Anno XVI n° 2 - APRILE / GIUGNO 2011 · dei briganti Nascita di una mitologia popolare Giancarlo D...

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la notiziario oggetta Anno XVI n° 2 - APRILE / GIUGNO 2011 Briganti Poste Italiane spa - Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 (conv. in L. 26-2-2004 n. 46) art. 1 comma 1 - DCB Centro Viterbo 87 di Piansano e la Tuscia L

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Il ruolo dello studioso a cui capita di confrontarsi con

qualcuna delle seducenti convinzioni prodotte dal-

l’invenzione popolare può rivelarsi, talvolta, ingrato

e deludente.

Ingrato perché gli potrà accadere di trovarsi a dover scre-

ditare proprio quelle suggestioni e quelle speranze che

avevano favorito il sorgere della spontanea forma creativa.

Deludente perché, dopo aver utilizzato i lucidi strumenti

della ragione per rimuovere le inattendibili “incrostazioni”

emotive, potrebbe trovarsi in mano soltanto scorie banali

prive di significato.

E allora lo studioso, se onesto, dovrebbe capire che il

metodo usato forse non era quello giusto, che sarebbe ser-

vita altra sensibilità,

che il valore di ciò che

ha “smontato” non e -

ra intrinseco ai singoli

elementi, ma scaturi-

va da un diverso ango-

lo di osservazione del-

l’intero fenomeno.

Che sarebbe stato ne -

cessario - per dirlo

con un termine in vo -

ga e che pertanto uso

malvolentieri - un ap -

proccio olistico.

Perché questo pream-

bolo?

Perché sarebbe facile

trattare il fenomeno

del brigantaggio ridu-

cendolo ai suoi ovvi

componenti, e cioè al -

la diffusa miseria, alle

difficoltà di controllo

dell’ordine pubblico,

ai soprusi sociali. O,

ancora più banalmen-

te, considerarlo il per-

corso privilegiato per

individui inclini alla

violenza e alla sopraf-

fazione.

Tutti questi elementi,

che pure evidenziano

alcune delle verità che

componevano quella

L’epopeadei brigantiNascita di una mitologia popolare

GiancarloBreccola

Da tempo s’era pensato di dedicare unnumero della rivista al tema del brigan-taggio, presente nelle nostre contradeprima e dopo l’Unità d’Italia. Ci siamo

decisi appunto nella ricorrenza del 150° anniver-sario dell’unità nazionale, cui abbiamo riservatouna sezione del numero precedente. Ma senzavolerne sottolineare alcun nesso di causa-effetto,perché a differenza di quella sorta di guerra civi-le che fu il cosiddetto brigantaggio nell’ex regnoborbonico, da noi il banditismo rimase fenomenoisolato e minoritario. E’ evidente che le vicendepolitico-militari legate ai vari tentativi annessio-nistici soprattutto dell’ultimo decennio, cosìcome i temporanei “disorientamenti” del trapas-so istituzionale, indirettamente contribuirono arinfocolarlo, ma una ricerca onesta non può nonrilevare la persistenza di un fenomeno che pro-prio all’indomani dell’Unità, semmai, rimbalzòall’attenzione collettiva - sia pure con errori edinsuccessi dei pubblici poteri che ne dilatarononotevolmente i tempi - come antitesi manifesta diuno Stato di diritto ansioso di presentarsi con lecarte in regola nel consesso delle grandi nazionieuropee.

Le remore ad affrontare l’argomento, per la veri-tà, rimangono tutte, perché non potendosi ovvia-mente concepire, in un periodico con questotaglio, un’“opera omnia” di quanto già apparsosul tema, si rischia la ripetitività dell’aneddoticao l’estemporaneità di un contributo assolutamen-te marginale e forviante, secondo stereotipi fintroppo noti in subiecta materia.Un rischio che però abbiamo voluto correre,lasciando come al solito agli autori ampia libertàdi affrontarlo “secondo vocazione”. Ne sono usci-ti dei contributi che crediamo interessanti, purnella varietà di registro e di livello: dallo sguardosui metodi di approccio al fenomeno, alla rappre-sentazione a fumetti di un particolare episodio;dall’esposizione dei moderni criteri di fruizionemuseale, alla pasquinata irriverente del nostroNescio Nomen; da notizie e riflessioni scaturiteda documenti inediti sul tema, alla “scoperta” difigure minori perlomeno sconosciute al grandepubblico; dalle eredità linguistiche e toponoma-stiche del fenomeno, alla percezione che ne ave-vano i viaggiatori stranieri o al corollario dicuriosità e aneddoti tuttora presenti nel saperepopolare...

Non un’esaustiva analisi dell’argomento, dunque,- che sarebbe, per le nostre forze, tanto ambizio-sa quanto impraticabile - ma un variegato e parte-cipe contributo alla conoscenza di quel territorioche, in misura diversa, ci appartiene.

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realtà, non tengono conto, infatti, della proiezione epica di

cui il brigantaggio è stato oggetto, e proprio da parte di

quella classe sociale che lo alimentava con le proprie risor-

se umane e che, contemporaneamente, lo subiva. Non ten-

gono conto, inoltre, di quella sorta di collante fantastico

che ha amalgamato le cause contingenti del fenomeno

penetrandone la struttura e modificandone l’essenza; di

quella inconfessata risposta all’esigenza di appagare ambi-

zioni più profonde di quelle della consapevole quotidiani-

tà, riferibili ad un’etica superiore.

Esigenze trascendenti che potevano anche non trovare

riscontro nella realtà degli accadimenti, ma che puntual-

mente lo recuperavano nella creazione mitologica dei loro

eroi.

Ed è da questi eroi-non eroi, da questi eroi sognati, da que-

sti eroi negativi che l’immaginario popolare ha tratto inten-

sa ispirazione per delineare il quadro di quel fenomeno-

mito che è giunto fino a noi e che necessita, per essere

avvicinato, di attenzione e sensibilità.

Queste considerazioni, naturalmente, non costituiscono

una novità.

Lo stesso Stendhal, nel suo “I briganti in Italia” pubblicato

nel 1833, così, in qualche forma, le anticipava.

“In Francia e nella maggior parte degli Stati europei facil-

mente si concorda sulla qualifica da dare agli uomini la cui

professione è quella di derubare i viandanti lungo le strade

maestre: sono briganti. In Italia, sono chiamati pure assas-

sini, ladroni, banditi, fuorusciti, ma sarebbe un grave erro-

re credere che questo tipo di attività sia lì colpito da una

riprovazione così viva e universale come lo è dappertutto

altrove.

Tutti hanno paura dei briganti: ma, cosa strana!, ciascuno

per parte sua li compiange quando essi ricevono la puni-

zione per i loro crimini. Insomma, si ha per loro una sorta

di rispetto anche di fronte all’esercizio di quel terribile

diritto che essi si sono arrogati.

Il popolo, in Italia, è abitualmente dedito alla lettura dei

poemetti in cui sono ricordate le circostanze notevoli della

vita dei banditi più famosi: gli piace ciò che vi è in quella di

eroico, ed esso finisce col nutrire per loro un’ammirazione

assai vicina al sentimento che, nell’antichità, i Greci prova-

vano per alcuni loro semidei”.

Certamente nella fissazione dell’archetipo brigantesco un

ruolo determinante lo ebbe chi, con forme e pretesti diver-

si, favorì la diffusione delle “meravigliose gesta”, contri-

buendovi con apporti personali, generalmente in forma

coerente al superiore modello di eroe-giustiziere.

E così i briganti entrarono a far parte, da protagonisti, del

singolare mondo dei racconti a veglia, delle poesie a brac-

cio, dei blasoni popolari e dei proverbi. Tutte forme di

comunicazione che ancora oggi possono farci pervenire

occasionali testimonianze da parte dei pochi cultori rima-

sti. Trovo esemplare, in questo senso, una poesia di Elio

Tarantello, insostituibile amico scomparso da tanti anni,

che amava raccogliere le intime suggestioni di quella “sua”

cultura, che pure sapeva destinata a scomparire, in forma

di poesia.

Nella composizione è il luogo fisico dei briganti, cioè la

grotta, a divenire voce narrante dell’“epopea”, in grado di

evocare, in un succedersi di immagini nostalgiche, epiche

e romantiche, le fantasie che più avvincevano l’uditorio

popolare.

La grotta dei briganti

La grotta dei briganti è là nel bosco

a strapiombo sul fosso dell’inferno

orrida e occulta e le sue volte parlano.

Mille storie a chi ascolta esse raccontano,

storie di fame, storie di dolore,

storie di morte, storie di terrore.

Ed ai puri di cuore,

bisbigliando sommesse esse sussurrano,

la storia di Maria e del Cacciatore.

Pallida e innamorata lo cercava,

sperduta, triste, sola e lo sentì

invocare il suo nome oltre il burrone

ferito a morte, e non poté passare.

Lo chiamò, per tre giorni lo chiamò,

e quando lui non le rispose più,

giù nello strapiombo si buttò.

La storia di Tabarro esse raccontano,

che fu brigante e uccise per amore,

la storia di furore

di Biscarino, che tradito e solo,

combatté contro cento e urlando cadde

maledicendo la sua sorte e iddio,

la storia del Moretto, di Calio,

di Nicche grande, che al signor cortese

che gli chiedeva la sua condizione

rispose: “Sono un sindaco pur’io

e più di te lo faccio il mio dovere.

Tu tassi solo la povera gente,

io tasso i signori solamente”.

La storia di Tanagro e Fieramonte,

la storia di Fetonte esse raccontano,

la storia di Lisetta e di Cadore,

storie di morte, favole d’amore.

La grotta dei briganti è là nel bosco

a strapiombo sul fosso dell’inferno

orrida e occulta e le sue volte parlano.

Nella poesia compare, tra gli altri, un certo “Nicche grande”,

e proprio in relazione a questo personaggio mi sembra inte-

ressante riportare un’esperienza personale che si riferisce

ad una filastrocca che mi recitava la nonna. Toccandomi il

pollice della mano iniziava col dire “Ho fame”, con l’indice

proseguiva “Non c’è pane”, il medio “Come faremo?”,

l’anulare “Lo ruberemo”, ed infine il mignolo “Nicche Nicche

chi ruba s’appicche!”. Soltanto molti anni dopo ho capito che

quel “Nicche” faceva riferimento a Federigo Bobino, famoso

brigante toscano così soprannominato, e che quel breve

testo riusciva a sintetizzare in modo esemplare le ragioni e le

circostanze del brigantaggio nostrano.

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Ho sotto gli occhi un documentod’epoca abbastanza raro: unregistro dei verbali della sta-zione carabinieri di Piansano

degli anni 1876-78. Raro, perché tratta-si di materiale d’archivio che le stesseautorità militari periodicamente di -struggono per evitare fughe di informa-zioni riservate che vi si possono rinve-nire; e al tempo stesso prezioso ai finidella ricerca storica, proprio per unaserie di notizie che ci restituiscono unavisuale insolita della vita quotidiana diun piccolo borgo rurale all’indomanidell’Unità. Il documento è stato fortunatamenteconservato dall’ing. Giulio Compagno-ni, pronipote di quel “brigadiere apiedi” Giuseppe Compa gnoni che fu ilprimo comandante della stazione e poi,dopo il congedamento, anche sindacodel paese a cavallo del nuovo secolo. E’accompagnato da un “Registro di corri-spondenza” che copre più o meno lostesso arco di tempo ed è contrasse-gnato come primo della serie, prenden-do avvio, appunto, dalla costituzionedella stazione carabinieri nel nostropaese, una delle novità conseguenti al -l’annessione al Regno d’Italia di cui siparlava nel numero precedente. La Le-gione Carabinieri Reali di Roma, infatti,istituita con R.D. 30 settembre 1873 edentrata in funzione il 1° gennaio 1874,andava man mano strutturandosi local-mente in sezioni e stazioni. E i primi ainsediarsi a Piansano furono appuntoquattro carabinieri “a piedi” (per di -stinguerli da quelli “a cavallo”), chegiunsero in paese nel pome rig gio del 23giugno 1876, quattro giorni prima delnostro brigadiere Compa gnoni, trasfe-rito qui nel pomeriggio del 27 giugnodalla stazione di Labro, oggi in provin-cia di Rieti ma allora facente parte di

quella di Perugia (e quindi già “italiana”

dal 1860). Gli altri quattro militari si

chiamavano Antonio Casarsa, Carlo

Gianni, Carlo Giroldi e Angelo Visini.

Meritano di essere citati perché, salvo

occasionali avvicendamenti, saranno

loro ad alternarsi in tutte le operazioni

di quegli anni e quindi a fornirci le testi-

monianze delle vicende che li videro

protagonisti.

Compagnoni era un ciociaro di Monte

San Giovanni Campano, in provincia di

Frosinone, mentre Visini era nativo

della provincia di Brescia. Degli altri

non conosciamo la provenienza, ma è

da ritenere che fossero anch’essi di ori-

gini settentrionali, dove tali cognomi

sono maggiormente diffusi e dove il

“Corpo” dei reali carabinieri (com’era

prima di diventare “Arma”) era nato ed

aveva reclutato le prime leve. Quei

pochi uomini - che a volte vengono defi-

niti brigata, da cui il grado di brigadie-re, piansanese brigattiere, dato al sot-

tufficiale al loro comando - avevano in

dotazione un moschetto e un revolver

con relative munizioni, si muovevano

naturalmente... “a piedi”, e in quei

primi anni avevano competenza nei ter-

ritori di Piansano e Cellere, che pur es -

sendo confinanti dipendevano da due

diverse preture, Valentano e Toscanel-

la. Dovevano rendere conto di qualsia-

si movimento di foglia, per così dire, ed

erano sottoposti a una disciplina piut-

tosto rigida, tanto da venire ripresi, per

esempio, per “sciupo di buste di ufficio”,

e al punto che gli stessi Visini e Compa -

gnoni, nel corso del 1877, furono

entrambi sottoposti a misure di puni-

zione per chissà quali infrazioni: il

primo con dieci giorni di cella (“5 deiquali di rigore”) a Monte fia scone; l’altro

con venti giorni a Viterbo.

“Malviventidomestici”

AntonioMattei

Le comunità contadine di Ma rem ma e i disperati dellamacchia di fine ‘800, indesiderati “compagni di viaggio”della loro vicenda esistenziale. Riflessioni attraverso iprimi verbali dei carabinieri di Piansano e Cellere

Il brigadiere a piedi Giuseppe Compagnoni (1851-1919),primo comandante della stazione carabinieri di Piansano

Primo “Registro dei processi verbali” della stazione cara-binieri di Piansano (luglio 1876/giugno 1878

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Tiburzi

Ebbene, la competenza di questa stazio-ne anche sulla vicina Cellere, patria diDomenico Tiburzi, ci fa trovare tra i ver-bali qualche riferimento anche al famosobrigante. Il quale era evaso dalle saline diCorneto-Tarquinia solo quattro anniprima e non era ancora diventato il “redel La mone”, ma già conquistava glionori della cronaca facendo riempiredecine di verbali di “vane ricerche”.Sono contributi minimi, curiosità, sevolete, che non aggiungono nulla allaconoscenza del fenomeno, ma che cifanno immaginare l’eco delle primeaudacie banditesche nell’immaginariodella piccola comunità contadina.Nei due anni contemplati dal registro -giugno 1876/giugno 1878 - si trovano suTiburzi almeno tre verbali di “vane ricer-che”: uno del 22 febbraio, uno del 2luglio ed un terzo del 25 novembre 1877.Il primo è in risposta al mandato di cat-tura spiccato dal giudice istruttore diCivitavecchia per l’evasione del 1° giu-gno 1872 e per le imputazioni relative al18 luglio successivo, quando nelle cam-pagne di Montalto, “con altri cinquearmati fra cui un certo Nati Antonio”, ilfuggitivo estorse armi, viveri e denari aiprimi malcapitati coi quali s’imbatté.L’evaso è già definito “famigerato”, an -che se nel secondo verbale “di ricercheinfruttuose”, quello di luglio, troviamoancora solo “il noto Tiburzi Domenicoalias Domenichino... buttero di Cellere”.In compenso il personaggio si è guada-gnato un nuovo mandato di catturaemesso dalla Corte d’Appello di Roma il25 maggio 1877 per gli stessi capid’imputazione.Nel terzo verbale, quello del 25 novem-bre, Tiburzi è pluridefinito “condannato -evaso - latitante - bandito”, e si fa riferi-mento ad un ulteriore mandato di cattu-ra, spiccato questa volta dal procuratoredi Viterbo a seguito di una condanna adue anni di carcere emessa dallo stessotribunale: “per commesso ferimento con-tro Nazzarena Caporali”.Che cosa era successo ce lo raccontanosempre i nostri carabinieri, riferendociun episodio sicuramente meno noto dialtri e a lungo frainteso, perché lo stessocronista contemporaneo Adolfo Rossiaveva riportato il nome della vittima almaschile, Nazzareno, privando la vicen-da dei suoi reali connotati. Per brevità lariassumiamo con parole nostre, anchese il testo originale è lì che ci tenta. Sulmezzogiorno del 14 luglio 1877 questaNazzarena Caporali si trovava in un ter-reno a circa tre miglia dal paese, confi-

nante con la macchia del Rimore, tra Cel-lere e Ischia, insieme con l’“amico” Giu-seppe Diletti, e... “portatasi la donna inuna capanna prossima all’aja, ad un trat-to videro uscire dalla selva del Rimore ilnoto Brigante Tiburzi Domenico detto ilDomenichino... il quale vestiva con panta-loni a quadretti bianchi e neri con lunghistivali uniti [?] con i pantaloni, giaccaoscura, cappello alla pref [?] con spacconel mezzo, porta baffi con pinzo, armatodi doppietta con revolver e ventriera, ilquale approssimatosi alla Caporali Naz-zarena la incominciò a percuotere con lecanne del fucile e calcio di cui era armatocausandole le seguenti contusioni:...”.Segue la descrizione minuziosa di unpestaggio che per quasi un mese lasciòla donna una maschera di lividi alla fac-cia, alle braccia e alla schiena, dopodi-ché il verbale ci spiega: “Il fatto accadevaperché la Caporali Nazza rena, che annior sono era una druda del detto Domeni-chino, in seguito poi si ritirò e misesi afare la confidente con la Stazione di Cani-no per far catturare il noto Brigante, e que-sto mentre la percuoteva: “E’ qualchetempo che sono nella macchia a scoprirticol cannocchale del movimento che face-vi. Ora prendi queste, così un’altra voltaandrai a fare la spia ai Carabinieri”.Al fatto assistettero almeno tre contadi-ni di Cellere ma nessuno ebbe il coraggiodi intromettersi, sicché “il latitante dopoaver percosso la donna prese la direzione

del fosso denominato Strozza Volpe confi-nante col bosco della Selvicciola”.Per quando vennero a saperlo, i nostricarabinieri Gianni e Giroldi non potero-no essere sul posto che nella mattinatadel giorno dopo. Mobilitarono anche icolleghi di Canino, insieme ai quali simisero... “in appiattamento nella mac-chia della Selvicciola fino alle ore dueantimeridiane del giorno sedici, ma tuttoriuscì senz’esito... L’arma di questa Briga-ta - conclusero però - continua alacre-mente le indagini per la cattura del predet-to malfattore...”.Intanto ad agosto denunciarono perl’ennesima volta la Nazzarena per manu-tengolismo in correità con altri tre celle-resi: i fratelli Nicola e Domenica Paoletti, eil marito di questa Filippo Ottoni dettoStuppino: “per essere i medesimi in strettarelazione con i latitanti già noti Tiburzi eBiagini, e principalmente le donne, chesono anche drude dei medesimi latitanti...”.La stessa accusa di manutengoli e favo-reggiatori è rivolta ai fratelli minori delbrigante, Paolo e Giovanni, che nono-stante una precedente ammonizione delpretore di Toscanella del dicembre 1874perché “sospetti in genere di manutengo-lismo ai malfattori, [...] continuavano unavita sospetta e dedita al manotengolismoa malviventi”. Di Paolo, in particolare,riferivano che “... si occupa anche in lavo-ri campestri e il vitto lo procaccia col lavo-ro, ma bisogna però sapere che da circadue anni or sono [lo scritto è dell’8 luglio1877] ha fatto degli acquisti contro le suefinanze coll’accaparrare dei majali, caval-li, ed io sarei perciò del parere venissenuovamente vincolato della nuova sorve-glianza, giacché la fede pubblica ritieneche abbia qualche relazione col suo fratel-lo Tiburzi Domenico detto Domenichi-no...”. Per un terzo fratello, Alessandro,pure proposto dai carabinieri per unaseconda ammonizione, fu segnalatoinvece che “fin dal Luglio 1876... cessò davivere”. E’ appena il caso di ricordare cheentrambi i fratelli - insieme al figlio diDomenichino, Nicola, e alla famiglia ac -quisita di questi - furono arrestati e con-dannati nel famoso processone del 1893contro manutengoli e favoreggiatori,anche se all’epoca la voce pubblica celle-rese, come riferì lo stesso Adolfo Rossi,mentre giudicava ampiamente meritatala condanna, non la giustificava inveceper Giovanni, “che era povero, laboriosis-simo,... non riceveva mai nulla dal fratel-lo Domenichino... [e] da diciotto anni eraal servizio del possidente Andrea Radicet-ti, che ne dice un gran bene”.

Domenico Tiburzi (1836-1896) nell’unica foto che loritrae, da morto, legato alla colonna del cimitero diCapalbio

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“Malviventi domestici”e altroQuesti particolari, che per certi versiquasi ci si aspettava di trovare, sonosenz’altro utili per far luce sull’ambien-te familiare e socio-culturale d’originedel famoso bandito, ma in realtà nonincidono più di tanto sugli standard divita delle comunità e paradossalmentenon costituiscono impedimenti serineppure al mantenimento dell’ordinepubblico. Verbali che sembrano adem-pimenti burocratici, moduli da riempi-re periodicamente, che se per un versocostringono la “forza” a continue perlu-strazioni per poi riferirne ai superiori,dall’altro confermano la sostanziale“tranquillità” della zona.Ad aprile del 1877, per esempio, i soliti“Superiori” insistono per avere notiziesui “catturandi pericolosi” in genere, e ilbrigadiere risponde che “per parte diquesta brigata si fanno continue perlu-strazioni ed appiattamenti onde tentarela cattura dei noti latitanti, ma fin quinon si ebbe risultato alcuno, giacché almomento non si sa ove sogliano far ca -po, e né tampoco si sente la loro com-parsa nel distretto di questa brigata”.Forte della situazione, il brigadiere sispinge anzi ancora in là: “L’assicuro poiche se i medesimi infestassero questiluo ghi non si incontrerebbe ostacolo al -cuno per tentare il di loro arresto”.Non passano due giorni che il graduatodeve assicurare anche i colleghi di Ti -voli che avevano chiesto informazioni:“Significo che il noto latitante TiburziDomenico, detto Domenichino, di anni36 da Cellere, nonché Biagini Domenicodetto Curato d’anni 52, al presentes’ignora ove precisamente sogliono farcapo, ma è cosa positiva che costà nonvi siano, ma bensì per le maremmeViterbese o Toscana”.Il mese dopo c’è un nuovo riscontro aduna richiesta del comando di sezione:“... i latitanti pericolosi sì della Pro vin ciache di altre vicine non si aggirano affat-to in queste località, e ciò ci risulta dallelunghe perlustrazioni ed appiattamentieseguiti anche nei luoghi più reconditi diquesto distretto, ad eccezione però delPastorini Davide [che] vuolsi facciacapo nei Monti di Castro”.

Sennonché in una matura visioned’insieme della società dell’800 - inquella stagione e in questo contestoterritoriale - andrebbero correttamentericollocati moltissimi altri episodi che,pur non avendo nulla a che fare conTiburzi, traggono tuttavia nutrimento

dallo stesso retroterra e sicuramentecostituiscono altrettante chansons degeste capaci di mettere a rumore lapovera vita di paese.La nostra stazione carabinieri, peresempio, si era appena costituita chedovette muovere al completo e in tuttafretta in direzione di Tuscania. “...Dires-si per quella volta - scrive il brigadiere -facendo nel contempo avvertito il briga-diere di Toscanella, che a sua volta sidiresse per quella località [le Mandre]ove supponevasi esservi genti armate.Dalle perlustrazioni ed appiattamentifatti per addivenire all’arresto dei mede-simi, riuscirono senza frutto, solo venne-ro a sapere che la comparsa fu piuttostosimulata che reale”.Erano i primi di agosto 1876. Cinquemesi dopo, e precisamente la sera del30 gennaio 1877, il facoltoso proprieta-rio terriero Pietro Sante De Carli conse-gnò al brigadiere una lettera minatoriafattagli recapitare da tre sconosciutiarmati. Nella nostra caserma si trova-vano in quel momento anche il coman-dante e un carabiniere della stazione diToscanella, che appunto si erano giàmossi a seguito di alcune avvisaglie.Compagnoni prese altri due suoi cara-binieri, due guardiani particolari e laguardia comunale, e in otto si recaronoimmediatamente alla tenuta di Marano.Era qui che gli sconosciuti avevanoconsegnato la lettera ad un pastore delDe Carli con l’ingiunzione di portarla al

suo padrone. “Giunti un chilometrodistanti - racconta il brigadiere - fu divi-sa la forza in due pattuglie, e dato assal-to in un casino rurale dove si sospettavache fossero rifugiati, quindi in altrecapanne adiacenti, ma tutto invano...Potei sapere da qualche pastore cheerano da quei luoghi partiti da circaun’ora. Pur non ostante fu ricercato perogni grotta, macchia o luogo qualunqueche potesse rifugiarli. Si seppe ancorache era probabile che avessero presoper la via di Capodimonte o Marta, maperlustrate anche le suddette strade nonfu possibile averne sentore. L’operazio -ne sarebbe riuscita con esito se il dettoDe Carli avesse trattenuto il latore delbiglietto. I predetti malfattori eranoarmati di fucile, s’ignora però se ad unao due canne, incappottati e di staturapiuttosto alta. L’arma continua alacre-mente le indagini”.La scena si ripeté due giorni dopo, lasera del 1° febbraio, allorché i soliti trearmati si ripresentarono al casale diMarano e rispedirono in paese lo stes-so ambasciatore, un garzone ventiset-tenne calato in Maremma da Spoleto,per avere risposta della prima richie-sta. Stavolta De Carli “riteneva in casalo spedito e ne fece avvisato il sottoscrit-to - scrive il brigadiere - che immanti-nente unitamente a due suoi dipendentisi recò in quella località ove fu passatala notte in appiattamento, ma tutto riuscìsenza frutto, giacché da alcuni pastori si

I carabinieri che uccisero Tiburzi nel 1896

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poté rilevare che erano partiti da circaun’ora prima del nostro arrivo, senzasaper la presa direzione. Dei medesiminon si possono dare esatti connotati,giacché sono inviluppati con grossi man-telli che ricoprono fino a metà del volto,e non si può neanche precisare se sianoarmati di revolver o fucili. E’ poi da rite-nersi per fermo che sono malviventidomestici, e non già i noti Biagini, Tibur-zi etc. (come supponevasi)”.Mentre fa sorridere la definizione di“malviventi domestici” - che ovviamen-te non sta per “addomesticati” ma per“robetta di qui”, ossia non si trattavadei big del momento - va aggiunto checome tutti i possidenti di zona PietroSante De Carli non era nuovo a similivicende. Diciamo anzi che aveva impa-rato a conviverci, valutando di volta involta quando cedere e quando tenerduro. In un articolo pubblicato sullaLoggetta del gennaio 2000, BonafedeMancini riferì che anche tra il dicembre1869 e il marzo 1870 il De Carli era statopiù volte oggetto di grassazione eminacce da parte di sbandati raminghi,mentre Alberto Porretti ci ricorda cheanche tra il 1874 e il 1875 era stato vit-tima di ruberie ed estorsioni con lette-re minatorie da parte dei famigeratiDavid Biscarini e Vincenzo Pastorini, intransito per queste campagne. De Carlia volte se l’era cavata con poco e avolte ci aveva rimesso parecchio, men-tre uscì indenne dall’ultima che trovia-mo riferita nei nostri verbali: una tenta-ta estorsione da parte di uno scono-sciuto armato di doppietta e pistola,presentatosi al suo casale delle Mandrenella mattina del 30 giugno 1877. Alcasale c’era solo la moglie del fattore el’uomo le chiese di preparare 250 lire,che lui avrebbe mandato a ritirare daun’altra persona riconoscibile da unfazzoletto rosso. Più tardi la donna rife-rì al marito e questi a sua volta venne inpaese a raccontarlo al padrone, che perparte sua non volle mandare niente. Ilgiorno dopo l’uomo venne, ma saputodalla donna della reazione del padrone,“andò subito [via] senza proferirealcuna parola”. L’in domani arrivaronocome al solito i carabinieri di Piansanoe Toscanella, perlustrarono tutte legrotte delle mandre adiacenti ma nontrovarono tracce e non riuscirono asapere neppure quale direzione i duesoggetti avessero preso.Andò peggio a due butteri al servizio diDomenico De Parri - all’epoca sindacodi Piansano - in servizio nei terreni disua proprietà alla Macchia di Marta.

Antonio e Biagio Rocchi, padre e figlio,erano appunto al casale di quella tenu-ta quando nel pomeriggio del 12novembre 1877 si videro presentaredue sconosciuti armati che gli intima-rono di farsi consegnare 500 lire dalloro padrone. Il figlio venne subito aPiansano con l’ambasciata ma tornò alcasale a mani vuote, perché De Parrinon volle dargli un soldo. L’indomaniarrivarono i carabinieri e che cosa fece-ro? Arrestarono i due butteri comemanutengoli!: “per aver questi ieri seraparlato con i due suddetti malfattori fuoridel casale...”!

In una situazione simile c’è da capireanche la tentazione di imitare i “grandi”nelle imprese banditesche. Ne trovia-mo un esempio anche nei verbali cheabbiamo sottomano. Nel novembre del1876 un certo Serafino Merlo, contadi-no quarantenne nativo di Piansano madimorante a Pianana (come da noiviene chiamato il piccolo borgo di Pia-niano, frazione di Cellere), costringen-do all’impresa anche un suo garzonemarchigiano, rubò due alveari al curatodel luogo, don Vincenzo Danti. A di -spetto dell’abito che indossava, questinon era neanche lui uno stinco di san -to, e anzi era piuttosto notorio il suosostegno pieno a Tiburzi e compagni.Gli stessi nostri carabinieri riferivanoche il prete “ha tenuto sempre condottariprovevole su tutti i rapporti” e che, ap -punto, “più di tutto si è distinto comemanutengolo di latitanti, [e] come tale èritenuto dall’intera popolazione”. Co -mun que sia, il danno di questo furto siriduceva a una trentina di lire e tuttosommato la questione si sarebbe potu-ta anche ricomporre, ma mentre l’in -colpevole garzone fu subito arrestato,il Merlo si dette alla latitanza e rimaseuccel di bosco (è il caso di dire) alme-no per tutto il tempo di cui si occupanoi verbali, e cioè fino all’estate del ‘78. Fuvisto in giro armato di doppietta e pi -stola e vanamente ricercato con alme-no tre mandati di cattura: prima delpretore di Toscanella; poi del procura-tore di Viterbo a seguito della condan-na in contumacia ad un anno di carce-re, e infine del giudice istruttore di Vi -terbo per l’incendio di una capannadello stesso don Danti, che il Merloaveva portato a segno per ritorsione lanotte tra il 25 e il 26 marzo 1877. Ma lui“non si poté rinvenire - scrivono i cara-binieri - Solo venne a nostra conoscenzache siasi rifugiato nelle campagne tosca-ne, e precisamente in territorio di Orbe-

tello”. In quel paio d’anni una volta fuincontrato anche dalle parti del casaledi Sant’Anna insieme con un altro indi-viduo ugualmente armato, e al di là del-l’esito della sua avventura fa riflettere ilritratto complessivo del soggetto: “ ...persona dedita ai furti ed ai ferimenti, emanutengolo di briganti, come moltevolte si esternò con diversi di quei terraz-zani, che per esso la vita del brigantesarebbe stata la migliore... e al di lui gar-zone Santini giornalmente ripeteva cheesso un giorno o l’altro voleva darsi allamacchia”.Tentazioni incomprensibili, con i para-metri di oggi, ma evidentemente latenti,nella società di allora. Nel dicembre del‘77 i nostri carabinieri ancora andavanoricercando un contadino trentacinquen-ne del luogo, certo Fabrizio Gui dolotti,che nel marzo precedente aveva ru batoa Toscanella un cappotto e un agnelloed era stato condannato in contumaciaa tre anni di carcere dal tribunale diViterbo. Era sparito da casa da febbraioe correva voce che si fosse rifugiatonelle campagne di Civitavecchia. Un esempio invece di latitanza “abboz-zata”. Una mattina di gennaio di quel-l’anno, per le solite stupidaggini vengo-no a diverbio due contadini incontrati-si al monnezzàro. Finché uno dei duetira fuori il coltello e scorre il sangue.Dopodiché il feritore scappa senza unameta e i carabinieri dietro a tentoni perle campagne, per tutto il giorno. E’ giànotte quando alla Piantata gli riesce diintravederlo in lontananza attraversareun viottolo. Quello se ne accorge efugge precipitosamente. I due carabi-nieri devono corrergli dietro e catturar-lo a forza.E per finire, un gesto semplicementeincomprensibile, una latitanza “evita-ta”: alle sei di mattina del 29 marzo diquello stesso anno un certo GiuseppeMartinelli, contadino quarantenne,insieme con una figlia sui diciotto annisi piazza in mezzo alla strada all’altezzadella Fienilessa e ferma un carrettiereche da Toscanella va a Valentano.Tenendo il cavallo per le briglie “prepo-tentemente ruba dal carretto un sacco dipanno bianco del valore approssimativodi £. 4”. Quindi congeda il carrettiere ese ne va. Il carrettiere si presenta subi-to ai carabinieri e questi vanno a casadi Martinelli, dove trovano la moglie. Laquale dice che il marito è in campagnaa pascolare il bestiame ma che il saccorubato è lì in casa e che quindi se lopossono anche riprendere. Cosa che ilderubato fa ponendo fine alla vicenda

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(a parte l’iter burocratico della denun-cia). E uno si chiede: ma che sensoaveva quella rapina? E se Martinelli,inseguito dalla forza pubblica, si fosseimpaurito e gli fosse venuto bene di farperdere le tracce? O se invece, scoper-to, avesse opposto resistenza? Oppure,se la vittima avesse reagito e ci fossescappato il sangue? Si può mettere arepentaglio sia pure quel poco che siha per una sacchetta “del valoreapprossimativo di £. 4”?Evidentemente “la vita umana non con-tava molto - come scrive lo stesso Al -berto Porretti - destinata com’era ades sere trascorsa - brevemente, a causadelle malattie più varie e della scarsaalimentazione - all’impronta di fatichedisumane, tanto per sopravvivere. Sic-ché per un nonnulla la si giocava sullapunta del coltello... La naturale propen-sione alla violenza albergava un po’ovunque nei nostri paesi, e tale da far sìche ogni settimana dai comuni dell’exprovincia di Viterbo venivano segnalatial sottoprefetto reati di sangue con fre-quenza impressionante, degli omicidigenerati anche da futilissimi motivi... Sipensi solo che i reali carabinieri chevenivano destinati a servire nellanostra ex provincia erano praticamen-te puniti, costretti com’erano a staresempre all’erta su due fronti: quello deirissosi cittadini pronti a spargere delsangue, e quello di coloro che, avendorotto ogni legame con la società, sierano dati alla macchia e costituivanoun altro grosso problema”.

