antichità romane pdf

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1 Antichità romane Anno 20122013 Prof.ssa Scuderi Lezione 1 26 Febbraio 2013 L’agricoltura Era l’unico lavoro apprezzato nel mondo antico, nella letteratura leggiamo solo apprezzamenti. Ci è pervenuto poco di quello che è stato scritto, eppure ci sono pervenuti trattati di agronomia, anche scaglionati nel tempo. Abbiamo trattati di agronomia dal II sec. a. C. con Catone, fino al IV sec. d.C. cioè Palladio. Anche un poeta, cioè Virgilio, nelle Georgiche elogia l’agricoltura, queste ultime sono pure organizzate come i trattati agrari: - primo libro dedicato alla coltura dei cereali, - il secondo libro riguarda la coltura della vite, - il terzo libro è incentrato sull’allevamento di bestiame, - il quarto libro concerne l’apicoltura. Il primo agronomo è Catone (234-149 a.C.) autore del più antico trattato agronomico romano, il De agricultura. L’unica cosa che Catone voleva che si salvasse di Cartagine è un trattato agronomico molto ampio che a noi non è pervenuto, ma molto apprezzato dal mondo romano. Di questo sappiamo dal libro XVIII di Plinio che il senato si preoccupò di farlo tradurre in latino da esperti di lingua punica. Il De agricoltura di Catone è stato scritto nella prima metà del secondo secolo e ci è pervenuto integro, le altre opere invece no, ad esempio le Origines, grande opera storiografica, probabilmente per le sue piccole dimensioni, ma anche perché aveva un interesse pratico. Quando s’integra nella storia? Roma aveva iniziato la sua espansione nel Mediterraneo e anche l’agricoltura non era più solo di sussistenza, lo schiavismo aumenta, quindi si organizza il sistema della villa rustica. Perciò Catone che appartiene alla classe dirigente e ricca ha interesse ha dare consigli per sistematizzare, occorre che la classe dirigente sappia rispondere in modo pratico a questo nuovo afflusso di ricchezze investite nell’agricoltura. Il suo trattato è la prima opera in prosa pervenutaci, non c’è nessuna prova che ci fosse qualche cosa in più anche se in certi punti non sembra esserci un filo logico nella narrazione. La prima parte sembra essere quella più sistematica perché riguarda la scelta del podere: dove coltivare, stimare le costruzioni, norme di comportamento del proprietario. Catone parte dalla sua esperienza concreta, la sua esperienza personale diventa un modello da seguire. Quindi in pratica è un manuale concreto e rimarrà per molto tempo un punto di riferimento. Tutti gli autori che trattano di agronomia fanno riferimento a Catone, ad esempio Columella nel suo De re rustica nel tardo periodo neroniano, tra il 60-68, nei capitoli introduttivi lo presenta come colui che per primo aveva trattato di agronomia in latino, lo definisce padre dell’agricoltura. Prima di lui c’era solo Magone Cartaginese, la sua opera era ben più vasta, in 28 libri, doveva essere una sorta di enciclopedia, sicuramente precedente, forse era del IV sec. di cui non ci è rimasto nulla, però la conosciamo dalle citazioni, nominata 25 volte dagli autori antichi. Non ci è giunta nemmeno nelle due versioni greche abbreviate riferibili al primo sec a.C. Tornando a Catone. La sua opera è composita e disomogenea. Ci sono consigli sulla conduzione dell’azienda: - coltivazione, - allevamento, - pratiche enologiche, - rimedi medici. A volte è difficile da trovare un filo conduttore, abbiamo consigli su: - preparazione del mosto cotto,

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Stories and curiosities of ancient Rome

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Antichità  romane  Anno  2012-­‐2013  Prof.ssa  Scuderi    Lezione 1 26 Febbraio 2013 L’agricoltura Era l’unico lavoro apprezzato nel mondo antico, nella letteratura leggiamo solo apprezzamenti. Ci è pervenuto poco di quello che è stato scritto, eppure ci sono pervenuti trattati di agronomia, anche scaglionati nel tempo. Abbiamo trattati di agronomia dal II sec. a. C. con Catone, fino al IV sec. d.C. cioè Palladio. Anche un poeta, cioè Virgilio, nelle Georgiche elogia l’agricoltura, queste ultime sono pure organizzate come i trattati agrari:

- primo libro dedicato alla coltura dei cereali, - il secondo libro riguarda la coltura della vite, - il terzo libro è incentrato sull’allevamento di bestiame, - il quarto libro concerne l’apicoltura.

Il primo agronomo è Catone (234-149 a.C.) autore del più antico trattato agronomico romano, il De agricultura. L’unica cosa che Catone voleva che si salvasse di Cartagine è un trattato agronomico molto ampio che a noi non è pervenuto, ma molto apprezzato dal mondo romano. Di questo sappiamo dal libro XVIII di Plinio che il senato si preoccupò di farlo tradurre in latino da esperti di lingua punica. Il De agricoltura di Catone è stato scritto nella prima metà del secondo secolo e ci è pervenuto integro, le altre opere invece no, ad esempio le Origines, grande opera storiografica, probabilmente per le sue piccole dimensioni, ma anche perché aveva un interesse pratico. Quando s’integra nella storia? Roma aveva iniziato la sua espansione nel Mediterraneo e anche l’agricoltura non era più solo di sussistenza, lo schiavismo aumenta, quindi si organizza il sistema della villa rustica. Perciò Catone che appartiene alla classe dirigente e ricca ha interesse ha dare consigli per sistematizzare, occorre che la classe dirigente sappia rispondere in modo pratico a questo nuovo afflusso di ricchezze investite nell’agricoltura. Il suo trattato è la prima opera in prosa pervenutaci, non c’è nessuna prova che ci fosse qualche cosa in più anche se in certi punti non sembra esserci un filo logico nella narrazione. La prima parte sembra essere quella più sistematica perché riguarda la scelta del podere: dove coltivare, stimare le costruzioni, norme di comportamento del proprietario. Catone parte dalla sua esperienza concreta, la sua esperienza personale diventa un modello da seguire. Quindi in pratica è un manuale concreto e rimarrà per molto tempo un punto di riferimento. Tutti gli autori che trattano di agronomia fanno riferimento a Catone, ad esempio Columella nel suo De re rustica nel tardo periodo neroniano, tra il 60-68, nei capitoli introduttivi lo presenta come colui che per primo aveva trattato di agronomia in latino, lo definisce padre dell’agricoltura. Prima di lui c’era solo Magone Cartaginese, la sua opera era ben più vasta, in 28 libri, doveva essere una sorta di enciclopedia, sicuramente precedente, forse era del IV sec. di cui non ci è rimasto nulla, però la conosciamo dalle citazioni, nominata 25 volte dagli autori antichi. Non ci è giunta nemmeno nelle due versioni greche abbreviate riferibili al primo sec a.C. Tornando a Catone. La sua opera è composita e disomogenea. Ci sono consigli sulla conduzione dell’azienda:

- coltivazione, - allevamento, - pratiche enologiche, - rimedi medici.

A volte è difficile da trovare un filo conduttore, abbiamo consigli su: - preparazione del mosto cotto,

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- rimedi sulla sciatica, - come si ottengono i cani più aggressivi, - come si può eseguire un intonaco, - come si può consolidare l’aia, - come togliere le erbacce.

Abbiamo anche consigli di carattere religioso a cui si aggiungono consigli sull’innesto di piante. Tutto ciò con una struttura farraginosa in 162 capitoli, mentre i prime 22 capitoli sono più lineari perché riguardano l’acquisto e la gestione del podere, in particolare come si organizzano le due colture più redditizie dell’ulivo e della vite. Ormai l’agricoltura non era più di sussistenza, ci si poteva dedicare alla colture più redditizie. Poi c’è un’altra parte dedicata al calendario delle operazioni:

- quando raccogliere le olive, - quando vendemmiare, - quando tagliare la legna.

Dà dunque delle scansioni cronologiche anche su particolari come l’erba, e poi si mescolano consigli sul cibo e sulle vesti. Abbiamo anche ricette veterinarie e di cucina ad esempio sulla preparazione del vino. Meno della metà è dedicata strettamente all’agricoltura, ma si parla di ciò che interessa al proprietario terriero; è forse proprio questa disorganicità strutturale che dà l’idea di un sapore genuino dell’opera, che non è tanto pensata a tavolino, ma Catone scrive ciò che trova più opportuno a seconda della sua esperienza diretta. Avrà consultato fonti letterarie? Per partito preso vantava di aver imparato il greco solo in vecchiaia, era una scelta politica, ma avrà conosciuto anche fonti ellenistiche e puniche come Magone. Sono consigli che si auspica vengano utilizzate dai proprietari terrieri. Rispecchia il sapere tradizionale italico che si apre alle nuove esigenze dell’agricoltura. Catone è molto attaccato alla terra, ossequente nel diritto, persona severa, definito il censore, rigido nei rapporti coi vicini, quasi crudele verso gli schiavi. Era molto scrupoloso nell’osservare i rituali, infatti ci dà una precettistica da osservare, con precisi rituali, bisognava essere sicuri di agire per il meglio. L’interesse era dunque quello di dare consigli pratici. L’agricoltura stava diventando mercantile, aveva come scopo la vendita, soprattutto il vino e l’olio. Perciò a Catone interessano molto le norme che riguardano un’azienda vinicola. CATONE, De agricultura

1. Capita che sia più conveniente cercare il guadagno attraverso il commercio se non fosse tanto pericoloso, e anche attraverso il prestito ad usura se fosse sufficientemente onorevole.

- mercatura: è il commercio d’alto mare, infatti è soggetto a grossi rischi. Il plebiscito

Claudio del 218 a.C. in base al quale i senatori non potevano possedere una nave superiore a 300 anfore di capacità. Infatti se i senatori si fossero rovinati, si sarebbe sovvertito l’odine sociale, era bene che i senatori non si esponessero a questi rischi. Catone trova un espediente per aggirare l’ostacolo anche se non ce lo dice, però abbiamo da Plutarco la vita di Catone che ci fa sapere come faceva ad aggirare l’ostacolo legale: organizzava delle compagnie di suoi liberti ed il prestito era suddiviso e non investito su una nave, essendo così sicuro di guadagnarci senza apparire in prima persona. Anche se viene disprezzata quando si tratta della botteguccia.

- Usura: il prestito in grande viene praticato dai ricchi senatori. Catone si scaglia contro la piccola usura verso i contadini ad esempio, infatti sappiamo da Livio nel capitolo 27 che quando era stato pretore in Sardegna espulse da tutta la Sardegna gli usurai. Anche Cicerone nel De officiis ci presenta catone avverso all’usura.

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I nostri antenati così valutarono e così stabilirono nelle leggi che il ladro fosse condannato a pagare al doppio e l’usuraio al quadruplo, da questo è lecito stimare di quanto valutassero un peggior cittadino l’usuraio piuttosto che il ladro. Qui Catone si riferisce alle leggi delle XII tavole (451-450 andate perdute nell’incendio gallico del 390). Abbiamo anche un riferimento di Tacito negli Annales a queste leggi contro l’usura. Ce ne furono svariate, ad esempio la lex marciam del 309 a.C. ma Catone se la prende con la piccola usura, flagello per i piccoli contadini. Lui approfitta del venus nauticum, il prestito per grandi commerci navali. Sembra mostrare indulgenza verso i piccoli ladri, ma severo verso chi ruba in grande stile, come i comandanti militari che non distribuivano il bottino ai soldati, abbiamo infatti tra i frammenti di orazioni catoniane, un discorso intitolato de preda militibus dividenda. E quando elogiavano un uomo per bene così lo lodavano: è un buon agricoltore e un buon contadino, e si riteneva che venisse elogiato nella maniera più alta colui che così veniva elogiato. Per altro valuto il commerciante valoroso e attento al guadagno ma come ho detto sopra è esposto ai pericoli e alle calamità. Si riprende poi l’immagine del commerciante, gli si riconosce di essere una persona valorosa, la ricerca del guadagno viene visto come un valore. E invece dagli agricoltori nascono gli uomini più forti e i soldati più valorosi e il guadagno è assolutamente onesto e sicuro e per nulla esposto all’invidia, e coloro che si dedicano a questa occupazione sono quelli nel minor grado possibile pensano male. L’idea dell’agricoltura come buona attività la troviamo già anche nell’economico di Senofonte. Quando era giovane catone coltivava personalmente, in un passo di Sesto cita Catone che afferma di aver faticato tra i campi della Sabina. Plinio richiama questo pensiero di Catone. È un topos che ritroviamo anche in Cicerone. Anche in Columella afferma che l’agricoltura è il modo di accrescere il proprio patrimonio privo di qualsivoglia colpa. Catone è del tutto coerente con lo spirito contadino, è davvero affezionato alla terra. Dopo queste affermazioni di principio conclude: e ora per tornare all’argomento questo sarà l’inizio che ho promesso: in che modo sia opportuno comperare e organizzare una proprietà terriera.

2. Razioni di cibo per gli schiavi. Ecco le razioni di cibo per la famiglia servile, quelli impegnati nei lavori riceveranno 4 moggi di frumento durante l’inverno, durante l’estate 4 e mezzo; al fattore, alla fattoressa, al sorvegliante al pastore tre moggi, agli schiavi che lavorano legati durante l’inverno 4 libbre di pane, quando incominciato a zappare la vigna 5 libbre di pane finchè cominceranno ad esserci i fichi poi si torni a 4 libbre. Si parla di razioni mensili di solito, lo sappiamo da una commedia di Plauto come lo Stichus al verso 60 al primo del mese agli schiavi toccava il cibo misurato. Modius equivale ad 8,7 litri di frumento. D’estate la razione aumenta perché lavorano di più. Epistates è un termine greco, probabilmente è il rappresentante del padrone in certi casi. Diversa è la razione per gli schiavi che lavorano incatenati, qui si parla di pane, questi dovevano lavorare come macchine e non potevano prepararselo. Una libbra equivale a 321 grammi, quindi si tratta di una razione giornaliera, con ogni probabilità si usava il farro con una densità superiore.

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Lezione 2 27 Febbraio 2013 I cibi che venivano dati agli schiavi non costavano nulla, ad esempio le olive scadenti dalle quali si poteva ricavare solo poco olio o il garum.

3. Gli abiti per la famiglia servile Ecco gli abiti per la famiglia servile: una tunica lunga tre piedi e mezzo, mantelli ad anni alterni, ogni volta in cui avrai dato a ciascuno una tunica o un mantello prima fatti dare indietro quello vecchio in modo da produrre dei centoni, ad anni alterni bisogna dare dei buoni zoccoli. Catone è abbastanza preciso nei suoi consigli. Il piede romano equivale a 29,6 cm quindi la tunica era circa un metro. Poi si parla dei mantelli che si distribuiscono ad anni alterni, il sagum è un pezzo di lana grossolana che si usava come mantello quando era inverno. Non si sprecava nulla, quella vecchia veniva recuperata per fare delle pezze con la parte del tessuto meno consunta, facendo così i centoni, cioè tante pezze cucite insieme. Nel mondo antico c’erano le centonarie, una corporazione specializzata nella realizzazione dei centoni. Alla fine si parla delle scarpe, non si andava a piedi nudi.

4. Se un bue sarà caduto ammalato Se un bue sarà caduto ammalato gli si dia subito un uovo di gallina crudo e si faccia in modo che lo mangi tutto intero, il giorno dopo si trituri una testa di upilio con un’emina di vino e si faccia in modo che beva tutto, e si trituri stando in piedi e si somministri in un vaso di legno e il bue e quello che gli somministra la bevanda stiano in piedi, essendo a digiuno si dia questa pozione ad un bue digiuno. La ritroviamo anche in Palladio. È una ricetta che dura due giorni. L’upilio è una specie di porro. Un emina è una misura per liquidi che equivale a mezzo sestiario, cioè 0,44 litri. Poi aggiunge dei particolari di carattere magico, dei rituali, ad esempio lo stare in piedi perché significava essere forti.

5. Come si fa perché le tignole non rovinino gli abiti Perché le tignole non tocchino gli abiti si faccia cuocere completamente la morchia dell’olio fino a ridurla a metà, e con questa si unga il fondo del cassone e l’esterno e i piedi e gli angoli, quando questa sarà asciutta si mettano dentro gli abiti. La morchia è la parte più densa dell’olio. È un ingrediente che Catone utilizza molto spesso, serve anche a rendere più resistente il legno e il cuoio, oppure nei consigli veterinari per le pecore dopo la tosatura affinchè non prendano la scabbia si mescola questa con il vino buono e cono un decotto di lupini. Oppure si sparge sull’aia, evitando la formazione di erbacce e elimina le formiche.

6. Se un serpente avrà morsicato un bue o un altro quadrupede Se un bue avrà morsicato un bue o un altro quadrupede si trituri un acetabolo di nigella, che i medici chiamano smirneo, in un emina d’aceto e si versi attraverso le narici e sul morso si faccia un impatto di sterco di maiale. E questa stessa ricetta se sarà necessario si applichi anche a un uomo.

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La nigella è pure citata da Plinio come rimedio insieme all’aceto per i morsi di serpente e scorpione. L’acetabolo è un quarto di emina, quindi equivale a un quarto di emina perciò a 0,11 litri. Bisogna ricavare denaro dalla vendita dei prodotti:

7. Che si faccia una vendita all’asta. Che si faccia una vendita all’asta: si venda l’olio quando il prezzo è alto, venda il vino, il frumento in sovrabbondanza, venda i buoi vecchi, il bestiame male in arnese, le pecore malaticce, la lana, le pelli, il carro vecchio, i ferri vecchi, lo schiavo vecchio e se c’è qualche cosa di superfluo lo venda. Infatti bisogna che il padre di famiglia sia portato a vendere e non a comprare. Concetto di guadagnare attraverso la liberazione di ciò che non è utile e non rende. Nel mondo agricolo non si buttava via niente quindi chi era povero poteva prendere a basso prezzo cose vecchie. Armenta delicula sono il bestiame non robusto, infatti deriva da delinquere cioè mancare. si vendono anche gli schiavi vecchi, lo schiavi non sono considerati degli uomini ma degli oggetti; anche Varrone nel De re rustica considerando gli strumenti li divide in tre categorie:

o instrumentum mutum: gli oggetti, o instrumentum semivocalem: gli animali; o instrumentum vocalem: gli schiavi.

A questo proposito riutilizziamo la vita di Catone scritta da Plutarco: nel capitolo 21 ci parla dell’uso che Catone faceva degli schiavi, li comprava giovani e li allevava. Gli schiavi poi si univano alle schiave generando le vernae (schiavi nati in casa), i quali per questo ricevevano un compenso. Inoltre Catone non voleva servitore di lusso, li considerava uno spreco di soldi, a lui importava avere uomini forti che lavorassero. Nota che qualcuno considerava meschino il suo comportamento. Plutarco (anche se siamo tra I e II sec. d.C) è un filosofo e una persona sensibile, amava molto gli animali, era quasi vegetariano, quindi non era dello stesso avviso di Catone verso gli schiavi, il buon uomo si cura di tutto il bestiame, non solo dei cuccioli ma anche degli animali divenuti vecchi. Catone rispecchia una mentalità più tradizionalista del pater familias. Plutarco ricorda anche un pensiero indicativo della mentalità catoniana cioè diminuire il patrimonio era proprio di una donna vedova, non di un uomo e che era ammirevole l’uomo che lascia nel testamento beni maggiori di quanti ne aveva ricevuti. Catone presenta anche delle cautele contrattuali e dei formulari giuridici che si inquadrano all’interno di un agricoltura mercantile. Per quanto riguarda l’azienda agricola la sua idea di grandezza era di 240 iugeri cioè 60 ettari. Ci sono anche degli elenchi del personale necessario e delle attrezzature. L’azienda olivicola viene considerata quella più redditizia insieme con la parte vinicola però bisogna sfruttare anche il resto del suolo, si parla infatti anche di frumento e di alberi da frutto. Tutto questa integra i proventi della produzione fondamentale. Sono descritte le attrezzature dell’azienda come quelle usate per la spremitura delle olive, il frantoio chiamato torcularium che spreme con una forte pressione di una grande trave le olive intere, per poi procedere anche con una seconda spremitura. C’è anche il trapetum il mulino le cui macine venivano fatte girare da asini che frantumavano le olive. L’olio della prima spremitura veniva chiamato romano, mentre quello della seconda spremitura verde. L’olio che cadeva per terra non doveva andare sprecato quindi il pavimento veniva fatto in creta impastata con olio con canali di scorrimento per raccogliere l’olio in vasche. Prevede anche un altro modo per guadagnare: la vendita delle olive sull’albero, nel prezzo pattuito si prevede anche l’uso dell’attrezzatura. Catone con una pignoleria da giudice perito cita anche formule di giuramento ad esempio non sottrarre olive all’insaputa del padrone etc.

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Dopo Catone abbiamo i Saserna, padre e figlio agronomi etruschi, non abbiamo nulla però dei loro scritti, ma vengono citati; come abbiamo le citazioni di Scrofa (fine secondo inizio primo sec. a.C). mentre di Varrone abbiamo il De re rustica, lui stesso ci dice che lo scrisse in età avanzata a ottant’anni perciò nel 36 a.C. l’opera è dedicata alla moglie Fundania, in tre libri, diversa da quella di Catone in quanti sistematica:

- primo libro: principi dell’economia rurale e tecniche agricole, - secondo libro: allevamento del bestiame grosso, - terzo libro: animali da fattoria.

È un’opera elegante scritta in forma dialogica, i protagonisti sono i proprietari terrieri. Varrone parla di tre tipi di fonti:

- esperienza diretta, - apprendimento dalle letture, - conversazione con gli specialisti, i periti, gente esperta in agricoltura. Scrofa è valutato

moltissimo da Varrone, che aveva numerose proprietà a Frascati, a Baia e a Rieti. L’esigenza di un sapere agricolo è sentita come importante, Varrone non coltiva con le sue mani però bisogna sapere come organizzare una proprietà terriera. È un’opera molto diversa, Varrone ha una concezione analitica delle problematiche, è un erudito e quindi considera con estrema precisione, indicativo di questa precisione è il discorso che emerge da Scrofa, che è il personaggio principale, che definisce le 4 sezioni in cui si articola il sapere agricolo:

- conoscenza dell’azienda e del suolo e delle tecniche costruttive, - la strumentazione necessaria, - operazioni di coltura, - valutare la stagione adatta ad ogni operazione.

Abbiamo uno spirito classificatorio che si trova in tutta l’opera, anche a proposito degli animali di allevamento che vengono divisi per gruppi secondo la taglia a loro volta suddivisi in sottogruppi. Catone ostentava disprezzo verso la cultura greca, invece Varrone accoglie pienamente la cultura ellenica, il sue de re rustica è un trattato conscio delle opere del sapere greco. Possiamo fare un paragone diretto con l’Economico di Senofonte, anch’esso in forma dialogata. Varrone colloca la sua opera in un’elegante cornice, immaginando un incontro di ricchi proprietari terrieri presso il tempietto della dea terra. Intanto che aspettano il sacerdote per il sacrificio tra di loro conversano sull’agricoltura. Combina con maestria precisazioni naturalistiche e geografiche, agronomiche e veterinarie, quindi è un’opera molto ricca. Nella mentalità Varroniana c’era anche lo scopo della delectatio, il lettore deve trovare una lettura piacevole, i suoi principi sono l’utilitas e la voluptas, questo criterio deve essere applicato alla gestione del fondo: deve rendere ma nello stesso tempo il proprietario deve trovare un ambiente piacevole. Dedica alla moglie Fundania: De re rustica I,1

8. A questo riguardo scriverò per te tre libri come manuali ai quali tu possa rivolgerti se avrai qualche domanda, in che modo e in che cosa ti convenga fare nelle opere di coltivazione. E poiché come si suol dire gli dei aiutano quelli che si danno da fare, prima di tutto li invocherò ma non come Omero ed Ennio le muse, ma i dodici dei consenti, e tuttavia non quelli cittadini dei quali le statue dorate stanno presso il foro, sei dei e altrettante dee, ma quei dodici dei che sono soprattutto guide degli agricoltori.

È l’equivalente dell’invocazione alle muse, bisogna invocarli perché gli dei aiutano chi si dà da fare: è un proverbio molto noto. L’intenzione è quella di invocare le divinità più adatte, cioè gli dei consenti. Li troviamo citati anche nel De lingua latina, prima di Varrone non li troviamo mai citati nella letteratura latina, qui cita le loro statue d’oro vicino al foro, infatti alla sua epoca alla fine dell’età repubblicana gli dei consentes avevano un tempio ai piedi del capitolinus, quindi vicino al

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foro, con un portico nelle cui nicchie stavano le dodici statue d’oro, ha origine nell’età tardorepubblicana e poi venne rifatto sotto i Flavi e restaurato nel 367 quando ormai si stava affermando il cristianesimo, infatti abbiamo un’epigrafe (CIL VI 102) che cita la coppia consolare. Un tempio sentito quindi come importante. Questi dei consentes si identificano con i dodecas theoi della Grecia citati da Livio nel libro 22 cap.9 che arrivarono a Roma e per la prima volta venerati nel 217 a.C. anno della seconda guerra e secondo anno della guerra annibalica e perciò in tale anno abbiamo una sistematizzazione di una specie di collegio di divinità: 6 dei e 6 dee. Interessante è il appellativo consentes che ha un’etimologia molto discussa, non c’è una soluzione univoca, possiamo avanzare delle ipotesi:

- radice consum che esprime il fatto che gli dei rappresentino un gruppo unificato, infatti significa stare insieme,

- collegamento a consilium: gruppo di gente che siede insieme per discutere, infatti S. Agostino nel De civitate dei scrive che le divinità sono consentes perché dicono siano utilizzate nel consilium di Giove,

- il collegamento a consentientes richiama la testimonianza di Festo: le cose sacre che sono state stabilite per consenso di molti.

Abbiamo varie testimonianze di questa congregazione divina, Seneca parla di 12 dei consentes et complices che stanno insieme e lavorano insieme, cioè i consiglieri del sommo Giove. Il termine ha ancora un collegamento con la religione etrusca, le divinità del panteon romano arrivano anche attraverso la mediazione etrusca, non solo greca, è tutto un conglomerato di tradizioni. Come dei maggiori sono citati per la prima volta in due esametri di Ennio: Iuno, Vesta, Minerva, Ceres, Diana, Venus, Mars, Mercurius, Iovis, Neptunus, Vulcanus e Apollo. Varrone nel nostro passo contrappone le divinità cittadine con quelle che guidano gli agricoltori, cioè i consentes rustici, che sono una sua fantasia letteraria, che si può essere ispirato ad alcuni aspetti religiosi della religione agraria romana in cui c’erano dodici piccoli dei che venivano citati nel sacrum cerealem, cioè cerimonia in onore di Cerere che conosciamo attraverso gli Annales di Fabio Pittore in cui sono citati gli indigitamenta, cioè delle litanie. Questi dei sono sintomatici di competenze estremamente precise:

- veruactor da verus che significa spiedo, - reparator divinità che sovrintende la riparazione degli attrezzi agricoli.

Dai qui Varrone potrebbe aver preso l’idea, è una composizione da lui architettata, infatti parla di 5 dei e 7 dee, non c’è nemmeno la corrispondenza numerica, tra questi ci sono anche gli dei maggiori: Minerva, Cerere, Venere e Giove. L’invocazione è architettata in senso logico:

• divinità dello spazio: Giove che rappresenta il cielo e la terra, • divinità che costituiscono il calendario: il sole e la luna, • le divinità del frumento e del vino: Cerere e Libero, • divinità che proteggono il raccolto nei momenti critici, sono divinità specifiche

agrarie: Robigo e Flora.

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Lezione 3 28 Febbraio 2013 Prima di tutto invocherò Giove e Tellus che sovrintendo grazie al cielo e alla terra tutti i frutti dell’agricoltura, e così poiché vengono detti grandi genitori, l’uno è chiamato Giove padre e Tellus è la terra madre. Sono le due zone di competenza: il cielo e la terra, che comprendono tutto quanto il mondo che dà anche i frutti dell’agricoltura. Per i latiniGiove si univa a Era/Giunone che poteva essere anche identificata con la terra e da questa unione nascono tutte le cose. Giove è il dio luminoso, identificato col cielo e Tellus è la terra. Anche in un’altra opera Varrone nel De lingua latina nel libro quinto identifica terra con Tellus. Dal punto di vista linguistico non viene sottolineato il fatto che Iuppiter contiene il nome pater. Pater è un epiteto costante di Giove come la terra è invocata con l’appellativo di mater non soltanto in questo passo, ma è un appellativo molto comune, per esempio anche negli Atti dei ludi secolari la terra è detta mater, lo sappiamo da un’iscrizione nelle Inscriptiones Latinae Selectae 5050 rig.136. Il cielo e la terra anche in un altro passo del De lingua latina sono detti dei magni, erano quelli famosi per i misteri di Samotracia. In secondo luogo il sole e luna, le cui fasi cicliche si osservano quando si semina e si pianta qualche cosa. Sono le fasi del sole e della luna che determinano il calendario solare e lunare dei lavori agricoli. Nel primo libro del De re rustica i capito li dal 27 al 36 sono dedicati ai lavori stagionali secondo i cicli del sole cominciando dalle semine primaverili e poi dal 37 si parlerà dei giorni lunari, considerando la luna calante e la luna crescente. Ad esempio la tosatura delle pecore doveva essere effettuata con la luna calante e così anche i capelli. In terzo luogo invocherò Cerere e Libero perché i loro frutti sono in massimo grado necessari alla vita, infatti grazie a loro dal fondo agrario derivano cibo e bevanda. Libero equivale a Bacco e sono considerati come divinità dei cereali e della vigna. Demetra/Cerere Cerere corrisponde alla dea greca Demetra, una della più antiche divinità, in Esiodo troviamo Demetra come una della sorelle di Zeus, figlia di Crono. È una divinità che risale ai misteri eleusini celebrati in suo onore, la cui testimonianza più antica è l’Inno omerico a Demetra. Più tardi ci ssarà l’associazione con Dioniso. Gli antichi facevano un’etimologia un po’ ad orecchio: de – metra = ge meter cioè terra madre, ma Gea è una divinità distinta, già nell’inno omerico Demetra ha una personalità diversa da Gea e anche qui sono separate. Gea è la potenza cosmogonica più antica. Demetra non è la terra in generale, ma la produttrice dei frutti necessari all’uomo. Nella mitologia un’associazione sempre presente con Demetra è la figura della figlia Persefone detta anche Core, in latino Proserpina. Demetra come dea della vegetazione presiede ai lavori agricoli e la sua fisionomia e i suoi epiteti variano a seconda delle stagioni, presiede alla semina in autunno, ai germogli in primavera, alla raccolta dei cereali. I suoi prodotti tipici sono appunto i cereali, infatti viene raffigurata con una corona di spighe, attributo canonico e significano abbondanza e ricchezza dell’agricoltura. Il suo culto è sentito, infatti anche i personaggi della famiglia imperiale spesso sono raffigurati accanto a Cerere o ci sono delle statue di donne appartenenti alla famiglia imperiale con la corona di spighe in veste di Cerere. Il momento del raccolto è quello del suo trionfo, l’aia dove si trebbia il grano è il luogo dove Cerere esprime la sua maestà.

