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Cullato dal canto rassicurante e custode del cuculo, rinverdisce il bosco. Ai piedi dei faggi anemoni, stelline, viole, orchidee già indossano i vestiti della festa. Scriccioli, cinciallegre, passeri, usignoli, capinere e verdoni si chiamano, si cercano. Voci diverse, canti ora lunghi ora brevi che si accordano in antiche sinfonie mai scritte se non nei geni. Tra i muschi umidi della rugiada della notte e tra prepotenti raggi di sole arriva alle narici un odore di nuovo: è il bosco in amore. Supplemento a il Nuovo Corriere dell’Amiata | n.4 aprile 2020 | Spedizione in A.P.45%Aut. 003 - Art. 2 Comma 20/B - legge 662/96 DC Grosseto Anno XXI n. 2 apr. 2020 tradizioni, cultura e storia di una comunità della toscana meridionale

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Cullato dal canto rassicurante e custode del cuculo, rinverdisce il bosco. Ai piedi dei faggi anemoni, stelline, viole, orchidee già indossano i vestiti della festa. Scriccioli, cinciallegre, passeri, usignoli, capinere e verdoni si chiamano, si cercano. Voci diverse, canti ora lunghi ora brevi che si accordano in antiche sinfonie mai scritte se non nei geni. Tra i muschi umidi della rugiada della notte e tra prepotenti raggi di sole arriva alle narici un odore di nuovo: è il bosco in amore.Su

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Anno XXI n. 2 apr. 2020

tradizioni, cultura e storia di una comunità della toscana meridionale

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Castell’AzzaraDi notte è un aeroplano che sta per decollaredi giorno è un buffo ponte che guarda l'orizzonteè appiccicata a un masso e dorme come un tassotu pensi di stupirla e provi a lusingarlavorresti conquistarla cercando di cambiarlae lei te lo fa credere danzando insieme a teMa la montagna antica è molto sospettosati dice: -…vuoi ballare? Io te lo lascio farema non cambiare il ritmo che c'è dentro di me. -Morale della favola:tu balli e non ti accorgiche ballo dopo ballo è lei che cambia te.

Mariateresa Manzella

La Voce dell’OrsoAnno XXI | n. 2 | aprile 2020

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3Giovanna Ruffaldi

Fonti e fontaneLa presenza dell’acqua in un territorio consente all’uomo di avere con essa un legame speciale e di provare lungo il percorso della vita le sensazioni più diverse. Chi in tenera età non è stato affascina-to dalle pozzanghere di pioggia e dal piacere di im-mergerci i piedi? Chi la prima volta di fronte alla immensa distesa di acqua del mare non ha sentito un’emozione profonda? Chi in una calda giornata estiva non ha avuto la soddisfazione di dissetarsi ad una fontanella? E chi di fronte all’esondazione di un torrente o ad un’alluvione, anche se visti in immagini fotografiche o televisive, non è rimasto atterrito dalla forza distruttiva dell’acqua?Da sempre l’abbondanza dell’ac-qua ha rappresentato una ric-chezza. Ne abbiamo un esempio nell’antica Roma dove la presen-za, oltre al fiume, di numerose sorgenti naturali ha sviluppato la passione per la costruzione di terme, ninfei, acquedotti e fontane di cui tuttora è possibile ammirarne la bellezza. Una del-le passeggiate più affascinanti è quella di cercare le numero-se fontane nel centro storico a cominciare da quelle più note come la Fontana di Trevi, cele-brata da Fellini nel film “La dol-ce vita”, la Fontana dell’Acqua Paola, popolarmente nota come Fontanone del Gianicolo, ricor-data da Antonello Venditti nel-la canzone “Roma capoccia”, la Fontana della Barcaccia in piaz-za di Spagna ai piedi della scali-nata di Trinità dei Monti, costru-ita da Pietro Bernini a forma di barcone per ricordare, secondo la tradizione, una barca là ritro-vata a causa dell’esondazione del Tevere nel Natale del 1598. Non lontano a Piazza Barberini è la Fontana del Tritone realizzata dal figlio Gian Lorenzo Bernini, autore anche a piazza Navona

della Fontana dei Quattro Fiumi dove intorno ad un obelisco sono rappresentati i quattro continenti allora conosciuti con la personificazione dei loro maggiori fiumi: il Danubio, il Nilo, il Gange e il Rio della Plata. Tra le tante fontane minori, che meritano comunque di essere scoperte ed ammi-rate come quella della Navicella sulla sommità del Celio, la Fontana degli Artisti a Via Margutta, la Fontana della Botte a Trastevere e la Fontana delle Tiare vicino al Colonnato di San Pietro, due sono le mie preferite: la prima in Via degli Staderari tra il palazzo del Senato ed il complesso di S. Ivo alla Sapienza, storica sede dell’Università, è la Fontana dei Libri che accomuna l’acqua fonte di vita ai libri fonte di conoscenza; la seconda in via Lata - una traversa di Via del Corso - è la Fontana del Facchi-no, un acquaiolo che con la sua botte consegnava porta a porta l’acqua prelevata dalle fontane pub-bliche, al cui viso piuttosto rovinato dal trascorrere del tempo rivolgevo quotidianamente il mio saluto

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4negli anni sessanta prima di entrare a scuola nel vicino liceo Visconti. Tante sono anche le fontane dove l’elemento deco-rativo è rappresentato dagli animali come l’elegan-tissima Fontana delle Tartarughe in Piazza Mat-tei, vicino al Ghetto ebraico, dove quattro efebi in bronzo tengono con una mano la coda di delfini, che riversano acqua in altrettante conchiglie, e con l’altra spingono in alto verso il catino centrale più elevato quattro tartarughe. Nel quartiere Coppedè a Piazza Mincio c’è la Fontana delle Rane, all’an-golo tra Piazza Barberini e Via Veneto la Fontana delle Api, simbolo araldico della famiglia Barbe-rini cui apparteneva il Papa committente Urbano VIII, in via Monte Brianzo incastonata nel muro di sostegno della rampa, che conduce al sovra-stante Lungotevere, si trova la Fontana dell’Orso, una bella testa in bronzo dalle cui fauci scaturisce l’acqua. Ed ancora in Via Veneto è presente un’o-riginale fontanella detta del Cane, situata a livel-lo stradale in una nicchia di travertino dove una vasca raccoglie l’acqua versata da una cannella, il tutto sormontato da una specie di stemma in cui campeggia una testa di cane sollevata sulle zam-pe anteriori e la sigla ABC che ricorda l’adiacente Charlie Bar dell’hotel Ambasciatori il cui gestore nel 1940 ideò l’abbeveratoio per i suoi cani. Anche nel nostro paese non mancavano in passa-to abbeveratoi per gli animali e fontanelle nei vari rioni perché l’acqua era abbondante e soprattutto buona. Oggi la portata delle sorgenti naturali è sicuramente ridotta, ma rimane sempre una ric-chezza per il territorio. Così in mezzo alla natura

