ANTOLOGIA DEI RACCONTI SCRITTI E PRESENTATI DA...

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ANTOLOGIA DEI RACCONTI SCRITTI E PRESENTATI DA ALCUNI ALUNNI DELLA SCUOLA SECONDARIA DI I GRADO “L. MORUZZI” AL CONCORSO LETTERARIO NAZIONALE DELL’ACCADEMIA DEGLI OSCURI DI TORRITA DI SIENA CLASSE 1° E LUCREZIA FERRARO NOSTALGIA CANAGLIA Aveva diciotto anni ed era commessa in un grande supermercato di Milano. L’infanzia l’aveva vissuta all’aria aperta correndo su e giù per le campagne abruzzesi dove la sua famiglia, da tre generazioni, lavorava la terra. Erano gli ultimi anni del secolo scorso ma per gli abitanti del piccolo borgo era ancora il dopoguerra. La masseria dei sui nonni, l’aveva vista crescere allegra, spensierata e al contempo timidissima. Si chiamava Gioia, le avevano dato il nome della nonna e come lei aveva vispi occhi neri e vigorose guance rosse. Era benvoluta da tutti, specialmente dai bambini del borgo che consumavano con lei giorni semplici e sereni. I nonni abitavano in una grande casa colonica situata in mezzo ad un grande frutteto confinante da un lato con un rigoglioso orto e dall’altro con un campo di grano che a giugno si rivestiva di oro giallo con pennelli di papaveri rossi. Le estati, Gioia, le trascorreva nell’aia davanti casa, a giocare scalza tra odori, sapori e colori mai più visti. Gli inverni, invece, per proteggersi dal grande freddo, li passava insieme a tutta la famiglia davanti al camino ascoltando storie antiche “vissute” e “pensate”. Le sue leccornie erano fumanti patate sotto la cenere e caldarroste scoppiettanti nello spiedo. Non c’era l’elettricità nella casa dei nonni e la luce era data da lampade a olio di noci o dalle candele di cera, che si stava ben attenti a non consumare. Capitava spesso che grandi fiocchi di neve imbiancassero i campi, ed era bello perché lei, il suo papà ed i suoi compagnetti facevano pupazzi di neve rivestiti con vecchi indumenti trovati in soffitta, carote, bottoni e rametti. Quando i pupazzi di neve si scioglievano Gioia passava a raccogliere tutti gli oggetti che la neve depositava sulla terra. Le donne di casa erano sempre impegnate a preparare marmellate con la frutta del loro frutteto, conserve con le verdure del loro orto e biscotti, dolci, pasta e soprattutto il pane con la farina del loro campo di grano. Gioia osservava attenta ed incuriosita la nonna e la madre che provvedevano a preparare il pane per la loro famiglia, in grandi quantità, più o meno ogni otto giorni e secondo una tecnica ben precisa. La preparazione del pane era un rito che coinvolgeva tutta la famiglia con grande dedizione ed amore. Si trattava di un procedimento lungo, che iniziava la sera precedente, utilizzando una piccola quantità di lievito madre. La mamma e la nonna versavano la farina nella madia, lasciavano al centro uno spazio, in cui colare l’acqua tiepida con il sale. Nell’acqua tiepida si scioglieva il lievito madre con le mani, aggiungendo l’acqua alla farina, fino a quando, a furia di impastare, la pasta non diventava liscia e omogenea, pronta per la lievitazione. A quel punto si dava all’impasto una forma tondeggiante e, dopo aver tracciato una bella croce per benedire la lievitazione e cosparso di farina, si copriva l’impasto con coperte per assicurargli tutto il calore necessario “per crescere” per una notte intera. Trascorsa la notte, si tagliavano pezzi di varie forme. Il forno a legna situato davanti l’androne della grande casa colonica, veniva acceso dal nonno e dal papà. Per accenderlo usavano fascine di legno

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ANTOLOGIA DEI RACCONTI SCRITTI E PRESENTATI DA ALCUNI ALUNNI DELLA SCUOLA

SECONDARIA DI I GRADO “L. MORUZZI” AL CONCORSO LETTERARIO NAZIONALE

DELL’ACCADEMIA DEGLI OSCURI DI TORRITA DI SIENA

CLASSE 1° E

LUCREZIA FERRARO

NOSTALGIA CANAGLIA

Aveva diciotto anni ed era commessa in un grande supermercato di Milano. L’infanzia l’aveva vissuta

all’aria aperta correndo su e giù per le campagne abruzzesi dove la sua famiglia, da tre generazioni,

lavorava la terra. Erano gli ultimi anni del secolo scorso ma per gli abitanti del piccolo borgo era

ancora il dopoguerra. La masseria dei sui nonni, l’aveva vista crescere allegra, spensierata e al

contempo timidissima. Si chiamava Gioia, le avevano dato il nome della nonna e come lei aveva vispi

occhi neri e vigorose guance rosse. Era benvoluta da tutti, specialmente dai bambini del borgo che

consumavano con lei giorni semplici e sereni. I nonni abitavano in una grande casa colonica situata

in mezzo ad un grande frutteto confinante da un lato con un rigoglioso orto e dall’altro con un campo

di grano che a giugno si rivestiva di oro giallo con pennelli di papaveri rossi. Le estati, Gioia, le

trascorreva nell’aia davanti casa, a giocare scalza tra odori, sapori e colori mai più visti. Gli inverni,

invece, per proteggersi dal grande freddo, li passava insieme a tutta la famiglia davanti al camino

ascoltando storie antiche “vissute” e “pensate”. Le sue leccornie erano fumanti patate sotto la

cenere e caldarroste scoppiettanti nello spiedo. Non c’era l’elettricità nella casa dei nonni e la luce

era data da lampade a olio di noci o dalle candele di cera, che si stava ben attenti a non consumare.

Capitava spesso che grandi fiocchi di neve imbiancassero i campi, ed era bello perché lei, il suo papà

ed i suoi compagnetti facevano pupazzi di neve rivestiti con vecchi indumenti trovati in soffitta,

carote, bottoni e rametti. Quando i pupazzi di neve si scioglievano Gioia passava a raccogliere tutti

gli oggetti che la neve depositava sulla terra. Le donne di casa erano sempre impegnate a preparare

marmellate con la frutta del loro frutteto, conserve con le verdure del loro orto e biscotti, dolci,

pasta e soprattutto il pane con la farina del loro campo di grano. Gioia osservava attenta ed

incuriosita la nonna e la madre che provvedevano a preparare il pane per la loro famiglia, in grandi

quantità, più o meno ogni otto giorni e secondo una tecnica ben precisa. La preparazione del pane

era un rito che coinvolgeva tutta la famiglia con grande dedizione ed amore. Si trattava di un

procedimento lungo, che iniziava la sera precedente, utilizzando una piccola quantità di lievito

madre. La mamma e la nonna versavano la farina nella madia, lasciavano al centro uno spazio, in cui

colare l’acqua tiepida con il sale. Nell’acqua tiepida si scioglieva il lievito madre con le mani,

aggiungendo l’acqua alla farina, fino a quando, a furia di impastare, la pasta non diventava liscia e

omogenea, pronta per la lievitazione. A quel punto si dava all’impasto una forma tondeggiante e,

dopo aver tracciato una bella croce per benedire la lievitazione e cosparso di farina, si copriva

l’impasto con coperte per assicurargli tutto il calore necessario “per crescere” per una notte intera.

Trascorsa la notte, si tagliavano pezzi di varie forme. Il forno a legna situato davanti l’androne della

grande casa colonica, veniva acceso dal nonno e dal papà. Per accenderlo usavano fascine di legno

pregiato raccolte l’anno precedente nel frutteto ed essiccate nell’aia. Le donne consegnavano gli

impasti al forno su una striscia di legno che si portava sulle spalle. Talvolta erano decine e decine di

pezzi di pane, infornati nel forno caldissimo il cui pavimento era stato ripulito dalla cenere con rami

di mirto. Uno sportello di ferro, favoriva la cottura del pane. La cenere veniva poi usata per il bucato

della famiglia. L’odore di quel pane, appena sfornato non solo la saziava ed inebriava ma la rendeva

così felice e leggera che si sentiva la più fortunata delle bambine. All’età di diciotto anni, i suoi

genitori decisero di trasferirsi a Milano per lavoro. Lì ogni giornata era sempre la stessa, sempre la

stessa trafila di impegni; scatolame da riordinare da un scaffale all’altro, ordini annunciati al

microfono da rispettare. Le tante corse, le giornate piene e i ritmi frenetici della vita milanese non

la aiutavano ad ascoltare la città, gli spazi, i tempi, assaporandone gli angoli e gli scorci nascosti.

Nonostante Gioia avesse nuovi amici con i quali camminava per le vie del centro ammirando il via

vai delle persone nei negozi, la sua vita si era notevolmente impoverita, la quotidianità, la rendeva

sempre più triste, sola, svuotata; arrivare a casa, nel suo monolocale fatto di sogni riciclati, di

fotografie che la rimandavano al passato, non le regalava più lo stesso piacere e gioia della masseria

abruzzese. Avvertiva una strana malinconia, quando decise di concentrarsi su un nuovo modo di

affrontare la vita e i suoi giorni; doveva smetterla con quelle giornate tutte uguali scandite dai suoi

turni di lavoro e tornare a osservare e assaporare le piccole cose della vita così come aveva imparato

a fare da piccina. Fu proprio riflettendo su questo cambio di mentalità e stile di vita che un giorno,

entrò in un panificio per prendersi qualcosa di caldo e appena sfornato. Dentro al locale dimenticò

per un attimo i suoi pensieri e avvertì un profumo diverso, o meglio, un profumo speciale: il profumo

delle piccole cose; il profumo del pane. La sintesi di tutta quella malinconia era forse sotto i suoi

occhi, o meglio il suo olfatto. Fu in quel momento che Gioia pensò: “Dai, non va tutto così male,

sono anche io che non mi sto aiutando…”. L’odore del pane caldo appena sfornato e mescolato a

tutti quei colori che andavano dal giallo del grano al marroncino dei dolci di pastafrolla la stava

ancora inebriando così come aveva fatto da bambina e la stava riportando a nuova vita. Una cosa

piccola, un dettaglio apparentemente insignificante, stava rigenerando la sua serenità. Sembrava la

prima volta, l’unica in cui aveva colto l’essenza di una cosa tanto piccola quanto gradevole, graziosa,

apprezzabile, normale. Mentre Gioia contemplava quegli odori, una signora le diceva che era il suo

turno ma lei non riusciva a distogliersi da quella sensazione. Avrebbe voluto restare lì dentro tutto

il giorno, non andare a lavoro, non disperdere quelle sensazioni per nessun motivo. Il suo sguardo

si posava su tutti quei tipi di pane, tutti accomunati da una fragranza e una genuinità unici. Gioia

sembrava proprio un po’ strana, lì ferma non come chi è indecisa, ma come chi sembra esser stata

trasportata in un altro mondo, un mondo fatto di piccole cose. Così intorno a lei passavano i minuti,

nuovi clienti, nuovi sguardi perplessi. Alla fine si decise e uscì con un piccolo e fragrante panino.

Gioia ripete l’esercizio più e più volte, nei giorni seguenti recandosi in quel panificio di prima mattina

e annusando il pane e l’odore più convincente. Ogni volta avvertiva un modo nuovo e convincente

di iniziare al meglio una nuova giornata di lavoro e di vita. Così, ogni volta che entrava e usciva da

quel panificio era sempre la prima volta, il primo momento di gioia del giorno. Era finalmente

tornata a vivere, ad ascoltare il profumo della vita, delle piccole cose, di ciò che la rendeva felice, e

lasciava che questo piccolo rituale del mattino si perpetuasse durante tutto il giorno, nel suo

sguardo e nel suo sorriso, per contagiare gli umori e gli sguardi di quanti la vedevano passare serena,

felice. Poiché il rituale si ripeteva ormai da un anno tutte le mattine, Gioia si innamorò

perdutamente dell’odore del pane e del fornaio anche egli abruzzese.

GIULIA MILAN

STORIA DI UNA BAMBINA

Io sono Alice, Alice McCartney: oggi vi racconterò la mia storia, da quando sono rimasta sola a

quando (finalmente) sono riuscita ad avere una vita normale. Ma partiamo da quando sono nata:

era il 4 dicembre 1920, ore 2:30 di mattina. Nacqui durante una giornata cupa e molto piovosa. Nella

camera dove di lì a poco sarei nata, tutti erano in trepida attesa: nonni, zii e anche cugini (insomma

un po' tutti). I miei primi tre anni di vita furono meravigliosi, finché...tutto cambiò; i miei genitori

persero il lavoro e per non lasciarmi in adozione dovettero trasferirsi a Londra, a circa 200 Km da

me. Io andai ad abitare in un collegio, che si trovava in una cittadina di nome Parcan. A mio parere,

quel posto era molto strano: nei dintorni c'erano poche case e soltanto una piccola panetteria. Nel

corso degli anni persi ogni contatto con i miei genitori e con la mia famiglia, non parlai loro per quasi

7 anni, fino a quando...mi arrivò una lettera scritta da mio padre. Mi diceva che presto sarebbero

tornati a prendermi; felice della notizia cominciai a preparare le valigie. Inoltre, c'era scritto di

aspettarli dentro alla panetteria (cosa che da subito mi sembrò molto strana). Non mi accorsi però

della scrittura della lettera, cosa che ben presto mi fu fatale: infatti, quella non era la scrittura di

mio padre, ma di un'altra persona. Di ciò non mi accorsi subito ma molto tempo dopo. Era il giorno

12 luglio dell'anno 1930 e stavo aspettando i miei familiari davanti alla fermata dell'autobus di

fronte alla panetteria: mentre li aspettavo, sentii quell'odore di pane... entrai nella panetteria e ne

comprai un pezzo. Il tempo di ingoiare il pezzo e ... svenni, persi i sensi e quando mi risvegliai mi

trovavo in una stanza buia e senza nessuno. Dopo un'oretta circa, un uomo mi portò in un'altra

stanza...quando vidi chi era mi meravigliai…il proprietario della panetteria. All'inizio non capii il

perché del rapimento...ma poi mi ricordai che fra lui e mio padre (che un tempo erano ottimi amici)

c'era stata un litigio molto brutto; da quel momento in poi non si parlarono più. Non avevo idea di

cosa volesse farmi, ma una delle opzioni, immaginai, avrebbe potuto essere uccidermi. Inoltre,

vicino a quell'uomo c'era anche un ragazzino, molto carino rispetto al padre, che poi si rivelò di

grande aiuto. A un certo punto, tutti se ne andarono, tranne quel ragazzino, che mi diede una piccola

chiave: mi spiegò che serviva ad aprire la porta sul retro dell'edificio. Ovviamente, mi disse anche

che la porta era sorvegliata, ma io non vi prestai attenzione più di tanto. Dopo aver riflettuto un po',

mi resi conto che era impossibile uscire di lì senza un aiuto; decisi quindi di farmi aiutare da

Emanuele (lo stesso ragazzino che avevo incontrato qualche giorno prima). Come lo incontrai fu

onestamente un miracolo, ma a quel punto me ne serviva per forza uno. Ogni giorno escogitavamo

il piano che ci avrebbe aiutato a fuggire da quel luogo inquietante, ma nessuno risultava alla fine

efficace...finché, dopo un anno di tentativi falliti, gli venne in mente che c'era un corridoio un po'

meno controllato di quello principale. Decidemmo allora di attraversarlo: questo fu il momento che

più rimpiango. Nel tentativo di attraversarlo, videro il mio compagno di avventura e con un colpo di

pistola lui venne ucciso. Io riuscii a fuggire, ma ancora adesso pur avendo 28 anni penso ancora a

lui, che si era sacrificato per salvare me. Questa è la mia storia, la storia di una bambina che da un

momento all'altro si è ritrovata sola e che non si è messa a frignare, ma che è andata avanti senza

essersi buttata giù. Io spero di avervi intrattenuto un po', ma, soprattutto, di avervi fatto capire che

in fondo al tunnel c'è sempre la luce...e, in un modo o nell'altro alla luce si arriva sempre.