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Per certi aspetti lunare e per altri ctonia, ci sono delle monete infatti in cui è raffigurata su un cocchio trascinato da serpenti, che sono gli animale ctonici per eccellenza in quanto strisciano sulla terra. Demetra cercava in questo caso sua figlia rapita da Plutone negli inferi, questo apparire e scomparire di Persefone dalla terra corrisponde alle fasi lunari e solari. Ampiamente venerata in Grecia nei misteri eleusini ma ad Atene ci sono anche le importanti feste primaverili delle Antesterie, i fiori sono attributo della figlia, sono feste che si ricollegano alle Tesmoforie all’ascesa sulla terra da parte di Persefone mentre in autunno scende sottoterra. Anche le ninfe sono spesso associate a Demetra, infatti sul rilievo dell’Ara pacis ci sono le ninfe perché sono le fonti, donatrici di fertilità. Demetra alla ricerca della figlia viene ospitata da personaggi che ricevono un dono ospitale da parte della dea, il più noto è Trittolemo figlio di Cereo, re di Eleusi demo dell’attica, riceve come dono ospitale dalla dea l’agricoltura, l’insegnamento per poter coltivare la terra e così diventa una specie di missionario di Demetra come diffusore della tecnica agraria. Gli appellativi di Demetra si ampliano:

- dea dell’abbondanza e della fecondità, - madre universale, colei che alleva i bambini, si ricollega alla maternità raffigurata con due

gemelli in braccio, - ha anche istituito il matrimonio, infatti l’epiteto greco di Demetra è thesmophoros cioè in

latino legifera, istitutrice della prima base sociale, l’istituzione dell’agricoltura e delmatrimonio pone termine alla promiscuità selvaggia perché si fissa una dimora e una famiglia fornendone i mezzi di sussistenza e diventa così protettrice del focolare domestico (nel mondo romano abbiamo Vesta).

Viene dunque associata anche a Dioniso nel mondo greco, in un secondo tempo, non da subito thesmophoros è attribuito anche a lui, perché ha insegnato agli uomini le regole sociali delle relazioni reciproche. Diventano divinità che istituiscono le leggi e quindi presiedono anche ai giuramenti solenni. L’origine dell’accostamento è di origine agraria, però le varianti mitologiche sono numerose, ad esempio c’è una variante che presenta Demetra come madre di chora/libera e choros/liber. Anche Cicerone nel De natura deorum si preoccupa di queste distinzioni. Questa triade Demetra/Dioniso/Chore compare anche in latino tradotta in Ceres/Liber/Libera, ebbe molta fortuna nei culti italici. Demetra è dea dell’agricoltura, del grano in particolare, quindi gli animali che proteggeva particolarmente erano i buoi e le mucche, in quanto trascinavano l’aratro, così erano anche le vittime predilette da offrire alla dea. Un’altra vittima canonica per i sacrifici a Cerere era anche il maiale come simbolo di fecondità. Demetra è raffigurata su un cocchio trascinato da serpenti, il collegamento coi serpenti deriva dall’essere una divinità ctonia e il serpente è l’animale ctonio per eccellenza. Anche il carro che dona a Trittolemo è trascinato da serpenti. Altro attributo di Demetra è la torcia, perché la dea cerca la figlia anche di notte e ha così l’appellativo di purphoros e spesso questa torcia è decorata con ghirlande. Nel culto misterico di Eleusi le torce sono le insegne delle due più alte funzioni sacerdotali. Sono parecchi gli attributi di Demetra/Cerere:

- le spighe di grano, - lo scettro di regina, - patera (coppa) del sacrificio, - catos, cesto pieno di fiori (simbolo della primavera quindi di Persefone) o pieno di spighe

(rappresenta Demetra). Anche in ambito italico c’erano divinità molto simili, Tellus ha degli attributi simili, qui è considerata mater in generale mentre Cerere riguarda l’agricoltura e i cereali, però ci sono in origine anche in ambito italico dei collegamenti con divinità della fecondità: obs che è l’abbondanza, la fortuna primigenia, la bona dea, hanno dei punti di contatto con Demetra. Il culto di Demetra arrivò in Italia attraverso le colonie greche e quindi si compenetrò coi culti locali, dall’Italia meridionale a Roma sono arrivati questi culti che hanno trovato fertile terreno in

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culti italici preesistenti, si sono così unificati. In particolare nella Sicilia infatti la mitologia racconta del ratto di Persefone che avvenne appunto in Sicilia. Abbiamo numerose testimonianze, da Ovidio, Stazio e Claudiano. Liber/Dioniso Cerere era molto venerata, ma anche libero o liber pater e anche in questo caso si verificò la sovrapposizione con un dio di origine italica i cui caratteri si alterarono sotto l’influenza della mitologia greca, questo dio di origine italica viene identificato con Dioniso. Qui non è citato come Bacco, ma come Liber e la sua etimologia è variamente spiegata dagli autori antichi:

ü Seneca sostiene che l’inventore del vino si chiamò così non dalla libertà di parola ma dal fatto che libera dalle preoccupazioni,

ü Cicerone nel De natura deorum si ricollega a liberi, i figli, collegamento con la triade di Cerere e i suoi figli: liber e libera.

Il termine ha una probabile etimologia nella radice indoeuropea lib che è quella di libare. Da Libero a Roma deriva la festa dei Liberalia, che si celebrava il 17 marzo e deve essere fatta risalire al calendario di Numa. Dai Fasti di Ovidio abbiamo delle descrizioni di queste feste, nel terzo libro a proposito dei Liberarlia descrive le sacerdotesse di Libero che in quel giorno giravano per Roma incoronate di edera, sacra a Dioniso/Bacco e offrivano ai passanti dei dolci fatti con la farina, il miele e l’olio, portavano anche un piccolo altare così che comperava i dolci poteva offrirne alcuni subito sull’altare per propiziarsi la divinità. Era una festa in cui si valorizzavano i prodotti tipici, erano dolci semplici. Il 17 marzo indicava l’inizio della primavera, ma era anche il giorno in cui i ragazzi lasciavano la toga praetexta e assumevano la toga bianca senza fascia di porpora. Lo si invocava per la protezione verso i raccolti futuri e nella festa non si beveva vino ma si mangiavano questi dolci di prodotti tipici, quindi vediamo ancora un collegamento con Cerere. Liber era in generale dio della fecondità, infatti durante la sua festa si portava in processione un fallo. All’inizio del periodo repubblicano, su ordine dei libri sibillini consultati durante una terribile carestia, fu stabilito il culto della triade Cerere/Liber/Libera che corrispondono alla triade capitolina Giove/Giunone/Minerva, corrispondenti anche al trito eleusino Demetra/Iacco/Dioniso, da Iacco deriva il nome Bacco. All’origine il culto è essenzialmente agrario, poi divenne il dio della vigna. In età classica è ormai codificata questa correlazione. Le feste sono molteplici per i romani e a Libero veniva anche dedicato il mese di ottobre, in cui si fa il vino e gli si offriva una libagione di mosto fresco detta sacrima da sacer quindi consacrata a Liber. Liber pater era il dio dei vignaioli e commercianti di vino, a Roma venne posta un’iscrizione dal collegium pelagrentium cioè dai commercianti di vino del Pelagro. Il culto di questa triade è antico, sappiamo che fu il dittatore Postumio nel 496 a.C. a fare il voto di costruire un tempio, tre anni dopo spurio Cassio dedica un altro tempio costruito vicino al futuro Circo Massimo. Ci sono sempre sincretismi, anche dal calendario dei Fratelli Arvali (collegio sacerdotale di cui abbiamo molte testimonianze epigrafiche) si sa che dal primo settembre si celebrava sull’Aventino una festa in onore di Iuppiter Liber, anche qui abbiamo una compenetrazione tra le divinità. In quarto luogo invocherò Robigo e Flora per la benevolenza dei quali la ruggine non danneggia i cereali e gli alberi che fioriscono a tempo opportuno. Robigo Robigum è citato al maschile, ma c’è anche la variante femminile, qui Varrone sceglie la versione la maschile, come dio che protegge il grano dalla ruggine. La sua etimologia: probabilmente deriva da robus che è la variante di rufus, cioè rosso. La divinità al maschile è la variante più antica e si avvicina a Marte, perché il sacerdote che celebra il culto del dio Robigo è il Flamen Quirinalis, il flamen è il ministro del culto, Quirinalis da Quirino che era il Marte sabino (flamen dialis, martialis, quirinalis sono i tre più importanti).

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Numa instituì la festa dei Rubuglaia, in primavera il 25 aprile, periodo in cui si formavano le spighe del grano. Sempre Ovidio nei Fasti descrive queste feste e ci dice che il sacerdote faceva una processione fino al bosco del dio fuori Roma. Le sue vittime specifiche erano la pecora e il cane, quest’ultimo usato anche per altre divinità come Ercole e Mania, i suoi cani però erano di colore fulvo cioè simboleggiavano il flagello da scongiurare. Flora Le feste seguenti erano i Floralia, in onore della dea Flora, antica divinità dall’Italia centrale che presiedeva alle fioriture primaverili, di tutto non solo dei fiori ma anche degli alberi da frutto. È propriamente italica perché ci sono anche iscrizioni osche con la variante Flausa e nella lista degli Indigitamenta è associata Robigo. Varrone nel De lingua latina quinto libro attribuisce a Flora un’origine sabellica, quindi del centro Italia, una divinità radicata nella tradizione più antica perché sempre nel De lingua latina racconta che era una delle dodici divinità a cui Tito Tazio aveva fatto erigere un altare sul quale si compivano sacrifici nel caso di eventi straordinari. È citata fra gli dei a cui bisogna sacrificare quando si pianta un albero. A Flora si associa Pomona, dea specifica degli alberi da frutto. Le feste di Flora precedono di pochi giorni le feste dei Fordicidia, cioè le feste in onore di Tellus, in cui si sacrificava una mucca gravida per simboleggiare la fertilità. Fino all’epoca delle guerre puniche Flora aveva solo un tempio sul Quirinale, qui presiedeva un Flamen apposito, cioè il floralis istituito da Numa (Ci sono le liste dei Flamen minori: dopo il flamen floralis c’è il flamen pomonalis che è l’ultimo), a Flora si sacrificavano pecore. Poi le venne eretto un nuovo tempio per volere degli edili plebei il 28 aprile, considerato il natalis Florae. Questo tempio continuò ad essere utilizzato, venne restaurato da Augusto e di nuovo all’epoca di Simmaco, nel 391 (c’è un’epigrafe che lo ricorda). Flora ha carattere tipicamente rustico e romani-italico. Infatti al di fuori dall’Italia non c’è il suo culto, perché è ripreso da altre divinità femminili simili, della primavera e della bellezza per esempio. Plinio cita anche un gruppo statuario di Prassitele in cui comparivano insieme Flora/Trittolemo/Cerere. Ovidio sempre nei Fasti descrive queste feste dei Floralia citate anche qui: e così furono stabilite pubblicamente delle feste per il dio Rubigo i Rubigalia, per Flora i giochi Floralia. I ludi Floralia potevano ricordare una specie di Carnevale, si celebravano a Roma e nelle campagne vicine, Ovidio ci dice che le donne vestivano degli abiti multicolori e si usava gettare sulla gente dei grani secchi, ci si divertiva a fare correre gli animali. Dopo che fu istituito il nuovo tempio a Flora le feste divennero annuali, dal 173 a.C. ogni anno il 28 di aprile si celebravano i Floralia e potevano durare sei giorni, fino al tre di maggio. Si iniziava con giochi scenici e si terminava con spettacoli del circo. In età repubblicana erano gli edili che dovevano organizzare gli spettacoli, durante l’impero sono i pretori a occuparsene. Ci raccontano sia Marziale che Svetonio che Galba fece esibire degli elefanti funamboli. E poi rendo atto di venerazione a Minerva e a Venere delle quali dell’una è la protezione dell’olivete e dell’altra degli orti e giardini e in suo nomi furono istituiti i vinalia rustica. Minerva/Atena Minerva viene citata come protettrice dell’ulivo, ma Minerva/Atena ha numerose attribuzioni:

- dea agraria per l’ulivo, - dea guerriera, protettrice delle città, - proteggeva i cavalli da guerra.

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Venere/Afrodite Venere coincide oltre che con l’Afrodite greca anche con la dea italica della primavera, della natura lieta e quindi della bellezza, patrona degli orti e giardini. È patrona degli ortaggi, le sono sacri i legumi. Il mese sacro a Venere era Aprile che apre la stagione buona. Nel nostro passo sono citati i Vinalia rustica: erano celebrati il 19 agosto, si chiamano rustica per distinguerli dagli altri vinalia che sono i vinalia priora che si celebravano il 23 aprile. Anche nel De lingua latina sono citati da Varrone come feste dedicate a Venere. La data dei rustica, il 19 agosto, coincideva con quella della fondazione di templi di Venere, sia nel bosco sacro di Libitina sia presso il circo massimo. Questa festa dei vinalia rustica univa il culto di Venere a quello di Giove, l’associazione si manifesta anche in altre feste e abbiamo anche testimonianze epigrafiche per esempio nel santuario di Terracina Giove e Venere erano venerati insieme e CIL X 1207 ricorda una sacerdotessa di Venere e di Giove, un’iscrizione di età repubblicana CIL I 375 del 108 a.C. ricorda la costruzione di un muro riguardante venus iovia. Varrone nel VI libro del De lingua latina discute di queste feste dei vinalia e dice che il nome vinalia deriva da vino e che questo giorno è di Giove non di Venere, ma è un riferimento più specifico ai vinalia priora del 23 aprile e poi passa a trattare dei vinalia rustica però anche qui si vede la stretta connessione con Giove perché colui che presiede a tale celebrazione è il Flamen dialis, cioè quello di Giove, il più importante. Veniva festeggiata Venere come dea degli orti, Plinio descrive con attenzione queste feste vantando la saggezza degli antiche che vollero premunirsi alla distruzione dei raccolti istituendo cerimonie religiose, nel libro XVIII cita tre feste:

- Rubigalia, - Floralia, - Vinalia.

Plinio precisa che i vinalia priora riguardano la degustazione del vino. Le due feste dei vinalia sono in rapporto tra di loro con una progressione da una cerimonia all’altra: prima i vinalia di agosto che identificano l’inizio della vendemmia, poi i vinalia di aprile sono la prima degustazione del vino primaverile, entrambi presieduti dal flamen dialis. Venus/vinum L’accostamento venus/vinum sono parole che producono un’allitterazione, testimonianze di questo accostamento sono varie, ad esempio nel Curculio di Plauto si ricorda che gli amanti offrono libagioni di vino a Venere. Era un tabù per le donne bere il vino, Fabio Pittore ci racconta che una matrona venne condannata a morire d’inedia perché si era impadronita delle chiavi della cantina. Anche Catone ci dice che i parenti avevano diritto a baciare una donna per sentire se sapeva di vino. Ci sono anche giustificazioni mitologiche di questa connessione, l’unione tra Afrodite e Dioniso e in ambito romano (in cui il mito viene storificato) si parte da Enea protagonista mitologico dell’istituzione dei vinalia in quanto è figlio di Venere e quindi discendente di Giove (Venere era figlia di Giove, ma se consideriamo la genealogia: Giove-Dardano-Erittonio-Troe-Ilo padre di Priamo-Assaraco padre di Anchise quindi Enea discende da Giove anche da parte di padre). Enea indirizza i suoi voti a Giove per la vittoria su belzenzio offrendo a lui le vigne del Lazio e quindi le feste dei Vinalia hanno una risalenza molto antica. La distinzione delle due feste dei vinalia riprende lo schema doppio del vovere e del dedicare: prima si fa voto quando c’è la vendemmia e poi si dedica il vino di aprile. In queste feste l’importanza di Venere crebbe progressivamente tanto che Plutarco si interessa sulle abitudini romane e infatti scrive gli aitia romaicà e chiama i vinalia veneralia per lo stretto rapporto delle feste con Venere.

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Lezione 4 05 Marzo 2013 Venere: appellativo obsequens, propizia. Crebbero di importanza le feste di Venere e i Vinalia cambiavano anche di fisionomia mettendo così in risalto la figura inizialmente secondaria di Venere, dea degli orti, quindi ai Vinalia si associa la festa degli olitores, gli ortolani. Si nota l’influenza di Afrodite, di conseguenza a Venere si associano altre divinità come Cerere, Priapo che protegge gli orti, quindi la festa dei giardinieri diventa parte integrante dei Vinalia. Varrone in questo passo sottolinea, ma anche nel De lingua latina, il collegamento dei Vinalia con la festa degli orti. Un concetto non esclude l’altro, il vino è comunque l’elemento principale, ha valore magico e quindi poteva far aumentare la forza persuasiva della dea, ha valore magico perché fa allontanare le preoccupazioni. Perciò la dea Venere accentua il suo ruolo di mediatrice tra i romani e Giove, ciò le valse frequenti onori e così nei Vinalia sviluppò una liturgia autonoma. Plutarco nelle Questiones romanae osserva che la libazione rituale del vino si facevano sul sagrato del tempio di Venere. Dea quasi per antonomasia, il suo nome appare collegato a veneror, che conduce al fascino religioso cui è preposta Venere. Diversi vocaboli sono collegabili a venus, ad esempio venia, grazia, favore, è la potenza magica di Venere. Nella festa dei Vinalia ha una sua consacrazione anche per la sua associazione con Giove, conferisce maggior efficacia al sacrificio per Giove.

Invoco anche linfa e il buon successo poiché senz’acqua tutta l’agricoltura è arida e misera e senza successo e buon risultato c’è frustrazione e non coltivazione.

Linfa: siamo più abituati alla variante ninfa e di solito al plurale. Ninfe dal greco vuol dire ragazze in età da marito, sono divinità minori delle acque. Nella mitologia sono molto più diffuse al plurale, sono varie:

- le naiadi sono le ninfe dei ruscelli, - le creniadi sono le divinità delle sorgenti, - le pegee ninfe delle fonti, - le limnadi sono le ninfe dello stagno.

Sono spiriti benevoli che proteggevano il luogo in cui abitavano. Secondo una credenza popolare non avevano l’immortalità ma vivevano molto, 9620 anni massimo (Plutarco), caratterizzate da eterna bellezza e giovinezza perché si nutrivano di ambrosia. Le naiadi sono le più diffuse, raffigurate spesso con l’urna da cui scorre l’acqua del ruscello. Varrone invoca la linfa dell’acqua, ma ce ne erano altre generiche come quelle dei boschi e dei monti. Accostato a lei c’è bonum eventum, personificazione del buon successo delle messi, significa che la mentalità contadina romana legava a questo termine il buon risultato delle messi. Ci sono tante preghiere ad esempio al capitolo 141 Catone presenta l’invocazione a Marte, che si ricollega all’agricoltura per la buona riuscita delle messi. Questo bonum eventum corrisponde al termine greco agathodaimon che è la buona divinità, ha origine campestre, celebrato con un tempio nel campo marzio.

Pertanto dopo aver invocato queste divinità per venerarle riferirò i discorsi che poco fa abbiamo avuto a proposito dell’agricoltura, discorsi dai quali potrai capire che cosa tu debba fare.

Si accinge a riportare delle converazioni, avuti poco fa, nuper cioè passato recente, indicativo per l’ambientazione cronologica del De re rustica, ma la sua estensione cronologica è molto elastica, per esempio nel De officiis ciceroniano equivale a 21 anni, qui significa poco fa però rispetto al tempo degli antenati, almeno una generazione prima.

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Per quanto riguarda gli argomenti che non ci saranno in questi discorsi, mentre tu avrai interesse a chiedere ti indicherò da quali autori tu possa trovare delle risposte sia greci sia nostri.

Si accinge a citare della bibliografia.

Quelli che hanno scritto in greco in modo dispersivo di un argomento o di un altro sono più di cinquanta.

Varrone cita una bibliografia con un ordine interno e gerarchico, all’inizio infatti cita due re: Gerone sovrano di Siracusa e Attalo, sovrano di Pergamo; poi enumera cinque grandi filosofi: Democrito, Aristotele, Teofrasto; poi altri 24 col nome della patria in ordine alfabetico; sedici scrittori di cui non ha potuto conoscere l’origine e quindi non riesce a metterli in ordine alfabetico e per ultimo Magone. La maggior parte ci rimane sconosciuta, sono solo dei nomi, Varrone a sua volta lo ha ripreso da un’epitome di Magone. Columella ripete 44 nomi di questi 51, Plinio il vecchio ne riprende una trentina, tutti si sono probabilmente rifatti alla stessa fonte di Varrone, cioè Cassio di Dionisio epitomatore di Magone. Come scegliere la villa rustica

9. Bisogna stare attenti il più possibile per collocare la villa rustica ai piedi di un monte boscoso dove i pascoli sono abbondanti e anche la villa sia esposta ai venti che soffieranno nella campagna quanto mai salubri. La villa che è collocata verso l’oriente equinoziale è la più adatta perché d’estate ha l’ombra e d’inverno il sole.

Il punto più adatto è quello dell’equinozio, cioè dove il sole sorge il 21 marzo e il 23 settembre.

Se sarai costretto a costruire lungo un fiume bisogna preoccuparsi di porre la villa proprio di fronte infatti d’inverno diventerà molto fredda e d’estate insalubre.

La villa rustica deve essere ben costruita, affinché il padrone abbia voglia di andarci, la riflessione sulla posizione della villa è un concetto ripreso anche da Plinio.

Bisogna anche stare attenti se ci saranno dei luoghi paludosi sia per gli stessi motivi sia perché si sviluppano certi microbi che non si possono vedere con gli occhi ed entrano nel corpo attraverso l’aria passando per la bocca e le narici e producono gravi malattie.

Varrone allude a dei microbi, perché non si era capito come si prendesse la malaria. Avevano capito che l’ambiente paludoso non era un sito salutare ma pensavano che le malattie pervenissero attraverso l’aria e le narici.

Fundanio disse: “che cosa potrò fare se mi sarà capitato in eredità un fondo agrario di questo tipo, in modo che l’infezione nuoccia il meno possibile?”.

Abbiamo l’esempio di un personaggio che interviene nel dialogo, Fundanio, il suocero di Varrone. Fundanio è un personaggio noto, molto probabilmente è lo stesso Fundanio Gallo di un'altra opera di Varrone citata da Gellio, logistoricus de admirandis: Gaio Fundanio Gallo, era un proprietario terriero con terre vicino al Vesuvio, sua moglie in sabina, identificabile con Gaio Fundanio tribuno della plebe nel 68. Era amico di Cicerone, lo troviamo in una lettera al fratello Quinto del 59.

“A questa domanda persino io posso rispondere”, disse Agrio, “vendilo a qualsiasi prezzo e se non puoi abbandonalo”.

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Il personaggio che interviene è Agrio, comparso già nel secondo cap. del primo libro. È un filosofo che parla un po’ timidamente perché prima era stato quasi zittito da Stolone, che gli aveva fatto notare la sua una formazione filosofica avendo sottomano libri di Teofrasto, secondo Stolone erano opere erano più adatte ai filosofi che agli agrari. Perciò qui interviene timidamente con vel ego, vuol dimostrare di poter dare un consiglio concreto. Sono citati gli assi: monetine per significare qualsiasi prezzo. L’allevamento suino Chi parla è un grande agronomo: Gneo Tremelio Scrofa, della prima metà primo secolo a.C., scrive opere di agronomia, noi abbiamo solo una ventina di frammenti, Varrone lo cita come massimo esperto di agricoltura. Qui appare come personaggio consapevole della sua superiorità. Sapeva organizzare bene l’esposizione dei sui consigli, era un tecnico in grado di rispondere, inoltre era stato coinvolto anche nell’attività pubblica, nel 59 era uno dei viginti viri incaricati da Cesare per la divisione dell’ager campanus, raggiunse anche il grado di pretore. In questo passo è scelto come interlocutore non solo per la sua competenza, ma anche per il gioco di parole per il suo cognome, lo stesso Scrofa spiega che questo cognomen non deriva dall’allevamento suino, ma da un’origine molto più nobile, cioè suo nonno prima di una battaglia aveva promesso che avrebbe disperso i nemici come una scrofa disperde i porcellini.

10. Fino dalla mia giovinezza fui infatti interessato all’agricoltura e per quanto riguarda l’allevamento suino questo argomento è ben noto a me e a voi che siete grandi allevatori. Chi infatti di noi coltiva un fondo agrario senza avere dei maiali e chi non ha sentito i nostri progenitori valutare ignavo e spendaccione colui che avrà appeso nella dispensa un pezzo di carne suina salata proveniente dal macellaio piuttosto che dal proprio fondo agrario.

Si delinea una concezione arcaica e autarchica dell’agricoltura, tutto deve essere prodotto in proprio. È una mentalità consona la valore del mos maiorum. In altri passi Varrone mostra idee più moderne a favore degli scambi. Succidia: pezzo tagliato da sotto, pezzo di carne come lardo o prosciutto. Genericamente il pezzo di carne deve essere prodotto dall’azienda, questa è la premessa per dare consigli su come procurarsi un branco di maiali.

Perciò chi vuole avere un suo bel branco è opportuno che lo scelga prima di tutto dell’età giusta in secondo luogo di aspetto idoneo, cioè con membra grosse tranne i piedi e la testa, di un solo colore piuttosto che pezzate.

Si valutavano le parti del corpo che producevano meno carne come meno utili, quindi era un pregio avere testa e piedi piccoli, anche Aristotele ha scritto sugli animali e afferma la stessa cosa negli egeoponica.

Bisogna vedere che i porcellini abbiano le stesse caratteristiche e siano di ampie spalle. Si riconoscono i maiali di buona razza, dall’aspetto dalla prolificità e dalla regione di provenienza, dall’aspetto se sono belli i verri e le scrofe dalla prolificità se le scrofe partoriscono molti porcellini, dal luogo d’origine se te li sarai procurati piuttosto da quelle zone dove nascono robusti piuttosto che esili. Si è soliti comprare così.

Riporta delle sigle giuridiche, è sempre presente la garanzia giuridica, anche per gli altri acquisti riporta queste formule per evitare all’acquirente imbrogli.

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Garantisci che queste scrofe io possa averle secondo legge e non c’è imbroglio e non provengono da un gregge ammalato. Alcuni aggiungono che sono immuni dalla febbre e dalla dissenteria.

Non sappiamo di quale malattia si tratti, sono malattie che colpiscono soprattutto i porcellini, vengono citati solo i casi più diffusi: febbre e dissenteria. Le cure erano molto approssimative. Era molto importante assicurarsi almeno con la formula dell’acquisto la compera di animali sani. Dopo gli acquisti ci sono i consigli per il pascolo:

Il luogo per il pascolo adatto a questo tipo di bestiame perché piace non solo l’acqua ma anche il fango. E così dicono per questo motivo che i lupi quando hanno azzannato dei maiali li trascinano fino all’acqua perché i loro denti non possono sopportare il calore della carne.

Nel cap. 9 osserva che i suini sono anche in grado di difendersi. Sappiamo anche da Aristotele i maiali possono battersi con un lupo e nel libro nono racconta che addirittura un leone sarebbe stato messo in fuga da un verro.

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Lezione 5 06 Marzo 2013

Questo tipo di bestiame si alimenta soprattutto con le ghiande. Poi con le fave, l’orzo e tutti gli altri tipi di cereale, alimenti che non solo producono la grassezza ma anche un buon sapore della carne.

Consigli su come e quando condurre al pascolo, ci sono parti che trattano dell’allevamento caprinoe ovino che sono ancora più particolareggiati, per esempio gli ovini si nutrono di erba e quindi bisogna prestare attenzione alla qualità dell’erba, si precisa che l’erba è più saporita al mattino quando è bagnata dalla rugiada, qui per i maiali c’è una certa sintesi.

D’estate vengono portati al pascolo di mattina e prima che cominci la calura vengono condotti in un luogo ombroso in particolare dove ci sia acqua. Nel pomeriggio di nuovo una volta che è diminuito il caldo vengono portati al pascolo. D’inverno vengono condotti al pascolo non prima che sia svanita la brina e il ghiaccio si sia sciolto.

Adesso vengono i consigli per la riproduzione: Per la riproduzione i verri devono essere separati due mesi prima.

Il periodo di separazione viene riproposto anche per gli altri animali di allevamento, nel secondo capitolo del secondo libro si parla degli ovini, nel terzo capitolo dei caprini, c’è precisazione sul tempo di separazione.

Il periodo migliore per l’accoppiamento va dallo spirare del Favonio fino all’equinozio di primavera, infatti così avviene che le scrofe partoriscano d’estate.

Il tempo veniva precisato con elementi naturali, gli antichi sapevano la corrispondenza: il vento Favonio è citato anche altrove, ritenuto adatto per i periodi di accoppiamento anche degli altri animali, perchè è un vento tiepido che spira agli inizio di febbraio, si intende un periodo dal 7 febbraio al 23 marzo, soffia da ponente.

Infatti le scrofe hanno una gravidanza di quattro mesi e così partoriscono quando la terra è ricca di pascoli.

Varrone considera l’estate la stagione ricca per i pascoli, pensa a giugno, anche Columella e Palladio consigliano l’accoppiamento a febbraio in modo che i porcellini nascano a giugno. Aristotele invece sostiene che possano accoppiarsi in qualsiasi stagione, non precisa.

E le scrofe non devono accoppiarsi prima di un anno, è meglio aspettare venti mesi, in modo che partoriscano a due anni.

