Anno LXIII n. 2 Aprile-Giugno 2017 - :: Il Rievocatore · d’Avalos di Vasto che do-mina il mare...

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TRIMESTRALE DI ARTE, SCIENZA E CULTURA FONDATO DA SALVATORE LOSCHIAVO Anno LXIII n. 2 Aprile-Giugno 2017

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TRIMESTRALE DI ARTE, SCIENZA E CULTURA FONDATO DA SALVATORE LOSCHIAVO

Anno LXIII n. 2 Aprile-Giugno 2017

IN QUESTO NUMERO:

Editoriale, Rievocare l’“arte delleggere” p. 3

E. Notarbartolo, I d’Avalos p. 4

A. La Gala, Due Porte all’Arenella p. 6

E. Barletta, Due infettivologi e unatorre p. 9

O. Dente Gattola, La Cappella Palatina p. 14

P. Carzana, Le traversie “post mortem”di Giacomo Leopardi.1 p. 16

G. Belmonte, Francesco de Sanctis p. 25

S. Zazzera, ...E per modella unagallina p. 30

F. Ferrajoli, Artisti napoletani - EttoreSannino p. 32

M. Piscopo, Francesca Crimaldi p. 34

D. Cristiano, Ferdinando Ferrajoli.3 p. 36

F. Lista, Cromofilia procidana p. 39

A. Ferrajoli, Il rene nello scompensocardiaco p. 42

P. Accurso, Lo sviluppo dell’identitàdell’individuo p. 44

La posta dei lettori p. 46

Libri & cd p. 47

UN PO’ DI STORIA

Alla metà del ventesimo secolo Napoli anno-verava due periodici dedicati a temi di storiamunicipale: l’Archivio storico per le provincenapoletane, fondato nel 1876 dalla Deputa-zione (poi divenuta Società) napoletana distoria patria, e la Napoli nobilissima, fondatanel 1892 dal gruppo di studiosi che gravitavaintorno alla personalità di Benedetto Croce eripresa, una prima volta, nel 1920 da Giu-seppe Ceci e Aldo De Rinaldis e, una secondavolta, nel 1961 da Roberto Pane e, poi, daRaffaele Mormone.In entrambi i casi si trattava di riviste redatteda “addetti ai lavori”, per cui Salvatore Lo-schiavo, bibliotecario della Società napole-tana di storia patria, avvertì l’esigenza diquanti esercitavano il “mestiere”, piuttostoche la professione, di storico, di poter disporredi uno strumento di comunicazione dei risul-tati dei loro studi e delle loro ricerche. Nacquecosì Il Rievocatore, il cui primo numero dataal gennaio 1950, che godé nel tempo dellacollaborazione di figure di primo piano delpanorama culturale napoletano, fra le qualimons. Giovan Battista Alfano, Raimondo An-necchino, p. Antonio Bellucci d.O., GinoDoria, Ferdinando Ferrajoli, Amedeo Maiuri,Carlo Nazzaro, Alfredo Parente.Alla scomparsa di Loschiavo, la pubblica-zione è proseguita dal 1985 con la direzionedi Antonio Ferrajoli, coadiuvato da AndreaArpaja, fino al 13 dicembre 2013, quando,con una cerimonia svoltasi al Circolo Arti-stico Politecnico, la testata è stata trasmessaa Sergio Zazzera.

Ricordiamo ai nostri lettori che inumeri della serie online di que-sto periodico, finora pubblicati,possono essere consultati e scari-cati liberamente dall’archivio delsito: www.ilrievocatore.it.

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Editoriale

RIEVOCARE L’“ARTE DEL LEGGERE”

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Già da più di un po’ di tempo, soprattutto dalle parti nostre, si scrive molto dipiù di quanto non si legga; e ciò, a dispetto dei costi della stampa, che, anche in

un’epoca dominata dall’offset e dal digitale, subiscono una continua lievitazione. Néqui è il caso di porsi la domanda, pur legittima, relativa a chi poi legga quegli scritti. All’accresciuta quantità della produzione, altresì, fa da contraltare, per lo più, unaqualità della stessa maggiormente scadente, soprattutto sotto il profilo della forma.D’altronde, a dare una mano contribuisce anche la complicità di una certa (pseudo)edi-toria, che – attenta più al proprio profitto economico, che al livello qualitativo del prodotto lanciato sulmercato – si limita a svolgere la funzione di passacarte fra l’autore e lo stampatore, addossando per interoal primo i costi di produzione (col pretesto di fargli acquistare quelle trecento copie del libro, il cui importo,

in realtà, è sufficiente a coprirli), omettendo poi di curare la distribuzione, che ormainon la interessa più e che avrebbe un costo non indifferente. Ora, in una situazionesiffatta, è evidente che nella rete casca chiunque si senta realizzato nel leggere il pro-prio nome nella parte alta della copertina di un volume, nel quale, magari, gramma-tica e sintassi risulteranno abbondantemente neglette. Tutto questo, però, poco o nullainteressa a quella (pseudo)editoria, che nel frattempo ha ottenuto il proprio tornaconto.E il discorso, che qui concerne la situazione della stampa non periodica, può essere

riferito, negli stessi termini, a quella periodica (fatte salve, beninteso, le eccezioni riscontrabili in entrambi isettori), relativamente alla quale qualcuno, in maniera scherzosa, afferma che… parecchi leggono soltantogli articoli ch’essi stessi hanno scritto.A fronte di ciò, e stando ai segnali che ci giungono, Il Rievocatore sembra, viceversa, indurre il pubblico allalettura: accade di frequente a noi della redazione di trovarci a parlare del contenuto di singoli articoli conqualche lettore, il che ci consente di renderci conto che il nostro interlocutore ha letto quegli scritti. Il contenutodei quali, poi, egli può avere condiviso, oppure no, ma questo è altro discorso, che riflette una libertà indivi-duale, meritevole del massimo rispetto.È, dunque, nostra presunzione di avere contribuito a ridare, in qualche modo, impulso alla lettura, ovverodi avere “rievocato”, fra l’altro, anche l’“arte del leggere”. Il che, poi, potrebb’essere utile anche a spingere ilettori, che volessero cimentarsi nell’altra “arte” – quella, cioè, dello scrivere –, a farlo nel migliore dei modi.

Il Rievocatore

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I D’AVALOSGRANDI GUERRIERI, GRANDI COSTRUTTORI

DI FORTEZZE E CASTELLI

di Elio Notarbartolo

Grande spirito militare, quello dei d’Ava-los, e tante benemerenze!

Non trascurabile quella della fedeltà, e, proprioper la fedeltà, essi ebbero il primo feudo,quello di Ischia e Procida quando il precedentefeudatario si mise nellaCongiura dei Baroni del1485- 86 e fu sconfitto , in-sieme agli altri baroni nellabattaglia di Troia.Già nel 1463 i Baroni ave-vano tradito il re aragonesee tra i feudatari c'era stato unCossa. Allora il re si chia-mava Alfonso, che non perniente era chiamato il Ma-gnanimo. La stima che i d’Avalos sierano procurati presso Al-fonso il Magnanimo avevafacilitato il matrimonio(1452) di Innico, figlio delcapostipite Rodrigo d'Avalos, con Antonellad’Aquino, appartenente ad una delle famigliepiù nobili di Napoli.Da Innico nacquero Alfonso (secondo d’Ava-los con questo nome in Italia) che divenne mar-chese di Pescara (i d’Aquino erano giàmarchesi di Pescara) e Innico (II d’Avalos conquesto nome in Italia) che divenne marchese

del Vasto.Il marchese del Vasto, Innico, fu il nonno diquell’Innico, cardinale aragonese, che, essendodiventato, nel 1529, feudatario di Ischia e diProcida, costruì, nel 1563, il castello di Pro-

cida.I d’Avalos, in ragione spe-cialmente delle tendenze mi-litari di famiglia, furonograndi costruttori di for-tezze: il castello d’Ischia èfrutto della loro visione mi-litare; così come il palazzod’Avalos di Vasto che do-mina il mare Adriatico dal-l’alto della città ed è quelloche oggi gode di miglioresalute, essendo stato restau-rato di recente. Esso ha as-sunto diverse funzioniciviche.Nel suo ampio cortile, alcuni

anni fa, l’Italia dei Valori, il partito di Di Pietro,tenne il suo Congresso Nazionale e, attual-mente, è sede del museo e della biblioteca ci-vica e luogo di mostre e di eventi culturali.Altrettanto si sta facendo con il castello diIschia che sta sviluppando una sua attività tu-ristico- mondana, ricordando donna VittoriaColonna che lo abitò e lo rese rinomato.

Castello di Procida

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Il castello di Procida, invece, è in abbandono enon ci sono, al momento, concrete ipotesi direcupero. Gli spalti sono letteralmente incrollo, dopo un conato d’intervento operatodalla Sovrintendenza BB. AA. anni fa.Parecchi anni fa, essofu portato all'attenzionedell’Università di Na-poli per farlo candidareal finanziamento di 48miliardi da parte del-l'Europa, ma i potentatipolitici del luogo mo-strarono poca atten-zione (oppureattenzione di natura diversa) all’iniziativa.Ora il “pensiero debole” dell'attuale ammini-strazione comunale pensa le visite guidate alsottostante carcere borbonico, che è tutt’altra

cosa del castello d’Avalos. Va bene, non sem-bra, comunque, che vi siano Turchi in giro,pronti ad aggredire la popolazione isolana.Accontentiamoci della sola funzione scenogra-fica, ma cominciamo a prendere spunto da

Ischia, Vasto, Baia eVairano perchè... iltempo passa e, conesso, passano vite eamministrazioni comu-nali.Teniamo presente che aVairano Patenora (Ca-serta) il castello ristrut-turato, nel 1503, da

Innico II d’Avalos (non il cardinale Innicod’Avalos di Procida) sta lanciando nel turismola zona, alla grande.

Castello d’Ischia

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Castello di Vasto

Il 5 giugno scorso, nel teatro Sofia di Pozzuoli, l’Officina di sperimentazioneteatrale “L’Isola di legno” ha messo in scena una pièce teatrale che, sotto iltitolo Quando la notte è senza stelle - storie di giorni bui, ha affrontato il tema dellapersecuzione delle diversità, dalla Shoah ai giorni nostri. A interpretare il testoè stato un team di allievi dell’Istituto superiore statale “Pitagora” di Pozzuoli,con la regia di Angela Cicala, autrice del testo stesso, che si inquadra in un

progetto che fonde “pedagogia teatrale” e “teatro pedagogico”.

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Dal Cinquecento in poi alcuni possidenti enotabili napoletani elessero l’Arenella

come residenza o come luogo di riposo; moltementi elette la elessero per studiare; artisti diprima grandezza la frequentavano per godereo scorgere i paesaggi, come Salvator Rosa,Giacinto Gigante, Attilio Pratella, i quali ce nehanno lasciato struggenti testimonianze pitto-riche. Di questa Arenella arcadica oggi si può solodire: “c’era una volta…..” perché è difficile in-travedere dopo la sua scellerata urbanizza-

zione, cosa vi resta dei luoghi che avevano af-fascinato quei personaggi.La scoscesità dei luoghi e la concomitantemancanza di strade, per secoli hanno scorag-giato la creazione all’Arenella di insediamenticonsistenti o di rilievo. In effetti si può dire chefino che agli inizi del Novecento, a parte al-cune solitarie ville patrizie e il “Villaggio Are-nella” (un gruppetto di case attorno alla chiesaed alla congrega di Santa Maria del Soccorso),vi troviamo solo un altro piccolo nucleo abi-tato: il “Villaggio Due Porte all’Arenella”,

Un villaggio aereo:DUE PORTE ALL’ARENELLA

di Antonio La Gala

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quasi sconosciuto a moltissimi napoletani,compresi molti abitanti del contiguo Vomero,se non addirittura della stessa Arenella. In questo articolo vogliamo dire qualcosa delVillaggio delle Due Porte. L’insediamento èmolto antico e, sia per la sua panoramicità cheper l’apparire quasi sospeso nel paesaggio, an-ticamente veniva definito “villaggio aereo”. Cominciò ad ospitare ville di notabili, scien-ziati e intellettuali, già dal Cinquecento: fuluogo di soggiorno dei fratelli Della Porta (lacui famiglia vi possedeva una villa); di PietroGiannone, (che lì scrisse la sua Storia Civiledel Reame di Napoli); di famiglie importanti,come i già ricordati Della Porta e i Di Co-stanzo. Nella sua parte alta, oggi nota come la Cupadei Gerolamini, vierano complessi resi-denziali religiosi, unodi proprietà del Semi-nario gesuitico dei No-bili e un altro deiGerolamini, quest’ul-timo poi diventato“Villa Rotondo”, i cuiproprietari - i fratelliBeniamino e PaoloRotondo - la trasfor-marono in luogo di convegno dei maggiori ar-tisti del secondo Ottocento e luogo di raccoltadi pregiatissime loro opere, che poi regalaronoal Museo di S. Martino. In seguito villa Ro-tondo è stata smembrata in varie proprietà, cheoggi gravitano attorno alla parte bassa di viaCavallino.Al villaggio Due Porte si può arrivare da dueparti: da via della Salute, salendo da piazza DeLeva, lungo un percorso in passato chiamato“strada le Due Porte”, poi diventata “SalitaDue Porte”. Il percorso, dopo essere giunto alvecchio villaggio, prosegue con il nome di“Salita dei Gerolamini”, verso Via D’Antona egli ospedali. Oppure ci si può arrivare imboc-cando, nei pressi della biforcazione fra viaFontana e via Cavallino, una breve discesa cheporta al cuore del villaggio. Il significato e l’origine della denominazione

è controversa. L’umanista Pietro Giannone scrisse: "o perchéivi vi si mostrano due antiche porte, ovvero,che ivi avevano le lor ville i due famosi fratelliPorta, celebri filosofi e letterati napoletani”. La versione che attribuisce la denominazionealla doppia presenza dei due personaggi Portagode scarso credito.Prevale la spiegazione fornita da Tommaso Fa-sano, che nelle sue Lettere Villeresche del 1779- in cui descrisse accuratamente l’Arenella - af-fermava che dalla villa di Giannone si guarda-vano due porte, di cui una introduceva in unvicolo oscuro, povero e sporco in cui abitavanolavandaie, mentre l’altra menava a una via spa-ziosa e “allegrissima”. Questa versione venne confermata da Bene-

detto Croce, che nel1904 si recò nel villag-gio, assieme al lette-rato Fausto Nicolini(forse per “studiare” illoco qualcosa di PietroGiannone), e constatòche le due porte eranoin sostanza due archicontigui, di cui unoportava a un piccolovicolo allora ancora

abitato da lavandaie - chiamate “fate” - mentrel’altro arco realmente introduceva a una stradamolto ariosa. Le lavandaie, le fate, per lo piùvenivano dalle colline (Posillipo, Vomero, Are-nella), da dove scendevano in città a prelevarepanni da lavare, che poi riportavano puliti.La situazione attestata da Benedetto Croce è ri-masta, mutatis mutandis, sostanzialmente inal-terata: i due archi, il vicolo e la strada sonoancora visibili, ma sono scomparsi i due scudidi marmo contenenti leoni rampanti sormontatida tre stelle, che il filosofo vide su ognuno deidue archi.Oggi il villaggio "Due Porte" è un aggregatodi vecchie e malandate abitazioni, mal inseritein un coacervo di casermoni postbellici, un ag-gregato che era stato già mal rimaneggiatoquando, negli anni Venti-Trenta del Novecento,il villaggio fu collegato a via Fontana e via Ca-

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vallino. La strada chiamata “allegrissima” dal Fasanooggi è denominata vico Molo alle Due Porte.Ḕ lunga circa seicento metri, si affaccia a stra-piombo su un vallone, ed è chiaramente visi-bile dal casello Arenella della tangenziale.Questo toponimo non è colle-gato ad alcuna opera portuale,ma forse indica la forma allun-gata, a mo’ di molo, dellastrada a cui dà il nome. Alla fine della via c’è unagrossa villa di impianto otto-centesco, Villa La Marca, unacostruzione anch’essa chiara-mente visibile dal casello Are-nella della tangenziale. A metà molo s’incontra lachiesetta di “Santa Maria inPorta Coeli e San Gennaro”,oggi abbandonata, fatta co-struire a metà Seicento da unaproprietaria della zona, Isabella di Costanzo, avantaggio degli abitanti del luogo, perché,come si legge in una iscrizione di marmo del1863 situata sopra la porta di ingresso, la gentedel posto non dovesse “faticare per le pratichedel culto col trarre in chiese lontane”.

Che il villaggio in passato avesse una qualchesua importanza è testimoniato dalla presenzadi un’altra chiesa seicentesca, oltre quella giàcitata. Si tratta della chiesa di Santa Maria delleGrazie, nata nel 1690, che si ritiene sia statafondata dalle famiglia Della Porta, perché con-

tigua ad una loro presunta pro-prietà.In occasione delle QuattroGiornate del settembre 1943alcuni abitanti del villaggiocaddero nei combattimenticontro i Tedeschi; sono ricor-dati in una lapide visibile nellapiazzetta. La prolungata storica separa-tezza del villaggio delle DuePorte dal resto della città, lo hareso, e conservato ancora oggi,come un qualcosa di diversodal contesto cittadino, dal sa-pore antico, anche perché con-

tinua a conservare una sua separatezza fisicarispetto alle correnti di maggiore transito.Ed è per questo che suggeriamo a chi non co-noscesse il villaggio, di farvi una capatina.

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POMPEI E I GRECI

Nella Palestra Grande degli Scavi di Pompei è al-lestita la mostra “Pompei e i Greci”, che esaminai frequenti contatti della città campana con ilMediterraneo greco, mettendone a fuoco le tanteanime diverse. I reperti esposti – ceramiche, or-namenti, armi, elementi architettonici, sculture– sono oltre 600, divisi in 13 sezioni tematiche,e provengono, oltre che da Pompei, anche da Sta-

biae, Ercolano, Sorrento, Cuma, Capua, Poseidonia, Metaponto, Torre diSatriano, e sono stati dati in prestito da numerosi musei nazionali ed eu-ropei. La mostra, curata dal direttore generale della Soprintendenza di Pom-pei, Massimo Osanna, e dal prof. Carlo Rescigno, dell’Università degli Studidella Campania Luigi Vanvitelli, e inaugurata il 12 aprile scorso, è visitabilefino al 27 novembre 2017.

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Stelle, meteore e buchi neri: la galassia Napoli

DUE INFETTIVOLOGI E UNA TORRE

di Elio Barletta

ARuvo di Puglia, paese del Parco nazionaledell’Alta Murgia, provincia di Bari, il 29

gennaio 1736 nacque Domenico Cotugno, daMichele e da Chiara Assalemi, modesti agri-coltori di una terra ricca di vigneti, oliveti e se-minativi. Il piccolo fuaccudito da una zia maternaed aiutato da frate Paolo, uncappuccino che lo seguì, neiprimi anni di formazione, nelSeminario vescovile di Mol-fetta. Tornato a casa, tentò dicolmare le lacune scientifichedi una preparazione umani-stica; con grande spirito di vo-lontà si accostò, daautodidatta, allo studio dellamatematica e della fisica. Lasorgente passione per lescienze naturali e la medicina lo indussero poi– in assenza di cadaveri – a studiare l'anatomiasu carcasse di animali da lui stesso sezionate. A 16 anni lasciò definitivamente Ruvo per tra-sferirsi a Napoli e affrontare gli studi universi-tari di fisica e medicina. Conosciutolo, AntonioGenovesi lo lodò per «la bella scoverta degliacquedotti dell'orecchio». Tra i due nacque re-ciproca stima. Dal filosofo di Castiglione Do-

menico trasse il principio di tralasciare le «sot-tigliezze» e la «ciarleria» per cogliere la prati-cità delle scienze. Divenne assistentedell'Ospedale degli Incurabili (1754), poi me-dico dedito alla sperimentazione scientifica,

che aveva ben applicata da so-stituto temporaneo di un cli-nico ammalatosi. Conseguita la laurea (1756)presso la storica Scuola me-dica salernitana, impartì le-zioni private prima di tentarei concorsi per l'accesso allacarriera universitaria. Nevinse uno (1758) per entrarenell'ateneo di Napoli, con as-segnazione alla cattedra di no-tomia (anatomia descrittiva epatologica), della quale, ap-

pena trentenne, diventò titolare (1766).L’anno precedente aveva attraversato per tremesi l'Italia, traendo spunti per scrivere IterItalicum Patavinum, un diario di descrizionipaesaggistiche e vicende umane avvincenti cheperò non svelavano i veri motivi del viaggio:conoscere nuove realtà geografiche e culturali,lasciare la capitale del Regno borbonico dopol'epidemia di febbri putride (1764) da lui com-9