GIORGIA PARMEGGIANI

IO SONO BILLY

La mia vita ebbe inizio con una famiglia di campagna, con cui vivevo in una fattoria isolata. Come

tutte le mattine, Giovanni mi dava da mangiare ciò che trovava nel recinto degli animali. Senza di

lui, non avrei saputo come fare: lui era me e io ero lui, nessuno avrebbe potuto mai separarci anche

se eravamo diversi ... Lui era il mio padrone e io il suo cane e sarebbe stato così per sempre.

Vivevamo di coltivazioni procurate dall’orto, ottenute con fatica lavorando nei campi. Un giorno, la

mattina, non vidi arrivare Giovanni; al suo posto, mi porse del cibo la mamma, qualcosa non

andava... corsi subito al piano di sopra e trovai Giovanni disteso sul letto con dei fiori sul petto! Sul

momento, pensai che si fosse attardato nel dormire, ma quell’odore del pane fresco mi faceva

ricordare il funerale della nonna, dove le era stato donato un cesto di pane, segno di protezione del

loro Dio in Paradiso; stentai a crederci ma era la verità. Andai nella mia cuccia a piangere,

ripetendomi che non ero stato capace di prendermi tanto cura di lui quanto lui mi curava... Piansi

tutto il giorno, Giovanni era morto e per me iniziò una nuova vita, ma una vita vuota: senza ciò che

per me era davvero importante, niente aveva più senso. Capii che qualcuno alla fine era riuscito a

separarci: era stata la morte, mi aveva tolto la cosa più importante che avevo. Non poteva finire

così; quel giorno partii per un viaggio, il viaggio più importante della mia vita, ovvero la ricerca di

uno come Giovanni, uno che mi dimostrasse affetto e che sarebbe stato disposto a non lasciarmi

mai da solo: tutto ciò che io avrei fatto per lui. Giovanni sarebbe restato per sempre insostituibile

ma avevo bisogno di riempire il vuoto dentro di me: ciò avrebbe dato un senso alla mia vita. Girai in

lungo e in largo, vidi cose che non avevo mai visto prima d’allora; vidi le montagne che mi volevano

caricare sulle loro cime, vidi mari e oceani che sembrava volessero cullarmi con le loro onde, vidi le

nuvole che mi abbracciavano nel loro manto soffice. Nonostante tutti i miei sforzi, non trovai

nessuno all’ altezza di Giovanni, ma non mi arresi e continuai la mia ricerca fino a che diventai

vecchio, vecchio da non potermi più reggere in piedi. Stanco, mi addormentai e al mio risveglio mi

trovai in una cuccia soffice e accogliente: davanti a me intravedevo una figura umana sfuocata, ma,

guardandola meglio, capii che era ... Giovanni! Alla fine, mi resi conto che la morte non ci aveva

solo separati, ma ci aveva anche fatto ritrovare come un tempo. Io e Giovanni diventammo di nuovo

inseparabili come una volta, uniti più che mai. Sono Billy e questa è la mia storia.

TOMMASO SCAGLIARINI

IL VIAGGIO DI PAOLO

Siamo nel 1993 a Ferrara, Paolo Razzieri compie 70 anni il 3 giugno. Paolo è un pittore molto esperto

e nella vita non faceva altro che dipingere. È single, alto e magro, con baffi e poca barba, indossa

sempre una coppola in testa e si veste tutto di nero. Paolo è originario di Ferrara ed è talmente

attaccato alla sua città, che non si sposta mai da lì, tanto che i suoi amici lo definiscono un “vecchio

orso solitario”. Paolo, infatti, non ha mai messo piede fuori d Ferrara, ma un giorno gli arrivò una

telefonata alquanto strana da un pittore famoso che gli disse: “Buongiorno, parlo con il pittore Paolo

Razzieri?”. Paolo rispose in modo un po’ aggressivo: “Sì! Chi parla? E cosa vuole da me?”. Il pittore

famoso insisté: “Mi scusi, non mi sono presentato. Mi chiamo Antonio Cassoni e tutti i miei amici

appassionati di pittura dicono che lei è molto bravo, tanto da aver vinto il Premio della Pittura della

vostra regione, l’Emilia-Romagna. Per questo motivo vorrei che ci incontrassimo in Spagna a

Barcellona, dove vivo, per fare una chiacchierata di lavoro e per altre cose importanti!”. Paolo ci

rifletté un po’, poi gli rispose: “Per prima cosa io sono in pensione e in secondo luogo io non mi

muovo da Ferrara; amo questa città e i suoi tortellacci alla zucca, perciò neanche per sogno!!!”.

Antonio Cassoni non volle cedere e ribatté: “Le offro un compenso molto alto per dipingere nel mio

studio. Cosa mi dice? Ora ci sta? Vorrei però vedere com’è il suo stile di pittura.” Quando Paolo

diceva una cosa, di solito non cambiava idea e, quindi, rispose: “Neanche per dei soldi io mi sposterei

da qui, e poi le ripeto che sono anziano; in più non mi piace la Spagna, anche se, per la verità, non

ci sono mai stato, mi spiace, senza offesa!”. Antonio Cassoni a questo punto disse: “Le faccio

un’ultima offerta. In aggiunta a quello che le ho offerto prima, aggiungo una sistemazione in un

albergo a cinque stelle per tutto il tempo che rimarrà in Spagna, se mi fa vedere il suo stile di pittura!

Ora ci sta?”. Paolo rimase molto colpito dalla frase “Albergo a cinque stelle” e, finalmente, cedette.

Infatti disse: ”Va bene, accetto. Quando si parte?”. Antonio gli disse che sarebbe partito dopo

qualche giorno dall’aeroporto di Bologna, in più aggiunse: “Quando arriverà in Spagna, ci troveremo

in via Sergio Tamos 2, nei pressi di una villa bianca con piscina: è mia e la riconoscerà sicuramente.

La ringrazio ancora molto per avere accettato e a presto”. Paolo tirò un sospiro di sollievo, baciò i

suoi tortelloni alla zucca e si preparò la valigia. Il giorno della partenza Paolo lasciò casa sua e si avviò

verso l’aeroporto di Bologna con un taxi. Arrivato all’aeroporto, aspettò qualche ora prima di

imbarcarsi; nel frattempo, non faceva altro che guardarsi intorno, perché non era abituato a vedere

tutta quella gente. Il viaggio durò tre ore. Sceso dall’aereo e uscito dall’aeroporto, vide una casa

tutta rossa con un bel giardino e un paesaggio che non si aspettava, oltre che un cielo azzurro come

il mare. Allora Paolo prese il suo sgabello e il suo kit da pittore e iniziò a dipingere. Mentre disegnava,

un po’ di persone cominciarono a fermarsi per guardarlo. Quando finì di dipingere, una donna gli

disse: “Hola señor, puedo comprar una foto?”, che in italiano voleva dire se poteva acquistare il

quadro. Paolo rimase perplesso, visto che a scuola non aveva imparato lo spagnolo, così tirò fuori il

suo vocabolario e tradusse. Paolo decise di regalare il quadro alla signora e poi se ne andò verso la

villa di Antonio, mentre tutta la gente lo applaudiva. Era mezzogiorno e Paolo aveva fame, così andò

in un ristorante spagnolo che si chiamava “El chunano”, dove si mangiava solo paella. Paolo si

accomodò e, quando vide il menù, disse tra sé e sé: “Lo sapevo, lo sapevo, qui in Spagna è tutto così:

folla che ti applaude, si mangia solo paella, le case sono piccole e c’è sempre sole! Che fine hanno

fatto i vecchi tortellacci alla zucca, la nebbia di Ferrara e quell’odore del pane di casa mia?” Poi

ordinò un piatto di paella. Quando gli arrivò quella paella immensa, pensò: “Wow, non mi aspettavo

tutto questo pesce e riso. L’aspetto mi convince, l’odore no, però ora assaggiamo.”. Appena

l’assaggiò, gli ricordò un piatto che gli aveva cucinato la sua mamma quando era piccolo, così la

divorò in meno di 10 minuti. Paolo pensò: “Però in Spagna non si mangia male, anche se niente

batte i tortelloni”. Finito di mangiare, andò alla cassa e chiese il conto. Il cameriere gli disse: “Gracias

por probar nuestro restaurante, la cuenta es de veinte euros”. Paolo un po’ capì cosa gli aveva detto,

ma ci rimase male quando sentì “Veinte euros”; nonostante ciò, pagò e uscì dal ristorante arrabbiato

dicendo tra sé e sé: “Matti! Venti euro per un piatto di riso e pesce, mamma mia che ladri!!!”. Passò

qualche ora a camminare per Barcellona, fermandosi anche a comprare dei colori meravigliosi per

dipingere in un negozio molto pittoresco. Comprò un rosso, un blu, un verde, un giallo e un grigio.

Si accorse, però, che si era fatta sera, così Paolo andò all’hotel che gli aveva proposto Antonio.

Arrivato lì, si rese conto che in quell’hotel soggiornavano solo persone ventenni e si sentì un po’

imbarazzato. Antonio aveva già pagato per Paolo la stanza, la cena e la colazione, oltre che la piscina

e la sauna per un totale di 300 euro. Quando Paolo se ne accorse, telefonò subito ad Antonio per

ringraziarlo e gli disse: “Antonio, la ringrazio per avermi pagato l’hotel, io avevo solo 100 euro e non

mi sarebbero bastati!!!”. Antonio gli rispose: “Prego, Paolo, le volevo dire che per motivi di lavoro

la vengo a prendere io domani, ok?”. Poi interruppe la telefonata. Poalo, tutto sorridente, entrò

nella suite 21 affacciata sul mare di Barcellona e iniziò a dipingere la sua stanza. Dopo un po’, si fece

tardi e il nostro pittore decise di andare al ristorante dell’hotel. Lì, a differenza del ristorante “El

chunano”, non c’era solo paella ma anche spaghetti alle vongole, zuppa di mare, gamberi fritti e

altre prelibatezze. Paolo, però, non aveva fame e tornò a dipingere nella sua stanza fino alle due di

notte. Il giorno dopo si vegliò presto, fece colazione e poi decise di andare a rilassarsi in piscina e di

farsi una bella sauna. Poi, però, pensò: “Tutta questa bella vita mi sta rovinando il lavoro, devo fare

una chiacchierata con Antonio e poi, prima possibile, giuro che me ne torno a Ferrara.”. Quando

uscì dalla sauna, la direttrice dell’hotel lo chiamò per cognome, lui si girò e lei gli disse: “Buongiorno

Razzieri, il pittore Cassoni è qui, faccia i bagagli che la aspetta.”. Paolo corse per le scale tutto

frettoloso, tanto che inciampò, ma in quel momento niente e nessuno l’avrebbe fermato, aprì la

porta della sua stanza e fece le valigie, anche se nella fretta dimenticò il kit da pittore. Paolo

raggiunse Antonio in macchina e partirono. Dopo cinque minuti Antonio chiese a Paolo come stava

e se avesse preso tutto dalla camera e fu a quel punto che Paolo si ricordò di avere lasciato il kit da

pittore dentro l’armadio. Antonio allora disse a Paolo che non importava e che glielo avrebbe

ricomprato lui, purché gli insegnasse la sua tecnica di pittura. Arrivati allo studio di Antonio, Paolo

disse: “Io sono un ritrattista, non un paesaggista, anche se quando sono arrivato in Spagna ho

dipinto un paesaggio, e qui vedo solo dei paesaggi”. Antonio rispose: “Lo so, lo so, è per questo che

l’ho chiamata, vorrei che lei dipingesse una foto di mia mamma, perché tra poco è il suo compleanno

e glielo vorrei regalare, la prego mi aiuti, solo lei può farlo”. Così iniziò subito a dipingere e, dopo

due ore molto attese, terminò di dipingere. Il quadro era venuto perfettamente uguale alla foto; i

colori erano vivaci e accesi e il quadro sembrava reale. Paolo, un po’ affaticato, disse: “Io ho finito,

è stato un onore dipingere per lei. Ora, però, me ne vado e faccia tanti auguri a sua mamma anche

da parte mia”. Antonio lo fermò e gli disse: “Sono in debito con lei, cosa posso offrirle?”. Paolo

rispose: “Io non voglio niente, è stata una cosa da niente fare questo ritratto e poi l’ho fatto con il

cuore. Lei mi ha fatto vivere una bellissima esperienza qui in Spagna, erano cinquant’anni che non

mettevo piede fuori da Ferrara, non avevo mai assaggiato una paella e non avevo mai visto così

tanto sole, sarei io in debito con lei e non il contrario”. Antonio, però, insistette tanto che Paolo,

come la prima volta, cedette e disse: “Se ci tiene così tanto, allora vorrei che sistemasse il mio piccolo

laboratorio di pittura in casa mia”. Antonio si mise a ridere e gli rispose: “Nessun problema! Non

vedo l’ora di vedere Ferrara”. Così il nostro pittore ferrarese tornò nela sua amata città ma, questa

volta, viaggiò in compagnia del suo nuovo amico Antonio.

CARLOTTA TINTI

MISSIONE SALVATAGGIO DEL TEATRO

ERO IMMOBILE, COME PARALIZZATA.

NON CI VOLEVO CREDERE.

IL MIO SOGNO ERA DISTRUTTO.

