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101 ANNO LVII N. 2 - 2017 Esperienze Sociali Costruire società sostenibili A cura di Giuseppe Mannino ISSN 0423-4014

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101ANNO LVII N. 2 - 2017

Esperienze Sociali

Costruire società sostenibili

A cura di Giuseppe Mannino

ISSN 0423-4014

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Esperienze SocialiRivista semestrale interdisciplinare di Scienze Sociali fondata dal Cardinale

Ernesto RuffiniAutorizzazione del tribunale di Palermo n. 26/1960

Consiglio direttivoFolco Cimagalli, Maria D’Alleo, Maria Aurelia Macaluso, Giuseppe Mannino, Giusy Pillitteri

Comitato ScientificoCristiano Bevilacqua, Marco Bruschi, Gabriele Carapezza Figlia, Folco Cima-galli, Salvatore Cincimino, Pietro Cognato, Stefania Cosci, Rita Cutini, Maria Jesus Dominguez, Erika Faraci, Francesca Giannone, Serena Giunta, Karin Guccione, Antonella Iacono, Gianluca Lo Coco, Girolamo Lo Verso, Emilia-na Mangone, Giuseppe Mannino, Salvatore Milazzo, Giuseppe Notarstefano, Veronica Montefiori, Antonio Panico, Mario Alessandro Peralta, Rita Pillit-teri, Laura Purpura, Marina Quattropani, Sergio Salvatore, Marianna Siino, Giovanni Silvestri, Marinella Sibilla, Vincenzo Schirripa, Ina Siviglia, Cristina Sofia, Giuseppina Tumminelli, Emilio Vergani, Pietro Virgadamo.

Segreteria di redazioneEdity Società Cooperativa

Redazione di “Esperienze Sociali”, Mail: [email protected]; Direzione scientifica: Prof. Giuseppe Mannino Tel.: 3477547387, mail: [email protected]

La rivista “Esperienze Sociali”, di tipo open access su piattaforma OJS,è disponibile all’indirizzo: www.esperienzesociali.org;

in formato cartaceo è distribuita gratuitamente.

Direttore ScientificoGiuseppe Mannino

Direttore ResponsabileMaria D’Alleo

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Sommario

Editoriale:Sostenibilita’ ambientale e sociale nella Laudato si’: tra tutela del territorio e custodia del creato 5Antonio PAnico

Il divieto di ingresso e soggiorno dello straniero socialmente pericoloso: automatismi normativi e valutazioni concrete 17SAlvAtore MilAzzo e FAbio zAMbuto

Saperi stretti e saperi larghi: per un’epistemologia del lavoro sociale ed educativo 37GiuSePPinA tuMMinelli e eMilio verGAni

Vivere insieme nelle differenze. Promuovere l’integrazione in una società in trasformazione 45ritA cutini

Il sistema di protezione dei richiedenti asilo in Sicilia: integrazione o assistenzialismo? 63GiuSePPe MAnnino, eleonorA MAriA cucciA e MArtA SchierA

La differenza come opportunità.Il tema dello “straniero” nella riflessione contemporanea 81DAnielA PoMPei e ritA cutini

Migranti: “Stanno tutti bene!” 101GiuSePPinA tuMMinelli

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Editoriale:Sostenibilita’ ambientale e sociale nella Laudato si’: tra tutela del territorio e custodia del creatoAntonio PAnico*

Abstract

Un sviluppo sempre meno sostenibile sta determinando una crisi ecolo-gica di proporzioni non più trascurabili. L’enciclica Laudato sì di Papa Fran-cesco richiama tutti gli abitanti della casa comune ad impegnarsi perché il “magnifico pianeta” nel quale viviamo non vada incontro alla distruzione. Il mondo ha bisogno di cura perché è malato e nessuno può restare indiffe-rente al grido di dolore lanciato dalla “madre e sorella terra”, che richiama in modo forte ogni uomo a recuperare il senso di responsabilità nel vivere “qui ed ora” per non lasciare in eredità alle generazioni che verranno un ambiente irrimediabilmente compromesso ed un contesto sociale inevita-bilmente depauperato.

Keywords: Sostenibilità, ambiente, ecologia, mutamento sociale, dottrina sociale della Chiesa.

1. Introduzione

La preistoria ci insegna che i problemi con “la sostenibilità” sono apparsi sin dal momento in cui gli uomini hanno iniziato ad abitare la terra circa 100.000 anni fa. Da subito hanno cominciato a modificare i luoghi fisici con la loro semplice attività di caccia e raccolta. In tanti luoghi gli esseri umani hanno provocato l’estinzione di molte specie di selvaggina praticando una caccia sconsiderata e per questo si sono trovati con l’esigenza di dover mi-grare a causa dell’assenza di cibo (Chirot, 2010, 27).

* Docente di Sociologia generale e Dottrina sociale della Chiesa presso il Dipartimento di Giurisprudenza, Economia, Scienze politiche e Lingue moderne della LUMSA, Piazza Santa Rita 74121 Taranto, [email protected]

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Con l’avvento 10.000 anni fa circa dell’agricoltura ed il contemporaneo avvio degli allevamenti di bestiame, le terre più fertili vennero messe particolarmente sotto pressione soprattutto se situate a ridosso di zone desertiche o montuose e questo ha rappresentato in qualche misura una piccola ma significativa anticipa-zione di quanto si è compiutamente realizzato ai giorni nostri (Oliverio, 2003).

La capacità umana di modificare l’ambiente ha avuto la possibilità di incre-mentarsi in modo esponenziale a partire dalla rivoluzione industriale e tecnolo-gica avviatasi nella seconda metà del settecento (Bauman, 2000; Giddens, 1994). In particolare in questi ultimi decenni la globalizzazione ha universalizzato il pro-cesso di “antropizzazione” che prima era limitato alle sole aree sviluppate e den-samente popolate e che oggi giunge praticamente ovunque (Panayotou, 1995).

I cambiamenti provocati dalla “invasività” umana negli ecosistemi stan-no mettendo a rischio il mantenimento di standard qualitativi di vita de-terminando una “crisi ecologica” o “ecosistemica” di proporzioni non più trascurabili che richiede una risposta globale (Worldwatch Institute, 2007).

2. La nascita di una coscienza ecologica

In realtà, sino agli inizi degli anni sessanta non esisteva una vera consa-pevolezza della necessità di un effettivo rispetto dell’ambiente da parte de-gli uomini. Anticipando persino la comunità scientifica Papa Paolo VI avviò una riflessione sulla necessità di tutelare la creazione con vari accenni in al-cuni discorsi nell’immediato post-concilio oltre che nell’enciclica Populorum progressio del 1967.1 È con gli studi del MIT (Massachusetts Institute of Tec-nology) in particolare quello commissionato dal Club di Roma e pubblicato nel 1972 con un rapporto dal titolo I limiti dello sviluppo che l’umanità inizia a fare i conti con la triste novità dell’inconsistenza della teoria secondo la quale lo sviluppo sarebbe stato felicemente inarrestabile.2 Oggi risulta chia-rissimo che proseguire all’infinito con uno sviluppo economico caratteriz-zato da un consumo crescente di risorse naturali non rinnovabili è di fatto impossibile e che si deve necessariamente modificare il modello stesso di sviluppo fino a qualche tempo fa incontestabilmente reputato come valido.

1 Si veda nello specifico: Paolo VI, Populorum progressio, Lettera enciclica del 26 marzo 1967, n.34.

2 Il Club di Roma è una libera associazione di uomini di cultura nata nel 1968 ancora oggi esistente che si prefigge di studiare i problemi con i quali si confronta il mondo contempora-neo prospettando soluzioni possibili e scenari futuri. Per la storia degli inizi del percorso di riflessione del Club sulle tematiche ambientali si veda: PECCEI A. , La qualità umana, Mon-dadori, Milano, 1976. Il rapporto richiamato nel testo è curato da tre ricercatori americani Donella Meadows, Dennis Meadows e Jørgen Randers ed è stato pubblicato in Italia per la prima volta da Mondadori nel 1972 e rappresenta con i suoi 12 milioni di copie vendute uno dei successi editoriali più clamorosi di sempre.

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Sempre nel 1972 a Stoccolma si riunì la prima conferenza internazionale delle Nazioni Unite sulla protezione dell’ambiente naturale che si chiuse con una ar-ticolata dichiarazione contenente 26 principi su “diritti e responsabilità umane sull’ambiente”3 e con l’istituzione del programma delle stesse Nazioni Unite per l’ambiente che ha sede a Nairobi (UNEP)4. Nasceva, quindi, solo in quegli anni su scala planetaria una vera sensibilità ambientale che trovò una valida cassa di risonanza nel magistero di Giovanni Paolo II. Nella sua enciclica programmatica Redemptor Hominis del 1979 al n.15 Papa Woitjla colloca la crisi ambientale tra i gravi segni dei tempi con i quali gli uomini avrebbero dovuto confrontarsi:

L’uomo oggi sembra essere sempre minacciato da ciò che produce, cioè dal risultato del lavoro delle sue mani e, ancor più, del lavoro del suo intellet-to, delle tendenze della sua volontà … L’uomo sembra spesso non percepire altri significati del suo ambiente naturale, ma solamente quelli che servono ai fini di un immediato uso e consumo.

Un’attenta lettura della storia contemporanea ci conferma la verità di quanto enunciato dal pontefice polacco. La prima causa dei danni soppor-tati oggi dall’ambiente è da individuare nel fallace modello di sviluppo oc-cidentale che tende in maniera esasperata al benessere ed al consumo non curandosi dei danni che possono essere arrecati alla natura. A questo va aggiunto il fatto di aver privilegiato su scala planetaria una politica ener-getica basata su fonti una volta abbondanti ma al tempo stesso altamente inquinanti come il petrolio ed il carbone. Il tutto va sommato anche alle conseguenze provocate dall’assioma secondo cui il profitto deve essere con-nesso al contenimento dei costi nella logica del massimo risparmio possibile su tutto ciò che permette la produzione del guadagno: questa visione de-termina non solo la logica dello sfruttamento della manodopera, ma anche quello delle materie prime (Ronchi & Morabito, 2012).

La scoperta inquietante che quella dell’inesauribilità delle risorse natu-rali era una convinzione assolutamente falsa e che il modello di sviluppo si-nora proposto non sembra aver prodotto risultati soddisfacenti ovunque ha provocato solo una parziale conversione ad una più oculata gestione delle risorse senza aver inciso più di tanto nella distribuzione più equa dei profitti ottenuti ed in particolare, per quanto siano stati raggiunti importanti risul-tati nel campo dell’uso delle fonti di energia rinnovabile, resta ancora molto da fare (Bologna, 2013).

3 Per la dichiarazione conclusiva della Conferenza di Stoccolma e i 26 principi si veda: www.cooperazioneallosviluppo.esteri.it/pdgcs/documentazione/AttiConvegni/1972-06-15_Di-chiarazioneStoccolma26principi.pdf

4 Sulla storia dell’istituzione dell’UNEP e sugli scopi che si prefigge e la funzione della sede centrale di Nairobi e degli uffici regionali cfr: www.unep.org.

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3. L’ “illuminismo tecnologico” e i suoi danni

Le resistenze ad un mutamento reale del comportamento dell’uomo in materia di produzione industriale sono dettate anche dalla presenza di una sorta di “illuminismo tecnologico” (Piana, 2010, p.108), il quale ha diffuso la convinzione che i danni provocati dalle imprese potessero essere facil-mente riparati in modo quasi immediato ed indolore dalla natura stessa. Negli ultimi decenni si è però, compreso che l’inquinamento di aria, acqua e suolo produce uno squilibrio difficilmente risanabile e questo è partico-larmente dannoso per la salute di uomini, donne e altri esseri viventi. Le conseguenze determinate da un’insufficiente salvaguardia dell’ambiente producono effetti economicamente deleteri: bonificare un territorio dopo averlo danneggiato è molto più costoso che preservarlo dal degrado (Togni, 2007, p.95). I costi per la bonifica delle acque e dei terreni contaminati sono così elevati che pochi siti sono stati riportati ad una condizione accettabile. Occorre, inoltre, fare i conti con i tempi lunghissimi della burocrazia mentre l’interesse delle popolazioni danneggiate richiede rapidità ed efficienza. Per questa ragione le imprese dovrebbero entrare nell’ottica di valutare come decisamente più conveniente operare nel rispetto dell’ambiente in cui si va a produrre piuttosto che essere costrette a sostenere gli elevati costi per il ripristino delle condizioni ambientali originarie stante l’obbligo sancito dall’Unione Europea che sia chi inquina a dover bonificare.5

Si comprende sempre più come sia necessario modificare l’attuale siste-ma economico che prevede l’incremento continuo della produzione in nome dell’accrescimento dei profitti dal momento che risulta del tutto evidente come a questo non consegua un miglioramento della qualità della vita. La crisi di razionalità nel capitalismo maturo di cui si è iniziato a discutere nel-la seconda metà degli anni Settanta del secolo scorso con la pubblicazione dell’omonimo libro del sociologo-filosofo tedesco Jurgen Habermas (1975) non solo perdura, ma si associa alla crisi ecologica. Questo fenomeno sem-bra essere parte integrante di uno scompenso sistemico che racconta un’evi-dente e generalizzata carenza di eticità non più circoscrivibile alla sola crisi economico-finanziaria manifestatasi nel 2008.6

5 Con la revisione del Trattato di Roma ad opera dell’Atto Unico Europeo del 1987, il princi-pio “chi inquina paga” già presente nella casistica europea dagli anni settanta trova defini-tivo riconoscimento nell’art.130R (oggi art.174) quale principio fondamentale della politica comunitaria in materia ambientale.

6 La crisi di questi ultimi anni scaturisce dalla globalizzazione degli scambi finanziari che hanno generato una situazione di chiara separazione della finanza dall’economia reale. In questo modo si sono create molte nuove attività finanziarie particolarmente complesse che si sono rivelate ingestibili nel medio-lungo periodo come quella che ha prodotto la caduta del valore di titoli finanziari rappresentativi dei mutui casa fatti negli USA. Per ulteriori

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Nella Caritas in veritate Benedetto XVI, provando a misurare il livello di sviluppo raggiunto dal mondo rispetto a quanto auspicato nel 1967 da Papa Paolo VI nella Populorum progressio, con coraggio richiama ciascuno alla consapevolezza che l’attuale situazione di crisi

… ci pone improrogabilmente di fronte a scelte che riguardano sempre più il destino stesso dell’uomo, il quale peraltro non può prescindere dalla sua natura. Le forze tecniche in campo, le interrelazioni planetarie, gli effetti deleteri sull’economia reale di un’attività finanziaria mal utilizzata e per lo più speculativa, gli imponenti flussi migratori, spesso solo provocati e non poi adeguatamente gestiti, lo sfruttamento sregolato delle risorse della terra, ci inducono oggi a riflettere sulle misure necessarie per dare soluzione a pro-blemi non solo nuovi rispetto a quelli affrontati dal Papa Paolo VI, ma anche e soprattutto, di impatto decisivo per il bene presente e futuro dell’umanità (Benedetto XVI, 2009, n.21).

La difficile situazione nella quale il mondo si trova chiama ciascuno ad assumersi nuove responsabilità per quello che gli compete dal momento che, per costruire un futuro migliore rispetto al problematico presente, c’è bisogno di un profondo rinnovamento culturale e di una seria riscoperta di valori autentici che non possono restare nel dimenticatoio:

La crisi ci obbliga a riprogettare il nostro cammino, a darci nuove rego-le, a trovare nuove forme di impegno, a puntare sulle esperienze positive e a rigettare quelle negative. La crisi diventa occasione di discernimento e di nuova progettualità. In questa chiave, fiduciosa piuttosto che rassegnata, conviene affrontare le difficoltà del momento presente (idem).

4. La cura

Sarà il successore di Benedetto XVI a rilanciare con grande convinzione la necessità di guardare con occhi ancora più attenti alla sostenibilità in tutte le sue declinazioni. Jorge Mario Bergoglio sceglie di chiamarsi Francesco, come il poverello d’Assisi, anche per dare dimostrazione dell’attenzione che vorrà riservare durante il suo pontificato ai più deboli ed al Creato. La sua enciclica Laudato sì trae ispirazione dal Cantico delle creature di San Francesco ed ha come scopo proprio quello di richiamare l’attenzione di ogni uomo su una serie di ferite inferte alla “nostra sorella e madre terra” alle quali dedi-ca larga parte del primo capitolo del documento7. Il surriscaldamento del

approfondimenti: Di Nola, M. (2009); Galbreith, J.K.,(2009); Morris, C.R. (2008); Posner, R. (2011); Sapelli, G. (2008)..

7 La Laudato sì è composta da sei capitoli oltre che da un’illuminante introduzione. Nella PArte introduttivA (nn. 1-16), a partire dalle parole del Cantico delle creature di san Fran-cesco d’Assisi, si richiama l’attenzione verso un Creato che si è “ammalato” e si reclama

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pianeta con i conseguenti mutamenti climatici, la deforestazione, l’iniquo sfruttamento delle risorse non rinnovabili, il collasso della diversità biolo-gica, l’immissione nell’aria e nell’acqua di sostanze inquinanti e tante altre condotte eticamente censurabili sono una grave offesa nei confronti di una “casa comune” verso la quale si gioca il senso di responsabilità nel nostro “esserci”, nel vivere “qui ed ora” se si vuole arrestare il declino inesorabile di quello che al n.183 del suo documento programmatico, l’Esortazione apo-stolica Evangelii gaudium, aveva già chiamato “magnifico pianeta”.

Francesco guarda alla cura del mondo in due modi differenti e comple-mentari: prendersi cura nel senso del custodire e curare nel senso del prova-re a guarire la malattia del pianeta8.

5. La cura come custodia

Già nell’introduzione dell’enciclica il Pontefice scrive che la nostra sorel-la e madre terra «protesta per il male che le provochiamo a causa dell’uso irresponsabile e dell’abuso dei beni che Dio ha posto in lei» (n.2) e poco oltre ci ricorda che di fronte al deterioramento globale dell’ambiente è necessario rivolgersi ad ogni persona che abita il pianeta (n.3). Questo aspetto costitui-sce una delle novità più significative dell’enciclica che vuole annoverare tra i destinatari della sua lettera tutti gli uomini che abitano “la casa comune”. Francesco va ben oltre i classici destinatari dei documenti pontifici che tra-dizionalmente erano indirizzati al mondo cattolico ed estende ulteriormen-te la platea dei lettori che già con Giovanni XXIII era stata ampliata a tutti

l’attenzione di tutti gli uomini che vivono in questo mondo. Nel cAPitolo Primo “Quello che sta accadendo alla nostra terra” (nn. 17-61) viene descritta la gravità della situazione, con un inquinamento che determina cambiamenti climatici, perdita della biodiversità, consumo sconsiderato di risorse indispensabili per la vita come l’acqua, deterioramento complessivo della qualità della vita umana che genera a sua volta inequità sociale su scala planetaria e tanto altro ancora. Nel cAPitolo secondo “Il Vangelo della creazione” (nn. 62-100) viene evi-denziato il contributo offerto dalla fede nella lettura della realtà e per la risoluzione dei gravi problemi individuati. Il cAPitolo terzo “La radice umana della crisi ecologica” (nn. 101-136) individua la causa della sofferenza del creato nel paradigma tecnocratico legato alla finanziarizzazione dell’economia e al relativismo. Il cAPitolo quArto “Un’ecologia integrale” (nn. 137-162) è riservato alla proposta costruttiva che consiste in un approccio “olistico”, l’unico da adottare per la vera risoluzione dei problemi. Nel cAPitolo quinto “Alcune linee di orientamento e di azione” (nn. 163-201) viene presentato l’elemento capace di combattere vittoriosamente la sofferenza dei poveri e della terra che è il dialogo tra politica ed econo-mia nell’ottica della trasparenza. Il cAPitolo sesto “Educazione e spiritualità ecologica” (nn. 202-246) è dedicato all’importanza dell’educazione e della spiritualità nel processo di con-versione integrale che risanerà il creato. L’enciclica si conclude con la preghiera per il creato e con il creato.

8 Già nei primissimi momenti significativi del suo ministero Papa Francesco ha invitato tutti a guardare il mondo come ad un malato che ha bisogno di cure.

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gli uomini di buona volontà9. Al n.19 dell’enciclica Papa Francesco scrive che «prendere dolorosa coscienza, osare trasformare in sofferenza personale quello che accade al mondo» è ciò che è chiamato a vivere ogni uomo. Su questo tema deve concorrere l’attenzione di tutti: non ci sono matrici reli-giose inconciliabili o confini ideologici invalicabili. Le citazioni del Patriarca ecumenico di Costantinopoli Bartolomeo, del maestro spirituale islamico All Al-Khawwas, di filosofi come Paul Recouer, di teologi classici e contem-poranei come Romano Guardini e Juan Scannone, delle tante Conferenze episcopali locali come quella neozelandese o quella paraguaiana che mai erano state chiamate in causa in precedenza, e addirittura il trovare riportati i principi 1 e 12 proposti nel documento sintetico finale approvato al termi-ne della Conferenza di Rio del 1992 e la proposta di brani della Carta della Terra approvata all’Aja il 29 giugno 2000, dimostrano la massima inclusività manifestata dal Pontefice sudamericano che invita ciascuno ovunque nel mondo a fare la sua parte perché questo malato non aggravi la sua condi-zione: «Tutti possiamo collaborare come strumenti di Dio per la cura della creazione, ognuno con la propria cultura ed esperienza, le proprie iniziative e capacità» (n.14)

Per Papa Francesco i cristiani hanno un vantaggio che deriva dalla spiri-tualità con la quale alimentano la propria vita interiore che li aiuta a godere con poco e a non disdegnare la sobrietà «… un ritorno alla semplicità che ci permette di fermarci a gustare le piccole cose, ringraziare delle possibilità che offre la vita senza attaccarci a ciò che abbiamo né a rattristarci per ciò che non possediamo» (n.222).

Questa è per il Pontefice una ricetta infallibile che può permettere di evi-tare la dinamica del dominio che continuerebbe a procurare guasti che sarà sempre più difficile riparare.

Il Papa non ha timore nell’affermare che mai come in questi due ulti-mi secoli la casa comune è stata maltrattata dagli uomini e che, nonostante questa presa di consapevolezza di molti, sia necessario che tutti gli abitanti del pianeta comprendano l’importanza di invertire la rotta e per questo di-chiara che, a suo parere

Si rende indispensabile creare un sistema normativo che includa limiti inviolabili e assicuri la protezione degli ecosistemi, prima che le nuove forme di potere derivate dal paradigma tecno-economico finiscano per distruggere non solo la politica ma anche la libertà e la giustizia (n.53).

9 Papa Roncalli immagina che ogni uomo di buona volontà che è presente nel mondo è un potenziale costruttore di pace e per questo alla fine della grave crisi cubana del 1963 volle rivolgersi con la sua preziosa enciclica Pacem in terris, anche ai non credenti o ai fedeli di altre religioni che manifestavano interesse verso l’edificazione di un mondo nel quale non avrebbe dovuto più esserci spazio per la guerra.

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Il timore del Santo Padre è quello che si continui a tergiversare dal mo-mento che non si dispone ancora della cultura necessaria per superare que-sta crisi in un tempo nel quale c’è ancora molto da fare nel costruire lea-dership che siano in grado di indicare con chiarezza e forza strategie che salvaguardino il più possibile «il diritto a crescere delle generazioni attuali senza compromettere lo stesso diritto per le generazioni future» (Idem).

La politica e l’industria rispondono con lentezza alle istanze poste da chi, con impegno e dedizione, studia le “malattie” che affliggono la terra ma il mondo non può aspettare: «Sappiamo che la tecnologia basata sui com-bustibili fossili, molto inquinanti – specie il carbone, ma anche il petrolio e, in misura minore, il gas -, deve essere sostituita progressivamente e senza indugio» (n.165).

La perentorietà con la quale il Papa stimola i “potenti” della terra ad im-pegnarsi per cambiare rotta è coraggiosa. Pur tenendo conto delle maggiori difficoltà incontrate dai paesi che hanno bisogno di crescere ed emanciparsi da un’insopportabile condizione di povertà, Francesco invita tutti gli Stati a stabilire con rapidità ed equità, «percorsi concordati per evitare catastrofi locali che finirebbero per danneggiare tutti» (n.173).

6. La cura come uscita dalla malattia

La terapia grazie alla quale è possibile curare il mondo è il dialogo e per questo bisogna fare in modo che i prossimi vertici mondiali sull’ambiente non siano più improduttivi come quelli che nel recente passato non hanno visto il raggiungimento di accordi globali realmente significativi ed efficaci (Panico & Casella, 2015, pp.186-187).

Toni quasi trionfalistici hanno accompagnato la chiusura della COP 21 sui mutamenti climatici tenutasi a Parigi ma, per quanto il documento finale sia abbastanza incoraggiante, sono in molti a ritenere che si potesse sperare in qualcosa di più e che il pericolo di un “aggravamento” della malattia del-la terra sia solo rimandato di qualche anno anche nel caso in cui tutti i paesi riuscissero a tener fede agli impegni presi.

Se il mondo è malato e per Francesco la Chiesa è un ospedale da cam-po, questa deve spendersi senza risparmiarsi da subito perché il creato e le creature possano essere curate e salvarsi. Ovunque ogni uomo può udire quel grido della terra e quel grido dei poveri che il Papa ci dice essere inti-mamente connessi:

Ci sono regioni che sono già particolarmente a rischio e, al di là di qua-lunque previsione catastrofica, è certo che l’attuale sistema mondiale è inso-stenibile da diversi punti di vista, perché abbiamo smesso di pensare ai fini dell’agire umano. (n.61)

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La cura passa attraverso gesti concreti che Francesco elenca e che ogni abitante del pianeta può compiere in prima persona. Il quinto ed il sesto capitolo dell’enciclica offrono alcune linee di orientamento e di azione pra-tica perché ci si educhi tutti ad uno stile di vita più rispettoso della natura e delle sue prerogative. Il Papa non teme di suscitare ilarità nei lettori quando scrive che sarebbe importante

Evitare l’uso di materiale plastico o di carta, ridurre il consumo d’acqua, differenziare i rifiuti, cucinare solo quanto ragionevolmente si potrà mangi-are, rattare con cura gli altri esseri viventi, utilizzare il trasporto pubblico o condividere un medesimo veicolo tra varie persone, piantare alberi, spegnere le luci inutili e così via. (n.211)

Dalla malattia si può guarire solo se ciascuno si prende cura del pianeta potenziando il proprio senso di responsabilità.

7. Conclusioni

Per Francesco il peggio può essere ancora evitato. Se allo sforzo della bonifica della nostra interiorità che è inquinata dalla ricerca del massimo profitto nel tempo più breve possibile (Meiattini 2014) 10 si aggiungono gli sforzi concreti delle istituzioni a tutti i livelli (dal locale al globale) perché vengano poste in essere azioni concrete per custodire e curare il mondo malato allora il futuro non sarà necessariamente apocalittico (Worldwhcht Institute, 2013). Si può ancora guardare al domani come ad un tempo di crescita a patto che seguano comportamenti orientati ad uno sviluppo ve-ramente integrale, capace di promuovere tutti gli uomini senza trascurare alcuna dimensione del loro progresso personale e comunitario. Ẻ la soste-nibilità intesa come «ideale intersezione tra le dimensioni della vivibilità, della realizzabilità e dell’equità sociale» (Davico et al 2010, p. 31) a permet-tere di guardare al domani con meno apprensione. L’ecologia integrale con la sconfitta di quella che Francesco chiama “cultura dello scarto” è allora l’unica via da percorrere. Il Papa invita tutti a “camminare cantando” vi-vendo un’esistenza da protagonisti positivi, da custodi attenti di un dono meraviglioso che non può e non deve essere sciupato, un dono che deve po-ter essere goduto nella sua bellezza da ogni suo abitante del presente e del futuro. L’auspicio è che davvero «le nostre lotte e la nostra preoccupazione per questo pianeta non ci tolgano la gioia della speranza». (n.244)

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Bibliografia

Bauman, Z. (2000). Dentro la globalizzazione. Le conseguenze sulle persone, Bari-Roma: Laterza.

Benedetto XVI, Caritas in veritate, Lettera enciclica del 29 giugno 2009.Bologna, G. (2013). Sostenibilità in pillole. Per imparare a vivere su un solo

pianeta, Milano: Edizioni Ambiente.Chirot, D., (2010). Sociologia del mutamento, Bologna: il Mulino.Davico, L., Mela, A., Staricco, L., (2010). Città sostenibili. Una prospettiva

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Il divieto di ingresso e soggiorno dello straniero socialmente pericoloso: automatismi normativi e valutazioni concretesAlvAtore milAzzo* e FAbio zAmbuto**

Abstract

The essay is aimed at giving a consolidated view of recent case law, referring to the evaluation of social dangerousness of the foreign national as an entry and residence requirement, especially if it only depends on a criminal conviction. In such sense, departing from the analysis of the existing legislation concerning immigration and from the dispositions of the penal code, it is made an exam-ination of the concept of social dangerousness, analyzing its nature and ratio. There’s also a critic of legislative hypotheses that take that evaluation for grant-ed when there’re criminal offences. Then, the focus is on the orthodoxies and on the innovations of recent case law, with a final invitation to the legislator to reform entry and residence requirements in Italy, in accordance with the princi-ples of equality, social cohesion and solidarity.

Keywords: straniero, ingresso, soggiorno, pericolosità sociale, condanna pe-nale.

1. Introduzione alla tematica. Inquadramento normativo: il di-vieto di ingresso e soggiorno a seguito di condanna penale.

