, che è stata mes-sa in stand by all’inizio del 2000, cessando le sue produzioni. Molto bella esteticamente, ma che non vi venga mai in mente di elettrificarla perché sono guai… sotto al ponte non si arriva.

La chitarra, pur appartendo ad una fascia estre-mamente economica, è ben realizzata e ha un otti-mo livello di finiture. Binding in celluloide su cassa e manico, tastiera e ponte in palissandro indonesia-no. La cassa armonica ha la tavola in abete e fasce e fondo in agathis, un mogano senegalese molto diffuso e a buon mercato. Si tratta di laminati, ma la qualità e l’impatto estetico sono di buon livello.

Una volta imbracciata, pur risultando piacevol-mente bilanciata, necessita di qualche attimo di adattamento, tanto per prenderci un po’ le misure. Poi, in effetti, si supera e si apprezza anche la co-modità di uno strumento per nulla ingombrante. Il suono è molto da parlor: secco, diretto con un at-tacco immediato. Sorprendentemente il volume e la proiezione non mancano, con una buona definizio-ne su tutta la gamma. La trama sonora non è molto complessa, un po’ ferma sulle fondamentali. Ma, del resto, stiamo parlando di una chitarra che costa meno di un pedale… Si suona bene sia a plettro che con le dita e, come capita spesso di dire con chitarre di questo tipo, attenzione che la scala ‘mol-to’ corta può dare dipendenza.

Le dimensioni molto ridotte unite alla scala del manico ‘veramente, ma veramente’ corta farebbe-ro venire il ‘dubbio’ che si tratti di una chitarra da viaggio. In effetti, anche se non è dichiaratamente questa la sua destinazione d’uso, sembra proprio la chitarra ideale da trascinarsi dietro in giro per il mondo, senza grossi patemi d’animo. Oppure po-trebbe essere molto adatta come primo strumento per bambini/ragazzi/donne minute/uomini molto mi-nuti. Manca forse una custodia/zaino ben imbottita per completare il tutto, ma a questo prezzo è difficile pretendere di più.

[email protected]

Scheda tecnica

tipo: Chitarra acusticacostruzione: Cinadistributore: Peavey Italia Srl – via P. La Torre, 21 – Zona Ind.le Cerretano – 60022 Castelfidardo – Tel. 071 7823442 – www.peavey.it – [email protected]: € 159 (IVA inclusa)top: abete laminatocatene: abeteFasce e fondo: aghatisManico: mogano malesetastiera: palassandro indonesianobinding: celluloideMeccaniche: DM 08 Lima cromateScala: 628,5 mmtasti: 18

Lo strumento in prova è stato gentilmente messo a disposizione da:dosio Music – Via Verdi 35/44/46Vercelli – Tel. 0161 253047

st

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Chitarra acusticaMARTIN DRS1

di Mario Giovannini

Difficile non tornare a parlare di Martin ogni tre per due. Sia perché la casa americana non è certo parca di novità – anzi – e ogni anno non manca mai di rinnovare il suo catalogo in maniera significativa. Spesso con serie limitate decisamente non accessibili ai comuni mortali, ma non disdegnando ogni tanto di volgere lo sguardo anche verso la parte un po’ più ‘terra terra’ dei suoi ammiratori. Poi, è anche inutile negarlo: si tratta di uno di quei marchi che fanno parte del DNA della quasi totalità dei chitarristi in circolazione e quindi, alla fine, si torna sempre lì, anche solo per dare un’occhiata. La Se-rie 1 ci aveva già positivamente impressionato nel corso della prova della OM-1GT (Chitarra Acustica, n. 4, aprile 2012), e l’uscita di una dread tutta in mogano nella stessa fascia di prezzo non poteva certo passare inosservata. Quindi ci siamo fatti forza e abbiamo affrontato la dura prova, ricordate: lo facciamo solo per voi!