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battuta, incontrare gli scienziati che avevanodiscusso le sue teorie. A Roma l'anatomista Natale Saliceti gli parlòdi Giovanni Maria Lancisi – insigne medicoospedaliero, universitario e conclavista – rive-landone le caratteristiche che, col tempo, mo-strò di possedere lo stesso Domenico:ingraziarsi il Principe; occuparsi di studi diffi-cili; essere amato da tutti, senza amare alcuno.A Bologna incontrò accademici locali; a Pa-dova conobbe Giovanni Battista Morgagni,altro celebre anatomista e patologo che lo im-pressionò molto; a Venezia s’imbatté nell'abateStella, che gli decantò di saper affrontare maldi petto, doglie del parto, mancanza di forze vi-tali, ma non lo dissuase dal ritenere che quellecure erano «miracoli di ciarlatani»; a Firenzeconcluse l’itinerario. Fu introdotto (1781) nellaSocietà Italiana (attuale Accademia Nazionale)delle scienze, detta “dei XL”, fondata (1782)dal matematico e ingegnere Anton Mario Lor-gna, folta di scienziati spesso settentrionali,come Alessandro Volta e Lazzaro Spallanzani.Effettuò altri due viaggi importanti, il primo inItalia e il secondo dall’Austria alla Germania,da lui descritto nell’Iter Germanicum, libro cheebbe vasta risonanza, in primis a Napoli, peraver in esso rivelato che, nella permanenzaviennese, fu medico di corte di re FerdinandoIV, ancora una volta in sostituzione di un col-lega infermo, il medico di camera e suo amicoGiuseppe Vairo. A Roma ebbe in cura nobili,cardinali, uomini di cultura e ottenne lungaudienza dal Papa. Sposò (1794) una donna esponente di una dellepiù antiche e illustri famiglie napoletane, Ippo-lita Ruffo, vedova del duca Francesco di Ba-gnara, «un matrimonio che sembrava peròrispondere più a esigenze sociali (il suo in-gresso a Corte), che ad altre necessità». Mal’equilibrio da lui stabilito con i suoi parenti diRuvo fu rotto proprio dall'arrivo della moglie;i rapporti si guastarono al punto che, alla suamorte, si dovette ricorrere al tribunale per as-segnare l'eredità.Mostrò vivo interesse per ospedali, biblioteche,musei, sognando di allineare Napoli alle grandicittà europee in progetti che, ahimé, svanirono

dopo la Rivoluzione del 1799 per l’assenza diuno Stato che fornisse alla scienza non rari in-terventi, ma finanziamenti e riforme in ognisettore della vita pubblica. Nell’ateneo partenopeo – dove divenne De-cano di facoltà e Rettore – introdusse la fisicatra gli esami di medicina e contribuì alla nettaseparazione tra le professioni di medico e far-macista. Instaurò misure profilattiche contro latubercolosi e – potente Protomedico Generaledelle Due Sicilie – fece controllare l’interoRegno durante la pestilenza scoppiata in Pu-glia, fanatico della professionalità e della cor-rettezza degli operatori sanitari. Il RicettarioFarmaceutico napoletano regolante rimedi eprezzi – approvato dal ministro Giuseppe Zurlo(1911) – fu praticamente impostato più di unsecolo prima proprio dal Cotugno. Socio di nu-merose accademie, italiane e straniere, nonchéconsigliere di Stato, ebbe un ruolo centrale nelmiglioramento delle condizioni igieniche diNapoli, capitale del Regno. Si diceva che «nessuno poteva morire senza ilsuo permesso!». In realtà fu uno dei principalifondatori della medicina moderna, basata su ri-cerca e analisi clinica. Fece molta attenzioneall’“anatomia sottile”, quella dei piccoli e na-scosti meccanismi dell’organismo umano. Sidedicò anima e corpo al “suo” Ospedale degliIncurabili, all’epoca uno dei più avanzati d’Ita-lia.Le sue importanti scoperte neurologiche siriassumono nelle pubblicazioni: sei in vita –quattro in latino, una in inglese, una in italiano– più sei postume, oltre a raccolte di lettere edocumenti. Nel De acquaeductibus auris humanae inter-nae anatomica dissertatio (tip. Simoniana,Neapoli 1761 – Vienna 1774 – Bologna 1775= Dissertazione anatomica degli acquedottidell'orecchio interno dell’uomo, trad. di V.Mangano, Pozzi, Roma 1932) descrisse perprimo il nervo naso-palatino, gli acquedotti delvestibolo e della chiocciola dell'orecchio in-terno, dimostrando a molti obiettori che il la-birinto era pieno del liquido endolabirintico eprivo d’aria, contraddicendo una teoria risa-lente ad Aristotele.

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Nel De ischiade nervosa commentarius (apudfratres Simonios, Neapoli 1764, nuova ediz.Carpi 1768 = Commentario sulla sciatica ner-vosa, trad. di F. Morlicchio, Vico S. Girolamoed., Napoli 1860) e nel A treatise on the ner-vous sciatica, or nervous hip gout (ed. Londra1775), descrisse cause e sede della sciatica,provocata da un'infiammazione del nervo peruna sostanza acida proveniente dalla cavitàcranica o spinale; sostenne – inpolemica col medico e poetasvizzero Albrecht von Haller –l’esistenza del liquido cefalora-chidiano (liquor Cotumnii) e l'in-nervazione della dura madre(parte più esterna e più spessadelle tre meningi che avvolgonol'encefalo e il midollo spinale);riconobbe la presenza di albu-mina nelle urine dei nefritici evalorizzò i rimedi terapeutici,quali incisioni e salassi. Nel De sedibus variolarum syn-tagma (apud fratres Simonios1769, poi Bologna 1775), indagòsul vaiolo, sostenendo che lasede fosse nella cute esposta al-l'aria e caldeggiando rimedi spe-cifici differenti dai tradizionali bagni caldi,sostenendo l'inoculazione, premessa alla vac-cinazione jenneriana.Nel De animorum ad optimam disciplinampraeparatione oratio (ex typ. Simoniana, Nea-poli 1778), in tema di rapporti tra conoscenzae morale, tracciò una figura d'intellettuale chenon si facesse sopraffare, con la ragione, dallelusinghe della fantasia e dei piaceri ed un con-cetto d’istruzione dei giovani che – in tempi dirivoluzione culturale – non significasse soloaccumulo di conoscenze, ma anche cambia-mento di mentalità e di costume. Concluseinoltre che, al contrario di Giambattista Vico,vedeva come elementi formativi non la mate-matica e la fisica, ma la meditazione derivantedall'osservazione anatomica sul cervello. Nel Dello spirito della medicina (Tip. Morelli,Napoli 1783), trattò le ragioni che avevano im-pedito alla medicina di produrre «buone ed

utili conoscenze», esortando gli studenti a li-berarsi dalla soggezione dei maestri e ad affi-darsi all’osservazione della natura:

«Ecco qual debba essere il vostro studio, la vostra ap-plicazione, la vostra industria; non istancarvi mai di ve-derla, di conoscerla, d'ascoltarla. Le sue voci son mute,ma efficaci. Chi si familiarizza seco lei, diviene sacer-dote suo vero. …La medicina non è una scienza, è solouna cognizione...l'ha prodotta e presentata la sola na-

tura».

Benedetto Croce suppose chefosse lui il vero autore del celebretrattato Delle virtù e dei premi –nel suo genere secondo solo aDei delitti e delle pene di CesareBeccaria – che, uscito anonimo(1766), fu ristampato l'anno se-guente, anche in francese, e attri-buito definitivamente al giuristaaquilano Giacinto Dragonetti.Colpito da ictus celebrale (1818),morì a Napoli (6 ottobre 1822),all’allora veneranda età di 86anni. Gli fu intitolato l’Ospedalecittadino per le malattie infettive,mentre l'Ospedale degli Incura-bili, per il quale aveva dispostoun lascito, conserva un suo busto.

Al suo nome sono stati legati il liceo classicodell'Aquila e la Scuola secondaria di primogrado di Ruvo di Puglia dove gli è stato erettoun monumento in piazza Cavallotti. Qualche anno prima in Campania, precisa-mente a Capua, nacque Ferdinando Palasciano(13 giugno 1815). Suo padre, Pietro, originariodi Monopoli, si trasferì per lavoro a Capuadove divenne segretario comunale e dove co-nobbe e sposò Raffaella Di Cecio, originariadel luogo, dalla quale ebbe Ferdinando. Fu uneccellente studente universitario, laureatosigiovanissimo in Belle Lettere e Filosofia,quindi in Veterinaria, e infine – all’Ateneo diMessina (1840) – in medicina e chirurgia. Contre lauree a soli 25 anni, entrò nell'esercito bor-bonico con il grado di alfiere medico e l’asse-gnazione all’Ospedale Militare. Con i moti rivoluzionari che – primi in Europa– videro in Sicilia la fiera resistenza di Palermo

Ferdinando Palasciano

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e Messina all’esercito borbonico malgrado ibombardamenti della flotta reale e poi, inevi-tabile, la resa degli insorti, arrivò l’atroce mo-mento della repressione, affidata al generaleCarlo Filangieri – principe di Satriano, duca diCardinale e di Taormina, noto anche come Sa-triano – figlio del noto giurista e filosofo Gae-tano Filangieri. Uomo senza scrupoli,diventato rapidamente impor-tante per l’intenso e spregiudi-cato impegno militare – con ifrancesi nelle guerre napoleo-niche, con Gioacchino Muratnel Regno di Napoli, con il reFerdinando II nel Regno delleDue Sicilie – ordinò ai medicimilitari di non curare mai i ne-mici feriti in combattimento.Il Palasciano – venutosi a tro-vare in quella drammatica si-tuazione – si rifiutò diobbedire e chiamato dal Gene-rale a rapporto, replicò:

«I feriti, a qualsiasi esercito apparten-gano, sono per me sacri e non possono essere consideraticome nemici. Il mio dovere di medico è più importantedel mio dovere di soldato».

Sarebbe stato accusato di insubordinazione efucilato, ma i buoni rapporti con Re Ferdi-nando gli salvarono la vita. Condannato ad unsolo anno di reclusione – che scontò nel car-cere di Reggio Calabria – anche da prigionierofu incaricato di soccorrere i feriti dell'esercitonapoletano che le navi trasportavano da Mes-sina. In prima fila a Capua durante la battaglia delVolturno (1860), con l’unificazione dell'Italiae la fine dei Borboni, si riattivò per il ricono-scimento del suo principio di “neutralità dei fe-riti in guerra”. A Napoli (28 gennaio 1861) inun discorso rimasto celebre asserì:

«Bisognerebbe che tutte le Potenze belligeranti, nellaDichiarazione di guerra, riconoscessero reciprocamenteil principio di neutralità dei combattenti feriti per tuttoil tempo della loro cura e che adottassero rispettivamentequello dell'aumento illimitato del personale sanitario du-rante tutto il tempo della guerra. I feriti, a qualsiasi eser-cito appartengano, sono per me sacri e non possono

essere considerati come nemici».

La dolorosa esperienza fatta, esposta successi-vamente al Congresso Internazionale dellaPon-taniana (1861) – l’accademia sorta a Na-poli (XV secolo) per il libero esercizio discienze, lettere ed arti – ebbe tale eco in tuttaEuropa da gettare le basi per la Convenzione

di Ginevra (1864), indetta,come tutti i corpi giuridici didiritto internazionale, a prote-zione delle associazioni uma-nitarie prestanti servizio interritorio di guerra, nonché delpersonale civile e medico noncoinvolto negli scontri. L’umanista, imprenditore e fi-lantropo svizzero Jean HenriDunant, conosciute le idee delPalasciano, si entusiasmò alpunto da farle sue e da scrivereil libro Souvenir de Solferinoche – riferito agli orrori dellaguerra che l’autore vide, daspettatore, nella battaglia di

Solferino (1859) – destinò ai sovrani di tuttaEuropa. La Convenzione ispirata da questapubblicazione (1864) servì a fondare la CroceRossa, già presente in alcuni paesi del mondo,compreso l'Impero Ottomano. Il primo PremioNobel per la pace (1901) fu assegnato a Du-nant, ritenuto immeritatamente fondatore del-l’associazione che, invece, l'Enciclopediauniversale Rizzoli-Larousse – alla voce CroceRossa internazionale – fa risalire giustamenteal Palasciano.L’attività professionale di Ferdinando non si li-mitò all’aspetto umanitario. Ottenuta la catte-dra universitaria di Clinica Chirurgica a Napoli(1865), fondò, insieme ai colleghi di altri Ate-nei la Società Italiana di Chirurgia (1882).Malgrado la fama nazionale ed internazionaleacquisita, con medici e studenti provenienti datutta Europa per imparare la sua tecnica opera-toria, si dimise, in aperto contrasto con il Ret-tore dell'epoca – professore ordinario difilosofia del diritto Paolo Emilio Imbriani – perlo spostamento d'autorità di alcuni reparti dellaFacoltà di Medicina presso il Convento di

La torre di Palasciano

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Gesù e Maria, presto trasformato nella strutturasanitaria durata fino a pochi anni fa, che già al-lora non rispondeva ai minimi requisiti igienicinecessari.La seconda ferita da arma da fuoco riportata daGiuseppe Garibaldi – al malleolo mediale dellagamba destra – lo fece diventare amico del-l’Eroe dei due Mondi. Il ferimento era avve-nuto nello scontro sull’Aspromonte (29 agosto1862) tra 2000 garibaldini e 3500 uomini delgenerale marchese Emilio Pallavicini di Priola,incaricato dal governo sabaudo di Torino di im-pedirne la marcia per la liberazione di Roma.Per la brutta ferita – ricordata in una celebreballata popolare al ritmo della marcia dei ber-saglieri – Palasciano consigliò invano di inter-venire chirurgicamente per estrarre il proiettiledall’osso; i medici curanti, negando che vifosse una ritenzione, dovettero convincersenealcuni mesi dopo. Del profondo legame conGaribaldi c’è la testimonianza di una corri-spondenza epistolare scoperta e conservata alMuseo San Martino.Fu deputato in Parlamento per tre legislature –XIV, XV e XVI – senatore del Regno, consi-gliere ed assessore al Comune di Napoli. Ri-scosse onorificenze italiane (commendatoredell'Ordine della Corona d'Italia, ufficiale del-l'Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro) e stra-niere (cavaliere dell'Ordine dell'ImmacolataConcezione di Vila Viçosa, in Portogallo). Avvertì i primi sintomi di una grave demenzamentale intervallata da brevi momenti di luci-dità (1886), avendo sempre al fianco la moglieOlga de Wavilow, una nobile di origine russa ela frequentazione di pochi amici. Alla morte(28 novembre 1891) fu seppellito nel cimiterodi Poggioreale. I due personaggi qui trattati – pur distanziati di80 anni – hanno vari punti in comune per es-sere uniti in un unico ricordo: entrambi medici,infettivologi, decisi nell’impegno professionalee nelle capacità di innovazione. Ma c’è un par-ticolare secondario e del tutto casuale che in-direttamente li collega. Arrivando dalla periferia orientale della città –

sul profilo superiore della collina di Capodi-monte e visibile da molti punti del golfo – sistaglia una torre, oggi detta Palumbo, ma sto-ricamente nota come torre Palasciano (o delPalasciano), dal cognome del secondo medicoqui ricordato. Fu lui che, alla salita Moiariello,adocchiò 28 moggi di un terreno che parecchianni addietro aveva comprato Domenico Co-tugno, ormai defunto. Li acquistò dagli eredi efece costruire e ultimare (1868) dall'architettoAntonio Cipolla un complesso di indubbio va-lore storico ed artistico – da lui abitato fino allamorte – costituito da: un palazzo di due pianiin muratura di tufo parzialmente ricavato dastrutture preesistenti, a pianta quasi quadran-golare, misto di elementi neogotici e rinasci-mentali; in cima, la suddetta torre panoramicasimile a quella del Palazzo della Signoria di Fi-renze, di cinque piani e numerose stanze, tutteaffrescate; un tempietto; due giardini; un obe-lisco dell’Ottocento in piperno grigio nell’an-drone, con incisi i nomi di uomini illustri; unampio frutteto. L'intero complesso – abitatopoi anche dallo scultore pugliese, Filippo Ci-fariello – è stato in buona parte recuperatodopo un lungo periodo di abbandono, mentrela torre, restaurata, oggi ospita un Bed and bre-akfast.Dalla cima della torre-terrazzo con merlaturaa coda di rondine e vista mozzafiato sul golfo– è possibile osservare il cimitero di Poggio-reale e in particolare il monumento funebre diPalasciano, eretto nel “quadrilatero degli uo-mini illustri”, con la statua che lo ritrae sedutosu un piedistallo di 5 metri raffigurante in pic-colo la torre stessa, appositamente posizionatoper essere visibile dalla dimora di Capodi-monte. Secondo una leggenda tipicamente na-poletana, ironica e divertente – fondata suldato certo che Palasciano non avrebbe mai vo-luto allontanarsi dalla sua magnifica casa edalla moglie, anche se defunta – il suo fanta-sma si vedrebbe affacciarsi, di tanto in tanto,dalla terrazza per ammirare il panorama.

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LA CAPPELLA PALATINA

di Orazio Dente Gattola

La Cappella Palatina, inserita nel complessodel Palazzo Reale, ne ha seguito le sorti sia

sul piano della costruzione sia su quello delletrasformazioni, dovute, a volte, ad eventi dram-matici come il bombardamento del l943, oltreagli incendi della fine del ‘600 e del 1827.L’inizio della sua realizzazione segue di pocoquella del Palazzo che sorse sull’area oveerano ubicati i giardini del vecchio palazzo vi-cereale di donPedro di Toledo.La nuova costru-zione fu voluta nel1600 dal viceréConte di Lemos invista di una visitaannunziata, ma maieffettuata, da partedi Filippo III a Na-poli. Se si consi-dera che lacostruzione delvecchio palazzo era stata completata appena 47anni prima, si comprende agevolmente come equando sia nato il proverbio: Chi fraveca esfraveca nun perde mai tiempo. La Cappella fu realizzata dal Picchiatti per vo-lontà del viceré, duca d’Arcos, e fu consacratanel 1646. Essa era destinata alle cerimonie religiose dellaCorte vicereale e dal 1734 di quella dei Bor-boni, anche se colui che occupò più a lungo il

Palazzo, Ferdinando I, preferì abitazioni piùconsone ai suoi interessi amorosi (Palazzo Par-tanna e la Floridiana) e venatori (Capodi-monte). Tornando alla Cappella va detto cheessa fu sino alla fine del ‘700 sede della Scuolamusicale napoletana. Maestri di Cappella furono musicisti del cali-bro di Alessandro e Domenico Scarlatti, delPergolesi e del Paisiello, quest’ultimo, autore

dell’Inno al Re,oltre che di quellodell’effimera Re-pubblica Napole-tana. All’originario stilebarocco fu sosti-tuito, nei primi annidell’’800, dallostile tardomanieri-stico che, tuttora, lacontraddistingue.Lavori di restauro

erano in corso alla caduta dei Borbone e altrisi resero necessari alla fine della guerra per idevastanti bombardamenti che colpirono laCappella al pari del Palazzo nel 1943, ponendofine anche all’utilizzazione della stessa per finidi culto. Del tutto dissonanti con lo stile della Cappellasono i battenti della porta di ingresso che sonodi chiara impronta rinascimentale: costruiti inlegno sono ricoperti da una tinta che imita

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molto bene la patina del bronzo. Ogni battenteè diviso in tre scompartimenti, il primo deiquali presenta un ornato in rilievo a fogliami,il secondo presenta un intaglio a rete traforataed il terzo presenta un intaglio a disegno geo-metrico formante una croce. Considerato che nell’epoca in cui fu realizzatala cappella lo stile rinascimentale non era invoga, e che lo stesso è a dirsi per le epoche suc-cessive in cui furono operati interventi soventeradicali sulle strutture architettoniche, per cuici si ispirava a stili diversi appare probabile chela porta sia stata realizzata prima della Cap-pella e che sia stata installata in considerazionedell’alto livello della produzione dell’arte rina-scimentale napoletana, e presenta notevoli ana-logie con il coro della Chiesa dei SS. Severinoe Sossio. Probabilmente essa proveniva da Ca-stelnuovo o dal demolito Palazzo Vicereale. La Cappella, sconsacrata ormai da anni, apparefredda, quasi asettica. Mi piace, però, pensareche Francesco II Borbone, preferisse racco-gliersi in preghiera, anziché qui, nel piccolo,raccolto oratorio di Maria Cristina, la reginamorta di parto nel 1836. Dell’antico impianto secentesco restano degliaffreschi, opera di Giacomo del Po (1701-

1707), peraltro solo parzialmente leggibili, ri-toccati dal Di Criscito nel 1829, oltre ad unaacquasantiera in marmo con un putto che reggeuna conchiglia sulla testa. Tra le cose più notevoli della Cappella: la teladel soffitto dipinta da Domenico Morelli(1869) raffigurante l’Assunzione della Ma-donna salvatasi dal bombardamento grazie adun provvidenziale distacco operato allo scop-piare delle ostilità. Splendido è, poi, l’altare inpietre dure e bronzo dorato realizzato da Dio-nisio Lazzari nel 1674, trasferitovi nel decen-nio francese, nel quadro della risistemazionevoluta da Gioacchino Murat, dalla Chiesa diSanta Teresa agli Studi allorché Giuseppe Bo-naparte soppresse gli ordini religiosi. Attual-mente nella Cappella vi è una mostrapermanente di arredi ed oggetti sacri oltre avari reliquiari di straordinario valore storico edartistico. Uno di questi, contenente reliquie at-tribuite a S. Francesco di Paola, Santo cui lafamiglia reale era particolarmente devota, fuportato via da un mio antenato, il CapitanoFrancesco Niglio che seguì il suo Re a Gaeta,per sottrarre le preziose reliquie a una massa discristianizzati quali erano i garibaldini.

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Per sensibilizzare la popolazione cittadina e per protestare contro la chiusuradello stadio vomerese “Arturo Collana”, dovuta sia a una controversia giuri-dica, che alla sostanziale inidoneità della struttura, pericolante in alcune sueparti e sprovvista delle regolari autorizzazioni di legge, si è svolta, il 1° aprilescorso, una marcia da piazza Quattro Giornate a piazza Vanvitelli, con la par-tecipazione del CONI, rappresentato da Agostino Felsani, di esponenti di nu-merosi organismi sportivi e di altrettanto numerosi atleti – fra i quali DavideTizzano, Franco Porzio, Gianni Maddaloni e Diego Testa – e associazionisportive – fra le quali Canottieri Napoli, Circolo Nautico Posillipo, Napoli Cal-cio femminile e maschile Carpisa Yamamay, Club Schermistico Partenopeo,Judo Club Napoli e Judo Karate Napoli –.