L’evoluzione del fenomeno migratorio, nel contesto europeo e italiano, correlata al progressivo aumento degli sbarchi sul territorio nazionale, ha stimolato la giurisprudenza più recente a vagliare con maggiore rigore e attenzione l’attività amministrativa in materia di verifica della sussistenza dei requisiti per l’ingresso e il soggiorno degli stranieri in Italia.

* PhD Candidate in Scienze dell’Economia civile, Istituzioni, Governance, Storia. LUMSA – Docente aggiunto di Diritto dell’immigrazione presso la LUMSA – Santa Silvia. - [email protected]

** Dottore in giurisprudenza, abilitato all’esercizio della professione forense – [email protected]

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Persino la giurisprudenza costituzionale è stata più volte chiamata in causa per valutare la compatibilità con la Costituzione di alcune disposizio-ni dettate nella materia appena richiamata.

Il punctum dolens, nello specifico, è spesso rappresentato dal rigi-do automatismo, previsto dal legislatore ordinario, secondo il quale alla condanna penale per alcune tipologie di reato segue, ex lege, il di-vieto d’ingresso o di permanenza sul territorio nazionale dello stra-niero extracomunitario, senza possibilità di esercizio di discreziona-lità amministrativa, salvo poche deroghe, espressamente previste. Ancor prima di calare la disamina su alcune delle pronunzie giurisdizionali più recenti, evidenziandone elementi di novità, caratteri di criticità e spunti, occorre fornire un quadro generale della disciplina nazionale relativa alle condizioni ostative per l’ingresso, nonché per il rilascio e il rinnovo del per-messo di soggiorno.

In primo luogo, va chiarito che i presupposti per un ingresso legale nel territorio italiano di cittadini di stati non appartenenti all’Unione Europea sono indicati all’articolo 4, comma 1, del Dlgs 25 luglio 1998, n. 286(cd. “Te-sto unico sull’immigrazione – t.u.i.”) e all’art. 6 del cd. “Codice delle frontie-re Schengen” (Si tratta del Regolamento UE 2016/399)1, secondo un sistema di integrazione normativa.

Qualsivoglia ingresso di cittadini stranieri nell’area Schengen e in Italia, operato al di fuori dei requisiti normativi ivi previsti, è da considerarsi il-legale, salva la sussistenza di eventuali cause di non espellibilità, ex art. 19 del testo unico.

Tra le condizioni dettate, a livello europeo, perché un ingresso possa de-finirsi come realizzato legalmente, v’è, in particolare, la previsione secondo la quale lo straniero non sia da considerarsi una minaccia per l’ordine pub-blico, la sicurezza interna, la salute pubblica o le relazioni internazionali di uno degli stati membri dell’Unione Europea.

Tale previsione trova attuazione, nell’ambito della legislazione interna, an-zitutto nella statuizione contenuta all’art. 4, c. 3 del t.u.i., ai sensi del quale è stabilito un divieto generalizzato di ingresso per gli stranieri condannati per alcune tipologie di reato, tassativamente indicate, anche in assenza di condanna passata in giudicato o resa a seguito di patteggiamento ex art. 444 c.p.p.

Si tratta, nello specifico, di tutti i reati previsti dall’art. 380 c.p.p., di quelli inerenti gli stupefacenti, previsti dal DPR. 309/1190, la libertà sessuale, il fa-voreggiamento dell’immigrazione e dell’emigrazione clandestina, nonché i re-ati finalizzati al reclutamento di persone da destinare alla prostituzione o allo sfruttamento della prostituzione o di minori da impiegare in attività illecita.

1 Si tratta del Regolamento UE 9 marzo 2016, n. 399

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La condanna in via definitiva è richiesta, diversamente, nell’ipotesi di violazione della normativa sulla tutela dei diritti d’autore, di cui alla L. 22 aprile 1941, n. 633 e degli artt. 473 e 474 c.p., riguardanti la contraffazione, alterazione o uso di marchi o segni distintivi, nonché introduzione e com-mercio nello Stato di prodotti con segni falsi.

La preclusione automatica viene meno ove intervengano la riabilitazio-ne, la dichiarazione di estinzione del reato(art. 445 c.p.p.), nelle fattispecie di applicazione della pena su richiesta delle parti, nonché in tutti gli altri casi di estinzione del reato, non però nell’ipotesi di estinzione della pena a seguito del buon esito dell’affidamento in prova ai servizi sociali.

L’automatismo tra condanna penale e divieto di ingresso trova attenua-zione di fronte al diritto all’unità familiare. In tal senso, l’ultima parte del comma 3 dell’art. 4 t.u.i. prevede che lo straniero per cui è richiesto il ricon-giungimento familiare ai sensi dell’art. 29 t.u.i. da parte del parente che sog-giorna regolarmente in Italia, non è ammesso nel territorio nazionale solo se riveste una minaccia concreta ed attuale per l’ordine pubblico o la sicurezza dello Stato italiano o dei paesi dell’area Schengen.

In sostanza, in questa ipotesi, l’autorità amministrativa, per negare l’ingresso, è chiamata ad operare un giudizio sull’attualità e la concretez-za della pericolosità sociale del soggetto. Si tratta, come è evidente, di una valutazione caratterizzata da ampio margine di discrezionalità che, in ogni caso, può essere soggetta al vaglio giurisprudenziale.

A tal proposito, va senz’altro menzionato che la Corte di Cassazione, non troppo tempo fa, ha cercato di delimitare l’applicazione della predetta deroga all’automatismo testé descritto, affermando che nei casi di coesione familiare tra lo straniero regolarmente soggiornante ed il parente o il coniu-ge irregolarmente presente, non può applicarsi quanto previsto dall’ultima parte del comma 3, dell’art. 4 t.u.i., atteso che, in ogni caso, essendo lo stra-niero già presente in Italia, anche se non regolarmente, l’ingresso si è già verificato (Cassazione, 13972/2011).

Si è in presenza, ben inteso, di orientamento di carattere restrittivo che non tiene conto della necessità di valutare altre situazioni che, come si dirà meglio nel prosieguo del presente lavoro, possano rendere non attuale e concreta la pericolosità sociale del soggetto, pur destinatario di una condan-na penale tra quelle previste all’art. 4 t.u.i., peraltro non definitiva.

Ciò detto, va rilevato che nell’ordinamento italiano esiste una stretta cor-relazione tra la disciplina dell’ingresso sul territorio nazionale e il successivo soggiorno. Tale assunto è confermato pienamente dalla statuizione contenuta all’art. 5, comma 5 t.u.i., secondo cui il permesso di soggiorno o il suo rinnovo sono rifiutati e, se il permesso di soggiorno è stato rilasciato deve essere rifiu-tato, quando mancano o vengono a mancare i requisiti per l’ingresso.

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Come è stato autorevolmente rilevato (Savio, 2015), tale norma non può che essere messa in correlazione con le preclusioni all’ingresso individuate dal comma 3 dell’art. 4 t.u.i. Pertanto, la sussistenza di condanna penale, per le tipologie di reato già analizzate e nelle modalità già viste, comporta normalmente il diniego, il mancato rinnovo e la revoca, se già concesso, del permesso di soggiorno, fatte salve le ipotesi di riabilitazione o di estinzione del reato innanzi delineate.

Anche in questi casi, comunque, in attuazione della direttiva 2003/86/CE, una tutela rafforzata è concessa allo straniero che ha esercitato il diritto al ricongiungimento familiare, ovvero al familiare ricongiunto, in caso si debba adottare un provvedimento di rifiuto del rilascio, di revoca o di di-niego di rinnovo del permesso di soggiorno.

In sostanza, è evidente che in tali ultime ipotesi, pacificamen-te riconosciute, la pubblica amministrazione sia chiamata a opera-re un bilanciamento tra l’interesse pubblico all’adozione del provve-dimento di diniego, revoca o rifiuto, la natura e l’esistenza di stabili legami familiari in Italia, la durata del soggiorno nel Paese e l’esistenza di eventuali legami familiari con il territorio nazionale di provenienza. Risulta illegittimo, quindi, ogni provvedimento negatorio di rinnovo del ti-tolo di soggiorno, qualora la pubblica amministrazione non abbia pondera-to la gravità del reato commesso e l’interesse statuale alla tutela dell’ordine pubblico e della sicurezza nazionale con l’interesse dello straniero a rima-nere in Italia, per mantenere i propri legami familiari (Consiglio di Stato, 3875/2014). E’ necessario, quindi, che l’atto amministrativo sia compiuta-mente motivato e che dia conto e delle ragioni d’interesse pubblico e delle circostanze favorevoli per lo straniero richiedente (Tribunale Amministrati-vo Regionale, Lombardia, Brescia, 4999/2010).

Va specificato, invero, che l’art. 5, comma 5 t.u.i. fa riferimento a detto bilanciamento unicamente con riguardo alle ipotesi di ricongiungimento fa-miliare, disciplinato all’art. 29 t.u.i.

Una lettura restrittiva di tale combinato disposto potrebbe far pensare che il legislatore abbia voluto tener fuori dalla maggior tutela poc’anzi evidenzia-ta sia i nuclei familiari di stranieri che si sono costituiti sul suolo italiano, sia chi pur trovandosi nelle condizioni per poter beneficare del ricongiungimen-to non vi abbia proceduto, perché presente irregolarmente in Italia. Questa interpretazione, tuttavia, non appare conforme al dettato costituzionale né, tantomeno, all’art. 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo(CEDU), che costituisce un presidio a tutela del rispetto della vita privata e familiare. Più corretto appare l’indirizzo giurisprudenziale secondo il quale l’art. 5, c. 5 t.u.i. vada letto in una prospettiva che consenta la valutazione, nel bilan-ciamento tra interesse pubblico e contrapposto interesse dello straniero, dei vincoli familiari, anche al di fuori delle ipotesi di ricongiungimento familia-re previste dall’art. 29 t.u.i. (Consiglio di Stato, 6566/2010).

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La stessa Corte Costituzionale, di recente, a chiarimento di ogni possibile equivoco, è intervenuta dichiarando l’incostituzionalità dell’art. 5, c.5 t.u.i., nel-la parte in cui prevede che la valutazione discrezionale in esso stabilita si appli-chi solo al ricongiungimento familiare e non allo straniero che abbia costituito legami familiari sul territorio italiano (Corte Costituzionale, 202/2013).

Tuttora, comunque, risulta “lento” il recepimento, in concreto, da parte del-le amministrazioni pubbliche, del decisum della Consulta e dell’orientamento giurisprudenziale maggioritario, con la conseguenza dell’annullamento giuri-sdizionale (Consiglio di Stato, 2165/2015) dei provvedimenti che applicano, in materia familiare, restrittivamente del dettato dell’art. 5, c. 5 t.u.i.

La deroga all’automatismo legata alla tutela dell’unità familiare non è – va detto – l’unica ipotesi normativa nella quale, ad esempio, la presunzione di pericolosità sociale correlata all’aver subito una condanna cede il passo a un interesse fondato dello straniero a rimanere sul territorio italiano. In tal senso, sempre nel c. 5 dell’art. 5, è previsto che il principio generale che im-pone il diniego, il rifiuto e il mancato rinnovo del permesso di soggiorno in presenza di cause ostative, anche sopravvenute, all’ingresso e al soggiorno è considerato valido “sempre che non siano sopraggiunti nuovi elementi” che consentano il rilascio del titolo.

Come chiarito anche dalla giurisprudenza (Tribunale Amministrativo Re-gionale, Lombardia, Milano, 7200/2010), si tratta di un’utilissima clausola di salvaguardia, che pone però la necessità di attente riflessioni sia sulla confi-gurazione e la natura dei “nuovi elementi”, sia sulla tempistica relativa ad una loro valutazione. Si può ritenere condivisibile l’opinione (Savio, G., 2015) di chi sostiene che gli elementi sopravvenuti sono idonei al rilascio del titolo di soggiorno quando rimuovono la causa ostativa2, oppure ne superino la sua attualità o permettano il rilascio del permesso di soggiorno di altra natura.

Con riferimento ai termini, va detto che la presentazione dei nuovi ele-menti deve essere comunque successiva all’istanza di rilascio o rinnovo del permesso di soggiorno e che la legge fondamentale del procedimento am-ministrativo (L 241/1990) prevede appositi strumenti generali sufficienti a offrire tutela all’esigenza di manifestazione degli elementi sopravvenuti.

Il riferimento è, in particolare, alle osservazioni a seguito della comuni-cazione di preavviso del rigetto che la pubblica amministrazione è obbligata a notificare prima dell’adozione del provvedimento di rigetto, ai sensi dell’art. 10-bis L 241/1990. Entro il termine di 10 giorni3 dalla predetta co-

2 Si pensi al caso di assoluzione resa in secondo grado di giudizio, rispetto a con-danna penale per una delle tipologie di reato ricomprese nell’elenco indicato all’art. 4 t.u.i.

3 Secondo taluna giurisprudenza non si tratterebbe, peraltro, di termine perento-rio. Cfr., sul punto, Consiglio di Stato, sezione VI, n. 2775, 5 giugno 2015.

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municazione lo straniero potrà rendere manifesti detti elementi, in modo che la pubblica amministrazione li possa esaminare prima dell’adozione del provvedimento finale.

In ultimo, menzione va formulata con riferimento al disposto di cui all’art. 9 del Dlgs 286/1998, come modificato dal Dlgs 3/2007, riguardante la valutazione di pericolosità sociale nei casi di diniego di rinnovo del per-messo di soggiorno CE di lungo periodo.

Infatti, ai sensi del comma 4 del predetto articolo comma 4 che “Il per-messo di soggiorno CE per soggiornanti di lungo periodo non può essere rilasciato agli stranieri pericolosi per l’ordine pubblico o la sicurezza dello Stato. Nel valutare la pericolosità si tiene conto anche (…) di eventuali con-danne anche non definitive, per i reati previsti dall’articolo 380 del codice di procedura penale, nonché, limitatamente ai delitti non colposi, dall’articolo 381 del medesimo codice”.

Diversamente da quanto stabilito dalla precedente disciplina, la quale stabi-liva una automatica ostatività all’ottenimento della carta di soggiorno nel caso in cui fosse stato disposto il rinvio a giudizio per determinati reati, la normativa attualmente prevede che per adottare un provvedimento di rigetto occorra for-mulare un giudizio di pericolosità sociale, per il quale si deve solo tenere conto di eventuali condanne anche non definitive. Ciò sta a significare che dette con-danne non sono di per sé ostative all’ottenimento del permesso di soggiorno CE per soggiornanti di lungo periodo, in carenza di un giudizio di pericolosità sociale (Tribunale Amministrativo Regionale, Emilia Romagna, 110/2017).

Orbene, delineato così, nelle linee generali, il quadro normativo vigente, alla luce delle pronunzie giurisprudenziali più recenti, di cui si dirà di qui a breve, alcune questioni sorgono naturalmente.

In primo luogo, bisogna chiedersi se l’automatismo normativo tra con-danna penale, anche non definitiva, per i titoli di reato indicati all’art. 4 t.u.i e atti denegatori dell’ingresso e del soggiorno sul territorio statale ed europeo, salve le deroghe viste, senza la valutazione di altri elementi, sia da considerarsi in assoluto sempre costituzionalmente compatibile e come – e se – una condanna penale, per quelle tipologie di reato o per altre, possa rappresentare indice di per sé idoneo a qualificare la pericolosità sociale di un soggetto, a tal punto qualificare quest’ultimo come una minaccia per l’ordine pubblico e la sicurezza dello Stato.

2. Ratio ed evoluzione del concetto di pericolosità sociale.

Per rispondere ai quesiti poc’anzi formulati, non può non concentrarsi preliminarmente l’attenzione sulle caratteristiche, la ratio e l’evoluzione del concetto di pericolosità sociale, strettamente legato al sistema del “doppio binario” istituito dalla legislazione penale italiana.

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C’è da dire che, in primis, mediante la formulazione del Codice Rocco del 1930, la legislazione italiana apparve avanguardistica, sia pure grazie all’in-troduzione nell’Ordinamento giuridico delle misure di sicurezza accanto alle pene (Rocco, 1930). Difatti, l’evoluzione storico-culturale ha influito non solo sugli scopi della pena, ma anche, e soprattutto, sulle tecniche di volta in volta adoperate per punire l’autore dell’illecito.

Lo stesso concetto di sanzione penale oggi si estende sino a ricompren-dere le c.d. misure di sicurezza, ovvero misure ulteriori che conseguono pur sempre alla commissione di un reato ma la cui funzione si differenzia da quella delle pene in senso stretto.

Scopo precipuo delle misure di sicurezza è quello (potenzialmente) di risocializzare l’autore di un reato in quanto soggetto considerato social-mente pericoloso.

Esse rispondono ad un criterio di prevenzione speciale (Pittaro, 2011) e, quindi, vengono disposte non tanto per punire il colpevole, quanto più per sottoporlo ad un provvedimento idoneo ad agire sulla sua pericolosità, e, contestualmente, a tutelare le esigenze di sicurezza della collettività.

L’art. 202 del codice penale stabilisce che le misure di sicurezza possono essere applicate soltanto alle persone socialmente pericolose che abbiano commesso un fatto preveduto dalla legge come reato.

Il presupposto oggettivo è quindi quello della necessaria commissione di un fatto previsto dalla legge come reato.

Come rilevato da autorevole dottrina (Fiandaca e Musco, 2009), con-siderato che la spiccata funzione special-preventiva ha la sua vera ragion d’essere nella pericolosità del soggetto, intesa quale rilevante attitudine a delinquere in futuro, si potrebbe obiettare che, proprio in un’ottica di pre-venzione, interessano non tanto reati già commessi, quanto quelli che è probabile si commettano in avvenire; per cui, ai fini dell’applicabilità delle misure di sicurezza, il requisito della previa commissione del reato dovreb-be coerentemente ritenersi superfluo. A dire il vero, lo stesso legislatore, ritenendo di dover contemperare la prospettiva della prevenzione e del-la sicurezza con le esigenze garantistiche dell’individuo, preoccupandosi degli eventuali arbitri connessi all’accertamento giudiziale, ha conferito al pregresso reato la funzione di indice obiettivamente visibile e rilevatore della pericolosità del soggetto. Esattamente come in una prospettiva di cau-sa-effetto, si è deciso di vincolare il vaglio sulla pericolosità a fatti pregressi naturalisticamente giudicabili.

Il secondo presupposto, di carattere soggettivo, che in questa sede inte-ressa per le ragioni espresse ab initio, è quello della pericolosità sociale, di cui è opportuno evidenziare caratteri e ambito di intervento.

A livello normativo, la nozione di pericolosità sociale va rintracciata nell’articolo 203 c.p., nel quale si specifica che è socialmente pericolosa la

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persona, anche se non imputabile o non punibile, la quale abbia commesso taluno dei fatti indicati nell’art. 202 c.p., quando è probabile che commetta nuovi fatti preveduti dalla legge come reati.

La pericolosità sembra chiaramente coincidere con la probabilità che un soggetto, a causa di determinati indici e caratteristiche che regolano la sua vita, commetta in futuro (altri) fatti di reato.

La definizione legislativa di pericolosità coincide dunque, dal punto di vista dogmatico, con quella di probabilità, la quale non si identifica con il semplice sospetto, giacché questo è fondato su un giudizio prevalentemente soggettivo, mentre la probabilità è indotta da elementi esterni, accertati e controllabili (Manzini, 1981).

Non basta, dunque, la semplice possibilità di ricadere nel delitto. Il legi-slatore esige, piuttosto, quell’elevato grado di possibilità corrispondente al concetto di probabilità (Fiandaca e Musco, 2009).

Al riguardo, è comune il pensiero per il quale la pericolosità sociale altro non è che una qualità, un modo di essere del soggetto, da cui si deduce la probabilità che egli commetta nuovi reati.

Essa si differenzia dalla capacità criminale, che esiste sempre in maniera più o meno accentuata, per il fatto stesso che il soggetto ha già commesso il reato e costituisce, quindi, una attitudine soggettiva alla commissione dei reati stessi.

Secondo tale assunto, la pericolosità sociale si pone come species rispetto al genus capacità criminale, poiché la seconda rappresenta la possibilità, mentre la prima, come già detto, rappresenta la probabilità di compiere illeciti penali.

In epoca più recente, la giurisprudenza (Cassazione, 12638/2015.) ha puntualizzato come la nozione di pericolosità sociale debba essere intesa in senso lato, comprendente, da una parte, la semplice immoralità non costi-tuente reato e, dall’altra, l’accertata predisposizione al delitto e la presunta vita delittuosa di una persona nei cui confronti non sia stata raggiunta una prova certa di reità.

Ad ogni modo, il citato art. 203 c.p., si preoccupa di individuare le circo-stanze (generali) contenute nell’art. 133 c.p come indici dai quali far desu-mere la qualità di persona socialmente pericolosa in capo ad un soggetto4.

4 L’art. 133 c.p., dettato in tema di “gravità del reato e valutazione agli effetti della pena”, prevede che nell’esercizio del potere discrezionale del giudice nell’applica-zione della pena, questi debba tener conto della gravità del reato, desunta dalla natura, dalla specie, dai mezzi, dall’oggetto, dal tempo, dal luogo e da ogni altra modalità dell’azione; dalla gravità del danno o del pericolo cagionato alla perso-na offesa dal reato; dalla intensità del dolo o dal grado della colpa. Il giudice deve tener conto, altresì, della capacità a delinquere del colpevole, desunta dai motivi a delinquere e dal carattere del reo; dei precedenti penali e giudiziari e, in genere, della condotta e della vita del reo, antecedenti al reato; della condotta contempo-

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Ai fini dell’accertamento, dunque, dovrà procedersi ad un vero e proprio giudizio prognostico in ordine alla probabilità di ricaduta nel delitto.

In passato, la regola generale del previo accertamento in concreto della perico-losità da parte del giudice subiva rilevanti deroghe in alcuni casi, espressamente previsti, di presunzione di pericolosità. La legge, infatti, dinanzi a determinati presupposti relativi alla gravità del fatto commesso e alle particolari condizioni psicologiche dell’agente, attribuiva la qualità di persona socialmente pericolosa, con una presunzione juris et de jure, la quale non ammetteva prova contraria.

Tale tematica è, come si vedrà, strettamente connessa con l’oggetto prin-cipale dell’analisi relativa al diniego del rinnovo del permesso di soggiorno nei confronti dello straniero resosi responsabile di taluni reati.

In un passato non molto lontano, in particolare fino all’emanazione della L. 663/1986, il codice penale prevedeva tre differenti modalità di determi-nazione della pericolosità sociale: in primo luogo vi era, per l’appunto, la pericolosità sociale presunta dalla legge (art. 204, comma 2 c.p., adesso abro-gato); seguiva poi la pericolosità sociale valutata a seguito di accertamento giudiziale (artt. 203 e 204, comma 1, c.p.); infine, si contemplava la pericolo-sità sociale esclusa a seguito di presunzione legale (artt. 229 e 230 c.p.).

Per quanto concerne le ipotesi di presunzione (assoluta) di pericolosità sociale iuris et de iure, - ossia non vincibile attraverso la prova contraria – si precisa l’attitudine a imporre al giudice l’applicazione delle misure di sicu-rezza nei confronti di determinati soggetti, indipendentemente dall’accerta-mento della loro concreta pericolosità sociale.

Le stesse, quindi, sacrificavano, in ragione della certezza formale dell’ac-certamento, il diritto del destinatario alla certezza sostanziale dell’accerta-mento dei fattori costitutivi della pericolosità (Tagliarini, 1983).

Tali presunzioni, come rilevato da attenta dottrina, tradivano una certa sfiducia del legislatore nella capacità dei giudici di accertare la pericolosità, prestando il fianco a gravi obiezioni, tanto dal punto di vista delle scienze antropologiche, quanto da quello giuridico (Fiandaca, Musco, 2009).

Sotto il primo profilo, infatti, si obiettava come la categoria della perico-losità presunta fosse puramente finzionistica; di talché poteva darsi adito a fratture tra valutazione giuridica e realtà naturalistica, facendo apparire finanche ingiustificata l’applicazione della misura (Boscarelli, 1964).

Non è mancato chi ha precisato che le stesse ipotesi di pericolosità pre-sunta “rappresentavano nel nostro sistema penale un vero controsenso perché si opponevano all’idea stessa di pericolosità, che esiste in quanto viene accertata” (Mi-coni Tonelli, 1989).

ranea o susseguente al reato nonché delle condizioni di vita individuale, familiare e sociale del reo.

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Sotto un profilo squisitamente giuridico, la stessa Corte Costituzionale, a più riprese, ne ha evidenziato il carattere estraneo ai principi e parametri costituzionali, avallando, peraltro, l’assunto sopra richiamato.

Si guardi, ad esempio alla sentenza n. 1 del 20 gennaio 1971, con la quale la Corte ha dichiarato illegittima la presunzione di pericolosità del minore non imputabile; ovvero quella del 27 luglio 1982 n. 139, con la quale è stata dichiarata costituzionalmente illegittima la presunzione di pericolosità del prosciolto per infermità di mente.

Si riteneva sussistente la pericolosità sociale di talune categorie di sog-getti, anche a fronte di differenti reati, a prescindere dall’accertamento in concreto. Ciò non poteva non determinare una disparità di trattamento, sia pure nei confronti di quei soggetti che, pur presunti socialmente pericolosi (attraverso una fictio giuridica), in realtà non lo erano.

Da qui la necessità di rideterminare le modalità di accertamento della pericolosità sociale.

Nel sistema attuale, il giudizio sulla pericolosità deve comprendere, contrariamente a quanto accadeva in passato, la conoscenza completa di tutti quegli elementi soggettivi che sono concorsi a realizzare la complessa personalità dell’autore del reato. Elementi, questi ultimi, fissati nel comma 2 dell’art. 203 c.p., con preciso riferimento alle circostanze indicate nell’art. 133 c.p. globalmente considerate.

La pericolosità sociale, indi, deve essere desunta ai sensi delle norme citate, “dovendosi ai predetti fini considerare soprattutto il reato o i reati nella loro obbiettività e in ogni loro elemento principale ed accessorio” (Cas-sazione, 3435/1993).

Si è concordi, oggi, nel considerare la pericolosità sociale come il risul-tato di un giudizio prognostico effettuato dal giudice circa la probabilità di ricaduta nel delitto.

Il giudizio probabilistico sotteso alla verifica può, in definitiva, rileva-re in tre momenti distinti: prima della commissione di un reato; dopo la commissione del reato (al tempo della condanna e a quello della successiva eventuale applicazione); al momento dell’espiazione della pena sotto forma di verifica di compatibilità del percorso di espiazione più adeguato.

In tutti e tre i citati momenti, il giudizio prognostico (su base probabilistica) deve essere operato in concreto attraverso una determinazione dell’autorità pro-cedente, amministrativa o giudiziaria che sia (Consiglio di Stato, 2032/2015).

Dovranno prendersi in considerazione tutti quegli elementi coerente-mente idonei a surrogare l’accertamento.

In tal senso l’autorità procedente sarà tenuta a discernere tra elementi realmente indizianti, quali, ad esempio, la commissione di un reato che può rappresentare la base, di per sé non sufficiente, su cui avviare il giudizio di pericolosità (Cassazione, 23269/2005).

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In tale contesto, si dovrà necessariamente distinguere a seconda della tipologia del reato commesso. Ciò in quanto il legislatore ricollega all’ac-certamento di tipologie astratte di reato conseguenze dissimili in punto di accertamento della pericolosità sociale5.

Recentemente, ad esempio, la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegit-timità costituzionale dell’art. 33, comma 7, lett. c), della L. n. 189 del 2002 e dell’art. 1, comma 8, lett. c), del DL 195 del 2002, nella parte in cui fanno deri-vare il rigetto dell’istanza di regolarizzazione del lavoratore extracomunitario dalla presentazione di una denuncia per uno dei reati per i quali gli artt. 380 e 381 c.p.p. prevedono l’arresto obbligatorio o facoltativo in flagranza. La sola de-nuncia, difatti, non ha alcuna valenza in termini di colpevolezza o pericolosità sociale, e non può di per sé portare conseguenze di particolare gravità.

3. La giurisprudenza più recente, tra conferme e spunti di rif-lessione

Delineato il quadro normativo e definito, nei punti essenziali, il concetto di pericolosità sociale e le sue evoluzioni, non resta che scrutinare le pronunzie amministrative più recenti, con riferimento al rapporto tra pericolosità dello straniero, condanna penale e ingresso e soggiorno nel territorio dello Stato.

E’ utile iniziare, per esigenze esplicative, con quei pronunciamenti che monoliticamente offrono un’interpretazione del combinato disposto artt. 4, comma 3 e 5, comma 5 t.u.i. che vede, in seguito a condanna penale, anche non definitiva, per i reati ivi elencati, una presunzione legislativa di perico-losità sociale, che opera juris et de jure e che, salvo le ipotesi espressamente previste, non necessita di alcun riscontro concreto e “attuale”.

Come appena visto, peraltro, non sarebbe nemmeno la prima ipotesi rin-tracciabile nel nostro ordinamento, di un simile atteggiarsi presuntivo del canone della pericolosità sociale.

La ratio di siffatta previsione risiederebbe in particolare nel ruolo preciso del legislatore di tutelare, alla luce anche del dettato costituzionale, l’ordine pubblico e la sicurezza dei consociati.

In tal senso si muove, in una recentissima decisione, il Tribunale Ammi-nistrativo Regionale della Toscana, con la sentenza n. 55 del 2018, interpel-lato su una impugnativa per un diniego di permesso di soggiorno, stabilito una volta verificata la pendenza di un procedimento penale, in appello, per il reato previsto all’art. 73 del DPR 9 ottobre 1990 n. 309.

