Anno LXV n. 2 Aprile-Giugno 2019 - Il Rievocatore

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TRIMESTRALE DI ARTE, SCIENZA E CULTURA FONDATO DA SALVATORE LOSCHIAVO Anno LXV n. 2 Aprile-Giugno 2019

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TRIMESTRALE DI ARTE, SCIENZA E CULTURA FONDATO DA SALVATORE LOSCHIAVO

Anno LXV n. 2 Aprile-Giugno 2019

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IN QUESTO NUMERO:

Editoriale, Il futuro della memoria p. 3

A. Ferrajoli, Le armi primordiali p. 4

A. La Gala, Un lascito romano: lasuperstizione p. 5

E. Notarbartolo, Attila e ValentinianoIII p. 7

E. Aloja, La Madonna di Montevergine p. 8

M. Piscopo,Il casale di Santo Strato p. 11

R. Salvemini, Il Monte Pio dei Marinaidi Torre del Greco p. 12

O. Dente Gattola, Carlo III primo redelle Due Sicilie p. 14

F. Ferrajoli, L’incanto della Favorita p. 17

A. Cianci, A Pietrarsa i primi martiridel lavoro p. 19

F. Lista, Originalità è ritorno alle origini? p. 21

Angelo Incagnoli p. 24

G. Belmonte, La donna nella letteraturadella nuova Italia.1 p. 26

Manifesto della fotografia futurista p. 32

R. Pisani, Il 25 aprile p. 34

U. Franzese, Dalla lingua al modo dipensare p. 35

N. Dente Gattola, Napoli è ancora unacapitale? p. 37

S. Zazzera, L’eccidio di San SalvatoreTelesino p. 39

M. Florio, La lezione della storia p. 43

Libri & libri p. 45

La posta dei lettori p. 48

UN PO’ DI STORIA

Alla metà del ventesimo secolo Napoli anno-verava due periodici dedicati a temi di storiamunicipale: l’Archivio storico per le provincenapoletane, fondato nel 1876 dalla Deputa-zione (poi divenuta Società) napoletana distoria patria, e la Napoli nobilissima, fondatanel 1892 dal gruppo di studiosi che gravitavaintorno alla personalità di Benedetto Croce eripresa, una prima volta, nel 1920 da Giu-seppe Ceci e Aldo De Rinaldis e, una secondavolta, nel 1961 da Roberto Pane e, poi, daRaffaele Mormone.In entrambi i casi si trattava di riviste redatteda “addetti ai lavori”, per cui Salvatore Lo-schiavo, bibliotecario della Società napole-tana di storia patria, avvertì l’esigenza diquanti esercitavano il “mestiere”, piuttostoche la professione, di storico, di poter disporredi uno strumento di comunicazione dei risul-tati dei loro studi e delle loro ricerche. Nacquecosì Il Rievocatore, il cui primo numero dataal gennaio 1950, che godé nel tempo dellacollaborazione di figure di primo piano delpanorama culturale napoletano, fra le qualimons. Giovan Battista Alfano, Raimondo An-necchino, p. Antonio Bellucci d.O., GinoDoria, Ferdinando Ferrajoli, Amedeo Maiuri,Carlo Nazzaro, Alfredo Parente.Alla scomparsa di Loschiavo, la pubblica-zione è proseguita dal 1985 con la direzionedi Antonio Ferrajoli, coadiuvato dal com-pianto Andrea Arpaja, fino al 13 dicembre2013, quando, con una cerimonia svoltasi alCircolo Artistico Politecnico, la testata è statatrasmessa a Sergio Zazzera.

Ricordiamo ai nostri lettori che inumeri della serie online di que-sto periodico, finora pubblicati,possono essere consultati e scari-cati liberamente dall’archivio delsito: www.ilrievocatore.it.

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Editoriale

IL FUTURO DELLA MEMORIA

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L’atto di rievocare costituisce una delle estrinsecazioni della funzione umana della memoria, dellaquale Massimo Recalcati, psicoterapeuta lacaniano, individua tre possibili forme.

La prima è quella che egli definisce “memoria-archivio”, una sorta di contenitore del passato, dotatodi una potenzialità meramente archeologica, idonea a custodire la stratificazione delle tracce delpassato individuale e null’altro. La seconda è quella che Recalcati medesimo denomina “spettrale” e che corrisponde al coacervo diricordi del passato che, formatisi in conseguenza di un trauma, irromponocon prepotenza nella nostra mente, tormentando l’esistenza, proprio comefarebbe un fantasma.La terza, infine, è la “memoria-attributo del futuro”, quella, cioè, che, mo-vendo dal punto di osservazione del presente, getta un ponte fra il passatoe l’avvenire, aiutando ciascuno di noi a modellare quest’ultimo, alla lucedell’esperienza di quello. Già Cicerone asseriva: «Historia vero testistemporum, lux veritatis, vita memoriae, magistra vitae, nuntiavetustatis» (De Or., 2,9,36), ed è a tale affermazione che corrisponde lospirito di questa terza forma di memoria, che segna il punto d’incontro framemoria e storia, sollecitando a evitare, in prospettiva, le conseguenze dannose della “memoria corta”.Peraltro, questa forma di memoria, intesa nel senso di “memoria come progetto”, costituisce anche ilfil rouge dei contributi che integrano il recente volume collettaneo Il mondo capovolto, nel qualesono ripercorse le vicende del Sessantotto a Napoli (v. il box a p.13 e la recensione a p. 47).Ebbene, è proprio quest’ultimo l’obiettivo che, attraverso gli scritti che di volta in volta propone, ancheIl Rievocatore si prefigge di raggiungere, augurandosi di riuscirvi.

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Non è bene velare la filosofia; il pensiero di Aristotele non deve venirenascosto, anche se è contrario alle verità di fede.

Sigieri da Brabante

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di Antonio Ferrajoli

Quando l’Eterno Padre creò l’Universo – e alcuni astronomi dicono che ne esistono addirit-tura due, comunicanti mediante i “buchi neri” –, creò anche il nostro “Pianeta azzurro”,

denominato così dagli astronauti, che lo osservavano dal loro modulo mentre navigavano nellospazio.Adamo ed Eva, creati da Dio in questo stupendo pianeta, si cibavano di frutta e la notte si ri-scaldavano e tenevano lontani gli animali, strofinandoviolentemente alcuni sassi che emanavano scintille eaccendevano con piccoli arbusti il fuoco: così si di-fendevano dalle belve con qualche ramo spezzato dalvento.Col passare del tempo, l’uomo si accorse che, spac-cando due pietre e cozzandole l’una contro l’altra, sipotevano ottenere delle punte. Queste pietre erano diselce e così l’uomo inventò le prime armi: applicandouna punta su una canna, inventò la lancia e, poi, lefrecce. La selce si trovava sulla superficie del terrenoo poco sotto e i primi arnesi in silice sono denominati “eoliti” dagli archeologi.L’uomo mise a frutto l’evoluzione delle proprie tecniche, producendo due strutture silicee, lascheggia e il nucleo. La prima veniva utilizzata per fare raschietti, punte di freccia, coltelli; ilsecondo, a sua volta, veniva impiegato per lavorare il legno, facendone martelli e clave.Con l’avvento del periodo mesolitico, circa 12.000 anni or sono, l’uomo imparò a lavorare altrimateriali e prese a forgiare i propri strumenti molandoli. Il periodo neolitico, verso il 2.500 a.C., vide un’adozione più generalizzata di questa tecnica, nonché un miglioramento globale dellaqualità degli arnesi di selce. L’uso dell’arco e delle frecce, all’inizio del neolitico, divenne piùdiffuso e, specialmente con i pezzi più grossi di selce, l’uomo inventò l’ascia.

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LE ARMI PRIMORDIALI

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I proverbi spesso si contraddicono. È in ciò che si cela la saggezzadei popoli.

Stanisław Jerzy Lec

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UN LASCITO ROMANO: LA SUPERSTIZIONE

di Antonio La Gala

Uno dei luoghi comuni che caratterizzanolo stereotipo del napoletano è la supersti-

zione. Una parte di essa si può addebitare e farrisalire a lasciti degli antichi Romani. Questi si ponevano di fronte alla divinità in unrapporto contrattuale, nel senso che ritenevanoche una volta ottemperato a quelliche essi consideravano loro obbli-ghi di culto, gli dei erano obbligatia benvolerli, e quindi era inutile“fare di più”; il di più era superfluo,una super-stitio, un sopra/ssedere.Però ottemperare agli obblighi diculto significava seguire meticolo-samente, specialmente prima di unevento importante, per esempio unabattaglia, tutta una serie di atti, dipiccole formalità, che noi giudiche-remmo superstiziosi e scaramantici,che se non eseguiti in maniera opportuna al-lontanavano la benevolenza divina.Questa, come pure la sua malevolenza, si espri-meva con moltissimi segni, come un fulmine,un tuono, una caduta prima di fare qualcosad’importanti; erano avvisi di sciagure anchealtri “segni” per noi “non segni”, come scen-dere dal letto con il piede sinistro, oppure, in-terpretati da specialisti del settore, gli aruspici,il modo di volare di uccelli, ecc. Anche se ac-quisita “per contratto” la benevolenza deglidei, i Romani, per meccanismi la cui interpre-tazione fenomenologica comportamentale

esula da queste righe, seguivano una minuziosaserie di atti scaramantici per non incorrere indispiaceri. Tutto quanto fin qui detto fa parte del bagagliodella superstizione di ogni luogo: qual è invecela continuità, la discendenza di quella napole-

tana da quella dei Romani?Anzitutto anche nella religiositànapoletana c’è una componente“dialogante” con le varie entitàsacre, mediante tacite e implicite“pattuizioni” fra devozioni e richie-ste. Poi c’è una continuità nella tradi-zione di alcuni degli atti scaraman-tici che i Romani eseguivano pernon incorrere in dispiaceri, il cuisenso originario nel tempo è andatoperduto, mentre in altri è rimasto

palese. Fra quelli con senso perduto c’è l’usoscaramantico del corno. Conoscendo il sensooriginario qualcuno potrebbe rivedere l’abitu-dine di appendersi sul gilet un cornetto rosso,o peggio ancora accarezzarlo. Infatti il corno èla versione stilizzata del fallo del dio greco-ro-mano Priapo, particolare notoriamente sopra lerighe, trattandosi del dio della forza generatricee della fecondità. Affonda nelle usanze romane il ricorso alle fat-tucchiere (ne scrivono, fra gli altri, Teocrito,Orazio e Ovidio), come ad esempio gli incan-tesimi fatti su figure di cera, immagini sostitu-

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tive delle persone da colpire o salvare dalle fat-ture. Il Medioevo ed il Rinascimento trasformaronole fattucchiere in streghe, dal nome (striges)con cui i Romani indicavano le civette, animalisospettati di succhiare il sangue dei bambininelle culle. In terra campana, Benevento, apportando qual-che variante di origine longobarda alle super-stizioni romane,diventò la patriadelle streghe, so-spettate di riunirsied accoppiarsicon Belzebù. Leinfernali riunioniavvenivano at-torno ad un alberodi noce sito nellaproprietà di taleFrancisco De Januario, motivo per cui, se-condo alcuni, le streghe diventarono, nel voca-bolario corrente, janare, nome con cui inapoletani indicano anche le donne aggressive,“streghe” in senso caratteriale.Talvolta, però, la figura della strega-fattuc-chiera poteva assumere una valenza positiva,quella di una maga benefica, una “fata”. Ma seesistono le fate, perché non tenerne una incasa? Ed ecco che la credenza romana nei Lari,numi tutelari della casa, si trasforma nella cre-denza napoletana della bella ‘mbriana, la ver-sione femminile del monaciello, altra figuranapoletana presa di peso dal mondo latino. Unfolletto infatti lo troviamo nel Satyricon di Pe-tronio (cap. XI), dove uno dei commensali

della cena di Trimalcione trova un tesoro gra-zie ad uno di questi fantasmini, ritenuti dai Ro-mani custodi di tesori nascosti che facevanoscoprire solo a quelli che loro ritenevano me-ritevoli di possederli.Una serie di superstizioni, in un certo senso ri-conducibili al mondo latino, è quella cresciutaattorno alla figura di Virgilio (v. foto sotto). Su “Virgilio mago” nel Medio Evo a Napoli

c i r c o l a v a n omolte leggende.Era credenza dif-fusa che il poetaavesse sistematonelle fondamentadi quello che poidiventerà Casteldell’Ovo, un uovo,appunto, chiuso inuna brocca di cri-

stallo, a sua volta protetto in una gabbia diferro, e che Napoli sarebbe continuata ad esi-stere finché quell’uovo rimaneva sano. Virgi-lio, poi, avrebbe costruito un cavallo di bronzoche fino a quando rimaneva sano preservava icavalli veri dell’imperatore Augusto da ognimalanno. Avrebbe poi scacciato dalla città unagigantesca invasione di mosche, collocandouna mosca, anch’essa di bronzo, sopra unaporta fortificata, che allontanava dalla città levere mosche. Relegò dietro la porta detta Fer-rea tutti i serpenti della città, ed altre cose si-mili.Una proposta: “richiamarlo in servizio”. Oggisarebbe molto utile.

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Il nostro past-directorAntonio Ferrajoli e la sua gentile signora nei loro ritratti giovanili dipinti da Ferdinando Ferrajoli

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ATTILA E VALENTINIANO III

di Elio Notarbartolo

Nel 450 d. C. l’impero romano di Occidente cercava di nascondere la sua debolezzaal proprio popolo.

Valentiniano nipote della più nota Galla Placidia, immortalata nei mosaici di Ravenna,era il giovane imperatore romano di Occidente e Attila era il feroce re degli Unni.Essi avevano già conquistato una grande parte dell’attuale Europa orientale, ed eranocapaci di spaventare tutti, anche il potente imperatore romano di Oriente, Teodosio.La astuta ed esperta diplomazia occidentale, sebbene in situazione di grave difficoltà,riuscì a stipulare un accordo con Attila e si fece aiutare a sottomettere i Visigoti che giàavevano conquistato un grosso territorio in Gallia e Germania.Attila, però, si rivolse anche contro l’Italia e, sapendo che Valentiniano non poteva or-ganizzare un forte esercito, chiese un grosso tributo in oro: quasi 2000 kili di oro! Va-lentiniano non voleva far apparire tutta la sua debolezza, e allora, invece di acconsentirea riconoscere ad Attila il contributo da lui chiesto, lo nominò magister militum dell’eser-cito di Occidente e fece passare il tributo richiesto sotto forma di stipendio che gli Unniricevevano per la “gestione” degli affari militari dell’Impero di Occidente.

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Attila Valentiniano III

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LA MADONNA DI MONTEVERGINE

di Ennio Aloja

1. Dall’antico tempio di Cibele alla chiesadella “Madonna di san Guglielmo”.Le religioni arcaiche, ariane ed indoeuropee, equelle del mondo classico collocano presso lecime dei monti le dimore di divinità uranichee telluriche e lì elevano loro templi perché con-trollino la forza di una natura ambivalente,madre e matrigna. La tradizione biblica pre-senta le cime dei monti come il sito in cui Dioparla alle guide del popolo di Israele e si ma-nifesta a Gesù, suo figlio unigenito, salvatoredel mondo.Montevergine, una montagna sacra della nostraCampania Felix, è meta, da oltre tremila anni,di famosi pellegrinaggi, oggetto di approfon-dite ricerche etno-antropologiche sulla straor-dinaria continuità di antiche manifestazionicatartiche e penitenziali. Qui, tra i monti e i bo-schi della verde Irpinia gli Osci, un popolo in-doeuropeo di provenienza anatolica, avevanoeretto un tempio a Cibele, la grande madre chegovernava i cicli stagionali della vegetazione.La divinità frigia, assimilata in seguito alle po-tenti dee dell’Olimpo greco-latino, è stata ado-rata fino alla tarda antichità romana. A lei,raffigurata con il capo cinto da una corona tur-rita, assisa su di un trono circondato da tori eleoni, era tributato un culto orgiastico iterantela morte e rinascita del figlio-sposo Attis e l’in-controllata passione amorosa nutrita per luidall’ermafrodito Agdisti. Sulle rovine del tempio pagano, a 1270 metridi altitudine, san Guglielmo da Vercelli co-struirà, nei primi decenni del XII secolo, un

monastero eduna chiesa de-dicata a Ma-riaSan t i s s ima ,Virgo, MaterDei et ReginaCoeli. Erededell’esemplaree s p e r i e n z aanacoretica e,poi, cenobiticadi san Bene-detto da Nor-cia, di cuisegue la regola, fondamento del monachesimooccidentale e precursore, nella sequela Christi,della radicale opzione ascetica e pauperisticadi san Francesco d’Assisi, san Guglielmo daràvita ad un’oasi mariana famosa nell’Europacristiana.Secondo alcuni studiosi il dipinto della “Ma-donna che dà il latte al Figlio Divino”, databileai primi anni del Duecento e custodita nelmuseo del santuario, è l’originaria contemplatada san Guglielmo e dai frati verginiani. È tre-centesco il dipinto che ha sovrastato l’altarmaggiore della chiesa, più volte ristrutturatanei secoli e che, dal 1961, lo sovrasta nelnuovo e maestoso santuario. Milioni di pelle-grini hanno impetrato e ricevuto grazie dalla“Mamma Schiavona” raffigurata nello stereo-tipo bizantino dell’Odighitria.