e per le vie del paese possiamo andare di fonte in fonte per immergerci in piacevoli ricordi come le abbondanti bevute di acqua e “magnese” alla fonte delle Ficoncelle o di Radipopoli; i giochi e gli scher-zi infantili alla Fontanella della Grotta; le gare di resistenza con l’immersione delle braccia fino al gomito nei vari fontanili; il gusto di dissetarsi nelle calde giornate estive alla fonte Margherita, a quel-la del Carpino, dei Trocchi, della Penna ed infine a quella delle Fossatelle, che grazie alla posizione offre l’acqua più fresca. In paese poche sono rima-ste le fontanelle storiche come quella del Poggio, quella vicino alla Chiesa e la fonte detta de’ Lazzeri sulla strada a metà tra il ponte e l’inizio del Capri-le. Più tardi sono nate la piccola fontana murale al Colle nella piazzetta ex lavatoi e quella alla Terra con la rappresentazione di una testa di asino e di una spiga di grano. Possiamo concludere il giro delle acque con la fontana del ragazzo che guarda lontano, opera del Bertocci in Piazza Matteotti, la fontana all’inizio dell’Arivecchia, con accanto l’in-stallazione Occhiocciola sempre del Bertocci, in una posizione che consente di godere di uno dei migliori scorci del paese e dell’ampio panorama intorno, la fontanella del parco giochi così amata dai bambini, la fontana zampillante all’ingresso della Pineta e l’utile chiosco dell’acqua bona.Non dobbiamo mai dimenticare il valore dell’ac-qua quale bene irrinunciabile per l’uomo come ci ricorda la semplicità della preghiera di San Fran-cesco nel Cantico delle creature “Laudato si’, mi’ Signore, per sor’aqua, la quale è multo utile et hu-mile et pretiosa et casta”. π

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5Marzio Mambrini

Il sinale delle nonneNella mia infanzia ricordo di aver sempre visto le donne di una certa età abbigliate con abiti scuri, un fazzolettone in testa e, allacciato in vita, un grembiule, sinale per noi orsi. Copricapi non dissi-mili da quelli della mia memoria li ritrovo oggi sul capo delle donne musulmane di stretta osservanza e spesso, le più anziane, portano anche una sorta del nostro sinale.Il sinale deve il nome al fatto che veniva posiziona-to sotto al seno per mezzo di due nastri di stoffa che venivano annodati nella parte posteriore del corpo. A volte si realizzava anche una versione priva dei nastri ed allora il sinale veniva ancorato usando delle spille da balia. Il sinale, che aveva come scopo principale quello di coprire e proteg-gere il davanti della gonna, era generalmente scu-ro di colore, spesso era ingentili-to da una balza arricciata. Quasi sempre era fornito di due grosse tasche in cui andavano a finire le cose più impensate: fazzolet-ti, rocchetti di filo, ditali, aghi da uncinetto e… noci, nocchie e qualche rara caramella per i ni-poti. Questo indumento, che spes-so veniva realizzato riciclando abiti usurati e dismessi, serviva principalmente per proteggere il vestito, ma possiamo afferma-re che rappresentava, a tutti gli effetti una sorta di divisa delle nonne che, indossata al mattino veniva tolta solo a sera e che, so-prattutto, poteva essere trasfor-mato in strumento dai mille usi.Con le mani avvolte nel suo lembo si ritirava infatti il paiolo bollente dal focolare e agitato a mo’ di soffietto ravvivava il fuo-co pigro; fungeva da paniere per trasportare frutta, verdure, uova, farina ecc.); serviva da asciughi-

no per le mani e da spolverino per i mobili; vi tro-vavano rifugio i bambini timidi all’arrivo di visita-tori inaspettati; asciugava lacrime e, bagnato con la saliva, curava le sbuccicature dei ginocchi; avvolto a curoglia sulla testa ammortizzava il peso di pa-nieri, capistei e brocche e, all’occorrenza, serviva anche per trasportare in cucina, al calduccio, i pul-cini appena nati e ancora bagnati; nelle giornate fredde si trasformava poi in una sorta di guanti. Anche nelle attività più “riposanti” il sinale torna-va utile, infatti le donne indaffarate a sferruzzare, fissavano alla cintola i servitori, che erano dei “ba-stoncini di legno forati da un lato che servivano per alloggiare e tener fisso uno dei ferri usati per fare la maglia o la calza”.Un vero e proprio strumento “tutto fare” che nella nostra storia ha ricoperto un posto d’onore e che oggi è stato sostituito da decine di accessori a volte anche di dubbia utilità. In ultimo, evitando di ca-dere nel riecheggiamento “dei bei tempi andati”, annoto anche come il buon vecchio sinale abbia, anticipando i tempi, assunto ad una funzione eco-logica insegnandoci che il mondo poteva e può vivere senza sacchetti di plastica, buste sigillate, uova scatolate ecc. π

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6UGO GAGGI

UNA VERA AMICIZIAC'è un vecchio proverbio, che tutti conosciamo, che recita ”chi trova un amico trova un tesoro!",-quindi l'amicizia è un qualcosa di prezioso e sicco-me le cose preziose sono rare, l'amicizia è difficile a trovarla perché molto rara.Fino dai banchi di scuola e negli anni a seguire, collegio, militare, lavoro, abbiamo conosciuto per-sone con le quali veniva instaurato un principio di amicizia ma poi, con il trascorrere del tempo ti sei accorto che tutto sommano non era che un sentimento superficiale e nulla di più. Infatti nel tempo non ti ricordi più di loro e non hai più nes-sun contatto.L'amico quello vero invece è la persona a cui con-fidi tutto, anche le cose più intime, parli e lui ti ascolta, poi dopo ascolti lui senza mai stancarti, e non sei geloso per le cose che è in grado di fare, infine lo rassicuri quando lui è triste.L’amico è una persona con cui stai bene insieme, una persona che ti comprende e gli racconti tutto. L’amico è qualcosa che ti rassicura che ti capisce e quando è necessario ti consola.È una grande gioia trovare una persona così fatta, una persona che ti da sicurezza e tranquillità e su cui poi sempre contare.Credo che ognuno di noi, nella vita ha trovato un amico, e con lui è stato bene in serenità. Anche se il tuo amico o la tua amica vive lontana da te, li senti sempre vicino perché i ricordi non ti lasciano mai e ti tengono sentimentalmente uniti.Vivo in questo piccolo paese e tutti i miei compae-sani sono miei sono amici, li sento particolarmen-te vicini e quando uscendo di casa alla mattina li trovi al negozio, al bar, per la via e con loro confido i sentimenti e loro ti raccontano quello che hanno nel loro cuore. Questo è qualcosa di bello che ci offre e ci dona un piccolo paese come il nostro.E allora dopo il preambolo che ho fatto resta nor-male ricordare il nostro amico del cuore. Ognuno di noi tornerà con la mente ai momenti felici che con l'amico o l'amica ha vissuto nel tempo passato.Io, racconto del mio amico, voi ricordate il vostro.Era il lontano 1953, e i miei genitori si sacrifica-