Le popolazioni

Il banditismo conclamato, anche nelleversioni ridotte di generico fuoriusciti-smo e vagabondaggio armato, era dun-que l’aspetto più clamoroso di unasituazione di degrado - culturale, eco-nomico-sociale, morale - che interessa-va per intero le nostre campagne. Eanzi il fenomeno nelle sue forme piùappariscenti non si spiegherebbe senzaun substrato che ne avesse contenutotutte le potenzialità. C’è poco da sentir-sene offesi (come curiosamente ancoracapita): la realtà dei nostri paesi erafatta anche di continue sopraffazionitra poveri, danni campestri e furti divario genere, miserie, odi selvaggi, vio-lenze istintuali con ferimenti e omicidi.Il “miracolo” è un altro: la sostanzialerefrattarietà delle masse contadine alletentazioni “ribelliste” e criminose. Mag-gioranze timorate e fataliste che hannopaura e aborrono il brigantaggio, lovivono come una “presenza” immanen-te, come l’ingiustizia, la disuguaglianza,il male insito nella condizione umana.In una parte recondita della coscienzac’è anche qualcosa come un rigurgitodi giustizia distributiva: una volta tantoun miserabile fa paura a chi comanda!“Jé le dà lue...!”. Tale da alimentare unamitologia popolare ingigantita e com-piaciuta. Ma loro, le popolazioni adusealla fatica del sopravvivere quotidiano,cresciute in simbiosi con il succedersiimmoto delle stagioni, forgiate all’ac-cettazione da secoli di sottomissioni e

rassegnazione cristiana, non attente-rebbero mai alle leggi umane e divine.La deriva malavitosa è lì, insita e paral-lela, ma anche distante: dalle speranzemiserabili di tutti i giorni, dagli affanniordinari, la quotidianità di superstizio-ni e pratiche religiose, i bisogni prima-ri, il mutualismo tra poveri che eranol’anima del mondo contadino. Il brigan-taggio è nella storia di queste popola-zioni, ma non è la loro storia.E’ vero, non c’era alcuna coscienzapolitica. Sempre i nostri carabinieri,strumento occhiuto dell’establishment,periodicamente informano i superioriche nell’area di loro competenza “nonesiste alcun Comitato del partito Interna-zionale”; oppure che “non si è a cogni-zione che esista alcun partito Repubbli-cano o che si stia per formare”; che “nonesistono associazioni cattoliche e nétampoco si conservano documenti rife-rentisi alla detta associazione”; o infineche “non esistono socialisti tendenti alpartito rivoluzionario” e “non vi è alcunabbonato a giornali del l’Internazionale”.Il rapporto sulle elezioni amministrati-ve dell’aprile 1876 è esattamente con-seguente: “Nel Comune di Cellere nonhanno avuto colore politico, ma mera-mente amministrativo, perché sonopochi quelli che sono alla portata dispiegare il vocabolo politico... Trattan-dosi di un piccolo Comune disgraziata-mente vi regna ignoranza ed è perciòche non si può parlare né di colore né dilotta. Riguardo poi al Comune di Piansa-no non vi è stata lotta di sorta, e gli elet-ti sono stati riconfermati quelli deglianni antecedenti, ed il colore di questi,tranne il Sindaco, del resto tendono tuttial partito clericale”.Vi era anche, nelle popolazioni, ostili-tà/disprezzo neanche troppo velatoverso le forze dell’ordine, considerateappannaggio di servi e scansafatiche,cani da guardia e spie del potere. Signi-ficativa è un’informativa di questa sta-zione al comando di sezione di Monte-fiascone: che per quanta propagandafosse stata fatta tra i militari in congedodel posto,... “facendosi molto conoscerei vantaggi che avrebbero prestando ser-vizio nell’Arma, nessuno però ha mo -strato desiderio arruolarvisi”. Del resto ènoto il detto, arrivato intatto fino a noi,che “chi ‘n cià voja de lavora’ / sbirro ofrate se va a fa’”, ereditato forse dallaprecedente cattiva fama di sbirraglia eclericame d’epoca pontificia ma mante-nuto anche come discrimine da chi“tradiva” il destino faticoso dei senza-terra. Ed altrettanto noto è che fino

Famiglie contadine al completo nei lavori della trebbiatura (inizi ‘900)

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all’altro ieri era ancora presente quellainsofferenza anarcoide e selvaggia cheportava a dire: “Le carabbignère?!: Unope’ albero!”, a significare “impiccàti aitigli del viale Santa Lucia”!!C’era incomprensione sorda, lo abbia-mo visto, verso questo nuovo Stato cheimponeva tasse e regole inusitate, arri-vato come un terremoto a cambiarementalità e abitudini secolari ma nelquale i “possidenti” di ieri erano glistessi di oggi. Ci sarebbero voluti de -cenni per capacitarsi dell’enorme sfor-zo pubblico di costruzione di unacomunità nazionale su basi nuove: del-l’insistenza per mandare i figli a scuola,con maestri pagati dal Comune; dellapresenza fissa in paese di questi nuoviuomini armati, a controllare in lungo elargo il territorio; dell’obbligo di pre-sentarsi in municipio anche per nasce-re e morire, o della necessità di trovareun posto fuori dalla chiesa per seppelli-re i morti. Qualcosa ci doveva sicura-mente essere, in questo nuovo ordine,se nel consiglio comunale si ardivaaccennare alla necessità di fare qual-che passo con quell’Innominato delconte Cini per gli usi civici e la conces-sione di terre incolte; se anche i mag-giorenti venivano forzati a preoccupar-si di sistemare le strade con i paesi vici-ni; se trapelavano voci su concorsi peril posto del medico, esortazioni dall’al-to al risanamento igienico e all’ammo-

dernamento urbanistico del paese...Era l’“Italia”, questa cosa strana ched’un colpo aveva cancellato l’anticopotere dei preti e parlava di leggi e diNazione e di civiltà; l’“Italia”, la nuovagrande “Patria”, che tuttavia risultavaodiosa per le nuove pesantissime cor-vées, incomprensibile con i suoi mitiborghesi e forse perfino inimmaginabi-le nei suoi confini geografici. Quella gente si sottomise perché nonsapeva fare altro. Ma non deflagrò nelrifiuto delle regole, per una più fortelegge morale che è il patrimonio piùgrande dell’anima contadina. Una supe-riore certezza etica, disarmata e invin-cibile come una forza della natura, chele deriva dal panteismo pagano primaancora che dal cristianesimo. E’ la mil-lenaria civiltà della terra, la stessa cheha consentito alle genti contadine disuperare secoli di avversità. Magarisoccombendo e rinascendo ogni volta.Come le stagioni, le maree, le fasi luna-ri, con l’umiltà e la tenacia quasi ottusadi chi s’adegua ai cicli cosmici. E con-fondere il mondo delle campagne con ilbrigantaggio, accomunarvelo, significatradirlo. Quelle popolazioni non capi-vano il nuovo Stato ma non potevanonon ripudiare nell’intimo quelle formeestreme di negazione del sentire comu-ne e dei codici della vita aggregata. Unostrappo, un cupio dissolvi che nonavrebbero avuto la forza né la volontà

di affrontare. L’uomo della terra è unuomo “d’ordine”, “di armonia”. Gliesempi gli vengono dal mondo nelquale è immerso, e ad un livello pocopiù su di coscienza egli si sente perfinoingranaggio infinitesimale dell’operaincessante della creazione. Il banditi-smo era invece una strada senza uscita,una pianta avvelenata che non potevadare se non frutti mortali, destinata afinire anzitempo. Il campagnolo se latrovava in casa perché solo nel suohabitat quella malapianta poteva attec-chire e sperare di sopravvivere, marimanevano mondi paralleli e inconci-liabili.Non è dunque un caso che le popolazio-ni dei nostri paesi, alla fine, siano scam-pate ad un fenomeno diventato nel frat-tempo mafioso, col pizzo regolarmenteriscosso dai proprietari, omertà diffu-sa, generosità con i fiancheggiatori epunizione di spie e traditori. Non è uncaso che con la loro resistenza passivaabbiano concorso più o meno inconsa-pevolmente all’estirpazione di un anti-Stato mimetizzatosi nella loro terra econ i loro stessi panni. Così come non èper caso che gli sono sopravvissute. Ementre quello scompariva più o menocol finire del secolo, per le genti conta-dine si sarebbe aperta una stagione ditrasformazioni straordinarie, secondotutt’altro disegno e nei tempi lunghidella storia del ventesimo secolo.

In questa pagina, due eccezionali e drammatiche immagini, già apparse nella Loggetta,delle invasioni contadine delle terre di Mezzano (Valentano) del 1908

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Poco altro ci sarebbe da aggiun-gere sulla vicenda del rapimen-to Colesanti rispetto a quantodetto in quel libretto edito nel

1981 da Antonio Mattei, Brigantaggiosommerso, indispensabile e unico ma -nuale della materia, che meriterebbeoggi, trent’anni dopo, una seconda e -di zione “riveduta e ampliata” e magarianche corredata da un indice dei nomie dei luoghi. Possiamo ora solo accon-dire la storia con qualche documentoin più ricavato direttamente dagli in -cartamenti del processo.Ripercorriamo la vicenda attraverso leparole del protagonista, Cosimo Cole-santi di anni 43 nato e domiciliato aBagnorea possidente e letterato, depo-ste il 30 settembre del 1874:

“Ieri mattina io mi sono portato allamia possessione delle Rocchette perfare le consegne del bestiame dalrestante socio Angelo Scorsini dettoPecoraro al nuovo soccio DomenicoCeccobello detto Cavicchia. Eseguitatale consegna andai ai poggetti di Cel-leno con Damiani Giuseppe e poi a Val-lemanna dove ci siamo riuniti con Van-nazzotti Augusto per restituirci allecase nostre. Strada facendo sulla stra-dale che da Bagnorea mette a Celleno,alle ore tre pomeridiane circa siamogiunti al podere Sterpeti e precisamen-te alla macchia Boccacino che fa partedel podere la Magione, quando fummoaggrediti da due individui armati checi intimarono il “fermo faccia a terra”.Smontai da cavallo e mi gettai perterra come fece il Damiani ed il Van-nazzotti Augusto se ne andò per i fattisuoi come gli venne ingiunto dai bri-ganti. Io col Damiani venni trasportatonella macchia Bocaccina ove mi fecerola richiesta di sette mila scudi se vole-vo ottenere la libertà. Uno dei malfat-tori mi diede mezzo foglietto di carta emi fece scrivere ai miei parenti larichiesta di detta somma che eseguiicon lapis. Il Damiani venne spedito aprendere la somma richiesta e gli fu

indicata la strada che doveva tenereper incontrarci, ma io non potei saper-lo perché non mi fecero udire. Dallamacchia di Bocaccino fui condotto perfossi macchie e dirupi fino alle Ferrieredelle Ripone e da questo sito [...] giù inlocalità che non saprei descrivere e mifecero entrare in una grotta nellaquale stetti più ore finché fui rilasciatoverso l’una [...] essendo giunta laseconda spedizione del denaro richie-sta dai briganti. Non so però qualesomma sia stata pagata pel mio riscat-to. Fino alle Ripone fui scortato sola-mente dai due briganti dai quali fuiaggredito e stetti fin quasi verso seranotando però che uno dei briganti erascomparso. Durante l’assenza di que-sto venne un terzo individuo armatosolamente di bastone che prendendo-mi mi condusse nella grotta [localitàMadonna del Nespolo tra Roccalveccee Castel Cellesi]. I due briganti che miricattarono erano bendati al voltoindossavano capotto oscuro che licopriva fino al ginocchio, portavanostivali, capello alla villica pure nero,come oscuro era il fazzoletto che libendava. L’uno portava fucile a duecanne ed era il più alto di statural’altro non rammento bene se avessefucile ad una o due canne. Questo poiera più basso di statura. Io assoluta-mente poi non ho riconosciuto nél’uno né l’altro dei briganti perchésempre mi si presentarono bendati.L’individuo che si presentò quandostava fermo alle Ripone come dissiaveva un grosso bastone, portavasulle spalle una sacchetta di nappabianca, vestito alla villica con calzoni egiacchetta oscuri, cappello nero. Ionon ho potuto vedere se questo terzoera bendato o meno perché sempre micamminava avanti. Era però di staturabassa e nulla potrei dire relativamentealla sua età né circa quella degli altridue briganti. Quello armato di bastonedopo avermi condotto alla grottascomparve e non lo rividi più. Questagrotta è situata in bassa posizione vici-

no al fosso grande delle Ripone adistanza dalle stesse di circa cinquechilometri [...]. Partita la guida dellasacchetta bianca restò a mia guardia ilbrigante più piccolo di statura mentrel’altro si era allontanato. Sul bigliettoio scrissi a mio fratello queste parole:Carissimo fratello! Mandate 7000 scudi,e lo riconosco per quello che simostrò [...].

Il Colesanti fu rilasciato verso le ore 3antimeridiane. Alla fine la sommaestorta sarà di 13.700 lire. Don NicolaColesanti, fratello di Cosimo, dice:“Non tutti i soldi del riscatto l’avemmoin famiglia, fummo quindi costretti aricorrere ai nostri amici fra i quali ilconte Filippo Venturini, il marcheseGiuseppe Gualterio ed il sig. LeoneMarini”. Durante il sequestro Cosimo viene

Cosimo Colesanti nasce a Bagnoregio il 28 luglio del1831, figlio di Settimio e di Carolina Salvatori. Hacinque fratelli, due dei quali sacerdoti. Nel 1865sposa Giulia Gualterio, dalla quale avrà sette figli. Nelsuo necrologio è scritto: “O Dio misericordioso acco-gli nel tuo regno l’anima cristiana di Cosimo Colesan-ti che nell’ombra della più cara modestia occultandoelette virtù, dal 28 luglio 1831 al 29 gennaio 1916,visse padre e sposo affettuoso cittadino integerrimoinvitto al dolore”.

Bagnoregio

Il rapimento Colesanti 29 settembre 1874

Luca Pesante

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derubato di un orologio “ad ancoracon quindici rubini della fabbrica Bor-dier di Ginevra con latta e galotta diargento con cristallo doppio modernocon mostra indicante oltre lo ore anchei minuti e secondi”.I tre briganti coinvolti nel rapimentoColesanti sono Antonio Dobici di 32anni muratore di Viterbo, MartinoCocciola di 39 anni contadino di CastelCellesi e Andrea Pecci di 38 annianch’egli di Castel Cellesi, ben notipersonaggi della malavita viterbese. IlCocciola, ad esempio, è coinvolto nel-l’ottobre dello stesso anno nell’omici-dio del brigadiere Luigi Bocchini diBagnoregio, nel tentativo di estorsionedi denaro nei confronti del conteLodovico Bufalari e di Antonio Gori diCastiglione in Teverina.In alcuni passaggi degli interrogatoripare che l’idea del sequestro fossenata tra i coloni stessi del Colesanti.Dall’esame di Giuseppe Quintarelli

apprendiamo che: “Angelo Scorsinicontinuamente sottraeva maialetti eagnellini nel podere delle Rocchette delColesanti. Il C. lo rimproverò e si deter-minò di lincenziarlo dal podere che rite-neva a colonia con il fratello Domeni-co. Angelo si dispiacque dei rimproverie continuamente si lamentava delpadrone dicendo che era un prepotente,un birbone. Tali imprecazione crebberofuori di misura dopo il licenziamento,tra le altre espressioni: “cento per meuna per lui”. Intendendo dire con ciòche Colesanti aveva fatte cento cattiveazioni a lui e che egli gliele voleva fareuna sola ma tale da superare tutte lecento”. In effetti lo stesso Cocciola dichiarache il sequestro fu combinato “alcunigiorni avanti con un contadino diBagnorea che conosco solamente avista e con cui mi incontrai in un terre-no del Colesanti in contrada fosso diSociano verso la Molinella dove eglilavorava, venuto il discorso egli midisse che questi era un uomo ricco e chefra giorni sarebbe andato alle Rocchettea fare la consegna del bestiame alnuovo colono. Due o tre giorni primadel sequestro mi incontrai con quest’uo-mo nello stesso luogo a cui dichiaro cheil Colesanti sarebbe andato in settima-na alle Rocchette ed io gli proposi diesguire il sequestro promettendogliparte del denaro ottenuto, cosa che egliaccettò”.Non è da escludere dunque che quel“contadino di Bagnorea” con cui si

combinò il sequestro fosse proprio ilcolono Scorsini o qualche suo paren-te. Il 26 dicembre del 1874 lo Scorsiniviene fermato a Orvieto e arrestatosubito dopo aver cambiato un bigliet-to da 1000 lire della Banca Romanapresso il macellaio orvietano Urbani. Ilbiglietto proveniva dall’estorsioneColesanti.Del resto è questo il parere dello stes-so Colesanti che 10 giorni prima avevadichiarato: “Io persisto nel ritenere cheil mio sequestro personale sia stato pre-ordinato dai malfattori e non possaessere stato effetto di un casuale sini-stro avuto con i medesimi anche per ledichiarazioni fattemi da uno di essi siariguardo al colpo che volevano tentarea carico del mio fratello don Nicola tregiorni prima allo stesso sequestro, siaper le manifestazioni fattemi intornoalla vertenza da me avuta con i mieicoloni Angelo e Domenico Scorsini iquali soli poterono dare indicazioninecessarie per eseguire il sequestrostesso. Il Cocciola non ha voluto palesa-re gli stessi coloni, suppongo che loabbia fatto per non danneggiare i mede-simi”. Don Nicola racconterà in tribu-nale di una singolare coincidenzaaccaduta domenica 27 settembre, duegiorni prima del rapimento del fratel-lo: “alle ore sette a.m. giunsi nella chie-sa parrocchiale del Vetriolo per celebra-re la messa, prima di ripartire vididavanti alla chiesa il mio soccio delleRocchette [...]”.

Cosimo Colesanti e Giulia Gualterio

Don Nicola Colesanti

Teofilo Colesanti arcidiacono

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Fumetta e Bustrenga, all’anagrafe rispettivamenteGiovan Paolo Grossi (Valentano 1807-1842) e Dio-nisio Costantini (nativo di Villa delle Fontane),sono i briganti più noti di Valentano. Alcune delle

loro criminose imprese, alle quali si associò il toscanoMarintacca, sono narrate in un interessante volumetto daltitolo Il brigantaggio nel Viterbese, stampato a Valentanonel 1893 dalla tipo-litografia Indipendente. L’amico Ro -mual do Luzi ha riconosciuto in Guido De Angelis, procura-tore legale e proprietario anche della tipo-litografia, l’a -nonimo autore del saggio biografico sui più famigerati bri-ganti dell’area castrense. Con l’aggiunta in appendice di Larisposta dell’anonimo di Gradoli del 1893, il volume è statoriproposto nel 1993 da Scipioni Editore a cura di AlfioCavoli. Nello scritto, le notizie su Fumetta e i suoi due com-pari sono ampie, in particolare quelle riguardanti la suauccisione (la sera del 27 gennaio 1842) da parte degli agen-ti dell’ordine che provvidero anche ad esporre il cadaveredel terribile brigante sotto il palazzo del Governo di Valen-tano. Approfondite ricerche d’archivio hanno consentito diaggiungere nuove informazioni intorno ai due briganti diValentano e di certificare, per la prima volta, l’esistenza diun altro malavitoso rimasto finora sconosciuto nella purvasta letteratura. Per Fumetta, Bustrenga e Giovan BattistaMalintacca le carte della prefettura di Orte precisano chei tre briganti risultavano evasi dal carcere di Valentano edi Pitigliano e che sul loro conto, il cardinale per gli Affaridello Stato Pontificio, in data 5 gennaio 1842, aveva spicca-to una taglia di 100 scudi per la loro consegna alla giusti-zia. Premio che il successivo giorno veniva esteso di 20zecchini anche dal vicario regio in Pitigliano per ciascunodei tre compari consegnati. La geografia fisica e politica diquesto lembo di terre dell’Alta Tuscia viterbese, unaenclave laziale dentro la Toscana e l’Umbria, ci aiutameglio a comprendere il frequente sconfinamento di mala-vitosi, contrabbandieri, banditi, briganti…, da uno statoall’altro per sfuggire alla giustizia. Da ciò, fin dal medioe-vo, le azioni congiunte da parte delle autorità giudiziarielocali per contrastarne i movimenti e gli sconfinamenti. Oltre ai famigerati Fumetta e Bustrenga le carte della Dire-zione Provinciale di Polizia ci hanno rivelato anchel’esistenza di Agostino, o anche Giustino, Petrucci, unmalavitoso di Valentano la cui attività criminale si èmischiata a quella dei moti per l’Unità d’Italia. Evaso dalcarcere di Ostia nel 1859, il Petrucci si rese latitante neiterritori di Onano e di Acquapendente dove “disfrenavasiad ogni sorta di delitti, sostentandosi di rapine ed estorsio-ni” terrorizzando le popolazioni di Lazio, Toscana eUmbria fino al 1867, anno della sua uccisione dopo ladelazione ad opera del suo compare di malaffari.

ValentanoBonafede Mancini

Valentano, carcere mandamentale (“la Zi’ Peppa”), demolito nel 1984(foto di Giovanni Ciucci, novembre 1984)

Il Petrucci, che alcune fonti denominano l’assassino onane-se, più correttamente era nato a Valentano il 4 gennaio

1835 da Domenica Cerratella e Giovanni Battista Petrucci.

L’atto di battesimo nella chiesa collegiata di San Giovanni

Evangelista ne registra i tre nomi di Giustino, Giuseppe,

Agostino. L’onomastico di Agostino, o di Giustino, è verba-

lizzato dalla polizia già negli elenchi degli esiliati politicidella provincia di Viterbo. Con il suo doppio onomastico il

Agostino Petrucci:il brigante fante

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nostro brigante ha voluto celare, o confondere, la propriaidentità alla polizia che lo ha indicato anche col sopranno-me di Garibaldi.La presenza del Petrucci in Onano è registrata già il 19maggio 1860, quando il brigante si unì alla colonna deivolontari garibaldini di Callimaco Zambianchi che si scon-trò a Grotte di Castro con i gendarmi pontifici di A. Pimo-dan. Nei mesi seguenti fu tra i volontari della Lega deiComuni che, nella notte tra il 25 e 26 novembre 1860, alcomando del capitano Riccardo Bousquet di Onano, deltenente Giuseppe Montanucci di Bolsena e di GiuseppeBaldini di Valentano, assalirono la caserma dei gendarmidi Acquapendente per stabilirvi il governo di Vittorio Ema-nuele. Per un colpo di fucile in piena faccia nello scontrorimase ucciso Alessandro Puggi, un ex sergente dei Sussi-diari che si era affacciato alla finestra della propria abita-zione per curiosare. Dopo l’assalto alla caserma dei gen-darmi, arresisi tutti e 17 senza op porre resistenza, all’in-terno del palazzetto si verificò un saccheggio con furti dilenzuola, coperte, banchi di ferro da parte dei volontari edella popolazione. Il capitano Bousquet, prima di ripararein territorio italiano per il sopraggiungere in Acquapen-dente di un battaglione di zuavi francesi, fece però affigge-re un ordine (28 novembre) nel quale l’ufficiale comanda-va che, nel breve termine di quattro ore, dovevano esserericonsegnati tutti i beni sottratti e che: “terminato qual ter-mine si procedrà pei renitenti a seconda delle leggi milita-ri”. Dalle carte della polizia apprendiamo che seinizialmente il Bou squet, Montanucci e Petrucci si erano,ciascuno, vantati di essere l’autore della morte del Puggi,successivamente il crimine venne ascritto a carico delsolo Petrucci.Con il ritorno all’ordine, i capi e gli individui che avevanopreso parte all’insurrezione del calamitoso anno 1860 ven-nero esiliati dallo Stato Pontificio o emigrarono vo -lontariamente per sfuggire al carcere. Allo stesso mododei liberali e dei democratici viterbesi anche il nostro bri-gante riparò in Italia ma “indi a poco, per la sua prava con-dotta, il Governo piemontese lo mandò a confine”, vale adire nello stato ecclesiastico, a conferma del fatto che ilnuovo Stato non intendeva trattare con quegli individuimalavitosi che avrebbero minato la stabilità del nuovoRegno d’Italia.Confinato dallo stato italiano e pontificio, il Petrucci con-tinuò impavidamente le sue scorrerie nelle terre di confi-ne terrorizzandone le popolazioni fino al 14 giugno 1867,giorno della sua uccisione. Il brigante venne sepolto inSanta Maria delle Colonne di Acquapendente, chiesa dovepochi mesi dopo (20 settembre 1867) venne tumulatoanche Giovanni Casella di Parma, il garibaldino dellacolonna del generale Giovanni Acerbi che restò ucciso inAcquapendente nello scontro delle camicie rosse con igendarmi nel fallito tentativo di annessione del Lazio alRegno d’Italia da parte del generale Garibaldi. La tumula-zione del giovane garibaldino accanto al Petrucci volevaessere un chiaro segno di deligittimazione e spregio neiconfronti dei democratici e dei garibaldini i cui motid’insurrezione per l’Unità italiana venivano equiparati adazioni di brigantaggio. Dopo l’annessione del Lazio alRegno d’Italia il Municipio di Acquapendente, nel 1885,volle omaggiare il patriota parmense ordinandone la esu-

mazione e la sua collocazione nel cimitero comunale.Il soprannome di Garibaldi derivava al Petrucci per la suafrequentazione nella colonna garibadina di Zambianchi efra i democratici della Lega dei Comuni. La sua ammirazio-ne per il Generale appare però sincera: al momento dellasua uccisione il brigante aveva un fucile a due colpi caricocon palla liscia e “guarnito di placfon, avendo incisa nellacassa una figura di una testa somigliante al Generale Gari-baldi”. Arma questa che il comandante della gendarmeriaaquesiana, tenente Pietro Settimi, il 19 giugno 1867 richie-se al Delegato Apostolico di Viterbo: “trovandosi egli sprov-visto di detta arma tanto vantaggiosa nel servizio della Gen-darmeria”. Tra le armi in dotazione del brigante al momen-to del loro intervento i gendarmi registrarono anche duepistole, di cui una a due colpi nella giacca, 9 palle a carica,polvere da sparo nella catana.Correttamente è stato rilevato dal nostro direttore An -tonio Mattei che i briganti non avevano una chiara co -scienza politica, si limitarono cioè ad aspettare che la rivo-luzione passasse dalle loro parti per cercare di trarvi ilmaggior loro utile possibile. poiché “in circostanze similianche un delitto comune può apparire come un’impresapatriottica; c’è l’occasione buona per farsi belli agli occhidei vincitori e, con un po’ di fortuna, c’è il caso di ottenereil condono di altri precedenti”. È altresì vero che “i legamidel movimento patriottico col banditismo locale erano favo-riti anche dai suoi protettori, i proprietari terrieri della zona,quasi tutti liberali o mazziniani”. Più in generale i comandimilitari italiani diffidarono di questi volontari e non esita-rono ad allontanarli dalle loro file emettendone circolari dicondanna e di esilio; trattamento che il colonnello LuigiMasi (1860) applicò rigidamente nei confronti di GiovanniMenichelli, il noto brigante di Civitella d’Agliano.La presenza di briganti viterbesi nella colonna garibaldinadi Zambianchi è confermata anche per Alessandro Gavaz-zi, noto malavitoso di Ischia di Castro e associato nelle sueazioni banditesche a Giovanbattista Pasqualini di Cellere,detto Camilletto, e al toscano Giuseppe Boschi. Il Gavazzi,omonimo del più noto padre barnabita amico di Garibaldi,guidò il colonnello Callimaco Zambianchi dal lago di Mez-zano (al confine tra lo Stato Pontificio e il Regno d’Italia) aGrotte di Castro la mattina dello scontro del 19 maggio. Ilprecedente anno, nella notte del 7 luglio 1859, il Gavazziera entrato in Cellere inneggiando alla Repubblica edesplondendo sei colpi di fucile contro lo stemma pontifi-cio. Anche Domenico Tiburzi, prima di divenire il più fami-gerato brigante di Maremma, fu socio dell’AssociazioneCastrense.Per tornare però al nostro Agostino Petrucci, le carte dipolizia dell’Archivio di Stato di Viterbo ci consentono dicompletare le nostre conoscenze circa la sua cattura educcisione, avvenuta nella notte tra il 13 e 14 giungo 1867,dopo un accordo tra il governatore di Acquapendente,conte Pietro Marcelli, le forze dell’ordine e Andrea Casali,socio del più anziano capobanda. L’abboccamento fra lagendarmeria e il giovane bandito onanese, iniziato il 2 giu-gno, venne concluso il giorno 11 dopo estenuanti trattati-ve. Negli accordi era stato concordato che l’operazionesarebbe stata condotta di notte per sorprendere il Petruc-ci nel sonno, e per maggiore sicurezza dei gendarmi ilCasali “nella sera che dovrà tentarsi l’arresto averanno

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bevuto e mangiato fuori dell’ordina-rio”, per rendergli difficoltosa e menolucida la reazione. Dopo che i gendar-mi ebbero raggiunto in località Acero-na (in altre carte si legge Lacerona), ilpodere nel territorio di Acquapen -dente dove il Petrucci ed il Casali sierano fermati per la notte, gli agenti,accerchiati i due briganti che dormi-vano accanto ad un pagliaio, intima-rono loro di arrendersi. Il Casali nonoppose alcuna resistenza, fu anzimolto sollecito nel dichiarare: “Sononelle vostre mani, non mi muovo”. IlPetrucci iniziò invece una collutazio-ne che gli fu fatale, in quanto nel ten-tativo di estrarre la pistola dalla giac-ca fu gioco forza, e per infortunio deigendarmi, esploderli contro due colpid’arma che lo centrarono nella testa enel petto che “fu reso all’istante cada-vere”. Unitamente al Casali, il tenentePietro Settimi e i suoi sei gendarmi(Giacomo Cacciamani, Pietro Carletti,Di Copini Michele, Silviniano Serran-toni, Agostino De Carolis, PietroTestaferri) arrestarono anche quattrocontadini (Pietro Lombardelli e i suoitre figli, Giacomo, Giovanni e Anto-nio), coloni di Angelo Leali “per averdato ricetto” ai due briganti. Il Leali,un noto mazziniano posto anch’essoin esilio, per il tramite del suo agenteGiuseppe Serafini chiedeva che i suoiquattro coloni fossero messi in liber-tà affinché potessero “terminare ilavori di mietitura”.Per la sua collaborazione al Casalifurono annullati tutti i debiti con lagiustizia e lasciato libero. ma “gli fuimposta per Sovrano volere la condi-zione espressa che se il Casali tornassein qualsivoglia modo alla malvivenzadovesse essere inquisito anche sui reatiprecedentemente commessi”. Lo stes-so ministero dell’Interno (10 dicem-bre 1867) pagò la somma di £. 5.000 dipremio da dividersi fra tutti coloroche ebbero parte nella uccisione diAgostino Petrucci. Della taglia rivendi-cò la sua parte lo stesso Casali, la cuiredenzione appariva ora pressochécerta. Il continuo della sua storia ciconsegnerà però un Casali restio anon perdere le sue virtù di brigante,come a dire che il lupo perde il peloma non il vizio. Per evitare di ripeterequanto scritto sul Casali invito perciòil lettore a proseguirne la lettura sullepagine di Onano.

La scarognaD

ice che a nominare il conte Faina portasse scarogna. C’era, e forsec’è, gente che a sentirlo nominare si grattava... laggiù... Oppurefaceva le corna o cercava di toccare le chiavi di ferro in tasca oaltrove. Alcuni, giù nella Teverina erano proprio ossessionati.