2. Le tre Marie di Montevergine.Gli storici dell’arte parlano di tre icone mariane

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ammirate dai pellegrini a Montevergine, dalprimo ventennio del XII secolo ad oggi. La prima icona, di cui non abbiamo documen-

tazione, era custodita nella piccola chiesa co-struita da san Guglielmo e dai suoi discepoli,consacrata nel 1126 da Giovanni vescovo diAvellino. Il secondo dipinto, attualmente visibile nelmuseo del santuario, risalente al 1182, raffi-gura la Madonna che dà il latte a Gesù infante. La terza icona, che ammiriamo ancora oggi,sovrastante l’altar maggiore del nuovo santua-rio, è legata ad una millenaria tradizione difede. La facies, nel I secolo, era considerataacheropita, mentre il resto del dipinto, ultimatoda san Luca evangelista, inclito taumaturgo epittore, costituiva un devoto omaggio allaTheotokos. Eudossia, imperatrice d’Oriente,nel V secolo, fece traslare la sacra icona da Ge-rusalemme a Bisanzio: il dipinto, denominato“Santa Maria di Costantinopoli”, era ammiratoda migliaia di pellegrini. La prima traslazionedella sola facies in Occidente fu operata daBaldovino II nel XIII secolo. L’imperatore la-tino d’Oriente, sconfitto dai Bulgari e dai Bi-zantini guidati da Michele Paleologo, fucostretto ad abbandonare in fretta Costantino-poli. Egli portò con sé alcune testimonianze difede e di arte, tra cui il volto della Vergine fattorecidere dal resto del dipinto. La facies ma-riana, patrimonio dei Valois, toccò in eredità aCaterina II, che, sposa di Filippo d’Angiò, laportò a Napoli. Nonostante l’insistenza degliecclesiastici, che le suggerivano di collocarla

in una chiesa della capitale, ella decise di do-narla ai verginiani.Nella domenica di Pentecoste del 1310 tuttaNapoli raggiunse, in un pellegrinaggio catar-tico e penitenziale, il santuario di Montever-gine. Con Filippo II di Taranto e Caterina II diValois Napoli angioina era rappresentata dallanobiltà di corte e del regno, da vescovi ed espo-nenti delle corporazioni delle arti e dei mestierie da una plebe scalza ed orante. Alcuni studiosisostengono che il pellegrinaggio duale, sincre-tico dei devoti napoletani alla “Mamma Schia-vona” iniziò proprio in quella Pentecoste del1310.Lasciamo volentieri agli storici dell’arte la ve-xata quaestio dell’attribuzione del dipinto aPietro Cavallini o a Montano d’Arezzo, pittoridel XIV secolo, operanti nella Napoli angioina.Preferiamo accostarci, da credenti, alla pietaspopolare che da secoli impetra grazie, conamore filiale, alla “Mamma Schiavona” cosìdetta per il colore bruno del volto, simile aquello degli schiavi saraceni.

3. “Jammo a truva’ Mamma Schiavona”: ilpellegrinaggio pentecostale a Montevergine.Il nuovo santuario di Montevergine, ultimatonel 1961, accoglie oggi oltre due milioni di pel-legrini, accomunati dalla stessa devozione edalle stesse manifestazioni culturali. Per secoli,e fino al secondo dopoguerra, i bianchi frativerginiani hanno assistito all’epilogo di due di-versi, distinti pellegrinaggi, quello dei “cafoni”e quello dei napoletani. I primi, provenientidalle località campane e del Meridione toccateda san Guglielmo, raggiungevano il santuarionelle canoniche feste mariane. I secondi ascen-devano al tempio della “Mamma Schiavona”quasi esclusivamente a Pentecoste, la Pasquadelle rose.Lo storico pellegrinaggio della pietas popolarenapoletana è stato demonizzato come anacro-nistica persistenza del culto osco tributato a Ci-bele. La potente Magna Mater ctonia, dea deiboschi e degli animali selvatici, aveva il suotempio proprio dove sorge il santuario ma-riano. Ancora oggi una narcisistica erudizionelibresca insiste nel sostenere il dualismo sacro-profano, cristianesimo-paganesimo, Maria-Ci-

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bele, invece di ap-profondire la pros-simità del Cristoagli anawim, allavera fede del cuore.Lasciamo ai nostal-gici della Napoliche fu la letturadelle pagine del Bi-dera e del Rea. Essihanno evidenziato,nei minimi partico-lari, la singolaredualità del pellegri-naggio penteco-stale. Jammo a

truva’ Mamma Schiavona: nobili, borghesi epopolo basso animavano una peregrinatio chedurava quattro giorni, dall’aurora del venerdìal tramonto del lunedì. La singolare dualità, identitaria del popolo na-poletano, coniugava gioia e dolore, ricchezzae miseria, maéste e figlióle, giovani promessi

sposi e coppie anziane. Rigettiamo lo stereo-tipo di una Napoli edenica, solare, meta del tu-rismo elitario d’Europa, abitata, però, dadiavoli, da lazzari incolti, violenti e sanfedisti.Dietro quest’immagine ambivalente, superfi-ciale, c’è la millenaria, sincretica pietas di unpopolo. Dietro le manifestazioni cultuali delleclassi subalterne napoletane, e non solo, scor-giamo straordinarie stratificazioni e contami-nazioni di civiltà. Certo c’erano i bottiapotropaici della partenza da Porta Capuana,le nacchere delle tarantelle lungo le soste, letammurriate pedemontane, l’assordante con-certo di tricchebballacche, scetavajasse e pu-tipù, le arretenate nolane e partenopee delritorno. Ma, varcato il limen del santuario,c’erano i pellegrini del dolore: si urlavano preciper le guarigioni, si avanzava, in ginocchio ein lacrime, fino all’altar maggiore, volgendo losguardo supplichevole a Maria per impetraregrazie. La fede del cuore chiede e riceve mira-coli!

Si è spento a Napoli, il 22 marzo scorso, il professore SILIO AEDO VIOLANTE,avvocato amministrativista e docente di Diritto amministrativo e Diritto degli entilocali. Nato ad Avezzano (AQ), il 15 gennaio 1925, Violante frequentò il liceo San-nazaro di Napoli, impegnandosi, fin d’allora, nella lotta antifascista, e ottenendo,dopo la Liberazione, il riconoscimento della qualifica di partigiano. Storico espo-nente della sinistra napoletana, ha ricoperto la carica di presidente onorario del Co-

mitato provinciale A.N.P.I. di Napoli. Per i suoi meriti professionali e politici fu insignitodell’onorificenza di commendatore della Repubblica. Il Rievocatore partecipa al lutto della famigliaper la scomparsa dell’illustre estinto.

È deceduto in Ocre (AQ), il 3 aprile scorso, il professore FERDINANDO BOLOGNA,illustre storico dell’arte, allievo di Pietro Toesca e collaboratore di Roberto Longhi.Bologna, che era nato a L’Aquila il 27 settembre 1925, ha insegnato Storia dell’artemedievale e moderna nell’Università degli Studi di Roma “Tor Vergata” e Metodolo-gia e storia della critica d’arte nell’Università degli Studi di Napoli “Suor Orsola Be-nincasa”. È stato, altresì, socio dell’Accademia Pontaniana e dell’Accademia diArcheologia, Lettere e Belle Arti di Napoli. Il Rievocatore porge le più vive condoglianze alla classeaccademica, che annoverò tra i suoi esponenti di spicco l’illustre scomparso.

Si è spento in Napoli, il 7 aprile scorso, il professore VINCENZO GIUFFRÈ, emeritodell’Università degli studi di Napoli “Federico II” e socio dell’Accademia Ponta-niana. Nato a Nocera Inferiore nel 1940, Giuffrè si era laureato a Napoli, a relazionedel prof. Antonio Guarino, col quale aveva collaborato, fino al conseguimento dellacattedra di Istituzioni di diritto romano, dapprima a Camerino e, poi, a Salerno e,infine, a Napoli, esercitando contemporaneamente la professione forense. Alla fa-miglia giungano le condoglianze de Il Rievocatore e, particolarmente, del direttore,

che con l’illustre scomparso ha intrattenuto in passato un lungo rapporto di collaborazione.

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IL CASALE DI SANTO STRATO

di Mimmo Piscopo

Via dalla pazza folla. Viene così in mente il titolo del famoso romanzo di Thomas Hardyquando si vuole scappare dal tumulto della città, alla ricerca di quiete sempre più rara.

Una privilegiata mattina di primavera inoltrata ci induce ad evadere nel necessario distacco, perrecarci verso luoghi non molto distanti dalla calca cittadina, in salutare passeggiata in quel diPosillipo, premessa di sano isolamento. Ci invita così uno dei casaliche caratterizzano il quartiere: Santo Strato.Attraverso invitanti stradine dalle immutate condizioni abitative cherichiamano epoche diverse, si presenta una piazzetta con una mo-desta chiesa dalla facciata classico-rinascimentale, parrocchia inti-tolata a Santo Strato, attorniata da rustiche casette curate conevidente amore dai suoi abitanti e dove si notano rigogliose piantedai fiori multicolori.Nel silenzio ovattato si avverte una particolare aria di bucolico vis-suto dove occasionali passanti salutano con sincera spontaneità i vi-sitatori, che evidenziano stupore per la rara atmosfera d’altri tempi.Istintivamente viene da parlare sottovoce, nel timoroso calpestionella magica quiete dei vicoletti, con suggestive edicole votive esottoportici che si affacciano su balze di verde incontaminato che dirada giù, verso il mare; que-sto mare che donava sostentamento agli autoctoni, insieme a modeste coltivazioni di frutta e ce-reali all’ombra di maestosi pini.La magia è interrotta dallo scandire dei tocchi di una malinconica campana dell’antico campaniledella chiesa intitolata appunto, a Santo Strato, dall’originario Stratone, monaco che predicavain questa contrada sin dal 1266 che, tuttavia, il tempo non ha oltremodo modificato sostanzial-mente nella sua struttura.Il modesto complesso fu fatto rimaneggiare nel 1572 dall’abate Leonardo Basso, delegato curialedi San Giovanni Maggiore, e nel corso dei secoli ha fruito di testimonianze artistiche donate dasignorotti e nobili del circondario, molte andate perse, purtroppo, carpite o distrutte nel corsodel tempo, lasciando tuttavia alcuni modesti reperti, la cui sottrazione non ha comunque intaccatoil riposo di questo superstite luogo di Paradiso, dal cauto e timoroso invito per quanti voglianoritrovare questa mistica pace.

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IL MONTE PIO DEI MARINAI DI TORRE DEL GRECO(BREVI NOTE)

di Raffaella Salvemini*

La storia è un continuo work in progress eproprio per questa ragione mi sento di ag-

giornare alcune notizie sulla nascita del PioMonte dei marinai di Torre del Greco, i cui go-vernatori vennero a Procida nell’agosto del2017, in occasione dell’incontro da me orga-nizzato di Storia Marittima dal titolo: “I montidella marineria: tra soccorso, assistenza e la-voro” per ricordare ecelebrare i 400 annidel Pio Monte dei Ma-rinai di Procida. Tragli invitati a conferirec’erano i professori distoria economica FrancaAssante e Vittoria Fer-randino. Proprio laFerrandino, e precisa-mente in sua assenza l’archivista Amalia Russodell’Unisob, racconta-rono la loro esperienza di studiose in meritoalla vicenda del Pio Monte dei marinai di Torredel Greco.Ricordo che a partire dai secoli della conquistaspagnola (1502), i monti e le congregazioni lai-che della gente di mare hanno risposto alle ne-cessità di soccorso, di assistenza, di lavoro, maanche di formazione e d’istruzione degli iscrittiall’associazione in molti “luoghi” di mare diNapoli e provincia. A supportare il legame conil mondo dell’occupazione è il nome stesso dei

monti nati per sostenere i pescatori di canna,lenza, volantino, esca bianca, palamiti, ton-nara; cannucciari, vongolari; ma anche i pa-droni di barche come guzzi, tartane, paranze,tartane. Fino a tutto il Settecento sembra che illoro numero fosse pari a 36 di cui 18 solo a Na-poli e 19 tra isole e provincia. Il “Monte Piodei Marinai di Torre del Greco”, nato nel 1615,

e quello di Procida,nato nel 1617, rappre-sentano ancora oggiuna realtà nel Mezzo-giorno marittimo. La Ferrandino rac-conta la vicenda nellibro Il Monte Pio deimarinai di Torre delGreco. Tre secoli diattività al servizio dei“corallari” (secc.XVII-XX) (Franco An-

geli, 2008). Nel suo abstract al convegno ri-cordava che i marinai torresi catturati dai pirati,erano venduti come schiavi sulle piazze marit-time subito dopo la cattura. In attesa di un pos-sibile riscatto, restavano nelle mani dei pascià,dei capitani raìs, dei funzionari di vario gradoe dei privati cittadini, che li impiegavano in at-tività produttive, di terra e di mare. Le difficoltà connesse alla pesca del corallonon scoraggiavano gli abitanti di Torre delGreco. E come accadrà anche per Procida cer-

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carono di tutelarsi dando vita, nel luglio del1615, al «Pio Monte delli padroni di fellucheet barche, marinai et pescatori della Torre delGreco». I padroni di barche, «come anche i pe-scatori residenti a Torre per la pesca chefa[ceva]no giornalmente», si impegnavano aversare annualmente al Monte, per ciascunviaggio, «un quartodi marinaro», ossiauna somma pari adun quarto del com-penso spettante adun marinaio. Graziealle somme raccolte,il Monte assicuravaalle loro famiglie di-verse forme di assi-stenza le stesse cheritroviamo anche perProcida dall’assistenza medica, alla sepoltura,dai maritaggi ai riscatti dei captivi. Il Monte sioccupava anche della stipulazione di contrattidi ogni genere e la definizione del prezzo delpesce e dei coralli. La sede del Monte era laCappella di S. Maria di Costantinopoli, granciadella parrocchia di Santa Croce. La confrater-nita si occupava del suo mantenimento nonchédella nomina del cappellano e della custodiadella chiave, difendendo in tal modo la propriaautonomia rispetto al clero locale. Nell’agostodel 1674 fu approvata una riforma dei capitoli

sottoscritta dai soli «padroni di filuche, così dimercantie come di pescare», che nel frattempoerano diventati cinquantotto e cioè pratica-mente quasi tutti i padroni di barche di Torredel Greco, come attestò il notaio che redasse icapitoli. Dopo 400 anni cosa rimane di queste vicende?

Le due comunità dimare continuano adiscutere sul futurodei loro Monti esulla loro storia. Iostessa che da varianni mi occupo ditemi legati all’assi-stenza e alla benefi-cenza in un periodopre-welfare provo acontagiare i ragazzi

trasmettendo l’amore verso la storia del loroterritorio e la consapevolezza che il patrimoniomateriale e immateriale va recuperato e con-servato. In un momento di profonda crisi per ilwelfare state è importante ricordare per Pro-cida e gli altri luoghi di mare questo trascorsolaico, solidaristico e mutualistico che ha carat-terizzato a più livelli la storia della gente dimare del Mezzogiorno d’Italia.____________

* Primo ricercatore ISSM-Cnr – Napoli.

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Nella sala docenti del Liceo “Sannazaro”, il 7 maggio scorso, gli studenti Federica Della Monica,Andrea La Veglia, Gabriele Liccardo, Valentina Messere, Francesca Taraschi, Alessandra Vio-lante e Alessandro Vistocco, introdotti da una relazione del prof. Gennaro Lubrano, hanno il-lustrato i loro contributi, raccolti nel volume Il mondo capovolto (v. recensione a p. 47), cheripercorre le vicende del Sessantotto a Napoli, curato da Mario Rovinello e Stefania Chiocchio,la quale ha coordinato i lavori. Il Rievocatore è stato rappresentato dal direttore, Sergio Zazzera,che è intervenuto sottolineando l’importanza della memoria-progetto.

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CARLO IIIPRIMO RE DELLE DUE SICILIE

di Orazio Dente Gattola

Il lungo regno di Carlo III si divide in due pe-riodi: quello del Regno delle Due Sicilie concapitale Napoli e quello di Spagna. Per brevitàci occuperemo solo del primo.Carlo, che in seguito al passaggio sul trono diSpagna assumerà l’ordinaleIII, fece il suo ingresso inNapoli il 10 maggio 1734,dopo la vittoria sugli Au-striaci che avevano gover-nato per meno di untrentennio. Il corteo, rilu-cente di sete ricamate, di oroe di argenti, attraversò lestrade di Napoli partendo daPorta Capuana tra musiche esalve di cannoni. Il popolofestante faceva ala al suopassaggio e applaudiva inci-tando i cavalieri, che caval-cavano al fianco di Carlo, agettare monete. Nel percorsoverso la Reggia non mancòl’omaggio a san Gennaro, una tradizione perchiunque entrò a Napoli.Don Carlos di Borbone aveva appena 18 anni,figlio di Filippo V e della sua seconda moglie,

entrava come re delle Due Sicilie ponendo finea 230 anni di malgoverno vicereale della Spa-gna e, da ultimo, dell’Austria e veniva ad inau-gurare quella dinastia che avrebbe governato ilMeridione sino all’Unità d’Italia.

Carlos doveva il suo regnoalla mano della madre che,valendosi di continui ma-neggi anche matrimoniali, siadoperò con tenacia a procu-rargli un trono in Italia, e fuin tal modo l’incubo costantedelle corti e delle diplomazieeuropee. Aveva, Carlo, appena unanno quando gli fu assicu-rata con il trattato dell’Aia lafutura successione negliStati farnesiani e medicei,avita eredità materna. Lastessa Elisabetta inviò il fi-glio a prendere possesso diquesta eredità nel 1731: egli

diveniva, in tal modo, duca di Parma e Pia-cenza ed acquisiva il titolo di principe eredita-rio di Toscana come erede dell’ultimo deiMedici, Giangastone.