LE TRAVERSÌE “POST MORTEM”DI GIACOMO LEOPARDI. 1

di Paolo Carzana

Durante gli ultimi mesi del 1836, e poi finoal dicembre del 1837, a Napoli infuriava

il colera la cui virulenza andava man mano au-mentando, ad eccezione di un breve periodocompreso fra la metà di marzo e la metà diaprile allorché il morbo sembrò stemperarsi:con i primi freddi autunnali cominciò decisa-mente a scemare fino ad estinguersi del tuttoalla fine dell’anno. La prima vittima, il 2 otto-bre 1836, pare sia stata

«tale Maggio, che svolgeva le mansioni di capo postoalla barriera doganale del quartiere Porto»..........................................................................«Passarono solo due giorni ed ecco il secondo caso: unfacchino del teatro Fiorentini, con gli stessi sintomi, an-cora più violenti, fece in un paio d’ore la fine del doga-niere»1.

La notizia di questi due decessi si diffuse rapi-damente in città ma molti napoletani si mostra-rono restii ad accettare la terribile verità:

«Ma il 9 ottobre non vi furono più incertezze: in un fab-bricato di Via San Bartolomeo (traversa tuttora esistentetra Via Medina e Via Depretis), sempre nel quartierePorto, si registrarono numerosi altri casi»1.

Nella città partenopea, che al tempo contava360.000 abitanti, i morti furono, all’incirca,20.000.In via Foria, all’altezza dell’intersezione convia Domenico Cirillo, sul frontone della chiesadi San Carlo all’Arena dedicata all’arcivescovomilanese Carlo Borromeo (1538-1584), da non

confondersi con il cardinale Federigo Borro-meo (1564-1631) di manzoniana memoria, èben visibile un’iscrizione che ricorda queigiorni infausti:

DIVI CAROLI TEMPLUM CHOLERAE MORBOLIBERATI RESTITUERUNT EX VOTO AN.

MDCCCXXXVII

Le prime avvisaglie della terribile malattia sierano avute in Europa addirittura sette anni ad-dietro. Infatti, nel 1829 furono segnalati i primi casinella città russa di Orenburg situata ai confinimeridionali dello sterminato impero zarista, frala zona europea e quella asiatica: il contagioproveniva quasi certamente dall’India ove ilcolera era endemico.Proprio la mattina del 14 giugno 1837, che sa-rebbe stato l’ultimo giorno di vita del granderecanatese, allo scopo di allontanarsi dalla cittàfunestata dalla pandemia era previsto il trasfe-rimento di tutta la famiglia Ranieri e dell’illu-stre ospite a villa Ferrigni (la futura Villa delleGinestre) ubicata alle falde del Vesuvio, neipressi dei Camaldoli di Torre del Greco.La bella villa, in stile neoclassico, appartenevaall’avvocato Giuseppe Ferrigni (1797-1864)che diventerà poi magistrato e, nel maggio del1863, vicepresidente del Senato del Regnod’Italia: era cognato di Antonio Ranieri (1806-1888) di cui aveva sposato la sorella Enri-chetta.

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È molto improbabile che Leopardi potesse sa-pere che il morbo al quale sia Lui che la fami-glia Ranieri stavano cercando di sfuggire fossepenetrato in Europa da Oremburg ma se, peripotesi, l’avesse saputo non gli sarebbe certosfuggita una singolare coincidenza.Il nome di quella remota località, infatti, gliavrebbe riportato alla mente l’origine di unodei suoi carmi più ispirati, il Canto notturno diun pastore errante dell’Asia, composto tra il22 ottobre 1829 e il 9 aprile 1830.Sul Journal des Savants (considerato il perio-dico letterario e scientifico più antico d’Eu-ropa, pubblicato a Parigi e tuttora esistente) delsettembre 1826 uscì una recensione al volumedel barone russo AleksandrKazimirovič Meyendorff(1796-1863), Voyaged’Orembourg à Boukhara,fait en 1820 (Viaggio daOremburg a Bukhara, fattonel 1820), recensione par-zialmente trascritta nello Zi-baldone alla data del 3ottobre 1828, dove tra l’altrosi legge:

«Plusieurs d’entre eux (d’entre lesKirkis), dice il barone Meyen-dorff, passent la nuit assis sur unepierre à regarder la lune, et à improviser des parolesassez tristes sur des airs qui ne le sont pas moins» («Pa-recchi fra loro (tra i Kirghisi) passano la notte seduti suuna pietra a guardare la luna, improvvisando paroleassai tristi su melodie che non lo sono meno»).

Leopardi si era ispirato proprio a quegli ap-punti di viaggio per la stesura di uno dei suoicanti più belli, anche se, a onor del vero, alcuniversi ricalcano fin troppo fedelmente quelli delPetrarca (1304-1374).Così esordisce il poeta aretino in Ne la stagionche 'l ciel rapido inchina (Canzoniere, 50)composta nel 1337, esattamente cinquecentoanni prima della morte di Leopardi:

Ne la stagion che ’l ciel rapido inchinaverso occidente, et che ’l dí nostro volaa gente che di là forse l’aspetta,veggendosi in lontan paese sola,la stanca vecchiarella pellegrinaraddoppia i passi, et piú et piú s’affretta.

E questo è il Leopardi nel Canto notturno(versi 21-30):

Vecchierel bianco, infermo,Mezzo vestito e scalzo,Con gravissimo fascio in su le spalle,Per montagna e per valle,Per sassi acuti, ed alta rena, e fratte,Al vento, alla tempesta, e quando avvampaL'ora, e quando poi gela,Corre via, corre, anela,Varca torrenti e stagni,Cade, risorge, e più e più s'affretta.

Che Leopardi abbia appuntato la propria atten-zione su questo sonetto del Petrarca è dimo-

strato anche da alcuneannotazioni alle pagine 247e 1464 dello Zibaldone lad-dove esalta la poeticitàdell’avverbio “forse”:

«Quel “forse”, che oggi non sipotrebbe dire [perché nel 1492Cristoforo Colombo (1451-1506)aveva scoperto l’America], è no-tabilissimo e poetichissimo, pe-rocché lasciava liberoall’immaginazione di figurarsi asuo modo quella gente scono-sciuta, o d’averla in tutto per fa-volosa; dal che si dee credere che,leggendo questi versi, nascessero

di quelle concezioni vaghe e indeterminate che sono ef-fetto principalissimo delle bellezze poetiche, anzi di tuttele maggiori bellezze del mondo».

Dopo questa lunga digressione torniamo a quel14 giugno: era un mercoledì, come lo era statoil 2 ottobre 1833, giorno in cui il Poeta avevavisto per la prima volta Napoli.Ci dice Ranieri nel suo Sette anni di sodaliziocon Giacomo Leopardi2 che già dalla tardamattinata aveva fatto approntare la carrozzacon il cocchiere all’angolo di Vico Pero, apochi passi dalla Via Nuova di Capodimonte(oggi, via Santa Teresa degli Scalzi): si trattavaperò, molto probabilmente, solo di una messin-scena, allestita con la complicità dei suoi fami-liari e della servitù, per far credere al vicinatoche si era in procinto di partire per Torre delGreco e ciò allo scopo di allontanare il sospettoche in casa sua ci fosse un coleroso.

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Giacomo Leopardi

Ma intorno alle cinque del pomeriggio Leo-pardi avvertì un malore “mi sento un pochinocrescere l’asma…”3 e chiese se fosse possibileriavere il medico: Ranieri si recò immediata-mente a prelevare il dottor Nicola Mannella4 einsieme tornarono al capezzale del Poeta.«Mandate a chiamare subito un prete, perchédi altro non c’è tempo»3 : questo fu il responsodel clinico.A pochi passi da Vico Pero c’era il conventodegli Agostiniani Scalzi dal quale convenne«incontanente»3 padre Felice da Cerignola(1806-1886). Ma troppo tardi: quel gigante del pensiero,quello spirito immenso si era spento.Pare che le ultime Sue parole, rivolte al-l’amico, siano state: «Io non ti veggo più»3 o,similmente, «Addio, Totonno, non veggo piùluce»5.A padre Felice non restò altro da fare che rac-cogliersi in preghiera con gli astanti; poi vergòdi propria mano un certificato da far pervenireal parroco della Santissima Annunziata a Fon-seca, don Michele Bonetti:

«Si certifica al signor parroco, qualmente istantanea-mente è passato a migliore vita il conte Giacomo Leo-pardi di Reganati (sic!) al quale ho prestato l’ultimepreci de’ morti: ciò dovevo, e non altro. Firmato padreFelice da Sant’Agostino, agostiniano scalzo».

Nella parrocchia di Fonseca, libro X dei de-funti dell’anno 1837, a pagina 174 ne vieneiscritta la morte con questa dicitura:

«A 15 detto (giugno 1837) D. Giacomo Leopardi Conte,figlio di D. Monaldo e Adelaide Andici (ma il cognomecorretto è Antici), di anni 38 munito dè SS. Sag.ti mortoa 14 d. Sepolto Idem dom.to Vico Pero N.2».

Quell’“Idem” stava a significare che era statosepolto nel camposanto dei colerosi: infatti, neldocumento parrocchiale, il nominativo del de-funto che precede di cinque posti quello diLeopardi è di un certo «Gabriele Ruppa di anni13, sepolto nel camposanto colerico».Come si vede la destinazione della salma diquesto ragazzo è indicata in modo esplicito: gliotto nominativi successivi, compreso quindiquello del Poeta, sono corredati della semplicedicitura “Sepolto Idem”.

Oltre il colera, vi sono altre ipotesi sulle pato-logie che avrebbero portato Leopardi al tra-passo: l’idropisia polmonare, il morbo di Pott,la pericardite acuta, l’asma, il coma diabetico.A proposito di quest’ultima eventualità è inte-ressante riportare le parole di Nicola Ruggiero«conosciuto persino a Pechino e a Città delCapo dove ha ricevuto una laurea honoriscausa per la sua devozione al poeta»6: un uomoche ha dedicato tutta la sua vita a Leopardi.Nato a Torre del Greco nel 1923 ha insegnatoper cinquant’anni latino e greco nei licei. Dal 1958 al 1970 è stato preside del prestigiosoLiceo Umberto di Napoli.Appassionato studioso e bibliofilo, ha messoinsieme, nel corso degli anni, una poderosacollezione di ottomila pezzi collegati, a variotitolo, a Leopardi: circa cinquemila libri, maanche oggetti, riviste, giornali, fotografie e ma-noscritti. Tutto questo materiale è stato donato all’Uni-versità Suor Orsola Benincasa e rigorosamentecatalogato dallo stesso donatore in funzionedella mostra permanente che è stata inauguratail 26 gennaio 2012.È deceduto il 13 giugno 2016 all’età di 93 anni. Ed ecco cosa dice il Ruggiero a proposito delleultime ore di Giacomo:

«Leopardi e Ranieri avevano deciso di recarsi a Torredel Greco il 13 giugno. Per Giacomo, soggiornarvi eraun toccasana: l’aria era ottima, e lui soffriva d’asma.Ma quella volta fu lui a rinviare la trasferta, perché il13 era l’onomastico di Ranieri e c’era una festa a casadel padre di questi (Francesco, Ispettore Generale delleRegie Poste), in via San Giacomo (al primo piano delcivico 65 che corrisponde al palazzo ad angolo con l’at-tuale piazza Municipio). Allora si usava donare dei “cartocci” (li chiamavanocosì) che contenevano una libbra e mezzo, cioè 850grammi, di confetti di Sulmona, gli squisiti “cannellini”. Leopardi era ghiottissimo di dolci (e non c’è bisogno diessere fini psicologi per capirne il motivo). E insomma,finita la festa, se ne tornò a casa al vico Pero a SantaTeresa degli Scalzi ma restò sveglio fino a notte inoltrata(cosa per Lui abituale)7, malgrado la mattina dopo lacarrozza sarebbe stata pronta fin dalle 7 per portarlo aTorre. Si svegliò solo alle 10 e, sentendo il profumo deiconfetti, incominciò a mangiarne. Fece fuori un “car-toccio”, poi un altro. Aveva appena aperto il terzo cheebbe un mancamento. Aveva già divorato un chilo emezzo di “cannellini”, una quantità micidiale per un

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diabetico: Ranieri si precipitò a Largo di Palazzo, pre-levò il medico Nicola Mannella, ma questi non poté farealtro che constatarne il decesso».

Ma facciamo un passo indietro e torniamo almomento della dipartita del Poeta perché aquell’istante spalancato sull’eternità è legatauna querelle che si è trascinata per anni: quellasulla Sua presunta conversione in punto dimorte.La lunga diatriba ebbe inizio nel 1845 con lapubblicazione dei Prolego-meni del primato morale e ci-vile degli italiani di VincenzoGioberti (1801-1852).Ad oggi, non abbiamo asso-lutamente nulla che possa av-valorare la tesi dellaconversione: chi era presenteal momento del decesso nonne fa il minimo cenno.Antonio Ranieri, otto annidopo la morte dell’amico, riu-scì a portare a compimentoquello che, a suo dire, erastato un «mandato sacro»8 af-fidatogli da Giacomo: e cioè di far pubblicare,in forma compiuta, le sue opere.Ai due volumi, usciti presso Le Monnier, il so-dale volle premettere una Notizia intorno agliscritti, alla vita ed ai costumi di Giacomo Leo-pardi scritta da Antonio Ranieri nella quale èdescritto il momento in cui il compagno passòa miglior vita con queste parole: «…rendettesorridendo il nobilissimo spirito fra le bracciadi un amico».Se vi fosse stata una conversione in articulomortis Ranieri non avrebbe potuto esimersidallo scrivere che Leopardi «…rendette sorri-dendo il nobilissimo spirito a Dio» sia pur «frale braccia di un amico».Ma per render testimonianza, con fatti compro-vati, di come si ponesse Leopardi in fatto direligione quando era in pieno possesso delleproprie facoltà mentali (…e che facoltà!) e nondurante lo spegnersi delle funzioni vitali e ilpalesarsi dell’ottundimento preagonico, vi vo-glio proporre quattro scritti (fra i tanti, gli in-numerevoli che avrei potuto scegliere) che

illustrano in modo esemplare in che modo Eglisi relazionasse col Cattolicesimo.Il primo è tratto dallo Zibaldone:

«Tutto è male. Cioè tutto quello che è, è male; che cia-scuna cosa esista è un male; ciascuna cosa esiste perfin di male; l’esistenza è un male e ordinata al male; ilfine dell’universo è il male; l’ordine e lo stato, le leggi,l’andamento naturale dell’universo non sono altro chemale, né diretti ad altro che al male.Non v’è altro bene che il non essere; non v’ha altro dibuono che quel che non è; le cose che non son cose: tutte

le cose sono cattive. Il tutto esi-stente; il complesso dei tanti mondiche esistono; l’universo; non è cheun neo, un bruscolo in metafisica.L’esistenza, per sua natura ed es-senza propria e generale, è un’im-perfezione, un’irregolarità, unamostruosità»9.

Si noti come il grande pensa-tore, in questo passo, non fac-cia il minimo cenno a Dio: eciò perché, a mio avviso, Egliconsidera il problema fon-dante della teodicea Si Deusest, unde malum? (Se Dio esi-ste, da dove viene il male?)

assolutamente irrilevante. Leopardi si pone oltre Plotino (204-270), oltreAgostino d’Ippona (354-430) e oltre Leibniz(1646-1716) i quali si erano arrovellati su que-sto interrogativo. Per Leopardi il punto non è stabilire da doveprovenga il male, il quale c’è, è immanente, èun assioma, è l’essenza stessa dell’universo,ma affermare che, nel contempo, non esiste ilbene, poiché per Lui, «tutto è male»:

«a chi piace o a chi giova cotesta vita infelicissimadell’universo, conservata con danno e con morte di tuttele cose che lo compongono?»10

Il secondo è uno stralcio (la prima strofa e l’ul-tima) dell’inno Ad Arimane (lo spirito malva-gio capo di tutti i demòni nella religionemazdeista, basata sugli insegnamenti del pro-feta Zarathuštra), composto nel 1833:

«Re delle cose, autor del mondo, arcanamalvagità, sommo potere e sommaintelligenza, eternodator de’ mali e reggitor del moto,

Monaldo Leopardi

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.........................................................................................Se mai grazia fu chiesta ad Arimane ec. Concedimi ch’ionon passi il 7° lustro. Io sono stato, vivendo, il tuo mag-gior predicatore ec. L’apostolo della tua religione. Ri-compensami. Non ti chiedo nessuno di quelli che ilmondo chiama beni: ti chiedo quello che è creduto ilmassimo de’ mali, la morte (non ti chiedo ricchezze ec.Non amore, sola causa degna di vivere ec.). Non posso,non posso più della vita».

Il terzo è tratto dall’ottavo canto dei Paralipo-meni della Batracomiomachia, un poemettosatirico in ottave composto durante il suo sog-giorno napoletano che s’ispira ai falliti moti ri-voluzionari del 1820-21. Questi versi testimoniano in modo inconfuta-bile cosa pensasse Leopardi dell’eventualità diuna vita ultraterrena e, in particolare, di quellaimprontata alla dottrina cattolica:

«Premii né pene non trovò nel regnoDe’ morti il conte, ovver di ciò non dannoLe sue storie antichissime alcun segno.E meraviglia in questo a me non fanno;Che i morti aver quel ch’alla vita è degno,Piacere eterno ovvero eterno affanno,Tacque, anzi mai non seppe, a dire il vero,Non che il prisco Israele, il dotto Omero».

Il conte cui allude Leopardi in questa decimastanza del canto è il topo Leccafondi, signor diPesafumo e Stracciavento, intellettuale pro-gressista e impegnato in politica.I topi-liberali, sconfitti dalle rane-pontificie edai granchi-austriaci, portano sul trono (ma subase costituzionale) Rodipane, di cui Lecca-fondi diventa primo ministro.I granchi-austriaci, ferocemente assolutisti, in-tervengono per reprimere questo regime di cuinon possono tollerare l’esistenza, mettendo infuga i topi. Il conte allora va in esilio in cerca di aiuto perla sua patria oppressa e scende persino nelregno dei morti a chiedere consiglio ai roditoridefunti.Ma in questo regno non trova né premi (“pia-cere eterno”), né pene (“eterno affanno”): néparadiso, né inferno. Nulla.Leopardi satireggia su tutte e tre le parti in con-flitto ma s’intuisce che nutre un pizzico di sim-patia per i topi-liberali: non a caso attribuiscea Leccafondi il titolo di conte e quindi il suo

stesso titolo nobiliare.In Leopardi l’ateismo e il conseguente scetti-cismo sull’esistenza di un aldilà erano già com-pletamente maturati durante la stesura delleOperette morali, composte quasi tutte nel corsodel 1824, ma si consolidarono definitivamentedopo la lettura dell’opera De la religion consi-dérée dans sa source, se formes et ses dévelop-pements (Sulla religione considerata nella suaorigine, le sue forme e i suoi sviluppi) del po-litologo e letterato francese Benjamin Constant(1767-1830)11.La lettura di quest’opera, è attestata nello Zi-baldone dalla pagina 4405, datata 12 ottobre1828, alla pagina 4414, datata 21 ottobre 1828.Anche l’illustre studioso leopardiano CesareLuporini (1909-1993) individua nell’anno1824 la completa conversione di Giacomo:«La conversione di Leopardi all’ateismo, chenon è stata breve e forse neppure lineare, è oradel tutto compiuta»12.E ancora: «Materialista, ateo, di fatto anar-chico (e non sarà il solo aristocratico a divenirtale) Leopardi finì per definirsi un “malpen-sante”»12.Il quarto ed ultimo scritto altro non è che il119° verso della lirica Amore e Morte, compo-sta in data incerta, ma comunque fra il 1831 eil 1835.Con sole due parole, e in modo apodittico,Leopardi ci dice cosa pensa della religione cat-tolica: «Conforto stolto».In definitiva: vi sembrano i versi, le conside-razioni, le convinzioni di un credente?Nel 1908 sulla prestigiosa rivista La CiviltàCattolica, espressione del pensiero gesuitico,padre Gaspare Marii affermava che:

«…intorno alla sua morte, tanto da lui invocata e final-mente sopraggiunta, nell’ancor verde età de’ suoi 38anni, (in realtà ne avrebbe compiuti 39 due settimanedopo) corse qualche voce rassicurante da far credereche negli estremi momenti il povero Leopardi avesse ria-perto il cuore alla grazia, e si fosse addormentato nellarecuperata pace del giusto. Ma fu voce solitaria, nonsuffragata da alcun documento perentorio, contraddettaanzi da testimonianze apparentemente più credibili, e inogni caso, per le speciali circostanze tra cui la morteera seguita, non accettabile a occhi chiusi. E così nonse ne fece gran conto e nell’opinione dei più, compresii congiunti lontani, l’infelice cantore della ginestra pra-

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ticamente si ritenne morto com’era vissuto».

Se lo dice un gesuita, c’è da crederci!Per chiudere l’argomento vorrei riportare le pa-role di un noto critico leopardiano, Adriano Til-gher (1887-1941): «Per chiunque…ha studiatoda vicino Leopardi una cosa è certa: che nonci fu mai anima più radicalmente negata alCristianesimo della sua»13.

