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I l primo maggio 2003 ha avuto ufficialmente termi- ne la guerra contro l’Iraq. Da allora il Paese, al limi- te del collasso, è sprofondato in una spirale di vio- lenza, dall’altissimo costo umano, che mina qualsiasi tentativo di normalizzazione dell’area. Per la sua posizione strategica nel cuore della regione mediorientale e per la presenza all’interno del Paese di tutta una serie di fattori d’instabilità intimamente con- nessi ad altrettanti interessi vitali di differenti attori, l’I- raq è da sempre, assieme alla questione israelo-palesti- nese, il banco di prova della politica estera degli Stati Uniti nel Medio Oriente. Non solo. La questione “Iraq” rispecchia, più in generale, il complesso dibattito interno agli Stati Uniti, relativo alle modalità e agli scopi dell’azione politico-militare americana nel mondo (1). Per que- sta ragione è possibile analizzare, dalla maniera in cui viene affrontato il pro- blema “Iraq”, quale sia la particolare visione del sistema internazionale alla base della politica estera di una deter- minata presidenza americana. Dalla fine della Guerra Fredda, sia l’ammi- nistrazione di George Bush, agli inizi degli anni ’90, che quella successiva di Bill Clinton, così come quella attuale di George W.Bush si sono dovute occupare dell’incognita irachena, senza giungere, però, ancora ad una sua soluzione definitiva. Perché l’Iraq è di così gran inte- resse per gli Stati Uniti? Molto è stato detto e scritto, talvolta in maniera alquanto semplicistica, sull’importanza delle risorse energetiche irachene e sui conseguenti indubbi interes- si economici americani. Ciò, tuttavia, non è sufficiente. Il caduto regime di Saddam Hussein è stato per più di vent’anni il simbo- lo di una tirrania brutale all’interno e un grave elemen- to di destabilizzazione verso l’esterno: non solo vi sono state due guerre (2) che hanno insanguinato la regione negli anni ’80-’90, condotte con metodi aberranti da (1) Cfr.: L.F.Kaplan, W.Kristol, La guerra all’Iraq. La fine della tirannia di Saddam e la missione dell’America, ed. Liberal, Roma, giugno 2003 (2) La guerra Iraq-Iran, 1980-1988, dove furono uccise circa un milione di persone e dove vennero utilizzate anche armi di distruzione di massa sulla popolazione civile, e l’invasione del Kuwait, agosto 1990, fra le cui conseguenze vanno ricordati anche gli ingenti danni a livello ambientale, in seguito agli incendi dei pozzi petroliferi 32 P ANORAMA INTERNAZIONALE Iraq: il dilemma americano Il Paese negli ultimi dieci anni di politica estera americana Dott.ssa Valeria Di Cecco Dott. in Scienze Politiche - Master II liv. “Relazioni Internazionali e Studi diplomatici

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Il primo maggio 2003 ha avuto ufficialmente termi-ne la guerra contro l’Iraq. Da allora il Paese, al limi-te del collasso, è sprofondato in una spirale di vio-

lenza, dall’altissimo costo umano, che mina qualsiasitentativo di normalizzazione dell’area.

Per la sua posizione strategica nel cuore della regionemediorientale e per la presenza all’interno del Paese ditutta una serie di fattori d’instabilità intimamente con-nessi ad altrettanti interessi vitali di differenti attori, l’I-raq è da sempre, assieme alla questione israelo-palesti-

nese, il banco di prova della politicaestera degli Stati Uniti nel MedioOriente. Non solo. La questione“Iraq” rispecchia, più in generale, ilcomplesso dibattito interno agli StatiUniti, relativo alle modalità e agliscopi dell’azione politico-militareamericana nel mondo (1). Per que-sta ragione è possibile analizzare, dallamaniera in cui viene affrontato il pro-blema “Iraq”, quale sia la particolarevisione del sistema internazionale allabase della politica estera di una deter-minata presidenza americana. Dallafine della Guerra Fredda, sia l’ammi-nistrazione di George Bush, agli inizidegli anni ’90, che quella successiva diBill Clinton, così come quella attualedi George W.Bush si sono dovuteoccupare dell’incognita irachena,senza giungere, però, ancora ad unasua soluzione definitiva.