Mi stavo dirigendo verso il teatro “La Scala” di Milano, per continuare le prove dello spettacolo nel

quale avrei interpretato la protagonista; stavo scendendo dall’ autobus, quando ho visto un uomo

che appendeva sulla porta del teatro un cartello con scritto “sold”!!!. Sono corsa verso il teatro,

facendomi strada tra la folla e le automobili, con l’intento di staccare quel cartello, ma, grazie alla

mia solita sbadataggine, non solo mi sono completamente schiantata contro un palo, ma, correndo,

mi si è anche storta la caviglia! La mia solita fortuna! Tutto questo non bastava: mentre cercavo di

raggiungere il teatro, sono stata bloccata da un camion che trasportava una ruspa: probabilmente

avrebbero raso al suolo il teatro!!! A quel punto, ho lasciato perdere il cartello, anche perché non

sarei potuta restare lì a guardare, così mi sono affrettata a telefonare alla mia insegnante di danza,

la signorina Parisi. . . c’era la segreteria! Allora ho chiamato un taxi e, in poco meno di una decina di

minuti, sono arrivata a casa della mia migliore amica, Beatrice, nonché mia compagna di danza.

Appena ha aperto la porta, ho cominciato a raccontarle tutto quanto e lei è rimasta senza parole; in

effetti anch’io ero tristissima. Per fortuna, non ero sola, avrei cominciato a gridare dalla rabbia!!!

Dovevamo trovare una soluzione a tutto questo… ma come?!? Per prima cosa, abbiamo deciso di

scoprire chi fosse il nuovo proprietario, per questo ci siamo dirette nuovamente verso il teatro.

Sapendo che non saremmo mai riuscite a entrare dalla porta principale, siamo andate sul retro, ma

anche quella porta era chiusa; ormai si stava facendo buio e, tornate sulla strada principale, abbiamo

deciso che ci avremmo riprovato il giorno seguente. All’inizio, volevamo tornare subito a casa, ma

poi, appena ci siamo avvicinate alla panetteria “La baguette”, abbiamo sentito quell’odore di pane

così succulento che non abbiamo potuto resistere alla tentazione di entrare. Aperta la porta della

panetteria, ho notato al bancone la fidanzata di mio zio, un famoso imprenditore; l’ho salutata e lei

è venuta subito ad abbracciarmi (a dirla tutta, non la sopportavo molto, ma non volevo sembrarle

scortese); mi ha subito detto che lo zio aveva un nuovo progetto su cui lavorare: un teatro da

distruggere, per farne un centro commerciale. Mi sono illuminata! Ho salutato la compagna di mio

zio, ho afferrato Beatrice e sono corsa fuori dalla panetteria; lei mi stava dietro mentre cercava di

capire dove stavamo andando; siamo arrivate in pochi minuti nella via dove si trovava la casa di mio

zio (o almeno così mi è sembrato); non appena ci siamo trovate davanti alla sua porta, intuendo che

era ancora al lavoro, abbiamo capito che non potevamo entrare perché non avevamo le chiavi:

volevo spiegargli che, quel teatro, per molte persone era veramente importante e doveva rimanere

lì, a Milano. Abbiamo pensato di entrare in casa dalla porta finestra, che affacciava sul giardino, ma

la siepe bloccava il passaggio; ho notato una finestra aperta e, utilizzando una scala che abbiamo

trovato nel garage accanto al cortile, siamo salite fino al secondo piano, intrufolandoci nell’ufficio

di mio zio. Il computer era ancora acceso e per questo ne abbiamo approfittato: evidentemente,

aveva cominciato a scrivere una mail al vecchio proprietario del teatro, dicendo che i lavori di

demolizione sarebbero iniziati dopo qualche giorno e chiedendogli quando sarebbe tornato al teatro

per riprendere alcuni costumi e oggetti di scena, rimasti negli spogliatoi; abbiamo dato un’occhiata

a qualche altra e-mail e . . . certo!Il vecchio proprietario era il signor Brown! Quando aveva comprato

il teatro, pochi giorni dopo, aveva già fatto conoscenza con tutti gli alunni della scuola; potevamo

benissimo andare da lui e scoprire il perché della vendita. Era tardi e, perciò, abbiamo preferito farci

ospitare per la notte a casa di mio zio; siamo uscite dalla porta finestra e abbiamo fatto il giro del

giardino, abbiamo suonato il campanello e ha aperto la porta la donna delle pulizie, ormai diventata

la “proprietaria della casa”: mio zio lavorava continuamente e passava poco in tempo in casa; se

c’era, stava nel suo ufficio a lavorare! La signora delle pulizie ci ha fatto accomodare in una camera

fantastica, ma noi non facevamo che pensare al teatro e a come sarebbe andata a finire. Non

avevamo dormito nemmeno qualche minuto, dovevamo andare dal signor Brown per convincerlo a

riprendersi il teatro; sapevo che non sarebbe stato un gesto molto carino nei confronti di mio zio,

perché avrei rovinato tutto il suo progetto, ma quella era la cosa giusta da fare. Con l’autobus siamo

arrivate a casa del Signor Brown; sapevamo dove si trovava perché, con le nostre insegnanti, ci aveva

invitate per il pranzo; senza neanche suonare, ci ha accolto in casa sua e ci ha subito offerto qualcosa

da bere. Aveva un’aria piuttosto triste, probabilmente per la storia del teatro; gli abbiamo detto di

sapere che aveva venduto il teatro a mio zio e gli abbiamo anche domandato il perché. Abbiamo

insistito e ci ha confessato il motivo: non poteva più permettersi di organizzare tanti spettacoli al

mese, i suoi conti erano in “rosso” e, a malincuore, era stato costretto a metterlo in vendita; appena

aveva visto l’annuncio, mio zio aveva fatto un’offerta; purtroppo, il signor Brown aveva dovuto

accettare l’offerta! Dovevamo convincere il signor Brown a ricomprare il teatro, prima che fosse

raso al suolo. L’unico problema era il fatto che ora il teatro apparteneva a mio zio e non sapevamo

cosa avremmo potuto fare; per prima cosa, dovevamo convincere il signor Brown, ma su questo non

c’era da preoccuparsi, era sicuramente una persona piuttosto remissiva: infatti, dopo qualche

supplica, ha detto che avrebbe accettato di mantenere viva la memoria del teatro . . . fantastico!

Almeno una parte del nostro “piano” era stata potata a termine. A quel punto, abbiamo pensato di

dirigerci verso la casa di mio zio per spiegargli che non poteva distruggere il teatro e che

successivamente, il vecchio proprietario avrebbe riavuto il teatro nelle sue mani, ovviamente

ricomprandolo. Qualcosa però è andato storto. Appena mio zio ha aperto la porta di casa e ha visto

me, Beatrice e il signor Brown, ci ha sbattuto la porta in faccia! Probabilmente, perché era stufo di

averci in casa sua (come avrete capito mio zio è una persona piuttosto egoista e non sempre molto

gentile). Allora ho pensato di andare al teatro per cercare di fermare i lavori, ma ho subito lasciato

perdere: come facevano a venirmi certe idee! Siamo ritornati a casa del signor Brown tutti e tre

tristissimi, nel viaggio di ritorno nessuno a spiccicato una parola. Siamo rimasti a casa sua per ore,

senza concludere nulla; dopo poco, sarebbero iniziati i lavori di demolizione e noi non avevamo

trovato nessuna soluzione! :- Aspettate, i lavori di demolizione, certo!- Ho urlato talmente forte che,

probabilmente, mi hanno sentita anche dalle altre case del quartiere, ma non mi importava; :-Vi

spiego: fra qualche ora al teatro si svolgerà un grande evento, in occasione nel quale mio zio darà il

via all’inizio dei lavori; possiamo presentarci lì e parlare a nome di tutti i ballerini del teatro, cercando

di fermare gli operai prima della demolizione!-: Loro erano piuttosto perplessi ma, poi, hanno capito

ciò che volevo fare. Così, mentre loro cercavano di informarsi sull’evento, io scrivevo un discorso da

fare a tutti i cittadini che sarebbero andati allo spettacolo. Dopo poco eravamo già pronti, siamo

usciti dalla casa del signor Brown e siamo saliti velocemente in macchina; eravamo in largo anticipo

ma, naturalmente, la strada per andare al teatro era bloccata dal traffico, per questo ci avremmo

impiegato un bel po’ per arrivare al teatro. Ero agitatissima e quei pochi minuti mi parevano infiniti,

non sapevo cosa sarebbe successo, dopo la lettura del mio discorso; noi speravamo che i cittadini

avrebbero cambiato idea riguardo alla demolizione del teatro e alla costruzione del nuovo centro

commerciale, ma questo non era per niente sicuro; ero molto preoccupata! A un tratto è arrivata

una folata di vento e il foglio con il mio discorso, che tenevo tra le mani, è volato via! Ecco un altro

imprevisto! Il signor Brown ha accostato sul lato della strada e io e Beatrice siamo scese dalla

macchina, rincorrendo il foglio, non potete sapere che imbarazzo! Il vento portava il foglio sempre

più in alto ma non ci siamo arrese e continuavamo a correre; finalmente si era fermato: il vento ha

poggiato il foglietto sul marciapiede, noi l’abbiamo raccolto, siamo tornate alla macchina e ci siamo

dirette ancora una volta verso il teatro, questa volta in ritardo! Il signor Brown ha parcheggiato la

macchina sulla strada opposta a quella in cui si trovava il teatro; dovevamo solo attraversare la

strada e saremmo arrivati ma, sfortunatamente, gli operai stavano posizionando le sbarre,

dopodiché nessuno sarebbe più potuto entrare. Il semaforo era rosso, ma noi non abbiamo badato

a ciò; fulmineamente e mentre tutte le altre automobili continuavano a suonare il clacson, abbiamo

raggiunto il teatro! Ora dovevo solo leggere il mio discorso! Tutti i presenti aspettavano

impazientemente l’arrivo di mio zio per l’annuncio dell’inizio della demolizione; io non sapevo come

attirare la loro attenzione, perciò ho improvvisato: sono salita sul piccolo palco che gli operai

avevano montato fuori dal teatro, ho afferrato un microfono e ho cominciato a parlare: - Salve a

tutti, so che aspettate l’annuncio dell’inizio dei lavori di demolizione, ma io sono qui per farvi

riflettere su tutto questo-. Ho respirato profondamente e ho ricominciato il mio discorso: - Questo

teatro per molte persone è molto importante, anche a me piacciono molto i centri commerciali, ma,

onestamente, preferisco che il teatro rimanga qui!-. Ho lasciato cadere il foglio e mi sono lasciata

andare: - Chi è, sinceramente, che non vorrebbe più il teatro? Per molte persone, come me, sarebbe

un sogno ballare in questo meraviglioso teatro, e voi volete distruggerlo?!? Prima di ciò vi chiedo di

pensarci bene!-. E’ piombato il silenzio. Forse il teatro sarebbe veramente rimasto lì . . . e così è

successo! A un certo punto la gente ha cominciato a gridare: -Lasciate lì il nostro teatro!!!Lasciate lì

il nostro teatro!!! Mi è ritornato finalmente il sorriso! Ce l’avevamo fatta! Nessuno più voleva

costruire il nuovo centro commerciale, compresi mio zio e tutti gli operai. A questo punto ogni ruspa

ha indietreggiato e il signor Brown è salito sul palco, mentre la folla lo acclamava: tutti sapevano chi

fosse, ossia non più il vecchio proprietario; infatti mio zio aveva deciso di lasciar perdere il suo

progetto e di accettare il fatto che il signor Brown volesse riacquistare il teatro. Così anche lui è

salito sul palco insieme ai suo operai e ha annunciato che il teatro da lì in poi sarebbe stato di

proprietà del signor Brown, il quale è stato subito felicissimo della notizia e, dopo qualche affare, si

è ripreso il teatro!!! L’evento era fantastico e io, Beatrice e il signor Brown eravamo più felici che

mai! Quella stessa sera ho interpretato la protagonista nello spettacolo che aspettavo da tutta la

vita: il mio sogno si era realizzato!!!

CLASSE 2° D

ALESSIA CAMURRI

UNA VACANZA IN CAMPEGGIO Erano iniziate da poco le vacanze estive e, per il giovane detective Shinici Kudo, era il giorno della partenza per il campeggio. Con lui, a passare quella settimana nel bosco, vennero il suo vicino di casa, il signor George Smith, la sua migliore amica Luisa con il padre, anche lui detective, Luigi Piumieri, un'amica di Luisa, Marta, e il fidanzato di Marta, Federico. Partirono la mattina alle otto per poi arrivare a destinazione due ore dopo. Scesero dall'auto felici di essere arrivati. Luigi disse subito: “Ragazzi, state ben a sentire. A cinque chilometri da qui, andando verso nord-ovest, c'è un piccolo negozio che ha di tutto. Quindi, se avrete bisogno d'aiuto potremo andare là, ma solo in caso di vera urgenza! Capito?”. I quattro ragazzi annuirono e iniziarono a sistemare le loro cose, mentre Luigi e George si riposavano un pochino. Shinici fu il primo a finire di montare le tenda e sistemare le sue cose; quindi, andò ad aiutare, Luisa

