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Massimo Venuti

Simbologia, mitologia e musica

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Prima edizione ebook, formato PDF: luglio 2012

ISBN: 978-88-534-4049-5

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Massimo Venuti, Professore ordinario di Semiotica della musica e di Estetica della musica presso il Conservatorio di Milano e l’Istituto Pontificio Ambrosiano di Musica Sacra, ha pubblicato diversi libri tra i quali, in àmbito filosofico, La retorica del Logos presentato alla Buchmesse di Francoforte e in varie città italiane, e Il Vangelo e la storia (prefazione di V. Mathieu, Accademico dei Lincei). In àmbito musicologico, tra gli altri, Musikgeist e mondo moderno, Il teatro di Dallapiccola, Stravinsky, Simbolismo e retorica nelle "Szenen aus Goethes Faust" di Robert Schumann. Ha tenuto corsi presso l’Università di San Pietroburgo ed è stato chiamato a elaborare “La carta intellettuale” (1994) presso il Palazzo delle Nazioni Unite a Ginevra, nonché il “Projecting culture: the language of music”, 38th University Congress, Roma 2005. È critico musicale da venticinque anni.

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LA MUSICA DELLE SFERE

Il concetto di musica delle sfere, o musica mundana, è tra i più

suggestivi e persino citati nella storia dell'estetica musicale,

eppure, la raffigurazione che ne abbiamo - l'orbita circolare dei

pianeti cui corrisponde un suono -, non è proporzionale alla

quantità di implicazioni che la visione ha suggerito nel corso dei

secoli. C'è da dire che le descrizioni furono sempre vaghe. La

principale, di gran lunga più minuziosa, è quella che ci fornisce

Platone nella descrizione del mito di Er: in essa, gli uomini che

intraprendono l'ardito cammino, andarono «... a mettersi in via

nell'ottavo giorno, per arrivare quattro giorni dopo in un luogo

donde vedevano una luce dritta, come una colonna che,

discendendo dall'alto, si distendeva tra il cielo e la terra (...) e nel

mezzo di questa luce, videro tese dal cielo l'estremità delle sue

catene; perché questa luce era il legame del cielo, fatto a

somiglianza del lavoro che compiono i canapi che si avvolgono

intorno alle triremi, e tiene avvinta tutta la sfera girante; e

dall'estremità di queste catene pendeva il fuso di Ananke, per

mezzo del quale girano tutte le sfere» (Platone, Repubblica 615).

Tra la Terra e il cielo (la sfera girante), c'è il fuso. Il fuso intero

ruotava su se stesso d'un moto uniforme; ma nella rotazione

dell'insieme «i sette cerchi interni giravano lentamente in senso

contrario al tutto. Di tutti il più rapido era l'ottavo; seguivano per

rapidità il settimo (...). Il fuso stesso girava sulle ginocchia di

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Ananke; sull'alto di ciascun cerchio c'era una Sirena che girava

con esso e faceva sentire la voce e il tono che le erano propri, e

tutte queste otto voci riunite formavano un'unica armonia. E

Cloto, con la destra sul fuso, faceva girare ad intervalli determinati

il cerchio esterno; Atropo, con la sinistra, allo stesso modo i cerchi

interni; e Lachesi, a volta a volta gli uni e gli altri, ora con la destra

e ora con la sinistra» (ibidem 617 d-e).

Cioè il passato, il presente e l'avvenire.

Una rapida ispezione a questi due passi, letti nella loro interezza,

ci mostra una visione ben più complessa del semplice movimento

di astri secondo cerchi concentrici, da un polo all'altro

dell'emisfero. È questa la semplicistica immagine, descritta in

realtà da Filolao (Filolao DK 44 A 8, DK 44 B 6, in Diels

Hermann, Die Fragmente der Vorsokratiker, von Walther Kranz,

Berlin 1951) che campeggia quasi invariabilmente

nell'immaginario e nella iconografia, per esempio nella pur altro

splendida incisione de «La musica delle sfere» della Pratica

musicae di F. Gafurius (1496). Pubblicata in origine come

frontespizio della Pratica, la xilografia fu poi ristampata nel 1518,

con un commento, in F. Gafurius, De Harmonia musicorum

instrumentorum IV, xii, fol. 94 (cfr. A. Warburg, Die Erneureung

der heidnischen Antike, pp. 412 sgg., pp. 429 sgg; E. Windt,

Misteri pagani del Rinascimento, Adelphi, Milano 1986, pp. 323-

327).

