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EDITORIALE Area Carismatica Cantiamo al Signore con gioia 1. Maria conosce il segreto dell’evange- 2. lizzazione Cantiamo al Signore il canto dell’amore 1. Dieci parole per la musica liturgica 2. Motu Proprio “Quaerit Semper” 3. Il Motu Proprio di Pio X (1903) 4. Lettera di Giovanni Paolo II agli artisti 5. Area Tecnica Area Liturgico - Musicale Difetti nell’uso della voce 1. Impariamo a suonare un canto 2. 369. Diamo gloria al Signore 372. Lodate il Signore Anno 0 - Numero 8-9-10 Giugno - Luglio - Agosto 2012 Foglio di collegamento a cura del Servizio Diocesano Musica e Canto Diocesi di Napoli Gli strumenti musicali nella Liturgia Indice dell’annata Gli strumenti musicali nella liturgia 1. Tutti gli articoli inseriti nei vari numeri per Aree Specifiche Sulle ote dello Spirito Inserto Speciale Manuale di improvvisazione per chi suona la chitarra ad orecchio “Signore, tu ci hai creato per te ed inquieto è il nostro cuore se non riposa in te”. Queste parole di S. Agostino furono illuminanti (e lo sono sempre) per la vita di ogni essere umano, che le ha lette, ascoltate, cantate, e quindi per ogni cantore e musicista. L’essere cantori, musicisti, è una chiamata, un dono di Dio; dono che va fatto “pane spezzato” e messo a servizio dell’umanità. Prevalga sempre attraverso il nostro servizio, il senso dell’ascolto della Parola di Dio e della preghiera tesa a cercare un rapporto con Lui e portare attraverso un servizio serio, illuminato, unto ogni fratello e sorella. Quanto più il nostro cuore, tutto il nostro essere saranno sulle frequenze celesti, tanto più realizzeremo le parole del salmo 95: “Cantate al Signore un canto nuovo, cantate da tutta la terra…”.

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Giugno - Luglio - Agosto 2012

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EDITORIALEArea Carismatica Cantiamo al Signore con gioia1. Maria conosce il segreto dell’evange-2. lizzazione

Cantiamo al Signore il canto dell’amore1. Dieci parole per la musica liturgica2. Motu Proprio “Quaerit Semper”3. Il Motu Proprio di Pio X (1903)4. Lettera di Giovanni Paolo II agli artisti5.

Area Tecnica

Area Liturgico - Musicale

Difetti nell’uso della voce1. Impariamo a suonare un canto2. 369. Diamo gloria al Signore �372. Lodate il Signore �

Anno 0 - Numero 8-9-10Giugno - Luglio - Agosto 2012

Foglio di collegamento a cura delServizio Diocesano Musica e Canto

Diocesi di Napoli

Gli strumenti musicali nella Liturgia

Indice dell’annata

Gli strumenti musicali nella liturgia1.

Tutti gli articoli inseriti nei vari numeri �per Aree Specifiche

SulleotedelloSpirito

Inserto SpecialeManuale di improvvisazione per chi suona la chitarra ad orecchio

“Signore, tu ci hai creato per te ed inquietoè il nostro cuore se non riposa in te”.

Queste parole di S. Agostino furono illuminanti (e lo sono sempre) per la vita di ogni essere umano, che le ha lette, ascoltate, cantate, e quindi per ogni cantore e musicista.

L’essere cantori, musicisti, è una chiamata, un dono di Dio; dono che va fatto “pane spezzato” e messo a servizio dell’umanità.

Prevalga sempre attraverso il nostro servizio, il senso dell’ascolto della Parola di Dio e della preghiera tesa a cercare un rapporto con Lui e portare attraverso un servizio serio, illuminato, unto ogni fratello e sorella.

Quanto più il nostro cuore, tutto il nostro essere saranno sulle frequenze celesti, tanto più realizzeremo le parole del salmo 95:

“Cantate al Signore un canto nuovo, cantate da tutta la terra…”.

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La musica non è:

Un modo di radunare la gente prima dell’incontro di preghiera, cosi smettono di chiacchierare.Uno stacco fra le diverse parti dell’incontro di preghieraUn modo per sgranchirsi le gambe, quando si canta in piedi, di sgranchirsi le gambe e le braccia

dopo una predica noiosa.Un modo per interessate ed intrattenere i giovani, che se no non verrebbero neanche in

Chiesa.