Qualcuno ha affermato, giustamente a mio pa-rere, che se alcuni millenni fa non ci fossimoinventati dio (o Dio, se prefe-rite) il genere umano si sarebbevelocemente estinto: per dispe-razione.Leopardi non ha voluto avva-lersi di quell’invenzione: hapreferito guardare diritto negliocchi la realtà per ciò che è,senza ricorrere a scappatoieconsolatorie. E ha pagato questa sua sceltamolto duramente: con la dispe-razione più nera, appunto.È stato detto, inoltre, che «Leo-pardi ha preso su di sé tutto ildolore del mondo»14: chi vi ricorda questafrase?Quando io dico di considerare l’immenso re-canatese il mio “Dio privato” forse sono menoblasfemo di quanto si possa credere.Monaldo Leopardi (1776-1847), il papà di Gia-como, che in fatto di religione si poneva su po-sizioni esattamente opposte a quelle del figlio(…per non parlar della madre!), così definiscela fede in Dio: «Certezza di cosa ignota»15.Un paradosso? Indubbiamente. Ma non dimentichiamoci di cosa affermava,ben 1600 anni prima di Monaldo, il cartagineseTertulliano (155 ca. - 220 ca.): «Credo quia ab-surdum» («Credo perché è assurdo»).D’altra parte, se non fosse assurdo non ci sa-rebbe bisogno della fede: basterebbe il sem-plice raziocinio.Piuttosto verrebbe da chiedersi perché maitante persone sentano l’esigenza di credere adun’assurdità: ma questo è un altro discorso.

Ritorniamo ora a vico Pero, in quel caldo po-meriggio di giugno.A decesso avvenuto Ranieri, per mettere in attoil piano che aveva già elaborato nella suamente, aveva assolutamente bisogno di un cer-tificato medico attestante che il sodale nonfosse morto di colera.Ma il dottor Mannella, uomo irreprensibile, sirifiutò di sottoscrivere un simile documento:allora Ranieri si rivolse ad un amico compia-cente con il quale condivideva sentimenti an-

tiborbonici, il medico StefanoMollica (1807-1881), Profes-sore Aiutante della Regia Uni-versità, che dichiarerà il falsocertificando che Leopardi eramorto di idropericardia. Ranieri si fece ripetutamentevanto di aver sottratto il corpodell’amico alla fossa comune edi averlo fatto tradurre dai suoigermani, nella notte fra il 15 e il16 giugno, nella chiesetta diSan Vitale Martire in quello cheallora era il borgo di Fuori-grotta: ma è davvero difficile

credere che, aiutato dai fratelli Lucio e Giu-seppe, abbia potuto procurarsi in poche ore,come lui afferma e tenendo conto della tempe-rie del momento, una cassa di noce massicciamunita di serratura e di due chiavi, di una targain ottone con scritte in lettere nere, di tre car-rozze coperte, due delle quali chieste in prestitoalle famiglie Falanga e Poerio, della compia-cenza del parroco di San Vitale e del lasciapas-sare dal generale Francesco Saverio delCarretto (1777-1861), proprio colui che loaveva fatto arrestare cinque anni prima, appenasceso dalla diligenza al suo rientro a Napoli,perché sorvegliato politico. Oltretutto c’era un’ordinanza tassativa emanatapersonalmente da re Ferdinando II (1810-1859) la quale stabiliva che i defunti dovesseroessere inumati, a prescindere dalla causa dellamorte, esclusivamente in due siti: nella zonadestinata ai morti di colera del Cimitero Mo-numentale di Poggioreale (progettato nel 1812e portato a compimento proprio nel 1837) e in

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una vasta cava di tufo abbandonata che avevagià accolto i morti della peste del 1656, sitanella zona delle Fontanelle. Una volta nella fossa, i cadaveri dovevano es-sere ricoperti di calce viva.

Come abbiamo visto l’ultima persona che Leo-pardi ha invocato prima di morire è statal’amico Antonio Ranieri.Ma come si erano conosciuti Leopardi e Ra-nieri?Si conobbero a Firenze il 29 giugno 1827 gra-zie al napoletano Alessandro Poerio (1802-1848): in quel periodo la città gigliata ospitavamolti esuli napoletani fra i quali il barone Giu-seppe Poerio (1775-1843) padre di Alessandroe Carlo (1803-1867), l’avvocato Pasquale Bor-relli (1782-1849), lo storico e politico CarloTroya (1784-1858), il conte Giuseppe Ric-ciardi (1808-1882) letterato e patriota, il giuri-sta ed economista Francesco Paolo Ruggiero(1798-1881), il giurista e patriota Paolo EmilioImbriani (1808-1877), il colonnello GabrielePepe (1779-1849), il generale Pietro Colletta(1775-1831).I futuri sodali conobbero altresì Giovan PietroVieusseux (1779-1863), (fondatore nel 1820del celebre “Gabinetto Vieusseux”, ospitato nelquattrocentesco palazzo Buondelmonti e neicui saloni, la sera del 3 settembre 1827, av-venne il primo incontro fra Leopardi e Man-zoni), Gino Capponi (1792-1876), GiovanBattista Niccolini (1792-1861), Niccolò Tom-maseo (1802-1874): quest’ultimo nutrì sempreun odio profondo nei confronti di Leopardi(trovava insopportabile, lui fervente cattolico,l’ateismo conclamato e apertamente testimo-niato nelle sue opere) che non si estinse nean-che con la morte del Poeta. Lo comprovano questi versi tratti da una sualettera inviata a Gino Capponi pochi mesi dopola morte di Giacomo: «Natura con un pugno losgobbò: “Canta” gli disse irata ed ei cantò».Sempre a Gino Capponi, il 15 giugno 1838, fa-cendo riferimento a una delle Operette moralidi Leopardi, quella dal titolo Elogio degli uc-celli: «Esser vorresti uccello? Siam lì: sei pi-pistrello».

E in un’altra lettera inviata a Cesare Cantù(1804-1895) nel 1836, scriveva: «Nel duemilail Leopardi, non avrà d’eminente nell’opinionedegli uomini né anco la spina dorsale, perchéi bachi della sepoltura gliel’avranno appia-nata».Come profeta valeva ancor meno che comeuomo.Leopardi ricambiò ampiamente il malanimonei confronti dello scrittore dalmata.Dopo essere stato a lungo seduto, per signifi-care che avvertiva un qualche fastidio ai testi-coli, esclamava: «Mi dolgono i tommasei»,facendo propria una frase coniata da VincenzoMonti (1754-1828) contro il quale, oltre a Gia-como, lo scrittore di Sebenico era solito sca-gliarsi.

Alla luce di quanto è emerso sul conto di An-tonio Ranieri nei decenni successivi alla mortedel Poeta possiamo affermare, senza tema dismentita, che ci troviamo al cospetto di un bu-giardo matricolato e di un grande impostore.Per dare un’idea di quanto fossero inattendibilie in malafede le informazioni fornite dal Ra-nieri nell’immediatezza della scomparsa del-l’amico voglio citare, a mo’ d’esempio, loscambio epistolare avvenuto con il padre diGiacomo.Con una lettera che gronda retorica e manieratadisperazione datata 17 giugno 1837, fatta per-venire al destinatario non direttamente ma tra-mite il marchese Giuseppe Melchiorri(1796-1855) cugino di Giacomo, Ranieri co-munica al conte Monaldo la morte del figlioprimogenito e lo rende edotto del fatto di aver,non solo, sottratto la salma del defunto allafossa comune dei colerosi ma di averla

«rinchiusa in una splendida cassa di noce, con unosmalto giallo sopra, nel quale era scritto in lettere nere:Conte Giacomo Leopardi di Recanati».

E ancora il 26 giugno:

«Io posseggo di Giacomo un baulle, una valigia, ed unacassetta di legno ferrata, con biancheria, qualche abitodi cui non fu rivestito il corpo, ch’io volli adorno delmeglio, ed altre cosucce molte. Queste cose con alcunilibri intitolati a lui dagli autori, e che so che egli era so-lito di mandare a lei, io serbo qui a disposizione di lei,

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attendendo ch’ella m’indichi il modo onde poterglienemandare. Io imploro da lei il dono d’un dizionariettofrancese dell’Antonini, delle cesoie con cui egli da cheio lo conobbi tagliava ogni dì la sua barba (16), del ca-lamaio di cartone e della penna che portò via di costì econ la quale l’ho visto sempre scrivere. Questi oggettis’ella me lo consente, vorrei ritenere per memoria».

Come vedremo, per memoria, si riterrà benaltro.Il 5 luglio è Monaldo a scrivere a Ranieri e, fral’altro, gli chiede di poter riavere tutti gli auto-grafi del figlio, che gli spettavano di diritto,non avendo Giacomo lasciato disposizioni te-stamentarie che manifestassero una diversa vo-lontà: lasciava inoltre intendere di essereassolutamente disinteressato alle minutaglieche gli erano state elencate dal sodale.Ranieri, il 18 luglio 1837, facendo lo gnorri ementendo spudoratamente, risponde a Mo-naldo. Di questa lettera riporto uno stralcio partico-larmente significativo:

«In quanto ai libri ed alle carte, bisogna intendersi.Libri egli non portò seco di costà (da Recanati), co-m’ella saprà bene; salvo il dizionarietto dell’Antoninich’io le ho dimandato di poter conservare come memo-ria, ed ella certamente intenderà di concedermelo. Nonne comprava mai, per la noia grandissima che gli eratrasportargli seco. Restano quelli che gli sono stati re-galati dagli autori dopo l’ultima delle spedizioni ch’egliera solito di farne costì e questi gliene ho messi tutti daparte, e gliene manderò appena sarà possibile. Tutti i moltissimi manoscritti che Giacomo portò secodi costì, e ch’ella certamente conoscerà, furono senzaquasi eccezione alcuna consegnati da Giacomo in Fi-renze nell’ottobre del 1830 al Sig. Luigi de Sinner, filo-logo tedesco (in realtà, era svizzero), che li portò secoin Parigi».

In definitiva Ranieri, anche se in modo ambi-guo e volutamente contorto, comunica a Mo-naldo di non possedere alcun manoscritto diGiacomo.La verità, però, era ben altra. Egli possedeva, infatti, la documentazione au-tografa della maggior parte dei Canti, tra glialtri Alla luna, L’Infinito, Ultimo canto diSaffo, A Silvia, Le ricordanze, Il sabato del vil-laggio, Canto notturno di un pastore errantedell’Asia, delle Operette morali, del Saggiosopra gli errori popolari degli antichi (1815),

del Discorso di un Italiano intorno alla poesiaromantica (1818), del Discorso sopra lo statopresente dei costumi degl'Italiani (1824), deicentoundici Pensieri (1831-1835) e, soprat-tutto, possedeva le 4526 pagine manoscritte diquella “summa” filosofica e filologica che oggiconosciamo come Zibaldone (1817-1832). E’ poco noto, ma nello Zibaldone Leopardi ciha lasciato anche delle formidabili considera-zioni di carattere musicologico17: «La musicase non è la mia prima, è certo una mia granpassione»18.

D’altra parte, il fratello Luigi era un bravo flau-tista e la sorella Paolina fu autrice di una pre-gevole biografia di Mozart pubblicata, in formaanonima, nel fatale 183719.C’è un altro dato di fatto che testimonia tuttal’enigmaticità di questo individuo: noi posse-diamo quasi tutte le lettere che Leopardi scrissea Ranieri nel corso del loro sodalizio ma, stra-namente, non c’è traccia di quelle che Ranieriscrisse a Leopardi e neanche di quelle che Mo-naldo scrisse al figlio durante il suo soggiornonapoletano. L’ultima lettera del padre al figlio, giunta finoa noi, è quella datata Recanati, 21 marzo 1831:in quel periodo Giacomo si trovava a Firenze.Quelle lettere, quasi certamente, furono di-strutte dal sodale.Ma perché?In quelle missive c’era forse qualcosa di com-promettente per il futuro senatore? Altro mi-stero!Per certi versi Antonio Ranieri incarna lo ste-reotipo del napoletano un po’ fanfarone e mil-lantatore, sia pur dotato, in fondo in fondo, dibuoni sentimenti.Su Napoli e i napoletani Leopardi alterna rarigiudizi benevoli ad altri di autentica avversionecome testimoniato da questi stralci di lettere alpadre Monaldo.La prima fa riferimento ad un ipotetico viaggioche Giacomo avrebbe voluto intraprendere perRoma, in compagnia di Ranieri, e poi, in pro-sieguo, per Recanati:

«…io sono risolutissimo di mettermi in viaggio mal-grado il freddo; perché oltre all’impazienza di rivederla,

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non posso più sopportare questo paese semibarbaro esemiaffricano, nel quale io vivo in perfettissimo isola-mento da tutti»20...........................................................................................«Ora il mio principale pensiero è di disporre le cose inmodo, ch’io possa sradicarmi di qua al più presto; edElla viva sicura che quanto prima mi sarà umanamentepossibile, io partirò per Recanati, essendo nel fondo del-l’animo impazientissimo di rivederla, oltre il bisognoche ho di fuggire da questi Lazzaroni e Pulcinelli nobilie plebei, tutti ladri e b. f. (baron fottuti) degnissimi diSpagnuoli e di forche»21.

In realtà Leopardi non tornò mai più a Reca-nati, che aveva lasciato per l’ultima volta il 30aprile 1830, e mai più rivide i suoi familiari.In un passo dello Zibaldone avversione e giu-dizio benevolo per i napoletani sono accomu-nati nella stessa considerazione:

«Parlando con un famoso ed eloquente avvocato napo-letano, il Baron Poerio, che ha avuto a trattare di causecriminali nella capitale e nelle provincie del Regno diNapoli, ho dovuto ammirare in quel popolo semibarbaroo semicivile piuttosto, una quantità di delitti atroci chevincono l’immaginazione, una quantità di azione eroi-che di virtù (spesso occasionate da quei medesimi de-litti) che esaltano l’anima la più fredda (come la mia)»22.______________

1 G. Infusino, Zibaldone di sventure, Napoli 1987.2 C’è stato qualcuno che si è presa la briga di verificarese i sette anni di sodalizio fossero stati proprio sette: edè risultato che gli anni erano solo sei, anzi, esattamentecinque anni e nove mesi.3 A. Ranieri, Supplemento alla notizia intorno alla vitaed agli scritti di Giacomo Leopardi, Napoli 1847.4 Il dottor Nicola Mannella era il medico personale diS.A.R. Leopoldo di Borbone, Principe di Salerno, ziodel sovrano allora regnante Ferdinando II. Questa notiziaci viene fornita dal Ranieri nello scritto di cui alla nota3.5 Da una lettera di Antonio Ranieri a Fanny TargioniTozzetti datata 1° luglio 1837.

6 Da la Repubblica del 25 gennaio 2012.7 «Una delle più deplorabili (impressioni) era il mo-struoso disordine delle sue ore. Durante tutta la sua vita,egli fece, appresso a poco, della notte giorno, e vice-versa;e ne lasciò dovunque stette, una non amabile me-moria» (A. Ranieri, Sette anni di sodalizio con GiacomoLeopardi, Napoli 1880, cap. XXIV.8 Da una lettera di Antonio Ranieri a Giovanni BattistaNiccolini datata 20 gennaio 1844.9 Dallo Zibaldone, p. 4174. All’ultimo rigo di questastessa pagina (datata Bologna, 22 aprile 1826) comparela parola “pessimismo” che, stranamente, è un hapaxnell’opera omnia leopardiana. A tal proposito mi piacericordare una frase di Arthur Schopenhauer: «Nel 1819c’erano contemporaneamente in Italia i tre più grandipessimisti, Byron, Leopardi ed io. Ma nessuno dei treconobbe gli altri».10 Operette Morali, Dialogo della Natura e di un Islan-dese.11 M. Fubini, Opere di Giacomo Leopardi, Torino 1977,p. 1088.12 C. Luporini, Il pensiero di Leopardi, Napoli 1987.13 A. Tilgher, La filosofia di Leopardi, Roma 1940.14 G. Peralta, Giacomo Leopardi. Il falso pessimismo, inQuaderni di Arenaria, 3, 2014.15 M. Leopardi, Disputazioni dello regale et nobilissimogiovine Pippino (figlio di Carlo Magno) con Albino Sco-lastico (letterato di Corte), in Ammonimenti de uno sa-piente omo, Rimini 1981.16 Anche questa notazione risulta ben strana visto chelo stesso Ranieri nel suo Sette anni di sodalizio con Gia-como Leopardi (Cap.XIX) afferma che, riferendosi al-l’amico, «di rasoi non ebbe mai mestieri, non avendopunti peli sul mento». Leopardi, quindi, era glabro.17 Ben 107 pagine dello Zibaldone sono dedicate a questoargomento.18 Lettera a Pietro Brighenti del 28 aprile 1820.19 M. De Angelis, Leopardi e la musica, Milano 1987.20 Lettera al padre Monaldo datata Napoli, 27 novembre1834.21 Lettera al padre Monaldo datata Napoli, 3 febbraio1835.22 Dallo Zibaldone, p. 4289.

(1. Continua)© Riproduzione riservata

Il 12 maggio scorso, alla Casina Pompeiana della Villa Co-munale, nell’ambito della Festa d’’a lengua nosta, organiz-zata dall’Associazione Giambattista Basile, il poetaSalvatore Palomba ha premiato gli autori delle poesie se-lezionate dalla commissione esaminatrice. Sono risultativincitori Gennaro Morgese (secondo da destra nella foto)con Matalena, Antonio Montariello con Dint’a na réfula ‘e

viento, e Francesco Limite con Mimose e cuscienza.

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FRANCESCO DE SANCTISnel secondo centenario della nascita

di Guido Belmonte

1.- Il 28 marzo 2017 si sono compiuti duecentoanni dalla nascita di Francesco De Sanctis1.Nacque a Morra Irpina (ora Morra De Sanctis)da Alessandro e Maria Agnese Manzi e vissenel paese natale fino al 1826, quando fu affi-dato, per gli studi da continuare a Napoli, allecure dello zio paterno, sacerdote Carlo Maria.Portato, pur con la vivacità dell’infanzia, allameditazione e alla lettura, non tardò a diventara Napoli scolaro eccellente del “purista” Basi-lio Puoti, che nel 1839 lo pose alla guida d’unascuola, ove ebbe allievi Luigi La Vista, AngeloCamillo De Meis, Pasquale Villari. Le vicendedi quel fatale maggio 1848 in cui La Vista fuucciso cominciarono a segnare, in danno d’unDe Sanctis docente alla scuola militare dellaNunziatella, l’inizio d’una persecuzione di po-lizia per le idee politiche da lui apertamentemanifestate. Divenuto ufficialmente sospetto,subì un primo arresto a Napoli. Privato dell’in-segnamento alla scuola militare e trasferitosi aCosenza, fu in quella città di nuovo arrestatonel dicembre 1850 e tradotto a Napoli, ovesubì, senza processo, un’ulteriore, lunga carce-razione a Castel dell’Ovo; mentre anche ilpadre, a Morra, pativa la perquisizione e ilfermo da parte dell’Intendenza di Avellino, cheagiva per ordine ricevuto. La durezza della car-cerazione fu temperata, non può dirsi se perl’umanità dei custodi o per un’inspiegabile at-tenuazione di quel rigore che s’è sempre affer-

mato come appartenente al regime carcerariodei Borbone; certo è che non mancarono al de-tenuto libri, carta, penna, contatti con suoi coltiamici, quando si pensi che tra quelle tetre muraegli ebbe modo d’apprendere la lingua tedesca,studiare la filosofia di Hegel e ridurne in quadrisinottici la Logica, tradurre una storia letterariadel Rosenkranz, abbozzare due opere teatrali,dar inizio ai suoi profondi studi sulla DivinaCommedia. Impostoglisi l’esilio in America,riuscì nel 1853 a sbarcar a Malta e da lì rag-giungere il Piemonte, ove s’andavano radu-nando molti esuli delle Due Sicilie. Nelproposito di conservare la propria indipen-denza, e perciò rifiutando il sussidio offerto dalgoverno sabaudo a quegli esuli, tentò d’aprirea Torino una scuola che permettesse ai giovanid’esercitarsi nelle lettere. Mancata la possibi-lità d’attuare quell’intento, insegnò in un isti-tuto femminile e conquistò, con le sue“Conferenze” su Dante, l’ammirazione dellaclasse colta torinese. Nel 1854 scelse però ditrasferirsi a Zurigo, chiamatovi come “lettore”d’italiano dal Politecnico federale. Rientrato aNapoli il 6 agosto 1860 poco dopo che Fran-cesco II ebbe concesso la Costituzione, rifiutòla carica, offertagli dal nuovo governo, di se-gretario dell’istruzione pubblica; ma con l’ar-rivo di Garibaldi venne presto nominatogovernatore dell’Irpinia e di seguito direttoredell’istruzione pubblica. Dal 1861 fu ininter-

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rottamente deputato. Ministro dell’Istruzionecon Cavour e Ricasoli, lo fu ancora con Bene-detto Cairoli. Docente all’Università di Napolidal 1863, tenne tra il ’71 e il ’76 memorabilicorsi su Manzoni, sulle scuole democratica eliberale, e su Leopardi. Morì a Napoli il 19 di-cembre 1883. Universalmente riconosciuto, inItalia e fuori, come l’espressione più autore-vole della critica estetica, non è mai cessatol’interesse alla lettura e allo studio delle sueopere fondamentali: la Storia della letteraturaitaliana e i Saggi critici. E con interesse nonminore si leggono ancoraquelle testimonianzedella sua attività politicache sono raccolte in Unviaggio elettorale, e i ri-cordi della sua vita, det-tati alla carissima nipoteAgnesina figlia del fra-tello Vito, pubblicati po-stumi a cura del Villaricome La giovinezza.