Anche gli altri agronomi considerano l’età minima di un anno, invece Aristotele non dà consigli agronomici e dà 8 mesi come periodo minimo e 15 anni come massimo. Gli altri come Columella e Palladio considerano 7 anni il limite di fecondità per le scrofe.

Una volta che hanno iniziato si dice che lo facciano per bene fino al settimo anno. Nel periodo dell’accoppiamento vengono condotte in terreni fangosi e in pantani, in modo che possano rotolarsi nel fango che per loro è un gradevole refrigerio come per gli uomini lavarsi.

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Quando tutte le scrofe hanno concepito di nuovo i verri vengono separati. I verri cominciano a montare a otto mesi e rimangono nel pieno vigore fino a tre anni, poi regrediscono finché arrivano al macellaio.

Aristotele dà curiose indicazioni: porcellini generati da un verro di 8 mesi non sono di grande qualità, dovrebbero avere almeno un anno. Columella e Palladio affermano che sono in grado di riprodursi fino a 4 anni e poi consigliano di castrarli in modo che possano meglio ingrassare.

Questi infatti fa da tramite al popolo della carne suina.

Populus contrapposto ai proprietari terrieri che non hanno bisogno di andare dal macellaio perché proprietari terrieri, la gente comune aspetta le distribuzioni di carne di maiale, caro porcina. Adesso si lancia sull’etimologia:

il maiale in greco si chiama us, una volta si chiamava thus da quel verbo che dicono thuein cioè immolare.

Propone un’etimologia legata al concetto di sacrificare. Anche Clemente Alessandrino (metà del secondo secolo) e Ateneo nei Deipnosofisti (intorno al 200 d.C.) riprendono questi accostamenti. Nel De lingua latina aveva fatto solo l’accostamento tra us e thus. L’etimologia forse più giusta si ricollega alla prolificità della scrofa, cioè alla radice indoeuropea su che significa mettere al modo.

Infatti dal bestiame suino sembra che abbia preso il suo primo indizio l’uso di sacrificare, di cui ci sono ricordi nel fatto che vengono sacrificati dei maiali durante le iniziazione ai misteri eleusini e nel fatto che quando si comincia a stringere in trattato di pace nel momento in cui si stipula un trattato si uccide un porcellino e nel fatto che nella prima parte del rituale nuziale gli antichi re e gli uomini più illustri in Etruria durante il rito del matrimonio la nuova sposa e il nuovo sposo prima di tutto sacrificano un porcellino.

I maiali sono le vittime abituali dell’Italia primitiva, sono gli animali domestici per eccellenza era anche l’animale meno costoso. Qui initiis nel rituale di Cerere ha vari significati, cerimoni iniziali che abbiamo visto per altri rituali, per Cerere pensiamo ai misteri eleusini che chiamiamo initiationem, tipico sacrificio è quello della porca praecitanea, cioè la scrofa immolata prima del raccolto, rituale ricordato anche da Catone. Anche nei rituali politici, nei trattati di pace si sacrificavano i porcellini, viene nominato anche nell’ Eneide di Virgilio e in Livio. Sacrificio suino anche da parte degli sposi. Erano rituali arcaici, ma il rituale si conserva nel fatto che quando si entra nella nuova casa la sposa unge gli stipiti della porta col grasso di maiale. COLUMELLA De agricultura Lucio Giulio Moderato Columella, di età imperiale, visse durante il primo sec. d.C. Il sue De agricultura è stato composto durante gli ultimi anni di Nerone. Era nato in Spagna a Cades nell’attuale Cadice, aveva proprietà sia in Italia che in Spagna e fa riferimento alla tradizione familiare, a volte fa riferimento allo zio Marco, definito dottissimo e diligentissimo agricoltore. Opera molto vasta, in 12 libri anche se il piano originario ne prevedeva 10 ne vennero aggiunti due, perché i suoi amici gli chiedevano di comporre libri sui doveri del fattore e della fattoressa. Anche qui come in Varrone gli argomenti sono ben articolati e organizzati libro per libro:

- il primo libro è su argomenti generali, - il secondo: coltivazione dei campi,

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- il terzo e quarto riguardano l’agricoltura più specializzata, coltivazione delle piante come l vite,

- il quinto coltivazione dell’ulivo, - il sesto e settimo trattano degli animali grossi, - l’ottavo e nono animali da cortile, - il decimo coltivazione degli orti, quello più poetico, - l’undicesimo e dodicesimo i compiti del vilicus e vilica con calendario agricolo e ricette

culinarie. Columella insiste sui vantaggi legati ad un ritorno all’agricoltura e sulla garanzia dei guadagni che l’agricoltura offre. Condanna l’estensione immotivata delle proprietà, la terra deve essere curata, e gestita oculatamente. Parla con affetto delle sue proprietà, infatti parla di agelli, campicelli. Le sue proprietà erano molto ampie nell’Italia centrale, una parte era vicino a Roma ed è interessante il tipo di coltura suburbana di tipo intensivo, non si coltivavano cereali, che arrivavano dall’Africa, ma soprattutto la vite. Si presenta come esperto di vigneti, le proporzioni sono importanti, la villa rustica deve essere proporzionale all’estensione della società. Il padrone non risiede nella villa rustica, però è bene che la villa rustica incoraggi le visite frequenti del padrone, quindi deve essere gradevole. Descrive le tre parti in cui deve essere articolata la villa rustica:

- Parte urbana in cui soggiorna il padrone, - Parte rustica raccomanda anche dove deve essere la stanza del fattore cioè vicino alla porta

d’ingresso per controllare, a sua volta deve essere controllato dall’amministratore, il procurator che l’avrà sopra la porta,

- Parte fructuaria, articolata in scomparti secondo i prodotti, che contiene i prodotti come l’olio e il vino, in cui deve esserci un posto per il torchio dell’olio, un altro per il vino prodotto, serve una cantina apposita per il vino cotto e per farlo cuocere, anche il fienile deve essere di due tipi, gli schiavi non sono trattati male, c’è un locale apposito per il bagno degli schiavi, in questo modo stando bene sono più produttivi.

Parla di una media proprietà e consiglia personale fisso che ci lavori composto da schiavi e da liberi, anche sui sorveglianti c’è una precisa gerarchia, quindi consiglia una proprietà equilibrata caratterizzata da una complementarietà di colture. Martin ritiene che la tenuta presa in considerazione da columella dovesse avere un’estensione di 2500 ettari. Columella mira alla razionalità economica, riserva una particolare attenzione a come il padrone deve trattare i sottoposti c’è più umanità che in Catone. Come si fa a tenere sotto controllo proprietà distanti? Consiglia di affidarle a coloni liberi, perché gli schiavi sono meno diligenti quindi per le terre coltivate a grano, se il padrone non può sorvegliarle, è meglio darle in affitto. Anche con gli affittuari il padrone deve essere corretto, cordiale e affabile. I coloni sono liberi ma è opportuno che siano stabili, garantendo il buon funzionamento, creando un rapporto di fiducia. È più organico di Varrone, compone un vero sistema organico destinato a rappresentare un punto di riferimento anche per i rinascimentali. La sua opera rappresenta la sintesi e l’elaborazione teorica dell’agricoltura. In età imperiale la terra si è concentrata nelle mani di pochi, ci sono uomini con grandissime proprietà terriere affidate ai procuratori e Columella non apprezza questo modo di fare. Infatti Columella enumera le conseguenze dell’assenteismo del padrone, seme di decadenza agraria che deve essere evitata. Inoltre lo schiavo non è un buon gestore, non sarà attento verso gli altri schiavi rendendo così meno produttivo il lavoro, quindi è meglio avere degli affittuari. Un buono schiavo è difficile da reperire, cita anche i costi degli schiavi, costa 7000 sesterzi, cioè l’equivalente di 7 iugeri di terra. È necessario che la terra sia coltivata bene, quindi bisogna usare tecniche appropriate, con concimi abbondanti, è contro il maggese. Anche la coltivazione dei legumi è importante per rendere la terra più produttiva, cita i lupini, le lenticchie, i piselli etc. infatti ingrassano i campi perché basta che il campo sia arato dopo il raccolto e questi diventano concime.

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11. Il vivaio per le viti deve essere fatto in una terra né troppo secca né troppo umida ma abbastanza soffice e fertile e allo stesso tempo di tipo intermedio piuttosto che troppo fertile sebbene quasi tutti gli autori avessero destinato a questo scopo il terreno più fertile cosa che io ritengo essere minimamente vantaggiosa per l’agricoltore.

Columella ha letto gli altri agronomi e quasi tutti destinano il vivaio della vite alla terra più fertile, anche Virgilio e Plinio nel XVII libro sostiene un terreno particolarmente fertile per il vivaio.

Infatti le piantine in una terra fertile sebbene rapidamente attecchiscano e crescano tuttavia quando hanno messo le radici se poi vengono trasferite in un terreno peggiore seccano e non possono crescere.

Le talee devono abituarsi ad un terreno non troppo fertile, sono consigli per coltivazioni molto importanti. Ma illustra anche per le vigne i termini della produzione dividendo tra vini pregiati e vini di massa. Nel primo caso non occorre che la vite produca molti grappoli, ma grappoli che producano un gusto nobile e pregiato, nel secondo caso è importante invece l’abbondanza. Compone un catalogo di vitigni, e descrive i tipi di vite più rappresentativi dell’impero. La descrizione dei singoli vitigni è molto precisa, elenca: vigore vegetativo, la forma delle foglie, il grappolo, la resistenza agli agenti atmosferici, la produttività e la conservabilità del vino. Punto focale dell’agricoltura è il rendimento economico. Presenta anche gli investimenti, viticolo, perché il proprietario vorrà sapere i costi, quale sarà il bilancio dei costi e dei ricavi. Fa parlare i timorosi che hanno paura dei diversi rischi, atmosferici, commerciali, critica di altri agronomi e possidenti che ritengono il vigneto incapace di ripagare gli investimenti finanziari. Prende spunto dagli argomenti a sfavore per confutarli, affermando che sia la mancanza di cure la causa della poca redditività dell’agricoltura. Compila un bilancio delle entrate e delle uscite biennale, sceglie una vigna to medio che remunera con interessi elevati i capitali investiti. Anche per la scelta delle talee Columella consiglia la massima cura nella loro scelta e dà vari consigli: i tralci dovranno essere raccolti da piante dalle migliori caratteristiche produttive, ha delle straordinarie intuizioni nella genetica vegetale. Infatti incrociare le specie si usava nel mondo antico per ottenere dei miglioramenti selezionando le varietà di uva di maggior pregio che spesso produce poco, allora consiglia gli innesti di una pianta dalla produttività particolare, il principio della selezione individuale. Ci sono dei caratteri devianti che possono essere interessanti, ciò che è diverso dalla norma, se può essere utile, deve essere selezionato e riprodotto. Fondamentali sono la potatura e l’innesto, dà quindi dei suggerimenti per valutare ogni ceppo e sul tipo di taglio. Nel quarto libro conclude con gli strumenti essenziali per la viticoltura, come i pali di sostegno, da dove si ricavano cioè dai castagni, dai salici, dalle ginestre. Il XII libro contiene anche delle ricette:

12. La conserva di cipolle. Si scelga una cipolla pompeiana o di ascalona o anche le semplici della marsica che i contadini chiamano unio/uniones, le cipolle da scegliere sono quelle che non hanno ancora germogli e non hanno dei germogli attaccati.

Gli antichi conoscevano diverse specie di cipolle, anche Plinio nel XIX libro enumera svariati tipi di cipolle e le loro caratteristiche. La cipolla di Pompei e di Ascalona, città della Palestina, noi parliamo di scalogno, tipo di cipolla che troviamo anche in altri passi. Unio significa perla, cioè piccola cipolla che assomiglia ad una grossa perla.

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Lezione 6 07 Marzo 2013

Prima di tutto si facciano essiccare le cipolle al sole, poi dopo averle rinfrescate all’ombra si mettano in un vaso, dopo aver messo sotto uno strato di timo o di origano e dopo aver versato il succo che sia formato da tre parti di aceto ed una di salamoia, si metta sopra un piccolo fascio di origano così da schiacciare giù le cipolle quando queste saranno imbevute si riempia il vaso con una simile mistura.

Ci sono delle varianti come l’utilizzo dell’allec, cioè il garum meno raffinato, ricordato da Marziale, ci sono varianti nella conservazione delle cipolle: Columella consiglia di lasciarle essiccare al sole mentre Plinio parla di una conservazione sotto la paglia. Le ricette esemplificate sono parecchie, si parla della melassa, dell’idromele, del formaggio, della frutta secca, dell’aceto, dei vari tipi di vini (condito, cotto, liscio), dei tipi di olio, carne insaccate. Questo libro offre un quadro ricco e dettagliato sui metodi di conservazione dell’agricoltura. Artigianato e commercio Il concetto di lavoro era molto diverso nel mondo antico: coloro che lavoravano con le proprie mani erano di bassa estrazione sociale, il solo modo nobile per un arricchimento certo era quello di far lavorare gli altri. La storia antica è stata scritta dagli appartenenti all’élite e questi non consideravano nemmeno l’artigianato. Cicerone nel primo libro del De officiis esprime il suo disprezzo per la piccola mercatura, semplice attività bottegaia con qualche piccolo guadagno che si accomuna alla valutazione negativa verso ogni attività manuale. Ma come fanno i nuovi ceti sociale ad emergere? Riuscendo a far lavorare gli altri, chi ha un’azienda può essere partito dal suo personale lavoro ma se poi è stato così abile da ingrandirlo diventando una specie di industriale allora sì che potrà accostarsi agli altri dirigenti, infatti è la capacità economica che permette questo passaggio sociale. Questa disponibilità può essere ottenuta mediante la grande mercatura che permette di ottenere grossi guadagni, chi apparteneva a ceti dirigenti poteva prestare e arricchirsi mediante la mercatura per mare. Per Cicerone tutti gli artigiani praticano un basso mestiere, è una mentalità aristocratica quella che disprezza ogni lavoro salariato. Quindi la bottega artigianale non si concilia con la concezione di uomo libero. Cicerone nel De officiis disprezza anche i mestieri che servono al piacere, nell’enumerarli si serve di un verso dell’Eunuchus (v.257) di Terenzio:

- pescivendoli, - macellai, - cuochi, - salsicciai, - pescatori, - poi i profumieri, i ballerini e i mimi e le mime.

Tutte quelle professioni che richiedono maggior sapere, come la medicina, l’architettura e coloro che insegnano le arti liberali, sono lavori utili a livello alto e sono onorevoli, per coloro al cui ceto si addicono, cioè non ai senatori. Seneca nell’epistola 41: il gran signore semina molto e molto presta a interesse, quindi non si sporca le mani, anche per lui il lavoro dell’artigiano è vile, non ha niente a che fare col valore. Spesso gli artigiani erano liberti. Chi si arricchisce può intraprendere la scalata sociale. La ricchezza è dunque la base indispensabile, anche se non sufficiente ad allontanare una certa aurea di sufficienza per i nuovi arrivati.

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Il nostro termine artigiano comprende ars quindi è implicita una valutazione positiva, in latino opifex è opus più facio cioè colui che compie un lavoro, masse servili. Cerano anche artigiani di lusso, specializzati. L’epigrafia è interessante nell’ambito dell’artigianato: abbiamo iscrizioni funerarie che ricordano i vari tipi di lavoro con bassorilievi o con l’indicazione del lavoro svolto. Continuiamo ad insistere su questa grossa differenza tra l’artigiano che lavora con le sue mani e quindi rimane al basso livello sociale e l’industriale che riesce a fare un lavoro in grande stile, proprietario di un’azienda e faceva lavorare gli altri sottoposti. Ad esempio abbiamo la tomba del fornaio Eurisace, che testimonia la notevole ricchezza a cui era arrivato, è una tomba personalizzata e vanta il suo lavoro, è a forma di panarium con elementi che ricordano i forni e le impastatrici meccaniche, poi faceva lavorare una serie di schiavi che producevano pane per le distribuzioni al popolo. Quindi chi diventava imprenditore di una grande azienda poteva avere posizioni altolocate. Cicerone ammette di conoscere Vestorio un industriale di Pozzuoli, che aveva introdotto in Italia la tecnica egiziana un colorante a base di rame, blu vivo, chiamato Vestorianum, il suo successo commerciale gli permise di avvicinarsi alle persone che contavano. I monumenti funerari ci danno un’idea dei vari tipi di lavoro. Anche nell’ambito della manodopera servile c’erano dei lavoratori specializzati che formavano dei gruppi itineranti a seconda delle richieste dei committenti, come i mosaicisti, marmorari. I loro padroni facevano grossi guadagni. Uno schiavo istruito e specializzato valeva molto sul mercato, potevano essere affittati, oppure usati direttamente se il proprietario aveva un’officina. La manodopera si diversificava, se consideriamo i testi letterari ed epigrafi abbiamo 225 lavori specializzati. Nell’Aulularia di Paluto (inizio secondo sec. a.C) c’è una parte del brano che critica le mogli ricche piene di pretese e scrive un elenco di vari fornitori che il marito deve pagare. La donna amante del lusso si rivolge ad una lunga serie di artigiani che Plauto enumera, sono 23 tipi: calzolai di scarpe leggere che lavorano seduti, fabbricanti di reggipetti, tessitori di stoffe con passamaneria, fabbricanti di cofanetti per oggetti preziosi, e siamo ancora all’inizio del secondo sec. a.C. C’è un passo di Plutarco nella vita di Numa in cui gli attribuisce la suddivisione del popolo secondo i mestieri, che si ricollegano ai collegia i quali avevano dei loro culti religiosi:

- flautisti - orefici - falegnami - tintori - cuoiai - conciatori - fabbri - vasai

Floro ascrive a Servio Tullio la divisione del popolo, probabilmente è più tarda, almeno di età repubblicana. Anche Plinio in più libri cita i collegia istituiti da Numa, solo usando un ordine un po’ diverso, ciò vuol dire che i due autori non hanno seguito la stessa fonte, quindi era diffusa l’idea di far risalire addietro nel tempo fino a Numa la suddivisione delle istituzioni lavorativa. Magari in una bottega c’erano gruppi che producevano un certo tipo di oggetto. Chi era ricco poteva diversificare i suoi investimenti. La percentuale degli occupati la sappiamo dai papiri che riportavano censimenti, ad esempio in un rendiconto di un villaggio egizio il 68% era dedito all’agricoltura, il 9,5% all’artigianato e il resto all’attività commerciale e ad altri lavori. La lavorazione dell’argilla di solito avveniva nelle periferie, perché c’era la materia prima, le botteghe invece si trovavano in Roma. Alti erano i numeri di manodopera servile impiegati, ad esempio il ricco Crasso Dives diversificava le sue ricchezze e faceva speculazioni mobiliari, e aveva alle sue dipendenze più di 500 schiavi.

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La manodopera servile si poteva spostare creando filiali di produzione come la ceramica aretina, prodotta a stampo col disegno a rilievo, secondo i modelli della fabbrica centrale, ha delle succursali in Gallia, per ovviare i problemi di trasporto. La manodopera esperta insegnava ai nuovi come produrre. Anche i liberi ricavavano poco dal loro lavoro, possiamo ricavare dall’Edictum de pretiis in cui ci sono gli stipendi, chi guadagna è il datore di lavoro. Ci sono dei casi di artigiani di un certo livello, che sono anche artisti che possono vantare il proprio prodotto firmandolo, IV sec a.C. la cista Ficoroni è firmato Novio Plauto. Quando c’è un imprenditore che produce ad esempio lucerne c’è il marchio di fabbrica, possono avere il nome del sovrintendente. La produzione in serie era propria degli oggetti più diffusi come le lucerne. Le botteghe erano molto diffuse in Roma, abbiamo infatti una testimonianza in Plauto, Marziale e Giovenale che si lamentano del loro rumore. Si concentravano in certi quartieri, erano contrarie al decoro del centro urbano, ad esempio Varrone affermò che la dignità del foro crebbe con la sostituzione delle botteghe dei macellai con quelle dei banchieri. Le botteghe poi si riunivano, c’erano i grandi mercati più distanti dal foro, nel mondo antico hanno la tendenza a riunirsi per la pratica dello stesso lavoro, questi gruppi avevano i collegia che li raggruppavano, lo vediamo anche sui muri di Pompei per la propaganda elettorale, si raggruppano per sostenere un certo candidato. I collegia sono infatti coinvolti nel gioco delle pressioni politiche, ci sono i rogatores che invitano a votare e ci sono dei personaggi singoli o categorie che sono state conteggiate, 57 categorie collettive, 21 riguardano arti e mestieri. I pistores producevano pani e dolciumi e avevano una loro importanza e sostenevano a Pompei come duoviri Giulio Polibio viene elogiato per il fatto che portava pane buono. Le suddivisioni qualificano il lavoro:

- Lignari plostrari che fabbricano i carri - Saccarii: facchini - Muliones: i mulattieri - Tonsores: barbieri - Unguentores profumieri.

Quando nel basso impero scarseggia la manodopera i figli devono fare lo stesso mestiere del padre.

13. Lastrina funeraria Dis manibus Publi Ragoni Erotiani collegiae pingentes Agli dei mani di Publio Ragonio Eroziano. I colleghi pittori hanno dedicato.

Lastra di marmo proveniente da ostia (il XIV volume riguarda il Lazio) è una lastrina da colombario, conservata nel lapidario di ostia, del secondo secolo. Il personaggio è probabilmente un liberto fra i numerosi pittori, per il suo cognomen che è grecanico, denuncia un’origine servile. La dedica è posta dai colleghi perché i collegia rendevano gli onori funebri ai loro iscritti quando non avevano famiglia, infatti il gentilizio Ragonius non è diffuso ad Ostia e potrebbe essere un artigiano venuto da fuori. Ostia era una città importante come porto di Roma, quindi c’erano case dipinte perciò c’era un collegio di pittori, sono documentate numerose case di livello medio ornate di affreschi, c’erano tante occasioni per dipingere. Piaceva nelle case fare raffigurare divinità protettrici, nature morte, giardini etc. Tra i collegia i più diffusi erano quelli dei fabbri e dei centonari che lavorano le stoffe e per spegnere gli incendi perché preparavano stoffe di lana. Qui a Pavia abbiamo una testimonianza di naute (Abbiamo una vecchia opera monumentale Waltzing 1895-1900 sui collegia). La dedica qui è posta dalle persone cioè i pittori che pongono la dedica al loro consociato.

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Manuali tecnici: -Vitruvio dedica ad augusto ottaviano il De architectura e si rivolge a lettori di alto livello, - Frontino indirizza al curator aquarum, - Gromatici veteres, dal primo al quinto sec. prendono nome dalla groma con cui si prendevano le misure per la delimitazione dei campi, ci sono anche annotazioni giuridiche.

14. Base di statua

marcus caerellius iazemis quinquennalis pistorum terzium et perpetuus et codicarius item mercator frumentarius invicto herculi ex voto donum dedit. Marco cerellio iazemis presidente del collegio dei fornai per tre volte e a vita e commerciante di frumento che provvede anche al trasporto fluviale (codicarius) offrì in dono a ercole invitto in base al voto fatto.

Base marmorea del Lazio rinvenuta a Tivoli con dedica a Ercole. Lezione 7 12 Marzo 2013 Il frumento veniva messo sulle zattere e portato verso Roma. Nel 1887 nel porticato al tempio di Ercole vincitore venne trovata una base con la dedica insieme ad altre basi che sostenevano statue di personaggi illustri all’epoca di adriano, 117-138, quindi possiamo datare la nostra base in quegli anni, cioè prima metà secondo sec. Il personaggio è un liberto, infatti Iazenis è un nome grecano e doveva essere della famiglia dei Cerelli, famiglia di buon livello sociale, che ebbero cariche pubbliche nel centro urbano di Ostia, hanno il loro momento più importante tra secondo e terzo secolo. Il nostro personaggio fa carriera: è stato quinquennale, cioè presidente del collegio dei fornai. Il Cognomen iazenis è un grecanico, poco attestato. Era un personaggio così in vista che la carica poi gli è stata data a vita. Era un collegio abbastanza importante quello dei fornai che hanno scelto la titolatura per il loro presidente: Quinquennalis, è un termine che deriva dalla carica municipale, quelli che facevano il censimento ogni cinque anni. Questa posizione di rilievo che si inquadra nella sua rilevanza frumentale, si occupa completamente del commercio di grano: di imbarcare il frumento sulle zattere che sarebbero state trascinate a Roma. Queste chiatte risalivano il Tevere trascinate da buoi. Risiedeva ad ostia molto probabilmente, acquistava importanti partite di grano per portarle a Roma. Questa base è posta ex voto, per grazia ricevuta, infatti Ercole protegge il commercio e i trasporti, perché ha viaggiato tanto. Abbiamo un esempio di un commerciante che rende grazia alla divinità che ha protetto il suo commercio. Esempio di lavoro artigianale:

15. Iscrizione di un calzolaio Marco Clodio Massimo figlio di Marco calzolaio militare fece fare per testamento a se stesso e a Quadrato suo liberto.

Da Vercelli (V vol. = Italia settentrionale) Edicola in marmo bianco, dentro l’incavo sono scolpiti due mezzi busti, sono maxilli togati. In basso c’è la fascia con iscrizione, sono tre linee.

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Non si sa dove sia stato trovato questo reperto, se ne ha notizia da metà del seicento, era inserita nel muro di cinta del giardino dei domenicani. Lì rimase fino al settecento e poi venne trasportata nel seminario vescovile e infine al museo di Vercelli. La datazione è abbastanza alta, infatti abbiamo la U al posto della i, arcaismo. Il mestiere: costui aveva una certa disponibilità economica, aveva almeno un liberto. Caligarius: calzolaio militare (il mestiere di calzolaio è ampiamente specializzato), la caliga è la tipica scarpa del soldato. La produzione era in serie per i militari. Il monumento non è lussuoso, comunque si nota la formalità con cui vuole presentarsi, infatti si presentano togati in modo ufficiale. Dal punto di vista archeologico si tratta di arte provinciale, infatti le pieghe della toga sono rigide. Onomastica: tende ad una datazione alta, prima metà primo secolo. Clodius è la variante popolare di Claudius. Il liberto si chiama Quadratus, il suo cognomen non è grecanico, significa robusto, è beneaugurante. Formula finale scritta per esteso è indicativo di una datazione piuttosto alta. Il ricordo del mestiere è indicato da Caligarius, in altre tombe di calzolai invece abbiamo dei bassorilievi che ricordano il mestiere, ad esempio uno che si fa ritrarre in nudità eroica e nel frontoncino sono esposti due modelli con cui avrà lavorato. Troviamo anche iscrizioni di sutores, sutor è il nome generico per i calzolai, a mediolanum è ricordato un comparator mercis sutoriae, commerciante all’ingrosso, sono ricordati più liberti. Sutor si riferisce al cucire le calzature. Come lavoravano i sutores? Prima dovevano ottenere la merce, si rifornivano dai cuoiai, quindi prendevano il materiale già conciato e poi loro tagliavano la forma adatta. Ci sono diversi livelli dell’ars sutrina. Ci sono tanti vocaboli che definiscono i diversi aspetti di questo lavoro:

- crepidarius: quello che produce il sandalo, la scarpa più semplice, liscia; - gallicarius: la gallica è una rozza scarpa da uomo; - calciolarius: che produce il calceus cioè la scarpa o stivaletto che sale fino al polpacci, usati

per uscire; - solearius: quello che produce i sandali, ma è anche definito come baxearius, oppure ancora

diabathrarius sempre per indicare i produttori di sandalo. Un termine un po’ dispregiativo è sutor cerdus che produce le scarpe meno eleganti. Il sutor lavorava seduto, cominciava il lavoro tagliando il cuoio con un trincetto detto cultel trepidarius. Nella differenziazione se la bottega era grande, c’era chi tagliava e chi cuciva. Fistula sutoria che preparava il passaggio del filo.

16. Epigrafe funeraria

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Lucio Calidio Erotico da vivo fece per sè e per Fannia Voluttà. Oste facciamo i conti- hai un sestario di vino un’asse per il pane e due assi per il companatico, -va bene- otto assi per la ragazza- anche questo va bene- due assi il fieno per il mulo- questo mulo mi manderà in rovina. L’iscrizione venne trovata a Isernia, nel Sannio, infatti si trova nel nono volume del CIL, e nell’ILS tra le iscrizioni tra gli osti e i commercianti. Dopo il testo c’è la scenetta, la cui interpretazione non fu subito chiara: la figura di sinistra è stata vista come figura femminile perché ha l’abito lungo, Mommsen non aveva visto l’iscrizione ma ripete la descrizione di un autore settecentesco, Guarnieri: una donzella porge un mazzo d’erba ad un uomo.

Si capisce che è un viaggiatore: mantello e cappuccio. La datazione è verso il primo secolo, grafia bella e chiara. Si trova al Louvre attualmente. È singolare a partire dall’onomastica: Eroticus e Voluptas sembrano scelti apposta, erano forse una coppia. Il Sestario è la misura del vino, perché era la sesta parte del congio, da cui deriva congiarium le distribuzioni, equivale a tre litri e un quarto. Quindi la sesta parte è mezzo litro. Un asse per il pane, costa poco, assis è l’antica moneta romana, la monetina. È in origine un decimo del denario, poi un sedicesimo. Comunque è sempre una moneta spicciola. Il prezzo della ragazza non è poi tanto basso, confrontando con iscrizioni parietali di Pompei: cinque assi da ciascun uomo. Forse era una stagione avanzata, quindi per questo il fieno forse ha avuto un rialzo di prezzo. È comunque un lavoro di basso livello sociale. Tempo libero: la corsa dei cavalli Era uno dei passatempi prediletti, avveniva nel circo. Momento fatidico quando i cavalli devono allinearsi alla partenza, di solito ci sono 4 fazioni con 4 colori: verdi, bianchi, azzurri e rossi. Di solito ci sono tre carri per ciascuna fazione, quindi 12 cancelli. Nel caso di tre carri per ciascuna fazione la corsa era detta ternae factiones.