rono mandandomi in collegio per gli studi di ge-ometra.Il collegio dei Salesiani era a Terni e così passai, con profitto, cinque anni fino al diploma. Era un collegio con oltre cento convittori, e dopo il primo momento si formano gruppi di amicizie; Renato di Rieti, Paolo di Tagliacozzo, Ugo e Andrea fratel-li di Roma e Petronio di Livorno, stavamo da su-bito sempre insieme, era l'affetto reciproco che ci univa. Nei cinque anni del corso di studi, per varie motivazioni, si rimase solo io e Renato.Nel 1959 avevo fatto le selezioni per allievo ufficia-la e fui richiamato per l'inizio del corso nell'agosto a Ascoli Piceno. Era domenica sera quando arri-vai nella caserma e appena entrato venni percosso sulla spalla; pensai che fossero gli scherzi dei ve-terani sulle reclute e quando mi voltai trovai Re-nato. Restammo insieme durante la scuola unica e a quella di specializzazione a Foligno, poi nella destinazione da ufficiali ci separammo.E così il tempo passa e dopo trenta anni mi trovai a Rieti, e siccome era l'ora di pranzo mi fermai presso un ristorante; mi venne in mente Renato lo cercai sull'elenco e riuscii trovarlo.Era passato tanto tempo dal collegio e quindi ci ritrovammo nella piena commozione abbraccian-doci con qualche lacrima mal trattenuta.Passa veloce altro tempo, il ricordo dell'amico è quasi giornaliero, ma non ci sentivamo più. Final-mente dopo altri venti anni l'ho cercato e ci sia-mo ritrovati, abbiamo vissuto momenti magici dei giorni passati.Dovevamo ritrovarci in primavera ma prima che i

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vocedellorso

La murciaSenza dubbio alcuno molti secoli fa il territorio di Castell’Azzara era composto principalmente da boschi e da qualche radura. Testimonianza di ciò la offre anche il cardinale Alessandro Sforza che, ultimati i lavori per l’edificazione di Villa Sforze-sca nel 1576, fece posizionare una pietra sul por-tone frontale per ricordare che la villa era stata costruita “sublato denso nemore” cioè dopo aver tagliato un folto bosco.Il paesaggio rurale che cono-sciamo oggi è quindi un pa-esaggio artefatto, modificato dalla mano umana.La trasformazione si rese necessaria per strappare ter-reno coltivabile al bosco e ai pochi prati, raramente pia-neggianti.Il terreno da recuperare alle coltivazioni era terreno ver-gine, mai coltivato e anche poco fertile e quindi richie-deva uno scasso totale del terreno nel caso dei prati, mentre per le superfici boscate occorreva tagliare piante e arbusti e poi dicioccare. Una volta scassato il terreno andava liberato dalla moltitudi-ne di sassi che erano affiorati e poi spianato. Si iniziava con l’opera di spietramento, utilizzando i sassi per costruire, a valle, un muro a secco alto tanto quanto richiedeva la pendenza del terreno. In seguito si spargeva la terra cercando di livellarla il più possibile.Il nostro territorio era ricco di questa sorta di ter-

razze a barbacane, di questi muretti a secco che trasformarono il paesaggio originale con un altro che, attraverso l’arte e la sapienza dei nostri proge-nitori aveva retto l’usura dei secoli e si presentava come un’opera architettonica mirabile. Oggi, purtroppo, vuoi per l’abbandono delle cam-pagne, vuoi per una discutibile teoria di recupera-re grandi spazi agricoli messa in campo attorno al 1975, ne sono rimasti veramente pochi.C’è da aggiungere che una volta terminato il muro a secco era comunque tantissimo il pietrame che restava nel campo. Tutte queste pietre venivano trasportate in un punto, solitamente quello che

dava meno fastidio alla coltu-ra da impiantare, ed accumu-late, formavano lamurcia che poteva arrivare facilmente anche ad altezze di tre metri. Il termine murcia, presente solo nel nostro parlato, cre-do sia una contrazione del termine muriccia ma, a parte questo, mi piace ricordare un fatterello legato proprio alla nostra murcia.Il tutto accadde attorno al 1969. Alcuni nostri ragazzi, terminato il percorso di studi al professionale di Arcidos-so, furono chiamati dalla Fiat a Torino per una selezione

indirizzata ad una futura assunzione in fabbrica. Scianghe, cioè Ronaldo Testi, era uno di questi e fu lui che, dovendo fissare un appuntamento con i compagni, propose che si ritrovassero tutti, all’ora stabilita, alla Murcia. Il nostro buon Ronaldo, semplificando, aveva de-finito “murcia” il monumento di piazza Statuto dedicato agli uomini che lavorarono alla costru-zione del traforo del Frejus che è una piramide costruita da grandi pietre provenienti dal traforo suddetto. π

fiori sbocciassero una mattina, sua moglie, mi ha detto che Renato ci aveva lasciato.Ti promisi che sarei venuto a primavera e a prima-vera verrò e sulla tua tomba poserò il fiore della nostra amicizia, un fiore che dimostra tutto il mio affetto e ti ringrazia per quanto hai saputo darmi. Sulla tomba senza proferire parole ricorderemo i giorni felici del collegio, le lunghe marce sul Tron-

to, gli addestramenti sul Monte Pennino, poi verrà il momento in cui sentirò nuovamente battermi sulla spalla e nel voltarmi ti ritroverò, e saremo giovani come ai tempi del collegio e staremo in-sieme per sempre con tutti coloro che ci hanno amato e che abbiamo amato. Cari amici del cuore grazie per l'amicizia che ci ave-te donata rendendoci la vita molto più serena. π