Addirittura mi ri cordo che alcuni amici avevano detto al prete di nominar-lo durante la predica e poi stare attento se si fosse sentito qualche tintin-nio di chiave e da dove e da chi. Era una proposta a dir poco orribile. Inchiesa! Durante la predica! Eppure quel prete era tanto fesso che ci provò.Ebbene! Alla nomina del conte non si sentì un solo tintinnio, ma tre o quat-tro, da diverse parti del locale sacro, perciò non fu possibile identificarenessuno. Solo il prete si accorse della sghignazzata di due o tre figuri, glialtri non ci fecero caso anche perché guardavano tutti verso l’altare.Allora il prete si domandò perché. Così andò a frugare in giro fra i vecchie, fatti i debiti scongiuri, ascoltò a brani, anche disordinati, la storia.

Pare che su a Monte Rado, nei dipressi di Bagnoregio, operasse una picco-la banda di briganti. I nomi non se li ricordava più nessuno, però dovevaessere verso la metà del milleottocento e sicuramente qualcuno dei dotticolleghi giornalisti li conoscerà, con i come e i perché. I vecchi racconta-rono solo questo. C’erano i briganti e basta. C’era anche questo conteFaina, ricco, prepotente, oppressivo e di conseguenza, poco benvoluto.Lo rapirono e chiesero il riscatto. Stavano nella riga collinare e si spostavanodi continuo, sia pure di qualche centinaio di metri per non essere sorpresi dai“gendarmi”. Avevano dato al figlio del conte un termine e una somma da por-tare. Il figlio doveva venire da solo, altrimenti avrebbero accicciato il conte.

Come facessero a far sapere le cose agli interessati non si sa. Forse c’eragente che sotto sotto li spalleggiava, forse avevano preso qualche pastoresperso e gli avevano mostrato la fine che avrebbe fatto se non avesse por-tato l’imbasciata. Comunque sia essa arrivò. E i briganti aspettavano.Qualcuno dei vecchi bofonchiava che il figlio del conte fosse “culo e cami-cia” coi briganti stessi fino a promettere molto di più se avesse ereditatotutti i baiocchi paterni.Ecco: i briganti stavano appollati lungo i pascoli che fanno produrre uncacio che... oh, manco in paradiso! Sì, erano lì in mezzo al Grespene, quan-do apparvero i gendarmi con tanto di montura e schioppo, che venivanosu a semicircolo magone magone. Allora il capo dei briganti disse al conte:“Tuo figlio ti vuole morto!”. E gli sparò a bruciapelo nel petto. Prima però,per significare la sua avarizia e rapacità, gli riempirono la bocca; chi dissecon le spighe del grano, chi disse con l’orzo, e magari se il caffè avesseavuto le spighe, avrebbero detto pure quello.

Perciò, dicevano i vecchi, il solo nome del conte Faina porta jella. Uno piùscarognato di lui, cheaveva faticato come unsomaro per ammucchia-re una ricchezza e poiera stato fottuto dalfiglio ed era morto conle spighe in bocca, nonsolo era scarognato lui,ma era pure un portato-re di scarogna, come igatti che, quando hannotroppe pulci, l’attaccano.

Mario Lozzi

Scena di brigantaggio, disegno a matitae inchiostro acquerellato di Gonsalvo

Carelli, conservata nella Biblioteca Reale di Torino

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Il fenomeno del brigantag-gio fu tipico dell’Ottocen-to, e fu per la massimaparte legato alle precarie

condizioni di vita dei conta-dini, trattati come schiavidai proprietari terrieri aiquali vanamente reclamava-no migliore trattamento. Tra questi proprietari ebbe-ro notevole rilevanza nell’or-vietano i conti Faina di SanVenanzo, che molto amplia-rono le loro proprietà graziealle leggi sulla liquidazionedell’asse ecclesiastico, com-prando terre a CastelGiorgio, Torre Alfina, Fi cullee Bolsena. Intorno al periododell’Unità d’Italia, le tenutedei Faina sono amministratedal conte Claudio, partico-larmente conservatore, chesi dedica all’allevamento dibovini, suini e polli, ai qualisembrerebbe dedicare piùattenzioni che non ai conta-dini. Secondo la tradizioneorale sarebbe per questaragione che la sua vita siconclude tragicamente nel1874, anche se ufficialmente

a causa del brigantaggio.Nel volume di Fabio Facchini“La famiglia Faina, tre secolidi storia”, si dice che il 24maggio 1874, mentre tornada Vi terbo, nei pressi diMontefiascone la carrozzadel conte Clau dio viene fer-mata da due uomini armaticon il volto coperto che locostringono a scendere eseguirlo sotto un ponte,insieme ad un notaio cheviaggia in sua compagnia.Sotto il ponte ci sono altridue uomini incappucciatiche ordinano al notaio direcarsi ad Orvieto con larichiesta di 150.000 lire diriscatto da consegnare lastessa notte.Il notaio si reca subito daifigli Clelia ed Eugenio infor-mandoli dell’accaduto, maquest’ultimo riesce a trovaresoltanto 30.000 lire, che con-segna ad un garzone cheincarica di recarsi a Monte-fiascone. Eugenio segue ilgarzone insieme a due cara-binieri travestiti, ma appenafuori Orvieto lo ritrova insie-me a due suoi contadini.Uno di questi ha una bustaconsegnatagli dai rapitoricon un messaggio del conteClaudio e nuo ve istruzioni

dei banditi. Eugenio legge ilmessaggio ma, sembra acausa del buio, non lo com-prende bene, credendo cheil riscatto, sceso a 20.000lire, debba essere pagatonella casa di un suo contadi-no. Alla quattro del mattinoincontra nuovamente il gar-zone il quale gli riferisce dinon aver potuto pagare ilriscatto, perché a casa delcontadino non c’è nessunodei banditi. Eugenio rileggeallora il messaggio accorgen-dosi del grave errore com-messo e decide così di man-dare il garzone a Montefia-scone con il denaro richie-sto, mentre lui ritorna adOrvieto. “Quarantotto ore dopo,però... - scrive il Facchini -due contadini ritrovano ilcorpo di Claudio con il voltorivolto al terreno fangoso,quasi vi fosse statocompresso e soffocato. Su -bito i due contadini chiama-no i carabinieri cheinformano Eu genio dell’acca-duto. La perizia necroscopi-ca sul cadavere del conteClaudio, rivela che era giàmorto diverse ore prima delritrovamento, a causa didieci colpi di arma da fuoco.

La sua uccisione è rimastasempre un mistero, forse èstata una vendetta di qualcu-no dei rapitori nei confrontidi Claudio. Nes suno deglioggetti personali di grandevalore era stato toccato: néil portafoglio, né l’orologio,né l’anello d’oro con la pre-ziosa pietra riportante lostemma di famiglia...”.Per la morte di Claudio Fainavengono arrestate sei perso-ne ed il processo si conclu-de con la condanna a mortedi Gorgonio Guerrini di Civi-tella d’Agliano, ai lavori for-zati di Giovanni Sassara diMarta e a venti anni di car-cere per Antonio Pierini eAgostino Trovati di Orvieto.Il figlio Eugenio rimarràmolto turbato dall’omicidiodel padre e quando si candi-derà alle elezioni del 1882 isuoi avversari politici loaccuseranno di non avervoluto pagare il riscatto; mala verità sulla sua morte sta-rebbe in un particolare checi tramanda la tradizioneorale e che non si legge neltesto del Facchini: almomento del ritrovamento,il conte Claudio a vrebbeavuto la faccia immersa nelfango, ma anche la boccapiena di paglia, e c’è chi diceche ai suoi contadini chechiedevano più granorispondeva che mangiasseropaglia.

Sulla tragica fine del conte Claudio Faina abbiamo pub-blicato tempo addietro un interessante intervento diCesare Corradini (Loggetta n. 72 di gen-feb 2008, p. 74).Lo riproponiamo volentieri in questa occasione sia per-ché direttamente “chiamato in causa” dall’articolo cheprecede, sia per la tradizione orale riportata nel finale,che adombra motivazioni sociali variamente frammistea diversi altri fatti di “brigantaggio”. Nell’articolo citatodi Bonafede Mancini su Pietro Sante De Carli di Piansa-no (Loggetta n. 23 di gennaio 2000), per esempio, siricorda che il proprietario terriero, più volte ricattato dalatitanti armati, fu vittima anche di danni campestri daparte di paesani multati perché sorpresi a pascolare abu-sivamente le loro bestie nei suoi terreni. Rancori diffusie comuni, in un territorio dominato dal latifondo e conle popolazioni alla mercè di grandi “possidenti” nonsempre “illuminati”.

Delitto di briganti?Cesare Corradini

Bivacco a Castro (disegno di Luciano Funari cit.)

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di MarcoSerafinelli

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Ho già avuto occasione di parlare, in questa stessarivista, di alcuni aspetti del banditismo grottano,dedicando particolare attenzione alla figura di Gio-van Maria Simonetti (Grotte S. Stefano 1845-1927),

garibaldino, brigante e, in seguito, agitatore socialista aitempi delle occupazioni dei campi del principe Doria (“Stavasèmpre a bbucà, èra cume ’na talpa!”, n. 80, 2009, pp. 101-103).Per una maggiore conoscenza del nostro brigantaggio riman-do quindi a tale articolo - disponibile anche suwww.scribd.com/ffrezza - e alle risorse bibliografiche lì indi-cate.In detto contributo avevo fatto cenno, tra l’altro, a comel’antichità del fenomeno, nel territorio di Grotte, fosse com-provata da alcuni toponimi o, per lo meno, dalle relative eti-mologie popolari.Scarse, invece, sono le tracce lasciate nel campo dell’antro-ponimia: nulla dicono, in quanto semplici alterazioni delcognome, i soprannomi di Luigi Rufoloni (Sant’Angelo di Roc-calvecce 1835-Grotte 1906) e Antonio Pizzi (Grotte 1840-car-cere di Soriano 1875), detti rispettivamente Rufolóne e Pizzét-to né, tanto meno, sembrano avere a che fare con le attivitàillegali gli appellativi Mónte - riferito al già citato Simonetti - eCiòcco, “nome d’arte” di Bonaventura Pompei (Magu gnano1834).Suscita maggiore interesse il soprannome ll’Omàccio, alsecolo Tommaso Pompei, figlio di Ciòcco, il quale, in base airicordi della cittadinanza, dovette ereditare dal padre, senon proprio l’attitudine brigantesca, almeno una parte dellapropria “carica anti-sociale”!Appare decisamente a tema, invece, il soprannome di unbandito attivo nei dintorni del vicino centro di Fastello, ’l bri-gante Grimaldèllo, del quale sembra però impossibile racco-gliere ulteriori informazioni.Più interessante appare il quadro toponomastico: si pensi,ad esempio, alla chiesa della Madonna delle Grazie, in viadella Stazione, la cui cappella venne fatta costruire, secondoalcune fonti scritte, da Giovanni Betti nel 1639 “per graziaricevuta”, ossia dopo essere scampato a un agguato dei ban-diti.

Alfio Santoni (Grotte, 1935): La Madònna de le Grazzie è statafatta da uno che èra stato grazziato, dice perchè, i bbanditil’évino... assalito. […] Si ttu vai déntro a la Madònna de leGrazzie... c’è, la cappèlla. Quélla ch’éa custruito lue. Ancóra cesò i dipinti, èh!

Gli agguati ai passanti erano favoriti dal fatto che il paese eraun tempo costituito da nuclei abitativi isolati, separati daestese aree boschive.

Alfio: Èra tutta macchia sì! Èh! Anche fòri del paése qqui èratutta macchia, èra! M’aricòrdo io, grossomòdo... Èh! [incompr.]

’l mi pòro bbabbo diceva che ppròpio inizziava da... Da prima

del cimitèro, arrivavi a Ppiantoréna... Si ttu ssalivi su ’na quèr-

cia, arivavi su ’na quèrcia annavi ggiù, sènza scénne mai da la

quèrcia arivavi fino a Ppiantoréna, ggiù!

Il santuario della Madonna dell’Aiuto, nei pressi di Montecal-

vello, ha una storia del tutto analoga: venne fatto costruire

nel 1696 dal piemontese Carlo Saracini, il quale, trovatosi in

circostanze analoghe, avrebbe ottenuto la salvezza sua e di

sua moglie Agnese, di Viterbo, invocando l’aiuto della

Madonna.

R.G. (Montecalvello, 1936): C’èrino le piante, coi rami se incro-

ciàvino... ma ppiante secolari! E llì, quélli llì presémpio quélli

Grotte Santo Stefano Flavio Frezza

Madònna Santìssima ajjutàtice!L’eredità dei briganti nell’onomastica locale

Montecalvello: facciata anteriore del santuario della Madonna dell’Aiuto, sito nel-l’omonima vallata, propaggine della valle del Tevere.

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che vvenìino da la fiéra d’Arviano, annàino a la fiéra a Vvitèr-bo, annàino... ’Sti commercianti a ccavallo e... Llì ll’aspettàinollì. [...] Llì jje levàvino i sòrdi. E ddice che nnel zettecènto,quanno fécero la chiésa de la Madònna el’Ajjuto, quésti vené-vino da... Nun zò, dó èrino stati, a Arviano, [incompr.], Civitél-la… Venévino qqua co la carròzza, annàvino a Vvitèrbo, cheèrino de Vitèrbo. Allóra, quanno sò stati llì a Mmalacappa...Ll’hanno fermati, e cc’èra ’na dònna. Dice: “Madònna Santìssi-ma ajjutàtice!”. Dice che ll’ha ajjutati e ha ffatto fà la chiésa.C’è nnòme e ccognòme de quéllo che l’ha ffatto, èh!

Lo stesso toponimo Malacappa - il quale, peraltro, gode diuna certa diffusione a livello nazionale - farebbe riferimento,secondo il nostro informatore, alle possibilità d’assalto chela fitta macchia offriva ai briganti.Più esplicitamente legato al banditismo è il microtoponimo ’lgrottino de Rufolóne, nascondiglio dell’omonimo brigante,situato nel Piano della Colonna, ad est di Grotte.Tuttavia, la “base” principale dei banditi locali, incluso Rufo-loni, era rappresentata dalle Macchie di Piantorena, ad ovestdi Montecalvello, dove, in località Santissimo Salvatore, sor-geva un tempo il villaggio etrusco-romano di Torena, situatosullo sperone terminale del pianoro tufaceo dove si trovanodette macchie.Le numerose grotte scavate nel tufo, anticamente adibite adabitazioni, hanno costituito sin dopo la seconda guerra mon-diale un ottimo rifugio per i latitanti, i quali potevano rifornir-si di viveri recandosi nel vicino centro di Montecalvello.Il toponimo è, secondo gli studiosi, d’inequivocabile prove-nienza etrusca, come si può d’altronde evincere dalla radiceTor- – che indica la presenza di una fortificazione – e dal suf-fisso -ena. La fantasia popolare ha tuttavia elaborato alcuneetimologie, una delle quali assume particolare rilevanza aifini della presente ricerca: il nome deriverebbe infatti dallalocuzione “pianto di Irene” - in dialetto pianto ’e Irèna, poicontratto in Piantoréna - dal nome di una fanciulla che, anti-camente, venne dai banditi condotta e uccisa in questoluogo.

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Quello di Proceno non sarebbe un castello se non cifosse almeno un fantasma. Se, poi, invece di unosono due, anche meglio. E fu così che, quando nel1938 morì il nonno Giuseppe e papà ereditò il castel-

lo e la proprietà intorno, la mamma scoprì che era facilissi-mo trovare aiuti durante il giorno, ma non si parlasse di dor-mire in casa nostra perché tutti avevano paura di due fanta-smi, uno di Bernardo d’Utri, comandante della piazzaforte diProceno nel 1444, ed uno del bandito che aveva ucciso il fra-tello del nonno, Camillo Cecchini, mentre era nelle campagnea cavallo.Quanto al primo fantasma, questo è quanto riportato dallecronache dell’epoca:“Il 5 febbraio 1444 Bernardo d’Utri tenendo Proceno per contodi Francesco Sforza - impegnato nella Marca, a fianco dellalega di Firenze,Venezia, Bologna e Genova, contro la Chiesa -ed essendo assediato dalle genti della Chiesa, al prezzo del-l’immobilizzazione di ingenti forze, né potendo più tenere,diede Proceno alla Chiesa e lui con i suoi uscì… e si acconciòal soldo della Chiesa”. Successivamente ordì un complotto per catturare il castella-no di Castel S. Angelo, ma fu arrestato e imprigionato nellaRocca . Il 12 marzo 1444 fu decapitato.La figura di questo condottiero, che aveva resistito per mesi,con solo trecento uomini, all’esercito della Chiesa forte dioltre 2000 uomini, e costretto ad arrendersi per fame, rimasea lungo nella memoria delle genti che tuttora lo immaginanoaggirarsi nei dintorni della Rocca.

Camillo Cecchini, invece, era stato sindaco di Proceno dal1873 al 1876 e dal 1880 al 1882. E’ ricordato come personaparticolarmente intelligente e colta, con un carattere moltoforte e deciso. Intorno agli anni 1885-1886 membri della fami-glia Cecchini viaggiarono a lungo all’estero. Al ritorno da unodi questi viaggi trovarono che Camillo, uno dei fratelli, erastato ucciso durante una visita ai campi di grano prossimialla mietitura. Lo stalliere, non vedendolo tornare per l’ora dipranzo, lo cercò a lungo e lo trovò insieme al fedele cavallo,staffato ed incastrato fra i rami bassi di un albero ferito amorte da arma da fuoco. Le indagini svolte sul momento nondettero alcun risultato. Ma con il ritorno del fratello Giusep-pe, a conoscenza di fatti ad altri sconosciuti, emersero alcu-ni sospetti. Giuseppe riuscì ad individuare in un noto pregiu-dicato datosi da tempo alla macchia, la persona che potevafornire il nome dell’assassino del fratello. Si mise in contattoed ebbe con lui un incontro segreto che permise di arrestarel’autore dell’omicidio. Il quale al momento dell’arrestodichiarò: “Signor Giuseppe, si ricordi che, se uscirò vivo di pri-gione, la prima pallottola sarà per lei”. Il bandito, dopo qual-che anno, morì in prigione.

Particolare della targa collocata all’interno del santuario della Madonna dell’Aiuto:“CAROLVS SARACINVS PEDEMONT. / ET / AGNES EIUS VXOR VITERBIEN. / HANC VENERAB.ECCLIAM. / CVM SVPPELLECTILI / SVIS SVMPTIBVS F.F. / ET HVMILITER SVPPLICANT / ORARI PRO

EIS / ANNO M.DCXCVI”

Cecilia CecchiniProceno

Briganti efantasmi

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Nella famiglia della mamma si ricorda invece un episodio dibanditismo tutt’altro che cruento.La bisnonna della mamma, Francesca Clementi, rimase orfa-na bambina e fu allevata in un convento di suore dove iparenti dei suoi genitori speravano che restasse prendendoi voti. Quando aveva appena 16 anni un signore molto piùanziano di lei, Lodovico Lisini, la chiese in moglie. La madresuperiora disse a Francesca: “Tu fino ad ora hai conosciutoil Paradiso, ricordati che fuori di qui c’è l’Inferno”. La rispo-sta di Francesca fu: “Madre, dopo aver conosciuto il Paradi-so desidero conoscere anche l’Inferno. Se sarà veramentecosì terribile tornerò presso di Voi”.Si sposò ed ebbe tre figli che, una volta giunti in età di anda-re a scuola, mise in collegio ad Orvieto.Purtroppo il marito morì che i figli erano ancora giovanissi-mi e la tutela passò a Francesca, che abitava in una casa iso-lata non lontano da Montalcino, dove aveva una grandeproprietà terriera che è ancora dei suoi discendenti.

Una sera di inverno, quando era già notte, qualcuno bussòalla porta. Un domestico andò ad aprire e si trovò davantiun giovane che chiedeva insistentemente di parlare con lasignora Francesca. Ella discese ed il giovane le disse diessere inseguito dai carabinieri che lo accusavano di undelitto che lui non aveva commesso. “La prego, signoraFrancesca, mi aiuti!”, esclamò concitato. Ella raccontava poiche in quel momento pensò: “Meglio avere un bandito amicoche nemico”. I carabinieri risiedevano infatti a Montalcino,a parecchi chilometri di distanza, e non si poteva certo con-tare sulla loro protezione. Perciò disse al bandito: “Nascon-diti nel forno, io dirò di non averti visto, ma se ti troverannonon sarà colpa mia”. E così fecero.Vennero i carabinieri, sia Francesca che i domestici disserodi non aver visto nessuno ed il bandito fu salvo.Poco tempo dopo quest’episodio Francesca voleva risposar-si, ma si trovava di fronte ad un forte dissenso da parte dellafamiglia dell’ex marito che temeva avesse potuto avere altrifigli che avrebbero un giorno goduto anch’essi dell’ereditàdei suoi beni. Questo dissenso si concretizzò con una notifi-ca, da parte di un messo del tribunale di Orvieto dove le siingiungeva di presentarsi a detto tribunale nel giro di menodi 24 ore, perché sarebbe stata discussa la pratica pertoglierle la tutela dei figli. Ciò avveniva all’imbrunire, maFrancesca non si perse d’animo. Chiamò lo stalliere e glidisse: “Maso, sella due cavalli perché bisogna partire subito,domani mattina devo essere ad Orvieto”. Il povero uomorispose: “Ma Signora, non abbiamo il lasciapassare”. Essirisiedevano infatti nel Granducato di Toscana ed Orvieto eranello Stato Pontificio. Ma Francesca rispose: “Andremo attra-verso i boschi - esclamò - Se vuoi venire, bene, altrimentiandrò da sola”. E così partirono che era già notte.Dopo alcune ore, improvvisamente, si parò loro davantiuna figura che brandiva una lanterna cieca e che perento-riamente intimò: “O la borsa o la vita!”. La luce della lanter-na illuminò i loro volti e la stessa voce, con tono sorpreso,esclamò: “Signora Francesca, che fa Lei qui?”. Era il banditoche lei aveva salvato e che, sentita la ragione che l’avevaspinta ad intraprendere quel rischioso viaggio, le rispose:“Vada tranquilla che fino ad Orvieto nessuno la toccherà”.Fece un fischio esi trovarono cir-condati da altribanditi che evi -d e n t e m e n t e ,sen za che lorose ne accorges-sero, li stavanogià da tempo se -guendo e che liscortarono finoalle porte dellacittà dove, congrande sorpresadei presenti intribunale, Fran-cesca giunse intempo per difen-dersi ed averericonfermata latutela dei figli.

Camillo Cecchini

Francesca Clementi

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Riferimenti circa l’attività di bri-ganti in Onano sono stati con-servati nei racconti, ma in que-ste storie il confine tra verità,

leggenda e immaginario resta alquantoincerto. Questa la vera-presunta-falsastoria raccontata in Onano su Tiburziche l’amico Bruno Pacelli ha accorta-mente preso dalla tradizione orale:“Triburze adèra ‘n omo tanto bravo.Rubbava le sodde a le ricche pe’ dalle ale povere, Fioravante adèra de Copan-nènte e primma de fa e brigante facìa epecoraro. Triburze facìa l’amore co’ ‘nadonna d’Onano e se ‘ncontravano sem-pre a la macchia de la Sevva. A Onanole gente ghié volìono bene e le ‘nguatta-vano pe’ le case quanno le cercavono lecarabbiniere. Morì ammazzato a tradi-mento giù ppe’ Cellere. A tradillo fu Fio-ravante pe’ ‘na sinalata de sodde. De leCopannentane è megghio ‘n fidasse”.

Altri informatori spiegano anchel’origine di alcuni soprannomi esistentinel centro. A seguito della cattura di unpericoloso brigante ad opera di un bri-gadiere della gendarmeria travestitosida donna, il grado dell’intraprendentesottoufficiale è divenuto quello di Bri-gattiera, soprannome esteso poi a tuttala sua famiglia (Gaspare Ferrantini).

Aldilà delle testimoninze orali sui bri-ganti, una più attenta ricerca d’archiviomi ha consentito di meglio precisarne ifatti e i personaggi. E’ questo il caso diAgostino Petrucci di Valentano (delquale si parla nella pagina di Valenta-no) e di Andrea Casali di Onano, dueefferati briganti che nel decennio cheprecedette l’annessione del Lazioall’Italia terrorizzarono le popolazionidell’alta Tuscia viterbese, della bassaToscana e dell’Umbria, rimasti scono-sciuti alla pur vasta letteratura. Vittimedelle loro azioni criminose furono mag-giormente i Caterini, i Bousquet, iPacelli, ovvero le più ricche famiglie delcentro.Il verbale di estorsione forzosa, redattodal comandante Cochetti della sezionedella gendarmeria di Acqua pendente,su denuncia di Donato Camilli,

c’informa che il giorno 24 marzo 1859,

mentre il Camilli stava potando degli

alberi in contrada Sant’Angelo, verso le

ore 12, venne raggiunto da due scono-

sciuti armati di archibugio. Alla prima

richiesta di avere 20 scudi, seguì un

accordo secondo il quale il malcapitato

avrebbe dovuto versare loro uno

scudo: “in moneta sciolta tra papelli egrossetti, del pane, vino e poche salsic-ce, e dopo terminato da mangiare, cioècirca l’una e mezza pomeridiana senportirono dirigendosi verso Latera”. Il

verbale precisa che il Camilli fu costret-

to a tornare a casa per prendere il con-

venuto e a lasciare in ostaggio il giu-mento.

Il Camilli, non riuscendo a fornire parti-

colari che permettessero la identifica-

zione dei due sconosciuti, aggiunse che

i gendarmi avrebbero dovuto interro-

gare Francesco Catalucci e il figlio dellaRosetta, soci rispettivamente di Maffeo

Caterini e di Riccardo Bousquet, aven-

do i due garzoni “non solo con essi man-giato, ma che anche erano andati a far-gli i comandi chiedendo alle personefacoltose del Paese il denaro a loronome, e che di più il figlio della Rosettagli aveva detto che egli pure nel giornostesso fu a chiedere per essi al suoPadrone Signor Bousquet del denaro e

da mangiare, ed egli gli mandò duemonete d’oro e da mangiare e da bere”.

Parafrasando nel titolo Fabrizio De

André, si scopre così che Andrea Casa-

li è il brigante “made in Onano” più

noto alla polizia pontificia. Nato ad

Onano intorno al 1845 da tale Teresa e

Salvatore Casali, il brigante così veniva

registrato nella scheda segnaletica del

Governatore di Orte (1869): Statura:metri 1,60; Corpo ratura: giusta; Capelli ebarba: castano scuro; Fronte: bassa;Occhi: castani; Naso: grosso; Bocca:media; Carnagione: bruna; Viso: ovale;Condizione: cuoco.

Lasciato dunque in libertà per la colla-

borazione prestata contro il Petrucci, il

Casali tornò nuovamente a delinquere

(grassazione) solo pochi mesi dopo. Il

Preside della provincia di Viterbo, in

data 31 gennaio 1868, emise un manda-

to di arresto a carico del brigante ona-

nese che, alloggiato presso il predio

della Casaccia, nel territorio di Acqua-

pendente, unitamente alla sua compa-

gna Liberata Bianchini di Todi, donna

di malavita e druda del medesimo, fu

arrestato nella notte tra il 3 e 4 febbra-

io. Oltre alle armi i gendarmi (dodici

militi e quattro graduati) rinvennero

anche tre passaporti, di cui due a nome

Onano

Bonafede Mancini

Andrea CasaliQualche brigante senza pretese

l’abbiamo anche noi qui in paese

Onano, Piazza Roma, l’ex caserma dei doganieri pontifici

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della Bianchini ed uno intestato adAndrea Cacciamani, nome questo colquale il Casali intendeva ricostruirsi lasua nuova identità in Sardegna. Il Casa-li fu condannato a due anni di operapubblica e posto prima nelle carceri diAcquapendente poi in Civita Castellanae Orte, infine a Viterbo. Avendo i gen-darmi rinvenuto nel casale un pugnalee sei fucili da caccia, tre dei quali a duecolpi e carichi, il colono Eugenio Nardi-ni venne posto agli arresti e condanna-to a due mesi di carcere. A favore delcolono, il 9 marzo 1868, vale a dire a tresoli giorni dalla sentenza di condanna,si mosse la curia vescovile di Acqua-pendente tramite il suo vicario foraneo,che ne perorava l’innocenza spiegandoche il Nar dini “tiene una condotta degnadi lode anche per la fedeltà al NostroGoverno e per attaccamento al VeneratoCapo della Chiesa”.Scontata la pena, il 10 aprile 1869 il bri-gante chiese al Delegato Apostolico diViterbo di essere munito di passaportoper la Sardegna a nome di Andrea Cac-ciamani. Due settimane dopo il gover-natore di Acquapendente comunicavaal Delegato le sue perplessità circa lascarcerazione del Casali in considera-zione del fatto che “i parenti del Gari-baldi [alias Agostino Petrucci, nda]hanno giurato vendicarne la morte; madi più il che lo stesso Casali si è ripetuta-mente milantato di volere attentare allavita di questo possidente Vincenzo Fai-nella da cui, egli dice, si deve il suo ulti-mo arresto, condanna e prigionia”. Per nulla preoccupato di tale possibilevendetta, il Casali appena acquistata lalibertà ritornò alla sua consueta con-dotta. Già nel mese di settembre il bri-gante aveva estorto denaro ad alcunipossidenti di Acquapen dente (Leali,Piccioni) e Trevinano (Bourbon delMonte). L’aggressione fu continuataanche a danno del vescovo di Acqua-pendente, mons. Sante Vannicola, edell’arciprete di Trevinano. Nei mesisuccessivi l’azione fu estesa a danno dialtri possidenti di Torre Alfina, Proce-no e del contiguo territorio italiano diMontorio di Sorano (famiglia Bologna),Fabbro (famiglia Canini) e Allerona(famiglia Bernardini).Del suo curriculum di criminale fannoparte anche una rapina con un assaltonella macchia a danno del religiosopadre Gigli dei Conventuali in Onano, ilfurto di uno schioppo a danno diGioacchino Ciccoli di Acquapen dente,lo stupro di una quindicenne (Rosa di

Pietro) mentre la ragazza attingevaacqua alla Fontana di Valle cupa nellacampagna di Onano (ottobre 1869), lagrassazione e minatoria a danno di Giu-seppe Cittadini di Torre Alfina, nonchélaidi soggiorni a Ficulle e Todi, Pe rugia,dove per Natale (1869) “il malandrino siera recato a fine turpe”. In Orvieto, lasera del 5 gennaio 1870, il briganteaveva estorto denaro a Tobia Benedettie Giu seppe Rossi minacciando loro:“Datemi del denaro se vi è cara la vita”.La carriera del Casali si concluse il 9gennaio 1870 con un suo nuovo arrestoda parte della gendarmeria di Acqua-pendente. A facilitarne la cattura fuMichele Mechilli (o Mechili), un agentecampestre dello stato italiano dal pas-sato poco pulito e che, dopo essersiaccattivato l’amicizia del brigante,aveva tentato di farlo arrestare in Peru-gia e Orvieto pochi giorni prima. IlMechilli, abboccato con la gendarmeriapontificia della brigata aquesiana, agìraggiungendo il Casali il quale, fiutato iltradimento del socio, lo aveva invitatoad incontrarsi nella Macchia della Ban-dita di Onano. “Armato di doppietta” ilMechilli si recò all’appuntamento, edopo un iniziale litigio col brigantepresso il Fontanile del Paradiso ricevet-te dal Casali un colpo di fucile. IlMechilli gli rispose esplodendogli con-tro la sua doppietta colpendolo allaguancia destra e al collo; lasciatolo aterra e credutolo morto si allontanòper avvisare il governatore e lagendarmeria di Acquapen dente. Sebbene ferito, con l’aiuto di FrancescoVitali e del suo fattore, GioacchinoLombardelli, e il di lui figlio Giu seppe, ilCasali raggiunse il podere del Fornello econ un cavallo si portò verso il confinedi Stato, dove venne raggiunto dalleguardie sul franconfine e arrestato uni-tamente ai suoi manutengoli. Almomento della cattura, le pattuglie deigendarmi e finanzieri vennero a litigioper accaparrarsi la priorità del premio(£. 1.000). Il maresciallo dei gendarmi,Agostino Gradassi, era stato infattiavvertito del ferimento del Casali dalsergente dei finanzieri Carlo Gasperoni;pertanto, unitamente, le due forzed’ordine (undici unità) si misero sulletracce del brigante. Nello stesso giornoil Mechilli, spontaneamente, si costitui-va alle autorità aquesiane per renderecon to di un omicidio commesso diecianni prima e del ferimento, “per pro-pria difesa”, del Casali.

Attilio Targhini:l’ultimo doganierepontificio in Onano

b.m.

Il 20 settembre 1870, con l’in -gresso in Roma dei bersaglieri ita-liani del generale R. Cadorna ter-minò l’esistenza del millenarioStato della Chiesa. Pochi giornidopo, con voto plebiscitario di 447per il SÌ e di 9 per il NO (86 gliastenuti), gli onanesi si espresseroa favore dell’annessione al Regnod’Italia. In quel 20 settembre cessòanche il servizio di Attilio Targhi-ni presso la dogana pontificia inOnano. Romano e sposato allaonanese Maria Ilari, il finanzierecontinuò a risiedere nel nostrocentro fino al 1905, anno della suamorte. Nel 1901, la consorte avevadonato alla locale Congregazionedi Carità la propria casa postanella piazzetta di San Giovanni (alcivico 57) divenuta, dalla metàdegli anni ‘50 del Novecento, lasede dell’asilo delle Maestre PieFilippini della mia infanzia. Nellalapide posta nel cimitero diOnano, così il pio doganiere ponti-ficio viene ricordato:

QUI RIPOSA

ATTILIO TARGHINI

ROMANO

MANCATO AI VIVI IL 22 GIUGNO 1905ALL’ETÀ DI 74 ANNI.

