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IL RITUALE DEI BAMBINI PERDUTI

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PERDUTI

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JEAN ZIMMERMAN

IL RITUALE DEI BAMBINI

PERDUTI

Traduzione diGianna Lonza

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Titolo originale dell’opera: The Orphanmaster Copyright © Jean Zimmerman, 2012 All rights reserved Maps by Jeffrey L. Ward

Questo romanzo è un’opera di fantasia. Personaggi e situazioni sono invenzioni dell’autore e hanno lo scopo di conferire veridicità alla narrazione. Qualsiasi ana-logia con fatti, eventi, luoghi e persone, vive o scomparse, è puramente casuale.

Realizzazione editoriale: Elàstico, Milano

ISBN 978-88-566-2240-9

I Edizione 2013

© 2013 - EDIZIONI PIEMME Spa, Milano www.edizpiemme.it

Anno 2013-2014-2015 - Edizione 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10

Stampato presso ELCOGRAF S.p.A. - Stabilimento di Cles (TN)

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A noi due

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La nostra eredità è passata a stranieri,le nostre case a stranieri.Orfani siamo diventati, senza padre,le nostre madri sono come vedove.

Libro deLLe Lamentazioni 5, 2-3

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NUOvI PAESI BASSI

1663-64

Beverwyck /Fort Orange

Nuova Amsterdam

Nuova Amsterdam

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Colonia di New Haven

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NUOvA AMSTERDAM

1663-64

Piazza d’armi

Piazza del mercato

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Drummond

Molo

StuyvesantLeone rosso

van Couvering

Municipio (Stadt Huys)

Lago Collect

giardini della Compagnia delle indie occidentali

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Monte Petrus

Piccola Angola

Hendrickson

Casa-buca

Patibolo

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Prologo

8 ottobre 1663

Nello stesso giorno, due omicidi.A Delémont, nel Giura svizzero, il regicida William

Crawley abitava con sua sorella, nascosto in piena vista, in una pension del Faubourg des Capucins, nei pressi dell’ospedale.

Mentre le campane di Saint-Marcel suonavano i vespri, sulla terrazza adiacente alla cucina al primo piano, Barbara, la sorella di Crawley, osservava l’oscurità calare sulla citta-dina. Seppur abituata a stare sempre all’erta, non notò le tre figure che dalla Rue des Elfes scivolavano, furtive, attraverso i bui cortili sul retro delle case, sull’altro lato della strada, e si avvicinavano all’entrata al pianterreno della pension.

L’estate di San Martino era quell’anno eccezionalmente mite. Barbara entrò in cucina e, accanto al lavello, si ba-gnò abbondantemente il viso. Mentre si chinava per rin-frescarsi il collo con uno straccio umido, i tre l’afferrarono alle spalle, soffocando il suo grido di allarme.

Crawley, seduto alla scrivania nella soffitta al secondo piano, sentì il trambusto. vasellame che si fracassava.

«Barbara?» chiamò scattando in piedi. Avvicinatosi alla scala, li vide salire verso di lui. Avanzavano di corsa a tre, quattro gradini per volta, due uomini magrissimi, con indosso identici panciotti neri e piccoli berretti.

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«No!» urlò Crawley, precipitandosi nel suo studio, ta-stando lo scaffale accanto alla scrivania nel tentativo di impugnare il suo pistolet a ruota, che teneva sempre a portata di mano.

Agirono con grande rapidità. Gli si buttarono ad-dosso, e il primo aggressore, torcendogli la mano, lo co-strinse a puntare la canna dell’arma verso l’alto. Il cane si abbassò, la polvere nello scodellino sfrigolò e alla fine esplose. Il proiettile di piombo, conficcandosi nel soffitto basso del solaio, fece piovere su di loro una nuvola di pul-viscolo e frammenti di graticcio.

Fu catturato: quattordici anni, otto mesi e otto giorni dopo che aveva apposto il suo sigillo (Ego, Hon Wm Crawley) su un documento che segnava il destino di Carlo I, re in carica, condannato al taglio della testa. I fanatici puritani, inorriditi dal cattolicesimo che in-fettava la monarchia, avevano preteso il sangue del so-vrano. Lo avevano sancito loro, l’ordine di morte fir-mato da Crawley.