Francesco Liani, Carlo IIINapoli - Museo di Capodimonte

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Le mire dell’infaticabile regina di Spagna fu-rono favorite dalla morte, il 1° febbraio 1733,di Augusto II re di Polonia. L’Italia divenneteatro di una lotta sanguinosa franco-asburgica.L’esercito spagnolo in Italia comandato daGiuseppe Carrillo de Albornoz fu posto agli or-dini di don Carlos nominato per l’occasionegeneralissimo.Lasciando ai franco-sardi la Lombardia Elisa-betta ordinò al Montemar, il vero comandantedella spedizione, di muovere alla conquistadelle Due Sicilie e in un messaggio al figlioscriveva: «Alzate a regno libero saranno tue.Va’, dunque e vinci: la più bella corona d’Italiati attende».Il viceré austriaco di Napoli, Giulio Visconti,si apprestò alla difesa cercando di mobilitarele province ed invocò invano il soccorso del-l’Austria. La marcia dell’esercito spagnoloebbe inizio il 24 febbraio e fu per don Carlosuna vera e propria marcia trionfale tra il gene-rale entusiasmo della popolazione stremata dadue secoli di malgoverno. Attraversato lo StatoPontificio con il consenso di papa ClementeXII don Carlos incontrò una ben scarsa resi-stenza.Il 3 aprile 1734 il viceré austriaco lasciò Napoliper rifugiarsi in Puglia e per fare, poi, ritornoin Austria. Il 6 aprile al termine della sua ca-valcata don Carlos si vide consegnare dagliEletti di Napoli le chiavi della città. Si aprironole porte di Napoli al nuovo sovrano che di làin poi prese il nome di Carlo italianizzando ilsuo.I mesi successivi sino al novembre videro lacaduta delle varie fortezze del regno e la vitto-riosa battaglia di Bitonto (5 maggio) in cui fu-rono distrutte le residue forze austriache. Conlo sbarco del 29 agosto 1734 si avviò la con-quista della Sicilia che vide l’incoronazione aPalermo, tra l’entusiasmo della popolazione, didon Carlos il 3 luglio 1735, facendo ritorno ilgiorno successivo a Napoli.Già dal 15 giugno 1734 era stato reso pubblicoil decreto con il quale Filippo V cedeva ognisuo diritto su quel regno al figlio, che s’intitolò«Carlo per grazia di Dio Re delle Due Sicilie edi Gerusalemme, Infante di Spagna, Duca di

Parma, Piacenza e Castro, Gran Principe Ere-ditario della Toscana», e allo stemma di Napoliaggiunse i tre gigli d’oro della Spagna, i sei diazzurro dei Farnese e le sei palle rosse dei Me-dici.Nel 1738 con la pace di Vienna, a conclusionedella guerra per la successione della Polonia,veniva riconosciuto ufficialmente il nuovoStato.Di solida corporatura e di mediocre altezzaCarlo era di buona indole, affabile e sincera-mente devoto, rispettoso dei genitori e osse-quioso della loro volontà, specie quella dellamadre. Parco nel vitto prediligeva la pesca, ilgioco del biliardo, gli spettacoli e le feste. Lesue passioni dominanti erano la moglie MariaAmalia di Sassonia con la quale, caso unico inquel tempo, divideva il talamo coniugale e lacaccia. L’amore di Carlo per Maria Amalia futale che, dopo la prematura morte della moglie(1760), egli non volle prenderne una nuova,pur essendo egli in età non ancora avanzata.L’andare a caccia era per lui un modo di vin-cere la malinconia della corte spagnola.Il giudizio sulla sua persona è senz’altro posi-tivo. Egli fu, senza dubbio, il migliore dei Bor-bone di Napoli. Alla sua ascesa sul trono delleDue Sicilie trovò uno Stato immiserito e pro-strato da due secoli di malgoverno vicerealespagnolo prima e austriaco poi, sia pure perbreve tempo. L’aristocrazia del nuovo Stato eranella gran parte ignorante e preda dell’ozio edera di gran lunga decaduta dopo la fine dell’in-dipendenza: in essa dominavano l’albagia e illusso. Gli ecclesiastici erano circa 70.000 su diuna popolazione di poco più di quattro milioni.I loro costumi erano per lo più licenziosi e inloro si accentrava un terzo delle rendite globali.Inoltre essi godevano di larghe immunità per-sonali e di esenzioni fiscali. In definitiva, essicostituivano un vero Stato nello Stato. Il cetomedio dal quale scaturivano tutte le riforme eracostituito da funzionari e da gente del foromentre le classi inferiori vivevano nella più as-soluta miseria e, ovviamente, ignoranza. Sipensi che nella sola Napoli vi erano ben 25.000“pezzenti” che, a gran stento, si nutrivano dierbe e frumentone.

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Il sistema feudale si imponeva su ogni altracosa: circa un quinto della popolazione dipen-deva direttamente dal sovrano. Il resto vivevain condizioni miserrime, oppresso dai baroniesosi e prepotenti i quali vivevano per lo piùnella capitale e, sovente, non si recavano mainelle loro terre. Si avviò durante il regno diCarlo un processo di riforme sostenuto da mi-nistri di gran vaglia come il Tanucci. Fu specienel campo dei rapporti con gli ecclesiastici chele riforme incontrarono il maggiore successo.Furono incrementati i requisiti necessari per ilconseguimento dello stato di religioso in mododa diminuirne lo strapotere attraverso un de-ciso ridimensionamento del loro numero. Tral’altro fu abolito nel 1746 con decisione diCarlo il Tribunale dell’Inquisizione.Meno considerevoli furono le riforme incampo economico: la maggiore di esse ri-guardò la costituzione del catasto onciario ocarolino. Il catasto in linea di massima fu ungrosso beneficio e portò al superamento di pro-cedure antiquate e farraginose. Si tentarono riforme in altri campi ma, per lopiù, i tentativi caddero nel vuoto non essendoi tempi ancora maturi. Il Codice Carolino, cheavrebbe dovuto introdurre un sistema legisla-tivo più moderno, rimase un pio desiderio. LaGiunta di Commercio prima e il Tribunale diCommercio poi incontrarono una vivace oppo-sizione da parte di quanti vedevano limitati iloro assurdi diritti. Esiguo fu, poi, il riscattodegli appalti per la riscossione delle imposte. Anche nell’agricoltura l’aggiornamento dei si-stemi di conduzione agricola incontrò un suc-cesso molto modesto, sia per il persistere disistemi arcaici di conduzione dei fondi, sia perla mancata evoluzione dei rapporti sociali. Tuttavia tutti i tentativi di riforma, anche se inparte falliti, servirono di sprone a metodi e pro-cedure nuovi. Si segnalano in particolare glistudi del Giannone e del Genovesi che fu il ti-tolare della prima cattedra europea di econo-mia politica. A questo nuovo clima non pococontribuì la diffusione della Massoneria adonta delle decise condanne da parte dei ponte-fici, specie di Clemente XII e Benedetto XIV,che rimasero senza risultati concreti in quanto

nessuno nel neonato regno si curò di perseguireil sorgente, forte progresso della Massoneriastessa.Vennero aperte o riattate numerose stradequali, per citarne alcune, quella di Venafro,quella della Grotta di Pozzuoli, il prolunga-mento della strada da Salerno al sito reale diPersano. Carlo volle la costruzione di edificimaestosi, molti dei quali furono completati daFerdinando IV, quali il restauro e l’amplia-mento del Palazzo Reale di Napoli, la Reggiadi Capodimonte con due boschi per la caccia,uno per la selvaggina da pelo e l’altro dei pen-nuti, la Reggia di Caserta che segnò l’apice delfasto, la Reggia di Portici con la duplice possi-bilità della caccia e della pesca, l’Albergo deiPoveri e, dulcis in fundo, il Teatro San Carlorealizzato in appena otto mesi nel 1737.Purtroppo il Regno delle Due Sicilie passò dimano nell’agosto del 1759 allorché, decedutoil re di Spagna, Carlo (d’ora in poi III) divenneil nuovo sovrano spagnolo. Da Maria Amalia,da lui amata anche dopo la morte, egli avevaavuto molti figli: le relative e frequenti gravi-danze non furono estranee alla morte della re-gina avvenuta in Spagna nel 1760. Destògrande scandalo la presenza di un uomo, me-dico, al primo parto di Maria Amali (6 settem-bre 1740) tanto che per i non pochi partisuccessivi Carlo volle che fossero presenti epartecipassero delle donne, una delle quali confunzioni di levatrice. Il primo maschio vennealla luce nel 1747 ma si rivelò ben presto undemente e solo il terzo dei maschi divenne read appena otto anni e fu il mai abbastanza vi-tuperato Ferdinando IV noto come il “re lazza-rone”; il secondogenito, Carlo Antonio, eraerede del trono spagnolo.Carlo e Maria Amalia lasciarono Napoli il 6 ot-tobre 1759. La cerimonia di commiato fumolto triste, sia per il rimpianto generale di ungrande re, sia perché si dovette ufficializzarela demenza del principe Filippo. Quel moto ditristezza che si diffuse nei sudditi al momentodella partenza si rivelò un presagio che Napolinon avrebbe avuto un re come Carlo ma di-scendenti che non furono alla sua altezza.

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Pagine vive

L’INCANTO DELLA “FAVORITA”

Il fare «vita sociale» nel Settecento napole-tano era un privilegio e una permissione dicasta ristretta a poche famiglie di indiscusseorigini.Però, svariatissime furono quelle che, arricchi-tesi col commercio, appetirono dignità caval-leresche e menarono vita fastosa, ostentandolusso dorato, vite di salotto, ombre di alcova,frequenza di teatri ecc. E, quindi, furono molteche costruirono magnifici palazzi e ville, chefurono insignite di titoli nobiliari. Ricorderemo

la famiglia de Angelis il di cui rampollo Gio-van Battista elevò a sua dimora quel sontuosopalazzo al largo del Mercatello – oggi piazzaDante – che poi fu detto Bagnara, perché in se-guito fu acquistato dal duca della BagnaraRuffo; e la famiglia Berretta, investita dei titolidi duca di Simari e marchese di Mesagne, cheebbe il merito di edificare la famosa villa poichiamata la Favorita, sulla strada nazionale Na-poli-Reggio, nei pressi di Resina.Corre fra le due linee di case e di ville sorte per

di Ferdinando Ferrajoli

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“ALTRO ORO IN CASA-RIEVOCATORE”Il 27 marzo scorso, nella sede dell’Ordine dei medici, chirurghi e odontoiatri

di Napoli, in occasione dell’inaugurazione della sala con-vegni intitolata al presidente emerito dr.Giuseppe Del Barone, il presidente dr.Silvestro Scotti ha conferito la medagliacelebrativa dei 50 anni dalla laurea, con-seguita il 26 luglio 1969, a relazione del

prof. Giuseppe Tesauro, al dr. ANTONIO FERRAJOLI,past-director di questo periodico, con il quale il direttore e la redazione sicomplimentano per il riconoscimento ottenuto.

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la maggior parte tra il Settecento e l’Ottocento,mentre nei dintorni pendii facili e lieti prolun-gano lo sguardo e l’interesse fino alle falde delVesuvio, dove salgono ombreggianti sentieri enumerose stradette tra siepi fiorite ed il succe-dersi quasi senza interruzioni di giardini e vi-gneti, di pinete e serre, mentre l’aria pare piùserena, il sole più brillante e la vita più dolce.Tra queste meraviglie naturali che spandonopiù viva l’allegria dei colori e il profumo deifiori, s’adagiano paeselli contrade e casali: S.Giorgio a Cremano, Bellavista, Pugliano, S.Gennariello, Via del Monte La Maira, Leopardiecc. ecc., alcuni interessanti per memorie e perstorici avanzi e tutti benedetti per aria balsa-mica, saporosi frutti e panorami incantevoli.La Favorita è la più suggestiva e romanticadelle ville di Resina, la facciata del cui palazzosorge con maestosa eleganza nella semplicitàdelle linee architettoniche, che, in uno con laricchezza volumetrica, sottolinea non solo ilvanto di questa regione ma anche il rapportocon l’ambiente, che, decorando, arricchisce.Era superba dimora principesca: ampie le sale,eleganti gli appartamenti, soavi i giardini, chesi stendevano fino al mare negli scherzi deiviali, chioschi, boschetti di aranci, cedri, me-lograni, magnolie, oleandri, allori, monumen-tali fontane e peschiere: ci riportano alla mentela vita fastosa e magnifica dei costumi del

tempo e specialmente di quando, era il 1768,la villa fu aperta dal proprietario, principed’Aci e di Campofiorito, Stefano Reggio Gra-vina, per una gran festa in onore di Maria Ca-rolina, che venne sposa a Napoli. A tale festaassistettero il granduca con la duchessa di To-scana, Leopoldo e Maria Luisa di Borbone, conla real corte di Napoli.La villa era stata costruita dalla famiglia Ber-retta – come detto – e venduta al principed’Aci, il quale la lasciò, poi, in legato al Re diNapoli… e da quel momento fu detta la Favo-rita.Ferdinando IV ampliò la villa con vasti giar-dini e le diede l’ingresso dal mare.La Favorita non fu usata dai Reali per luogo divilleggiatura, come i palazzi reali di Caserta,di Capodimonte e di Portici, ma venne tenutaquando se ne dava l’occasione per dare festeda ballo.Giovava molto la singolare disposizione dellasala centrale del primo piano, che era sottopo-sta al livello delle altre.Per due scaloni di marmo si scendeva alla gransala da ballo, e se ne usciva su una stupendaterrazza dalla quale si godeva una veduta in-cantevole, quella del superbo scenario delgolfo Partenopeo, che in ogni tempo attirò gliuomini a costruirvi le più belle e famose di-more.

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A PIETRARSA I PRIMI MARTIRI DEL LAVORO(1863)

di Aldo Cianci

La prima gra-vissima strage,

purtroppo impu-nita, di lavoratori,pacifici ed inermi,avvenne il 6 ago-sto 1863, sotto ilregime dei Savoianella località diPietrarsa, ad unpasso da Napoli.Tali operai appar-tenevano ad unadelle più antiche e benemerite officine ferro-viarie del mondo : basti pensare che quel mo-dello aziendale e che quelle particolariprofessionalità fossero oggetto di ammirazioneed emulazione per la omologa struttura diKronstadt in Russia. Nel 1839 le Officine diPietrarsa permisero al Regno delle Due Siciliedi inaugurare il primo segmento ferroviariodella Penisola italiana: il tratto Napoli-Porticidi oltre sette chilometri.I lavoratori, per giunta increduli e disarmati, sierano “permessi” di incrociare civilmente le

braccia, nel mo-mento in cui i co-lonizzatori giuntidal Piemonte (conil determinante ap-poggio della Mas-soneria e dellacinica Inghilterra)decisero, inopina-tamente, di elevarei turni di lavoroprima da otto adieci ore e poi da

dieci a dodici! Abbassando allo stesso tempoil salario!Una iniqua e violenta vessazione che annul-lava, d'un sol colpo, l'equo trattamento godutodai nostri operai, grazie all'apertura mentale deiSovrani borbonici.Le Officine di Pietrarsa erano state la merce discambio ceduta dai Savoia al massone JacopoBozza per i loschi servigi loro offerti. Costui,lungi dal parlamentare come a lui richiesto daimiti operai, si fiondò come uno sparviero allaPrefettura di Napoli, dai cui vertici pretese ed

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È deceduto a Napoli, l’8 aprile scorso, SERGIO SCISCIOT

che, nato il 23 maggio 1930, è stato docente di storia e filosofia nei licei eautore di saggi filosofici e di poesie, raccolte in volumi. Alla gentile signoraLuisa e alla famiglia giungano le più vive condoglianze di questo periodico.

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ottenne l'immediato intervento armato di uncontingente di bersaglieri.I bersaglieri, ligi agli ordini ricevuti dall'alto,giunti nei cortili delle celebri Officine, chiuseroi cancelli alle proprie spalle (cioè, l'eventualeed unica via d'uscita delle Officine) e in unlampo si disposero in doppia posizione, comesi usava per le fucilazioni, aprendo repentina-mente il fuoco sugli increduli ed inermi operai:di questi alcuni caddero all'istante mentre altricorsero terrorizzati verso il mare che, alle lorospalle, poteva essere l'unica via di salvezza.Vale la pena di ricordare che, all'arrivo dellosgradevolissimo “padrone” Bozza, a Pietrarsaerano attivi, tra operai e maestranze specializ-zate, non meno di 700 uomini!I solertissimi bersaglieri spararono subito dinuovo, colpendo ed uccidendo altri lavoratori,mentre numerosi di questi si lanciavano dispe-ratamente in mare, dove più d' un ferito annegòin breve tempo.Cento anni di dominio Savoia hanno perfinoimpedito il ricordo di tale tragico eccidio! Se-nonché, subito dopo la II G. M. la nuova classepolitica italiana non ebbe alcuna remora ad isti-tuire surrettiziamente e non senza qualche ser-vilismo, ricorrenze importate – quando nonimposte – dall'estero.Agli Italiani (già tenuti all'oscuro della propriastoria) venne infatti quasi imposta una nuovafestività a loro sconosciuta che ricordava al-cuni lavoratori uccisi negli USA (Chicago1886) e caduti per mano della non meno vio-lenta polizia nord-americana.Il sacrificio dei Martiri di Pietrarsa (6 agosto1863) risale dunque a ben 23 anni prima del-

l'altrettanto storico eccidio di Chicago!Ma lì, a Chicago non vi erano i Savoia ed i la-voratori uccisi vennero ricordati, pianti edonorati ogni anno, mentre nell'Italia savoiardai nostri lavoratori non vennero neppure lonta-namente ricordati, pur di nascondere l'ingiu-sta, tragica fine di onestissimi padri di famigliae la criminosa strage commessa dagli scheranidei Savoia.È necessario, anzi indispensabile, che questotristissimo ed ignorato brano della nostra storiasia finalmente conosciuto da tutti: “meglio(molto) tardi che mai”!Vediamo allora di capire chi ha ancora pauradella storia?! E vediamo, a partire da oggi, chiavrà mai il coraggio di tenere in cassaforte lastoria per gestirla a proprio comodo! Chi, ancor oggi, non volesse sentir parlare divicende così importanti, meriterebbe di certo ilpesante giudizio di ignavo!Nascondere la storia è di per sé un gesto gra-vissimo; ancora più grave è la tendenza, pur-troppo tipica di quasi tutti i testi scolasticiitaliani, a calare il velo dell'oblio su tanti rile-vanti fatti ed episodi storici! Cassare la memo-ria di certe esperienze passate non giova affattoalla Conoscenza poiché l' innocenza della ri-cerca saprà mettere le tessere giuste nel mo-saico delle vicende umane: è ormai soloquestione di tempo.Questo mio è solo un piccolo contributo chetende a colmare una delle tante e dannose la-cune della storia che, guarda caso, ci riguardatutti direttamente.

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Il foyer del teatro Diana ha accolto, il 31 marzo scorso, un foltopubblico, che ha festeggiato l’uscita del volume ‘A sfuglIAtellA,di Renato Ribaud, il quale ne ha esposto il contenuto, coadiuvatodall’attore franco gargia, il quale ha letto alcuni versi di poeti na-poletani e ha recitato, insieme con Antonella salerno, un diver-tente dialogo. Il volume fa seguito a quello che Ribaud ha dedicatoal caffè e precede l’uscita di quello che sarà dedicato alla pizza, acompletamento di una “trilogia alimentare napoletana”. Al ter-

mine, l’editore giuseppe gallina ha consegnato un attestato di benemerenza al maestro pa-sticciere Antonio ferrieri, il quale, a sua volta, ha offerto ai presenti un assaggio dei suoiprodotti, primo fra tutti, ‘a sfugliatella.

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ORIGINALITÀ È RITORNO ALLE ORIGINI?

di Franco Lista

Questo breve scritto ha come titolo una lo-cuzione di Antoni Gaudì, alla quale ho ag-

giunto un punto interrogativo per rendereproblematica la considerazione del grande ar-chitetto e artista catalano.Ebbi modo, in un mio precedente articolo1, diaccennare ai luoghi campani dove è ancorapossibile «fruire la bellezza delle arti appli-cate», attribuendo aqueste compositeattività artistiche dialto artigianato –dove si esercita an-cora la maestrìadella mano – la fab-brile creatività chesegna una partico-lare differenza traartigianato e design. L’accelerazione deiprocessi storici haportato a una rotturaradicale tra questedue attività che, pe-raltro hanno la stessa finalità che è quella diconferire valenza estetica, e non solo funzio-nale, al cosiddetto “oggetto d’uso”.Visitare i piccoli nuclei museali ci sembraquanto mai opportuno non solo perché merite-voli di essere valorizzati ma anche e soprattuttoattraverso la loro conoscenza. In questo senso,l’invito va orientato verso la ricognizione dei

luoghi della storia e della tradizione delle artiapplicate in Campania.A Torre del Greco, per voler fare un solo esem-pio, nella prima metà dell’Ottocento l’econo-mia, al massimo dello sviluppo, eraprevalentemente fondata sulla pesca e sulla la-vorazione del corallo.Il prezioso materiale era apprezzato e diffuso

in tutta Europa, so-stenuto dalla moda edal gusto corrente,cosicché si andavasviluppando unricco artigianato,quello dei corallariche da pescatori di-ventavano semprepiù abili artieri se-guendo l’esempiodei colleghi di Tra-pani. Risale al 1810il “rescritto” di Fer-dinando IV colquale si autorizzava

l’apertura a Torre del Greco di una fabbrica dicoralli, obbligata dal documento borbonico aformare allievi del luogo. L’iniziativa era delmarsigliese Martin ed ebbe come successivoesito il prospero sviluppo di analoghe impresea opera di artigiani, ormai ben formati, che ri-spondevano all’ampio mercato che intanto siera determinato.