5 Ad esempio, l’accertata appartenenza ad un’associazione a delinquere di stampo mafioso rappresenta elemento di per sé sufficiente per l’irrogazione di una misu-ra di prevenzione.

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Secondo il giudice amministrativo, infatti, tale provvedimento di dinie-go del permesso di soggiorno risulta essere “autonomamente e validamente giustificato dalla sentenza di condanna”, per un reato, quello sopra eviden-ziato, in materia di stupefacenti, ostativo al rilascio del permesso di soggior-no ex art. 4, 3° comma del Dlgs 25 luglio 1998, n. 286.

Per il TAR toscano sono del tutto irrilevanti, stante il dettato normativo, e il rilievo circa il carattere non definitivo della sentenza (o alla concessione di benefici quali la sospensione condizionale della pena) e una valutazione su un presunto inserimento positivo del ricorrente nel tessuto sociale.

Si è in presenza, secondo l’indirizzo ermeneutico seguito dal giudice fio-rentino, di una causa di esclusione del rilascio del permesso di soggiorno caratterizzata dal carattere vincolato ed in cui i margini di discrezionalità sono stati interamente esauriti dal legislatore ordinario, che, con il dictum del comma terzo dell’art. 4 t.u.i., avrebbe direttamente e insindacabilmente operato ex ante una valutazione sulla pericolosità sociale del condannato. Ancora, ragionando su questa linea, si afferma che la causa di esclusione in esame non rappresenta un effetto penale, ovvero una sanzione accessoria della condanna, ma un effetto di natura amministrativa che la legge fa deri-vare dalla semplice circostanza di aver riportato una condanna per determi-nati reati, quale indice presuntivo di pericolosità sociale, o, quanto meno, di riprovevolezza del comportamento tenuto dallo straniero nel nostro Paese (ex multis, Tribunale Amministrativo Regionale, Trentino Alto Adige, 268/ 2011; Tribunale Amministrativo Regionale, Lombardia, Brescia, 1474/2011; Tribunale Amministrativo Regionale, Valle d’Aosta, 21/2011).

Proprio con riferimento alla materia degli stupefacenti, invero, parte della giurisprudenza amministrativa aveva provato ad incrinare l’automa-tismo, sollevando la questione di legittimità costituzionale dell’art. 4, com-ma 3, t.u.i. e dell’art. 5 t.u.i., trattandosi di fatti non particolarmente gravi, ancorché assai frequenti.

Interpellata sulla questione, la Corte Costituzionale ha avuto modo di chiarire che dalla normativa in esame risulta chiaro “l’intendimento del le-gislatore di assumere a paradigma ostativo non certo la gravità del fatto in sé e per sé considerata … quanto la specifica natura del reato, riposando la sua scelta su un’esigenza di conformazione agli impegni di inibitoria di traf-fici riguardanti determinati settori reputati sensibili” (Corte Costituzionale, 277/2014).

Nello specifico, la Consulta ha voluto specificare che un suo intervento, in quel caso, volto all’introduzione di un modello solo quantitativo nell’o-peratività dell’automatismo, lasciando fuori le situazioni di non particolare gravità, espressamente pure ricomprese nella norma, per alcune tipologie di reato, avrebbe comportato un’invasione nella sfera legislativa, che esula dalle attribuzioni della Corte Costituzionale.

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Alle stesse conclusioni, nello stesso periodo, perviene la sezione bolo-gnese del Tribunale Amministrativo Regionale (Tribunale Amministrativo Regionale Emilia Romagna, Bologna, 40/2018), che, sulla base del maggio-ritario indirizzo giurisprudenziale, non rinviene alcuna illegittimità costitu-zionale nell’automatismo legislativo condanna/diniego. Ancora una volta, la pericolosità sociale è desunta in re ipsa dalla tipologia dei reati specifi-camente indicati nella norma del t.u.i. e l’atto amministrativo si configura vincolato e non già discrezionale.

Se da un lato pare inconfutabile una scelta di tal fatta, non v’è chi non veda una frattura con quanto sopra affermato in ordine alla natura del re-quisito in parola.

Pur non trattandosi di una misura di sicurezza in senso stretto, la revoca o il diniego del rinnovo del permesso di soggiorno pongono in essere in ogni caso degli effetti giuridici di rilevanza sociale e personale nei confronti del destinatario, limitandone finanche la libertà. Anche in questo caso, esat-tamente come per le misure di sicurezza, si è dinanzi a due requisiti; quello oggettivo, dato dalla condanna penale, anche non definitiva, per un reato tra quelli tassativamente previsti; quello soggettivo, discendente automa-ticamente (mediante una presunzione assoluta) dal primo, ovvero l’essere socialmente pericoloso per l’incolumità pubblica.

Da qui pare emergere l’incoerenza con il sistema delle misure di sicurez-za sopra delineato. Il legislatore pone chiaramente su un piano differente la posizione dello straniero da quella del cittadino, ritenendo sussistente per il primo la pericolosità sociale per il sol fatto di avere commesso un reato.

Alle zone d’ombra e alle perplessità create dagli orientamenti dei tribu-nali amministrativi regionali sin qui esposti si affiancano recenti e confor-tanti pronunce del Consiglio di Stato.

Ad esempio, in un caso di rigetto della richiesta di aggiornamento del-la carta di soggiorno a causa di una condanna per illecita detenzione di sostanze stupefacenti, il Consiglio di Stato (Consiglio di Stato, 5515/2012) ha accolto l’appello dello straniero contro la sentenza del TAR che riteneva legittimo il diniego sulla base della sola sussistenza della sentenza, ritenen-do automatico il diniego.

Il Collegio accoglieva in quell’ipotesi le ragioni dello straniero ritenendo illegittimo il provvedimento impugnato alla luce della formulazione, di cui all’art. 1 del d.lgs 3/2007, che “ha collegato il rigetto del permesso di lungo perio-do ad una puntuale e specifica verifica della pericolosità dello straniero, con esclu-sione di forme di automatismo preclusivo”, ritenendo, dunque, che l’eventuale giudizio di pericolosità sociale dello straniero debba essere articolato “non solo con riguardo alla circostanza dell’intervenuta condanna, ma su più elementi, ed in particolare con riguardo alla durata del soggiorno nel territorio nazionale e all’inserimento sociale, familiare e lavorativo dell’interessato, escludendo l’operati-

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vità di ogni automatismo in conseguenza di condanne penali riportate”(Consiglio di Stato, 1133/2010; Consiglio di Stato, 5148/2010 e 7541/2010; Consiglio di Stato, 9336/2010).

In merito poi a condanne non espressamente previste dall’art. 4, c. 3 t.u.i e quindi già fuori dall’automatismo legislativo, in un recente approdo (Consiglio di Stato, 5848/2017), inoltre, il Consiglio di Stato ha sconfessato, ancora una volta, l’orientamento eccessivamente rigido seguito dai giudici amministrativi.

Nel caso sottoposto all’attenzione del Consiglio era stata respinta l’istan-za di rinnovo di permesso di soggiorno per lavoro subordinato presentata da un cittadino nigeriano, (presente nel territorio italiano sin dal 2007), sul rilievo per il quale il medesimo era stato trovato dalla polizia stradale più volte alla guida di una autovettura privo di patente ed in stato di ebbrezza. L’autorità procedente, nella persona del Questore, stimava indi sussistente “un attuale e concreto giudizio di pericolosità sociale a carico dello stes-so”, nonostante che l’interessato avesse rappresentato (nei chiarimenti resi ai sensi dell’art 10 bis legge n.241/1990) che le infrazioni al Codice della Strada, sanzionate con pena pecuniaria, sospesa, non fossero idonee a suf-fragare una valutazione sulla sua pericolosità sociale.

Parimenti, la sentenza di primo grado affermava la puntualità del giu-dizio dell’Amministrazione, “a fronte di condotte oggettivamente gravi e potenzialmente pericolose per la collettività”, stante la non sussistenza, neppure in via sintomatica, di un distorto esercizio del potere esercitato; il tribunale amministrativo affermava altresì che “il giudizio di pericolosità da esprimersi a cura dell’Amministrazione non fosse in alcun modo condi-zionato dalle valutazioni espresse a diverso fine dal Giudice di pace in sede penale” (che, si ricorda, aveva disposto anche la sospensione condizionale della pena a norma dell’art. 163 c.p.).

Orbene, il Consiglio di Stato, nell’accogliere il ricorso del cittadino extra-comunitario avverso la sentenza di primo grado, ha precisato come ai fini del giudizio di pericolosità sociale non risultavano prese in considerazione le circostanze che lo stesso è, di fatto, lungo soggiornante, essendo entrato in Italia fin nel 2007, nonché titolare di permesso di soggiorno per lavoro dipendente, conseguito a seguito di regolarizzazione ai sensi della legge n.102/2009 (e rinnovato anche nel 2011), e che svolge attività di domestico alle dipendenze di una famiglia italiana.

Allo stesso modo, non risultava presa in considerazione quale elemento sintomatico di un positivo inserimento sociale, la circostanza per la quale successivamente alla adozione del diniego in questione, l’immigrato avesse contratto matrimonio civile con una connazionale titolare di permesso di soggiorno (ed all’epoca dell’adozione del provvedimento in questione in attesa di un figlio).

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Secondo il Consiglio, il giudizio di pericolosità sociale deve essere ri-ferito “a comportamenti specifici dell’interessato, che devono rappresentare una minaccia reale ed attuale (e non solo potenziale) alla sicurezza della collettività, mentre, dall’altro, la tutela del bene della sicurezza pubblica va realizzata dall’Am-ministrazione attraverso idonei mezzi e misure, che comportino il minor pregiu-dizio per il singolo destinatario del provvedimento restrittivo della propria sfera giuridica”.

Ciò anche alla luce dei criteri di valutazione indicati dalla Corte di Giu-stizia (CorteEdu,7 aprile 2009, Cherif e altri c. Italia) della UE e recepiti dalla Corte Costituzionale con la sentenza 212/2013 e dalla Corte di Cassazione SS.UU. 28/2014, al fine di evitare il sacrificio non giustificato di valori pri-mari, quali il rispetto della persona e l’unità della famiglia, facendo applica-zione del principio di proporzionalità.

La Corte di Strasburgo ha spesso statuito che la CEDU non garantisce allo straniero il diritto di entrare o risiedere in un determinato Paese. Ne consegue che gli Stati mantengono il potere di espellere gli stranieri condan-nati per reati puniti con pena detentiva. Tuttavia, quando nel Paese dove lo straniero intende soggiornare vivono i membri stretti della sua famiglia, occorre bilanciare in modo proporzionato il diritto alla vita familiare del ri-corrente e dei suoi congiunti con il bene giuridico della pubblica sicurezza e con l’esigenza di prevenire minacce all’ordine pubblico, ex art. 8, paragrafo 1, della CEDU.

La ragionevolezza e la proporzione del bilanciamento richiesto dall’art. 8 della CEDU implicano, secondo la Corte, la possibilità di valutare una serie di elementi desumibili dall’attenta osservazione in concreto di ciascun caso, quali, ad esempio, la natura e la gravità del reato commesso dal ricor-rente; la durata del soggiorno dell’interessato; il lasso di tempo trascorso dalla commissione del reato e la condotta del ricorrente durante tale perio-do; la nazionalità delle diverse persone interessate; la situazione familiare del ricorrente, e segnatamente, all’occorrenza, la durata del suo matrimonio ed altri fattori che testimonino l’effettività di una vita familiare in seno alla coppia; la circostanza che il coniuge fosse a conoscenza del reato all’epoca della creazione della relazione familiare; il fatto che dal matrimonio siano nati dei figli e la loro età; le difficoltà che il coniuge o i figli rischiano di tro-varsi ad affrontare in caso di espulsione; l’interesse e il benessere dei figli; la solidità dei legami sociali, culturali e familiari con il paese ospite.

Del medesimo tenore appare una ulteriore decisione del Consiglio di Stato (Consiglio di Stato, 5449/ 2017) in ordine ad una controversia origina-ta dal diniego di rinnovo del permesso di soggiorno per lavoro subordinato in ragione dell’esistenza di una condanna per il reato di detenzione e spac-cio di sostanze stupefacenti.

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Il Collegio difatti ribadisce il principio secondo il quale la valutazione comparativa richiesta dall’art. 5, comma 5, del Dlgs 286/1998, qualora l’in-tero nucleo familiare dello straniero sia radicato in Italia e non vi sia alcun legame nel Paese d’origine, non può limitarsi a postulare la prevalenza delle esigenze di tutela della collettività, in ragione delle caratteristiche del reato commesso, ma deve anche formulare un giudizio prognostico ex ante cir-ca la verosimile probabilità che la condotta illecita sia reiterata dallo stesso trasgressore con la conseguente diffusione di un ulteriore allarme sociale (Consiglio di Stato, 4492/2016).

Ad essere mancante, in questo caso, era proprio la valutazione compa-rativa richiesta dalla norma, essendosi limitata l’autorità amministrativa prima, ed il tribunale amministrativo lombardo poi, ad utilizzare formule ritenute “stereotipe” dal “tenore meramente assertivo”6.

Di talché, l’esistenza di una condanna, finanche non definitiva, sia pure relativa ad un reato grave e tale da comportare allarme sociale, non è rite-nuta dall’art. 5, comma 5, cit., ex se sufficiente a giustificare il diniego, così esonerando dall’onere di ulteriore motivazione, qualora sussistano legami familiari ed una stabile permanenza in Italia.

4. Considerazioni conclusive

Rebus sic stantibus, appare chiaro come la questione relativa alla presun-zione della pericolosità sociale dello straniero, a seguito di condanna pena-le, anche non definitiva, non possa considerarsi del tutto superata.

Sebbene con riferimento all’automatismo previsto dal Dlgs 286/1998 si possa anche prendere atto che la Corte Costituzionale (Corte Costituzio-nale, 148/2008) tenda a difendere l’ampia discrezionalità legislativa, con riferimento all’ingresso e al soggiorno nel territorio dello Stato, in materia di bilanciamento di interessi pubblici di primaria valenza quali sicurezza, sanità, ordine pubblico, è anche vero che quando tale valutazione discrezio-nale tende a inglobare anche fatti di reato di scarso rilievo sociale, forse un problema di ragionevolezza si pone.

Tale dilemma – che la Consulta, come si è visto, rimette al legislatore - si pone, infatti, oltre che in raffronto con svariati parametri costituzionali, anche con la ratio stessa della valutazione prognostica insita nel concetto di pericolosità sociale.

6 Il tenore del provvedimento in questione è il seguente: “La gravità del reato com-messo fa prevalere l’esigenza di proteggere la collettività dalla presenza di sog-getti socialmente pericolosi mettendo in secondo piano il principio della tutela del nucleo familiare”.

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Esso è altresì accentuato, nonostante il conforto della più recente giuri-sprudenza del Consiglio di Stato, nelle prassi delle Questure, che pare ab-biano “automatizzato”, in tutte le ipotesi, il rapporto tra condanna penale, di qualsiasi tipo, e pericolosità sociale del soggetto, svilendone – lo si riba-disce - la natura e i contorni di questo istituto giuridico.

E’ auspicabile, quindi, che il legislatore intervenga, con differenti opzio-ni, più rispettose anche dei principi di uguaglianza, integrazione e di soli-darietà sociale contenuti nella Costituzione.

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Saperi stretti e saperi larghi: per un’epistemologia del lavoro sociale ed educativo GiusePPinA tumminelli e emilio verGAni*

Abstract

This contribution stems from the need to start a first theoretical reflection within which one can rethink the practices and models of intervention of social work. Therefore, the objective of our paper is the problematization of theknowledge that is associated with the helping professions, deconstructing them and rethinking them in a broader perspective, starting from the crisis of modernity and from the transformations triggered by globalization. This con-tribution wants to offer a track on which to start an epistemological reflection.

Keywords: saperi stretti, saperi larghi, professioni d’aiuto, idea di scientifi-cità, intervento sociale.

1. Verso una differente idea di scientificità

È opinione molto diffusa considerare le professioni d’aiuto, così come quelle educative, fondate su una minore scientificità rispetto ad altre pro-fessioni socialmente riconosciute (come ad esempio il medico, l’ingegnere, il tecnico di laboratorio e così via); dette professioni sembrerebbero altresì poggiare prevalentemente sulle competenze, vale a dire su un sapere pratico, sempre in bilico tra l’urgenza dell’azione e il valore della sua efficacia imme-diata. Tale opinione si rifà a un’idea di scientificità debitrice verso le cosiddet-te scienze “dure”. Quello che occorre sviluppare, invero, è una differente idea di scientificità, prossima non tanto a un modello ideale quanto all’oggetto che vuole conoscere. In altre parole, ogni oggetto richiede una propria scientificità ed è del tutto fuori luogo pretendere di adattare alle professioni d’aiuto l’idea di scientificità tipica delle scienze naturali o matematiche.

* Docenti della Lumsa-Santa Silvia; email: [email protected]; [email protected]. Il lavoro è il risultato della collaborazione tra gli autori. Nondimeno i paragrafi 1 e 2 sono da attribuire a Emilio Vergani mentre il 3 e il 4 a Giuseppina Tumminelli.

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In primo luogo possiamo osservare che le professioni d’aiuto (così come quelle educative) si fondano intorno a alcuni saperi strutturati e riconosciu-ti. Questi saperi legittimano la possibilità d’intervento dei professionisti: l’educatore o l’operatore sociale o di comunità sono autorizzati a interve-nire nella vita delle persone e delle comunità perché a essi si riconoscono fondate conoscenze sulla persona e sui gruppi sociali. Questi saperi strut-turati definiscono, tra l’altro, anche lo status sociale di esperti, e quindi di “risolutori” di questioni problematiche complesse - un tratto, quest’ultimo, che andrebbe problematizzato (Illich, 2009).

I saperi su cui si fondano le professioni educative e d’aiuto sono, preva-lentemente, saperi codificati in manuali o trattati, e per questo si tratta di oggetti ad alta strutturazione; questa strutturazione ha come conseguenza la possibilità di qualificare i saperi così definiti come trasferibili. Inoltre, i saperi così definiti dispongono di un lessico specifico, reso fruibile dai dizio-nari di settore. Non va inoltre trascurato che le professioni in oggetto – pro-prio per la loro possibilità d’intervento nella vita delle persone e dei gruppi – sono regolati da codici etici, vale a dire da sistemi nati per disciplinare – e contenere – la facoltà d’intervento nella vita altrui.

Questi saperi, per la loro struttura, possono essere appresi attraverso percorsi curriculari specifici – solitamente corrispondenti agli standard pre-visti dai corsi universitari. Inoltre si tratta di saperi “universali”, conside-rati (probabilmente a torto) validi in ogni luogo e contesto. In questo senso possiamo riferirci ai saperi di cui finora abbiamo parlato come a dei “saperi stretti”, vale a dire strettamente codificati e per questo riconoscibili, o anche come saperi espliciti – nel senso che offrono l’esplicitazione delle proprie basi e dei propri contenuti.

2. Due classi di saperi

Tuttavia, è un fatto comune pressoché a tutti coloro che lavorano nell’am-bito educativo, della cura o dell’aiuto sperimentare i limiti dei saperi cosid-detti “stretti”; chi ad esempio si trova ad operare come assistente sociale o come educatore ben presto scopre l’insufficienza dei saperi strutturati e “universali” rispetto al conseguimento dei propri obiettivi. Per innescare un processo educativo efficace non basta la conoscenza delle migliori teo-rie pedagogiche o delle normative di settore o, ancora, delle caratteristiche dell’apprendimento rispetto all’età. Allo stesso modo, chi deve promuovere un processo d’aiuto non può limitarsi alle tecniche del colloquio motivazio-nale o alla teoria sistemico-relazionale – conoscenze molto utili ma del tutto insufficienti. Tale insufficienza non deriva, si badi bene, dalla scarsa rigo-rosità dei saperi cosiddetti stretti, né tantomeno dipende dalla loro ridotta applicabilità. Ciò che va messo a fuoco è un fenomeno che, a prima vista

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potrebbe apparire paradossale se non fosse che apre invece a un differente piano della realtà e quindi richiede un passaggio logico. L’insufficienza in-fatti deriva proprio dall’elevato rigore e dall’ampia applicabilità dei saperi in oggetto.

Il lavoro con i singoli e con i gruppi umani è ben diverso dall’azione di conoscenza sui singoli e sui gruppi umani; il ricercatore sociale, così come lo psicologo può utilizzare con profitto i quadri concettuali della propria disciplina e gli strumenti a essa correlati, mentre colui che vuole innescare il cambiamento nel comportamento o nella percezione dei singoli o dei grup-pi ad un certo punto si scontra con i limiti dei suddetti quadri concettuali (saperi stretti) o delle tecniche correlate perché non è per quella via che può riuscire a raggiungere l’obiettivo del cambiamento.

Il punto centrale sta nel fatto che ogni fenomeno umano cela una cifra di singolarità irriducibile; ciò non tanto in termini etici o esistenziali quanto in termini epistemologici. Ogni studente fa parte di una classe ma questo non fa di lui una classe, egli rimane sempre uno studente anzi, rimane quello studente e basta. Per innescare in lui (e solo in lui) un processo di cambia-mento (di apprendimento) occorre aprire lo spazio, sempre di nuovo ine-splorato, della relazione universale-singolare. E così, ogni deviante fa parte di un target ma questo non fa di lui un target, ogni donna che ha subito violenza rimane quella singola donna, con la sua biografia e il suo vissuto. Chi deve lavorare con qualcuno è costretto ad attingere a un sapere che è difficilmente codificabile, un sapere non stretto, circoscritto, bensì lasco o, per amor di contrapposizione, largo.

3. Caratteristiche dei “saperi larghi”

L’educatore, l’operatore sociale, l’attivatrice di comunità spessissimo nel loro lavoro ricorrono a saperi del tipo che qui classifichiamo come “larghi” e che non vanno confusi con il sapere dell’esperienza (Jedlowski, 2008). Quest’ultimo ambisce a somigliare al sapere stretto perché pur basandosi sull’esperienza cerca di generalizzarsi, di trascendere la base singola da cui proviene per tentare la formulazione di regole generali. Il sapere largo, lun-gi dall’essere universale o generale, rimane invero situato. La sua caratteri-stica è quella di essere un sapere situazionale. Per questa ragione non può raggiungere una presunta completezza – tipica del sapere stretto il quale, seppur circoscritto dai limiti della dottrina (del manuale), pretende di co-prire l’intera estensione di sua pertinenza. Poiché è un sapere incardinato intorno alla relazione individuata non può avere carattere di oggettività quanto piuttosto di soggettività – quella degli attori in gioco. Quello che proviamo a descrivere è un sapere di natura abduttiva, vale a dire basato sull’ipotesi circoscritta alla situazione e agli attori della stessa. Da questo

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punto di vista si basa su indizi circostanziati e non su indicatori oggettivi (Ginzburg, 2000). Se un sapere stretto lo si può insegnare, un sapere largo lo si può solamente apprendere – da un “maestro”.

Dunque il sapere largo possiamo definirlo come soggettivo, insaturo, abdut-tivo, situato intrasmissibile ma apprendibile, non per esperienza ma per mimesi.

4. Quando il sapere “stretto” non basta

I saperi larghi sono sempre più utilizzati nel confronto con fenomeni sociali ad alta complessità e a bassa standardizzazione - come ad esempio la gestione del fenomeno migratorio, lo sviluppo di comunità, la disgregazio-ne sociale, l’intervento sulle new addiction.

Se la classificazione dei saperi proposta poc’anzi è fondata e coglie una dimensione reale delle professioni coinvolte, allora, si profila un bisogno reale delle comunità professionali: occorre operare un riconoscimento dei saperi larghi e della loro legittimazione, al fine di apprezzarne appieno l’u-tilità e l’incidenza nella qualità degli interventi, nonostante l’indetermina-tezza che li contraddistingue. Vediamo nel seguito alcuni casi in cui l’utiliz-zo di quello che in questa sede abbiamo chiamato sapere “stretto” si rivela insufficiente per la comprensione di determinati fenomeni sociali e come sia invece necessario attingere a un’altra classe di saperi.

a. il lavoro di comunità

David Alinsky (1909-1972) (Devastato, 2016), attivista e organizer di Chi-cago nella prima metà del ‘900, quando descrive i requisiti dell’attivatore di comunità, mette al primo posto la curiosità (“l’organizzatore dev’essere un por-tatore sano del contagio denominato curiosità”), cui fa seguire l’irriverenza, l’im-maginazione e infine l’umorismo. Come si vede, Alinsky non si preoccupa di indicare strumenti particolari o tecniche utilizzabili e trascura persino di richiamare letture strutturate della società (molto forte in quegli anni quella marxista); cita piuttosto caratteristiche del tutto indefinite, lasche ma necessa-rie per entrare in-situazione. Si provi a immaginare il profilo di un attivatore di comunità siffatto: curioso, irriverente, dotato di forte immaginazione e ca-pace di ridere di sé e delle proprie sconfitte. Si tratta, infatti, di un soggetto che non vuole agire la leva di saperi forti o stretti (irriverente), un soggetto aperto alle ipotesi situate (curioso), intento a favorire l’apprendimento altrui e consapevole dell’indeterminatezza della situazione in cui occorre operare (umorismo) e per questo più preoccupato della propria resilienza e capacità di afferrare le tracce di uno sviluppo possibile (immaginazione).

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b. Il lavoro sullo spazio

Come proponeva Michel de Certau (2001, p. 176), “lo spazio è un luogo praticato”. Dunque, gli oggetti di ricerca sono le “pratiche” che vengono messe in campo nella quotidianità e che fanno riferimento in primo luogo ai “saperi stretti”, ma che necessitano di “saperi larghi”. Il territorio è un fattore centrale per comprendere la società e i meccanismi sociali ad essa connessi.

La riflessione sul rapporto tra casa, quartiere, vicinato, città, partendo dai saperi larghi appare di centrale importanza. Questo tema, per le nume-rose implicazioni epistemologiche che richiama, si presta a numerose rifles-sioni e letture. La prima è la delimitazione dello spazio attraverso l’indivi-dualizzazione di “confini” che, per Durkheim, sanciscono norme che danno ordine al vivere collettivo.

I confini, però, si trasformano e diventano indicatori di cambiamento sociale poiché gli attori si organizzano nello spazio, creando recinti ma an-che vie di comunicazione. Pertanto, i confini possono essere letti come stru-menti cognitivi o come strumenti di organizzazione del territorio. Come strumenti cognitivi, si rifanno alla primaria capacità di distinguere, discer-nere e classificare. Il confine permette la formazione dei concetti, ossia della selezione dei “caratteri” degli oggetti. In questa accezione, il confine è un strumento della mente per facilitare la conoscenza.

Ma il confine è una primaria fonte di ordine spaziale; unisce e separa, rappacifica e crea conflitti. Come ricorda Osti (2010, p. 78), la diversifica-zione delle delimitazioni spaziali può essere letta come una dinamica ti-pica della società moderna: crescente differenziazione delle organizzazioni al loro interno e rispetto all’ambiente, elaborazione e istituzionalizzazione di codici specifici per ciascun ambito, esigenza di ulteriori organismi per coordinare gli ambiti specifici.

Senza dubbio, i confini delimitano le aree più rilevanti della vita delle persone: la casa, il quartiere, il vicinato, la città. La prima forma di delimita-zione spaziale è la casa come spazio/luogo di protezione dove si manifesta-no gli affetti, la cura dei figli, l’assistenza ai soggetti deboli, il mangiare e il dormire, lo studiare e il passare il tempo libero.

La domanda che ci si pone è se esista o meno un modo universale di abi-tare e, nello specifico, a quali saperi stretti e larghi si possa fare riferimento.

Una delimitazione spaziale più ampia è rappresentata dal quartiere e dal vicinato.

Nella distinzione teorica tra il concetto di quartiere e quello di vicinato, e nell’individuazione della geometria delle relazioni sociali nell’uno e nell’al-tro, ci si interrogherà sulle connessioni tra le pratiche sociali e la vicinanza fisica.

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Infine, la città che può essere letta come la principale delimitazione spaziale, come un macro esempio di organizzazione di spazio fisico e sociale e come luogo eterogeneo in relazione alla presenza di soggetti e di individui portatori di diver-sità. Quali saperi sono necessari per leggere la città e le sue trasformazioni?