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I cerchi, qui, sono sette, da quello più vicino alla Terra a quello più

lontano: Luna (fatta corrispondere al modo ipodorico e alla nota

Re), Mercurio (ipofrigio, nota Mi), Venere (ipolidio, nota Fa), Sole

(dorico, nota Sol), Marte (frigio, nota La), Giove (lidio, nota Si),

Saturno (misolidio, nota Do). In più l'aggiunta del Cielo delle

stelle fisse, l'ipermisolidio (la teorica nota Re, dunque l'ottava),

che rappresenta l'armonia delle sfere, l'inudibile armonia che

Gaffurio apprese dal De Musica IV, xvi sg. di Boezio, sull'autorità

di Tolomeo.

L'immagine è elegante, razionale, e piacevolmente simmetrica.

Ma la fonte primaria, platonica, parla di una situazione molto più

mobile e complessa: si parla di una luce dritta che va dal cielo alla

Terra, di catene che legano il cielo, e che lo fanno ruotare intorno

al fuso intorno al quale girano anche i pianeti, gli dèi e le note

musicali dell'armonia universale. I pianeti-note non girano

pertanto intorno alla Terra, supposta come un disco piatto, ma

intorno al fuso, il quale impiantato nella Terra va a svasare verso

l'alto intorno a un punto nero, immaginario, dell'universo: l'asse

del fuso, inoltre, è mobile, non fisso. Cosa significa tutto questo?

Era noto che sia il movimento degli astri, sia quello del Sole

avessero differenti eclittiche, che è il loro moto apparente visto

dalla Terra. Poiché, tuttavia, la Terra si comporta come una

trottola, ossia possiede anche un movimento oscillatorio verticale,

il fuso - cioè l'asse ideale tra la Terra e il cielo attorno al quale

ruotano i pianeti, e dunque le note musicali - non è fisso, ma

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ondulatorio, e descrive a sua volta un piccolo movimento rotatorio

nello spazio: da tale movimento, come è noto, deriva l'alternanza

delle stagioni. Il prolungamento di tale albero, l'axis mundi,

descrive un punto immaginario nell'universo attorno al quale

ruota il tutto. Attraverso quel punto immaginario - che sembra

sfondare l'universo - si identificherà nelle varie tradizioni la Porta

che di volta in volta servirà a raggiungere l'iperuranio (Platone), o

il Walhalla (tradizione eddica), o, nella traduzione cristiana,

l'Eden di cui Pietro ha le chiavi, simbolo pontificio mutuato dalla

tradizione arcaica. La Porta infatti è l'apertura alla Rivelazione,

Cristo è la Porta della Salvezza (Gv. 10,1-10), accesso alla realtà

superiore (Mc. 13,29; Ap. 3,20). Dio apre le porte per manifestarsi

in Gn. 28,17; Sal. 78,23, e in molti altri luoghi. La Porta è anche

Giano, l'initiator per eccellenza, come dice S. Agostino nel De

Civitate Dei 4,11; 7,3.

Ma non è finita. Per avere un'idea del complesso dobbiamo

aggiungere quella che noi chiamiamo Precessione degli Equinozi,

che pur essendo stata scientificamente dimostrata da Keplero, era

stata già scoperta da Ipparco nel 127 a.C. Le grandi età arcaiche

erano determinate da quel lentissimo spostamento per il quale gli

astri, e il sistema musicale ad essi collegato, sorgono e tramontano

in un punto sempre diverso in una successione regolare. L'eclittica

incontra pertanto l'equatore in un punto che si sposta lungo la

fascia dei segni zodiacali, le costellazioni, compiendo un giro

completo intorno all'orizzonte terrestre ogni 26.400 anni.

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«La rotazione dell'asse polare non deve essere disgiunta dai

cerchi massimi che si spostano assieme ad essa nel cielo:

l'armatura viene immaginata come un tutt'uno con l'asse (...).