Torre del Greco, Museo del corallo

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Si determinò la necessitò di qualificare, ancordi più, la produzione per innalzarla alle prero-gative e alle caratteristiche delle migliori tra-dizioni partenopee.In epoca postunitaria, ecco l’azione intelligentedi Giovanni della Rocca tesa all’istituzione diuna scuola d’arte che potesse anche compen-sare, almeno sotto il profilo della qualità, lascomparsa del “Real laboratorio delle pietredure” di fondazione borbo-nica2.Francesco De Sanctis, alloraministro della Pubblica istru-zione, firmerà il regio decretodel 23 giugno 1878 istitutivodi una “Scuola per la lavora-zione del corallo” in Torre delGreco, venendo incontro aldesiderio dei torresi e alla per-spicace iniziativa di Giovannidella Rocca, rivolta non soloalla riqualificazione dell’artedel corallo ma anche al recu-pero di una parte delle espe-rienze e del patrimonio di capacità, andatodisperso con la fine del Borbone.Questa intuizione, più che altro politica, saràrealizzata pienamente nel corso del tempo. In-fatti, a distanza di un anno nel regolamentodella Scuola sarà introdotta un’altra pratica in-cisoria, quella sulle «pietre così dette di lava».Nel 1887 la scuola sarà ulteriormente riordi-nata prendendo il nome di “Scuola d’incisionesul corallo e di arti decorative e industriali”.Nel decreto di riforma si preciseranno gli inse-gnamenti artistici e tecnici da impartire, per cuil’arte dell’incisione dal corallo si estenderà ad

altri materiali: lava del Vesuvio, conchiglie,sardonica, madreperla, avorio, tartaruga e pos-sibilmente anche alle pietre dure.La scuola assunse un’articolazione formativadavvero ampia e particolare che si estendevaal perfezionamento artistico e tecnico nell’artedi intagliare e incidere gemme e pietre dure,cioè la glittica. Fu istituito anche un corso se-rale di ulteriore perfezionamento, rivolto agli

artigiani che desideravano ap-profondire le arti decorative eindustriali. Un corso che in modo dav-vero mirato era indirizzato –ad litteram – a incisori, coral-lari, orefici, intagliatori, fale-gnami, ebanisti, fabbri-ferrai,muratori, scalpellini, stucca-tori, pittori decoratori, tappez-zieri.Per quest’arco quasi com-pleto di artigiani, la ricettaformativa era nella sua sem-plicità di forte essenzialità e di

sintesi didattica: s’impartisce l’insegnamentodel disegno e della modellazione applicandoloa tutte le professioni. E’ certo che si tratta di una concezione essen-ziale, sorprendentemente efficace per elevaredi qualità il lavoro artigianale in molti settori especialità: una sorta di formazione di base deimaestri d’arte e dei capomastri di cui oggi, spe-cialmente da parte dei progettisti, si avverte perintero l’assenza.Infine, per esigenze rappresentative e d’illu-strazione dei magnifici risultati dell’azione di-dattica e di studio, la Scuola si doterà nel corso

Giovanni Della Rocca

Si è svolta al Vomero, il 21 maggio, la 25A MARCIA DELLA PACE, or-ganizzata dal Consiglio Junior della 5a Municipalità con l’Uni-cef e con le scuole del quartiere, sui temi, drammaticamenteattuali, del bullismo e dell’accoglienza e della solidarietà aibambini rifugiati. Alla manifestazione hanno partecipato, in-sieme con gli studenti vomeresi e con i ragazzi delle asso-ciazioni del territorio, il presidente della 5a Municipalità, Paolo

de Luca, la presidente del Club Unicef Napoli, Margherita Dini Ciacci, con la delegataClara Di Bernardo, e i volontari del Servizio Civile Unicef di Napoli.

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del tempo di un nucleo museale costituito daipezzi di maggior pregio eseguiti con le piùvarie tecniche artistiche. Allievi e maestri con-tribuiranno alla crescita di questa interessantecollezione con lavori raffinati e selezionati e,nello stesso tempo, potranno fruire, come se sitrattasse di una biblioteca, dei modelli piùesemplari della raccolta che verrà, poi e intempi più recenti, ad arricchirsi di una impor-tante donazione, la cosiddetta Collezione Te-scione.La continuità e la ricchezza di qualità del la-voro saranno influenzati dalla presenza e dallapluralità delle esperienze raccolte nel piccolomuseo allestito all’interno dell’istituzione sco-lastica che oggi offre ai rari visitatori uno stra-ordinario panorama delle numerose tecnicheartistiche praticate con i diversi, preziosi e se-mipreziosi, materiali.In particolare, vanno segnalate le glittocromiesu conchiglie tigrate, le incisioni su sardonicae corniola, la finissima oreficeria, accanto ailavori di madreperla, avorio, tartaruga, lava epietre dure.Ciò che colpisce il visitatore, al di là del fanta-smagorico repertorio delle materie, delleforme, delle applicazioni e di taluni manufatti,

veri e propri talismani, è il modo immediata-mente comunicativo di questi oggetti che nonsono, ne vanno nostalgicamente considerati re-liquie e residui del passato.Essi ricompongono non solo un paesaggio poe-tico nel suo costituirsi come documento ogget-tuale, denso e stratificato della “civiltà delfare”, ma soprattutto interloquiscono con i frui-tori, perché gli stili artistici, quelli autentici,sono anche stili di pensiero.Sono proprio i contrassegni, ancora vivi e fio-renti di spunti formali, di questa collezione adarci la misura dell’originalità delle invenzionie porre a noi stessi, a quelli ancora sensibili allabellezza, in modo questa volta aporetico, l’af-fermazione del geniale Gaudì.___________________1 F. Lista, Tra estetico ed estatico, in Il Rievocatore,aprile-giugno 2018, p. 46.2 Il “Real Laboratorio delle Pietre Dure”, fondato daCarlo di Borbone e Bernardo Tanucci, fu impiantato daFrancesco Ghinghi e da altri maestri toscani provenientidall’Opificio granducale delle pietre dure. Diversamentedalla Fabbrica della porcellana di Capodimonte, che futrasferita dal sovrano in Spagna, si ampliò successiva-mente dotandosi di una scuola di incisione. Fu soppressocon l’avvento del Regno d’Italia.

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È online il progetto http://promemoria.anpi.it/, moderno con-tributo alla conoscenza del periodo storico che va dal 1918 al 1948,destinato, con finalità formativa, sia ai soci dell’A.N.P.I., che lo harealizzato, sia agli sstudenti delle scuole, come opportunità di tra-

smissione di un sapere fondamentale in particolare per le nuove generazioni. La presentazionedel progetto, contenuta nel portale del sito, afferma: «Conoscere, capire e scegliere sono leparole chiave del Progetto ProMemoria. Un pensiero, una volontà, una scelta che vanno oltrela semplice spiegazione degli argomenti, dei fatti, ma vogliono accompagnare il lettore a ri-flettere, a pensare. Curiosità è l’atteggiamento che si propone di mettere in gioco per affrontarela lettura e l’analisi delle complessità che riguardano le vicende della nostra storia. Storia recentedal punto di vista cronologico: l’arco di tempo trattato è una virgola nell’enciclopedia dellastoria, la pagina prima dell’oggi; storia recente dal punto di vista sociale e politico: non cono-scere può portare a rivivere. La suddivisione in capitoli propone ProMemoria come un libromultimediale da leggere, vedere, ascoltare in cui ognuno può costruire la propria mappa, ipropri criteri di lettura sapendo che, ad ogni evento, ne è collegato inevitabilmente un altro:la storia, appunto. Diverse chiavi di lettura per contribuire ad un approccio calato sulle diverseetà ed esperienze dei fruitori. Uno strumento destinato a tutti. Indipendentemente dall’età, ènecessario conoscere, capire e scegliere».

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PARLAMENTO NAZIONALECAMERA DEI DEPUTATI

RESOCONTO SOMMARIOVENERDì 16 MAggIO1884

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE BIANChERI

Commemorazione del deputato Incagnoli.Presidente. (omissis) Onorevoli colleghi! sonoappena trascorsi pochi giorni dacché risuona-rono in quest’aula parole di amarezza e di rim-pianto per la perdita di due diletti nostricolleghi, e già oggi mi tocca nuovamente il tri-ste ufficio di dovervi annunziare che un altrovuoto si è fatto in mezzo a noi, che un altro no-stro egregio collega ci è stato rapito per sem-pre. Angelo Incagnoli, deputato del Collegio diCaserta cessò di vivere ieri nella sua residenzadi Napoli, colpito da fierissimo morbo. Nato nel 1819 in Arpino, Angelo Incagnoli fudegno figlio di quella privilegiata contrada chesi onora di aver dato i natali a tanti uomini il-lustri. Dedicatosi da giovane agli studi più elevati, sirecò a Napoli ove fu tra i più chiari discepolidel Galuppi, del Savarese. Nel 1846 rivelava il forte suo ingegno e l'ampiacoltura con un corso di lezioni di economia po-litica gratuitamente bandito. Poco dopo acqui-stava nell'esercizio dell'avvocatura una non

comune distinzione. Ma per potere, meglio che nella carriera intra-presa, trovare uno sfogo all'attività da cui sen-tivasi invaso, divisò di consacrarsi allaindustria e così poter più efficacemente appa-gare il suo desiderio ardentissimo di essereutile alla sua terra nativa, accrescendone la pro-sperità col lavoro, promovendo lo svolgimentodi tutte le industrie del circondario di Sora. Angelo Incagnoli, come pure il compianto suoconterraneo senatore Polsinelli, non è stato sol-tanto benefattore della valle del Liri, nellaquale con zelo indefesso ed amore operosopromosse tanto lo industrie; ma ha ugualmentebenemeritato della patria assicurando l'incre-mento ed il progresso dell'industria nazionalein mezzo a quelle popolazioni, nel nobilissimointento di migliorarne col lavoro la condizionemorale ed economica. (omissis) L'Incagnoli ed il Polsinelli hanno ben meritatodella umanità. Angelo Incagnoli aveva educato l'animo suonell'affetto vivissimo dell'Italia e della libertà.Partecipò ai movimenti nazionali del 1848 e1849, scampando poscia per mero caso, alladura prigionia, non evitando però sospetti epersecuzioni. Nel 1860 fu tra i primi a cooperare col Go-verno nazionale, ed ebbe parte precipua nei

ANGELO INCAGNOLI

Documenti.1

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Sulla facciata di Villa Giordano, in via Belvedere, una lapide ricorda la figura di Angelo Inca-gnoli, nato ad Arpino nel 1819, deputato del Regno d’Italia, che vi abitò e vi si spense, il 15maggio 1884. Pubblichiamo qui di seguito il discorso commemorativo, tenuto all’assembleadei Deputati dal presidente Giuseppe Biancheri, il giorno successivo*.

* * *

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Comitati che organizzarono la insurrezionedella provincia di Terra di Lavoro. Si numerosi titoli di pubblica e di privata be-nemerenza Valsero ad Angelo Incagnoli la fi-ducia illimitata delle popolazioni che per lungaserie di anni lo elessero consigliere provinciale;e per ben cinque volte la elezione a presidentedel Consiglio provinciale di Caserta. Le dimostrazioni di fiducia che dai nativi dilettisuoi colli Angelo Incagnoli riceveva, gli ven-nero splendidamente confermate in Napoli,ove egli risiedeva, e dove fu chiamato più volteda quella cittadinanza a far parte del Consigliocomunale, della Camera di commercio e del-l'Amministrazione del Banco di Napoli.Nella XIll Legislatura egli era il deputato diCaserta, e noi ricordiamo con quanto zelo ope-roso, con quanta elevata intelligenza si occu-

passe dei lavori parlamentari. Noi ricordiamocon senso di gratitudine la parte importante dalui presa nella felice risoluzione dei più graviproblemi economici. Ricordiamo con verocompiacimento i suoi pregevoli discorsi, nelquali alla chiarezza del pensiero associavaquella facondia che gli inspirava lo studio delsuo Marco Tullio. Angelo Incagnoli, di ottimo cuore, di esem-plare modestia e di rara bontà, operò il benelargamente e senza ostentazione. Per il nobilecarattere o per la coscienza retta, egli fu degnodella stima che universalmente godeva. La provincia di Caserta vede rapirsi immatu-ramente uno dei suoi più distinti cittadini; laCamera perde un intelligente suo cooperatore,e noi deploriamo la perdita d'un egregio col-lega che aveva saputo acquistare il nostro af-fetto e la nostra considerazione. Nel rendere alla memoria di Angelo Incagnoliun ultimo tributo di sincera riverenza o diamaro rimpianto, io sono certo d'interpretare ivostri sentimenti, e se non può a noi non riu-scire sommamente doloroso il dovere com-piero ogni tanto un sì mestissimo ufficio versod¡ amati nostri colleghi, possa almeno essere anoi di qualche conforto il ricordare la loro virtùed i servizi da essi resi a!!a patria. E possa es-sere alla patria di qualche giovamento l'esem-pio da essi lasciato. (omissis)____________

* Cfr. Gazzetta Ufficiale del Regno d’Italia, 17 maggio1884, p. 2186.

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La Fondazione Valenzi ha celebrato i propri dieci annidi vita, esponendo al PAN, dal 1° al 19 maggio, sotto iltitolo “L’IRONIA DEL SINDACO ARTISTA”, ben 137 disegni diMaurizio Valenzi, nei quali sono ritratti, in forma cari-caturale, personaggi del mondo politico dei suoi tempi,a cominciare da sé stesso. In appendice alla mostra,sono stati esposte le caricature realizzate dai gio-vani disegnatori partecipanti al concorso “I volti

della politica del tuo tempo”.

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LA DONNA NELLA LETTERATURADELLA NUOVA ITALIA. 1

di Guido Belmonte

1.- L’unificazione nel regno sabaudo dei varistati italiani, avvenuta nel 1861 con modalitàche sempre più la storiografia va liberando daingannevoli prospettazioni della volgata risor-gimentale, produsse indubbiamente effetti ri-levanti nella vita sociale del paese. Uno di essi,meritevole d’attenzione, fu la convergenza cheda ogni parte della penisola s’andò verificandotra i contributi delle donne, che fossero scrit-trici, poetesse o giornaliste, all’attività lettera-ria della “nuova” Italia. Nella certezza che queicontributi, ancorché ricordati sommariamentesenza un diffuso approfondimento della vali-dità di ciascuno di essi, meritano d’esser rie-vocati, si ricorderanno qui di seguito i datiessenziali de la vita e le opere di quindici no-stre scrittrici, poetesse o giornaliste natenell’800. Lo si farà in un ordine corrispondentealle date progressive della loro nascita: MariaAlinda Bonacci Brunamonti (1841), EvelinaCattermole, nota come “Contessa Lara”(1849), Carolina Invernizio (1851), GiseldaFojanesi (1851), Vittoria Aganoor Pompilj(1855), Matilde Serao (1856), Olga Ossani(1857), Enrichetta Capecelatro Carafa (1863),Annie Vivanti (1866), Ada Negri (1870), Gra-zia Deledda (1871), Amelia Cottini Osta, notacome “Flavia Steno” (1877), Barbara Allason(1877), Lucia Lopresti, nota come “Anna

Banti” (1895), Amalia Liana Negrelli Odescal-chi in Cambiasi, conosciuta come “Liala”(1897).

2.- Maria Alinda Bonacci Brunamonti nataa Perugia nel 1841, figlia d’un insegnante diretorica, aveva cominciato giovanissima, inco-

raggiata dalla madre devota cattolica, a com-porre versi di contenuto religioso. I Canti na-zionali, pubblicati nel 1860, le assicurarono ilprivilegio di poter esprimere – unica donna –il proprio voto favorevole nel plebiscito di con-ferma dell’annessione al Piemonte delle Mar-che e dell’Umbria. Sposatasi nel 1868 conPietro Brunamonti, docente di filosofia del di-

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ritto a Perugia, vantò l’amicizia d’intellettualicome Andrea Maffei, Antonio Stoppani, Gia-como Zanella. Fu proprio quest’ultimo a in-fluenzare le ulteriori poesie della Bonacci che,per certa pesantezza del loro contenuto dida-scalico-religioso, non le conquistarono il fa-vore della critica. Migliori si riconobbero iDiscorsi d’arte, del 1898 e i Ricordi di viaggio,pubblicati postumi.