MENÒ VITA

ESEMPLARMENTE CRISTIANA.ADDETTO ALLE DOGANE

VI PRESTÒ DILIGENTE SERVIZIO

FINO AL 20 SETTEMBRE 1870ED EBBE SEMPRE PEL ROMANO PONTEFICE

FEDELTÀ DI SUDDITO, AMORE DI FIGLIO.MORÌ QUAL VISSE

LASCIANDO NELLA BENEDIZIONE

LA SUA MEMORIA.ALL’AMICO DESIDERATISSIMO.

MONSIGNOR PACIFICO MASSELLA

*

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Quando l’amico Antonio - che forse con più rispettodovrei chiamare “il benemerito direttore della Log-getta” - mi accennò di voler dedicare la sezionemonografica della rivista al fenomeno del brigantag-

gio, confesso di aver provato una sorta di frustrazione cam-panilistica dovuta alla consapevolezza che, nella storia diMontefiascone, di briganti famosi non ce n’erano.Eppure Montefiascone, situato lungo il percorso di una dellestrade che, per secoli, è stata una delle più importanti e fre-quentate del centro Italia, doveva aver subito, nel bene e nelmale, le conseguenze del grande transito di viaggiatori e pel-legrini. E se il bene si può individuare nell’opportunità dirimanere più agevolmente in contatto con le occasioni dellastoria, il male è certamente riferibile alle varie forme di vio-lenza e danneggiamento dovute al più frequente transito ditruppe ostili e di gruppi, più o meno numerosi, di malviventi.Ed infatti, non limitandoci all’800 - cioè al periodo del brigan-taggio cosiddetto “romantico” - diventa possibile seguire unasommaria traccia che ci permette di capire come il banditismodelle strade, favorito dall’estrema vulnerabilità del viaggiato-re, sia stato un fenomeno endemico, dal quale è stato possibi-le uscire soltanto con l’avvento del trasporto motorizzato.

anno 1300 - Il poggio delle forcheCominciamo quindi dalla fine del XIII secolo, quando, lungoogni via diretta a Roma, iniziò quel grande transito di pelle-grini che si protrasse per tutto il 1300, anno del primo giubi-leo. Lo straordinario afflusso di romei spinse il rettore delpatrimonio di San Pietro in Tuscia, insediato nella rocca diMontefiascone, a collocare - a rincuoramento dei passanti eterrore dei molti malandrini che infestavano quella boscosacontrada - una serie di patiboli in bellavista sul poggio dimonte Arminio, al confine tra Montefiascone e Viterbo. Ilcolle di monte Arminio, da quel momento, venne chiamatoanche poggio delle Forche.La decisione del rettore non piacque però ai viterbesi i quali,avendo improvvisate alcune osterie campestri in vari puntidelle vie principali, e più specialmente verso Montefiascone,all’ingresso del loro territorio - quindi proprio nei pressi delpodium Furcarum - ritennero poco favorevole ai loro affari lapresenza di quello sgradevole spettacolo e pertanto, riba-dendo che il rettore aveva collocato le forche senza consul-tarli, le tolsero e le portarono in città. Le restituirono, de gra-tia speciali, soltanto su preghiera dello stesso rettore che levoleva in quel luogo perché risultassero ben visibili a tutti iviaggiatori.

anno 1471 - Sulla pena del ladro e del brigante di stradaDa un capitolo degli Statuti comunali del 1471, rubricato“Sulla pena del ladro e del brigante di strada”, veniamo a sape-re come, a distanza di quasi due secoli, il problema persistes-

se e come, la forma per cercare di risolverlo fosse rimasta

sempre quella: la forca. “Similmente stabiliamo ed ordiniamoche se uno nella pubblica strada e nel territorio della detta Cittàavrà depredato qualcuno fino a una quantità di dieci libbre edoltre venga sospeso con il laccio alle forche cosicché assoluta-mente muoia; al di sotto venga fustigato e bollato in fronte conferro caldo cosicché in ogni tempo si possa distinguere”.

anno 1500 - Perfidi grassatori e altri malandriniDeterrenti, quelli dello statuto, che a poco servivano se, a

distanza di una trentina d’anni, papa Alessandro VI Borgia si

trovò costretto a prendere provvedimenti più drastici. Il

papa inoltrò quindi, anche ai priori di Montefiascone, un

breve che informava le comunità sulle disposizioni prese e

che, contemporaneamente, le diffidava, con severe minacce,

dal non rispetto. “Spinti dai continui e numerosi lamenti deipopoli, dei romei e di altre persone sugli eccessi dei perfidigrassatori e di altri malandrini, per quanto dipende da noiabbiamo deciso di perseguirli e di scacciarli da codesta Provin-cia e dagli altri luoghi nostri e della Chiesa Romana. E per que-sto abbiamo incaricato come Commissario ed esecutore gene-rale Domenico de Capralica [...] e vogliamo che [...] mandiateventi dei vostri uomini esperti e bene armati e con l’intento per

Il poggio delle forche: “a rincuoramento dei passanti e terrore dei molti malan-drini che infestavano quella boscosa contrada…”. (PISANELLO, San Giorgio e laprincipessa, particolare degli impiccati, 1433-38, Verona)

Montefiascone GiancarloBreccola

Piantano la moralesvellendo gli alberi…Banditi e briganti nel territorio di Montefiascone

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un intero mese di sradicare e di scacciare da tutto il vostro ter-ritorio i detti grassatori e, scoperti, di arrestarli e punirli [...] ese in questo sarete stati trascurati, cosa che noi non crediamo,agiremo in modo tale contro di voi da essere poi di esempioagli altri, oltre le spese e i danni che da noi saranno pretesi perquesto”.

anno 1536 - Pietro AretinoE ancora nel 1536, l’antica usanza di esibire strumenti dimorte in prossimità della strada persisteva, come ci traman-da “un certo” Pietro Aretino. Il poeta, nel suo “Ragionamentoe Dialogo” del 1536, scrive infatti che “ne la selva di Montefia-scone, in su l’alba del dì, urtai con la spalla nel petto d’unoimpiccato”.

anno 1696 - Un brutto paeseEloquente, a distanza di circa un secolo e mezzo, la relazio-ne dello svedese Olof Celsius senjor che, parlando del terri-torio altoviterbese, dopo aver scritto “è collinare e boscoso,e con un grande e bel lago” prosegue dicendo che “gli Italianidissero che era un brutto paese”, aggiungendo poi che “neiboschi tra il Castello San Lorenzo e Bolsena marciavano solda-ti con i fucili carichi per tener la strada sgombra dai briganti,ché non recassero danno al procaccia e ai viaggiatori, e sonosempre tenuti lì dal Papa”.

anno 1814 - Sbirri o ladriAltri 120 anni e ci imbattiamo nella dettagliata testimonianzadi Jacques Marquet, barone de Montbreton de Norvins, fun-zionario del governo napoleonico, militare, diplomatico ecapo della polizia a Roma dal 1810 al 1814. In quell’ultimoanno, in seguito alle note vicissitudini politiche, il barone sitrovò costretto a fuggire da Roma.

“Il mio arrivo a Viterbo fu ancor meno rassicurante perché imalviventi della città se la intendevano con quelli di Monte-fiascone. Fui comunque accolto dal maggiore de Filippi. “Nonpotete proseguire come magistrato dell’imperatore e quindi mipreoccuperò di trovare un altro scorta che non sia quella dellagendarmeria”. Dopo un’ora tornò con un grande cappottoborghese e con cinque uomini chiaramente appartenenti allacategoria degli sbirri o dei ladri. [...] “Ecco la vostra scorta -mi disse - sono brave persone”. E rivolgendosi a loro “E voigiurate di condurre mio cugino Giacomo al di là della forestadi Montefiascone. Viene da Napoli e torna a Torino”. La miascorta effettuò un giuramento sul “sangue di Dio”, consacran-dolo con una abbondante bevuta. Uno di questi uomini [cheveniva chiamato Cappuccio] mi guardava di tanto in tantocon un sorriso intelligente, e per la conoscenza che avevodelle fisionomie, capii che sarebbe stato lui a proteggere ilmio segreto nei confronti dei suoi compagni. [...] Certamen-te non mancava niente all’abbigliamento dei miei cinquebravi: reticella a fiocchi rossi sotto un cappello conico a tesalarga ornato con nastri; giacca con maniche di velluto; calzo-ni con bottoni in ottone dorato; cintura con un pugnale, duepistole, un fucile nella bandoliera, la spada al fianco; uno odue fazzoletti di seta colorata di traverso che dal collo scen-devano fino all’addome; facce bruciate dal sole, occhi arden-ti, robusti pettorali; e un ampio mantello marrone apertodalla parte del braccio destro, con tanto di rosario benedet-to passato nella cinghia tra le due pistole [...] Appena fuoriViterbo, Cappuccio, che come i paesani e i responsabili eraesperto della cosa, fece andare al galoppo i postiglioni, emettendosi davanti a loro sul cavallo di un poliziotto di cui siera provvisto, illuminava la strada. Voleva giungere a Monte-

fiascone alle prime luci dell’alba, in un momento in cui nonera ancora tanto chiaro perché le persone che dormivanofossero abbastanza sveglie, ma sufficientemente luminosoper guidare coloro di cui era responsabile. Cappuccio eraveramente esperto in fatto di ore! E così, avvicinandoci alponte dal quale la strada si inoltrava sotto le mura e transi-tava davanti la porta di Montefiascone, ci fece un po’ rallen-tare. E non tanto per attendere la luce del giorno, in quanto ifuochi dei bivacchi di Montefiascone la sostituivano, quantoper non sembrare persone in fuga, e quindi si preoccupò digarantire la tranquillità del mio transito. E fece di più. Io pen-sai che esagerasse. Fece fermare la mia vettura di fronte allaporta della città, nel bel mezzo di alcuni uomini armati che alsuo avvicinarsi si erano alzati, e che furono praticamentesedotti dalle parole di Cappuccio, personaggio che evidente-mente conoscevano bene.I briganti italiani sono incantatori che seducono i paesani conla stessa facilità con la quale li spogliano; in più erano tutti sucavalli della gendarmeria, e ciò costituiva una garanzia.“Questo signore - disse loro indicandomi - è un galantuomo, un

Nella piazza di Montefiascone “non mancavano mai da 15 a 20 facinorosi di tuttigli ordini della città, la cui profession principale, oltre al bere e ribere da mane asera provetta, era il darsi ad ogni scioperatezza, facendosi legge della forza…”.(acquerello della piazza di Montefiascone eseguito da LUDWIG EMIL GRIMM nel 1816)

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amico, che non ha niente da fare con voi altri, ma noi dobbia-mo accompagnarlo al di là della Macchia per la paura dei bri-ganti”. Così ci scambiammo queste poche parole, e anche sei loro gesti e le loro voci non erano troppo cordiali, alla finequesti uomini mi augurarono buon viaggio ed io, a loro, buonaguardia. Ed ero veramente contento di attraversare così facil-mente i loro avamposti, situati ad intervalli regolari in prossi-mità del bosco per trasmettere le informazioni alla stazione dipolizia successiva. Usciti dalla Macchia, ho ringraziato il miosalvatore, come conveniva, con qualche manciata di monete.E Cappuccio, mettendo la testa nella carrozza, mi disse “Buonviaggio, eccellenza; e viva Napoleone il grande!”.

Il vivace testo, oltre a confermare la presenza dei briganti nelterritorio, ci offre interessanti dettagli sull’ambiente e sullasocietà dell’epoca, come la minuziosa descrizione dell’abbi-gliamento dei componenti dell’ambigua scorta. Descrizioneche straordinariamente coincide con quella lasciataci daFrancesco Orioli nella sua autobiografia, ove si trovano trat-teggiati alcuni figuri della Montefiascone del primissimoOttocento:

“…non mancavano mai da 15 a 20 facinorosi di tutti gli ordinidella città, la cui profession principale, oltre al bere e ribere damane a sera provetta, era il darsi ad ogni scioperatezza, facen-dosi legge della forza. Li riconoscevi i più di loro al vestirepressoché uniforme: brache corte di velluto color d’olivo trafat-to, o turchin cupo, casacchino dello stesso drappo, scarpini co’fibbioni d’argento, cappello a cupola bassa e falda larga colsuo nastro a nappo sfoggiato; una fascia di seta il più soventerossa od a righe intorno a’ lombi; sul lato dritto del calzone inuna guaina, di lunga mano destinata a quest’uso, il coltello

genovese sfrondato col suo fodero; a fianchi due mazzagatticorti; nella panciera la provvista delle cariche, la pera dellapolvere, la borsa delle palle, e tre altri o quattro pugnali dirispetto per le altre tasche. Vivevan essi tra loro, che il bancodove recavansi a sedere nessuno ardiva occuparlo, e quandos’intromettevan terzi a una brigata ognuno dava luogo e conprudenza nettava la piazza. E quasi al ricorrere d’ogni festa,ordinavano qualche nuova baruffa, nella quale il più dellevolte davan essi le busse, ma talvolta pure toccava loro di rice-vere smussandovi le corna. La baruffa non era mai da burla,giacché si trattava di ferite quasi tutte mortali o almen gravis-sime…”.

anno 1825 - Piantano la morale svellendo gli alberiNella testimonianza del barone francese, abbiamo vistocome la presenza della “macchia” fosse avvertita quale ele-mento di pericolo, in quanto ricettacolo altamente protettivoper i malintenzionati e i fuoriusciti. E allora quale soluzionemigliore, per combattere i malviventi, della distruzione diquell’habitat complice? E così quando, nel 1825, vi transita loscrittore britannico William Hazlitt, non può far altro cheprendere atto dell’impudente scempio.

“La strada da qui [Bolsena] a Monte-Fiascone, che si scorge suun’altura davanti a noi, si svolge attraverso una serie di goletetre, ed è deformata dai resti anneriti di possenti querce cheaccompagnano la via, orrendi cadaveri di stupendi annosiboschi che furono abbattuti e messi a fuoco pochi anni fa,quale ricetto di briganti e ladroni. In questo paese piantano lamorale svellendo gli alberi! Il posto è bello a vedersi, ma nonsicuro a percorrere; la bellezza pittoresca deve naturalmentefar posto alla polizia…”.

anno 1834 - AndersenLa dichiarazione di Hazlitt considerava gli alberi sulla stradatra Montefiascone e Bolsena, ma anche nel versante oppo-sto, sul percorso tra Montefiascone e Viterbo, il bosco avevaricevuto lo stesso trattamento. A informarcene è il celebrescrittore Hans Christian Andersen.

“Dopo la partenza la tempesta si fece più violenta, i montierano bianchi di neve e il freddo mi penetrava nel midollo.Superata Viterbo il paesaggio si fece sempre più desertico elungo la via avevano bruciato il bosco per difendersi dai bri-ganti, ora ne restavano solo le stoppie nere. Tutta la zona eraselvaggia e abbandonata; verso mezzogiorno raggiungemmoMontefiascone…”.

anno 1883 - La fineEd infine - ma siamo ormai al termine del secolo XIX e delfenomeno - due note di carattere opposto. Una, decisamenteseria, contenuta nella preziosa Inchiesta Agraria Jacini del1883: “Nel Viterbese si accenna ad un fatto che sventuratamen-te non è raro in certe località più abbandonate della campa-gna, che cioè i fittaiuoli e i briganti si accordino insieme; nelqual caso si comprende benissimo come l’azione della forzapubblica divenga affatto inefficace...”.L’altra - probabilmente di fantasia, ma divertente e in lineacon il Tiburzi dell’immaginario popolare - tratta da un suopresunto testamento. Come il celebre beone di Montefiasco-ne, anche il “Re del Lamone” aveva espresso questo deside-rio: “Ogni anno nell’anniversario della mia morte i miei erediverseranno sulla tomba, non lagrime, ma un quartarolo di “EstEst” di Montefiascone, di quello proprio che ha giocondato imiei ozii forzati”.

Jacques Marquet, barone de Montbreton de Norvins, funzionario del governonapoleonico (dipinto di JEAN AUGUSTE DOMINIQUE INGRES)

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Ah! Doppo che so’state brigante, purela storia?!”. Cosìinizia Brigantaggio

sommerso di Antonio Mat-tei, riferendo della reazionescandalizzata di un popola-no interlocutore durante lefasi della ricerca.Anche verso di me, e nonuna sola volta, è stato indi-rizzato un simile interrogati-vo, pronunciato con sgo-mento o - quantomeno - conperplessità da sorpresi edisorientati ‘informatori’ aiquali andavo chiedendonotizie sulle azioni dei bri-ganti maremmani. È accadu-to durante la fase di ricercapreliminare all’allestimentodel Museo del brigantaggiodi Cellere, quando con icolleghi Mauri zio Gigli,antropologo del Centroricerche etno-antropologi-che di Siena, e Fabio Malfat-ti, all’epoca operatore delmedesimo organismo, attra-versavo la Maremma e laTuscia facendo interviste edocumentando audiovisiva-mente la memoria a noicontemporanea delle gestadi Tiburzi e dei suoi uomini.(Il Museo, il suo allestimen-to, i contenuti disseminatial suo interno e gli apparaticritici e di approfondimentoa disposizione dei visitatori

sto tipo di istituto culturaleè frequentemente conside-rato il luogo della costruzio-ne o della celebrazione dideterminati valori, il fastosocontenitore dove si conser-vano e si ostentano memo-rie ed exempla degni diessere ricordati e tramanda-ti alle generazioni ulteriori.Il Museo centrale del Risor-gimento di Roma - per rima-nere in tema - questo fa,celebra l’epopea del Risorgi-mento e sacralizza i valoriche rendono l’Italia unaNazione e gli italiani un solPopolo. Non è questo ilcaso del Museo di Cellere.Nella sensibilità culturale diquesti anni, dominata dalpost-moderno, il museo èdiventato qualcosa di altroda come lo conoscevamo. Siè ormai definitivamentecompiuto il passaggio cheha trasformato questa tec-nologia del sapere, questainvenzione del mondo occi-dentale da Tempio a Forume dunque da luogo sacroalle muse a spazio polifoni-co di discussione. Proprioquesto vuole essere ilMuseo di Cellere, uno spa-zio di confronto e di rifles-sione sul brigantaggio, sulleragioni che lo scatenarono,sulle forme che il fenomenoassunse a livello locale. Nonuno spazio dove ammiccare

sono l’esito di una campa-gna di ricerca che ha vistiimpegnati per più di dueanni studiosi - antropologi,storici, storici dell’arte diformazione accademica -intenti a seguire quindicidiverse linee di ricerca).“Ma come? - ci facevano - unmuseo dedicato ai briganti?”.Fin dalla sua inaugurazione,avvenuta nel 2007, il Museodel brigantaggio è statosovente chiamato a giustifi-care la sua stessa esistenza.Fare un museo che, in modopiù o meno diretto, verteattorno alla figura di un bri-gante, di un fuorilegge, diun assassino, è qualcosache solleva interrogativietici non trascurabili. Nel-l’immaginario comune que-

agli immaginari che la figuradel brigante evoca o doveesaltare le gesta di chi simacchiò di gravi delitti, maneanche un luogo doveappiattire a stereotipomonodimensionale (il fero-ce assassino, oppure ilbenefattore) la biografia diTiburzi, Biagini, Fioravanti edegli altri. Tra le intenzioni del Museodel brigantaggio c’è quelladi cercare di ridare spesso-re soprattutto, anche senon esclusivamente, allafigura del capobanda Tibur-zi, rappresentare (o almenopredisporre il visitatore aconsiderare) la complessitàdell’esperienza di un uomoche fece cose sbagliate mala cui storia e le cui ragionimeritano in qualche mododi essere indagate e ascolta-te. Quantomeno per megliocomprendere un momentostorico cruciale, quello delpassaggio delle terre chefecero da teatro alle sueazioni dallo Stato Pontificoal Regno d’Italia.La scelta di trattare il bri-gantaggio all’interno di unMuseo, e non tramite unamonografia etnografica tra-dizionale, testuale, derivadal fatto che il medesimo,per come si presenta oggi,consente livelli diversificatidi fruizione. È un vero e

Marco D’Aureli

Il museodel brigantaggio di CellereUna lettura antropologica del brigantaggio maremmano

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proprio strumento di demo-cratizzazione della cultura.Il museo è accessibile adampie fasce della popolazio-ne perché parla molti lin-guaggi (quello della scrittu-ra, quello audiovisivo, quel-lo emozionale) ed è ingrado di consentire livellidiversificati di fruizione. Epoi è calato nelle realtàlocali (di cui spesso assor-be le cifre estetiche), ed èlontano dal centro comelontane dal centro (a varilivelli) sono spesso le realtàlocali. Il Museo sorge a Cellereperché è proprio a Cellereche nacque DomenicoTiburzi, il Re del Lamone, ilbrigante maremmano perantonomasia. Ma la sceltadel luogo dove far nascere ilMuseo rimanda anche asostanziali ragioni teoriche.La nozione di brigantaggioha alle spalle una storiacomplessa. Nel corso deglianni, a partire dal momentoin cui sul finire del XVIIIsecolo fa la sua comparsa inItalia (prima il termine era

sconosciuto nella nostra lin-gua), essa ha finito conl’assumere le connotazionidi un contenitore semanticovuoto riempito di volta involta, sulla base deimomenti e delle esigenzespecifiche, di significatidiversi. Briganti furono defi-niti tanto gli insorgenti anti-francesi subito dopol’arrivo di Napoleone allaguida dell’Armata d’Italiaquanto i filogiacobini inperiodo di Restaurazione,tanto gli antipiemontesi apartire dal 1861 quantoTiburzi e i suoi ben oltre laprima fase dell’unificazioned’Italia. Alla luce di ciò, fata-le appare la necessità dicontestualizzare questa cherischierebbe di risultareuna etichetta talmente tantogenerica da risultare privadi qualsiasi significato. Nonè possibile parlare di bri-gantaggio in generale. Se losi fa si perde in termini dicomprensione profonda delfenomeno. L’unico modoper rendere la nozione dibrigantaggio significativa ed

efficace sul piano conosciti-vo è quello di leggere le sto-rie degli uomini che venne-ro definiti briganti all’inter-no di contesti culturali pre-cisi. Ecco perché il Museo sitrova a Cellere, epicentrodel brigantaggio maremma-no. Da questo approccio traspa-re la sensibilità che haorientato le ricerche primae poi la realizzazione delMuseo del brigantaggio.Una sensibilità di tipoantropologico e non solo (enon tanto) di tipo storiogra-fico. Il Museo del brigantag-gio di Cellere è un museoetnografico a tutti gli effettie non un museo storico. UnMuseo che assume l’oggetto(da quello materiale allamemoria narrata) non comeprova storica ma cometestimonianza, come orma(pur nella consapevolezzadi tutte le ambiguità che leorme recano in sé), cometraccia di un qualcosa cheha lasciato un segno. Museoetnografico non significatanto che per allestirlo èstato fatto ricorso alla rac-colta e alla restituzione difonti orali (un simile mododi procedere è appannaggioda anni della migliore sto-riografia), non significa soloaver posto attenzione sullacultura materiale.L’approccio etnografico èquello che porta a leggere ilbrigantaggio nelle trameculturali locali, nei rapportidi potere interni alla comu-nità. Significa non ricostrui-re la realtà partendo daidati oggettivi, quanto piut-tosto cercare di interpreta-re il modo in cui a livellolocale, e nelle logiche locali,la storia e le storie dei bri-ganti sono state interpreta-te e investite di senso. Maanche costruire delle corni-ci di significato attorno aidiscorsi sorti sul brigantag-gio. Significa l’aver assunto,in fase di progettazione e diallestimento, una posturariflessiva, l’essersi doman-dati quale fosse la distanza

ideale dalla quale osservarei fenomeni, l’aver volutolasciare evidente la tracciadel lavoro interpretativo edi mediazione culturalesvolto. In questo sensol’attenzione, l’enfasi perce-pibile anche a livello visivoposta sul reportage scrittonel 1893 dal giornalistaAdolfo Rossi, inviato aseguire il processone diViterbo ai manutengoli diTiburzi e Fioravanti, è qual-cosa che trasforma il Museodel brigantaggio di Cellerein qualcosa di più ambizio-so rispetto a quanto la suadenominazione lascerebbeintendere: un Museo dellacultura italiana, e forseanche europea, dellaseconda metà dell’Otto -cento; un museo che rac-conta le idee di quel perio-do attorno a temi cardinecome la concezione dellaleadership, la figura del cri-minale, l’idea del pittoresco.Analizzando gli articoli diRossi scritti per La Tribunae poi confluiti nel volumeNel regno di Tiburzi, si è cer-cato di capire attraversoquali lenti Rossi leggesse ilbrigantaggio e lo raccontas-se ai suoi lettori alimentan-do in questo modo unimmaginario e costruendodi fatto una visione del bri-gante, una rappresentazionedestinata a diffondersi benoltre i confini della Marem-ma. E tra le righe dellafluente scrittura del Rossiemergono chiari i riferimen-ti a orizzonti culturali divasto raggio e grandeimportanza, come il darwi-nismo sociale. Il Museo del brigantaggio diCellere nasce non attornoad una collezione ma inrelazione ad una questionestorica e sociale che haattraversato e segnato permolto tempo non solo ilpaese ma buona parte del-l’attuale provincia di Viter-bo e di Grosseto. È articola-to in tre macrosezioni, il cuiprogetto scientifico è statoredatto dai due antropologi

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Vincenzo Padiglione e Ful-via Caruso, coordinatori deilavori e co-realizzatori delleinstallazioni espositive,mentre il progetto architet-tonico è di Lorenzo Greppi.Il piano terra è dedicato allarestituzione della documen-tazione storica provenienteper lo più da fonti archivi-stiche. Il piano superiore,invece, è dedicato allo spa-zio che i briganti occupanonell’immaginario popolaredi ieri come di oggi. Infineuna terza sezione, La Taver-na dei Briganti, affronta iltema della patrimonializza-zione della figura del brigan-te, il suo utilizzo sul pianodel marketing territoriale. Ilpercorso è disseminato dipostazioni multimediali,audiovisive, testi di appro-fondimento, il tutto arran-giato all’interno di una sce-nografia unitaria di forteimpatto estetico. Ma non èquesto lo spazio per descri-vere il Museo. L’esperienzadella visita al museo - ildiscorso vale per qualsiasimuseo ma per i prodottidella nuova museografiaantropologica in particolare- è una esperienza di tipomultisensoriale, di cono-scenza tramite il corpo nonsostituibile da parte diparole scritte. Quello chemi interessa fare in questasede, data anchel’occasione, è piuttostoriflettere sul senso che un

simile istituto culturale puòe deve avere nel 150° anni-versario dell’Unità d’Italia.Il Museo non è e non vuoleessere un “semplice” luogoespositivo a tema. Esso sipropone come vero e pro-prio promotore culturale. Inquesto senso va letto ilseminario itinerante che èstato pensato dalla direzio-ne e che si è svolto tra Cel-lere, Itri (Lt) dove ha sedel’altro Museo del brigantag-gio presente nella RegioneLazio, e Sonnino (Lt), sededel Museo delle Terre diconfine. “150 anni dopol’Unità. Storie contese,memorie aperte, patrimoniripensati. Del buon uso delmuseo” è stato un eventofinanziato dalla RegioneLazio nell’ambito delle atti-vità del DEMOS, sistemamuseale antropologico delLazio. Esso ha rappresenta-to l’occasione per aprire(una volta di più) le portedei musei al pubblico, perconnetterli e metterli inrete, ma anche per aprireuna discussione sui temi delbrigantaggio a partire daprospettive specifiche(l’antropologia della violen-za, ad esempio) e in connes-sione con altre discipline(tra gli invitati sono interve-nuti Giovanni Contini, stu-dioso di fonti orali, e Mad-dalena Carli, storica). E perribadire che quello che lastoriografia tradizionale ha

presentato come un proces-so lineare, quasi trionfalisti-co, verso l’Unità e la Moder-nità (che vede i suoi capi-saldi nel dominio politicodello Stato nazionale e nellaaffermazione dell’economiacapitalistica e di mercato) èstato tutt’altro che un pro-cesso rettilineo. Il Museodel brigantaggio di Cellereracconta una storia diversa,la storia delle delusioni edei risentimenti che l’Unitàgenerò, dei contropoterilocali che produsse, delmodo in cui le grandi vicen-de della storia trovaronodeclinazione a livello localee qui vennero lette e inter-pretate, del rapporto tracentri (nascenti) e realtàdistanti ma dotate di unaloro precisa fisionomiasociale e culturale. Unaoccasione, tanto il Museoquanto le attività che haorganizzato ultimamente,per tornare a riflettere a 150anni dall’Unità in modo cri-tico ma sereno, al di là diqualsiasi tipo di rivendica-zione localistica o spintaautonomista, sulla nostrastoria recente in un annonel corso del quale non

sono mancati, a marginedelle più importanti cele-brazioni, momenti di ecces-siva retorica.

Riferimenti bigliografici contenuti neltesto:

-Antonio Mattei, Brigantaggio som-merso. Storia di doppiette senza leg-genda, Roma, Scipioni, 1980

-Vincenzo Padiglione, Storie contese eragioni culturali. Catalogo del Museodemoetnoantropologico del Brigantag-gio di Itri (Lt), Itri, Edizioni Odisseo,2006

-Mario Turci, Cultura materiale, “AM -Antropologia museale”, anno 8,numero 22, speciale 2009

-Adolfo Rossi, Nel Regno di Tiburzi,ovvero scene del brigantaggio nellacampagna romana, Roma, TipografiaEdoardo Perino, 1893

-Vincenzo Padiglione e Fulvia Caruso,Tiburzi è vivo e lotta insieme a noi.Catalogo del Museo del brigantaggiodi Cellere, a cura di Marco D’Aureli,Arci dosso, Effigi Editore, 2011 (Iltitolo del catalogo, che dalla letturadel volume trova chiarificazione, meri-ta forse in questa sede una piccolanota. Distante da ogni volontà enco-miastica o elogiativa, in modo mali-zioso suggerisce che il brigante è vivonella memoria dei territori che fannoriferimento al Museo ed è inoltre unelemento di non secondaria importan-za nei processi di patrimonializzazio-ne attivi al loro interno: si veda ilgran numero di attività commerciali divario tipo a marchio brigante chesono nate in questi anni tra la provin-cia di Viterbo e quella di Grosseto)

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Questo è il titolo premesso dalnostro direttore ad un artico-lo di Lamberto Guidolotti inuno dei primi numeri della

rivista (a. II, n. 5, set 1997, p. 3). “Comedalla preistoria - scrive Antonio Matteiin tale premessa - di recente mi è riaffio-rata alla mente un’espressione popolanaudita sicuramente da bambino: “PareTribbuzzi!”. La usavano uomini e donnecon un gesto scandalizzato per indicareun tipo losco, o prepotente, e insommauna “facciaccia”. “Pare Tribbuzzi”, ossiail brigante Tiburzi, come ho saputo poi,ma che con quella deformazione eraancora più terrificante, come dire l’orco,o una divinità infernale. Ci venivano bol-lati anche dei monelli, quando per certeloro espressioni scontrose o attributi da

capibranco assumevano atteggiamenti adir poco indisponenti: “Pare Trib buz zi!”.

E’ esattamente quello che ricordo delfenomeno brigantaggio nel dialettopiansanese: “Pare Tibburze” (o ancheTribbuzze) di diceva di un bambino“sfavaldo, senza timordeddio, che ‘nn‘iva pavura manco del diavelo”. Ricordoun timido cane che si chiamavaTibburze. Incu teva paura solo nelnome. E del resto nel dizionario etimo-logico I dialetti italiani di Cortellazzo eMarcato (Utet 1998) trovo che “era fre-quentissima l’usanza di mettere il nomeTiburzi al proprio cane più robusto, piùtetro (come si diceva) o più capace nellaguardia o nella caccia. In parte, questausanza si riscontra ancora oggi” (Parolevita del Monte Cetona, Montepulciano,

1990); “E mi sovviene anche in manieradistinta come... fossero diffusissime,nelle nostre campagne, le pariglie dibuoi che si chiamavano Tiburzi e Fiora-vanti” (A.Cavoli, Maremma amara,Valentano, 1989, p. 36).

Una variante poteva essere “Pare ‘nbandito”, “Pare ‘l bandito Giugliano”,con evidente riferimento al sicilianoSalvatore Giuliano di più recentememoria.

Un altro detto che potrebbe esseremesso in relazione al primo era: “DeCèllere manco ‘l vento è bbòno!”. Celle-re, patria di Tiburzi, è il paese confinan-te il cui abitato è posto leggermente asud-ovest del nostro, e cioè nella dire-zione del vento di ponente, portatoredi pioggia. Ma quel manco (= neppure,nemmeno) presuppone evidentementequalche altra negatività, che natural-mente si è portati ad individuare nelfamigerato bandito e nella sua trucemitologia. Uno di quei blasoni popolaridi cui i paesi si fregiano reciprocamen-te, ma che in questo caso potrebbeavere una ben determinata origine.

Di un bambino malridotto, malmesso,malconcio, sbrindellato, sbracalato,sporco, si diceva: “Pare uscito da lamacchia”, “Pare ‘n foriscito”. [Nellostesso dizionario etimologico già citatotrovo la voce: foruscito, sm. (toscano:Pistoia). ‘Persona molto trascurata nel-l’aspetto esteriore’. Dall’immagine delfuoriuscito di un tempo, identificato nel-l’Amiata con il ‘brigante, l’uomo che si èdato alla macchia’].

Dell’aneddotica piansanese ricordoinfine anche questo simpatico e diver-tente dialogo tra madre e figlio:

- Oh ma’, ‘l ba’ nd’ito? (il babbo dov’èandato?)- Quante volte te l’ho da di’ che nun sedice ‘l ba’ nd’ito?- E come se dice?- Se dice ‘l ba’ nd’è. (il babbo dov’è?)- Oh ma’, ‘l ba’ nd’è?- E’ ito a fa’ ‘l porco a Valentano.