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Sotto Domiziano si arrivò a sei colori. C’erano due carri a volte e allora si chiamavano binae. Raramente erano quattro, quaternae. Le fazioni potevano anche far correre un solo carro quindi la corsa era detta singulae, e in questa di solito correvano gli aurighi più famosi. Abbiamo testimonianza di questo da un’iscrizione funeraria di Gaio Apuleio Diocle, in cui ricorda tutta la sua carriera: sotto i regni di Adriano e Antonino Pio, quindi secondo secolo d.C., enumera le sue vittorie: 1462. Guadagnavano anche bene. Normalmente le corse si facevano con le bighe le trighe e quadrighe. Poi le quadrighe presero il sopravvento, piacevano di più. Costui si segnala solo per tre vittorie con le bighe. Le trighe sono abbastanza rare, solo 4 vittorie. Vennero fatte anche gare di sette cavalli, si tratta di una novità dell’inizio del secondo secolo in cui si voleva stupire il pubblico, infatti Nerone a Olimpia fece gareggiare per lui un tiro di dieci cavalli. Ci poteva essere anche la corsa degli aurighi per salire sul cocchio. La partenza era data dalla caduta della mappa, un tovagliolo bianco. Da un autore tardo, Cassiodoro, abbiamo l’origine di questo modo per indicare la partenza: Nerone alla fine del pranzo avrebbe lasciato cadere il tovagliolo per indicare che potevano iniziare le corse. Anche se l’auriga cadeva, se il cavallo tagliava il traguardo era vittoria:

17. Infatti nel circo aggiogati al carro senza dubbio dimostrano di capire il tifo e l’amore per la gloria. Durante i giochi nel circo, dei lidi secolari di Claudio Cesare, poiché l’auriga Corace della fazione bianca era caduto alla partenza, (i cavalli) presero il primo posto e lo mantennero facendo posizione prodigandosi e facendo contro gli avversari tutto quello che avrebbero dovuto fare sotto la guida di un auriga espertissimo, quando c’era da vergognarsi che le arti degli uomini fossero sconfitte dai cavalli. Compiuta a regola d’arte la gara, si fermarono al traguardo.

Si cita un episodio avvenuto durante i ludi seculares, Svetonio nella vita di Claudio dice che l’imperatore li avrebbe fatti celebrare col pretesto che Augusto li avrebbe anticipata rispetto alla data giusta. La nozione di Seculum nel mondo antico è abbastanza elastica, sono gli aruspici etruschi che cercarono di definirlo. Augusto celebrò i ludi seculares nel 17 a.C. e Claudio trovò il modo di rinnovarli nel 46 d.C., calcolando che in quell’anno Roma aveva compiuto l’ottavo secolo. Corace è un auriga con nome grecanico. I giri erano sette. Ad ogni giro si abbassava un delfino, sacro al dio Nettuno perché al circo massimo c’erano gli altari. Erano corse di circa sette km. Gli spettacoli teatrali Gli spettacoli teatrali si affermano a Roma nella seconda metà del terzo secolo a.C. abbiamo un riferimento cronologico preciso: 240 a.C, cioè l’inizio degli spettacoli teatrali. Livio Andronico fu il primo a mettere in scena un dramma, originario di Taranto portato a Roma dopo la conquista della città (272 a.C.), poi venne liberato da un appartenente alla gens Livia.

18. Pertanto questo Livio per primo rappresentò un dramma sotto il consolato di Gaio Claudio figlio del ceco e di Marco nello stesso anno in cui nacque Ennio, 514 anni dopo la fondazione di Roma come dice questi che noi seguiamo.

Cicerone usa il termine fabula, non specifica tragedia o commedia.

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La certezza della datazione è data dalla coppia consolare: il primo console è indicato col patronimico, era Gaius Claudius Centho, e sono i consoli del 240 a.C. Gaio Claudio Centone non è ricordato con il suo cognome che è poco noto, ma come figlio di un famoso personaggio, Appio Claudio Ceco, che era più famoso del figlio, famoso censore costruttore della via Appia. Avvenimento ricordato anche da Gellio nel XVII libro delle Notti attiche ricorda questo anno per la prima rappresentazione teatrale e poi si cita la nascita di Ennio: nacque nel 239, la coppia consolare all’epoca repubblicana non entrava in carica il primo gennaio ma entrava in carica a marzo, e poi c’è la datazione ab urbe condita (753). È citata la fonte: Attico, scrisse un liber annalis, e qui Cicerone lo segue. Accio, poeta del 170 a.C., e Attico discutono sulla cronologia precisa della rappresentazione teatrale di Livio Andronico e qui Cicerone sceglie Attico, come maggiore autorità, perché Attico avrebbe trovato questa notizia in antiquis commentariis. Sicuramente comunque fu Livio Andronico il primo ad introdurre le rappresentazioni sceniche complete in Roma. Gli fu inoltre concesso di abitare nel tempio di Minerva, la dea che presiedeva le opere intellettuali, nel tempio di Minerva aveva infatti sede il collegium scribarum histrionumque, l’associazione di chi componeva e rappresentava. Anche Livio nel settimo libro scrive che Livio Andronico fu il primo a realizzare un dramma a soggetto, con un copione interamente scritto. Nel primo libro racconta che Tarquinio Prisco stabilì un luogo per gli spettacoli, in cui sarebbe sorto il Circo Massimo. Costruzione di una struttura autonoma per assistere allo spettacolo. Quando sono stati istituiti? Livio osserva che nel 194 a.C. gli edili resero scenici i ludi megalenses, per la prima volta i senatori assistettero in posti separati a quelli del popolo. Ludi scenici hanno tante origini: Livio per il 365 a.C. ricorda che per placare l’ira degli dei si istituirono ludi scenici. Sono diversi da quelli di Livio Andronico, con ballerini fatti venire dall’Etruria, i giovani cominciarono a imitarli, si scambiavano motteggi, la novità piacque, agli indigeni, etruschi, il ballerino in etrusco era hister e vennero così chiamati histriones. C’è una continua evoluzione: questi migliorarono col tempo rappresentando satire ricche di melodie, molto importante è la presenza della musica. Il canto era regolato dal suono dl flauto. La gioventù romana promosse a maggior dignità artistica una forma che in origine era legata alle feste agreste. Può essere immaginata come una serie di scenette.

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La Casa Romana Lezione del 14 Marzo tenuta da Camilla Romano Bruno PROGETTO PRIMO FATTORE Architectura autem constat ex ordinatione, qua graece taxis dicitur, et ex dispositione, hanc autem Graeci diathesin vocitant, et eurythmia et symmetria et decore et distributione quae graece oeconomia dicitur. Ordinatio est modica membrorum operis commoditas separatim universeque proportionis ad symmetriam comparatio. Haec componitur ex quantitate quae graece posotes dicitur.. Dispositio autem est rerum apta conlocatio elegansque compositionibus effectus operis cum qualitate. Eurythmia est venusta species commodusque in conpositionibus membrorum aspectus. Haec efficitur, cum membra operis convenientia sunt altitudinis ad latitudinem, latitudinis ad longitudinem, et ad summam omnia respondent suae symmetriae. Item symmetria est ex ipsius operis membris conveniens, consensus ex partibusque separatis ad universae figurae speciem ratae partis responsus. Distributio autem est copiarum locique commoda dispensatio parcaque in operibus sumptus ratione temperatio. (Vitr., I, II) Ratio venustatis vero, cum fuerit operis species grata et elegans membrorumque commensus iustas habeat symmetriarum ratiocinationes. SECONDO FATTORE DISTRIBUZIONE INTERNA DEI VANI E DEGLI AMBITI CHE FORMANO L’UNITÀ ABITATIVA TRE TIPOLOGIE ABITATIVE: · CASA A TRANSITO SEQUENZIALE · CASA-CORRIDOIO · CASA-PATIO MODALITÀ ORGANIZZATIVA DELLA CASA-PATIO: · ASSIALE: razionalizzazione e nitida organizzazione della domus, al fine di orientare e guidare il visitante, attraverso una successione serrata di linee di fuga, volumi e piani, verso la stanza principale aperta nel fondo, dove era destinato ad essere ricevuto. SOLUZIONE PROPRIA DELLA CASA AD ATRIO · ORTOGONALE: quando in età imperiale la semplice casa ad atrio sarà sostituita dalla casa a peristilio, come centro nevralgico della unità abitativa, un’ordinazione più varia e movimentata sarà richiesta, grande libertà compositiva sarà concessa. PLANIMETRIA DELLA DOMUS-ATRIO

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VESTIBULUM È un luogo di transito più che di permanenza, è dove comincia il rituale della salutatio mattutina del cliens al suo dominus. Svolge la prima fase di questo rituale, ovvero l’accesso, dove si aspetta che le fauces della domus siano aperte e quindi di essere ammessi nel patio. Tre funzioni principali sono dal vestibulum svolte: smistamento, la selezione di quei clientes e amici che saranno ammessi all’interno della domus; propaganda, attraverso simboli e icone svariati, in quanto esso è la facciata della domus sulla strada, è come la domus vuole presentarsi al mondo di fuori, il marchio rappresentativo della stessa; baluardo ultimo dell’intimità della domus, in quanto si tratta ancora del foris e non dell’intus, che deve essere difeso e vigilato da schiavi-portieri. “Aemilio dabitur quantum licet, et melius nos egimus”. Huius enim stat currus aeneus, alti quadriiuges in vestibulis, atque ipse feroci belatore sedens curuatum hastile minatur eminus et statua meditatur proelia lusca. (Juv, 7, 124-128) ipse inter primos correpta dura bipenni limina perrumpit postisque a cardine uellit 480 aeratos; iamque excisa trabe firma cauauit robora et ingentem lato dedit ore fenestram. apparet domus intus et atria longa patescunt; apparent Priami et ueterum penetralia regum, armatosque uident stantis in limine primo. 485 at domus interior gemitu miseroque tumultu miscetur, penitusque cauae plangoribus aedes femineis ululant; ferit aurea sidera clamor. (Virg, Aen,II, 479-488) DUE TIPOLOGIE DI VESTIBULUM:

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· VESTIBULUM ALLA ROMANA (quello spazio che si viene a creare tra la facciata della strada e la porta della domus, rientrata rispetto a questa stessa)

· VESTIBULUM ALLA GRECA (un basamento più ampio e lavorato, rialzato tramite scalinata rispetto al piano della strada, decorato con pilastri e colonne)

ATRIUM: situato nella parte anteriore dell’edificio, appena all’entrata

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(casa dei Vettii, Pompei) CINQUE TIPOLOGIE SECONDO VITRUVIO: Cava aedium quinque generibus sunt distincta, quorum ita figurae nominantur: tuscanicum, corinthium, tetrastylon, displuviatum, testudinatam. Tuscanica sunt, in quibus trabes in atrii latitudine traiectae habeant interpensiva et collicias ab angulis parietum ad angulos tignorum incurrentes, item asseribus stillicidiorum in medium conpluvium deiectus. In corinthiis isrdem rationibus trabes et conpluvia conlocantur, sed a parietibus trabes recedentes in circuitione circa columnas componuntuntur.

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(casa di Olconio, Pompei) Tetrastyla sunt, quae subiectis sub trabibus angularibus columnis et utilitatem trabibus et firmitatem praestant, quod neque ipsae magnum impetum coguntur habere neque ab interpensivis onerantur.

(casa dei Ceii, Pompei) Displuviata autem sunt, in quibus deliquiae aream sustinentes stillicidia reiciunt. Haec hibernaculis maxime praestant utilitates, quod compluvia eorum erecta non obstant luminibus tricliniorum. Sed ea habent in refectionibus molestiam magnam, quod circa parietes stillicidia defluentia, continent fistulae, quae non celeriter recipiunt ex canalibus aquam defluentem itaque redundantes restagnant, et intestinum et parietes in eis generibus aedificiorum corrumpunt.

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Testudinata vero ibi fiunt, ubi non sunt impetus magni et in contignationibus supra spatiosae redduntur habitationes. (Vitr, VI,III)

(casa dei Cervi, Ercolano) FUNZIONI DELL’ATRIUM: · ATTESA: si mostra come un punto di convergenza all’interno della casa, una piazza in miniatura, luogo di incontro per i clientes nell’attesa della salutatio, ovvero nell’attesa di essere ricevuti nelle stanze più interne e private della casa, dove il padrone risiedeva. Marziale descrive il punto di vista del cliens, ovvero di chi aspetta, che nel migliore dei casi potrà ricevere una misera ricompensa per la propria fedeltà ( IX, 100): Denaris tribus invitas et mane togatum observare iubes atria, Basse, tua, deinde haerere tuo Iateri, praecedere sellam, ad viduas tecum plus minus ire decem. Trita quidem nobis togula est vilisque vetusque: denaris tamen hanc non emo, Basse, tribus. · PROPAGANDA: l’atrio si eleva a simbolo per eccellenza del prestigio, della virtus, della nobilitas, dei padroni della domus. È luogo di articolazione delle relazioni con il pubblico, amici e clientes, che andavano impressionati con pitture murali, mosaici, colonnati, statue; con i propri antenati, dato che si usava esporre le imagines e gli stemma sulle pareti laterali dell’atrium; con il divino, dato che le statue più frequentemente presenti erano quelle dei Lari. Esempio di sfoggio di ricchezza e funzione propagandistica dell’atrio: Ego autem collecto spiritu non destiti totum parietem persequi. Erat autem venalicium <cum> titulis pictis, et ipse Trimalchio capillatus caduceum tenebat Minervamque ducente Romam intrabat. Hinc quemadmodum ratiocinari didicisset, deinque dispensator factus esset, omnia diligenter curiosus pictor cum inscriptione reddiderat. In deficiente vero iam porticu levatum mento in tribunal excelsum Mercurius rapiebat. Praesto erat Fortuna cornu abundanti copiosa et tres Parcae aurea pensa torquentes. Notavi etiam in porticu gregem cursorum cum magistro se exercentem. Praeterea grande armarium in angulo vidi, in cuius aedicula erant Lares argentei positi Venerisque signum marmoreum et pyxis aurea non pusilla, in qua barbam ipsius conditam esse dicebant. Interrogare ergo atriensem coepi, quas in medio picturas haberent." Iliada et Odyssian, inquit (Petr, Satyr,29) TABLINUM È il luogo più intimo della casa e meno attestato dalle fonti. Si tratta della SALA DI RICEVEMENTO del padrone, non per la turba, che si affolla nell’atrium, bensì per gli amici, per gli intimi.

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· Sede del potere: è dove il dominus esercita la patria potestas sulla propria famiglia e per continuità sui clientes e amici. Il pavimento è rialzato rispetto al livello dell’atrium; il suo interno è occasione di sfoggio di luxuria, mosaici, pitture, stucchi, ma risulta sempre protetto all’occhio esterno indiscreto, grazie a delle cortine che si aprono solo al momento della ricezione da parte del dominus. · Archivio: raccolta dei documenti relativi all’attività pubblica, al negotium della domus, documenti che i senatori o i funzionari di stato romani si tramandavano di generazione in generazione; segno di riconoscimento della nobilitas romana, ma non disponibile al pubblico. (Plinio, N.H. 36,7) · Sala da pranzo: occasionalmente, per eventi importanti, ufficiali, quando il numero degli invitati era superiore alla capacità di accoglienza dei triclinia.

(casa del tramezzo del legno, Ercolano) PERISTILIUM Peristyla autem in transverso tertia parte longiora sint quam introssus. Columnae tam altae quam porticus latae fuerint peristyliorum; intercolumnia ne minus trium, ne plus quattuor columnarum crassitudine inter se distent. Sin autem dorico more in peristylo columnae erunt faciundae, uti in quarto libro de doricis scripsi, ita moduli sumantur, et ad eos modulos triglyphorumque rationes disponantur. (Vitr., VI, III, 7) Origini L’ipotesi più frequentemente sostenuta è quella di origini greche, di una diffusione del peristilio a partire dal III-II a.C., quando il fenomeno dell’ellenizzazione romana raggiunse il suo picco. Eppure, il porticato greco non presentA le caratteristiche distintive di quello romano: la regolarità e

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l’ordine della pianta e la presenza del viridarium. È stato allora supposto che un elemento innovativo greco, il patio colonnato, sia andato a fondersi con uno tradizionalmente romano, l’hortus. L’evoluzione hortus-peristilium non può sicuramente definirsi lineare né sistematica, dettata prevalentemente dalla disponibilità spaziale ed economica. PERISTILIUM – ELEMENTO SISTEMATICO DELL’ARCHITETTURA DI ETÀ IMPERIALE (da testimonianze di autori come Plinio il Giovane, Petronio, Giovenale, capiamo che il I d.C. è il secolo della fioritura del porticus-peristilium) Va a rimpiazzare l’atrium, sia per somiglianza formale (peristilio-atrio corinzio) e funzionale (illuminazione, areazione, raccolta acqua piovana, punto nevralgico ordinatore della disposizione interna della domus). NUCLEO DELLA VITA PRIVATA DELLA DOMUS IMPERIALE: SENSUALITÀ, RICREAZIONE, NATURALISMO, TRANQUILLITÀ (otium epicureo), SIMBOLO DI STATUS SOCIALE, DI RICCHEZZA, DI POTERE. Elementi decorativi comuni: marmo, fontane e giochi d’acqua, mosaici, pitture murali, rappresentazioni statuarie (Diana, Apollo, Mercurio, satiri, ninfe), piante e animali, spesso per dare un tocco esotico. Spesso si tentava di personalizzare il proprio peristilio, decorandolo secondo temi della letteratura.

(peristilio casa dei Vettii, Pompei) Esempio di critica di un lusso troppo sfrenato, tacciato come cattivo gusto, tipico dei nuovi ricchi: balnea sescentis et pluris porticus in qua gestetur dominus quotiens pluit. anne serenum expectet spargatque luto iumenta recenti? hic potius, namque hic mundae nitet ungula mulae. parte alia longis Numidarum fulta columnis surgat et algentem rapiat cenatio solem. quanticumque domus, ueniet qui fercula docte conponit, ueniet qui pulmentaria condit. hos inter sumptus sestertia Quintiliano, ut multum, duo sufficient.. (Juv, VII, 178-187)

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CUCINA È LUOGO INTORNO AL QUALE GRAVITA TUTTA LA PARTE NON CONVENZIONALE E NON SOGGETTA AL PUBBLICO DELLA DOMUS, IL MONDO INTERORE. Si trova generalmente in luoghi appartati della casa, con accesso diretto al peristilio, in tandem con la latrina( sia Lucilio che Varrone parlano della coppia culina-latrina); si tratta della zona di servizio. Costituita generalmente da un focolaio, un lavello e occasionalmente un forno; le immagini tradizionali che la letteratura ci offre della culina sono spesso negative, come luogo pieno di fumo, fuliggine, ad alto rischio di incendio, cattivi odori, grasso (Marziale, Seneca, Giovenale). Tradizionalmente era presente anche una finestra, per permettere l’areazione e una corretta conservazione dei cibi, che dava direttamente sulla strada. CUCINA COME CENTRO PRODUTTIVO DELLA DOMUS, L’UNITÀ ECONOMICA DELLA STESSA, FONTE DI SUSSISTENZA. Tale zona di servizio è frequentata esclusivamente da schiavi, eccetto che brevi visite di controllo del dominus, ed è costituita dalla CULINA, LATRINA, CELLAE PENARIAE (le dispense) e le CELLAE SERVORUM. In quanto il FOCOLAIO è fonte di sussistenza della domus, si carica di VALORE SACRALE, perché sono gli dei a doverlo proteggere. Pinguescant madido laeti nidore penates flagret et exciso festa culina iugo. Sed cocus ingentem piperis consumet aceruum, addet et arcano mixta Falerna garo: ad dominum redeas, noster te non capit ignis, conturbator aper: uilius esurio.(Marz, VII, 27, 5-10) COENA:

· Otium e Edonismo: momento di conversazione e piacere, assaporando le prelibate vivande confezionati dei cuochi, rallegrati da musiche e piccole scenette.

· Momento di produzione e riproduzione economica, del sostentamento della domus · Atto sociale: la coena è un momento di coesione e integrazione tra i membri di uno stesso

ceto sociale; oppure di ristabilimento del potere all’interno della domus, con una vera e propria gerarchia di letti, gli schiavi ai propri piedi..

· Momento religioso: l’atto del cucinare viene considerato come la preparazione di un sacrificio da offrire agli dei; il banchetto vero e proprio come il momento di comunicazione tra il piano del divino (Lari e Penati), quello terreno e l’infernale. Si usa mangiare nei TRICLINIA, vani della casa di cui le fonti letterarie parlano soltanto a partire dal I a.C., il cui nome deriva dalla tradizionale presenza dei tre letti sui quali ci si andava a coricare nell’atto della coena. Coena più famosa: cena di Trimalcione! CUBICULA Sono le stanze da letto, che non hanno un luogo loro esclusivamente dedicato nella domus, ma sono solitamente composte di una camera e un’anticamera, o per lo meno un vano anteriore dove il personale da camera, schiavo/schiavi possono sostare. PERSONALE: CUBICULARII, per i dormitori maschili, ANCILLAE, per i femminili ( i dormitori femminili presentano di solito anche la figura del CUSTOS, colui che doveva proteggere la sicurezza morale e fisica delle matrone della domus, anche fuori la stessa). FUNZIONE DEL PERSONALE: servizio in camera, difesa della sicurezza del padrone, custodia dell’intimità della camera. Tale personale è legato al proprio padrone non solo da un rapporto di lealtà, ma quasi di affetto, rivestendo un ruolo sicuramente privilegiato rispetto alla restante schiavitù. La letteratura presenta tali schiavi come custodi e complici di intrighi e segreti della casa; sono gli alleati dei signori e molto spesso promotori dei loro intrighi.

conscius adsiduos commissi tollet honores— quis minor est autem quam tacuisse labor? ille placet versatque domum neque verbera sentit; ille potens—alii, sordida turba, iacent. huic, verae ut lateant causae, finguntur inanes. ( Ov. Am., 2,2,27-32)

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SONO CUSTODI E GARANTI DI UN’INTIMITÀ QUASI SACRALE: seppur non sia possibile stabilire una dicotomia netta tra pars publica della domus e pars privata, possiamo classificare i vani secondo diversi gradi di accessibilità. Per entrare nel cubiculum la familiaritas più elevata viene richiesta. Vi si possono tenere anche cene e riunioni, ma tutto è accompagnato da un alone di intimità e segreto. Tacito parla di cubiculum come luogo per ordire congiure: Consultant quos memoravi quonam modo ea plurium auditu acciperentur. nam loco in quem coibatur servanda solitudinis facies; et si pone foris adsisterent, metus visus, sonitus aut forte ortae suspicionis erat. tectum inter et laquearia tres senatores haud minus turpi latebra quam detestanda fraude sese abstrudunt, foraminibus et rimis aurem admovent. interea Latiaris repertum in publico Sabinum, velut recens cognita narraturus, domum et in cubiculum trahit praeteritaque et instantia, quorum adfatim copia, ac novos terrores cumulat (Tac, IV, 69) LECTUS SEDE DI: · HYPNOS · THANATOS: momento nel quale il lectus diventa feretro e i cubicula vengono

ufficialmente aperti alla visita degli amici più stretti ( contrariamente ad una condizione di infermità del dominus, che porta all’apertura totale del cubiculum: unica occasione in cui tale stanza si trasforma in sede di negotium) · EROS: LECTUS GENIALIS, ovvero il lectus è dedicato al nume protettore della fertilità, il Genius.

Il matrimonio romano è un foedus, un patto sociale, destinato ad assicurare e proteggere la discendenza della stirpe. Le tensioni sessuali devo essere soddisfatte fuori dal lectus genialis.

(cubiculum Villa Farnesina, Roma)

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La Magia Nera Lezione del 14 Marzo tenuta da Alfredo Sansone 1) Il significato di µαγεία: la magia si manifesta laddove persiste una situazione di incertezza e di grave esigenza psicologica e sociale che gli schemi razionali non riescono a soddisfare. Essa consiste nell’esecuzione di pratiche rituali secondo procedimenti e tecniche prescritte che garantiscono effetti automatici. La vita spirituale di una civiltà trova nella magia e nella religione i campi eletti di comunicazione fra la sfera dell’umano e quella del divino, campi diversi ma nello stesso tempo concomitanti. Magia e religione, pur condividendo premesse comuni, differiscono per taluni elementi essenziali: RELIGIONE

• Si pone nei confronti della divinità con sottomissione e pietas; • Esprime le necessità della collettività; • Le sue cerimonie hanno luogo all’aperto e sono accessibili a tutti; • Le preghiere sono pronunciate ad alta voce; • La divinità ha facoltà di scelta.

MAGIA • Si pone nei confronti della divinità con senso di superiorità e protervia; • Esprime bisogni privati; • I rituali sono occulti; • Le formule sono pronunciate con un bisbiglio (susurrus magicus); • Forza la divinità, che è impotente, ad obbedire alle sue richieste.

2) I tipi di Magia: Magia bianca (magia di difesa); Magia nera (magia di offesa); Magia diretta (agisce direttamente sul mondo fisico) e Magia indiretta (si appella all’intercessione di entità spirituali o divinità); Magia imitativa o mimetica: Il rituale imita alcuni effetti desiderati, basta infatti imitare un risultato per garantirne il successo (Defixionum Tabellae, 222 ); Magia simbolica o omeopatica: Il mago agisce su oggetti simbolici per produrre un determinato effetto sull’individuo cui essi rimandano (bambola voodoo); Magia contagiosa o simpatica: Il mago interviene su un oggetto che è appartenuto ad una persona per scatenare effetti negativi su quest’ultima. Gli oggetti sono intimamente legati al loro possessore, come se ne assorbissero l’essenza recondita (Verg., Ecl., VIII). Alla base di questi tre riti sta il concetto di simpatia cosmica ideato da Posidonio di Apamea: “Il simile produce il simile’’. Ogni fenomeno che si verifica in qualsiasi angolo dell’universo produrrà lo stesso effetto in un altro luogo dell’universo stesso. La frase contenuta nel Talmud è in tal senso eloquente: “Un sogno non interpretato è come una lettera non letta’’. Tutti gli elementi della realtà, intesa anche in ciò che non può essere percepito dai sensi, sono indissolubilmente e profondamente legati gli uni con gli altri. Queste concatenazioni cosmiche sono sorrette da una δύναµις (definita ‘mana’ dagli antropologi), una potenza occulta che, una volta dominata dal mago, concederà il potere incotrastato sul visibile e l’invisibile, sulla vita e sulla morte. 3) Breve storia del sapere magico. La magia nasce in oriente grazie a Zoroastro (Plin., N. H., XXX, 1-6). Gli Ittiti la consideravano un’arte inventata dai loro dei, perciò un esperto di magia ittita apparteneva ad un gruppo privilegiato, ad una casta depositaria di segreti fedelmente tramandati (stessa situazione dei magi persiani, da cui il termine magia deriva). In Egitto la magia è considerata un attributo di Ra. Probabilmente furono i primi a praticare il rito della bambola voodoo. Caratteristica delle arti magiche egizie era il potere che si poteva ottenere attraverso gli spiriti dei defunti. I morti erano capaci di predire il futuro, ma erano anche responsabili di sventure che accadevano ai vivi e potevano influenzare gli dei. Per poter sfruttare al meglio tutte le potenzialità dei trapassati venne redatto un vero e proprio libro, il cosiddetto Nekronomikon. In Grecia il sapere magico giunge con un portata maggiore a partire dalle guerre persiane come conseguenza del contatto sempre più ravvicinato con la cultura orientale. Non è da escludere, tuttavia, che già le

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colonie greche dell’Asia Minore conoscessero la magia. Essa venne sempre osteggiata, perché vista come una perversione della religione, come un atto di ὕβρις contro le proprie divinità e le proprie istituzioni (identico atteggiamento sarà condotto dalle autorità romane, ma con risultati discutibili). Durante il periodo ellenistico si assiste ad un intenso fenomeno di sincretismo magico-religioso che vede in Alessandria d’Egitto il centro propulsore e irradiatore. Elementi magici egizi, ebraici e tipici della mezzaluna fertile si fondono in un’unico grande sapere. Questa conoscenza così costituitasi verrà assimilata da Roma a partire dalla seconda guerra punica, quando la sua presenza nel Mediterraneo è sempre più importante e imponente, e andrà a sua volta a fondersi con elementi tipici della magia italica. A partire dal II sec. d. C. si afferma un particolare indirizzo magico, teso a ribaltare le dicerie negative che fino ad allora avevano pregiudicato ogni tipo di opinione sulla magia, definito θεουργία, nato in seguito alla pubblicazione degli Oracula Chaldaica di Giuliano il Teurgo. La Teurgia si proponeva come una forma di conoscenza suprema e pura dei segreti ultimi della natura al fine di creare un giusto equilibrio armonico fra umano e divino. Per raggiungere questa conoscenza la Teurgia si affidava alla comunicazione medianica con la divinità che si introduceva all’interno dell’individuo in una sorta di rapimento mistico. Oppure era il teurgo stesso che si allontanava dal corpo per raggiungere le sfere celesti e dialogare con la divinità. Altra pratica tipica dei teurghi era la τελεστική, cioè l’infusione della vita alle statue attraverso l’introduzione di oggetti magici nella loro bocca. Questa fase filosofica della magia trovò l’aspra condanna del cristianesimo a partire dal IV sec. d. C., e venne bollata come pratica satanica allo stesso modo di tutte le altre forme magiche. 4) Roma e la magia. Come già in Grecia, la magia trovò a Roma una ferma opposizione sin dalle fasi arcaiche della sua storia. Solo la magia a scopo terapeutico era parzialmente accettata. Le XII tavole proibiscono il rito dell’excantatio frugum; nel 212 a. C. vengono ritirati tutti i libri di profezie (Liv., XXV, 1, 12); nel 97 a. C. un senatoconsulto vieta i sacrifici umani; Lex Cornelia de sicariis et veneficiis dell’81 a. C.; nel 33 a. C. sono espulsi da Roma ἀστρολόγοι e γοήτες, cioè gli stregoni, (Dio Cass., XLIX, 43, 5) anche a causa della superstizione di Augusto (Svet., Aug., 90-93); nel 16 d. C. un senatoconsulto mette al bando magi e mathematici. La magia diventa crimen maiestatis, a seguito anche della morte di Germanico (Tac., Ann., II, 69). A partire da Claudio è perduellio (alto tradimento). Forme caratteristiche della magia italica: a) fruges excantare (Si credeva che determinate formule potessero influenzare negativamente la portata dei raccolti agricoli allo scopo di mandare in malora un avversario); b) malum carmen (termine con cui si designa l’anatema pronunciato oralmente); c) angues ruptae (la manipolazione dei serpenti attraverso incantesimi); d) versipellis, capacità di mutare il proprio aspetto (Petr., Sat., 62); e) Striges o strigae (donne capaci di trasformarsi in uccelli Ov., Fast., VI; vv. 1035 sgg. del Liber medicinalis di Quinto Sereno); f) Uso di cadaveri o parti di essi per atti di varia stregoneria (Luc., Phars., VI; Hor., Sat., I, 8; Apul., Met., II, 21; XI, 20). Probabilmente presente anche in oriente è il fascinum, (Medea colpisce Talos con il fascinum nelle Argonautiche di Apollonio Rodio) il malocchio connesso alla pupula duplex (Ov., Am., I, 8, 15-16; Plin., N. H., VII, 2, 16-18). Diffuso l’utilizzo di amuleta (dal latino amolior, ‘’tener lontano’’, e telesmata (dal persiano telsaman, figura magica) . 5) L’operatore magico è nel mondo classico quasi esclusivamente una donna, indicata in modi diversi ma comunque sovrapponibili (maga, saga, venefica, malefica, anus, unguentaria), e richiama l’idea di una vecchia megera, randagia, frequentatrice di sepolcri (l’Esquilino soprattutto dove un tempo esisteva un cimitero di gente umile, Hor., Epod., V; Sat., I, 8) e divoratrice di morti (ora mortuorum passim demorsicant Apul., Met., II, 21), peregrina, pallida, magra e con i capelli scarmigliati. In tutte le teorizzazioni letterarie (Lucano, Orazio, Ovidio, Apuleio, Seneca) le maghe sono capaci di mirabilia: il potere sulla morte, poteri d’amore, cambiano il corso degli astri, manipolano gli dei inferi e celesti, modificano il fato, evocano gli spettri dei defunti (νεκυδαίµονες). La maga preparava su richiesta anche le defixiones, cioé laminette plumbee di maledizione. Il piombo era considerato in connessione con la morte per il suo colore spento (Plin., N. H., XI, 273) e per gli astrologi era legato a Saturno (sidus triste o stella nocens). Queste tavolette venivano incise

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con formule magiche, il nome della vittima designata e varie imprecazioni. Dopo essere state ripiegate su loro stesse e trafitte da un chiodo (da ciò il termine defixio che deriva dal verbo defigo, ‘trafiggere’), venivano portate nei pressi di fiumi o fontane, luoghi ritenuti a stretto contatto con l’oltretomba e le sue divinità (molte defixiones sono state recentemente rinvenute presso la fonte di Anna Perenna a Roma). Proprietà esclusiva della strix era la trasformazione zooantropica e il cibarsi del sangue degli infanti (Ov., Fast., VI); La piatrix era invece colei che offriva rimedi alle maledizioni. 6) Alcuni testi letterari latini che riguardano fenomeni magici: Hor., Epod., 5; 17; Sat., I, 8; Verg., Aen., IV, 450 sgg.; Ecl., VIII; Ov., Am., III, 7; Fast., VI; Pet., Sat., 62-63; Luc., Phars., VI; Tac., Ann., II, 69; Plin., N. H., VII, 2, 16-18; XXX, 1-6; Apul., Apol.; Met., II, 21; III, 21, 8; XI, 20; Ser., Lib. Med., 1035 sgg. 7) Commento di alcune defixiones significative:

• Anneé Epigraphique 2008, 226; http://www.edr-edr.it/edr_programmi/res_complex_comune.php?do=book&provinz=&land=&fo_antik=&Bibliografia=&Testo=Ablatanabla&booltesto=AND&Testo2=&bool=AND&ordinamento=id_nr&javasi=javascriptsi&se_foto=tutte&lang=ita

• (ABLATANABLA). La formula abracadabra (nella defixio scritta secondo una percezione fonica alterata) non ha un significato proprio, ma come altre formule magiche fa della forza evocativa dei suoni la sua ragion d’essere. La parola compare per la prima volta nel Liber Medicinalis di Quinto Sereno, in cui si indica la disposizione giusta delle lettere della formula sull’amuleto, cioé a triangolo capovolto. Il termine deriverebbe da Abraxas, il nome del dio increato dello gnosticismo. Secondo la numerologia gnostica di Basilide (II sec. d. C.) la somma delle lettere che compongono la parola Abraxas corrisponderebbe a 365 (α = 1; β = 2; ρ = 100; α = 1; ξ = 60; α =1; ς = 200), il numero dei cieli di cui è costituito il mondo materiale, ognuno dei quali risulta essere governato da un dio. Abraxas corrisponde al primo di questi cieli.