Scherzi a parte, la DRS1 è una bella dread inte-ramente realizzata in sapele, una varietà africana di mogano, con il classico stile no frills che caratterizza questa produzione. Niente binding né ornamenti di nessun genere, a eccezione di un semplice triplo fi-letto bianco che orna la buca e il classico battipenna

a goccia in plastica nera. In compenso, però, la rea-lizzazione dello strumento è impeccabile sotto ogni punto di vista e la tavola è in massello. Ponte e ta-stiera sono realizzati in Black Richlite, un materiale ottenuto mischiando carta riciclata e resina fenolica, mentre il manico è in Rust Stratabond, ovvero un

st strumenti

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MARTIN DRS1

laminato pressato unito a colla. Da un lato si può considerare particolarmente ‘etica’ la decisione di utilizzare materiali alternativi e provenienti da riciclo anche su strumenti musicali. Dall’altro qualche ra-gionevole perplessità si può avere, di primo acchi-to. In Rete si leggono spesso commenti perplessi in particolare sul Rust Stratabond, colpevole di un ipotetico alto assorbimento di ‘umidità’ con conse-guente deformazione del manico. In realtà, negli ultimi dieci anni, di manici di questo tipo ce ne ne sono passati per le mani un numero considerevo-le, ma problemi di questo tipo non ne abbiamo mai riscontrati. Magari vivendo in Thailandia o Vietnam la si potrebbe pensare diversamente, ma anche qui bisognerebbe avere l’opportunità di toccare con mano.

Ma torniamo alla nostra DRS1 che, oltre a esse-re ben realizzata, intonata e con un set up decisa-mente user friendly, risulta piacevolmente bilanzia-ta, una volta ‘indossata’. Fin dal primo accordo ci si rende conto che non ci sarà tanto ‘fumo’, ma la sostanza non manca. I bassi hanno una bella botta, che si trasmette piacevolmente allo stomaco di chi la imbraccia. Medi marcati e leggermente compres-si, cantini rotondi e corposi. Probabilmente proprio per merito del mogano, gli acuti non rimangono in-dietro, come di solito capita con chitarre con que-sto shape del corpo, ma rimangono belli presenti e definiti. Insomma, suona come deve: una dred a tutti gli effetti, ma con una marcia in più sulle note alte. Questo la rende piacevolmente versatile: con il plettro è la morte sua, niente da dire, ma anche con le dita ha il suo perché. Il sustain è lungo e corpo-so, con una bella punta di riverbero naturale. E dire queste cose di uno strumento tutto in mogano non è che capiti tutti i giorni.

Il Sonitone della Fishman, montato di serie, ha i controlli alla buca e l’alimentazione fissata all’inter-no della cassa, senza nessun citofono sulla fascia. C’è voluto quasi un decennio, ma anche su queste cose le grandi case si stanno finalmente adeguando alle richieste del mercato. Non si tratta di un sistema di rilevazione ‘esoterico’, ma fa il suo mestiere de-gnamente. Del resto, la base di partenza è buona e non è difficile fare un buon lavoro in fase di amplifi-cazione. La presenta del secondo pin per la tracolla all’attaccatura del manico, oltre a un’amplificazio-ne on board estremamente plug’n’play, danno allo strumento una connotazione decisamente indiriz-zata all’uso dal vivo. Sarà anche l’effetto MTV, ma sono chitarre che si vedono spesso imbracciate dai folk singer americani di ultima generazione. Del re-sto sono non troppo costose, suonano bene e sono pronte per andare su un palco, cosa altro serve?

[email protected]

Scheda tecnica

tipo: Chitarra acusticacostruzione: Messicodistributore: EKO Music Group SpA – via Falleroni, 92 – P.O. Box 52 – 62019 Re-canati (MC) – Tel. 0733 226271 – www.ekomusicgroup.comPrezzo: € 1139 (IVA inclusa)top: mogano sapele massellocatene: moganoFasce e fondo: mogano sapeleManico: Rust Stratabondtastiera: Black Richlitebinding: noMeccaniche: MartinScala: 648 mmtasti: 20Amplificazione: Fishman Sonitone

Lo strumento in prova è stato gentilmente messo a disposizione da:dosio Music – Via Verdi 35/44/46 Vercelli – Tel. 0161 253047

st

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chitarra acustica 11 duemiladodici

Microfono e preamplificatore per resofoniche, gipsy e banjoGold Tone ABS

di Daniele Bazzani

Pensato per risolvere i problemi re-lativi all’amplificazione su alcuni de-gli strumenti di solito più difficili da riprendere, il microfono dotato di pre-amplificatore della casa americana fornisce una soluzione piuttosto inte-ressante e di qualità.