2.- L’elevatissima staturadi uomo e di studioso delDe Sanctis, il cui ricordonon s’è in alcun modo ap-pannato a distanza di benpiù d’un secolo dalla suascomparsa, e il vistoso debito accumulato dallacultura italiana verso di lui rendono assai dif-ficile rievocarne in poche righe i meriti chefondatamente lo raccomandano all’attenzionedei posteri. Il vigore della sua personalità, ine-vitabilmente segnata dalla vocazione del tempoin cui visse, grandeggiò nell’ambito della let-teratura e in particolare della critica letteraria,della quale egli per tanti aspetti è consideratoun creatore; ma non mancò di manifestarsi, intono naturalmente assai minore, anche inquello dell’attività politica. La forza dell’ideadi nazione che contrassegnò come una voca-zione il diciannovesimo secolo, con quel pro-posito tenacemente perseguito d’assicuraredignità e indipendenza di stato a ogni popoloche fosse portatore d’una identità di lingua, ditradizioni, di costumi (che è come dire una “na-zione”), non poteva non farne un assertore

degli ideali del Risorgimento, quando si pensiche della lingua italiana e del secolare suoevolversi, a partire dall’Alighieri, De Sanctisera divenuto un conoscitore tra i più profondi.Così che per valutare con compiutezza l’operasua non è possibile escluderne quella partetutt’altro che insignificante da lui riservata allapolitica. Nel parlarne qui può cominciarsi, tra-scurando il tempo dell’esilio, dal suo rientro aNapoli nel 1860.Il rifiuto d’accettare la carica subito offertaglidal nuovo governo costituzionale di Francesco

II si motivò dal De San-ctis con l’addurre una“provvisorietà” della suapresenza nella città. Allostesso modo egli giusti-ficò il rifiuto di candidarsial parlamento. La verità èche De Sanctis s’ade-guava così facendo all’in-tendimento, comune atutti gli esuli rientrati aNapoli, di ostacolare ilgoverno costituzionale diFrancesco II cominciandocol respingerne le offerted’incarichi. Ma da questoatteggiamento, al quale

aderiva De Sanctis, emerge purtroppo l’angu-stia della percezione, da parte di quegli esuli,di ciò che stava effettivamente accadendo nelMezzogiorno. Ostacolare il governo di France-sco II altro non poteva significare – con un Ga-ribaldi ormai alle porte – che aver già fatto peril futuro delle Due Sicilie una scelta diversa.Ma quale? Molti di quegli esuli erano scesi alSud come agenti di Cavour; e negli Abruzzi,che subirono il primo impatto di quella che ineffetti era una “invasione” piemontese, alcunidi essi, come Pier Silvestro Leopardi e Salva-tore Tommasi, s’affrettavano a chiedere,quando non a imporre, ai rappresentanti dei co-muni d’indirizzare a Vittorio Emanuele, fermocol suo esercito al Tronto, petizioni perché ve-nisse a “liberarli” dai Borbone. De Sanctis nonsembra paragonabile a un Leopardi o a unTommasi; né può dirsi che le sue convinzioni

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politiche si rivelassero ben definite. Le posi-zioni da lui assunte in passato lasciavano dubbisu un supposto iniziale suo “mazzinianesimo”,contrapposto a un “moderatismo” assai piùprobabile verso la fine dell’esilio. Certo è peròche a vincere le resistenze di Garibaldi e in-durlo a firmare il decreto del plebiscito funell’ottobre 1860 proprio De Sanctis. Vienfatto così di domandarsi se, a cominciare dalui, quegli esuli avessero delle idee ben precisesul ruolo che avrebbe mantenuto un Mezzo-giorno non più indipendente, incorporato chelo si fosse in un altro stato (il sabaudo) desti-nato a rimaner egemone pur nella mutazionedel suo nome in quello di Regno d’Italia. Avoler desumerlo da una dichiarazione del Set-tembrini (che il 27 luglio aveva esaltato la“connessione” delle Due Sicilie al Regno d’Ita-lia precisando che la città di Napoli sarebbe ri-masta capitale del Napoletano, come Firenzelo era rimasta della Toscana; e avrebbe avutoun regio luogotenente, ministri, tribunale, am-ministrazione, tutto come stava «tranne i Bor-bone»), e dall’affermazione d’uno storicodell’autorità di Nino Cortese (secondo il quale2

«il convulso succedersi degli avvenimentidopo lo sbarco di Garibaldi in Calabria»avrebbe impedito «che il mondo politico napo-letano si ponesse innanzi il problema dellanuova sistemazione», così che solo dopo la vit-toria del Volturno quel problema, riguardanteil destino del Mezzogiorno, «cominciò a esserposto»), dovrebbe purtroppo attribuirsi un’im-previdenza, e si dica pure una miopia, a quelceto politico meridionale: che non seppe (oforse non volle) rendersi sufficientementeconto delle conseguenze che un incondizionatoconsenso a quell’affrettata “connessione” – se-guita pur sempre a un’occupazione militare -avrebbe procurato al Sud. Addebitare allaclasse politica meridionale ricostituitasi a Na-poli nel 1860 leggerezze e negligenze cheavrebbero poi contribuito a rendere subalternoil Mezzogiorno dopo l’unificazione non appareperciò del tutto infondato. E temo che quell’ad-debito non si possa stornare dall’attività poli-tica pur nobile e meritoria di Francesco DeSanctis.

3.- Un discorso a parte è opportuno però che sifaccia su ciò che De Sanctis, nell’espletamentodi quell’incarico dell’istruzione pubblica che ilgoverno dittatoriale gli aveva affidato nell’ot-tobre 1860, operò per rinnovare l’Università diNapoli. Apparve subito evidente quanto fossedecaduta, anche per il prestigio che a Napoliera andato sempre più acquistando l’insegna-mento privato. Nel 1862 il fisico Carlo Mat-teucci espresse su De Sanctis un severogiudizio3, accusandolo d’aver fatto «un maleenorme» con l’elevar al professorato «uominisenza … moralità, degli atei, dei materialisti,dei repubblicani, delle canaglie». La fonda-tezza di quel giudizio è per più aspetti da revo-care in dubbio. E’ vero che molti dei docentirimossi vennero sostituiti da altri provenientidalle file liberali. Accadde pure che molti deinuovi chiamati alla cattedra non accettasserola nomina e si rendesse perciò necessario ban-dire nuovi concorsi a opera di Paolo EmilioImbriani e poi dello stesso De Sanctis, ministrodel governo Ricasoli; e forse proprio nel tempodi quest’ultimo incarico si colloca la riprova-zione del Matteucci: il cui riferimento ad “atei”e “materialisti” intendeva probabilmente met-tere in discussione i valori religiosi che si sa-rebbero calpestati da quell’indubbio laicismodel ministro. Ma l’onestà dell’operato di DeSanctis non pare in alcun modo contestabile.Quanto, infatti, all’abolizione della facoltà diteologia, che poteva apparir un segno non equi-voco di laicismo, una più attenta riflessioneconvincerebbe che essa era piuttosto la con-ferma di una diffusa, crescente tendenza allalaicizzazione dell’intera società civile. Per ciòche invece attiene alla chiamata di BertrandoSpaventa alla cattedra di filosofia teoretica, insostituzione di quel Luigi Palmieri che nel1847 aveva fatto chiudere con una sua denun-cia la scuola privata degli Spaventa, onestàvuole che non si parli di vendetta, dal momentoche il Palmieri, esperto di fisica terrestre, vennechiamato proprio all’insegnamento di quellamateria che continuò poi a svolgere per anni.

4.- Messa da parte la politica, è bene che la ce-lebrazione del De Sanctis a duecento anni dallanascita s’impegni piuttosto a cogliere le ragioni

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profonde della sua fama, già consacrata im-mortale, di massimo critico letterario: un im-pegno che dovremmo cominciar ad assolvereanzitutto col rileggere e studiarne le opere, natepiù spesso dall’empito di lezioni delle quali af-fezionati allievi salvavano il testo coi loro ap-punti. L’esigenza di una tal rilettura nasce dallaparticolarità stessa dell’insegnamento desan-ctisiano, che non si svolse col metodo di un’or-dinata esposizione di principi filosofici: comeè noto che avrebbe fatto invece BenedettoCroce nella sua Estetica, valorizzando proprioquelle intuizioni profonde di De Sanctis chealtri aveva tardato a comprendere o non avevacompreso affatto, tant’è che s’è arrivati a con-siderar il De Sanctis – al pari di GiambattistaVico – un grande pensatore “nato troppo pre-sto”. Il giudizio estetico – è questa la fondamentaleproposizione del grande critico - deve riuscir acogliere, al di là del contenuto dell’operad’arte, la vivente realtà di essa per come l’au-tore è riuscito a esprimerla nella più appro-priata e pertinente forma. Nessun limite puòporsi perciò a priori alla materia dell’opera;questa varrà soltanto in ragione della forma chevi si sarà data. Ciò che di singolare prevale nel-l’insegnamento di De Sanctis è che un tal ori-ginale criterio di valutazione dell’opera d’artesi fosse saggiato di volta in volta da lui su diun esteso banco di prova, che dai testi dell’Ali-ghieri arrivava fino ai recenti romanzi di Zola. L’ampiezza e l’originalità di quell’analisi cri-tica permettevano così al De Sanctis d’ordinarela materia esaminata con una percezione piùesatta del suo storico evolversi. E però propriola vocazione allo storicismo, dominante nellacultura del secolo in cui De Sanctis visse, finìcol condizionarne la ricerca del filo conduttoreda lui sotteso all’intero corso di quell’evol-versi, contenuta nell’opera sua consideratamaggiore che è la Storia della letteratura ita-liana. A proposito della quale è bene ricordareche De Sanctis, nel giovanile suo abbeverarsialla cultura del tempo, aveva recepito conce-zioni anticattoliche, protestanti che, esaltandola Riforma come rivendicazione di libertà, nonvedevano nella Controriforma altro che rea-

zione, falsità, gesuitismo. Fu questo un suopensiero dominante, derivatogli tra l’altrodall’accettazione di schemi storiografici accre-ditati da autori come Sismondi, Quinet, le cuiopere – non si dimentichi – avevano contri-buito alla formazione culturale di gran partedella classe politica del Risorgimento. DallaStoria del De Sanctis emerge con evidenzacome quel grande critico avesse costantementegiudicato la nostra letteratura con un metro pa-triottico e laicistico che non a tutti è apparso ilpiù appropriato. E’ accaduto perciò che qual-che autore4 non avesse esitato ad addebitare alDe Sanctis più d’un eccesso di quella sua cul-tura laicistica: che rendendo già problematicol’approccio ad autori (Dante in particolare) an-corati alla religione cattolica posta alla based’una loro visione del mondo, ancor più espo-neva al rischio d’errori nella valutazione d’altripoeti e scrittori, specie a partire dal XVI se-colo. S’è addebitato in particolare al De Sanctisd’aver «confuso la vicenda letteraria con quelladella coscienza italiana»: due linee – s’è detto– che vanno «messe a confronto», ma «nonconfuse». Una letteratura – è questa la sostanzadell’addebito – non può essere giudicata sol-tanto in base alla sua efficacia morale, politica,sociale o religiosa. La confusione del fatto letterario con la testi-monianza di tutta la vita di un’epoca avrebbeportato De Sanctis a farsi un’idea distorta dellastoria dello spirito italiano dal cinquecentoall’ottocento (secolo del risveglio d’una co-scienza nazionale). Quella distorsione si sa-rebbe per di più aggravata dall’esser il DeSanctis rimasto fermo nella sua convinzionelaicistica, protestante, secondo cui tutto ciò chemovesse dalla controriforma e restasse fedeleal cattolicismo sarebbe stato passatismo, oscu-rantismo, lotta alla scienza; e valido, “mo-derno”, invece, soltanto ciò che vi si fosseopposto. E’ un giudizio, questo su De Sanctische, pur mitigato, ha trovato il conforto di scrit-tori autorevoli, come Luigi Russo: verso ilquale s’è debitori di un’analisi attenta dellaStoria e dei Saggi critici. Secondo il Russo5 la«singolarità» della Storia consiste proprio«nell’essere insieme una storia della letteratura

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e una storia della vita morale del popolo ita-liano. La preoccupazione moralistica può pa-rere qua e là che deformi la visione dellostorico letterario6… Ma … bisogna ricono-scere che ogni storico traccia la storia di un suomito, e lo storico puramente letterario è unostorico arcade… Senza quel mito di un’Italiache decade… non avremmo avuto un’operacosì compatta e così eloquente».

5.- Quest’ultima espressione (“eloquente”) diLuigi Russo è da ritenere che caratterizzi nelmodo più appropriato la figura e l’opera diFrancesco De Sanctis come quelle di un grandeMaestro: l’aspetto di lui che andrebbe partico-larmente esaltato in questa ricorrenza bicente-naria. Eloquente fu anzitutto la sua prosa se èvero che gran parte di ciò che egli scrisse vieneoggi recepito da noi con la stessa freschezzache aveva al momento del suo nascere, tant’èche, nel leggere le sue opere, si ha quasi l’im-pressione che il Maestro stia parlando conquell’intonazione spontanea che a voltes’esalta, altre volte si placa e sempre finiscecon l’essere persuasiva. E’ che quella prosanacque prevalentemente per una scuola, chefosse quella affidatagli a Napoli da BasilioPuoti o quella, assurta a dimensione europea,che ebbe a Zurigo, nel cuore di un’Europa an-cora restia ad apprezzare il valore della grandema poco conosciuta cultura italiana di cui DeSanctis si faceva portatore. Una cultura chel’esule italiano cominciò a diffondere in quellacittà svizzera nella quale si ritrovavano Bur-ckhardt, Mommsen, Marx, Wagner; e dove –pur avvertendo distintamente il dispregio versoitaliani e latini in genere che qualcuno di quegliuomini (Wagner per esempio) non riusciva anascondere – andò approfondendosi in luiun’esigenza di sentirsi europeo. E in questosenso, con quella confidenza che un vero Mae-stro ripone nei suoi allievi più fedeli, scrivevaa Pasquale Villari: «Il contatto col mondo ci dàun giusto sentimento del reale, ciò che mancasoprattutto a noi napoletani, che viviamo dirêves e sdruccioliamo nell’opposto, …; ci faguardare le cose in maniera larga e compren-dere tutti i caratteri, ci svezza da quel guardareda un occhio solo … E ci fa altro bene, … ci

fornisce colori, ci appassiona, ci fa vivere lavita di tutti senza cancellare la nostra persona-lità»7. Una personalità che in De Sanctis eraandata visibilmente sbocciando fin da quando,all’età di nove anni, aveva lasciato Morra perNapoli, la grande capitale di allora. Un’espres-sione racchiusa in un suo saggio famoso(“L’ebreo di Verona” del Padre Bresciani8)c’induce a pensare che, arrivato a Napoli dallasua verde Irpinia, De Sanctis vi si fosse a lungosentito come «un provinciale», che entra nelmondo «col passo avviluppato, tutto impaccione’ movimenti, gli occhi incerti, turbato ilvolto», con una «paura» che «manifesta ap-punto quello che vorrebbe nascondere». Ap-pena pochi anni dopo, a Zurigo, egli avrebbeparlato da pari a pari con quel fior fiore dellacultura europea. Ma a Morra, nell’immagineche ne serbava la famiglia, egli era rimasto pursempre “Ciccillo”; così che quando la morte locolse a Napoli e la città gli riservò funerali chefurono detti “leggendari”, “paragonabili sol-tanto alle esequie del gran re”, il fratello Vito,venuto da Morra a rappresentare la famiglia,passò all’aneddotica con l’esclamare: «Vi’ chet’ha fatto Ciccillo!»9 Oggi, nel celebrarlo aduecento anni dalla nascita, non sapremmoforse esprimere in poche parole tutta la gran-dezza di Francesco De Sanctis meglio di comefece, nella sua semplicità, il fratello Vito.

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1 Sulla vita e le opere di De Sanctis si consulti E. Croce- A. Croce, De Sanctis, Torino s.d. ma 1964 (nella col-lezione La vita sociale della nuova Italia, vol.7).2 Cortese, Il Mezzogiorno ed il Risorgimento italiano,Napoli s.d., p. 462 s.3 Quel giudizio può leggersi in Cortese, op.cit., p. 467.4 R. Montano, Lo spirito e le lettere - Disegno storicodella letteratura italiana, 3, Milano s.d. ma 1971, p. 363ss. 5 L. Russo, Prefazione a F. De Sanctis, Storia della let-teratura italiana, 1, Milano s.d. ma 1960, p. 8 s.6 Corsivi miei.7 La lettera è riportata da E. Croce - A. Croce, op.cit., p.272.8 In F. De Sanctis, Saggi critici, a c. di L. Russo, 1,Roma-Bari 1979, p. 57.9 E. Croce - A. Croce, op.cit., p. 632.

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…E PER MODELLA UNA GALLINA

di Sergio Zazzera

Èrisaputo come gli artisti siano soliti sce-gliersi le modelle tra le esponenti più affa-

scinanti del gentil sesso; eppure, a cavaliere trai due secoli passati, l’anticonformismo di unodi essi raggiunse un livello tanto elevato, alpunto ch’egli ebbe per modelle, nientemeno, legalline.Non fosse che per la profonda amicizia chenutrì per lui l’abruzzese Beniamino Rosati, perl’acribia del pittore-scrittore En-rico Giannelli e per il più recentericordo di Roberto Rinaldi1, Sal-vatore Busiello, artista tanto va-lente, quanto sfortunato, sia invita, che dopo la morte, sarebbestato completamente dimenticato:basti dire che egli è assolutamenteignorato dalla migliore saggisticasull’arte dei suoi tempi a Napoli2.Busiello nacque, il 6 marzo 1883,a Barra – l’antico casale dellaVarra li Coczi3 –, quando la loca-lità, oggi sezione municipale diNapoli, era ancora un comune au-tonomo; e fu un religioso delluogo, il padre antoniano Saverio d’Ambrosio,a scoprire in lui, ancora molto giovane, le dotiartistiche e ad affidarlo al pittore Luigi Scor-rano, perché provvedesse ad affinarle. Questi,ch’era nato a Lecce nel 1849, era partito daesperienze di pittura di genere e di nudo, com-piute sotto la guida di Giuseppe Mancinelli edi Domenico Morelli, per affermarsi, poi, nelsettore dell’arte finalizzata al culto4: dunque,

come potesse essersi formata nel Busiello lapredilezione per i gallinacei, quali soggetti deisuoi quadri, rimane, almeno per me, un mi-stero, anche a voler considerare la vocazioneancora agricola della Barra dei suoi tempi.Dalla scuola dello Scorrano Busiello passò,dopo parecchi anni, a quella ufficiale dell’Isti-tuto delle Belle arti di Napoli, nel quale parte-cipò spesso a concorsi interni, risultandone

vincitore. Il suo esordio pubblicoavvenne nel 1910 a Napoli, con lapartecipazione alla prima edizionedella Mostra nazionale di artepura e applicata, intitolata a Ber-nardo Celentano; in quello stessoanno, però, si fece conoscereanche all’estero, partecipando,con una delle sue “galline”, al-l’Esposizione universale interna-zionale di Bruxelles. L’annoseguente, poi, fu per lui anche piùproficuo, grazie al conseguimentodi una borsa di studio di lire2.000, posta in palio dal Ministerodella pubblica istruzione, quale

premio di un concorso di paesaggio; e anche inquell’anno un’altra delle sue “galline” lo feceapprezzare alla 6a Esposizione internazionaled’arte di Barcellona.All’osservatore dei giorni nostri, Busiello sem-bra essersi isolato sempre più, col trascorreredel tempo, dagli ambienti artistici ufficiali, po-nendosi piuttosto alla ricerca di una tranquillitàpiù confacente col suo carattere introverso: e

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questa tranquillità non poteva che venire dallaterra d’Abruzzo a lui, che fu grande estimatoredi Francesco Paolo Michetti. Soprattutto ilquattrocentesco convento di Santa Maria delGesù di Francavilla a Mare, acquistato da Mi-chetti nel 1883, per farne la propria abitazionequando si sposò, cinque anni dopo, e divenuto

famoso come “Cenacolo michettiano”5, loospitò durante i suoi soggiorni estivi, anche sepoi il richiamo della sua Napoli non tardava afarsi sentire, non tanto per le bellezze dellacittà, quanto per il distacco, che egli avvertiva,dal suo studio, che si trovava in un sottotettodi piazza Municipio, e dalle sue “galline”.L’armistizio con gli anglo-americani, firmatoa Cassibile il 3 settembre 19436, esercitò un’in-fluenza assolutamente negativa su Busiello,che in quel momento si trovava in Abruzzo, aQuadri: colto da una forma di depressione, daallora egli non prese più in mano i pennelli, nélo si vide più in giro. Soltanto alcuni giornidopo, si ebbe notizia della sua uccisione, permano dei tedeschi, che avevano esploso controdi lui una raffica di mitra, durante l’operazione

di distruzione di quel paese7, nel quale egli erarimasto solo a vagare, dopo che tutti gli abitantine erano fuggiti. E soltanto allora fu possibilerecuperarne i resti e inumarli; poi, quando ci sirecò al suo studio napoletano, vi si constatò lasparizione di tutti i suoi dipinti, dei quali, per-ciò, è difficile trovare oggi anche riproduzionifotografiche. È evidente, dunque, come lo scia-callaggio sia fenomeno che trascende il fattoretemporale: sic transit gloria mundi.__________

1 Cfr. E. Giannelli, Artisti napoletani viventi, Napoli1916, p. 60; B. Rosati, Salvatore Busiello pittore di gal-line, in Rivista abruzzese, 1968, fasc. 4, p. 131 ss.; R.Rinaldi, Pittori a Napoli nell’Ottocento, Napoli 2001,p. ::::.2 Cfr. C. Siviero, Questa era Napoli, Napoli 1950; A.Schettino, Cento pittori napoletani, 3 voll., Napoli 1978.3 Sul quale cfr., ex multis, A. Giannetti - B. Gravagnuolo,Barra, in C. De Seta, I casali di Napoli, Roma-Bari1989, p. 181 ss.4 Cfr. E. Giannelli, o. c., p. 435 s.5 Cfr. P. Sorge, Sogno di una sera d’estate: D’Annunzioe il cenacolo michettiano, Torino 2004, p. 7, 53; F. DiCiaccia, Gabriele e Francesco: orbi veggenti, Milano2005, p. 5.6 Sul quale cfr. G. Bocca, Storia d’Italia nella guerra fa-scista 1940-19432, Roma-Bari 1977, p. 572 ss., maanche, in breve, L. Salvatorelli, Sommario della storiad’Italia12, Torino 1969, p. 508.7 Sulla quale cfr. C. Felice, Mezzogiorno virtuoso, Roma2009, p. 7 e nt. 1; C. Verazzo, Le tecniche della tradi-zione: architettura e città in Abruzzo Citeriore, Romas.d., p. 61 nt. 37.