La scelta dell’affrontare il tema della casa, del quartiere, del vicinato e della città risulta rilevante giacché si tratta di dimensioni dinamiche che possono essere lette lungo l’asse diacronico così come lungo quello sincro-nico, oltre a rappresentare le cornici all’interno delle quali potere collocare i fenomeni sociali. Inoltre, il mutamento sociale e le trasformazioni spaziali che rintracciamo nella città vedono come protagonisti anche i migranti che vi risiedono. Riflettere sui processi di trasformazione degli spazi messi in atto dai migranti in alcune aree delle città attraverso la proposta di nuove categorie come quelle dei “saperi stretti” e “saperi larghi” appare interes-sante per le conseguenze epistemologiche che potrebbero innescare.

c. Il lavoro con i migranti

La presenza e l’inserimento di migranti nelle città determinano nuove forme di vita urbana grazie all’incrocio tra la mobilità, la stanzialità e la forma culturale (Augè, 2006, in Tumminelli, 2010). La “sovrapposizione” tra i possibili modi di costruzione delle città crea “territori circolari […] di produzione di memorie collettive e di pratiche di scambio senza sosta più ampie” (Tarrius, 1995). Nella nuova configurazione che assumono i territori, anche in seguito ai processi di sovrapposizione, si manifesta l’eterogeneità degli elementi non soltanto fisici, ma anche sociali, tecnologici, culturali, che contribuiscono a creare la realtà urbana e a determinarne il funzionamen-to. I nuovi “paesaggi spaziali” individuabili all’interno delle città possono essere analizzati attraverso l’individuazione dei processi di trasformazione innescati da migranti. L’attribuzione di simboli agli spazi e ai luoghi della città da parte dei migranti e degli attori sociali in generale, è un’operazione molto complessa. Si tratta di una costruzione sociale che muta in base a di-verse variabili, prima fra tutte il tempo. I simboli, rifacendosi alla vasta let-teratura sull’argomento di stampo non soltanto sociologico, sono elementi rilevanti che non scompaiono nel corso del tempo, ma si trasformano. Le cit-tà diventano i principali laboratori di costruzione e di decostruzione di sim-boli spaziali, espressione di un bisogno sempre più accentuato di comunica-zione che coinvolge migranti e autoctoni. L’attribuzione di nuovi simboli si colloca in questa sede, nella direzione del cambiamento della relazione tra migranti e spazi della città. La presenza dei migranti negli spazi della città innesca cambiamenti che si rintracciano nei nuovi significati che il territorio acquista. Sono i migranti che riscoprono la dimensione del vicinato (Tum-minelli, 2010) e della strada, perché usufruiscono della città concretamente.

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A conclusione possiamo dire che occorre avviare una riflessione attenta intorno a una classe di saperi quasi del tutto trascurata dalla letteratura corrente ma che, nel contempo, si rivela essenziale per comprendere meglio il lavoro sociale, educativo e di cura. La messa a fuoco di questa classe di saperi può aprire una linea di ricerca ancora quasi del tutto inesplorata ma senz’altro ricca di apprendimenti.

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Bibliografia

Augé, M. (2006), “Un mondo mobile e illeggibile”, Lecture al Convegno Tra i confini: città, luoghi, integrazione, Fondazione Unidea, Milano, 25 maggio 2006 in M., Magatti, (a cura di) (2007), La città abbandonata. Dove sono e come cambiano le periferie italiane, Il Mulino, Bologna.

De Certeau, M., (2001), L’invenzione del quotidiano, Edizioni Lavoro (ed. or. 1990), Roma.

Devastato, G., (2016), Lavoro sociale e azioni di comunità, Maggioli, Rimini.Ginzburg, C., (2000), Spie, radici di un paradigma indiziario, in: Miti emblemi

e spie. Morfologia e storia, Einaudi, Torino.Illich, I., (2009), Esperti di troppo, Erickson, Trento.Jedlowski, P., (2008), Il sapere dell’esperienza, Carocci, Milano. Osti, G., (2010), Sociologia del territorio, Il Mulino, Bologna.Tarrius, A., (1995), “Spazi ‘circolatori’ e spazi urbani. Differenze fra i

gruppi migranti”, «Studi emigrazione/Etudes Migrations», XXXII, 118, pp. 247-261.

Tumminelli, G., (2010), Sovrapposti. Processi di trasformazione degli spazi ad opera degli stranieri, FrancoAngeli, Milano.

Vergani, E., (2016), Progettare. Dialoghi intorno a una pratica generativa, Navarra, Palermo.

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Vivere insieme nelle differenze. Promuovere l’integrazione in una società in trasformazioneritA cutini*

«I sociologi devono alzarsi di buon’ora e percorrere fin dall’alba l’inedito paesaggio creato dagli sconvolgimenti notturni. (…) Spetta loro, anzitutto, evidenziare la discontinuità, non rivolgersi più alla luce del passato ma piuttosto alla confusione della realtà visibile» 1(Alaine Touraine)

Abstract

Il compito della ricerca sociologica nel fare chiarezza riguardo i fenomeni so-ciali è, al tempo stesso, urgente e difficilissimo, soprattutto se si affronta il tema “migrazioni”. Il paradigma dello “straniero” è entrato prepotentemente nelle riflessioni di molti pensatori contemporanei alle prese con il faticoso compito di interpretare l’odierna società globalizzata. La definizione dell’identità del “cittadino globale”, spaesato e che conosce un impoverimento drammatico dei legami sociali, costituisce un punto di partenza decisivo per individuare nuovi modelli interpretativi. Le scienze sociali, siano esse teoriche o applicate, posso-no dare un contributo formidabile alla comprensione dei fenomeni migratori ma anche all’individuazione di soluzioni praticabili nelle società che accolgono e che vivono esse stesse profonde trasformazione nei modelli sociali e culturali. Storicamente il contributo della sociologia ha aiutato non poco il dibattito pub-blico e si avverte anche oggi la necessità di ambiti scientifici ed operativi che, in un approccio olistico, sappiano ideare e sviluppare percorsi virtuosi di ricerca e di analisi ma anche di proposta formativa per affrontare i fenomeni sociali in modo positivo e in una prospettiva di lungo periodo.

Keywords: Immigrazione, Scienze sociali, Solitudine, Integrazione

1 Touraine A. (2002). Libertà, Uguaglianza, Diversità. Si può vivere insieme?. Milano: Il Saggia-tore, Milano. P. 21

* Docente discipline del Servizio Sociale Università “Dante Alighieri” di Reggio Calabria e Università Lumsa

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Il compito della ricerca sociologica nel fare chiarezza riguardo i fenome-ni sociali è, al tempo stesso, urgente e difficilissimo, soprattutto se si affronta il tema “migrazioni”. Nell’estate 2017 sono stati resi noti i dati relativi ad una ricerca condotta in Italia dalla SWG. Alla domanda “Gli immigrati sono una risorsa per il nostro paese: quanto è d’accordo con questa affermazio-ne?” solo il 35% si è detto d’accordo mentre il 65 % si è detto in disaccordo.

Uno degli aspetti più interessanti che questa ricerca ha messo in luce riguarda il cambiamento percentuale che si è registrato in un solo anno, le risposte affermative sono aumentate dal 44% al 35%. L’osservazione a com-mento del dato mette in luce lo stato d’animo complessivamente negativo dell’opinione pubblica nei confronti dei cittadini stranieri: “in un anno il sentimento dell’opinione pubblica verso i migranti si è inasprito e ha assun-to toni e atteggiamenti sempre più ansiosi, con tratti di apprensione e rab-bia”2. Il cambiamento appare assai più vistoso se si paragona il dato attuale con la percentuale del 2007. Dieci anni fa la maggioranza delle persone, il 60 %, vedeva gli immigrati come una risorsa per il nostro paese, oggi questa opinione è condivisa solo dalla minoranza, il 35% con una diminuzione di ben 15 punti percentuali in meno.

Fig. 1 Percezione del fenomeno migratorio nell’opinione pubblica: Numero risposte affermative alla domanda: “Gli immigrati sono una risorsa per il nostro paese?”

Source: Ricerca SWG 2017 Il clima sui migranti Gli italiani e l’immigra-zione: bloccare subito gli sbarchi http://www.swg.it/politicapp?id=obob

2 Ricerca SWG 2017, Il clima sui migranti Gli italiani e l’immigrazione: bloccare subito gli sbarchi http://www.swg.it/politicapp?id=obob ; vedi anche Mangone E. (2017). Communication et incommunication en Europe : l’exemple de la représentation des migrants. In Les incom-munications européennes, Hermes, Une revue de l’Institut des sciences de la communication du CNRs, N. 77.

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Un ulteriore aspetto che la ricerca evidenzia, riguarda la percezione dif-fusa nell’opinione pubblica che la presenza dei cittadini stranieri nel nostro paese costituisca una minaccia e che accresca il senso di insicurezza. Con la affermazione: “i migranti portano solo criminalità” si sono detti d’accordo ben 4 italiani su 10. Anche in questo caso è interessante notare il deciso au-mento del trend negli ultimi anni: dalle 35 risposte positive su cento regi-strati nel 2004 si è arrivati alle attuali 43 risposte su 100.

Fig. 2 Percezione del fenomeno migratorio nell’opinione pubblica: numero di ris-poste affermative alla affermazione: “Gli immigrati portano solo criminalità”

Source: Ricerca SWG 2017 Il clima sui migranti Gli italiani e l’immigra-zione: bloccare subito gli sbarchi http://www.swg.it/politicapp?id=obob

Se la realtà percepita fosse vicina alla realtà oggettiva le risposte sarebbe-ro molto diverse3. Secondo i calcoli dell’Inps, ogni anno gli immigrati pre-senti in Italia versano 8 miliardi di contributi, ricevendone indietro solo 3 in termini di pensioni e welfare di vario tipo. Il saldo netto, quindi, è di circa 5 miliardi di euro. Il Presidente dell’INPS Tito Boeri, ascoltato dalla commis-sione migranti della Camera dei deputati, così ha spiegato questo apporto positivo: “abbiamo calcolato che sin qui gli immigrati ci hanno “regalato” circa 1 punto di PIL di contributi sociali a fronte dei quali non sono state loro erogate delle pensioni, e ogni anno questi contributi a fondo perduto (vo-gliamo chiamarli in questo modo) degli immigrati valgono circa 300 milioni di euro, che sono entrate aggiuntive per le casse dell’INPS. Tutti gli studi scientifici di cui siamo a conoscenza sull’impatto fiscale dell’immigrazione

3 Allievi S. Dalla Zuanna G. (2013). Tutto quello che non vi hanno mai detto sull’immigrazione. Bari: Laterza.

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in Italia concludono che l’impatto degli stranieri è positivo”4. La realtà ci dice che gli immigrati sono una risorsa ma la percezione dipinge un’altra e opposta rappresentazione.

Lo stesso vale per il tema criminalità e sicurezza. I dati del Ministero dell’Interno confermano come in Italia i reati siano in costante diminuzione. Un netto calo che comprende anche omicidi, tentati omicidi, furti e violenze sessuali. Nello stesso arco di tempo gli stranieri residenti nel nostro Paese sono raddoppiati5.

Fig. 3 Numero reati in Italia nel periodo 2012-2016

Source: Report a cura del Ministero dell’Interno pubblicato il 15 Agosto 2016 http://www.interno.gov.it/sites/default/files/modulistica/ferragos-to_2016.pdf

L’Istat, nonostante questa costante diminuzione dei reati, registra come la “preoccupazione criminalità” da parte degli italiani sia in aumento e cre-sce il numero di famiglie che indicano il rischio di criminalità come un pro-blema presente nella zona in cui abitano. Dal 30,0% nel 2014 si è passati al 38,9% nel 2016.

Nella ricerca, ancora in corso, condotta tra gli studenti che frequenta-no il corso in servizio sociale dell’Università “Dante Alighieri” di Reggio Calabria, quindi un gruppo di intervistati che mostra un alto livello di mo-

4 Camera dei Deputati. Resoconto stenografico Audizione del Presidente dell’Istituto nazio-nale della previdenza sociale (INPS), prof. Tito Boeri seduta giovedì 20 luglio 2017. http://documenti.camera.it/leg17/resoconti/commissioni/stenografici/pdf/69/audiz2/audi-zione/2017/07/20/leg.17.stencomm.data20170720.U1.com69.audiz2.audizione.0092.pdf

5 Signorelli A. D., (2017). Verità percepita, istruzioni per l’uso, Pagina 99, 2 settembre.

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tivazione e di sensibilità sui temi sociali, troviamo la stessa divaricazione presente nella società italiana tra il fenomeno migratorio nei suoi dati reali e come viene percepito6.

Alla domanda: “Quali sono i problemi sociali più urgenti nella società italiana?”, più della metà individua l’immigrazione come problema sociale nazionale ed è il primo in classifica. L’immigrazione è percepito essere un problema più urgente. Persino più del tema del lavoro, pure molto sentito tra la fascia di età giovanile nel meridione, e molto, molto più dei temi re-lativi alla legalità e alla corruzione indicato come problema solo da un in-tervistato su 10, in un contesto nel quale la vita quotidiana, politica, sociale, oltre che le pagine di cronaca, sono afflitte non poco dalla presenza della criminalità organizzata.

La stessa considerazione proviene dalle risposte alla domanda “Quanti sono, secondo te, gli immigrati in Italia?”. I 3/4 degli intervistati rispondo-no con cifre esagerate, molto lontane dalla realtà o con espressioni che tra-discono l’idea dell’invasione. Di seguito alcune risposte ad esempio: “più degli italiani”, “il 40%, ma è un bene”, “il 65%”, “sono numerosi quanto gli anziani”, qualcuno azzarda una cifra:”20 milioni”, “40 milioni”.

È in questa divaricazione crescente tra realtà misurabile e realtà percepita che si colloca il ruolo di primaria importanza che i sociologi, ma in generale tutti gli studiosi delle scienze sociali, debbono ritrovare in questa fase stori-ca. In alcuni casi questo ruolo viene reclamato con forza quando a fenome-ni sociali, quali quello della radicalizzazione delle periferie e degli episodi tragici e numerosi di terrorismo che si sono succeduti in questi ultimi tempi, vengono preferiti schemi semplificati e offerte soluzioni di tipo securitario, quando sarebbe necessaria una ricerca razionale e approfondita delle vere dinamiche che causano tali fenomeni di radicalizzazione e disagio7.

Daniela Pompei, esperta del fenomeno delle migrazioni e molto impe-gnata sul piano delle soluzioni tecnico-operative per i temi dell’integrazio-ne e dell’accoglienza, in una recente relazione in un simposio internazionale in Germania, sottolineava questa divaricazione tra realtà e percezione in-

6 Dal febbraio 2017 è in corso una ricerca presso l’Università per stranieri “Dante Alighieri”, centrata sul tema dell’integrazione dei migranti che giungono dall’area Mediterranea in Italia. L’analisi che lo studio intende realizzare vede il coinvolgimento diretto degli studenti del corso per mediatori interculturali (L-39). Nella prima fase è previsto un questionario, con domande chiuse e aperte. Oltre ai dati generali, il questionario raccoglie dati riguardo le motivazioni, le aspettative, la percezione dei problemi sociali da parte degli studenti frequentanti il corso per mediatori interculturali.

7 “C’è proprio bisogno di un esercito di sociologi, invece. Così come di urbanisti, di antro-pologi, di etnografi, di statistici, di psicologi, di studiosi delle emarginazioni e delle dise-guaglianze, delle periferie, delle religioni, del razzismo. C’è bisogno come il pane di chi ricerca le dinamiche che creano guerre e morte”. Alessandro Gilioli (2017). Non è alle viste, 23 marzo. http://gilioli.blogautore.espresso.repubblica.it/2016/03/23/non-e-alle-viste/

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dividuando i rischi di un dibattito politico esasperato che accentua questa divaricazione anche in modo pericoloso. “Why is migration on the front page of the European media? Today more than in 2015? Datasets do not pro-vide a credible answer. In 2015, migrants crossing into Europe by sea were more than a million (namely 1.015.078). In 2016, they lowered dramatically to 362.753 (around one-third of 2015). As of 31 August, migrants entering by sea were 123.950 . The year 2017 has not ended, but there is a very low probability that the 2015, nor the 2016 figure, be attained. This reduction has occurred before the agreements with Libya, which are notoriously in force only since last month. Perhaps the revamped discussion about immigra-tion is driven by the electoral agendas, more than by actual figures (impor-tant European countries, among which Germany and Italy will soon face elections).I agree with those who argue that the first victory of populism is not in the electoral booth, but when it is successful in setting the agenda of the political debate with a theme, as today occurs with immigration. More meaningful and urgent issues should actually be addressed. I will never buy the populistic refrain by which my problems will be magically solved, a wall would be enough, keeping problem people away would serve and solve… etc. These are only dangerous lies”8.

In un momento di semplificazioni, di scorciatoie xenofobe, che vengono riproposte in veste rinnovata ma che sono, in realtà, vecchie come il mondo, c’è bisogno di recuperare un metodo9. Già Alessandro Manzoni, nei Pro-messi sposi esprimeva una preoccupazione, ambientata nella cornice storica della peste di Milano, ma valida sempre. E proprio nei Promessi Sposi tro-viamo l’enunciazione di questo metodo, nella indimenticabile descrizione della peste e del “dagli all’untore!” che colpiva, neanche a dirlo, i forestie-ri e in cui incappò anche il giovane protagonista, il povero Renzo. Diceva Manzoni: “osservare, ascoltare, paragonare, pensare prima di parlare”. È il metodo necessario da recuperare, non solo nel dibattito politico o mediati-co, che la ricerca sociologica può offrire per fornire chiavi di lettura solide, e anche per ipotizzare soluzioni e risposte operative.

8 Pompei D. (2017). New Responses to Migration New Responses to Migration. Munster (Ger-many) http://www.santegidio.org/pageID/16332/langID/en/text/2508/Speech-of-Da-niela-Pompei.html

9 Pompei D. (1990). Da clandestino a cittadino. In Atti della Conferenza nazionale dell’immi-grazione. Roma 4-6 giugno 1990. Presidenza del Consiglio dei Ministri, Roma: Editalia. Pompei D. (2005). Migrants et réfugiés dans le monde e Appauvrissement et enrchissement par les migrations. L’Europe, l’Eglise et les migrations, Roma: Palombi Editori. Pompei D. (2008). Società etnica o società multiculturale? L’integrazione possibile. La società multietnica: il confronto possibile. Bologna: Lombar Key. Pompei D. (2013). le Parole dell’immigrazione. Santarcangelo di Romagna: Maggioli. Codini E., Cutini R., Ferrero M., Olivani P., Panizzut D., Pompei D. (2009). I diritti sociali degli stranieri. Torino: UTET.

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Storicamente il contributo della sociologia ha aiutato non poco il dibatti-to pubblico sui grandi temi della società e delle sue trasformazioni. Il tema dello “straniero” è entrato prepotentemente nelle riflessioni di molti socio-logi e pensatori contemporanei che si cimentano nel difficile compito di in-terpretare, o perlomeno di individuare, alcune chiavi di lettura dell’odierna società globalizzata.

I vecchi sistemi di pensiero sembrano obsoleti di fronte a fenomeni di complessa decifrazione che rimettono in discussione radicalmente il modo di vivere, di pensare, di essere, insomma l’identità stessa del “nuovo cittadi-no globalizzato”. Molti autori si sono cimentati nel tentativo di trovare nuo-vi modelli teorici interpretativi e hanno coniato modi diversi per definire il nuovo stato di cose. Il tema dello “straniero”, in questa riflessione, non è residuale: l’analisi del tema dell’identità, connesso ai grandi fenomeni im-migratori, costituisce infatti un punto di partenza decisivo per individuare nuovi paradigmi interpretativi della società contemporanea.

Zygmunt Bauman, ad esempio, in una riflessione sulla società contem-poranea prende come paradigma della condizione precaria “del cittadino globale” la figura del profugo. “I profughi – scrive Bauman - sono diventati l’alter ego caricaturale della nuova élite di potere del mondo globalizzato: una ulteriore dimostrazione di quella extraterritorialità le cui radici affon-dano nella precarietà odierna della condizione umana, nelle ansie e nel-le paure preponderanti dell’essere umano di oggi”10. In altre parole si può comprendere qualcosa degli attuali scenari esistenziali solo a partire dalla condizione di “straniero” o di “profugo”11.

Del resto, storicamente, proprio i temi relativi alle migrazioni, sono stati il campo di studio privilegiato della nascente sociologia di fine ‘800 e degli inizi del ‘900. Sono esemplari gli studi della Scuola di Chicago: la definizio-ne di “uomo marginale”, o gli studi sui contesti urbani, o sui ghetti, hanno offerto nei primi decenni del ‘900 una chiave di lettura importante per leg-gere il fenomeno migratorio non isolatamente ma dentro il contesto di una società che conosceva essa stessa una trasformazione profonda.

È importante sottolineare, come quei pionieri della sociologia fossero, legati, alcuni ritengono influenzati fortemente, dai primi esperimenti di servizio sociale12. Jane Addams, una delle fondatrici del servizio sociale a livello internazionale, legata a filo doppio con i protagonisti degli studi del-la scuola di Chicago è conosciuta per la sua esperienza innovativa di Hull

10 Bauman Z. (2003). Una nuova condizione umana. Milano: Vita e Pensiero. P. 9311 Pompei D. (2013). Immigrazione, identità. Diversità eguaglianza. Santarcangelo di Romagna:

Maggioli.12 Deegan Mary Jo. (1988). Jane Addams and the Men of the Chicago School, 1892-1918. New Jer-

sey: Transaction Publisher. Sull’esperienza di Jane Addams si è soffermato anche Sennett R. (2012). Insieme: Rituali, piaceri, politiche della collaborazione. Roma: Feltrinelli.

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House rivolta proprio ai migranti13. La nascita dei sistemi del welfare e i poderosi fenomeni migratori di fine ‘800 resero necessarie nuove figure pro-fessionali, una di questa era l’assistente sociale. Le politiche di welfare, l’in-tegrazione, l’innovazione nel sistema dei servizi, ieri come oggi, va di pari passo con la riflessione in merito alle nuove professioni, alle competenze e in generale ai temi della formazione.

Una lettura sociologica unidirezionale oggi tende a tenere fisso l’asse dello studio sui migranti e la loro provenienza. È indubbiamente un pun-to di vista importante ma parziale se non si considerano contestualmente i problemi sociali presenti nelle società che accolgono, o presenti nei modelli sociali e culturali dei paesi ospitanti. Ed è la mancata riflessione sui i modelli urbani delle città contemporanee che pone una delle domande centrali oggi: quanto, ad esempio, la radicalizzazione delle giovani generazioni trovi il suo terreno di coltura in un poco o niente affrontato tema delle periferie del-le grandi città? Ovvero, come afferma Oliver Roy, che “il jihadismo, almeno in Occidente (ma anche in Maghreb e Turchia), è un movimento di giovani che (…) risulta inscindibile dalla “cultura giovanile” delle nostre società”14. In ogni caso, come recenti studi dimostrano, è necessario analizzare le relazioni causali con formulazioni meno scontate e più approfondite.

Un metodo, quindi, per analizzare la società, chiavi di lettura nuove che sappiano dare nome e collocazione ai fenomeni sociali. Insomma c’è bisogno della ricerca sociologica che sappia offrire una interpretazione valida alla paura del cittadino globale. Non quella semplificata e fuorviante: “ho paura per colpa degli stranieri”. Ma quella più profonda che ha la sua origine nello sfaldamento delle reti sociali, dei legami affettivi. La riflessione di Bauman aiuta ancora a chiarire i termini della questione: «Le radici dell’insicurezza sono molto profonde. Affondano nel nostro modo di vivere, sono segna-te dall’indebolimento dei legami interpersonali, dallo sgretolamento delle comunità, dalla sostituzione della solidarietà umana con la competizione senza limiti, dalla tendenza ad affidare nelle mani di singoli la risoluzione di problemi di rilevanza più ampia, sociale”. Quindi: “Ho paura perché sono solo” di fronte ad un mondo che non si riesce più a capire, soprattutto “ho paura” perché non esiste più una comunità urbana, sociale, solidale che mi dica “chi sono”, “cosa valgo”, “che esisto”.

Quello della solitudine e l’isolamento del cittadino globale è sempre più sotto la lente delle ricerche scientifiche degli ultimi 30 anni15. Sicuramente è

13 Addams J. (1910). Twenty Years at Hull House; with autobiographical notes. Chicago.14 Roy O. (2017). Generazione Isis Chi sono i giovani che scelgono il Califfato e perché combattono

l’Occidente. Roma: Feltrinelli. P. 1015 Cutini R. (2013). Anziani, salute, ambiente urbano. Santarcangelo di Romagna: Maggioli.

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una dimensione che incide nei modi di pensare e di percepire la realtà. Gli ultimi dati Istat fotografano una realtà che sempre più vede affermarsi stili di vita individuali con un riverbero diretto sulla composizione dei nuclei familiari. Nel volgere di vent’anni, infatti, il numero medio di componenti in famiglia è sceso da 2,7 (media 1995-1996) a 2,4 (media 2015-2016). Non è un dato da poco soprattutto se lo si collega al progressivo aumento delle famiglie unipersonali: dal 20,5 per cento al 31,6 per cento. In altre parole in Italia quasi una famiglia in su tre è composta da una sola persona. Ciò è conseguenza di profonde trasformazioni demografiche e sociali che hanno investito il nostro Paese ma non può non avere conseguenze sugli stili di vita, sui modi di essere e di pensarsi, e soprattutto non può non condiziona-re il modo di approcciare la realtà umana, urbana, sociale che conosce essa stessa cambiamenti profondi16.

Eric Klinenberg, ha tentato con successo di interpretare questa nuova realtà relazionale, cercando di evidenziare gli aspetti non solo negativi, di un cambia-mento culturale epocale. “The decision to live alone is common in diverse cultu-res whenever it is economically feasible. Although Americans pride themselves on their self-reliance and culture of individualism, Germany, France and Britain have a greater proportion of one-person households than the United States, as does Japan. Three of the nations with the fastest-growing populations of sin-gle people — China, India and Brazil — are also among those with the fastest growing economies”17. Un altro studioso americano, John T. Cacioppo, collegan-do gli studi sociologici con quelli delle neuroscienze e della genetica, evidenzia tutti gli aspetti negativi della mancanza di legami sociali in termini di salute ma anche di impatto sociale sui contesti urbani e sulla giovani generazioni e osserva: “Nei quartieri più difficili delle aree urbane, i giovani ribelli di oggi reagiscono al

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16 ISTAT, Annuario Statistico 2017, pubblicato il 28 dicembre 2017.17 Klinenberg E. (1997). L’exception hispanique, in Le Monde Diplomatique, Août. Klinenberg

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pericoli di essere soli arruolandosi in gang come i Crisps o i Latin Kings”, La con-siderazione, non nuova, ma condivisibile di John T. Cacioppo mette in luce come modelli culturali individualistici abbiano preso piede: “In molte parti del mondo, le società più vecchie stanno adottando in tutta fretta la cultura materialista ame-ricana e la disinvolta mancanza di considerazione per i vincoli sociali che ha dato origine all’anomia delle aree extraurbane”18. La vita di relazione conta, e conta molto, in termini di salute, di coesione sociale, di felicità --è il nuovo indicatore scoperto da poco dagli economisti-, di qualità della vita insomma. Al netto delle altre dimensioni (la casa, il reddito, la salute, etc.) il fattore di rischio solitudine ha pesanti ripercussioni sulla qualità della vita delle persone e andrebbe considerato attentamente quando si disegnano le politiche sociali e sanitarie e anche quando si progettano i nuovi quartieri e le abitazioni, quando si pensa agli stili di vita.

Già negli anni 60 Jane Jacobs affrontava il problema delle grandi città, e non a caso affrontava direttamente il problema della sicurezza nelle metropoli americana, che certo non dipende dalla presenza degli stranieri: “tutti sanno che una strada urbana frequentata è anche sicura, a differenza di una strada deserta. Le città sorde, inerti contengono i semi della propria distruzione”. Ma le città vivaci, diverse, intense contengono i semi della loro rigenerazione, con l’energia sufficiente a portare i problemi fuori da sé stesse. “Think of a city and what comes to mind? Its streets. If a city’s streets look interesting, the city looks interesting; if they look dull, the city looks dull. More than that, and here we get down to the first problem, if a city’s streets are safe from barbarism and fear, the city is thereby tolerably safe from bar barism and fear. When people say that a city, or a part of it, is dangerous or is a jungle what they me an primarily is that they do not feel safe on the sidewalks. But sidewalks and those who use them are not passive beneficiar ies of safety or helpless victims of danger. Sidewalks, their borderi ng uses, and their users, are active participants in the drama of civilization versus barbarism in cities. To keep the city safe is a fundamental task of a city’s streets and its sidewalks. This task is totally unlike any service that sidewalks and streets in little towns or true suburbs are called upon to do. Great cities are not like towns, only larger. They are not like suburbs, only denser. They differ from towns and suburbs in basic ways, and one of these is that cities are, by definition, full of strangers. To anyone person, strangers are far more common in big cities than acquaintances. More common not just in places of public assembly, but more common at a man’s own doorstep. Even residents who live near each other are strangers, and must be, because of the sheer number of people in small geographical compass19.”

18 Cacioppo John T. e Patrick W. (2009). Solitudine, l’essere umano e il bisogno dell’altro. Milano: Il Saggiatore. Pp. 263 e 267

19 Jacobs J. (2016). The Death and Life of Great American Cities (50th Anniversary Edition), New York: Moderm Library. (Original work published 1961). P. 30. Totaforti S. (2012). La cit-

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Le città sorde, inerti contengono i semi della propria distruzione. Ma le città vivaci, diverse, intense contengono i semi della loro rigenerazione. Per dirla con le parole che Italo Calvino nel suo celebre Le città invisibili mette in bocca a Marco Polo: “L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo du-rare, e dargli spazio” 20. Marco polo, presentando questa ineludibile scelta tra due opzioni, risponde così al pessimismo del Gran Kan riguardo il destino infernale che sembra attendere le grandi città di ogni tempo.

Il tema dell’integrazione si colloca tutto in questo “spazio” dell’incontro, della conversazione, del dialogo, della conoscenza reciproca da creare nei contesti sociali delle città e delle società che accolgono21. Ed è proprio in questo “spazio” che l’arrivo di gruppi di nuovi cittadini può rappresentare una chance e non un pericolo.

Che soluzione c’è allo sgretolamento delle comunità? Allo sfilacciamen-to delle relazioni interpersonali? Gli operatori sociali ne conoscono le con-seguenze: la fila delle persone che aspettano davanti alle porte dei servizi sociali misurano le ricadute drammatiche che ha sulla vita delle persone la mancanza delle relazioni o lo sgretolamento delle comunità solidali.