Perché l’Iraq è di così gran inte-resse per gli Stati Uniti?

Molto è stato detto e scritto, talvolta in manieraalquanto semplicistica, sull’importanza delle risorseenergetiche irachene e sui conseguenti indubbi interes-si economici americani.

Ciò, tuttavia, non è sufficiente. Il caduto regime diSaddam Hussein è stato per più di vent’anni il simbo-lo di una tirrania brutale all’interno e un grave elemen-to di destabilizzazione verso l’esterno: non solo vi sonostate due guerre (2) che hanno insanguinato la regionenegli anni ’80-’90, condotte con metodi aberranti da

(1) Cfr.: L.F.Kaplan, W.Kristol, La guerra all’Iraq. La fine della tirannia di Saddam e la missione dell’America, ed. Liberal, Roma, giugno 2003(2) La guerra Iraq-Iran, 1980-1988, dove furono uccise circa un milione di persone e dove vennero utilizzate anche armi di distruzione

di massa sulla popolazione civile, e l’invasione del Kuwait, agosto 1990, fra le cui conseguenze vanno ricordati anche gli ingentidanni a livello ambientale, in seguito agli incendi dei pozzi petroliferi

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PANORAMA INTERNAZIONALE

Iraq: il dilemmaamericano

Il Paese negli ultimi diecianni di politica esteraamericana

Dott.ssa Valeria Di CeccoDott. in Scienze Politiche - Master II liv. “Relazioni Internazionali e Studi diplomatici

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(3) È l’approccio del paradigma realista delle relazioni internazionali. Secondo Hans Morgenthau, padre del “realismo accademico”, “unostato deve limitarsi a proteggere i propri interessi vitali (definiti in termini di potenza e non in quelli derivanti da ideali e principiastratti), pena la distruzione dell’equilibrio di potenza”

(4) Durante la Guerra Fredda, la “stabilità” era il risultato di un equilibrio fluido fra le due super potenze(5) Con la rottura delle relazioni fra Baghdad e Washington all’indomani della Guerra dei sei Giorni, 1967, l’Iraq era divenuto il princi-

pale alleato arabo dell’Unione Sovietica nel Medio Oriente. Al contrario, il rivale storico dell’Iraq, l’Iran, era un grande alleato degliStati Uniti. La situazione viene ribaltata con la deposizione dello scià nel 1979 e con l’inizio della guerra Iran –Iraq, l’anno successivo

Iraq: il dilemma americano

Saddam Hussein, ma vi è stato anche un indubbiocostante sostegno del terrorismo islamico di matricefondamentalista interno e internazionale, correlatosoprattutto al conflitto israelo-palestinese. Il ruolo di“elemento disturbatore” giocato dal regime di SaddamHussein nella già di per sé turbolenta regione medio-rientale, non deve essere sottovalutato quando si analiz-zano le risposte americane per arginare l’instabilità diquest’area. Possiamo, anzi, individuare proprio nellaminaccia “destabilizzante” rappresentata da SaddamHussein la sfida principale per il consolidamento delmodello di “ordine” americano nel ventunesimo secolo.

In che modo, quindi, gli Stati Uniti hanno affronta-to la questione “Iraq” a partire dagli anni ’90?

Le due amministrazioni che si sono succedute inquel decennio, quella di George Bush e quella di BillClinton, nel complesso non lo hanno fatto, preferendodi fatto l’opzione di “contenere” o “congelare” il proble-ma. Entrambe, infatti, hanno avuto approcci differentiriguardo alla questione, ma in generale hanno posto inessere politiche incomplete e talvolta titubanti, non ido-nee a produrre i risultati sperati.