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È vero! Noi settentrionali abbiamo contribuito qualcosa di menoed abbiamo profittato qualcosa di più delle spese fatte dalloStato italiano dopo la conquista dell’unità e dell’indipendenzanazionale; peccammo di egoismo quando il settentrione riuscìa cingere di una forte barriera doganale il territorio ed ad assi-curare così alle proprie industrie il monopolio del mercato me-ridionale, con la conseguenza di impoverire l’agricoltura, unicaindustria rimasta nel Sud. È vero! Abbiamo spostato molta ric-chezza dal Sud al Nord con la vendita dell’asse ecclesiastico edel demanio e coi prestiti pubblici.

Luigi Einaudi

ARTISTI NAPOLETANI - ETTORE SANNINO

di Ferdinando Ferrajoli

La medaglia d’oro di benemerenza concessa,per il grande amore dell’arte, della cultura

e per l’insegnamento al prof. Ettore Sanninodal Ministero della Pubblica Istruzione, vienea premiare questo illustre e valoroso artista,che per oltre quarant’anni èstato professore ordinario diDisegno e di Storia dell’Artepresso l’Istituto Magistrale Pa-squale Villari di Napoli. Natonel 1897 nella splendida e ri-dente plaga vesuviana, fu at-tratto fin dalla giovane etàdalla nobiltà dell’arte classicadelle meravigliose città disse-polte di Pompei e di Ercolano,per cui si scrisse all’Accade-mia di Belle Arti di Napoliove, nel 1922 si diplomò scul-tore. Ligio alla tradizione ed all'as-siduo studio del vero, masenza pedanterie, il Sannino ritiene che l’artedebba dar gioia allo spirito e non offenderecome purtroppo accade oggi, il senso estetico,e perciò depreca tutti gli «ismi» che da circamezzo secolo imperversano e di cui soprattuttobeneficiano astuti speculatori e trafficanti dellecosì dette «grandi firme».

L’arte di questo maestro si affermò segnata-mente dopo la prima guerra mondiale per con-corsi vinti, eseguiti per i monumenti ai Cadutidi Portici, suo paese nativo, Barra, Pomarico eLauria. Leggo nel suo curriculum vitae, una

serie di affermazioni che loportano all’avanguardia fra gliscultori contemporanei. Egli,infatti, crea le grandi sculturedi arte sacra, che ornano ilfrontone della Chiesa Madredi Portici, con le monumentaliporte scolpite in bronzo. Ricerca, esprime e moltiplicala vita delle forme e in questesacre figure si nota una po-tenza plastica sospinta a talpunto che rappresenta per séstessa un godimento spirituale.Altre sue opere di scultura sitrovano nel Cimitero Monu-mentale di Napoli e nel vesti-

bolo della Chiesa di Santa Lucia. Le sensazioni che si provano davanti ai suoi la-vori sono molteplici e ci danno modo di com-prendere l’arte di questo scultore che lavorainstancabilmente in silenzio, con intensa pas-sione. È d’uopo che io elenchi alcuni dei suoi lavori,

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Pagine vive

E. Sannino, Meriggio in giardino(1952)

con mostre personali e collettive, come i bustidi spiccate personalità del mondo delle scienzee della cultura, fra cui il busto in bronzo delgrande entomologo Filippo Silvestri, presso laFacoltà Agraria dell'Università di Napoli; ilbusto del Senatore Emanuele de Cellis – insi-gne agronomo – nell'Istituto Tecnico Agrariodi Ponticelli; il busto del celebre avvocato Se-natore Gennaro Marciano nel salone di CastelCapuano. Sempre come scultore, ha partecipato fra l’al-tro a Mostre Quadriennali romane, alle inter-nazionali di Arte Sacra a Roma e a Napoli, ealla mostra d’Arte d'Italia a Budapest. Come pittore: dal 1943 a tutt’oggi è semprepresente nelle massime rassegne italiane, comela VI Quadriennale di Roma, la VI mostra delRitratto a Firenze, mostra di Arti Figurative delMezzogiorno di Roma e Napoli; Mostra Pre-mio Michetti a Francavilla a Mare; Mostra delIX Premio Golfo di La Spezia ecc. Fra i più recenti riconoscimenti: primo premioalla Mostra Nazionale «Città del Corallo» aTorre del Greco; Medaglia d’oro alla Mostradell'Automobile a Napoli; Medaglia d’Oro al

V Premio Posillipo; Primo premio della «Cittàdi Sant’Agnello» a Sorrento; Medaglia d’orodello Spettacolo alla Mostra Nazionale «Cittàdi Gubbio». Questa ardente figura di artista, che vanta laterra della Campania Felice, si presenta investe di pittore dal 1943, ed affronta, con co-raggiosa presa di posizione, contro le troppebrutture e assurdità di tanta sedicente pitturad’oggi, i più vivi problemi della scottante artemoderna, e ne traduce sulle tele, specialmentenell’ultima sua personale del novembre 1968,le sue doti di fantasia, di sapienza, di volume edi squisitezze tonali; nei soggetti più disparati:dal paesaggio alla natura morta. Dalla marinaalla composizione figurativa, che trovano sem-pre riscontro nelle sue vaste opere di sculturagiovanile.Auguro all’insigne maestro un felice e mag-giore successo*.___________

* Ettore Sannino morì a Portici nel 1975 (n.d.r.)

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Nel corso delle Giornate FAI di Primavera, che si sono svolte il 25 e il 26marzo scorsi, in una scuola del Comune di Orta di Atella è andata in scenauna “rievocazione storica” che ricordava il ventennio fascista (v. foto). Perinteressamento del Comitato provinciale ANPI di Napoli, è stata presen-tata dai deputati Carloni, Capozzolo, Chaouki, Impegno, Piccolo Salva-tore, Tartaglione e Valiante una interrogazione a risposta scritta inCommissione al ministro dei beni e delle attività culturali e del turismo eal ministro dell’istruzione, dell’Università e della ricerca, per sapere se in-tendano attivarsi e quali iniziative vorranno predisporre volte a salva-guardare in dette scuole, la necessità di una memoria storica condivisa, inlinea con i dettami della Costituzione, che vede nella XII disposizione finale

un caposaldo dell’antifascismo, del rispetto di tutte le persone che hanno patito i danni e le violenzedelle dittature, a garanzia della libertà e della democrazia. Il Rievocatore condivide le iniziative adot-tate dall’ANPI e dai parlamentari sopra menzionati, e sceglie di farlo con le parole che ha scritto allaredazione Giancarlo Cosenza: «La storia non riuscirà nel futuro a essere maestra in un mondo cosìlontano dalla profondità del pensiero di ciascuno. Non sarà possibile piegare il potere delle idee datala selezione rovescia della specie, diretta al più oscuro isolamento in se stessa. La violenza del sistemaha sfondato l’ideologia in una fase possibile di riflessione e da ora prevarrà la disgregazione dell'am-biente per l'aggressione all'intera sua sostanza energetica da sfruttare al più presto con il conseguenteassideramento dell'umanità con la propria terribile sofferenza avvenire. Le vostre immagini di scarabeiin divisa fascista rivisti ora nella vostra documentazione in e-mail sono orribili come pensiero».

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UNA GLORIA VOMERESE:

FRANCESCA CRIMALDI

di Mimmo Piscopo

Nel Monsignor Perrelli del 28 gennaio 1904 silegge: «Annunziamo ben volentieri che, suproposta del Ministro degli esteri, LeopoldoGremaux è stato nominato cavaliere della Co-rona d’Italia. Il Gremaux, valoroso soldato cheha combattuto per la patria nelTonkino, e dove rimase ferito, eche occupa ora il posto di vice-direttore dei trams provinciali, èuno di quei pochi pei quali puòconsiderarsi la onorificenza benmeritata».Il Gremaux si era trasferitodalla Francia a Napoli verso il1882 con l’incarico di Inspec-teur-Général des Tramways Na-politains, di una società belgaccon sede a Napoli in vialeElena.L’unica figlia di Leopoldo, Cla-risse, nacque nel 1891 e studiòal Convitto Vittoria Colonna ealla scuola di canto del m° Al-fredo Conti. La famiglia era solita trascorrerele vacanze a Montecatini, Fiuggi e Capri.Nel 1901, mentre sul Vomero degli albori na-scevano strade e piazze con giardini e palazziche lo resero luogo di villeggiatura, Gremauxandò ad abitare nel palazzo La Barbera in viaMorghen 36.

Dopo la prima guerra mondiale Clarisse sposòPietro Crimaldi, anch’egli vomerese, figlio delmedico Alberto Crimaldi, sindaco del quartiereAvvocata e avviato alla carriera forense, ilquale visse anche una esperienza di tenore li-

rico, esordendo nel 1920 al tea-tro Verdi di Salerno nellaMadama Butterfly. Dal matri-monio nacquero quattro figli,dei quali la prima fu Francesca(1924), che già da piccola ma-nifestò una predisposizione perle lingue straniere e per quelleclassiche, apprese nel LiceoSannazaro.Franca però eccelse anche suipattini a rotelle, allenandosi dal1937 sulla pista della sala Assininell’ex-albergo Splendid in viaCaracciolo e poi su quella dacompetizione al Lido delle Si-rene di Coroglio nel 1939.Sulla Gazzetta dello Sport

Franca Crimaldi il 30 maggio 1942 scriveva:«In gran segreto vi dirò anzi, che quando co-minciai a pattinare, avevo una terribile pauradi finire male i miei giorni; ma ben presto en-trai in dimestichezza con quelle prodigiose ro-telline e mi parve di essermi impossessata deglialati calzari di Mercurio… nel settembre del

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Nella seduta del 20 marzo scorso il Consi-glio comunale di Napoli ha approvato al-l’unanimità l’ordine del giorno concernentela revoca del riconoscimento della cittadi-nanza onoraria al generale Enrico Cialdini,del quale è primo firmatario il consiglierePietro Rinaldi. Già nella precedente sedutadel 23 dicembre 2016 il Consiglio mede-simo aveva approvato all’unanimità, con mo-difiche, altro ordine del giorno, a firma

consigliere Andrea Santoro, avente per oggetto la rimozione dei busti mar-morei del generale Cialdini e di Camillo Benso conte di Cavour dal salonedella Camera di commercio di Napoli. Ricordiamo ai lettori che il Cialdini,luogotenente civile e militare dei Savoia a Napoli, fu il responsabile delle rap-presaglie di Casalduni e di Pontelandolfo. La questione ha incontrato la duracritica di qualche storico, che ha inteso ravvisare in quelle stragi «piutto-sto… una guerra civile innanzitutto meridionale». Ora, che quelle stragi vifurono e che a ordinarle fosse stato l’alto ufficiale in questione risulta docu-mentato da fonti dell’epoca. Dunque, la loro legittimazione dovrebbe com-portare, per ragioni di parità di trattamento, anche quella attualedell’impiego di gas nervino in Siria, che, viceversa, vogliamo proprio credereche nessuno intenda seriamente propugnare.

1938 al Palazzo di Ghiaccio di Milano neicampionati della G.I.L. colsi la vittoria; nonvi so dire la mia gioia, quando in premio fuicondotta per la prima volta in Germania, Stoc-carda…».La Crimaldi fu campione italiano della C.I.L.di pattinaggio artistico su rotelle cinque voltee di corsa su strada altre due; inoltre, nel 1939,1940 e 1942 fu campionessa italiana assolutadi pattinaggio artistico a rotelle.Franca era allenata dalla madre Clarisse Gre-maux Crimaldi, che poi fu allenatrice della na-zionale italiana, e fu due volte campioned’Europa, mentre il circolo era passato ad al-lenarsi nella palestra ai Cavalli di Bronzo. Nel1936 fu fondato il Circolo “Hockey e Pattinag-gio Napoli”, oggi intitolato a lei, che successi-vamente fu anche allenatrice delle allieve dellostesso, dal quale poi sono nati gli altri circolidi pattinaggio di Napoli.Nel 1956 Franca Crimaldi sposò Ottavio

Nappa, che quattro anni dopo fu impegnatocome giudice arbitro di nuoto e pallanuoto alleOlimpiadi di Roma e successivamente divenneanche giudice nazionale di pattinaggio artisticoinsieme con la moglie.Su La Tribuna del 1° dicembre 1937 LorenzoRecchia scriveva: «Franca Crimaldi… disponedi una maggiore naturalezza; svolge le figura-zioni degli esercizi obbligatori senza indeci-sione e quelli liberi con una personalitàmaggiore delle altre concorrenti; le altre man-cano di quella spontaneità ingenua che distin-gue la Crimaldi».A sua volta il padre di lei, Pietro Crimaldi,scrisse: «Vinceremo? Speriamo bene. Comun-que i nostri ragazzi si batteranno certamenteassai bene. Nel nome di Napoli, di questa no-stra città, sorgente inesauribile di malie e d’in-canti, madre feconda di campioni e d’artisti!»

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FERDINANDO FERRAJOLI. 3

di Dario Cristiano

La villa, pezzo dopo pezzo, riacquista nel-l’immaginario di Ferdinando i volumi, i

colori, la vita di un tempo. La posizione privi-legiata, sul margine delle alte scogliere, glispazi sterminati, i magnifici giardini, l’atmo-sfera stessa che vi circola scatenano ogni sortadi emozione. Ferrajoli vive questa straordinariaesperienza goccia a goccia, al punto che, ter-minato il lavoro, si concede un’ulteriore tappa:il «Salto di Tiberio», un precipizio a stra-piombo sul mare, a ridosso della villa. Qui ilpassato si fa inquietante, la suggestione e l'in-cantamento cedono d'un colpo alla paura e al-l’angoscia. Questo era un luogo di morte.L’altra faccia di Tiberio. Ma Ferdinando puòconsolarsi: in fondo, la caccia agli intellettualie agli uomini liberi, è sport anche dei nostritempi. Dagli ozi delle residenze romane alle solenniarchitetture dei templi greci: ovvero da Capria Paestum. La Soprintendenza continua a in-calzare Ferrajoli, e gli incarichi si susseguono,e spesso si accavallano senza tregua. Proviamo a fare un bel salto indietro. Siamonell’VIII secolo a.C. e dalla Grecia muovonogrossi barconi con il loro carico di fame, di mi-seria, di persecuzioni politiche. L’Italia non èlontana, ma a colpi di remi le distanze nonhanno fine. I primi approdi a Messina e a Reg-gio, poi il lento risalire lungo le coste, fino aCuma, ultimo avamposto, passando per Veliae Paestum. Insediamenti non certo affidati alcaso, ma nati con un occhio alle potenzialità

del territorio. Vale a dire in collina, come Velia,o in fertili pianure vicine al mare pescoso,come Paestum. Per chi viene da una geografia frammentatacome quella delle isole greche, la nostra terraappare come un territorio sconfinato. Il contatto con gli indigeni ha riflessi insospet-tabili. Sia sotto forma di baratto, che di espe-rienze culturali: Ferrajoli ricorda in merito ladiffusione del culto dei morti ad opera degliEtruschi. Né manca quella vivacità commer-ciale che nasce dalla concorrenza. I Fenici sonoabilissimi navigatori, al pari dei Greci, e questodà luogo a non pochi scontri: non si contano leoccasioni di incrociare le armi su un’area,quella italica, dai confini sempre in discus-sione. Una vera e propria guerra, per intensitàe durata, sarà quella fra i Greci e i Lucani. Pae-stum (l’antica Poseidonia) è un’autentica città-bunker, con tanto di mura e profondi fossati,all'occorrenza allagabili. Eppure i coloni de-vono arrendersi alla superiorità anche nume-rica delle popolazioni interne. E come rilevaFerrajoli, quei rattoppi irregolari e rudimentalirinvenuti sulle fortificazioni costituiscono laprova inconfutabile di queste presenze. Nonsolo: sono forse la spia più evidente di un di-verso grado di civiltà. Infatti, come avverrà più tardi nei rapporti frai Romani vincitori e i Greci sconfitti, i rudi Lu-cani escono mortificati dal confronto. E pos-sono soltanto accogliere la cultura dei vinti, acominciare dalla lingua. Poi seguirà il transfert

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di alcuni segni di progresso, primo fra tutti lamoneta. Per l’arte, invece, ci sarà poco da fare.Gli esiti, nonostante ogni sforzo, saranno sem-pre piuttosto lontani dalla perfezione greca. Qui Ferdinando richiama due testimonianzepresenti a Paestum dell’impareggiabile gran-deur ellenica: il tempio di Cerere, oggi giusta-mente attribuito ad Athena, del quale ci sonopervenuti integri il perip-terio, l’ara per i sacrifici euna parte dei muri dellacella; e il tempio di Net-tuno (V secolo a.C.), ilmaggiore esempio di or-dine dorico, addirittura su-periore al Partenone,quanto ad armonia deglispazi e a purezza delleforme architettoniche, se-condo Ferrajoli. Ma prima ancora chel'arte, i Greci trapiantanoin Italia i loro culti. Sindall’VIII secolo a.C. sorgenei dintorni del Sele il san-tuario alla dea Hera Ar-giva, oggi ricostruito nelmuseo pestano, con le pre-ziose metope che ne orna-vano il fregio. Il tema?Scene mitologiche e variparticolari, episodi legatialla colonizzazione. Ferrajoli ha di che inda-gare, fra tavole assonome-triche e scavi fortunati,tanto che una pausa di ri-flessione sembra inevitabile. Basta con le bat-taglie fra Greci e Lucani per la leadership delterritorio e basta anche con la magnificenzadell'arte greca. Ma il divorzio dura poco: iltempo di annusare l’aria, e di cogliere un vagoprofumo di rose. Le celebri rose di Paestum, dicui ai distici di Ovidio, Virgilio, Marziale, Co-lumella. L’archeologo è come irretito. Gliumori della classicità hanno trovato ancora unavolta come insinuarsi e vincere ogni sua resi-stenza.

Con un pizzico di comprensibile vanità, Ferra-joli sottolinea quali difficoltà abbia incontratonel suo lavoro a Paestum e Velia. Difficoltà tec-niche, ma anche ambientali. Siamo infatti neglianni Trenta, e imperversa la malaria, un nomesufficiente a fare il vuoto persino fra gente bi-sognosa di lavorare. Così può cadere a propo-sito l’incarico per gli scavi di Velia, la città

fondata da alcuni coloniFocesi presso il fiumeAlento, col contributo de-cisivo di un ignoto archi-tetto di Paestum. Almenocosì racconta Erodoto. Mal’approdo in quel luogosarebbe avvenuto solodopo il fallimento di di-versi tentativi di sbarcolungo la costa. Così in-torno alla fondazione diVelia c’è un alone di av-ventura e di mistero. Poi la memoria va su digiri: Parmenide, Zenone,Senofane, tutta una scuoladestinata a fare proseliti ea gareggiare in eloquenzae prestigio con quella ate-niese, che avrà in Socratela sua punta di diamante. La città è l’antica Elea:che dominava dall’acro-poli non in virtù di un po-tente esercito, ma grazie alpatrimonio dei suoi pensa-tori. La missione (scavi e rico-

struzione assonometrica) sarà felicemente as-solta. Ora Ferdinando riserva un’ultimaindagine ai resti del Teatro Greco (V secoloa.C.) e a Porta Rosa IV secolo a.C.), l’unicoesempio di arco a tutto sesto che possa vantarela Magna Grecia. Lo spettro della guerra si allunga sinistro e pau-roso anche sulle attività della Soprintendenzae sugli studi di Ferdinando Ferrajoli. La battutad’arresto è inevitabile. Ai primi bombardamenti, la casa di via Gen-

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Chiesa di Fatima in Pagani (Salerno), costruitagratuitamente da Ferdinando Ferrajoli alla finedegli anni cinquanta del secolo scorso, con suoprogetto e direzione dei lavori, sostenuta dallacolletta della comunità. L’edificio all’esterno eall’interno, e le stesse sculture e trabeazionisono interamente scolpite nel tufo, senza stuc-chi. Il campanile a doppia campana è incorpo-rato nel frontone. All’interno le pale sui quattroaltari laterali, raffiguranti Sant’Alfonso, San-t’Antonio, San Gerardo e San Vincenzo, puresono state dipinte dal Ferrajoli.

naro Serra è abbandonata per quella più sicuradi S. Egidio di Montalbino. È un ritorno ai luo-ghi perfetti dell'infanzia, all’ambiente nel qualesi è formato e ha maturato le prime esperienze.Il paese sente l’orgoglio di averlo ospite e fa ditutto per rendergli meno noioso il soggiorno. Sono molti intanto a ricordare che Ferdinandoha fatto studi di pittura e ad associare questasua permanenza al bisogno di restauro di al-cune tele, nella chiesa madre. In verità, anche se preso da un lavoro che nongli ha mai lasciato spazio, Ferdinando ha avutocon la pittura una segreta frequentazione: unasorta di amore clandestino alimentato congrandi sacrifici, ma anche con impagabili sod-disfazioni. Così ha sempre dipinto, ma soltanto per ilgusto di farlo, resistendo sempre alle tante sol-lecitazioni degli amici perché si decidesse afare qualche mostra. Così a S. Egidio, la pittura ritorna prepotente.Nelle lunghe giornate inoperose, i colori e ilcavalletto si alternano ai libri. E in paese c’èsempre qualcuno disposto ad accompagnarloalla ricerca dei panorami e degli angoli piùsuggestivi. Poi, inattesa, un’accorata richiesta: il restaurodella preziosa tela di Luca Giordano, raffigu-rante la Vergine del SS. Rosario. Si è mossauna delegazione per sollecitare il prof. Ferrajolia questo inter- vento, e ogni tentativo per sot-trarsi è pressoché inutile. Le difficoltà del re-stauro, l'impegno richiesto, la scarsaconfidenza con questo tipo di lavoro non fannodesistere i compaesani. Così ha inizio la straordinaria avventura. Fer-rajoli sente che deve operare sotto un duplicevincolo: quello dell’umiltà e quello dell’asso-luto rispetto dell’originale, nelle parti man-canti. Ma il miracolo si compie, e questo gliimpedirà di sottrarsi a una seconda richiesta:quella di arricchire l’altare con due significa-

tive pale. Gli interventi nella chiesa di S. Egidio diMonte Albino terranno banco a casa e all’oste-ria, nelle chiacchierate intorno al fuoco. E na-turalmente superano i confini del paese. CosìFerdinando si trova di fronte a un nuovo invitoche questa volta gli arriva da Pagani. C’è dacostruire la chiesa della Madonna di Fatima earricchirla con quattro pale d’altare. Da notareche tutti questi impegni di natura chiaramentereligiosa, furono portati a termine sempre a ti-tolo grazioso. Dirà ancora una volta di sì, costruendo lavorodopo lavoro, un’ulteriore immagine di sé:quella di un perfetto pittore, che anche dopo ilrientro a Napoli darà valide prove. Penso al rifacimento della pala d’altare su pie-tra al Tempio dell’Incoronata in Piazza Cavour;o al restauro dell'altare di S. Gerardo a Majella,nella chiesa di S. Antonio a Tarsia. Gli anni di violenza e di paura sono ormai pas-sati, e la città si prepara a vivere giorni mi-gliori. Anche le attività culturali, sospese lungogli anni del conflitto, sono ormai in piena ri-presa. C'è un fermento nuovo, e soprattutto unacarica di speranza e di fede in un mondo mi-gliore. Ferrajoli, con i suoi studi e le sue ricerche, è alcentro di questo fervore culturale. Giornali eriviste specializzate chiedono la sua collabora-zione. ln questi anni l’attività pubblicistica del-l’archeologo è intensissima. Ma affianco adessa (e con più larga popolarità) matura la sta-gione delle conferenze e degli incontri. Non c’ècircolo cittadino che non vanti nel proprio ca-lendario la presenza di Ferdinando Ferrajoli.Primo fra tutti l’Artistico, del quale sarà alungo consigliere alla cultura. (3. Continua)______________

* Dal volume di D. Cristiano, Ferdinando Ferrajoli, Na-poli 2000.