Alla fiera di Valentano ci si recava peracquistare il maialetto da allevare, enon per combinare sconcezze, e quindiseguiva la risata finale per il duplicesignificato sotteso alla risposta. Ma loscambio di battute serve per dimostra-re che si doveva evitare di accostare laparola bandito (dalla pronuncia tutta diseguito dell’espressione ‘l ba’ ‘nd’ito)alla figura del padre.

Gioacchino

Bordo

Piansano

“Pare Tribbuzzi!”

Storie popolari dei briganti, in ottava rima, pubblicate dalla casa editrice Salani di Firenze

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Proprio centoventanni fa, e precisamente il 3 giugno1891 il comandante la stazione dei carabinieri reali diLatera, brigadiere Sebastiano Preta, riceve l’ordine direcarsi presso la macchia di S. Magno presso cui si

presume s’aggirino Damiano Menichetti e Fortunato Ansuini,due briganti tristemente noti per i delitti e le efferatezze com-piute nei paesi dell’Alta Tuscia e non solo.Preta prende tre carabinieri - tra cui Luigi Carosi - e raggiun-ge la macchia presso cui incontra tal Giuseppe Papi - un guar-diano dei Brenciaglia - il quale, guardandosi bene dal tradirei due briganti (sa cosa accade a chi non tiene la bocca chiu-sa!) s’allontana, ma non fa duecento passi che uno dei duemalviventi, avendolo scorto in colloquio col Preta e suppo-nendo il tradimento, gli spara.Briganti sì, ma briganti incauti - per non dir peggio - perché ilcolpo, che lascia incolume il Papi (si getta a terra fingendosimorto) allerta la pattuglia che si mette in caccia. Ci sono dueviottoli: Preta e Carosi s’avviano sul primo mentre gli altri dueimpegnano il secondo. E qui la tragedia: protetto da un foltocespuglio che fa argine al sentiero su cui s’avanzano il briga-diere ed il Carosi, il Menichetti ha tutto il tempo per prende-re bene la mira e, dopo aver freddato con un micidiale colpoil brigadiere Preta rivolge il suo fucile (un Lancaster ultimomodello) verso il Carosi. Con un ben mirato colpo gli spaccain due l’arma ed il brigante, certo d’aver così definivamenteliquidato la partita con i suoi inseguitori riprende la fuga. Mamal gliene incoglie perché non sa che il giovane carabiniereCarosi (ha appena 22 anni), lungi dal pensare di abbandonarela lotta, liberatosi dei due spezzoni della sua arma ormaiinservibile raggiunge il suo sfortunato comandante, ne racco-glie l’arma ancora carica e si getta all’inseguimento dell’assas-sino. Raggiuntolo, gli spara ferendolo gravemente.Inutile dire che gli altri militari si precipitano verso il luogodella sparatoria mettendo fine alla storia delittuosa del Meni-chetti il quale, processato e condannato, finirà poi i suoi gior-ni nel tristemente noto bagno penale di Civitavecchia. Del-l’Ansuini, dopo il fatto narrato, non si saprà più nulla. I due valorosi carabinieri, che legheranno i loro nomi ad unadelle vicende che più hanno segnato la storia del nostro bri-gantaggio, verranno decorati con medaglia d’argento al valormilitare.Il brigadiere Preta fu sepolto in Valentano e sulla tomba fueretto un busto in marmo che, successivamente - precisa-mente nel 1970 - fu posto in una delle piazze di Latera che fua lui intestata.

Nel 1991 il comando dell’Arma decise di dedicare la stazione

dei carabinieri di Bagnaia al nome di Luigi Carosi mentre

quest’anno, ricorrendo come detto centoven t’anni dallo

scontro a fuoco, l’Arma ha festeggiato l’anniversario organiz-

zando un bellissimo incontro a cui hanno partecipato autori-

tà e cittadini e, come ospiti d’onore, i rappresentanti della

famiglia.

In chiusura una piccola chicca: in occasione del processo

che si tenne in Viterbo il giudice chiese tra l’altro al Meni-

chetti come mai non avesse deciso di uccidere prima il cara-

biniere più giovane e quindi più pericoloso, ma avesse, al

contrario, indirizzato l’arma verso il più anziano brigadiere.

Sembra abbia risposto che l’espressione ed il viso del

giovane non incutevano alcuna pau ra, sembrando addirittu-

ra “un po’ tonto”. I fatti hanno poi dimostrato che non è

buona cosa - specie per un bandito - valutare la pericolosità

di chi si ha di fronte basandosi sul suo aspetto e sull’espres-

sione del suo viso.

Caro Direttore, ho lavorato per anni in regioni d’Italia nonproprio tranquille e posso assicurarti che ho avuto modo diconoscere tanti ufficiali, sottufficiali ma soprattutto carabi-nieri semplici di cui serbo un grato ricordo; lascia che attra-verso La Loggetta io possa rivolgere loro il mio saluto ed isensi della mia più profonda stima.

[email protected]

Proprio centoventanni fa... PieroCarosi

Caro Direttore, ho accolto con piacere la tua idea di dedicare il prossimo numero della Logget-ta al problema del brigantaggio perché, pur non essendo io un esperto della materia, ho comun-que la possibilità di dire la mia grazie al fratello di mio nonno paterno, Luigi Carosi (il babbodell’indimenticato Attilio che tu ben conoscevi) il quale, come si leggerà nel breve contributoche allego, ebbe una parte di protagonista nella cattura del famigerato brigante Damiano Meni-chetti. Ciò che riferirò fa parte delle memorie di famiglia tramandate verbalmente e magari sog-gette ad involontarie omissioni o distorsioni che gli storici - e tu in particolare - potrete se delcaso correggere o integrare.Lasciami infine dire che è con un certo orgoglio che porto lo stesso cognome di “Zio Luigi”, ilgiovane carabinierino - era poco più che ventenne all’epoca del fatto! - che con grande corag-gio e sprezzo del pericolo si sostituì al suo comandante, ucciso proditoriamente dal bandito,consentendone l’immediata cattura.

Il fucile Lancaster quiriprodotto era in produ-

zione nella secondametà dell’800; non èescluso che Damiano

Menichetti (nella foto afianco) ne possedesse,se non lo stesso, uno

molto simile

Luigi Carosi

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Le placide distesedella Tuscia e le vieromane, a trattideserte nel sole esti-

vo, a tratti congestionatedal traffico, nascondono più

del saltuario panorama ina-spettato. Uno sguardo indie-tro nel tempo rivela il loropassato emozionante e peri-coloso, in un periodo in cuibriganti e banditi governa-

vano le strade ed i rischiper chi si trovava in viaggioandavano al di là di un auto-velox ben nascosto o di unacoda sul raccordo.Nei dettagliati diari di viag-

gio di giramondo più o

meno illustri dei secoli

ritroviamo sempre qualche

pagina dedicata ai pericoli

della strada.

Il Cardinale Henry Stuart,

nei suoi diari datati 1763 e

1776, descrive i soldati

còrsi che pattugliavano la

strade della Montagna di

Viterbo (da Sutri e Ronci-

glione fino a Viterbo e Mon-

tefiascone) con il compito

di proteggere dai banditi la

posta papale ed i viaggiato-

ri. Anche vari viaggiatori

inglesi (Stevens e Henry P.

Wyndham) confermano che

nel 1765-66 era usanza

avere una scorta militare

per il tragitto da Radicofani

e Centeno fino a Viterbo .

Goethe, che viaggiando non

tralasciava neanche il più

insignificante dei dettagli

nei suoi diari, arrivando a

Roma nel 1786 non fa alcun

cenno ai briganti, ma nota

con terrore che gli omicidi

erano all’ordine del giorno

nel quartiere degli stranieri

a Roma (zona di Piazza di

Spagna, Via del Corso) dove

alloggiava.

La presenza dei briganti era

più marcata nella zona a

sud di Roma nel XIX secolo,

specialmente nella zona di

Terracina, Subiaco e Castel

Madama. Secondo i contem-

poranei uno dei loro covi

preferiti era Villa Adriana a

Tivoli, mentre per quelli del

Lazio settentrionale il rifiu-

go più sicuro era

l’impenetrabile Selva del

Lamone.

La situazione esasperante

delle strade laziali spinse

nel 1819 il cardinale Ercole

Consalvi, segretario di

Stato, a richiedere un prov-

vedimento straordinario al

papa: il permesso di radere

al suolo la cittadina di Son-

nino (dove nacque il futuro

segretario di stato Cardina-

le Antonelli) perchè gli abi-

tanti aiutavano i briganti.

Incontri e scontricon viaggiatori stranieri

di Mary Jane Cryan e Giulia C. Pancani

“Attacco alla diligenza” (particolare), incisione acquerellata di E. Guerinddel 1853

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Un provvedimento simile fuattuato sotto l’ordine napo-leonico e descritto nel 1839dall’irlandese Margue rita,contessa di Blessington.Una delle prime donne viag-giatrici nella zona del viter-bese, Marguerita notò leforeste abbattute per “sradi-care le orde di banditi che leinfestavano” nel suo tragittoattraverso Radicofani ed illago di Bolsena: “Abbiamonotato una caverna tagliatain una roccia con due apertu-re che formavano una portae finestra .Questa cavernarudimentale serviva da tanaad una banda di brigantiferoci che incutevano perico-lo ai viandanti”, scriveva.

Charles Dickens viaggiavaaccompagnato dalla moglie,cinque figli e tre persone diservizio e, durante il suolungo viaggio del 1844-45,passò dalla Toscana alloStato pontificio. Purtroppoa lasciare un’impressione algrande scrittore inglesefurono soprattutto gli aspet-ti negativi e ripugnanti delpercorso. Dell’arrivo allado gana papale, venendodalla Toscana, descrive lalurida osteria La Scala,notando che la camerieraportava un copricapo ugua-le a quello indossato dallemogli di briganti. Ad acuirele preoccupazioni delloscrittore la notizia che unabanda di briganti avevaassalito la posta poche sereprima.

La figura del brigante eraben conosciuta ai viaggiato-ri stranieri grazie ai disegnidi Salvator Rosa e Bartolo-meo Pinelli, artisti che raffi-guravano i banditi esaltan-done elementi pittoreschi edando lustro al mito del bri-gante romantico .

Nel XIX secolo i viaggiatorinon erano il bersaglio prin-cipale dei briganti perchénon portavano soldi in con-tanti e le loro lettere di cre-dito erano inutili in manoaltrui. Neanche i numerosi

artisti stranieri che dipinge-vano “en plein air” nei din-torni di Roma avevano datemere perchè erano nor-malmente squattrinati. Ibanditi preferivano cattura-re personaggi ricchi dei din-torni per poi chiederne ilriscatto.

Tra questi vi fu LucianoBonaparte, principe di Cani-no, che aveva subìto un ten-tato rapimento nella suacasa vicino a Tusculum.Furono presi per errore ilsuo segretario e maggiordo-mo, ed il principe si sentìobbligato a pagare unriscatto ai banditi per salva-re gli sventurati. E’ interes-sante notare che il “re deltombaroli” Luciano Bona-parte non fu mai in pericolomentre era nella sua casa diMusignano vicino a Canino,perché troppo rispettato oforse perché teneva occupa-ti i potenziali briganti conoccupazioni più virtuosequali quella della depreda-zione di tombe.

Nel libro “Three Months inthe Mountains east of Rome”pubblicato nel 1820, MariaGraham racconta le storiedegli incontri con brigantivicino a Poli e Subiaco.Negli stessi anni, un’altrainglese, Charlotte Eaton,scriveva a casa che il vettu-rino che guidava la loro car-rozza tremava dalla pauradei banditi, mentre lei e lesue compagne di viaggioimmaginavano di essereavventurose eroine pronte asforzi gloriosi per scapparedalle loro mani pericolose.

Per saperne di più:Italy and the Grand Tour, JeremyBlack, Yale Univ. Press, New Haven,2003The Grand Tour 1592-1796, Ed.Roger Hudson, Folio society, London1993Travels to Tuscany and Northern Lazio,Mary Jane Cryan, Etruria Editions,2004Italia Romantic, Roderick Cavaliero,Tauris, London, 2007The British Abroad, the Grand tour inthe 18th century, Jeremy Black, Su

[email protected]

Le Brigantedi Nescio Nomen

Più de cent’anne fa, ho ‘nteso dine,l’Itaglia era ‘nfestata da brigantech’ereno grassatore, lestofante,tajeggiatore, latre e truffaldine.

Gente tanto salvatica e ‘gnorantema co’ lo schioppo a spalla, e ‘st’aguzzinesgrasciàveno patrone e contadine,e ‘n se salvava manco ‘l viandante.

Fortuna, Itaglia mia, che sèe cambiata!Adesso nun t’ariconosco più:la gente è tutta strutta e laureata.

In quanto a le brigante, tuttalpiù,adesso jè passamo la mesata,‘l portaborse, l’autista e l’auto blu.

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sequestrati ai condannati perché ciò restasse “a perpetuamemoria”, e che non sarebbe stato condannato il cittadinoche, nel catturare il bandito, ne avesse causato la morte.La signoria del ducato di Castro, come visto, dopo la mortedi Pier Luigi e poi di quella di Orazio, caduto combattendoper la Francia nel 1553, era pervenuta al duca Ottavio che,preferendo starsene nelle più gratificanti residenze del Duca-to di Parma e Piacenza, aveva praticamente delegato la curadei territori laziali al fratello, il cardinale Alessandro (Valen-tano 1520 - Roma 1589), chiamato da tutti per la sua munifi-cenza e ricchezza il “Gran Cardinale”.Nella sua corrispondenza sarà proprio lui ad interessarsi deibanditi, tanto che in due lettere datate da Caprarola il 15 e il26 agosto 1578, dirette al card. Filippo Guastavillani, nipotedi papa Gregorio XIII Boncompagni, chiede la liberazione diGio. Bravo da Gallese, ritenuto un bandito e arrestato nelporto della Magliana a Roma, dopo uno scontro a fuoco.Uno dei problemi principali del Ducato di Castro era costitui-to dai rapporti con lo Stato dei Presidi Spagnoli in Toscana,appartenenti al Regno di Napoli e affidati al Governo di Vice-ré. Uno Stato comprendente Orbetello, Ansedonia, PortoSanto Stefano, Port’Ercole, Argen tario, in parte compreso nelterritorio della Repubblica di Siena e in parte concesso inenfiteusi all’Abbazia romana delle Tre Fontane di cui, tral’altro, era titolare proprio il card. Farnese.L’amministrazione dello Stato dei Presidi aveva più volteproposto vertenze e proteste, anche diplomatiche, rivoltealla Camera Apostolica e anche allo stesso cardinal Farnesein quanto ritenuto amministratore del Ducato Castrense,proprio per l’intenso movimento di rifugiati (banditi, malvi-venti, fuoriusciti, esiliati) registrato ai confini del Lazio,soprattutto nei presidi di Orbetello e di Port’Ercole.D’altronde, come scrive lo storico G. Mobelli: “I banditi di una

RomualdoLuzi

Prima che chiamarsi “briganti”, neologismo che si regi-stra in Italia solo dopo il 1829, i fuorilegge erano chia-mati “banditi”. Il fenomeno del banditismo, esistentefin dal Medioevo, esplode in maniera sostanziale nel

territorio italiano soprattutto nel sec. XVI. Ai malfattori ingenere, dai fuoriusciti per motivazioni politiche, ai ladri,masnadieri, e comunque a molte categorie di delinquenti,colpiti dalla pena del “bando”, viene attribuito il termine di“bandito”. Questo si registra anche nello Stato della Chiesa e,quindi, negli altri Stati italiani. Così “bandito” veniva definitoanche colui che si dava alla macchia per sfuggire alla legge.L’espandersi di questa piaga tendeva a coinvolgere, proprioper il grande frazionamento in cui era suddivisa l’Italia deltempo, una grande consistenza di stati, repubbliche, ducati,contee, principati, signorie, e così via. Si dava così l’inizio aquel “bandistimo pendolare” o “di confine” che consentiva aimalfattori perseguiti da un potere, di spostarsi da un territo-rio all’altro e, quindi, sfuggire alla legge.Il fenomeno si registrò, ovviamente, anche nel Ducato diCastro e Ronciglione eretto nel 1537 da Paolo III, AlessandroFarnese, per il figlio Pier Luigi e suoi eredi. Un territorio“cuscinetto”, compreso nell’Alta Tuscia e comunque autono-mamente già posto all’interno del Patrimonio di S. Pietro, ecollocato, verso nord, ai confini della Contea di Pitigliano,Repubblica di Siena, Granducato di Toscana, Stato deiPresidi verso Orbe tello, Signorie di Onano e Proceno. Stando alla documentazione pervenuta, nel territorio delDucato di Castro ci si dovette interessare del brigantaggiodall’11 novembre 1547. In quella data fu Cesare di Bene inBene ad emanare per conto di Orazio, divenuto secondoDuca di Castro alla morte del padre Pier Luigi, assassinatonella nota congiura di Piacenza del 10 settembre 1547, i“Bandi Generali fatti et pubblicati nella città di Castro” checomprendevano disposizioni specifiche riguardanti i banditi.In sostanza si vietava qualsiasi tipo di assistenza “o favorealcuno… ad alcun homicida bandito o condennato dello statoquanto Forestiere sotto pena della vita si serà dello stato etaltra pena ad arbitrio”. Troviamo poi la stessa norma, ampliata e diversamentestrutturata, nel Volumen Statutorum in quo continentur Decre-ta Leges ac Reformationes utriusque status Castri, et Roncilio-nis…, promulgato dal nuovo duca Ottavio il 20 ottobre 1558e fatto stampare in Valentano dal tipografo orvietano MatteoTesori. La norma è compresa nel libro III (Maleficiis) sotto iltitolo: DE BANNITIS, ET POENA RECIPIENTIUM EOS. Anche loStatuto di Valentano, redatto in volgare, tra il 1557 e il 1559,riporta in sostanza la stessa norma.Sorprende come queste disposizioni prevedessero, in casodi tradimento contro i Signori Farnese o la Comunità, la sin-golare pena della demolizione dalle fondamenta dei beni

Quel “bandito”del “Gran Cardinale”

Il “Gran Cardinale” Alessandro Farnese (1520-1589) in un ritratto del Tiziano

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regione tenevano continui rapporti con quelli delle altre regio-ni contermini, affinché gli uni e gli altri potessero proteggersivicendevolmente, favorendo gli sconfinamenti che avvenivanodi frequente, per sfuggire alla caccia delle truppe regolari invia-te contro di loro”.All’ennesima rimostranza degli Stati dei Presidi il card. Far-nese, il 2 settembre 1583, da Caprarola scrive a Giulio Tocco-lo, Auditore dello Stato di Castro, questa lettera di richiamoe di attenzione in riferimento alle imprese della banda capeg-giata da un certo “Zingaro da Orvieto”: “Magnifico Nostro Amatissimo. Il Signor Ambasciatore di Spa-gna in Roma ci ha avvisato, che una quadriglia di fuoriuscitide’ quali si è, fatto capo il Zingaro da Orvieto, havendo fattomolto danno in Port’Ercole, et essendoli stato dato la caricadalle genti di quel presidio, si erano ritirati in Valentano, et per-ciò ci ha fatto istantia, che ordiniamo à i Ministri nostri delloStato che tengano intelligentia, et s’intendano col Governatoredi Port’Ercole, acciocché di concerto si dia alla persecutione dicostoro. Il che essendo molto ragionevole, vi commettiamo,che lo facciate, dando sopra ciò gli ordini opportuni, insiemecon il Luogotenente, al quale sarà questa nostra commune, pro-vedendo sopra tutto, che detti fuorusciti non siano comportatiin alcuna terra dello Stato, et capitandovi, siano perseguitati, etpresi. Il medesimo ordine havrà il Colonnello dello Stato, ilquale si trova qui indisposto, et frattanto in assenza sua suppli-rà il Luogotenente per quello, che tocca all’offitio suo. Néessendo questa per altro, conservatevi sano…”.Una lettera, a dire il vero, del tutto corretta ma, alle duecomunicazioni fattegli pervenire dall’auditore Toccolo il 23 e27 novembre 1583, di cui non conosciamo il contenuto, il car-dinale fornisce questa sorprendente risposta, scritta daRoma il 6 dicembre 1583: “Magnifico Nostro Amatissimo. Rispondendo alle vostre di 23,et 27, del passato vi diciamo… Nel particolare de banditi have-mo visto quello, che ci havete avisato, et non si ha da manca-re di attendere alla persecutione di essi con ogni sorte di dili-genza, secondo che per altre nostre vi si è ordinato. Quantoagli figlioli del Capitan Zingaro, che sono venuti a Castro perhabitarvi con 12 compagni, ci occorre dirvi che si ben noi desi-deriamo a costoro ogni satisfattione, et commodo, per esserestati anticamente amorevoli nostri, et della nostra casa, Nondi-meno quando essi siano banditi dello Stato Ecclesiastico, voisapete, che non si possono assicurar ne nostri luoghi, che sefosse altramente, ci contentariamo, che vi fossero tolerati, etche si facesse loro ogni piacere, et cortesia. Che è, quanto hab-biamo a dirvi in risposta di dette vostre, et state sano…”.Come si evince dalla lettera non si nomina più la banda de loZingaro da Orvieto, ma si fa riferimento ai suoi figli, recatisiad abitare a Castro con ben dodici compagni. Per loro il car-dinale auspica ogni soddisfazione e comodità essendo statigli stessi, e pensiamo anche lo Zingaro, “amorevoli nostri edella nostra casa”, arrivando addirittura a consigliare che segli stessi siano “banditi dello Stato Ecclesiastico” vengano nonsolo “tollerati” ma che si facesse loro “ogni piacere e corte-sia”.Quindi il “Gran Cardinale” non ripudia i banditi facenti capoa lo Zingaro da Orvieto e ai suoi figli, ma chiede per essi ogniattenzione e cura.La “familiarità” di questi banditi come “amorevoli” suoi edella famiglia Farnese ci fanno pensare che forse il nostroCardinale fosse, in qualche modo un po’ “bandito” anche lui!

Dario Tramontana

DomenicoTiburziclasse1887 si

presenta alcomando deldistretto militaredi Roma pereffettuare il ser-vizio di leva suinati dell’anno1887. Viene rice-

vuto dal coman-dante interinale

perl’identificazione.

Secca e precisa ladomanda: nome, cognome

e provenienza. La risposta:“Dome nico Tiburzi, provincia di Viterbo”. Alla secca risposta l’ufficiale salta in piedi di scatto,poi lo fissa per un attimo negli occhi e con tono paca-to ripete: “Domenico Tiburzi dalla provincia diViterbo” e, girandogli intorno più volte con aria pen-sierosa ed espressione dubbia esclama: “Si vede chesei una facciaccia, quante ne hai combinate!”. Ilpovero zi’ Méco (tale per i parenti e amici lateresi), inatteggiamento militaresco e già sull’attenti, impassibilerisponde: “Ma io non ho fatto mai fatto male a nes-suno, nemmeno ad una mosca”. La risposta alteratadell’ufficiale: “Hai pure il coraggio di dire così; ricer-cato per omicidio plurimo, per furto, per evasio-ne…”, e giù una lunga serie di reati. Il povero zi’Méco, sempre sull’attenti e muto come un pesce, rossoin faccia, impassibile incassava un solenne rimproveroe… non si spiegava il perché di tanta violenza verbalee psicologica. Non aveva inconsciamente e incoscien-temente capito che era un caso di… omonimia.Si chiarì il tutto subito dopo, e ‘l zi’ Méco tirò unlungo sospiro di sollievo. Ma l’ignaro ufficiale avevapreso una grossa “cappellata”, come si dice a Latera.Aveva infierito sul povero zi’ Méco, morto nel 1968 eper trent’anni custode del cimitero, uomo mite edumile appartenente alla famiglia dei Piovani, unafamiglia molto religiosa che nulla ha che vedere conil Tiburzi brigante morto nel 1896.Anche il povero l’ufficiale, poco conoscitore della sto-ria, faceva una figuraccia, non sapendo che il famige-rato e più conosciuto brigante del Viterbese era statoucciso appunto nel lontano 1896. Figuraccia controfiguraccia!

Facciaccia!

Latera

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Sui briganti sono statescritte, non dicofiumi, ma addiritturamari di storie vere o

inventate, ma quello che ioti racconto, mio attento let-tore, è stato tramandatooralmente e riguarda più davicino il nostro territorioche, così ricco di vegetazio-ne, di caverne vulcaniche oabitazioni, offriva rifugisicuri a quei loschi figuri.Queste folte e grandi mac-chie hanno dato origineall’espressione “darsi allamacchia”, che sta appuntoad indicare la fuga dalleregole civili, dalla legge odal padrone o dal serviziomilitare, che i briganti intra-prendevano dopo le loromalefatte.Torniamo a Latera, mioindulgente lettore, per vive-re insieme una torbida sto-ria locale. La mia versione èforse più fantasiosa di quel-le ufficiali, ma coincide esat-tamente con quella che hoereditato da ragazzo, e poi-ché questo mio libro ha lapretesa di essere il registrodei miei ricordi, la vogliomantenere intatta.Un certo Cenciarello ed unsuo inseparabile amicobovaro decisero di andare a

rubare il grano di proprietàdi una famiglia laterese cheper discrezione non nomi-no. I due ladri furono rico-nosciuti dal proprietario e,inseguiti, riuscirono a fuggi-re e a darsi alla macchia.Mancaro no dal paesedurante tutto l’autunno, macon la brutta stagionecominciarono ad avvicinarsia Latera. Una sera, con untempo da lupi, raggiunserole prime case e si infilaronoin una squallida locanda abere vino. Ne uscironoubriachi, e raggiunto inten-zionalmente il Corsetto cheporta in direzione di Canale,sbirciarono attraverso unafinestrella illuminata da unafioca lampada a petrolio ericonobbero la persona chel’aveva costretti al brigan-taggio. Senza alcuna esita-zione, puntarono i lorotromboncini in direzionedell’uomo e fecero fuoco. Lascarica non ebbe successoe l’uomo preso di mira,imbracciata la propriaarma, rispose prontamenteal fuoco. Uno dei due bri-ganti, e cioè l’amico exbovaro, rimase al suolo, eCenciarello, preso dalladisperazione per la perditadell’amico, se lo prese inspalla e, nella notte gelida epiovosa, si allontanò versola macchia. Raggiunta laspelonca si accorse chel’amico non era ancoramorto, e con tanto amoreed affetto strinse con lui unpatto di sangue giurandoche non si sarebbero maiseparati, nemmeno dopo lamorte.“Si dice - mi raccontava mio

padre - che Cenciarello vissel’eterno incubo di vedersil’amico accanto ogni qual-volta si sdraiasse sul suo gia-ciglio di foglie. Scongiuròl’amico di lasciarlo in pace,ma la supplica non funzionò,perché anche Cenciarello futrovato morto con una manotesa, come se qualcuno,durante l’agonia, l’avesseinvitato a seguirlo”.

Anche di Brando, brigantedi origine laterese, ti rac-conto una storia popolarelocale.I frutti del nespolo eranomaturi e le mondine, conuna piccola zappa, muove-vano delicatamente la terraintorno alle piantine digrano “vergiliano” e neestirpavano le erbacce. [...]“Vo a fa’ terra nera!”, dice-van le mondine, perché laterra smossa e rincalzataamorevolmente intorno allepreziose piantine apparivapiù scura... Furono intonatigioiosi canti popolari ed ilbrigante, che s’aggiravaguardingo nei pressi, udìquella melodia e si nascosedietro ad una pianta dinespolo per spiare quelledonne. Scoprì che suamoglie faceva parte delgruppo. Allora le si avvicinòed impose a tutte di staretranquille e offrì loro dellenespole. Una donna peròfece il nome del brigante ela parola rimbalzò comeun’eco alle orecchie di unguardiano di origine onane-se che si trovava propriovicino al fosso della Salcinel-la. Costui non perse tempo,e con il suo cavallo corse

immediatamente alla caser-ma più vicina per avvisare icarabinieri. Le forze dell’or-dine corsero subito sulposto ed accerchiaronoBrando Camilli (questo erail suo cognome) che fu cat-turato.

Altri famosi briganti lateresifurono Erpita, crudele esanguinario, di cui poco miè stato raccontato, e RigoMastrille, che si era datoalla macchia per non fare ilservizio militare. Noto perla sua grinta e per le imbo-scate a chi gli dava la cac-cia, spuntando dalla mac-chia e disarmando le forzedell’ordine minacciandolecon il suo tromboncino. Poisussurrava all’orecchio deimilitari: “Non provate più acercarmi!”.

Sempre raccontato dai mieigenitori, attento lettor mio,ti propongo un altro curio-so fatto di briganti. Ho biso-gno però di ambientare pre-ventivamente il fatto conpoche righe di chiarimento.Prima dell’avvento dei trat-tori, per arare la terra veni-vano utilizzati i buoi, e contutte le terre da dissodareche erano state distribuitealla popolazione, i proprie-tari di questi animali eranoricercatissimi. Non c’era oradel giorno in cui i buoipotessero riposare, e lavo-rando dalla mattina allasera, le povere bestie aveva-no bisogno di abbondantecibo, cosicché venivanoportate a pascolare dinotte. I bovari per stare sve-gli utilizzavano un banchet-

I Brigantidal libro “Mi ritorna in mente”

FrancoGinanneschi

Mi sembra opportuno far conoscere ad un numero più vasto di lettori quanto Franco Ginan-neschi con il... sapere ingenuio della memoria ci scrive nel suo “Mi ritorna in mente”: le bra-vate dei briganti che proprio a Latera avevano facile accesso nel territorio di Pitigliano, per-correndo un misterioso traforo utilizzato come rifugio per le nefaste scorribande e comevia di fuga che favoriva anche la loro imprendibilità. (Dario Tramontana)

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to con un solo piede inequilibrio instabile e resta-vano armati tenendoun’accetta a manico cortosopra la spalla per difender-si da lupi e cani randagi.Capitava spesso che, alladiperata ricerca di erba, ibovari si inoltrassero nelleproprietà di ricchi proprie-tari terrieri che possedeva-no la maggior parte del ter-ritorio. Costoro affidavano adei guardiani il controllodelle loro terre composteda campi e boschi. A Lateraavvenne un fattaccio a pro-posito di un guardiano diso-nesto che, per far bellamostra delle proprie brava-te, girava di notte per sco-vare i poveri bovari in cercad’erba e li denunciava alproprio padrone. Era inevi-tabile che costui fosse mal-visto da tutti i bovari diLatera. Accadde dunque che unbovaro, soprannominato ilBello, assieme ad un amicodetto Pasqualaccio (dalnome Pasquale) decidesse-ro di ammazzare il guardia-no spione, e stabilirono cheil primo che l’avesse trova-to doveva ucciderlo. Giura-rono con un patto di san-gue, ed invero una mattinaqualcuno trovò il corpo delguardiano sotto il PonteSasso, colpito da diverseaccettate alla testa.Il Bello e l’amico Pasqualac-cio si incontrarono un gior-no in una bettola e, nono-

stante avessero giurato dinon parlare mai con nessu-no dell’omicidio, il Bello sirivolse all’amico con vocealta dicendo che aveva fattobene ad ammazzare il guar-diano. Pasqualaccio si irritòassai e, per ripararsi daeventuali accuse, risposeche quella notte non eranemmeno uscito con i buoi,ma il Bello, annebbiato daifumi del vino, insisteva.Allora Pasqualaccio cedettee confessò il delitto, chie-dendo però all’amico di giu-rare sul figlio che non neavrebbe mai fatto parolacon nessuno! Il Bello giurò,ma da lì a pochi giorni, atti-rato da una ricompensaofferta dai gendarmi a chiavesse fornito notizie utili arintracciare l’autore di quelferoce omicidio, fece laspia e Pasqualaccio sitrovò ammanettatoe tradotto al carce-re di sicurezza diCivitavecchia.Dopo qualcheanno, Pasqualaccioriuscì ad evaderedal carcere attra-verso una fognatu-ra che sboccava sulmare e, attraversan-do impervie macchieed orridi burroni,ritornò segretamentea Latera.Credeva di essere alsicuro, lo spione, madopo qualche tempo unanonimo viandantepassò da Latera e chie-se a qualche amicofidato dove potessetrovare il Bello. Gli furisposto che si trova-va alla Valle del Nocecon le sue bestie econ il figlio. Il vian-dante si recò sulposto e, dopo esser-si seduto per terraall’estremità delcampo, caricò apallettoni il suotromboncino.Quando il Bello arri-vò alla fine del solco,si trovò di fronte l’ex

amico bovaro, ormai dive-nuto un brigante. Spaventa-tissimo, lo spione chiese diaver salva la vita. Si inginoc-chiò dicendo di uccidere lebestie al posto suo, ma ilbrigante rispose che lebestie non gli avevano fattoalcun male. Allora supplicòdi nuovo il bovaro affinché,al posto suo, ammazzasse ilfiglio. A questo punto il bri-gante Pasqualaccio nonesitò un istante e gli scaricòaddosso il trombone pla-cando tutta la sua ira e ilrancore che aveva accumu-lato in corpo fin dal giornodella soffiata che l’aveva

costretto ad una vita da bri-gante! Di fronte a quellascena il figlio rimase dop-piamente sconvolto: sia perl’assassinio del genitore esia, soprattutto, per le cru-deli parole del padre.Pasqualaccio imperturbabilesi allontanò di poche decinedi metri, accese il suo siga-ro, attese l’arrivo dei gen-darmi, e quando questi sene andarono con il cadave-re del Bello, caricato su uncarro, coperto da un len-zuolo bianco, si allontanòper darsi nuovamente allamacchia.