Il giorno in cui fu giustiziato, il 30 gennaio 1649, il so-vrano indossò due camicie, non volendo che si scambiasse per paura il tremore causato dal freddo. Il re d’Inghil-terra, Francia e Irlanda, il re degli scozzesi, il Difensore della fede, eccetera, chiese al boia: «vi sono d’impaccio i miei capelli?». Quindi si infilò le ciocche reali sotto il ber-retto scostandole dal collo, recitò una preghiera, allargò le braccia, e la lama calò su di lui.

Seguì, inevitabile, la vendetta. Ci volle del tempo. Carlo, della dinastia degli Stuart, figlio del sovrano as-sassinato, si sottrasse miracolosamente alla furia puritana messasi sulle sue tracce, riparò in Francia sfuggendo ai nemici e iniziò un esilio che sarebbe durato dieci anni. Non ritenendo probabile che il giovane riconquistasse il trono, i sovrani europei gli voltarono le spalle. Ridotto in povertà e ignorato da tutti, Carlo visse errabondo, so-

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prattutto in Francia e nei Paesi Bassi, angosciato per la tragica morte di suo padre, offeso dalla storia.

Ma il destino della dinastia Stuart conobbe una svolta. Il 3 settembre 1658, morì per calcoli renali Oliver Crom-well, il lord protettore, il capitano dei ribelli, il «reprobo coraggioso» (secondo la definizione del conte di Claren-don) e, dopo due anni caotici per nominare il successore, il parlamento inglese chiese a Carlo II di ritornare in pa-tria e salire al trono.

Quale gesto di reale magnanimità e riconciliazione, il giovane sovrano, appena integrato nel suo ruolo, emanò una legge, indemnity and Oblivion Act, che amnistiava tutti coloro che si erano ribellati alla Corona. Tutti, tranne i cinquantanove componenti della commissione, che ave-vano firmato la condanna a morte di suo padre, Carlo I. Alcuni erano deceduti nel frattempo. I loro corpi fu-rono esumati, eretti nei propri sudari davanti al tribunale penale dell’Old Bailey, condannati e, secondo un’espres-sione curiosa del tempo, «giustiziati con sentenza po-stuma». Il cadavere di Cromwell, in catene, fu appeso sulla forca di Tyburn, mentre la sua testa marciva su una picca a Westminster.

Ai firmatari ancora in vita, e tra questi William Craw-ley, considerati alla stregua di fuorilegge, fu data una cac-cia spietata. Gli uomini al servizio del cancelliere del re, George Hyde, conte di Clarendon, seguirono le loro tracce nelle province, in Scozia, nel continente europeo, in America, ovunque nel mondo i fuggitivi tentassero di nascondersi, e individuarono i loro rifugi. I puritani, che proteggevano i regicidi, rendevano quel compito difficile e pericoloso.

Edward Drummond, agente della Corona, setacciò l’Europa per scovare Crawley, l’uccisore del re, si mise sulle sue orme dalla Scozia a Parigi, da Münster fino in Svizzera. Non fu facile localizzarlo in Europa, un po’

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come trovare un ago nel pagliaio, ma Drummond ci riuscì in breve tempo. Quell’uomo – era convinzione di Claren-don – faceva miracoli. Senza il suo intervento, Crawley, l’assassino, non avrebbe mai conosciuto la sferza della vendetta reale.

Clarendon non poteva chiedere a un gentiluomo come Drummond di eseguire di persona la condanna. Dispo-neva di altri individui per quel compito, individui poveri, avidi, di infimo rango. Una volta localizzato il regicida, Clarendon sguinzagliò i sicari. Al loro arrivo, Drummond era già lontano.

«il se cache parmi les papistes» sibilò uno degli uomini venuti per uccidere Crawley. Si nasconde tra i cattolici.

Uno dei sicari serrò le mani intorno alla gola del regi-cida. La vittima avrebbe voluto implorare qualche istante per pregare, ma non riuscì a proferire parola. L’altro, non occupato a strangolare Crawley, scartabellò rapidamente tra i documenti sulla scrivania e li ficcò con mani svelte e rapaci in una borsa di cuoio sporca di grasso.

Al pianterreno, Barbara si dimenava nella stretta del terzo aggressore. «Chut,» le disse «nous ne tuons pas les femmes.» Non uccidiamo le donne. Sottintendendo: a meno che non ci diano fastidio.