L'idea astratta, e oggi così naturale, di un semplice asse terrestre,

non era affatto così logica per gli antichi, che pensavano sempre

alla rotazione intorno alla terra di tutta quanta la macchina del

cielo: una linea ne implicava sempre molte altre in una struttura.

Bisogna perciò, a quanto pare, accettare l'idea che ciò che tiene

assieme il mondo sia un implesso» (G. de Santillana-H.von

Dechend, Il mulino di Amleto, Adelphi, Milano 1984, pp. 280-

281).

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SIMBOLO E MITO

Le catene di cui parla Repubblica che tengono il cielo e la sfera

girante, sono in realtà i punti equinoziali dell'alba e tramonto del

Sole e, in verticale, il punto più a nord raggiunto dal Sole

nell'eclittica, cioè il solstizio d'estate, e quello più a sud, quello

invernale. È noto che in quello estivo il Sole viene «colpito a

morte» e torna a scendere (Macrobio, Saturnalia I, 17, 63; Ovidio,

Metamorfosi 2, 83). La festa di S. Giovanni decollato cade

appunto il 24 giugno. Giovanni, come il Sole, è decapitato, come

aveva prefigurato lui stesso: «Voi stessi mi siete testimoni che ho

detto: non sono io il Cristo, ma io sono stato mandato innanzi a lui

(...). Ora questa mia gioia è compiuta. Egli deve crescere e io

invece diminuire» (Gv 3, 25-30).

(Un interessante studio sulla festività del solstizio estivo è in A.

Cattabiani, Calendario, le feste, i miti, le leggende e i riti

dell'anno, ed. Mondadori, Milano 2003, pp. 227-244).

Ambedue le coppie di punti sono mobili e snodi delle fasciature

che reggono il cosmo. I pianeti-note, pertanto, facendo parte di un

implesso che potremmo definire una sfera armillare, si

comportano ben altro che fasce di suono orizzontale: più corretto

vederle in un moto a spirale secondo orbite ellittiche che

s'intersecano obliquamente, ma anche verticalmente tra loro,

esattamente come negli ingranaggi di un mulino. Ciò non toglie la

possibilità che, nel momento della maggiore vicinanza tra i

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pianeti, si possano calcolare i rapporti di distanza tra essi e farne

un fondamento numerologico sia della creazione del cosmo, sia

della scala musicale greca (Timeo VIII 34-36).

La mitica immagine del mulino, negli effetti, era una vera

macchina del tempo musicale che scandiva i moti apparenti degli

astri, sia nel loro lentissimo spostamento orizzontale

(Precessione) sia in quello verticale (l'eclittica): lo vediamo nei

poemi scaldici islandesi: «Si dice, canta SnaebjØn, che al largo,

oltre quel capo laggiù le Nove Fanciulle del Mulino dell'Isola

rimestano con veemenza la macina degli scogli crudele alle schiere

- loro che nelle passate età macinarono la farina di Amleto...» (I.

Gollancz, Hamlet in Iceland, Northern Library, London 1898, vol.

III, p. 49. Cfr il poema finnico Kalewala, poi messo in musica da

J. Sibelius)

Lo vediamo nei poemi eddici norvegesi, quando il re Frǿdi cerca

le due Fanciulle che facciano funzionare il Mulino magico del

tempo, e in Odissea, quando Ulisse approda a Itaca. È notte. Egli

prega Zeus che gli mandi un segno, e il segno gli viene dato

attraverso il Mulino del tempo, che macina la vita e la morte, e che

sta per scandire una nuova era. Odisseo ne gioisce: «Parole parlò

dalla casa una donna alla macina (...) vi badavano attivamente

dodici donne in tutto a fare farina d'orzo e di grano, midollo degli

uomini. Dormivano le altre, avendo già macinato la loro parte di

grano; una soltanto non aveva finito: la più debole era. I

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pretendenti oggi per l'ultima volta, d'Odisseo nella casa godano

l'allegro banchetto» (Odissea XX, 103-119).