L’uccisione del brigante Basilietto da parte di Domenico Biagini nel 1879(disegno di Luciano Funari tratto da “Il sentiero dei briganti” cit.)

Il taglio popolare di queste pubblicazioni si desume anche dalla rappresentazione iconografica convenzionale - e assolutamente non realistica - delle figure dei briganti

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Nei mesi successivi alla procla-mazione del Regno d’Italia, chesanciva il raggiungimento del-l’unità nazionale, sebbene

ancora incompleta, si dovettero affron-tare le notevoli difficoltà e i gravi pro-blemi, posti dall’unificazione di Statidiversi, per di più senza la mente diret-tiva di Cavour, morto il 6 giugno 1861 esostituito da Bettino Ricasoli alla guidadel governo.Tra i tanti problemi era emerso anchequello del brigantaggio, che nell’Italiameridionale aveva cominciato ad assu-mere proporzioni allarmanti a comin-ciare dalla fine del 1860 con lo sciogli-mento dell’esercito borbonico, edaveva raggiunto il picco nell’aprile1861, quando territori e città interecaddero in mano a grosse bande bri-gantesche, finanziate dai Borboni.Ciò creava forti allarmismi e sospettianche in altre zone, come la Maremmatoscana, al confine dellaquale con lo Stato Pontifi-cio scorazzavano datempo piccoli gruppi dibriganti, tanto più chequesto confine era dive-nuto politicamente sensi-bile per il rischio di inter-venti nel territorio lazialedi corpi armati sottol’egida dei mazziniani edel Partito d’Azione conl’obiettivo di cacciare daRoma il papa, protettodalla Francia.Ne sono esempio alcunidispacci e lettere del-l’estate 1861: il 2 agosto ildelegato di Pitigliano scri-veva al prefetto di Gros-seto che Sorano e Mancia-no, compresi nella suagiurisdizione, chiedevanodi avere “qualche porzio-ne di truppa” o almenofucili sufficienti per lamilizia locale, lamentan-dosi per essere esposti“ai pericoli dei briganti”;così la mattina del 5 ago-sto furono inviati da Pian-

castagnaio a Sorano diciotto lancieri,che fecero perlustrazioni sul confinepontificio verso Pitigliano e poco dopoaltre perlustrazioni furono compiuteverso San Quirichino (oggi San Quirico)e Montignano da granatieri giunti daRadicofani, senza scoprire niente diallarmante.Tuttavia il 6 agosto il prefetto di Gros-seto inviava un rapporto, in cui venivaaffermato che si temeva un’invasionedel territorio toscano dalla parte diValentano e rimarcava che c’era unalinea di strada lunga circa 24 miglia,che andava da Montalto nello Statodella Chiesa a Scansano in Toscana, laquale era del tutto sguarnita di truppe;lungo questa linea, passando dal Chia-rone, Cutignolo, Marsiliana, Colle diLupo, Pereta “senza toccare i luoghi pre-sidiati”, si poteva temere qualche colpodi mano dei briganti, che avevano per

tale via la possibilità di penetrare benaddentro al territorio toscano; il prefet-to considerava invece abbastanza guar-data la linea che da Valentano e Farne-se andava al Ponte di San Pietro perManciano.Tuttavia si trattava di allarmismi, procu-rati da voci del tutto infondate; infatti siai lancieri che i granatieri inviati in perlu-strazione, non avendo trovato niente, sene ritornarono rapidamente alle lorosedi e lo stesso delegato di Pitigliano l’8agosto scriveva laconicamente che “sulbrigantaggio e movimenti di bande di mal-viventi, non vi sono notizie”.Ma tali allarmi dovettero ripetersiancora, arrivando a far sospettare addi-rittura che si volessero utilizzare lebande di briganti, agendo anche sulconfine tra la Maremma toscana e quel-la laziale per sconvolgere l’ordinecostituito.

Angelo Biondi

Allarmismi, ricordi, aneddotisul confine tosco-laziale

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Ne rende testimonianzauna lettera del 30 agosto1861, inviata da Siena aRicasoli da Giuseppe Bal-dini, patriota fra i dirigentipiù attivi a Siena e in Ma -remma, che aveva di mo -rato anche a Pitigliano,aveva partecipato colgrado di maggiore a varieazioni dei volontari gari-baldini e aveva comanda-to fino a pochi mesi primail corpo armato della Legadei Comuni di Castro.Nella lettera il Baldini dicetestualmente: “Sembramimolto minacciante la deter-minazione presa scono-sciutamente dalla Corte diRoma e dal Borbone diNapoli su ciò che riguardal’espansione del brigantag-gio presso la linea delnostro confine nella provin-cia di Viterbo e altrove.Con sicurezza i detti briganti hanno leloro guide, esse sono internate nella pro-vincia toscana, dove trovano appoggio emezzi da una quantità di impiegati equindi dai clericali. La loro influenza èrivolta alle insinuazioni del malcontentonelle truppe e quindi sulle campagne,servendosi del prestigio religioso, ilquale non porta alcun effetto; dipoi nellecittà e paesi servonsi del terrorismodella fame…”.Il sospetto che quanto avveniva al sudriguardo all’utilizzazione del brigantag-gio da parte dei Borboni, spodestati daNapoli, si ripetesse anche sul confinedella Maremma toscana con il viterbese,era in realtà del tutto infondato ed insus-sistente era l’affermazione di un appog-gio ai briganti da parte dei reazionari; ilvero problema viene infine toccato dalBaldini: “la fame” delle popolazioni rura-li e delle plebi cittadine, ma questo,come accadde per il sud d’Italia, è vistonon come il problema, ma solo come unmezzo usato dagli oppositori dellacausa nazionale contro il nuovo Regnod’Italia, per arrivare alla sua dissoluzio-ne e al ritorno dei vecchi regnanti.

Nei paesi della collina maremmana vici-ni al confine con il viterbese sussistonoancora frammentari ricordi dei brigan-ti, che a lungo praticarono anche que-ste zone.A Sorano si raccontava che il briganteAntonio Ranucci manteneva un ottimorapporto con i Masini, una delle fami-glie benestanti di Sorano.

Spesso Ranucci veniva ospitato al loropodere detto Monte, lungo la strada traSorano e Pitigliano; il podere era postosu un cucuzzolo e godeva di un’ampiavista, così il brigante e i suoi accoliti, incaso di allarme, potevano dileguarsiverso il sottostante botro del torrenteCaleno o nel vicinissimo bosco di Mon-teciterna, attraverso il quale si poteva-no raggiungere agevolmente il fosso diFiletta e quello di Valle Orientina, perpoi dirigesi verso il confine dello StatoPontificio ed i boschi di Mezzano; sidiceva che spesso poteva capitare chei briganti se ne andavano e arrivavano icarabinieri in perlustrazione alla lororicerca; i Masini ospitavano indifferen-temente sia gli uni che gli altri con lamassima tranquillità.Si narrava pure con ammirazione che leragazze di questa famiglia, ottimeamazzoni, usassero spesso fare sfrena-te cavalcate con i briganti nella imper-via campagna intorno a Sorano.Si ricordava poi che nei poderi del Pia-netto, vicino al Pian della Madonnaverso Sovana, un po’ all’interno rispet-to all’attuale strada Sorano-Sovana, cheallora non esisteva, si faceva spessovedere il brigante Luciano Fioravanti,braccio destro di Tiburzi fino alla suauccisione nel 1894. In questi poderi ilbrigante veniva ospitato, anche a man-giare e a dormire. All’occasione venivaa ballare e a quanto pare aveva pureintrecciato relazioni con qualchedonna vedova; d’altra parte la suamorte al Lascone in comune di Pitiglia-

no nel 1900 avvenne, pare, anche per irancori che Fioravanti si era attirato“per storie di donne”.

Infine nella suddetta area toscana diconfine è ancora ricordato tra la popola-zione un aneddoto riguardante proprioFioravanti, che furbescamente avrebbegiocato una beffa ai carabinieri.Si racconta dunque che il brigante eraintervenuto ad una festa da ballo in unpodere nelle campagne di San Martinosul Fiora, come aveva fatto in altre cir-costanze.Ma era arrivata una soffiata ai carabinie-ri, i quali si avviarono verso il poderequasi a mezzanotte, convinti che nelpieno della festa il malandrino si sareb-be sentito più sicuro e avrebbe abbassa-to la guardia, così da poterlo sorprende-re con più facilità, anche perché i militiavevano uno svantaggio: non conosce-vano la fisionomia di Fioravanti.Però il brigante proprio a quell’oraaveva deciso di andarsene; uscì quindidal podere, ma percorsa poca strada albuio, si trovò di fronte proprio i carabi-nieri; al primo momento di sorpresa, sirese conto dal loro atteggiamento chenon lo avevano riconosciuto e riacqui-stò tutto il suo sangue freddo; i carabi-nieri, credendo che si trattasse di unqualunque partecipante al ballo che sene veniva via, gli chiesero subito se allafesta c’era Fioravanti, ed egli, ridendo incuor suo, rispose con sicurezza: “Quan-do c’ero io, c’era anche Fioravanti”.

I disegni di pastori e briganti sono di Luciano Funari(da “Il Sentiero dei Briganti” cit.)

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Pur essendo stato il brigantaggio un fenomeno endemi-co in varie contrade dello Stato Pontificio, fino alleporte si può dire dell’Urbe, in questa parte del BassoViterbese i briganti sono apparsi per lo più come per-

sonaggi circondati da un alone di leggenda, che li rendevanel contempo oggetto di rispetto e di paura: ricordo il timo-re degli anziani quando rievocavano le “imprese” di Ansuinie Menichetti, una coppia di fuorilegge che si sarebbe mac-chiata, a loro detta, di ogni sorta di efferati misfatti. Ma lafigura di brigante che più di ogni altra è rimasta impressanella memoria collettiva è senz’altro quella di Antonio Gaspa-roni da Sonnino, qui detto Gasberó.Con la sua banda infestò per diversi anni il Lazio meridionale:batteva la campagna, rendendosi protagonista di grassazionie rapine, di sequestri di persona e ricatti, di irruzioni nei con-venti, di ammazzamenti, accompagnati tuttavia da gesti digenerosità che lo resero celebre e furono esaltati soprattuttonei rendiconti dei viaggiatori stranieri. L’immaginazionepopolare, a sua volta, lo trasformò in una sorta di eroe senzapaura che lottava contro le ingiustizie a difesa dei deboli e deidiseredati, incarnandone l’anelito al riscatto.

Quale fosse il suo aspetto fisico lo sappiamo dai verbali dellapolizia, alla quale si era costituito nel 1818, per poter usufrui-re di una delle varie amnistie che il papa concedeva nel ten-tativo di ridurre quella piaga, che rendeva insicure le stradee minacciava la tranquillità dei cittadini fin dentro le lorocase: “Di statura alta, corporatura snella, viso ovale, bocca,mento e naso regolare, poco vaiolato, barba nascente colorcastagno, capelli simili legati a codino, avente alle orecchie gliorecchini d’oro a navicella, vestito con pezze e cioce, calzonicurti, corpetto e giacchetta di velluto blu, cappello di feltronegro tondo a cuppolone”. Era, come si può ben immaginare, un personaggio fiero edenergico. Il suo nome divenne noto in queste contrade solodopo il 1825, quando venne rinchiuso col resto della bandanella fortezza di Civita Castellana, allora una delle più malfa-mate prigioni papali, tanto da essere denominata “la bastigliadello Stato Pontificio”. L’uomo, a cui né i gendarmi né i drago-ni pontifici erano per anni riusciti a mettere la mani addosso,era caduto ingenuamente nel tranello tesogli astutamentedal vicario di Sezze, monsignor Pellegrini: questi, tramitel’opera di alcune donne della banda l’aveva convinto a con-

Luigi Cimarra

Il brigantaggio da lontano:il “feroce” Gasperonitra realtà e leggenda

(prima parte)

Il Forte del Sangallo a Civita Castellanaove fu rinchiuso Gasparone

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segnare le armi e ad arrendersi dietro assi-curazione di impunità e concessione di unlasciapassare che gli avrebbe consentito diespatriare e tentare la fortuna nel nuovomondo. Invece fu rinchiuso dapprima nelbagno penale di Civitavecchia e poi a CivitaCastellana. In breve tempo qui divenne sipuò dire un’attrazione turistica, con un“business” alimentato dalle visite dei nume-rosi viaggiatori che transitavano per recarsia Roma. In giro è ancora possibile trovarequalche vecchia immagine in cui è ritrattocon la sua banda nel cortile maggiore delcarcere. Aveva sempre avuto un debole perle belle donne, infatti si era dovuto dare gio-vanissimo alla macchia per aver ucciso apugnalate il fratello di una contadina di cuiera invaghito. E proprio da questa sua “incli-nazione” trae ispirazione un sonetto inedito,intitolato “Gasperone a Capulaja”, nel qualeil poeta sabino Benito Frattini raccogliel’eco di leggende locali:

Strafogate che s’ebbe a colazione‘na quarantina e ppiù de bbertollacce,

u banditu de strada Gasperone‘nfilò ‘e deta sotto de legacce,

pe’ ben capisse quelle de carzette,de ‘na femmina che ‘a notte scorzal’avéa sarvatu pure dae manette,

mendre i sbirri strignéono la mórza.

“Ardolà, cristianacciu sconvertitu,scappa de casa subbitu, a l’istande”

je disse quella ’n tonu risenditu,

co’ ‘na voce de frusta sibbilande,“Te nun arzi l’onore de bbanditu:

sei solamende ‘n miseru brigande”

A Civita Castellana ancora oggi è diffuso il modo di dire “mepari o bbrigande Gasberó”, rivolto a persona disordinata,scarmigliata e male in arnese.Ancora più curiosa è la leggenda che si tramanda sull’inge-gnoso stratagemma che il brigante avrebbe escogitato alloscopo di evadere dalla fortezza: per sgravarsi dei bisognicorporali i detenuti dovevano recarsi in un ambiente comu-ne, nel quale c’erano dei fori attraverso i quali gli escremen-ti e i liquami finivano nelle fogne, le quali poi scaricavano, daidirupi tufacei su cui sorge la cittadina, nei ruscelli di fondo-valle. Dopo averci pensato sopra, Gasperoni avrebbe intuitoche quella poteva diventare una agevole via di fuga, adottan-do naturalmente le opportune misure “igieniche”. Da quelmomento avrebbe deciso di consumare solo la crosta dellaquotidiana razione di pane e di accantonare la mollica, mani-polando la quale avrebbe formato via via una palla avente lostesso diametro del foro del gabinetto. Ed un giorno final-mente, eludendo il controllo delle guardie, che non sospetta-vano nulla, avrebbe introdotto quella sfera nel “cesso” edegli le sarebbe scivolato appresso premendo con i piedi.Così quella avrebbe ripulito via via le pareti del condotto elui si sarebbe trovato nella fogna per uscire poco dopo acielo aperto, rendendosi di nuovo uccel di bosco. Ma questaè solo una benevola leggenda, frutto della fantasia della

gente e della simpatia che essa nutriva verso Gasperoni. La

realtà fu invece diversa: egli e i superstiti della banda furono

rimessi in libertà per grazia reale poco dopo la breccia di

Porta Pia, ben quarantacinque anni dopo la cattura. Il rac-

conto è di un memorialista dell’Ottocento, Ugo Pesci ne “Iprimi anni di Roma Capitale (1870-1878)”, che incontrò il

capobanda mentre bighellonava per le vie di Roma “con ilcappello a pan di zucchero, il mantello sbiadito e rappezzato,le ciocie e la lunga barba bianca”. E lo scrittore aggiunge: “maquantunque fosse ormai lontano il tempo delle sue gesta, […]

ebbe subito un numeroso codazzo di ammiratori. Dico diammiratori per ossequio alla verità; il capo brigante non ispi-rava evidentemente alcun disprezzo, ma una curiosità rispetto-sa […]: i ragazzi gridavano qualche volta “Viva Gasparoni!”,senza neppur sospettare come e quanto offendevano il senti-mento morale e il galantomismo: v’era ancora nell’anima dellafolla un istinto di reazione contro gli antichi sistemi del gover-no che facevano stimare dai compaesani il giovane che sidava alla macchia più di quello che andava ad arruolarsi sol-dato nelle milizie papali, e ritenere onorevole il mestiere delbrigante, considerando i briganti in lotta con il governo. Aber-razioni, pregiudizi fin che volete, ma in gran parte giustificatiod almeno scusati dai fatti”. Per alcune settimane fu invitato

a bere e mangiare nelle osterie, sempre seguito da un folto

seguito di popolani, fino a quando le autorità di pubblica

sicurezza, allarmate per il clamore che provocava, decisero

di mandare il vecchio brigante e i suoi compagni alla Pia

Casa di Abbiategrasso, dove egli morì a 89 anni nel 1882. A

Roma, come di solito succede, era già stato dimenticato.

[email protected]

Ritratto del brigante Antonio Gasparone e sua moglie Geltrude(acquerello di F. Raggi del 1839)

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Sul brigantaggio e sui brigan-ti della maremma e dellanostra area, la bibliografiaè vasta e assai conosciuta.

Si forniscono i dati di alcuni libripiù recenti, oltre ad alcuni checostituiscono le fonti principali cuigli studi fanno spesso riferimento.I lettori scuseranno le molte omis-sioni ma se avete voglia di ulterio-ri informazioni basterà inviare levostre richieste all’indirizzo diposta elettronica in calce alla pre-sente.

BARGELLINI, Piero, Tiburzi, Ed.Rusconi, Milano, 1977.

BATINI, Giorgio, O la borsa o la vita,Bonechi Editore, Firenze, 1975

BRIGANTAGGIO (Il) nel Viterbe-se. Cenni storici dei briganticelebri che hanno scorrazzato nelviterbese e particolarmente nellaregione castrense, Valentano, tip.Dell’Indipendente, 1893;unito:

Da Gradoli, in rispostaall’anonimo scrittore sul brigan-taggio del viterbese dal 1880 al1893, Viterbo, Tip. Monarchi,1895.Ristampe anastatiche a cura diAlfio Cavoli, con la collaborazionedi Romualdo Luzi, Roma, Scipioni,1993.

BUZZI, Viola, Doppiette e rosari.Percorso in musica tra i brigantidi confine, Grotte di Castro, Cec-carelli, 1996.

CAVOLI, Alfio, I briganti italianinella storia e nei versi dei canta-storie. Il ribellismo sociale inMaremma e altrove, dalla Roma-gna al Lazio meridionale, Roma,Scipioni, 1990.

CAVOLI, Alfio, Tiburzi. La leggen-da della Maremma, Valentano,Scipioni, 1996.

CAVOLI, Alfio, I briganti dell’Otto-cento nella Maremma e nellaTuscia. Storia e leggenda, Roma,Aldo Sara Editore, 2001.

CAVOLI, Alfio, Tiburzi, il brigante.Storia romanzata, Viterbo, Stam-pa Alternativa, 2006.

CIUFFOLETTI, Zefiro (a cura),Tiburzi e i suoi antenati. Il Bri-gantaggio in Maremma. Il mito,la leggenda, la storia, Arcidosso,Ed. Effigi, 2006.

FANCIULLI, Pietro, Storia docu-mentaria dei reali presidios diToscana, Pitigliano, Ed. Laurum,1999, 3 voll.

LA BELLA, Angelo – MECAROLO,Rosa, Tiburzi senza leggenda.Realistica ricostruzione della vitadel brigante attraverso il maxi-processo ai suoi “manutengoli”,Valen tano, Scipioni, 1995.

LUZI, Romualdo, Il brigantaggio“di confine” al tempo del Ducatofarnesiano di Castro (1537-1649), inserto in: “Biblioteca eSocietà”, XIX, 30 giugno 2000.

MANTOVANI, Domenico, Brigantie brigantaggio a Bieda 1870-1900, Viterbo, Quatrini, 2000,

MATTEI, Antonio, Brigantaggiosommerso (storia di doppiettesenza leggenda), Roma, Scipioni,1981.

PADIGLIONE, Vincenzo – CARUSO,Fulvia, Tiburzi è vivo e lotta insie-me a noi. Catalogo del Museo delBrigantaggio di Cellere, a cura di

Marco D’Aureli, Arcidosso, Ed.Effigi, 2011.

ROSSI, Adolfo, Nel Regno diTiburzi, Ed. OGEC, Roma, 1981

SENTIERO (Il) dei Briganti,Guida, Sulle tracce dei brigan-ti… per scoprire la natura, lastoria, la tradizioni popolari e lacultura del buon cibo, Acquapen-dente, Comunità Montana AltaTuscia Laziale, 2000.

[email protected].

Per saperne di piùa cura di Romualdo Luzi

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C’era da aspettarselo: siamousciti con il numero preceden-te dedicato al brigantaggio difine ottocento nel nostro terri-torio e sono continuati a per-venire contributi sul tema; adimostrazione - se ce ne fosseancora bisogno - dell’interesseche l’argomento suscitacontinuamente, prestandositra l’al tro a diversi modi diapproccio.

Proprio in questo intervallo ditempo, per esempio, abbiamoassistito ad una interessantemostra iconografica sul tema,allestita in un paesino subitodi là dal Tevere, e a tutta unaserie di iniziative in vari luo-ghi della provincia nell’ambi-to di un progetto denominato“Nonni e nipoti”, che tral’altro ha visto alcuni nostricollaboratori intervenire inqualità di esperti dell’argo-mento.

Eccovi dunque tre nuoviinterventi a firma di GiorgioFalcioni, Luigi Tei e LuigiCimarra, che senza dubbioarricchiscono di nuovi parti-colari, sempre interessanti, lagià abbondante letteratura diriferimento.

Da una “Relazione storica”, re -perita su una bancarella, si ap -prende che 169 anni fa, il 30luglio 1842, in Piazza della Roc -

ca a Viterbo venne eseguita la decapita-zione del sedicente Pasquale Grespaldi,che nell’età di anni 24 compiti lasciò ilreo capo sotto la Mannaja, in conse-guenza di un delitto consumato inCapranica appena un anno e mezzoprima. Come è noto fin dal XVII secolola Piazza della Rocca veniva impiegataper le esecuzioni capitali dei condanna-ti, potendo ospitare una notevolemassa di persone, che assisteva sem-pre numerosa al crudele spettacolo.Inoltre, era adibito a prigione il cosid-detto Stallone del Papa, in Piazza Sallu-para, edificio posto a pochi metri dallavasta piazza cittadina.Nella Relazione vengono indicati i fattiche portarono all’esecuzione, ma nonle ragioni del comportamento del con-dannato, sulla cui colpevolezza nonsembrano sussistere dubbi.

Un individuo sconosciuto era stato

notato aggirarsi per tre o quattro gior-

ni a Capranica e probabilmente aveva

destato sospetti, tanto che il 12 genna-

io 1841 il comandante della brigata di

Sutri inviò in perlustrazione i carabinie-

ri Baldi, Masi e Giorni; verso le ore 23 i

tre militi erano fermi sul ponte che dà

accesso al paese, quando lo sconosciu-

to, che poscia si palesò per PasqualeGrespaldi, provenendo dall’interno del-

l’abitato, avvolto in un ferrajuolo,

pesante mantello di panno adatto alla

stagione, in uso all’epoca, passò davan-

ti ai carabinieri e poco lungi si pose a faracqua. Quindi tornò indietro guardan-

do i carabinieri in foggia derisoria, fer-

mandosi sulla porta del Borgo in atto diorinare per tornare poi a ripassare rim-petto gli stessii Carabinieri, sostiedealquanto a breve distanza dai medesimi,ed anche altra volta si condusse verso laporta suddetta, ed in ciò fare si arrestòalcuni momenti rimpetto agli stessi Cara-binieri…non tralasciando di dar sguardiverso la stessa forza. Arrivato alla porta

fece l’atto di tornare ancora indietro,

ma i Carabinieri giustamente ritenendo-lo sospetto e perché forestiero e incogni-to in quel luogo e pel suo procedere,mossero verso di lui chiedendogli chi

fosse. A tale domanda, lo sconosciuto,

rapidamente svoltosi dal ferrajuolo, chelasciò cadere in terra, ed impugnando un

Briganti forever

Quando il boja “lavorava” alla RoccaGiovane giustiziato per l’uccisione di un carabiniere

Giorgio Falcioni

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lungo ad acutissimo coltello si scagliòfuriosamente contro i tre Carabinieri enel vibrare colpi su di essi con incredibi-le celerità colpì mortalmente al cuore il

Carabiniere Luigi Giorni, che morì dopo

pochi istanti. Gli altri due tentarono di

fermarlo, ma Grespaldi ne atterrò uno e

quindi si diede alla fuga gettandosi dal

ponte nella strada sottostante; insegui-

to dalla Forza e da molti terrazzani (gli

abitanti di Capranica) fu raggiunto

dopo circa un miglio e condotto in pri-

gione affetto d’alcune ferite.

La Curia di Sutri costruì il giudizialeincarto e con sentenza del 29 luglio 1841

il Tribunale Criminale di Viterbo pro-

nunciò la sentenza condannando il sedi-

cente Grespaldi all’ultimo Supplizio.

Essendo stata tale sentenza confermata

il 4 febbraio 1842 dall’Eccelso Tribunale

della S. Consulta, venne eseguita per le

mani del Carnefice sulla Piazza della

Rocca in Viterbo il giorno 30 luglio 1842.

Non sono descritte le modalità dell’ese -

cu zione, ma parrebbe che sia stata

impiegata la mannaia, cioè la scure

impugnata a due mani dal boia, ancora

in uso all’epoca, sebbene dagli inizi del

1800 si fosse diffuso l’impiego della ghi-

gliottina, esportato in Italia dai francesi.

Conclude la Relazione Storica: Questa

prontezza di pena adoperata in vicinan-

za al delitto commesso renda migliori gli

Uomini, e questi rammentino che la

morale e la Religione ci tiene uniti in una

sola famiglia per amarci, per aiutarci

come fratelli, non per straziarci a vicen-

da in modo peggiore delle stesse belve.

[email protected]

L’episodio più efferato di brigan-taggio verificatosi a Tuscaniaaccadde il 19 dicembre 1896 conl’uccisione del giovane carabi-

niere Fortunato Cristanelli: carabinierereale a piedi, come si diceva allora, cheera nato ad Avesa, in provincia di Vero-na, il 18 aprile 1872 da Giovanni e MariaZavatteri ed era in servizio alla stazionedi Toscanella. Il giorno prima, il 18 dicembre, perveni-va notizia al comando della tenenza deicarabinieri di Toscanella che verso le14 era giunto in Roccarespàmpani untipo losco che, dalla descrizione som-maria, poteva configurarsi con il lati-tante Pietro Pappatà fu Michele, nato aLeprignano (attuale Capena) il 17 set-tembre 1841, noto brigante autore dinumerosi reati contro il patrimonio econtravventore alla vigilanza di pubbli-ca sicurezza che gli era stata inflitta. Ilcomandante della tenenza disposeimmediatamente l’invio a Roccare-spàmpani del brigadiere a cavallo Giu-seppe Rossi, in servizio alla stazione diViterbo ma temporaneamente a Tosca-nella quale comandante interinale, e ilcarabiniere a piedi Fortu na to Cristanel-li. Alla pattuglia si unì l’ispettore delleguardie daziarie di Toscanella PlacidoQuarantotti.I militari intrapresero il loro servizioalle sedici del 18 dicembre e pattuglia-rono la suddetta zona per tutta la serae la notte successiva. Solo alle nove delgiorno 19 un certo Angelo Bugati, unpagliarolo trentenne che abitava a Roc-carespàmpani, informò i due carabinie-ri che uno sconosciuto armato e daiconnotati corrispondenti al ricercatoera transitato in quella località condirezione di marcia verso la Vaccarec-cia, sempre nel territorio di Toscanella.I carabinieri mossero a quella volta e,giunti al casale di Pian del Giunco,ormai stanchi per il lungo camminare siconcessero una meritata sosta.Dopodi ché l’ispettore Quarantotti sicongedò dagli altri per tornare a Tosca-nella mentre i due carabinieri ripreseroil cammino verso Pian della Selva.Lungo il percorso notarono sulla stradala presenza di orme lasciate da unuomo. Le seguirono e costatarono cheerano dirette verso una capanna la cuiporta di accesso era dalla parte oppo-sta rispetto alla loro direzione di mar-cia. Giunti a un duecento metri dallacapanna videro che un individuo arma-to e dai connotati corrispondenti alPappatà si dava a precipitosa fugaverso il fosso di Pian della Selva. I mili-

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tari naturalmente gli corsero dietrointimandogli di fermarsi e, allo scopo diintimorirlo, esplosero anche dei colpidi moschetto in aria.L’uomo proseguì nonostante tutto lasua corsa e quando il carabiniere Cri-stanelli, più giovane e veloce, stava perraggiungerlo, quest’ultimo si voltò bru-scamente e scaricò il suo fucile controil militare. Cristanelli fu colpito al latodestro della faccia e cadde terra esani-me.Quando finalmente sopraggiunse il bri-gadiere Rossi il cadavere era in unapozza di sangue e il malvivente si eradileguato lungo il fosso. Il sottufficialechiese aiuto ad un pastore che era nellevicinanze ed attese l’arrivo del tenenteIonadi, comandante della tenenza diTosca nella, per avere lumi sul prosie-guo delle ricerche.Il corpo del caduto fu coperto con unmantello da carabiniere e lasciato lìfino al giorno dopo, quando il dr.Monti, medico di Toscanella, andò avisitarlo per la ricognizione di rito. Lotrovò ai piedi del fosso della Carcarellacon la rivoltella ancora in pugno,immerso in “una larga pozza di sangue,in mezzo al quale si vede un dente”.Furono mobilitate le tenenze di Tosca-nella, Viterbo e Civitavecchia e final-mente le ricerche terminarono il 20dicembre 1897, quando i carabinieri diTolfa catturarono il brigante in localitàMacchie Macinelle. La Corte di Assise diViterbo condannò il Pappatà a 30 annidi reclusione.

Al carabiniere Cristanelli fu concessaalla memoria la medaglia d’argento alvalor militare con la seguente motiva-zione: “Visto uscire da una capanna unpericoloso latitante ricercato dalla forzapubblica, non curante del pericolo sidava ad inseguirlo, ma, mentre stava perraggiungerlo, fatto segno ad un colpo difucile esplosogli contro dal malandrino,rimaneva all’istante cadavere. Tosca -nella (Roma) 19 dicembre 1896”.

Il 20 dicembre il comune di Toscanellaadottò a sua volta la seguente delibera:“Ieri alle ore pomeridiane, trovavasi diservizio a Pian della Selva il Carabinie-re Fortunato Cristanelli; s’incontrò collatitante, tal Pappa tani attivamentericercato dalla polizia. Il carabiniere Cri-stanelli inseguì coraggiosamente il lati-tante datosi alla fuga nello intento gene-roso di prenderlo vivo non fece uso dellearmi: ma tale atto umanitario dovevaavere tristi e dolorose conseguenze.

“Colpito da mano aliena”L’atto eroico dimenticato del

carabiniere Fortunato Cristanelli

Luigi Tei

Lapide del carabiniere FortunatoCristanelli nel cimitero di Tuscania(foto dell’autore)

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Infatti l’animoso e generoso giovane col-pito dalla palla dell’assassino ci rimette-va la vita. La giunta unanime deliberarendere solenni onoranze funebri alvaloroso giovane a spese del Municipio.Firmato Candido Onofri Sindaco”.Decretò quindi il lutto cittadino facen-dosi carico delle spese funerarie e latumulazione nel cimitero, ove fu appo-sta una lapide con il seguente epitaffio:

FORTUNATO CRISTIANELLI

COLPITO DA MANO ALIENA

MORÌ NEL CAMPO

VITTIMA DEL DOVERE

NELLA FLORIDA ETÀ

DI ANNI 24PREGATE PER LUI

Forse per un involontario ipercorretti-smo, nella lapide fu sbagliato come sivede anche il cognome del caduto, maè quella “mano aliena” che rimaneimpressa, per l’uso sui generis dell’at-tributo che sembra voler rimarcareancor più l’estraneità dei soggetti mala-vitosi alla “ordinata” società umbertinadi fine ‘800.

Per anni la prefettura di Viterbo inviòdel danaro al comune di Tuscania nelgiorno della ricorrenza dei defunti perprovvedere a comprare dei fiori dariporre sulla tomba dell’eroico carabi-niere, ma col passare del tempo anchequesta usanza finì nell’oblio.

Nel 1985, ad opera dei componentidella compagnia carabinieri di Tusca-nia, fu risistemata la tomba e con unasolenne cerimonia fu posta una lapide aricordo dell’evento:

ANNO 1985I COMPONENTI DELLA

COMPAGNIA CARABINIERI

TUSCANIA

Il 5 settembre 1993 la sezione tu -scanese dell’Asso ciazione NazionaleCa rabinieri in congedo ha intitolato lanuova sede al carabiniere FortunatoCristanelli.

Estrapolato da un lavoro di prossima pubblicazione.Per approfondimenti sull’episodio riferito e sul per-sonaggio Pappatà vedasi “Brigantaggio sommerso”

di Antonio Mattei, al quale l’articolo fa costante rife-rimento, e l’incarto processuale della Corte d’Assise

di Viterbo conservato nella busta 166, fascicolo2022, all’Archivio di Stato di Viterbo.