Nella soffitta Crawley si dibatteva invano, un minuto, un altro minuto; la stretta ferrea gli spezzava la trachea, una lotta silenziosa e terribile. Poi, il nulla, il buio.

Quando ebbero concluso la loro opera, i due trasci-narono al piano di sotto il corpo, con la testa che batteva sordamente a ogni gradino. Al vedere il fratello morto, Barbara emise un rantolo basso e si liberò dalla stretta. Mentre si precipitava nella fuga, uno dei tre la colpì fa-cendola stramazzare a terra.

Per un attimo il cadavere di William Crawley, regicida, si librò nel vuoto all’altezza della terrazza del primo piano della pensione del Faubourg des Capucins. Atterrò non

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proprio nel terreno dell’ospedale, ma abbastanza vicino perché le suore dell’infermeria se ne prendessero cura e, il pomeriggio successivo, seppellissero il regicida prote-stante in terra non consacrata.

Mattina, in un luogo lontano e diverso, nel Nuovo Mondo. L’insediamento olandese di Nuova Amsterdam, sulla punta meridionale dell’isola di Manhattan. Non c’era il tepore dell’estate di San Martino, ma un freddo pungente con nubi basse che minacciavano una precoce tempesta di neve.

Una bambina fragile, Piteous Charity Gullee, di otto anni.

Piddy.Da sola nella foresta vicino al lago Collect, a nord della

cinta cittadina, con un giogo da acquaiolo sulle spalle, al quale erano appesi due secchi vuoti, Piddy si avviava per il sentiero di terra battuta verso il margine dell’acqua. Aveva paura. Il giogo era più alto di lei.

Nessuno intorno. Il silenzio dell’alba.Quando veniva al lago per la sua prima uscita della

giornata – buio fitto nelle mattine d’inverno – spesso in-ciampava in qualche daino dalla coda bianca, o in qual-che marmotta, svegliava scoiattoli, stormi di uccelli che emettevano stridule grida di avvertimento.

Quell’anno molti animali, spinti dai cacciatori, si erano ritirati più a nord nell’isola. Restavano ancora le ghian-daie, che stazionavano sui bordi stagnanti sulla riva op-posta del Collect, mescolandosi con i gabbiani reali e le rondini di mare della baia.

Superato l’ultimo poggio, Piddy si tolse dalla spalla in-curvata i secchi. La superficie del lago, lucida come uno specchio, era di un giallo rosato nella luce del mattino, punteggiata dalle sagome nere delle anatre e delle oche. Lungo la sponda crescevano dei canneti e i loro ciuffi

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viola galleggianti sull’acqua splendevano nel chiarore del giorno nascente.

I Briel, presso i quali Piddy era a servizio, erano una fa-miglia di scapestrati, sporchi e assetati. Ma non bevevano l’acqua che Piddy faticosamente portava e certamente non la usavano per lavarsi. Dove finiva, si chiedeva Piddy, la dozzina di secchi che lei ogni giorno si caricava sulle spalle?

Scese lungo il suo sentiero segreto che attraversava le canne per raggiungere una piccola lingua di fango secco che si protendeva storta nell’acqua bassa. Chinandosi per riempire i secchi, sobbalzò nel vedere una figura che os-servava da un folto di pini vicino alla riva.

Un diavolo, metà uomo e metà bestia, alto quanto un albero, vestito all’europea, con un cappello di castoro e un colletto di merletto malandato. Sopra il colletto, al po-sto di un viso umano, una maschera di pelle di daino. Piatta, di pelle scuoiata, con occhi vuoti, fissi.

La paura afferrò Piddy alla gola. Pensava ancora di poter sgattaiolare via, sperava che il mostro l’avrebbe la-sciata in vita.

Sguazzando nella gelida acqua bassa in prossimità della riva, la figura avanzò a lunghi passi.

Piddy girò la testa per non vedere, ma percepì vicino a sé il suo respiro acre. Dal buco all’altezza della bocca della maschera veniva uno strano suono – «dik-duk, dik-duk» – che le ricordava la filastrocca canticchiata dai più piccoli dei bambini Briel.

«Pietà, Dio, no» balbettò, inciampando nel suo giogo nel retrocedere.

Si rannicchiò cadendo nel fango gelido, si fece più pic-cola di quanto già non fosse e affondò il viso nella melma, con la speranza che, se non avesse visto il mostro, il mo-stro non avrebbe visto lei.

