anno 15 dicembre 2005 - macondo.it · Ivo, Grande Valentina, Gravier Olivier, ... no verso il mare...

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60 anno 15 dicembre 2005 MADRUGADA Lo scandalo del contraddirmi, dell'essere con te e contro di te; con te nel cuore, in luce, contro te nelle buie viscere. Solo l’amare, solo il conoscere conta, non l’aver amato, non l’aver conosciuto. Dà angoscia il vivere di un consumato amore. L’anima non cresce più. Mi aspettava nel sole della vuota piazzetta l'amico, come incerto... Ah che cieca fretta nei miei passi, che cieca la mia corsa leggera. Il lume del mattino fu lume della sera: subito me ne avvidi. rivista trimestrale dell'associazione per l'incontro e la comunicazione tra i popoli

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d i c e m b r e 2 0 0 5

MADRUGADA

Lo scandalo del contraddirmi , del l ' e s sere

con te e contro di te ; con te nel cuore ,

in luce , contro te nel le buie v i scere .

Solo l ’amare , so lo i l conoscere

conta, non l ’aver amato,

non l ’aver conosciuto . Dà angoscia

i l v ivere di un consumato

amore . L ’anima non cresce p iù .

Mi aspet tava nel so le del la vuota piazze t ta

l 'amico, come incer to . . . Ah che c ieca f re t ta

nei miei pass i , che c ieca la mia corsa leggera.

I l lume del matt ino fu lume del la sera:

subi to me ne avvidi .

r i v i s t a t r i m e s t r a l e d e l l ' a s s o c i a z i o n e p e r l ' i n c o n t r o e l a c o m u n i c a z i o n e t r a i p o p o l i

direttore editorialeGiuseppe Stoppiglia

direttore responsabileFrancesco Monini

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collaboratoriMario Bertin

Alessandro BresolinEgidio CardiniFulvio CorteseSara DeganelloGiovanni Realdi

progetto graficoAndrea Bordin

stampaGrafiche Fantinato

Romano d’Ezzelino (Vi)

Stampato in 2.500 copie

Chiuso in tipografia

il 5 dicembre 2005

Registrazione del Tribunale di Bassano n. 4889 del 19.12.90La redazione si riserva di modificare e abbreviare i testi originali.

Studi, servizi e articoli di “Madrugada” possono essere riprodotti,purché ne siano citati la fonte e l’autore.

MADRUGADA60

a n n o 1 5d i c e m b r e 2 0 0 5

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SOMMARIO

3 controluceLa felicità, esperienza o idea?la redazione

4 controcorrenteL’io vagabondo, l’altro giramondodi Giuseppe Stoppiglia

7 dentro il guscioLa felicità di-speratadi Mario Bertin

10 felicità / 1Gli idoli della felicitàdi Franco Riva

12 felicità / 2Dio, irruzione, alterità e felicitàdi Carmine Di Sante

14 felicità / 3L’essenza della felicitàdi Yarona Pinhas

16 felicità / 3Un dono di Diodi Hamza R. Piccardo

17 il piccolo principeLisbona, umanamente timidadi Egidio Cardini

19 pianoterraBuongiorno tristezzadi Giovanni Realdi

21 itinerariIl caso Silone: tra revisionismo e pregiudiziodi Alessandro Bresolin

24 diario minimoL’età dell’innocenzadi Francesco Monini

26 luoghiAscoltare la voce dell’uomodietro gli steccati del sacrodi Sara Deganello

28 notizieMacondo e dintornidi Gaetano Farinelli

31 redazionaleUn po bludi effe emme

Hanno scritto fino ad oggi su Madrugada:Alberton Diego, Ales Bello Angela, Allegretti Umberto, Allievi Stefano, Alunni IstitutoAlberghiero Abano Terme, Alves Dos Santos Valdira, Amado Jorge, Amoroso Bruno,Anonimo peruviano, Anonimo, Antonello Ortensio, Antoniazzi Sandro, Arsie PaoloPelanda, Arveda Gianfranco, B.D., Balasuriya Tissa, Baldini Marco, Barcellona Pietro,Battistini Piero, Bayuku Peter Konteh, Bellemo Cristina, Benacchio Stefano, Benedetto daSillico, Berrini Alberto, Bertin Mario, Bertizzolo Valeria, Berton Roberto, Bianchin Saul,Bonfanti Vittorio, Bordignon Alberto, Borsetti Corrado, Boschetto Benito, Boselli Ilaria,Braido Jayr, Brandalise Adone, Bresolin Alessandro, Brighi Cecilia, Brunetta Mariangela,Callegaro Fulvia, Camparmò Armida, Canciani Domenico, Cardini Egidio, CarlosRoberto, Casagrande Maurizio, Castegnaro Alessandro, Castellan Gianni, CavadiAugusto, Cavaglion Alberto, Cavalieri Giuseppe, Cavalieri Massimo, Ceccato Pierina,Cescon Renato, Chieregatti Arrigo, Chierici Maurizio, Ciaramelli Fabio, ColagrossiRoberto, Collard Gambiez Michel e Colette, Colli Carlo, Corradini Luca, Correia Nelma,Cortese Antonio, Cortese Fulvio, Crimi Marco, Crosta Mario, Crosti Massimo, CucchiniChiara, Curi Umberto, Dalla Gassa Marcello, Dantas Socorro, De Antoni Luca, DeBenedetti Paolo, Della Chiesa Roberto, De Lourdes Almeida Leal Fernanda, De MarchiAlessandro, De Silva Denisia, De Vidi Arnaldo, Deganello Sara, Del Gaudio Michele,Della Queva Bruno, Demarchi Enzo, Di Felice Massimo, Di Nucci Betty, Di SanteCarmine, Di Sapio Anna, Dos Santos Isabel Aparecida, Elayyan Ziad, Eunice Fatima,Eusebi Gigi, Fabiani Barbara, Fantini Francesco, Farinelli Gaetano, Ferreira MariaNazareth, Figueredo Ailton José, Filippa Marcella, Fiorese Pier Egidio, Fogli Luigi,Fongaro Claudio e Lorenza, Franzetti Marzia, Furlan Loretta, Gaiani Alberto, GalieniStefano, Gandini Andrea, Garbagnoli Viviana, Garcia Marco Aurelio, Gasparini Giovanni,Gattoni Mara, Gianesin Roberta, Giorgioni Luigi, Gomez de Souza Luiz Alberto, GrandeIvo, Grande Valentina, Gravier Olivier, Grisi Velôso Thelma Maria, Gruppo di Lugano,Guglielmini Adriano, Gurisatti Paolo, Hoyet Marie-José, Jabbar Adel, Kupchan Charles A.,Lanzi Giuseppe, Lazzaretto Marco, Lazzaretto Monica, Lazzarin Antonino, LazzariniMora Mosé, Lima Paulo, Liming Song, Lizzola Ivo, Locatelli Lorenzo, Lupi Michela,Manghi Bruno, Marchesin Maurizio, Marchi Giuseppe e Giliana, Margini Luigia, MariniDaniele, Masina Ettore, Masserdotti Franco, Mastropaolo Alfio, Matti Giacomo, MedeirosJ.S. Salvino, Meloni Maurizio, Mendoza Kuauhkoatl Miguel Angel, Menghi Alberto,Mianzoukouta Albert, Miguel Pedro Francisco, Milan Mariangela, Milani Annalisa,Minozzi Mirca, Miola Carmelo, Missoni Eduardo, Monini Francesco, Monini Giovanni,Montevecchi Silvia, Morelli Pippo, Morgagni Enzo, Morosinotto Tomas, Mosconi Luis,Murador Piera, Naso Paolo, Ortu Maurizio, P.R., Pagos Michele, Parenti Fabio Massimo,Pase Andrea, Pedrazzini Chiara, Pedrazzini Gianni, Pegoraro Tiziano, Pellegrino Mauro,Peruzzo Dilvo, Peruzzo Krohling Janaina, Peruzzo Krohling Cicília, Petrella Riccardo,Peyretti Enrico, Peyrot Bruna, Piccardo Hamza R., Pinhas Yarona, Pinto Lúcio Flávio,Plastotecnica S.p.A., Priano Gianni, Ramaro Gianni, Ramos Valdecir Estacio, RealdiGiovanni, Reggio Stefano, Ribani Valeria, Rigon Alberto Maria, Ripamonti Ennio, RivaFranco, Rossetto Giorgio, Rossi Achille, Ruffato Monica, Ruiz Samuel, Sansone Angelica,Santacà Antonella, Santarelli Elvezio, Santiago Jorge, Santori Cristiano, Sartori Michele,Sarzo Paola, Sbai Zhor, Scandurra Enzo, Scotton Giuseppe, Sella Adriano, Sena Edilberto,Senese Salvatore, Serato Stefano, Simoneschi Giovanni, Sonda Diego Baldo, SpinelliSandro, Stanzione Gabriella, Stivanello Antonio, Stoppiglia Giuseppe, Stoppiglia Maria,Stradi Paola, Tagliapietra Gianni, Tanzarella Sergio, Tessari Leonida, Tesini Mario, TomasinPaolo, Tonini Giorgio, Tonucci Paolo, Tosi Giuseppe, Touadi Jean Leonard, TrevisanRenato, Turcotte François, Turrini Enrico, Vulterini Stefania, Zambrano Maria, ZanettiLorenzo, Zaniol Angelo, Zanovello Ivano.

copertinaversi di Pier Paolo PasoliniLe ceneri di Gramsci, 1957

immaginiLuca Gavagna

un po blu - Tresigallo Festival 2005

Vi informiamo che, a seguito del riconoscimentoquale ONLUS, il nuovo numero

di conto corrente postale è 67673061intestato ad Associazione Macondo Onlus

La felicità, esperienza o idea?Scorrendo le pagine di Madrugada

Se non è naturale, è certamente vitale andare con-trocorrente, come a novembre le anguille, che van-no verso il mare dei Sargassi a riprodursi, o forse fug-gono dalla palude invasa dalle anatre che portano ilmorbo.

C’è sempre un secondo senso nelle parole, che sileggono da destra a manca e da sinistra a destra. Del-la parola umana scrive Giuseppe Stoppiglia in L’iovagabondo, l’altro giramondo. Trovarsi nella relazio-ne, che riprende tracce di scrittura sul pensiero uni-co, sulle sopraffazioni del mercato e lo schiaccia-mento della persona sotto il peso del consumo.

Quel che segue è una cosa simpatica, una strennadi natale, che ricevi alla vigilia. Delle varie stradeverso la felicità racconta il monografico.

Apre il sentiero Mario Bertin in La felicità di-spera-ta, perché la felicità è un’esperienza, non un con-cetto, è uno stato di grazia, ma non è permanente;nutre il desiderio, ma non si confonde con la ten-sione verso qualcosa che non si ha, nutre la speran-za, ma la rifugge, vive il presente con amore comese fosse eterno.

Apre secondo calle Franco Rivacon Gli idoli della felicità, perchésul mercato sono tanti a vendereuna felicità facile per tutti, chechiede silenzio e assuefazione,ma che poi restringe le maglie. Lafelicità non è un premio; la feli-cità si cerca, come la libertà, la li-berazione, la si incontra soprat-tutto sul volto ferito dell’altro.

Apre la terza dimensione Car-mine Di Sante con Dio, irruzione,alterità e felicità, che tenta di sco-prire il mistero, il codice della fe-licità. La felicità è il frutto di un’a-simmetria (ancora una parola dif-ficile, come difficile è che uno diaqualcosa in cambio di niente: que-sta è asimmetria) che richiede unarisposta asimmetrica (se uno tichiede la tunica dagli anche ilmantello; e io con che rimango?Appunto); perché il dono ricevu-to da Dio (o dalla vita comunque)richiede una corrispondenza atti-va, non rituale.

Si apre a questo punto una fi-nestra, un orizzonte nella scrittu-

ra, di Yarona Pinhas, ebrea, che legge L’essenza del-la felicità nella Torà, e di Hamza Piccardo, musul-mano, che legge la felicità tramite il Corano, due pro-spettive di ricerca, occhi che scrutano nelle scrittu-re la saggezza.

Quando le anguille arrivano in prossimità del ma-re bevono l’acqua salata (come son diversi i gusti delmondo) e cadono nelle vasche in entrata libera e lìrestano catturate. Poi arriva il vallante, le raccogliedal lavoriero e depone quelle grandi nelle bolaghe,quelle minute libere verso il mare.

Anch’io pesco un poco, fingendo di andare a ca-so. Cardini Egidio scrive da Lisbona. Lisbona è unaddio e un arrivederci, è la città dei garofani rossi perAlvaro Cunhal e per Sant’Antonio, è la città del can-to, una città triste, ma appassionata, romantica; hasposato il vento che ti manda lontano e ti riporta acasa.

Il teleosteo serpentiforme abbinato a Giovanni Real-di che fatica a distinguere il gorgoglio della caffet-tiere dal saluto mattutino della preside in sostituzio-ne e ricambia con il suo Buongiorno tristezza le sca-

ramucce malcelate della scuola.Alessandro Bresolin fa una lun-

ga intervista a Tamburrano su Ilcaso Silone: tra revisionismo e pre-giudizio, per rivelare questa figu-ra di uomo e di scrittore, rivelareper togliere il velo che lo offusca,ri-velare, per rimettere il velo chelo difenda dalle ingiurie degli uo-mini.

Sara Deganello ci propone diAscoltare la voce dell’uomo die-tro gli steccati del sacro. Echi distorie dal Brasile, una riflessionepositiva sul rapporto tra religionee vita quotidiana.

Preso per la coda, mi scivola via,si perde nel fondo e si adagia sulpavimento viscido del lavoriero,il nero serpentiforme del diario mi-nimo del nostro direttore, France-sco Monini, autore pure del com-mento alle foto di Luca Gavagnasul Tresigallo festival, precedutoda Macondo e dintorni del Vostropescatore sempre presente.

La redazione

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c o n t r o l u c e

Dopo l’asina di Baal, il cane

Un gruppo di sufi disse all’amato mae-stro: «Vorremmo onorare il maestroche ti ha formato così egregiamentecon una lapide. Chi fu?». Rispose: «Ilmio maestro fu un cane». E tra la me-raviglia generale proseguì: «Un gior-no vidi un cane assetato avvicinarsi auna pozza d’acqua. Ma vedendo nel-l’acqua limpida la propria immagineriflessa, scappò via spaventato, te-mendo che fosse un altro cane. Piùcresceva la sete, più tentava di avvi-cinarsi all’acqua, ma sempre l’imma-gine riflessa lo spaventava. Alla fine sidecise: tuffò la testa nell’acqua, l’im-magine sparì e bevve. Allora capii chefino a quando avessi avuto davanti ame stesso il mio “io”, mai sarei giun-to a capire Dio» (Gabriele Mandel,Saggezza islamica, ed. Paoline. Unaraccolta di quadretti di vita spirituale,legati al mondo dei sufi, i mistici mu-sulmani, espressi in arabo, persiano eturco).

Dal loro patrimonio di sapienza e di

fede su Dio, sull’uomo, sulla sapien-za, sull’onestà, sull’amore, sulla retti-tudine, sull’ascesi e sulla contempla-zione, si possono estrarre perle distraordinaria purezza che servirebbe-ro a smentire l’immagine di un islamintegralista e fanatico. Il respiro di que-sti racconti è, infatti, ecumenico, se-reno, intenso e pacato. La profonditàè la qualità che trasfigura la quotidia-nità, il mistero santifica ed esalta ognirealtà, riuscendo persino a trasforma-re un cane in un maestro di ascesi.

La via del cuore

Il padre di Mardocheo - il futuro ce-lebre rabbi di Lechowitz - si lamenta-va della pigrizia del figlio nello stu-dio. In città giunse un rabbino. Il pa-dre gli condusse Mardocheo perchélo correggesse. Il rabbino volle rima-nere solo col ragazzo, lo strinse al cuo-re e se lo tenne a lungo affettuosa-mente vicino. Quando il padre ritornò,il rabbino gli disse: «Ho fatto a Mar-

L’io vagabondo, l ’altro giramondoTrovarsi nella relazione

di Giuseppe Stoppiglia

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c o n t r o c o r r e n t e

«Cercavo il mio “io” e non

riuscivo a trovarlo;

cercai allora Dio, ma sembrava

che mi sfuggisse.

Cercai allora l’altro e trovai l’altro,

Dio e me stesso».

[Saggio orientale]

docheo un po’ di morale; d’ora in poila costanza non gli mancherà». Quan-do, ormai adulto e famoso, Mardo-cheo, divenuto rabbi di Lechowitz,raccontava questo episodio, diceva:«Ho imparato allora come si conver-tono gli uomini» (episodio tratto dal-la narrazione dei Chassidim, gli ebreimistici dell’Europa centrale, raccoltada Martin Buber). La correzione sen-za amore è sterile. La ribellione spes-so nasce nei figli non per mancanzadi cure, di benessere, di doni, ma perassenza di vicinanza, di ascolto, di af-fetto profondo.