Il concetto alla base è semplice, ed è quello che un qualsiasi tecnico del suono ci proporrebbe sul palco: un microfono a condensatore piazzato di fronte allo strumento che suoniamo. La differenza risiede nel tipo di microfono che abbiamo a dispo-sizione, di solito sul palco questo viene fissato a un’asta ‘legandoci’ materialmente a una posizione fissa, spostarsi di pochi centimetri può stravolgere il suono e siamo quindi impossibilitati a muoverci liberamente. Non è una cosa poi così positiva o una bella sensazione mentre cerchiamo di esprimerci in musica. Il microfono Gold Tone ABS (Andvanced Banjo Microphone System) è una capsula microfo-nica fissata a un supporto, tramite un piccolo brac-cio regolabile, che ha un sistema di bloccaggio pen-sato per strumenti dotati di una cordiera metallica: ecco che le resofoniche, le chitarre da gipsy jazz e il banjo hanno una nuova possibilità di farsi sentire sul palco. Al piccolo microfono si aggiunge il pre-amplificatore ABS-2 Acoustic Preamp Stompbox, dotato di controlli di tono con Alti, Medi e Bassi e un Volume, oltre all’inversione di fase. È pensato per darci un’ulteriore possibilità sonora, quella di poter incrementare il volume in caso di assolo o di neces-sità del momento, è molto utile e fa già parte del sistema evitandoci una ricerca successiva all’acqui-sto. A tale proposito, il controllo di volume svolge una comoda funzione permettendoci di trovare il giusto limite di suono, e in quel caso una piccola aggiustata all’equalizzazione potrebbe essere uti-le: sappiamo che alzando il volume c’è un maggior rischio di feedback e una leggera riduzione delle basse frequenze può aiutarci ad evitare fastidiosi rientri.

Il microfono, a detta del produttore, è costrui-to sulle specifiche dell’oramai leggendario Shure SM57, un microfono a condensatore che, insieme al fratello SM58, ha segnato la storia della musi-ca live degli ultimi decenni, quindi dovrebbe essere una garanzia.

Il supporto metallico è semplicissimo da aggan-ciare e ci permette anche di spostarlo da uno stru-mento all’altro durante il concerto, l’unica cosa a cui prestare attenzione è il braccio regolabile e la conseguente posizione del microfono, cruciale per la ricerca del suono giusto, quindi attenzione sia a poggiare lo strumento quando non utilizzato o a muovere il sistema da uno all’altro, è l’unica vera raccomandazione che ci sentiamo di dare.

Il tutto viene in una bella custodia rigida che acco-glie entrambi i pezzi permettendoci di portarli in giro comodamente.

Info: www.goldtone.com

st strumenti

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Suono e sellettedi Dario Fornara

Tecnicamente lo sappiamo tutti: la selletta (saddle in inglese) è quell’ele-mento attraverso il quale la corda trasmette la propria vibrazione al ponte e alla tavola armonica di una chitarra acustica. È un elemento importante per-ché, oltre ad essere in parte responsabile della timbrica del nostro strumen-to, può agire e correggerne l’intonazione. La trasmissione della vibrazione è influenzata dalla tipologia del materiale con la quale è costruita, dalle di-mensioni e dal tipo di incastro, più o meno solidale, con il ponte sottostante. Nell’analizzare le particolarità timbriche che possiamo ottenere adottando sellette costruite con materiali differenti, ipotizziamo di sostituire la nostra ‘anonima’ selletta in plastica prestampata con altre di materiale diverso: que-sta selletta in plastica sarà il nostro termine di paragone, considerando la timbrica neutra e la discreta resistenza all’usura che riesce a garantire. Par-lando di materiali alternativi, i più comuni ed utilizzati sono Corian e Micar-ta, che hanno buone caratteristiche timbriche e garantiscono una maggiore durata nel tempo. In questo breve articolo abbiamo però voluto prendere in considerazione altri materiali, utilizzati in liuteria su strumenti generalmente di buon livello e oggi facilmente reperibili sul mercato. Le considerazioni che seguono si riferiscono all’utilizzo di una ipotetica selletta montata direttamen-te a contatto con il ponte, ovvero senza che tra i due elementi vi sia inter-posto, per esempio, un rilevatore piezo per l’amplificazione, o qualsivoglia materiale che potrebbe variare la risposta timbrica naturale dello strumento. Vediamone allora alcuni tipi.