Lapide di Placido Quarantotti(foto dell’autore)

Luigi Cimarra

Il brigantaggio visto da lontano(parte II)

Lo sconfinamentodi Tiburzi

Per l’immaginario collettivo quella dei briganti era una figura contradditto-ria, per così dire divaricata o sdoppiata: da un lato la povera gente in cuorsuo parteggiava per loro, li ammirava, li immaginava come vendicatori deiconculcati diritti dei diseredati, delle ingiustizie e dei soprusi, che essa era

costretta a subire quotidianamente, e delle sofferenze, spesso inaudite, che dove-va sopportare per sopravvivere. I briganti incarnavano l’ideale di ribellione e dicoraggio: le loro gesta li trasfiguravano in paladini della libertà, che desiderosi diriscatto non paventavano il potere costituito, anzi lo sfidavano apertamente senzapaura. Ma se erano riconosciuti capaci di atti di generosità, parimenti se ne subivano levessazioni: non sfuggiva l’atrocità dei loro delitti, che ne metteva in evidenzal’aspetto più truce e crudele. Le esecuzioni sommarie, le efferate vendette a san-gue freddo, i ricatti e le grassazioni alienavano le simpatie del popolo, che si sen-tiva angariato, oltre che dai padroni, da gentaglia che viveva alla macchia e eser-citava prepotenze e sopraffazioni. Tuttavia i nomi dei briganti più celebri eranosulla bocca di tutti, le loro imprese diventavano leggendarie, cantate dai cantasto-rie nelle fiere e mercati di paese. In qualche caso la loro memoria si è tramandataanche nei proverbi e nei modi di dire, entrando in espressioni di senso negativo odispregiativo: se per esempio una madre diceva al figlioletto me pari o bbrigandeMusolino, voleva asserire che era così sporco da diventare quasi irriconoscibile. Inoltre a Civita Castellana il nome dello stesso brigante fu spesso utilizzato da unstrano personaggio conosciuto come Richétto er diàvolo, che secondo alcuni nonera tutto, ma che, profittando di questa “riconosciuta” stolidezza, si faceva beffedel regime fascista con battute allusive, al limite dell’offesa, senza essere tuttaviaperseguibile. Aveva coniato slogans del tipo:

Viva Italia de Rizzi, abbasso Musolino

Italia era il nome di sua sorella, andata in sposa ad un certo signor Rizzi, mal’allusione si riferiva alla nazione italiana; e Musolino nelle sue intenzioni si identi-ficava, per somiglianza fonica, con il duce del fascismo Benito Mussolini. La varian-te più comune era:

Viva mi’ sorèlla, abbasso o bbrigande Musolino

E non si fermava qui: quali fossero i suoi convincimenti politici si desume da altreespressioni criptiche, che creava attingendo furbescamente gli esempi dal mondovegetale:

Evviva ‘e pupàttole, abbasso ‘o sammuco

Le pupàttole sono i papaveri di campo o rosolacci in piena fioritura (= Socialismo),il sammuco è il sambuco, che produce corimbi di bacche nere e per questo vienedenominato scientificamente Sambucus nigra (= Fascismo). Lo stesso meccanismosta alla base di un altro suo slogan, che i civitonici più anziani ancora ricordano:

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lug-set 2011

Evviva i rodaculi, abbasso ‘o sammuco

I rodaculi sono i cinorrodi, vale a dire le bacche della rosacanina (che quando sono mature assumono un color rossobrillante).Dunque Musolino, mediante un gioco di paronomasia, ossiadi affinità formale, viene fatto oggetto di scherno, di contu-

melie, di improperi e di ingiurie per la somiglianza del suonome a quello del capo del fascismo.

Un altro brigante che è restato a lungo famoso anche in que-ste terre, il ricordo delle cui imprese ha colpito la fantasiapopolare, è Domenico Tiburzi (Cellere 1836 - Forane di Capal-bio 1896), noto con una serie di soprannomi: “Domenichino”,“Re della macchia”, “Re di Montauto”, “Re del Lamone”, il“Livellatore”. Intorno alla sua figura i cantastorie hanno crea-to composizioni in ottave e canzonette divenute popolaricome Lettera di Tiburzi agli amici (dall’Inferno) e Lettera diTiburzi agli amici (dal Paradiso). Divenuto capo di una bandadi fuorilegge scorazzò a lungo tra la bassa Toscana ed AltoLazio, eludendo abilmente le ricerche dei gendarmi graziealla minuziosa conoscenza dei luoghi, agli spostamenti con-tinui da un luogo all’altro, alle coperture ed alle protezioni dicui godeva. Era considerato onnipresente, se ne testimonia-va la presenza contemporaneamente in più luoghi e, come ilpopolino immaginava, i suoi sconfinamenti non sarebberoavvenuti soltanto nella limitrofa regione toscana, ma addirit-tura anche aldilà del Tevere (Configni, Cottanello e MaglianoSabino sono paesi del versante tiberino della Sabina). Dairacconti dei vecchi pastocchiari, narratori popolari di favole,leggende e storie locali, il poeta dialettale Benito Fratini diMagliano compose un sonetto, nel quale rievoca l’incontroravvicinato che alcuni suoi compaesani avrebbero avuto conil brigante, mentre si recavano per affari a Cottanello sullastrada di Configni:

L’ingontru co’ Tibburzi

Te ‘mboccassimo ‘a strada pe’ Confignusaranno state le tre o ppiù bbonora,quanno pocu doppo l’accorciatora,ce se parò denanzi ‘n omo arcignu

co’ su du muccu un mistu de ferignu,avvòrtu da ‘na grossa passatora,

che, doppo ‘nu sguardu alla scrutatora,ce fece ‘n parlà se pò di’ benignu:

“Chi séte, dov’annate, de che paese?”“Sémo tizzi, venimo da Majjano

‘nnamo a Cottanèllu pe’ certe ‘mbrese.”

“Éte vistu ‘a Fòrza verzo quer piano?”“Sì, sta niscosta tra ‘a fratta e la maése.”“Ècchive ‘n par de scudi e qua la mano!”

La figura del brigante, avvolta nel tabarro, appare asciutta,essenziale, ma ben stagliata in pochi tratti descrittivi nel fisi-co e nel carattere, di pochi gesti e di poche parole, sempreguardinga, pronta a capire le minime reazioni delle personenelle quali si imbatte per capirne le intenzioni. È un incontrodi sfuggita, prima che Tiburzi si dilegui, così com’era appar-so all’improvviso, nelle tenebre della notte. Il dialogo èsecco, serrato come la sticomitia delle antiche tragedie gre-che. L’impressione che se ne ricava è quella di un eroe popo-lare, cupo e misterioso, ma d’animo generoso, che attira lasimpatia e l’appoggio della povera gente.

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notiziario di Piansano e la TusciaAnno XXIII n° 1 - Primavera 2018

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Anno XXIII n° 1 - Primavera 2018

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Copertina de La Tribuna - Supple-mento illustrato della Domenica didomenica 8 novembre 1896, che

a distanza di un paio di settimane dalfatto illustrava l’uccisione di Tiburzi. Ilbrigante era stato sorpreso dai carabi-nieri verso le tre di notte in un casale dicampagna in località Le Forane, neipressi di Capalbio, e ucciso durante loscontro a fuoco che ne era seguito. Erala notte tra venerdì 23 e sabato 24 otto-bre 1896, una notte burrascosa di ventoe pioggia. Con Tiburzi si trovava ancheil brigante Luciano Fioravanti, che peròriuscì a fuggire approfittando dell’oscu-rità. L’illustrazione de La Tribuna ri-porta il commento “La fine d’un celebrebrigante. Il brigante Domenico Tiburzisorpreso ed ucciso nella macchia di Ca-palbio dai carabinieri vestiti n borghese,la notte del 24 u.s.”. L’autore del disegnonon è indicato; c’è solo la nota tra pa-rentesi “Da uno schizzo preso sul teatrodel conflitto”, ma la scena “è rigorosa-mente esatta”, assicura il testo dell’arti-colo interno che ne ricostruisce ladinamica:

… Cinque carabinieri, travestiti inborghese, circondarono la casa.Due s’appostarono rimpetto allacasa, due al cancello, uno a sinistra,verso la macchia. Fioravanti, spa-rati pochi colpi, fuggì per la siepeverso il fitto bosco; il Tiburzi, ofosse subito ferito, o gli mancasse lalena di seguire il compagno, stettee continuò il fuoco. Sparava nelbuio, in direzione del luogo doveaveva scorto il lampo d’una scarica:un gruppo scuro - ch’era poi unmucchio di terra accanto ad un car-retto da campagna - gli parve fosseil nemico, e continuò a mirare daquel lato; ma intanto i due carabi-nieri poterono avvicinarglisi d’oltrela siepe e bersagliarlo di colpi. Cosìil ‘re della macchia’ cadde mortal-mente colpito. Rantolando, nell’ago-nia, il feroce brigante mormorò:‘Non mi cercate più: sono Tiburzi!’.In quel cervello mezzo spappolatodalla vindice mitraglia dell’arma be-nemerita passava l’ultimo soffio delperverso orgoglio della sua fama!...

Il cadavere fu prima fotografato sor-retto a una colonna del cimitero di Ca-palbio, quindi privato di una parte delcervello - quella “non disfatta dal

piombo micidiale” - che fu inviata al cri-minologo prof. Cesare Lombroso perl’esame microscopico. Dopodiché lasalma, come conclude il giornale, “ri-posa al fine nella fossa comune del mi-croscopico camposanto della stazioneCapalbio”.

Capalbio all’epoca era frazione del co-mune di Orbetello, dove pertanto ilsuccessivo giorno 25 fu compilatol’atto di morte dietro nulla-osta dell’au-torità giudiziaria. Però non ne fu su-bito inviata copia per la trascrizione alcomune di Cellere, luogo di nascita edi iscrizione anagrafica del defunto.Cosa che avvenne solo otto anni piùtardi, come ci rivela questa curiosacorrispondenza amministrativa chesembrerebbe una… “prosecuzione dilatitanza”:

Provincia di Roma, Municipio di Cel-lere, prot. 283, 11 aprile 1904All’Ill.mo Sig. procuratore del Re diViterbo. Non posso rimettere alla S.V.Ill.ma la richiesta copia dell’atto dimorte di Tiburzi Domenico perché ilComune di Capalbio non l’ha mai no-tificata, quantunque richiesta. Do-vendo la S.V. Ill.ma richiederla aCapalbio, Le sarò grato se nella cir-costanza vorrà ingiungere a quel Co-mune di rimettere una copia anche aquesto per la trascrizione. Il SindacoA. Mariotti

Orbetello, li 18 aprile 1904. Prego laS. V. voler rimettere con la maggiorpossibile sollecitudine al Sindaco

del Comune di Cellere che ne hafatte ripetute richieste, la copiadell’atto di morte dell’individuo con-tro distinto per la prescritta trascri-zione nei registri degli atti di mortedi detto Comune il quale ne ha fattorichiesta alla Regia Procura di Vi-terbo. Il Pretore

Capalbio 19 aprile 1904. Ill.mo Sig.Pretore, il Domenico Tiburzi di cuiretro, deve essere il noto latitante uc-ciso in conflitto coi carabinieri in ter-ritorio di questa frazione. Questolatitante fu ucciso nel 94?? ed io as-sunsi l’ufficio dello stato civile solonel 1899. Il delegato di quell’epoca èora morto, né io saprei darle spiega-zioni giuste del lamentato ritardo. Inogni modo tutti i registri conservan-dosi alla sede del Comune (eccettuatiquelli dell’anno in corso), pregola ri-volgersi all’ufficio comunale di Orbe-tello, sia per le spiegazioni egiustificazioni e per l’invio del richie-sto certificato. Rispettosi ossequi.

Comune di Orbetello, Estratto dalregistro degli atti di morte dell’anno1896 della frazione di Capalbio.L’anno milleottocentonavanta- seiaddì 25 di ottobre io sottoscritto NelliLamberto ufficiale dello stato civiledella frazione di Capalbio, delegatodal sindaco di Orbetello con atto del6 settembre milleottocentonovanta-due, debitamente approvato, avendoricevuto dal Sig. Pretore del manda-mento di Orbetello copia autentica dimorte ho per intero ed esattamentetrascritto la copia che è del tenore se-guente: “A norma dell’art. 390 CodiceCivile dò avviso alla S.V. che nellanotte dal 23 al 24 ottobre in seguitoa scontro avvenuto nella localitàdetta le Forane presso Capalbio, fracarabinieri e latitanti, uno di questicadeva morto per più colpi di fucilee dal verbale di ricognizione oggifatto, presente cadavere, risulta es-sere il noto brigante Tiburzi Dome-nico nativo di Celleredall’approssimativa età di anni ses-santaquattro. Nulla osta che al cada-vere del suddetto venga datatumulazione”. Eseguita la trascri-zione ho munito del mio visto ed in-serito la copia medesima nel volumedegli allegati a questo registro. L’Uffi-ziale f.to L. Nelli

La fine d’un celebre brigante

Immagine pubblicata in IV di copertina

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Nel 1873 Viterbo è un circondario che dipendedalla provincia di Roma. È solo da tre anni che icarabinieri reali hanno fatto la comparsa sul ter-

ritorio in sostituzione della gendarmeria pontificia. Icompiti che le leggi affidano loro sono tanti, di naturamilitare, di polizia preventiva e polizia giudiziaria. Ognistazione ha una forza media di un comandante e duecarabinieri a piedi i quali devono vigilare su una giuri-sdizione che, nella maggioranza dei casi, accorpa i ter-ritori di più comuni. Sono veramente pochi soprattuttonel contrasto al fenomeno del brigantaggio marem-mano che imperversa con omicidi, incendi, estorsioni,rapimenti.

Uno di questi riguarda tale Luigi Bartolotti fu Lorenzo,da Piansano. E’ un ragazzo di sedici anni. Il 15 gennaiodi quello stesso anno, alle tre e mezza pomeridiane, uni-tamente a due dipendenti è di ritorno da un frantoio diTessennano con al seguito quattro cavalcature che tra-sportano quattro some di olio, frutto della molitura diproprie olive. In località Prati del Macchione due indivi-dui armati di fucile e a volto scoperto sbarrano lastrada al terzetto, fanno scendere da cavallo il Barto-lotti, si inoltrano nella vicina macchia e qui, porgendo-gli carta e lapis, intimano al ragazzo di scrivere allamadre perché mandi 2000 scudi per la propria libera-zione. Un sequestro con estorsione in piena regola!Mentre uno dei dipendenti viene mandato via, all’altroè dato l’incarico di portare il biglietto alla destinatariaperché provveda a quanto richiesto. Questi ritorna con500 scudi, ma non bastano. I briganti vogliono il resto einviano nuovamente il messo a casa del ragazzo. Piùtardi ritorna con altri 600 scudi e questa volta, sonoormai le sette di sera, i due individui sembrano accon-tentarsi e lasciano andare il giovane, che il giorno dopo,negli uffici comunali, sporge denuncia dell’accaduto da-vanti al pretore di Valentano. Al termine del raccontodichiara che non intende querelarsi nei confronti dei ra-pitori perché, “… dovendo io spesso assentarmi da casanon vorrei espormi a nuovi e maggiori pericoli”.Le preoccupazioni del giovane hanno ben ragione diesistere, molto meno quelle di altre persone che, con illoro comportamento omissivo, non aiutano certo le ri-cerche dei banditi. Immediatamente iniziano le indaginida parte dei carabinieri con l’interrogatorio del Barto-lotti e del dipendente ma, come sempre succedequando i soggetti attivi del reato si chiamano DomenicoTiburzi e Domenico Biagini, il muro di omertà che li pro-tegge è impenetrabile. Entrambi non hanno ancora lanotorietà che si conquisteranno negli anni a venire, mapossiedono quanto basta perché la gente abbia a pre-

occuparsi per la propria incolumità. Tiburzi era evasosei mesi prima dalle saline di Corneto e Biagini lo avevapreceduto di un paio d’anni. In merito all’omertà sul-l’accaduto è illuminante il rapporto del comandante deicarabinieri di Viterbo al procuratore del Re al quale ri-ferisce che:

“… Durante il tempo che pendeano le trattative nessunopensò ad un’operazione che tendesse all’arresto dei mal-fattori, soltanto al rilascio dei ricattati, il sindaco partecipòla notizia del fatto ai sindaci dei comuni limitrofi ed allestazioni di Valentano, Canino e Toscanella, le quali si po-sero sollecitamente sulle tracce dei malfattori, ma infruttuo-samente, com’era a prevedersi, poiché compiuto il fatto, colfavore delle tenebre, poterono allontanarsi e mettersi al si-curo, senza lasciare traccia della direzione presa.Resone io avvisato immediatamente fui sopra luogo, doveper le indagini accorsero immediatamente i comandanti lestazioni summenzionate.Il ricattato e i di lui servi, furono da me minutamente inter-rogati, ma essi non mi seppero o non mi vollero dare con-notati precisi dei malfattori, soltanto mi dichiararono cheerano, uno d’alta statura, tarchiato, con barba intera scurae l’altro di media statura, con barba intera nera, vestiti allacontadina con cappotto nero e cappello nero.

dossier Tiburzi

primavera 2018

Tiburzi sequestra BartolottiGiuseppe Bellucci

disegno dell’autore

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dossier Tiburzi

Fatto osservare come sia inverosimile che non avessero ri-conosciuto i malfattori essendo di giorno e stando per oltretre ore in loro compagnia, essi ripeterono la dichiarazionedi non averli, non solo non riconosciuti ma nemmeno rile-vato i precisi connotati e le particolarità che qualcuno po-tesse avere, se cioè con cicatrici o vaiuolato. [Biagini avevatracce di vaiolo sul viso, ndr]Domandato loro se in vicinanza avevano potuto scorgerequalche altra persona, risposero negativamente. Questastessa risposta ripeterono al Signor Pretore di Valentano,col quale io trovai opportuno di conferire.Valutando sul posto tutte le circostanze subito compresi cheil ricattato e i di lui servi mi avevano occultato la verità,per timore di vendetta.Postomi ad indagare per le conoscenze estese che tengo inquelle località, non tardai a rilevare che autore del ricattoera stato il noto evaso Tiburzi Domenico, detto Domeni-chino di Cellere, unitamente ad un altro che si supponepossa essere il ricercato Biagini Domenico di Farnese.Le persone rispettabilissime, che mi fecero la confidenza,m’aggiunsero che ove fossero chiamate a deporre, nullaavrebbero detto per timore di vendetta.Dalle medesime appresi ancora che il Domenichino, colcompagno, poche sere prima del 14 andante, era stato aTessennano e precisamente nell’abitazione di VincenzoGuerra, dove aveva mangiato e bevuto e che alcunedonne del vicinato, Giacomazzi Orsola, Filomena Tarta-rini e Bianchini Lucia, non ignoravano la presenza deidue uomini armati.Premendomi di poter stabilire giudiziariamente il fatto,colla deposizione delle sunnominate, le chiamai in esame,ma esse dichiararono soltanto di aver sentito del rumorenell’abitazione di Vincenzo Guerra, che accennava a pre-senza di persone estranee alla famiglia.Proseguendo nelle indagini, seppi che a poca distanza dalluogo del fatto, contrariamente all’asserto del ricattato eservi, trovavasi un porcaro, certo Biagini Matteo, di Valen-tano, il quale dichiarò d’avere veduto due uomini armatidai connotati dati, ma di non averli riconosciuti. E rilevasiancora che a breve distanza trovavasi il sindaco di Arlena,sig. Pasqualetti, il quale, alla vista dei malfattori che trova-vansi col ricattato, si diè col cavallo che montava, a preci-pitosa fuga verso Arlena.Interrogato da me il sig. Pasqualetti, ammise il fatto ed ag-giunse d’aver parlato col servo Reda, che si recava a pren-dere il denaro e dichiarò esser sua opinione, che uno deidue sia il Domenichino di Cellere. Opinione divisa dal-l’istesso servo e dalla popolazione.Continuando nelle indagini rilevai ancora, per confidenza,che nella settimana, cioè, prima del fatto, il Domenichinocon altro compagno, pure armato, erasi recato alla frazionedi Pianiano al casale del sig. Cecchini di Canino.Premendomi di stabilire il fatto, fuori confidenza mi recai alcasale ed ivi potei avere la dichiarazione del casolante, certoD’Alfonso Gaetano, di Saverio, d’anni 20, che realmente il Do-menichino era stato al casale con altro, dai connotati accennatied armati ambedue di doppietta e che s’erano fatti sommini-strare un po’ di cibo.Stabilita per tal modo la colpabilità del Tiburzi Domeni-chino, relativamente al ricatto e la di lui presenza in quella

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località, pensai al modo di farlo cadere nelle mani dellaGiustizia, unitamente al compagno.Da indagini praticate, essendomi risultato che l’evaso Do-menichino, qualche volta si aggira nelle vicinanze di Cel-lere, dove riceve la visita d’una sua amica, certa CeccantoniNazzarena, donna di perduta fama, che spesso si reca nellafrazione di Pianiano a visitare altra druda, a conferire conquel parroco, certo Don Vincenzo Danti e a passare qual-che ora al casale Cecchini, come pure talvolta alla tenutaSan Giuliano, presa in affitto dai signori Balestra ed aquella di Riminino, condotta dal sign. Sinibaldi di Montalto,io piuttosto che fare un arresto in massa di tutte le personeche direttamente o indirettamente lo favoriscono, ho cre-duto partito migliore quello di sospendere per ora qualun-que azione contro d’esse, per veder modo di riuscirenell’arresto dei malfattori, coll’aiuto delle medesime, tantopiù che stringendo, stringendo, scarsissime sono le prove acarico dei manutengoli, stante la reticenza generale”.

Non v’è dubbio che pur spendendosi senza risparmio,i tutori dell’ordine si trovarono a lottare non solo con-tro i malfattori d’ogni risma, ma soprattutto contro lecontinue reticenze della popolazione. Ad essi nonmancarono le doti di fedeli servitori dello Stato.Mancò lo Stato!!

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primavera 2018

Rappresentazione cinematografica del brigantaggio realizzata dagli alunnidella scuola primaria di Piansano per la regia di Samuele e Giacomo Brizi,esempio dell’interesse culturale tuttora perdurante nel territorio nei con-fronti del fenomeno

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dossier Tiburzi

Uno dei vantaggi della nostrarivista, l’abbiamo detto tantevolte, è l’interconnessione

tra gli autori, questo esporre in unavetrina comune il frutto dei lorostudi e ricerche. Ciò che facilita col-laborazione e scambio di informa-zioni, utili agli autori stessi e allosviluppo complessivo delle cono-scenze. L’articolo che precede diGiuseppe Bellucci ne è l’ennesimaconferma, perché ci dà notizia di unepisodio finora ignorato dalla sto-riografia locale e che a sua volta sti-mola a un approfondimento. D’altraparte Bellucci ha pubblicato di re-cente una sua storia in ottava rimadel brigante Tiburzi e dunque è unesperto della materia, non solo ri-cercatore appassionato ma anchecantore in piena regola, perché neillustra le gesta con splendidi dise-gni e ne canta l’epopea come un an-tico aedo.E non basta, perché per una singo-lare coincidenza lo stesso episodio- fino ad ora, si ripete, rimasto se-polto negli archivi e assente dalla bi-bliografia su Tiburzi - è statoricostruito anche in una recentis-sima tesi di laurea discussa all’uni-versità di Siena a coronamento di uncorso di laurea magistrale in giuri-sprudenza. L’autrice è la giovane Va-lentina Polverini di Canino e il titolodell’interessante lavoro è Il sistemaTiburzi. Elementi criminogeni nellaMaremma dei briganti. Rimandandoall’articolo che segue per un saggiodella meritoria ricerca - illuminanteper il contesto socio-politico nelquale si inquadra la vicenda -, ne vo-gliamo qui estrapolare le pagine sulsequestro Bartolotti che riportanol’interrogatorio della vittima, perchépur confermando puntualmentequanto già esposto, ne risultanoperò utilmente complementari e viaggiungono la suggestione della te-stimonianza in prima persona:

… Attraverso i documenti conser-vati presso l’Archivio di Stato di Vi-terbo ci giunge la testimonianzadiretta di un’estorsione accompa-gnata da sequestro di persona cheTiburzi e Biagini operarono ai dannidi Luigi Bartolotti, un sedicenne pos-sidente di Piansano, nei pressi diTessennano. Nella querela, redatta ilgiorno 16 gennaio del 1873 alla pre-senza del pretore Cabiati Candidodel mandamento di Valentano e delcancelliere Ferrandini Bernardino, ilgiovanissimo Luigi Bartolotti espo-neva quanto segue:

[…] Ieri mi recai al molino di Tessen-nano per fare la riscossione. Termi-nata l’operazione verso le ore tre emezza pomeridiane circa mi avviaiper restituirmi in Piansano. Io ero acavallo accompagnato dal mio gar-zone Luigi Reda e da GioacchinoLombi mio operaio giornaliero, ilquale portava quattro dame d’oliofrutto della macinazione di alcunemie olive. A circa mezzo miglio di di-stanza da Tessennano in un sito de-nominato i Prati del Macchionesbucarono improvvisamente di dietroad uno scoperto due individui i qualipuntandomi la doppietta mi intima-rono che mi fermassi e che smontassida cavallo. Io non saprei ben preci-sare i connotati dei due malandriniperché la paura da cui fui invaso miaveva confuso in modo straordinario.Ricordo però che uno di essi era altodi statura, della apparente età di anniquarantacinque colla barba pienanera ed indossava calzoni di panno[Domenico Biagini]. L’altro era menoalto di statura ed all’apparente età dianni trentacinque ed aveva pure labarba piena, ma più corta e spuntata[Domenico Tiburzi]. Non osservaiche il primo fosse vajuolato [presen-tasse cioè segni evidenti del vaiolo]o che il secondo avesse una cicatricesul viso. Quando fui sceso da cavalloil più basso di statura dei malandrinimi domandò quale dei miei due com-pagni di viaggio fosse l’uomo chestava sempre con me. Quando gli horisposto essere questi Luigi Reda ilmalandrino mandò via Gioacchino

Lombi e condusse il Reda e me in unpunto alquanto discosto dalle strade.Indi mi domandò se avevo della cartasopra di me. Io risposi che non neavevo ed allora il malandrinoestrasse di tasca una busta da letteredi carta bianca e pulita mi disse: “Scri-vete alla vostra madre che vi mandiduemila scudi”. Tale biglietto fu fattorecapitare a mia madre per mezzo diLuigi Reda che si trovava con me. IlReda partì e ritornò verso le ore quat-tro e mezza portando con sé cinque-cento lire circa parte in monete d’oroed argento e parte in biglietti dibanca. I malandrini guardarono il de-naro senza numerarlo e poi dissero algarzone: “Questo non basta ritorna aPiansano a farti dare il resto”. Conse-guentemente il Reda rimesso il de-naro ai malandrini che rinchiusero lavaluta metallica nella catana, dovetteritornare a Piansano. Dopo la costuipartenza i malfattori mi condusseroalquanto lontano dal luogo ove il gar-zone aveva portati i denari la primavolta. Uno di essi poi, cioè quello

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Facciata della casa di Piazza Indipendenza 5che fu dimora della famiglia Bartolotti. Si notiin alto sulla parete il grande monogramma ber-nardiniano in rilievo, che fortunatamente èstato conservato mentre sono “spariti” gli af-freschi che adornavano gli interni

primavera 2018

Possidenti e “farmacisti”I Bartolotti a Piansano, parabola di un notabilato dell’800

Antonio Mattei

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basso di statura se ne partì egli purelasciando me solo col suo compagno.Verso le ore sei circa ritornò il Redaaccompagnato dal malfattore più pic-colo di statura. Anco questa secondavolta, sebbene portasse altre lire cin-quecento in cinque buoni della BancaRomana i malfattori non parvero sod-disfatti e loro sembrava poco il de-naro ricevuto, minacciarono perfinodi portarci via tutti e due, cioè tantome che il mio garzone ma alla fine cilasciarono liberi. Ciò succedevaverso le sette pomeridiane. Prima dilasciarmi in libertà ci raccomanda-rono di osservare il silenzio sopral’accaduto e di non incolpare alcunoin Piansano dicendoci che essi eranoArgante e Menichelli. Non intendoquerelarmi contro i sunnominati indi-vidui perché dovendo io spesso as-sentarmi da casa non vorrei espormia nuovi e maggiori pericoli […].(Querela Luigi Bartolotti, 16 gennaio1873, Archivio di Stato di Viterbo, b.130, f. 906, c. 10)

[…] Il caso mostra profili di inte-resse per comprendere quali furonole difficoltà che i corpi di polizia in-contrarono nel tentativo di assicu-rare i briganti alla giustizia. Attraverso un’operazione capillaredi ricerca delle prove, vennero ema-nati due mandati di cattura nei con-fronti di Tiburzi e del Biagini, ai qualifecero seguito verbali di ricerche in-fruttuose, i primi di una lunga serie.Il procedimento si svolse in contu-macia e si concluse con una con-danna a venti anni di lavori forzatiper Tiburzi, in quanto consideratol’artefice del piano strategico, e quin-dici anni della stessa pena per Bia-gini.(“Estratto della sentenza della Corte d’Assisedi Viterbo - Estorsione e sequestro Bartolotti”,8 giugno 1880, Archivio di Stato di Viterbo,b. 130, f. 906, c. 1)

L’episodio riportato alla luce da Bel-lucci e Polverini s’inserisce nella piùgenerale situazione delle nostrecampagne all’indomani dell’Unitàd’Italia, e nella Loggetta n. 87 diaprile-giugno 2011, se ben ricorda-te, dedicammo un’intera sezione alfenomeno del banditismo post-uni-tario nella provincia. Per quanto ri-guarda Piansano, in particolare,

nell’articolo “‘Malviventi domestici’.Le comunità contadine di Maremmae i disperati della macchia di fine‘800…” riferivo di ripetute grassa-zioni ed estorsioni ai danni dei nota-bili del paese, dal facoltoso PietroSante De Carli allo stesso sindacoDomenico De Parri, grandi proprie-tari terrieri e perciò più esposti alle“attenzioni” brigantesche. Alle lorodisavventure aggiungiamo ora que-sta della famiglia Bartolotti, sicura-mente più grave perché accompa-gnata da sequestro di persona ecompiuta su un ragazzo appena se-dicenne, ma apparentemente senzaalcun seguito nella mitologia pae-sana e del tutto assente dalla memo-ria collettiva. Anche perché quello dei Bartolotti èun casato d’importazione e abba-stanza ristretto, localmente estintoda quasi un secolo, e l’input datocidai due studiosi ci impone una mi-nima ricerca - finora sempre rinviata- per tentare di ricostruirne perquanto possibile la presenza equindi contestualizzare l’episodio.Ci limiteremo all’800 e ai primi delsecolo scorso, le ultime quattro ge-nerazioni della famiglia, che delresto abbracciano il periodo di effet-tiva incidenza da essa avuta nellavita del paese.

Del loro peso sociale troviamo trac-cia già all’inizio del limite temporaleche ci siamo posti, quando, nel di-cembre del 1797, il casato comparenei nostri registri parrocchiali: dalDominus Carlo Bartolotti e TeresaPompei legittimi coniugi de TerraFarnesii nasce a Piansano Vincenzo.Dunque una gens che le sedimenta-zioni orali di famiglia farebbero pro-venire genericamente dall’Altitaliama per la quale la vicina Farnese po-trebbe aver rappresentato unatappa intermedia. Del resto il co-gnome, di evidente derivazione dalnome Bartolomeo Bartolo, haorigini ravennati-bolognesi ed è tut-tora maggiormente distribuito nellafascia tosco/romagnola. Non cono-

sciamo il motivo della loro venuta aPiansano, che in ogni caso dovevaessere in relazione con il rango el’attività economica delle maggiorifamiglie del paese, segnatamente iDe Parri. A quel primo nato a Pian-sano, Vincenzo, in quel dicembredel 1797 fece da padrino l’Illustrissi-mus Dominus Francesco de Parri(rappresentato però dall’altro Domi-nus Francesco Lucattini) e da ma-drina Domina Anna Maria Foderini.Già la presenza di tutti questi Do-mini - sòr padroni, avrebbero detto inostri contadini - non è senza signi-ficato. Anche perché i titoli di ri-spetto si ripetono al matrimonio diVincenzo, quando nell’aprile del1818 sposa a Piansano Palmira Parridi Lorenzo. I due sono ancora defi-niti Domini così come gli illustri te-stimoni presenti, di nuovo dellafamiglia De Parri. E la stessa cosa siripete alla nascita dei loro primi figli,Paolina del 1819 e Lorenzo del 1820:alla prima fanno da padrini altri no-tabili locali, anch’essi Domini o Illu-strissimi Domini come Giacinta DeParri; a Lorenzo fuit Patrinus Ill.musDominus Vincentius Jacobini deTerra Genzani, lo stesso che nel feb-braio dell’anno dopo sposerà pro-prio Giacinta De Parri. Indicazioniapparentemente trascurabili, mache nel formulario rituale stanno aevidenziare una precisa apparte-nenza sociale, rivelando non solouna sorta di internazionale dell’ari-stocrazia perseguita con un’accortapolitica dei matrimoni, ma ancheuna naturale attrazione tra pari perfacilità di frequentazioni di casta eun più sicuro consolidamento deipatrimoni di famiglia. Anche nellasuccessiva generazione di Bartolottitroveremo degli abbinamenti nonsolo con tutte le maggiori famigliedel luogo come i Fabrizi, i Lucattini,i Ruzzi o i Talucci, ma anche con ric-castri forestieri come i Raspanti diCellere o i Nucci di Civitella de’Conti. Lo stesso Lorenzo Bartolottidel 1820, che in pratica sarà l’unicodei numerosi figli di Palmira e Vin-

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cenzo a garantire la discendenza inpaese, intorno al 1850 sposerà Naza-rena Orsini di Orvieto, così comesua sorella minore Teresa sposeràPaolo Orsini. [Una gravitazioneverso la confinante area umbra se-condo correnti di transito sempreesistite e che nella regione storicadella Tuscia vedeva unito il Viter-bese all’Orvietano; sulla scia, tra l’al-tro, di quel manipolo di orvietaniche nel 1560 concorsero a ripopo-lare il nostro paese con il grosso deicoloni casentinesi, e degli apporti“etnici” ininterrottamente ricevutinei decenni a seguire dai centri ap-penninici umbri].