La nostra vita, apparentemente, tra-scorre tranquilla: una brioche calda,le telefonate agli amici, un momentodi pausa, il caffè a metà mattina, il ru-more del traffico, i ricordi di quandosi era bambini. Sentire che fuori pio-ve, annusare l’aria umida dell’autun-no, sentirsi capiti, amare una perso-na, innamorarsi di un film, comprar-si un libro, regalare un mazzo di fio-ri, l’odore della torta di mele che cuo-ce nel forno.

Intanto intorno a noi crescono mu-ri, non solo rappresentati da ideolo-gie inumane, ma muri concreti, fattidi acciaio e cemento, come quelloodioso che sta sorgendo in Palestina.Eppure tutta la comunità internazio-nale, che ha salutato con gioia la ca-duta del muro di Berlino, oggi nonprotesta, e non protesta neppure peri numerosi immigrati che muoionocercando di passare il confine, sia es-so italiano, spagnolo o turco.

Possiamo dire, amaramente, che lacaduta del muro tra est e ovest, harafforzato il muro del razzismo e del-l’indifferenza, tra il nord e il sud delmondo?

Uno sguardo dentro la società

La società non sembra più inserita inuna dimensione di ricerca della libertào della giustizia, della convivenza pa-cifica o dei valori scoperti nel grandedisegno democratico. Tutto è cancel-lato. Siamo chiamati a partecipare adun grande spettacolo, alla grande fie-ra della tecnica, a soddisfarci il piùpossibile.

Le persone non sono invitate a sce-gliere, a riflettere su certi valori, su cer-te conquiste, su come cambiare il mon-do, ma a pensare che così si sta bene.

Il cammino verso l’infinito, che pri-ma aveva come contenuto la ricerca

della perfezione dell’uomo, ora è tra-sportato sul piano della produzioneinfinita. Un cammino il più materia-lista che si possa immaginare.

L’obiettivo principale del “pensierounico” è impedire a ogni forma alter-nativa di farsi strada, di concepire ilmondo. Il suo modo di funzionare èuna tecnologia del consenso sociale(sondaggi, campagne d’opinione,marketing, statistiche, ecc.). Il merca-to, questo essere sordo, cieco e mu-to, domina la situazione, trascinan-doci da un progetto politico che ciconsentiva di pensare sul passato e sulfuturo, al nulla.

La globalizzazione dell’economia èin buona sostanza la privatizzazionedel mondo e un mondo privatizzatonon solo crea disuguaglianze enormi,ma anche disperazione solitaria. Nonc’è più un interlocutore “pubblico”,ma una banda privata che governa die-tro la finzione di una bandiera nazio-nale.

I precetti del consumo soffocano lapartecipazione e distruggono la re-sponsabilità e, quando diminuisce lavita interiore, cambia la qualità inter-na di una comunità, cambiano i rap-porti, si esaltano le espressioni ester-ne della vita. Tutto diventa immagine,la priorità è consegnata all’apparire.

Per superare una politicadella forza

Possiamo dire quindi che la politica èfinita? Che è finita la ricerca di una so-cietà più giusta e di una partecipa-zione cosciente del popolo?

Evidentemente no, ma la politica inquesti tempi ha bisogno di elaborareun nuovo modo di pensare. Sta ripro-ducendo, ormai senza controllo, il ma-le da cui dovrebbe proteggerci: di-sordine, violenza, paura. Sono impo-stazioni patologiche, sono il deliriodell’egoismo umano. Per un nuovomodello di vita pubblica occorre unarigorosa critica della potenza, una ri-nuncia consapevole al mito della for-za.

Sta esaurendosi il significato profon-do di quella che veniva chiamata lapolitica dei moderni, quel vero e pro-prio “paradigma”, fondato sull’ideache dall’uso monopolistico del male- la forza concentrata nelle mani delsovrano - possa derivare un bene col-lettivo: la sicurezza, la pace, l’ordinesociale.

Per ritrovare la politica perduta sarànecessaria un’operazione simile a quel-la che la teologia contemporanea hacompiuto con Hans Jonas, nei con-fronti dell’idea di Dio dopo Auschwitz:una sorta di “abbassamento”, una ri-nuncia all’enfasi sui mezzi di poten-za.

Addirittura, una critica esplicita del-la categoria stessa di potenza (fontedei mali più che strumento delle so-luzioni), a favore invece di logiche “al-tre”: cooperative, connettive, relazio-nali.

Una domanda sul futuro

«Giuseppe - è la domanda accoratadi un giovane insegnante di filosofia -come si può far capire ai giovani chele fregature peggiori non sono le man-cate realizzazioni delle utopie, ma larinuncia anticipata a immaginare uto-pie, che poi per i giovani vuol dire im-maginare quel futuro che li riguarda,da cui non possono assentarsi, e tut-to questo in una scuola disastrata, co-me quella italiana, che affida l’educa-zione alla buona volontà di alcuni in-segnanti?».

Rabbrividisco. Fermo il pensiero, sca-vo nell’anima, cerco una risposta, chefatica ad arrivare. So, però, che nonservono prediche, scomuniche, la-menti, ma servono lealtà e umiltà, co-me sempre nei processi educativi.

Chi e che cosa può impedire oggi aigiovani di immaginare nuove utopie?

Il filosofo e psicanalista argentino.Miguel Benasayag, con un’intuizioneintelligente, afferma: «Oggi le crisi deigiovani - e questa è la novità - avven-gono in una società essa stessa in cri-si. Che succede allora quando la crisinon è più l’eccezione alla regola, maè essa stessa la regola della nostra so-cietà?».

Credo proprio che della disillusionedei giovani siamo responsabili noiadulti, che, aderendo incondiziona-tamente al “sano realismo” del pen-siero unico, incapace di volare unaspanna oltre il business, il profitto el’interesse individuale, abbiamo ab-bandonato ogni vincolo di solidarietà,ogni pietà per chi sta peggio di noi,ogni legame affettivo che fuoriescadallo stretto ambito familiare.

Il sociale è considerato un ostacolo,una scoria patetica, il cui costo è cau-sa di regresso e di crisi, anche se poi,come dice Umberto Galimberti, «an-

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c o n t r o c o r r e n t e

diamo ipocritamente predicando i di-ritti dell’uomo con un’enfasi che tra-scura di intervenire concretamente sul-la fame, la sete e le malattie dei dise-redati… Il comportamento e l’indiffe-renza di noi adulti, contrabbandataper impotenza, minacciano di far ap-parire come “naturali” quelle stratifi-cazioni massicce di sofferenza, che in-vece sono l’effetto del nostro egoismocollettivo, che ci tiene lontani dalla giu-stizia e quindi dalla buona coscienza.

Tutto ciò, inevitabilmente lo tra-smettiamo ai nostri ragazzi, che nonleggono in noi nessuna tensione idea-le, nessuna visione utopica che sap-pia guardare il futuro ai di là della sem-plice sistemazione dei figli… quasi nonfosse loro interesse diventare adulti e,invece di inserirsi, dare un nuovo vol-to alla società».

Una risposta nella relazione io-tu

La gioventù avrà sempre bisogno diguide, ma la direzione vera è quelladi trasmettere la capacità di leggeregli avvenimenti e farli occasione di li-bertà, stimolando a cogliere negli av-venimenti stessi l’offerta che racchiu-dono.

Come si insegna questo? Non si in-segna, si comunica. «Venite e vede-te», dice Gesù. Chi con la propria vi-ta fa vedere che sa andare incontro al-l’avvenimento con ottimismo e con lasperanza di uno che attende da tem-po qualcosa, e prima di tutto la libe-razione, costui è veramente una gui-da per la gioventù.

La parola umana che passa tra noi,dall’uno all’altro, non è un semplicestrumento per passare delle informa-zioni, meno che mai per comandare,per manovrare o utilizzare l’altro. Laparola umana qualifica l’umanità. Laparola vale, se umanizza gli uni e glialtri.

«Lo Spirito non è nell’Io, ma tra l’Ioe il Tu» - dice Martin Buber. Lo spaziotra l’io e il tu è il luogo dell’incontro,dell’uscita dalla solitudine, dell’acco-glienza che salva dal nulla, della re-ciproca realizzazione e valorizzazio-ne. Lì anche il soffrire è possibile conuna prospettiva, lì sperimentiamo lamaggior gioia possibile. Lì è ogni ve-rità umana e ogni più grande verità.

«Dio è nell’incontro di due sguardi,Dio è un bacio» diceva il monaco Be-nedetto Calati. E chi non crede in Dio,sa che nella comunicazione vera, che

è il reciproco riconoscimento, c’è lanostra verità. Dunque il problema diuna comunicazione etica e giusta è ilproblema della verità. Non si tratta diuna verità somma e ultima, a cui ten-diamo come orizzonte del cammino,ma della verità minima indispensabi-le, che è il dire la verità.

L’educazione del cuore

L’uomo non pensa solo con la testa,con la ragione, ma pensa con la suasensibilità, con il suo corpo, che è laparte più importante dell’uomo. Lacondizione predominante dei giova-ni, non tutti naturalmente, sembra og-gi essere quella di un’insufficiente edu-cazione emotiva. Dove i gesti non di-ventano stili di vita, le azioni si esau-riscono nei gesti. Non è stato inse-gnato loro come mettere in contattoil cuore con la mente, la mente con ilcomportamento e il comportamentocon il riverbero emotivo che gli even-ti del mondo incidono su di loro.Quando la tempesta emotiva si ab-batte sul loro cuore, ormai arido per-ché poco irrigato, tutto si complica,una specie di macigno comprime lavita emotiva, impedendole di entrarein sintonia col mondo. Quelle con-nessioni che fanno di una persona unuomo o una donna non si costitui-scono e perciò nascono biografie ca-paci di gesti tra loro così slegati da nonessere percepiti neppure come propri.Da qui il sorgere di quella solitudine,che li rende cinici e disfattisti.

U. Galimberti aggiunge: «I figli, co-me gli animali, sentono quando c’è lapaura dei genitori, e, quando non c’è,sentono il loro sostanziale disinteres-se emotivo. Soli da piccoli, affidati al-la televisioni o alle prestazioni delle

baby sitter, questi figli del benessere edella razionalità, crescono da primacon un cuore tumultuoso che invocaattenzione emotiva, poi, quando que-st’attenzione non arriva, giocano d’an-ticipo la delusione e il cinismo, per di-fendersi da una risposta d’amore chesospettano non arriverà mai».

La società consumistica per conser-varsi ha bisogno che l’uomo sia solo.Ha paura dell’amicizia, delle riunio-ni. L’uomo, per poter essere docile eobbediente alle esigenze di mercato,ha bisogno di non pensare, di non ri-flettere, di non ragionare con gli altri,quindi di vivere e di essere solo.

Ritorno, per concludere, alla do-manda intelligente, anche se accora-ta, del giovane amico, insegnante difilosofia. Quando si vive e si cammi-na a fianco dei giovani occorre esse-re coraggiosi e, soprattutto, positivi.Saper ascoltare in silenzio, evitandola tentazione facile di dare buoni con-sigli. Loro sanno individuare imme-diatamente chi li ama.

Questo nostro mondo per loro è trop-po inaridito e insensibile, troppo “ma-terializzato” e malato, aspettano per-ciò accoglienza e, soprattutto, tene-rezza. Senza illusioni e senza speran-ze, che sono le prerogative dell’etàgiovanile, prende dimora in loro quelpresente disincantato che non guardané avanti, né indietro, ma semplice-mente si trattiene in quella prudenzache spesso i genitori scambiano persaggezza, ed invece è semplicemen-te paura, neppure riconosciuta cometale, perché appena si affaccia, è su-bito ricacciata nel sottosuolo delle lo-ro anime.

Pove del Grappa, novembre 2005

Giuseppe Stoppiglia

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c o n t r o c o r r e n t e

L’esperienza della felicità

Vivere all’uomo non basta. L’uomovuole vivere pienamente. Vivere pie-namente vuol dire vivere felici. La fe-licità, secondo Leopardi, «non è chela perfezione, il compimento e il pro-prio stato della vita». L’esistenza nonci appare degna d’essere vissuta senon diventa il luogo e il tempo dellafelicità. Secondo Kant, rinunciare al-la felicità sarebbe come rinunciare avivere. E tuttavia la natura in sé felicesi mostra spesso con il volto di matri-gna e l’uomo, in cui il sentimento vi-tale è maggiore che negli altri esseriviventi, ci appare di questi il più infe-lice. Come è possibile ciò se la feli-cità coincide con la vita vissuta al suolivello più alto o più profondo (la stra-da in salita e la strada in discesa sonola stessa cosa)?

Agli uomini, comunque, capita diessere felici. Essi dunque sanno in checosa consiste la felicità. «Quel cheignorano o comunque risulta pocochiaro - sottolinea Aldo Natoli - è la

ragione del loro sentirsi felici». La felicità è ciò per cui viviamo, ma

non sappiamo definirla. Ci sentiamofelici, ma non sappiamo dire il perché.

Se analizziamo l’esperienza che ab-biamo della felicità, ci accorgiamo perprima cosa che essa è un accadimen-to, di cui, nella migliore delle ipote-si, noi possiamo determinare soltan-to le condizioni. Qualora andiamo piùin fondo, scopriamo, però, che nonc’è alcuna connessione causale traqueste condizioni e la condizione del-la felicità. Non è raro infatti che ciòche rende felice Caio renda infeliceSempronio. Per esempio, la solitudi-ne che può rendere felice il primo puòangosciare il secondo. La felicità nonha regole. Non la si può prescrivere.Ad essa non porta alcuna strada pre-disegnata. È uno stato di grazia. La fe-licità dunque è un’esperienza perso-nale, particolare e momentanea, ac-compagnata da uno stato di specialeben-essere che l’uomo può desidera-re, ma non può decidere di procurar-si con il proprio sforzo.

La felicità di-sperata

di Mario Bertin

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d e n t r o i l g u s c i o

Noi non riusciamo a definire la fe-licità perché non riusciamo a defini-re l’oggetto del nostro desiderio, del-la forza propulsiva che muove la no-stra vita, che - in qualche modo - fatutt’uno con essa. Ed è per questo chesovente parliamo di felicità al negati-vo, come di ciò che ci aiuta a dimen-ticare la nostra infelicità, a distrarci, aevadere dal vuoto, dalla noia, dallatristezza che caratterizzano la nostraesistenza. E così finiamo per colloca-re la felicità nel divertimento e nel-l’eccesso del piacere (droga, alcool,sesso…) che hanno il potere di far di-menticare la nostra infelicità.

Desiderio e speranza: la filosofia e la religione

Filosofia e religione fin dall’antichitàhanno posto la felicità nella piena sod-disfazione di ogni desiderio umano,in una vita virtuosa e saggia accom-pagnata dalla gioia, dalla soddisfa-zione, dal ben-essere. Secondo la fi-losofia e la religione antica, la felicitàè la somma di un elemento oggettivo(la «fortuna» cui mira il desiderio uma-no) e di un elemento soggettivo (la per-cezione della soddisfazione nel godi-mento della «fortuna»).

In particolare, secondo gli epicurei,l’equilibrio tra il dato oggettivo e quel-lo soggettivo è tanto fragile e mo-mentaneo da consigliare di desidera-re solo quello che dipende da noi, al-trimenti cadremmo inevitabilmentenell’infelicità. La felicità insomma sa-rebbe solo nelle nostre mani.

Non dello stesso parere è Aristotele,per il quale la felicità viene anche daciò che non dipende da noi, come adesempio dalla buona salute.

Partendo dal presupposto che la fe-licità risiede nella soddisfazione di tut-ti i nostri desideri, Kant conclude cheessa quaggiù è irraggiungibile. L’uo-mo avrà sempre dei desideri insoddi-sfatti e dunque non sarà mai (piena-mente) felice. La felicità dunque è unideale, ma non della ragione. È unideale dell’immaginazione.

Se la felicità è la ragione ultima del-la vita umana e se essa non è rag-giungibile su questa terra, allora bi-sogna credere in un Dio e in una vitadopo la morte, come tempo e luogodel compimento del nostro desiderio.Altrimenti dovremmo concludere chel’uomo non può raggiungere il suo fi-ne naturale.