Selletta in mammut fossile

ststrumenti

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chitarra acustica 11 duemiladodici

Selletta in osso. Solitamente si ri-cava da pezzi di osso bovino e la la-vorazione avviene manualmente. La timbrica di una selletta in osso può variare da modello a modello anche in modo significativo, in quanto la struttu-ra dell’osso stessa può cambiare per peso e densità in porzioni di materia-le anche molto vicine (amplificando lo strumento a volte si riscontrano pro-blemi di bilanciamento di volume tra le corde proprio a causa del materiale strutturalmente poco omogeneo). Det-to questo la timbrica acustica di base risulta spesso più potente e definita rispetto all’analoga in plastica, e con poca spesa è possibile migliorare in modo sensibile la timbrica di una chi-tarra un po’ spenta e legnosa, tipica di molti strumenti economici.

Selletta in avorio. Di difficile repe-ribilità per i giusti motivi legati alla so-pravvivenza della specie protetta dalla quale proviene, è un materiale nobile sia esteticamente che timbricamente. Genera un attacco migliore rispetto ad altri, producendo una timbrica defi-nita, con un buon sustain, rispettando fedelmente le caratteristiche di base dello strumento. Generalmente ha una densità piuttosto omogenea ed è abba-stanza raro imbattersi in sellette ‘spen-te’ o con problemi di ‘trasmissione’. I limiti di reperibilità e utilizzo lo rendono sempre più raro e ricercato, ma è un ot-timo materiale, come d’altronde la sto-ria della liuteria in generale ci insegna.

Selletta in Tusq. Il Tusq è un mate-riale sintetico. Il processo di produzione ne garantisce una perfetta omogeneità e una maggiore resistenza meccani-ca alle varie sollecitazioni; inoltre è un materiale ‘autolubrificante’ che garan-tisce un attrito praticamente nullo allo scorrimento e per questo largamente utilizzato anche per la realizzazione dei capotasti. È rigido e compatto e la nostra selletta permetterà di trasferire alla tavola il suono ‘puro’ della corda, in modo molto fedele e dettagliato, condito spesso da un incremento del riverbero naturale. Con una selletta in Tusq avremo (forse) un po’ meno calo-re, ma potenza e trasparenza saranno assicurati. Ottima se utilizzata come ‘supporto’ a sistemi di amplificazione sottosella, proprio grazie alla caratteri-stica uniformità strutturale.

Selletta in corno su Illotta FD Custom

Selletta in corno Black Tusq su Chatelier FD Custom

Selletta in osso su Lowden S38

Suono e sellettest

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chitarra acustica 11 duemiladodici

Selletta in ottone. L’ottone è un materiale in re-altà poco utilizzato nella realizzazione della selletta del ponte. Alcuni costruttori lo ritengono un mate-riale troppo pesante e in grado di caratterizzare in modo invasivo la timbrica naturale dello strumento, aggiungendo all’attacco della nota un suono me-tallico e soprattutto generando una ‘compressione’ non sempre gradita. Anni fa ho montato una selletta in ottone su una vecchia chitarra acustica Bozo a 12 corde e ho ripetuto l’esperimento su altri strumenti ricavandone le stesse impressioni: suono effettiva-mente più metallico, timbrica con maggiore corpo ma più compressa.

Selletta in mammut fossile. Siamo nell’esoteri-co timbrico chitarristico. E ci sono caduto anch’io con la selletta della mia Martin 00028. Il mammut fossile non è neppure un materiale così raro da tro-vare e si può recuperare facilmente: basta avere la voglia e la possibilità di sborsare un piccolo capita-le che da solo supera l’acquisto di certi strumenti ‘da supermercato’. Il suono è bello, molto definito; quello della mia triplo zero si è leggermente aperto, perdendo un filo della sua mediosità. Solo per stru-menti rigorosamente acustici e per chi è disposto a metterci un po’ di suggestione. Ma forse è un parere un po’ troppo personale…

Selletta in corno. Al di là di un discorso pura-mente estetico, che però in questo caso già da solo potrebbe determinarne la scelta, la selletta in corno ha un suono leggermente più spento e medioso. L’attacco può essere meno definito e soprattutto le corde non avvolte possono perdere parte della pro-pria complessità armonica. È un materiale piuttosto morbido e la cosa sembra proprio riflettersi sul tipo

di timbrica generata. A causa della sua morbidezza, le corde tendono a incidere la superfice di appog-gio con facilità e quindi deve essere tenuto ‘sotto controllo’ con maggiore attenzione. Tutto ciò non vuole e non deve essere visto in maniera negativa, ma solo come una possibilità in più nella ricerca del proprio suono ideale. Sicuramente merita di essere sperimentato.