Con la coda dell’occhio scorse un paio di zoccoli rossi, immersi nel fango del laghetto.

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Per un lungo momento sentì soltanto la brezza che fru-sciava tra le cime delle canne. Poi «dik-duk, dik-duk». La figura la sollevò da terra prendendola per il collo, la scosse come una bambola, e l’aria le sfuggì dalla gola con un flebile piagnucolio, uff, uff, uff. Afferrandola per la trachea quasi fosse il manico di una borsa, la creatura av-vicinò a sé Piddy.

Dietro la maschera coperta di croste, due occhi rossi. Quando la ragazzina cominciò a piangere, un manrove-scio la colpì sulla bocca, facendole ballare i denti. Un al-tro. Con le ginocchia il mostro le divaricò le gambe ma-gre. Piddy voleva buttarsi a terra, ma lui la teneva in aria, sospesa per la gola.

La tortura continuò.«dik-duk.» La bambina si ritrovò riversa sulla schiena.

I suoi occhi bruni e vuoti riflettevano il cielo percorso da nubi. Perse conoscenza, ma con il corpo gemeva e si la-mentava, mentre veniva seviziata.

Quando tutto fu finito, l’assassino, prendendola per i piedi scalzi, la trascinò verso il bordo melmoso del lago. Il cadavere non affondava. Allora si sporse verso l’acqua, e appesantì la piccola forma con una pietra avvolta nella stoffa sottile del vestito.

Piddy non lo sentì pronunciare sommessamente due parole, e neppure le avrebbe capite se avesse potuto udirle.

«deus dormit.» Dio dorme.Cominciò a nevicare.

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Parte Prima

IL FIUME PRINCE MAURICE

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Gli uffici contabili della Compagnia olandese delle Indie occidentali occupavano l’intero pianterreno di un ma-gazzino di mattoni rossi costruito lungo l’East River sulla sponda sud dell’isola di Manhattan.

8 ottobre 1663. Fuori, una nevicata prematura. Nella sede degli uffici contabili, affollati, rumorosi, fumosi, i mercanti ispezionavano le merci e i barili per le spedi-zioni, e si adocchiavano tra di loro. Sotto il brusio delle voci, il tintinnio musicale delle monete e il tonfo sordo delle conchiglie, wampum, usate negli scambi al posto del denaro. Carezze per l’udito, quei suoni.

Dappertutto erano ammucchiati colabrodo e bollitori, mollette e aceto, coperte, Bibbie e giocattoli. Il magaz-zino, al pari della colonia stessa, aveva un’impronta netta-mente maschile, un regno di mercanti con la pipa eterna-mente in bocca, di capitani sboccati, di funzionari intenti a calcolare le percentuali daziarie.

Tra gli olandesi il profitto era un dio promiscuo, che accoglieva benevolmente tutti i fedeli, e in quel giorno d’autunno, negli uffici contabili, lavorava uno sparuto gruppetto di donne. Una di loro, una giovane di ventidue anni, insegnava a un’assistente le procedure mercantili.

«Nel piegare, attenta a far combaciare gli orli» disse Blandine van Couvering, osservando la sua apprendista alle prese con un taglio di tessuto di lana grezza. La ra-

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gazza, quindici anni, di nome Miep, era la figlia più pic-cola della famiglia Fredericz.

Carsten Fredericz van Jeveren voleva che Miep im-parasse il mestiere sulle orme di Blandine van Couve-ring, la quale non aveva bisogno di un’apprendista, ma le conveniva poter contare sull’appoggio di Carsten Fre-dericz e quindi aveva preso con sé quella allieva piutto-sto ottusa.

Miep le mostrò il telo ripiegato. «Brava. Adesso met-tilo sulla pila degli altri e sistema il tutto in... be’, abbiamo scatoloni di ogni tipo, no? Quale preferisci?»

Presa la pila di tagli di lana, la ragazza la ficcò alla me-glio in un piccolo contenitore. Bene. Non quello che Blandine avrebbe scelto, e anche un po’ raffazzonata come sistemazione, ma pazienza. Non poteva passare la giornata a correggere Miep.

«voi siete la prossima, signora» risuonò una catarrosa voce maschile alle sue spalle.