È solo la religione dunque che offreall’uomo la speranza di essere felice.Questa conclusione condanna l’uo-mo all’infelicità perché pone la feli-cità fuori della sua portata. O, meglio,la pone fuori del tempo e dello spa-zio della sua vita, in un tempo e inuno spazio che può attingere soltan-to attraverso la speranza. Ma esserefelici di una felicità solo sperata vor-rebbe dire essere felici d’essere infe-lici. E se la felicità è sinonimo di vitapiena, vuol dire che siamo condan-nati a non vivere mai pienamente. Scri-ve Pascal nei Pensieri: «In questo mo-do noi non viviamo mai, noi speria-mo soltanto di vivere. Disponendocisempre ad essere felici, è inevitabileche non lo siamo mai». È il concetto

che, in parole più semplici, esprimeuna canzoncina che cantavano i no-stri vecchi nel Veneto e che diceva co-sì:

Se spera che i sassidiventa panetiperché i poaretili possa magnar

Se spera che l’acquadiventa sciampagnaperché no i se lagnade sto giubilar

Se spera sperandoche vegnarà l’orade andar in maloraper più non sperar.

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d e n t r o i l g u s c i o

Intrappolato da un desiderio sempreinsoddisfatto, l’uomo cerca di supe-rare l’impasse o attraverso il diverti-mento, la distrazione o attraverso lasperanza. Ma tutte due le soluzioni sirivelano soltanto delle fughe perché ildesiderio è desiderio nella misura incui si desidera ciò che non si ha. Manel momento in cui l’uomo raggiun-ge quello che desidera, si accorge checiò non lo rende felice. «Ci sono duecatastrofi nell’esistenza - diceva Gor-ge Bernard Shaw: la prima è quandoi nostri desideri non vengono soddi-sfatti, la seconda è quando lo sono».O come esclamava Qohelet: «Vanitàdelle vanità, tutto è vanità».

Sembrerebbe, dunque, che quaggiùla felicità non sia possibile e che pos-siamo invece aspirare a piccole gioiepasseggere. Abbiamo attraversato tut-ti momenti in cui non esisteva alcunaragione di tristezza, in cui tutto sem-brava andare per il meglio, e in cuiciò nonostante ci sentivamo sprofon-dati in un baratro di malinconia. Ma,d’altra parte, della felicità, intesa co-me pienezza, come espansione del-l’essere, noi abbiamo l’esperienza.

È davvero difficilmente comprensi-bile il cuore dell’uomo, così spesso inbalia di forze contrastanti. Doman-diamoci dunque che cosa renda pos-sibile la felicità nella vita terrena del-l’uomo.

Rinunciare a una felicitàpermanente

Per essere felici su questa terra - scri-ve André Comte-Sponville, che seguiròin queste riflessioni conclusive - biso-gna innanzitutto rinunciare a una fe-licità permanente, perché non si puòessere felici per le cose passate e perquelle ancora a venire. Bisogna sot-trarre la felicità al desiderio di ciò checi manca, di ciò che non abbiamo, operché lo abbiamo già avuto o perchénon l’abbiamo ancora. Bisogna sot-trarla alla speranza. Bisogna sottrarrela felicità al tempo.

Questo non vuol dire contrastare oreprimere il nostro desiderio, perchéesso fa parte dell’essenza della nostraumanità, della nostra carne e del no-stro spirito. Si tratta invece di vivere ildesiderio diversamente da quanto abi-tualmente facciamo: non dobbiamodesiderare ciò che non abbiamo, madobbiamo desiderare quello che ab-biamo.

Collocare il desiderio nel presentevuol dire viverlo come «potenza»,come energia vitale. Desiderare ciòche non si ha è speranza. Desidera-re ciò che si ha è amore. Desiderareciò che si ha è il sentimento che pro-vano due amanti nell’amplesso. Lafelicità, gli amanti non la pongononel desiderio in qualcosa che nonhanno, perché, nel momento in cuisi amano, hanno tutto quello che de-siderano, ma nel desiderio della per-manenza del presente, pur immersoin una durata. La felicità vera pos-siede questa dimensione che è la di-mensione di eternità, intesa non co-me durata indefinita, ma come per-manenza nel presente, la quale è an-che dimensione di verità.

La felicità è «gioia del desiderio inatto». Più che trasformare il desiderioin piacere, la felicità è la capacità digioire dello stesso desiderio. La feli-cità non è altro che «l’amore realiz-zato del desiderio che resta desiderio»ha scritto il poeta francese René Char.

La felicità non è vera felicità se vie-ne riposta nel desiderio di ciò che man-ca e, dunque, nella speranza. La feli-cità non può essere che di-sperata, ecioè liberata dalla speranza. Essa sgor-ga da un presente vissuto in tutta lasua pienezza. In esso, passato e futu-ro si dissolvono. In esso è quiete e ilmassimo del movimento. È, insomma,l’eternità qui ed ora.

Mario Bertin

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d e n t r o i l g u s c i o

Il paese di Bengodi

Il vissuto della felicità sembra oggiconsegnato a due esperienze contra-stanti che, con una relativa disinvol-tura, si contrappongono e si concilia-no tra di loro: senza che la contrap-posizione sia radicale, senza che laconciliazione sia definitiva. Nel lorocontrapporsi e nel loro conciliarsi dicontinuo, entrambi impossibili fino infondo, le due esperienze della felicitàannunciano una falsità molteplice, ri-dondante, il cui primo segnale è l’in-differenza - sempre solo apparente -con cui sembra si accetti normalmente,nei modi di dire e di vivere, il lorocontrasto. Con questo, il vissuto dop-pio e conflittuale della felicità chiamain causa molto più di se stesso. Coin-volge infatti stili collettivi di esisten-za, culture, immagini mentali così ef-fimere e tuttavia così radicate nellecoscienze individuali. Idoli.

Le due esperienze contrastanti dellafelicità si colgono perfino negli slogancomuni, che circolano spesso insiemecon una reciproca indifferenza: da unaparte espressioni del tipo “non ti man-ca nulla”, che rinviano ad una societàoccidentale e felice, opulenta e con-sumista; e da un’altra parte gli sballidel sabato sera, i supermercati del di-vertimento, le ferie comandate e cosìvia, che suggeriscono invece l’idea chela felicità si trovi in un tempo e in unluogo molto precisi.

“Non ti manca nulla” e lo “sballo delsabato sera” sono diventati degli slo-gan comuni dove si condensano, co-me negli antichi proverbi, le esperienzedella felicità: stanno sulla bocca di tut-ti - come modi di dire, come espres-sioni comuni del nostro riconoscerci,come linguaggio dei media - e stannoanche sulla bocca di ciascuno. «Nonti manca nulla» lo dice la mamma difronte ad un volto triste, per lei in-comprensibile, lo dice un amico chetenta di consolarti per il tuo senso di

inspiegabile insoddisfazione. Lo “sbal-lo del sabato sera” o la gita al parcodivertimenti di turno, dove rilassarsiun po’, lo diciamo tra noi, tra amici,facendo progetti per il fine settimanao per le vacanze, e investendo quelluogo e quel tempo speciali, davverounici, mirabolanti, di tutta la nostrapossibile felicità, di tutta la nostra au-tenticità. Lo “sballo del sabato sera” lodicono in molti nei progetti alternati-vi di tempi e luoghi diversi rispetto al-la fatica quotidiana del lavoro.

Si vive con una relativa indifferenzaquesto dato contrastante, spesso sen-za neppure la percezione di un attri-to, dove la felicità di volta in volta èo dappertutto (in fondo, davvero nonci manca nulla) oppure è solo in unsuo spazio/tempo molto, molto riser-vato ed esclusivo.

Felicità al supermercato

Nelle due esperienze contrastanti del-la felicità, si depositano una serie dimotivi contrapposti, che non si con-trappongono fino in fondo, di motivisimili, che non arrivano mai a identi-ficarsi. Dietro a un «non ti manca nul-la» sta l’idea che la felicità sia diffu-sa, comune e partecipata (da tutti operlomeno dal maggior numero pos-sibile), e che non ci siano un luogo eun tempo precisi che la riguardano.La felicità è a disposizione, e si iden-tifica esattamente con le promesse col-lettive della società in cui si vive. Lacittà è felice.

Lo “sballo del sabato sera” dice tut-to il contrario: la felicità è concentra-ta, è privata ed esclusiva (gli “amici”),si trova in luoghi e tempi particolari,speciali. La felicità, in definitiva, sa-rebbe riservata a tempi, luoghi, per-sone particolari.

I motivi contrapposti sembrano com-pensati, a prima vista, da motivi simi-li, che avvicinano le due diverse espe-

Gli idoli della felicità

di Franco Riva

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rienze della felicità. Più in profondo,però, le differenze rimangono. Il gio-co alternato dei motivi simili e dei mo-tivi contrapposti, che non sono in ve-rità fino in fondo né l’uno né l’altro,si replica di continuo, e sono tutte do-mande - ancestrali - sulla felicità: sulsuo luogo e sul suo tempo, sulla suapossibile estensione, sulla sua parte-cipazione. Ne basta uno.

Il luogo e il tempo della felicità, purdiversi nelle due esperienze del «nonti manca nulla» e dello “sballo del sa-bato sera”, sembrano anche apparte-nere ad un sistema che li rende soli-dali, armonizzandoli. Il luogo infatti,e a ben vedere, è lo stesso. Tra un su-permercato e Disneyland (o una di-scoteca, o un villaggio turistico) nonpassa molta differenza: pur con unamaggiore intensità, la logica in defi-nitiva è la stessa. Anche il tempo sem-bra lo stesso: quel tempo riservato - ilsabato sera o le ferie estive - rientra inun’unica organizzazione del tempo,ora occupato e sofferente con moltialtri, ora libero e felice con le perso-ne scelte.

Il contrasto però rimane, perché trail luogo e il tempo normali della feli-cità, e il luogo e il tempo speciali, siostina una frattura a cui non serve qual-che colla mentale. Come conciliaredavvero il luogo di lavoro e la gita congli amici? Il tempo solito, indaffaratoe affannoso, con il tempo libero - tem-po della felicità?

L’infelicità non esiste

Come a Venezia, dove tutto è nellostesso tempo vero e falso, anche leesperienze contrastanti della felicitàsi depositano in affermazioni false, oin falsità vere. Se tutte due le cose so-

no vere insieme - vale a dire, che lafelicità sia tanto diffusa ovunque quan-to concentrata in luoghi-tempi spe-ciali -, insieme sono anche false: fal-so che la felicità sia diffusa, falso chela felicità sia concentrata.

Per la felicità succede qualcosa disimile alla rimozione della contrad-dizione che trapela, come un tic ner-voso, in certe espressioni pacifica-mente accettate ma di per sé assurde,del tipo: “prima accoglienza” o “bom-ba pulita” o “guerra chirurgica”. Perla felicità si dice ad esempio: «la feli-cità maggiore possibile», il “male mi-nore”, i «sacrifici per la felicità». Que-ste espressioni non sono innocenti,perché portano con sé il contrasto fin-to e vero. La rimozione della con-traddizione si incarna in comporta-menti, messaggi pubblicitari, sloganpubblici, che presentano diverse ca-ratteristiche. Una di queste, in parti-colare, rivela qualcosa: se quanto cidiciamo tutti i giorni intorno alla feli-cità è insieme vero e falso, nessunacritica sarà più possibile, chiusi nellagabbia mentale del doppio “sì” che èanche un doppio “no”.

La nostra felicità diventa così indi-scutibile, appiattita com’è - a secon-da dei casi - sulla realtà (siamo felici,non ci manca nulla) o sul sogno (maallontanato da noi come i fumi acridell’oppio). In un caso e nell’altro lafelicità non incide, non rompe, nonsmuove nulla e il risultato è che l’in-felicità non esiste. Senza possibilità dicritica, l’infelicità non si vede più.

I segnali che l’infelicità non deve esi-stere sono molti, e tra i più interessantitroviamo quelli che riguardano la città.La città sembra sempre più non ac-corgersi della sua infelicità. La vio-lenza, il gesto disperato, paiono sem-pre inaspettati, come se non avessero

ragioni o venissero da altri luoghi e daaltre storie. Da altre culture. Inattesa,la sofferenza della città viene ancheproiettata fuori, contro i nemici di tur-no spesso costruiti come i burattini perla recita scolastica. La città conosce,infatti, le paure, ma non le insegnanonulla circa se stessa, e le usa come ar-mi potenti per distrarre da quel che sicela al suo interno.

La felicità e la promessa

La felicità contiene una domanda didiversità, meglio, di alterità. Non è unmodo di essere, ma un accorgersi del-l’altro. Per questo, non c’è felicità sen-za rapporto con l’infelicità, senza unadenuncia. La felicità si rifiuta di esse-re troppo identificata: non nell’eterno(ha a che fare con la vita, con l’ora)né nell’attimo (a cui non si riduce),non nella chirurgia della contempla-zione (è sensuale) né in un’azione ac-celerata, intensificata (è più invasiva,più penetrante), non nella solitudinebeata (altro modo della fuga) né nelbranco (anche quello allargato dellecomunità), che rischia sempre di crea-re illusioni di felicità al suo interno eguerre della felicità al suo esterno.Esportazioni della felicità.

La felicità assomiglia forse alla li-bertà: non alla libertà di scelta che in-chioda ad opzioni spesso artefatte, al-lo scaffale di un supermercato, ma al-la libertà di poter essere liberi. Nellestagioni della felicità si sono alterna-te varie idee: la felicità come ricerca(il saggio e la quiete), come premio (lafelicità dopo), come diritto (la felicitàora, e garantita per legge…). Forse lafelicità non è nulla di tutto questo, mauna liberazione.

La felicità ha la figura di una promessache non facciamo a noi stessi, perchéporta con sé il segno di altro, il segnodell’altro. L’altro non è un diversivo mauna novità che irrompe rivolta all’infe-licità che ci riguarda, e che è illusorioraggiungere in qualche privata sicu-rezza. Perché la felicità ha il segno del-l’altro, mai perciò dove sono io con mestesso, noi con noi stessi: sorpresa diun incontro che incontra. Di una pro-messa che mi è fatta, scritta al contra-rio sul volto ferito dell’altro.

Franco Rivadocente universitario

università cattolica, Milano, facoltà di lettere e filosofia

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Dio è alterità. Ma noi non incontria-mo l’“alterità” di Dio per strada o inchiesa. La incontriamo nelle alteritàdel prossimo, nel volto dell’altro e de-gli altri. Lévinas dice che «l’alterità diDio si iscrive nel volto dell’altro», vol-to da intendere non esteticamente maeticamente. È il volto come “volto fe-rito”, per riprendere il termine di Fran-co Riva. “Volto ferito” vuol dire so-prattutto due cose: “il volto in quan-to nudità” (il volto è l’unica parte delcorpo che non si può coprire) e il vol-to in quanto “appello”, in quanto “in-vocazione” alla vicinanza, alla soli-darietà. Volto, nudità, miseria, soffe-renza, invocazione e comandamentocostituiscono, per Lévinas, un’unicarealtà.

Per Lévinas c’è un legame costitu-tivo tra l’irruzione dell’alterità - nelvolto di chi ci accade di incontrare,nel volto di ogni prossimo - e la feli-cità.

Siamo ricercatori della Verità

Ma cosa vuol dire irruzione? Che Dio,in quanto alterità, non fa parte né deinostri desideri né dei nostri progetti eche egli non dipende da noi e dallanostra ricerca. L’irruzione dice la prio-rità di Dio sulla nostra volontà e de-siderio. Da questo punto di vista nonsi può non essere d’accordo con il fi-losofo Vitiello il quale afferma che, piùche ricercatori della verità, noi siamoabitatori della verità. Compito del-l’uomo non è cercarla ma scoprirla,togliendo il velo che la cela ai nostriocchi.

Dio come alterità che irrompe vuoldire soprattutto tre cose. La prima: ilsuo introdursi, nel senso di entraredentro un ordine già dato o costitui-to, come il ladro che si introduce dinotte in un mondo non suo ma di unaltro.

Il secondo significato è che ciò che

entra all’improvviso in un ordine giàdato, lo scompiglia, mettendolo a soq-quadro e modificandolo. Irrompendo,Dio entra nei nostri mondi - i mondidei nostri progetti e desideri - e li scom-pagina dischiudendo un al di là o ol-tre dei nostri progetti e desideri. Il di-scorso dello “scompiglio” richiamaquello della sofferenza, che della fe-licità è apparentemente la negazione,e dello scompiglio una delle figureprincipali. Ma più radicale ancora del-la sofferenza, è l’alterità del volto, l’al-terità per eccellenza che irrompe escompiglia.

Il terzo significato è che l’ordine in-franto, messo a soqquadro, è condi-zione di possibilità per l’istituzione diun nuovo ordine: quello della grazia,del gratuito o della gratuità.