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8Maurizio Mambrini

Il fischio del vapore«La locomotiva sembrava fosse un mostro stra-no che l'uomo dominava con il pensiero e con la mano», cantava Francesco Guccini, descrivendo una conquista del progresso moderno «lanciata sopra i continenti», capace di percorrere in breve tempo «distanze che sembravano infinite» e per questo capace di generare slanci di entusiasmo e forti interessi economici e sociali.Sin dalla sua prima comparsa nel 1825, quando fu inaugurata la prima linea ferroviaria commerciale in Inghilterra, si comprese subito che l'avvento del treno avrebbe mutato per sempre il volto del mon-do, consentendo a uomini e mezzi di muoversi sempre più velocemente e sempre più lontano.Un'accelerata alla globalizzazione del mondo che, partita da oltre Manica, arrivò bene presto anche in Italia, dove nonostante l'infelice orografia e la frammentazione politica della penisola, treni e fer-rovie iniziarono a solcare le campagne italiane. Fu, infatti, inaugurato il 3 ottobre 1839 il primo tron-cone ferroviario "italiano", che collegata Napoli a Portici, mentre fu completata nel 1848 la ferrovia Leopolda (Firenze-Livorno), il primo collegamento ferroviario toscano.

Ciò nonostante all'avvento del Regno d'Italia, nel 1861, la rete ferroviaria italiana era ancora irriso-ria, poco più di 2000 chilometri, discontinua e mal distribuita, sebbene ovunque non mancasse-ro progetti per realizzare nuovi tratti ferroviari.Anche nelle zone più periferiche, come la provin-cia di Grosseto, la "voglia di binari" era tanta al punto che il 3 ottobre 1863, il Consiglio provinciale approvò con voto unanime la realizzazione delle ferrovia Umbro-Maremmana, un braccio ferrovia-rio tra Orbetello e Orvieto che, andando ad inne-starsi sulla Roma-Ancona, sarebbe divenuto una vera e propria trasversale peninsulare, capace di collegare la costa tirrenica all'Adriatico.Per quanto affascinante l'idea però non trovò l'ap-poggio degli organi di governo competenti, tanto che anche un nuovo progetto presentato nel 1878, da un apposito Comitato, rimase lettera morta, così come la richiesta presentata nel 1910 al Go-verno, troppo impegnato nel sostenere gli ingenti costi della preparazione delle guerra di Libia per pensare ai treni.Fu solo dopo la prima guerra mondiale che la "vo-glia di treno" si impossessò nuovamente del paese e dei suoi governanti, tanto che anche il progetto grossetano riprese vita e fu ritenuto degno di rea-lizzazione da affidare, inclusa la gestione, «prefe-ribilmente, ma non necessariamente», allo Stato.Il progetto ferroviario riprese così vigore, complice probabilmente anche la necessità di trovare uno scopo alle masse dopo la tragedia della guerra e l'elezione in tutto il territorio di nuove ammini-strazioni di orientamento socialista, che vedevano nel treno uno dei simboli della riscossa del prole-

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9tariato.Nell’incontro del 22 novembre 1919 al teatro Sal-vini di Pitigliano l’Ing. Edoardo Ugolini, dello Stu-dio Tecnico socialista di Roma, spiegato il progetto, «ottenne che fino da allora si votasse in massima la costituzione di un Consorzio di Comuni interes-sati allo scopo di ottenere la concessione del primo tronco dell’Umbro Maremma (Orbetello-Orvieto) di procedere all’esecuzione prima, all’esercizio poi della stessa. Nella adunanza sopracitata fu votato un ordine del giorno approvante in massima i cri-teri tecnici e finanziari esposti dall’ing. Ugolini ed affermante la opportunità di apprestare il progetto tecnico».Anche il Comune di Castell’Azzara fu della partita e il 22 maggio del 1921 il sindaco Domenico Lazze-rini portò in approvazione del Consiglio comunale la proposta di adesione al Consorzio per la ferro-via che da Porto Santo Stefano doveva condurre ad Ancona, «da anni – riportano gli atti comunali – desiderio più vivo di queste popolazioni che dal-le più facili e più rapide comunicazioni attendono un grande miglioramento della loro condizione morale e materiale».Il Sindaco, illustrando al Consiglio comunale la proposta, dichiarò: «noi non vogliamo rifare la storia di questa pratica antica che per ragioni varie non ha avuto una soluzione prima della Guerra (si riferisce alla grande guerra del 1915-1918 NdR), quando le difficoltà erano minori, vogliamo inve-ce riferire brevemente le ragioni che, a causa delle mutate condizioni dell’economia nazionale e la susseguente variazione subita dalla legislazione ferroviaria, consigliano come mezzo più accon-cio per raggiungere lo scopo, la costituzione di un Consorzio di Comuni ai sensi della legge del 29 marzo 1909 n. 109 sulla assunzione diretta dei pubblici servizi da parte dei Comuni. [...]Non vi spaventi l’importanza dell’affare e le conse-guenti responsabilità che potrebbe assumere il Vo-stro Comune – continuava il Lazzerini –, pensate bene quale è il beneficio che la ferrovia arrecherà alla vostra terra, pensate che per il momento non si tratta di assumere obbligazioni concrete, queste saranno assunte poi, con piena conoscenza di cau-sa, non appena costituito il Consorzio della rap-presentanza che sarà nominata, pensate che ora si tratta solo di costituire il Consorzio dei Comuni miranti ad affermare ad ottenere per la via, che noi crediamo l’unica, e che condurrà al raggiungimen-to del nostro scopo: la costruzione della ferrovia».La linea, partendo da Orbetello avrebbe risalito la valle dell’Albegna fino a Manciano, con stazione