3.- Di Eva (o Evelina o Lina) giovanna An-tonietta Cattermole (contessa Lara), nata aFirenze nel 1849 e morta a Roma nel 1896, lasua italianità per nascita si sarebbe potuta met-ter in dubbio perché un dizionario internazio-nale degli scrittori la indicava come nata aCannes dal professore scozzese GuglielmoCattermole e dalla pianista Elisa Sandusch. Be-nedetto Croce, con altri, affermò che inveceella fosse nata a Firenze: e ciò, a eliminazioned’ogni incertezza, venne confermato dal rinve-nimento del suo atto di nascita. Innegabile co-munque è che una padronanza della linguaitaliana le fu garantita da fruttuose lezioni im-partitele da Marianna Giarrè Billi, poetessa to-scana (Firenze, 1835-1906). La Cattermoleaveva peraltro studiato, giovanissima, l’in-glese, lo spagnolo e il francese: quest’ultimoappreso a Parigi, nel collegio Sacré Coeur.La sua prima raccolta di versi, Canti e Ghir-lande, del 1867 subì le stroncature di GiosueCarducci e Benedetto Croce.Sposatasi nel 1871 col figlio terzogenito di Pa-squale Stanislao Mancini, Eugenio, tenente deibersaglieri, la residenza definitiva degli sposifu stabilita a Milano, dove la Cattermole, fre-quentando i ritrovi della Scapigliatura, co-nobbe Arrigo Boito, Emilio Praga, GiuseppeRovani, Eugenio Torelli Viollier (il napoletanofondatore del Corriere della Sera). Fu in quelsuo salotto milanese che s’andò formando unacorte d’ammiratori, alla cui crescente sensibi-lità per la bellezza e la grazia della padrona dicasa s’accompagnava purtroppo una depreca-bile indifferenza del Mancini, propenso piutto-sto al gioco d’azzardo.Si arrivò purtroppo alla tragedia quando,messo sull’avviso che l’ammirazione d’un gio-vane veneziano, Giuseppe Bennati Baylon, per

la Cattermole stesse trasmodando, il Manciniriuscì a cogliere la moglie in adulterio e, sfida-tone in duello alla pistola l’ardimentosoamante, inflisse a costui ferite che ne cagiona-rono la morte (7 giugno 1875). Dal processoche ne seguì il Mancini uscì assolto, trattandosidi un “omicidio d’onore”. Scacciata di casa, laCattermole fuggì da Milano. Il padre si rifiutòd’accoglierla a Firenze, ove la ripudiata riuscìpur a vivere con la pubblicazione di suoi arti-

coli e poesie. Superata la bufera, non tardaronoperò a riemergerne le irrequietezze, di donnacome di poetessa. In un decennio (tra il 1884 eil ’94) produsse la raccolta di liriche Nuoviversi; e non tralasciò di coltivare amori più omeno stabili, favoriti sia dalla fama che purs’era andata conquistando, sia da una partico-lare sua avvenenza. Se del poeta Mario Rapi-sardi, conosciuto nel ’75, ella fu forse soltantoun’amica, la successiva sua relazione col sici-liano Giovanni Alfredo Cesareo, più giovanedi lei, assunse quasi i caratteri d’una convi-venza matrimoniale. Tra il 1886 e il ‘95 scrissemolte delle sue opere di prosa, pubblicando nelcontempo nuovi versi e tenendo a Roma un sa-lotto musicale, frequentato da artisti e parla-mentari. Fatale le fu invece il legame con un pittore na-poletano, Giuseppe Pierantoni, poco propensoal lavoro e, di più, possessivo e manesco. Av-vedutasi della pericolosità d’una tale relazione,la Cattermole tentò invano di liberarsene; mail convivente parassita, a un’ennesima intima-

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zione di lasciar la casa, reagì puntando controla sventurata una pistola “modello da signora”:un’arma – ironia della sorte – che l’amico Fer-ruccio Bottini, messo in ansia dalle preoccupa-zioni manifestategli dalla Cattermole, avevacomprato per lei. Il colpo partito dall’arma pro-vocò il ferimento della vittima seguito, pocopiù che nell’immediato, dalla sua morte.La poetica della Cattermole, specchio per tantiaspetti della disordinata vita dell’artista, diquesta rivela pur anche qualche aspirazione ri-masta delusa, come quella che il suo smodatobisogno d’amore potesse venir rettamente ap-pagato nel quadro d’una serena vita domestica.La lettura dei suoi scritti può suscitare ancoraqualche interesse se è vero che non molti annifa alcune lettere e novelle ne sono state ripub-blicate.

4.- Anche per Carolina Maria Margaritta In-vernizio, piemontese nata a Voghera da Ferdi-nando e Anna Tettoni il 28 marzo 1851, lalettura dell’atto di nascita è stata di particolareutilità, svelando come la scrittrice, nel dichia-rarsi nata il 1858, si nascondesse gli anni. Tra-sferitasi con la famiglia in una Firenzedivenuta capitale, l’Invernizio frequentò lascuola normale: dalla quale rischiò d’esserespulsa per aver pubblicato un racconto, Amoree morte, giudicato scandaloso. A quel primoscritto avrebbero fatto seguito più di cento ro-manzi, i primi dei quali pubblicati in appendicea L’Opinione nazionale di Firenze e la Gaz-zetta di Torino: tutti libri sconsigliati o addirit-tura proibiti alle fanciulle. Sposatasi con Marcello Quinterno, militare,mise casa in Via Dei Mille, proprio di frontealla tipografia del Salani, divenuto suo editorein via esclusiva; ma nel 1896, tornato il maritodalla guerra d’Africa, si ritrasferì con lui a To-rino. E in quella città, come si ricorda, con-dusse la vita normale di una signora perbene,madre tenerissima della figlia Marcella (1886-1971) e non aliena – come poteva testimoniarela sua presenza ogni sabato nel santuario dellaConsolata – dalla pratica religiosa: ciò che na-turalmente non impedì alla Chiesa di mettereall’indice i suoi libri, già tradotti in più linguee diffusi all’estero.

Evidente appariva la monotona uniformità te-matica di quei libri, dall’editore proclamatiespressione del romanzo storico-sociale; lad-dove una critica appena poco più penetrantes’era presto avveduta che in quelle trame ma-cabre e truci dell’Invernizio non potesse rav-visarsi alcunché di validamente storico osociale. Antonio Gramsci (Letteratura e vitanazionale, Torino 1966, p.107) notava con bo-nomia che la Invernizio era «stata letta e forsecontinua(va) a esserlo»; e se ne domandava il

perché. In assenza – rispondeva – di una “mo-derna” letteratura nostra, alcuni strati del po-polo minuto andavano soddisfacendo in varimodi «le esigenze intellettuali e artistiche chepur esistevano, ancorché in una forma elemen-tare ed incondita». La produzione dell’Inver-nizio, una scrittrice non sfuggita all’attenzionedi Papini e definita come una «onesta gallinadella letteratura popolare», aveva pur essa va-lidamente assolta nel “popolino” una tale fun-zione surrogatoria. L’ampiezza della cui eco èconfermata tanto dalla trasposizione cinemato-grafica che molti romanzi della Invernizio eb-bero nel secolo scorso, quanto dalla riedizionedi tutte le sue opere curata dall’editore Lucchidi Milano tra il 1968 e il 1985.

5.- giselda Fojanesi, toscana di Foiano dellaChiana (Arezzo), ancorché più nota per le vi-cende delle quali fu protagonista a Catania (re-centemente rievocate da Piero Isgrò ne La

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sposa del nord, Cagliari 2014), merita un ri-cordo anche per la sua attività letteraria. D’in-telligenza viva e precoce, conseguì giova-nissima, col completamento degli studi allanormale, l’abilitazione all’insegnamento.L’abituale sua frequentazione, con la madre, dicasa Dall’Ongaro e del salotto di Erminia FuàFusinato le procurò la conoscenza di GiovanniVerga. Fu proprio la Fusinato a far ottenere allaFojanesi, con l’interessamento di Rapisardi, lanomina a docente d’italiano nel Convitto pro-vinciale di Catania. Il Verga, che in quel tempodimorava a Firenze, ebbe modo – con uno stu-diato ritardo del suo rientro a Catania – d’essercompagno della Fojanesi e della madre nelviaggio per la città etnea. E qui la maestrina to-scana fu più volte invitata in casa del Verga, al-lora impegnato alla stesura di Storia d’unacapinera. Il Rapisardi, invaghitosi della Foja-nesi e dichiarato il suo amore con pose assur-damente romantiche, diventò gelosissimo delVerga, al quale era peraltro legato da amicizia;e i suoi comportamenti petulanti in confrontodella Fojanesi valsero a procurare a costei,dopo un primo richiamo del Convitto, addirit-tura la perdita del posto di lavoro. Accettare ilmatrimonio col Rapisardi finì così con l’essereper lei una sgradevole necessità. La celebra-zione ne fu procrastinata, non disponendo losposo di mezzi sufficienti per dar da vivere allamoglie; ma, con un provvido intervento di Dal-l’Ongaro, il Rapisardi ottenne un incarico d’in-segnamento nell’Ateneo catanese: e ciò glipermise d’accelerare le nozze, celebrate a Mes-sina nel febbraio 1872. La vita coniugale nonfu felice per la sposa, a cagione non tanto delladifferenza d’usi e costumi, allora profonda, traToscana e Sicilia, quanto, e soprattutto, del ca-rattere violento del marito. Una mania di per-secuzione portava il Rapisardi a sfogare quelsuo delirio soprattutto sulla moglie, addiritturausandole delle violenze. Una sera del 1880,trovandosi a Firenze ospiti della signora Foja-nesi, i coniugi avevano deciso d’andare a tea-tro; all’ultimo momento, mentre la Giselda sistava preparando, il marito – cambiata brusca-mente idea – proibì di uscire; e alle rimostranzedella moglie la colpì ripetutamente con un fru-

stino. Alle vessazioni del marito s’accompa-gnava per di più il comportamento malevolodella suocera e di un’acida cognata. I coniugisi separarono nel 1883, dopo che il marito ebbescoperto una lettera amorosa inviata alla mo-glie dal Verga, che la Giselda, incontratolo treanni prima a Firenze, aveva ripreso a frequen-tare. La Fojanesi riuscì, da separata, a provve-dere a sé dando lezioni private, collaborando

con giornali e riviste e infine divenendo, nel1884, coadiutrice nella guida degli educandatifemminili. Iscritta all’istituto di studi superioridi Firenze si laureò con una tesi su GasparaStampa, insegnando poi fino al 1923. Cessatala sua attività a Milano da ispettrice degli edu-candati femminili, si spense a Lodi nel 1946. La varietà della produzione letteraria della Fo-janesi è legata alla molteplicità dei suoi inte-ressi culturali. Precorritrice della Montessori,ella maturò profonde riflessioni sui criteri edu-cativi nei collegi; da ispirata, intelligente fem-minista rivendicò alla donna l’esercizio didiritti fondamentali, come quello di voto, chele assicurassero una non effimera parità difatto. La serie delle sue opere, iniziata nel 1883con Maria e conclusa nel 1914 con le novelleIn Toscana e in Sicilia, ha meritato qualche ri-stampa verso la fine del novecento.

6.- Vittoria Aganoor Pompilj, figlia del conteEdoardo Aganoor d’origini armene e di Giu-seppina Pacini, era nata il 26 maggio 1855 aPadova: città che, lasciata dagli Aganoor pochi

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anni dopo per Venezia, ella continuò a frequen-tare perché il suo maestro Giacomo Zanella po-tesse ancora seguirla negli studi. Fu Zanella afar pubblicare nel 1876 il suo primo saggiopoetico. Di carattere schivo e per di più ambi-

ziosa, l’Aganoor si mostrò restia a misurarsicol favore del pubblico, tant’è che soltanto nel1900 fu edito, su sollecitazione degli amici, ilsuo primo libro Leggenda eterna. A questo fe-cero seguito nel 1908 le Nuove liriche. Bene-detto Croce, nel capitolo XLII de Laletteratura della nuova Italia, scriveva che se«dell’Aganoor fu non solo amico ma addirit-tura maestro lo Zanella», tuttavia «non vi hatraccia nei versi di lei d’influsso della poesiazanelliana, e neppure della “scuola letteraria”che pur si avverte in tanti componimenti dellaBrunamonti. La “scuola” vive solamente neglieffetti, cioè nella diligenza con la quale l’Aga-noor lavora le sue poesie, nell’assenza di sciat-teria, di sgorbi, di volgarità, di contorsioni: noncome rigidezza letteraria, ma come acquisitasignorilità di modi… La vera origine della li-bertà, spontaneità e semplicità alle quali essapervenne è da cercare nella sua anima stessa.Anima di donna e non già spirito virile, comeinvece la Brunamonti…: l’Aganoor amò epenò per amore». Di questa donna amorosa eradivenuto marito nel 1901, a Napoli, il nobiledeputato Guido Pompilj, brillante uomo poli-tico; e su di lui l’Aganoor aveva riversato latraboccante pienezza del suo affetto: ricam-

biata a tal punto che il giorno stesso della suamorte improvvisa (8 maggio 1910) il disperatomarito si tolse volontariamente la vita.

7.- Matilde Serao era nata in Grecia da Fran-cesco, profugo napoletano sfuggito nel ’48all’assillante controllo della polizia borbonica,e da Paolina Bonelly, greca. La nascita – comeconferma la colta sua biografa Anna Banti an-ch’ella inclusa nel novero delle scrittrici qui ri-cordate – ne era avvenuta a Patrasso l’anno1857 (non il 1856, secondo l’affermazione dialtri). Sbarcò a Napoli con i genitori il 15 ago-sto 1860 quando non ancora Francesco IIaveva lasciato la città e questa era divisa tra le-gittimisti e risorgimentali, plebe assoldata daLiborio Romano, emissari piemontesi e gari-baldini in avanscoperta. A scanso di pericoli,la piccola e la mamma vennero inviate da Fran-cesco Serao a Ventaroli, suo paese di origine.Ricompostasi poi a Napoli la famiglia, la pic-cola Matilde ebbe a manifestare un caratteresempre più ostinato e ribelle, al punto da rag-giungere i nove anni senza aver imparato evoler imparare a leggere e scrivere. Fu l’amorealla mamma, dolcissima, col timore di perderlaper una malattia che l’aveva colpita, lo sproneche indusse Matilde a «piegarsi sull’alfabeto».Quando la madre fu guarita ella leggeva «ve-locemente, benissimo». Frequentata la scuolanormale e ottenuto un impiego ai telegrafidello stato, cominciò a pubblicare su fogli lo-cali bozzetti e novelle; e riuscì a entrare nellaredazione del Corriere del mattino, diretto daMartin Cafiero. Trasferitasi nel 1882 a Romascrisse per il Capitan Fracassa, il Fanfulladella domenica, la Nuova Antologia, la Cro-naca bizantina. Il suo primo romanzo, Fanta-sia, è del 1883. Sposò l’anno dopo EdoardoScarfoglio, col quale fondò il Corriere diRoma, e poi il Corriere di Napoli. Il Mattino,pure da loro fondato, vide la luce il 16 marzo1892; e di esso la Serao fu condirettrice. Fondòinfine Il Giorno, del quale appariva direttorel’avvocato Giuseppe Natale, a cui la Seraos’era unita dopo la separazione dal marito, ge-nerando, con una vitalità sorprendente ai suoiquarantotto anni, la figlia Eleonora. Il legamecol Natale era stato poi regolarizzato dopo la

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morte dello Scarfoglio. Nell’opera di Matilde Serao, fiorita in una Na-poli che stava diventando in quella fine delXIX secolo una delle città italiane cultural-mente più importanti, ci si è domandati se do-vesse darsi prevalenza al valore dellagiornalista o a quello della scrittrice di romanzie novelle. La risposta definitiva sembra dover

essere nel senso che l’attività della Serao gior-nalista non avesse mai oltrepassato un interesselocale. Altra cosa è da dirsi invece dell’autricedi romanzi e novelle (Fantasia, La virtù diChecchina, Piccole anime, La ballerina, Paesedi cuccagna, Suor Giovanna della Croce). Loconfermò Croce in un suo saggio rimasto fon-damentale, che indica come opera di miglior

ispirazione della Serao quella che, discostan-dosi dai canoni della narrativa “verista”, appas-sionatamente rievoca con sicura intuizione leangosce degli umili e gli aspetti mutevoli, toc-canti e più d’una volta bizzarri, della vita na-poletana.Nel 1926 era opinione diffusa che il premioNobel sarebbe stato assegnato per quell’annoa una scrittrice probabilmente italiana; la vin-citrice riservata in pectore dall’Accademia diSvezia veniva da più parti indicata come laSerao. Della mancata assegnazione a lei di quelpremio, assegnato a Grazia Deledda (dallaBanti giudicata «mediocre»), ci si è ostinati aricercar la causa, che con quasi assoluta cer-tezza dovrebbe addebitarsi a risentimenti diMussolini verso la Serao: per aver Il Giornotroppo insistito sulle responsabilità del Capodel Governo con riguardo alle fosche vicendedell’affare Matteotti e per aver scritto la Seraoproprio in quell’anno un romanzo (giudicatoperaltro cattivo) come Mors tua, polemico con-tro quella guerra ’15-18 che il fascismo, iden-tificandosi con l’Italia «di Vittorio Veneto»,andava invece esaltando. Ciò non impedì chel’anno successivo (1927), morta la Serao, certastampa fascista la esaltasse come «l’ammira-trice più fedele del Duce». Non può infine ta-cersi che al coro levato da scrittori e scrittriciin commemorazione della Serao mancò (ed èancora la Banti a ricordarlo) proprio la voce diGrazia Deledda. (1.Continua)

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È nato il portale CAMPANIARCHIVI (www.campaniarchivi.benicultu-rali.it), che si propone di costituire un punto di accesso alle infor-mazioni sugli archivi riguardanti la storia e l’identità della regionee sui centri di cultura che li valorizzano e li promuovono, destinatoa operatori e studiosi, ma anche ad appassionati e curiosi. A tal fine,gl’istituti archivistici del Mibac agenti in Campania propongono aoperatori pubblici e privati del settore di condividere l’iniziativa, at-

traverso la proposta d’informazioni e notizie con cui implementare il portale, senza alcunaltro onere. Lo scopo dell’iniziativa è quello di agevolare e semplificare lo scambio e la ri-cerca di notizie e di altri contenuti presenti su una vasta serie di siti istituzionali. Chi intendesse aderire può inviare alla redazione ([email protected]) ilnome e la qualifica del responsabile, l’indirizzo del sito web istituzionale, nonché il nomee i recapiti del referente.

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MANIFESTO DELLA FOTOGRAFIA FUTURISTA16 APRILE 1930

Documenti.3

La fotografia di un paesaggio, quella di una persona o di ungruppo di persone, ottenute con un'armonia, una minuzia

di particolari ed una tipicità tali da far dire: "Sembra un qua-dro", è cosa per noi assolutamente superata. Dopo il fotodi-namismo o fotografia del movimento creato da Anton GiulioBragaglia in collaborazione con suo fratello Arturo, presentatada me nel 1912 alla Sala Pichetti di Roma e imitata poi da tuttii fotografi avanguardisti del mondo, occorre realizzare questenuove possibilità fotografiche: 1° Il dramma di oggetti immobili e mobili; e la mescolanzadrammatica di oggetti mobili e immobili; 2°il dramma delle ombre degli oggetti contrastanti e isolatedagli oggetti stessi; 3° il dramma di oggetti umanizzati, pietrificati, cristallizzati o vegetalizzati mediante camuffa-menti e luci speciali; 4° la spettralizzazione di alcune parti del corpo umano o animale isolate o ricongiunte alogica-mente; 5° la fusione di prospettive aeree, marine, terrestri; 6° la fusione di visioni dal basso in alto con visioni dall'alto in basso; 7° le inclinazioni immobili e mobili degli oggetti o dei corpi umani ed animali; 8° la mobile o immobile sospensione degli oggetti ed il loro stare in equilibrio; 9° le drammatiche sproporzioni degli oggetti mobili ed immobili; 10° le amorose o violente compenetrazioni di oggetti mobili o immobili; 11° la sovrapposizione trasparente o semitrasparente di persone e oggetti concreti e dei loro fan-tasmi semiastratti con simultaneità di ricordo sogno; 12° l'ingigantimento straripante di una cosa minuscola quasi invisibile in un paesaggio; 13° l'interpretazione tragica o satirica dell'attività mediante un simbolismo di oggetti camuffati;

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F. T. Marinetti

Sono alcuni altri, che, per qualche credula pazzia, temendo che per vedere non se gua-stino, vogliono ostinatamente perseverare ne le tenebre di quello c’hanno una volta ma-lamente appreso. Altri poi sono i felici e ben nati ingegni, verso gli quali nisciuno onoratostudio è perso.