Gratuità è il termine più bello del-la bibbia e vuol dire relazione d’a-more data gratis, relazione asimme-trica, relazione d’amore che non ob-bedisce alla logica dell’economico,dello scambio, del do ut des. La bib-bia è kerigma, cioè annuncio, di unaduplice gratuità. Innanzitutto in quan-to l’io ne è l’oggetto o il destinatario.C’è un versetto bellissimo di Isaia chedice: «Non temere, io ti ho chiamatoper nome: tu mi appartieni, tu sei pre-zioso ai miei occhi perché sei degnodi stima e io ti amo». Come pure c’èquella pagina straordinaria di Gesùche nel vangelo di Matteo invita a con-templare i gigli dei campi e gli uccel-li dell’aria, dove viene messa in sce-na la gratuità che precede e avvolgel’io e che, per ognuno, deve diventa-re il metron del proprio amare, pen-sare e agire.

La gratuità donata

Ma la gratuità donata non può nontrasformarsi in gratuità attiva. QuelDio che ama gratuitamente e che re-gala tutto gratis (dai fiumi agli ocea-

Dio, irruzione, alterità e felicità

di Carmine Di Sante

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ni, alle galassie) chiama l’io a fare lostesso. Questa è la gratuità attiva dicui l’io non è più oggetto ma sogget-to, per cui tutto ciò che è fatto all’io,l’io a sua volta è chiamato a rifarlo alprimo prossimo che gli accade di in-contrare. Questo movimento viene for-mulato nel discorso sulla montagna,in quel versetto dove, dopo aver det-to: «Guardate il vostro Padre che è neicieli e che fa sorgere il sole sui buonie sui cattivi», Gesù conclude: «Siateanche voi perfetti come il vostro Pa-dre che è nei cieli». Non dice: «Con-template quanto è bello l’amore gra-tuito del Padre», ma «Siate perfetti co-me il vostro Padre celeste».

Il soggetto consapevole che tutto ègrazia, è il soggetto riconoscente.

Non solo nel senso che acquisisceuna nuova conoscenza, per cui eglifinalmente sa che alla logica del pos-sedere va sostituita quella del riceve-re; non solo neppure nel senso che,poiché tutto è grazia, il suo saperlo sitrasforma in grazie e per questo, conuna formula di Heidegger, il suodenken si fa danken, il suo pensare unringraziare; ma soprattutto nel sensoche il suo nuovo pensare e il suo rin-graziare non si potranno non incar-

nare in un agire gratis, come quellodel Padre celeste che fa sorgere il so-le sui buoni e sui cattivi.

Il soggetto che, nel suo agire, si ispi-ra a Dio, per la Bibbia è il soggettogiusto.

Il segreto della felicità

Qui si inscrive, per la bibbia, il se-greto della felicità: che fiorisce dal-la giustizia e dalla misericordia. Fe-licità paradossale che non affonda lesue radici nella cura del proprio ioma nella cura dell’altro, non nellapropria autorealizzazione e rivendi-cazione dei propri diritti, ma nellapromozione dei bisogni e dei diritti- per ricorrere al linguaggio profeti-co - dello straniero, del povero, del-l’orfano, della vedova e dello stessonemico!

C’è una massima del Talmud che di-ce che il mondo si regge su tre pila-stri: sulla Parola - la Parola di Dio -,sulla giustizia e sulle opere di miseri-cordia. Tre pilastri: la Parola di Dio isti-tuisce la giustizia e la giustizia si espri-me nelle opere di misericordia. La giu-stizia è conformità ad una misura e

questa misura, per la bibbia, è l’agiregratuito e misericordioso di Dio, l’a-gire del Padre celeste. Giusto è ciò ecolui che è conforme all’agire di unDio che, nel Primo Testamento, è ilDio che ascolta il gemito di Israele op-presso e ne asciuga le lacrime e, nelNuovo Testamento, il Dio che muoresu una croce continuando ad amarechi lo rinnega e nega.

In un’altra massima talmudica silegge: «L’uomo che mangia è il piùgiusto degli uomini». Massima para-dossale, perché, se fosse vera, noiche mangiamo più del necessario do-vremmo essere più che felici! Cosavuol dire allora questa massima? Pro-viamo a spiegarla in questo modo:l’uomo che mangia e che mangian-do è consapevole che il pane gli èdonato da Dio (dacci oggi il nostropane quotidiano) e che, se è dona-to, lo ridona condividendolo e sfa-mando chi ha fame, è l’uomo piùgiusto.

E se giusto, anche il più felice. Per-ché la felicità fiorisce, per la bibbia,dalla giustizia e dalla misericordia.

Carmine Di Santeteologo e biblista

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Uno dei principi del pensiero ebrai-co è che Di-o desidera la felicità e ilbenessere delle sue creature, non so-lo, ma tutto quanto fu creato per il pia-cere e la gioia dell’uomo. Questo è lostato dell’Eden (paradiso), che in ebrai-co significa piacere, delizia. La primaparola nel libro della Genesi bereshìt,in principio, può essere letta come betosher, cioè “la casa della felicità”. Ilgiardino dell’Eden simboleggia lo sta-to di armonia tra forze opposte e con-trastanti, tra “i cieli e la terra”. Dal ter-mine osher, felicità, derivano le se-guenti parole: yashar, dritto, diritto,rettificato, onesto e ishur, conferma,shir, canto. Infatti, nell’Eden l’uomoviveva in contatto diretto con il suoCreatore e con la natura, com’è scrit-

to: «Affidati al Signore con tutto il cuo-re, e non appoggiarti soltanto alla tuaintelligenza; in tutti i tuoi passi pensaa Lui, ed egli appianerà i tuoi sentie-ri» (Proverbi 3:5-6).

Il paradiso nella testa

Quindi, chi è l’uomo felice? Colui chevive in uno stato di integrità e veritàcon se stesso e l’ambiente, colui chesi sente degno di approvazione, evi-tando di cercare l’assenso degli altrialle proprie scelte. Tutto questo pro-cesso avviene nella testa; infatti, ana-grammando le lettere di osher, otte-niamo rosh, testa. Il paradiso e l’in-ferno dell’uomo hanno sede nella sua

L’essenza della felicitàScritture a confronto: la Bibbia

di Yarona Pinhas

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«Nel giorno della felicità

sii allegro

e nel giorno della sventura rifletti,

tanto l’uno quanto l’altro

li ha fatti Dio,

affinché l’uomo non scopra nulla

di quello che sarà dopo di lui».

[Ecclesiaste 7:14]

testa: fino a che livello i pensieri pro-ducono vita o, contrariamente, im-magini fervide e distorte della realtà,origine della sofferenza umana? Finoa che punto siamo a «Sua immaginee somiglianza» (Genesi 1:27) o cer-chiamo di imporre agli altri la nostraimmagine così com’è stata imposta anoi dai genitori, dalla società, dal com-pagno di vita, o da altri? Lo stato dirottura con l’immagine divina, fontedi berakhà, benedizione, avvenutoquando «il serpente, il più astuto fratutti gli animali» ha inserito il dubbioe un’immagine distorta della parola:«Di-o vi ha proprio detto: “Non man-giate di nessun albero del giardino?”»(Ibid. 3:1). L’uomo, per libero arbitrio,scelse di seguire la parola sviante delserpente e di conseguenza perse la ret-ta via e fu cacciato dall’Eden. Solo al-lora, per la prima volta, appaiono neltesto biblico le seguenti parole: soffe-renza e tristezza, desiderio e dominio,fatica e sudore, spine e pruni.

In che consiste allora il peccato? Nel-l’aver causato un “danno” e uno squi-librio nella creazione che hanno in-trodotto la tristezza e la povertà, cau-sa di ogni male, poiché «dove non c’èfarina, non c’è Torà» (Abot 3:21). Quan-do manca la giustizia (tzedakà) so-

ciale e la sussistenza materiale, lo spi-rito non è libero per istruirsi e per go-dere dell’abbondanza divina che cicirconda. Ogni essere umano si sen-te pienamente vivo quando è fertile,produttivo e prospero, quando il suopotenziale si rende manifesto, quan-do gode i frutti del proprio lavoro,quando rende contento l’altro, quan-do partecipa alla gioia di altri.

«Chi è ricco? Chi si contenta dellapropria parte; com’è detto: Quandomangi della fatica delle tue mani, fe-lice tu sarai, in questo mondo, e saraibenedetto nel mondo a venire» (Abot4:2).

La cosa importante è la moderazio-ne e la giusta misura in ogni cosa: evi-tare gli eccessi ma anche l’astinenza,fare buon uso dei beni che Di-o ha ri-servato per l’umanità entro i limiti in-trodotti dalla Legge.

L’aspirazione dell’Eden

Nell’uomo è rimasta la nostalgia dellostato di completezza e benessere del-l’Eden e, infatti, una cosa accomunatutta l’umanità in tutte le generazioni:la volontà di essere felici e accettati. Eallora perché siamo così infelici? For-

se perché cerchiamo la felicità nel-l’immagine e non nel contenuto. Ogniessere umano ha il suo proprio lin-guaggio della felicità, ciò che rende fe-lice uno non fa gioire l’altro; e non so-lo, ciò che ci rende soddisfatti in un de-terminato momento potrebbe essere lacausa di un malessere futuro.

La felicità condizionata ci rende sem-pre più sofferenti: «Quando terminerògli studi, sarò felice... quando troveròlavoro... quando mi sposerò... quan-do nascerà il figlio, quando sarò ric-co...». Quindi, parafrasando una fra-se dei saggi: «La felicità che dipendeda qualcosa viene annullata se la co-sa viene a mancare; quella che da nul-la dipende non s’annulla mai». Ci sia-mo distaccati dalla gioia della vita ori-ginaria, del nostro essere bambini, al-legri per natura, che ritengono soddi-sfatti i propri desideri.

Non esiste l’uomo che non aspiri al-la felicità e tutte le nostre azioni sonofinalizzate a questa, varia solo la mo-dalità: chi la cerca nell’abbondanzamateriale e chi nello spirito, chi nel-l’appagamento immediato degli istin-ti e chi nell’arduo lavoro sulla propriapersona, riconoscendo e ringrazian-do per ciò che si è, per ciò che si ha.

«La Shekhinà (la presenza divina)

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non splende in mezzo alla vanità, al-la tristezza, allo scherno, alla legge-rezza o alla futile ciarla, sibbene inmezzo alla gioia del dovere religio-so» (Pesachìm, 117a).

Alla presenza del Santo

La gioia ci unisce all’altro, la tristez-za ci separa e ci isola, perciò: «Nonv’ha tristezza in presenza del Santobenedetto; com’è detto: “Forza e gioiasono nel suo luogo”» (Chaghigà, 5b).

L’uomo non è stato cacciato dall’E-den, ma è l’uomo che ha cacciato l’E-den dal suo mondo perché ha persodi vista l’albero della vita, la via delcuore, e si è concentrato sull’alberodella conoscenza del bene e del ma-le.

Felice è colui le cui azioni terrestrisono in “nome del cielo” perché inquesto modo ripristina il paradiso interra. Beato è colui che in ogni suaazione è accompagnato dal profumodel giardino dell’Eden.

Il profumo è una miscela di essen-ze odorose opportunamente dosate,ma anche manifestazione delicata egradevole di una condizione spiri-tuale: ogni uomo ha la sua miscelad’arte nel preparare e cospargere diprofumo la propria persona. Il profu-mo è un vapore così come lo spirito,come la felicità, come quel «vaporeumido che saliva dalla terra e bagna-va tutta la superficie del suolo» nel-l’Eden (Genesi 2:6). Se nella primaparola della Genesi il termine “feli-cità” è velato, contrariamente, nel li-bro dei Salmi, il libro di lode e di in-vocazione a Di-o, viene cantato daifedeli: «Felicità all’uomo che non suo-le procedere secondo il consiglio deimalvagi, né fermarsi nella strada deipeccatori, ma che invece si compia-ce dell’insegnamento del Signore esulla Sua legge medita giorno e not-te. Egli è come un albero piantato lun-go ruscelli d’acqua, che dà il propriofrutto a suo tempo e il fogliame delquale non appassisce» (Salmi 1:1-3).

Canta colui che si sente integro e li-bero, colui che ha inteso che “non c’érosa senza spine”.

E sa trasformare i propri “ahi!” e“ohi!” di lamento in melodia.

Yarona Pinhaslaureata in storia dell’arte e linguistica,

università ebraica, Gerusalemme,lettrice all’orientale di Napoli

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Un dono di DioScritture a confronto: il Corano

di Hamza R. Piccardo *

Nella difficoltà/necessità di dare una definizione quanto più sintetica edesauriente del concetto di felicità, i dizionari ne parlano come dello sta-to di chi «avendo soddisfatto una necessità o un desiderio, se ne sentepago e sereno».

Definizione fuorviante, in quanto trascura una caratteristica peculiaredella natura umana, che dalla fugacità della soddisfazione terrena ha trat-to e trae la speranza di un appagamento duraturo, perenne.

Se, infatti, investigassimo sul fondamento di questa ricerca, non po-tremmo non considerare il dato di partenza, e cioè la memoria antica diun tal stato. Iddio disse alle prime creature: «O Adamo abita il Paradisotu e la tua sposa. Saziatevene ovunque a vostro piacere…» (Cor. II,35).

La condizione di assenza di sofferenza determinata dall’appagamentodi ogni desiderio e dalla pacificazione di ogni tensione è quindi una pos-sibilità iscritta nel nostro essere, di cui abbiamo una recondita memoriae ci spinge a ricercarla.

Al contempo, è questa la destinazione finale (i Giardini): «E annunciaa coloro che credono e compiono il bene, che avranno i Giardini in cuiscorrono i ruscelli» (Cor. II, 25); e chi pensasse di accontentarsi dell’ef-fimero di questa vita viene serenamente avvertito: «Ma voi preferite lavita terrena, mentre l’altra è migliore e più duratura» (Cor. 87, 16-17).

Il cammino da compiere è nella fedeltà e nella preghiera, attraverso vi-cende liete e tristi, nell’abbandono fiducioso al Misericordioso: «Vi met-teremo alla prova con la paura e la fame, con la perdita dei beni, dellavita e dei frutti della terra; tu però dà il lieto annuncio della felicità eter-na ai pazienti i quali, quando sono colpiti da una sventura, dicono: “Inverità, a Dio apparteniamo e a Dio ritorniamo”» (Cor. 2, 155-156).

La felicità, quindi, è qualcosa donato da Dio, è una conseguenza delcamminare per la via giusta.

Conosciamo il sapore della felicità nelle esperienze di questa vita, nel-l’essere con gli altri, nell’essere nel mondo, nel rapporto col Misericor-dioso: queste esperienze sono il seme di ciò che fiorirà, si espanderà com-pletamente solo nel Giardino. C’è dunque una continuità tra le esperien-ze di gioia di questa vita e quelle future, ma non una completa identifica-zione: «Ogni volta che sarà loro dato un frutto diranno: “Già ci era statoconcesso!”. Ma è qualcosa di simile che verrà loro dato» (Corano II, 25).

O Dio,ci hai donato e ci doni tutte le gioie della nostra vita.Il sole, la lunae il sorriso di chi amiamo,un cuore capace di battere anche nella nostra incoscienza,occhi che vedono la bellezza e spirito che l’apprezza.«…ma l’Altra vita è migliore…»Non lasciarcelo dimenticare…

[da Luci prima della luce di Hamza R. Piccardo,di prossima pubblicazione]

* Segretario nazionale dell’Unione delle Comunità e Organizzazioni Islamiche in Italia (Ucoii)

Lisbona ha i piedi nel Tejo, la testa nel-l’Oceano e il cuore nel mondo.

In quella posizione non poteva chesortirne una città protesa in avanti, omeglio, all’infuori. Lisbona è davvero

una città di gente che non sa stare inpace con se stessa.

Il fiume che, a pochi chilometri dalmare, si allarga verso l’estuario, sem-bra trascinarla dietro, verso l’infinito,nella direzione di un mondo miste-rioso e da scoprire, lontano lontano.Sembra dirle: «Vieni con me, non sta-re lì». E Lisbona non sa se andare o serestare.

L’immensità dell’Oceano Atlanticosul promontorio di Cascais costringechi arriva a dirigersi verso il mare e aguardare verso l’orizzonte. Non ci siguarda mai indietro. Lo sguardo va ir-resistibilmente in avanti. Il vento pe-renne sembra accarezzare le menti egli spiriti, sembra cantare sommessa-mente una canzone a bassa voce, sem-bra imprimere una melodia lunghis-sima e inspiegabilmente malinconi-ca. A Cascais la terra si arresta per la-sciare spazio all’acqua e a questo ane-lito di infinito e di avventura.