che non aveva ancora capito da che parte bisognava iniziare a montare la tenda. Passò qualche ora, quando i ragazzi iniziarono ad avere fame. Svegliarono i due dormiglioni e iniziarono a pranzare all'aria aperta. Mentre mangiavano, nessuno di loro riuscì a non notare la bellezza della natura che li circondava e si chiesero come non fossero riusciti, fino ad allora, ad apprezzare un tale spettacolo. Finito di mangiare, insieme, decisero che sarebbero andati a fare un bel giro nel bosco, per passare il tempo ed ammirare la natura. Circa dieci minuti dopo, erano tutti in cammino, sorridenti ed attratti da ogni cosa insolita che incontravano nel bosco. Più andavano avanti, più si allontanavano dal loro campo. Ma, ad un certo punto, Shinici venne attratto da qualcosa dietro a un cespuglio. Senza avvisare nessuno, si avvicinò e, dietro a questo cespuglio, trovò il cadavere di una donna. Gli altri, notando che Shinici non era più tra loro, iniziarono un po' a preoccuparsi, ma, tornando indietro, lo trovarono chino a terra intento ad esaminare qualcosa dietro a un cespuglio. Avvicinandosi a lui, Luisa gli disse: “Ma che cosa fai! Almeno potevi dir...” Luisa smise di parlare per la sorpresa, il disgusto e l'orrore dell'immagine della donna che aveva davanti. La donna presentava sul viso tagli profondi e un occhio le era stato tirato fuori dall'orbita. Davvero orribile, per non parlare del corpo. Indossava un camice per i pazienti dell'ospedale tutto insanguinato .... ma le mancavano le gambe! A quel punto, Luisa non riuscì più a trattenersi e vomitò dietro a un albero. George andò a soccorrere la ragazza, mentre il padre, Luigi, si avvicinò a Shinici. Anche lui, appena vista la vittima, ebbe un senso d'orrore, ma ormai ci era abituato. Scelse, insieme a Shinici, che lui sarebbe rimasto lì con i ragazzi, mentre Shinici sarebbe andato insieme a George al negozio a cercare aiuto. Shinici e George corsero al negozio e, appena entrati, sentirono quell'odore di pane che fece rinascere in loro un po' di fame. I due, ignorando il richiamo del pane, chiesero alla commessa: “Scusi se la disturbiamo, ma le volevamo chiedere se gentilmente può chiamare la polizia e magari passarci il telefono. É molto urgente”. La ragazza non esitò, perché percepì nelle loro voci che di certo non si trattava di qualcosa di banale. Quindi, prese il telefono, chiamò la polizia e passò loro il telefono. Al telefono rispose il commissario, che disse a Shinici: “Buongiorno. Qui il commissario del distretto di Ternoilasu. Desidera?” Shinici allora rispose: “Salve, sono io, il detective Kudo. La chiamavo per chiedere se poteva venire al Gran Bosco, dove ho trovato il corpo di una di una donna. Anzi mi raggiunga qua, per favore, al negozio vicino al bosco, in via Scolsi. La aspetto al più presto possibile insieme a una squadra e ai medici, per esaminare bene il corpo e per avere più informazioni sulla morte della vittima.” Detto questo, chiuse la chiamata, ma, visto che non riuscì più a trattenersi, prese una pagnotta del pane che avevano appena fatto al negozio. George e Shinici si gustarono il pane e, dopo una decina di minuti, arrivò il commissario con la migliore squadra di poliziotti e il medico federale. Shinici guidò tutti attraverso il bosco, fino al luogo dove avevano trovato il corpo. Appena arrivati, il commissario salutò tutti cordialmente e disse al medico che poteva già iniziare ad esaminare il corpo della vittima. Come prima cosa, però, fece delle foto, poi scoprì il corpo della vittima. Sotto al camice era nascosto il modo in cui la vittima era stata torturata. Aveva il ventre diviso in due da un profondo taglio, fatto con un bisturi. Da questo taglio fuoriuscivano le viscere della povera donna. Poi, le gambe le erano state tagliate con una sega elettrica, constatò il dottore, prima che la vittima fosse già morta. Fatte le foto al corpo e ai dintorni, il medico portò via, con un'ambulanza, il cadavere. Le indagini erano già iniziate. Sia Shinici e Luigi, sia il commissario, vedendo il corpo della vittima, avevano capito che l'assassino era lo stesso dei due casi di omicidio di qualche giorno prima. L'unica cosa che sapevano sull'assassino era il mestiere, ossia il chirurgo in un ospedale. Supposero questo, perché tutti i tagli sui i corpi delle vittime trovate erano molto precisi, anche se non ne erano del tutto certi. Fatte queste osservazioni, tutti decisero che era ora di fare, o meglio continuare, il loro giro nel bosco, ma, stavolta, per cercare indizi conducenti all'assassino. Stavano cercando indizi da soli dieci minuti, quando Shinici trovò un foglio di carta incastrato nella spaccatura di un albero, non troppo lontano da dove avevano trovato il corpo. Lo prese e chiamò gli altri, che si misero intorno a lui, aspettando che lo leggesse. C'era scritto: “Salve

detective, so che mi state cercando; per questo vi do un indizio. Se trovarmi volete, al più vecchio albero del bosco andar dovrete”. Ora sapevano dove potevano trovarlo, ma, tra tutti gli alberi che c'erano, come facevano a scoprire qual era il più vecchio? Questo sì che era un problema, ma il commissario conosceva tutte le persone di quella città e sapeva già dove andare: dal vecchio Albert, l'uomo più saggio della città, che sapeva tutto di tutti e ancora di più. Ad arrivare fino alla casa di Albert non fu un problema abitava a qualche chilometro da lì, ma decisero di andarci in auto. In appena due minuti si trovavano già di fronte alla casa del signore. Entrarono, chiedendo gentilmente permesso, visto che la casa di Albert era una specie di salotto chiuso da qualche tenda, e trovarono Albert seduto al centro del salotto, che stava meditando. Il commissario lo svegliò dal suo stato di trance e, sempre con saluti e cordialità, chiese quello che volevano sapere. Il vecchio Albert, come immaginava il commissario, sapeva esattamente dove si trovava l'albero e li accompagnò fino là, circa a dieci minuti dalla casa. Arrivati davanti a questo albero, non trovarono nulla, ma si misero comunque a cercare qualche indizio. Come prima, trovarono un biglietto, però, stavolta, spillato all'albero, che lo portava come una medaglia con su scritto: “Buonanotte commissario. E anche a voi Shinici e Luigi”. Letto il messaggio, si guardarono attorno, ma non successe nulla. All'improvviso, come una saetta, Albert prese un bastone e colpì in testa Luigi e il commissario, che caddero a terra come due corpi senza vita. Stava per colpire anche Shinici, che, invece, aspettandosi questo suo scatto, schivò il colpo. Come aveva potuto scartare l'ipotesi che l'assassino fosse proprio Albert? Ora non importava, doveva solo cercare di scappare e chiedere aiuto a qualcuno. Corse più veloce che poteva fino a ritrovarsi in una strada. Intanto, Albert lo stava raggiungendo e, stavolta, teneva un bisturi al posto di un bastone in mano! Shinici era terrorizzato e scelse di ripercorrere la strada, che aveva fatto andando verso l'albero. Corse giù per quella strada e, quando si girò, Albert era ancora più vicino di prima; quindi, scelse di fermarsi lì e aspettare che il destino facesse il suo dovere. Quando il vecchio lo raggiunse, sollevò il bisturi al cielo, ma, quando lo stava per piantare nel petto di Shinici, questi lo bloccò e glielo tolse dalle mani. Avendo lui l'arma, ora Shinici non si sentiva impaurito come prima, ma la buttò via e sbatté il vecchio a terra. Per fortuna, si portava dietro sempre delle fascette, in modo da essere sempre pronto per ogni evenienza. Lo ammanettò usando una fascetta e lo portò con lui, fino a dove c'erano gli altri. Qui i poliziotti lo portarono via e, riferendosi a Shinici, disse: “Te la farò pagare, stupido ragazzino! Tu hai messo in carcere mia figlia per niente! Appena uscirò di prigione, dovrai stare attento e guardarti alle spalle!”. Shinici intuì che era stato lui da tre indizi: - da giovane aveva fatto il chirurgo, quindi sapeva dove incidere i tagli; - aveva riconosciuto la sua scrittura, o, almeno, in parte; - conosceva tutto di tutti e come funzionava o si trovava qualsiasi cosa. Ma perché ce l'aveva con lui? Risposta semplice: aveva mandato la figlia in carcere per un delitto, il cui responsabile non era lei, ma lo stesso Albert. Il vecchio voleva talmente bene alla figlia, che, ora, non la rivedrà più per tutta la sua vita. Shinici Kudo: personaggio ispirato alla serie televisiva Detective Conan, ideato da Gosho Aoyama. GIULIA CORRADINI

ORIZZONTI INFINITI DI EMOZIONI

21 marzo 1991

Finalmente sono a casa. È da tutto il giorno che attendo questo momento. Lo so, ora mi chiederai

che cosa ci sia di tanto entusiasmante nell'essere sdraiati sul proprio letto a guardare fuori dalla finestra. Te lo spiego subito, caro amico di carta: oggi inizia la primavera! Non fare quella smorfia, dai. Non capisci? Oggi, proprio qui, davanti alla mia finestra, passeranno migliaia di rondini in viaggio dall'Africa. È da un anno che aspetto questo momento, che, secondo i miei accurati studi, si verificherà tra cinque minuti esatti. Guardo l'orologio: i secondi passano lenti, con quell'aria che ti fa saltare i nervi. Ma diamo tempo al tempo. Mancano sessanta secondi. Apro la finestra. Quaranta secondi. Nella mia camera entra una leggera brezza profumata; chiudo gli occhi e inspiro profondamente. Dieci secondi. Sento il leggero profumo delle margherite appena sbocciate, misto a una dolce freschezza. Cinque secondi. Apro gli occhi. Il cielo è terso, pronto ad accogliere lo stormo di rondini in viaggio. Ed ecco che da dietro la collina appaiono gli ospiti tanto attesi. Che gioia! Mi appoggio al davanzale della finestra e osservo: ogni rondine sa perfettamente cosa fare; ogni rondine sa perfettamente che schema seguire, che direzione prendere. È tutto istinto.

22 marzo 1991

Appena arrivata a casa, mi arrampico sulla grande quercia che domina tutto il parco. Mentre salgo su, accarezzo dolcemente i rami del maestoso albero e lo ascolto: sento la linfa che pompa nelle sue vene a 100 km/h. Mi arrampico ancora più su, fino al ramo più alto, quello in cui sono sbocciati i primi fiori. Ed ecco che, tra le foglie, si nasconde timidamente un piccolo nido. L'ho costruito io, assieme ai miei genitori, quattro anni fa. Ed è da quattro anni che, ogni primavera, ospita una famigliola diversa. Oggi, sono salita fin quassù, proprio per controllare chi sono i nuovi inquilini. Tendo l'orecchio. Il garrito stridulo di due o tre rondinini affamati mi punge il timpano. Il cuore mi batte forte per l'emozione, ma trattengo la curiosità e torno giù: non voglio spaventarli. Scesa dalla quercia, mi distendo sul morbido letto di candide margherite, che, come un velo profumato, copre tutto il parco e mi appisolo. Sogno di volare. Adoro questo sogno, perché mi permette di fare ciò che la realtà mi proibirebbe. Per le leggi della fisica, in relazione al mio peso e alla mia struttura, io non potrei mai librarmi nell'aria come una farfalla, l'unica cosa è che nel mondo dei sogni questa regola non esiste e, quindi, volo lo stesso. Quello che voglio dirti, caro diario, è che se la nostra vita fosse basata su regole matematiche e fisiche, non potremmo fare assolutamente nulla, non avremmo la possibilità di osare, di fare ciò che ci piace, di provare nuove strade. Se non impariamo prima a sognare, non potremo mai imparare a vivere nella realtà.

21 dicembre 2011–18:30

A volte mi chiedo se è tutto destino. Seduta vicino al finestrino dell'aereo, guardo lo stormo di rondini in viaggio verso l'Africa, proprio come me. Se qualcuno mi guardasse con una macchina capace di decifrare le emozioni e associarle ai colori, io sarei individuata come una piccola macchia bianca: in questo momento, sto provando tutti i sentimenti di questo mondo, sono di tutti i colori che, mischiati e sovrapposti tra loro, danno come risultato il candido colore che affascina tutti noi... il bianco. Sì, nello stesso istante sono speranzosa e tesa, serena e impaurita, allegra e nostalgica. Io me l'aspettavo, non ho avuto sorprese da me stessa; sapevo che, come dopotutto ogni essere umano, sarei stata contemporaneamente impaurita e curiosa di questo viaggio verso l'ignoto. Ma chi è realmente questo “Ignoto” e perché intimorisce tutti noi? Ecco, caro diario, questa misteriosa entità è qualcosa che fa molta paura all'uomo, perché a quest' ultimo non si è mai rivelata e non intende farlo; ed è proprio per questo che, contemporaneamente alla paura, suscita in lui una grande e incontenibile curiosità.

22 dicembre 2011-ore 4:00

Sono stanca morta! Il volo è stato terribile, pieno di turbolenze, vomiti e pianti. Fortunatamente, adesso sono arrivata a destinazione. Ma andiamo con ordine, amico di carta, prima ti racconto come ho fatto ad arrivare fin qui. Camminavo per l'aeroporto di Dar es Salaam (Tanzania), col volto coperto

dal cappuccio del giaccone, in cerca della mia valigia e del bus che mi avrebbe dovuto portare a Iringa. Non si vedeva nulla, era completamente tutto nero, l'unica cosa che risaltava nel buio della notte erano i brillanti occhi degli africani. Dopo circa sei ore di spintonate, corse, urla e cadute, riuscii a individuare il mio dala dala (una specie di bus per una decina di persone), ma non la mia valigia. Tu non puoi capire quanto mi sentissi sola e persa, senza niente di mio accanto; la distanza e il distacco dalla mia famiglia si faceva sentire sempre di più. Comunque, salita finalmente su questo macchinino, mi accasciai sul primo sedile che incontrai, ma non dormii neanche per soli cinque minuti. Ora la stanchezza si era messa un po' in disparte, sostituita dallo stupore per quello che vedevo. Ogni venti, trenta minuti, il dala dala si fermava e caricava un certo numero di persone. Dopo solamente un'ora, la sorta di bus, in cui ero finita, conteneva una trentina di persone, pari al triplo della sua capacità massima. La cosa da non credere era però un'altra: nonostante non si respirasse, nonostante fossimo tutti appiccicati, da nessuna bocca uscivano proteste o lamenti, ognuno si adattava. Non faccio il paragone con il comportamento di noi occidentali in questi particolari casi, perché, altrimenti, ne uscirebbe una sfilza di critiche che vorrei evitare. Alle 17:00, finalmente, il tabellone del dala dala comunicò questo messaggio:

IRINGA

(INDUSTRIAL AREA)

I miei occhi si illuminarono e il mio cuore si riempì di gioia. Ero quasi arrivata a destinazione! E, cosa più importante di tutte, ero in un'area industriale! Con qualche piccola gomitata a destra e a sinistra, mi catapultai giù dal minibus. Così, nuovamente con i piedi per terra, mi guardai attorno speranzosa, in cerca di qualcosa di familiare (supermercati, ospedali, vetrine). Ma l'unica cosa che differenziava quella città da Dar es Salaam era la presenza di un po' più di automobili, di alcune capanne (che gli indigeni chiamano “le case dei ricchi”), decorate con ciondoli e altre cianfrusaglie, e di quell'odore del pane fresco, appena uscito dal forno. Hai presente quando si passa troppo velocemente da temperature equatoriali a temperature artiche, o viceversa? Ecco, in quel momento, è come se fosse successo questo, o quasi. In quel momento, il mio corpo passò da una gioia troppo eccitante a una desolazione incolmabile. E fu quello l'istante in cui mi posi quest'essenziale domanda: “Ma io, banale medico occidentale, che ci sto a fare qui? Dove caspita sono finita?” Sì, caro diario, il mio primo impatto fu quello di mollare tutto e tornare a casa, dalla mia famiglia. Come l'angelo Lucifero, le mie aspettative erano calate nel posto più buio dell'inferno, dalle stelle alle stalle. Ma proprio quando stavo per mollare definitivamente la mia missione in Africa, sentii dei colpetti sulla mia spalla, seguiti da una carezza dolce, di conforto. Mi voltai di scatto, ma non vidi nessuno. Ma a me non importava chi fosse stato, l'unica cosa che contava era che, grazie a quel semplice gesto di non so chi, riacquistai la speranza e il coraggio. Ora, caro diario, non importa come io sia riuscita ad arrivare dalla caotica Iringa a questo paesino isolato, l'unica cosa che conta è che, finalmente, sono arrivata a destinazione.