• Defixionum Tabellae 286 B = Anneé Epigraphique 1902, 54-55. • Anneé Epigraphique 2008, 223.   http://www.edr-

edr.it/edr_programmi/res_complex_comune.php?do=book&provinz=&land=&fo_antik=&Bibliografia=&Testo=vulva&booltesto=AND&Testo2=&bool=AND&ordinamento=id_nr&javasi=javascriptsi&se_foto=tutte&lang=ita

8) Bibliografia consultata: G. LUCK, Arcana Mundi, I, 2000. U. LUGLI, La magia a Roma, Genova 1996. E. R. DODDS, Parapsicologia nel mondo antico, Roma-Bari 1991.

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Gli acquedotti romani Lezione del 19 Marzo tenuta da Anna Moro

Gli acquedotti erano opere edilizie enormi, che richiedevano una grande perizia tecnica. Il più lungo degli acquedotti romani, l’Aqua Marcia, era lungo 90 chilometri. I grandi acquedotti urbani principali sono undici:

Aqua Appia 312 a.C.; Aqua Anius Vetus 272 a.C.; Aqua Marcia 144 a.C.; Aqua Tepula 125 a.C.; Aqqua Iulia 33 a.C.; Aqua Virgo 19 a.C.; Aqua Alsietina 2 a.C.; Aqua Claudia e Aqua Anius Novus sotto Claudio; Aqua Traiana 109 d.C; Aqua Alexandi(a)na sotto Severo Alessandro.

La costruzione di un acquedotto a Roma imperiale era un’impresa pagata dal princeps. I costi erano enormi. Le fonti antiche ci danno due indicazioni dei costi:

- Frontino (Aq., 7,41) cita un passo di Fenestella indicante che per la costruzione della Aqua Marcia furono erogati nel II secolo a.C. 180 milioni di sesterzi,

- Plin., Nat. hist., 36 scrive che la costruzione della Anio Novus e della Claudia costò 350 milioni di sesterzi.

Dove sono in giro grosse somme di denaro, si manifestano spesso opportunità di rapido arricchimento per gli imprenditori, alle spese del committente e degli utenti: Plinio il Giovane ci

                                                                                                               1  Legimus apud Fenestrellam in haec opera Marcio decretum sestertium milies octingenties (…).

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informa che alcuni individui si erano arricchiti in connessione con l'inizio e il susseguente abbandono della costruzione di un acquedotto in Bitinia (Epist., 10,38). Frontino occasionalmente dava la colpa agli imprenditori che avevano usato materiale di bassa qualità per le costruzioni, quando parlava di danni agli acquedotti che richiedevano addirittura un’interruzione del funzionamento (Aq., 120; 122,32). Frontino avverte i futuri curatores aquarum che non sempre bisogna credere alle estimazioni degli imprenditori, ma bisogna far verificare tutto da persone fidate (Aq.,119, 2-33). Restauri A parte questi dati cronologici abbiamo alcune notizie sugli interventi agli acquedotti durante l’epoca imperiale. Per la maggior parte riguardano il primo secolo dell’impero e l’opera di Frontino ci fornisce alcune informazioni, ma per il resto si tratta soprattutto di cippi eretti da vari imperatori lungo i percorsi degli acquedotti e di qualche iscrizione commemorativa di restauri. Il periodo severiano comporta una nuova serie di lavori agli acquedotti già̀ esistenti, fra i quali si può menzionare una nuova fonte dell'Aqua Marcia e un nuovo ramo dello stesso acquedotto a Roma destinato alle Terme Antoniniane. Notizie di interventi databili dopo il periodo severiano sono molto scarse. Per il resto del terzo secolo, manca qualsiasi indicazione di imprese connesse all'uso dell'acqua, con eccezione della costruzione delle Terme Deciane sull'Aventino. Con il periodo tetrarchico, troviamo di nuovo qualche informazione: durante il periodo di Diocleziano e di Costantino vennero fatti vari restauri. Motivazioni per la costruzione di un acquedotto Man mano che il dominio di Roma si estendeva, cresceva anche la capitale, e perciò aumentava pure il numero degli acquedotti e la quantità d'acqua che per necessità doveva essere trasportata a Roma. Inoltre la costruzione di un acquedotto in età imperiale era anche un fenomeno di carattere culturale più che dipendente dalla crescita demografica. Nel mondo romano si costruiva un acquedotto principalmente quando c’era la volontà di costruire terme e bagni ο altre costruzioni pubbliche monumentali per i quali vi era bisogno d'acqua. Spesso gli acquedotti servivano primariamente a questi scopi pubblici, il popolo comunque era costretto, tanto dopo quanto prima dell'introduzione di un acquedotto, ad usare le risorse tradizionali : acqua piovana ο fluviale, pozzi, sorgenti e così via. Esistono dei rapporti innegabili fra le costruzioni pubbliche degli imperatori e l'introduzione di acquedotti nuovi: uno degli acquedotti augustei, la Virgo, alimentava le Terme di Agrippa nel Campo Marzio e riforniva d'acqua pure lo stagnum Agrippae, un luogo pubblico destinato ad usi vari. Dei tre acquedotti costruiti sotto Augusto, la Alsietina era destinata quasi completamente alla grande Naumachia nel Trastevere e agli spettacoli pubblici che lì avevano luogo. Un'altra indicazione del rapporto fra spettacoli e l'uso dell'acqua è la notizia, ancora in Frontino, che il Circus Maximus soleva essere riempito di acqua durante i ludi circenses (almeno fino al primo impero) (Aq., 97,14). Anche per il Colosseo c'era evidentemente bisogno d'acqua. A parte la necessità connessa ai vari spettacoli, tracce di numerosi rubinetti sono state trovate al primo piano.

                                                                                                               2Nascuntur opera ex his causis: aut vetustate corrumpitur quid aut impotentia possessorum aut vi tempestatium aut culpa male facti operis, quod saepius accidit in recentibus. 3 Multa atque ampla opera subinde dilabuntur, quibus ante succurri debet quam magno auxilio egere incipiant, plerumque tamen prudenti temperamento sustinenda, quia non semper opus aut facere aut ampliare quaerentibus credendum est. Ideoque non solum scientia peritorum sed et proprio usu curator instructus esse debet, nec suae tantum stationis architectis uti, sed plurium advocare non minus fidem quam subtilitatem, ut aestimet quae repraesentanda, quae differenda sint, et rursus quae per redemptores effici debeant, quae per domesticos artifices. 4  (…) Circus Maximusne diebus quidem ludorum circensium nisi aedilium aut censorum permissu inrigabatur. Nemmeno nei giorni dei ludi circensi il circo Massimo poteva essere irrigato senza il permesso degli edili o dei censori.

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Durante il regno di Nerone furono costruite le Terme Neroniane nel Campo Marzio. In quell’occasione, non fu costruito un nuovo acquedotto, ma sappiamo che poco prima, con i due nuovi acquedotti di Claudio, le risorse idriche erano notevolmente aumentate. Forse già Claudio aveva progettato la costruzione di terme imperiali. Alcuni decenni più tardi, Traiano fece erigere le Terme intitolate al suo nome, in una dimensione fino ad allora mai vista. Come appare abbastanza chiaramente dal contesto dei Fasti Ostiensi, l’Aqua Traiana era destinata tra l'altro alle Terme. Questo risulta anche da un bollo su una fistula trovata vicino alle Terme. Sotto l'impero di Caracalla fu edificato un altro stabilimento balneare immenso, le Terme Antoniniane, un condotto proprio fu necessario per queste terme. L'Aqua Antoniniana era un ramo della Aqua Marcia, ma per aumentare la capacità della Marcia vi era stata immessa una nuova fonte (Hist. Aug., Alex. Sev., 25,3). Sappiamo che poco più tardi, sotto Alessandro Severo, fu costruito l'ultimo acquedotto urbano, l’Aqua Alexandri(a)na, sicuramente per rifornire le nuove ο rifatte Terme Alessandrine nel Campo Marzio. All'inizio del quarto secolo (306 d.C.) furono poi costruite le Terme di Diocleziano. Anche se per questo edificio non veniva costruito un nuovo acquedotto, furono eseguiti ripari della Aqua Marcia e si mise mano a una riorganizzazione del rifornimento idrico della zona. Rapida visione dei procedimenti per la creazione di un acquedotto:

1. Ricerca delle fonti

Delle arie, delle acque, dei luoghi di Ippocrate (V sec. a.C.) si ha il primo trattato sull’igiene di vita e sulla qualità delle acque. Di migliore qualità sono le acque che originano da sorgenti, soprattutto quelle che originano dalla terra su colline elevate, e queste sono da portare e condurre in città Per la ricerca di tali fonti Vitruvio (VIII, 1) fornisce alcuni criteri basati sull’osservazione diretta della vegetazione, del terreno e dell’umidità dell’aria:

Ea autem erit facilior, si erunt fontes aperti et fluentes. sin autem non profluent, quaerenda sub terra sunt capita et colligenda. quae sic erunt experienda, uti procumbatur in dentes, antequam sol exortus fuerit, in locis, quibus erit quaerendum, et in terra mento conlocato et fulto prospiciantur eae regiones; sic enim non errabit excelsius quam oporteat visus, cum erit inmotum mentum, sed libratam altitudinem in regionibus certa finitione designabit. tunc, in quibus locis videbuntur umores concrispantes et in aera surgentes, ibi fodiatur; non enim in sicco loco hoc potest signum fieri. Essa sarà più accessibile in presenza di corsi d’acqua sgorganti in superficie. Ma se questi non scorreranno all’aperto, bisognerà cercare sottoterra le sorgenti e raccoglierle. Questa prova andrà fatta nel modo seguente: piegandosi a faccia in giù prima del sorgere del sole nei punti in cui si vuole effettuare la ricerca, appoggiato fermamente il mento sul terreno e osservando le zone davanti a sé. In questo modo infatti, se il mento resterà immobile, la

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vista non vagherà più in alto del necessario ma determinerà un’altezza di osservazione ben livellata entro confini stabiliti nella zona in questione. Si proceda quindi a scavare nei punti in cui saranno visibili vapori che si avviluppano e si sollevano nell’aria; non è possibile che un indizio del genere si verifichi in un luogo secco.

Era ovviamente necessaria una copiosa sorgente d’acqua. Una volta trovata, c’era il bisogno di stabilire se l’utilizzo era conveniente. Vitruvio (VIII, 4) consiglia di valutare le condizioni degli abitanti locali:

Expertiones autem et probationes eorum sic sunt providendae. si erunt profluentes et aperti, antequam duci incipiantur, aspiciantur animoque advertantur, qua membratura sint qui circa eos fontes habitant homines; et si erunt corporibus valentibus, coloribus nitidis, cruribus non vitiosis, non lippis oculis, erunt probatissimi. item si fons novus fossus fuerit, et in vas corinthium sive alterius generis, quod erit ex aere bono, ea aqua sparsa maculam non fecerit, optima est. itemque in aeneo si ea aqua defervefacta et postea requieta et defusa fuerit, neque in eius aenei fundo harena aut limus invenietur, ea aqua erit item probata. Bisogna poi provvedere a saggiare le fonti, sottoponendole a prova nel modo seguente. Se scorreranno all’aperto, prima di dare inizio alla loro conduzione si osservi e si faccia attenzione alla conformazione corporea delle persone che abitano nei pressi di tali fonti. Se avranno un fisico robusto, un colorito florido, le gambe senza difetti, gli occhi privi di infiammazioni, quelle avranno superato egregiamente la prova. Ugualmente se in seguito ad uno scavo si ha una fonte nuova e quest’acqua, versata in un vaso di Corinto o di un altro tipo purchè di una buona qualità di bronzo, non lascerà macchie, sarà eccellente. Ed ancora se quest’acqua verrà fatta bollire a lungo in un recipiente di bronzo, poi lasciata riposare e versata fuori, senza che nel fondo di tale recipiente vengano ritrovati sabbia o fango, quest’acqua sarà ugualmente di provata qualità.

Le vene e le eventuali correnti di superficie venivano raccolte in un bacino in muratura impermeabilizzato di opus signinum5. L’acqua da qui derivata confluiva nella piscina limaria per farne diminuire la velocità e permettere la precipitazione di particelle e di altre impurità. Quindi la piscina si può presentare come:

- espansione del canale dell’acquedotto lungo lo stesso tracciato, - serbatoio laterale al tracciato dell’acquedotto che permetteva la depurazione dalle particelle

senza interrompere il flusso d’acqua. Dei nove acquedotti frontiniani quattro provengono dalla regione di Subiaco fornendo il 75,6% della potenzialità idrica di Roma.

2. Il trasporto Il trasporto dell’acqua si poteva effettuare in due modi: - mediante condotte in pressione: poco utilizzato, eccetto che nelle tubazioni cittadine a bassa

pressione. - mediante condotte non in pressione, cioè a pelo libero. Il secondo fu il metodo più usato: l’acqua veniva fatta scorrere in un canale dando a questo una giusta pendenza, libramentum o declivitas, che permettesse all’acqua di scorrere, vincendo l’attrito delle pareti, per effetto della sola forza di gravità senza però raggiungere velocità elevate per non danneggiare la struttura. La prima conseguenza di questa scelta è che la sorgente doveva avere quota superiore a quella dell’utente e che la quota dell’acquedotto diminuiva progressivamente lungo il percorso. Il problema sorgeva per la presenza di ostacoli naturali come monti o valli, e si cercava di superarli senza perdere eccessivamente quota: se in monte interposto non era molto elevato veniva perforato, se ciò non era possibile veniva costeggiato.

                                                                                                               5  L’opus signinum usato come rivestimento per pareti e pavimenti da impermeabilizzare, composto di malta di calce e frammenti di terracotta.  

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A Roma per la conformazione orografica si è preferito il costeggiamento e frequente è il caso di superamento di fossi mediante archi. Se la sorgente era interessante per quota, abbondanza e qualità e la valle interposte era ampia ma non profonda, si utilizzava un sistema detto sifone a rovescio o venter: l’acqua veniva immessa in un tubo ad U, in base a questo sistema l’acqua nei rami assumeva lo stesso livello, mentre nel punto più basso la pressione aumentava progressivamente. Per rendere meno rovinoso l’effetto di tali pressioni Vitruvio precisa che la parte più bassa di un sifone avrebbe dovuto procedere rettilinea e ad un livello costante per un tratto.

3. La pendenza Per il convogliamento delle acque era importante la pendenza da dare al condotto affinché l’acqua vincesse la resistenza allo scorrimento fluendo con velocità non pericolosa per la stabilità delle strutture. Per evitare tale rischio era necessario immettere lentamente e in piccola quantità l’acqua nello specus6. Per la minima pendenza da dare gli antichi ci tramandano dati differenti:

- Vitruvio consiglia una pendenza ne minus per centenos pedes semipede, cioè non inferiore allo 0,5%;

- Per Plinio il libramentum aquae in centenos pedes sicilici minimum erit, si cuniculo veniet in binos actus lumina esse debuntn, quindi deve corrispondere allo 0,02%

- Palladio consiglia una pendenza tra lo 0,94% il il 2%. Di fatto la pendenza media degli acquedotti a Roma è di circa lo 0,2%.

4. Il canale Lasciando la piscina limaria, l’acqua entrava nel canale o specus. Il flusso d’acqua era sempre in un canale in muratura, sia che l’acquedotto scorresse sotterraneo sia che superasse le depressioni del terreno per mezzo di costruzioni quali le arcate. In alcuni tratti di specus in galleria o sotterranei si scavavano dei pozzi verticali, lumina, che raggiungevano il canale, questi venivano costruiti per necessità di aereazione e per eliminare eventuali detriti trasportati dall’acqua, secondo Plinio dovevano essere posti ogni due actus, cioè ogni 240 piedi (72 m), mentre secondo Vitruvio ogni actus (36 m). In realtà fra gli acquedotti esistenti abbiamo esempi di distante molto differenti tra i lumina, in genere più brevi da quelli del canone vitruviano. Le pareti dello speco erano in pietra o tufo peperino, internamente sul fondo un rivestimento in opus signinum dava al canale la necessaria impermeabilità, talvolta le pareti interne erano rivestite di uno stucco, malta. Vitruvio raccomanda la copertura dello speco per motivi igienici affinchè i raggi del sole non alterassero la temperatura dell’acqua. La copertura poteva essere piana, a volta, triangolare o a semiesagono.

                                                                                                               6  Vitruvio, De ar., VIII, 7: vehemens spiritus in aquae ductione solet nasci ita ut etiam saxa perrumpat, nisi primum leniter et parce a capite aqua immittatur(…).

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5. Castellum aquae

Lungo il percorso dell’acquedotto dove era necessario prelevare acqua per gli utenti venivano costruite delle strutture chiamate prima diuidicula, in seguito castella. Roma disponeva di un gran numero di castelli idraulici, Agrippa durante l’impero di Augusto ne aveva costruiti circa 130. Il numero complessivo dei castelli in Roma al tempo di Frontino (fine I sec. d.C) era di 247. Le condutture di distribuzione che derivavano da un determinato castellum a loro volta potevano alimentare catelli di quali uscivano altre tre tubazioni. Così dal castellum publicum una sola tubatura conduceva acqua al castellum priuatum da cui poi ogni utente prelevava la sua spettanza. Secondo Frontino le utenze in città erano:

ü L’imperatore e le utenze che ricevevano la concessione direttamente dal principe (17,2%), ü I privati (38,6%), ü I servizi pubblici (44,2%).

Gli addetti alla sorveglianza dei castelli idraulici erano i castellarii.

5.1 LA QUINARIA e DISPONIBILITÀ D’ACQUA PRO CAPITE

Determinare la portata degli acquedotti è una questione importante per capire meglio la vita quotidiana nella megalopolis dell'antica Roma, ma il problema è che i romani non sapevano misurare il volume di acqua corrente, infatti i romani erano in grado di misurare il diametro e l'area di uno speco ο di un tubo, ma non potevano prendere atto della velo cità del flusso d'acqua. L’unità usata da Frontino nel misurare la capacità degli acquedotti si chiama quinaria. Con vari metodi ingegnosi gli studiosi moderni hanno cercato di scoprire un valore almeno approssimativo per la quinaria. Anche dopo queste nuove misurazioni e studi critici sulla capacità degli acquedotti, il volume totale rimane certamente impressionante: - Blackman 1978: un massimo di 560.000 - 620.000 m3 per i quattro acquedotti più grandi; - Fahlbusch 1982: 520.000 - 635.000 m3 prima della costruzione dell'Aqua Traiana.

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Frontino afferma che la maggior parte dell'acqua a disposizione del pubblico veniva distribuita tramite 591 lacus (fonti ο fontane semplici) e 95 (oppure 75) opera publica. A Pompei, possiamo ancora studiare le fontane pubbliche, e secondo Hans Eschebach ogni fontana forniva una zona di un raggio di 50 metri. Ipotizziamo che a Roma, questo raggio fosse più grande, poniamo di 70 metri. In questo modo, i 591 lacus dislocati in un modo ottimale avrebbero potuto servire una superficie di poco più di 900 ettari. L'area dentro le Mura Aureliane copre una superficie di più di 1.370 ettari, ma una gran parte di questa superficie è composta da giardini e proprietà imperiali, che possiamo lasciare fuori dai calcoli. Ogni lacus doveva, secondo questi calcoli, servire un ettaro e mezzo. Se calcoliamo una densità di 600 persone per ettaro (anche perché, com'è ormai ben noto, parte della popolazione abitava certamente fuori dell'area che più tardi fu inclusa nelle mura), ogni lacus doveva servire 900 persone. Ora i calcoli di Frontino per la capacità di un lacus sono abbastanza simili, acquedotto per acquedotto aggirandosi entro le 2 e 2,5 quinarie. Usando la cifra bassa calcolata da Rodolfo Lanciani (una quinaria equivale a 27 metri cubi in 24 ore) raggiungiamo un volume di 67 litri per persona al giorno; mentre con la cifra più alta di Carlo Di Fenizio (1 quinaria = 41,5 metri cu bi/24 ore) invece risulta che l'erogazione sarebbe stata di circa 100 litri al giorno per persona. Gli studiosi moderni sono soliti pensare che l'acqua nelle fontane pubbliche scorreva senza interruzione, giorno e notte. Ma c’era qualcuno che prelevava acqua anche durante la notte? Se no, gli abitanti non potevano usufruire di questa acqua per il loro consumo personale. Di conseguenza, il volume giornaliero a disposizione dell'abitante medio dovrebbe forse essere ridimensionato ancora. Come punto di partenza possiamo prendere il testo di Frontino stesso, che sembra offrire la prova che il flusso non fu mai interrotto, in Aq. 104, 2 si legge:

Itemque placere curatores aquarum, quos Caesar Augustus ex senatus auctoritate nominavit, dare operam uti salientes publici quam adsiduissime interdiu et noctu aquam in usum populi funderent. Ugualmente si delibera che i curatori delle acque, nominati da Cesare Augusto su autorizzazione del senato si impegnino a far si che dalle fontane pubbliche l’acqua sgorghi per l’uso del popolo quanto più regolarmente possibile di giorno e di notte.

Il passo viene da uno dei senatus consulta del 11 a.C. Più interessante è, che il passo precedente, dove Frontino allude alla situazione con parole sue, non contiene alcuna menzione di "acqua notturna". La tradizione manoscritta contiene la frase:

In utroque autem magna cura multiplici opponenda fraudi est: sollicite subinde ductus extra urbem circumeundi ad recognoscenda beneficia; idem in castellis et salientibus publicis faciendum, ut sine intermissione diebus < et noctibus > aqua fluat. (Aq.,103,4). In entrambi i casi bisogna contrapporre una grande solerzia alle molteplici potenzialità di frode: bisogna ispezionare sollecitamente e di continuo i condotti fuori città per accertare l’effettivo sussistere di concessioni, e lo stesso bisogna fare coi castelli d’acqua e le fontane pubbliche per assicurare che la fontana scorra senza interruzzione di giorno <e di notte>.

Ma cominciando da Fra Giocondo, gli editori moderni aggiungono <et noctibus> dopo diebus. Si possono avanzare ragioni per lasciare il testo nella forma in cui è stato tramandato nella tradizione manoscritta, con la conseguenza che avremmo a che fare con un cambiamento nella prassi della cura aquarum fra l’11 a.C. e il tempo di Frontino. L’alternativa a un flusso continuo dell'acqua consisterebbe in un sistema con rubinetti ο valvole e cisterne capaci per raccogliere il volume d'acqua notturna.

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Pompei ed Ostia rappresentano degli ovvi punti di riferimento, anche se urbanisticamente furono differenti da Roma. Per quanto riguarda l’approvvigionamento idrico e la distribuzione di acqua a Pompei, gli abitanti della città avevano a loro disposizione una quantità enorme di acqua, una grande parte della quale scolava via per le strade e le cloache. La costruzione dei lacus ad Ostia è differente da quella effettuata a Pompei: ad Ostia sono più grandi e sono sempre coperti da una volta. La spiegazione per questa differenza potrebbe essere che ad Ostia l'acqua non scorreva liberamente giorno e notte, ma soltanto periodicamente. Queste conclusioni per Ostia sono interessanti in quanto indicazioni che l’acqua non sempre scorreva senza interruzione. Le ricerche recenti di Christoph Ohlig sul testo di Vitruvio portano nella stessa direzione. L’argomento di Ohlig parte dal noto passaggio di Vitruvio in cui si parla della tripartizione della distribuzione urbana dell'acqua di un acquedotto, e specialmente alla frase:

conlocenturque in castello tres fìstulae aequaliter divisae intra receptacula coniuncta, uti, cum abundaverit in extremis, in medium receptaculum redundet (Vitr. VIII, 6, 1). E si disporranno nel serbatoio tre tubi immessi secondo una uguale ripartizione all’interno delle vasche collegate, in modo che, quando l’acqua trabocca da quelle laterali, si riversi in quella centrale.

Ohlig aderisce alla communis opinio che qui abbiamo a che fare con una raccomandazione teorica per una distribuzione a tre categorie di utenti, ovvero l’uso pubblico (lacus e salientes), le balneae, le domus privatae (Vitr. 8, 6, 2), che però è senza paralleli conosciuti dal materiale archeologico. Ma la cosa interessante è l'interpretazione su come si arriva, nel modello di Vitruvio, a un’abbondanza d’acqua che redundet in medium receptaculum (cioè il contenitore che provvedeva al grande pubblico). Il volume superfluo di cui Vitruvio parla, non si spiega con un volume maggiore trasportato dall'acquedotto che riforniva la sua città ideale, ma con il fatto che le due altre parti rifornite dal castellum aquae, le balneae e le domus privatae, occasionalmente usavano meno acqua. Questo stato di cose doveva per forza causare un volume maggiore a disposizione del pubblico generale. La ragione per un loro uso minore di acqua è, secondo Ohlig, ovvia: di notte le terme rimanevano chiuse, così come si poteva usare rubinetti anche per diminuire il volume usato da case private durante certe parti di un periodo di 24 ore.

5.2 LA CURA AQUARUM Vi erano degli edili alla sorveglianza dell'acqua pubblica; essi affidavano ad ogni strada o piazza la custodia della fontana a due cittadini residenti in quei pressi. Agrippa fondò i presupposti della riforma già avviata nel I secolo a.C. da Augusto, che portò all'istituzione del curator aquarum. Un'altra modifica, apportata dopo il 52 d.C. da Claudio, fu la nomina del procurator aquarum, un aiutante fidato del curator. Dal libro di Frontino ricaviamo che nell’11 a.C. il senato approvò un certo numero di senatus consulta che regolavano le funzioni della cura aquarum (Aq., 100; 104; 106; 108; 125; 127). Dal 9 a.C. abbiamo pure una legge popolare, la lex Quinctia (Aq., 129): si tratta di una legge rogata da uno dei consoli davanti ai comizi tributi che condanna a risarcire il danneggiamento di una qualunque struttura idrica a 100.000 sesterzi. Già all'inizio la presenza del princeps si faceva sentire; in un passo di uno dei senatus consulta dell’11 a.C. leggiamo che i curatores aquarum erano ex consensu senatus a Caesare Augusto nominati (Aq.,100,1). Indubbiamente, era sempre l’imperatore a designare il titolare di questo ufficio. Dall’ultimo decennio del secondo secolo in poi non troviamo più il semplice curator aquarum, ma il curator aquarum et Minuciae (spesso Miniciae nelle iscrizioni). Si è sempre pensato che i funzionari con questo nuovo titolo avessero avuto un rapporto con la distribuzione del frumentum

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publicum, che probabilmente avveniva nella porticus Minucia frumentaria. Si è più volte ipotizzato che le due amministrazioni fossero localizzate nello stesso ambiente. Malcolm Bell sui mulini ad acqua del Gianicolo sembra permettere un altro suggerimento: dopo l'introduzione dei mulini ad acqua per la produzione della farina, ci fu un rapporto naturale fra l’approvvigionamento frumentario e la cura aquarum. Questo fatto, il fattore cronologico permettendo, potrebbe spiegare il nuovo titolo del curator aquarum et Miniciae.