Una città che canta

Sono arrivato a Lisbona con le voci ele storie sui portoghesi ben piantatenelle orecchie e nella testa: storie ditristezza e di “saudade”, rumori di vec-chie navi e di battaglie aspre e san-guinose per conquistare nuovi mon-di. Sono tornato a casa con l’odore diBrasile nelle narici e nelle scarpe.

Camminando per i vicoli di Alfamae della Cidade Alta, ho assaporatoun’atmosfera che non mi sarei maiaspettato. Nelle stradine gli stessi sas-si scuriti e insudiciati dal tempo e dal-la salsedine, nell’aria gli stessi odoriforti e inconfondibili di Rio de Janei-ro, negli occhi le lenzuola stese da unpopolo vivo.

Sarà perché io vedo e sento il Brasi-le ovunque, come un innamorato ve-de la sua donna anche nelle pieghedella notte, ma Lisbona per me è sta-ta una percezione istantanea di anti-

Lisbona, umanamente timida

di Egidio Cardini

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che passioni. È stata soltanto l’altro la-to del ponte, proprio come se un im-maginario lunghissimo ponte attraver-sasse l’Atlantico e si poggiasse sull’in-gresso della Baia de Guanabara, a Rio.

In riva all’Oceano avrei voluto qua-si allungarmi, in una posizione inna-turale di ricerca di qualcosa: un odo-re, un oggetto, una visione. Nessunovedeva il Brasile. Io sì. E con me lo ve-devano i portoghesi quando, testimo-ni della loro storia secolare, anelava-no ai mondi visti, scoperti, toccati equindi ricordàti.

Il popolo portoghese non è propria-mente un insieme di persone tristi, maè un’umanità che non sta bene a ca-sa né altrove. È un popolo che a Li-sbona sogna quello che sta oltre il ma-re e oltre il mare sogna Lisbona. Ol-tre il mare i portoghesi hanno spessotrovato una dimensione che non ave-vano mai realizzato nella loro picco-la e povera terra, ma a Lisbona han-no sempre trovato una casa, una stra-da, un filo a cui appendere la propriabiancheria.

Lisbona è una partenza e un arrivo,è un addio, un arrivederci e un ben-tornato. Il “fado” canta una passionegentile e misurata, fatta necessaria-mente di desideri inespressi e di amo-ri lasciati o mai raggiunti. Però cantaanche le passioni e le gioie degli in-contri inaspettati e dei ritorni attesi permesi o per anni.

Lisbona è una città che canta. «Ave-vo quattro anni e le mie vicine di ca-sa mi dicevano - Amalia, canta! - E iocantavo». Amalia Rodrigues è semprestata la voce inconfondibile di unacittà che canta come una bimba sem-plice e pura e, confidando il suo can-dore infantile, ha rivelato l’anima gen-tile di una città quasi bambina.

Lisbona è una città che aspetta, cheprende il vento sulla faccia, la piog-gia sulla testa e il sole sulla pelle. Li-sbona aspetta senza maledire né gri-dare, senza piangere né ridere, sen-za esclamare. È una città dolce e mi-te, come il suo tempo, mai esagerata-mente caldo e mai troppo freddo. Èuna città paziente.

La rivoluzione con i sognie con la poesia

Lisbona dà vita a un popolo che, nel-la sua storia, ha associato una reli-giosità profonda e semplice a un de-siderio di riscatto in chiave politica

molto forte. Mai però con il sangueche i suoi vicini spagnoli hanno sem-pre fatto scorrere sulla pelle e nellacarne. I portoghesi hanno fatto la ri-voluzione con i sogni e con la poesia.

La stessa rivoluzione dei garofani,inaugurata il 25 aprile 1974, è uno deimiei miti irriducibili e indimenticabi-li. La seguivo da ragazzo, la capivopoco, ma mi ricordo i garofani rossinei fucili dei soldati e nei dispositividi puntamento dei carri armati. Mai ilmondo aveva visto soldati generare ecavalcare una rivoluzione popolare.Casomai era sempre successo il con-trario, con le rivoluzioni soffocate inun bagno di sangue generosamenteprovocato dalle caste militari. A Li-sbona invece il monocolo del Gene-rale Spinola e i pugni chiusi del Co-lonnello Gonçalves, «o companheirocoronel», irrompevano romantica-mente sulla scena di una rivoluzionecantata, quasi danzata, in un univer-so di bandiere rosse che preannun-ciavano un cambiamento che non sa-rebbe mai arrivato.

Ho visto il funerale di Alvaro Cunhal,il fondatore del Partito Comunista Por-toghese. Comunista fino in fondo, ro-manticamente legato ai suoi ideali dirivoluzione del proletariato, Alvaro èmorto come è nato ed è vissuto: sem-pre uguale a se stesso. Me lo ricorda-vo più giovane, con quella capiglia-tura folta, grigia e spettinata, quando,durante i comizi, intonava quegli slo-gan veementi, agitando il pugno chiu-so. Poi l’ho perso e l’ho ritrovato inuna bara che attraversava il centro diLisbona fino al cimitero. Ed era tuttouguale: un viale avvolto in un’unicaimmensa bandiera rossa, pugni che siagitavano e un unico grido: «Alvaro,amigo! O povo està contigo!». La di-chiarazione d’amicizia per un uomocome lui da parte di un popolo ro-mantico e angolato, perso nel fondodell’Europa, era l’espressione di un’o-

stinazione a vivere in un mondo di ro-mantici. Che cosa è più romantico diun fiore? E che cosa è più romanticodi un fiore rosso?

A Lisbona i garofani rossi sono unsimbolo di gentilezza che spunta ovun-que, coprendo bare e statue, infilan-dosi in fucili e cannoni, passando dauna mano all’altra.

Il giorno dopo è morto anche Gonçal-ves, «o companheiro coronel». A meè parso che tutto il Portogallo dei ga-rofani volesse rendermi omaggio.

Il giorno di Sant’Antonio sono statodavanti alla cattedrale cattolica e an-che lì ho incontrato migliaia di uomi-ni, donne e bambini, tutti con un fio-re rosso tra le mani. Il velo nero del-le donne più anziane si mescolava conl’abbigliamento più trasgressivo di mol-te ragazze. Le medagliette della Ma-donna di Fatima sul cuore di questecontadine invecchiate dalla fatica edalle intemperie si intrecciavano congli walkman dei ragazzi. Tutti ad ac-calcarsi con un garofano rosso da in-dirizzare alla statua di Sant’Antonio ea comunicare un affetto e una devo-zione puri e trasparenti.

Il vento di Cascais

Lisbona è un atto di affetto quasi timi-do, è una dichiarazione d’amore ap-pena trattenuta o sussurrata senza chel’altro possa capire. Lisbona non è tri-ste. È soltanto umanamente timida.

Non tornerò a Lisbona. Mi fa trop-po male il suo odore di Brasile, mi fatroppo pensare la sua tenerezza, mifa troppo sognare il suo garbo, mi fatroppo recriminare la sua timidezza.Io sono un uomo che non sa comu-nicare con sfacciataggine i suoi sen-timenti e Lisbona mi assomiglia, ar-rancando su per le colline con le suevecchie funicolari. È sempre una fati-ca, un mondo in salita. Ogni volta èun’impresa improba e dolorosa.

Però il vento di Cascais è stata unadelle cose più belle che io abbia maiavvertito: profondo, inarrestabile, dol-ce. Vale la pena andarci. Chi non hamai ricevuto le tenerezze di una don-na sappia che a Cascais può sognare.Il vento è la cosa più bella che ci sia.

Lisbona ha sposato il vento e questosposo, trasformandosi in una donnaaffettuosa, accarezza dolcemente tut-ti quelli che ci passano.

Egidio Cardini

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Xe tempo

La caffettiera si erge sul piano metal-lico dei fuochi - manca ancora un belpo’ alle sette di mattina - la guardocon l’occhio spento e mi sembra la ci-miniera di una locomotiva a vapore,un treno lanciato verso chi sa dove,comunque verso sud.

Basta il profumo del caffè per abita-re una stanza, scrive Erri De Luca daqualche parte.

Quando esco, la città già si muove.Inesorabile, la meccanica della tra-sformazione del reale si sveglia primadel giorno o forse non è nemmeno an-data a dormire. Siamo sempre tutti co-munisti: abolire lo stato di cose pre-senti. Andare sempre un po’ più in là,gettati fuori, sgusciati un secondo do-po l’altro. Snocciolati.

È sabato e c’è nebbia. Insieme cade- o viene dai lati? - una pioggerellinafine: xe tempo da star casa a far pu-tei, diceva il gelataio veneto che ge-stiva il bar nello studentato degli Era-smus, su nella Ruhr-Gebiet. Per evi-tare il traffico dei padovani isterici miscopro arrivare a scuola sempre pri-ma: l’aula insegnanti è buia, in un an-golo imbronciata solo una collega piùmattiniera di me. Ci salutiamo con ungrugnito, poi mi dedico ad aprire letapparelle, con quel loro antico mec-canismo a manovella. Il lato corto del-la stanza dà sul retro di una casa di ri-poso: molte le tende scostate, le luciaccese. Un brivido mi corre lungo laschiena al pensiero di questi anzianicocciuti, militi del quotidiano, già sve-gli e pronti per una giornata fatta diattese e qualche mela cotta.

Assenze tattiche

Nella mia scuola è in uso una praticainteressante. Si chiama “buongiorno”ed è una sorta di saluto che il coordi-natore organizza il martedì e il gio-

vedì per la sua classe. Al sabato ilbuongiorno diventa globale e alle ot-to e cinque tutti gli studenti delle su-periori sono attesi nel cinema teatro,come precisamente ricordano i car-telli che la preside traccia solerte conpennarelli blu e rossi. Stamattina ilquarto d’ora è affidato alla sua viceche, dopo qualche convenevole, fapresente alla torma che il numero diassenze sta vistosamente aumentan-do e i fogliettini, staccati dai librettipersonali, già intasano gli scompartidell’armadio in vicepresidenza. Si par-la delle cosiddette “assenze tattiche”:nella tecnica di sopravvivenza dellostudente della secondaria superiorelarghe fila del gruppo classe raggiun-gono livelli semiperfetti di organizza-zione telepatica in corrispondenza diprove scritte o interrogazioni, solita-mente di matematica, lingua stranie-ra e, nei casi nevralgici, filosofia. Co-sì il docente si trova la classe tagliatadi uno o anche due terzi dei suoi com-ponenti e rimane immobile attonitoadditando al cielo lontano i fogli fo-tocopiati con la prova.

La firma sotto in basso

Fin qui nulla di nuovo: si tratta ap-punto di un livello avanzato nella sca-la evolutiva della specie discente.

Più interessante la reazione dei ra-gazzi. A parte il malumore bofonchiato,i più tacciono. Ma la vicepreside con-cede la replica e agitatori muovononell’ombra. Dalla quarta A si alza unragazzo alto, faccia non eccessiva-mente furba ma lingua svelta: i suoicompagni lanciano un battimanisguaiato di incoraggiamento, provo-cando reazioni scomposte tra i mem-bri del corpo insegnante (siete dellepecore, gregari!). Prende il microfonoe azzarda una pallida difesa: vera-mente... può capitare qualche assen-za... i prof non devono pensare subi-

Buongiorno tristezzaLa logica del SUV

di Giovanni Realdi

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p i a n o t e r r a

to male... darci fiducia... e via così.Penoso. La vicepreside non può cheprendere atto e accingersi a spediretutti in classe, ma ecco che si alza larappresentante degli studenti, ag-guerrita. Ottiene il microfono e lanciala sfida: se le giustificazioni sono fir-mate dai genitori non potete che ac-cettarle. Punto. Boato di approvazio-ne, i solitamente sonnecchiosi delleultime file si spellano le mani!

Far finta di ragionare

L’assemblea viene sciolta in una ap-parente sospensione del giudizio, mac’è soddisfazione nei volti dei ragaz-zi.

È stato un evidente esempio di quel-la che potremmo chiamare la “Logi-ca del SUV”. I SUV, Sport Utility Vehi-cle, sono quei macchinoni che dila-gano sulle strade cittadine: nati per es-sere impiegati fuori strada, sono di-ventati ormai una sorta di enormi uti-litarie siliconate che ogni casa auto-mobilistica mette a disposizione del-l’eclettismo di uomini eleganti ma an-che country-style, tutti lavoro e golfclub e dell’aggressività nascosta didonne superimpegnate, ma che nonrinunciano ad andare a prendere ibambini all’asilo in centro. Ingom-brano, occupano il posteggio di un’au-to e mezza, forse inquinano di più. Inpratica schiacciano il resto del traffi-co e non è raro coglierli semifermi al-le rotonde, scarafaggi grossi e con po-ca pazienza, a pretendere la strada. Il

SUV è simbolo della carta di creditodi chi lo guida, più ancora di una qual-siasi berlina di lusso: ho i soldi, vadodove mi pare.

Allo stesso modo l’atteggiamento diparte dei ragazzi tradisce questa logi-ca: la penna che firma il libretto del-le giustificazioni è la medesima chefirma il libretto degli assegni. Ed è miopadre ad averla dalla parte del mani-co.

Ma non è una semplice questione didenaro a disposizione, elemento purnon secondario in un sistema che la-scia la scuola pubblica alla sopravvi-venza e costringe la privata, come que-sta, a sbarcare il lunario con difficoltà.È piuttosto l’esibizione di un finto ra-gionamento che ha radici violente: di-scutiamo, se proprio vuoi, ma io par-to da una posizione di superiorità. Va-da come vada, si dica quel che si di-ca, la ragione è dalla mia parte. Siaessa il denaro che permette all’istitu-to di vivere, una posizione di poterenella società locale, il colore della miapelle, la dimensione o la velocità delmio veicolo, l’aver prenotato questoposto a sedere, il volume della mia ra-dio, il diritto alla mia quinta birra. Sitratta di una prova di forza già vinta,perché io non mi pongo sul piano del-le tue preoccupazioni o lamentele. Ioposso stare oltre.

In classe cerco di riprendere il di-scorso, ma con poca convinzione. Gli

occhi che mi guardano e aspettano ilrisultato del compito di storia sono pu-liti e non riesco ad accomodarmi inun realismo da pedagogia pasolinia-na, che pur mi affascina. Ripenso aipazienti esercizi dei miei ingenui com-pagni di liceo, improvvisati monaciamanuensi degli anni ottanta, curvi ariempire pagine di firme del padre del-la madre o di chi ne fa le veci.

Giovanni Realdi

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MacondoONLUS

A seguito del riconoscimento daparte della Regione Veneto, l’As-sociazione Macondo è ora unaONLUS.

Il beneficio immediato per i socie i sostenitori di Macondo è la pos-sibilità di godere di un risparmiofiscale, attraverso la deduzione delcontributo versato, in sede di di-chiarazione dei redditi.

Per godere del beneficio è suffi-ciente eseguire il versamento aMacondo - specificando nella cau-sale “erogazione liberale” - nelseguente modo:

• tramite banca con accredito sulconto corrente bancario le cuicoordinate sono:CIN: NABI: 05418 - Veneto Banca soc.coop. per azioniCAB: 60260 - filiale di Cassola/Bas-sanoC/C 023570065869 - intestato adAssociazione Macondo Onlus

• tramite ufficio postale con ver-samento a favore del nuovo con-to corrente postale di Macondo67673061 (i nostri bollettini ri-portano già le nuove specifiche)

Conservare la ricevuta di versa-mento postale o la contabile di bo-nifico rilasciata dalla banca e pre-sentarla al Caaf o al commercia-lista che compila la Vostra dichia-razione dei redditi.

A quasi un decennio dal 1996, annoin cui apparvero sulla rivista NuovaStoria Contemporanea le tesi di Da-rio Biocca e Mauro Canali, secondocui Ignazio Silone è stato una spia fa-scista, è uscito un nuovo libro, Silone.La doppia vita di un italiano, in cuiviene ribadita l’accusa. Sentendosi de-positari di una certezza documenta-ria inoppugnabile, i due ricercatoriadditano chi mette in discussione leloro teorie come qualcuno che «oltreogni ragionevolezza è pronto a di-fendere a oltranza, come un’icona sa-cra, il ricordo e l’immagine di inte-grità che Silone ha saputo costruire».Sentiamo l’autorevole opinione dellostorico Giuseppe Tamburrano, che nellibro Processo a Silone. La disavven-tura di un povero cristiano, ha dimo-strato come la storia di Silone spia fa-scista non stia in piedi.