17 febbraio

Oggi sono di nuovo qui, sull'aereo, con sentimenti contrastanti come durante il viaggio di andata. Le due emozioni che prevalgono sono la nostalgia e l'allegria. Ora, però, a differenza della partenza, ho nostalgia della famiglia che ho trovato laggiù, che mi ha trattato come una di loro; ho nostalgia del paesaggio indimenticabile della Tanzania, ricco di colori stupendi; ho nostalgia dell'amore di quella terra e della sua forza di vivere. Scusa se non ti ho scritto durante la mia permanenza in Africa; è che, durante il giorno, avevo tantissimo da fare: dare un bacino sul naso a tutti i bambini dell'orfanotrofio (così si usa dare il buon giorno), aiutarli a vestirsi e a lavarsi, giocare con loro... E quando arrivava la sera, la mia mente era troppo occupata a elaborare nuove emozioni attribuibili a quello che avevo vissuto durante la giornata. Scusami ancora. Finalmente è caduta quella lacrima indecisa e preoccupata che riposava incerta sulla mia palpebra. La assaggio: sento il sapore salato dell'allegria misto a quello dolciastro del dolore e della nostalgia della casa che ho appena lasciato.

18 Febbraio

Cari Boni, Jusufu, Goody, Gyfty, Liliani e Rhubi,

sono Marta, quella ragazza che è venuta quest'estate a trovarvi. Vi sto scrivendo dall'Italia, con la matita che mi avete regalato voi. Ecco, ora sto pensando a quei bei momenti vissuti assieme, a quando, la sera, passavo a darvi la buonanotte e voi rispondevate con una risata che sprizzava gioia da tutti i pori. Sto pensando a quando giocavamo assieme con bambole rotte o bici senza ruote, giochi che in Italia sarebbero stati immediatamente cacciati nel bidone della spazzatura. Sto pensando alle emozioni che si provano lì, sentimenti profondi, che corrono fino alla linea dell'orizzonte infinito, a differenza di quelli che si provano nei paesi industrializzati, dove le emozioni finiscono subito, sbattendo contro il muro di un palazzo grigio. E mentre penso a tutte queste cose, rido come se ridesse la vita stessa. Siete stati un vero esempio di vita!

Grazie!

Ecco, questa è la copia della lettera che il 21 dicembre legherò alla zampa di una rondine in viaggio verso l'Africa, nella speranza che arrivi ai miei amici.

LEONARDO COZZANI

LA MIA CITTÀ

Buongiorno io sono Dante, non Dante Alighieri, ma Bertucci. Ho dodici anni e vivo a Bologna, la mia

città, che adoro tanto e oggi sono qui dal 1300 per raccontarvi la mia giornata. Ogni mattina mi

sveglio, sentendo quell’odore del pane fantastico fatto dalla panetteria “Cioni”, che sta sotto casa

mia e inonda di profumo la mia stanza. Adoro quell’odore e, infatti, prego la mamma tutti i giorni di

farmi scendere a prendere una pagnotta calda per fare colazione e, quando mi dà il consenso, per

me è una festa. Ho la fortuna di vivere in una famiglia benestante, perché mia madre fa la sarta per

il suo negozio di sartoria, il più rinomato di Bologna; mentre mio padre lavora in una conceria,

anch’essa di grande prestigio. Durante la settimana, in alcuni giorni, lavora come mercante di stoffe.

Comunque torniamo a noi… Dopo colazione, esco di casa e vado a scuola presso l’Arcivescovado in

San Pietro, dove mi insegnano a scrivere e a leggere la Bibbia. Uscito da scuola, vado diretto da mia

nonna, che abita poco lontano, in via dei Banchi, e che adora cucinare e, dato che vive nel cuore del

mercato, ha sempre prodotti freschi per preparare manicaretti. Bologna è una città molto viva e già

si contano decide di osterie. La casa dei miei nonni è molto grande e arredata da mobili in vecchio

stile (ah aha!!!). Anche la nonna era una sarta ed ha insegnato il mestiere a mia mamma, mentre il

nonno era un soldato, che passa le sue giornate a raccontare storie. Adoro stare con loro, perché

posso sentire i loro racconti, soprattutto quelli del nonno, che sono avvincenti. Uscito da casa dei

nonni, mi metto in cammino per andare a trovare prima mamma in bottega, che mi usa come

manichino per provare i capi e, poi, papà, che, nei giorni della conceria, mi fa fare un giro del

laboratorio e mi spiega tutti i modi per conciare le pelli. Nei giorni di commercio, spesso vado con

lui e ho la possibilità di entrare nei più importanti palazzi di Bologna, abitati dalle grandi famiglie di

commercianti e nobili. Nel pomeriggio inizio a girovagare per la città, passando per le vie e i canali

dove la gente svolge tutte le attività artigianali con grande fermento ma, alla fine, mi trovo sempre

a guardare il cantiere della nuova cattedrale, che, dicono, diventerà più grande di San Pietro di

Roma. La gente, che mi conosce, dice che io sono già un “umarell”, a Bologna, è il vecchio curioso,

un po’ perditempo, che insegna agli altri il loro mestiere! Sapete, una volta stavo passeggiando per

via Indipendenza e poof!! Spunta il Vescovo con le guardie … fantastico! Dopo aver fatto un gran

giro per le pittoresche e rumorose strada di Bologna, mi fermo sempre alla più antica bottega di

carni, “Tamburelli”, dove lavora mio zio Nazareno. Lui, sottobanco, mi allunga sempre un panino

all’arrosto, ottimo per riempire lo stomaco. Bello sazio, corro fino a piazza Santo Stefano, dove mi

incontro con i miei amici; con loro, gioco tutto il pomeriggio a fare gare di corsa, ma, purtroppo, con

la pancia piena, rischio tutte le volte di vomitare. Dopo lo svago, torno a casa da mamma e papà e

chiacchiero con loro sulle cose successe in giornata e poi ceniamo. Dopo mangiato, gioco ancora

con papà e, purtroppo, è ora di spegnere le candele e andare a letto. La mia città trasforma le mie

giornate in momenti unici e meravigliosi e sono certo che diventerà importante e potente e mi

auguro di fare parte della sua Storia.

ARIANNA DE CARO

LA BAMBINA CHE VOLEVA VOLARE

C'era una volta una bambina che voleva volare, ma non poteva, perché non era un uccello o un

insetto… era semplicemente un cucciolo d‘uomo; questa cosa non le andava proprio giù. Doveva

trovare il modo di volare, doveva sconfiggere quelle sciocche regole scientifiche, che non le

permettevano di fare ciò che voleva. Passava tutte le sue giornate a fare vari tentativi: per esempio,

un giorno, quando stava andando a scuola, come era suo solito fare, passò vicino a un bel parchetto,

chiamato da tutti “Il parco delle tartarughe” perché, appunto, pieno di questi simpatici animali; ma,

non soffermiamoci su questi inutili dettagli e saltiamo, non alle conclusioni, bensì sull’altalena, come

fece quella bimba. Appena si trovò comodamente seduta su quello strano giocattolo, iniziò a

puntare in alto, su, sempre più su, finché, quando stava per fare un giro della morte, si buttò

dall’altalena e distese le braccia, iniziando a planare pericolosamente verso una pozzanghera di

fango: conclusione, si risvegliò in un lettino di ospedale: “Ho volato! Ho volato!” Iniziò a urlare. Fatto

sta che l’infermiera disse: “Sì, è proprio un caso grave!”. Appena guardò il lettino accanto, la piccola

ebbe un sussulto: aveva un fanatico di Einstein come vicino di letto; lei odiava gli scienziati, proprio

perché pensava che fosse colpa loro se lei non poteva volare. Da cosa capì che l’altro venerava

Einstein? Semplice: aveva, fra le coperte, sotto il letto… libri di Einstein su libri di Einstein; inoltre,

non era difficile capire che quel bambino era molto geloso dei suoi libri, ma la curiosità della

bambina superava persino la gelosia. Quando il bimbo andò in bagno, lei trovò subito il modo di

placare la sua insaziabile curiosità: prese in prestito il primo libro che le capitò sottomano, uno con

la copertina verde. Tornò nel suo comodo letto e aprì una pagina a caso, senza badare né all’inizio

né alla fine e vide, scritta in grassetto, la seguente frase: La struttura alare del calabrone, in relazione

al suo peso, non è adatta al volo ma lui non lo sa e vola lo stesso, Albert Einstein. Così chiuse il libro

e, felice, lo riportò al suo posto. Poi si sdraiò e iniziò a pensare: “Neanche io ho il peso adatto, però

potrei volare come il calabrone. Peccato che non abbia le ali! Me le devo assolutamente procurare!

Tanto più che ora ho gli scienziati dalla mia parte…”. Chiuse gli occhi ancora più forte e immaginò

un paio d’ali piccole piccole, come quelle del calabrone e poi se le mise addosso e iniziò a …volare!

Sì, perché aveva appena indossato le ali della fantasia, che ti portano lontano lontano, e neanche la

scienza le può fermare. Così aprì la finestra e, leggera leggera, volò fino a un piccolo paesino e le

parve di sentire un odore di pane: quell’odore del pane appena sfornato, che, di solito, le preparava

la sua adorata nonnina, ma, appena aprì la porta di quella che doveva essere la casa della nonna, al

posto della solita nonna gentile, trovò un lupo cattivo, che voleva essere buono. Allora la bambina,

con molta pazienza, prese in braccio il lupo (era leggero più di una piuma), e, sempre volando, lo

portò in un supermercato, dove videro una dolce vecchietta, che chiese loro dodici centesimi per

comprare alcune mele. Senza quei soldi, non avrebbe potuto comprare le mele e senza mele, niente

torta di mele per i nipotini, che ci sarebbero rimasti molto male, visto che la desideravano così tanto!

Il lupo egoista non glieli voleva dare, ma la piccola bimba gli fece capire che non sarebbe mai

diventato buono, se fosse stato così egoista… Il lupo, alla fine, diede quei pochi centesimi all’anziana

nonnina: non sarebbe mai più stato cattivo. Sempre volando, arrivarono in un parco, dove un

signore era sdraiato a terra: di sicuro si era rotto una gamba. Il lupo, che, grazie alla sua piccola

nuova amica era diventato buono, lo aiutò ad andare all’ospedale. Dopo aver accompagnato il

signore, la bambina capì che doveva tornare alla realtà, perché non si può stare sempre tra le

nuvole! Salutò il suo grande nuovo amico e lo rassicurò che presto, molto presto, sarebbe tornata

da lui…

GIULIA DUCA

SECONDA GUERRA MONDIALE: TRA PASSIONI E AMORE

Per scrivere questo racconto immaginario ho preso spunto da quello che mi ha raccontato la mia cara nonna della sua esperienza e da vari libri che ho letto come “Il bambino con il pigiama a righe” e “Ultima fermata: Auschwitz”. 5 agosto 1943 Oggi è il mio compleanno ma da tre anni non lo festeggio più perché siamo troppo poveri. Sono Matilde, una ragazzina italiana di 12 anni, magra, bassa, con capelli lunghi e biondi ed occhi scuri. Di solito sono solare e vivace e la scuola mi piace (sono anche brava!) ma, spesso, rimane chiusa a causa dei bombardamenti. Il mio sogno più grande è suonare il pianoforte ma, purtroppo, mamma e papà non riescono a pagare le lezioni. Ho due sorelle, Beatrice, 15 anni e Virginia, 7 e due fratelli gemelli di 4 anni,Niccolò e Stefano. Viviamo in un grande condominio vicino al centro di Bologna. La nostra casa è piccola per ospitarci tutti; però, è accogliente. Dormo in camera con le mie sorelle, in una stanza gigante color rosa antico; i nostri letti sono distanziati da dei comò; ci sono un grande armadio, una libreria e un grandissimo tavolo adibito a scrivania. Tempo fa c'era anche il mio pianoforte (regalatomi dalla mia insegnante di piano), ma i miei genitori lo vendettero perché avevano pochi soldi. Mia mamma lavora per dei soldati tedeschi e il mio papà ha una panetteria. Oggi mi hanno fatto proprio una bella sorpresa! Appena sveglia, ho trovato la sala decorata da disegni e, sul tavolo, c'era una bellissima torta di mele, un pacchetto e un bigliettino. Beatrice mi ha spiegato che si era tenuta da parte qualche spicciolo e, con l'aiuto di Virginia e della

mamma, mi sono andate a prendere il regalo, hanno preparato la torta e hanno chiamato tutti i miei amici più cari per una festa al parco: un compleanno più bello che mai! La festa è stata bellissima e, a fine serata, ho accumulato un sacco di regalini: una moneta di cioccolato, un fiocco rosa, un vestito fatto a mano, un diario, un libro, un ciondolo antico e un sacco di bigliettini. Insomma, oggi è stata una giornata memorabile! 8 agosto 1943 Il campanello sveglia me e le mie sorelle. Mamma apre la porta e spunta un ragazzo ebreo di circa l'età di Bea, che ci supplica di nasconderlo a casa nostra, perché vogliono mandarlo in un posto detto “campo di concentramento”. La mamma accetta e subito lo sistema nel ripostiglio. Il ragazzo, che poi ho scoperto chiamarsi James, è un ragazzo eccezionale e penso che Bea si sia già presa una cotta! Quando sono andata da lui,mi ha raccontato che cosa è un “campo di concentramento” e mi ha spiegato che ce n'è uno, il più terrificante, in Polonia, chiamato “Auschwitz”. Ma è terribile! Perché dover fare tutte queste cattiverie ingiuste agli Ebrei? Non so perché lui sappia di “Auschwitz” e del fatto che quando ti portano nei vagoni, in realtà, non ti portano a lavorare, ma a morire (dato che lui mi ha raccontato che nessun ebreo dovrebbe saperlo); però non gliel'ho chiesto, perché per oggi avevo già saputo abbastanza. 1 settembre 1943 Stamattina sono venuti i soldati a perlustrare la casa, così abbiamo nascosto James in mezzo ai vestiti. Ora lui e Bea sono fidanzati! Virginia è in panetteria con papà, invece Stefano e Niccolò stanno giocando in camera loro. Sono venuti a chiamarmi i miei migliori amici Milly, Laura, Nicola, Giuliana e Gabriele (il mio fidanzato) perché hanno organizzato un picnic, così ho preparato una cesta e i miei risparmi (dato che ognuno se li era portati), poi siamo usciti e ci siamo avviati per la via principale, fermandoci in macelleria e dal fruttivendolo. A Giuliana è venuta l'idea di andare in panetteria da mio padre, così siamo entrati e...quell'odore del pane ci ha fatto venire un sacco di fame! Appena il mio papà ci ha visto, ci ha donato del pane, poi mi ha presa da parte per dirmi di non dire niente di James e di stare attenti ai soldati. Si è anche raccomandato di scappare assolutamente nei rifugi, se avessimo sentito suonare le sirene! Il picnic è andato benissimo: abbiamo mangiato tutto e, quando è suonata la sirena, ci siamo nascosti nel rifugio e poi siamo tornati ognuno a casa propria. 6 novembre 1943 Incredibile! Oggi sono successe un sacco di cose! Sono andata a scuola, poi un soldato, che è venuto a perlustrare la casa, ha scoperto James, ma non lo ha portato via, però si è raccomandato di nasconderlo meglio: il soldato più buono del mondo! Inoltre la mia insegnante di pianoforte, Lisa, ha convinto i miei genitori a farmi partecipare al corso di piano, perché sarebbe stato gratuito. Ricomincerò a suonare e sono contentissima! 7 novembre 1943 Oggi è iniziato il corso di piano ed è stato bellissimo!