Girandosi, Blandine si trovò davanti Chas Pembeck, l’ispettore che da sempre controllava i dazi della Com-pagnia delle Indie occidentali. Indossava un paio di oc-chiali nuovi di fattura italiana. Era uno che si concedeva tutti i lussi alla moda, un privilegio che gli derivava dalla sua funzione di sorvegliante delle merci importate nella colonia.

«Siete pronta?» le chiese.Blandine nascose un sorriso addolorato. La domanda

di Pembeck era offensiva. Lei si considerava una giovane commerciante emergente della colonia. Ma quel vecchio baccalà fingeva di non ricordarsene. Blandine fissò l’ag-geggio che l’uomo si era messo sul naso.

delizioso il rossore sulle sue gote, pensò l’ispettore. Ma c’era dell’insolenza nell’espressione di quella princi-piante? Tornò alla carica: «Come vi chiamate?».

«Blandine van Couvering, signor Pembeck» rispose.

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Come sapete bene. Gli tese la mano. Una sfida alla tra-dizione delle buone maniere, che proibiva alla donna di porgerla, ma un’usanza tra i mercanti, che Blandine aveva adottato da qualche tempo.

L’ispettore gliela strinse con riluttanza e la lasciò an-dare fiaccamente. Ignorò la giovane Miep che gli faceva una riverenza.

Blandine gli mostrò la sua polizza di carico. Fissando attraverso le sue stravaganti lenti, Pembeck controllò il documento, raffrontando il suo elenco di merci con i mucchi di roba sparsa intorno.

Gli agenti della Compagnia avevano tracciato dei ri-quadri con la calce sul pavimento dell’ufficio contabilità. Le merci di Blandine, raccolte in casse, scatoloni, botti e barilotti, riempivano il riquadro e traboccavano oltre la linea di demarcazione. Con un calcio, Pembeck spinse all’interno del perimetro una cassa che era finita fuori.

«Questo scatolone?» disse. «Cominciamo da qui.»«Tessuto di lana grezza. Da Anversa.»«Meglio non sigillare i contenitori prima dell’ispe-

zione» suggerì Pembeck.Blandine spalancò il coperchio e tirò fuori la merce,

pesante tessuto di lana ripiegato per adattarlo all’imbal-laggio. «Qui c’è un’altra scatola, più piccola.»

L’ispettore annuì e continuò a spuntare le voci del suo elenco, una a una. «Due barilotti di melassa, una dozzina di ditali di ottone, una dozzina di coltelli lunghi, una doz-zina di coltelli a serramanico.»

«Marca Barlow di Sheffield, signore» precisò Blan-dine.

«Bene» disse Pembeck facendo scattare una delle lame di quell’articolo prodotto in Inghilterra. «Piacciono molto agli indiani che vivono sul fiume.»

Ma ecco di nuovo. Quel «signore» era stato pronun-ciato con un tono di lieve condiscendenza, di parodia.

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Signorinella saputella. Avrebbe pareggiato la partita gra-vandola di una corona in più di dazio.

Pembeck si arrampicò sulla pila di casse per control-lare, anche sul dietro, il riquadro riservato a Blandine, picchiettando con la sua bacchetta da esattore. «Sei barili di rum delle Barbados. Cinque sbarre di piombo. venti libbre di polvere da sparo. Cento braccia di tessuto, rosso e scozzese.»

«Tratto anche tessuti di Osnabrück, tessuti spigati, da-mascati, di lino di Amburgo. Batista e seta.»

«E lana grezza.»«Sì.»Pembeck annotò. «Utensili, chiodi e martelli.» Rovi-

stando, ficcando il naso, confrontando con la polizza di carico. Quella donna trattava una grande varietà di merci, ma in piccola quantità.

«Dodici pentole di ferro, dieci padelle di ferro. I wil-den preferiscono il rame, lo lavorano per farne le punte delle frecce.»

Wilden, così gli olandesi chiamavano gli indigeni. Sel-vaggi.

«Quaranta pipe bianche di argilla... dove ne avete tro-vate tante? Festoni di pizzo. In gran numero.»

«Per le donne» spiegò Blandine.«Sì» disse l’ispettore.Con merci di quel tipo, ogni autunno, i mercanti

di pellicce – handlaers, si definivano – pagavano i cac-ciatori in anticipo aspettandosi di avere in cambio pel-licce non conciate e pelli. Gli indiani del fiume passa-vano l’intero inverno a cacciare con le trappole. Gli handlaers e gli indigeni si incontravano in primavera per completare i baratti.