Ma gli operatori sociali hanno le competenze e gli strumenti per affron-tare queste nuove sfide? Hanno la capacità di individuare in un quartiere, in una scuola percorsi di integrazione positiva con i nuovi europei? La forma-zione, anche quella universitaria, è idonea a preparare operatori promotori di integrazione? Promotori di comunità? Quando Zygmunt Bauman parla di una perdita delle competenze del vivere insieme, cosa intende? Quali sono queste competenze di cui parla Richard Sennett quando afferma:“-stiamo perdendo le abilità tecniche della collaborazione, necessarie al buon funzionamento di una società complessa22”, quelle competenze tanto neces-

tà diffusa. Luoghi pubblici, luoghi comuni, luoghi abusivi. Napoli: Liguori. Vedi anche Totaforti S. (2012). La città diffusa. Luoghi pubblici, luoghi comuni, luoghi abusivi. Napoli: Liguori.

20 Calvino I. (1972). Le città invisibili. Torino: Einaudi. 21 Bauman Z. (2001). Dentro la globalizzazione, le conseguenze sulle persone. Bari: Laterza. Bauman Z.

(2001). Voglia di comunità. Bari: Laterza, Bari. Bauman Z. (2002). La società individualizzata. Bolo-gna: Il Mulino. Bauman Z. (2003). Intervista sull’identità. Bari: Editori Laterza. Bauman Z. (2003). Modernità liquida. Bari: Editori Laterza. Benasayag M., Schmit G. (2004). L’epoca delle passioni tristi. Roma: Feltrinelli. Castel R. (2004). L’insicurezza sociale. Che significa essere protetti? Torino: Einaudi. Todorov T. (2003). Il nuovo disordine Mondiale Le riflessioni di un cittadino europeo. Milano: Garzanti. Todorov T. (2008). La paura dei barbari. Oltre lo scontro di civiltà. Milano: Garzanti.

22 Sennett. R. (2012). Insieme: Rituali, piaceri, politiche della collaborazione. Roma: Feltri-nelli. P.19

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sarie oggi nella costruzione e nella progettazione di città aperte. The open City come le descrive Sennett: “The cities everyone wants to live in should be clean and safe, possess efficient public services, be supported by a dy-namic economy, provide cultural stimulation, and also do their best to heal society’s divisions of race, class, and ethnicity. These are not the cities we live in.Cities fail on all these counts due to government policies, irreparable social ills, and economic forces beyond local control. The city is not its own master. Still, something has gone wrong, radically wrong, in our conception of what a city itself should be. Perhaps those nice words -- clean, safe, effi-cient, dynamic – are not enough in themselves to confront critically our ma-sters. In this talk, I’d like to propose we look at the city in a more embracing way. Currently, we make cities into closed systems. To make them better, we should make them into open systems. We need to applying ideas about open systems currently animating the sciences to animate our understan-ding of the city. More, in an open city, whatever virtues of efficiency, safety, or sociability people achieve, they achieve by virtue of their own agency. But just because a city brings together people who differ by class, ethnicity, religion, or sexual preference, in an open system, the city is to a degree in-coherent. Dissonance marks the open way of life more than coherence, yet it is a dissonance for which people take ownership”23.

Cioè quelle competenze della negoziazione, della mediazione per supe-rare una crisi, dell’accordarsi, del ricominciare. Insomma del vivere insie-me. Anche quando si organizza una cena tra amici c’è bisogno di abilità tecniche che lentamente stiamo disimparando con il disuso.

Bauman parla dell’arte difficilissima di vivere permanentemente con le differenze. Arte fatta di mediazione, negoziazione, gestione del conflitto, capacità dialogica, governo della complessità, sono attività che richiedono competenza e abilità. E queste sono le competenze e abilità che chi avrà il compito, il ruolo professionale di esercitarle, deve trovare ambiti e occasioni per apprenderle e acquisirle.

La riflessione attorno alle nuove figure professionali e, di conseguenza, delle competenze loro necessarie per affrontare il tema dell’immigrazione è nel tempo divenuta sempre più urgente e necessaria, ma mancano analisi scientifiche e studi che analizzino la tematica sul lungo respiro dell’inte-grazione e non soltanto quello emergenziale della prima accoglienza. Carlo Gelosi nel suo studio sui processi dell’integrazione e dell’interculturalità, a proposito, osserva: “Si tratta, pertanto, di comprendere quanto sia fonda-mentale puntare l’attenzione e orientare gli interventi sull’educazione alla relazione interculturale e alla coesione sociale come campo unico di inten-

23 Sennett R. (2016) The open City. https://www.richardsennett.com/site/senn/Uploade-dResources/The%20Open%20City.pdf

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ti”24. Appare sempre più chiaramente che chi è impegnato nello studio e nella operatività delle scienze sociali possa dare un contributo formidabile alla comprensione dei fenomeni ma anche all’individuazione delle soluzio-ni praticabili. Si avverte la necessità di ambiti scientifici ed operativi che sappiano ideare e sviluppare percorsi virtuosi di ricerca e di analisi ma an-che di proposta formativa. Insomma sarebbe auspicabile la nascita di un laboratorio sui fenomeni migratori che tenendo insieme ricerca, formazione e operatività offra chiavi di lettura scientifiche e proposte applicative nuove in un approccio olistico. Il tema delle risorse umane da impiegare e, quindi, da formare, rappresenta una delle chiavi di volta per affrontare il tema in modo positivo e in una prospettiva di lungo periodo25.

24 Gelosi C. (2016). Patrimoni di diversità, Culture, identità, comunità. Milano: Franco Angeli. P. 16

25 Bifulco L. (2003). Il genius loci del Welfare. strutture e processi della qualità sociale. Milano: Fel-trinelli. Cacco B. (Ed.). (2007). L’intercultura, Riflessioni e buone pratiche. Roma: Franco Angeli. Callari Galli M., Cambi F., Ceruti M. (2003). Formare alla complessità, Prospettive dell’educazio-ne nelle società globali. Roma: Carocci. CESPI. (2008). Migrazioni di cura: l’impatto sul welfare e le risposte delle politiche, Working Paper, 40/2008.

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Il sistema di protezione dei richiedenti asilo in Sicilia: integrazione o assistenzialismo? GiusePPe mAnnino*, eleonorA mAriA cucciA** e mArtA schierA***

The assimilation of refugees represents the main theme in the matter of the host countries migration policy, and Italy is one of them.The main purpose of this work is to show the level of integration of asylum seekers and refu-gees, which are welcomed by some SPRAR (in Italian: Sistema di Protezione dei Richiedenti Asilo e dei Rifugiati which stands for ‘’System of protection of asylum seekers and refugees’’), scattered throughout Sicily. On the contrary, the data that emerged from an assessment questionnaire show how low is the level of integration of refugees and asylum seekers. It obviously needs to take into account the long period of stay in Italy (ca. 2-3 years). This report wants to give an input to the scientific community, aiming to “translate” from policy makers and hosting communities, some solid actions connected with the emerged results.

Abstract

I rifugiati rappresentano oggi il capitolo più ingombrante e scomodo della questione planetaria delle migrazioni internazionali

L’integrazione dei rifugiati costituisce un tema centrale nell’ambito delle politiche migratorie dei paesi di accoglienza, tra cui l’Italia. Essa ha luo-go quando i rifugiati sono posti nelle condizioni di: realizzare pienamente le proprie potenzialità come membri della società; contribuire allo svilup-po della comunità e disporre dei servizi ai quali essi hanno diritto come membri della società ospite. Spesso il lavoro sociale con i migranti viene spiegato frammentato in termini culturali, con scarsa attenzione invece al background etico, allo status legale, alla classe sociale e alle strutture discri-minatorie a cui i migranti sono soggetti.

Il presente studio consiste in un report sul livello di integrazione dei ri-chiedenti asilo e rifugiati inseriti presso alcuni Sprar (Sistema di protezione

* Psicologo-psicoterapeuta, docente di psicologia dinamica Lumsa Santa Silvia, contatto per-sonale: [email protected].

** Assistente Sociale Specialista, contatto personale: [email protected].*** Assistente Sociale Specialista, contatto personale: [email protected].

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dei richiedenti asilo e dei rifugiati) dislocati in Sicilia. Gli Sprar, strutture di “accoglienza integrata”, dovrebbero prevedere la costruzione di percorsi individuali di inclusione e inserimento socio-economico. I dati emersi, per mezzo di un questionario, mostrano come, invece, il livello di integrazione dei rifugiati e dei richiedenti asilo sia basso. Da sottolineare, certamente, è il periodo di permanenza in Italia piuttosto lungo (2-3 anni) dei rifugiati e ri-chiedenti asilo. Tale report, si è posto come input per la comunità scientifica con la finalità di poter tradurre dai policy makers e dalle comunità ospitanti azioni concrete in funzione dei risultati emersi.

Keywords: rifugiati, protezione, SPRAR, integrazione, Sicilia

1. Introduzione

Ciò che colpisce, nell’analizzare il fenomeno migratorio in Italia, è la ra-pidità del passaggio da paese di emigrazione a paese di immigrazione. Se gli immigrati nel mondo raddoppiano ogni 35 anni, in Italia tale crescita avviene ogni 10 anni e, peraltro, secondo un trend in aumento (Bissolo G. e Fazzi L.,2005, pag. 135).

L’Italia, per la sua particolare posizione geografica, è diventata territorio di destinazione o di passaggio obbligato per raggiungere altri Paesi europei.

Negli ultimi anni emerge che i flussi provenienti dalle sponde del Nord Africa incidono in modo consistente e costante. (Centro Studi e Ricerche IDOS/Immigrazione Dossier Statistico, 2014).

Il fenomeno della immigrazione nel territorio siciliano è diventato un fatto strutturale, sedimentato, quotidiano, e il segno più evidente della loro stabilizzazione di fatto è dato dalla consistenza e dall’aumento dei nuclei familiari e dei minori stranieri. La crescita del flusso di ingresso della popo-lazione extracomunitaria, sia attraverso canali regolari che in forma clande-stina, ha determinato l’insorgere di problematiche aventi diversa matrice di ordine sociale, legislativa e sanitaria (Città di Palermo, Provincia Regionale di Palermo e Ciss, 2013, pag. 8).

La crisi nell’area mediterranea e mediorientale ha prodotto una nuova crescita di questi flussi e delle domande di protezione. Rispetto ai paesi di origine dei rifugiati, alla fine del 2015 la Siria rappresenta il primo paese al mondo con 4,9 milioni di rifugiati, distribuiti soprattutto nei paesi limitrofi, in particolare Turchia, Libano, Giordania, Iraq e Egitto, nonché in Germania e Svezia. Nel corso del 2015 sono state presentate in Europa 1.393.350 domande di protezione internazionale, di cui il 94,9%nei 28 Paesi membri dell’Unione europea: un valore più che raddoppiato dall’anno precedente. A fronte delle 776.160 decisioni da parte dell’Unione Europea nel 2015, il 43% (333.205) ha portato al riconoscimento di una forma di protezione internazionale. In Italia,

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nel 2015, il numero dei migranti sbarcati sulle coste - quasi tutti dalla Libia - ha raggiunto la quota di 153.842 (di cui tre quarti di sesso maschile e 10,7% minori); tale cifra, seppur inferiore a quella registrata nel 2014 (con oltre 170mila sbarchi), rappresenta un valore considerevole alla luce dell’aumento degli ingressi attraverso la rotta balcanica e quella del Mediterraneo orientale. A fronte di questi arrivi, nel 2015 le domande di protezione internazionale presentate in Italia sono state 83.970 (+32% rispetto al 2014), di cui l’88,5% da parte di uomini e il 4,7% costituito da minori stranieri non accompagnati (3.959 casi). Con riferimento alle decisioni delle Commissioni territoriali pre-se nel corso del 2015, su oltre 71 mila istanze complessivamente esaminate in 13.780 casi è stata riconosciuta una forma di protezione internazionale (19,4% contro 32% del 2014). In particolare, è stato concesso lo status di rifugiato a 3.555 richiedenti (5% contro il 10% dell’anno precedente) mentre la protezio-ne sussidiaria è stata accordata a 10.225 casi (14,4% contro 22%). Sommando inoltre 15.768 persone a cui è stato concesso un permesso di soggiorno per motivi umanitari (pari al 22,2% contro il 28% del 2014), l’esito positivo delle domande risulta pari al 41,5%, in netta diminuzione rispetto al 60% del 2014. Nei primi sei mesi del 2016, sono state esaminate complessivamente 49.479 domande, di cui il 59,6% culminate nel non riconoscimento di alcuna forma di protezione, contro 49% relativo allo stesso periodo dell’anno precedente (Anci, Caritas Italiana, Cittalia, Fondazione Migrantes, Servzio Centrale dello Sprar, UNHCR, 2016, pag. 11,13, 14, 15,16, 17).

Gli spostamenti di rifugiati e richiedenti asilo per loro natura non possono essere calcolati e previsti. (Ambrosini, 2010, pag. 109). I rifugiati, rispetto ad altre categorie di migranti, pongono in questione il controllo dei confini na-zionali e quindi lo stesso principio di sovranità degli Stati: non solo arrivano senza di essere richiesti, ma domandano anche protezione e quindi risorse alle istituzioni statali.(Ambrosini, 2014, pag. 90). La Convenzione di Ginevra, fir-mata il 28 luglio 1951, defisce il rifugiato “colui che, (...) temendo a ragione di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un determinato gruppo sociale o per le sue opinioni politiche, si trova fuori del Paese, di cui è cittadino e non può o non vuole, a causa di questo timore, avvalersi della protezione di questo Paese: oppure che, non avendo la cittadi-nanza e trovandosi fuori del Paese in cui aveva residenza abituale a seguito di tali avvenimenti, non può o non vuole tornarvi per il timore di cui sopra”. Una volta riconosciuto lo status di protezione internazionale, si può dire come il beneficiario vada a collocarsi in una posizione complessivamente intermedia tra quella del cittadino italiano e quella del residente straniero con cittadinanza extracomunitaria (Codini E., Fossati A., Frego Luppi S., 2011, pag. 63).

Il problema attuale dei rifiugiati centrale sembra essere rappresentato proprio dalla creazione di quelle condizioni territoriali che possono favorire un’effettiva integrazione tra le diverse componenti etno-sociali, evitando o

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riducendo qualsiasi forma di conflittualità; una conflittualità, come si più volte sottolineato, che a livello locale non nasce tanto da contrapposizioni di ordine culturale, quanto dalla competizione per l’uso delle risorse terri-toriali (Pollice F., 2007, pp. 20).

Il concetto dell’integrazione è caratterizzato da un’implicita polisemia che rende particolarmente difficile una sua definizione esaustiva. Del resto è lo stesso significato della suddetta nozione a variare in funzione del tempo e del contesto, in base anche alle circostanze storico-politiche e alla fase stessa del fenomeno migratorio. Il termine integrazione è multidimensionale, in quanto, strutturalmente sostenuto da una molteplicità di variabili interrelate e non sempre distinguibili in modo netto. Tra di esse pesano fattori oggettivi: la configurazione sociale, economica e culturale, la storia dei territori e le politiche sociali adottate, il tempo di permanenza del rifugiato all’interno di uno specifico servizio territoriale. Dall’altra parte hanno rilevanza anche alcuni fattori soggettivi: l’approccio individuale al contesto di arrivo e le scelte compiute nel percorso di inserimento, la qualità dell’interazione con i cittadini italiani, le competenze pregresse (in particolare quelle linguistiche e culturali), il grado individuale di resilienza, la capacità di elaborazione, di autonomia, le circostanze familiari e l’eventuale adesione della famiglia al percorso di inserimento sociale, le aspettative nei confronti della società di accoglienza, il ruolo della cultura di origine e delle precedenti esperienze di vita e di lavoro.

L’integrazione è un processo bidirezionale e dinamico che coinvolge sia i rifugiati che la comunità autoctona. I processi di integrazione, invece, sono la risultante di due componenti vettoriali: da un lato, la volontà della comunità locale di “integrare” le minoranze etniche, adottando comportamenti sociali (es. ospitalità, tolleranza) ed iniziative specifiche (es. programmi di accoglien-za) volte a favorirne l’inserimento nel tessuto sociale; dall’altro, la volontà degli immigrati di inserirsi nel tessuto sociale e di interpretare il contesto ter-ritoriale come “luogo di adozione”. Tipico degli esseri viventi è possedere una mentalità flessibile, un concreto adattamento, e un genetico e culturale neotonia: tutte queste caratteristiche generano una positiva e socializzazio-ne tenzione, la quale spinge gli esseri umani ad incontrare il loro prossimo considerandolo una risorsa per la sopravvivenza e sviluppo. La cultura in se stessa è una matrice neotica, insatura, adattiva, sociale per eccellenza, ma la cultura, pure, può ammalarsi, diventare saturata, irrigidirsi (Mannino G. e Giunta S., 2015).In particolare, dal punto di vista del rifugiato, l’integrazione richiede una disponibilità di adattamento del proprio stile di vita alle nuove circostanze e da parte della società di accoglienza una volontà di adeguamen-to delle proprie istituzioni. Spesso, i rifugiati raccontano, come le esperienze iniziali, abbiano influito e a volte pesato sul loro atteggiamento generale verso il paese di accoglienza e sui loro stessi progressi nell’apprendimento lingui-stico o nella successiva partecipazione alla vita collettiva. Ancora diverso e

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sicuramente ulteriormente complesso è il percorso di integrazione laddove il rifugiato non intende rimanere nel paese in cui gli è “capitato” di arrivare (Regolamento Dublino). Nonostante i tentativi dell’UE di rendere le regole più coerenti attraverso il sistema di Dublino, esistono differenze sostanziali tra gli Stati membri rispetto alle procedure per il riconoscimento dello status e per quanto riguarda le condizioni di vita dei rifugiati dopo il riconoscimen-to della protezione internazionale. Queste differenze, si riflettono in diversi aspetti, tra cui il tempo necessario per esaminare le domande, le condizioni di alloggio, l’assistenza sanitaria e la possibilità di integrazione a seguito del riconoscimento dello status (Marco Cellini, 2017, pag 952-953). Dunque, la comunità di accoglienza è responsabile di creare le condizioni necessarie a promuovere l’integrazione. La configurazione del sistema di accoglienza va letta alla luce degli ultimi venticinque anni di storia del lavoro sociale, del volontariato e del terzo settore (Vincenzo Schirripa, 2017). Un ruolo fondante al fine dell’integrazione, va certamente, assegnato anche alla garanzia di un quadro di riferimento appropriato in termini di diritti e di accesso alla citta-dinanza. Risulta evidente che i diritti legali in sé non sono sufficienti se non si prevede al contempo un accesso reale agli stessi (Cir, 2012, pp. 13-17). Inoltre, l’integrazione è un processo “a lungo termine” perché spesso inizia all’arrivo in un paese e continua anche quando un rifugiato è diventato membro attivo di tale società dal punto di vista legale, sociale, economico, educativo e cultu-rale, anche oltre la prima generazione dei rifugiati.

Il concetto di integrazione si lega a quello del senso di comunità. Secon-do quanto riportato da Sarason, il senso di comunità riassume tre aspetti fondamentali della vita di una comunità: la percezione della propria simi-larità con gli altri, una riconosciuta interdipendenza e, aspetto centrale, la volontà di impegnarsi a mantenerla. Due elementi fondamentali per comprendere il processo che porta allo sviluppo del senso psicologico di comunità: la percezione della distintività della comunità e il grado di identificazione con essa. La distintività si riferisce alla possibilità di perce-pire una data comunità in rapporto alle caratteristiche fisiche e/o sociali, quindi ai confini, sia quelli che ne danno una delimitazione territoriale, sia quelli più propriamente psicologici relativi al senso di appartenenza. L’identificazione rimanda al senso di affiliazione e al riconoscimento di se stessi all’interno di una storia che non è solo storia personale ma anche quella che ha deciso le sorti della nostra comunità di appartenenza. Essa sottolinea il riconoscersi nel gruppo ed il riconoscere elementi peculiari del gruppo nella propria identità. Altro fattore che contribuisce a struttu-rare il senso di comunutà è l’influenza, cioè il potere di influenzamento del gruppo sugli individui, il potere di influenzamento del gruppo sugli individui e il potere chela comunità di intervenir sull’ambiente circostan-te. L’integrazione dei bisogni consiste, invece, nella certezza di ricevere

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un certo beneficio dallo stare insieme che funzionerebbe come un “au-to-rinforzo” ai sensi di condivisione. Infine, il senso di connessione emo-tiva condivisa corrisponde alla storia e a quegli eventi impontanti sotto il profilo affettivo e emotivo che uniscono i membri di una comunità e ne rafforzano il legame (Mannino G., 2013, pag. 77-78).

Attualmente, la letteratura scientifica non ha posto attenzione alla va-lutazione del livello di integrazione per quanto concerne i rifugiati e i ri-chiedenti asilo. Tale report, data la centralità della problematica rispetto ai rifugiati ed ai richiedenti asilo nel contesto Italiano, si è posto come input al fine di poter porre sotto i “riflettori” questa problematica, per poter tradurre in primis dai policy makers e dalle comunità ospitanti in azioni concrete.

2. Obiettivo e metodologia

Il lavoro presentato di seguito consiste in una ricerca quali-quantitativa il cui obiettivo è quello di indagare il livello di integrazione dei rifugiati e dei richiedenti asilo inseriti all’interno dello Sprar (Sistema di protezio-ne per richiedenti asilo e rifugiati). L’Italia, dopo aver accolto i rifugiati e richiedenti asilo, è capace, ad attuare processi di integrazione o favorisce meccanismi di assistenzialismo?

In Italia, dal 2002, sulla base della precedente esperienza di organizza-zioni non profit, e della legge n. 189/2002, i richiedenti asilo e i rifugiati sono alloggiati nel paese nei servizi locali del Sistema Nazionale di Pro-tezione dei Richiedenti Asilo e rifugiati. Coinvolgendo pubblici e privati livelli di governo (Ministero degli affari interni, associazione nazionale dei comuni italiani, autorità locali e provvisorie e organizzazioni senza fini di lucro) e promuovendo reti con gli attori locali (ospedali e servizi sani-tari, servizi pubblici di occupazione, formazione professionale e agenzie di formazione continua), ogni servizio del sistema offre ai propri utenti, per un periodo di circa sei mesi, attività “di accoglienza integrata”, che comprende non solo il vitto e l’alloggio, ma anche percorsi personalizzati per l’integrazione attraverso il sostegno sociale, la conoscenza del territo-rio e l’accesso ai servizi, assistenza sanitaria, sostegno all’accesso per la formazione continua, alla formazione professionale e ai servizi scolastici, al supporto nella ricerca di un alloggio, alle informazioni e assistenza le-gale (Catarci Marco, 2012, pag.77). I beneficiari complessivamente accolti all’interno degli Sprar al 30 Giugno 2016 sono stati 22.983, di cui il 57,7% richiedente, il 22,7% titolare di protezione umanitaria, l’11,2% di protezio-ne sussidiaria e l’8,4% ha ottenuto lo status di rifugiato. Le prime cinque nazionalità dei beneficiari rispecchiano sostanzialmente quelle del 2015: il 16,4% proviene dalla Nigeria, il 13,6% dal Gambia, il 12,2% dal Pakistan, il 10,2% dal Mali e l’8,5% dall’Afghanistan.

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Dopo l’accoglienza in strutture apposite, lo Sprar, perno del sistema di accoglienza di “secondo livello sia per gli adulti che per tutti i minori stranieri non accompagnati” (Anci, Caritas Italiana, Cittalia, Fondazione Migrantes e Sprar, 2014, pag. 233), garantisce interventi di “accoglienza in-tegrata”? L’obiettivo ultimo dello Sprar dovrebbe essere quello di rendere “libero” il rifugiato e il richiedente asilo dallo stesso bisogno di accoglienza per mezzo della costruzione di percorsi di autonomia e di inclusione sociale dei beneficiari. Dunque, dovrebbero essere attivati percorsi individualizzati di (ri)conquista della propria autonomia, in termini di integrazione lavora-tiva e abitativa, di accesso ai servizi del territorio, di socializzazione, di in-serimento socio-economico. In particolare, dovrebbero essere garantiti corsi di apprendimento dell’italiano, di istruzione per gli adulti, di iscrizione a scuola per i minori in età dell’obbligo scolastico, di accompagnamento ai servizi socio-sanitari, percorsi formativi e di riqualificazione professionale per promuovere l’inserimento lavorativo, così come sono approntate misu-re per l’accesso alla casa.

Un impegno del professionista di servizio sociale verso l’integrazione, dei nuovi arrivati è essenziale se si vogliono raggiungere risultati efficaci e duraturi nella costruzione di una società che inesorabilmente sta diventan-do sempre più multiculturale e diversa. Le conoscenze e competenze che l’assistente sociale dovrà applicare, in tale ambito, attraversano i contesti del micro, meso e macro: al livello micro si tratta di lavorare con l’indivi-duo e la famiglia, al livello meso il professionista si impegna nello sviluppo di una comunità accogliente e competente e, al macro livello, considera le istanze legate ai diritti umani, la giustizia sociale e all’advocacy.

La proposta di definizione internazionale del lavoro sociale (Internatio-nal Federation of Social Workers and International Association of Schools of Social Work) sottolinea la coesione sociale ... l’emancipazione e la liberazio-ne delle persone. I principi di giustizia sociale, diritti umani, responsabilità collettiva e rispetto delle diversità sono fondamentali per il lavoro sociale (Pat Cox, Thomas Geisen., 2014, pagina 161).

Lo studio sociale è stato svolto facendo riferimento ad una precedente ricerca sperimentale quali-quantitativa ovvero “le strade dell’integrazio-ne”, realizzata nell’anno 2012 in Italia, sfruttando le risorse del Fondo Eu-ropeo per i Rifugiati 2008 – 2013. Il questionario rifefinito è stato suddiviso in cinque sezioni: anagrafica (item 1-15), situazione lavorativa (item 16-23), situazione abitativa (item 24-26), tempo libero (item 27-32) e progetto di integrazione (item 33-60). Esso è costituito da 60 item a: risposta aperta e a risposta chiusa.

La scelta di adottare come metodo di riferimento la Grounded Theory è profondamente legata all’obiettivo di questa ricerca, la cui finalità prevalente è quella esplorativa e non di conferma o discoferma dei dati; difatti secon-

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do la Grounded Theory, osservazione ed elaborazione teorica procedono di pari passo, in una interazione continua, in cui il ricecatore scopre la teoria nel corso della ricerca empirica, ignorando preferibilmente la pre-esistente lette-ratura sull’argomento, in modo tale da non esserne condizionato; l’accento in questa tecnica viene posto, quindi, sui dati, piuttosto che sulle teorie, le quali derivano direttamente dall’analisi dei dati, che sono locali e contestuali (Buc-cafusca S., Cannizzaro G., Giunta S., Lo Verso G., Mannino G., 2014, pag. 39).

Allo studio sociale hanno partecipato 50 richiedenti asilo e rifugiati adul-ti. I territori di riferimento per reperire il campione sono stati: Palermo, San Giovanni Gemini, Cammarata ed Agrigento. Il campione è formato da 49 maschi e 1 femmina con un’età per lo più compresa da 21-30 anni.

3. Risultati

Di seguito, sono riportati i risultati più significati in riferimento alle se-zioni individuate nel questionario. Alcuni dati sono rappresentati per mez-zo di tabelle.

In primis, per quanto concerne la sezione anagrafica sono emersi i se-guenti dati: Nigeria (26%), Gambia (16%), Mali (16%), Eritrea (10 %) sono le principali nazionalità; l’età con maggiore frequenza è quella compresa tra i 21-30 anni (56%); la componente del campione è quasi totalmen-te maschile (98%); il titolo di studio prevalente è la licenza elementare (46%). Il diploma di scuola superiore è al 22%, licenza media è pari al 16%, ed invece una residua parte ha frequentato l’Università; la maggior parte dei richiedenti asilo e rifugiati sono celibi (78%). Il 20% costituisce, invece, i coniugati sul totale del campione e la percentuale di coloro i quali hanno figli è pari al 26 %. Risulta che il 58% dei richiedenti asilo e rifugiati abbiano effettuato il colloquio con la Commissione territoriale dopo i 9 mesi dalla presentazione della domanda e che, invece, solo il 6% entro tre mesi. Il 30 % del campione possiede lo status di richiedente asi-lo, ovvero, ancora in attesa di responso da parte dalla Commissione o dal Tribunale nel caso in cui si sia proceduto al ricorso. Lo stato di “richie-dente asilo” rappresenta simultaneamente il potenziale di sicurezza e il potenziale di espulsione. In questo modo, i richiedenti asilo occupano una duplice posizione mentre aspettano i risultati dei loro casi, spesso in limbo legale per molti anni. I richiedenti asilo sono una volta i cittadini in attesa e una volta i deportati in attesa (Bridget M. Haas, 2017, pag. 76).

Inoltre, il titolo di protezione umanitaria è pari al 26%, mentre, quello del richiedente asilo in attesa lavorativa è al 20%. Emerge, dunque, che la tempistica rispetto al riconoscimento di una forma di tutela dalla presen-tazione della domanda è piuttosto lungo, ovvero, oltre un anno (36%) e la percentuale di coloro che abbiano presentato ricorso in seguito al diniego

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da parte della Commissione territoriale è del 48%. Nello specifico, il 20,8% ha ricevuto già un esito negativo in funzione del ricorso presentato; trape-la che il 50% dei rifugiati e dei richiedenti asilo risiedono in Italia da più di 2 anni ed, invece, il 40% da 1-2 anni.