Il porto di Itaca, il delizioso antro delle Ninfe dove le api

costruiscono i favi e le Naiadi tessono manti del cupo colore del

mare, sembra un piacevolissimo luogo di soggiorno, ma l'antro ha

due porte: una è vòlta a Borea, la porta dalla quale scendono gli

uomini, l'altra invece è a Noto, ed è destinata agli dèi, perché non

la varcano gli uomini, ma solo il cammino degli immortali

(Odissea XIII, 102-119): si capisce che siamo ancora di fronte

all'antro-cosmo musicale. Il fuso è sempre uno, ma indica due

porte: una al solstizio d'estate, per mezzo del quale gli uomini

scendono alla Terra, l'altra più in basso, al solstizio invernale,

accesso per accedere agli stadi superiori, ma che può essere

percorsa solo dagli dèi. Il cosmo musicale è infatti un luogo

iniziatico (cfr Porfirio, De abstinentia 2, 46) dove ci sono due vie,

una delle quali - a destra - conduce al cielo, e l'altra - a sinistra -

all'Ade (Platone, Repubblica X 614c-615e; Dike prende la destra

per raggiungere la Verità nel Poema di Parmenide, v.22).

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IL MITO E WAGNER

Se la vòlta celeste è un'apparente semicupola, e l'asse mobile che

la regge rappresenta il passaggio verso il cielo e allo stesso tempo

è il perno del sistema musicale rotante, non è un caso che Ulisse

(Odissea XXIII) si faccia costruire la camera da letto, e la casa

intera, intorno a un tronco d'ulivo, simbolo dell'axis mundi

attorno al quale viene fondato il cosmo. Cosa che avverrà anche in

altre tradizioni, come in quella sciamanica, che costruisce

l'abitazione intorno a un tronco, e in ogni caso ha un foro sulla

sommità perpendicolare al centro, o quella eddica che sarà ripresa

nell'epopea nibelungica: Wagner, probabilmente senza

conoscerne le profonde ragioni, riprende un modello intatto di

simbologia mitologica universale quando, nel I Atto della

Walküre, fa incontrare Siegmund e Sieglinde, la coppia incestuosa

che incrocia cielo e terra, all'interno di un'abitazione costruita

intorno a un robusto tronco di frassino, che sta nel centro; la

medesima disposizione della camera di Ulisse.

È una sala in legname. A destra, sullo sfondo, il focolare e dietro

la dispensa. Da quel medesimo tronco di frassino - l'axis mundi -

il padre degli dèi Wotan aveva ricavato la sua regale lancia sulla

quale aveva inciso le leggi runiche che regolavano la vita del

mondo e dell'universo.

Wagner, in questo senso, è stato unico. Infatti il tema della lancia

verrà ripreso in tutta la sua potenza simbolica in Parsifal. Parsifal,

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santificato attraverso varie prove iniziatiche e attraverso il

sacrificio, userà quella stessa lancia per guarire le ferite di

Amfortas, dopo che il malvagio Klingsor l'aveva usata malamente

per evirarsi. Ma qui occorre un chiarimento: l'evirazione di

Klingsor, un retaggio del mito della castrazione di Urano da parte

di Crono-Saturno (ovvero Urano, il cielo delle stelle fisse, lascia il

potere al successore Saturno, il più lontano dei pianeti, cfr Esiodo,

Teogonia 154-210; si tratta della scoperta dell'obliquità

dell'eclittica, nell'ambito di un mondo dove realmente abitano dèi,

musica e pianeti, cfr Platone Fedone 111b, Timeo 37c; mondo di

eccelsa bellezza, cfr Filone, De aeternitas mundi III,10, il più

sacro dei templi, Cicerone De natura deorum II,37,95).

Malamente, perché Klingsor, attraverso la castrazione,

interrompe volontariamente il proprio rapporto con gli dèi pur di

fabbricare da solo il proprio potere: è un fabbro, come il malvagio

Alberich, infatti la forgiatura dei metalli è il mestiere fondato da

Caino (Gen. 4, 22). Se Klingsor può vedere da lontano l'avvicinarsi

di Parsifal è perché usa la propria negromanzia, come fa la strega

che attraverso lo specchio vede Biancaneve da lontano. Tali mezzi

artificiosi e peccaminosi sono resi musicalmente da note

cromatiche e alterazioni d'ogni tipo. Wagner usa qui la musica

ficta, che indica l'artificio dell'uomo dannato, rispetto ai modi

naturali che garantiscono l'amicizia con gli dèi.