Lisa per me è come una seconda mamma. La sua casa è bellissima e gigantesca, mi ha offerto un tè e mi ha chiesto di raccontarle di quest'ultimo periodo. Le ho raccontato tutto (tranne la presenza di James) e ora sto molto meglio: mi sento come liberata! Poi, mi ha proposto di partecipare a un concorso di pianoforte davanti ad una giuria e io ho accettato ben volentieri! 9 novembre 1943 Sono tristissima. Gabriele mi ha lasciata, perché si è innamorato di una ragazza ricca e perché, secondo lui, non gli davo più attenzioni a causa del corso di pianoforte. Ho provato a giustificarmi, ma...niente da fare, tra noi è finita! 21 dicembre 1943 Oggi è stato il giorno del concorso e, stamattina, ero agitatissima, perché non mi sentivo abbastanza preparata. Mentre la mamma con le mie sorelle è andata a comprare dei vestiti eleganti da pochi soldi con i loro risparmi, papà è stato a casa dal lavoro per provare più volte il suo completo elegante, che non mette da ben 20 anni! Mi sono allenata tutto il giorno a casa di Lisa ma non mi sentivo comunque pronta. Mi ha rassicurato molto incontrare mamma, papà, le mie sorelle e i miei fratelli mentre prendevano i posti: erano molto eleganti e facevano il tifo per me! Appena entrati i giudici in sala, ho provato una paura...e, nonostante la paura, non ci crederete ma ho vinto! In palio c'erano tantissimi soldi, che ho condiviso con la mia famiglia, e un pianoforte nuovo, che ho messo in camera: sono troppo felice! Al termine del concerto ho notato che in sala c'erano anche i miei migliori amici e Gabriele, anche se appena mi ha vista, è scappato... 25 dicembre 1943 Oggi è Natale! Abbiamo preparato un grande pranzo natalizio e abbiamo invitato i nonni, i cugini e Lisa! Ci siamo scambiati i regali e sono riuscita a farne a tutti, perché avevo risparmiato una parte dei soldi vinti al concorso. Ho ricevuto in dono un nuovo spartito, un libro, dei vestiti fatti a mano, un quaderno, una foto di me col piano, un mio ritratto e io e le mie sorelle abbiamo ricevuto una nuova scrivania da condividere! 2 gennaio 1944 Oggi Lisa è venuta a casa nostra per spiegarci che, grazie al concorso vinto, sono richiesta in un sacco di città, per andare a studiare pianoforte e per partecipare ad altri concorsi più importanti. Mi ha proposto di andare con lei a Bruxelles, per continuare questa mia passione e ha detto che pagherebbe tutte lei le spese. Io ho accettato, ma, purtroppo, i miei genitori no; pensano che sia troppo presto e che sarebbe una responsabilità troppo grande, inoltre devo rimanere a casa per aiutare...sono molto arrabbiata con loro e non parlerò più loro per un sacco di tempo! 20 gennaio 1944 Che paura! Oggi c'è stato un sacco di bombardamenti e i soldati stanno iniziando a svuotare le case anche di noi italiani. Sono tristissima...casa mia è vuota e tutti stanno piangendo.

Hanno trovato James e l'hanno portato via e Beatrice è voluta andare con lui, perché sarebbe stata troppo male! Ok, ho capito...la mia vita va a rotoli: mia sorella maggiore e il suo fidanzato stanno andando incontro alla morte e presto ci andremo anche noi; Gabriele non mi ama più e non posso andare a Bruxelles con Lisa a coltivare la mia passione! 3 marzo 1944 Non ci crederete mai ma oggi sono tornati Bea e James! Hanno detto che quando si sono trovati nei camion pieni di gente, hanno improvvisato un piano di fuga nel giro di qualche secondo e si sono buttati giù. Poi hanno preso la strada di casa, si sono fermati in un parco a dormire e il giorno seguente sono ripartiti. Sono così contenta che siano tornati, anche se hanno sentito dai soldati che prepareranno tra qualche mese il bombardamento definitivo: il più grande. 3 novembre 1944 Stamattina mi sono svegliata di colpo, perché ho sentito arrivare i soldati tedeschi! Ho capito subito: ci sarebbe stato il colpo definitivo, che avevano predetto James e Bea! Dovevo fare qualcosa, ma tutti dormivano. Non potevo morire! Stavano entrando nel mio condominio, quindi, di corsa sono andata a svegliare mamma, papà, James, le mie sorelle e i miei fratelli e siamo scoppiati tutti a piangere! Per fortuna, a papà è venuto in mente che nella soffitta condominiale c'è una stanza con la porta, che si mimetizza con il resto del muro. Siamo corsi lassù e abbiamo trovato dei nostri vicini; siamo rimasti nascosti, finché tutto è finito; poi siamo scesi, siamo andati per strada e abbiamo trovato tutto vuoto e bombardato...sicuramente, molta gente è stata mandata nei campi di concentramento. Che tristezza! Però, col passare del tempo, sempre più gente è tornata per strada ed ecco che ho ritrovato i miei amici. Che felicità! Si erano salvati! Lisa, i nonni, i miei cugini e anche Gabriele: ero ritornata felice dopo tanto tempo! 25 aprile 1945 Oggi la guerra è finita! L'Italia è stata liberata dai nazisti, non ci posso credere! Mentre giro per strada, c'è una grandissima calma e non si sente più l'atmosfera della paura che c'era fino a poco tempo fa. Stamattina le strade (che erano tutte distrutte) si sono riempite dei cittadini sopravvissuti del quartiere e tutti insieme abbiamo festeggiato! 5 maggio 1945 Da oggi la vita è tornata quasi come prima: non siamo più poveri, Beatrice e James stanno per diventare genitori, Gabriele si è fidanzato nuovamente con me, la mamma è stata riammessa nell'ospedale, in cui lavorava come infermiera prima della guerra, la scuola è ricominciata regolarmente e...la cosa più bella, quella che aspettavo da più tempo: mamma e papà mi lasciano andare a Bruxelles con Lisa! Bè, posso dire che con oggi la mia vita ha ricominciato ad avere un senso e il mio sogno più grande nel cassetto si sta per realizzare!

LORENZO GIURLANDA

QUELL’ODORE DI UN FUTURO MIGLIORE

Amatrice, 24 agosto 2016, ore 03:36. L’Italia ancora una volta colpita dal terremoto, centinaia di

morti e feriti nelle zone del Lazio, Marche, Umbria e Abruzzo. Nella notte la terra ha tremato diverse

volte: la prima scossa è stata registrata alle 03.36, con epicentro ad Accumuli in provincia di Rieti,

Lazio, con magnitudo 6,0, e ha fatto svegliare di soprassalto e buttato giù dal letto moltissime

persone in tutto il Centro-Italia e non solo. Pochi minuti dopo, altre scosse di assestamento ad

Amatrice (03:56), Norcia (04:33), Arquata del Tronto (05:17) … con magnitudo minori, tra il 4/5 sulla

scala Richter. Ecco le parole drammatiche del sindaco di Amatrice: "Il paese non c'è più. Sotto le

macerie ci sono decine di persone”. Come si può dedurre dalle parole del sindaco Sergio Pirozzi,

molti paesi colpiti, fra cui Amatrice, sono stati distrutti. Ecco il fatto di cronaca che ha fatto diventare

il mio paese “famoso” in tutto il mondo. Mi chiamo Andrea Leoni, ho appena compiuto 10 anni e

abito ad Amatrice. L’articolo di cronaca che avete letto prima è solo uno dei tanti che si possono

trovare sui giornali. Ma nessuno potrà mai capire e provare quello che io, la mia famiglia e gli altri

sfortunati abbiamo passato. Ogni anno i miei cugini trascorrono parte delle vacanze estive a casa

mia. Quel maledettissimo giorno ero molto felice, perché mia mamma mi aveva detto che nel tardo

pomeriggio sarebbero arrivati gli zii Carmela e Federico e i miei cugini Stefano e Lucia. Il clima che si

provava in città era frizzante e gioioso, perché gli hotel si stavano riempiendo di turisti provenienti

da tutta Italia e non solo, per la cinquantesima Festa degli spaghetti all’amatriciana, che si sarebbe

tenuta il 27 e il 28 agosto e per cui le strade iniziavano ad abbellirsi. L’arrivo dei miei parenti e la

festa di paese mi caricavano a mille, ero euforico. Subito dopo che la mamma mi ebbe dato la lieta

notizia, corsi nella mia cameretta a riordinare il caos che regna ogni giorno e a pensare a cosa

avremmo potuto fare in queste settimane insieme, prima dell’inizio della scuola. Si fecero le 17:30

e i miei parenti sarebbero arrivati nel giro di mezz’ora. Io e papà andammo in stazione ad aspettare

il loro treno proveniente da Milano, mentre mamma restò a casa a finire di riordinare e spolverare

e a iniziare a preparare il cenone, com’è ormai tradizione fare in casa nostra. Anzi, forse è una

“fissazione” di mamma, perché quando arriva l’amica fa il cenone, quando arriva il fratello fa il

cenone e così via con tutti i parenti. Ma torniamo a noi. Il treno arrivò con un leggero ritardo e

questo significava che per tutti noi quella sarebbe stata una serata ricca di polemiche. Infatti, sapete

cosa disse zia Carmela appena mise piede fuori dalla scaletta del treno? “Quando veniamo da voi, il

treno è sempre in ritardo!” Comunque fu bellissimo rivedere Stefano e Lucia. Arrivati a casa, invitai

subito altri tre miei amici. Indovinate… partitella a calcetto tre contro tre nel parco dietro casa. Dopo

cena, ci chiudemmo in camera a giocare alla PlayStation, a parlare di scuola, di come erano andate

le vacanze, di fidanzate/i… insomma, cose da ragazzi. Andammo a letto con tanti bei progetti per

l’indomani. L’unica cosa sicura e su cui eravamo d’accordo era che nel pomeriggio saremmo andati

a casa di nonna per aiutarla a preparare tutto ciò che le sarebbe servito per la festa e per cucinare

la buonissima pasta all’amatriciana. Ma, durante la notte, i miei sogni furono interrotti da una strana

sensazione. Per un momento pensai che fossi ancora immerso nel mondo dei sogni, poi vidi il

comodino di fianco al mio letto e i soprammobili sulle mensole sopra il televisore cadere come

fossero dei pesi morti, qualche piccola crepa formarsi sulle pareti della mia stanza e, infine, quando

sentii le urla della mamma, capii che si trattava di qualcosa di molto più serio e pericoloso di quanto

potesse essere un sogno. Dopo poco, il mio papà mi prese in braccio e tutti quanti corremmo in

strada. Ancora frastornato, vidi tutti i miei amici e vicini anche loro in strada. Poi, proprio mentre

stavo per chiedere al mio papà cosa fosse successo, sentii un forte boato. Mi girai e intravidi, tra il

polverone che si levò in aria, la mia casa ridotta in macerie. La mia mamma iniziò a piangere e ad

urlare dalla disperazione, il mio papà sconvolto come i miei zii e i miei cugini fortemente impauriti.

Vidi la gente correre da tutte le parti, i primi mezzi di soccorso arrivare e altre case ridursi in povere

e macerie. Poi, mi ricordai che in mezzo a tutte queste persone, ambulanze, macchine della polizia,

case… non avevo visto una persona a me molto cara, mia nonna. Senza dire niente e badare a

nessuno, mi misi a cercarla. Corsi di qua e di là, urlai il suo nome, chiesi a chiunque se l’avesse vista,

fino a quando non la vidi camminare disorientata; probabilmente ci stava cercando anche lei. La

presi per mano e la portai verso i miei genitori. Per fortuna non le era successo niente! Tutti

parlavano di un terremoto… un FORTE terremoto. Pensate che ero talmente sconvolto, che non

riuscivo neanche a rispondere ad un “Tutto bene Andrea?” Sapete perché non riuscivo a rispondere

a niente o a scambiare una parola neanche con mio cugino Stefano? Perché ero sconvolto da tutto

ci , dal fatto che non avevo mai visto dal vivo niente di quello che mi stava circondando, perché capii

che, oltre ad essersi ridotto in macerie metà paese, c’erano anche molte vittime, perché pensavo a

dove e come saremmo andati a vivere adesso che sia la nostra casa che quella di mia nonna erano

ridotte in polvere, perché avevo perso i miei giochi e i miei libri, perché vedevo la mamma piangere

mentre il mio papà la rassicurava, perché anche la struttura comunale dove io e tutti gli altri ragazzi

del paese ci incontravamo ogni pomeriggio non aveva resistito al terremoto. Anche la scuola era

caduta… insomma avevamo perso tutto e questo mi rendeva triste e impaurito. Durante il giorno

arrivò la protezione civile con delle tende: ecco quale sarebbe stata la mia nuova casa, una tenda!