Tabella n.1 Età

Frequency Percent Valid Per-cent

Cumulative Per-cent

15-20 11 22,0 22,0 22,0

21-30 28 56,0 56,0 78,0

31-40 11 22,0 22,0 100,0

Totale 50 100,0 100,0

Tabella n. 2 Titolo di studio

Frequency Percent Valid Percent Cumulative Percent

Scuola elemen-tare

23 46,0 46,9 46,9

Scuola media 8 16,0 16,3 63,3

Scuola superio-re

11 22,0 22,4 85,7

Scuola profes-sionale

2 4,0 4,1 89,8

laurea/Univer-sità

5 10,0 10,2 100,0

Non risponde 1 2,0

Totale 50 100,0

Tabella n. 3 Stato civile

Frequency Percent Valid Percent Cumulative Percent

C e l i b e /Nubile

39 78,0 78,0 78,0

Coniugato 10 20,0 20,0 98,0

Vedovo 1 2,0 2,0 100,0

Total 50 100,0 100,0

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Giuseppe Mannino, Eleonora Maria Cuccia e Marta Schiera

Tabella n. 4 Dopo quanto tempo ha fatto il colloquio con la Commissione territoriale?

Frequency Percent Valid Percent C u m u l a t i v e Percent

3-6 mesi 3 6,0 6,3 6,3

6-9 mesi 8 16,0 16,7 22,9

9-12 mesi 8 16,0 16,7 39,6

Altro 29 58,0 60,4 100,0

Non risponde 2 4,0

Totale 50 100,0

Tabella n. 5 Che tipo di permesso di soggiorno ha?

Frequency Percent Valid Per-cent

C u m u l a t i v e Percent

Status di rifugia-to/asilo politico

7 14,0 14,3 14,3

Protezione s u s s i -diaria

2 4,0 4,1 18,4

Protezione u m a n i -taria

13 26,0 26,5 44,9

Richiedente asilo

15 30,0 30,6 75,5

Rich. Asilo a t t e s a lavoro

10 20,0 20,4 95,9

Dublino 2 4,0 4,1 100,0

Non risponde 1 2,0

Total 50 100,0

Tabella n. 6 Dopo quanto tempo il Tribunale si è pronunciato?

Frequency Percent Valid Per-cent

C u m u l a t i v e Percent

3-6 mesi 5 10,0 12,5 12,5

6-9 mesi 6 12,0 15,0 27,5

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Il sistema di protezione dei richiedenti asilo in Sicilia ISSN 0423-4014

9-12 mesi 11 22,0 27,5 55,0

Altro 18 36,0 45,0 100,0

Non risponde 10 20,0

Totale 50 100,0

Tabella n. 7 Da quanti anni è in Italia?

Frequency Percent Valid Per-cent

C u m u l a t i v e Percent

8-12 mesi 4 8,0 8,2 8,2

1-2 anni 20 40,0 40,8 49,0

Più di due anni

25 50,0 51,0 100,0

Non risponde 1 2,0

Totale 50 100,0

La seconda sezione è dedicata alla situazione lavorativa. In particolare, si rileva che: solo il 28% dei rifugiati e richiedenti asilo lavorano e che la quasi totalità dei rifugiati e i richiedenti asilo svolgono un’attività lavorativa priva di contratto. Il settore in cui i richiedenti asilo e rifugiati hanno maturato una esperienza lavorativa, in modo prevalente, è quello dell’agricoltura.

Tabella n. 8 Lavora?

Frequency Percent Valid Per-cent

Cumulat ive Percent

si 14 28,0 28,0 28,0

no 36 72,0 72,0 100,0

Totale 50 100,0 100,0

La terza sezione fa riferimento alla situazione abitativa. Nello specifico si evince che: il 46% dei rifugiati e richiedenti asilo è inserito presso lo Sprar di Agrigento, il 40% presso gli Sprar di Cammarata e San Giovanni Gemini ed infi-ne, il 14 % presso gli Sprar di Palermo. Il 64% dei rifugiati e richiedenti asilo ha abitato precedentemente all’interno dello Sprar ed il 47% vive all’in-terno degli Sprar da oltre 2 anni.

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Giuseppe Mannino, Eleonora Maria Cuccia e Marta Schiera

Tabella n. 9 Nel passato in quali posti ha vissuto?

Frequency Percent Valid Percent C u m u l a t i v e Percent

casa 7 14,0 14,0 14,0

Sprar 32 64,0 64,0 78,0

strada 1 2,0 2,0 80,0

altro 10 20,0 20,0 100,0

Totale 50 100,0 100,0

Tabella n.10 Per quanto tempo?

Frequency Percent Valid Percent C u m u l a t i v e Percent

6-12 mesi 14 28,0 28,0 28,0

1-2 anni 16 32,0 32,0 60,0

2-3 anni 20 40,0 40,0 100,0

Totale 50 100,0 100,0

Negli item che costituiscono la sezione del tempo libero si riscontra che il 96% dei rifugiati e dei richiedenti asilo hanno dichiarato di disporre di tempo libero. In particolare, per il 58% dei rifugiati il tempo libero fruibile durante la giornata è pari a più di 7 e che per il 42 % il tempo libero è tra-scorso insieme ad altri rifugiati.

Tabella n. 10 Con chi passa il suo tempo libero?

Frequency Percent Valid Percent Cumulative Percent

famiglia 1 2,0 2,1 2,1

connazionali 17 34,0 36,2 38,3

Amici (so-prattutto italiani)

7 14,0 14,9 53,2

rifugiati 21 42,0 44,7 97,9

nessuno 1 2,0 2,1 100,0

Non risponde 3 6,0

Totale 50 100,0

Infine, nell’ultima sezione inerente al progetto di integrazione si evidenzia che: il 76% ha seguito un percorso di integrazione. Il 66% dei rifugiati e richie-

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denti asilo ha frequentato un corso di lingua italiana e lo ha valutato positi-vamente. Il 24% dei rifugiati e richiedenti asilo ha ritenuto che, a seguito, alla frequentazione del corso di alfabetizzazione, il suo italiano fosse buono. È im-portante sottolineare che il 40% delle risposte mancanti nei questionari è deter-minato ad una attuale frequentazione del corso. Il 42% dei rifugiati e dei richie-denti asilo ritiene che il suo livello di italiano sia buono e il 30% sufficienteso. Solo il 20% dichiara di aver frequentato un corso di formazione professionale; il 32% dei richiedenti asilo e rifugiati riferisce di aver seguito un corso di cultura italiana; il 34% dei richiedenti asilo e rifugiati è stato indirizzato ad una ricerca del lavoro e che il 24% valuta buono il servizio di aiuto in oggetto. L’82% dei ri-fugiati e richiedenti asilo ha usufruito dell’assistenza medica e il 92% ha stimato positivamente l’accesso alle cure sanitarie da parte dei rifugiati. Il 76% dei rifu-giati e dei richiedenti asilo ha espresso un parere positivo per il suo progetto di integrazione. Di seguito, sono riportate le risposte con una maggiore frequenza rispetto alla domanda: “Perché valuteresti nel suo insieme il progetto di inte-grazione buono/non buono? “Ho avuto la possibilità di studiare…”, “lavoro/ non lavoro”, “mi sento rispettato come persona”, “conosco l’italiano”, “non ho i documenti. Si evidenzia che il 78 % dei rifugiati e dei richiedenti asilo reputa un diritto l’integrazione. Infine, alla domanda “quale sarà il tuo rapporto con l’Italia” la maggior parte deI rifugiati e dei richiedenti asilo ha risposto: “vorrei restare in Italia”, “vorrei lavorare in Italia”.

Tabella n. 12 Hai seguito un progetto di integrazione?

Frequency Percent Valid Percent C u m u l a t i v e Percent

si 38 76,0 79,2 79,2

no 10 20,0 20,8 100,0

Non risponde 2 4,0

Total 50 100,0

Tabella n. 13 Hai seguito dei corsi di lingua italiana?

Frequency Percent Valid Percent Cumulative Per-cent

si 33 66,0 68,8 68,8

no 15 30,0 31,3 100,0

Non risponde 2 4,0

Total 50 100,0

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Giuseppe Mannino, Eleonora Maria Cuccia e Marta Schiera

Tabella n. 14 Come valuti il tuo livello di italiano oggi?

Frequency Percent Valid Percent Cumulative Per-cent

Valid Buono 21 42,0 58,3 58,3

Sufficiente 15 30,0 41,7 100,0

Non risponde 14 28,0

Total 50 100,0

Tabella n. 15 Ha mai avuto un aiuto per la ricerca del lavoro?

Frequency Percent Valid Percent Cumulative Per-cent

Valid si 17 34,0 34,7 34,7

no 32 64,0 65,3 100,0

Non risponde 1 2,0

Total 50 100,0

Tabella n. 16 Come valuti la situazione di accesso alle cure per i rifugiati e richiedenti asilo?

Frequency Percent Valid Percent Cumulative Per-cent

Buono 46 92,0 93,9 93,9

Non buono 3 6,0 6,1 100,0

Non risponde 1 2,0

Totale 50 100,0

Tabella n. 17 Come valuteresti nel insieme il progetto di integrazione?

Frequency Percent Valid Percent Cumulative Per-cent

Valid Buono 38 76,0 79,2 79,2

Non buono 10 20,0 20,8 100,0

Non risponde 2 4,0

Total 50 100,0

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Tabella n. 18 L’integrazione è un diritto?

Frequency Percent Valid Percent Cumulative Per-cent

si 39 78,0 79,6 79,6

no 10 20,0 20,4 100,0

Non risponde 1 2,0

Total 50 100,0

4. Discussione e conclusione

I risultati emersi sembrano non confermare l’ipotesi iniziale secondo la quale, lo Sprar, garantisca interventi di “accoglienza integrata” e dunque, fa-vorisca l’integrazione del rifugiato e del richiedente asilo. L’obiettivo ultimo, dello Sprar dovrebbe essere quello di rendere “libero” il rifugiato e il richie-dente asilo dallo stesso bisogno di accoglienza per mezzo della costruzione di percorsi di autonomia e di inclusione sociale dei beneficiari. Nello specifico, è importante sottolineare come parte dei rifugiati e richiedenti asilo siano già stati inseriti nel circuito Sprar in precedenza ma, che ciò non sia stato utile al fine di mettere in moto percorsi di integrazione e che abbia prodotto al contra-rio meccanismi di assistenzialismo. In tal modo, i rifugiati e richiedenti asilo si trovano a dipendere dalle strutture, senza che riescano a fuoriuscire dalla morsa della situazione di dipendenza, incapaci ad autodeterminarsi.

Dal punto di vista generale, è emerso che una buona parte dei rifugiati e dei richiedenti asilo ha effettuato un corso di alfabetizzazione, ma allo stesso tempo, pochi sono stati coloro che hanno frequentato corsi di cultura italiana e corsi di formazione professionale. Da evidenziare, soprattutto, il basso numero dei rifugiati e dei richiedenti asilo che svolgono un’attività lavorativa, ed inoltre, qualora questa venga svolta, l’assenza di un contratto non permette di certo al rifugiato di mettere in moto un percorso di auto-nomia. Se difatti il lavoro, costituisce la migliore strategia per favorire l’in-tegrazione, al contrario, la sua mancanza è alla base di quel fenomeno noto come “esclusione sociale”. Da questa limitazione discende la condizione di vuoto e di dipendenza indefinita dalle risorse pubbliche, peraltro altamente limitate, che trascina soggetti in passato attivi e consapevoli verso un senso di improduttività e di malessere esistenziale (Vacchiano, 2005, pag.95).

Le strutture di prima accoglienza quali Cara, Cas, Cda ecc…offrono vitto ed alloggio, lo Sprar dovrebbe mettere a disposizione, invece, gra-zie alle risorse provenienti dal Fondo nazionale per le politiche e i servizi dell’asilo, degli strumenti al fine di promuovere l’autonomia e l’integra-

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zione. Da sottolineare anche come 1/3 del campione possiede lo status di richiedente asilo, nonostante risieda già da tempo in Italia e, come ad oggi, una parte dei rifugiati rientra nella categoria dei diniegati aspettan-do responso dal Tribunale. Questa evidente farraginosità del sistema di accoglienza in Italia può incidere nel processo di integrazione, ponendoli in un cosiddetto “limbo”.

In futuro potrebbe essere utile poter effettuare un confronto tra gli utenti degli Sprar e dei Cara/Cas/Cda per mettere in luce eventuali differenze dal punto di vista dell’integrazione, o ampliare il campione sul territorio siciliano per evidenziare eventuali differenze o analogie, o mettere in luce la visione dei professionisti che lavorano all’interno Sprar o, infine, poter svolgere un’analisi su coloro che, invece, non appartengono più alla realtà degli Sprar mettendo in rilievo il loro livello di integrazione.

Il report è stato svolto facendo riferimento ad una precedente ricerca spe-rimentale qualiquantitativa ovvero “le strade dell’integrazione”, realizzata nell’anno 2012 in Italia. In particolare, tale ricerca ha analizzato l’impatto che i percorsi di accoglienza e i servizi per l’integrazione hanno sulle capaci-tà, sulle opportunità e le realtà di autonomia, di inserimento socio-economi-co e di integrazione delle persone in protezione internazionale, presenti in Italia da almeno 3 anni. Il questionario, opportunamente ridefinito, è stato somministrato a un target diverso rispetto alla ricerca del 2012, ovvero, ai rifugiati e i richiedenti asilo.

In conclusione, tale studio si è posto come input per la comunità scien-tifica al fine di poter porre sotto i “riflettori” tale questione, in modo da tra-durre in primis dai policy makers e dalle comunità ospitanti azioni concrete in funzione dei risultati emersi. I movimenti migratori sono diventati ormai un problema globale condiviso, le politiche d’immigrazione sono diventate sempre più restrittive e le persone rimangono con uno status migratorio precario. La preoccupazione, in particolare, degli operatori sociali di non riuscire a rispondere ai bisogni emergenti dei migranti sta aumentando. Un’accoglienza e un’integrazione di successo permetterebbe all’UE di be-neficiare del potenziale umano dei rifugiati e della loro forte motivazione a diventare membri attivi della società europea. Ad oggi, purtroppo, la lette-ratura scientifica non ha posto attenzione alla valutazione del livello di inte-grazione per quanto concerne i rifugiati e i richiedenti asilo e questo lavoro rappresenta un primo tentativo di indagine.Tra i limiti dello studio si può evidenziare: la non omogeneità del campione dal punto di vista del sesso, il non aver effettuato un campionamento omogeneo rispetto al numero degli utenti presenti negli Sprar e la non uniformità rispetto al periodo di perma-nenza all’interno degli Sprar.

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La differenza come opportunità.Il tema dello “straniero” nella riflessione contemporaneadAnielA PomPei* e ritA cutini**

Abstract

La presenza di persone di cultura, lingua, religione e nazionalità diversa pone molte domande alle società europee e in particolare all’Italia. I vecchi sistemi di pensiero sembrano obsoleti di fronte a fenomeni di complessa decifrazione che rimettono in discussione radicalmente il modo di vivere, di pensare, di essere, insomma l’identità stessa del “nuovo cittadino globa-lizzato”.

Il tema dello “straniero”, in questa riflessione, non è marginale: l’analisi del tema dell’identità, connesso ai grandi fenomeni immigratori che stanno interessando in modo consistente questi primi decenni del nuovo millennio, costituisce un punto di partenza decisivo per individuare o, solo per coglie-re, nuovi paradigmi interpretativi della società.

Keywords: Immigrazione, identità, integrazione, globalizzazione, devianza.

Il tema dello “straniero” è entrato prepotentemente nella riflessione di molti sociologi e pensatori contemporanei che si cimentano nel difficile compito di interpretare, o perlomeno di individuare, alcune chiavi di let-tura dell’odierna società globalizzata. Pensatori come Bauman, Touraine, Sacks, per citarne solo alcuni, nel tentativo di trovare nuovi modelli teorici interpretativi hanno coniato modi diversi per definire il nuovo stato di cose: “Modernità liquida”, “società post moderna” etc. I vecchi sistemi di pensie-ro sembrano obsoleti di fronte a fenomeni di complessa decifrazione che ri-mettono in discussione radicalmente il modo di vivere, di pensare, di essere insomma, l’identità stessa del “nuovo cittadino globalizzato”.

* Università Roma Tre** Università per stranieri “Dante Alighieri” di Reggio Calabria e Lumsa

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Daniela Pompei e Rita Cutini

Il tema dello “straniero”, in questa riflessione, non è marginale: l’analisi del tema dell’identità, connesso ai grandi fenomeni immigratori che stan-no interessando in modo consistente questo inizio di millennio, costituisce infatti un punto di partenza decisivo per individuare o, solo per cogliere, nuovi paradigmi interpretativi della società.

La presenza di persone di cultura, lingua, religione e nazionalità di-versa pone molte domande alle società europee e in particolare all’Italia. La convivenza tra diversi, può portare allo “scontro delle civiltà” come ha teorizzato Samuel Huntigton o alla “dignità della differenza” come sostiene Sacks (2004)?

L’Italia ha visto, negli ultimi quaranta anni, crescere il numero delle per-sone di altri paesi presenti sul suo territorio. Non sono ovviamente mancati i tentativi di teorizzare modelli di convivenza e di integrazione; il tono ge-nerale della riflessione culturale sembra tuttavia mancare di un approccio di largo respiro, almeno nella sua più ampia divulgazione, che si fa poi opi-nione. Ancora si parla, ad esempio, di “emergenza immigrazione” come se, dopo oltre quarant’anni, si trattasse sempre di un fenomeno imprevisto.

I flussi migratori hanno assunto caratteristiche diverse rispetto al passa-to. L’ultimo rapporto delle Nazioni Unite (2017) stima che ben 258 milioni di persone vivono al di fuori del loro paese natale con un aumento del 49 per cento rispetto al 2000, quando erano 173 milioni, e del 18 per cento rispetto al 2010, quando se ne contavano 220 milioni. La maggioranza di loro (80 mi-lioni) vive in Asia. Il secondo continente per numero di migranti è l’Europa (78 milioni). Seguono l’America del Nord (40 milioni) e l’Africa (25 milioni).

In questo dato riassuntivo troviamo inseriti i migranti per motivi econo-mici, politici e, in parte, coloro che sono costretti ad abbandonare le loro case ma non lasciano il loro paese: i cosiddetti “sfollati”. Il numero di rifugiati e richiedenti asilo, conteggiato nel 2016, è stato stimato in poco meno di 26 milioni di persone.

Definire la “tipologia” dei migranti è il primo problema che si presenta oggi a chi legge le stime che vengono fornite dagli organismi internazionali sull’immigrazione. I dati pubblicati, infatti, risentono in parte delle defini-zioni formulate in passato e non rendono ragione della complessità del fe-nomeno attuale dell’immigrazione.

Oggi è molto più difficile, infatti, distinguere nettamente le varie “cate-gorie” di migranti: le motivazioni che spingono a lasciare il proprio paese sono diverse e spesso si sovrappongono e si intersecano tra loro.

Oltre alla comprensione della tipologia dei migranti, c’è poi il problema di verificare la rispondenza delle definizioni normative e delle forme di pro-tezione approntate dai paesi ospitanti rispetto alla mutata e variegata realtà dell’immigrazione. Le nuove condizioni geopolitiche, l’aumento del nume-ro delle persone coinvolte, la necessità di favorire l’integrazione nei paesi di

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elezione, la presenza di seconde e terze generazioni, sono solo alcuni degli aspetti di cui tenere conto nel dibattito sulla urgente e nuova regolamenta-zione del fenomeno immigratorio.

Secondo i dati Eurostat (2017) Il numero di persone nate al di fuori dell’UE-28 e dimoranti in uno Stato membro dell’UE al 1° gennaio 2016 era di 35,1 milioni, mentre erano 19,3 milioni le persone nate in uno Stato membro dell’UE diverso da quello in cui risiedevano. Solo in Ungheria, Ir-landa, Lussemburgo, Slovacchia e Cipro il numero di persone nate in altri Stati membri dell’UE era più alto di quello delle persone nate al di fuori dell’UE-28. In questa cifra sono compresi: gli stranieri comunitari, gli stu-denti, i rifugiati, i richiedenti asilo, i lavoratori, gli stagionali, in sintesi tutti coloro che si trovano in maniera regolare sul territorio europeo.

In molti paesi del nord Europa l’immigrazione è un fenomeno in atto da molti anni, anche se ultimamente sono mutati i paesi di provenienza degli stranieri. In Germania, ad esempio, i cittadini immigrati non provengono più solo dalla Turchia ma ci sono i romeni, i polacchi e molte altre diverse nazionalità rappresentate anche dai richiedenti asilo politico. Per gli stati della sponda sud invece, il fenomeno migratorio è più recente, e si può far risalire come data di inizio alla fine degli anni settanta del secolo passato.

L’Istat (2017) propone un confronto tra i vari paesi Europei sui dati del 2015: gli immigrati rappresentavano il 6,9% dei residenti in Europa a 28. Si tratta di una percentuale non molto elevata, che varia nei diversi paesi dell’Unione: in alcuni di essi l’incidenza sulla popolazione è più alta: in Germania gli immigrati sono il 9,3% della popolazione, in Belgio l’11,2%, in Austria il 13,3%. In Italia la percentuale è circa del 8,2%.

Nel Terzo Rapporto demografico, il più recente, dell’Unione Europea del 2010 emerge un dato da sottolineare: l’aumento della popolazione europea negli ultimi anni è essenzialmente dovuto alla presenza di immigrati. L’im-migrazione rappresenta, cioè, la causa più importante della crescita della popolazione dell’Europa.

I motivi di questo trend in crescita sono diversi: la popolazione immigra-ta si colloca principalmente nella fascia di età giovanile che va dai 20 ai 45 anni, mentre la popolazione europea sta progressivamente invecchiando a causa anche di una diminuzione importante degli indici di natalità.

È ormai opinione diffusa che non solo la stabilità, se non addirittura l’incremento demografico, come anche la crescita economica e sociale europea dipenda dal contributo della popolazione immigrata. Da qui la necessità e l’urgenza di raggiungere una piena integrazione delle persone immigrate anche attraverso il riconoscimento dei diritti di cittadinanza nelle diverse accezioni che tale termine oggi assume: in senso sociologico come cittadinanza dei diritti o di residenza; ed in senso giuridico come status di diritto pubblico che sancisca la relazione di appartenenza alla

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comunità politica nazionale, oppure nel senso della cittadinanza civica di diritto europeo, riferita a partire dai primi anni del 2000 ai cittadini di paesi terzi che siano soggiornanti di lungo periodo nello spazio dell’Unione.

Si sottolineano spesso, e a ragione, i motivi e i gravi bisogni che soggiac-ciono alla scelta, piena di incognite, di tanti che lasciano il proprio paese di origine alla ricerca di un futuro che almeno dia qualche speranza di so-pravvivenza. Meno considerato è, invece, un altro punto di vista, anch’esso interessante, quello del “bisogno” dei paesi ad alto sviluppo economico.

Dalle ultime rilevazioni emerge, infatti, un vero e proprio “bisogno” di immigrati a causa dell’accentuato declino demografico. Dall’ultimo rappor-to sulla demografia dell’Unione Europea del 2010 si registra un innalza-mento notevole dell’indice di invecchiamento della popolazione europea, soprattutto si sta assottigliando la fascia di popolazione in età produttiva.

Il tono consueto, nei dibattiti sull’immigrazione non sembra però riusci-re ad allontanarsi, ancora oggi, da un approccio allarmistico quasi fosse una calamità naturale ripetitivamente rinnovata ad ogni “sbarco di clandestini”.

La posta in gioco è alta se come afferma Alain Touraine (2002): “Le nostre società hanno bisogno di più riflessione per evitare (…) la loro riflessività incosciente e inintenzionale, ossia la loro capacità di esporsi a rischi che possono sfociare nella propria distruzione”

Zygmunt Bauman (2003) in una delle sue acute riflessioni sulla società contemporanea prende come esempio paradigmatico della condizione precaria dell’uomo e della donna ”globale” un gruppo molto particolare: quello del profugo. “I profughi – scrive Bauman - sono diventati l’alter ego caricaturale della nuova élite di potere del mondo globalizzato: una ulte-riore dimostrazione di quella extraterritorialità le cui radici affondano nella precarietà odierna della condizione umana, nelle ansie e nelle paure pre-ponderanti dell’essere umano di oggi”.

Sembra, andando avanti su questa linea di pensiero, che solo partendo dalla condizione di “straniero”, o addirittura di “profugo”, si possa arrivare a comprendere la precarietà che sembra insita nella stessa condizione umana.

Sulla difficile via di costruzione dell’identità si pone anche la riflessio-ne di Alain Touraine (2002): “La dissociazione tra economia e cultura por-ta sia alla riduzione dell’attore alla logica dell’economia globalizzata, che corrisponde al trionfo di quella cultura globale (…), sia alla ricostruzione di identità non sociali, basate su appartenenze culturali e non più su ruoli sociali. Più è difficile definire se stessi in quanto cittadini o lavoratori in questa società globalizzata, più si è portati a definirsi sulla base dell’etnia, della religione o della fede, del genere o delle usanze intese come comu-nità culturali”.

È qui possibile solo dare una breve panoramica dei principali orientamenti teorici che riguardano il fenomeno migratorio, ma non si può in premessa

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non sottolineare che la sfida che si presenta alle società “del benessere” non è solo quella di come e con quali risorse “arginare” e tenere sotto controllo il dramma di chi abbandona il suo paese e viene a cercare un futuro nel “mondo ricco”. La posta in gioco è molto più alta, riguarda la natura stessa della nostra società con le implicazioni etiche e culturali sottese.

La portata di tale sfida la delinea Alain Touraine nel suo Libertà, Ugua-glianza, diversità, la dove riassume “l’enigma” di fronte al quale ci troviamo, “con le spalle al muro”: “è possibile armonizzare fra loro liberismo e comu-nità, mercato e identità culturale? Si può vivere insieme, uguali e diversi?” “I giovani di origine magrebina della marcia per l’uguaglianza – prosegue Touraine - scandivano lo slogan “Viviamo insieme con le nostre differenze!” Già ma come? Possiamo noi sottrarci alla scelta fra due soluzioni ugualmen-te distruttive: “Vivere insieme mettendo da parte le nostre diversità, oppure vivere separati all’interno di comunità omogenee che comunicherebbero solo attraverso il mercato o la violenza?”

Indubbiamente il concetto di “diversità”, con il dibattito che si muove attorno ad esso, rappresenta un punto di fuoco ineludibile per poter com-prendere le implicazioni sociali del fenomeno immigratorio.

La sociologia della devianza, in questo dibattito, ha contribuito con studi e riflessioni a fare un passo avanti proprio nella definizione del concetto di “diversità”.

Il concetto di “devianza”, tipicamente sociologico, si è introdotto nel lin-guaggio scientifico, per poi passare a quello della vita quotidiana, a partire dalla seconda metà del XIX secolo grazie alle riflessioni dei padri della so-ciologia. Fino ad allora non si parlava di “devianza”, quanto di “crimine” che veniva letto secondo le teorie dell’illuminismo, sia biologiche (la crimi-nologia di Lombroso) che sociali (la statistica morale). Tutto ciò all’interno di un contesto teorico che non si preoccupava di rendere conto del funzio-namento complessivo della società.

Per i primi sociologi la devianza non costituisce un oggetto di studio a se stante, tuttavia, la riflessione riguardo i “meccanismi” di funzionamento della società evidenzia, come conseguenza, “l’anormalità sociale” che è vi-sta essa stessa, a sua volta, come il risultato di meccanismi sociali.

Marx, per citare un esempio, non scrisse mai direttamente di devianza, né è presente nel suo pensiero la preoccupazione di formulare una teoria specifica al riguardo, ma la sua analisi delle patologie indotte nella società dal capitalismo lo porta a considerare il fenomeno criminale all’interno di questa stessa analisi. Secondo Santabrogio (2003) “il capitalismo crea disu-guaglianza e povertà, la povertà crea il crimine, quindi il capitalismo stesso crea il crimine. L’equazione è forse un po’ brusca e diretta ma nella sostanza contiene il ragionamento di fondo di Marx.”

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Questo porta ad un profondo cambiamento di prospettiva rispetto alla criminologia: la devianza diventa un prodotto sociale e la patologia non risiede più nell’individuo- nella sua psicologia, o nella sua fisiologia- ma appartiene alla società. Il crimine diviene per Marx la risposta sbagliata, non organizzata e non cosciente ad una giusta domanda di giustizia sociale. Lo stesso diritto, in quanto espressione della volontà della classe dominante di perpetuare un rapporto di potere a suo favore, è profondamente ingiusto, ed è visto come uno strumento di dominio.

Con Emile Durkheim la prospettiva attraverso la quale si definisce la società cambia completamente. Se esiste qualcosa chiamato società, essa è per Durkheim, un fatto morale. Infatti così come l’individuo è dotato di una propria coscienza, qualunque cosa per essa si intenda, così la società deve avere una sua propria essenza, che Durkheim chiama “coscienza collettiva.”

Essa è composta dall’insieme delle credenze e dei valori comuni a tutti gli individui presenti nella società, e la condivisione crea tra di loro un lega-me sociale, che Durkheim identifica con il termine di solidarietà.

Il fatto che esistano un legame sociale, una coscienza collettiva, la soli-darietà indipendenti dalla coscienza individuale, ciò costituisce la natura essenziale della società. Da ciò deriva la conseguenza che ogni individuo è da una parte dotato di una sua propria coscienza, dall’altra determinato da una coscienza collettiva: un Homo duplex, che vince i propri impulsi egoistici seguendo la voce morale che la società ha instillato in ciascuno.