Il “tango” fra l’Iraq e gli Stati Uniti di quegli anni,basato su una combinazione di operazioni militariabbozzate e compromessi diplomatici, è stato definiti-vamente concluso, però, con l’avvio dell’operazioneIraqi Freedom da parte dell’amministrazione di GeorgeW.Bush (marzo 2003). Importante tassello della LottaGlobale al Terrorismo, questa ha segnato al contempo lacaduta del regime di Saddam Hussein e l’avvio di unanuova delicata fase, caratterizzata da un’elevata incertez-za e insicurezza, i cui esiti rimangono per ora del tuttoinsoddisfacenti. Tuttavia, per poter comprendere appie-no l’attuale significato delle operazioni americane inIraq e della frattura che queste hanno provocato all’in-terno della società americana, è utile analizzare i diffe-renti approcci alla questione, partendo da un eventochiave: la guerra del Golfo del 1991.

La Realpolitik di George Bush

Il destino sembra aver riservato per Bush padre efiglio un medesimo disegno: entrambi hanno dato ini-zio ad una guerra contro il regime di Saddam Hussein,seppure con modalità e finalità estremamente differen-ti, le cui conseguenze hanno influenzato e influenzeran-

no per molto tempo il sistema internazionale in genera-le. Quando si pensa alla politica dell’amministrazione diGeorge Bush riguardo all’Iraq, infatti, la si associa in pri-mis allo scoppio della Guerra del Golfo (1991), primaguerra del periodo post-Guerra Fredda, in seguito all’in-vasione irachena del Kuwait.

L’amministrazione Bush portò in Medio Orienteuna visione che spingeva gli Stati Uniti ad agire inmaniera energica solo ed esclusivamente a tutela deipropri interessi vitali minacciati (3). È la parola “stabi-lità” che riassume al meglio l’approccio della presidenzaBush riguardo alle sfide del sistema internazionale. “Sta-bilità” da intendersi, però, non nel senso tipico delperiodo bipolare (4), ma come mero congelamentodello status quo e dell’equilibrio favorevole agli interessiamericani. Ciò si tradusse, quindi, nei confronti diBaghdad in un approccio che si basava sulla preferenzadi un Iraq “stabile”, sebbene sotto la dittatura di Sad-dam Hussein, piuttosto che una probabile “libanizza-zione” del Paese nel caso di una caduta del regime ira-cheno. In questa ottica risulta, quindi, coerente il pre-maturo arresto della Guerra del Golfo, una volta restau-rata l’indipendenza del Kuwait, e appare più compren-sibile anche l’indifferenza americana riguardo al massa-cro di civili curdi e sciiti seguito al loro tentativo dirivolta, apparentemente incoraggiato dagli Stati Uniti.

Il realismo di Bush riprese in parte, sino alla vigiliadello scoppio della guerra del Golfo, l’atteggiamentoconciliatorio pro-Iraq dell’amministrazione precedentedi Ronald Reagan. Il rafforzamento del legame fra StatiUniti e Iraq iniziò ad emergere negli anni ’80, favoritodalla rivoluzione iraniana del 1979 e accelerato dalloscoppio della guerra Iraq-Iran. La logica “il nemico delmio nemico è mio amico” era alla base della propensioneamericana a concedere benefici concreti all’Iraq, siaattraverso prestiti che attraverso la rimozione del Paeseda parte dell’amministrazione reaganiana dall’elencodegli stati terroristi. L’Iraq, infatti, nonostante i suoi fortilegami con l’Unione Sovietica (5), venne consideratodagli Stati Uniti come un valido baluardo al dilagaredella rivoluzione iraniana nell’area.

L’atteggiamento filo-iracheno, inaugurato da Rea-gan negli anni ’80, infatti, non fece che rispondereessenzialmente all’esigenza americana di sottrarre Bagh-dad alla sfera di influenza sovietica, per utilizzarlo infunzione anti-Iran, a tutela degli interessi americani di

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stabilità della regione. I primi due anni dell’amministrazione Bush segna-

rono il seguito di questa politica di sostegno al regime diSaddam Hussein: l’Iraq continuò a ricevere gli aiuti(economici e non) degli Stati Uniti, senza particolaricondizioni o contropartite.