Alcuni sopravvissuti erano andati ad aiutare i soccorsi per trovare le persone disperse, mentre altri

aiutarono a scaricare e a posizionare le tende; purtroppo, non bastavano per tutti e alcune famiglie

vennero portare in palestra. La mia nuova casa era tutta blu, dall’aspetto freddo, impersonale; stavo

male, perché mi faceva ripensare alla mia casa e a ciò che avevo perso, ma, ovviamente, mi dovetti

accontentare, non avevamo scelta. Nel frattempo, la mia mamma e tutti gli altri si ripresero ma

rimanemmo tutti lo stesso ancora un po’ frastornati. Le tende erano una accanto all’altra e

sembrava un accampamento militare. Lo stato in cui vivevamo era minimale, il cibo veniva

distribuito in pirofile dai volontari, che cercavano di non farci mancare l’essenziale. I giorni erano

noiosi e trascorrevano velocemente. Quelli che se la passavano “meglio”, eravamo noi bambini. In

fondo, non avevamo tutti quei pensieri che hanno i genitori, il lavoro, la casa, la nostra salute… noi

ci raggruppavamo e coloravamo, giocavamo a palla, insomma, cercavamo di non pensarci.

Facevamo disegni per cercare di rendere più allegre le nostre tende, che per me era solo un riparo

dove mangiare e dormire. Non mi piaceva affatto. Ogni mattina mi svegliavo con la speranza di

ritrovarmi nella mia vecchia casa. Non mi restava altro che andare avanti e aspettare fino a che non

ci saremmo spostati in una nuova abitazione. Man mano che i giorni passavano, le giornate

diventavano ancora più pesanti di quanto già non lo fossero prima e, in più, il freddo dell’autunno

iniziava a farsi sentire. Fino a quando… Era un martedì di fine settembre e, come ogni mattina, mi

svegliai accanto ai miei genitori e a mia nonna. Mi vestii svogliato e con il muso lungo, pensando che

anche quel giorno mi sarei annoiato e che mi dovevo inventare qualcosa per non giocare sempre a

calcio, disegnare, passeggiare… Uscii dalla tenda per andare a chiamare i miei amici, perché ormai i

miei cugini erano già tornati da tempo a Milano ma, all’improvviso, sentii un profumo piacevole e

molto familiare. Non riuscivo a capire di cosa si trattasse, mi intrigava, e così decisi di andare in giro

per il paese per capire da dove provenisse. Vidi un gruppetto di persone dentro ad un locale; era

privo di insegna, perché probabilmente era caduta per colpa del terremoto. Preso dalla curiosità,

entrai e vidi Peppino il panettiere che stava sfornando pane, pizze e focacce fresche in quantità.

Indovinate un po’?! Sì, proprio così, si stava festeggiando per la riapertura della storica panetteria

di Amatrice del signor Peppino. Ecco da dove proveniva quel profumo buono e familiare!

Quell’odore del pane significava speranza e rinascita per ricostruire le nostre vite e per tornare a

quello che eravamo prima. Tutto ciò mi fece ricordare prima del terremoto, quando io e mamma

andavamo sempre a comprare il pane e la merenda dopo la scuola. Ma non era tempo per i vecchi

ricordi drammatici e commoventi, dovevo andare a chiamare mamma e papà e tutte le persone del

paese, perché Peppino era l’unica persona che con la sua voglia, il coraggio e la determinazione era

riuscito a riaprire la sua attività. Un piccolo grande passo verso la ricostruzione del nostro paese e

delle nostre vite.

GIULIA GOBBI

IO, ALEA E ELECTIS

Mi chiamo Andrea e vorrei raccontarvi questa storia vera. Circa cinquant’anni fa, mi imbattei per

caso in un vecchio e strano signore; egli vestiva in un modo strano, originale direi. Mi parve subito

simpatico e così, in poco tempo, riuscii a fare amicizia con lui. Questo signore, che si chiamava

Electis, mi raccontava spesso storie di una terra meravigliosa, che lui diceva impossibile da

raggiungere a chi non ha il cuore puro. Tutte leggende di un vecchio, pensavo io. Un giorno in cui mi

ero allontanato dalla mia città, Electis mi spedì una lettera urgente, che diceva di tornare subito da

lui. Decisi allora di andare a vedere cosa stava succedendo. Due giorni dopo, trovai Electis

malandato, come se non avesse dormito per giorni. Appena gli domandai spiegazioni, lui mi disse

con il suo sguardo da bambino: “Finalmente sono riuscito ad aprire un varco, Andrea! Capisci?!

Questa scoperta cambierà tutto! Forse non è troppo tardi per salvare tutti!”. Ora sì che ero confuso.

Cominciai a osservare il suo lavoro: andava qua e là per tutta la stanza, scrivendo appunti che a me

risultavano assurdi. Dopo un po’, mi convinsi a chiedergli cosa stava facendo e lui mi disse solo

questo: “Non adesso, tra poco capirai tutto.” Alle nove in punto di quel giorno, la stanza si illuminò

di una luce insolita, seguita dall’ apertura di un portale che portava in un mondo stupendo, quello

che tante volte avevo sentito descrivere dal mio amico: la civiltà di Terpax. Electis attraversò quel

portale e io, per paura che potesse succedergli qualcosa, lo attraversai dopo di lui. Che paesaggio

stupendo vidi quando mi guardai intorno: alberi ovunque e natura incontaminata, un mondo

stupendo che non riuscirei a descrivere tutto neanche se vivessi per cent’anni. Ci incamminammo

nel folto della foresta. A un certo punto ci apparve una meravigliosa città: alberi-casa, piante che

conversavano allegramente, uomini felici… tutto questo era incredibile, visitai per curiosità un

negozio, esso aveva quell’odore del pane che emanava il pane di mia mamma. “Amico mio, questa

è Terpax. Tu ti sei fidato di me, entrando nel portale senza sapere a cosa andavi incontro, ma io

posso fidarmi di te? Promettimi che non dirai a nessuno ciò che hai visto e che ora vedrai.”

E io glielo promisi con un piccolo cenno del capo, troppo sbalordito per parlare. “Ora, caro amico

mio, è il momento delle spiegazioni: io sono nato da un papà terrestre e una mamma terpaxiana,

ma non una mamma qualsiasi, bensì proprio la regina di questo posto. Quando ero piccolo mi

narrava di antiche leggende, la maggior parte delle quali parlava di un uomo che avrebbe dovuto

decifrare gli scritti che solo gli alati possono leggere per scoprire la tana dell’Animale.” A questo

punto lo interruppi chiedendo: “Che cos’è l’Animale?”. Lui mi spiegò così: “L’Animale era un uomo

malvagio, che riuscì ad entrare in questo mondo e a impossessarsi della Pietra Rubra, una pietra che

fa funzionare il nostro pianeta ma che permette anche di mutare forma. Purtroppo quell’uomo la

ingoiò e si trasformò in una creatura mostruosa, che, però, nessuno ha mai visto; o, chi l’ha visto,

non è mai riuscito a raccontarlo. Senza la pietra questo mondo sta andando in decadenza e presto

non rimarrà più niente di questa città. Ad ogni modo ho scoperto il significato dell’indovinello e so

cosa dobbiamo fare: sorvolare con un ippogarofano le linee di Zanca e tradurre il significato”. “E tu

sai già come neutralizzarlo, vero?” chiesi io; “In realtà no, ma conto sul fatto che un’idea mi verrà

per strada”. “Fantastico” pensai tra me e me. E così partimmo per il viaggio. Arrivammo in un grande

campo di fiori magnifici (che poi scoprii che erano ippogarofani). Electis urlò: “Qualcuno di voi

potrebbe portare me e il mio amico nella tana dell’Animale?”. Nessuno si fece avanti. “Offro una

grossa ricompensa!”. Si fece avanti un fiore che disse: ”Io potrei accompagnarvi, a me e alla mia

famiglia un po’ di soldi farebbero comodo. Riuscirò a rendermi utile. Allora, quando si parte?”

“Anche subito”. Pronunciate quelle parole ci apparve una meravigliosa creatura: con delle ali fatte

di piume d’oro e argento e un corpo stupendo e ben modellato, era l’ippogarofana più bella che

avessi mai visto, se fosse stata un’umana l’avrei di sicuro sposata. Ella si chiamava Alea. Spiegò le ali

per farci salire. “Prossima tappa, le linee di Zanca!”. La piccola Alea si innalzò in aria e cominciò a

volare. Durante tutto il volo, imparammo a conoscerci di più: Alea l’ippogarofana era sì, umile, ma

con un carattere fortissimo e coraggiosissimo. È proprio vero quello che si dice: nella botte piccola

c’è il vino buono; e, nel caso di Alea, il vino era di prima qualità. In soli dieci minuti avvistammo le

linee di Zanca e Alea si fermò in aria per permetterci di osservare. “Ho capito! Vai alla Punta dell’Orso

e scava dove alla fine del giorno il suo sguardo volge e metti il tesoro nell’occhio della bestia!

Dobbiamo andare a Ferremons prima del tramonto. Presto, presto!” E così ripartimmo. Durante il

viaggio, vedevo Electis molto concentrato e assente, così non lo disturbai. Quando arrivammo, Alea

atterrò e Electis cominciò a scavare in una zona d’ombra. Non avendo trovato niente, passò da uno

stato di euforia a uno stato di tristezza assoluta. Non sapevamo più cosa fare. Ma Alea ebbe

un’illuminazione: “Che sciocchi siamo stati! Quando il sole tramonta, proietta l’ombra della

montagna dietro di conseguenza, noi dobbiamo scavare nel punto opposto a quello in cui abbiamo

scavato prima!”. Una luce di speranza si accese sul volto di Electis: “Presto, venite tutti con me!” e

cominciammo a scavare nel punto che ci indicò. Scava e scava, alla fine trovammo un cofanetto blu

con rifiniture dorate. Dentro ci trovammo una piccola chiave d’oro. “Si incastra perfettamente nel

buco in cima alla montagna!” dissi io. “Perché è proprio così che deve essere” replicò Electis.

Incastrammo la chiave nella fessura e si aprì un passaggio segreto. Appena entrammo, notammo

subito che quel posto doveva essere stato chiuso al resto del mondo da anni: muffa a non finire,

ragnatele ovunque e un’umidità pazzesca. “State tutti attenti, potrebbero esserci delle trappole.”

Disse Electis. Per fortuna, non ne trovammo. Ogni tanto alle pareti notavamo dei graffiti fatti da

uomini che sembravano stati fatti da uomini coraggiosi ma impauriti, via via sempre più confusi.

Tutto ad un tratto scorgemmo una luce. Era l’Animale! Era mostruoso: ali enormi, testa da aquila e

corpo di leone, insomma un ibrido tra drago, aquila e leone! Subito ebbi l’istinto di scappare, ma mi

trattenni, perché un solo passo falso e saremmo finiti arrosto! “Allora Electis, hai pensato a come

ucciderlo?” “A dire il vero, sono stato abbastanza impegnato in queste ultime ore e mi sono

completamente dimenticato di questo piccolo, minuscolo particolare.” “Che cosa?!” urlai io. Ahi noi,

cosa avevo combinato! L’Animale era molto sensibile ai rumori e così lo svegliai. Fu l’esperienza più

pericolosa della mia vita: mentre Electis cercava di calmarlo (come se fosse possibile con una

persona-animale, che già è malvagia di suo, figuriamoci poi quando viene svegliata dal suo

riposino!), Alea lo difendeva, facendogli da scudo, poiché era immune al fuoco; e io, l’artefice di

tutto quel caos, ero fermo immobile in un angolino, tutto tremante di paura. La battaglia era al suo

culmine, quando Alea cambiò strategia: oltre a difendere Electis, cominciò a colpire ripetutamente

l’Animale. Ma senza fargli alcun danno. Così, a un certo punto, con una piroetta in aria Alea

attraversò senza paura una fiammata dell’Animale, e gli volò dritta in gola, fino allo stomaco. Tutto

si fermò. All’improvviso, l’Animale si squarciò in due, all’altezza dello stomaco, e ne uscì fuori

un’ippogarofana meravigliosa, coraggiosissima, che aveva affrontato il nemico senza paura,

un’ippogarofana di nome Alea. Subito dopo la sua uscita dal ventre dell’Animale, ormai morto, Alea

stramazzò a terra: con quell’ultimo atto di coraggio, le forze l’avevano abbandonata. Per sempre. Ci

avvicinammo a lei commossi e vedemmo che aveva, incastrata nel becco, la Pietra Rubra. Non

versammo lacrime ma sia a me che a Electis era chiaro che entrambi stavamo piangendo dentro,

ma non lacrime di tristezza, bensì lacrime di gratitudine per Alea, che adesso si trovava sicuramente

in un mondo migliore, acclamata ed esaltata da tutti. Uscimmo dalla grotta dell’Animale senza

proferir parola. Avevamo sepolto Alea al centro della caverna in onore della sua meritata vittoria.

Dopo circa cinque ore di camminata notturna, arrivammo al campo di ippogarofani di Alea.

Comunicammo la notizia della vittoria e della morte di Alea ai suoi genitori, che ebbero la nostra

stessa reazione di quando eravamo alla grotta: orgogliosi ma con un velo di tristezza negli occhi. Li

accompagnammo a vedere Alea un’ultima volta. Dopodiché rimettemmo la pietra al suo posto e

Terpax ebbe una ventata di aria buona, aria di vittoria. Finita la nostra avventura, Electis mi

accompagnò al varco ancora aperto. “Allora questa è la fine.“ dissi io “Non proprio… certo, io devo

stare qui a Terpax, mentre tu devi tornare a casa, ma anche se non potrai raccontare questa storia

a nessuno, se vorrai tornare qui, ti basterà sfregare sul naso questa piuma blu elettrica magica. Ma

ora devi andare, il portale si sta per chiudere”. “Allora, arrivederci”, dissi io, e oltrepassai il varco.

Dopo quest’avventura, vado a trovare Electis quasi ogni mese: adesso ha tre figli e una moglie

stupenda.