Blandine contava sulle successive settimane di mer-cato per incrementare il suo limitato commercio di pelli – quelle conciate e morbide di daino, di alce, di visone, di

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topo muschiato, di lontra, di lince – e accedere al mondo privilegiato di quanti trattavano il castoro, lo strano ani-male mistico che aveva aiutato a vivere meglio nei Nuovi Paesi Bassi.

L’Europa era avida delle pellicce americane, soprat-tutto di castoro.

Blandine lanciò un’occhiata a Pembeck. «Se ho le merci, posso commerciare, vero?»

«Certamente.»«Non ci sono leggi o regolamenti che possano impe-

dirmelo?»«Basta che paghiate le imposte alla Compagnia.»Pembeck raggiunse il cuore nero del tesoro di Blan-

dine, tre moschetti a canne lunghe. Il rifornimento di armi agli indiani del fiume era per consuetudine soggetto alla regolamentazione della Compagnia. Non si sarebbe dimostrata timorosa.

«Ah, questi sono belli» disse Pembeck, mentre negli occhi si accendeva un familiare scintillio mercantile.

Il padre di Blandine, Willem, aveva iniziato la sua at-tività come armaiolo, di conseguenza lei poteva snoc-ciolare con facilità le caratteristiche delle armi.

«Proiettili rotondi, calibro .75, torniti a balaustro, cal-ciolo metallico, anima liscia, tamburo di ferro con giun-zioni anulari, profilo arrotondato e corrispondente cane con perno di rotazione a collo di cigno.»

Pembeck le strizzò l’occhio. «Siete sveglia, eh, ra-gazza? Non ne avevo idea.»

Non aveva idea che i moschetti sono torniti a balaustro e hanno un calciolo metallico? Oppure che una ragaz-zina giovane e carina come Blandine sapesse tante cose sui moschetti?

Pembeck soppesò uno degli esemplari più massicci. Aggrottò la fronte. «Solo che...»

«Sì?» chiese Blandine.

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«Non è il momento di vendere agli indigeni fucili a pietra focaia. Oggi come oggi quei wilden sono fin troppo esagitati.»

«Questi hanno otturatori a miccia. Guardate.» Alzò il meccanismo di sparo e mostrò all’ispettore lo scodellino di ottone della polvere.

Pembeck eseguì un gioviale mezzo inchino. «Con-cesso» disse.

Tirò su uno dei moschetti appoggiati sulle larghe assi di legno del pavimento dell’ufficio contabilità. «Armi da fuoco per cacciatori di animali da pelliccia. Quelli che usano le trappole saranno disposti a darvi in cambio per quest’arma un mucchio di pelli di castoro alto quanto la sua canna.»

Appoggiò il palmo della mano sulla bocca del mo-schetto. Pur di averlo, un indiano non avrebbe esitato a barattarlo con una pila di pelli di castoro «commer-ciabili» alta cinquantanove pollici.

sì, sì, non occorre che me lo diciate, pensò Blandine. Come gongolano gli uomini a tenere lezione a una donna!

Dentro di sé, tuttavia, esultava, ma si guardava bene dal dimostrarlo. Senza avere mai commerciato in pelli di castoro, ecco che avrebbe potuto averne tre pile alte cin-que piedi e ciascuna pila di – quante pelli? – trenta, tren-tacinque.

In precedenza, quella stessa giornata, aveva chiesto a Miep in forma di indovinello quanto sarebbe potuto es-sere il potenziale profitto. «La pelliccia di un animale cat-turato in inverno è assai più folta, e vale molto di più, di quella di un animale catturato in estate» le aveva detto.

«Sissignora» aveva risposto Miep, che a volte la guar-dava con l’ammirazione che potrebbe provare un lom-brico alla vista di uno scalatore acrobata, incredula che si potessero fare certe cose.

Blandine aveva continuato: «Cento castori, diciamo,

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per fare cifra tonda, a otto fiorini l’uno, se il mercato regge».

«Ottocento fiorini» aveva detto Miep, con il tono pio che assumeva ogni volta che si parlava di denaro.

«Togli il costo dei moschetti, le spese di trasporto, in tutto forse duecentosettanta fiorini a dir tanto. Quanto resta?»

Era rimasta a osservare le rotelline in moto nel cervello della ragazzina. «Seicentotrenta» aveva risposto Miep.