5.3 DESTINAZIONE e AMMINISTRAZIONE DELL’ACQUA

Nella città ideale di Vitruvio (Vitr. VIII, 6, 2), si distingueva fra tre destinazioni: i lacus e salientes, le balneae, e le domus privatae. Vitruvio addirittura raccomandava che, quando c’era poca acqua, doveva essere il grande pubblico a soffrire di meno e per ultimo: prima si doveva togliere l'acqua ai ricchi proprietari, che la usavano per i loro giardini ed altri bisogni.

Ita in medio ponentur fistulae in omnes lacus et salientes, ex altero in balneas vectigal quotannis populo praestent, ex quibus tertio in domus privatas, ne desit in publico, non enim poterint avertere, cum habuerint a capitibus proprias ductiones. haec autem quare divisa constituerim, hae sunt causae, uti qui privatim ducent in domos vectigalibus tueantur per publicanos aquarum ductus. Così nella vasca centrale saranno collocati i tubi diretti verso tutti i bacini e le acque correnti; dalla seconda saranno diretti verso i bagni, facendo in modo che venga assicurata un’imposta annuale allo stato e dalla terza verso le abitazioni private affinchè non venga a mancare l’acqua per uso pubblico: i privati infatti non potranno deviare quest’ultima se avranno le proprie derivazioni dalle fonti principali. Sono questi i motivi per cui ho stabilito tale ripartizione, ed anche affinchè quanti faranno condurre acqua nelle proprie case a titolo personale contribuiscano con le imposte versate ai pubblicani a mantenere gli acquedotti.

Frontino dice che l’acqua fu divisa fra tre destinatari: - usus publicus, - privati, - nomine Caesaris.

Frontino, Aq., 78 Fit ergo distributio quinariarum quattuordecim milium decem et octo, ita ut quinariae DCCLXXI, quae ex quibusdam aquis in adiutorium aliarum dantur et bis in speciem erogationis cadunt, semel in computationem veniant. Ex his dividuntur extra urbem quinariae quattuor milia sexaginta tres: ex quibus nomine Caesaris quinariae mille septingentae decem et octo, privatis quinariae MMCCCXXXXV. Reliquae intra urbem nouem milia nongentae quinquaginta quinque distribuebantur in castella ducenta quadraginta septem: ex quibus erogabantur sub nomine Caesaris quinariae mille septingentae septem semis, privatis quinariae tria milia octingentae quadraginta septem, usibus publicis quinariae quattuor milia quadringentae una: ex eo castris duedeuiginti quinariae ducentae septuaginta novem, operibus publicis LXXXXquinque quinariae MMCCCI, muneribus triginta novem quinariae CCCLXXXVI, lacibus quingentis nonaginta uni quinariae M trecentae triginta quinque. La distribuzione delle quinarie è di 14.018, le 771 quinarie che sono cedute in supplemento da alcuni acquedotti ad altri e figurano due volte in uscita, devono entrare nel computo una volta soltanto. Di queste 14.018 quinarie ne vengono distribuite fuori dall’urbe 4.063 di cui all’imperatore 1.718, ai privati 2.345. Le rimanenti 9.955 erano distribuite entro l’urbe in 247 castelli d’acqua e così ripartite: all’imperatore 1.707 e mezzo, ai privati 3.847, agli usi pubblici 4.401 di cui a castra 18 279, alle opere pubbliche 95 2.301, ai munera 39 386, alle fontane 591 1.335.

Questa presenza dell’imperatore e della corte imperiale a Roma è naturalmente una dimensione che raramente si trova in altre città dell'impero.

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Quello che dice Frontino su come l'acqua veniva divisa fra queste parti: ai bisogni dell'imperatore andava il 17%, ad alcuni privati andava il 38%, mentre per il pubblico restava il 44%7. Dalle numerose testimonianze di appropriazione illegale risulta chiaramente che l’acqua era una risorsa scarsa a Roma. L'acqua probabilmente non bastava per tutti, perché gli aquarii a Roma, cioè presumibilmente gli addetti alla cura aquarum, vendevano segretamente acqua e installavano tubature private senza permesso. Infatti Frontino in Aq.

37, 1: Formulas modulorum qui sunt omnes viginti et quinque subieci, quamvis in usu quindecim tantum frequentes sint, derectas ad rationem de qua locuti sumus, emendatis quattuor, quos aquarii novaverant. Ho riportato qui sotto le misure dei moduli, venticinque in tutto, anche se soltanto quindici in uso, calcolati secondo il sistema di cui abbiamo parlato e avendo corretto i quattro calibri modificati dagli acquarii.

Anche in 46, 2; 62, 2; 63, 2 racconta di alterazioni illegali alle fistule. Frontino dice anche che dalle misurazioni fatte sulla capacità totale degli acquedotti risultava che grandi quantità d’acqua venivano sottratte illegalmente e inoltre afferma di aver trovato tubi illegali in vari luoghi (Aq., 65,68). Gli addetti alla cura acquarum stessa erano coinvolti nel traffico clandestino di acqua:

Adhuc illa aquariorum intolerabilis fraus est: translata in novum possessorem aqua foramen novum castello imponunt, vetus relinquunt quo venalem extrahunt aquam. Vi è poi un’altra frode intollerabile degli aquarii. (Aq., 114,1) Quando la concessione viene trasferita ad un nuovo possessore praticano un foro nuovo nel castello d’acqua e lasciano quello vecchio da cui prelevano l’acqua per venderla.

e c’erano anche pratiche illegali nell’amministrazione stessa (Aq., 112-115). Sappiamo che c’erano dei venditori di acqua a Roma durante l’impero, questi erano chiamati aquarii. La vendita dell’acqua può essere spiegata col fatto che le risorse d’acqua erano insufficienti e che gli acquedotti e le fontane pubbliche non erano in grado di soddisfare il bisogno della popolazione. Quindi queste usanze illegali in altri luoghi e tempi furono senz'altro il prodotto di una scarsità (relativa) dell'acqua. Sappiamo da altre fonti ancora di furti d'acqua. Frontino cita un passo dal senatore Caelius Rufus, amico di Cicerone e di Cesare, che nel 50 a.C. era edile curule e cercava di combattere i furti d'acqua, realizzati tramite tubature private non autorizzate (Aq., 76, 29). Questo stesso problema appare ancora nella tarda antichità. Gli imperatori legiferavano ripetutamente contro quelli che illegalmente toglievano acqua alla rete idrica pubblica, sia a Roma che in altre città. Secondo Frontino, il numero di persone a cui veniva dato il per messo di installare un condotto privato era ristretto e i permessi dovevano essere rigorosamente controllati (Aq., 105-107). Questo passo frontiniano ci indica due fatti:

- in primo luogo, il volume degli acquedotti era limitato anche nel tardo primo secolo d.C, dopo le grandi opere idriche del secolo precedente,

- in secondo luogo, non tutte le persone che desideravano avere un condotto proprio potevano essere accontentate.

Per soddisfare le proprie necessità, il grande pubblico poteva usufruire di circa la metà dell'acqua che veniva condotta a Roma. L'acqua veniva distribuita in molti punti della città ma i romani potevano probabilmente anche usare alcuni degli opera publica ai quali andava una parte                                                                                                                7  Le percentuali non sono citate da Frontino, ma sono facilmente calcolabili basandosi sulle cifre date dal medesimo dell’erogazione ai vari destinatari. 8 Sed et quasdam fistulas intra urbem inlicitas deprehendimus. 9 quae nunc nos omnia simili licentia usurpata utinam non per offensas probaremus; inriguos agros, tabernas, cenacula etiam, corruptelas denique omnes perpetuis salientibus instructas invenimus. Magari potessi provare oggi tutti questi abusi perpetrati con analogo arbitrio, senza scatenare risentimenti! Terreni irrigui, taverne, soffitte persino, in una parola tutti i luoghi di malaffare, ho trovato serviti da acqua corrente.

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considerevole dell'acqua diretta usibus publicis. Possiamo immaginare un sistema che assomiglia a quello incontrato a Pompei dove la gente prende l'acqua quotidiana da una fonte pubblica. Parlando del rifornimento idrico del cittadino comune, bisogna ancora far menzione degli acquarii, di cui sentiamo parlare ad esempio Giovenale (6,332), e che incontriamo in qualche epigrafe. Erano evidentemente venditori d'acqua nelle strade di Roma. Frontino parla di aqua caduca in connessione con le fonti pubbliche riportando un paragrafo dei mandata imperiali (non conosciamo l’epoca in cui furono emessi questi mandata ma si può solo dedurre che fossero posteriori a Tiberio):

Caducam neminem volo ducere nisi qui meo beneficio aut priorum principum habent. Nam necesse est ex castellis aliquam partem aquae effluere, cum hoc pertineat non solum ad urbis nostrae salubritatem, sed etiam ad utilitatem cloacarum abluendarum. (Aq., 111) Voglio che nessuno prelevi l’acqua caduca, ad eccezione di coloro che ne fruiscono per concessione mia o degli imperatori precedenti. Infatti è necessario che una parte dell’acqua trabocchi dai serbatoi, in quanto ciò attiene non solo all’igiene della nostra città, ma anche alla funzione di espurgo delle fognature.

La parola caduca è un termine comune nel vocabolario dei giuristi, indicante l'acqua che non appartiene a nessuno, è superflua, cioè scorre via dalle fonti pubbliche. Frontino dice che è vietato impadronirsi di quest’acqua, che deve poter scorrere liberamente per pulire e sciacquare le cloache. Ma questo divieto indica due cose.

Primo: c'era della gente che evidentemente non poteva accontentare i propri bisogni, e cercava di usare anche l'ultima goccia impedendo così che parte dell'acqua semplicemente scorresse via nelle cloache. Possiamo trarre l'inferenza che anche fra la plebe comune c'erano dei malcontenti.

Secondo: parte dell’acqua doveva semplicemente scorrere, prima negli acquedotti, poi nelle cloache, senza che gli abitanti ne potessero usufruire se non in modo indiretto, godendo di un’igiene migliore.

Si potrebbe ipotizzare che i romani non conoscessero alternative e che il loro livello tecnologico non gli permettesse l'istallazione di rubinetti e la costruzione di serbatoi per raccogliere l’aqua caduca. Un’altra spiegazione potrebbe invece partire dalla premessa che i romani avevano capito l'importanza del l'igiene per un centro urbano. Infatti sembra proprio che a Roma imperiale (come in altre città provviste di acquedotti) l'amministrazione s'impegnasse seriamente per provvedere a un igiene migliore. Frontino chiaramente è al corrente della questione igienica e sottolinea l'importanza dell’aqua caduca per la salute dei cittadini10. Tornando alla partizione dell’acqua, alcuni privati potevano usufruire addirittura del 38% dell'acqua condotta a Roma. Chi furono questi?

                                                                                                               10 Piccolo accenno ad un altro tema che ha un rapporto con gli aspetti demografici, con l'igiene e con la salute: i condotti di piombo. Senza dubbio la nozione più diffusa fra il pubblico generale in connessione con acquedotti e civiltà romana è che i romani furono progressivamente intossicati dal piombo delle fistule che si scioglieva nell'acqua potabile. Ci sono comunque dubbi ben fondati riguardo a questa assunzione. Numerosi studi specializzati hanno dimostrato che nei casi dove si è potuto costatare un contenuto piuttosto alto di piombo in scheletri antichi, la causa non sembra attribuibile ai condotti plumbei. Più probabile è che in questi casi il piombo sia entrato nell’organismo umano tramite vino contenente il dolcificante sapa, oppure da servizi da tavola prodotti da una lega contenente piombo. Infine, a Roma (come altrove nel mondo romano) il contenuto di calcio nell'acqua degli acquedotti era tale che spesso sulle pareti interiori di una fistula di piombo si fissava uno strato protettivo calcareo. Anche per questa ragione il rischio di avvelenamento a causa di tubi di piombo non dovrebbe essere stato notevole e non dovrebbe aver influito sulla salute degli abitanti di Roma imperiale.

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Per i condotti privati venivano usati tubi di piombo, le cosiddette fistulae, e fortunatamente i nomi dei proprietari appaiono spesso sulle fistule. Questi proprietari sono stati studiati da Werner Eck, le cui conclusioni risultano in linea con quello che ci si sarebbe aspettato, vale a dire che questi privati erano i possessori delle grandi domus a Roma, contenenti per esempio giardini, fontane ο bagni privati, e di conseguenza avevano bisogno di un proprio rifornimento idrico. Fra i personaggi che possiamo identificare c'è una netta maggioranza non solo di senatori, ma anche di consolari. Perciò Eck conclude che il diritto ad un condotto privato, che secondo Frontino era un privilegio (beneficium) imperiale era il risultato di rapporti intimi con l'imperatore:

Qui aquam in usus privatos deducere volet, impetrare eam debebit et a principe epistulam ad curatorem adferre; curator deinde beneficio Caesaris praestare maturitatem et procuratorem eiusdem officii libertum Caesaris protinus scribere. Chiunque vorrà derivare l’acqua per uso privato dovrà ottenerne la concessione ed esibire al curatore la lettera di autorizzazione del principe; il curatore poi dovrà dare sollecita attuazione alla concessione imperiale e registrare senza indugi il procuratore del detto ufficio, liberto imperiale. (Aq., 105,1) Impetrantur autem et eae aquae quae caducae vocantur, id est quae aut ex castellis aut ex manationibus fistularum, quod beneficium a principibus parcissime tribui solitum. Sono ottenute in concessione anche le acque chiamate caduche, e cioè quelle che tracimano dai castelli d’acqua o filtrano dalle tubature; questo beneficio suole essere connesso con estrema parsimonia dagli imperatori. (Aq., 110,1)

Questo spiega come anche qualche eques Romanus e addirittura qualche liberto imperiale appaia come proprietario di acqua privata. Quante persone facevano parte di questo circolo ristretto di privilegiati? Conosciamo circa 300 nomi al caso genitivo da fistule bollate, ma dato che il nostro materiale viene da un periodo di quasi 300 anni, questa cifra dice poco sul numero di proprietari in un momento preciso. Frontino dice che 3.847 quinariae venivano distribuite. Calcolando che ognuno di loro avrebbe usato il condotto legale più piccolo, con una capacità di una quinaria, il numero massimo sarebbe di poco più di 3.800 domus ο stabilimenti privati provviste di un condotto proprio intorno all'anno 100 d.C. Ma la situazione sicuramente era molto diversa. Le scoperte archeologiche hanno rivelato che normalmente le fistule private furono di portata media. Anche se non sappiamo stabilire la loro portata "frontiniana" (cioè in quinariae), possiamo concludere che la maggior parte di questi condotti aveva una capacità superiore ad una quinaria. Frontino (Aq., 32,5) da parte sua ci informa che la vicenaria (con una capacità di ca. 16 quinariae, Aq., 46,1) fu la fistula più comune. Se ogni domus provvista di un condotto privato avesse usato la vicenaria, l'acqua non sarebbe bastata che per soli 240 proprietari privati. Se invece, ancora ipoteticamente, tutti i privati avessero usato la fistula denarìa (con una portata di quattro quinariae; Aq. , 43), potremmo arrivare a ca. 960 possessori privati. Possiamo provare a calcolare il numero anche partendo da altri dati. I senatori dell'impero erano 600. Ma se nemmeno tutti i senatori, ma soprattutto i consolari, potevano usufruire di un condotto privato, dovremmo calcolare forse 300 proprietari di acqua privata nel ceto più alto del la società romana in un momento qualsiasi. I membri dell'ordine equestre erano più numerosi, ma presumibilmente avevano in proporzione maggiori difficoltà ad ottenere questo privilegio. Forse fra qualche migliaio di equites e di ricchi liberti imperiali c'erano altri 300 proprietari di un condotto. Il calcolo è abbastanza sommario, ma facciamo l’ipotesi che si trattasse di 600 proprietari. Comunque la disparità fra questi privilegiati ed il popolo comune permane notevole: per 600 fortunati più, ovviamente, i loro familiari e dipendenti, si erogava il 38% dell'acqua degli acquedotti; per gli altri, circa un milione, quasi lo stesso volume, il 44%.

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Quindi quasi il 50% sono stati identificati come senatori e il 6% come equites. Il resto, cioè 114 persone, sono ignote e per loro non si è finora riusciti ad identificare l'appartenenza sociale. Abbiamo più del 20% dei casi, in cui i gentilizi imperiali sono frequenti e la onomastica in generale indica la non-appartenenza ai ceti superiori. Per la loro presenza fra i proprietari di acqua privata bisogna ancora trovare una spiegazione. La distribuzione sia dentro l'urbe che fuori di essa sottolinea l’inegualità sociale nell'erogazione dagli acquedotti romani.

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Astrologia e astronomia Lezione del 19 Marzo tenuta da Matteo Rossetti Astrologia e astronomia in latino come in greco hanno pressoché lo stesso significato, infatti nell’antichità i due termini equivalevano. C’è tuttavia un altro termine, mathesis, che rinvia alla conoscenza del sapere, infatti durante tutta l’antichità c’è stata questa ambiguità. Non a caso l’opera di Manilio è di carattere sia astronomico che astrologico, il primo libro è sull’astronomia come la intendiamo noi, quindi sulla sfera celeste, mentre i restanti 4 libri sono di argomento astrologico. Isidoro di Siviglia ci dà una spiegazione lessicale e dice: qual è la differenza tra astrologia e astronomia? L’astronomia si occupa dei movimenti del cielo, l’astrologia è divisa in naturale e superstiziosa, che si occupa dei rapporti che ci sono tra i movimenti del cielo e quelli che sono gli aspetti della vita quotidiana. Facendo una brevissima storia di questo termine, partiamo da Platone nel Gorgia in cui abbiamo il concetto di astronomia come scienza che si occupa dei movimenti delle stelle. Abbiamo un altro termine: caldeus, che è l’astrologo delle classi popolari. Il sapere sulle stelle sorge all’inizio dello studio razionale della natura, già con Talete di Mileto. Poi si passò ai Pitagorici con le prime metodologie, per arrivare ai presocratici e a Democrito. Plutarco, vita di Nicia, capitolo 23, racconta di Pericle che salva Anassagora dall’accusa di empietà e in cui fa la storia dell’astronomia. Passiamo all’astrologia passando in oriente, di opere sull’astrologia ce ne sono molte. Abbiamo due nomi di egiziani e la tradizione astrologica fa capo a questi personaggi, anche Ammone. Attraverso una testimonianza degli Uccelli di Aristofane, vediamo che nell’età della polis, l’astronomia era già una materia di studio. Nel quarto secolo abbiamo un’altra figura importantissima che è quella di Eudosso di Cnido, di cui abbiamo solo dei frammenti, considerato il padre dell’astrologia moderna, da costui passiamo ad Arato, che scrisse un poema in esametri, i Fenomeni, che diventano a Roma il tramite attraverso cui viene insegnata l’astronomia. Già dall’età tardo repubblicana l’astronomia entra nel bagaglio culturale del cittadino romano, quindi anche l’astrologia che è vista come una parte legata all’astronomia per i romani ha un fondamento scientifico. La tecnica astrologica:

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La famiglia romana Lezione del 20 Marzo tenuta da Paola Abeni ORIGINE In età arcaica non sembra esistesse un termine per designare l’entità familiare come noi oggi intendiamo; venne preso in prestito il sostantivo familia provienente da famulus (servo) < osco famel/fameria, che nel linguaggio giuridico indicava originariamente l’insieme degli schiavi impiegati nei lavori domestici (familia urbana) e agricoli (familia rustica). L’endiadi familia pecuniaque per lungo tempo aveva indicato entità patrimoniali e finì per indicare il patrimonio nel suo complesso. In una società prevalentemente agricola e con la diffusione del latifondo la manodopera servile era l’unico indicatore di ricchezza. Anche dopo l’estensione semantica del termine a gruppo familiare legato da vincoli di parentela la famiglia rimane - fino alla fine dell’età repubblicana - una realtà sociale ed economica, quella dell’azienda agricola-domestica, interamente asservita alla potestà di uno solo, il pater familas. «L’unità dell’azienda familiare considerata nel suo complesso legittima l’allargamento del significato di familia fino a comprendere l’intero gruppo organizzato sotto l’autorità di colui che ha il potere nella casa.» SECONDO LE XXII TAVOLE Cellula della società romana era la famiglia patriarcale, patrilocale e patrilineare. Secondo il giurista Ulpiano (D.50.16.195.2): Iure proprio familiam dicimus plures personas, quae sunt sub unius potestate aut natura aut iure subiectae. Definiamo famiglia fondata su un diritto suo proprio l’insieme delle persone sottoposte, per nascita o per diritto, alla potestà di uno solo. La famiglia romana era per definizione una famiglia allargata grazie alla filiazione e alla sottomissione al pater familias di tutti i membri finché esso era in vita. Definiamo: 1) Patriarcale: in età più antica, il pater familias deteneva il comando assoluto sul nucleo famigliare formato dai liberi, cioè dai discendenti per linea maschile, e dalla moglie in manu, cioè sottoposta alla sua potestà. Solo il pater familias era soggetto di diritto: aveva un patrimonio, nominava l’erede, poteva prendere parte a processi; di conseguenza, il filius familias era privo di capacità giuridica, pur godendo dei diritti politici. Il figlio dipendeva dal padre nella sfera della vita privata. 2) Patrilocale: casa coincideva con patria potestas. Ad esempio, la sposa doveva svincolarsi dalla famiglia di origine per porsi sotto il potere (manus) del marito - giuridicamente era alla stregua della sorella dei suoi propri figli. Per evitare che il marito esercitasse la manus e che la moglie venisse esclusa dal nucleo famigliare di origine, le XXII tavole contemplavano la possibilità che la donna rimanesse lontano dalla casa del marito per tre notti l’anno (si parla di tri-noctis usurpatio). 3) Patrilineare: come prescrivono le XXII tavole, dopo la morte del pater, la familia si smembrava quanti erano gli eredi diretti (sui heredes) e la moglie passava tutta la restante vita sotto la tutela del parente agnatizio più prossimo (cioè l’uomo più vicino di grado alla moglie tra tutti i discendenti che sarebbero stati sotto la potestas del pater familias se ancora in vita). In mancanza di parenti l’eredità spettava ai gentiles (membri della gens). I nuovi capifamiglia avevano la facoltà di mantenere un consorzio ereditario di vita e di averi (detto ercto non cito, eredità indivisa). In età

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anteriore alle XII tavole, che introdussero l’actio familiae erciscundae (azione di divisione del patrimonio), non era ancora stato formulato il mezzo giuridico con cui si operava la suddivisione dei beni. Quindi vigeva il principio di solidarietà famigliare, il consortium, secondo cui ogni consortes era titolare dell’intero patrimonio (solidum). Gaio precisa che il consorte poteva usufruire liberamente dei beni tranne nel caso in cui gli altri membri lo vietassero (ius prohibendi). Tra i vantaggi del consortium:

1. Continuazione dell’azienda domestica 2. Prerogative politiche (l’iscrizione alle classi di censo avveniva sulla base dell’ammontare del patrimonio familiare)

Giuridicamente si potevano distinguere così due tipi di famiglia:

• Familia proprio iure se era in vita l’avus o il proavus • Familia communi iure o consortium: dopo la morte del capostipite, nonostante lo

smembramento della famiglia, rimaneva intatto il vincolo familiare. In età arcaica e repubblicana contava soltanto la filiazione da parte di padre, quindi la famiglia, definita agnatizia (da agnatus, parente paterno), comprendeva esclusivamente i parenti paterni che dipendevano giuridicamente ed economicamente dal padre, dal nonno o dal bisnonno, se questi erano ancora in vita. Per poter trattare affari o possedere qualcosa, i figli dovevano essere emancipati giuridicamente dal padre. La famiglia ideale riuniva a sé tre generazioni e abbracciava così figli, nipoti, pronipoti e rispettive spose; sappiamo da Plutarco nella Vita di Emilio Paolo che all’inizio del II sec. la famiglia degli Aelii Tuberones era composta da 16 maschi adulti con rispettive mogli e figli: tutti abitavano la stessa casa e lavoravano allo stesso podere. Plinio il Vecchio, Storia naturale VII, 59-6. Quinto Metello Macedonico lasciò sei figli, undici nipoti e ventisei parenti, compresi nuore e generi, che lo chiamavano nel saluto mattutino "padre". Il tempo di tre generazioni corrisponde alla memoria, cioè al tempo del ricordo personale. Gli appartenenti a queste tre generazioni erano chiamati parentes. Infatti, durante le Parentalia, feste che si svolgevano dal 13 al 21 febbraio, i vivi onoravano i parentes che personalmente avevano conosciuto. Oltre il tempo della memoria non vi erano più testimoni diretti e gli antenati entravano a far parte del gruppo dei maiores. I gradi di parentela: In linea verticale: PATER → AVUS → PROAVUS - FILIUS → NEPOS → PRONEPOS In linea orizzontale: sei gradi fino al secondo cugino o cugina di sesto grado (SOBRINUS/A) 2° GRADO: rapporto tra fratelli/sorelle 3° GRADO: tra nipote e zio 4° GRADO: tra cugini di primo grado 5° GRADO: tra nipote e prozio 6° GRADO: tra cugini di secondo grado Patruus: zio paterno Matertera: zia materna Avunculus: fratello della madre Amita: sorella del padre I membri della familia romana erano tenuti a:

• celebrare i sacra nelle Parentalia.

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• indicare nell’onomastica padre, avo e proavo. Es. Marcus Tullius, M(arci) f(filius), M(arci) nepos, M(arci) pr(onepos) Cicero.

• In età repubblicana non si potevano legare in matrimonio se erano parenti entro il sesto grado; in età imperiale il limite massimo era dato dal terzo grado. Quindi l’appartenenza al gruppo familiare (agnatizio e anche cognatizio, cioè da parte della moglie) determinava automaticamente la legge di esogamia. Altra consuetudine particolare riguardava lo ius osculi, che, secondo la testimonianza di Polibio, si estendeva fino ai parenti di sesto grado. Plutarco scrive che i suggenei, cioè i parenti prossimi, potevano baciare sulla bocca la donne della famiglia e che in età precedente tra questi parenti erano vietate le nozze per motivi di sangue .

Aggiunge Plinio nella Naturalis Historia 14,90: Cato ideo proprinquos feminis osculum dare, ut scirent an temetum olerent. Hoc tum nomen vino erat, unde et temulentia appellata. Catone racconta che i parenti davano un bacio alle donne per sapere se sentissero di ‘temetum’. Questo era allora il nome del vino, da cui prende il nome la ‘temulentia’. L’autore fa riferimento all’abitudine propria degli uomini di famiglia di testare, attraverso il bacio, la morigeratezza delle donne perché queste non bevessero vino. Tale uso si collega per antitesi al divieto matrimoniale. Erodoto e Diodoro Siculo ci raccontano che al di fuori dell’Italia, ad esempio presso gli abitanti delle Baleari, la sposa doveva unirsi la prima notte di nozze con tutti gli invitati e ricevere da loro doni. Riguardo a questo rito di condivisione della donna, che rimanda a origini marimoniali non monogamiche, le fonti sono numerose: Cesare, nel De Bello Gallico 5,14, attesta che i Britanni avevano mogli in comune. Anche a Roma alcune testimonianze passate sotto silenzio rivelano una realtà ben diversa da quella che ci aspetteremmo. Plutarco, nella vita di Numa, scrive che presso i Romani dell’età del sovrano etrusco l’uomo che avesse avuto numerosi figli era libero di concedere la propria moglie a un altro uomo e poi di riprendersela. Plutarco, Vita di Licurgo e Numa, 3, 1: jAllæ oJ JRwmai'oı me;n ajnh;r iJkanwı e[cwn paidotrofivaı, uJfæ eJtevrou de; peisqei;ı deomevnou tevknwn, ejxivstato th'ı gunaikovı, ejkdovsqai kai; metekdovsqai kuvrioı uJpavrcwn. Ma l’uomo romano che avesse avuto un sufficiente numero di figli, qualora fosse stato persuaso da un altro privo di figli, gli avrebbe concesso la propria donna, avendo il potere di cederla e di darla in moglie una seconda volta. In età successive si possono citare casi di mogli di personaggi illustri passate da un uomo all’altro: la moglie di Catone data a Ortensio quando era incinta, oppure Livia, moglie di Claudio Nerone, concessa a Ottaviano quando anch’essa era gravida di sei mesi. La famiglia romana si inseriva all’interno di una comunità più vasta, la gens. In età arcaica era forte il sentimento di appartenenza a una discendenza comune, che si manifestava in vincoli di solidarietà, possibilità di eredità, condivisione del nomen e dei sepulcra. Fondamentale era l’importanza del nomen, soprattutto all’interno del sistema esogamico romano: il divieto di sposare una donna della stessa gens coincideva con il divieto di sposare una donna con lo stesso nomen. È interessante notare che la donna romana non sposata venga indicata solo con il gentilizio (es. Tullia, Aemilia…). Ricordo che nella formula onomastica il nomen segue il praenomen (nome individuale) e precede il cognomen (che indica il singolo ramo della gens). Della gens facevano parte non solo i gentiles ma anche i clientes, che si ponevano sotto la loro tutela e che assumevano il nomen gentilicium e condividevano sacra e sepulcra. Le divinità gentilizie erano personali e talvolta con

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caratteri totemici: ad esempio la gens Aurelia (di origine osca – prima del rotacismo Auselia da ausel, il sole) professava il culto del dio Sole. Altre divinità: Diana per la gens Calpurnia, Ercole per la gens Potitia. Col tempo l’importanza della gens andò scemando. PATER FAMILIAS

• Aveva totale potestas sui beni e sulle persone che facevano parte della famiglia. • Aveva competenze esclusive sulla gestione del patrimonio (anche sulla dote della moglie). • Si occupava personalmente dell'educazione dei figli. • Era il sacerdote della casa (compiva i sacrifici e dirigeva le cerimonie religiose, in onore

delle divinità del focolare, i Lari e i Penati). • Poteva uccidere con il consenso del tribunale domestico la moglie senza per adulterio o altre

infrazioni tra cui l’uso smodato del vino. Le fonti, tra cui Plutarco e Plinio, riportano l’episodio di un certo Egnazio Metennio che uccise a frustate la donna per aver bevuto vino.