Le basiliche cristiane e bizantine saranno costruite in modo che

l'abside dorata o azzurra, popolata da stelle, angeli, musicanti, o

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santi, sia simbolo della volta del cielo, e la lucerna (la foratura

aperta, simbolo dell'axis mundi posta sulla sommità della cupola)

sia disposta perpendicolarmente all'altare, di modo che solo

attraverso il sacrificio di Cristo l'uomo può salire e accedere, oltre

la volta stellata, alla Porta dei cieli.

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MUSICA, SIMBOLO, PARADISO

È appunto con il cristianesimo che l'implesso cosmico viene

ripreso più esplicitamente in termini musicali. In S. Agostino esso

viene descritto come armonia, ossia concordissima differentia (S.

Agostino, De vera religione XXX 55), oppure nel suo aspetto più

pratico e per così dire omiletico (Confessionum X, 33). Ma è il

razionalissimo e non certo ortodosso Boezio - De institutione

musica, cap. V - a coniare un termine di suprema sintesi ed

eleganza: musica mundana.

Il termine non è subito accettato universalmente. Cassiodoro,

seguendo S. Agostino, divide la musica in Scienza armonica,

ritmica e metrica (M. A. Cassiodoro, Institutiones, cap. V "De

Musica") ed è ripreso pedissequamente dal conforme Isidoro di

Siviglia (Sententiae de Musica cap. IV).

La divisione di Boezio sarà invece evidenziata da un altrettanto

poco ortodosso Aureliano Reomensis (lo si vede nell'ironica

Praefatio), nella cui Musica Disciplina sottopone finalmente le

tres partes, harmonica rhythmica metrica, ai tria sint genera

mundana, humana, instrumentis (Aureliani Reomenisis, Musica

Disciplina, Caput III, «Quod Musicae tria sine genera»).

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Chi, invece, mostra non solo di avere le idee molto chiare, ma che

anche riassunse e sviluppò in modo arditissimo l'armonia

prestabilita-musica mundana, attraverso le sue due autentiche

collocazioni (l'albero-fuso e il mulino cosmico), fu una delle più

grandi menti che la Storia ci abbia consegnato: Dante.

Nella Commedia egli colloca la musica humana e

instrumentalis nell'imperfetto mondo del Purgatorio, sia per la

loro tentazione edonistica (Casella, Purg. II, 106-133), sia per

l'inferiore uso degli strumenti, che indicherebbe la pigrizia

dell'intelletto ad assurgere alla musica superiore, infatti Belacqua,

il costruttore di liuti, è collocato nel girone dei pigri o dei

negligenti (Purg. IV, 115-135).

Quella mundana, invece, è nel Paradiso.

Per raggiungerla, tuttavia, egli deve arrivarci al Paradiso, e lo fa

avvalendosi della giusta via, quella del fuso di Ananke, ovvero,

cristianamente, l'Albero della vita, che ha le radici in terra, il fusto

proiettato verso il Cielo, e che attraverso la Porta (il buco nero

dell'universo attorno al quale gira il tutto) sostiene i rami e i frutti

nel Paradiso. Il fuso-albero simbolico, anticamente, veniva

periodicamente abbattuto, quando le ere cambiavano in

coincidenza con il passaggio da uno zodiaco all'altro: dopo Cristo,

però, Dio ha santificato l'albero, perché è Lui, ora, il padrone del

tempo: oggi, dice Dante, nessuno può più schiantare l'albero,

perché il tempo non avrà più diverse ere, ma solo quella voluta da

Dio, il vero inizio, la vera fine del mondo.

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«chiunque ruba quella o quella schianta, con bestemmia di fatto

offende Dio, che solo all'uso suo la creò santa» (Purg. XXXIII, 58-

60; cfr v. 61 sgg.).