La stessa dimensione sociale, inoltre, ha una sua individualità del tutto indipendente dai singoli individui che in quel momento ne fanno parte: na-sce prima di loro e a loro sopravvive ed è pertanto possibile analizzarla nel suo aspetto di solidarietà collettiva.

Le società moderne esprimono un tipo di solidarietà che Durkheim (1895). chiama “organica”, distinguendola da quella meccanica delle società pre-moderne. Questa si delinea però con i tratti della complessità e della fragilità: la società non è più in grado di fornire agli individui che la com-pongono un insieme di valori e credenze tali da organizzare in modo orga-nico e coerente tutta la loro vita in comune, provocando una situazione di “anomia” cioè di mancanza di norme, ed è questa la caratteristica essenziale del mondo moderno.

Il disorientamento è ancora più problematico nei periodi, come quello che stiamo vivendo, in cui il rapido cambiamento diviene la normalità.

Dalla riflessione di Durkheim derivano, per il tema che ci siamo dati, importanti chiavi di lettura: la prima è che ciò che viene condiviso gene-ralmente da una determinata società non coincide con ciò che è giusto in assoluto. Infatti ciò che è generale nella nostra società potrebbe essere del tutto non condivisibile per un’altra.

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La seconda è che la devianza è l’eccezione ma è anche normale: la co-scienza collettiva non può sovrapporsi del tutto a quella individuale, per-tanto la devianza assume il tratto dell’eccezionalità solo se supera certi li-velli variabili da società a società venendo a costituire una contraddizione interna.

La normalità stessa non è una caratteristica intrinseca delle cose che viene violata dal deviante ma è una caratteristica attribuita, che potrebbe variare: “non bisogna dire che un atto urta la coscienza comune perché è criminale, ma che è criminale perché urta la coscienza comune….E’ un reato perché lo biasimiamo”

Inoltre un certo grado di “devianza” permette alla coscienza collettiva di essere plastica e di aprirsi a cambiamenti futuri.

Nell’esempio fatto da Durkheim il reato commesso da Socrate ha fatto sì che la società futura potesse essere diversa:”la libertà di pensiero della quale godiamo attualmente non avrebbe mai potuto venir proclamata se le regole che la vietavano non fossero state violate prima di venir solenne-mente abrogate”.

Il concetto di devianza espresso in Durkheim si presta, specie in una so-cietà complessa come l’attuale, ad una certa ambiguità di fondo. Infatti lo si allarga a dismisura fino a comprendere ogni possibile scarto da una norma condivisa ed oggi, che il mutamento sociale ha reso più incerta la nozione di valore socialmente condiviso, diviene difficile identificare la devianza.

Questa ambiguità viene affrontata da Simmel (1908) nel suo riflettere sul ruolo dello straniero. Esiste oggi un rapporto stabile con lo straniero e - di-versamente da ciò che accadeva nelle società caratterizzate da una solida-rietà di tipo meccanico, nelle quali inevitabilmente colui che era fuori per ciò stesso era oggetto di ostilità - egli vive tra di noi stabilmente. Eppure lo “straniero tra noi” non è come noi ed in ciò risiede il suo aspetto ambi-guo, il suo essere contemporaneamente vicino e lontano, astratto e concreto, intimo ed estraneo, non è né completamente integrato né completamente emarginato. E soprattutto, per usare i termini durkheimiani, ha un rapporto ambiguo con le norme generali di riferimento: quanto è deviante e quanto è conforme? La risposta è difficile perché da un lato egli ha propri valori di riferimento che gli provengono dalla sua cultura e dall’altro non è così lontano da essere sentito come estraneo.

Simmel mette in luce come la figura dello straniero, il suo essere dentro e fuori, ci aiuta a comprendere altre figure potenzialmente affini, il folle, il mendicante, l’omosessuale, o tutti coloro che adottano uno stile di vita com-pletamente diverso da quello comune. Sono tutti assimilabili al deviante e quindi soggetti ad una condanna senza tentennamenti?

Appare qui la grande influenza che la teoria simmeliana sullo straniero ha nelle successive riflessioni: lo straniero mette in discussione implicita-

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mente od esplicitamente i valori e le norme su cui si basa la nostra società e nel suo essere prossimo, nel poter avere con lui dei rapporti concreti, ci costringe ad interrogarci e ci apre al cambiamento.

Il concetto di “devianza” si sostituisce quindi a quello di crimine, per-ché pare descrivere meglio il senso dei mutamenti in atto nella società, che passava, da pre-moderna a moderna, da società tendenzialmente statiche e rigide ad altre maggiormente flessibili.

La sociologia della devianza diventa così un settore ben identificato di studio e ricerca, senza per questo sottrarsi ad una visione più complessi-va della società. In questo senso è utile introdurre gli studi di R. Merton, esponente del funzionalismo, il quale, analizzando le condizioni sociali che spingono l’individuo a comportarsi in modo deviante, riprende la nozione durkheimiana di anomia.

Una società, si può considerare in equilibrio quando c’è sintonia tra la struttura sociale e quella culturale, quando cioè le condizioni sociali i cui gli individui vivono sono in sintonia con le idee che essi socialmente condivi-dono. Quando questa sintonia viene meno si rendono possibili percorsi di devianza.

L’anomia diventa per Merton, non più la mancanza di valori, ma la pre-senza di uno squilibrio, di un contrasto tra le mete ideali che gli individui si prefiggono ed i mezzi dati per raggiungerle.

Questo contrasto può portare all’emergere di comportamenti devianti, che Merton identifica in cinque tipologie sociologiche fondamentali.

Nell’ambito di questo studio non è possibile entrare nel dettaglio, ma va sottolineato che il pensiero di Merton ha posto le basi per una ampia riflessione sviluppata successivamente da studiosi come Cohen, Cloward e Ohlin.

Per questi autori l’anomia crea anche percorsi e comportamenti “devia-ti” collettivi, e questo avviene quando la frustrazione individuale è vissuta all’interno di un ambito comune a più soggetti, e la strada che permette di superala è la creazione di una “sub – cultura” specifica del gruppo deviante. L’idea di fondo di questi studiosi è che il comportamento deviante possa essere visto come fenomeno collettivo, ed il rapporto tra struttura sociale e cultura, intesa come l’insieme dei valori condivisi, si rende più articolato, più capace di leggere la complessità dei fenomeni presenti in una società moderna.

Inizia, poi, ad emergere una devianza di tipo nuovo: si devia perché si vuole mantenere uno stile di vita diverso da quello maggiormente diffuso.

L’attenzione all’identità sociale così come viene costruita attraverso le in-terazioni tra gli individui dimostra maggiore attenzione anche al soggetto, visto non più solo come un mero recettore di valori “esterni” a lui, ma con tutte le sue specificità e particolarità. Questo approccio conosce con alcuni

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autori, raccolti sotto il termine di “interazionisti” uno sviluppo profondo e molti dei termini con i quali oggi si parla dei fenomeni sociali, specie quelli dell’emarginazione e della immigrazione, si possono far risalire a loro.

La Scuola di Chicago ha avuto un ruolo fondamentale nel porre l’atten-zione alla città osservata come un laboratorio sociale, città che conosceva già negli anni 20 l’afflusso di un notevole numero di immigrati da altri paesi con il manifestarsi di fenomeni di stratificazione e di disgregazione sociale complessi.

Bisogna soprattutto dire che al centro del lavoro di ricerca del Diparti-mento di studi di Chicago non sta solo la devianza, intesa come deviazione dalla norma, ma vi sono prima di tutto un interesse ed una sensibilità acuta per le diverse culture e per la molteplicità di stili di vita che la compongono e la ricerca, attraverso una maggiore conoscenza, di porre le basi per rifor-me sociali che migliorino la vita delle fasce più povere.

Nella complessità della città la definizione stessa di devianza diviene as-sai più problematica. Infatti è possibile trovare gruppi eterogenei, dal punto di vista etnico, culturale, professionale, che convivono gli uni accanto agli altri portando visioni diverse del mondo e “definizioni della situazione” non da tutti condivise.

La realtà, all’interno della prospettiva interazionista, non è costituita da una situazione data, ma si definisce per come viene “vista” dal soggetto che vi partecipa o che in essa è coinvolto: definire una situazione è allora un processo di attribuzione di significati da parte del singolo e dei gruppi in modo da poter proficuamente interagire con gli altri. Perciò una situazione è deviante se viene definita come tale: non è mai aproblematica e definiti-va. Viene a cadere, in definitiva, l’assolutezza del concetto di deviante in quanto tale e la devianza, come ogni altro comportamento sociale, diviene il risultato di un’opera di definizioni messa in atto dagli individui all’interno delle loro interazioni reciproche.

Questa sensibilità per la diversità e l’attenzione riformatrice per le situa-zioni di disagio e di povertà faranno da base alle politiche di intervento sta-tale che contraddistingueranno il New Deal e le varie forme di stato sociale.

Nel quadro di riferimento teorico costituito essenzialmente dall’intera-zionismo simbolico e dalla Scuola di Chicago si inseriscono alcuni autori a mio giudizio particolarmente significativi per l’attenzione posta al proble-ma della devianza.

Goffman (1983) parte dall’assunto che non c’è alcuna distinzione es-senziale tra comportamento deviante e comportamento normale: “si può sospettare che il ruolo della persona normale e quello dello stigmatizzato facciano parte dello stesso complesso, non siano altro che tagli di stoffa pro-veniente dalla stessa pezza.” Per far sì che un comportamento venga defi-nito deviante occorre un intervento dall’esterno che lo qualifichi come tale.

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Come scrive Becker (1991) in una definizione diventata famosa e ripresa da molti autori: “La devianza non è una qualità dell’atto commesso da una per-sona, ma piuttosto una conseguenza dell’applicazione da parte di altri, di norme e sanzione nei confronti di un “colpevole”. Il deviante è una persona alla quale questa etichetta è stata applicata con successo”.

Lo sviluppo che questa posizione fa compiere ad intuizioni già presenti in Durkheim e nel funzionalismo è molto importante. Se il carattere devian-te non è dato, ma è prodotto all’interno dell’interazione, significa che gli stessi valori di riferimento non possono essere considerati come qualcosa di dato, ma anch’essi sottoposti a processi tali da poter far venire meno uno sfondo di riferimento comune.

Cambia anche il rapporto tra devianza e controllo: se tradizionalmente si riteneva che fosse la devianza a far nasce il bisogno del controllo, ora si può sostenere l’idea inversa, che sia cioè il controllo sociale a dar luogo alla devianza. Per diventare deviante un comportamento ha bisogno di una stigmatizzazione sociale che lo individui e lo giudichi tale. Quando l’as-sunzione di un vero e proprio ruolo deviante stigmatizzato si impone come riconoscimento primario di un soggetto, si arriva a parlare di identità de-viante nel suo complesso.

Una persona la cui identità sociale è ridotta all’unica caratteristica di essere ebreo, nell’esempio citato di Goffman, vive un radicale, profondo processo di riduzione della propria identità complessiva. Questo meccanismo aiuta com-prendere la situazione di tutti quei soggetti che vengono considerati “soprattut-to” e “essenzialmente” drogati, omosessuali, disabili o stranieri.

Cosa allora può accadere in una società che rende possibili diverse defi-nizioni della stessa situazione, per cui ciò che per me è deviante per il mio interlocutore è sentito normale? Quali sono i valori comuni che devono sot-tendere alla possibile convivenza di “definizioni della situazione” diverse?

In una società caratterizzata dalla stabilità come quella pre-moderna, da un basso tasso di mutamento sociale, dalla presenza di un insieme di valori stabile, coerente e condiviso, ogni comportamento non conforme era sentito come un crimine e gli interrogativi che ci siamo posti non avevano ragione di essere.

Infatti, i valori condivisi erano percepiti come una seconda natura e non si coglie il loro carattere costruito e contingente, e quindi essenzialmente storico, di fronte ai quali ogni comportamento non sintonico diviene crimi-nale. Un dissidente ed un eretico sono una minaccia distruttiva nei confronti dell’ordine sociale, e come tali da definire criminali.

La società post-moderna nella quale viviamo, contrassegnata dal veloce processo di cambiamento sociale, porta con sé profondi mutamenti all’inter-no della coscienza collettiva, che diventa maggiormente dinamica e flessibile.

Perciò comportamenti prima fortemente sanzionati possono ora essere sentiti come legittimi, se non da tutta la società, almeno da una parte di essa.

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Conflitto e cambiamento sono una situazione non più eccezionale, ma costituenti il motore interno della società: il concetto di devianza, di conse-guenza, se per un verso conferma la stigmatizzazione di comportamenti che si continuano a definire “criminali” quali il furto o l’omicidio, per altro verso viene evocata pure per comportamenti non allineati, che esprimono la mag-giore complessità della vita sociale e collettiva, la sua articolazione interna.

La definizione stessa di che cosa si possa definire deviante diventa ogget-to di conflitti che attraversano tutta quanta la società, trasformando criteri di distinzione stabili e certi in zone di confine dai contorni incerti e precari.

Un esempio di questo è riferibile all’obiezione di coscienza al servizio militare che fino alla metà degli anni ’60 comportava una sanzione penale e la detenzione, e che comunque veniva guardata come un comportamento deviante rispetto ai valori della difesa della nazione e della formazione di un uomo responsabile

Oggi è possibile affermare che i “devianti” di 40 anni fa hanno solo anti-cipato ciò che fa parte ormai di un sentire comune: la possibilità di servire la Patria in altro modo che non in armi, fino alla scomparsa dell’obbligo di leva.

Il tema dell’identità, a proposito del fenomeno dell’immigrazione, è quello più evocato e discusso. Molti autori, che si sono accinti a definire l’identità, hanno messo in guardia da un facile e semplicistico approccio. In effetti l’identità ha a che fare con fenomeni complessi e di difficile interpre-tazione. Dire chi si è, oltre ad essere un antico problema filosofico, è il pro-blema trasversale che interessa, anche se in modo diverso, tutti gli abitanti del mondo globalizzato. In questo senso siamo tutti “estranei” e “cittadini” allo stesso tempo in contesti che si modificano troppo velocemente.

Bauman (2003) nell’intervista sull’identità curata da Benedetto Vecchi

cerca di mettere a fuoco il problema dell’identità ma anche ne afferma l’as-soluta novità, modernità rispetto alle epoche che ci hanno preceduto. In questo senso non si può neanche cercare il sostegno degli autori sociologici classici che semplicemente non si ponevano il problema: “Ripeto quanto osservato prima: ci sono ragioni serie per non cercare risposte ai nostri pro-blemi di identità nelle opere dei padri fondatori. Nemmeno nell’opera di Georg Simmel (…). La principale ragione per cui i fondatori della sociologia moderna non sono in grado di rispondere alle questioni poste dalla nostra situazione attuale sta nel fatto che se cento o più anni fa il principio cuius regio, eius natio bastava a dar forma al “problema dell’identità”, oggi al con-trario i problemi dell’identità nascono dall’abbandono di quel principio”

Amin Maalouf (1999) a proposito dell’identità, fa delle osservazioni efficaci a descriverne la complessità: “L’identità di ogni persona – scrive Maalouf - è costituita da una moltitudine di elementi che non si limitano ovviamente a quelli che figurano sui registri ufficiali. Per la stragrande mag-gioranza degli individui c’è di sicuro, l’appartenenza ad una tradizione reli-

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giosa, ad una nazionalità, talvolta a due, ad un gruppo etnico o linguistico, ad una famiglia più o meno allargata, ad una professione ad un’istituzione, ad un ambiente sociale. Ma la lista è assai più lunga virtualmente illimitata. (..) Tutte queste appartenenze non hanno evidentemente la stessa importan-za, ad ogni modo non nello stesso momento. Ma nessuna è totalmente insi-gnificante. Sono gli elementi costitutivi della personalità, si potrebbe dire “i geni dell’anima” a patto di precisare che la maggior parte non sono innati.”

A volte si è ritenuto che ci fosse un’appartenenza che da sola potesse definire una persona e costituire la sua identità, lo si è detto a proposito del concetto di stigmatizzazione all’interno della teoria interazionista, e ciò ha favorito la nascita di separazioni, emarginazioni, conflitti. Lo stigma di “de-viante” rispetto ai valori e alle norme condivise può diventare invasivo, al punto da risultare molto difficile da gestire nei rapporti di interazione che si hanno con gli altri e rappresentare per intero l’identità data.

L’idea meno esclusivista e monolitica di definizione di sé e degli altri, con la coscienza che l’identità è una costruzione storica che muta con il tem-po e con i cambiamenti dell’intera società, può aiutare una comprensione più profonda delle spinte in atto nella nostra società ed aprire un varco ver-so una società dove convivono diverse visioni della realtà, diverse culture e tradizioni.

È, forse, utile mettere in luce come l’uso sino ad ora fatto dalla tradizione sociologica, pur con diverse sottolineature, del concetto di devianza risponda ad una logica bipolare: sulla base di tale logica una azione può essere conforme o non conforme, deviante o non deviante: non si danno altre possibilità. Questa logica è l’espressione di un sistema sociale che nella sua essenza rimane di tipo rigido ed implica costi sempre più grandi per mantenere la sua stabilità, in un momento caratterizzato da grandi cambiamenti sociali, dall’emergere di nuove prospettive, di valori, di punti di vista nuovi che tentano di conquistarsi uno spazio. Per questo motivo, se-condo alcuni autori, occorre distinguere nettamente tra comportamento non conforme e devianza, e questo era già manifestato dai concetti di sub-cultu-ra o di outsider.

Si apre così la strada all’idea che si possano metter in atto comportamen-ti non conformi senza che vengano letti necessariamente come devianti o criminali: questa è in estrema sintesi la caratteristica di un sistema sociale flessibile.

Tale termine viene ad indicare una serie di comportamenti che allo stesso tempo non riusciamo ad identificare né come del tutto conformi, né come del tutto devianti.

Accettare la sfida di identità diverse e non contrapposte è la questione centrale della nostra epoca: come trasformare questa polifonia in armonia ed impedirle di divenire cacofonia. L’armonia non significa uniformità, ma

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è sempre l’interazione di numerosi motivi differenti, che conservano ciascu-no la propria identità distinta e sostengono la melodia risultante attraverso e grazie a questa identità.

Per Hannah Arendt tale capacità di interazione di identità ed interessi diversi era la qualità della Polis, luogo in cui possiamo incontrarci da ugua-li, riconoscendo la nostra diversità e postulando il mantenimento di questa diversità come fine precipuo del nostro incontro.

Come può essere possibile questo? Una difficoltà è senz’altro riscontra-bile in quello che la stessa Arendt ha chiamato “vacuità dello spazio poli-tico” intendendo dire con questo che nella nostra epoca non esistono più luoghi naturali del corpo politico da cui possano essere varati interventi significativi ed efficaci sul modo in cui si vive la vita collettiva.

Ciò chiama ad una più ampia responsabilità degli individui/cittadini di capire che la possibilità di convivenza pacifica dipende dai diritti dello stra-niero, non dallo stabilire chi- lo stato o la tribù autentica o inventata- abbia diritto di decidere chi sono gli stranieri, accertandoci che le identità separate non pretendano l’esclusiva, non rifiutino di coabitare con altre identità, at-traverso una costruzione pragmatica , una prospettiva da sviluppare attra-verso l’articolazione della varietà di progetti individuali, di differenze che costituiscono la comune umanità.

Intervistato per “Liberation” il 24 novembre 1994, Jacques Derrida invitò a ripensare, anziché abbandonare l’idea moderna di umanesimo. Il “diritto umano” come si è espresso nella filosofia umanista e nelle grandi correnti che hanno portato alle dichiarazioni dei diritti dell’uomo.

Nel suo importante studio sul razzismo contemporaneo, Phil Cohen ipo-tizza che ogni forma di xenofobia etnica o razzista, ogni concezione dello straniero come nemico e di un confine ed un limite esterno alla sovranità individuale e collettiva, possieda come metafora pregnante la concezione idealizzata della “casa sicura”.

L’immagine della casa sicura trasforma la strada, il fuori rispetto alla casa, in un luogo irto di pericoli; gli abitanti di quel fuori devono essere tenuti a distanza, sono portatori di minacce. Scrive Bauman (2002): “l’idea di casa si riduce a quello spazio in cui un concetto intrinseco di ordine e decenza può essere imposto a quella piccola parte di un mondo caotico che il soggetto è in grado di possedere e controllare direttamente”.

È questo sogno di uno spazio difendibile, con i confini sicuri e ben presi-diati, che trasforma le persone sconosciute in elementi pericolosi se non in veri e propri nemici.

Vittorio Cotesta (2002) nella sua riflessione sullo straniero, sgancia la ri-flessione riguardo al tema dell’immigrazione dalla superficiale e meccani-cistica relazione di causa/effetto secondo la quale sarebbe la presenza degli immigrati, o il loro aumento ad essere “il problema”. Viceversa sono i di-

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versi approcci, le diverse strategie che le società mettono in campo ad essere gli indicatori della tenuta delle società stesse. “La nostra opinione – afferma Cotesta – è che questi atteggiamenti, queste strategie, verso gli immigrati e, più in generale verso lo straniero, abbiano una relazione forte con la nostra struttura sociale e culturale. Detto nei termini più generali, la nostra tesi è che l’atteggiamento verso lo straniero dipenda dal modo di sentire e di esse-re della comunità, dei gruppi sociali degli individui. L’identità individuale e, soprattutto comunitaria, determina gli atteggiamenti e le strategie d’a-zione. Il senso di sicurezza o la paura verso l’altro sono l’espressione della fiducia che una comunità ha in sè stessa.”

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Migranti: “Stanno tutti bene!”GiusePPinA tumminelli*

Abstract

When we talk about immigrants, often the question we ask is linked the use of the categories of “health” and “sickness”, ie if these categories, that have a meaning almost shared among Westerners, can be considered valid for any other company. In this place we will present some reflections on the difficulties connected to access to services and the welfare state of migrants present for several years in the regional territory, but which are in a state of irregularity with the permits of stay on Italian soil.

Keywords: migranti, salute, benessere, servizi

1. Premessa

In riferimento alla ridefinizione del Servizio Sanitario, in un momento storico segnato da una parte dai consistenti movimenti di migranti attraver-so le nostre città e, dall’altra, dal controllo della spesa sociale, affrontare il tema della salute degli immigrati offre molteplici spunti di riflessione.

Innanzitutto, appare opportuno partire dal presupposto, ormai ricono-sciuto in ambito sanitario, che la malattia è il risultato non solo di cause fisiche ma anche psicologiche, di situazioni, cioè, in quest’ultimo caso, che “stressano” l’individuo. I processi di livello fisiologico sono correlati ai pro-cessi di “livello superiore”, ossia psicologici, come le emozioni, lo stile di vita, le dinamiche della personalità, mentre il disagio che è possibile regi-strare coinvolge sia la dimensione individuale sia la dimensione collettiva.

Quando parliamo d’immigrati, spesso la domanda che ci si pone è le-gata all’utilizzazione delle categorie di “salute” e di “malattia”, ossia se

* Docente della Lumsa-Santa Silvia; [email protected].

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queste categorie, che hanno un significato pressoché condiviso tra gli oc-cidentali, possano essere considerate valide per qualsiasi altra società. In questa sede verranno presentate alcune riflessioni sulle difficoltà connesse all’accesso ai servizi e allo stato di benessere dei migranti presenti da di-versi anni nel territorio regionale, ma che si trovano in stato di irregolarità con i permessi di soggiorno sul suolo italiano. Quindi, non si farà riferi-mento espressamente al tema dei richiedenti asilo e dei minori stranie-ri non accompagnati, per i quali la Regione Siciliana ha elaborato norme specifiche nel rispetto della tutela dei migranti e degli autoctoni (Piano di Contingenza Sanitario Regionale Migranti. Modalità operative per il coordina-mento degli aspetti di salute pubblica in Sicilia, 2017), argomento, questo, che meriterebbe un ulteriore approfondimento.

2. Il quadro

Gli studi socio-antropologici sottolineano come il significato attribuito a “salute” e “malattia” dipenda principalmente da dimensioni culturali (Mac-caccaro, Martinelli, 1977), così come il rapporto tra l’immigrazione e la salu-te ci pone quesiti sul fronte della medicina transculturale, ossia ci impone di considerare le patologie, le pratiche mediche, come fenomeni socialmente e culturalmente condizionati (Pasini, 2004; Illich, 1976).

Base comune di partenza è la consapevolezza che la malattia è percepita in maniera diversa da chi la vive e da chi la cura. A questo proposito, il mo-dello antropologico statunitense ha operato una distinzione tra due concetti di malattia: disease, che indica la malattia come realtà oggettiva, che può essere misurata con metodi matematico-sperimentali, con visualizzazione degli organi, separati dal contesto culturale, ed illness, che esprime la malat-tia così come è vissuta e percepita dal paziente, con gli elementi culturali, i sentimenti e le emozioni. Illness indicherebbe l’esperienza diretta del mala-to, il suo vissuto della malattia, mentre disease la formalizzazione, da parte del medico, della malattia. Un’altra attribuzione significativa è rappresen-tata dal termine sickness, che indica la percezione della malattia da parte del contesto non medico del paziente, in quanto vi è una differenza tra l’essere malato, e sentirsi tale, ed essere un malato e, quindi, riconoscersi ed essere riconosciuto come tale.

Ritornando agli stranieri, i processi d’inserimento nel nuovo Paese non possono prescindere da un’attenzione nei confronti del loro benessere an-che in termini di accesso ai servizi sanitari. Emerge, infatti, un’inesistente incidenza di malattie d’importazione, mentre si registrano patologie con-nesse al sistema dell’accoglienza e dell’inclusione sociale determinate da di-sagio psicologico, da pessime condizioni abitative, lavorative e alimentari,

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da difficoltà relazionali, da difficoltà nell’accedere ai servizi, da stress e de-pressioni conseguenti allo sradicamento dal proprio Paese di provenienza.

La migrazione diviene dunque una fonte di stress e di pericolo per la salute del migrante, in quanto lo sradicamento dal proprio Paese, dalle pro-prie origini, impone una riorganizzazione dell’esistenza.

Per di più, il rischio per la salute può essere determinato da situazioni che penalizzano lo straniero, come l’irregolarità giuridica, le condizioni abi-tative o di lavoro, la condizione psicologica dell’essere “estraneo”, la possi-bile lontananza dei familiari.

La diversa situazione, inoltre, che è anche possibile registrare nelle re-gioni del Nord e del Sud d’Italia in termini d’informazione e di accesso ai servizi sanitari da parte degli immigrati, offre lo spunto per una riflessione sul tema.

Da una parte, se è possibile affermare che l’incertezza socio-sanitaria de-gli immigrati è un tema che viene discusso anche al fine di individuare pos-sibili soluzioni, dall’altra, la persistente fragilità sociale rimane un fattore di rischio che ne minaccia il benessere psicofisico.

Il nodo centrale è, quindi, rappresentato dalla non integrazione del di-ritto alla salute con altri diritti, come quelli sociali e, soprattutto, con il “di-ritto all’assistenza”, concetto quest’ultimo che potrebbe essere strettamente collegato alla discrezionalità nella sua applicazione e, in alcuni casi, a una mancanza di conoscenza della normativa a riguardo. La non applicazione di tali diritti comporterebbe difficoltà nell’accedere a livello territoriale ai servizi socio-sanitari e implicherebbe il pensare e lo strutturare servizi ade-guati all’utenza, l’inserire figure in grado di mediare tra il paziente e il me-dico che abbiano competenze linguistiche e culturali adeguate e l’affrontare questioni bioetiche che non possono essere ignorate.

Pertanto, nonostante i passi avanti compiuti a partire dalla metà degli anni Ottanta dalla medicina, permangono le “disuguaglianze di salute” in termini di disuguaglianza di accesso e di distribuzione tra i gruppi di popo-lazione considerate per classe sociale, reddito e livello d’istruzione. Per lo straniero le difficoltà che nascono dall’accedere alle strutture sanitarie sono da ricondurre sia a problemi culturali e psicologici che acuiscono “il disagio esistenziale” legato al trovarsi in un altro Paese, sia a problemi etico-giuri-dici legati alla legittimità del diritto alla salute e all’assistenza (Pasini, 2004).

3. I racconti di vita a Palermo

L’immigrazione continua ad essere percepita come una minaccia da par-te di stranieri nei confronti dei Paesi ospitanti. Tralasciando in questa sede un approfondimento a riguardo, sembra necessario sottolineare, riprenden-do le osservazioni di Sassen (1999), che i movimenti internazionali non sono

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determinati dal desiderio da parte di alcuni individui di migliorare le pro-prie condizioni di vita, ma sono una conseguenza dell’intrecciarsi di pro-cessi economici e geopolitici di una certa complessità. La comprensione del fenomeno migratorio deve tener conto delle modalità, dei tempi e dei moti-vi in base ai quali i governi, i Paesi industrializzati, i media siano coinvolti in questi processi. In Italia, il modello d’inserimento degli immigrati appare deficitario ed è ancora caratterizzato da una mobilitazione spontanea degli attori locali, da una impreparazione istituzionale e da un allarme costante. Inoltre, nel processo di “integrazione”, termine quest’ultimo complesso, il cui significato varia nel tempo e nello spazio in relazione al contesto e alle circostanze storico-politiche considerate, un ruolo significativo viene svolto dalle istituzioni del terzo settore e del privato sociale. Spostando l’attenzio-ne sui dati sanitari disponibili, emergono fragilità sociali che coinvolgono gli immigrati e che impongono una riconsiderazione delle politiche di acco-glienza e d’inserimento, nonché una più ampia offerta di informazioni sui servizi presenti nel territorio.