Selletta in carbonio. Esistono sellette in carbo-nio di vario tipo e, infatti, con questo termine a volte vengono proposti materiali piuttosto differenti sia per composizione che per struttura. Personalmente ho montato su una mia chitarra una selletta in carbonio e grafite sinterizzata (abbastanza difficile da repe-rire) veramente incredibile, in grado di generare un sustain e una definizione timbrica davvero fuori dal comune. Più comuni sono invece le sellette realiz-zate in fibra di carbonio, grazie alle quali è possibile ottenere una timbrica di base presente e brillante, guadagnandone in volume e dettaglio, ma… ripeto, si trovano in commercio prodotti che possono es-sere molto diversi fra di loro, anche come sonorità.

conclusioniSenza aspettarsi grandi miracoli, e sempre tenen-

do presente che una buona selletta è solo un ele-mento che concorre alla formazione della timbrica del nostro strumento, il consiglio è quello di spe-rimentare, magari approfittando del prossimo ‘ta-gliando’ dal vostro (naturalmente bravissimo) amico liutaio di fiducia. Attendo le vostre opinioni!

Dario [email protected]

Selletta in csrbonio

Suono e sellette st

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GAS Addictiondi Mario Giovannini

ekoDiavolo di un Varini. Non si ferma

mai. Da dicembre saranno dispo-nibili i nuovi modelli della sua serie signature per la casa di Recanati: Eko Mia 018 Cutaway 12 corde, Mia Parlor, Mia Nylon, Mia per manci-ni, Mia Learning per i principianti. Quest’ultima, in particolare, dotata di sistema FastLok per la regolazio-ne del manico, viene proposta ad un prezzo davvero per ‘studenti’. Non mancheremo di approfondire.

www.ekomusicgroup.it

SchecterSono finalmente disponibili anche sul mercato italiano le nuovissime chitarre acustiche Schecter della

serie Hellraiser e Omen Extreme. La nuova linea di chitarre acustiche Schecter punta a proporre strumenti dal look accattivante in linea con il target dei clienti Schecter, ovvero musicisti alla ricerca di una chitarra dal look moderno e di buon suono acustico per le loro performance in ambienti pop/rock.

Le acustiche della serie Hellraiser sono disponibili nelle versioni Stage (spalla mancante fiorentina) e Studio (spalla mancante veneziana); entrambe vengono prodotte in finitura lucida, sia nella colorazione BCH (black cherry) che nel STBLK (nero trasparente). La gamma di acustiche Hellraiser presenta top, fondo e fasce in acero quilted, capotasto e traversino Black Tusq Graph Tech, ponte dal design esclusivo Schecter Custom, intarsi in abalone, rosetta in palissandro, meccaniche Grover ed elettrificazione Fishman PreSys.

Le acustiche della serie Omen Extreme vengono prodotte in finitura lucida, nelle colorazioni ANTQ (anti-que amber), BCH (black cherry) e VSB (vintage sunburst). La gamma di acustiche Omen Extreme presenta top in acero quilted (colorazioni ANTQ e BCH) o abete (colorazione VSB), fondo e fasce in acero quilted (colorazioni ANTQ e BCH) o palissandro (colorazione VSB), capotasto e traversino Ivory Tusq Graph Tech, ponte dal design esclusivo Schecter Custom, intarsi in abalone, binding e rosetta multistrato, meccaniche Grover ed elettrificazione Fishman ISys.

www.goldmusic.it

st strumenti

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chitarra acustica 11 duemiladodici

SchertlerLa casa elvetica ha presentato il ‘fratello minore’ dello

Yellow Blender provato su queste pagine pochi mesi fa. Si tratta di una versione monocanale del preamplificatore in Classe A di Schertler con 1 In, 3 Out ed Effect Loop integrato.