alla Stellata, «tocca poi Pitigliano con stazione a Cancelli, quindi per il piano della Madonna si diri-ge verso Sorano che avrà la sua stazione vicino al podere Busatti, pei piani di S. Valentino ed i botri di Monte Palora, seguendo la sponda destra dello Stridolone raggiunge la stazione di Acquapenden-te che sorgerà vicinissimo all’abitato in località Ca-stelverde. La linea ferroviaria segue poi la strada Acquapendente- San Lorenzo Nuovo fino alla loca-lità Pecorone, passa poi per Castelgiorgio, Castel-viscardo dove comincia la discesa per la stazione di Orvieto».Il tutto per un totale di circa 115 chilometri, di cui solo 18 in galleria, per un costo totale di £ 122.500.000, poco più di un milione al chilometro.Il Consiglio comunale, «ritenuto che la costruzio-ne di una ferrovia che da Orbetello conduce al Or-vieto oltre assolvere ad un importante compito dal punto di vista nazionale come primo tronco della grande rete ferroviaria che dovrà allacciare il tir-reno coll’Adriatico, corrisponda alle giuste aspira-zioni della popolazioni della Maremma, dell’Alto Lazio e dell’Umbria che dalle comunicazioni rese più rapide e comode attendono non solo di vedere migliorati i traffici e resa più facile e convenien-te la esportazione dei prodotti del suolo ma pure migliorare le condizioni intellettuali e morali del popolo. Ritenuto che se l’alea è così ridotta da l’altro canto i vantaggi che verranno a risentire i comuni sa-ranno immensi e che colla costruzione e l’eserci-zio della ferrovia (che dovrà avvenire per meglio tranquillizzare gli Amministratori dei Comuni a mezzo di cooperative di produzione e lavoro) si assicura un forte impiego di mano d’opera in questo momento in cui la crisi economica e delle industrie costringe la classe lavoratrice ad una pre-occupante disoccupazione, resa ancora più grave nelle regioni nostre per il divieto alla emigrazio-ne transoceanica», deliberò «di far partecipare il Comune al consorzio dei comuni province Gros-seto Perugia Roma scopo costruzione e esercizio della ferrovia Orbetello Orvieto primo tronco della Umbro maremmana e per la produzione utilizza-zione e distribuzione dell’energia elettrica occor-rente per la ferrovia e i servizi pubblici dei comuni concorrenti» nominando nel contempo Lazzerini Domenico in rappresentanza del Comune all’As-semblea consortile.Nonostante l'entusiasmo e le buone intenzioni però progetti e idee rimasero sempre su carta e “il fischio del vapore” non risuonò mai nella piana della Sforzesca. π

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3 maggio, Santa CroceSi narra che la mamma dell’imperatore romano Costantino nell’anno 326 d.C. si recò a Gerusalem-me dove, in una cavità del Giardino della Resurre-zione, sotto il Calvario, trovò tre croci che si disse essere quelle dei tre crocefissi il Venerdì Santo. La scoperta dette il via alla festa del ritrovamento del-la croce (inventio sanctae crucis) che si celebrava il 3 di maggio. Quattro secoli dopo fu costruita la Basilica del Santo Sepolcro e il 14 settembre diven-ne il giorno dell’esaltazione della croce nel quale il sacerdote innalzava la croce esponendola alla venerazione dei fedeli. Questa nuova festa, pia-no piano, prese il sopravvento sulla festa di santa Croce che, negli anni ’60 fu tolta dal calendario liturgico, anche se in alcune diocesi continua ad essere celebrata.Ma cosa avveniva da noi il 3 di maggio?Intanto c’è da dire che il 3 di maggio era la data ul-tima in cui si potevano pascolare biade, orzi e gra-ni; da quella data vigeva il divieto ed i trasgressori venivano puniti. Altra considerazione è quella che per chi lavorava la terra, maggio era un mese peri-coloso e cruciale per le colture: le piantine sono già germogliate e le prime spighe sono in formazione e una passata di grandine o un violento ed improv-viso temporale rischiano di mandare a _ballodole le fatiche di tanti mesi. Non a caso antichi adagi ripetono che “quando il grano fa la resta / non vòle acqua sulla testa” e ancora “maggio mollo / veccia e gioglio / maggio asciutto / gran per tutto”. Al verificarsi di queste infauste situazioni non re-sta altro da fare se non invocare la protezione di-vina, come del resto si faceva bruciando la palma

benedetta per allontanare la tempesta o mettendo una catena fuori dalla finestra per invocare la piog-gia o trascinando la stessa catena sul pavimento della casa per far cessare le bufere.Per le messi si agiva piantando nei campi, il 3 di maggio, delle croci fatte con canne con appese fo-glie di ulivo benedetto la domenica delle Palme e una candelina benedetta il giorno della Candelora, ritenendo le croci capaci di favorire tempo buono e clemente e propiziare un buon raccolto. Si dice anche che le croci, una volta mietuto orzo, grano o biada, fossero sistemate dapprima sui cor-delli in attesa della trebbiatura e, in seguito, sulla sommità dei pagliai così da beneficiare ancora del loro potere taumaturgico.Oggi, purtroppo i campi seminati sono pochissimi e le croci non fanno più mostra di sé tra le spighe. Ciò che invece è rimasto immutato sono le preoc-cupazioni di chi ha deciso di dedicare la sua vita all’agricoltura e da questa ricavare di che vivere. π

La Voce dell’Orso è il notiziario dell’Associazione culturale Amici dell’Orso.La collaborazione è libera e gratuita. Chi ha ricordi, storie da raccontare, poesie, racconti o qualsiasi altra cosa reputata degna di pubblicazione, può inviarli per e mail a [email protected]

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11Olena Papalini

A CASTELAZZARAI nostri avverbi di tempo (e affini)Annoanco'amomentiora ch'è pocuora 'nn' è tantuavantipranzuavanticenaavantinottetropp'èa tropp'hamandimmanufinentoraierasseraiermattinaierillaltrudomallaltruspordimanispordimattinaspordimallaltru'ndelmentregiustu- giustu giustu mi' a bucurittu (rizzassi di mattina presto) doppodoppo ' fochi (troppo tardi) eppodoppomapiúemapoi

acquantà (da quanto tempo; ma anche: da tanto tempo)gran tantu (tantissimo tempo)per ora (noi, oltre all'uso comune, lo intendiamo anche come "di recente". Es. "ma l'hai 'ntesu per ora?'" "uh, tropp'è che 'n ci chiacchiero")'n pezzettu (ovvìa mettiti qui a sedé 'n pezzettu; ...è 'n pezzettu ch'è presu via)a'ncertupuntu: per scandire i tempi raccontando le novelle, come si chiamavano le favole (... cami-na, camina, camina... a'ncertupuntu viddero cum-parí 'n lumicino…), dove scarseggiamo con le "m" ma recuperiamo raddoppiando la "d".quando pisciano le galline (mai)allottamaiQuale esempio per intendere il significato di questo avverbio, un fatterello vero, d'altri tempi: il maestro aveva già alzato la bacchetta per col-pire lo scolaro, colpevole di scarsa propensione all'apprendimento, allorché compare sulla soglia dell'aula la nonna del ragazzetto, venuta per con-ferire col maestro. La bacchetta si blocca a mezz'a-ria, interrompendo il percorso atteso, e la nonna, accondiscendente: "via via, allottamai che ci sete, vergátelu!".Di tutti, secondo me, il più stravagante: anno. Talché un ignaro, fuori di zona, che ci domandas-se "quando l'hai visto l'ultima volta?" e si sentis-se rispondere "anno", non potrà che credere che abbiamo frainteso la domanda, chiedendosi chi saranno quelli che "hanno" e che cosa "hanno". Mi suonava così naturale un tempo, e ora vedo come può essere incomprensibile. Per quelli non avvezzi: anno = l'anno scorso. π