Cosa pensa dell’ultimo libro di Bioc-ca, che ci vuole una biografia ag-giornata di Silone?Il retro di copertina lo dipinge come

«un campione della libertà che hacollaborato con la polizia fascista».Ma può essere le due cose insieme?Attribuiscono i documenti a Silonesulla base del teorema «dove arrivalui partono le informative, se ne va ecessano». Ma anche questo loro cri-terio, estremamente discutibile, ditempo e luogo, è crollato, perché ab-biamo dimostrato che da Berlino edalle altre città arrivavano informati-ve prima e dopo il soggiorno di Silo-ne. Nel libro vengono attribuiti a Si-lone tre documenti, che provengonouno dalla Spagna, uno dalla Franciae l’altro dal Belgio. I primi due sonodatati 25 novembre 1923, il terzo 26novembre. Questo in un periodo ditempo che Silone ha trascorso al fre-sco in una prigione di Madrid! Il fat-to fondamentale è che tutti i docu-menti sono anonimi, non riconduci-bili a Silone in alcun modo. Ma inquesto strano paese il concetto è ri-baltato: l’onere della prova spetta al-l’accusato, alla difesa, e se poi la por-ti non ti danno retta.

Il caso Silone: tra revisionismo e pregiudizioIntervista a Giuseppe Tamburrano

di Alessandro Bresolin

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i t i n e r a r i

Da storico, quali errori rimprovera aidue ricercatori?Ricontrollando i documenti ci siamoresi conto che ne era stato fatto unuso distorto. Nel loro primo libro, han-no riportato degli stralci di questi do-cumenti come pervenuti da Berlino eli hanno attribuiti a Silone. Ora nonsostengono più che sono stati scrittia Berlino ma a Genova, sotto detta-tura, davanti al commissario Bellone.Nonostante questa retromarcia, se-condo loro quei documenti sono inop-pugnabilmente di Silone perché si trat-ta della sua calligrafia. Se uno stori-co se trova un documento e lo attri-buisce a qualcuno, normalmente vada un esperto grafologo, loro no. Hochiesto a un pubblico ministero di Ro-ma di indicarmene uno iscritto all’alboe mi ha dato il nome della Pedretti,secondo lui la migliore. Le abbiamochiesto se volesse fare una perizia eha accettato. Il suo lavoro è raccoltoin un corposo volume, pieno di gra-fici e proiezioni, che scagionano Si-lone. Biocca-Canali dicono che è unaperizia di parte, ma perché non fan-no fare una controperizia? Davanti aquesta caterva di prove logiche e al-la contestazione dei documenti ri-mango sgomento. Com’è possibileche continui questa calunnia inven-tata di sana pianta?

Nel suo libro viene smontata la tesiSilone-delatore dell’OVRA non solocon un’accurata ricerca archivistica.Infatti esamino anche le controprovelogiche, che sono tantissime. Silone èstato una spia, poi smette e la polizialo lascia andare? Non esiste, la poli-zia a chi cessava di collaborare riser-vava trattamenti particolari, faceva sa-pere ai comunisti il tradimento e que-sti li giustiziavano. La polizia fascista,a Silone che smette di collaborare econtinua a essere più antifascista diprima, non fa nulla! Assurdo, poichéè risaputo che i suoi romanzi, a par-tire da Fontamara, hanno fatto più ma-le al fascismo di qualsiasi attività clan-destina svolta nel partito. Mussoliniera furibondo, chiedeva all’OVRA (lapolizia segreta fascista) di trovare deifatti su Silone da usare per controbat-tere alla sua campagna antifascista escreditarlo. L’OVRA ha chiesto alla po-lizia di Pescina e L’Aquila se avessefatto cose disdicevoli, se fosse statosciupafemmine o ragazzaccio. Ma co-me, avete le delazioni di Silone, lo po-tete uccidere con un niente! È spia e

non se ne accorge nessuno. Ancoranel 1937 l’OVRA scrive a Mussoliniche Silone, quando è stato arrestato ilfratello, nel ’28, finse di collaborare,tentò, mandando rapporti generici, di-sinteressatamente, per avere il per-messo di mandargli soldi e dolciumi.Ora invece lo vogliono spia almenodal 1919, dicono che ha fatto caderetanti dirigenti comunisti... e non ne èrimasta traccia. Che ha fatto la poli-zia, ha ingannato Mussolini dicendo-gli che fece finta di collaborare? È im-maginabile che il capo della poliziaabbia mentito al duce per proteggereSilone?

Nel suo libro definisce le teorie diBiocca-Canali come un’avvincente“spy-story”, un romanzo lontano dal-la realtà.L’accusa è partita prima della difesa,inondando i giornali di una notiziaenorme che ha fatto il giro del mon-

do, perché Silone è più amato all’e-stero che in Italia. Ne usciva l’imma-gine di un soggetto psichicamente ta-rato, tant’è vero che si è arrivati a par-lare di dr. Jekill e mr. Hyde. Possibileche un uomo che ha fatto quelle bat-taglie, che ha rischiato impegnandotutto se stesso nella lotta contro il fa-scismo, ad un certo momento denun-ci i compagni ai fascisti e collaboricon l’OVRA, rivelandosi, come Bioc-ca-Canali lo hanno definito, «un in-filtrato della polizia ai vertici del PCI»?Secondo la loro teoria, Silone era unagente al quale la polizia ha impostodi entrare nel partito comunista e difarvi carriera per poter diventare la lo-ro spia principale. Ora, non potendoancora rispondere alla domanda “per-ché l’avrebbe fatto”, hanno adombra-to la tesi di un rapporto omosessualetra Silone e Bellone… siamo fuori daciò che rientra in una dimensione uma-na, ma è stato uno scoop gigantesco.

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Recentemente ha lanciato un appel-lo rivendicando la necessità di un giurìd’onore che esamini il caso, per giun-gere a una parola definitiva.Siccome si tratta di una calunnia, seci fosse un parente, questi avrebbe ti-tolo e legittimazione per agire in giu-dizio per diffamazione della memo-ria di un congiunto. Ma Silone nonha parenti a cui i giudici possano ri-conoscere tale diritto, per arrivare auna sentenza. Quando Dreyfuss fucondannato una prima volta all’er-gastolo per spionaggio e mandato al-l’isola del Diavolo, in un secondo pro-cesso la condanna fu attenuata e poiZola ha impugnato la sua penna. Conl’aiuto di una stampa che ha credutoin lui ha fatto una campagna viru-lenta, si è riaperta l’istruttoria, c’è sta-ta una revisione dei processi riuscendoa dimostrare che quel documento nonera stato scritto da Dreyfuss. Fu ria-bilitato, con la restituzione degli ono-

ri e del grado. Ora, se Silone è statoconfidente della polizia, è accertabi-le. Il fatto secondo loro è consacratoin documenti, si tratta di provare seè vero o no. Così, non potendo ri-correre a un giudice, allora facciamoun giurì d’onore, chiediamo a tre per-sone indipendenti, al di sopra di ognisospetto e che non si sono mai pro-nunciate, di leggere i documenti del-l’accusa e quelli della difesa e di da-re un parere.

È una coincidenza che il revisionismoabbia per bersaglio principale queidissidenti di sinistra, scomodi soprat-tutto per la loro autonomia rispettoa partiti e istituzioni?C’è un pregiudizio, in un’ampia cor-rente storiografica, che vuole ridurrela storia d’Italia a uno scontro tra ros-si e neri, verso le posizioni politicheintermedie e la cultura laico-sociali-sta. Il loro scopo e scoop è quello di

rifare la storia che loro ritengono siastata fatta dai vincitori, di rivisitarlaovviamente a partire dalla resistenza.Sono partiti da Bobbio e poi Silone,Salvadori, Matteotti, Sciascia, le po-lemiche sull’azionismo torinese... c’èinsomma una tendenza a delegitti-mare, screditare, dire «non è vero checi sono i padri nobili, tutti hanno del-le macchie». Di questo pregiudizio ilcaso Silone è emblematico, perchéforse era il padre più nobile, il menoinquadrato, il meno allineato, espo-nente di una cultura socialista liber-taria che non ha partiti e organizza-zioni che la difendano. Ma una voltaattaccato questo settore della sinistrache è il più indifeso, il veleno del re-visionismo si diffonde su tutta l’area,con la conseguenza che la gente di-ce: «Sono tutti uguali!».

Lei ha conosciuto personalmente Igna-zio Silone, può farne un ritratto se-condo il ricordo che ne ha?Il Silone vero è complesso. È stato ne-mico di tutti i totalitarismi, comunistaanche perché antifascista, è diventa-to anticomunista difendendo Trotzkydavanti a Stalin. Pervaso da un afflatoumanitario di solidarietà con i più de-boli, nella definizione che dà di sé me-desimo, «socialista senza partito e cri-stiano senza chiesa», c’è tutto Silone.Senza chiesa, e si sa che la chiesa com-batte di più i cristiani senza chiesa chei non-cristiani. Come socialista senzapartito, le sue diagnosi di allora sonostate di straordinaria chiaroveggenzaperché i partiti hanno finito con il bu-rocratizzare, sterilizzare l’idea diven-tando di fondo da cui sono nati, di-ventano apparati di potere. Silone eraun uomo scomodo a tutti, tanto cheun’indagine sul rapporto tra Silone ela polizia fascista fu fatta non solo daTogliatti ma anche dal ministro del-l’Interno, il democristiano Tambroni.Per il suo essere scomodo ha incar-nato il modello dell’intellettuale chenon ha né patria né chiesa né partitoma solo un obbligo-dovere: combat-tere per la verità, per i più deboli e perle cause giuste. Tutti i suoi libri mi so-no cari, ma quello cui sono più lega-to è Uscita di sicurezza. Anch’io dagiovane sono stato comunista, e Silo-ne mi dedicò il libro con queste pa-role: al compagno Tamburrano, pas-sato anch’egli attraverso l’uscita di si-curezza.

Alessandro Bresolin

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«Amo la vita così ferocemente, cosìdisperatamente, che non me ne puòvenire bene: dico i dati fisici della vi-ta, il sole, l’erba, la giovinezza…: e iodivoro, divoro, divoro… Come andràa finire non lo so».

Trent’anni fa la fine predestinata -iscritta nella sua carne e nella sua poe-sia - dell’intellettuale bastardo PierPaolo Pasolini. E fino alla fine, con isuoi scritti corsari sul Corriere dellaSera, aveva scomodato e scontentatotutti: destra, centro e sinistra, chiesacattolica e chiesa comunista, ben-pensanti e sessantottini dell’ultima ora.

Alla fine, come all’inizio, giovanemaestro nel Friuli preindustriale. Mae-stro, poeta, frocio e comunista. Espul-so dalla scuola. Espulso dal partito.

Non so cosa rimane di Pasolini. Delresto, le ricorrenze sono occasioni d’o-ro per non fare i conti col passato. Ilgrande blob post-moderno ha digeri-to tutte le sue provocazioni: «Altri tem-pi… altra storia… altra Italia…».

Io consiglio di rileggere le sue poe-sie. Soprattutto Le ceneri di Gramsci.E ricordo la sua feroce e disperata ri-cerca della innocenza perduta (lascomparsa delle lucciole); la sua ap-passionata ascesi, la sua “passione”,tutta in salita, verso una felicità chenon si fa cogliere.

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In un famoso articolo, Pasolini, da-vanti agli scontri nelle università e nel-le piazze, prendeva le parti dei poli-ziotti celerini contro i capelloni con-testatori del sessantotto nostrano. I pri-mi, figli di operai e di terroni, i se-condi, giovani e viziati rampolli del-la borghesia.

Si prese l’epiteto di fascista. Un’al-tra medaglietta da appendere insiemealle altre sopracitate.

Ma Pasolini non faceva politica. Dimestiere, faceva l’intellettuale. Avevaanche scritto: «Fare bene il proprio

mestiere è già un atto rivoluzionario».E far bene l’intellettuale significava -o significa ancor oggi? - togliere i ve-li, alzare le maschere, porre interro-gativi, riconoscere, o almeno intuire,quello che si muove nel profondo diuna comunità e di una nazione.

C’era però anche una precisa scel-ta di campo. Il campo degli ultimi: idiversi, gli esclusi, i periferici, i bor-gatari, i marginali. Una scelta evan-gelica più che di classe, ché quel ba-stardo anticlericale di Pasolini era an-che appassionato in Cristo.

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Parigi brucia. E io non riesco a nonpensare a Pier Paolo Pasolini.

Parigi brucia. Il popolo dei diseredatiprende d’assalto il cuore d’oro dellametropoli. Dieci parigini stanno in cen-tro: stanno benone, bene, o almenobenino. Dieci quasi-parigini stannonelle sterminate e claustrofobiche pe-riferie dormitorio. Non hanno niente.E niente hanno da perdere.

Dopo dieci notti di disordini, sas-saiole, migliaia di auto bruciate, la po-lizia chiede più poteri. Il presidenteChirac si decide a dar ragione al mi-nistro degli interni, occorre giocarel’ultima carta, il coprifuoco. Come du-rante i disordini per la guerra d’Alge-ria. Come nelle notti dei bombarda-menti degli alleati. Tutti a casa dopoil tramonto. Zitti e muti.

La rivolta, mentre scrivo, sembra de-fluire. Ma d’ora in avanti nessuno po-trà più dormire sonni tranquilli. Arri-verà un’altra onda, e un’altra, e un’al-tra. Fino a quando un’onda perfetta,più alta della Torre Eiffel…

Parigi è il paradigma delle nostre cittàfondate, pensate, costruite, governa-te sul principio della disuguaglianza.È l’immagine attuale dell’antico falli-mento di Babele.

La ricostruzione delle nostre città,ecco una grande opera sulla quale

L’età dell’innocenza

di Francesco Monini

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d i a r i o m i n i m o

puntare. Al suo cospetto, la costru-zione, peraltro scellerata, del pontesullo stretto di Messina, appare comeun modellino fatto di stuzzicadenti.Non basterà una legislatura a com-piere l’opera: non ci sono aziende dapremiare o pacchi di voti da prenota-re. Ma c’è qualche governante, c’èqualche governato, che ha voglia dimettere la prima pietra?

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La prima pietra?Impregilo ha vinto l’appalto del “Pon-

te dei Ponti”. L’opera più inutile, co-stosa, devastante e “muscolare” che lastoria d’Italia abbia mai conosciuto.

Il Cavaliere fiuta l’aria di elezioni eritrova lo smalto perduto del condot-tiero. Ma occorrono fatti concreti. E,in mancanza di quelli, almeno “gestisimbolici”. Per lui è una lotta controil tempo: deve riuscire a porre la pri-ma pietra del ponte (una foto, prego!).E deve farlo almeno una settimana pri-ma delle elezioni politiche di prima-vera.

Aveva fino ad ora ignorato, deriso,sbugiardato, sbaragliato tutti i ba-stiancontrari della sinistra, estrema enon. Era riuscito ad aggiudicare la ga-ra, pur con qualche polemica. Avevaraccomandato, anzi, ordinato di ac-celerare a più non posso. Insomma,tutto sembrava infilarsi per il verso giu-sto: chi poteva fermare un carro ar-mato lanciato a tutta velocità? Gli uc-cellini. Giusto quei maledetti uccelli-ni invocati da Fulco Pratesi davanti al-l’Unione Europea. Gli enormi sban-camenti, necessari per le rampe delponte, l’insieme del colossale manu-fatto, le file di treni e macchine e mer-ci, avrebbero pregiudicato la soprav-vivenza di due aree protette per la tu-tela delle specie rare e in via di estin-zione.

L’Unione Europea ha dato ragionealla Lipu e ha chiesto all’Italia uno stopper valutare l’impatto ambientale.

E se basta qualche uccellino a farsaltare i nervi, e i piani elettorali, diSilvio Berlusconi, qualche speranzapuò cominciare a nutrirla anche l’ar-mata sfilacciata del centrosinistra.

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Quattromilioni e trecentomila eletto-ri alle primarie del centrosinistra. Sisperava di superare un milione di vo-tanti. Qualcuno azzardava due milio-

ni. Nessuno, proprio nessuno, si aspet-tava un tale concorso di popolo. Le fi-le interminabili e tranquille davanti aiseggi: chiacchiere, pacche sulle spal-le, incitamenti, battute.

Ha vinto, anzi, ha stravinto, Roma-no Prodi. Rutelli ha perso ed è torna-to sui suoi passi. Bertinotti è andatocosì così. Mastella ha protestato, si èritirato, ci ha ripensato ed è rientrato.

Ma insomma. Le notizie non sonoqueste. Prima delle elezioni assistere-mo ancora a parecchi giri di valzer.L’eterna questione, radicali sì o radi-cali no, per esempio. La vera notizia- l’evento, lo spettacolo inedito - è sta-ta proprio quella fiumana di gente,con la voglia di uscire di casa, la gioiadi incontrare le persone, di parlarsi,di contare, di esserci…

Un segno di buon augurio? Una pri-ma vittoria del centrosinistra foriera deltrionfo finale? Può anche darsi, ma ame è tornata in mente una vecchia can-zone di quel guastafeste di Giorgio Ga-ber: «libertà è partecipazione…». PerGaber la libertà non era né di destrané di sinistra. Non abitava in nessunacasa. Preferiva stare in strada.