Ciò nell’ingenua convinzione che un approccio con-ciliatorio nei confronti del dittatore iracheno avrebbetrasformato l’Iraq in un “Paese responsabile e attivo nelpromuovere la stabilità della regione”. Con la fine dellaguerra contro l’Iran, nel 1988, la logica del sostegno alregime di Saddam Hussein in funzione anti-iranianasarebbe dovuta cadere o quantomeno ridursi notevol-mente. Ciò non avvenne. Nel 1989, il presidente Bushemanò la Direttiva sulla Sicurezza Nazionale n. 26, nellaquale veniva prevista l’espansione dei legami politici edeconomici con Baghdad e, sino al 1991, gli Stati Unitimantennero inalterato il flusso di assistenza, di aiutiagricoli e di tecnologia avanzata ad uso duale verso ilregime iracheno.

In seguito all’invasione del Kuwait da parte di Sad-dam Hussein, il presidente americano fu costretto adagire, sotto l’egida delle Nazioni Unite, per ristabilire lasovranità del Kuwait. Lo scopo delle operazioni militarifu sempre, sin dall’inizio, ben chiaro: la guerra era fina-lizzata alla sola liberazione del Kuwait e, perciò, questanon ricomprendeva fra i suoi obiettivi anche il rovescia-mento del regime di Saddam Hussein, seb-bene da molti auspicato. Bush aveva benevidenti i rischi connessi ad un incerto pro-cesso di nation-building in Iraq ed era, inol-tre, certo che l’abbattimento di Saddamavrebbe comportato un inevitabile smem-bramento dell’Iraq. E un Iraq frammentatoin entità politiche sunnita, sciita e curda nonavrebbe contribuito alla stabilità perseguitadagli Stati Uniti in Medio Oriente. Anzi.Ciò avrebbe favorito il rafforzamento dell’I-ran, ancora fortemente ostile a Washington:per gli Stati Uniti, infatti, era necessariocontenere la minaccia Iran a tutti i costi e unIraq abbastanza forte al confine apparivacome lo strumento più efficace per raggiun-gere questo obiettivo. I costi umani di que-sta realpolitik furono molto elevati, soprattutto per icivili iracheni, con la diretta conseguenza di un accre-scimento della loro diffidenza verso gli Stati Uniti: unasfiducia, dalle radici lontane, ma che oggi influiscepesantemente nel già di per sé critico processo di rico-struzione.

Il liberalismo di Bill Clinton

L’amministrazione di Bill Clinton, che succedette aquella di Bush nel 1993, criticò aspramente la politicadella precedente presidenza, soprattutto “per averabbandonato i Curdi e gli Sciiti alla repressione” (6).

La nuova presidenza s’impegnò a “contenere” il dit-tatore iracheno mediante l’applicazione vigile delle san-zioni delle Nazioni Unite ed un costante flusso di aiutialle forze di opposizioni irachene. Il regime di SaddamHussein fu criminalizzato: si pensava che l’assistenzafornita alle forze d’opposizione sarebbe stata sufficientea far cadere il regime. Non fu così. Nel 1995, forti delleassicurazioni americane, le forze d’opposizione lanciaro-no un’offensiva contro le forze scelte di Saddam. GliStati Uniti, però, per paura di essere coinvolti in un con-flitto più ampio con l’Iraq, ritirarono il proprio appog-gio ai leader curdi, affermando che “l’interesse per icurdi non rientrava negli interessi vitali degli StatiUniti” (7). Risultato di ciò fu un nuovo massacro dellapopolazione civile, soprattutto curda nel nord del paese,“agevolato” o comunque “non contrastato” dagli StatiUniti. L’amministrazione inaugurò nei confronti dell’I-raq una nuova politica, che si basava sulla convinzioneche la potenza degli Stati Uniti doveva essere utilizzataper influenzare il regime “criminale” di Saddam Hus-sein attraverso pressioni politiche, compromessi diplo-

matici e occasionali attacchi missilistici, da intenderecome “messaggi” e “segnali d’avviso” della volontà ame-ricana di non piegarsi alle provocazioni irachene.