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12Mariella Terrosi

L’EMIGRANTE DELLA MONTAGNALa sera arrivava stanco, ma lei era sempre lì pronta a dargli un abbraccio, un sorriso, un bacio sul quel viso sporco come di carbone. I due piccoli di casa gli correvano incontro sperando forse in qualche regalino, credendo che il babbo ritornasse da uno di quei viaggi fantastici che ogni sera, anche se fa-ceva fatica a tenere gli occhi aperti, gli raccontava. La guerra non era ancora finita, la sua famiglia aveva trovato rifugio in una casetta in mezzo ad una macchia, visto che Nan-ni faceva il guardiano alla laveria della miniera di piri-te. Il cibo non era mai abba-stanza, ma i nonni avevano un po’ di terra così la Piera ogni tanto, facendo diversi chilometri a piedi, andava a trovarli, rimediando un po’ di farina, delle uova e qual-che pezzo di carne. Tornata a casa, con quelle cibarie, era festa e subito preparava così i maccheroni tenendo spran-gate porte e finestre per non far uscire l’odore del sugo. Uno di quei giorni in cui si sentivano ancora in lonta-nanza i colpi di cannone, Nanni tornò a casa dopo una battuta di caccia (fat-ta per necessità) con un piccolo cinghiale che sa-rebbe bastato a sfamarli per diversi giorni. Mentre si apprestava a sistemarlo violenti colpi alla porta fecero sussultare tutta la famiglia: c’erano alcuni soldati tedeschi che pretendevano di entrare per avere del cibo. Non sapendo che fare Nanni nasco-se il cinghiale dietro la porta d’ingresso, consape-vole che se lo avessero trovato lo avrebbero porta-to via e sicuramente ci sarebbero state spiacevoli conseguenze ma, ostentando molta calma aprì. La Piera era atterrita ma dette ai soldati, in tutta fret-

ta, quello poco che aveva, del pane e un pezzetto di lardo. I militari ghermirono tutto quasi con di-sprezzo e facendo il saluto nazista se ne andarono facendo tirare un gran sospiro di sollievo a tutti.Erano i primi di giugno, nel villaggio si respirava ancora l’odore delle bombe, i minatori non erano tranquilli, si vociferava che c’era la possibilità che la loro miniera venisse minata e fatta saltare in aria, così tutti avrebbero perso il lavoro e i sacrifici fatti per la famiglia emigrando dalla montagna per cercare un futuro lontano dal proprio paese sareb-bero sfumati. Nanni era uno di questi e, tutti insie-me, si riunirono e decisero che la difesa della mi-niera era la loro priorità, la loro ancora di salvezza per un futuro migliore; fu una scelta dettata dal cuore e dal bisogno, ma le cose non andarono per il verso giusto, furono caricati sui camion con l’ac-cusa di essere partigiani e di conseguenza tradito-ri. Mentre lo portavano via Nanni fece un ultimo sorriso cercando di rassicurare la moglie, e perché voleva che i piccoli lo ricordassero così, sorridente, forte e fiero di aver difeso il proprio lavoro anche

per loro. Sul camion chiu-se gli occhi, e rivide la sua montagna con i suoi alti pini, abeti, castagni, le sue fresche acque, il suo panorama, gli amici con cui aveva diviso risate, scampagnate, a volte una ragazza, le bisbocciate al bar nella piazzetta, le lunghe partite a brisca o scopa con le voci che ogni tanto si alzava-no contro il compagno reo di aver sbagliato una mossa… come gli sarebbe piaciuto ri-sentirle ancora, vedere quei volti ancora giovani e pieni di speranza! Era stato costretto ad emi-grare ma l’amore per il suo

paese non era mai venuto meno. Un leggero sor-riso si formò sulle sue labbra e mentre ricordava tutto questo lo assalì una certa tranquillità, sapeva in cuor suo che quelle immagini sarebbero state le ultime, ma erano bellissime. Era stato un emi-grante ma sempre con dignità, onestà e rispetto e aveva insegnato ai suoi figli che il mondo è un bel posto e vale la pena di lottare per esso. Spera-va di essere ricordato per queste cose, e mentre il camion andava veloce sperò che ogni uomo diven-tasse libero, libero di lottare, pensare, agire, e che il mondo è uno solo e uno solo deve restare. π

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13grandeorso

Il vovFin verso la fine degli anni ’60 del secolo scorso non c’era casa in cui non si preparasse qualche liquore. Le ricette venivano trasmesse di genera-zione in generazione e ciascuna aveva “quel” com-ponente, “quel” dosaggio degli ingredienti che rendeva il proprio liquore diverso e “migliore” di tutti gli altri.Tutti i preparati avevano come base un contenuto alcolico che poteva essere la grappa proveniente dalle vinacce, che con alambicchi rudimentali ve-niva distillata in molte case, oppure si usava alcol a 90°.Nelle credenze facevano bella mostra di sé bicchie-rini di vetro lavorato e bottiglie anch’esse lavorate colme di rosolio, maraschino o ratafià che veniva-no consumati e offerti, con parsimonia, per le fe-ste o per qualche ospite di riguardo.Durante il ventennio fascista prese campo in tut-ta la penisola un liquore che proveniva da Padova: il vov. Il nome si dice derivasse da “vovi” termine con cui i padovani chiamavano le uova che rappre-sentano l’ingrediente principale di questo liquore, la cui fortuna scaturì dalla semplicità e velocità di preparazione e dai pochi ingredienti base, quasi tutti di facile reperimento: uova, zucchero, marsa-la, alcol e latte.Era, a tutti gli effetti, uno zabaione “liquoroso” e come questo presentava un bel colore giallo e una cremosità che metteva gola. L’odore delle uova, non da tutti gradito, veniva stemperato e quasi del tutto annullato dal marsala. Bevendolo si percepi-va subito la sua forte dote dolce, subito smorzata però dal marsala che fissava un nuovo equilibrio e lasciava il palato pulito, fresco e pronto per una nuova sorsata. Il vov infatti invitava, ed invita, a berne sempre un po’ di più, a farsi tentare da un altro sorso.Le bottiglie di vov fabbricate industrialmente ripor-tavano la scritta “liquore confortante” intendendo forse che ha la capacità di consolare e di dare co-raggio, ma in tutte le case veniva usato per le doti energetiche e rinvigorenti possedute, e era dato ol-tre che agli adulti e agli anziani bisognosi, anche ai bambini che, del resto avevano abbondantemente già fatto conoscenza con le “virtù” alcoliche con le tante merende di fette di pane inzuppate di vino e

cosparse di zucchero. In aggiunta alla ricetta “tradizionale” riportata a lato qualcuno preferiva una soluzione più “rude”, strong si direbbe oggi, che prevedeva marsala, zuc-chero, cannella, uova e limone. Si sistemavano le uova pulite in un contenitore e si ricoprivano con succo di limone. Dopo una decina di giorni i gusci saranno completamente disfatti e possono essere filtrati. Si mette poi insieme il marsala al quale si è aggiunta la cannella e lo zucchero disciolto in un po’ d’acqua. Una bella “sciabacculata” prima di servire è con-sigliata.