Dopo la sua purificazione, e l'immersione nel Lete e nell'Eunoé,

«io ritornai dalla santissim'onda/ rifatto siccome piante novelle/

rinnovellate di novella fronda, puro e disposto a salire alle stelle»

(Purg. XXXIII, 142-145).

Nel Paradiso, il grande canto dedicato alla luce, ai colori, alla

rotazione e all'armonia mundana è il decimo. Qui c'è l'esaltante

ritratto di Boezio (Par. X, 124-129), e l'elogio di San Tommaso nei

confronti dell'eretico averroista Sigieri di Brabante: cantando in

coro le lodi a Dio, Tommaso e Sigieri risolvono nell'armonia le

dissonanze che li avevano divisi nella vita terrena. Le antinomie

dell'inferiore dialettica logica si compongono nella superiore

concordia discordantium canonum. I cerchi si muovono in

armonia intellettuale che è anche musicale, dove nota, e rota

suggeriscono la circolarità della perfezione.

«Così vid'io la gloriosa rota/ muoversi e render voce a voce in

tempra/ ed in dolcezza ch'esser non più nota/ se non colà dove

gioir s'insempra» (Par. X, 142-145).

C'è chi ha messo in relazione la circolazione dei cerchi con gli

ingranaggi dei primi orologi, le cui prime attestazioni risalgono al

1336, cfr L. Spitzer, L'armonia del mondo, ed. Il Mulino, Bologna

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1963, p. 260, e addirittura al 1306, anno in cui Dante li avrebbe

conosciuti, cfr M. Croese, La Commedia come partitura

bachiana, ed. ETS, Pisa 2001, p.93n).

Quello che a noi per lo più interessa in questo luogo è la seconda

tradizione essenziale dell'armonia prestabilita che Dante

rivivifica: quella del mulino.

Il riferimento all'obliquità dell'eclittica e alla Precessione è

chiarissima: «come da indi si dirama/ l'obliquo cerchio che i

pianeti porta, per sodisfare al mondo che li chiama. E se la strada

lor non fosse torta, molta virtù nel ciel sarebbe invano/ e quasi

ogni potenza quaggiù morta: e se dal dritto più o men lontano/

fosse il partire, assai sarebbe manco/ e giù e su dell'ordine

mondano» (Par. X, 13-21).

Ciò prepara la strada al grande attacco del canto XII: «È tosto

come l'ultima parola/ la benedetta fiamma per dir tolse/ a rotar

cominciò la santa mola; e nel suo giro tutta non si volse/ prima

ch'un'altra di cerchio la chiuse, e moto a moto e canto a canto

colse» (Par. XII, 1-6).

Certamente, i grandi cerchi sono concentrici, ma all'interno del

cerchio della musica mundana, dove la santa mola fabbrica, sotto

l'amore di Dio, la musica e il tempo, le ruote che s'intersecano

sono una perpendicolare l'altra, come le ruote di una macina.

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L'eventuale orologio non è piatto come i nostri, ma è un cubo

simile alle sfere armillari del tempo. Ergo, la musica mundana

non è polifonica nel senso delle molte voci parallele e

armoniosamente discordi, ossia bidimensionale, ma

tridimensionale e prospettica, per così dire timbrica: l'interno del

cerchio non è lineare, ma è spaziale, ut totus ordo impleatur.

Dante fa qualcosa di fondamentale nella storia dell'armonia

prestabilita: innesta le due prospettive pagane, l'axis mundi e il

mulino musicale che il Medioevo aveva dato per scontate o

sottaciute, e le inserisce a pieno titolo nella prospettiva cristiana,

pur mantenendone integri gli assunti originari.