Yellow Single offre:– design moderno e sofisticato, costruito in un robusto e

leggero case in alluminio;– massimo due canali di ingresso per tutti i tipi di micro-

foni e pickup;– massimo quattro linee di uscita con connessioni mul-

tiple;– uscita per le cuffie;– Send & Return per loop effetti;– EQ quadribanda con altri filtri dedicati per garantire

un’ampia gamma di controlli di tono e la massima flessi-bilità;

– elettronica in pura classe A per la migliore performan-ce possibile.

Ogni singola sezione è stata pensata e progettata per garantire il massimo potenziale da ogni tipo di sorgente sonora.

www.schertler.com

admiraLa Gold Music Srl e la Enrique Keller S.A. sono liete di annun-

ciare che le celebri chitarre classiche spagnole Admira verranno distribuite e commercializzate in esclusiva sul territorio italiano dalla Gold Music. In occasione dell’annuncio di questa nuova prestigiosa distribuzione, la Gold Music è lieta di introdurre due nuovissimi prodotti Admira che si vanno a collocare nella fascia student. Si tratta dei modelli Alba e Diana che permettono di ave-re una chitarra classica spagnola di pregio (il marchio Admira è da sempre sinonimo di qualità) ad un prezzo davvero accessibile a tutti (range di prezzo al pubblico 100,00/150,00 euro).

Alba: chitarra classica 4/4, serie Admira Eki con top in abete canadese, fondo e fasce in sapele, manico in mogano, scala di 650 mm, ponte e tastiera in palissandro, binding nero su top e fondo, rosetta in legno, meccaniche ‘Lyre’ nichelate, finitura lu-cida.

Diana: chitarra classica 4/4, serie Admira Eki, top in cedro ca-nadese massello, fondo e fasce in sapele, manico in mogano, scala di 650 mm, ponte e tastiera in palissandro, binding nero su top e fondo, rosetta in legno, meccaniche ‘Lyre’ nichelate, finitura lucida.

www.goldmusic.it

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chitarra acustica 11 duemiladodici

Guitar Workshopdi Stefan Grossman

David Laibman è conosciu-to come il padre del revival chitarristico contemporaneo del ragtime classico. I suoi arrangiamenti in questo cam-po sono sbalorditivi oltre che splendidi. Potete ascoltarli nel suo album solista Classi-cal Ragtime Guitar (Rounder, 1981) e in The New Ragtime Guitar (Folkways, 1971) inci-so con Eric Schoenberg. Ma quando Dave iniziava a dare una scossa alla scena folk nei primi anni ’60 con il suo incre-dibile stile chitarristico, molti dei suoi pezzi erano presi dal gruppo di old-time revival The New Lost City Ramblers. Dai dischi dei Ramblers aveva infatti imparato “Money’s All Gone”, “Dallas Rag” e “Colo-

red Aristocracy”.La sua versione di “Colored

Aristocracy” [in AA.VV., Novel-ty Guitar Instrumentals, Stefan Grossman’s Guitar Workshop, 1a ed. 1975] combina un caratte-re quasi nashvilliano con alcune interessanti posizioni di accordi, dando vita a un arrangiamento molto impegnativo e stimolante. Mentre la maggior parte dei chi-tarristi cercano ad esempio di catturare lo stile degli strumenti irlandesi nei loro arrangiamenti di melodie celtiche, Dave ha optato per un approccio diverso, basato sulle sue tecniche legate al ragti-me classico.

Il pezzo è in basso alternato. Fate attenzione, perché nell’ar-rangiamento ci sono a volte dei giri e degli sviluppi imprevisti che

dovete leggere accuratamen-te nella trascrizione musicale. Siamo in tonalità di La e si ini-zia con una posizione dell’ac-cordo di La con un barré sulle prime quattro corde al secon-do tasto. La terza battuta intro-duce un accordo di Fa# suo-nato con il pollice della mano sinistra agganciato dietro al manico per premere la sesta corda al secondo tasto, men-tre l’indice esegue un piccolo barré sulle prime due corde al secondo tasto, il medio preme la terza corda al terzo tasto e l’anulare preme la quarta cor-da al quarto tasto. Suonate questo accordo con questa di-teggiatura. Se provate a suo-narlo con un barré completo, avrete dei seri problemi a suo-nare la melodia.