INGREDIENTI1/2 litro di latte intero 400 gr di zucchero 4 tuorli di uova 100 gr alcool a 96 gradi 100 gr di marsala 3 bustine vaniglia

PROCEDIMENTOIl procedimento è semplicissimo. Per prima cosa si aggiunge lo zucchero al latte e lo si fa scioglie-re a fuoco lento. Si comincia con mettere latte e zucchero in una padella e farlo sciogliere a fuoco delicato e quindi lo si fa raffreddare.Si separano gli albumi dai tuorli, si mettono in una pentola e si aggiunge poco a poco, quasi goc-cia a goccia, mescolando continuamente l’alcol e di seguito, sempre a filo, il marsala.Aggiungeremo poi questo composto al latte e zucchero raffreddato, mescoliamo ben bene e la-sciamo a riposo per favorire l’amalgama degli in-gredienti. Dopo un paio di giorni si può filtrare il liquido con un colino per trattenere eventuali resi-dui. Ora il nostro vov è pronto per essere gusta-to, avendo l’accortezza, ad ogni bevuta, di agitare bene la bottiglia. π

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14Ernesta Baffetti

90 anniNano, al pari della maggioranza degli uomini del suo tempo, era abituato a essere servito e tutte quelle incombenze cosiddette “femminili” erano delegate alla moglie.Non sapeva cucinare, ma la vita lo ha costretto ad imparare. Ora, a suo gusto e piacimento, sa fare tutto, anche frullare e surgelare.Nano nella sua vita è stato un grande lavoratore: rimasto orfano di mamma fu mandato a “garzo-ne” a San Giovanni.Un giorno, attorno a giugno del 1944, mentre i tedeschi in ritirata rastrellavano i nostri territori, tutto impaurito, per non farsi prendere si nascose dentro un forno che era ancora tiepido perché da poco ci avevano cotto il pane.Quel tepore rassicurante lo fece assopire a al suo risveglio non c’era più traccia dei soldati. Sono tanti gli episodi degni di essere ricordati in una vita che ha raggiunto 90 anni, ma non sono più i tempi del raccontare attorno ad un camino.Nano è uomo dal carattere un po’ duro, ma sa essere affettuoso con tutti i nipoti che, insieme hanno voluto fargli l’improvvisata di festeggiare il suo novantesimo anno di vita che, fatalità, cadeva

di domenica e così tutti erano liberi.Era un compleanno a sorpresa e Nano, giunto al ristorante con le sole altre tre persone con le qua-li credeva di pranzare, vedendo una moltitudine di macchine parcheggiate esclamò: - Oggi non si mangia, guarda po’ po’ quante macchine ci so’!Mariarosa, venendogli incontro gli disse: - Non preoccuparti che per te il tavolo c’è!Al suo ingresso in sala, tutte allineate trentacin-que persone di ogni età esplosero in un coro as-sordante e beneagurante.Lascio a voi immaginare l’emozione di Nano e come la bella festa sia proseguita.Auguri quindi a Nano e auguri anche ai suoi coe-tanei Giuseppe, Francesca, Mirella, Norvena, Dia-na, Angelina, Amelia e… buon proseguimento a tutti. π

Storielle da osteria

Una risposta disarmanteA Stoppichino, al pari di pres-soché tutti i maschi del paese, il vino piaceva. E molto. Ogni sa-bato, completati i lavori in cam-pagna, erano bicchieri a non finire, consumati all’osteria o nella cantina di qualche amico, e ci rinnocava anche la domeni-ca, che si concludeva quando, con gambe malferme, varcava la soglia di casa, dove assieme a moglie e figli, ad attenderlo c’era l’immancabile antisbornia: fette di pane cosparse di cacio e in-naffiate da brodo di pollo.

Quella domenica il nostro eroe era andato, alla guida del suo Ape, alla fiera di un paese vicino per comprare un paio di bigonzi che gli servivano per l’imminen-te vendemmia che si preannun-ciava molto ricca.Inutile dire che non ebbe la for-za di rifiutare neanche una be-vuta e, a buio fatto, in sella all’A-pe partì per il ritorno.Fatte poche centinaia di metri scorse la luce di una torcia e la divisa di un carabiniere che gli intimava l’alt.

Scese e, con in mano libretto e patente, con il linguaggio forbi-to che sfoderava nelle occasioni speciali, scandendo le parole, spiegava da dove veniva e dove stesse andando.I carabinieri capirono però il suo stato alcolico e gli rivolsero la domanda di rito: - Scusi, ma lei ha bevuto?Stoppichino, vistosi con le spalle al muro, pacatamente rispose: - Diciamo che la sete non l’ho pa-tita! π

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15Agostino Groppi

STRANE STAGIONIDa che mondo è mondo al comportamento delle stagioni si adeguano sia la scelta delle colture che l’andamento delle coltivazioni. Quando l’estate è troppo calda e siccitosa bisogna innaffiare abbon-dantemente per avere un buon raccolto, e l’uomo, seguendo i capricci del tempo, si è arrangiato e si arrangia come può. Da qualche anno in particolare si sente dire spesso che le stagioni non sono più le stesse di prima, che il clima sta cambiando, che una volta sì che l’esta-te era estate e l’inverno era inverno, che c’erano l’autunno e la primavera con le loro ben precise caratteristiche. La causa dei cambiamenti climatici e degli eventi meteorologici sempre più estremi è da attribuire sicuramente all’inquinamento e allo sfruttamento selvaggio delle risorse del pianeta da parte dell’uomo che provocano cambiamenti e danneggiano gli equilibri naturali. Ci sono tutta-via meteorologi ed esperti che ci dicono che anche nel passato ci sono stati periodi di caldo o freddo