• Poteva avere relazioni extraconiugali con schiave e donne libere. La patria potestas poteva essere estesa tramite:

• Matrimonium iustum: il figlio era considerato legittimo se nato entro i sei mesi dopo le nozze e non oltre il decimo mese dallo scioglimento del matrimonio. Oltre questi termini il figlio era considerato sine patre, non entrava nella vera e propria familia e condivideva la condizione giuridica della madre.

• Adrogatio: il pater poteva assumere sotto di sé un altro cittadino a condizione che godesse dei pieni diritti (sui iuris). Era quindi un pater familias con figli o meno a carico. Cadevano tutti sotto la tutela dell’adrogator: il pater in loco filii e i suoi figli in quanto nepotes ex filio. Databile prima delle XII Tavole, avveniva davanti alle assemblee più antiche, cioè i comitia curiata, presiedute dal pontifex maximus, ed era il popolo a dare il consenso all’adrogatio, che prendeva il nome di adoptio per popolum. Il rituale prevedeva la detestatio sacrorum, per cui i sacra familiaria e gentilicia dell’adrogatus si estinguevano.

• Adoptio: coinvolgeva soggetti privi di diritto (alieni iuris). Il filius passava dalla potestà di una padre a quella di un altro attraverso un atto di compravendita.

I figli erano sottoposti alla patria potestas che si esercitava tramite: • Ius tollendi: si tratta probabilmente di un antico rituale secondo cui il padre sollevava il

neonato che veniva deposto ai suoi piedi. Il pater così riconosceva il figlio come membro della famiglia. In caso contrario il figlio poteva essere esposto e abbandonato nelle pubbliche discariche. I motivi dell’esposizione erano molteplici: miseria, malformazione fisica, infausti presagi, sesso femminile, illegittimità. Numerosi gli autori che testimoniano questa pratica.

- Seneca, De Ira, 1. 4: Rabidos effligimus canes et trucem atque inmansuetum bovem occidimus et morbidis pecoribus, ne gregem polluant, ferrum demittimus; portentosos fetus extinguimus, liberos quoque, si debiles monstrosique editi sunt, mergimus; nec ira sed ratio est a sanis inutilia secernere.

Sopprimiamo i cani rabbiosi, uccidiamo il bue selvaggio e riottoso, trafiggiamo con il ferro le bestie malate perché non infettino il gregge; soffochiamo i feti mostruosi, anneghiamo anche i figli, se sono nati deboli e malformi; separare gli esseri inutili da quelli sani non è ira, ma ragionevolezza.

- Livio, Ab Urbe Condita, 27. 37: Liberatas religione mentes turbabvit rursus nuntiatum Frusinone natum esse infantem quadrimo parem, nec magnitudine tam mirandum quam quod is quoque, ut Sinuessae biennio ante, incertus mas an femina esset natus erat. Id vero Haruspices, ex Etruria adciti foedum ac turpe prodigium dicere; extorrem agro romano, procul terrae contactu, alto mergendum. Vivum in arcam condidere provectumque in mare proicerunt.

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La notizia che a Frosinone era nato un infante simile a uno di quattro anni turbò le menti liberate dal terrore religioso, e non era tanto causa di meraviglia la sua grandezza, ma il fatto che, come accadde due anni prima a Sinuessa, non si capiva se fosse maschio o femmina. Gli Aruspici, fatti venire dall’Etruria, dissero che era un prodigio turpe e funesto; doveva essere escluso dal territorio romano, senza alcun contatto con la terra, e annegato. Fu deposto ancora vivo in una cassa e gettato in mare.

- Giovenale, Satira 6, 602 e ss.: con ironia pungente attesta che le donne di nobile estrazione evitavano le gravidanze con pozioni che procuravano sterilità e aborti, mentre i mariti, per appagare il desiderio di prole, si trovavano nella condizione di raccogliere gli esposti presso gli immondezzai, ad spurcos lacus.

Hae tamen et partus subeunt discrimen et omnis nutricis tolerant fortuna urguente labores; sed iacet aurato vix ulla puerpera lecto, tantum artes huius, tantum medicamina possunt, quae steriles facit atque homines in ventre necandos conducit. […] Transeo suppositos et gaudia votaque saepe ad spurcos decepta lacus […]. Ma almeno queste affrontano il rischio del parto e pur assillate dalla miseria sopportano il disagio d'allevare i figli; nei letti d'oro invece puerpere niente, o quasi. Merito delle pratiche e dei farmaci di colei che sa rendere le donne sterili e che dietro compenso sa spegnere la vita sin nell'utero materno. […] Non parlo dei figli supposti e delle gioie e dei desideri ingannati presso putridi immondezzai. Talvolta, accanto al neonato esposto, che poteva sopravvivere solo grazie alla misericordia dei passanti, si ponevano dei ninnoli, i crepundia, che dovevano servire come segni di riconoscimento. In età tarda Costantino decretò che il padre che avesse esposto il figlio avrebbe perso la patria potestas, mentre chi avesse raccolto l’esposto avrebbe potuto attribuirgli lo status libertatis o servitutis a suo arbitrio. Per Giustiniano gli esposti erano considerati automaticamente liberi.

• Ius vendendi: i figli potevano essere mancipio dati, cioè venduti da un pater familias a un altro tramite la mancipatio. Si trovavano così in una condizione intermedia tra libertà e schiavitù, sottomessi al cosiddetto mancipium, il potere del nuovo pater familias sulle persone libere che erano state a lui trasferite tramite mancipatio. I figli in mancipio non potevano essere impunemente ingiuriati: ce lo testimonia Valerio Massimo nei Facta et Dicta Memorabilia 6.1.9. Viene narrata la vicenda di un giovane filius familias, Vito Veturio, che fu costretto ad asservirsi in mancipio a un altro pater, Publio Plotio, perché la famiglia di origine era caduta in disgrazia. A causa dei maltrattamenti che Veturio subiva dal nuovo pater, Plotio venne denunciato e arrestato.

T. Veturius filius eius Veturii, qui in consulatu suo Samniitibus ob turpiter ictum foedus deditus fuerat, cum propter domesticam ruinam et grave aes alienum P. Plotio nexum se dare adulescentulus admodum coactus esset, servilibus ab eo verberibus, quia stuprum pati noluerat, adfectus querellam ad consules detulit. A quibus hac de re certior factus senatus Plotium in carcerem duci iussit. Tito Veturio, figlio di quel Veturio che sotto il suo consolato fu consegnato ai Sanniti a causa di un patto stipulato vergognosamente, dopo che, a causa della rovina della sua famiglia e dei gravosi debiti, fu costretto a legarsi a Plotio ancora giovane, punito da questo con sferzate servili, poiché

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non voleva subire oltraggio, denunciò il fatto ai consoli. Ratificata la denuncia dai consoli, il senato ordinò che Plotio fosse incarcerato.

• Ius vitae ac necis in vigore per molto tempo permetteva al pater di condannare a morte i figli dopo aver convocato un ristretto consilium domesticum costituito dai parenti più stretti.

• Ius noxae dandi: il padre aveva la facoltà di liberarsi dalla responsabilità di eventuali atti illeciti commessi dai figli, che erano sprovvisti di capacità giuridiche. Poteva avvenire secondo tre modalità:

1) il padre pagava la poena pecuniaria prevista per il delitto; 2) evitava il pagamento mediante la consegna del colpevole alla parte lesa (noxae deditio, consegna alla punizione). Comportava la messa al servizio del colpevole attraverso la mancipatio. Il colpevole dove essere manomesso qualora avesse procurato alla parte lesa un vantaggio economico equivalente alla pena pecuniaria. Quest’uso decadde quando i figli acquistarono la facoltà di difendersi da soli; 3) esercitava il ius vitae ac necis e doveva consegnare al gruppo offeso il cadavere o parte del cadavere del colpevole. Perdita della patria potestas:

• Volontaria emancipazione del figlio. La complessa procedura della emancipatio è descritta da Gaio, Institutiones I, 132. Il figlio doveva essere venduto e manomesso per tre volte.

Lex enim XII tabularum tantum in persona filii de tribus mancipationibus loqutur hi verbis:« si pater ter filium venum duit a patre filius liber esto» eaque res ita agitur: mancipat pater filium alicui; is eum vindicta manumittit; eo facto revertitur in potestatem patris; is eum iterum mancipat vel eidem vel alii (sed in usu est eidem mancipari) isque eum postea similiter vindicta manumittit; eo facto rurusus in potestatem patris filius revertitur; tertio pater eum mancipat vel eidem vel alii (sed hoc in uso es ut eidem mancipetur), eaque mancipatione desinit in potestate patris esse, etiam si nondum manumissus sit sed adhuc in causa mancipii. 1) Il padre mancipava/asserviva il figlio a una terza persona; quest’ultimo lo manometteva con la bacchetta (vindicta). 2) Il figlio ritornava nella potestà del padre; il padre lo mancipava una seconda volta alla stessa persona o a un'altra. 3) Di nuovo, il figlio era manomesso e passava sotto la potestà del padre. 4) Per l’ultima volta il padre mancipava il figlio al terzo uomo e con questo atto il figlio cessava di essere sotto la potestà del padre, anche se non era ancora manomesso o era in ‘causa mancipii’. La manumissio vindicta era la forma più antica di manumissione degli schiavi. Si svolgeva davanti al magistrato; presenziavano lo schiavo e il dominus. L’adsertor libertatis proclamava la libertà dello schiavo toccandolo con una bacchetta senza opposizione da parte del dominus, che riconosceva il nuovo status dell’ex schiavo. Il magistrato confermava la liberazione mediante l’adictio secundum libertatem.

• Morte del pater familias: la liberazione dalla patria potestas si applicava solo alla prima generazione di figli. I nepotes passavano sotto la potestà del proprio pater, le donne cadevano sotto la tutela mulierum.

• Capitis deminutio: a seguito della prigionia del padre, della perdita della civitas o per adrogatio.

DIRITTI E DOVERI DELLA MATER FAMILIAS Dionisio di Alicarnasso, Antichità Romane II. 25. 2-6: La moglie che si fosse unita al marito con sacre nozze partecipava dei suoi beni e dei suoi culti. Una moglie virtuosa e in tutto obbediente al marito era padrona di casa tanto quanto il marito, e dopo la

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morte del marito diveniva erede dei suoi beni, come una figlia di quelli del padre. Se il marito moriva senza figli e senza aver fatto testamento, diventava padrona di tutto quanto aveva lasciato; mentre se aveva dei figli, diventava erede alla pari di loro. Se si macchiava di una colpa aveva nel marito offeso il giudice e l'arbitro dell'entità del castigo, e i suoi parenti giudicavano col marito queste colpe, fra le quali vi era l'adulterio e, cosa che ai Greci sarebbe apparsa la più piccola delle colpe, se fosse stata sorpresa a bere del vino. MATRONE ESEMPLARI CLE 52; CIL I2 I2II, VI I5346; ILS 8403. Roma. Hospes, quod deico, paullum est, asta ac pellege. Heic est sepulcrum hau pulcrum pulcrai feminae. Nomen parentes nominarunt Claudiam. Suom mareitum corde deilexit souo. Gnatos duos creauit. Horunc alterum in terra linquit, alium sub terra locat. Sermone lepido, tum autem incessu commodo. Domum seruauit. Lanam fecit. Dixi. Abei. Straniero, ciò che dico è poco: fermati e leggi. Questo è il sepolcro non bello d'una donna che fu bella. I genitori la chiamarono Claudia. Amò il marito con tutto il cuore. Mise al mondo due figli: uno lo lascia sulla terra, l'altro l'ha deposto sotto terra. Amabile nel parlare, onesta nel portamento, custodì la casa, filò la lana. Ho finito, Va' pure. DIRITTI E DOVERI DEI FILII Dionisio di Alicarnasso, Antichità Romane II. 26. 2-5 Il legislatore dei Romani diede, per così dire, ogni potere al padre sul figlio, anche per tutta la vita, sia che ritenesse di scacciarlo, sia di batterlo, sia di tenerlo vincolato ai lavori dei campi, sia di ucciderlo, anche se era già impegnato nella vita pubblica e anche se ricopriva le cariche supreme, e anche se era stimato per il suo zelo verso il popolo. In forza di questa legge alcuni, mentre parlavano dai rostri su cose contrarie al senato, ed essendo molto popolari per questo, furono tirati giù dalla tribuna e portati via dai loro padri per subire la punizione che a questi più sembrava opportuna. E mentre venivano portati via per i1 foro, nessuno dei presenti poteva liberarli, né il console, né un tribuno, né i1 popolo da essi lusingato e che riteneva ogni potere inferiore al proprio. Inoltre il legislatore romano non si fermò a questo punto, consentendo al padre anche di mettere in vendita il proprio figlio […] e trarre vantaggi dal figlio vendendolo tre volte. EVOLUZIONE DELLA FAMIGLIA IN ETA’ IMPERIALE Attorno al II secolo il diritto genitilizio scomparve e i cardini della famiglia, cioè la parentela agnatizia, la cui legittimità si estese anche a quella cognatizia, e il potere illimitato del pater familias vennero meno. Alla fine dell’età repubblicana alla donna veniva riconosciuto il rispetto da parte dei figli, come al padre. Sotto Marco Aurelio, il senato-consulto di Orfitiano (178) decretò che i figli della madre avessero precedenza sugli agnati del marito defunto in merito all’eredità. Grazie alla pratica sempre più diffusa dell’emancipazione del figli, che diventavano patres familias della propria familia, la famiglia romana si avvicinava alla nostra moderna basata sulla coniunctio sanguinis e il padre di famiglia coincideva sempre più con il padre naturale. Si fecero sempre più frequenti casi di divorzi.

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Decadde il ius vitae ac necis e, una volta che il padre accettava il figlio come membro della famiglia, non poteva più liberarsene attraverso la mancipatio. Attraverso Vitruvio sappiamo che Adriano punì con la deportazione un padre che, durante la caccia, aveva ucciso il figlio e che Traiano costrinse un padre a emancipare un figlio perché veniva da lui maltrattato. Grazie al mezzo giuridico della bonorum possessio risalente all’inizio del principato l’amancipazione rendeva il figlio capace di acquisire o gestire il patrimonio del padre senza essere escluso dall’eredità. Addolcita quindi la figura del padre di famiglia, si faceva invece avanti quella dei figli oziosi e scialacquatori Marziale racconta la vicenda di un figlio di famiglia, Filomuso, che, dopo la morte del padre, dissipò tutta l’eredità e si trovò così nelle condizioni di un diseredato. (Mart. 3. 10) Constituit, Philomuse, pater tibi milia bina Menstrua perque omnis praestitit illa dies, Luxuriam premeret cum crastina semper egestas Et vitiis essent danda diurna tuis. Idem te moriens heredem ex asse reliquit. Exheredavit te, Philomuse, pater. Filomuso, tuo padre stabilì per te duemila sesterzi mensili e te li mise a disposizione tutti i giorni, dato che l’indigenza del giorno dopo incalzava la tua vita di sfarzo e occorreva ogni giorno elargire somme ai tuoi vizi. Egli morendo ti nominò erede. Tuo padre ti ha diseredato, Filomuso. In età imperiale le donne aristocratiche per antonomasia erano unite ai loro mariti nella politica e, nei momenti di pericolo, preferivano morire insieme ai coniugi piuttosto che abbandonarli. Un esempio su tutti Paolina, moglie di Seneca, che si aprì le vene nel momento in cui il marito lo faceva. Paolina però fu fermata da Nerone, che aveva dato ordine di impedirlo. (Tacito, Ann. 15. 63, 1) Ubi haec atque talia velut in commune disseruit, complectitur uxorem et paululum adversus praesentem fortitudinem mollitus rogat oratque temperaret dolori neu aeternum susciperet, sed in contemplatione vitae per virtutem actae desiderium mariti solaciis honestis toleraret. illa contra sibiquoque destinatam mortem adseverat manumque percussoris exposcit. tum Seneca gloriae eius non adversus, simul amore, ne sibi unice dilectam ad iniurias relinqueret, 'vitae' inquit 'delenimenta monstraveram tibi, tu mortis decusmavis: non invidebo exemplo. sit huius tam fortis exitus constantia penes utrosque par, claritudinis plus in tuo fine.’ post quae eodem ictu brachia ferro exolvunt. Quando disse queste e altre parole del genere quasi in un discorso pubblico, abbraccia la moglie, e un po’ intenerito, in contrasto con la forza d’animo dimostrata in quel frangente, la prega e la implora di moderarsi nel dolore e di non abbandonarsi per sempre alla tristezza, ma di sopportare il rimpianto del marito con onesto conforto, ripensando a una vita trascorsa nella virtù. Ma lei assicura che la morte è destino anche suo e chiede con insistenza l’intervento dell’esecutore. Allora Seneca, non contrario alla scelta gloriosa di lei, e nello stesso tempo per amore, per non abbandonare agli oltraggi colei che aveva amato più d’ogni altra cosa, disse: “ti avevo mostrato i sollievi della vita, tu preferisci la dignità della morte: non ti impedirò questo atto esemplare. Sia in entrambi pari la fermezza di questa morte tanto coraggiosa, (ma vi sia) più splendore nella tua”. Dopo ciò, con un medesimo colpo si aprono con una lama le vene delle braccia. In ultimo, le donne arrivarono a tal punto di emancipazione che a loro volta ripudiavano il marito e lo abbandonavano senza scrupoli. Giovenale, nella Satira VI, ricorda di una donna che si era unita a otto mariti nell’arco di cinque autunni, una matrona esemplare al rovescio.

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Imperat ergo viro. sed mox haec regna relinquit permutatque domos et flammea conterit, inde 225 avolat et spreti repetit vestigia lecti; ornatas paulo ante fores, pendentia linquit vela domus et adhuc virides in limine ramos. sic crescit numerus, sic fiunt octo mariti quinque per autumnos, titulo res digna sepulchri. 230 È lei che comanda. Abbandona il suo regno, cambia casa, calpesta il velo nuziale; poi torna e vola a quel letto che aveva spregiato. Un lampo, e lascia le porte ornate di fiori, i festoni e i virgulti ancora verdi appesi nell'atrio di casa. Cosí cresce il numero dei mariti, ben otto in soli cinque autunni: impresa degna d'epitaffio.

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Il matrimonio Lezione del 20 Marzo tenuta da Elisa Ricciardelli e Chiara Carnassale Le fonti antiche sul matrimonio e la natura giuridica del matrimonio I giureconsulti romani non composero molte monografie sul matrimonio.

• Aulo Gellio, scrittore del II sec d.C nelle Notti Attiche cita il DE NUPTIIS di Nerazio Prisco, giureconsulto dell’età di Traiano e Adriano, opera che non ci è pervenuta e di cui non si hanno notizie, Gellio testimonia solo che l’autore riportava alcune informazioni sugli sponsali.

• Il giurista Ulpiano compose un LIBER SINGULARIS DE SPONSALIBUS, due brani del quale sono contenuti nel DIGESTO di Giustiniano.

Ulpiano= (tipica figura del funzionario), era un cittadino romano di provincia, era infatti originario di Tiro(Siria), nasce nel 170d.C; fu procuratore a libellis, praefectus annonae e praefectus pretorio. Fu quasi un reggente per il princeps Severo Alessandro e morì assassinato a Roma nel 223 d.C dai pretoriani.

• Modestino, discepolo di Ulpiano, vissuto nel III sec d.C, scrisse un LIBER SINGULARIS DE RITU NUPTIARUM, di cui conosciamo solo poche righe.

• Ci sono altre fonti che non sono specifiche sul matrimonio, ma ci danno solo informazioni come :ISTITUZIONI di GAIO, PLINIO e VARRONE.

Le fonti romane offrono due definizioni di matrimonio: MODESTINO: nuptiae sunt coniunctio maris et feminae et consortium omnis vitae divini et humani iuris communicatio (il matrimonio è l’unione di un uomo e una donna e la comunanza di tutta la vita e la compartecipazione al diritto divino e umano)= dimostra che il matrimonio era ritenuto sacro. ULPIANO: tramite Giustiniano Institutiones: nuptiae…sive matrimonium est viri et muliebri coniunctio, individuam consuetudinem vitae continens (le nozze o il matrimonio sono l’unione di un uomo e di una donna allo scopo di costruire una perpetua e intima comunanza di vita). Due elementi sono comuni alle definizioni: l’unione dell’uomo e della donna in un senso soprattutto spirituale e la creazione di una comunanza di vita per tutta la durata dell’unione; il matrimonio era l’atto ufficiale con cui si fonda il nucleo familiare, cellula della società, coronato poi dalla nascita dei figli. Il parto era molto pericoloso, si diceva uccidesse più delle guerre stesse (ad esempio morirono di parto TULLIA, figlia di Cicerone, GIULIA, figlia di Cesare, EMILIA, nuora di Silla). Ricordiamo anche che le lodi rivolte alle donne nelle epigrafi raramente riguardavano la donna in se stessa, le sue virtù sono quelle che le hanno permesso di servire ed amare il marito, i figli e accudire la casa. Le cerimonie che accompagnavano l’inizio della vita coniugale non avevano valore costitutivo, non erano indispensabili al sorgere del rapporto. Servivano a conferire solennità al matrimonio, infatti in epoca classica due persone erano considerate sposate se legate dall’adfectio maritalis/ coniugalis, cioè dall’intenzione di essere marito e moglie. REQUISITI DEL MATRIMONIO (perchè il matrimonio sia considerato giusto o legittimato)

1. CONUBIUM: Ulpiano dice conubium est uxoris iure ducendae facultas= il conubium è la capacità di contrarre matrimonio secondo diritto. (Non ci poteva essere conubium tra liberi e schiavi per esempio). Età 12 femmina/14 maschio e devono essere in grado di procreare.

2. CONSENSO degli sposi e di coloro che li hanno in potestate

3. ADFECTIO CONIUGALIS

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4. HONOR MATRIMONII gli sposi dovevano avere un determinato comportamento, per esempio le donne dovevano indossare determinati abiti e partecipare alle cerimonie riservate alle matrone.

Il matrimonio giuridicamente poteva essere distinto in : • CUM MANU: trasferimento della patria potestas dal padre allo sposo, che aveva l’autorità

sulla donna.

• SINE MANU: prese a poco a poco il posto del matrimonio cum manu; era fondato sul consenso (senza formalità); la donna restava sotto la patria potestas del padre. Il matrimonio sine manu poteva essere sciolto dal pater familias.

Esistevano tre tipologie di matrimonio: 1. Confarreatio: forma più aristocratica in uso presso le classi e le famiglie superiori, prende il

nome da un pane di farro offerto agli dei, che gli sposi consumavano. Cadde in disuso prima dell’impero, fu riservato al Flamen Dialis.

2. Coemptio: riprende una forma molto arcaica indoeuropea, è una vera “compera” simbolica della moglie per un asse o un sesterzio. Rimase in uso con il cadere della prima.

3. Usus: non è un rito, è un usucapione della donna:se non fosse stata celebrata la coemptio il marito acquistava la manus sulla donna dopo che era stata usata per un anno: la donna viveva con l’uomo per 12 mesi senza la trinoctis usurpatio: le Ddici Tavole stabilirono che se una donna fosse stata lontano da casa per tre notti, il marito non avrebbe acquistato la manus di lei.

• CONFARREATIO

Durante la cerimonia veniva sacrificato un animale, si osservavano le viscere, si osservavano gli auspici, gli sposi consumavano una focaccia di farro (libum farreum), che simboleggiava l’unione e la comunanza di vita. Partecipavano i pontefici, non è chiaro con quale funzione; partecipava il pontefice massimo, il Flamen Dialis, e 10 testimoni. • Il giorno precedente la sposa lascia la sua tunica da ragazza, toga praetexa, e la consacra agli

dei insieme ai giochi d’infanzia. Durante la notte indossa un indumento speciale, la tunica recta, di colore bianco e porta sul capo una reticella rossa (reticulum). Il giorno delle nozze la sposa indossava una veste bianca, chiusa con una cintura terminante con un nodo particolare, il nodus herculeus, un velo rosso (flammeum), che copriva parte del volto e i capelli (divisi in sei ciocche) e una corona di fiori.

• Durante la celebrazione delle nozze, una matrona sposata una sola volta (pronuba) avvicina i due sposi e unisce le loro rispettive mani destre, mentre un testimone leva una preghiera a Giove, Giunone, Venere, Diana e alla dea Fides. La cerimonia si conclude con un sacrificio di un bue da parte dello sposo e con la formula feliciter proclamata dai testimoni.

• Poi nella casa della sposa inizia il banchetto; verso sera la sposa con il fuso e la conocchia, raggiunge la casa del marito, accompagnata da tre paggi (due a fianco e uno davanti con una torcia sacra a Cerere) e un corteo di parenti, invitati e curiosi. Quando la sposa arriva alla sua futura casa, supera la soglia con cautela, spalma sulla porta grasso e olio e copre gli stipiti con bende di lana. Poi la pronuba prepara la sposa e la colloca sul letto (collocatio), solo allora il

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marito in attesa nell’atrio può raggiungere la sposa sul talamo nuziale. D questo momento la sposa diventava matrona e sacrificava ai Lari e ai Penati.

• COEMPTIO

Si svolgeva un sacrificio di un giovenco. Vi erano cinque testimoni e un personaggio con una bilancia (libripens); lo sposo colpiva la bilancia con il bronzo; bilancia e bronzo=compravendita). Gaio ci dice che nel rituale della coemptio il marito emit mulierem, compra la donna. In epoca più avanzata questa cerimonia diventa fittizia. Anche qui seguiva una coena nuptialis e la deductio. DIVORZIO e REPUDIUM

• Il matrimonio si fondava sul continuo e reciproco consenso, il divorzio era il manifestarsi di una volontà contraria nella donna, nell’uomo o in entrambi.

• in epoca antica solo l’uomo chiede il divorzio, per cui c’ era confusione terminologica con repudium.

• DIVORZIO= avviene alla presenza di sette testimoni, cittadini romani e adulti, con formule fisse che alludono alla divisione dei beni e alla restituzione della dote.

Marito= TUAS RES TIBI HABETO (prenditi le tue cose) Moglie= REDDE MEAS (dammi indietro le mie cose) CAUSE:

• Mancata procreazione/sterilità

• Vecchiaia/malattia

• Partenza per una lunga guerra

Tra fine repubblica e inizio impero i divorzi aumentano. Vengono presi dei provvedimenti per far fronte al crollo delle nascite e ai divorzi facili:

• Lex Iulia de maritandis ordinibus del 18 a.C.

• Lex Papia Poppea nuptialis del 9 a.C.

• Unite nella Lex Iulia et Papia

Gli uomini tra 25/60 e le donne 25/50 potevano sposarsi con persone nei rispettivi limiti di età; potevano sposarsi anche vedovi e divorziati, le donne dovevano aspettare due anni dalla morte del marito e 18 mesi dal divorzio per risposarsi; i matrimoni dovevano essere fecondi, con premi per chi procreava prole numerosa e con sanzioni per chi non aveva figli; Gli imperatori cristiani fanno leggi più dure: il marito poteva divorziare solo se la moglie era adultera o sterile,e se divorziava non poteva più risposarsi. Ricordiamo inoltre che per influsso del cristianesimo accanto ai matrimoni combinati, v era un maggior numero di unioni non più predeterminate e imposte dai genitori, ma decise dalle parti contraenti; il cristianesimo voleva infatti che i matrimoni fossero una libera scelta delle parti. BIBLIOGRAFIA

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MATRIMONIO • Eva Cantarella “L’ambiguo malanno. La donna nell’antichità greca e romana”

• Florence Dupont “La vita quotidiana nella Roma repubblicana”

• Salvatore Di Marzo “Lezioni sul matrimonio romano”

• Frammenti varroniani tratti da Benedetto Riposati De vita populi romani.

FAMIGLIA • F.Dupont “La vita quotidiana nella Roma repubblicana”

• Gennaro Franciosi “La famiglia romana. Società e diritto”

Le fonti antiche sul matrimonio Non ci restano monografie sul matrimonio, anche se sappiamo che alcuni autori antichi le composero. Ad esempio Gellio ci riferisce che Nerazio Prisco (epoca di Traiano) scrisse un’opera in cui parlava soprattutto degli sponsalia. Ulpiano, giurista vissuto tra il 170 d.C. e il 223 d.C., scrisse un Liber singularis de sponsalibus e il suo allievo Modestino un Liber singularis de ritu nuptiarum; di questi abbiamo solo poche righe. Definizioni di matrimonio:

- Ulpiano: matrimonium est viri et mulieris coniunctio, individuam consuetudinem vitae

continens.

- Modestino: nuptiae sunt coniunctio maris et feminae et consortium omnis vitae divini et

humani iuris communicatio.

Queste definizioni dimostrano che prima di tutto il matrimonio era l’atto con cui un uomo e una donna si univano per costituire la famiglia, cellula base della società. Matrimonio:

- Cum manu > il marito assume l’autorità sulla donna (autorità che prima spettava al pater, in

una società fortemente patriarcale)

- Sine manu > la donna resta sotto l’autorità del pater anche dopo sposata, quindi questo tipo

di matrimonio può essere sciolto semplicemente dal padre della donna.

Tipi di matrimonio: per essere sposati occorreva solo avere l’età minima prevista dalla legge (12 anni per la donna e 14 per l’uomo) e l’adfectio maritalis, cioè la volontà chiara ed esplicita di essere marito e moglie. I riti di celebrazione del matrimonio erano solo qualcosa in più, che dava solennità all’unione. Esistevano tre tipi di matrimonio: confarreatio, coemptio e usus (i primi due sono riti, il terzo no).