Giordano Bruno, La cena de le ceneri

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14° la composizione di paesaggi assolutamente extraterrestri,astrali o medianici mediante spessori, elasticità, profondità tor-bide, limpide trasparenze, valori algebrici o geometrici senzanulla di umano nè di vegetale nè di geologico; 15° la composizione organica dei diversi stati d'animo di unapersona mediante l'espressione intensificata delle più tipicheparti del suo corpo; 16° l'arte fotografica degli oggetti camuffati, intesa a svilup-pare l'arte dei camuffamenti di guerra che ha lo scopo di illu-dere gli osservatori aerei.

Tutte queste ricerche hanno lo scopo di far sempre più sconfinare la scienza fotografica nell'artepura e favorirne automaticamente lo sviluppo nel campo della fisica, della chimica e della guerra.

Filippo Tommaso Marinetti - Tato*_________

* Guglielmo Sansoni

VIAGGIO NELL’ARTE

l’etichetta “VIAggIo nell’ARte” contrassegna la serie dimanifestazioni organizzate dalle Arciconfraternite vome-resi del ss. Rosario e di santa Maria del soccorso, colpatrocinio dell’ufficio Confraternite dellaCuria arcivescovile napoletana, della Re-gione Campania, di sCABeC e di RadioMarte. In tale ambito, negl’ipogei delledue confraternite suddette è stata alle-stita, dal 10 maggio al 9 giugno, una mo-

stra di trenta opere del maestro Carmine Meraviglia (nellafoto a destra), intitolata, in maniera significativa, “le Me-

RAVIglIe, un VIAggIo nell’ARte” (foto in alto).Inoltre, il 25 maggio il medico-scrittore proci-dano giacomo Retaggio e il fotografo Aniello In-tartaglia, e il 1° giugno il giornalista Pietrotreccagnoli, hanno presentato i rispettivi volumiIl Venerdì santo procidano (v. foto in basso e re-

censione a p. 47) e l’Arcinapoletano. Infine, il 7 giugno si è esibito in unconcerto il “napoli City Choir” diretto dal m° Carlo Morelli, che avevagià partecipato alla serata inaugurale del ciclo.

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Bragaglia, Thaïs (1917)

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IL 25 APRILESIA INNANZITUTTO LIBERAZIONE DALL’ODIO

di Raffaele Pisani

Disgraziatamente è ancora vivo l’odiodell’uomo contro l’uomo! Purtroppo

sempre più frequenti vediamo immagini di di-struzione e di morte provocate da scelleratiche, diventando prede del demonio, spargonosangue innocente in tante parti del mondo.Ecco perché il 25 aprile deve essere innanzi-tutto festa di liberazione dall’odio, quell’odioche non si sconfigge con vuote parole ma fa-cendo parlare le coscienze, ma che siano nuove queste coscienze, totalmente rinnovate interior-mente. Devono essere solo le coscienze a parlare, e da tutte esca una sola parola, una sola meta,un solo grido: pace! E soltanto quando non ci limiteremo a scriverla sui muri o sui manifesti osui giornali ma la scolpiremo nel profondo dell’animo di ognuno di noi, la parola “pace” assu-merà il vero significato e aprirà il cuore dell’uomo ai più ampi orizzonti d’amore e di progresso,civile e morale. Solo allora avremo pace noi ed avranno pace i morti di tutte le guerre, di tuttele ideologie, di tutte le resistenze, di tutte le bandiere. Solo sradicando dal nostro essere l’odio,il rancore, la sete di potere e l’ignoranza riusciremo a dare il vero valore alla festa del 25 aprile!I morti dei Lager, delle Foibe, di via Fani, di Capaci, di via D’Amelio, di via Carini ecc., voglionopace e, soprattutto, non vogliono essere morti invano.Quei pochi fanatici che applaudono i nazisti che massacrarono gli inermi ebrei, quei naziskinche colpiscono sfortunati uomini di colore, quegli esaltati che in nome del Divino massacranopersone inermi ed innocenti altro non sono che poveri malati bisognosi di cure, e possono esserecurati solo da uno Stato al completo servizio del cittadino e del progresso, della democrazia edella libertà. Solo se tutte le forze politiche lavoreranno e collaboreranno onestamente e total-mente per il bene comune, si potrà costruire quello scudo che ci difenderà da ogni male, da ognisoverchieria, da ogni ingiustizia.Bisogna finalmente sotterrare tutte le asce da guerra e, proprio in nome di quei martiri, stringersila mano e iniziare un cammino nuovo fatto di reciproca comprensione e solidarietà per ricostruiretutti insieme non solo la nostra Patria, ma il mondo intero dove ancora tante tragedie vengonoconsumate dall’uomo contro l’uomo.

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DALLA LINGUA AL MODO DI PENSARE

di Umberto Franzese

Anche noi Napoletani, nonostante pesi e lac-ciuoli, abbiamo una lingua, e che lingua!

E siccome non vogliamo, come avviene perl’idioma gentile imbastardito dagli anglicismi,dare seguito ad una progressiva perdita dellanostra identità, sentiamo forte il bisogno asso-luto di tutelarla, valorizzarla.Sì, è vero, nel napoletano c’è più napoletanitàche italianità. Una napoletanità che si estendeoltre confine, forse a volte ambigua, a volte im-presentabile, ma senz’altro più fatale, più sco-perta. Dalla lingua al modo di pensare, dioperare, il passo è breve. La nostra lingua, la lingua dei Padri, ha mo-strato, sempre, segni di accettazione senzaalcun disgusto nei riguardi di altri patrimonilinguistici, rigenerando, vitalizzando, però,identità e culture diverse. Noi, oggi, siamo inparte americani, in parte inglesi, come giàfummo francesi o spagnoli. E lo siamo perché

vogliamo tutto di tutto, così procedendo adimitazione delle mode degli altri, all’inquina-mento, al depauperamento della nostra lingua,della nostra cul-tura. Non è così per lalingua napole-tana perché con-statiamo invecefacili consensi,sensibile accetta-zione, per la lin-gua napoletana,grazie a studiosi,come Adamo Ledgeway di Manchester, Mar-cello Marinucci di Trieste, Edgar Radtke diHeidelberg, oltre ai nostri Francesco D’Ascoli,Nicola De Blasi, Renato De Falco, Carlo Ian-dolo, Pietro Lignola, Sergio Zazzera. Un pro-fondo interesse, è ampiamente comprovato

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Adamo Ledgeway

Il 15 marzo scorso, il teatro Salvo D’Acquisto (via Mor-ghen, Napoli) ha ospitato un omaggio a Raimondode’ Sangro, principe di Sansevero, e all’artista e scrittoreMario Buonoconto, sotto il titolo: SERENATA ALCHEMICA. La

pianista Maria Grazia Ritrovato ha eseguito musichedi Liszt, Paderewski e Mendelssohn, oltre che compo-

sizioni proprie; lo scrittore Martin Rua ha letto pagine del Viaggio fantastico diMario Buonoconto e della Lettera apologetica di Raimondo de’ Sangro.

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dagli studi linguistici e filologici nell’Otto-cento, di Wintrup, Wittemberg, Gaspary,Macht, Hof, De Tourtoulon. La napoletana, che è la seconda lingua più par-lata in Italia, è stata recentemente ritenuta, abuon titolo, dall’UNESCO, patrimonio del-l’umanità*. Milioni sono i Napoletani sparsinel mondo, più che nella capitale del Mezzo-giorno d’Italia. Da San Paolo a Buenos Aires,da Rio de Janeiro a Sidney, a New York. Par-lano napoletano, cantano napoletano, tifanoNapoli. Loro di Napoli amano soprattutto lalingua che è l’elemento identitario più forte, ilrequisito, la traccia che li lega visceralmentealla loro terra d’origine. Mentre si fa largo l’urgenza di una legge regio-nale che tuteli e valorizzi la nostra bella lingua,in 130 comuni del friulano, una delibera appro-vata nel 2007, ha trovato il suo regolamento at-tuativo secondo una sentenza della CorteCostituzionale. E così resta tutelato, valoriz-zato il triestino, il bosiaco, il gradese, il gori-ziano, il muggesano. Il Veneto è tutelato dallaLegge 5 del 2010. Pure preservati sono l’emi-liano e il ligure. È necessario far capire a chi sioccupa della salvaguardia di culture e tradi-zioni locali, che il valore maggiore è proteg-gere la propria identità, garantendo le proprieidee, i propri desideri, le proprie sensibilità.Occorre sgravarsi di pesantezze, liberarsi di ri-strettezze. Chi si ammanta di esterofilia permostrarsi à la page, consente per limitatezza,

per fiacchezza,l’insieme di lin-gue e culture di-verse, così ri-nunciando alleproprie tradi-zioni, ai proprivalori. Con Redeamusad Neapolita-num, dal 2005 adoggi, nella nostra città, sono state realizzate nu-merose ricerche, tavole rotonde, analisi, tratta-zioni con il contributo di tenaci e illustristudiosi. Bisogna fare presto per mettersi allapari con le altre Regioni. _______________

* In realtà, all’indirizzo Internet: http://www.ficlu.com/iniziativa_select.php?idc=1454 si legge testualmente:«Il Club UNESCO Napoli inizia il nuovo anno con unsignificativo evento a tutela del dialetto napoletanocome patrimonio da salvaguardare e preservare per lefuture generazioni, così come recita il documento UNE-SCO: Language vitality and endangerment istituito dal-l’UNESCO nel 2003 per la salvaguardia delle lingueminoritarie e come sancito dalla giornata UNESCO perla lingua madre con l’obiettivo di promuovere la diver-sità culturale anche attraverso la conoscenza del dia-letto». Dunque, l’UNESCO si è limitata semplicementea includere il napoletano tra i Leading languages in dailyuse, previa affermazione della natura di Official lan-guage della lingua italiana, come si rileva pure dalla ta-vola 6 della Useful information for cultural mediators.(n.d.r.).

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Si è conclusa, il 16 marzo scorso, alla Galleria FiorilloArte (Riviera di Chiaja, 23, Napoli), congl’interventi di Sergio Zazzera eFranco Lista, rispettivamente direttoree redattore di questa testata, la mostra“7 PECCATI CAPITALI & VIRTÙ”, dell’ar-tista italo-rumena Luminita Irimia, cu-

rata da Emanuela Capuano, Director of Art and Educationprojects del Diana Franco Art&Design Studio. Il folto pubblico che ha visitato l’esposizione ha potuto apprez-zare l’ impronta surrealista delle opere esposte, ispirate al pensiero del filosofoarmeno Georges Ivanovič Gurdjieff.

Renato De Falco

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NAPOLI È ANCORA UNA CAPITALE?

La domanda può apparire inutile, nostalgica per-sino sterile, se solo si guardasse al processo sto-

rico che ci ha portato all’attuale quadro, ma inrealtà se si tralascia questo aspetto e si fa un’analisiobiettiva e precisa della situazione, si vedrà allafine che non si tratta di un concettodel tutto inutile e quindi trascurabilee che anzi ha molteplici implicazioninella realtà e può, cosa principale,avere una valenza anche per il futurodella nostra area.Napoli, un tempo lontano, ma nontroppo, dal medioevo, fu una delle ca-pitali non solo culturali d’Europa edel mondo intero, la città che finoall’Unità d’Italia essendo la capitaledi un regno era il punto di riferimentonon solo culturale ma anche politicodi un area che comprendeva tutto il meridione delpaese e l’Abruzzo, questo si badi per secoli.Ma è ancora oggi così? dopo un processo di declinoe di perdita di peso politico ed economico che piac-cia o no è iniziato con l’Unità, è infatti incontesta-bile che con la perdita del ruolo di capitale, sianovenute meno una serie di prerogative che tale fun-zione assicurava: questo però al netto ed esclu-dendo da tali considerazioni i vantaggi che possonoessere derivati dall’unificazione.Domanda questa non scontata e non inutile, poichénon è in discussione l’estensione territoriale (me-glio, politica) di uno Stato, ma la capacità di unacittà di essere punto di riferimento per un’area conla quale un tempo vi era un’unione politica.Cosa molto più complessa e non facile, poiché unconto è un dominio politico con le modalità con cuiviene esteso e perpetrato, un conto è un’influenzaculturale ed economica che emerge per un discorso

di capacità e cresce e si perpetua soprattutto per le“ricadute” che è in grado di generare nelle altre aree.Appare evidente da queste premesse come Napoli,abbia perso questo ruolo o meglio abbia abdicato aquesto ruolo, all'indomani dell’unità, non tanto si

badi per le note scelte e dirette con-seguenze politiche, quanto piutto-sto perché da parte della sua classedirigente non vi è mai stata la con-sapevolezza del ruolo che la cittàavrebbe dovuto e potuto esercitarein rappresentanza dell'intero Mezzo-giorno.Tale politica ha comportato anchedelle ricadute sia pur indirette sullaquestione meridionale, che vadetto è oggi abbastanza sterile econ istanze alquanto locali ovvero

marginali. Diverso sarebbe stato se fosse portataavanti come una sorta di “lascito” del Regno delleDue Sicilie con tutte le accezioni in termini anchepolitici: si badi bene non si sarebbe dovuto auspi-care un ritorno al passato (al regno delle Due Sici-lie) quanto piuttosto imporre sullo scenarionazionale le istanze culturali e politiche della nostraarea:;chiaro che con la spinta di un progetto unita-rio (nato dalla vecchia capitale) avrebbe avuto benaltra rilevanza.Molto spesso infatti si ritiene che questa debba es-sere capitale per diritto, in virtù di un passato glo-rioso, senza alcuna consapevolezza dei tempimoderni, senza accettare il confronto con altre re-altà, laddove da una sana concorrenza, da un duellocon altre città vi sarebbe lo stimolo per cercare dimigliorare il proprio ruolo; cosa ancor peggiore,negli anni la città ha smesso di essere riferimentoper il resto del sud e si è sempre di più chiusa in se stessa.

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di Nico Dente Gattola

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Napoli paga di conseguenza l’incapacità a fareruolo con altre città o paesi stranieri, frutto in tempirecenti non tanto della perdita dello status di capi-tale, quanto di scelte politiche poco avvedute a li-vello locale e della cronica incapacità direinterpretare il proprio ruolo; quindi emerge cheil problema principale è dovuto alla mancanza discelte adeguate e di una visione della città dopol’Unità, ovvero dell’assenza di una programma-zione adeguata in grado di reinterpretare il ruolo dellanostra metropoli.Vero che come in precedenza mancano adeguateinfrastrutture ma questo non è il solo problema,poiché allo stato non vi è alcun dialogo con il restodel Mezzogiorno, si aggiunga che da queste partinon vi è mai stata l’intuizione di fare rete con lealtre realtà ma troppo spesso si lavora per un van-taggio immediato per se stessi,Da troppi anni per questi motivi è in atto un pro-cesso di “oblio” di quello che è stato il passato e diquella che era la vocazione della città: ovvero diessere capitale anche culturale del resto del Mez-zogiorno e vi sono scelte che privilegiano il carat-tere locale, senza pensare ad ipotesi che possanomettere in contatto con altre realtà attraverso pro-getti comuni.Troppe volte il presunto benessere della comunitàlocale porta a sacrificare qualsiasi ipotesi di intera-zione finanche con centri limitrofi come Salerno,il tutto sulla base di scelte che appaiono troppospesso legate a piccole questioni; anzi per dire ilvero, spesso si è avuto quasi paura di fare scelte chesecondo l’opinione pubblica e alcuni esponenti po-litici davano vantaggi maggiori a realtà locali limitrofe.La sfida per Napoli, se vuole essere considerata an-cora una capitale almeno morale del Mezzogiornod’Italia, è quella di fare scelte che possano averericadute anche su zone limitrofe, senza pensare a scelteche debbano avere una ricaduta solo in ambito locale.Certo un discorso di capitale e del ruolo di Napoli,impone di considerare come alla città vada affian-cata l’istituzione della Regione, necessaria peravere un ruolo adeguato sullo scacchiere del Mez-zogiorno (impensabile ritenere che un discorso delgenere possa essere affrontato solo con riferimentoalla realtà cittadina napoletana).Inutile dire che sarebbe auspicabile anche una rivi-sitazione dell’area metropolitana con una radicalemodifica del ruolo della città metropolitana e delsuo perimetro, al limite con un suo allargamentoalla realtà casertana che da sempre rappresenta lanaturale prosecuzione dell’area di Napoli.Le stesse regioni, nella loro connotazione geogra-

fica dovrebbero essere rivisitate, con l’aggrega-zione di aree tra loro omogenee; certo in tempi dif-ferenti sarebbe stato auspicabile sostenere laproposta pervenuta da alcuni esponenti politici dicreare un’unica regione del sud, che tuttavia allostato rischierebbe di essere il “detonatore” per ladisgregazione definitiva dell’unità italiana visto ilquadro politico in atto.Bisogna infatti tenere bene a mente che vi sonoaree del paese che hanno avviato un progetto dimaggiore autonomia e che potrebbero trarre mag-giore forza al loro progetto da questo nuovo assettoistituzionale.Si aggiunga poi anche che a livello locale, soprat-tutto come abbiamo visto, a causa delle scelte na-poletane, vi sarebbero forti resistenze da parte dellealtre regioni per il ruolo che Napoli dovrebbe rico-prire, non essendoci più ormai consapevolezza (lamemoria storica non sempre è sufficiente) di quelloche il Regno delle Due Sicilie e prima il Regno diNapoli ha rappresentato.Infatti Napoli è oggi percepita nel resto del Mez-zogiorno come un’altra realtà con cui confrontarsie non vi è più alcun legame con il suo ruolo di an-tica capitale; in altre parole, ed è il problema mag-giore che emerge, non un abbiamo più un sololocalismo ma più localismi con tutte le conse-guenze divisive che ne derivano; che piaccia o no,questa è la realtà del Mezzogiorno oggi, che al con-trario avrebbe assoluto bisogno di ritrovareun’unità politica.Ecco perché non si tratta di una questione banale,retorica o peggio ancora di una mera nostalgia peril passato, ma di uno dei punti dai quali partire, peravviare finalmente un processo di ricostruzionedell’identità meridionale e di qui di sviluppo e ri-lancio di questa area: infatti senza una nuova con-sapevolezza della propria identità ovvero con unnuovo slancio culturale, qualsiasi processo di recu-pero dell’intera Italia meridionale, di ripresa eco-nomica è destinato ad arenarsi perché privo di identità.I segnali sono tuttavia positivi, ragion per cui è ilcaso di dire che se si procede nella giusta direzione,non è più un punto interrogativo se Napoli possaessere o meno una capitale (sia pur in senso latoovvero culturale ed economico) ma una possibilità dacogliere per tutto il sud e sia consentito per l’intero paese.Senza un meridione realmente parte del paese, ov-vero senza una Napoli punto di riferimento di que-st’area del paese, non vi sarà mai un concretorilancio del paese Italia: che piaccia o no, questa èla realtà dei fatti.