Nella quinta misura dovete prendere un barré al settimo tasto sulle prime tre corde. Te-nete questa posizione per tut-ta la battuta. Alla sesta misura la posizione cambia: l’anulare preme la seconda corda al settimo tasto, l’indice preme la terza corda al sesto tasto e il medio preme la quarta corda al settimo tasto. Questa di-teggiatura molto ingegnosa ci permette di mantenere il bas-so alternato e suonare la me-lodia sugli acuti. La diteggia-tura di Si7 alla settima misura David Laibman, dalla copertina del suo CD Adventures in Ragtime,

Stefan Grossman’s Guitar Workshop, 2008

tc tecnica

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Colored Aristocracytraditional – arranged by David Laibman

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©1975 Shining Shadow Music - All rights Reserved. Used With Kind Permission.

Dave Laibman

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prevede ancora l’indice sulla terza corda al sesto tasto, ma il medio e l’anulare ora premono rispet-tivamente la sesta e quarta corda al settimo tasto. È questa un’altra posizione molto interessante, che dona all’arrangiamento fluidità e colore. L’ottava misura inizia con un accordo di Mi in prima po-sizione. Diteggiate l’accordo completo, anche se la trascrizione chiede soltanto di pizzicare la sesta e prima corda a vuoto. Tenendo la posizione intera dell’accordo, otterrete un suono più pieno, perché la chitarra catturerà le varie vibrazioni per simpatia.

Queste sono praticamente tutte le posizioni richieste. L’unica altra posizione si può trovare all’inizio della seconda sezione, dove l’accordo di La è preso con una forma di Fa al quinto tasto. Di nuovo, fate attenzione a utilizzare il pollice per premere la sesta corda al quinto tasto e a non eseguire un barré completo.

tc

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The Blue Horizon di Peter Finger

“The Blue Horizon” è un altro brano della mia serie di miniature, che si ispira a un dipinto del mare, principalmente in tonalità blu. Potete trovarlo nel mio album Dream Dancer. L’accordatura è EBEGAD, cioè l‘accordatura che uso nella maggior parte della mia musica. Dal momento che è necessario innalz-are di un tono intero la quarta e quinta corda, avrete su queste corde una ten-sione un po’ maggiore, mentre la tensione sarà minore sulla prima e seconda corda, che sono accordate un tono sotto. Si tratta di un pezzo lento, che crea un’atmosfera di calma se suonato correttamente. Cercate di lavorare su ogni nota e di costruire un mo-vimento di tensione e rilascio, che renderà il brano molto più interessante. Ci sono molte più note nella linea di basso che nella melodia. I bassi tirano in avanti e la melodia tiene indietro il tempo. La linea di basso si ripete continuamente fino alla battuta 28. Dalla battuta 29 inizia una sezione completamente diversa, che presenta molte più note nella melodia rispetto alla linea di basso, con una sorta di tema popolare tradizionale e ritmi dispari. Questo può creare un bel contrasto con il resto della composizio-ne. Spero che vi divertiate a sperimentare l’accordatura EBEGAD e a suonare questo pezzo.

Ogni bene!

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0202

Bm (add b13)

Peter Finger

guitar tuning: E B E G A D

The blue Horizon

capo: 2nd fret

Accordatura: EBEGADCapo II

tc tecnica

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61

chitarra acustica 11 duemiladodici

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chitarra acustica 11 duemiladodici

The Blue Horizon

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chitarra acustica 11 duemiladodici

The Blue Horizon

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chitarra acustica 11 duemiladodici

Basso Acustico - 4 di Dino Fiorenza

Rieccoci ancora qua. Oggi parliamo di un nuovo modo di percuotere, come si vede dalla foto: Adesso sarà la mano si-nistra che percuoterà la cassa sull’angolo sinistro, e questo ci darà modo di utilizzare la destra per iniziare ad applicare il tapping

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Con il secondo esercizio aggiungiamo con la mano destra alla tonica di La il suo voicing per creare l’accordo di Lam7:

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; 44

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e quindi avere una completezza armonica delle nostre esecuzioni, potendo cosi suonare sia la parte ritmica che quella armonica e addirittura la linea di basso.

Il primo esercizio ci dà modo di prendere confidenza con questa nuova posizione; suoniamo in La:

tc tecnica

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chitarra acustica 11 duemiladodici

Adesso viene il bello, uniamo tutti e due gli esercizi: il risultato è strepitoso, sentiamo suonare toni-ca, voicing e supporto ritmico:

Moderate

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Bene, estendiamo l’esercizio precedente alla progressione armonica seguente: Am7 / D7 / Gmaj7 / Cmaj7.