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MITO SIMBOLO ARTE

Tale grandiosa visione armonica e di bellezza rotante, che a

cercare di immaginare fa venire i brividi, viene ripresa via

negationis da una delle raffigurazioni più deliranti della storia. La

faccia interna dello scomparto laterale di destra del Trittico delle

delizie, dipinto intorno al 1504 da Hieronymus Bosch, s'intitola

"Inferno musicale". Come la macina crea bellezza e l'implesso del

cosmo, quella stessa macina, priva dell'ordo divini, tritura e

smembra, così che la sua musica ne diventa il disordine stritolante

della disarmonia: l'arpa, il liuto e l'organo a manovella si

trasformano in strumenti di tortura. L'Albero della Vita diventa

qui l'uomo-albero, al centro del dipinto, che s'appoggia

vacuamente su ondeggianti barche sulla putride nera. L'uomo si

sostituisce a Dio, come l'Ulisse dantesco, vuole raggiungerlo con le

proprie forze e, sostituendosi all'Albero, diventa un mostro

piegato e spezzato (in un mezzo uovo rotto, simbolo di eresia). Le

figure del dipinto sono disposte in ellissi che le chiudono e che

s'intersecano ora obliquamente, ora verticalmente, come gli

ingranaggi di una mola infernale. E infatti eccolo lì, in alto,

memore dantesco e arcaico, il piccolo mulino le cui pale sono

ormai getti di fuoco rovente, il deus discordiae.

Quasi contemporaneamente, il giovane Tiziano dipingeva un

Concerto che darà inizio a una lunga serie di "Concerti" molto

diffusi nel Cinquecento, nei quali raramente qualcuno suona. È

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una tela importante per capire la ricezione della musica mundana

nel figuralismo musicale cinquecentesco, per la quale la critica

artistica tradizionale pare relativamente impreparata (L. Borgese-

R. Cevese, L'arte classica e italiana,vol. III, ii, ed. Garzanti,

Milano 1973, p.329).

Innanzitutto, Tiziano era un profondo umanista. Si era formato,

attraverso Bellini e Giorgione, alla scuola che aveva fondato

Vittorino da Feltre (1379-1446), di matrice neoplatonica. Là aveva

studiato il Libro de Natura de Amore M. Equicola, i Dialoghi di

Amore di Leone Ebreo, le opere di M. Ficino, che aveva tradotto i

Dialoghi di Platone nel 1477 e le Enneadi di Plotino nel 1492. Era

amico di Pietro Bembo, che in quell'anno pubblicava i platonici

Asolani, e di Ariosto, che persino lo cita nell'Orlando furioso. Ma

soprattutto, gli era perfettamente noto uno dei pilastri di quella

scuola, il De institutione musica di Boezio.

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Il quadro di Tiziano del 1506 ne è un'allegoria. Come in quasi tutti

i Concerti veneziani del tempo, (le quattro versioni di Venere e

gentiluomo, il Concerto di Tintoretto, la Vita tripartita di

Veronese e via dicendo), chi suona l'organo non guarda mai la

tastiera. La figura centrale, che pare un sacerdote, rappresenta la

musica mundana. Non guarda la tastiera perché è lui stesso

l'allegoria dell'armonia: non gli serve suonare, in quanto

attraverso la tastiera dà ordine e proporzione al mondo, in realtà

emette suoni senza suoni. Non ha nulla di febbricitante o di

sofferente, al contrario, è sereno e ha un leggero sorriso: significa

che darà risposta al frate, qui gerarchicamente inferiore, che lo

guarda in modo interrogativo e chiede la sua attenzione

toccandogli la spalla. Ha già il manico di un liuto in mano, perché

è la musica humana, qui, che chiede ispirazione all'armonia

prestabilita, all'Amor, per collocare in musica sensibile

l'intuizione: in un certo senso è il compositore in procinto di

mettersi al lavoro, dopo il dialogo spirituale.

Tale dialogo silenzioso tra i due è il vero concerto (cfr M. Venuti,

"Un concerto di Tiziano", in Studi Cattolici, anno XLVII, ottobre

2003, n. 512) che si sta svolgendo, e il sorriso della figura centrale

significa che la richiesta avrà accoglimento. Ora, pare che tutto

questo non interessi la figura di sinistra, che però è assolutamente

essenziale per la composizione allegorica.

E si capisce: il paggio rappresenta la musica instrumentalis. Egli

è ben vestito per il teatro, e guarda in faccia il pubblico

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cercandone l'applauso, o in ogni caso l'approvazione, e non pare

interessato alla composizione in quanto tale, allo spiritus che può

animarla: il suo compito è solo di eseguire, di mostrare il meglio, e

più che guardarvi vi scruta, cercando di cogliere i vostri umori, e

capire se lo spettacolo avrà successo.