La musica è:

Un linguaggio che Dio ha scelto ed incoraggia, per comunicare con il cuore dell’uomo; vedi i Salmi 33:1, 92:1, 147:1 e, soprattutto, il Salmo 22:3, dove dice che Dio dimora nelle lodi del Suo popolo. Per chi avesse dubbi che la parola “lode” non implichi la musica, si fa notare che la parola tehillal usata nel 33, 147 e 22, vuol dire “salmo, o canto di lode”, e quella usata nel 92, zamar, e il verbo “dare lode, o cantare lodi”.

Un linguaggio che parla a tutte e tre le sfere umane: corpo, anima e spirito. Guarda caso, anche la musica viene suddivisa spesso in ritmo, melodia ed armonia;

Un linguaggio di carattere profetico, perché ha la capacità, come la profezia (I Co.14:3), di “edificare, esortare e consolare”; non a caso Asaf, Jeduthun ed Heman erano profeti, chiamati anche i “veggenti del re”, ed erano i tre responsabili designati da Davide per tutto ciò che riguardava la lode nel tempio (1 Cr. 15:16 e segg.).

di Nicola Montuori, già delegato regionale musica e canto della Campania, membro anziano della corale nazionale, coordinatore del gruppo amicizia di Pscinola (Na)

cantiamo al signore con gioia1.

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Un linguaggio di carattere divino, perché la musica era già con Dio quando Lui creava l’universo (Giobbe 38:7), nel tempo e fuori del tempo (vedi per esempio alla nascita di Gesù nel tempo, Luca 2:13, e fuori del tempo quando l’Agnello siede sul trono, Apoc. 5:8-9).

Il curioso ruolo di Lucifero

Quando Dio crea Lucifero (questa l’interpretazione data da molti studiosi che si basano sui testi di Isaia 14:9-15 ed Ezechiele 28:11-19), mette al suo servizio “flauti e tamburi”; ripeto, al suo servizio, quindi Dio dà a Lucifero il ruolo di “responsabile della lode e dell’adorazione”. Cosa succede allora quando Lucifero cade, trascinandosi dietro un terzo degli angeli? Che il posto del responsabile della lode rimane vacante: possiamo immaginare che in cielo, per un tempo, vi sia stato silenzio... e qui si inserisce la Chiesa, cioè noi. La Chiesa prende il posto di Lucifero, ed in questo diviene un pubblico spettacolo di fronte a principati e podestà, ed agli angeli perplessi, che “vorrebbero guardare dentro a questa

situazione” che non riescono a capire (1 Pi. 1:12). Dalla polvere, Dio si trae un popolo che Lo loda, Egli che “chiama le cose che non sono” e le fa essere! (Salmo 102:18-22 e Isaia 43:21). E questa creazione fatta dal fango della terra fa “mangiare la polvere” a Satana (Ge. 3:14, Is. 65:25). Capite ora il ruolo della musica? Dio vuole che ci sia musica nel Suo popolo. È un linguaggio che Dio ha scelto, e che Lui vuole che noi usiamo.

La consapevolezza del nostro ruolo

Una delle più grandi macchinazioni di Satana è stata il cercare di togliere la gioia dal popolo di Dio. Lo fa con Davide, quando danzò davanti all’arca del patto, lo fa nelle persecuzioni e nelle deportazioni, dove la tristezza prende il posto della gioia (Salmo 137).

Lo fa ancora adesso, quando cerca di convincerci a rimanere ancorati a “vecchi modelli” per tanti motivi:

Tradizione: “si sono sempre cantati questi canti, perché abbandonarli?” (Cantate al signore un canto nuovo - Salmo 98:1...)

Immobilismo:

“Dio non guarda alla bravura, ma al cuore; che bisogno c’è di impegnarsi troppo? Mica saremo presuntuosi?” (Suonate maestrevolmente con giubilo - Salmo 33:3)

Paura di scandalizzare:

“non c’è bisogno di fare tutto questo strepito... il Signore non è mica sordo!”

(dimenticandoci che la parola hallal, da cui viene “alleluia”, vuol dire “fare rumore festoso”, e che

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ito in I°Cronache 15:16 Davide ordina ai Leviti musicisti di “suonare in modo vigoroso”; vedi anche

Salmo 95:1, 100 e 118:15)Ma allora, qual è l’atteggiamento giusto per cantare a Dio? È ciò che ci insegna S. Agostino.

Cantiamo al Signore il canto dell’amore

“Cantate al Signore un cantico nuovo, la sua lode risuoni nell’adunanza dei santi”.