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L’ECCIDIO DI SAN SALVATORE TELESINOovvero

“L’ULTIMA NOTTE DI BEDÒ”

di Sergio Zazzera

Ha sicuramente ragionechi – Cicerone o chiun-

que altro – affermò: «Senato-res boni viri»1 (e tralascio ilresto): se, infatti, posso scri-vere queste righe, devo esseregrato a ben due amici, en-trambi senatori (anche se,ormai – e purtroppo per l’Ita-lia –, emeriti); ma sarà il casodi cominciare dal principio.Grazie al primo dei due amicidi cui sopra, Luigi Marino,coordinatore regionale A.N.P.I.della Campania, alcuni annifa venni in possesso della ri-produzione in formato pdf dei fascicoli concer-nenti i crimini nazifascisti consumatisi inCampania, rimasti occultati per lungo temponel c.d. “armadio della vergogna”. Per i nonaddetti ai lavori, preciso che si tratta della ster-minata mole d’incartamenti processuali dei tri-bunali e delle procure militari, tenuti nascostiper decenni su ordine del potere politico deldopoguerra, senza che talvolta i relativi pro-cessi fossero stati neppure definiti; fascicoliche sono stati riportati alla luce attraversol’istituzione di un’apposita Commissione par-lamentare d’inchiesta, cui ha dato vita la legge

15 maggio 2003, n. 1072.Nel consultare questa docu-mentazione, m’imbattei nelfascicolo del tribunale mili-tare territoriale di Napoli con-trassegnato dagl’identificativin. 625/68 r.g. - doc. n. 105/432,che reca la rubrica: «Controignoti militari tedeschi / vio-lenza con omicidio / partelesa: Benedetto Bove - Rosa-rio De Leva - Franco Dusmet- Aldo Pezzato». Il teatro deifatti s’identifica con il territo-rio del comune di Faicchio,lungo il confine con quello di

San Salvatore Telesino; è per questo motivoche l’episodio, avvenuto il 13 ottobre 1943, ènoto come “l’eccidio di San Salvatore Tele-sino”.I saggi di storia – sia della seconda guerramondiale, che di quella municipale: i primi dame compulsati – non si soffermano, quasi pernulla, su questi avvenimenti: a dedicare lorouna decina di righe è Gabriella Gribaudi, in unvolume collettaneo da lei stessa coordinato, av-valendosi di fonti custodite dall’Archivio cen-trale dello Stato e dalla National Archives andRecords Administration di Washington3. Per il

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Letture.1

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resto, perfino un saggio alquanto recente sultema della Resistenza nel Sannio cita soltantol’«uccisione di quattro civili»4, mentre GloriaChianese, a sua volta, si limita a ricordare, connotevole imprecisione, «l’uccisione di 4 mili-tari (corsivi miei) sbandati a San Salvatore Te-lesino»5 e Luigi Ganapini menziona uni-camente il «tragico epilogo» del rastrellamentoper taluni dei fuggiaschi6. Un plauso, semmai,meritano gli studenti della scuola media statale“Sen. G. Pascale” di Faicchio, i quali ricordanol’avvenimento in una loro ricerca sulla storialocale7. Per altro verso, infine, i fatti di San Sal-vatore Telesino trovano spazio nel documenta-rio, realizzato dallaConsulta provincialedegli studenti di Be-nevento e dal Comi-tato provinciale A.N.P.I.di Benevento8, pre-sentato a San Loren-zello il 6 agosto 2013.A questo punto, però,s’inserisce l’inter-vento, assolutamenteprovvidenziale, delsecondo amico sena-tore, Antonio Conte,telesino, presidente del Comitato provincialeA.N.P.I. di Benevento, il quale, interpellato dame, per saperne qualcosa di più, mi fece donodel saggio prezioso, del quale ora mi occupoin queste pagine, pur se a distanza di diversianni dalla sua pubblicazione, perché, per iltema affrontato, si tratta di una vera e propria“opera senza tempo”.L’autore di esso, Emilio Bove, medico di SanSalvatore Telesino, affetto dall’hobby della sto-ria, è parente di una delle vittime dell’eccidio,Benedetto Bove, il cui soprannome – “Bedò”– ha determinato l’intitolazione dell’opera:L’ultima notte di Bedò. Si tratta di due volumi,uno dei quali contiene la narrazione, in formaromanzata, dell’episodio, mentre l’altro – sot-totitolato Dossier – pubblica, in anastatica,l’intera documentazione del fascicolo proces-suale9. Questi i fatti, in estrema sintesi, poiché ritengo

che le recensioni dei libri non debbano mai so-stituirsi agli stessi nel descriverne il contenuto:il 9 ottobre, un rastrellamento tedesco, neipressi di Piedimonte d’Alife (oggi PiedimonteMatese), consentì di fare ben centoventotto pri-gionieri, affidati alla sorveglianza di guardieitaliane, le quali, però, dopo quattro o cinquegiorni, permisero loro di fuggire. Quattro diessi, anziché seguire il gruppo in fuga per lecolline, si avviarono per una strada diretta; iloro corpi privi di vita, perché fatti segno acolpi di arma da fuoco, furono rinvenuti, il 18di quello stesso mese, nella cappella di SanFrancesco, che sorge al confine tra San Salva-

tore Telesino e Faic-chio, in territorio diquest’ultimo comune.Peraltro, l’a. riferiscedell’esistenza di unaquinta vittima, ches’identificherebbe intal Ferdinando Me-neo, il cui cadavere,rinvenuto dopo alcunigiorni, egli ritiene chepotrebb’essere statorimosso dopo l’ucci-sione, che sarebbe av-

venuta all’esterno della cappella10. Inproposito, mentre credo che, dopo il ritrova-mento del cadavere, sarebbe stato essenzialedeterminare l’epoca della morte, d’altronde,posso anche immaginare che, a distanza ditempo, si sia “ricamato” sulle circostanze in cuiessa sarebbe avvenuta.L’opera del Bove risponde a una serie d’inter-rogativi, che mi ero posto prima della sua let-tura.Il primo: di dov’erano originari i quattro gio-vani, e si conoscevano già? Soltanto BenedettoBove – “Bedò” – era originario di San Salva-tore Telesino; gli altri tre – Aldo Pezzato, Fran-cesco Dusmet De Smours e Rosario De Leva– appartenevano a famiglie sfollate nellazona11; più particolarmente, Rosario era figliodel musicista napoletano Enrico De Leva, ilquale interruppe l’attività di compositore dopoil tragico evento12. Sembrerebbe, poi, che tutti

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La cappella di San Francesco

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costoro si fossero conosciuti in occasione dellaretata13.Il secondo interrogativo: perché i quattro ra-gazzi abbandonano il gruppo in fuga verso imonti e si dirigono verso San Salvatore Tele-sino? Probabilmente, essi avevano pensato dipoter ricongiungersi al più presto ai loro fami-liari14.Qual era la provenienza della pistola rinvenutaaccanto al cadavere di Bedò? Èprobabile che egli l’avesse tro-vata e raccolta lungo la strada,dove poteva averla smarrita o ab-bandonata qualche militare tede-sco15.Il lavoro del Bove si arresta a unmomento precedente all’epilogodella vicenda giudiziaria, conclu-sasi, il 22 marzo 1970, conl’emissione della sentenza daparte del g.i. del tribunale mili-tare di Napoli, il quale, su con-forme richiesta del p.m., dichiaròl’improcedibilità dell’azione pe-nale, per essere rimasti ignoti gli autori delreato, il quale risulta così rubricato:

«Violenza con omicidio contro privati, continuata (artt.185 e 13 cpmg.; 81 e 575 cp.), per avere, nella secondadecade di ottobre 1943, in Faicchio (Benevento) con piùazioni esecutive di un medesimo disegno criminoso, ca-gionato senza necessità con colpi di arma da fuoco, lamorte dei privati cittadini italiani sottonotati, tutti da SanSalvatore Telesino (Benevento), che non prendevanoparte alle operazioni militari: Benedetto Bove; RosarioDe Leva; Franco Dusmet»16,

ed è evidente che le autorità statunitensi nonpotevano essere in possesso di tale documento.In realtà, una nota della 5a Armata del 14 di-cembre 1943 dà atto dell’impossibilità «di for-nire alcun nome di personale militare tedescocoinvolto in questo caso»17. Credo, tuttavia,che sia il caso di soffermarsi per un momentosu tale atto, poiché – per concludere – il rilievoche può essere mosso allo stesso, dal punto divista storico, è che, se è vero che non sono statiidentificati gli autori materiali del reato, è purvero, però, che non vi sarebbe stata alcuna par-ticolare difficoltà a individuarne i mandanti(Norimberga18 docet).

Né, d’altronde, questo è l’unico caso del ge-nere, poiché l’esempio più vistoso – oltre chegrave – è costituito dal fascicolo del procedi-mento contro Walter Scholl, che negli atti dellostesso è indicato come «Scholl, non meglioidentificato (sic), colonnello delle FF.AA. ger-maniche, comandante della Piazza di Napolidurante l’occupazione tedesca dal 12 al 30 set-tembre 1943»19. L’incarto contiene, oltre a un

«Registro delle violenze com-messe dai tedeschi nel mese disettembre» (consistite in episodidi violenza, anche mediante omi-cidio, di saccheggio, d’incendio,distruzione e danneggiamento),compilato dalla Legione dei Ca-rabinieri di Napoli, anche la re-quisitoria, con la quale il 5 marzo1950 il p.m. chiese l’archivia-zione degli atti, sul rilievo che: a)le indagini svolte non avevanoconsentito di «formulare una di-retta accusa a carico delloScholl», poiché gli organi di po-

lizia non erano stati «in grado di indicare perordine di chi furono commessi i diversi criminidi guerra suddetti»; b) mentre le truppe tede-sche abbandonavano Napoli, che quelle statu-nitensi si apprestavano a occupare, «ilcomando piazza non ebbe alcuna ingerenza»nell’«opera distruttiva» posta in essere da «for-mazioni speciali di pionieri»; c) mancherebbepure «la prova di una qualsiasi responsabilitàpenale, commissiva od omissiva, da parte delloScholl, anche per l’incendio dell’Università»,avvenuto il 12 settembre, sebbene l’episodioappaia in astratto riconducibile a una sua «di-retta attività». A tale requisitoria fa seguito ildecreto emesso il 25 febbraio 1954, con ilquale il giudice istruttore militare di Napoli ac-colse tale richiesta. E, per quanto possa esserevano porsi in proposito interrogativi utili sulpiano giuridico, pure varrà la pena di porseneuno utile su quello storico. Lo Scholl, infatti,fu l’autore di quel documento del 12 settembre,col quale, proclamato lo stato d’assedio e or-dinata ai cittadini la consegna delle armi, eglidichiarò, fra l’altro, di avere «assunto il Co-

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“Bedò”

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mando assoluto con pieni poteri della città diNapoli e dintorni», ponendo ai propri ordini leautorità civili e militari italiane e decretandoche i nascondigli di chi avesse agito «aperta-mente o subdolamente contro le Forze Armategermaniche» sarebbero stati «distrutti e ridottia rovine», che «ogni soldato germanico feritoo trucidato verrà rivendicato cento volte», chechi non avesse consegnato le armi da lui pos-sedute sarebbe stato «immediatamente passatoper le armi»20. Non è chiaro, dunque, che co-s’altro sarebbe stato necessario per ravvisare lapersonale responsabilità penale dello Scholl, inordine alle azioni criminose a lui ascritte.

EMILIO BOVE, L’ultima notte di Bedò, 2voll. (Benevento, Vereja Edizioni, 2009), pp.144+80, €. 14,00.____________1Attribuisce l’affermazione a Cicerone, fra gli altri, A.Angela, I tre giorni di Pompei, Milano 2016 (e-book); adubitare dell’attribuibilità, però, sono in tanti: per tutticfr. E. Citernesi - A. Bencini, Latinorum: dizionario dellatino contemporaneo, Firenze 1997, p. 260.2 Cfr. XIV Legislatura, Commissione parlamentare diinchiesta sulle cause dell’occultamento di fascicoli re-lativi a crimini nazifascisti, Resoconti stenografici dellesedute…, 4 voll., Roma 2007; v. pure G. Carbonara, I695 fascicoli archiviati nell’“Armadio della vergogna”quale effetto avranno?, in Notiziario ANPI, aprile 2016,p. 13.3 G. Gribaudi, Le stragi naziste tra Salerno e la LineaGustav, in Terra bruciata, Napoli 2003, p. 26: com’è

evidente, il saggio precede la possibilità di accesso agliatti di cui alla nota precedente.4 Cfr. P. Giorgione, Sanniti nella Resistenza, Benevento2000, p. 18.5 Cfr. G. Chianese, Quando uscimmo dai rifugi: il Mez-zogiorno tra guerra e dopoguerra (1943-46), Roma2004, p. 63.6 Cfr. L. Ganapini, L'Italia alla metà del XX secolo: con-flitto sociale, Resistenza, costruzione di una democrazia,Milano 2005, p. 54.7 Cfr. Scuola media statale “Sen. G. Pascale”, Il miopaese. Faicchio tra storia ed attualità, Piedimonte Ma-tese s.d., p. 29.8 Cfr. Volevamo la Pace (all’indirizzo Internet: www.you-tube.com/watch?v=KVW4EfWrJBA).9 Della stessa provenienza statunitense, però, di quellaconsultata da G. Gribaudi (cit. supra, nt. 3).10 Cfr. E. Bove, L’ultima notte di Bedò. Dossier, Bene-vento 2009, p. 59 s.11 Cfr. E. Bove, o. c. Dossier, Benevento 2009, p. 35.12 Cfr. V. Paliotti, Storia della canzone napoletana,Roma r. 2004, p. 79. 13 Cfr. E. Bove, L’ultima notte di Bedò, Benevento 2009,p. 74 s.14 Id., o. c. Dossier, p. 26.15 Ivi, p. 45 s.16 Fra gli offesi dal reato manca la menzione di AldoPezzato.17 Doc. n. 105/432, fol. 31 (trad. di fol. 4).18 Sul cui processo cfr., ex plurimis, E. Wall, Il processodi Norimberga, Milano 1946.19 Doc. n. 79/6, il cui n. r. g. non è leggibile nella ripro-duzione in pdf.20 Il documento è riportato in tutti i saggi sull’argomento;ex multis, cfr. A. Tarsia in Curia, La verità sulle “QuattroGiornate” di Napoli, Napoli 1950, p. 22 sg.

“Napoli città libro”, Salone dell’editoria, svoltosi que-st’anno a Castel Sant’Elmo, ha accolto, il 6 aprilescorso, il corso di aggiornamento sul tema “IL GIORNALI-SMO E LE NUOVE SFIDE DELLA DEMOCRAZIA TRA SOSTENI-BILITÀ E LEGALITÀ”, organizzato dall’Ordine nazionaledei giornalisti, per ricordare il 40° anniversario dell’uc-cisione di Mario Francese per opera della mafia paler-mitana. L’incontro è stato preceduto dal saluto di

Ottavio Lucarelli, presidente dell’Ordine dei giornalisti della Campania, dalla proiezionedi un documentario in memoria di Luigi Necco, introdotto da Antonio Parlati, e da unintervento di Enrico Giovannini. Ha fatto seguito la tavola rotonda, che ha visto impe-gnati, insieme con Carlo Verna, presidente nazionale dell’Ordine, i giornalisti FeliceCavallaro, Giulio Francese, Roberto Natale e Franco Nicastri, coordinati da ElisabettaCosci. Un monologo di Cavallaro è stato recitato dall’attore Salvo Piparo, accompa-gnato dal percussionista Francesco Cusumano.

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LA LEZIONE DELLA STORIA IN“ROMANZO IN BIANCO E NERO”

DI DELIA MOREA

di Monica Florio

Una riflessione sulla Storia esullo scorrere del Tempo scaturi-sce da Romanzo in bianco e nerodi Delia Morea, intensa rievoca-zione di due periodi difficili, glianni Quaranta e gli anni Settanta,segnati entrambi dalla presenzadi guerre.La narrazione è caratterizzata dalcontinuo alternarsi di passato epresente, dimensioni temporali acui l’Autrice conferisce il mede-simo risalto, evitando di ricorrerealla tecnica abusata del fla-shback.Ambientata a Roma, la vicenda è narrata dalpersonaggio di Marcello, innamorato – comeil cugino Carlo – di Rachele, una ragazzaebrea. Pur ricalcando in parte l’immagine dell’intel-lettuale di sinistra, Marcello è ben più di unuomo misantropo e disinteressato al caos me-diatico. Egli si è rifugiato nei libri per dimen-ticare il passato, la guerra a cui si è opposto dadissidente, unendosi alle organizzazioni anti-fasciste.L’esperienza bellica ha lasciato profonde cica-trici anche sul fratello maggiore, Alfredo, chia-mato alle armi e ferito in Africa, dove decide

di restare, disertando.È Rachele ad avvertire maggior-mente le conseguenze del con-flitto: discriminata per motivirazziali, interrompe l’universitànel restare incinta di Carlo, abor-tisce e trova, durante i bombarda-menti, ospitalità da Lollo, il capocomparse a Cinecittà. Sia Alfredo che Rachele scel-gono, per motivi differenti, discomparire e di nascondersi tantoda essere ritenuti morti persino daMarcello, con cui si incontre-ranno a distanza di tempo.