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Il Guerriero della Luce si tiene in contatto con Dio, attraverso la pro-pria innocenza e la propria allegria, senza mai perdere di vista la pro-pria missione.

Paulo Coelho

CROMOFILIA PROCIDANA

di Franco Lista

«Sappiamo, che certe città sono gialle, az-zurre, rosse: chi non ha notato il colore

rosso-ferrigno di Bologna, il colore grigio-ar-desia di Genova, il colore giallo-travertino diRoma? Anche Parigi, Londra, Monaco hannotutte un loro particolare colore». Questa attra-ente e efficace considerazione di Gillo Dorflesripropone il cromatismo delle città e degli abi-tati minori, il colore urbanistico e il coloredelle architetture: una sorta di timbro croma-

tico prevalente che permea la scena urbana.Connotate non solo nei vari colori dei materialicostruttivi (mattoni, pietre ardesia, travertino,intonaci), ma anche nel rapporto cromatico chequesti materiali hanno con i colori della natura(cielo, verde, mare, montagne), alcune città ac-quistano espressiva vivacità agli occhi e allasensibilità di chi le osserva e di chi le vive. La riflessione di Dorfles, scritta molti anni fa,largamente anticipatrice del desiderio di ricom-

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porre e tutelare i cromatismi delle città, oggi èdiventata cosa di attualità. Molte amministra-zioni avviano studi e ricerche per i nuclei abi-tativi d’interesse storico, artistico, ambientale,dotandosi di un opportuno piano del colore.Riaffiora il bisogno, represso fino a pocotempo fa da considerazioni di natura sociale,economica e strumentale, di far riacquistare ainostri abitati la perduta originaria ricchezzacromatica. Per questo, il colore ridiventa valoredi comunicazione collettiva, di sensibilità , fre-sca e immediata, dell’opera umana.È un segnale senza dubbio interessante tra itanti inquietanti che provengono dallo scenariodi abbandono e di degrado di molti centri sto-rici, piccoli e grandi che siano.Nei piccoli abitati costieri e delle isole, com’èil caso di Procida, il colore non costituisce unpregio puntiforme, ma dà luogo a un cromati-smo corale di valore ambientale e, allo stessotempo, funzionale in considerazione delle par-ticolari caratteristiche climatiche. Il largo usodi tinte di toni chiari certamente ha un’azioneriflettente nei confronti dei raggi solari, mentreil colore bianco, derivato dal latte di calce, eraprevalentemente e stagionalmente impiegatoper gli estradossi delle volte a gaveta per ra-gioni igieniche legate all’approvvigionamentodelle acque pluviali. Intanto, il contrasto congli azzurri del cielo e del mare formava quellaquasi assoluta originalità che in Grecia è diven-tata simbolo e attrazione turistica.L’osservatore sensibile, il fotografo e il pittoredi paesaggi, da queste policromie, traggonosensazioni complesse che vanno oltre il sem-plice dato cromatico.La complessità attiene al connubio paesaggi-stico tra tinte delle costruzioni, colori della na-tura e la particolare luce esaltata dall’azionespecchiante della superficie del mare. I pittoriper questo parlano di “fusione cromatica” cheè rapporto generativo d’intonazioni e coloritiintrecci, laddove contrasti e definizioni croma-tiche si fondono e si stemperano nella cosid-detta prospettiva atmosferica.D’altra parte, i processi organici di mutamentocromatico complicano e mettono in gioco ul-teriori elementi di riflessione: fattori atmosfe-

rici e ambientali quali luce, dilavamento dellepiogge, umidità e variazioni termiche. Fattoritutti di modificazione e cangiamento dei colorioriginari che tuttavia assumono spesso un va-lore figurativo. Ecco il colore che cambia nel tempo come unciclo organico, una sorta di vita delle tinteggia-ture che da semplici campiture, da pure stesurecromatiche, diventano vere e proprie espres-sioni di pittura materica e informale, anchequeste spontanee come l’architettura dell’isola.Superfici grumose che lasciano intravedere so-vrapposizioni e concrezioni di tinte e materialidiversi, stratificati nel tempo, di sorprendentesensibilità materica, quasi opere informali diartisti contemporanei.Sono le stesse superfici alle quali Leonardo daVinci faceva riferimento nel suo Trattato di pit-tura ed erano stimolo per i suoi «precetti per lenuove invenzioni di speculazione» rivolti albuon allievo che era così sollecitato:

«Se tu riguarderai i muri imbrattati di varie macchie epietre di vari misti. Se arai a invenzionare qualche sito,potrai lì vedere similitudini di diversi paesi, ornati dimontagne, fiumi, sassi, alberi, pianure grandi, valli ecolli in diversi modi… Non isprezzare questo mio pa-rere, nel quale ti si ricorda che non ti sia grave il fermartialcuna volta a vedere nelle macchie dè muri, o nella ce-nere del foco, o nuvoli, o fanghi, o altri simili lochi, liquali, se ben fiano da te considerati, tu vi troverai dentroinvenzioni mirabilissime, che lo ingegno del pittore sidesta a nuove invenzioni…»

Le macchie dei muri nella loro instabilità, perLeonardo, sono fonte creativa, stimolano l’im-maginazione, costituiscono materiale interes-sante per l’artista e direi per qualunque animosensibile alla bellezza. Attenzione dunque aquesta particolare, ulteriore risonanza del co-lore. Un valore dunque che mostra infinite ma-tericità ora tangibilmente compatte, orasgranate nella loro stratificazione, ora dilavateal punto da variare con sottile e casuale finezzail tono del colore. Un valore squisitamente cro-matico che va tutelato, reintroducendo le anti-che tecniche di tinteggiatura, e non annullatocol pessimo ricorso utilitaristico a colori indu-striali che tendono a essere immutabili edeterni; a dare l’effetto, come sostiene ManlioBrusatin, del “nuovo a tutti i costi” come

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quello di un oggetto appena prodotto dalla fab-brica.Una simile angolazione di lettura, nell’aumen-tare il campo d’indagine, ora più proteso versouna complessità cromatica che è la stessa del-l’immagine paesaggistica di Procida, dovrebbeessere presa in seria considerazione; non puòessere mal interpretata o, ancor peggio, lettacome semplice suggestione di malintesaascendenza ruskiniana.L’antefatto di un qualsivoglia piano del coloreche aspira a essere fattibile, principiando dalriconoscimento della comunità sociale a cui èfinalizzato, deve trovare nella prassi la neces-saria condizione di reciprocità tra “comunitàsociale” e “comunità cromatica”. La storica eurbanistica “unità di vicinato” deve poter di-ventare “unità cromatica di vicinato”, nell’ac-costamento e nel misurato contrasto cromaticodelle abitazioni.

«Tutti i colori sono gli amici dei loro vicini egli amanti dei loro opposti». Ecco una straor-dinaria riflessione di un grande colorista, qualeè stato Chagall: una preziosa indicazione pro-gettuale per un possibile Piano del colore.Certamente, va detto che il Piano del colore,imperniato sul recupero della tavolozza proci-dana, è senza dubbio interessante e utile con isuoi sistematici apporti conoscitivi, i procedi-menti di tipo analitico e gli indirizzi di caratteretecnico. Resta pur sempre la necessità di unavalutazione olistica, affidata all’occhio sensi-bile che sappia orientare e declinare la normain ragione della richiamata complessità. Il naturale suggerimento, che vuol essere unostimolo ad agire in proposito, è quello di costi-tuire una “commissione del colore” nel qualevi sia almeno qualche portatore sano di “cro-mofilia procidana”.

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“IL RIEVOCATORE” INFORMATrova finalmente attuazione in Dalmazia l’accordo italo-croato“Dini-Granić” del 5 novembre 1996, rimasto sospeso pervent’anni a causa dell’inerzia dell’Unione italiana di Fiume.Dopo oltre settant’anni dalla chiusura di tutte le scuole italianedi Zara, infatti, sarà aperta una sezione italiana nella scuola ele-mentare di questa città, che ospiterà il prossimo settembre gliallievi dell’asilo “Pinocchio”. Inoltre, gl’italiani di Spalato hanno

ospitato nel liceo linguistico informatico “Leonardo da Vinci” un’intera scolaresca delliceo scientifico “G. B. Grassi” di Lecco (v. foto). Infine, nello stesso liceo dalmata troverà sede unabiblioteca italiana storica, mentre un’altra è già stata realizzata dalla comunità italiana di Spalato.

Il 20 e il 21 maggio scorsi, il “Chioschetto dei fiori” di piazza Vanvi-telli ha ospitato la mostra che, sotto il titolo “Vomero: una storia dibellezza e di curiosità”, ha presentato una selezione di foto d’epocadel quartiere, curata dall’artista vomerese Rosario Muriano, all’inau-gurazione della quale sono stati presenti, in rappresentanza

di questa testata, il direttore, Sergio Zazzera, e il redattore Mimmo Piscopo.

I l d i re t tore e la redaz ione d i questo per iodico s i compl i -mentano con l ’ avvocato Mass imo Sca l fa t i , che, ne l corsodi una cer imonia svol tas i domenica 7 mag gio 2017 ne l labas i l i ca d i San Domenico Mag giore, ha r icevuto l ’ invest i -

tura d i “Domenicano la ico” .

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IL RENE NELLO SCOMPENSO CARDIACO

di Antonio Ferrajoli

Per scompenso cardiaco intendiamo una sin-drome complessa e polimorfa determinatadalla capacità del miocardio di pompare laquantità di sangue necessaria ai bisogni meta-bolici dell’organismo, determinando quindiuna insufficiente perfusione nei tessuti perife-rici. Il buon funzionamento – e, quindi, una si-tuazione di compenso dell’apparatocardiocircolatorio – è do-vuto all’equilibrata intera-zione di molti fattori, dicui i principali sono l’atti-vità del cuore e lo statomorfofunzionale dei vasie del sangue in essi conte-nuto.Quando una patologia in-terrompe l’omeostasi delsistema viene attivata unaserie di modifiche, sia a li-vello cardiocircolatorioche a livello di altri or-gani, che cercano di man-tenere il circolo efficiente e di garantire unaperfusione sufficiente. Questo meccanismoperò può sostenere l’omeostasi sotto determi-nati limiti emodinamici, per cui, se la patologiache ha portato allo scompenso non viene ri-mossa, tali meccanismi diventano non solo in-sufficienti, ma a loro volta nocivi e di ostacoloalla già precaria situazione emodinamica. Ilrene gioca un ruolo importante nei meccanismidi omeostasi in caso di scompenso cardiaco,

sia direttamente mediante la ritenzione idrosa-lina e il sistema renina-angiotensina-aldoste-rone, sia indirettamente mediantel’arginina-vasopressina e mediante l’ormonenatriuremico.Nello scompenso cardiocircolatorio la ridu-zione della pressione arteriosa stimola i baro-cettori arteriosi toracici, renali e del sistema

nervoso centrale e questipromuovono la idrosalinada parte del rene.L’incremento del tonosimpatico, l’attività del si-stema renina-angiotensinae di alcune prostaglandinee peptidi vasoattivi provo-cano la costrizione vasco-lare renale con l’aumentodella frazione di filtra-zione. Oltre alla vasoco-strizione si osserva unmaggiore riassorbimentotubulare di sodio, con la

conseguente ritenzione di acqua. C’è, per unatipica redistribuzione del flusso ematico, unariduzione più marcata a carico del parenchimacorticale.Negli stati iniziali dello scompenso l’urina puòrimanere costante per quantità e composizione.Ma negli stadi più avanzati si osserva la pro-gressiva riduzione dell’ultrafiltrato glomeru-lare con una relativa ritenzione di acqua ecloruro di sodio. Clinicamente si assiste ad una

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inesorabile ritenzione della diuresi fino all’anu-ria. Lo scompenso di questa ritenzione idrosalinaè l’espansione del volume plasmatico cheandrà a beneficio della pressione di riempi-mento ventricolare; naturalmente la ritenzionedei liquidi aumenta il volume plasmatico, mafavorisce l’insorgenza o l’aggravamento degliedemi periferici. Questo meccanismo di com-penso è senz’altro efficace per un periodo ditempo limitato perché l’eccessivo aumentodella quantità dei liquidi trattenuti può aumen-tare le difficoltà della pompa cardiaca.A poche ore dall’inizio dello scompenso car-diaco c’è un incremento di renina plasmatica;essa viene stimolata dalla diminuzione dellapressione a livello dell’arteriola afferente glo-merulare, delle variazioni della concentrazionedi sodio e di cloro a livello del tubulo distale,della diminuzione dei livelli di angiotensinacircolante e dell’asse ipofisi-midollare-surre-nale.L’asse renina-angiotensina-aldosterone coo-pera con il sistema adrenergico per cercare dielevare la pressione arteriosa. La liberazione direnina viene stimolata dai recettori beta-adre-nergici iuxtaglomerulari da parte dell’elevatotono adrenergico locale, oltre che dai betare-cettori attivati dalla riduzione del flusso pla-smatico renale. La renina viene prodotta anchea livello dei vasi sanguigni seppure in misuraminore.La cascata dei componenti del sistema è bennota: la renina attiva l’angiotensinogeno in an-giotensina, che a livello polmonare, renale enei grossi vasi è attivato dall’enzima di con-versione in angiotensina II. E questa è la formaattiva dell’ormone e possiede vari siti di azionea livello del sistema cardiocircolatorio, tuttivolti al mantenimento di un buon volume pla-smatico.A livello renale ha funzione di vasocostrizionesull’arteriola afferente glomerulare con uno sti-

molo in più per il rene al riassorbimento dei li-quidi; a livello surrenale stimola la secrezionedi aldosterone che a sua volta ha una potenteazione a livello renale nel risparmio di sodio ecloro: la presenza nello scompenso cardiaco diun’attività mineral-corticoide aumentata si ri-flette nelle basse concentrazioni di sodio nonsolo nelle urine, ma nel sudore, nella saliva enel riscontro che, come dicevamo, vi è un au-mentato riassorbimento di sodio e quindi diacqua.E ora vorrei parlare un po’ dell’ormone natriu-remico atriale; è un complesso di peptidi rila-sciato, in condizioni normali, da granulisecretori delle miocellule atriali in risposta astimoli derivati dai recettori di tensioni atriali;maggiore è la distensione, tanto più intensa èla secrezione: infatti, nello scompenso cardiacoacuto i livelli di questo ormone sono molto ele-vati, mentre nello scompenso cardiaco cronicoessi non raggiungono mai i picchi che si hannonella patologia acuta.Altre situazioni in cui aumenta l’increzione diquesto ormone sono una dieta ricca di sodio,una infusione iperosmotica, la immersione inacqua sino al collo. La riduzione della sua con-centrazione è indice di miglioramento del qua-dro clinico; d’altra parte recenti studi hannodimostrato una relazione diretta tra alti livelliematici di ormone natriuremico e mortalità.L’azione di questo ormone atriale è quella dicontrastare l’attività ipertensiva adrenergica,reninica e della vasopressina; esso in praticacontrasta la vasocostrizione e la ritenzioneidrosalina.Nell’individuo sano svolge azioni che non siriscontrano nei pazienti affetti da scompensocardiaco: stimola la venodilatazione, inibisceil rilascio di renina ed aumenta la diuresi.Per queste molteplici azioni, questa sostanza fapresumere possibili approfondimenti e appli-cazioni terapeutiche.

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Un rimedio naturale per combattere l’emicrania: bere tuttii giorni un frullato di tre noci, una mela, una banana, unacosta bianca di sedano e del finocchio crudo. (A.F.)

LO SVILUPPO DELL’IDENTITÀ DELL’INDIVIDUO

di Pierino Accurso

L’identità dell’individuo si sviluppa nel per-corso della vita dall'infanzia all’età adulta.Come formiamo la nostra consapevolezza dipersone adulte? Quali variabili concorrono inquesto processo di percorso ed in che modo sisviluppano? Il tentativo di rispondere a questedomande ha interessato la filosofia e la medi-cina per secoli. Più recentemente, indicativa-mente dalla fine del XIX secolo, la psicologiaha tentato di proporre modellidi sviluppo dell’individuo chepossono aiutare ad avere unamappa di riferimento di comesi struttura l’identità. Che siaquesta personale o sessuale. Pur non essendoci un accordoassoluto tra le varie teorie psi-cologiche dello sviluppo del sée dell’identità, ad oggi sono ri-tenuti fondamentali alcuni pas-saggi dello sviluppo psichico.Il bambino possiede una naturale disposizionealla relazione. Egli è un “animale relazionale”ed il suo ambiente di riferimento costituisce,durante il suo percorso di crescita, la base fon-damentale di quella che poi sarà l’identità per-sonale che si può definire come: quello chepenso di me e come mi penso. In questo senso,già a partire dalle teorie psicoanalitiche di Sig-mund Freud della fine dell’800, la relazionecon gli adulti di riferimento è stata individuatacome l’elemento fondamentale per la defini-

zione dell’identità. Naturalmente non è cen-trale soltanto il ruolo delle figure adulte signi-ficative (madre e padre) anche la disposizionenaturale e il contesto sociale più allargato sonofondamentali. A partire dagli anni 60 e 70 del novecento èstato fatto un significativo passo avanti nelcomprendere i meccanismi che portano alla de-finizione della identità individuale e del senso

di sé. L’identità, quindi, comeil risultato delle complesse in-terazioni per il bambino con ilmondo di riferimento, in cui gliadulti, importanti nella suavita, giocano un ruolo di asso-luta rilevanza, sin dalla primis-sima infanzia, fin daiprimissimi momenti di vita. Èa partire dai messaggi che ilbambino riceve e con le cure ela protezione che egli comincia

a farsi un’idea di sé; cioè di essere un individuoche ha un valore perché amato ed ascoltato op-pure, al contrario, di non avere valore perchétrascurato e poco valorizzato. Il ricevere mes-saggi su di sé dal suo mondo lo aiuta a co-struire l’identità e pone le basi per il suo modopersonale di approcciarsi con l’esterno. Sentirsivalorizzato perché amato permette di sentirsipiù sicuri di sé esplorando il mondo e fareesperienze che consentono di acquisire nuoveconoscenze e sicurezze nel circolo virtuoso che

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condurrà all'età adulta. Ovviamente può avvenire il contrario attra-verso messaggi poco positivi o non sufficien-temente convincenti che non permetteranno albambino di sentirsi sicuro ed in grado di esplo-rare l’ambiente di vita circostante. Egli potràsentirsi insicuro dal punto di vista delle rela-zioni o delle proprie capacità di fronteggiare iproblemi, rischiando di dare origine ad un pe-ricoloso circolo vizioso. Prendersi cura di unbambino piccolo significa, quindi, trasmettereuno dei messaggi più importanti che un geni-tore può esprimere ad un figlio. È come se ilgenitore dicesse: «Io mi prendo cura di te,ascolto i tuoi bisogni e li accolgo. Quindi tu seiimportante e prezioso». Sono questi alcunidegli elementi che costituiscono la base delsenso di identità e di autostima. I messaggi che

il bambino riceve gli danno il senso del suo va-lore come essere umano. Da un certo punto divista è come se imparassimo cose su noi stessia seconda di come gli altri ci trattano e si rivol-gono a noi. Nel corso dello sviluppo il ruoloassoluto dei messaggi ricevuti dall’ambienteesterno fin dai primi momenti di vita, gradual-mente si stempera. Con la fine dell’adole-scenza la nostra idea su noi stessi è più stabileed indipendente dall’esterno. Certamente ri-sente ancora di quanto l’ambiente esterno co-munica ma la personalità è ormai definita. Sel’adolescenza si é conclusa in modo compiuto,dal punto di vista psicologico, la risposta alladomanda "chi sono” comincia a trovare rispo-ste sempre più chiare e convincenti.