1) Confarreatio > matrimonio di patrizi, poi caduto in disuso e rimasto solo per i Flamines. La

sposa vestiva un abito bianco con velo arancione e durante la cerimonia spezzava del pane

di farro (libum farreum) insieme al futuro marito, per indicare la comunanza di vita che li

attendeva. Si parla di confarreatio proprio dal nome di questo pane. Era importante che

prima della cerimonia si sacrificasse una vittima e si osservassero gli auspici.

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2) Coemptio > cerimonia che simboleggiava l’atto di compravendita della donna. Ad essa

erano presenti cinque testimoni e un personaggio che teneva tra le mani una bilancia,

simbolo della compravendita. Probabilmente in un passato lontano la donna era davvero

comprata, poi il gesto dell’acquisto della donna rimase solo simbolico.

3) Usus > usucapione della donna che, se trascorreva 12 mesi ininterrotti a casa del marito, era

considerata automaticamente sua moglie. Questo si verificava se la donna non ricorreva alla

trinoctis usurpatio, cioè all’allontanamento da casa del compagno per tre notti all’anno; nel

caso in cui si verificasse questo allontanamento, l’uomo non assumeva la manus sulla

donna, che restava così sotto la tutela del pater.

Prima di sposarsi… Si tenevano gli sponsalia, la cerimonia di fidanzamento durante la quale il padre della futura sposa prometteva la propria figlia in moglie al futuro marito. Il nome deriva dal verbo spondere, “promettere”, perché durante la celebrazione del fidanzamento il ragazzo chiedeva al pater della sposa di promettere il matrimonio con sua figlia e il padre rispondeva “spondeo”, cioè “lo prometto”. Avveniva poi la consegna dei doni che gli invitati agli sponsali avevano portato e i futuro sposo dava alla ragazza un anello, che veniva indossato all’anulare sinistro. Testo di Gellio sul perché si scegliesse l’anulare sinistro. Si sceglieva poi la data delle nozze.

Quando non sposarsi?

- Dal 13 al 21 febbraio perché si celebravano i Parentalia;

- a Marzo perché c’erano le feste dei Sali;

- nei giorni postridiani;

- il 24 agosto, il 5 ottobre, l’8 dicembre;

- a Maggio (Testo di Plutarco) > attenzione! Traduzione sbagliata alla riga 9, togliere “della

sposa” dopo “effigi”.

La sposa romana: indossava un abito bianco con in vita una cintura, che presentava un nodo particolare, detto nodus herculeus. Solo il marito poteva sciogliere questo nodo. I capelli erano separati in sei ciocche con una punta di lancia. Testo di Plutarco. Un frammento di Varrone sulla coemptio.. Ci resta un frammento di Varrone che racconta un momento della cerimonia di coemptio. L’autore dice che la sposa portava con sé tre assi, uno in mano, uno al piede e uno nella borsetta. Donava il primo al marito, mentre gli altri due venivano consacrati alle divinità. In particolare il secondo era consacrato ai Lari, il terzo agli dei compitali. Questo frammento dimostra che anche la coemptio prevedeva dei gesti di onore alle divinità. La deductio: era il corteo che al temine del banchetto nuziale (coena nuptialis) accompagnava gli sposi alla loro casa. Durante il trasferimento si invocavano varie divinità protrettrici del matrimonio, tra cui Giove, Giunone, Fides ecc…

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Il corteo era aperto dalla sposa, accompagnata da tre piccoli ingenui: due li teneva per mano, il terzo stava davanti alla sposa con una fiaccola di biancospino. Testo di Plinio il Vecchio sulla fiaccola di biancospino. Giunti alla soglia della casa coniugale la sposa pronunciava la frase “Ubi tu Gaius, ego Giaia”, sul cui significato riflette Plutarco. Testo di Plutarco. Un’altra testimonianza è quella di Varrone (attraverso Servio), che descrive la deductio, soffermandosi su:

- uso della fiaccola

- motivo per cui la sposa non attraversa la soglia da sola, ma è sollevata dal marito

- motivo per cui si spargono le noci

Come sciogliere il vincolo matrimoniale? Per rompere il matrimonio bastava esprimere una chiara volontà di separarsi. Esistevano due forme di scioglimento del matrimonio: il repudium, voluto da un solo coniuge, e il divortium, voluto da entrambi. In genere era l’uomo a chiedere il repudium, ad esempio se la donna non gli dava eredi. Con il passare del tempo i divorzi aumentarono notevolmente, soprattutto tra la fine della Repubblica e l’Impero.

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La medicina romana Lezione del 21 Marzo tenuta da Silvia Alloni e Donata Elia Possiamo dire che la medicina romana si intromette alla medicina delle popolazioni italiche, degli etruschi essenzialmente. In un primo tempo era naturale pensare che ci fossero delle figure di stregoni terapeuti, figure tanto osteggiate da Ippocrate che li considerava dei cialtroni. Con l’ampliamento del dominio romano sulle colonie greche, si verificò un flusso migratorio sia di mistificatori ma anche di medici di buon livello. Plinio nella Naturalis historia, 29,12, ci parla del primo medico greco che giunse a Roma nel 219 a.C., Arcagato, che proveniva dal Peloponneso. Fu molto ben accetto dai romani, gli venne dato ache un ambulatorio da gestire, tuttavia Plinio ci dice che era molto propenso a tagliare e bruciare le carni della gente tanto che gli fu dato il soprannome di carnifex. Il vocabolo medicus venne attestato per la prima volta nella letteratura latina nelle commedie di Plauto, con una certa frequenza nelle occorrenze, quindi il popolo romano doveva avere una certa familiarità con questa figura. Nel Miles gloriosus alla domanda: ti sembro cisposo, il protagonista risponde: vai a chiederlo al tuo medico. Nel Rudens abbiamo un gioco di parole interessante tra medicus e mendicus, da ciò dobbiamo immaginare il tenore di vita non troppo elevato del medico a questa altezza cronologica. Il medico presente nelle commedie di Plauto è un medico arrogante, una sorta di millantatore, è una parodia esplicita di tale figura. La terapeutica di Arcagato era basata sul taglaire e il bruciare, due fasi della terapeutica ippocratica a cui si aggiungeva anche la perfusione polmonare. Plinio sostiene che per lui la medicina romana era la medicina dei padri, avvicinandosi con questo a quello che diceva Catone, la medicina qui trattata era all’interno di un mondo tradizionalista, restio alle novità, abituato a curarsi con rimedi offerti dalla terra, in cui il pater familias aveva il compito di curare tutti i sottoposti alla sua potestas. In alcuni capitoli ad esempio parla delle proprietà curative del cavolo: era in grado di curare ascessi, contusioni etc. Per Catone inoltre il richiamo ad un ambiente magico era molto forte, per esempio descrive un incantesimo da fare in caso di lussazione. Chiunque poteva dichiararsi medico, la maggior parte dei medici erano schiavi, esperti di medicina, molto ricercati. Accanto ai medici schiavi c’erano anche quelli di condizione libera, provenienti per lo più dalla Grecia, dove si erano formati, ad esempio da Pergamo, Antiochia. Non tutti professavano lo stesso credo scientifico, c’erano due scuole principalmente:

- la scuola di empirica, che aveva punti di contatto con lo scetticismo e l’esperienza aveva una valenza elevata per stabilire l’efficacia delle cure, secondo Celso non importava la causa della malattia ma ciò che riusciva a sconfiggerla, infatti professava un particolare disinteresse nei confronti dell’anatomia e per la fisiologia e non praticava la dissezione;

- la scuola pragmatica, che invece praticava una medicina più razionale e aveva molti punti di contatto con l’epicureismo, praticava la dissezione e sosteneva l’importanza dell’anatomia per rintracciare le cause sia manifeste sia occulte delle patologie.

Una terza scuola si sviluppò a Roma nel I secolo d.C., la scuola dei … che individuato un organismo malato si cercava di riconoscerne la contrazione, la struttura, l’aspirante medico doveva seguire un tirocinio più o meno lungo, c’era chi prometteva di formare un medico in sei mesi, però di solito si aggirava sui tre/quattro anni. L’apprendista medico doveva seguire il proprio insegnante nelle visite, aiutarlo seguendo le sue indicazioni, svolgendo le funzioni di un vero e proprio assistente, come ci viene detto in un epigramma di Marziale. La maggior parte dell’apprendimento avveniva all’interno dello studio, l’ambulatorio, che era la taverna medica.

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In queste c’era la sala d’aspetto, la sala dove c’erano tutte le erbe per i rimedi, poi c’erano degli infermieri che servivano per aiutare il medico ma anche per tener fermo il paziente. Per quanto riguarda la specializzazione, non esistevano delle scuole per tale scopo, ma dopo la formazione normale uno volendo poteva concentrarsi sulla cura ad esempio delle orecchie. Il medico generico era chiamato clinicus, da clinè. Il medico dei denti (medicus dentium) era il dentista, molto frequentato, veniva usata la pietra pomice, delle ceneri particolari per lavarsi i denti, le carie erano inferiori erano molto meno frequenti perché la dieta era più povera di zuccheri. Abbiamo testimonianze archeologiche di denti d’oro, in particolar modo applicavano dei denti animali, era però molto rischioso estrarre un dente, perché c’era il rischio di rompere l’osso e di infezione. C’era anche il medico degli occhi, il medicus ocularius, le congiuntiviti e le infezioni agli occhi erano molto frequenti perché l’acqua non era così pulita. In questi casi si cercava di operare il meno possibile, abbiamo ritrovato molti contenitori di colliri, scatolette che riportavano il sigillo del medico e la composizione del collirio e la malattia che dovevano curare, questo per pubblicità del medico stesso, per il loro utilizzo prima dovevano essere sciolti in solventi come uovo o latte. Un’operazione molto frequente che doveva fare il medico degli occhi era la cataratta. Abbiamo una descrizione che ci fa Celso del medico chirurgo: deve essere abbastanza giovane o non troppo avanti con gli anni, per avere mano sicura, deve essere ambidestro con vista acuta, coraggioso e pietoso, così da desiderare di guarire il suo paziente ma non tanto da lasciarsi indurre dalle grida di lui a fare più in fretta o a tagliare meno del necessario. Doveva anche essere veloce. Il successo non era garantito e in gioco c’era la reputazione dello stesso medico, infatti nel giuramento di Ippocrate si faceva promettere di operare solo se necessario per evitare l’accusa di omicidio. Le conoscenze anatomiche erano molto imperfette, inoltre non c’era la sterilizzazione degli strumenti. Ci sono pervenuti moltissimi strumenti, bisturi, sonde, cauterizzatori. Venivano fatte delle operazioni spettacolari, per esempio la trapanatura del cranio, e abbiamo ritrovato dei teschi con queste placche particolari che venivano messe a protezione del cervello. C’era anche la medicina cosmetica, sappiamo che molti liberti si facevano togliere i tatuaggi. Si faceva molta pratica sul campo, i medici venivano soprattutto dall’esercito. Coloro che non potevano proseguire venivano fatti ricoverare nelle città alleate, fino alla tarda repubblica non c’era un medico che seguiva sempre l’esercito. Ciascun soldato sapeva almeno fermare un’emorragia, medicare una ferita, insomma aveva delle conoscenze basilari. Il medico prestava cure soltanto al generale, per lo meno fino alla tarda repubblica quando Cicerone nelle Tuscolanae disputationes, nel secondo libro, ci fa un paragone tra la recluta ferita in ansia per la sua condizione e il veterano molto più tranquillo perché sa che potrà affidarsi alle cure di un chirurgo, quindi possiamo dire che dalla tarda repubblica le cure del medico venivano estese anche ai legionari. Poi nel periodo dell’impero è registrata la presenza di almeno una decina di medici al servizio dell’esercito. Nel giuramento di Ippocrate si faceva giurare di non commettere aborto, c’era “il segreto professionale”, al medico veniva richiesta una condotta irreprensibile e anche un aspetto adeguato per suscitare fiducia nel paziente. Tra le malattie diffuse abbiamo il tetano, il tifo, la tubercolosi, la lebbra, la malaria. Dagli scheletri che abbiamo ritrovato abbiamo anche il nanismo, la gotta, l’artrosi. Passando all’aspetto economico il medico era ben pagato, i prezzi non erano fissati e variavano secondo le disponibilità economiche del paziente. Antonio musa (?) per aver guarito Augusto nel 23 a.C. da una malattia grave fu gratificato con 400.000 sesterzi. I medici avevano l’esenzione dal prestare servizio militare e dal pagare le imposte.

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Le accuse di omicidio erano frequenti, per la somministrazione di droghe soprattutto. Potevano esserci accuse di complicità. Abbiamo un trattato di Sorano di Efeso, vissuto tra Traiano e Adriano, da cui si evince la conoscenza delle tube di falloppio, è un trattato razionale, riconosceva l’effetto placebo. La sua soluzione per la malattia più diffusa tra le donne, ovvero l’isteria, dovuta secondo Platone all’utero che si comportava come un animale attratto da odori, oppure il collasso dell’utero era dovuto al fatto che la donna desiderasse avvicinarsi di più all’uomo. Invece Sorano dice che non è vero. Per Galeno l’isteria era dovuta ad un mancato fluire del seme femminile, Sorano invece sostiene che sia dovuta ad aborti, a parti prematuri etc. Sorano per il collasso uterino faceva starnutire. Il matrimonio avveniva con delle ragazzine e Sorano consiglia di non metterle subito incinta, consiglia in realtà la castità per evitare le malattie. Per la gravidanza consigliava delle diete ipocaloriche. Per il travaglio c’era un’ostetrica, sappiamo dell’esistenza di mediche, l’ostetrica doveva ammorbidire le membrane, c’erano delle donne che tenevano ferma la madre, poi Sorano consiglia di guardare la paziente soltanto in faccia. Era rischioso perché le posizioni che il bambino poteva assumere nell’utero erano spesso scorrette, allora si praticava l’embriotomia in cui il bambino veniva tagliato e ucciso per salvare almeno la donna. Non esistevano metodi anticoncezionali, l’aborto veniva praticato molto spesso anche se era proibito. Se la donna rimaneva incinta la colpa era sua. Normalmente le donne non avevano più di tre figli.

     

 

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I suoni del potere nel mondo romano Lezione del 21 Marzo tenuta da Laura Tagliaferri Convegno internazionale tenutosi a La Rochelle nel novembre 2010, durante Erasmus. Approccio alla Storia molto… francese, anche se il convegno era internazionale. Cosa sentivano gli antichi??? Non abbiamo registrazioni! Vediamo il paesaggio sonoro del potere a Roma. Autori:

-­‐ Badel -­‐ Zecchini -­‐ Arbo -­‐ Montero -­‐ Humm -­‐ Gandini -­‐ Mencacci

IL SENATO Seneca, De ira: Quando i piaceri hanno corrotto insieme animo e corpo, nulla sembra più sopportabile, non perché le situazioni siano dure, ma perché le sopporta un rammollito. Che motivo c’è infatti di arrabbiarsi, perché uno tossisce o starnutisce o non è pronto a cacciare una mosca, o perché ci gira attorno il cane, o la chiave è caduta di mano allo schiavo disattento? Potrà costui rimanere impassibile tra le ingiurie che volano in tribunale, gli epiteti che si gridano nelle assemblee popolari (contio) o in Senato, se le sue orecchie si sentono offese dallo stridio di uno sgabello che struscia? Commento: Seneca parla di rammollimento che rende impossibile affrontare Senato, ma per noi è utile per contrasto tra idealizzazione che abbiamo introiettato della gravitas senatoria e lui che parla di insulti tanto nelle assemblee pubbliche quanto nello stesso Senato. ------------------------------------------------------------------------------------- Di gravitas senatoria parlano tutti gli autori che si occupano di eloquenza:

-­‐ QUINTILIANO, nell’Istitutio oratoria, dice proprio che lo stile del discorso senatoriale deve opporsi a quello delle assemblee popolari, deve essere caratterizzato da gravitas, una nozione che riguarda tono di voce, gestualità e livello del discorso, dando auctoritas all’oratore

-­‐ idem CICERONE afferma che il dibattito senatoriale deve svolgersi come un confronto di sententiae formulate con calma e pacatezza, gravitas (solennità) e modus (misura).

-­‐ LIVIO ci parla della reazione del popolo romano alla sconfitta del Trasimeno: ingenti terrore ac tumultu del popolo vs compostezza del Senato, che si trattenne in curia per più giorni dall’alba al tramonto e alla fine nominò Quinto Fabio massimo dittatore rei gerendae causa.

------------------------------------------------------------------------------------- -­‐ Eppure, se poi andiamo a ripercorrere le descrizioni delle sedute del Senato, troviamo

termini come strepitus, convicium, fremere, termini evocanti il silenzio, la risata, i lamenti, termini dell’insulto (invehere, lacerare), vociferatio e il suo opposto approbatio; e ancora nel registro positivo adsensus (manifestare approvazione), ecc.

-­‐ E poi ancora ci sono gli accenti, di cui troviamo notazioni soprattutto nel genere biografico: l’Historia Augusta dice che Adriano aveva un accento agrestus di cui il Senato si prendeva gioco, e Settimio Severo un tono piacevole (canorus) con una punta di accento africano.

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-­‐ Poi ci sono notazioni sul tono di voce, come la vehementia degli interventi, che torna spessissimo, o la voce tremante di (trementi voce) di Gabino quando è attaccato per la sua gestione della Siria, come ricorda Cicerone. Oppure Tacito ricorda del tono di voce dolce (lenis) adottato da Tiberio quando doveva convincere Pisone di una cosa.

-­‐ Poi c’era la dichiarazione del voto per singulorum sententias exquisitas e il movimento dei senatori nella sala, sostenendo una o l’altra mozione. Anche se non è mai detto, anche questo doveva produrre rumore!

-­‐ E poi c’era il clamor della gente che stava fuori: sempre a proposito del dibattito sulla gestione della Siria da parte di Gabino, si parla di clamor dei senatori ma pari clamore della gente all’esterno.

------------------------------------------------------------------------------------- Insomma, in Senato c’era tutt’altro che silenzio e solennità: discussioni, altercationes, litigi e interruzioni erano abbastanza normali, pur senza giungere (o comunque disapprovando) il clamor contionalis: secondo autori del I secolo a.C, come Cicerone e Livio, c’è degrado nel senato con clamor contionalis contrapposto a gravitas idealizzata della Roma più arcaica. Durante il dibattito contro Clodio, il mormorio dei sostenitori di Cicerone obbliga Clodio a interrompere il suo intervento, anche se in realtà parlava da 3 ore e quindi più che un intervento era ostruzionismo, pratica diffusa di cui parlano vari autori. Plinio il Giovane dice che quod multi clamores permixto tuentur, nemo tacentibus ceteris dicere velit, cioè nessuno aspetta che gli altri tacciano, anche se chiaramente siamo in una una fase di declino del ruolo del Senato romano. --------------------------------------------------------------------- L’instaurazione dell’Impero priva il Senato di reale potere decisionale, e allora i rumori del Senato diventano la sola possibile manifestazione di opinione. Ad esempio Tacito ci racconta che sotto Tiberio, il giovane nobile Ortalo avrebbe pregato in Senato l’aiuto finanziario dell’imperatore per mantenere i suoi numerosissimi figli, fatti per rispetto delle leggi sulla natalità di Augusto. Ma Tiberio rifiuta dicendo che è la sua pigrizia a renderlo povero. Il Senato è in disaccordo e, a parte qualche applauso di pochi per cortigianeria, resta silenzioso ad esprimere disapprovazione. ----------------------------------------------------------------- LA CONTIO Comunque all’inizio si citavano, accanto al dibattito senatoriale, le contiones o assemblee popolari, che venivano sempre contrapposte alla gravitas richiesta al Senato tanto che appunto, quando in Senato c’è casino, Cicerone parla ad esempio di clamor contionalis. In origine, in realtà, sembra che il rapporto fosse inverso, cioè che il luogo più silenzioso fosse la contio, l’assemblea pubblica convocata da un politico, in cui i cittadini ascoltavano in assoluto silenzio. È a partire dai Gracchi che questa situazione si sarebbe rovesciata, i politici con tecnica teatrale avrebbero fatto di tutto per suscitare la reazione del pubblico. Fergus Millar dice che questo botta-risposta nei comizi era una forma embrionale di dibattito politico, ma altri smentiscono perché le acclamazioni erano provocate e quindi no reale democrazia. In ogni caso per l’idealizzazione della Roma antica bisogna tener presente l’idealizzazione retrospettiva. ACCLAMAZIONI, APPLAUSI, CORI Sembra che in età imperiale, per influ miliare (adclamationes dei comandatni) o circense, le adclamationes fossero tutt’altro che confuse: veri e propri cori su motivi stabiliti, con ritmo preciso

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e qualche variazione con capo-coro... insomma, come i nostri cori da stadio o meglio quelli delle manifestazioni politiche. Ciò in occasione di momenti solenni come l’elezione o un trionfo dell’imperatore, ma poi in modo rovesciato anche in occasione della morte di un imperatore odiato: lo vediamo dalla Vita Commodi dell’Historia Augusta, quando dopo la morte di Commodo una lunga serie di acclamazioni di sollievo e di insulto a Commodo si leva dentro al Senato. E dalle figure di suono e dal ritmo si capisce che dovevano essere cori. Poi si prendon gioco di attributi di Commodo, quindi pater patriae diventa hostis patriae ecc. -------------------------------------------------------------- Si trattava evidentemente di una situazione ben diversa da quella della Roma arcaica, in cui – certo con idealizzazione – i senatori sono sempre caratterizzati come detto da gravitas e compostezza. Non che nella Roma arcaica mancassero le occasioni per rumorose manifestazioni di gioia o di dolore: erano le pompae, i cortei, che si distinguevano in:

1) triumphales in seguito a una vittoria militare, quando il popolo tutto si dava a forme anche chiassose di giubilo e i soldati potevano anche esibirsi in licenziosi carmina triumphalia

2) circenses in occasione di eventi ludici e sportivi, in cui in sostanza era il tifo 3) funebres in seguito a un decesso. In questo caso in origine erano le donne della gens a

esprimere il lutto attraverso il pianto e i lamenti, mentre all’uomo spettava la composta laudatio del morto. Poi dal III sec. a.C. anche alle matronae è richiesta compostezza e per i lamenti funebri ci sono le preficae professioniste

IL BANDITORE Un’altra figura tipica della voce del potere a Roma è la figura del praeco, il banditore, figura dalla voce magna (perché non c’era possibilità di amplificare) mandata dalle autorità nel foro, nelle vie, sulle murA per annunci particolarmente importanti. Ma al di fuori del banditore, che pure era di condizione sociale non elevata, in tutti i trattati di oratoria si dice che occorre non urlare troppo nel parlare. Il clamare è tipico delle donne e dei rustici, tanto che in Plauto nella Mostellaria, ad un personaggio che si mette a gridare per strada si risponde quid tibi, malum, hic ante aedis clamitatiost? An ruri censes te esse? Oppure è tipico dei mercanti, che vendono le loro merci gridando nelle strade e nelle piazze. Ad esempio Seneca, nelle Epistole, parla di varius clamor e di genera vocum quae in odium possunt aures adducere, tra cui le biberarii varias exclamationes et botularium et crustularium et omnes popinarium institores mercem sua quadam et insignita modulatione vendentis. Quindi insomma, il banditore è molto più vicino al commerciante di strada che all’autorità di cui è chiamato a replicare la voce.

ARUSPICI E ASTROLOGI Tra i suoni del potere non si possono non citare quelli di aruspici e astrologi, molto consultati nel mondo romano. Sappiamo che in età imperiale le consultazioni da parte degli imperatori avvenivano tendenzialmente per iscritto oppure in un luogo appartato, senza testimoni e in silenzio: la vista, del fegato degli animali o delle carte astrali, prevale sull’udito. Oppure, ancora più spesso, gli imperatori apprendono essi stessi l’arte divinatoria, per non dover consultare altri. La causa è sempre la paura della divulgazione di presagi sfavorevoli. D’altronde tradizionalmente la lettura degli auspici doveva avvenire nel silentium noctis, quindi di notte, in silenzio, nello spazio sacro del templum e senza quei vizi di forma che potevano essere ad esempio la caduta di un oggetto ecc. La consultazione degli oracoli come Delfi, invece, era basata sull’ascolto della divinazione prodotta in trance dal profeta o la profetessa, e gli imperatori romani non volevano questo. A volte c’erano suoni di altro tipo (ad esempio a Dodona il fruscio del vento tra le foglie della quercia

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sacra, il tubare delle colombe e il suono prodotto dai calderoni di bronzo), ma sempre di suoni si trattava e quindi gli imperatori non volevano. --------------------------------------------- CIRCOLAZIONE DELLE INFORMAZIONI Come tutte le culture fino all’età moderna, era una cultura dell’ascolto e non dell’immagine o della lettura. Le info circolavano lentamente e male, spesso falsate intenzionalmente per ragioni politiche o inintenzionalmente nel passaparola. ---------------------- Il senato, per ridurre al minimo i problemi della lentezza di comunicaz, aveva tutto un sistema di legati con diversi gradi di affidabilità. Le discussioni avvenivano dentro al Senato e fuori si cercava di far passare un messaggio unanime. Ma poi c’erano i canali non ufficiali: militari oppure mercanti. I SUONI DEL POTERE NEL MONDO ROMANO Convegno internazionale tenutosi a La Rochelle nel novembre 2010: l’approccio francese alla Storia.

Ø il paesaggio sonoro del Senato Ø la contio, assemblea pubblica Ø acclamazioni, cori, pompae: manifestazioni sonore di gruppo Ø il banditore, vox del potere politico Ø aruspici e astrologi: il paesaggio sonoro della divinazione Ø la trasmissione delle informazioni in una cultura dell’ascolto

Cesare Maccari, Cicerone denuncia Catlina, 1889

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Curia Iulia a Roma Ricostruzione del Foro

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Le terme Lezione del 26 Marzo tenuta dalla Tommasi Per terme si intende stabilimenti per bagni caldi e si sviluppano principalmente nel mondo romano, è uno dei tratti che caratterizza la dominazione romana. I romani davano grande importanza alla cura della persona, chi possedeva una mente sana e un corpo sano poteva condurre una vita felice, non è solo un riferimento al mens sana in corpore sano, ma in Seneca nell’epistola 76, tra i consigli per vivere una vita compiuta annovera anche la cura del corpo. È quindi una necessità umana, mentre altri invitano a non eccedere nella cura del corpo, anche lo stesso Seneca nell’epistola 14: comportiamoci non come se dovessimo vivere per il corpo, ma come se non potessimo vivere senza. In tacito abbiamo un passo in cui abbiamo la descrizione di ciò che veniva costruito si citano anche le terme, considerate uno degli aspetti di viziosità e di corruzione morale, ciò ci fa capire che le terme erano parte integrante di ogni insediamento urbano, ma con una connotazione leggermente negativa. Comunque sia le terme piacevano a tutti, abbiamo anche dal punto di vista epigrafico testimonianze che le annoverano tra i piaceri della vita. Nelle terme si trovava il luogo della cura non solo del corpo ma anche dello spirito, perché ospitavano anche attività sportive e ricreative, quindi non si andava solo per fare il bagno, tutti andavano, anche gli imperatori, era un momento importante per le relazioni sociali. Abbiamo degli editti sulla separazione dei sessi che non sempre veniva osservata, comunque le terme erano un veicolo di diffusione della cultura ufficiale, quindi erano anche un potente mezzo di propaganda politica, non stupisce allora che rientrassero nei programmi politici imperiali. Le terme sono un fenomeno diffuso in qualunque tipo d’insediamento romano. Un’epigrafe di Bergamo testimonia che un cittadino di Cremona aveva donato un impianto termale, anche le altre epigrafi che riguardano le terme sono spesso testimonianza di evergetismo privato e donazioni. La cura di sé non ha sempre avuto all’interno della storia di Roma la stessa considerazione, infatti in età regia e repubblicana l’allenamento e l’esercizio fisico erano concepiti in funzione della preparazione militare, questo stile di vita riceve un grave colpo dalla riforma dell’esercito di Gaio Mario. L’attività ginnica quindi viene praticata come un piacere personale inoltre in età repubblicana i romani ritenevano sconveniente lavarsi di fronte agli altri, la cura di sé viene considerata un fatto privato e avveniva all’interno dell’ambiente domestico in uno spazio chiamato latrina, era molto piccolo e angusto. Seneca ci descrive il balneum di Scipione l’africano, sappiamo quindi che era uno spazio angusto poco illuminato con un braciere ardente, senza lussi e accessori. Sempre da Seneca sappiamo che i romani si lavavano tutti i giorni le braccia e le gambe, il resto una volta a settimana. I primi bagni pubblici furono aperti a Roma da privati tra la fine del terzo e l’inizio del secondo secolo a.C., il primo stabilimento di terme venne fatto costruire da Agrippa tra il 25 e il 19 a.C. nel Campo Marzio, non erano più chiamati balnea ma terme, quindi c’era già una connessione col concetto di calore e gli studiosi hanno ipotizzato che fosse stata introdotta in questo tipo di terme una speciale stanza destinata al bagno di aria calda chiamato laconicum. L’approvvigionamento delle terme di Agrippa era garantito da un acquedotto fatto costruire appositamente, l’Aqua Virgo. Con queste terme abbiamo un miglioramento degli edifici balneari che segnarono l’affermazione della dimensione pubblica della cura del corpo. Da Nerone in poi tutti gli imperatori fecero costruire degli stabilimenti termali aperti al pubblico, anche Traiano fece costruire un enorme impianto e poi tutto il sistema venne ripreso e ampliato dalle terme di Caracalla e dalle terme di Diocleziano. L’utilizzo principale delle terme era quello del bagno, ma all’interno c’erano anche zone destinate a scopo terapeutico, come l’uso dell’alternanza tra caldo e freddo. Occorreva aumentare la temperatura corporea e poi si faceva un bagno freddo, di seguito si procedeva con massaggi con oli e unguenti profumati.

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C’erano anche degli schiavi che aiutavano nella preparazione. Il personale variava nel numero, poi c’era anche un numero di specialisti e un gruppo di addeti al funzionamento tecnico, c’erano i fornacai che erano addetti al riscaldamento, gli aquari alle cisterne. C’era anche l’allenatore, il massaggiatore (unguentarius). Gli esercizi fisici si svolgevano nella palestra, all’aperto si svolgevano vari giochi.