Alla base di questo approccio, senza dubbio più“soft” rispetto a quello rigorosamente realista di GeorgeBush, vi era il consolidamento della nuova visione del

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(6) Cfr.: Intervista del Presidente Bill Clinton al New York Times, 28 giugno 1992, in L.F.Kaplan, W.Kristol, op. cit., pag. 77(7) William Perry, segretario alla Difesa, in NewsHour with Jim Lehrer, 17 settembre 1993

Bill Clinton, Presidente degli Stati Uniti dal 1993 al 2001

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ruolo degli Stati Uniti nel mondo. Secondo il Presiden-te, con la fine della Guerra Fredda, gli Stati Uniti avreb-bero raggiunto i propri obiettivi di politica estera attra-verso il commercio, la diplomazia e il negoziato e non tra-mite una politica di potenza strettamente correlata agliinteressi nazionali, come quella perseguita dall’ammi-nistrazione Bush. Ciò, in altre parole, presumeva essen-zialmente una limitazione degli impegni degli StatiUniti in giro per il mondo. L’avanzamento della pace edelle libertà politiche, infatti, sarebbe stato ottenuto tra-mite la cooperazione internazionale, unico strumentoefficace per garantire la stabilità e la sicurezza del siste-ma internazionale.

Il principale problema di una politica estera basatasu questi presupposti era l’ambivalenza dell’utilizzo dellaforza come strumento operativo. In primo luogo, l’uti-lizzo della potenza americana doveva avvenire “d’accor-do” e “per conto” della comunità internazionale. Poi,soprattutto in seguito al disastro somalo, ogni ricorsoalla forza militare americana venne concepito in modotale da “minimizzare il rischio di perdite ed evitare dannicollaterali”. L’effetto desiderato sarebbe stato raggiunto,quindi, principalmente attraverso la persuasione piut-tosto che tramite l’uso soverchiante della potenza mili-tare. Clinton, infatti, era guidato dall’idea che la comu-nità internazionale e le sue istituzioni fossero la solafonte di legittimità internazionale e ciò, evidentemente,era totalmente incompatibile con l’affermazione unila-terale della potenza americana, fortemente perseguita daBush ed i suoi sostenitori. La risposta dell’amministra-zione clintoniana alla sfida “Iraq”, che nel frattempo erastata affiancata, a partire dal 1998, da un crescendo diattentati terroristici contro obiettivi americani, riflette lariluttanza di Clinton all’utilizzo della forza.

Prima conseguenza di ciò, però, fu l’aumento dellospazio di manovra del dittatore iracheno, che in questoperiodo fu libero non solo di violare continuamente, in

maniera alquanto palese, l’embargo imposto dalleNazioni Unite a partire dal 1991, ma anche di raffor-zare, attraverso la tessitura di una nuova trama di allean-ze, la propria posizione di forza nella regione.

L’internazionalismo americano di George W. Bush

Alle soglie del nuovo millennio, la questione “Iraq”è più che mai viva e aggravata dall’inerzia delle due pre-cedenti amministrazioni. George W. Bush, al momentodi divenire il 43° Presidente degli Stati Uniti, promise dioccuparsi del problema, utilizzando anche la forza senecessario per far cadere il regime di Saddam Hussein.