Be’, una rotellina non aveva funzionato alla perfezione. «Cinquecentotrenta, vero?» l’aveva corretta gentilmente.

Miep era arrossita, ma Blandine pensava soltanto al bel gruzzolo. La primavera prossima, avrebbe avuto un utile netto di cinquecento fiorini.

Soltanto dal commercio dei moschetti.Il rischio esisteva, naturalmente. Il cacciatore con il

quale avrebbe contrattato lo scambio avrebbe potuto dileguarsi con il moschetto nelle impenetrabili regioni selvagge senza portarle neanche una pelle la primavera successiva. Lui stesso avrebbe potuto morire nel lungo inverno, tanti erano i pericoli della stagione. Avrebbe po-tuto essere vittima di altri wilden, essere sbranato da una bestia selvatica, perdere l’orientamento, impazzire.

Nessun rischio, nessun profitto. Lo aveva imparato, bambina, da suo padre. Più alto il rischio, maggiore il profitto. Fin da piccola Blandine pensava che comprare e vendere fosse un gioco divertentissimo. Il commercio era il mestiere che più le piaceva.

Quello era il suo anno fortunato. I portenti che molti consideravano di malaugurio a lei sembravano di buon auspicio, segni del suo imminente successo. Una cometa luminosa aveva attraversato il cielo notturno. Il primo giorno dell’ultimo mese dell’estate, un doppio arco-baleno aveva indicato un sentiero che puntava verso il North River. Nel quartiere di Corlaers Hook una donna

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giurava di avere visto in cielo una schiera di uomini ar-mati di picca. A Haarlem una mucca aveva partorito un vitello con due teste.

Il clima sembrava impazzito, come la precoce tempe-sta di neve che aveva vorticato fuori delle finestre di per-gamena unta degli uffici contabili, neve mista a turbini di foglie autunnali multicolori.

«vi imbarcherete sulla Rosa di Amsterdam?» le chiese Pembeck.

«Sì, domani. Con la prima marea» rispose Blandine.«Portate con voi la ragazza?» domandò l’uomo de-

gnandosi di notare Miep che, confusa, fece di nuovo una riverenza.

«No, non ha abbastanza esperienza.»«Il vostro gigante, allora?» Eccolo che si era tradito. Pembeck di malavoglia aveva

lasciato intendere che sì, dopotutto sapeva benissimo chi era Blandine van Couvering.

«Sempre con me.» La peculiarità più marcata di Blan-dine, agli occhi degli estranei, era che nei viaggi non mancava mai di farsi accompagnare da Antony Angola, l’uomo più alto tra quelli che popolavano la colonia, suo amico, sua ombra.

«Brutto tempo» disse l’ispettore. Rapidamente, tim-brò con il sigillo della Compagnia la polizza di carico, calcolò che l’imposta doganale ammontava a quattordici fiorini e ricevette il pagamento.

Un lieve tintinnio, e le monete d’argento suonarono la loro melodia nel passare dalla mano di lei al palmo di lui.

La moneta era una rarità nella colonia. Gran parte dei commerci avveniva per baratto o in cambio di conchi-glie – wampum – usate come denaro. Il piccolo tesoro di monete d’argento con l’effigie del leone su una faccia, che Blandine aveva messo da parte e aveva appena con-segnato a Pembeck, rappresentava la maggior parte dei

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suoi risparmi. Li guardò sparire nella borsa dell’ispet-tore.

L’allegrezza ebbe tuttavia la meglio. Era fatto. Ormai poteva partire.

Com’è naturale, poiché ogni cosa buona apre la strada a una cattiva, una nube comparve nel suo cielo azzurro. Sulla soglia dell’ufficio si profilò la figura imponente di Antony, riempiendo il vano della porta.

Difficoltà. vedendo l’espressione sul suo viso, Blan-dine prese immediatamente lo scialle azzurro e, nello stesso istante, Antony si girò e sparì lungo la strada. I suoi lunghi passi gli davano un grande vantaggio.

«va’ a casa» disse in fretta a Miep. «Signora?»«La lezione è finita.»Facendosi strada tra i mercanti che affollavano gli uf-

fici, Blandine van Couvering uscì all’aperto, sotto la neve, allacciandosi lo scialle intorno alla vita quasi si preparasse a una battaglia.

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