Nonostante l’introduzione di disposizioni in materia di assistenza sanita-ria che la estendono anche ai cittadini stranieri presenti sul territorio naziona-le non in regola (si pensi al codice STP), diverse sono le disuguaglianze regi-strabili a livello sociale ed estendibili agli immigrati di diversa provenienza.

La possibilità di oltrepassare i confini, diventati sempre più evanescenti, offre l’occasione dell’incontro con l’altro che, per quanto ci attragga, ci mette in crisi, così come la costruzione delle immagini sociali dello straniero di-ventano il frutto di processi cognitivi, di aspetti legati all’identità sociale, di dinamiche motivazionali, del linguaggio e della comunicazione.

Tanto le strutture quanto gli operatori socio-sanitari si sono dovuti con-frontare con l’afflusso sempre più consistente di pazienti stranieri. Di con-tro, l’utilizzazione di servizi da parte degli immigrati ha posto numerosi quesiti, mentre sono diverse le difficoltà che si possono registrare a livello regionale nell’interazione quotidiana tra gli operatori sanitari e gli immigra-ti, siano essi regolari o irregolari.

Le difficoltà maggiori che si registrano sono legate agli aspetti socio-cul-turali e linguistico-comunicativi che creano divisioni tra medici e pazienti, amplificando la distanza sociale, producendo disuguaglianze e rendendo i servizi offerti non efficaci. La presenza di differenti etnie ha imposto e impo-ne l’esigenza di una formazione specifica e continua che orienti tutto il per-sonale verso la conoscenza di altre culture in maniera corretta, in particolar modo verso i diversi significati che gli individui hanno del proprio corpo.

Dall’analisi di 10 racconti di vita (Bichi, 2002) di immigrati presenti nella città di Palermo, nel maggio 2017, al fine di comprendere il rapporto tra sa-lute e servizi socio-sanitari, i problemi che gli immigrati incontrano nell’ac-cesso alle strutture sanitarie sono riconducibili a quattro aree, ossia:

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1. utilizzo dei servizi sanitari;2. tutela della salute degli irregolari;3. informazione non adeguata;4. difficoltà comunicative.

Le risposte che emergono dall’analisi sono legate alle difficoltà nell’o-rientarsi in un Paese che non è il proprio, alla non conoscenza di un diritto alla salute che li includa, alla paura dell’essere individuati e rimpatriati, alla non adeguatezza del servizio sanitario e alle difficoltà linguistiche che de-terminano incomprensione tra il personale medico e i pazienti.

Emerge una correlazione tra malessere psico-fisico e malessere sociale. Nei casi in cui la malattia non è legata a situazioni di deprivazione, trova una risposta nelle strutture pubbliche; mentre, qualora essa sia accompagnata da situazioni di precarietà socio-economica, non trova risposta nel servizio sanitario ma diviene un fattore di esclusione. I rischi per la salute sono collegati sia alle condizioni di povertà che l’immigrato sperimenta nel proprio Paese, sia alle condizioni di emarginazione nel nuovo Paese. Sono lo stress, le condizioni economiche e sociali ad incidere sulla condizione di salute degli immigrati. La migrazione ha com-portato patologie definite come “malattie della povertà”, amplificate spesso dalle pessime condizioni di vita nelle quali gli immigrati si trovano e dalle difficoltà che si registrano nell’accesso ai servizi e nella capacità di sapersi orientare in un nuovo Paese. Tali disagi, se collegati inoltre alla situazione d’irregolarità o clande-stinità, determinano “esclusione” e “marginalità sociale”.

R. Se stai male, se ti ammali, cosa fai?I. Questo è un vero problema. Non tanto per la possibilità di farmi visitare in

ospedale, quanto per comprare i farmaci: non avendo documenti, tutto è molto dif-ficile. Poi, ovviamente, non ho soldi per pagarmi visite o medicinali. Spero che Dio mi mantenga in salute.

R. Ma, se ti ammali, c’è qualcuno che può aiutarti?I. Sì, ho un amico che mi può aiutare. Lui ha i documenti e può aiutarmi in questo.

Ma, a parte questo amico, non ho nessun aiuto, nessuno che può darmi una mano… questo è un problema. Se avessi un lavoro, i documenti, tutto sarebbe più facile.

R. Tu usi di solito cure tradizionali del tuo Paese o usi medicine italiane?I. A volte uso cure tradizionali, a volte anche medicine italiane. Dipende da ciò

che ho a disposizione in quel momento.(Ivoriano)

R. Quando tu stai male, hai problemi di salute, cosa fai, a chi ti rivolgi?I. Questa cosa io lasciato a Dio e basta.R. Vai in ospedale, ti rivolgi ad un amico?I. Qua, quando c’hai documenti d’asilo posso andare un dottore, loro fanno, non lo

so, scritture, e poi vai di là, vai di là e poi… Però io quando venuto qua in Italia quasi tre mesi per togliere un dente, l’ultimo minuto io lasciato e tagliato con la mia mano.

R. Perché hai avuto problemi, nessuno te lo toglieva?

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I. Sì perché nessuno parla con noi. Io non parlo inglese bene, non parla italiano bene, solo arabo. Non conosco quando qualcuno parla arabo. Quando ti dice qual-cuno aiuta non è ogni giorno. […] Non posso dire qualcuno non mi ha aiutato. Però tu qua vai da solo, quello che tu capisci parla […].

R. Ti è capitato di stare male non solo per il dente, ma per altre cose e quindi, avere bisogno di essere curato?

I. Sì, io stato un po’ di male di stomaco e poi comprato medicine e basta. (Sudanese)

R. Quando stai male, per esempio hai problemi di salute, a chi ti rivolgi? Vai in ospedale?

I. Le malattie sono legate al discorso dei soldi, perché ho avuto problemi di reni. Sono andato in ospedale. Poi hanno prescritto dei farmaci e come li compro? Quindi ho sempre il problema di cercare il lavoro, in questo momento c’ha questo, io cerca però non è facile. Il problema è sempre quello.

(Ivoriano) Anche la condizione giuridica influenza il comportamento in tema di

salute degli stranieri. I regolari si rivolgono più spesso al medico di base o al sistema dei servizi, mentre sono gli irregolari a sentirsi costretti, per rice-vere cure, a utilizzare canali alternativi connotando tali atteggiamenti come fattori di rischio. Infatti, in caso di malessere, più che recarsi al pronto soc-corso si preferisce rivolgersi alla rete amicale. Il bisogno di salute non viene spesso ufficializzato, ma solo manifestato nelle reti sommerse.

Se lo straniero rappresenta l’altro, il diverso del quale avere paura, anche in ambito sanitario, nell’immaginario collettivo, questo rappresenta il “por-tatore di malattie” che minaccia la salute degli autoctoni e che innesta paure e pregiudizi che si innescano, come direbbe Bauman (1999), nella società dell’incertezza. Mentre i problemi della salute sono connessi a difficoltà di comunicazione, a non conoscenza delle strutture sanitarie e a difficoltà nello stabilire relazioni con il personale di competenza.

Pertanto, le cause che determinano conseguenze sullo stato di salute dei migranti devono essere rintracciate in particolar modo nelle condi-zioni di vita e nelle disuguaglianze economiche. Le disuguaglianze che ne scaturiscono possono essere ridimensionate attraverso la creazione di un sistema di cura, che riconoscendo la diversità culturale, utilizzi stru-menti di “mediazione”.

Di conseguenza, la comunicazione risulta centrale nell’erogazione dei servizi e delle prestazioni sanitarie. Dai racconti emergono, inoltre, difficol-tà linguistiche quali ostacoli non solo all’accesso ai servizi, ma anche alla comprensione delle cure e alla soddisfazione della relazione. Le incompren-sioni tra personale medico e paziente possono comportare errori nelle dia-gnosi in seguito ad una scarsa comprensione dei bisogni di quest’ultimo.

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4. La mediazione culturale in ambito sanitario

Il fenomeno migratorio ha modificato il contesto sociale e demografico nel quale i servizi socio-sanitari sono inseriti e la sfida, innescata dalla presenza di diverse culture, è rivolta alle organizzazioni sanitarie nella prospettiva di un cambiamento e di un miglioramento della qualità dei servizi. Si pensi, ad esempio, che è stata proprio la presenza di migranti a far emergere l’esigenza della mediazione e della costruzione di nuove pratiche sociali che possano innescare un dialogo provando a ridurre la frammentazione e la differenziazione alla quale assistiamo costantemente. Il tema immigrazione-salute ha condotto a una riflessione in termini di medicina transculturale, considerato che patologie, comportamenti, prati-che mediche, diventano fenomeni socialmente e culturalmente condizio-nati. Ecco perché la figura del mediatore, in ambito sanitario, nasce dal bi-sogno espresso dagli operatori del settore, consapevoli della necessità non solo di una traduzione, quindi di una mediazione linguistica, ma anche di un approfondimento degli aspetti culturali che connotano la richiesta del bisogno. La mediazione interculturale caratterizza le situazioni sociali di multiculturalità significativa, dove, attraverso la presenza di un mediato-re, in un contesto di relazioni tra attori sociali differenziati, si auspica il riconoscimento dell’altro, della comunicazione, della regolazione dei con-flitti e dell’apprendimento della convivenza. La mediazione si sviluppa come risposta alla presenza di stranieri, portatori di altra cultura, altra lingua, altri modelli, con i quali si impone la necessità di relazionarsi per evitare conflitti. Potrebbe divenire un potenziale strumento per facilitare l’inserimento degli stranieri nei nuovi contesti sociali, anche attraverso il riconoscimento di regole comuni. Si sviluppa come pratica rispondente a diversi bisogni: da una parte, la necessità per gli autoctoni di tradurre lin-gue non conosciute, dall’altra il bisogno, per i nuovi arrivati, di conosce-re normative, servizi, strutture ai quali potersi rivolgere. Oltre ad essere un’attività finalizzata all’accoglienza, all’informazione e all’orientamento degli stranieri svolta da operatori del privato sociale.

Il progresso e lo sviluppo tecnologico in ambito sanitario hanno determi-nato nuovi bisogni e una nuova domanda di salute. La nascita di tali bisogni deve, del resto, essere collegata ai costi, al controllo di questi, e ad analisi costi/benefici.

Nonostante i problemi in precedenza sottolineati, l’offerta di servizi so-cio-sanitari è presente nelle aree metropolitane della Regione Sicilia o nei comuni di più antica e consolidata presenza straniera, ad esempio Mazara del Vallo (nella provincia trapanese); lo stesso non è possibile affermarlo per altre aree territoriali.

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5. Alcune riflessioni

I primi risultati della ricerca esplorativa condotta rilevano l’incremento delle disuguaglianze nell’accesso alle cure sanitarie da parte dei migranti. I principali ostacoli alle cure mediche sono riconducibili soprattutto a disu-guaglianze di natura economica, alla non adeguata conoscenza delle leggi nazionali in materia, a difficoltà linguistiche e a barriere culturali. Dall’a-nalisi della letteratura emerge che i migranti presenti nei nuovi Paesi, con il passare del tempo, saranno portati a un peggioramento del loro stato di salute come conseguenza delle pessime condizioni di lavoro, degli alloggi precari, degli stili di vita insalubri e delle diverse forme di esclusione socia-le. Di conseguenza, necessiteranno di cure mediche.

Un ulteriore focus della discussione può essere individuato nella scarsa informazione, da parte del personale di competenza che comporterebbe un maggiore investimento nel campo dell’informazione e della comunicazione.

Un’azione di comunicazione dovrebbe essere, pertanto, diversificata ed orientata verso gli operatori del settore, verso gli immigrati al fine di favo-rire l’accesso ai servizi e di salvaguardare i loro diritti, e verso gli autoctoni per scardinare le paure e rompere i pregiudizi sugli immigrati quali porta-tori di malattie.

Anche il coinvolgimento dei pazienti e delle comunità immigrate po-trebbe divenire una strada per l’individuazione di ostacoli e conseguenti soluzioni. È necessario riconoscere agli immigrati un ruolo attivo per va-lutare i bisogni e migliorare i servizi. Infine, nel rapporto immigrati-salute, diviene un’esigenza la presenza del doppio mediatore culturale, sia italiano sia straniero, per pensare strategie che mirino alla riduzione delle difficoltà incontrate.

Infine, l’attenzione nei confronti del paziente straniero deve essere con-siderata come centrale nelle politiche di miglioramento della qualità, innan-zitutto perché, attraverso la riorganizzazione dei servizi sanitari pronti ad accogliere diverse culture, è possibile pensare all’incremento dell’efficacia delle cure, dell’assistenza e della soddisfazione da parte del paziente.

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Migranti: “Stanno tutti bene!” ISSN 0423-4014

Bibliografia

Bauman, Z., (1999), La società dell’incertezza, Il Mulino, Bologna.Bichi, R., (2002), L’intervista biografica. Una proposta metodologica, Vita e

Pensiero, Milano.Illich, I., (1976), Nemesi medica, Mondadori, Milano.Pasini N., (2004), a cura, La salute degli immigrati in Lombardia. Problemi

e prospettive, Fondazione Ismu, Regione Lombardia, Osservatorio Re-gionale per l’integrazione e la multietnicità.

Maccaccaro G.A., Martinelli A., (1977), a cura, Sociologia della medicina, Feltrinelli, Milano.

Sassan, S. (1999), Migranti, coloni, rifugiati, Feltrinelli, Milano.

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Esperienze Sociali – ESRivista semestrale

Linee guida etiche per la pubblicazione

Esperienze Sociali è una rivista scientifica per la diffusione di riflessioni teoriche e di risultati di ricerche empiriche nell’ambito delle scienze della società condotte con metodo scientifico e messe a disposizione di un pub-blico quanto più ampio possibile e non solo specialistico. I risultati della ricerca possono avere un impatto sulla decisioni politiche, sui processi di formazione e lo sviluppo, nonché sull’integrazione di teorie e paradigmi. È quindi fondamentale che la rivista mantenga un elevato standard di qualità e trasparenza nel processo di revisione e pubblicazione. Questa responsa-bilità è a carico di tutti i soggetti coinvolti nel processo di pubblicazione: Direttore scientifico, Comitato scientifico, Comitato di redazione, etc.

Compiti e doveri del Direttore e del Comitato editoriale

I principi etici su cui si basano i compiti del Direttore, del Comitato Edi-toriale della rivista Esperienze Sociali si ispirano a COPE (Committee on Publication Ethics), Best Practice Guidelines for Journal Editors:

http://publicationethics.org/files/Code%20of%20conduct%20for%20journal%20editors_0.pdf e http://publicationethics.org/files/u2/New_Code.pdf .

Il Direttore dirige la rivista con il sostegno di tutti i membri del Comitato editoriale.

Direttore e Comitato editoriale tendono fattivamente al miglioramento della qualità scientifica della rivista. Il Direttore incoraggia i membri del Comitato Scientifico alla promozione della rivista come veicolo per la dif-fusione dei risultati della ricerca e indica, su indirizzo e con il supporto del Comitato editoriale, i revisori che devono essere coinvolti nel processo di valutazione di ogni articolo.

La valutazione e la selezione dei manoscritti sarà operata dal Direttore e dal Comitato editoriale sulla base del loro contenuto intellettuale senza te-ner conto di razza, sesso, orientamento sessuale, fede religiosa, origine etnica,

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cittadinanza, o orientamento politico dell’autore. Il Direttore e i membri del Comitato editoriale non devono rivelare alcuna informazione concernente un articolo sottoposto alla redazione a nessun’altra persona diversa dall’autore, dai revisori e dall’editore.

Compiti e doveri dei Revisori

I principi etici su cui si basano i doveri dei Revisori della rivista Espe-rienze Sociali si ispirano ai criteri accettati dalla comunità scientifica e resi operativi nelle maggiori riviste scientifiche ed editori di rilevanza nazionale ed internazionale per i settori scientifico disciplinari della psicologia dina-mica, sociologia, pedagogia generale, economia civile e del diritto privato.

La revisione da parte di ricercatori e studiosi di manoscritti presentati a riviste scientifiche indipendenti è una componente essenziale della prati-ca scientifica. Tutti gli scienziati hanno l’obbligo di partecipare al processo. Esperienze Sociali utilizza il metodo doppio cieco: ogni articolo, senza il nome dell’autore, viene inviato a due revisori. Le due revisioni, anonime, vengono inviate all’autore per la revisione finale. In caso di revisioni con-traddittorie, l’articolo viene inviato a un terzo revisore: la scelta prevalente (accettazione o rifiuto) è la maggioranza.

Ogni revisore scelto che si senta inadeguato ad esaminare la ricerca ri-portata in un manoscritto o che sappia che gli sarà impossibile esaminarlo prontamente deve comunicarlo al Direttore della rivista ed esentare se stesso dal processo di esame. I revisori sono tenuti a comunicare la presenza di con-flitto d’interesse derivante da rapporti di concorrenza diretta, collaborazione, con qualunque degli autori ed evitare casi in cui tali conflitti non consentono una valutazione obiettiva. Ogni manoscritto ricevuto e da sottoporre a valu-tazione deve essere trattato come documento confidenziale. Esso non deve essere mostrato o discusso con altri ad eccezione delle persone autorizzate dai Direttori e dai Redattori. L’esame del manoscritto deve essere condotto in ma-niera obiettiva, valutando oggettivamente la qualità dell’articolo e rispettare l’indipendenza intellettuale degli autori. La critica personale non è accetta né accettabile. I revisori dovranno spiegare e sostenere le loro scelte in modo che gli editori e gli autori possono comprendere la base delle loro osservazioni e indicare le carenze teoriche e metodologiche, errori di calcolo e valutazione dei dati inclusi nel manoscritto. Essi sono tenuti inoltre a individuare lavori rilevanti pubblicati che non sono stati menzionati dall’autore indicando ogni somiglianza sostanziale o sovrapponibilità tra il manoscritto sotto esame e ogni altro lavoro pubblicato di cui essi abbiano conoscenza personale. I revi-sori devono trattare il manoscritto inviato per la revisione come un documen-to riservato. Astenersi dal discutere con gli altri, se non in casi particolari, in cui l’identità dei soggetti eventualmente consultati deve essere comunicata al

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Direttore. Essi non devono utilizzare o divulgare le informazioni non pubbli-cate, gli argomenti, o le interpretazioni contenute in un manoscritto in esame, se non con il consenso dell’autore.

Compiti e doveri degli autori

I principi etici su cui si basano i doveri degli Autori della rivista Espe-rienze Sociali si ispirano alle linee guida pubblicate da elsevier:

http://www.elsevier.com/framework_products/promis_misc/ethical-guidelinesforauthors.pdf

Gli autori sono tenuti a inviare manoscritti contenenti materiali origi-nali, nuovi risultati, elaborazione dei dati, idee e/o interpretazioni non già pubblicati o in corso di pubblicazione altrove (comprese le banche dati). Gli autori sono tenuti a identificare e indicare chiaramente i soggetti, la lettera-tura di riferimento, il metodo, le ipotesi, le supposizioni, le interpretazioni e le valutazioni della ricerca; nel caso di manoscritti che presentano ricerche empiriche devono riportare sufficienti riferimenti tali da permettere ad altri di ripercorrere la ricerca eseguita.

Affermazioni fraudolente o scientemente inaccurate costituiscono com-portamento non etico e sono inaccettabili.

Gli autori devono specificare chi è responsabile per la ricerca e il diretto-re del team che ha effettuato il lavoro di ricerca, nonché comunicare le prin-cipali fonti di finanziamento (per esempio, agenzie governative, fondazioni, aziende private, università).

Gli autori devono assicurare di aver scritto lavori interamente originali, e se gli autori hanno usato il lavoro e/o le parole di altri ciò deve essere citato in modo appropriato. Se l’articolo è scritto da più autori, compilare un elenco di tutti i co-autori indicando con precisione il nome, cognome, l’affiliazione e l’attribuzione delle parti. La proprietà del manoscritto è limitata a coloro che hanno dato un contributo significativo alla ricerca, con un semplice riconosci-mento di altri contributi (il layout, grafica, ecc.). Di norma, gli autori non pub-blicano manoscritti che presentano la stessa ricerca in più di un periodico o pubblicazione primaria. Deve sempre essere dato riconoscimento appropria-to del lavoro degli altri. Gli autori devono citare le pubblicazioni che hanno influito nel determinare la natura del lavoro da essi svolto.

Quando un autore scopre un errore significativo o una inesattezza nel proprio articolo pubblicato, ha l’obbligo di notificarlo prontamente al Diret-tore o al Comitato Editoriale della rivista e di cooperare con essi per ritrat-tare o correggere l’errore.

Gli autori sono tenuti a evitare qualsiasi forma di plagio: plagio di altri autori e di auto-plagio. Copiare da altri, non affermando esplicitamente la

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proprietà di idee, dati, interpretazioni e valutazioni è un comportamento eticamente scorretto e punito dalla legge. L’inserimento nel manoscritto di parti già pubblicate dall’autore/ri senza citare la fonte, impoverisce l’origi-nalità e la novità dell’articolo.

Gli autori sono tenuti ad attenersi alle norme editoriali indicate dalla rivista.

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Esperienze Sociali – ESRivista semestrale

Norme redazionali per gli autori

La rivista Esperienze Sociali-ES si caratterizza per un’impostazione emi-nentemente interdisciplinare e pubblica contributi teorici, resoconti origi-nali di ricerca, rassegne e recensioni. Non sono idonei alla pubblicazione: commenti politici, giornalistici, esperienze individuali slegate da un conte-sto di ricerca.

Gli articoli inediti e non sottoposti alla valutazione di altre riviste, devo-no essere proposti a questa rivista selezionando il bottone “Invia un artico-lo” disponibile alla pagina web www.esperienzesociali.org

Il contributo sottoposto a Esperienze Sociali-ES verrà sottoposto a valuta-zione da parte di referee anonimi. Per questo motivo, esso non dovrà avere marcatori che permettano di riconoscerne gli Autori né nel testo, né nel-le note o nei riferimenti bibliografici, né in ulteriori parti del documento che possano contenerli. Nel caso in cui gli autori citino propri lavori, essi dovranno farlo in modo tale da rendersi irriconoscibili, fatto naturalmen-te salvo il loro reinserimento in fase di pubblicazione finale. Il comitato di redazione comunicherà le proprie decisioni agli Autori entro 60 giorni, tra-smettendo contestualmente le schede di revisione ricevute dai revisori.

Gli articoli devono essere accompagnati da una lettera di liberatoria (al-legata a queste norme) in cui l’autore concede alla Direzione della rivista l’esercizio esclusivo di tutti i diritti di sfruttamento economico sull’articolo, senza limiti di spazio ed entro i limiti temporali massimi riconosciuti dalla normativa vigente (attualmente 20 anni) e con tutte le modalità e le tec-nologie attualmente esistenti e/o in futuro sviluppate. Si intende pertanto compresa, inter alia, la riproduzione in ogni modo e forma, comunicazio-ne – ivi inclusi, a titolo esemplificativo ma non esaustivo, anche i diritti di sfruttamento patrimoniale a mezzo di canali digitali interattivi (con qualsi-asi modalità attualmente nota od in futuro sviluppata) – e distribuzione di cui l’articolo è suscettibile. Parimenti concede alla Direzione in esclusiva il diritto di tradurre, riprodurre, distribuire, comunicare l’articolo in qualsiasi lingua, in qualsiasi modo e forma, i diritti di sfruttamento pubblicitario, il diritto di cedere a terzi i diritti loro spettanti sull’articolo, in tutto o in parte, sia a titolo oneroso che a titolo gratuito, ecc., senza limiti di spazio ed entro

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i limiti temporali massimi riconosciuti dalla normativa vigente (attualmen-te, 20 anni) e con tutte le modalità e tecnologie attualmente esistenti e/o in futuro sviluppate.

I testi devono essere forniti di note a piè di pagina.I contributi compresi nella sezione “Saggi e rassegne” dovranno essere

di lunghezza compresa fra le 25.000 e le 35.000 battute (note, riferimenti bibliografici e spazi inclusi).

I contributi compresi nella sezione “Ricerche” dovranno essere di lun-ghezza compresa fra le 15.000 e le 25.000 battute (note, riferimenti bibliogra-fici e spazi inclusi)

Tutti i contributi dovranno essere accompagnati da un abstract in lingua in-glese di non più di 150 parole e da 5 parole chiave (entrambi esclusi dal nume-ro di battute precedentemente indicato). Se l’articolo concerne una ricerca, l’ab-stract deve menzionare: a) il background teorico; b) il metodo; c) i risultati; d) le conclusioni. Nell’abstract devono venire indicati gli aspetti più importanti che evidenziano la direzione in cui vanno i risultati.La prima pagina del contributo, non numerata e separata dal resto del testo, conterrà il titolo dell’articolo, il nome dell’Autore, la sua affiliazione, l’indirizzo postale e l’indirizzo e-mail per la cor-rispondenza.

Stile e preparazione del paper:

I paper dovranno essere aderenti alle norme redazionali indicate di seguito, i riferimenti bibliografici all’interno del testo e per la bibliogra-fia finale devono seguire il sistema di citazioni APA Style (disponibile all’indirizzo: http://www.anpad.org.br/bar/bar-guia-apa.pdf).

Sono previsti tre tipi di carattere: normale, corsivo, grassetto (detto anche neretto). Il corsivo va usato per le parole in lingua straniera di uso non comune e anche per evidenziare parole o frasi brevi dando loro una particolare enfasi. Per dare maggiore risalto a parole o frasi, e anche per citazioni non letterali, è preferibile usare le virgolette inglesi (“virgolette inglesi”), mentre le citazioni esatte vanno tra virgolette caporali («virgolette caporali»). Per le parti virgolet-tate all’interno di una frase essa stessa tra virgolette, si possono usare le virgo-lette dell’altro tipo oppure gli apostrofi: le citazioni esatte o letterali vanno tra virgolette caporali (come in «citazione esatta»), e se sono lunghe più di 5 righe si deve andare a capo e saltare una riga sia all’inizio sia alla fine della citazione (in sede di stampa queste citazioni più lunghe verranno in corpo minore, ed è bene che lo siano anche nella versione originale); le citazioni non letterali e le parole a cui si vuole dare un particolare risalto vanno tra virgolette inglesi (come in “citazione non letterale”, oppure “parola enfatizzata”). Se all’interno

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di una citazione si vuole saltarne una parte, è bene indicarla con tre puntini tra parentesi (...). Si ripete che le citazioni che sono tra virgolette caporali devono essere esatte, e devono terminare con i riferimenti delle pagine tra parentesi (ad esempio: pp. 73-74) qualora non siano già state specificate prima.

Layout pagina: superiore: 3; inferiore: 3,5; sinistro: 4; destro: 4; Intesta-zione: 2; Piè di pagina: 2.

Titolo: Times New Roman 16, corsivoNome autore/i:Times New Roman 11, corsivoNome autore/i e affiliazione: Times New Roman 11 (Università/Ente/

Organizzazione - Nome completo, Città, Paese, numero di telefono, e-mail )Abstract in Inglese: Times New Roman 10 (max 150 parole)Keywords: max 5, Times New Roman 10 (in ordine di rilevanza)Testo: Times New Roman 11. Testo spaziatura singola; impiegare il cor-

sivo solo per sottolineare (eccetto con indirizzi URL );Titolo paragrafo (livello uno): Times New Roman 11, nerettoTitolo paragrafo (livello due): Times New Roman 11, corsivo.Testo in Tabelle: La tabella sarà impostata in 8 o 9, times, testatina in

alto: corsivo, con filetto nero sopra e sotto (vedi esempio). Le didascalie devono essere impostate in times, corpo 9 corsivo, allineato. a sinistra.

Esempio di tabella

Tab. 2. - Titolo tabella...

Maschi Femmine TotaleAbcdef 48,1 44,1 46,1Ghilm 44,7 44,3 44,5Nopqr 7,2 11,6 9,4Totale 100,0 100,0 100,0N 1153 1208 2361

Illustrazioni, figure, immagini, tavole: tutte le illustrazioni, figure, im-magini e tavole devono essere inserite nel punto appropriato del testo e non alla fine. È raccomandato l’invio separato anche dei file con le figure e i dati necessari per creare ogni figura.

Note a piè di pagina: Times New Roman 9

Anonimità per la Peer-review:

Ogni paper inviato alla rivista Esperienze Sociali-ES saranno sottoposti a double-blind peer reviewing. Gli autori dovranno rendere anonimo il paper

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eliminando tutte le informazioni che possono consentire la loro identificazio-ne. I punti chiave da seguire sono i seguenti:

Rimuove il nome e la struttura di affiliazione da sotto il titolo del paper Deve essere usata la terza persona quando si fa riferimento a un lavoro

precedente dell’autore/i, per esempio sostituire una frase “come abbiamo spiegato altrove” con “è stato spiegato altrove” (Anonimo, 2014)

Le figure non devo contenere nomi dell’autore/i e/o delle affiliazioniI paper pubblicati dall’autore/i nel testo devono essere citati: (Anonimo,

2014)Nella bibliografia di riferimento omettere le pubblicazioni dell’autore/i

indicando il riferimento con: “(Anonimo, 2014), dettaglio è omesso per la double-blind reviewing”

I riferimenti alle fonti di finanziamento devono essere omessiI ringraziamenti non dovranno essere inclusi I nomi e le proprietà dei documenti dovranno essere controllati per ga-

rantire l’anonimato.

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Esperienze SocialiCostruire società sostenibili

A cura di Giuseppe Mannino

ISSN 0423-4014Chiuso in redazione il 01/12/2017

Stampato il 30/03/2018