MARCO ORLANDI

RICORDI LONTANTI MA VIVI

Nei campi la fame diventa un incubo ed un’ossessione dalla quale è impossibile scappare. Nei lager il cibo distribuito è poco più che niente, generalmente viene dato: un pezzo di pane duro ed ammuffito, un po' di acqua e della zuppa, simile ad una brodaglia, dove galleggiano vermi, piselli secchi e carne avariata. L’unica cosa bella di questo posto è la conoscenza di un altro bambino come me: Eliyahou, che è nato il mio stesso giorno, il 5 maggio 1934, ed è qui insieme alla sua famiglia. Ci facciamo coraggio nei momenti più duri della giornata, quando ci mettono a caricare enormi mattoni su dei camioncini e a radunare i cadaveri al centro della piazza, dove vengono poi bruciati. La visione di questi corpi mentre bruciano mi fa venire la pelle d’oca e, contemporaneamente, il calore del fuoco mi riscalda. C’è molto freddo e siamo costretti ad indossare un pigiama leggero a righe, per distinguerci dalle guardie e per ricordarci che abbiamo perso ogni diritto, proprio come i carcerati, perché è questo quello che siamo. Nel lager la presenza della morte è vissuta con una strana consapevolezza. Tutti sappiamo cosa succede nel forno crematorio, ma noi ragazzi scherziamo sul colore del fumo: bianco significa la morte di gente grassa e nero la morte dei magri. Scappare è difficile, anzi impossibile: oltre alle guardie il campo è circondato da filo spinato, dove la

notte passa la corrente elettrica, mentre di giorno ci divertiamo a chi per primo tocca il filo spinato in assenza della corrente. Un giorno, mentre correvamo verso il recinto, ci fermano due guardie e ci portano davanti a un uomo dall’elegante divisa. Eliyahou parla bene il tedesco, perché il suo papà lavorava in Germania prima di esser portato al campo: è per questo che l’ufficiale lo manda a lavorare come lavapiatti nella cucina, dove vengono preparati i pasti per gli ufficiali tedeschi. Ci separano e io mi rattristo, non so più con chi giocare e mi sento solo. Dopo una settimana, mentre carico sul camioncino i mattoni, vedo da lontano arrivare qualcuno, è lui: Eliyahou. Tutto felice, mi abbraccia e mi porta un pezzo di pane vero, morbido, fresco, profumato. Prima di mangiarlo, lo guardo come se fosse la cosa più bella che io abbia mai visto, un dono prezioso. Eliyahou mi dice d’averlo rubato dalla mensa dei generali tedeschi e, ricordandosi, di quanto piaccia a me il pane, ha voluto portarmelo. È da parecchi mesi che non mangio del pane vero, anzi, qui non si mangia. Inizio a gustarlo a piccoli morsi, assaporandolo lentamente. A occhi chiusi riesco a immaginare quando ogni mattina, per andare a scuola, passavo prima dal fornaio, entravo e sentivo quell’odore del pane caldo che usciva dal forno. Penso agli ingredienti che lo compongono: l’acqua, la farina, il lievito e il sale e come dal mescolamento di questi e dalla bravura delle mani del panettiere si dà al pane tutte le forme che si vogliono. Per un attimo ho dimenticato di essere in un posto infernale e mi son sentito a casa mia. All’improvviso, un rumore assordante interrompe il mio sogno a occhi aperti e mi riporta alla triste realtà. È un colpo di pistola che colpisce Eliyahou, che cade a terra vicino ai mei piedi. Rimango paralizzato dal terrore come se qualcuno avesse fermato il tempo e, quando comincio a capire cosa è successo, mi abbasso verso Eliyahou cercando di aiutarlo. Lo abbraccio forte, lui sembra volermi dire qualcosa, avvicino il mio orecchio alla sua bocca. A fatica riesco a sentire le parole che mi sussurra con la sua voce priva di forza: ‘’Resisti, tra poco saremo liberi. La guerra è finita’’. E smette di respirare. Ho iniziato a piangere e urlare, mentre la gente arriva da tutte le parti per capire cosa sia successo. Come un matto, la guardia che gli ha sparato grida: ‘’Avete visto cosa succede a chi prova a rubare e a scappare?’’. Nessuno osa dire una parola, la paura è più grande della forza e del coraggio e, come se nulla fosse, ognuno riprende a fare ciò che stava facendo. Io continuo a piangere, non so per quanto tempo, forse per ore. E, come ogni giorno, sposto cadaveri: questa volta è quello del mio migliore amico Eliyahou. Non lo porto al centro della piazza a bruciare, ma lo trascino fino al filo spinato, il nostro gioco preferito. Lo lascio lì, coprendolo con una coperta. Due notti dopo, all’improvviso, con la fine della guerra e dell’occupazione nazista, i soldati tedeschi abbandonano il campo, gli americani liberano il lager, i soldati tedeschi rimasti vengono catturati e arrestati e noi siamo liberi. Eliyahou aveva ragione, adesso ho capito: mentre stava lavorando, lui che capiva il tedesco, aveva sentito parlare gli ufficiali della fine della guerra ed era venuto con quel pezzo di pane per festeggiare la bella notizia. Adesso, ogni giorno, quando mi siedo a tavola, prima di mangiare guardo il pane e sento emozioni contrastanti: la gioia della libertà e la tristezza di avere perso un amico.

MARTINA PERRI

STORIA DI SARAH

Il 15 aprile 1989, Sarah, una donna di 62 anni che ha vissuto l’Olocausto più recentemente nominato Shoah, è stata chiamata per raccontare la sua storia ad un gruppo di ragazzi delle scuole medie. Ecco cosa racconta alla classe 3ªB. “Era il 3 febbraio del 1933 e io avevo appena sei anni. In casa regnava il caos. Io non capivo cosa stesse succedendo ma me ne stavo seduta in un angolo della mia stanza ad ascoltare cosa si dicevano mamma e papà, che erano in fondo al corridoio. A dire il vero cercavo solo di capire cosa si dicevano, perché parlavano talmente piano che non si capiva nulla. Le mie due

sorelle maggiori, Anastasia e Adèle, pettinavano i capelli alle loro vecchie bambole, mentre bevevano una tazza di tè caldo. Arthur, mio fratello maggiore, era seduto sulla vecchia poltrona della nonna a leggere il giornale, che aveva acquistato da Armand, un ragazzo che vendeva i giornali a basso prezzo. A Parigi faceva molto freddo e nessuno si azzardava ad uscire di casa, per evitare di ammalarsi. Era da qualche settimana che non vedevo Anne, la mia amica del cuore, e mi mancava moltissimo. Ad un certo punto, qualcuno bussò alla porta. I miei genitori cessarono di parlare. Mi spaventai. Credevo che fosse successo qualcosa e uscii dalla mia camera per controllare. Tre uomini alti e pallidi, con un cappello sulla testa, dissero qualche parola che non riuscii a capire. Io ero ebrea ma abitavo in Francia, quindi conoscevo molto bene il francese e non era la lingua che stavano parlando. Entrarono in casa e ci fecero mettere tutti in un angolo. Anastasia piangeva e Arthur cercava di calmarla ma non ci riuscì. Tutta la famiglia rimase immobile per molto tempo. Per passare il tempo diedi un nome a quei tre uomini: li chiamai Omoni. Dunque, quando i tre Omoni tornarono dal loro giretto in casa mia dissero qualcosa al papà e poi lui lo ripeté a noi. Ricordo ancora le parole esatte che ci disse: “Miei cari, è giunto il momento di farci accompagnare da questi signori in grandi campi insieme ad altri ebrei, così potremo stare con loro e fare nuove amicizie.” All’inizio ero molto eccitata da questa cosa perché forse avrei rivisto la mia amica Anne. Ci caricarono su una specie di furgone, che era molto largo e, una volta chiuso lo sportello, il motore si accese e partimmo. Il viaggio durò molto e io mi annoiai parecchio. La strada non era ben asfaltata e, quando c’erano delle buche, noi saltavamo in aria. Tra l’altro, non era nemmeno tutta dritta. Anzi, era piena di curve, che mi facevano venire il voltastomaco. Dopo circa un’ora, il furgone si fermò e, anche se non sapevo esattamente qual era la nostra destinazione, diventai gioiosa. Ma, quando arrivai, la mia gioia si trasformò in paura. Anastasia, che poco prima aveva smesso di piangere, tornò a farlo disperatamente. Non potevo credere ai miei occhi. Gli Omoni ci diedero dei pigiami a righe che erano sporchi di terra. Poi dissero di nuovo qualcosa al papà e lui lo ripeté a noi: “Miei cari, purtroppo dobbiamo salutarci. Questa gente ci dividerà. Io andrò insieme agli altri uomini, la mamma con le altre donne, Arthur andrà con i ragazzi della sua età e Anastasia e Adèle anche. Tu, piccola Sarah, andrai in un campo molto più grande del nostro con tanti bimbi uguali a te.” Scoppiai a piangere. Anastasia perse i sensi e, quando si svegliò, piangevamo tutti. Non avevo mai visto Arthur piangere, ma, se lo faceva, era perché stava per succedere qualcosa di molto brutto. Dopo molti baci e abbracci mi strapparono ai miei cari. Urlai, mi dimenai, ma tutti i miei sforzi non servirono a nulla. Mi misero dentro a questo campo, che era circondato da dei fili di ferro con delle spine attaccate. Non osai toccarle. Appena entrai nel campo, vidi in lontananza la mia mamma. Comincia a chiamarla ma non mi sentì. Si stava allontanando a bordo di un carro guidato da uno dei tanti Omoni che giravano lì intorno. In lontananza, riuscii a vedere dove si era fermato il carro: sembrava una doccia molto grande, dove entrarono tutte quelle donne che erano insieme alla mia mamma, compresa lei. All’inizio ero contenta per lei, perché pensavo che si sarebbe fatta una bella doccia calda ma, dopo venti minuti, né lei né le altre donne erano uscite da quella doccia. Si sentirono urla e grida provenire da lì dentro. Su tutto il campo si espanse nell’aria un forte odore di gas. Per quanto fossi piccola, capii che quella doccia era piena di fuoco o gas. Subito mi ricordai che la mamma era entrata lì dentro poco prima. Mi misi a piangere. Tutti gli altri bambini mi guardarono sbalorditi, come se tutto fosse normale. Nessuno si era mai avvicinato a me prima d’allora, ma stavo bene anche da sola, perché ero una bambina molto timida e riservata e non facevo amicizia con la prima persona che vedevo. Mi addormentai turbata sul terreno umido e bagnato dalle mie lacrime. Mi svegliai con il suono di un fischietto, che durò un minuto e mezzo. Mi parve di diventare sorda. Erano arrivati nuovi bambini, che si sfogarono in pianti disperati, che sembravano non finire più. Passarono i giorni. Le mie giornate erano tutte uguali. Molti bambini, appena arrivavano, venivano portati nelle stesse docce in cui era stata portata la mia mamma pochi giorni prima. Per me era diverso. Quando venivano a prendere i bambini per portarli alle docce, non mi vedevano. Forse perché ero piccola e

mingherlina o forse perché rimpiangevo ancora la morte di mia mamma, standomene sdraiata tutto il giorno dietro ad una roccia enorme. Uscivo solo alla mattina per rubare agli altri bambini un pezzo dell’unico cibo, che ci davano solo due volte al giorno: il pane. Quella mattina presero almeno i due terzi dei bambini, che erano nel campo, ancora prima di far fare loro colazione; quindi, quando gli Omoni arrivarono per dare del cibo a noi rimanenti, mangiammo di più, perché gli altri se n’erano andati. Quell’odore del pane mi fece venire l’acquolina in bocca ma cercai di trattenermi, perché anche gli altri erano affamati. Finita la mia porzione, me ne tornai dietro la mia roccia a contare il numero di spari che si sentivano frequentemente. Ormai ero abituata, perché abitavo lì da qualche settimana. Era da tanto che non vedevo papà, Arthur, Anastasia o Adèle e mi chiedevo se fossero ancora vivi…Ero molto preoccupata, anche se sapevo che non avrei potuto fare nulla per aiutarli. Mi chiedevo come facessi ad essere ancora viva. Non mi sembrava vero! Per un attimo sorrisi un pochino ma smisi subito, quando sentii di nuovo quel fastidioso odore di gas. Ero pronta per immergermi ancora nei miei pensieri, ma qualcosa attirò la mia attenzione: tra i fili intrecciati pieni di spine, c’era un buchino molto piccolo, in cui forse riuscivo a passare grazie al mio fisico magro e minuto. Studiai a lungo come fare per uscire senza farmi vedere dagli Omoni che mi avrebbero presa e messa nella doccia ma arrivai ad una conclusione. Appena si fossero distratti, io sarei corsa via, stando attenta a non farmi male e, quatta quatta, sarei uscita. Ma, purtroppo, il mio piano non prevedeva di salvare il resto della mia famiglia. Con un peso nello stomaco, decisi che quello era il piano giusto per scappare e mettermi in salvo. Un giorno, successe qualcosa che mi sconvolse. Uno dopo l’altro, vidi tutti i membri della mia famiglia, tranne la mamma, avanzare, con le mani legate, verso la doccia più grande al centro del campo. Scoppiai in lacrime e, sbattendo i pugni contro i fili, mi tagliai. In quel momento, le uniche cose a cui pensavo erano tre: dolore, tristezza, paura. Mai in tutta la mia vita avevo visto tante persone morire in una sola volta. Ero rimasta sola, com’era possibile!?! Tutta la mia famiglia…era morta. Rimasi a bocca aperta ma la richiusi subito, quando avvertii il sapore del gas entrarmi in gola. Ora, l’unica cosa da fare era uscire di lì e tornare a Parigi. Una mattina, finalmente, tutti gli Omoni erano impegnati ad uccidere un numero esagerato di persone, che secondo loro non servivano a niente. Presi la porzione di pane che mi spettava ed uscii di corsa. Passai per un ufficio grande e cupo, che era vuoto e buio. L’unica cosa che c’era era un quadro con un Omone che aveva il braccio teso verso l’alto con la mano aperta e le dita strette tra loro. Non mi soffermai troppo a lungo e continuai a correre. Arrivai all’entrata dei campi con il fiatone e non mi sembrò vero: nessuno mi aveva notata! Corsi, corsi e corsi per almeno quattro o cinque ore, fino a che non arrivai davanti ad una casetta graziosa. Una ragazza curiosa mi chiese:” Come ti chiami, piccola?” E io le risposi:” Sarah. Mi potrebbe dire che città è questa?” E lei:” Certo, qui siamo a Parigi. Ti sei persa?” Io impaurita risposi:” Sì, ma a dire il vero sono scappata da quei campi, dove ci sono gli Omoni che portano le persone a fare la doccia. I miei genitori sono entrati lì dentro e non sono più usciti e anche tutti i miei fratelli.” La ragazza sbalordita rispose:” Tu sei riuscita a scappare dai tedeschi? Io, io non ci posso credere! Vieni dentro, ti offro una tazza di tè.” Dopo questa breve conversazione, nacque un’amicizia tra me e la ragazza, che si chiamava Angelique e che non dimenticherò mai. Ora lei è molto anziana ma per me resta comunque una seconda mamma, che mi ha cresciuto e mi ha aiutato a diventare grande. Certo, nella mia vita ho vissuto molti momenti di paura e terrore e devo dire che, ancora oggi, la mia famiglia mi manca moltissimo, ma sono contenta di poter condividere la mia esperienza con tanti ragazzi come voi, che hanno piacere di ascoltarmi. Spero che la mia storia vi sia piaciuta e che non sia stata troppo dolorosa! Grazie e ci vediamo alla prossima, ciao!”.

Quella giornata, per i ragazzi della 3ªB, fu una giornata interessante e piena di emozione e Sarah riuscì a trasmettere loro le stesse emozioni, che provò lei quando aveva vissuto la sua storia.