Poi, l’undici settembre. Il terrore. La morte.La paura dilaga negli Stati Uniti e l’America è

costretta a ripensare se stessa e il suo rapporto con ilresto del mondo. Ha inizio la Lotta Globale al Terrori-smo, “piaga” del ventunesimo secolo. Si dà avvio alleoperazioni in Afghanistan, poi a quelle in Iraq, che por-teranno alla caduta e cattura di Saddam Hussein. Perpoter comprendere appieno la posizione dell’attualePresidente americano riguardo all’Iraq, occorre tenereben presente che l’undici settembre ha realmente segna-to un mutamento radicale nella mentalità del popoloamericano, trasformandone i criteri di valutazione e lepercezioni circa le minacce alla sicurezza degli StatiUniti, in primis, e del “sistema occidentale”, poi. Tuttociò ha prodotto una frattura con il sistema americanopre-undici settembre. In primo luogo, l’Iraq non viene

Iraq: il dilemma americano

Il Presidente degli USA George W. Bush e il Segretario di Stato Colin Powell

Ground Zero

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più considerato un problema a sé stante, da tollerare,contenere o congelare, ma bensì una fonte di minacciadiretta per gli Stati Uniti da eliminare. O meglio daliberare. Secondo il Presidente George W.Bush, infatti,è compito degli Stati Uniti liberare il popolo irachenodal giogo della brutale dittatura di Saddam, per favorir-vi lo sviluppo della democrazia, evitando così un altrodevastante undici settembre. L’utilizzo di termini come“liberare” richiama la filosofia alla base del modo di con-cepire il mondo da parte dell’amministrazione Bush.Con la sua elezione, infatti, è tornata in auge una “terzavia” alla politica estera americana, l’“internazionalismoamericano”. Questo approccio si basa sulla fusione deglielementi di maggior successo del realismo e del liberali-smo e consiste principalmente nell’unire la potenzaamericana agli ideali americani. Ciò deriva, in primoluogo, dalla cosiddetta “eccezione americana”, dalla con-vinzione, cioè, dell’unicità e virtuosità del sistema poli-tico americano, che tradotto in termini di politica este-ra, offre gli Stati Uniti come modello per il mondo.

È, in altre parole, il Manifest Destiny degli StatiUniti, che li ha portati a credere, sin dalla loro costitu-zione, nella loro supremazia morale e, quindi, nellamissione, ad essi riservata, di diffusione dei valori uni-versali, primi fra tutti la libertà e la democrazia. Ciò sitraduce in politica estera essenzialmente nel tentativo dicreare un equilibrio di potenza che, però, favorisca alcontempo lo sviluppo e la diffusione della libertàumana. Nel suo National Security Strategy, del settem-bre 2002, il presidente Bush indica i tre principi basedella sua politica: l’azione preventiva, il cambio di regimee il “nuovo ordine mondiale”. Il primo elemento dellaDottrina Bush, il più discusso, è la tendenza a ricono-scere, che in determinate circostanze, la dissuasione (8)e il contenimento si rivelano insufficienti (9) e, quindi,è necessario ricorrere all’azione “preventiva” (10). Sem-pre e solo, però, in un numero limitato di casi. L’ab-bandono delle strategie di tipo “reattivo” è la direttaconseguenza, secondo George W.Bush, dell’attuale

situazione del sistema internazionale, caratterizzato daquella che viene definita come l’unione fra il radicali-smo e la tecnologia, che permette a “stati deboli e a pic-coli gruppi di ottenere una potenza catastrofica per col-pire le Grandi Nazioni”.

Il secondo caposaldo della Dottrina Bush è il cam-bio di regime, cioè il riconoscimento che gli Stati Unitinon possono convivere pacificamente con tirraniedestabilizzanti per l’intero sistema internazionale. Perquesta ragione, gli Stati Uniti si riservano il diritto dicausare, sia attraverso mezzi diplomatici che militari, ilcrollo dei regimi in questione.

Il fine ultimo del cambio “forzato” di regime è la dif-fusione della democrazia liberale come presupposto peril rafforzamento della sicurezza. Questa idea si basa sul-l’assunto puramente pragmatico che, essendo le demo-crazie i regimi maggiormente stabili, esse difficilmentecostituiscono una minaccia alla sicurezza. L’Afghanistandei Talebani e l’Iraq di Saddam Hussein sono stati ilprimo tentativo concreto di attuare questo pilastro dellaDottrina Bush. Riuscire a istituire una democrazia libe-rale in Iraq è, infatti, il principale obiettivo strategico(11) ufficiale della campagna contro Saddam.