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Dicevano che era un “cretino di ta-lento”. Ha stracciato tutti i record diascolto, ha mandato in palpitazioneil direttore di Rai 1 (Del Noce: «Midissocio dal mio canale perché nonposso controllare Celentano»: da ri-dere), ha dato la stura a durissime po-lemiche tra centrodestra e centrosini-stra, ha ridato fiato a un Vespa ormaisfiatato.

Davanti alle quattro interminabilipuntate di Rockpolitik l’Italia si è fer-mata. Tutti i canali televisivi, tutto ilparlamento, tutta la stampa, tutte lesedi di partito, tutti i bar, tutti gli au-

tobus commentavano il programma;o commentavano il commento delcommento al commento del pro-gramma di Adriano Celentano.

A me, per il poco che ho visto, nonè piaciuto. Non mi ha mosso nulla: néfuori né dentro.

Tutto il resto - tutto l’enorme fumomediatico che c’è girato attorno - in-vece mi ha fatto molta paura. C’è qual-cuno che, come me, di Celentano“francamente se ne infischia”?

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L’inchiesta di Rai News sulle bombeal fosforo lanciate dagli americani sul-la popolazione di Falluja ha fatto il gi-ro del mondo.

È stato un raro esempio di giornali-smo attento e coraggioso. Anche senon servirà a nulla. La forza dell’Im-pero americano può negare l’eviden-za delle prove raccolte. Le foto di cor-pi bruciati dal fosforo bianco, un’ar-ma chimica espressamente vietata dal-la convenzione di Ginevra. Le testi-monianze raccolte tra militari e fun-zionari americani. Nonostante lo scan-dalo delle date: prima si aspetta la cer-tezza della vittoria di Bush alle presi-denziali, poi, a partire dal 9 novem-bre 2004 si comincia a bombardarela città maledetta… è assolutamenteimprobabile che si apra un’inchiestaseria sulle violazioni alle convenzio-ni internazionali.

In ogni caso il cerchio è chiuso. Tut-ti ricordano la propaganda sulla guer-ra giusta e inevitabile: Saddam avevagli arsenali pieni di armi chimiche edera quasi pronto a utilizzare armi nu-cleari.

Si è scoperto che non era vero nul-la. Le cosiddette prove erano state fab-bricate dai servizi segreti (anche l’Ita-lia diede il suo bravo contributo).

Ora c’è la prova che, come in Viet-nam, sono stati gli americani a usarearmi chimiche direttamente sui civili.

L’antiamericanismo sta dilagando nelnord e nel sud del mondo. Non rie-sco a gioirne: è un segnale di divieto,non un segnale che indica una nuovastrada. Ma è possibile, oggi, davantialla propria coscienza, non dirsi an-tiamericani?

Anche per gli Stati Uniti è finita l’etàdell’innocenza. Ci fu un tempo in cuifurono visti come «i salvatori del mon-do». Quel tempo è finito per sempre.

Francesco Monini

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d i a r i o m i n i m o

Di recente mi è stato chiesto se in Bra-sile avessi trovato Gesù Cristo. La do-manda mi ha spiazzato. Ho rispostoche non ci avevo pensato ma che miè capitato di riscoprire la sacralità del-la vita al di là dei nomi e delle reli-gioni e di trovare una chiesa che stadalla parte dell’uomo, del popolo, de-gli oppressi e degli esclusi.

La croce e la stella rossa

Sulla giacca della festa, appesa all’at-taccapanni, avevano trovato posto duespillette. Una era la croce dorata diCristo, di quelle che di solito hanno ipreti, l’altra la stella rossa del PT, delpartito dei lavoratori brasiliani, simi-le alle mille stellette rosse che si tro-vano ancora sulle bancarelle dei no-stalgici sotto i resti del muro di Berli-no. Jorge li sfoggiava con disinvoltu-ra, perché alla fin fine credeva fosse-ro sfaccettature diverse di un unicoimpegno e di un unico mistero: l’uo-mo, e che rappresentassero declina-zioni diverse di un’unica responsabi-

lità: quella verso gli esclusi.Tanto semplice da essere disarman-

te. Le ideologie che mi portavo den-tro, invece, mi appesantivano e mi fa-cevano capire in modo astratto e sche-matico, irreale. Era forse il dazio del-la cultura libresca con cui ero uscitadall’università e che si scioglieva sot-to il sole dei tropici, dove il papa èlontano e il popolo ha fame. Con laforza della sua naturalità, di una na-tura ancora potente sull’uomo, di unaquotidiana rivelazione e allo stessotempo imposizione della sua sensua-lità, il Brasile mi schiacciava a terra.

Jorge mi parlava della teologia del-la liberazione, del riscatto degli op-pressi e io lo interrogavo riguardo lesue radici teoriche: marxismo? so-cialismo? No, il vangelo. Mi parlavadella chiesa e io mi immaginavo SanPietro e la morale cattolica che invi-ta gli italiani a non andare a votareper il referendum sulla procreazioneassistita. Era quella la chiesa? No, luiintendeva la chiesa del popolo, cheè popolo di Dio. Jorge mi diceva chelui era prete, ma che poi si era spo-sato, continuando a fare il suo lavo-ro in mezzo alla gente, fuori dallachiesa ma dentro al suo popolo. E ionon capivo. Non riuscivo a concilia-re quello che raccontava lui e quelloche ero abituata a pensare io, non mipareva stessimo parlando della stes-sa cosa. Mi sembravano due conce-zioni diverse, che non si escludonotra loro ma che fanno capo a due di-versi punti di vista. Uno, il mio, è quel-lo dall’alto, che genera la chiesa del-le cattedrali, gerarchica e dogmatica,ligia ai suoi precetti ma forse a voltepriva di buon senso; l’altro è quellodal basso, che nasce dalla parte del-la piccola gente, degli esclusi, dei po-veri, della strada e che fa nascere lachiesa umana, la chiesa profetica.Quando Jorge si è sposato la chiesalo ha abbandonato, lo ha lasciato inmezzo a una strada, il suo popolo in-

Ascoltare la voce dell’uomodietro gli steccati del sacroEchi di storie dal Brasile

di Sara Deganello

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l u o g h i

«Pregava?».

«Sì, pregava Sant’Antonio

perché fa ritrovare

gli ombrelli smarriti e altri oggetti

del guardaroba di Sant’Ermete».

«Per questo solo?».

«Anche per i suoi morti

e per me».

«È sufficiente» disse il prete.

[Eugenio Montale, da Satura]

vece no. Davanti a questa testimo-nianza mi chiedevo da che parte stes-se l’umanità, cioè la capacità di es-sere umani. Sicuramente non dallaparte del potere, né da quella dellegerarchie e delle oppressioni che es-so genera.

Cantare la vita

La chiesa profetica è una piccola co-munità di gente di strada che è uscitadalla randagità per raccogliersi a vi-vere sotto le volte barocche abban-donate della chiesa della Trinità nellacittà bassa di Salvador, poco prima delmercato del pesce. Commentano laparola di Dio, si fanno suo popolo,pregano perché ciò dà loro la forza diandare avanti, condividono la vita incomunione, dormono in quella stes-sa chiesa in cui celebrano e in cui of-frono a tutti i loro ospiti un piatto di

zuppa la sera del giovedì, quando sirinnova il rito dell’ultima cena. Vesti-ti a festa, come si conviene, con l’al-tare addobbato, sono loro, i poveri, idiseredati, i miserabili, coloro che tracembali e canti hanno offerto a meospitalità e cibo. La pace, in un ab-braccio gioioso. La fraternità, in unapratica di vita quotidiana di condivi-sione. Lontano dai protocolli e dalleetichette dei nostri cerimoniali, fede-li alla naturalezza e all’essenzialità,cui nulla manca. Per me una scheg-gia impazzita di luce nella pioggia deltropico estivo. Gli esclusi della societàsiedono al banchetto divino e si ral-legrano. Enrique sorride mentre par-la, dieci anni a dormire per strada eancora sorride. Perché, lo racconta luistesso, ha sempre trovato qualcunopronto ad accoglierlo e a dividere conlui il suo cartone. Ora la comunità del-la Trinità è una briciola di chiesa pro-fetica che vive in povertà, mitezza e

comunione. Che profezia avete da sve-lare, chiedo io? Sorride ancora: cheprofezia si può annunciare, dice, senon la propria vita?

Dentro di me cadono rovinando lestrutture, le ricchezze, le morali, le pa-ternali, l’Occidente e il Settentrione,le giornate mondiali della gioventù, idiritti che vengono da Dio, la benefi-cenza e la chiesa delle indulgenze,cade la loro pretesa di dominio, il lo-ro essere scambiate per fini quandoin realtà sono solo mezzi. Il fine, pro-fetico, umano, sacro, è sempre e in-domita la vita.

Cosa sia il sacro

Nel caldo umido dell’Amazzonia cisi genuflette a spalle scoperte davan-ti all’altare. Prendo messa tra i cabo-clos e mi sembra improvvisamentechiaro che la messa è un momentodella vita e ad essa deve essere con-giunta, ad essa riferita: c’è qualcosadi sacro in noi e nella nostra norma-le esistenza che vale la pena preser-vare e celebrare, qualcosa di caro edi importante al punto di dedicargliun momento particolare e adatto, unpo’ diverso dalla quotidianità, un ri-to. Ciò che è sacro è la nostra facoltàdi essere uomini, la nostra capacità diamare e di sperare, la nostra tensioneverso gli altri e verso Dio. Tutto que-sto non avviene nel modo privato diconcepire una divinità o una vita buo-na per noi: come mi ripete padre Edil-berto l’etica della persona umana èuniversale e sociale, cioè è un impe-gno condiviso, politico. L’individua-lità è solo una sponda della respon-sabilità di ognuno verso l’altro e la suarichiesta di dignità.

Edilberto mi ha donato un anellinodi cocco nero. Si sovrappongono va-rie storie sul suo significato: un ra-gazzo ci racconta che il cocco tra-smette alla pelle un balsamo specia-le, consentendo a chi lo indossa unavitalità perenne, altri ci dicono che si-gnifica essere sposati con la vita e lagioia di vivere. Edilberto mi dice cheè un compromisso, cioè il proprio es-sere legati, coinvolti, “compromessi”,appunto, con la causa della giustizia.Mi dice che vuol dire stare dalla par-te degli esclusi, prendersi la respon-sabilità anche per loro. Non lo so. For-se Cristo si trova proprio lì.

Sara Deganello

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l u o g h i

23 luglio 2005 - Bolzano.Simone e Sandra sono rien-trati da qualche giorno dal-l’Angola, dove collaboranoall’attività di padre Adriano.Giuseppe e Gaetano, di rien-tro da Innsbruck, in visitapresso amici, li hanno in-contrati per avere notizie del-l’Angola e informazione suiprogetti di Ganda. Si è con-clusa a Ganda la ristruttura-zione della scuola elemen-tare, la sistemazione dell’a-silo. Si è fatto qualche cor-so di aggiornamento per imaestri e le maestre.

Arezzo. Nel pomeriggioprende l’avvio il campo-scuola, che doveva tenersiinizialmente a Badia. Titolo:La vertigine dello sguardo.Partecipano ragazzi e ra-gazze del nord e del sud.Condotto da Luca e Lele.Emozionati.

26 luglio 2005 - Malfolle,Sasso Marconi (Bo). Nell’E-remo si incontra parte delcomitato scientifico di In-terculture, la rivista inter-culturale di Montreal, in edi-zione italiana. Ha già pro-dotto due numeri: 1) il ter-rorismo del denaro; 2) vi-sioni del mondo in collisio-ne. La sfida dell’ingegneriagenetica. Il comitato si in-contra per l’allestimento delnumero tre Sulla educazio-ne. È un’occasione impor-tante anche per incontrarela signora Kalpana Das cheviene da Montreal, disce-pola di Raimon Panikkar, cheè tra i fondatori della rivista.Il comitato fa una verificadel lavoro svolto, degli in-contri di presentazione del-

la rivista, delle nuove pro-spettive, delle modalità dipresentazione dei temi, e diun confronto che compren-da i germi presenti in Italiae sappia aprire un dibattitosugli argomenti proposti dal-la rivista, a partire dalle sen-sibilità e dagli interessi og-gi presenti in Italia. La rivi-sta attualmente raccoglie etraduce gli articoli che pro-vengono dalla rivista cana-dese, ma è intenzione, pro-posito, che diventi scambioe dunque spazio dove af-fiorino i temi e le riflessioniche nascono e si sviluppa-no nel nostro paese. Eranopresenti Kalpana Das, Arri-go Chieregatti, Bruno Amo-roso, Mario Bertin, Giusep-pe Stoppiglia, Maria AdeleCozzi.

29 luglio 2005 - Rondine,Castiglion Fibocchi (Ar). Siesce dalla provinciale si af-fronta una breve salita e siincontra un borgo antico tra-sformato in casa della pace,che accoglie giovani prove-nienti da territori di guerra,appartenenti a etnie in lottao che hanno combattuto tradi loro; frequentano l’uni-versità in Italia, e costrui-scono assieme un percorsodi educazione alla convi-venza. Qui si conclude ilcampo dei giovani di Ma-condo, cui hanno parteci-pato alcuni ospiti della ca-sa. Numerosi i relatori, chehanno varcato lo spazio tral’io e l’altro nei campi dellarelazione personale, dellarelazione politica, ap-profondendo il campo del-la spiritualità intesa come in-

teriorità. Giorno dopo gior-no si sono avvicendati Ro-berta, Mirca, Paola, Gio-vanni, don Gallo, Giuseppe,nel confronto con il gruppo.Le serate si sono riempitedell’attività teatrale dei com-ponenti e le notti sono stateattraversate dai suoni dellachitarra, dai canti e dalleconversazioni a breve e alungo termine dilazionantiil sonno e l’alba e l’auguriodel riposo. Il numero com-plessivo dei componenti ilcampo era di dodici, comei mesi dell’anno, e formava-no una compagnia che mairestava al di sotto dei venti.

30 luglio 2005 - Campo diZenica (fino al 7 agosto). Par-tiamo presto da Bergamo perZenica, in Bosnia; siamo inquindici, poi, durante il viag-gio, lievitiamo come una tor-ta e, prima di lasciare l’Ita-lia, saremo in 50 fra corsi-sti, studiosi bosniaci in rien-tro, staff e docenti.

Ci vorranno 23 ore pergiungere alla meta, nel frat-tempo le immagini di Ku-sturica scorrono come ilpaesaggio sloveno, croatoe bosniaco, come le nostrecanzoni, i nostri visi asson-nati. È appena sorto il solequando ci addormentiamonella casa che ci accogliefra i monti, gli alberi e il tor-rente.

All’ora di pranzo, il cam-po prende vita, ci presen-tiamo, siamo una piccolababele, con almeno tre lin-gue; costruiamo i primi “car-telloni dizionario” con frasibelle e simpatiche impreca-zioni.

La sera ci viene offerta unanuova lingua, per tutti ugua-le, dal nostro gruppo di ar-tisti musicisti che inventacanzoni sino all’alba; sonoi “Papier Katastrof”, così bat-tezzati da un poliziotto diBosnia.

Sono giorni intensi discambi, testimonianze, na-scono relazioni, emozioni,si conoscono i sindacalistiospitanti e ospitati; si ascol-tano storie di cooperazione,si parla di partecipazione,mentre si tenta invano discongiurare lo spettro dellaguerra, che ha devastato uo-mini e cose.

Nella settimana dei lavoridi scambio interculturale vi-sitiamo Sarajevo con i suoicampanili minareti moscheechiese mercati occidentaliodori d’oriente, una città ac-cogliente, seducente ma cheesala ancora odori di mor-te.

Sostiamo vicino al fiumedove l’acqua, pur gelida, sipuò bere, parliamo della co-stituzione; e i ragazzi di Bo-snia discutono con passio-ne quel che altri ha loro im-posto. I ragazzi italiani maiavevano discusso sulla no-stra costituzione con tantaforza.

Facciamo una tappa allafortezza di Vranduk, anticopaesaggio dove qualcunolegge i fondi del caffè; poi aTusla, con l’odore acre del-le fabbriche chimiche, do-ve è ancora vivo il ricordodei volti dei giovani assassi-nati dalla guerra, dalla vi-gliaccheria che separa in vi-ta e unisce stretti nell’ab-braccio della morte. Cono-

Macondo e dintorniCronaca dalla sede nazionale

di Gaetano Farinelli

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sciamo l’impegno dei gio-vani della scuola di Almem,che lavorano per attraversa-re e superare il ricordo, percostruire luoghi di incontroin cui sia possibile parlaredi futuro, senza droga.