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RIVISTE AMICHE

NAPOLI [email protected]

dir. resp. Alessandro Migliaccio

IL CIRCOLO CITTADINOpiazza Immacolata, 18

82018 San Giorgio del Sannio (BN);tf. 0824.337104 - [email protected]

dir. resp. Carmela Pagliuca

EDIZIONI 2000via S. Pezzullo, 6,

87020 Marina di Tortora (CS); tf. [email protected]. resp. Franco Greco

SCARP DE’ TENISvia degli Olivetani, 3, 20123 Milano; tf. 02.67479017 - [email protected]

dir. resp. Stefano Lampertico

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Arriva la bella stagione, spuntano come funghi in città e al Vomero in particolare tavolini e seg-giole sui marciapiedi antistanti i bar. Praticamente si cammina facendo lo slalom tra avventoriche sorseggiano aperitivi, maxi gazebo che restringono gli spazi, tra mercanzia e tabelle espostedai commercianti, stando sempre attenti a non incespicare nei mille bozzi con cui si riparano imarciapiedi tutti sconnessi. Da noi si può sorbire una bevanda o un caffè mentre la gente tipassa davanti o di fianco, in tavolini che non sono nemmeno su una pedana, per cui ti trovi aigiene molto compromessa, nel bel mezzo di un marciapiedi sporco. Ognuno fa come gli paree panchine sgabelli e ombrelloni occupano sempre di più il suolo pubblico, in barba ad un ac-cettabile decoro urbano. Pagheranno gli esercenti anche una tassa, ma il tutto origina solo caose disordine nonché ingombro di pubbliche vie. Anche i pedoni pagano le tasse, non certo pervedersi impedita la deambulazione.Elvira Pierri (e-mail)

Risponde il direttore:La gentile lettrice sfonda una porta aperta: più d’uno di noi, in redazione, lamenta, già da tempo,la situazione descritta nella sua lettera. Situazione che, peraltro, la bella stagione aggrava sol-tanto, dal momento che anche d’inverno le strade cittadine sono invase da gazebo, tavolini, sediee quant’altro. In particolare, altresì, risulta pure che la competente Soprintendenza abbia rivoltola propria attenzione ai profili estetici (in sé e in termini di detrimento all’ambiente) delle sud-dette strutture, ma non se n’è saputo più nulla. Quanto, poi, al pagamento della tassa per l’oc-cupazione di suolo, mentre c’è da augurarsi che esso realmente avvenga (e, soprattutto, che ilComune vigili con attenzione sulla sua riscossione), d’altra parte, sarebbe anche auspicabile cheil ricavato trovasse reimpiego nell’eliminazione di quelle “insidie e trabocchetti” presenti nelfondo stradale, un po’ dappertutto. Il che, magari, potrebbe anche incentivare una maggiore di-sponibilità dei pedoni a sopportare il disagio.

Per gli apprezzamenti che ci hanno rivolto ringraziamo i lettori Filiberto Ajello, Luigi Alviggi,Colomba Rosaria Andolfi, Fara Caso, Giovanni D’Amiano, Antonino Demarco, Roberto Ga-briele, Raffaele Giamminelli, Walter Iorio, Raffaele Pisani, Rodolfo Rubino, Filippo Ungaro.

LA POSTA DEI LETTORI

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L’istituto americano Demographic ha rilevato una presenza diindividui napoletani (o di origine napoletana) maggiore di quelladi Napoli in ben quattro città: San Paolo (Brasile), Buenos Aires(Argentina), Rio de Janeiro (Brasile) e Sydney (Australia). La no-tizia, riportata dal sito napolistyle.it, ci è stata comunicata dallettore Aldo Cianci, che ringraziamo.

LIBRI & CD

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In che mondo viviamo?, a c. de Il Sabato delle idee (Napoli, Editoriale Scientifica, 2016),pp. 96, €. 5,00.Sei lez ioni d i geopol i t ica , t enute r i spe t t ivamente da Umber to Ranier i( Israele e Pales t ina ) , Biagio de Giovanni (L’Unione europea ) , LorenzoCremonesi (Cali f fato e Occidente) , Massimo Teodori (America) , Giul ianoFerrara ( I l Vat icano ) ed Ernesto Gal l i del la Loggia (L’Ital ia ) , del ineanogl i scenari del la pol i t ica mondiale di questo pr imo ventennio del secolo,

pref igurandone le prospet t ive future . (S.Z. )

GUIDO BELMONTE - EDOARDO VITALE, Carlo di Borbone Re di Napoli e diSicilia (Napoli, Controcorrente, 2016), pp. 144, €. 20,00.Era doveroso il ricordo del grande sovrano, nel terzo centenario della nascita, e vi hannoprovveduto Belmonte e Vitale, con i due saggi raccolti nel volume qui segnalato. Piùampio risulta quello del primo autore (Carlo di Borbone Re di Napoli e di Sicilia), mag-giormente attento agli aspetti storico-politici del regno, dai “maneggi” della reginamadre per porre il figlio sul trono napoletano, ai provvedimenti – fra l’altro, in materiadi ebrei e di massoneria – e alle realizzazioni – dal teatro San Carlo, all’Albergo deipoveri, alle Residenze reali –, posti in essere da quest’ultimo. Più breve, viceversa, si

presenta il saggio di Vitale (Carlo III fra Rivoluzione borghese e Tradizione), che riflette soprattutto iproblemi storico-giuridici che accompagnarono la transizione dal vicereame al reame, esaminati, peraltro,da un’ottica non sempre condivisibile. (S.Z. )

COLOMBA ROSARIA ANDOLFI, Facile facile. Impariamo la lingua napoletana2

(Napoli, Kairós, 2016), pp. 210, €. 15,00.È una vera e propria promessa, peraltro mantenuta, il titolo di questa fortunata gramma-tica della lingua napoletana, giunta alla sua seconda edizione, riveduta e ampliata. E, in-fatti, l’autrice, nota al pubblico anche per i suoi versi e per i suoi testi teatrali, esponecon chiarezza e sintesi (qualità non sempre congiunte) le regole dell’idioma napoletano,già di per sé tutt’altro che agevoli da individuare, a fronte di un’espressione linguisticaparlata, più che scritta, e quasi sempre bistrattata da coloro che pretendono di renderla

mediante segni grafici. (S.Z. )

GIULIO MENDOZZA, La devozione popolare a Napoli (Napoli, Cuzzolin, 2016), pp.140, €. 13,00.CLAUDIO PENNINO, Chi tene sante, va mparaviso (Napoli, Intra Moe-nia, 2017), pp. 228, €. 12,90.Il primo dei due volumi, che qui si segnalano, esamina dall’ottica della me-moria – a tratti anche nostalgica –, piuttosto che da quella antropologica, iltema della pietà popolare presso i napoletani, attraverso “le Madonne”, i

santi, le edicole sacre e il loro fautore Padre Rocco, il culto dei morti, il presepe, le credenzepopolari, la simbologia, il voto, le novene, le missioni e le giaculatorie. Quasi tutti i capitoli,poi, si concludono con versi di poeti napoletani, con la condivisibile preferenza per quelli meno noti. E

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dev’essere osservato che la tesi dell’ortodossia della religiosità popolare dei napoletani risulta ampia-mente dimostrata, in conformità del proposito dichiarato dell’autore. A sua volta, il secondo di tali volumi, vero e proprio “breviario laico”, dà risalto all’impronta di familia-rità, che caratterizza il rapporto del popolo napoletano con i santi, attraverso l’analisi di proverbi, fila-strocche, giaculatorie e preghiere, nell’espressione idiomatica propria di quel popolo stesso. Il volumemedesimo è illustrato dalla riproduzione di una serie di “santini” popolari napoletani. (S.Z. )

Totò e la gaia scienza, a c. di Orio Caldiron (Napoli, Cinemasud, 2017), pp. 200, €.3,80.La scelta del quotidiano Il Mattino, di celebrare il 50° anniversario della morte di Totòcon la pubblicazione di un’antologia della critica cinematografica sull’attore e sulla suaproduzione artistica, torna quanto mai gradita. Il volume, infatti, consente al lettore didisporre di una panoramica di punti di vista, non soltanto di critici militanti, bensì anchedi registi, di scrittori e di altre personalità della cultura, che permette la ricostruzione atrecentosessanta gradi della personalità dell’artista, nella diacronia parallela della ma-

turazione di quest’ultimo e dell’evoluzione dell’attività critica. (S.Z. )

LUIGI ALVIGGI, Sassi scagliati in alto (Napoli, Istituto grafico editoriale italiano,2016), pp. 292, €. 11,00.Non accade tutti i giorni di recensire un’antologia di recensioni, qual è quella realizzatada Alviggi, il quale ha raccolto in volume una serie di suoi commenti a libri, apparsi sudiverse testate online nel periodo dal 2008 al 2015. Da tutti questi scritti emerge la par-ticolare attenzione dedicata dall’autore ai contenuti delle opere recensite (per lo più, dinarrativa, benché non manchino i saggi) e, parallelamente, al loro impianto strutturale,con l’inserimento di esempi testuali più o meno ampi tratti dalle stesse. Alle recensioni

sono intercalati articoli di attualità (su Bagnoli Futura, sulla mostra del Vasari a Napoli e sul pontificatodi Papa Francesco) e ricordi personali di un recente viaggio in Terrasanta. (S.Z. )

MARGHERITA SAVASTANO, L’asta delle anime2 (Santa Margherita Ligure, Ti-gulliana, 2017), pp. 80, €. 12,00.Una vera e propria licitazione fra l’Angelo Custode e il Demonio, per l’accaparramentodell’anima del protagonista, costituisce il tema del racconto lungo – più che romanzo –della Savastano, intriso di simbolismo, nel quale si avvertono con immediatezza echi,oltre che del barocco Combattimento di Anima e di Corpo, di Emilio de’ Cavalieri, anchedel Faust di Goethe e del Mefistofele di Boito e perfino della più recente Pietà di Vin-cenzo Cerami e Nicola Piovani. Accanto ai problemi filosofici e teologici (dicotomia

materialismo/spiritualismo, trascendenza dell’Essere, tentazione, concezione del Paradiso e del Purga-torio), l’autrice, che esercita la professione forense, non tralascia quelli giuridici, individuabili non sol-tanto nell’idea di un’“asta”, che ricorda il processo di esecuzione civile, ma anche nella concezione dellalegittima difesa. (S.Z. )

ANTONELLO BASSANO, Le origini della chiesa e del patronato di Sant’Antoniodi Padova a Procida (Roma, Nane, 2016), pp. 224, €. 15,00.Il fortuito rinvenimento, nella soffitta di casa, del manoscritto secentesco della Plateadella chiesa procidana di S. Antonio di Padova ha consentito all’autore di ricostruire levicende della fondazione dell’edificio sacro e d’individuare, attraverso i censi dei qualilo stesso godeva, le famiglie verso le quali il medesimo vantava crediti e la misura diquesti ultimi. Ne emerge un quadro dell’economia della grancìa (il quartiere, secondola denominazione dialettale), quanto mai utile per lo studio della storia economica e di

quella sociale dell’isola. A fronte della connotazione inedita del documento adoperato da Bassano, si av-verte la mancanza di una trascrizione integrale dello stesso, il cui originale, tuttavia, donato dall’autoreal Comune di Procida, è ora depositato nell’ufficio parrocchiale della chiesa di S. Antonio. (S.Z. )

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ROMANO NICOLINI, Primi passi sulla strada della lingua latina (Rimini, Associa-zione “Pro Latinitate”, s.d.), pp. 16, f. c. La progressiva compressione dello studio della lingua latina nelle scuole – equivalentealla progressiva perdita delle radici (e non soltanto di quelle linguistiche) del popolo ita-liano – ha indotto Nicolini a fornire agli studenti uno strumento propositivo dei primissimirudimenti di quell’idioma, ivi compresa una serie di curiosità. Il volumetto, del quale esisteanche una versione in lingua inglese, è offerto in formato cartaceo alle scuole e, gratuita-

mente, in formato digitale (pdf) a quanti ne facciano richiesta all’autore ([email protected]). (S.Z. )

WOLF CHITIS con MARCO LOBASSO, Sotto una buona stella (Napoli, LeVarie,2017), pp. 320, € 15,00.È difficile riassumere una vita densa e complessa come quella di Wolf Chitis in un libro.L’impresa è riuscita, grazie alla sapiente penna di Marco Lobasso, riportando in un vo-lume gli episodi che hanno segnato le esperienze umane e lavorative del patron dellaFondedile, incastrati di volta in volta nel quadro storico di riferimento dagli anni del fa-scismo a Tangentopoli, fino alla storia recente. Un percorso lungo ottant’anni nel qualele esperienze personali si intrecciano alla storia d’Italia e non solo, passando dal mondo

dell’imprenditoria alle amicizie nello spettacolo e nella moda, dalla passione per la vela a quella per iltennis, in un racconto che scorre veloce appassionando il lettore e facendo scoprire episodi unici legatia personaggi come Paolo Villaggio, Naomi Campbell, Peppino Di Capri, Aurelio De Laurentiis o HasseJeppson, solo per citarne alcuni. La biografia è il primo prodotto della casa editrice LeVarie e l’incassosarà totalmente devoluto alla LILT. (C.Z.)

PAOLO RASTRELLI (a c. di), Italia 1936 (Napoli, Centro Studi Tradi-zioni Nautiche della LNI, 2016), pag. 74, f.c.Il classe 8 metri S.I. “Italia” trionfò a Kiel nel 1936 in quella che ancora oggiresta l’unica vittoria di un equipaggio italiano a bordo di un’imbarcazione in-teramente progettata e costruita nel nostro paese. In occasione degli ottant’annidall’evento, lo storico Paolo Rastrelli ha raccontato in un volume, attraversoinedite immagini d’epoca, quello storico successo, ricordando le straordinarieregate e il team di atleti, tecnici, progettisti e dirigenti che raggiunsero quel-

l’incredibile traguardo. Ad arricchire il racconto la riproduzione dell’immagine del pallone aerostaticolegato a un rimorchiatore dal quale Leni Riefenstahl aveva ripreso le regate e dalla cui ripresa si riuscì asbrogliare la protesta che portò Italia alla medaglia d’oro, primo caso di prova televisiva su un campo diregata grazie a un rudimentale primo modello di drone. La pubblicazione del volume è stata resa possibiledal sostegno di Garnell e di La Scala Studio Legale. (C.Z.)

* * *

NICOLA DRAGOTTO, L’ultima causa (Napoli, Polosud Records, 2017), €10,00.Primo lavoro discografico per Nicola Dragotto, cantautore siculo-partenopeo,che ha selezionato nove tracce dopo quattordici anni in trincea nel mondo dellospettacolo come cantattore, compositore e direttore artistico musicale. Il disco,prodotto dall’etichetta Polosud Records di Ninni Pascale e arrangiato dal giovanemaestro Giovanni Maria Block, gode della preziosa partecipazione di VincenzoRossi (Diversamente Rossi), di Giuseppe Di Taranto (La Bestia Carenne), diAlessandro Freschi (Freschi Lazzi e Spilli) e di altri noti musicisti della scena

partenopea e nazionale. Il lavoro è il frutto di un lungo processo fatto di continui confronti con gli artistigravitanti nel circuito del Be Quiet, movimento cantautorale napoletano al quale Nicola Dragotto hapreso parte dalla prima ora. Le esperienze e le contaminazioni avvenute, infatti, dall’underground finoallo storico teatro Bellini di Napoli, nuova dimora del Be Quiet, hanno influito notevolmente sulla nascitae sull’evoluzione de “L’ultima causa”. (C.Z.)

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GRETA & THE WHEELS, Greta & The Wheels (Napoli, 2017), € 5,00.Primo EP per Greta & The Wheels. Sonorità new-folk dal sapore tipicamente bri-tannico e nordeuropeo caratterizzano il gruppo composto da artisti giovanissimima già molto convincenti. La band, che per il momento ha scelto di autoprodursi,è nata dall’incontro tra la giovanissima Greta Zuccoli (voce), Lorenzo Campese(tastiere e voce) ed Emiliano Attolini (chitarre). Il primo singolo estratto dalnuovo EP è intitolato Darwin ed è accompagnato da un particolare videoclip fir-mato da Alessandro Freschi. Darwin rappresenta un sogno, un viaggio surreale

attraverso il tempo e lo spazio. Greta vola sul quadrante di un orologio, riconosce il futuro e il passato,il grande e il minuscolo, il pienissimo e il vuoto, fino a unirli alla vigilia del risveglio in un’unica eternadomanda: dove sono finiti gli umani? (C.Z.)

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CI HANNO LASCIATO

Lo scorso 24 febbraio si è spento, all’età di 94 anni, GEGÈ MAISTO

decano dei giornalisti sportivi napoletani, che ha collaborato per oltre mezzosecolo al quotidiano Il Mattino, occupandosi di sport e, in particolare, di ca-nottaggio, specialità alla quale ha dedicato anche un volume, che narra lastoria della Coppa Lysistrata, pubblicato in occasione dei 90 anni dell’evento.Maisto, primo giornalista insignito della Stella d’oro del Coni, è stato anche

dirigente sportivo e arbitro internazionale di pallanuoto. Alla sua famiglia Il Rievocatoreesprime le più vive condoglianze.

* * *

I l mondo del la cul tura a Napol i è in lut to per la scomparsa, di BRUNA CATALANO GAETA

f ig l ia del poeta E.A. Mario, avvenuta i l 6 marzo scorso. Raff i -nata pianista, composi t r ice e autr ice di saggi d i tecnica piani-st ica e di test i scenico-musical i per l ’ infanzia, donna Bruna èora «un Angelo tra gl i Angel i», come l ’ha def ini ta la f igl ia Del ia,al la quale, insieme con i f ratel l i Raffaele e Mario, vanno le più

vive condogl ianze de I l Rievocatore .

* * *

Si è spento nella sua casa di Varcaturo PAOLO DE CRESCENZO

pallanuotista, formatosi sotto la guida di Fritz Dennerlein, alla Canottieri Na-poli, e passato successivamente al Posillipo, di cui è stato poi allenatore.Da atleta conquistò quattro scudetti e la Coppa dei Campioni; da allenatoreportò la squadra alla conquista di nove scudetti, due Coppe Italia, dueCoppe delle Coppe, due Coppe dei Campioni e della Supercoppa europea.

Dal 2003 al 2005 ha guidato anche la Nazionale e dal 2013 l’Acquachiara Napoli. De Cre-scenzo, che era nato a Napoli nel 1950, è deceduto il 2 giugno scorso. Il Rievocatore si as-socia al dolore della famiglia e del mondo sportivo.

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CRITERI PER LA

COLLABORAZIONELa collaborazione a Il Rievocatore s’intende a titoloassolutamente gratuito; all’uopo, all’atto dell’inviodel contributo da pubblicare ciascun collaboratore ri-lascerà apposita liberatoria, sul modulo da scaricaredal sito e da consegnare o far pervenire all’ammini-strazione della testata in originale cartaceo comple-tamente compilato.Il contenuto dei contributi impegna in manieraprimaria e diretta la responsabilità dei rispettiviautori.Gli scritti, eventualmente corredati da illustrazioni,dovranno pervenire esclusivamente in formato di-gitale (mediante invio per e-mail o consegna su CD)alla redazione, la quale se ne riserva la valutazioneinsindacabile d’inserimento nella rivista e, in caso diaccettazione, la scelta del numero nel quale inserirli.Saranno restituiti all’autore soltanto i materiali deiquali sia stata rifiutata la pubblicazione, purché per-venuti mediante il servizio di posta elettronica.L’autore di un testo pubblicato dalla testata potrà farriprodurre lo stesso in altri volumi o riviste, anche secon modifiche, entro i tre anni successivi alla suapubblicazione, soltanto previa autorizzazionedella redazione; l’eventuale pubblicazione dovrà ri-portare gli estremi della fonte.La rivista non pubblica testi di narrativa, com-ponimenti poetici e scritti di critica d’arte riflet-tenti la produzione di un singolo artista vivente. Gliannunci di eventi saranno inseriti, sempre previa va-lutazione insindacabile da parte della redazione, sol-tanto se pervenuti con un anticipo di almeno settegiorni rispetto alla data dell’evento stesso. I volumi,cd e dvd da recensire dovranno pervenire alla reda-zione in duplice esemplare.È particolarmente gradito l’inserimento di note a pie’di pagina, all’interno delle quali le citazioni di biblio-grafia dovranno essere necessariamente strutturatenella maniera precisata nell’apposita sezione del sitoInternet (www.ilrievocatore.it/collabora.php).

Direttore responsabile: SERGIO ZAZZERARedattore capo: CARLO ZAZZERARedazione: GABRIELLA DILIBERTO,ANTONIO LA GALA, FRANCOLISTA, ELIO NOTARBARTOLO,MIMMO PISCOPOPast-director: ANTONIO FERRAJOLI

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Registrazione:Tribunale diNapoli, n. 3458 del 16 ottobre 1985

Fascicolo chiuso il 9 giugno2017, pubblicato online ai sensidell’a. 3-bis l. 16 luglio 2012, n.103.

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Alfons Maria Mucha, L’Estate

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Il cuore e la ragione discute-vano e il dubbio sedeva tra loro.

Nino Salvaneschi

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