Tuttavia, l’idea che la diffusione della democrazia edelle istituzioni liberali siano lo strumento più efficaceper arginare l’instabilità del sistema internazionale malsi concilia con il modo in cui l’America sta tentando diraggiungere questo obiettivo.

L’imposizione dall’esterno di un modello politico-economico, per la maggior parte delle volte estraneoalla cultura, alle tradizioni e alla storia di un determina-to paese, difficilmente è coronata dal successo. Ciò per-ché è problematico trapiantare artificialmente i valoridemocratici in territori stranieri, spesso ostili. Il proces-so democratico muove, infatti, dal basso verso l’alto edè intimamente connesso alla cultura e alle tradizionilocali. Non è detto, poi, nel caso in cui un processo dination-building si concluda con l’instaurazione di unregime democratico, che questo sia necessariamente

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(8) Per “dissuasione” s’intende quella strategia che mira a persuadere le altre potenze ad astenersi anche dall’iniziare una “corsa agli arma-menti” o forme di antagonismo nelle capacità militari con gli Stati Uniti. L’obiettivo è fare in modo che l’avversario giunga alla con-clusione che sarebbe vano competere nell’acquisizione di capacità militari. Cfr.: D.S.Yost, Il dibattito sulle strategia di sicurezza, Rivi-sta della NATO, Inverno 2003

(9) La National Security Strategy afferma che: “i tradizionali concetti di deterrence (dissuasione e contenimento) non avranno effetto controun nemico terrorista le cui tattiche dichiarate sono la distruzione gratuita e l’uso di innocenti come obiettivo; i cui cosiddetti soldaticercano il martirio nella morte e la cui protezione più potente è costituita dal non essere riferibile ad uno stato. La coincidenza trastati che sponsorizzano il terrorismo e quelli che perseguono le WMD ci costringe ad agire”. Cfr.: ibidem

(10) Discorso di George W. Bush all’Accademia Militare di West Point, giugno 2002. Il testo originale usa il termine “pre-emptive” che con-tiene l’idea di “minacciare e/o adottare misure deterrenti contro qualcosa di possibile , anticipabile o temibile”, mentre nella traduzioneitaliana il termine utilizzato è “preventivo” qualcosa che “precede in anticipo rispetto al presumibile ordine di successioni con azioni diret-te ad impedire il verificarsi o il diffondersi di fatti non desiderati”. Queste diverse accezioni hanno creato una grande confusione, seman-tica ed ideologica, in merito alle effettive intenzioni degli Stati Uniti, che insistono tuttora sulla qualità difensiva della “guerra preventi-va”. Cfr.: P.Raffone, La Fredda Guerra. Iraqi Freedom: geopolitica del nuovo disordine mondiale, Adnkronos libri, Roma, marzo 2003

(11) Discorso del Presidente Bush a Cincinnati, 7 ottobre 2002

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filo-americano o, più in generale, filo-occidentale. Anzi.È vero piuttosto che i Paesi con democrazie nascentitendono ad eleggere delle leadership fortemente nazio-naliste, come dimostrato negli anni ’90 dal caso algeri-no o come testimonierebbe oggi l’Iraq, nel caso in cui ilPaese fosse pronto alle elezioni (12).

Questo appare tanto più vero se si prende in consi-derazione l’area mediorientale. Qui, paradossalmente, iregimi corrotti, antidemocratici e non rappresentativi diEgitto e Giordania sono i più filoamericani, mentre lepopolazioni di questi paesi indicano l’America come il“Grande Satana”. Per questa ragione, allo stato attuale,un’espansione della democrazia nella regione medio-rientale sfocerebbe molto probabilmente in un incre-mento dell’antiamericanismo nell’area, a discapito dellasicurezza ricercata dagli Stati Uniti.