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Ditemi voi se il risultato non è davvero bello!

Ci vediamo il prossimo mese e come al solito non esitate a contattarmi per qualsiasi vostra curiosità o altro.

Buon lavoro!

[email protected]

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chitarra acustica 11 duemiladodici

L’improvvisazione - 5

Come suonano le note?di Daniele Bazzani

Come ho accennato nelle puntate preceden-ti, queste non sono vere e proprie lezioni, dare esercizi e poi verificarli insieme è molto compli-cato, cercherò di limitarmi a concetti grossolani ma fondamentali, per dare un’idea di quella che può essere una direzione da seguire negli anni.

Perché per imparare ad improvvisare non ba-stano giorni, né mesi.

Scusate se ogni tanto mi ripeto, ma cerco di ri-allacciare i vari discorsi fatti oramai a distanza di mesi, quindi se ripenso a quanto già scritto posso considerare la musica un linguaggio e l’improvvi-sazione simile a ciò che accade quando parlia-mo: usiamo parole che conosciamo, le mettiamo insieme seguendo regole grammaticali, parliamo degli argomenti che ci troviamo ad affrontare du-rante il giorno, non ci portiamo le frasi scritte da casa.

In una parola, improvvisiamo.

Ecco che ci si rende conto piuttosto in fretta che in musica invece abbiamo delle note, un rit-mo da seguire e un ritmo a cui e su cui suonarle, degli accordi da tenere a mente, una canzone a cui adattare il tutto. E poi ci saranno la nostra personalità e conoscenza musicale che ci spin-geranno in questa o quella direzione.

Un bel casino, non c’è che dire.Perché a tutto questo dobbiamo aggiungere

quelle cose basilari che si studiano all’inizio del percorso come accordi, scale, triadi, arpeggi e via dicendo.

Ma torno a quanto accennato nel titolo, come suonano le note?

Una cosa interessante che molti non fanno è provare a suonare una sola nota sugli accordi che cambiano, una qualsiasi progressione: se avete modo di registrarvi mentre suonate una rit-mica fatelo, o prendete programmi tipo Band in a Box o software online come Jam Studio, o basi preregistrate di canzoni famose, va tutto bene purché sappiate su cosa state suonando.

La cosa migliore, all’inizio, sarebbe suonare su una semplice progressione armonica con gli

accordi in fila, se siamo in Do saranno: Do / Rem / Mim / Fa / Sol / Lam / Sim5b; se fossero di 7a quindi a 4 voci avremmo: Domaj7 / Rem7 / Mim7 / Famaj7 / Sol7 / Lam7 / Sim7(5b).

A questo punto fate scorrere la progressione e suonate solo la nota Do ascoltando cosa accade, vi assicuro che è molto interessante. Ripetete più volte per sentire bene le sfumature e poi ferma-tevi a cercare di capire cosa avete fatto, perché avrete in realtà suonato una sola nota ma con sette significati diversi: sull’accordo di Do sarà la Tonica, su quello di Rem sarà la settima minore, su Mim la sesta minore, e via dicendo.

Il passo successivo sarà di fare la stessa cosa con le altre note della scala, alla fine, con solo sette note, ne avrete suonate molte di più. Que-sto esercizio stimolerà la vostra sensibilità ai ‘colori’ che hanno e danno le note, perché quei sette, semplici pallini neri sul pentagramma, che tendiamo spesso a snobbare, sono in realtà il no-stro amico più fidato, il magma da modellare per scolpire nella storia la nostra musica.

Possiamo anche estendere il lavoro alle note ‘fuori’ scala, e se pensiamo al risultato sorpren-dente già solo su una banale progressione, im-maginiamo cosa potrebbe accadere se gli accor-di cambiassero sempre, se modulassero e via dicendo.

A questo esercizio possiamo aggiungere com-plessità per renderlo ancora più accattivante e musicale, suonando magari due note, ad esem-pio Do e Re, sugli stessi accordi, e alternandole come ci sentiamo di fare, senza pensare a nul-la se non alla nostra sensibilità, e poi una terza, e via dicendo. Questo ci dà anche la misura di quanto si possa fare con poche note e un po’ di fantasia.

Mi sono sbilanciato ancora, in effetti questo è un altro esercizio.

tc tecnica

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