Incontriamo il sindacatobosniaco e quello italianodelle costruzioni e affron-tiamo i temi della forma-zione, il bisogno di scambiodi esperienze; e ci si accor-ge di quanto siano simili ledomande e le proposte.

Giuseppe chiude il cam-po insieme a padre Franjo,francescano, con immaginisconvolgenti e parole di ac-coglienza che debbono na-scere prima dentro di noi,perché non possiamo com-battere l’orrore se prima nonlo scopriamo in noi stessi.Poi la sera dell’ultimo gior-no si conclude nella musi-ca degli abbracci e a mez-zanotte pare si sciolga un in-cantesimo: dobbiamo tor-nare a casa, come nelle fia-be.

10 agosto 2005 - Giaveradel Montello (Tv). Paolo Ros-si si esibisce durante la fe-sta de l’Unità, nel grandecampo sportivo, in un reci-tal che riprende varie fasidegli ultimi suoi spettacoli.Su invito, partecipa allo spet-tacolo una delegazione diMacondo, che viene acco-modata accanto alla cabi-na di regia, con la racco-mandazione di non intral-ciare i lavori. Spettacolo go-dibile, aria fresca, nientepioggia.

20 agosto 2005 - Gallio(Vi). Su per Asiago. Nel ca-lendario di appuntamentiper l’estate a Gallio, noto lapresentazione del libro Cam-minando sul confine, di Giu-seppe Stoppiglia. Cammi-nando tra i boschi puoi in-contrare ancora qualche sol-dato disperso della prima,della seconda guerra mon-diale; camminando la serain piazza puoi incrociarequalcuno che cammina sui

trampoli mentre nel cieloscoppiano i petardi. Nellasala comunale, nel grandesilenzio che prelude il tem-porale, il signor GiovanniRattini introduce l’autore. Edel libro, come in un fiumed’argento, pesca le perle. Equalche pesce rotondo; al-cuni contengono fiabe, altrivoci lontane, alcuni mo-strano desideri, ma i pescipiù rotondi contengono unasperanza avviluppata agliamori del mondo. L’autoreli passa in rassegna e nescandisce i nomi. I presentiguardano e ascoltano e ag-giungono le loro fiabe. Disassi e funghi e caprioli, edel cinghiale che corre.

18 settembre 2005 - Por-tile (Mo). Alessia e Micheleconducono all’altare il figlioMartin, assieme al padrinoe alla madrina. Il sacerdoteimmerge nell’acqua bene-detta il pargolo che tace epiange, a seconda degli odo-ri e degli umori che i sensigli sollecitano. Niente mes-sa e niente comunione per-ché la coppia non è sposa-ta, e la diatriba tra il cardi-nale Trujllo e il cardinale te-desco Kasper è ancora fer-vente e non è bene fare pres-sioni sui contendenti. Daglispalti gridano abbasso ed ev-viva, a seconda del canto, aseconda dell’onda. Poi tuttinella grande sala allestita perla festa. Martin passa di ma-no, e di abbraccio e di bacie poi si assopisce.

24 settembre 2005 - Pa-dova. Sul sagrato della cat-tedrale lo sposo Giovanni

saluta i presenti. Valentina,la sposa, è vestita di biancoavorio, una gonna sempli-ce, da festa. Poi il corteo de-gli astanti entra nella gran-de nave. In cima alla nava-ta, sulla destra, il coro e l’or-gano suona e canta. Il cele-brante è un maestro di li-turgia, giovane e aitante. As-sieme al maestro del coroconduce la liturgia e il can-to. Il diacono porta la dal-mata come un guerriero an-tico, ma mite è il suo volto.Gli sposi sono compresi dalrito, anche se un poco di-stratti dall’emozione (osser-vazione stereotipa, ma sen-za la strumentazione atta airilievi). Il vincolo, la fedeltà,il coraggio, sono i temi de-gli interventi del celebrantee, alla fine, dell’oratore dirincalzo, costretto, manu mi-litari, ad un’orazione fuoricampo. Seguono la benedi-zione, le foto sul piazzaledel duomo, la fuga verso l’o-steria, il convoglio nel de-serto, la confluenza sul pra-to, il taglio del nastro e lospezzare dei panini e delletartine, mentre un’orchestri-na suona musiche slave, euna donna canta una storiache provoca un’emozioneche poi esplode in ritmi in-calzanti. E continua fino anotte la festa. Con il baciodella sposa e dello sposo,sotto lo sguardo complicedella luna falcata.

25 settembre 2005 - Val-le San Floriano, Marostica(Vi). Marcia per i meninosde rua. Siamo alla quinta.Poi si passa alle medie, trafulgori e clamori. Forse il

parroco l’anno prossimo par-tecipa alla marcia, che si so-spende durante le partite dicalcio e gli atleti dilettanti sifermano, bloccati sul foto fi-nish, finché il fischio si spe-gne. Quest’anno è arrivatoall’altare, poco dopo l’ora-rio di partita, con grandescandalo dei fedeli, che ave-vano anticipato la corsa pri-ma per essere presenti al mo-mento giusto. A parte que-sta inopportuna appendice,che si può togliere anchesenza anestesia, ahi! un fiu-me in piena, un vento di sci-rocco, un campo di giraso-li, una fanfara, mille co-riandoli in libertà: questo ealtro sembrava la folla cheda ogni parte gremiva la val-le, le strade, i sentieri, si ab-beverava alle fonti, ai risto-ri, alle mense, tra mille con-versazioni, mentre sul pal-co il presidente, il vice, gliassessori, premiavano periperbole i gruppi, i gruppet-ti, i bambini e i vecchi. Quat-tromila i partecipanti, pocomeno della moltiplicazionedei pani. E tanti panini, be-vande, frutta e the, e ma-gliette e libri ovunque. Con-tenti gli organizzatori, la giu-ria e zia Prassede, alla suaprima. Il ricavato della gran-de kermesse andrà a bene-ficio dell’infanzia abbando-nata e povera.

26 settembre 2005 - Vi-cenza. Lidia Stoppiglia, cheora ci legge dall’Australia,riceve dalle mani del presi-dente della Camera di Com-mercio, tra battimani com-mossi e canti di festa, la me-daglia d’oro al valore perl’attività svolta nella provin-cia di Vittoria, a favore de-gli italiani immigrati comelei, che ci vive ormai da cin-quant’anni.

6 ottobre 2005 - Piombi-no Dese (Pd). Incontro coigenitori: Bellezza e faticadella crescita; cento le per-sone presenti, compreso ilsindaco. Che cosa rallentale decisioni dei figli? Cosa li

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chiude, del rapporto di co-municazione con gli adulti?Quali attese o quali paurenascondono sotto la pelle?L’educazione attuale, che èeducazione al benessere,quantitativa, spegne le for-ze che sono dentro e ottun-dono i sentimenti e dunqueanche la capacità di criticadei ragazzi. Giuseppe parlaad un gruppo di genitori or-ganizzati dall’Azienda sani-taria e dall’Assessorato allacultura.

Mortise (Pd). Nello stessogiorno, su invito di Flavia Te-sta, Yarona parla della feli-cità, quasi in continuità conil convegno di Macondo, aun gruppo di sessanta per-sone. Ricorda il Capodannoebraico ed è felice di co-minciare l’anno parlandodella gioia. Gioca con le pa-role, accostandone i signifi-cati; la gioia scaturisce dal-la nostra completezza e dauna ricerca continua di noistessi. Ricerca dentro il pro-prio essere, che si espandefuori ed è attraverso l’amo-re per l’altro che si riesce adarrivare all’unicità e all’u-nità del proprio essere. L’E-den (il paradiso) è dentro dinoi e quando è dentro di noi,noi siamo presenti per l’Al-tro che sente la gioia chepromana da noi.

8 ottobre 2005 - Felino(Pr). Stefano Estevan e Ma-ria Dolores convolano a noz-ze nella chiesetta parroc-chiale di Felino. Stefano eMargherita sono fratelli dal-la Colombia, adottati da An-gelo e Maria Piazza. Stefa-no sposa a sua volta una co-lombiana, una donna gra-ziosa. Il rito viene celebra-to dal parroco anziano; il di-scorso, invece, viene pro-nunciato da Giuseppe Stop-piglia. Gli sposi sono emo-zionati, ma intervengono at-tivamente durante il rito, conparole antiche e parole nuo-ve: emozioni, sussulti, me-morie. E poi, insieme, nellagrande casa di campagna,trasformata in grande villa

fattoria dalle mani di Ange-lo, Maria e figli, attorno albanchetto popolare, allegrocome nei quadri di Brugel,gioioso come nelle pitturedell’Angelico. E che sia dol-ce e lieve il cammino e lacompagnia.

9 ottobre 2005 - Lonigo(Vi). Verifica dei campi esti-vi. Alla villa San Fermo diLonigo si incontrano i grup-pi che hanno partecipato aicampiscuola di Macondo diquest’estate: i giovanissimidel campo a Rondine, inprovincia di Arezzo, e i gio-vani del campo a Bistricack,in provincia di Zenica. Unsole estivo colora un cielosempre più blu e saluta i ma-condini, emozionati nel ri-vedersi. Dopo il caloroso,reciproco bentrovato, fattodi abbracci e sorrisi, la ghen-ga si è divisa per verificarequanto vissuto in luglio eagosto. Si decide che l’ab-bracciarsi con gioia è giàrendere vero l’incontro e sipassa così a progettare il fu-turo. Per l’avvenire ci pen-serà il sindacato? Fra i vol-ti che sembrano riassapora-re i tramonti aretini dellaRondine, si distinguono lefatiche del precedente sa-bato sera e la discussionestenta a partire. Poi il ricor-dare l’intensità del sentirevissuta al campo fa emer-gere la difficoltà di viverel’oggi quotidiano e il desi-derio di ascoltare e sentirsiascoltati. Nel frattempo i so-pravvissuti alle feste bo-sniache, nell’altra sala, pro-gettano l’estate 2006 a Tu-sla, dai genitori di Alem, chetra l’altro compie gli anni epromette in toscano strettoboccali di brunello per lasua laurea. Prima di pranzoi gruppi si uniscono e si rac-contano con le parole di Ful-vio e Luca. Chiude i lavoriuno Stoppiglia scoppiettan-te e pindarico, che non per-de l’occasione di cambiarei punti di vista e di insinua-re il dubbio nelle certezze.Il convito lauto e economi-

co è condito da canti e piz-ziche, perché finché c’è fe-sta c’è speranza.

15 ottobre 2005 - Arze-rello, Piove di Sacco (Pd).Matrimonio di Andrea ed Eli-sabetta. Nel santuario delCristo, quattro sacerdoti sul-l’altare accompagnano il ri-to. Gli sposi hanno scelto uncredo particolare, che ri-corda in particolare le ope-re compiute con e per gli ul-timi. Ci sono tutti, amici eparenti, genitori e nonni. Losposo parla arabo e a trattiparla italiano, forse per tra-durre o per annotare, la spo-sa parla irlandese con gliospiti venuti dall’Irlanda eveste un abito bianco avo-rio, le spalle nude coperteda un velo bianco; una co-sa carina la trattoria che tem-poraneamente ci alloggia,sotto il tetto e sotto il per-golo, dietro l’argine del ca-nale di Arzerello. E ci servecose gustose con generositàe senza spreco. E che altro?Ah! Viva gli sposi, dopo ilbacio, bacio!

22 ottobre 2005 - Bellu-no. Tavola rotonda organiz-zata dal sindacato FIBA sultema: La banca come sog-getto sociale, cui interven-gono esponenti del sinda-cato, della Banca Etica e diMacondo il suo presidente.Per la sua funzione preva-lente, che è compito finan-ziario, gestione di denaro, èdifficile pensare alla bancacome soggetto sociale; do-vrebbe modificare il suo sta-tuto deontologico, che nonè la dentiera dell’odontoia-trico, e neppure la pelle delserpente, ma il cuore in fun-zione del bene comune.

Pove del Grappa (Vi). Pa-trizia e Diego contraggonomatrimonio secondo il ritodi santa romana chiesa, conaggiunta di rubriche perti-nenti, introdotte dagli sposie dal sacerdote celebrantel’eucaristia, accompagnatoda due sacerdoti amici, fa-centi la funzione di accoli-

ti e concelebranti. La chie-sa risplendeva di luce ri-flessa, proveniente dal soledi passaggio e dall’abito del-la sposa. Lo sposo agile, dal-la chioma fluente sulle spal-le, accoglieva gli ospiti e ba-ciava la sposa, secondo il ri-to, in dialogo degli ospiti, enell’interlocuzione del fo-tografo.

Reggio Emilia. Verso sera,dopo averlo atteso per un-dici giorni dopo la scaden-za protocollata dai medici,dalle ostetriche, dai gine-cologi, quando ormai mon-tava l’impazienza a che sidecidesse di entrare nelmondo, e calava la speran-za a che irrompesse volon-tariamente, ma non lui, no,che non calava, infatti di pe-so era nel giusto; riassu-mendo: Chiara dava alla lu-ce Francesco, figlio di Giu-seppe, che lo prendeva trale sue mani, mentre lancia-va il primo grido: e che? Quinon se magna! Che sorpre-sa la vita!

23 ottobre 2005 - Vallo-nara di Marostica (Vi). Unpranzo sociale a Vallonara;ma dov’è lé che lé? Che poiuno che ci abita, ti dice chelé lì; ma dove? Lì dietro. Madietro a chi? Ma allora noncapisci niente; proprio. Co-munque non ti preoccupa-re, che non fai più a tempoad andarci. I fatti: Lucia San-sonne ha organizzato unpranzo sociale, assieme agliamici di Tonel (dalla fusio-ne di due nomi, Tonino eNelma, cui appartengonopoi altri nomi come Anna,Mario, Marcello…), nella sa-la degli alpini, a beneficiodel progetto di formazionedi Adelaide Barbosa di Al-cobaça, in Bahia del Brasi-le. C’erano più di sessantapersone, tutte belle e sim-patiche. Moltissime le por-tate, buone, tutte; lo so chela gente fa sempre buon vi-so, ma però erano propriobuone.

Gaetano Farinelli

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n o t i z i e

Tresigallo, paese gioiello dell’architettura razionalista,riconosciuto città d’arte dalla regione Emilia Roma-gna, è la cornice ideale del Festival un po blu, giuntonel settembre del 2005 alla sua seconda edizione.

Dall’1 al 4 settembre gli appuntamenti si sono suc-ceduti dal mattino fino a notte inoltrata, coinvolgen-do i bambini, i ragazzi, gli anziani, fino al popolo deinottambuli: laboratori creativi, performances, concerti,narrazioni, proiezioni di corti italiani e internaziona-li, le comiche del grande cinema muto con accom-pagnamento musicale dal vivo, spunti teatrali.

Il festival un po blu è prima di tutto un esperimentoe una scommessa: vivere un luogo cogliendo tutte lesue potenzialità (gli spazi, le strade, le case, soprat-tutto le persone) e trasformarlo in arte applicata. Uninvito al blu: a guardare al di là della quotidianità, ascoprire le mille possibilità e sfumature del reale, a vi-vere una dimensione di ascolto e di incontro.

Sotto la regia di Antonio Caporilli - performer edideatore di eventi, installazioni e spettacoli in tutta Eu-ropa - ha lavorato un gruppo di artisti diversi che si

accomunano per la professionalità e per lo spirito diricerca con i quali si esprimono: da qui l’utilizzo diluoghi di lavoro, di aggregazione, delle strade e del-le piazze, come sede dove realizzare performances,concerti e laboratori. Chiamando in causa e conta-minando linguaggi diversi - il movimento, la voce, lamusica, l’immagine - ogni proposta cerca di “insi-nuarsi” nel tessuto sociale come in quello ambienta-le, per poi svilupparsi e scomparire, lasciando la sen-sazione di aver vissuto un sogno e non di aver assi-stito a uno spettacolo.

La prossima edizione di un po blu è in programma- sempre a Tresigallo, tra Ferrara e i grandi spazi vuo-ti del delta del Po - nei primi giorni di settembre del2006. Chi non si rassegna alle “cose così come sono”,chi cerca il “blu” nascosto nella vita e in ogni vita, lometta tra gli appuntamenti del nuovo anno.

Le foto che illustrano questo numero di Madrugada,scattate durante il festival, sono di Luca Gavagna, fo-tografo professionista, autore di reportage, mostre edi una decina di cataloghi e libri fotografici.

Un po bluLe immagini di questo numero di Madrugada

di effe emme

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r e d a z i o n a l e

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