L’ultimo pilastro della dottrina Bush, strettamenteconnesso al precedente, infine, è quello relativo all’im-pegno dell’amministrazione Bush per la supremaziaamericana. Gli Stati Uniti, secondo George W. Bush, inqualità di unica potenza in grado di assumere una lea-dership globale, dovranno impegnarsi per lo sviluppodella democrazia e dei valori liberali in modo da limita-re l’insorgere di nuove minacce.

A quasi un anno di distanza dal termine dell’opera-zione Iraqi Freedom, gli Stati Uniti non riescono anco-ra a controllare il Paese e a colmare il “security gap”,venutosi a creare in seguito allo smantellamento dellastruttura di potere e controllo del regime di Saddam.

Ai problemi strettamente connessi all’incerto proces-

so di nation-building, si sta recentemente affian-cando l’emergere di un antico contrasto internoal mondo musulmano, da non sottovalutare,perché, se non arginato per tempo, può averedegli effetti sconvolgenti per il sistema interna-zionale. È la lotta fra le due anime dell’Islam, isunniti e gli sciiti, per la supremazia, non soloreligiosa, all’interno del mondo musulmano. Gliattentati del due marzo scorso contro i fedeli scii-ti in Iraq e quasi contemporaneamente anche inPakistan, in occasione di una ricorrenza religiosasciita di grande importanza, ne sono state unamanifestazione più che palese.

La caduta del regime di Saddam Hussein hasprigionato, infatti, la forza sciita e le sue aspira-

zioni con una conseguenza rilevante dal punto di vistageopolitico: la creazione di un compatto nucleo sciitanella periferia della regione mediorientale (13), articola-to attorno ad un doppio centro, Iraq-Iran, che arriva alambire i confini nord-occidentali dell’India.

Ciò a discapito della stabilità dell’intero mondomusulmano. La radicalizzazione di alcune componentisciite, come attestato dalla presenza degli Hezbollah inIraq, assieme alla loro estrema mobilità, lascia presagireil peggio.

Soprattutto se si prende in considerazione lo stato disemi-anarchia che vige in Iraq, Paese che attualmentecostituisce il terreno privilegiato per lo scontro direttofra le due correnti musulmane, a discapito soprattuttodegli Stati Uniti e dei loro alleati che presidiano il terri-torio. E questo in un momento particolarmente delica-to per gli Stati Uniti, chiamati a scegliere nel novembreprossimo il loro 44° Presidente.

Iraq: il dilemma americano

Bibliografia

Aspenia, America Black and White, n. 22, 2003. L.F.Kaplan, W. Kristol, La guerra all’Iraq. La fine

della tirrania di Saddam e la Missione dell’America,Liberal edizioni, Roma, giugno 2003.

LiMes, La vittoria insabbiata, Gruppo EditorialeL’Espresso, n. 5, 2003.

P.Raffone, La Fredda Guerra. Iraqi Freedom: geopo-litica del nuovo disordine mondiale, adnkronoslibri,marzo 2003

(12) Negli anni ’90, il FIS- Fronte Islamico di Salvezza- partito islamico militante, si preparava ad ottenere una vittoria schiacciante allaseconda tornata delle elezioni parlamentari in Algeria. La piattaforma politica del FIS prevedeva l’aperto sostegno alle organizzazioniterroristiche e una politica estera violentemente antiamericana. Grazie al colpo di stato delle Forze Armate algerine, però, il FIS fuescluso dal governo. Ciò provocò la reazione violenta dei militanti, che per anni insanguinarono il paese. Cfr.: J.C.Hulsam, op.cit

(13) Questo nucleo comprende l’Iraq, dove gli sciiti costituiscono il 60% della popolazione, l’Azerbaijan (65%), l’Iran (89%), l’Afganistan(15%) ed il Pakistan (20%)

Il Presidente Bush e il Primo Ministro ad interim iracheno Ayad Allawi