Presenza costante nel libro, la guerra è rappre-sentata - nella parte rivolta al passato - dal se-condo conflitto mondiale e, quando l’azione sisposta nel presente, dalle stragi terroristichecome quella di Piazza Fontana. All’incubodelle Brigate Rosse si aggiunge poi l’eco delladittatura di Pinochet in Cile che si tradurrà inuna sconfitta di quelle conquiste democraticherealizzate in precedenza da Salvador Allende. Di un decennio così teso quale gli anni Set-tanta, costellato di scioperi, lotte operaie e stu-dentesche, la Morea coglie anche ilrinnovamento sul piano artistico e culturale chetanto influenzerà la formazione della giovane

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Letture.2

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Janine, la promettente allieva di Marcello.Alla base del testo c’è una sapiente architetturache consente al racconto di svilupparsi attra-verso una serie di collegamenti e rimandi che,lungi dall’essere casuali, uniscono i due bloc-chi narrativi. Ecco che La porta del cielo, lapellicola girata da De Sica dopo l’armistiziodell’8 settembre 1943, diviene l’oggetto dellatesi di laurea di Janine, dopo essere stata l’oc-casione per Marcello e Rachele, impiegaticome comparse nella lavorazione del film, disfuggire ai rastrellamenti nazisti. Il romanzo diviene, allora, la rievocazione diuna cinematografia – sviluppatasi sia neglianni Quaranta che alla fine degli anni Sessanta– in grado di essere realistica pur nella sua de-rivazione letteraria. Nello sfortunato film di De Sica, il miracolo ri-siede non solo nella capacità di sopportare ilproprio dolore da parte dei pellegrini che, nelcammino verso il Santuario della Madonna diLoreto, acquistano consapevolezza delle soffe-renze altrui, ma è insito alla sua stessa natura“salvifica”1. La magica esperienza di Marcello e Rachele siinterrompe bruscamente quando la giovane, inpreda all’angoscia, decide di abbandonare le ri-prese per raggiungere la famiglia. Nell’ultimo capitolo Marcello e Rachele riper-corrono da adulti gli ultimi momenti trascorsiinsieme: ritornati nel quartiere ridotto in ma-cerie, fuggiranno per poi separarsi e proseguireognuno per la propria strada. La vicenda volge al termine non senza qualchecolpo di scena: la frattura tra le due epoche si

ricompone, approdando a un’unica dimensionetemporale che unisce passato e presente.Nell’epilogo – che si ricollega al prologo gra-zie alla chiusura ad anello – il protagonistatenta un bilancio della propria esistenza, inter-rogandosi sulle scelte fatte in nome della li-bertà. Prevale una nota di pessimismo quandoMarcello, disilluso, si chiede: «Siamo stati vit-toriosi o la Storia, il mondo, la società, si sonoincaricati di renderci perdenti?».Il libro è dedicato a Vittorio De Sica, già omag-giato dalla scrittrice in un suo saggio2. Alla sta-tura di un De Sica o di Scola, alfieri di uncinema italiano ormai irrimediabilmente incrisi, si contrappone la mediocrità di quell’am-biente salottiero che esprime il peggio di sénella figura del giornalista Claudio Lorenz, unasorta di versione demoniaca di Marcello.Con questa prova più recente, la Morea si ac-costa alla Storia scrivendo un romanzo che nonè in costume ma è il ritratto di una generazionecresciuta in fretta e sopravvissuta all’incubodella guerra senza riuscire a dimenticarla.

DELIA MOREA, Romanzo in bianco e nero(Napoli, Avagliano, 2019), pp. 270, euro17,00)____________1 Stando alla leggenda, coloro che furono perseguitatiper motivi razziali o politici si salvarono dalle retate tro-vando rifugio nella Basilica di San Paolo fuori le Mura,dove si svolsero le riprese. 2 D. Morea, Vittorio De Sica. L’uomo, l’attore, il regista,Roma 1998.

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RIVISTE AMIChE

ChARMEcorso Vittorio Emanuele, 74 - 80121 Napoli

tf. [email protected]

dir. resp. Giorgio Gradogna

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LIBRI & LIBRI

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MIChELE MARTINO, La lingua procidana (s. l. ma Romagnano al Monte, BookSprint, 2018), pp. 336, €. 19,90.Se l’intento dell’ormai celebre Vèfio di Vittorio Parascandola era quello di salvaguardareframmenti di storia e di tradizioni di Procida, attraverso la prospettazione del significatodi alcuni vocaboli del dialetto locale, viceversa, l’obiettivo – ch’è anche il pregio – dellavoro compiuto da Michele Martino, con la collaborazione di Maria Grazia Cacciuttolo,è quello, più diretto, della conservazione di un patrimonio dialettale, connotato da in-discutibili caratteristiche, che rendono l’isola effettivamente tale, anche sotto il profilo

linguistico. Il volume, che soffre dell’inevitabile limite dell’incompletezza, che affligge tutte le opereche battono un terreno prima inesplorato, è completato da alcuni cenni di grammatica del dialetto e dariferimenti autonomi ad alcune tradizioni locali.

DANIELE IPPOLITO - NICANDRO SIRAVO, Morire a Napoli (Napoli,Rogiosi, 2019), pp. 136, €. 12,50.I manifesti napoletani di lutto hanno attratto, in questi ultimi tempi, l’attenzionedi parecchi autori: è, questo, il terzo saggio in materia (v. già il n.2017/3, p. 54,e il n. 2019/1, p. 49, di questo periodico), che presenta non poche lacune, no-nostante il numero, di gran lunga maggiore, di documenti pubblicati, e nono-stante il valido contributo di Michelangelo Iossa all’illustrazione delle sezionidi cui il volume consta. Le fotografie pubblicate, infatti, sono accompagnateda osservazioni, per lo più, superficiali, così, come manca un minimo di appro-

fondimento sul senso dei soprannomi “dubbi”. Soprattutto, però, sono assolutamente assenti le conside-razioni sulla fonologia della grammatica napoletana, che pure, mai come oggi, sarebbero state oltremodonecessarie.

LUIgI MARINO (a c. di), I “sovversivi” di Torre del Greco (Napoli, Libreria Dante& Descartes), pp. 244, €. 12,00.LUIgI MARINO (a c. di), Napoli-Mosca. L’Italia-URSS di Na-poli nei duri anni della guerra fredda (1946-1961) (Napoli, DeFrede, 2019), pp. 294, €. 18,00.I risultati di recenti ricerche storiche di Luigi Marino, senatore eme-rito della Repubblica, sono confluiti nei due volumi che qui si se-gnalano, dei quali egli si considera modestamente mero curatore. Ilprimo fa luce sul trattamento riservato dagli organi di Polizia a cit-

tadini torresi aderenti a organizzazioni e/o partiti d’ispirazione comunista o a movi-menti anarchici; il secondo ricostruisce la vita della sezione napoletanadell’Associazione Italia-URSS. Entrambi i volumi sono accomunati dalla narrazione dei comportamentivessatori posti in essere dagli organi di polizia e riflettono l’acribia di ricercatore di Marino, che ha svoltoun’indagine capillare su fonti archivistiche sparse in diversi giacimenti documentari; e molti di tali do-cumenti sono pure integralmente trascritti o riprodotti in anastatica.

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gIACOMO RETAggIO, Il Venerdì Santo procidano (Procida, Comune,2019), pp. 184, €. 15,00.Accanto alla funzione naturale di celebrazione religiosa, la Settimana Santaprocidana è andata assumendo, nel tempo, quella di attrattiva turistica. In taleultima ottica, l’Amministrazione comunale dell’isola ha patrocinato, in primapersona, il volume, che contiene, accanto al testo redatto da Giacomo Retag-gio, un nutrito corpus d’immagini provenienti dall’archivio del fotografoAniello Intartaglia. Peraltro, nello scritto – che, pure, descrive in maniera ca-pillare l’articolazione dei riti – è presente qualche inesattezza, come la pretesa

origine abruzzese (anziché pugliese) dello scultore Carmine Lantriceni e un suo altrettanto preteso statodi detenzione (del quale non risultano esistere prove).

STEFANIA ChIOCChIO - MARIO ROVINELLO (a c. di), Il mondo capovolto(Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 2019), pp. XXVI+122, €. 13,00.L’esperienza napoletana del Sessantotto è ricostruita da un gruppo di studenti del liceoSannazaro, sia attraverso una ricerca condotta sulle fonti del tempo, opportunamenteanalizzate, che attraverso interviste da essi stessi eseguite. Il quadro che emerge è quellodi un movimento che coagula forze giovanili provenienti non soltanto da ambienti disinistra, ma anche di formazione cattolica, riunite intorno alla “gloriosa” testata inter-scolastica Papè Satàn. Il ritratto della classe studentesca dell’epoca, che l’insieme dei

contributi restituisce, è, a sua volta, quello di una gioventù dalle idee chiare, sicuramente più motivatadi quella del tempo attuale.

MARCO BUSSAgLI, La Cappella Sansevero e il Cristo velato (Bologna, Scriptamaneant, 2019), pp. 244, €. 33,00.Il volume costituisce l’editio minor – pur sempre di eccellente qualità – diquella di maggior pregio, tirata in 777 esemplari, nella quale il testo di Bus-sagli accompagna e illustra gli scatti realizzati, in altissima risoluzione, dalfotografo Carlo Vannini. La pubblicazione consente di ammirare – forse, me-glio che da vicino – i particolari, oltre che del Cristo velato di Giuseppe San-martino, anche di tutte le altre opere presenti in quell’unicum universale

dell’arte, ch’è la Cappella Sansevero.

gIANCARLO COSENZA, Scritti Maledetti (Napoli, giannini, 2019), pp.72, s.i.p.L’autore è impegnato da decenni nella salvaguardia del patrimonio am-bientale e s tor ico-art is t ico di Procida. In questo fascicolo, prodotto insol i cento esemplar i , egl i ha raccol to scr i t t i e documenti sul tema, dalui s tesso e laborat i , f ra i l 1962 e i l 2019, con l ’ in tento – dichiara tonel la postfazione – di «sol leci tare i procidani a porre l ’Amminis t ra-zione comunale di f ronte a l la propria responsabi l i tà», a l f ine d’ impri-

mere uno «slancio proposi t ivo ad intervenire».

gUIDO D’AgOSTINO, Il primo Parlamento Generale del Regno aragonesedi Napoli (1442-1443) (Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 2018), pp.XII+188, €. 18,00.L’esperienza (paleo)parlamentare compiuta da Napoli durante la monarchiaaragonese è analizzata in questo volume, attraverso un excursus delle fonti edella letteratura sull’argomento, cui fanno seguito una panoramica delle bio-grafie dei baroni che vi parteciparono e un’«appendice documentaria», costi-tuita dalla riproduzione anastatica dei Capitula gratiarum concessi alla città

di Napoli da Alfonso I nel 1442.

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Anno LXV n. 2 Aprile-Giugno 2019AMEDEO COLELLA, Mille paraustielli di cucina napoletana (Napoli, Cultura nova,2018), pp. 416, €. 15,00.Al netto delle inesattezze sparse qua e là per il testo, il volume si presenta come una sortadi “lessico famigliare” – talvolta, anche in maniera dichiarata –, con i continui rinvii ausanze e lessemi in voga in ambito domestico; il che – sia chiaro – non costituisce, affatto,una caratteristica negativa, però richiede particolare attenzione e capacità di discernimentoda parte del lettore. Piuttosto, è il caso di osservare come il paraustiéllo (< gr. παράστασις,

piuttosto che < sp. para usted) è il “sofisma” o, magari, l’“apologo”, che nulla ha a che vedere con glianeddoti, dei quali il volume consta.

STEPhEN hAWKINg, Le mie risposte alle grandi domande (Roma, gEDI, 2019), pp.208, €. 9,90.L’ambiguità del titolo potrebbe far pensare a un volume divulgativo del celebre scienziato,nel quale sono affrontati temi e questioni che spaziano, fra l’altro, dall’esistenza di Dio albig bang, dai possibili “infiniti mondi” di bruniana memoria ai buchi neri, dai viaggi neltempo all’intelligenza artificiale. Viceversa, la maniera in cui tali argomenti sono sviluppatirisente in modo marcato del linguaggio rigorosamente tecnico, ch’è quello più congeniale

all’autore, con la conseguenza che al profano riesce quanto mai difficile seguire il discorso.

PIERRE MILZA - SERgE BERSTEIN, Storia del fascismo, trad. M. g. Meriggi (Mi-lano, RCS, r. 2019), pp. 414, €. 8,90.Il “fenomeno” italiano del fascismo è esaminato in questo volume, nel quale, pur a frontedella capillarità dell’indagine, l’attenzione è concentrata in maniera prevalente sulla “vedutad’insieme”, mentre troppo sintetici, in alcuni casi, sono i riferimenti a episodi specifici,pure importanti: valgano, per tutti, l’emanazione delle leggi razziali e la celebrazione delprocesso di Verona, dei quali si legge poco più che la semplice menzione. I due illustri sto-

rici contemporaneisti francesi, ai quali è dovuta la trattazione dell’argomento, rifiutano la tesi crocianadel “fascismo-parentesi” e, viceversa, accedono a quella del fascismo come punto di arrivo di un processosociopolitico iniziato parecchio tempo prima.

S. Z.

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Nel foyer del Teatro San Carlo si è svolta, il 6 giu-gno scorso, la conferenza stampa di presenta-zione del cartellone della stagione 2019-2020. Lasezione lirica prevede la presenza di Bellini, Verdie Puccini, con due opere ciascuno (rispettiva-mente, Norma - I Puritani, Aida - La Traviata e

Tosca - La Rondine), e, inoltre, de La Dama di picche di Čaikovskji, Winter Jour-ney di Ludovico Einaudi, Die Zauberflöte di Mozart, L’amore delle tre melarancedi Procof’ev, La serva padrona di Paisiello, Il maestro di cappella di Cimarosa,Carmen di Bizet, La vedova allegra di Lehár, Maometto II di Rossini. La sezionesinfonica comprende, fra l’altro, concerti diretti – oltre che dal direttore stabileJuraj Valčuha –, da Zubin Mehta, Riccardo Muti e Daniele Gatti, con i solisti Pa-tricia Kopatchinskaja e Jean-Yves Thibaudet. Nella sezione danza, infine, sa-ranno presenti, fra gli altri, Lo schiaccianoci di Čaikovskji e Cenerentola diProkof’ev.

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LA POSTA DEI LETTORI

ANapoli a essere imbrattati da ignoti, con scritte e disegni, non sono solo edifici e monumenti maanche strade e muri, pubblici e privati. Particolarmente colpito da questo grave fenomeno è il quar-

tiere Vomero, dove nei mesi scorsi sono stati segnalati gli imbrattamenti con disegni e scritte realizzatiin via Cimarosa, sul muro di recinzione della villa Floridiana, ma anche in via Gino Doria, nel tratto distrada sottostante il ponte di via Cilea. Più di recente, analoga sorte è toccata anche alla facciata della“Casa della socialità” in via Verrotti e per ultimo è stato imbrattato anche il muro di recinzione su viaSolimena di villa Casciaro, un edificio che rappresenta l’emblema dell’antica storia culturale e pittoricadel Vomero. Di fatto, in assenza dei necessari controlli e d’iniziative concrete tese a reprimere il gravefenomeno, gli imbrattatori, che potrebbero essere sempre gli stessi che operano anche in altre zone dellacittà, hanno sempre avuto vita facile sicché continuano impunemente nella loro opera dannosa sui muridel quartiere. Per evitare questo danneggiamento occorre mettere in campo una serie di attività di con-trollo e repressione, anche avvalendosi di sistemi di videosorveglianza in modo da individuare gli autori,procedendo a denunciarli e a sanzionarli nel rispetto delle norme vigenti. Nell’attesa di provvedimentiatti a eliminare il grave fenomeno, occorre sollecitare gli uffici competenti a intervenire con l’urgenzadel caso per rimuovere scritti e disegni, provvedendo nel contempo a ripristinare i muri imbrattati.Gennaro Capodanno (e-mail)

Risponde il direttore:Da buon amministratore di quartiere di un passato ancora recente, l’ingegnere Capodanno continua a gi-rarvi per le strade con gli occhi ben aperti e – quel che più conta – a indignarsi per ciò che vede. Alleconsiderazioni che col suo messaggio egli esprime, a commento della situazione da lui stesso descritta,mi sia consentito aggiungerne qualcuna mia. Primo: a proposito delle sanzioni da adottare, mi permettodi ricordare il pensiero di Michel Foucault (Sorvegliare e punire), il quale, nella sostanza, si mostra fa-vorevole a un sistema sanzionatorio alternativo a quello carcerario, tuttora in vigore. Il carcere, infatti,nasce in un contesto spaziotemporale diverso da quello odierno (antichità classica greca e romana), conla funzione d’isolare il colpevole dalla comunità, il che contrasta nettamente con il principio di rieduca-zione del reo, sancito dall’a. 27 della Costituzione della Repubblica italiana. Dunque, piuttosto che in-fliggere agl’imbrattatori la pena di alcuni giorni (o mesi) di reclusione – che, peraltro, nell’ipotesi piùbenevola, essi non sconteranno neppure per intero –, li si invii a ripulire i muri ch’essi stessi hanno spor-cato e, magari, anche quelli di altri edifici, nella speranza che ciò possa costituire per essi uno spunto diriflessione. Secondo: a proposito della “Casa della socialità” di via Verrotti, mi si consenta di domandareper quale ragione i lavori di ristrutturazione dei locali non sono stati ancora completati e, anzi, nei giorniche hanno preceduto immediatamente tutte le consultazioni elettorali più recenti, si è vista in azionequalche squadra di operai, dissoltasi nel nulla il giorno precedente alle operazioni di voto.

* * *

Siamo grati ai lettori Luigi Alviggi, Vincenzo Cacciuttolo, Renato Cammarota, Gennaro Capodanno, Ni-cola Cimmino, Pino Cotarelli, Alberto Del Grosso, Antonino Demarco, Marcella De Riggi, VincenzoEsposito, Giuseppe Gambino, Raffaele Giamminelli, Corinna Guerra, Raffaele Iovine, Giuseppe Leuci,Giovanna Malquori e Nico Pirozzi, nonché alla Società napoletana di storia patria, per gli apprezzamentipositivi che hanno indirizzato a questo periodico.Ringraziamo, altresì, il nostro collaboratore Elio Barletta, il quale, come di consueto, ha predisposto efatto circolare un comunicato della messa in rete del n. 1/2019, con il sommario dei contenuti.

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CRITERI PER LA

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Registrazione:Tribunale diNapoli, n. 3458 del 16 ottobre 1985

Fascicolo chiuso il 9 giugno 2019,pubblicato online ai sensi dell’a.3-bis l. 16 luglio 2012, n. 103.

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In copertina:Franco Lista, Procida - la Chiaiolella

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Un libro ben scelto ti salvada qualsiasi cosa, persinoda te stesso.

Daniel Pennac

Anno LXV n. 2 Aprile-Giugno 2019

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