Alla morte di Lorenzo, avvenuta aPiansano nel novembre del 1872, asoli 52 anni e a poca distanza daquella dei genitori, veniamo a cono-scenza di alcuni altri particolari im-portanti: la presenza della domus difamiglia in Piazza Indipendenza 5,ossia nella nevralgica piazza del Co-mune al pari di altri notabili come iFabrizi o Pietro Sante De Carli; la de-finizione di possidente data al de-funto padre Vincenzo e quella dipossidente farmacista data allostesso Lorenzo. Ciò che sta a indi-care l’evoluzione da una genericaposizione di rendita legata alla pro-prietà fondiaria all’intraprendenzadi una nuova borghesia delle profes-sioni. Non sappiamo se Lorenzoavesse conseguito lui stesso unaqualche specializzazione in farma-cia o si servisse di personale me-dico dipendente, ma è evidente chefu lui a iniziare l’attività pressochésecolare della rinomata farmaciaBartolotti, a suo tempo vantatacome la migliore del “Ducato di Ca-stro”. Ce ne rimane una bottiglia di vetrocon la scritta in rilievo “FARMACIABARTOLOTTI PIANSANO”, contenitoredi qualche preparato galenico diproduzione propria immesso sulmercato e “reliquia” di una capacitàimprenditoriale che in paese non hamai avuto molti campioni. [Ciò che

avvalora l’origine non autoctona delcasato, dato che l’“aristocrazia” lo-cale, per quanto capace nelle fac-cende terriere, era però eredepapalina della filosofia dei “beni alsole” e non ha mai brillato in spiritoindustriale e commerciale; men chemeno nel campo dei servizi, deltutto assente dalla propria scala divalori].

Da Lorenzo e Nazarena Orsini nac-quero a Piansano almeno sei figli,ma soltanto tre di essi hanno la-sciato tracce in paese: Luigi del 1856(il sedicenne sequestrato da Ti-burzi), Giuseppe del 1861 e Pietrodel 1864. Li potremmo definire ilpossidente, il farmacista e il profes-sore, perché intrapresero strade di-verse evidentemente seguendoinclinazioni personali e opportunitàfamiliari. Con loro, con i quali si con-sumò la inevitabile frammentazionedel patrimonio di famiglia, sembre-rebbe anche iniziare la parabola di-scendente del casato, che forsetoccò il suo apice proprio con loropadre Lorenzo e dovette comprensi-bilmente risentire della sua prema-tura scomparsa con i figli ancoraimberbi.Cominciando dal più piccolo Pietro,possiamo dire che ne ritroviamo letracce solo quando lui ha trent’anni,nel 1894. Vive a Pisa e fa il profes-sore, quando si sposa con Madda-lena Giacomelli di Camaiore dallaquale l’anno dopo ha il figlio Mario.Potrebbe aver lasciato il paese gio-vanissimo per seguire gli studi esembrerebbe quasi un “ritorno alleorigini”, dato che, secondo certistudi di araldica, i più lontani ac-cenni a questa “nobilissima e anti-chissima famiglia” si troverebberoproprio a Pisa al tempo di guelfi eghibellini. Sennonché Pietro fu ilprimo dei tre a morire, neppure qua-rantenne, perché tra le deliberazionidi giunta dell’ottobre 1903 troviamouna liquidazione di spesa per la for-nitura di inchiostro per le scuoleelementari a nome della vedova,

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Bottiglia con la scritta incisa nel vetro FARMACIABARTOLOTTI PIANSANO, contenitore di qualchepreparato galenico prodotto in loco. La farma-cia dovette rimanere in attività per circa un se-colo, approssimativamente da metà ‘800 ametà ‘900, e a suo tempo godette di buonafama nel circondario

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Il palazzo di Via Umberto I, ai piedi della torrecivica dell’orologio, con gradinate e pianerot-tolo che immettevano nella storica farmaciaBartolotti (sotto alla casa delle maestre pie Fi-lippini), poi divenuta sede della Cassa di Ri-sparmio fino al successivo trasferimento nelViale Santa Lucia

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che evidentemente a Pisa gestivaqualche attività commerciale. An-cora nel marzo del 1905 troviamouna corrispondenza con il Comunedella “Sig.ra Giacomelli Maddalenavedova Bartolotti comproprietariadella farmacia”, e due anni doposarà suo cognato Giuseppe a infor-marci di non essere “proprietario as-soluto della farmacia, la quale spettaper metà al minore Bartolotti Mariofu Pietro”. Dopodiché non risulta, daparte di vedova o eredi, alcun altrocontatto con il paese.

Il secondogenito Giuseppe continuòad abitare nella casa paterna diPiazza Indipendenza e nei docu-menti viene definito farmacista ap-punto perché fu quello chematerialmente gestì la più distintivaattività di famiglia. Nella quale ci fuun’interruzione di servizio didue/tre anni dal marzo 1906 per unadichiarata passività di gestione, maprobabilmente anche per le vicendesuccessorie accennate e sopravve-nuti problemi di salute di Giuseppe.Nella lapide cimiteriale - l’unica deiBartolotti nel nostro camposanto - èdescritto come “anima gentile,amato da tutti, amante dei poveri”, eper quanto le epigrafi tombali, noto-riamente, siano un po’ tutte monu-menti di pietose bugie, nell’uomonon possiamo escludere a priorisensibilità d’animo e gesti di libera-lità, anche per il ruolo che lo por-tava a contatto con le necessità piùgravi di una popolazione miserabile.A cavallo del secolo ricoprì a lungola carica di assessore e consiglierecomunale insieme al fratello Luigied è tuttora ricordato come il sòrGiuseppe. Nel giugno del 1899, ossiaa 38 anni, sposò la sua domesticaGiacinta Moscatelli, più giovane diundici anni ma dalla quale non ebbefigli. Così che alla morte di lui, avve-nuta prematuramente nel 1909 (a 48anni, pochi più di suo fratello masempre meno di suo padre comeper un destino di famiglia), la moglieereditò tutti i suoi ingenti beni. Di-

venne definitivamente la sòra Gia-cinta Bartolotti o anche la Speziala,appunto perché riaprì e continuò agestire la farmacia, sia pure tra altie bassi, fin quasi alla morte avve-nuta nel 1956. Una presenza lunghis-sima e figura quasi istituzionale inpaese, tuttora ricordata insieme conquella del medico Palazzeschi e delpodestà sòr Lauro come distintivadel periodo tra le due guerre.E siamo al primogenito Luigi, di cuiora possiamo capire la reticenzacon gli inquirenti subito dopo il se-

questro di persona. A quella datasuo padre Lorenzo era morto da solidue mesi e in casa erano rimasti conla vedova tre ragazzi di 16, 12 e 9anni. La necessità di seguire gli affaridi famiglia esponeva il maggiore aresponsabilità nuove e gravose perl’età, lui che si può dire era appenauscito dal seminario di Montefia-scone, dov’era stato studente con-vittore dai dieci ai quattordici anni.Si può ben capire la pena di quellamadre che in due volte sborsò ai bri-ganti - che evidentemente erano beninformati e approfittavano di quelmomento di particolare vulnerabi-

lità della famiglia - la bellezza di1.100 scudi pur di riavere il figlio. E’anche comprensibile come la mag-giore preoccupazione delle autorità,sindaco in primis, fosse quella del ri-lascio dei sequestrati. Lo stessopadre del sequestrato, al momentodella morte, faceva parte dell’ammi-nistrazione comunale nella quale ri-copriva vari incarichi, e sonofacilmente intuibili i rapporti di ami-cizia personale e solidarietà diclasse con gli altri amministratori. Inquel momento fungeva da primo cit-

tadino Domenico Gigli, che ebbevari ruoli di assessore e sindaco finoal settembre del 1876 ma a quantopare si alternava nella presidenzadel consiglio comunale con altri as-sessori facenti funzione come Giu-seppe Bettelli. Era succeduto nellacarica a Generoso Talucci e sarebbestato seguito da Domenico De Parri.Per dire che, con il sistema eletto-rale ristretto e censitario dell’epoca,gira gira erano sempre quelle pochefamiglie di notabili ad amministrarela cosa pubblica. Anzi, erano glistessi “Gattopardi” dell’amministra-zione papalina riciclati per le nuove

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I coniugi Giuseppe Bartolotti (1861-1909) e (una giovane) Giacinta Moscatelli (1872-1956) nellafoto della cappella cimiteriale. Sono i “farmacisti” di Piansano tra ‘8 e ‘900. Nella lapide di lui tro-viamo la scritta: QUI RIPOSA NELLA PACE DEI GIUSTI / GIUSEPPE BARTOLOTTI / SPOSO AFFEZIONATISSIMOANIMA GENTILE / AMATO DA TUTTI AMANTE DEI POVERI / TOLTO RAPIDAMENTE ALL’AFFETTO DEI SUOI / IL 29GIUGNO 1909 NELL’ETÀ DI ANNI 48 / LA SPOSA BARTOLOTTI GIACINTA / INCONSOLABILE DI TANTA PERDITA /AL SUO AMATO PEPPINO / POSE / UNA PRECE

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istituzioni del Regno, come ci diràpiù chiaramente Valentina Polverininell’articolo che segue.Di più: lo stesso sequestrato sedi-cenne sarebbe diventato a sua voltasindaco del paese - dal settembre1896 al luglio 1899, in contempora-nea con il fratello Giusep- pe nellacarica di assessore e consigliere,come s’è detto - e poi di nuovo con-sigliere comunale e membro di variecommissioni nelle successive ammi-nistrazioni Compagnoni e Ruzzi;come se, per una singolare coinci-denza, l’uccisione del suo antico se-questratore avesse “dato il via” percontrappasso anche alla sua ascesaalle massime cariche cittadine. Oltre al patrimonio ereditario do-veva anche gestire qualche attivitàcommerciale, perché ai primi del se-colo si trova talvolta tra i fornitoridel Comune per tessuti, generi perle scuole e altro. Quando morì dimorte naturale nell’agosto del 1918(a 62 anni e quindi neppure lui vec-chissimo), l’altro notabile VincenzoRuzzi, più o meno suo coetaneo,compagno di studi in seminario eanche lui sindaco nel quadriennio1904-1908, scrisse al nipote al fronte:“Giorni sono è morto il povero Sig.Luigi Bartolotti, cosa che mi ha molto

impressionato perché sono amici chescompaiono”.

Altro particolare che giova ram-mentare per meglio calarsi nelclima dell’epoca, a proposito di as-senza dello Stato, è che in paeseancora non esisteva la stazione deicarabinieri, tant’è che il sindaco in-formò le stazioni vicine di Valen-tano, Canino e Toscanella. La Legione Carabinieri Reali diRoma, infatti, istituita con R.D. 30settembre 1873 ed entrata in fun-zione il 1° gennaio 1874, andavastrutturandosi con sezioni e stazioniun po’ alla volta, e i primi a inse-diarsi a Piansano furono quattro ca-rabinieri “a piedi” e un brigadiereche giunsero in paese alla fine di giu-gno 1876. Questo per dire del vuotodi potere creatosi con il passaggioistituzionale e della fiducia nei nuoviapparati ancora di là da venire(semmai sarebbe arrivata e am-messo che in simile frangente sifosse potuto intervenire con effica-cia, se solo si pensa che Tiburzi futolto dalla circolazione ventitré annidopo!). Ciò che aiuta a capire ancheil comportamento del sindaco Pa-squaletti di Arlena, anch’egli grandeproprietario terriero della zona, che

pur essendo testimone oculare delsequestro, e anzi proprio per que-sto, sprona il cavallo a coraggiosafuga e non ha alcuna difficoltà adammetterlo!

[Un’altra spiacevole vicenda capi-tata a Bartolotti negli ultimi anni divita è legata invece proprio alla far-macia, di cui dovette necessaria-mente occuparsi dopo la morte delfratello Giuseppe. E’ una storia poco chiara e collegataa un’altra di cui bisognerà trattare aparte, ma che per ora possiamoriassumere così. All’epoca la farma-cia era di fatto gestita dal signor Pie-tro Brachetti, insieme al quale LuigiBartolotti fu denunciato nel settem-bre del 1915 per “contravvenzionealla legge sulle farmacie, avendo ven-duto medicinali… senza essere mu-niti di diploma o di titoloequipollente”. Una cattiveria di qual-che paesano, verrebbe da supporre,perché Brachetti era comunque mu-nito di patentino e abilitazione al-l’esercizio della professione, anchese avrebbe potuto soltanto sosti-tuire temporaneamente, non surro-gare del tutto il farmacista laureatotitolare, che invece rimaneva re-sponsabile e sull’assunzione del

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Documento del seminario di Montefiascone con la registrazione della presenza di Luigi Bartolotti,entratovi il 5 novembre 1866 e rimastovi negli anni 1867, 1868, 1869, 1870.A destra, una curiosa attestazione del parroco di Piansano del 7 novembre 1869 riguardante glistudenti del seminario Vincenzo Ruzzi e Luigi Bartolotti, per certificare il loro comportamento ti-morato durante le vacanze autunnali dello stesso anno 1869:Da me sottoscritto Arciprete Parroco della Venerabile Chiesa di S. Bernardino della terra di Pian-sano nella Diocesi di Montefiascone, si certifica a chi spetta che i signori giovani alunni studentinel Venerabile Seminario di Montefiascone Vincenzo Ruzzi e Luigi Bartolotti, nelle vacanze au-tunnali in cui hanno fatto sosta nella loro patria, hanno dato saggio di buona e lodevole condotta,hanno frequentato spesso i SS.mi Sagramenti della Penitenza e della Ss.ma Eucaristia, hanno as-sistito al Coro in tutte le feste; ed ancora sono intervenuti particolarmente alle sagre novene neigiorni feriali di modo che reputo pregio dell’opera accompagnarli del presente certificato, munitodi mia firma e corredato del solito timbro della mia parrocchia. In fede… Piansano addì 7 novem-bre 1869. Giuseppe Eusepi arciprete Par…

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quale, evidentemente, i Bartolotticercavano di risparmiare o tempo-reggiare. Questo dovette essere ilpunctum dolens di tutta la loro ge-stione e fu il motivo formale dellasoppressione della farmacia nell’ul-timo dopoguerra, quando le auto-rità favorirono l’apertura di unanuova sede con la nomina della far-macista laureata Lampignano. Inquella circostanza del 1915 alla fineil pretore assolse Bartolotti perchéproprietario ma non gestore diretto,mentre a Brachetti appioppò unamulta di 500 lire più le spese di giu-dizio. Batosta che, insieme all’altradisavventura di cui eventualmenteci occuperemo in altra occasione,portò Brachetti a lasciare definitiva-mente il paese per trasferirsi aRoma con l’intera famiglia].

Luigi Bartolotti si era sposato nel ‘95con la compaesana Maria Ciofo fuFrancesco ed era andato ad abitare inuna casa della piazza San Bernardino,davanti alla chiesa parrocchiale.Anche questi matrimoni con delle po-polane del luogo sono indicativi delprogressivo calo di prestigio della fa-miglia, per quanto tuttora benestantee tra le più in vista. [Non è neppure uncaso che nella cultura popolare delluogo “farmacista” sia termine di pa-ragone antitetico di zappaterra rozzoe ignorante: “Mica fo ‘l farmacista!”, ri-spondono pastori e contadini a even-tuali osservazioni di sciattezza dimodi o nella persona]. Nello stessoanno 1895 Luigi aveva avuto l’unico fi-glio Lorenzo, venuto a rimpiazzare unfratellino omonimo nato e morto neidue anni precedenti. Di questo se-condo Lorenzo - che potremmo defi-nire il telegrafista, come è ancoraindicato nel vecchio cartellino ana-grafico - abbiamo alcuni riferimentinell’epistolario Compagnoni sia per-ché le due famiglie erano in rapportidi amicizia, sia perché Lorenzo avevasolo quattro anni meno di Giulio e sitrovò anch’egli in guerra nel genio te-legrafisti, appunto, fin dai primi giornidel conflitto:

Firenze 1 aprile 1915, l’amico Naza-reno Falesiedi a Giuseppe Compa-gnoni: …Qui partono di continuo perla frontiera austriaca. Domenica sonopartiti una parte dell’84° che è qui diresidenza per Feltri che è alle confinedel Tirolo, tra i quali c’era il figlio diBartolotti...

Piansano 17 giugno 1915, Giuseppeal figlio Giulio: …Molti militari di quisi trovano al fronte, tra essi LorenzoBartolotti...

Piansano 10 agosto 1915, ancora Giu-seppe a Giulio: ...Lorenzo Bartolottidietro esame è passato telegrafista nel3° genio 12a compagnia: i suoi geni-tori ne hanno assai gioito....Cui rispose il figlio: …Ho avuto moltopiacere di avere appreso che LorenzoBartolotti ha fatto il passaggio nei te-legrafisti; specialmente per i suoi ge-nitori che certamente ora sarannomolto più tranquilli, egli stesso ierseram’inviò una cartolina, sta all’11a com-pagnia e non alla 12a...

Piansano 17 ottobre 1915, Giuseppea Giulio: …Lunedì prossimo causaalla Pretura contro Brachetti e Barto-lotti per la farmacia…

14 giugno 1916, Giulio ai genitori: …Di Lorenzo Bartolotti si sono avutenotizie? Chissà, povero diavolo, comese la sarà cavata!…

Il “povero diavolo” - espressioneche, insieme al contesto delle let-tere, rivela affettuosa solidarietàverso condizioni che nel com-plesso non dovevano essere invi-diabili - sopravvisse in ogni modoalla guerra e nel luglio del 1919tornò a Piansano con la fidanzata inavanzato stato di gravidanza. La ra-gazza aveva vent’anni, si chiamavaMaria Vettorazzi ed era di Levico, inprovincia di Trento, dove Lorenzodoveva averla conosciuta duranteo subito dopo la fine della guerra.Nello stesso mese di luglio si spo-sarono a Piansano ed ebbero unabambina, Gina. La famigliola abitòper qualche anno in una casa di ViaUmberto I fino a quando, nel giugnodel 1923, ripartì al completo alla

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Schema genealogico semplificatodei Bartolotti a Piansano

Carlo Bartolotti e Teresa Pompeide Terra Farnesii.

Vincenzo (Piansano 1797-1865),possidente, nel 1818 sposa a Pian-sano Palmira Parri di Lorenzo.

Lorenzo (Piansano 1820-1872) pos-sidente farmacista, intorno al 1850sposa Nazarena Orsini di Orvieto.

Luigi (Piansano 1856-1918) il possi-dente (il sedicenne sequestrato daTiburzi nel 1873), nel 1895 sposaMaria Ciofo e ne ha Lorenzo (Pian-sano 1895-?), il telegrafista, emi-grato in Belgio verso il 1925 seguitonel 1934 dalla figlia Gina (Piansano1919-?).Giuseppe (Piansano 1861-1909), ilfarmacista, nel 1899 sposa GiacintaMoscatelli senza averne figli.Pietro (Piansano 1864-1903?), ilprofessore, nel 1894 sposa a PisaMaddalena Giacomelli e ne haMario (Pisa 1895-?).

Blasone della famiglia Bartolotti

Troncato: nel primo di rosso ad unleone di argento nascente dallatroncatura, tenente con la brancaanteriore un bisante dello stesso;nel secondo d’azzurro, a sei bisantipure d’argento, posti 3, 2, 1

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volta di Trento. Le cose però nondovettero andare per il verso giu-sto, perché quasi subito Lorenzo ri-portò la bambina a Piansano dallanonna e lui emigrò definitivamentein Belgio. Fu lì che lo incontraronoi nostri emigranti per le miniere bel-ghe nell’estate del 1951. Era sulposto da oltre 25 anni, si era rispo-sato con una belga e nel ’34 erastato raggiunto dalla figlia Gina,ormai signorinetta. Aveva una spe-cie di bar con rivendita di biscottie cioccolati e faceva il rappresen-tante di gelati. In qualche modo erastato lui a far maturare in quei pian-sanesi l’idea dell’emigrazione inBelgio, perché nei rapporti mante-nuti con il parentado aveva fattobalenare delle possibilità di lavoroin un periodo in cui in paese si mo-riva di fame. In ogni modo Lorenzo e sua figlia inpaese non tornarono più. Si ricordavagamente solo una visita di “duedonne” nell’immediato ultimo do-poguerra - probabilmente Gina e lanuova moglie di suo padre - ma difatto padre e figlia furono gli ultimiBartolotti a Piansano. E per quantonelle vicissitudini finali del casato sisiano progressivamente perduti isegni dell’antica grandezza, fa sem-pre effetto, nel ricostruirne i tra-scorsi, constatare ogni volta lavolatilità delle fortune umane.Avremmo voluto riprendere gli af-freschi della vecchia domus Barto-lotti nella piazza del Comune masono spariti anche quelli, “imbian-cati”. Non che fossero dipinti di pre-gio, ma adornavano la dimoragentilizia che non a caso mostranella facciata il più grande mono-gramma bernardiniano tra quellipresenti in paese, il più grande e ilpiù artistico, decorazione divenutaelemento distintivo del palazzo. Eogni volta, per quanto scontate eriascoltate, tornano alla mente leparole del poeta: “Muoiono le città,muoiono i regni, copre i fasti e lepompe arena ed erba…”.

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11primavera 2018

La gattopardesca annessionedello Stato Pontificio al Regnod’Italia

All’alba dell’Unità d’Italia leideologie e gli spiriti patriot-tici si esaurirono in una

serie di problematiche che fino al-lora erano state mascherate dallaretorica della propaganda. Le con-quiste dei garibaldini si dimostra-rono perlopiù evanescenti findopo lo sbarco a Marsala. In ef-fetti, nelle province meridionali già“liberate”, ai manifesti propagandi-stici corrispondevano impegni di-sattesi e dure repressioni controchi pretendeva che si facesse fedealle promesse di riassegnazionedelle terre, di ridimensionamentodel potere dei latifondisti-feudatarie di ripristino degli usi civici an-nullati in precedenza.I Maremmani ignoravano tuttociò, eppure ne subirono diretta-mente le conseguenze. Dopoaver conquistato provvisoria-mente la libertà dal giogo delleautorità papaline grazie a una

compagnia di seicento uominichiamati Cacciatori del Tevere,assistettero nel 1860, al di là diogni aspettativa, alla nuova resadel Viterbese da parte di VittorioEmanuele allo Stato Pontificio:altri dieci anni furono necessariperché venisse decretata la finedel potere temporale dellaChiesa in quelle zone.Nel Viterbese i mutamenti furonoessenzialmente di natura istituzio-nale: i carabinieri reali si sostitui-rono alla gendarmeria pontificia,gli esattori del re assunsero leveci di quelli del papa, ritornòl’imposizione della tassa sul maci-nato e venne introdotto per laprima volta il servizio militare ob-bligatorio. Totalmente disattesa fula promessa di redistribuzionedelle terre, che aveva fatto parte-cipare alle esultanze verso ilnuovo stato anche le classi socialimeno abbienti e meno interessatedalle ideologie e dai patriottismi. Paradossalmente, le terre espro-priate all’Asse Ecclesiastico fu-rono acquistate, per prezziirrisori, dagli agrari, che non fe-cero altro che ampliare i loro possedimenti. Esempio della portata dell’opera-zione fu Canino, centro abitatodel viterbese, che constava dicirca 12.000 ettari di terreno com-prensivi di terre coltivate, colti-vate male e incolte. Ebbene, 800di questi erano di proprietà deiTorlonia, 1.800 dei Cavalieri diMalta, 2.200 di piccoli e medi pro-prietari o del Comune. “Latifundoperdidere Italiam”. Così Plinio ilVecchio anticipava quanto il lati-fondismo avreb- be contribuitoallo stato di arretratezza di quelleregioni italiane prettamente agri-cole tra le quali annoveriamo laMaremma tosco-laziale.

Il Plebiscito Romano, dipinto di Luigi Riva(1833-1916), Museo del Risorgimento di Milano

Valentina Polverini

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dossier Tiburzi

braccianti erano equiparabili aquelle proprie, nell’alto medioevo,della servitù della gleba, così vin-colata alla terra da essere conside-rata parte della proprietà delsignore e in uno status d’invinci-bile asservimento. Nel corso dell’età comunale taleservilismo venne rivisitato allaluce di un nuovo sistema, la mez-zadria, che riscosse in particolarein Maremma una fortuna destinataa prolungarsi nel tempo per tuttal’età moderna.I margini d’intervento in questoambiente fortemente arretrato,dovevano essere individuati allaluce delle norme del nuovo codicecivile, il primo codice unitario del1865, ma esso costituiva ancorauna volta l’apologia della pro-prietà privata. Il lavoro era nullapiù che uno scambio tra soggettiproprietari e pertanto il sistemadelle garanzie non avrebbe potutosconfi- nare rispetto a quello pre-visto a tutela della proprietàstessa.

I lavoratori erano riconducibili auna merce dinamica, qualificatacerto, ma commerciabile, e per-tanto la materia giuslavoristaviene ancorata sul piano dell’auto-nomia contrattuale: rimane cioèaffare dei privati. Il codice del1865 si limita a stabilire nell’art.1628 che nessuno può obbligare lapropria opera all’altrui servizioche a tempo o per una determi-

nata impresa, e questo al fine discongiurare il riproporsi di unanuova forma di schiavitù. Tantopiù sembrava si volesse concretiz-zare il distacco dal sistema feu-dale, quanto più si rischiava diconfermarlo in quelle zone in cuil’industrializzazione era ben lon-tana dal realizzarsi. Ci si confron-tava infatti con un’economia restiaall’industrializzazione e inglobataancora nei vincoli feudali, per iquali la forza lavoro era concepitacome una sorta di appendice dellatifondo. Il lavoratore non era ingrado di negoziare le condizionicontrattuali lavorative, egli si tro-vava invero in una condizione diasservimento tale da non essereneppure cosciente dei propri di-ritti fondamentali. A titolo esemplificativo si consi-deri la condizione “privilegiata”dei butteri, i tipici pastori a ca-vallo della Maremma, ai quali si ri-chiedeva la capacità di cavalcaresotto ogni intemperia, di affron-tare ogni imprevisto che la naturapredisponeva per garantire la sal-vaguardia del bestiame che i pos-sidenti affidavano ai pastori.

La vita del buttero seguiva quelladelle mandrie di cui era custode,trascorrendo a cavallo tutte le orediurne per poi radunarsi di nottenelle vicinanze del bestiame pergarantirne la sicurezza. In tale con-testo i braccianti e i pastori ma-remmani non avevano altro che la

Occorreva ancora verificare se, esecondo quali modalità, una ri-forma agraria sarebbe stata confi-gurabile al fine di migliorare laproduttività agricola e le condi-zioni lavorative di braccianti e pa-stori. A tal fine tra il 1877 e il 1884si aprì la famosa “Inchiesta agrariae sulle condizioni della classe agri-cola”, meglio nota come “InchiestaJacini” dal nome del presidentedella Giunta che avrebbe presie-duto ai lavori. I risultati dell’in-chiesta riportano nell’undicesimovolume, trattando dei contadini edei braccianti della Maremma, laseguente definizione dei brac-cianti:

[…] Sono i soldati dell’agricolturache combattono in ogni luogo,sotto qualunque disciplina e consorte diversa per la vita altrui, piùche per la propria. Assorbiti dai bi-sogni quotidiani di una vita incertae laboriosissima non hanno iltempo né il modo, né di coltivarele loro intelligenze, né di curare illoro carattere. Vivono come pos-sono e muoiono sapendo appenadi aver vissuto.

I latifondisti per parte loro nonavevano interesse a investire leloro finanze in opere che si sareb-bero dimostrate redditizie solo nellungo periodo, quali opere di boni-fica, specializzazioni nelle coltiva-zioni, realizzare infrastrutture utiliallo svolgimento dei lavori. Si limi-tavano a uno sfruttamento inten-sivo delle terre, per il cui lavoroimpiegavano braccianti e conta-dini, tra cui uomini, donne, minori.Per i lavori stagionali si rendevanecessario l’intervento di squadredi lavoratori provenienti dallezone limitrofe tra cui toscani,abruzzesi e marchigiani. Il brac-ciantato veniva reclutato permezzo di caporalati e il compensoera irrisorio, non certo sufficienteper condurre una vita dignitosa.Il lavoro agricolo in Maremma siconfigurava come un retaggio delmondo feudale. Le condizioni dei

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Schede del plebiscito di annessione al Regno d’Italia

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propria-forza lavoro da “vendere”al latifondista, non erano dotati dinessun potere negoziale, e comenon avevano trovato garanzia e tu-tela giuridica nella legislazionepontificia, continuavano ad es-serne privi nell’Italia postunitaria.

L’inchiesta Jacini si concluse rile-vando come non esistesse alcunmargine su cui si potesse fondarela proposta di riforma agraria, ecome quanto fin qui analizzatocorrispondesse a un male fisiolo-gico per cui una possibile solu-zione era da ravvisare nell’emigra-zione di ingenti masse di lavora-tori. Il 21 maggio 1868 inoltre,prima ancora dell’annessione delViterbese all’Italia, la Camera deiDeputati con scrutinio segreto ri-pristinò per tutta la penisola la co-siddetta “tassa sulla fame”, cioèl’invisa tassa sul macinato, abolitasoltanto nel 1884.

Ulteriore affronto venne realizzatocon la legge 24 giugno 1888 n.5489, con cui si abolivano gli usicivici esistenti nelle ex provincepontificie. Tale antico istituto con-sisteva nel diritto di esercitaregratuitamente alcune attività agri-cole o di pascolo su terreni pub-blici o privati, su concessione delpapa, dei possidenti o dei nobili,al fine di garantire alla popola-zione un mezzo di sostentamento.Le condizioni d’indigenza in cuiversava il nuovo Regno raggiunge-vano una gravità inimmaginabile:la durata media della vita nella

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Schede del plebiscito di annessione al Regno d’Italia

primavera 2018

Maremma malarica era di circasessant’anni, l’analfabetismo ri-guarda va nei piccoli centri il 98%della popolazione e il tasso dimortalità infantile si aggirava in-torno al 28%. Quegli ideali di li-bertà e di uguaglianza cheavevano trovato nello spirito pa-triottico la loro speranza di essereconcretizzati, si rivelavano unamera propaganda. Al di là dei ma-nifesti garibaldini, nulla lasciavasperare in un nuovo ordine socialeliberato dai vincoli del sistema ce-tuale che aveva caratterizzato ilgoverno papalino.

L’annessione dello Stato Pontificioal nuovo Regno d’Italia realizzavaappieno l’assunto del “Gattopardo”di Tomasi di Lampedusa, il qualeattribuisce al “patriota” Tancredi,giovane nipote nel nobile principedi Salina, la profetica frase: “Se vo-gliamo che tutto rimanga come è,bisogna che tutto cambi”. Ed effetti-vamente per gli oppressi cambia-rono gli oppressori. Cambiarono igoverni, ma la miseria non smisemai di regnare sovrana. La modernità era salita su di untreno che non era mai passato perquelle zone. Non si tratta di que-stioni di principio, ma di elementiconcreti di disagio sociale in cuiversavano masse di nullatenentiche avevano come unica risorsa illoro lavoro, mal pagato, e che do-vevano sperare, per sopravvivere,che la malaria non li cogliesse.La relazione conclusiva dell’in-chiesta sul brigantaggio meridio-

nale presentata alla Camera nel1863 rilevava quanto segue:

[…] l’attuale proprietario noncessa di rappresentare agli occhidel contadino l’antico signore feu-dale. Il contadino sa che le sue fati-che non gli fruttano benessere néprosperità; sa che il prodotto dellaterra annaffiata dai suoi sudorinon sarà mai sua; si vede e si sentecondannato a perpetua miseria el’istinto della vendetta sorge spon-taneo nell’animo suo…si fa bri-gante, richiede alla forza quelbenessere quella prosperità che glisono vietati, ed agli onesti e mal ri-compensati sudori del lavoro pre-ferisce i disagi della vita dibrigante. Il brigantaggio diventa intal guisa la protesta selvaggia ebrutale della miseria contro anti-che secolari ingiustizie.

[email protected]

Dalla tesi di laureaIl sistema Tiburzi. Elementi criminogeni nella

Maremma dei briganti, discussa il 22 febbraio 2018 all’Università di

Siena per il corso di laurea magistrale in Giuri-sprudenza, relatore prof. Paolo Passaniti

Bibliografia

L. Gaeta, Il lavoro e il diritto. Unpercorso storico, Bari, 2013a. La BeLLa, L’Associazione Castrenseespressione delle attese popolari delRisorgimento, in Un aspetto delRisorgimento Viterbese.L’Associazione castrense del 1848-1849, in atti della giornata di Studio,Viterbo 7 dicembre 1999, a cura di R.Luzi, Valentano, 2000a. La BeLLa-R. MecaRoLo, Tiburzi senzaleggenda, Valentano, 1995G. MaSSaRi, Il brigantaggio nelleprovince napoletane. Relazioni fattea nome della Commissioned’Inchiesta della Camera de’ Deputatida G. Massari e S. Castagnola,Napoli, 1863G. PaoLoNi-S. Ricci (a cura), L’archiviodella Giunta per l’Inchiesta agraria esulle condizioni della classe agricolain Italia (Inchiesta Jacini) 1877-1885-Inventario, Roma, 1998P. PaSSaNiti, Il lavoro come proprietànell’Italia postunitaria, in “Tra dirittoe storia. Studi in onore di LuigiBerlinguer promossi dalle Universitàdi Siena e di Sassari”, tomo ii, SoveriaMannelli (catanzaro), 2008

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