anomali; ma la percezione che si ha sembra deci-samente diversa! D’inverno ad esempio dovrebbe fare freddo in modo che le piante possano riposare e germogliare con regolarità a primavera. Il tem-po però non si fa comandare da nessuno (ed è un bene che sia così altrimenti se ne vedrebbero delle belle: chi vorrebbe la pioggia, chi la neve, chi il cal-do, chi il freddo: sarebbe un manicomio!).In tutte le considerazioni che si fanno sul tempo però qualcosa di vero c’è: pensiamo all’inverno 2019-2020 appena trascorso. Gennaio avrebbe dovuto essere abbastanza gelido essendo a metà inverno; le gelate di febbraio invece avrebbero po-tuto compromettere la produzione, ma non c’è stato né il freddo e per fortuna nemmeno le gelate! A parte un po’ del mese di dicembre in cui si sono avute alcune precipitazioni, il resto dell’inverno è trascorso completamente all’asciutto e al sole! E del freddo tipico degli ultimi tre giorni di Gennaio nominati “i giorni della merla” neanche l’ombra! Questo detto nasce da una leggenda che raccon-ta che le femmine dei merli, che in origine erano bianche, quasi certe che la stagione più rigida fos-se al termine e convinte che alla fine di Gennaio l’inverno fosse agli sgoccioli, si trovarono disorien-tate dal sopraggiungere del gran freddo e per ripa-rarsi furono costrette a imbucarsi nei comignoli

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dei camini. Passato quel periodo, con grande di-sappunto si scoprirono nere e corsero al ruscello per lavarsi: alcune di loro struscia, struscia,... con il becco riuscirono a pulirsi la pancia e da quel momento non lasciarono più quei paraggi perché, diventando palombare, avevano trovato vermi e insetti sul fondo del ruscello; la loro pancia restò bianca e così nacque la specie del merlo acquaiolo. I merli maschi, invece, struscia, struscia,…. neri erano e neri restarono. A proposito del merlo, uccello stanziale tipico dei nostri luoghi, un tempo ricordo di averne vi-sti molti più di ora. Ad esempio, nei primi anni cinquanta, al “Piano Fanfani”, ideato per ovviare ai licenziamenti della miniera del 1948, quando svolgevo un lavoro saltuario a ripulire e piantare il bosco per 500 lire al giorno più il rancio, pres-so il bottino al Monte Ferruzzo, vicino al Monte Penna, c’erano due grossi massi “accapannati” e ricoperti di edera e lì, da un nido ben nascosto che conteneva ben 5 uova, ad un tratto volò un merlo; era esattamente il 14 febbraio del 1950; questo per dire che il merlo è anche un uccello piuttosto pre-coce nella cova. Scorrendo il calendario, dopo i giorni della merla che possono portare guai alle nostre tonsille, il 3 febbraio si celebra la festa di San Biagio che è il protettore della gola: quel giorno, al termine della messa mattutina, i fedeli passano davanti al parro-co e lui tocca la gola con due candeline incrociate e dicendo una preghiera impartisce ad ognuno la benedizione e chiede l’intercessione del santo. Febbraio, almeno per noi, è diventato un mese importante dato che l’8 ha compiuto un anno la nostra bisnipotina Sara, figlia di Elena (la nostra nipote), verso la quale io e mia moglie Maria nu-triamo un grande affetto e alla quale auguriamo serena e lunga vita (almeno come la nostra!). Poco dopo ecco il 14, San Valentino, la festa degli in-namorati che si fanno omaggio di baci e di fiori di mimosa, una specie di acacia di un giallo vivo molto appariscente, che fiorisce precocemente e che è diventata simbolo della festa delle donne, l’8 marzo. Oggi per passare queste serate ci sono le discoteche (non nel nostro piccolo paese) che sono aperte nelle ore notturne e dove la gioventù, oltre alle bibite, trova anche cose pericolose e letali, mentre ai miei tempi la sera c’era un bel veglione con balli e suoni. Bei tempi quelli! Quando ci ripenso li ricordo con nostalgia, benché la vita, per tutti, da allora sia no-tevolmente cambiata e... in meglio! Sarà la nostal-gia della gioventù... che non c’è più!? Quando in

paese eravamo molti di più c’erano due bar, una ventina di osterie (ora chiuse) quasi sempre piene la sera e negozi più o meno forniti di merce varia tra cui un paio di frutta e verdura; uno dei proprie-tari, un certo Nardelli, faceva vendita a domicilio e girava tutto il paese con una carretta decantando la sua merce: - Cachi alla vanigliaaa! Chi l’assaggia li ripigliaaaa! Pere così buone che chi le assaggia le rivoleeee!-Il paese, a livello di produzione alimentare, era quasi autosufficiente; c’era la pastorizia abbastan-za sviluppata e la maggior parte delle famiglie ave-va una vignetta, un orto e un campetto di grano, un asino nella stalla sotto casa o in qualche capan-na vicina e tutti o quasi tutti si industriavano con l’allevamento degli animali da carne: galline, coni-gli, piccioni ecc. La mattina ci si svegliava al raglio dei somari e al canto del gallo e anche cani e gatti, come noi ra-gazzetti, erano liberi di scorrazzare per le strade che ancora non erano asfaltate. In inverno spesso nevicava abbondantemente e le “riferine” (muc-chi di neve ammassati dal vento) ci impedivano a volte di uscire di casa se prima non veniva aperto un varco. A primavera si poteva godere del tepore del sole e della fioritura dei prati e degli alberi da frutto, in estate ci si rinfrescava alle sorgenti o sot-to gli alberi dei boschi e della pineta, in autunno c’erano piogge abbondanti. Non che tutto questo non si possa fare ancora ma, effettivamente, sono quasi scomparse le mezze stagioni e si passa dal freddo al caldo in modo repentino tanto che certi capi di vestiario adatti al clima temperato riman-gono nell’armadio. Allora i prodotti importati era-no molti di meno rispetto ad oggi e “l’isolamento” ci preservava dalle malattie che oggi si diffondono con rapidità causa gli scambi di merce e gli sposta-menti sempre più rapidi. E insieme a tanti prodot-ti sono arrivati da noi molte specie di insetti inde-siderati come il punteruolo rosso delle palme che ha fatto molti danni al Sud e lungo i litorali dove vivono queste piante, o la zanzara tigre più grossa e feroce della stanziale, o la Xilella che è un insetto che ha fatto strage di olivi nel Salento con un dan-no economico ragguardevole, o le cimici cinesi o orientali che hanno rovinato la produzione della frutta soprattutto al Nord (per fortuna sembra ab-biano trovato un loro feroce antagonista e nemico giurato nella vespa killer che si nutre proprio di cimici). E da ultimo, come ciliegina sulla torta, la peste del Corona virus perché, in epoca di globaliz-zazione, anche i virus e i batteri viaggiano a tutto spiano! E allora… che Dio ce la mandi buona! |π