Siamo stati ammoniti di cantare al Signore un cantico nuovo. L’uomo nuovo sa qual è il cantico nuovo. Il cantare è espressione di gioia, e, se pensiamo a ciò con un pò più di attenzione, è espressione di amore. Perciò colui che sa amare la nuova vita, conosce anche un cantico nuovo. Dobbiamo dunque sapere cosa sia questa vita nuova, a causa del cantico nuovo. Infatti tutto appartiene ad un unico regno, l’uomo nuovo, il cantico nuovo, il testamento nuovo. Perciò l’uomo nuovo canterà il cantico nuovo e farà parte del testamento nuovo.

Non c’è nessuno che non ami, ma bisogna vedere che cosa ama. Dunque non veniamo ammoniti a non amare, ma a scegliere l’oggetto del nostro amore. Ma che cosa scegliamo, se prima non veniamo scelti? Perché non siamo in grado di amare, se prima non siamo amati. Ascoltate l’apostolo Giovanni:

“Amiamo anche noi, perché egli per primo ci amò”.

Tu cerchi per l’uomo il motivo per il quale debba amare Dio, e non troverai affatto, se non perché Dio per primo lo ha amato. Colui che noi abbiamo amato ha dato se stesso, ha dato affinché noi potessimo amarlo. Che cosa egli abbia dato affinché noi lo amassimo, ascoltatelo in modo più chiaro dall’apostolo Paolo:

“L’amore di Dio, dice, è stato riversato nei nostri cuori”.

Da dove? Forse da noi? No. Da chi dunque? Dallo Spirito Santo elargitoci. Avendo dunque tanta fiducia, amiamo Dio da Dio. Ascoltate più chiaramente lo stesso

Giovanni:

“Dio è amore, e chi dimora nell’amore, dimora in Dio, e Dio dimora in lui”.

Non è sufficiente dire:

“L’amore è da Dio”.4

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oChi di noi oserebbe dire ciò che è stato detto:

“Dio è amore?”.

Lo disse colui che sapeva ciò che aveva. Dio, a farla breve, si offre a noi. Ci dice:

“Amatemi e mi avrete, perché non potete neppure amarmi, se non mi avrete”.

O fratelli, o figli, o stirpe cattolica, o seme santo e supremo, o rigenerati e nati in modo soprannaturale in Cristo, ascoltate me, anzi per mezzo mio:

“Cantate al Signore un cantico nuovo”.

Ecco, dici, io canto. Tu canti, certamente canti, lo sento. Ma la vita non abbia mai a testimoniare contro le tue parole.

Cantate con la voce, cantate con la bocca, cantate con i cuori, cantate con un comportamento retto:

“Cantate al Signore un cantico nuovo”.

Mi chiedete che cosa dovete cantare di colui che amate? Senza dubbio vuoi cantare di colui che ami. Cerchi le sue lodi da cantare? L’avete sentito:

“Cantate al Signore un cantico nuovo”.

Cercate le lodi?

“La sua lode risuoni nell’assemblea dei santi”.

Il cantore, egli stesso, è la lode che si deve cantare. Volete dire le lodi a Dio? Voi siete la lode che si deve dire. E siete la sua lode, se vivete in modo retto.

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maria conosce il segreto dell’evangelizzazione2.

Nella Rosarium Virginis Mariae, Giovanni Paolo II ha affermato:

“La contemplazione di Cristo ha in Maria il suo modello insuperabile. Il volto del Figlio le appartiene a titolo speciale. Nessuno si è dedicato alla contemplazione del volto di Cristo con altrettanta assiduità di Maria” (n. 10).

Nessuno, dice il Papa, conosce l’arte dell’amore più di Maria:

“i suoi occhi sono stati sempre puntati sugli occhi del Figlio”.

Nel suo sguardo c’è lo sguardo del Figlio. Nello sguardo di Maria sono raccolti ed espressi tutti gli sguardi dell’umanità, che cerca il volto di Gesù e non riesce a trovarlo, che ha trovato il volto di Gesù e, ritenendosi delusa, gli ha girato le spalle. Maria, come Mosè dinanzi al Roveto Ardente, più di Mosè, è contemplazione inesausta dei prodigi di Dio.

Maria è essa stessa fuoco d’amore che non può consumarsi, essendo intimamente unita all’inconsumabile amore dello Spirito Santo.

Il vescovo Filosseno di Mabbug, capitale dell Eufratensia, alla fine del V secolo scriveva:

“La Vergine ha accolto Dio come il fuoco che rimaneva nel roveto; e come là il fuoco dimorava nel roveto e ciò che appariva era una realtà duplice cioè fuoco e roveto così anche Dio, che venne nella Vergine e da lei si fece uomo, viene creduto Dio e uomo (in Sulla Trinità e sull’Incarnazione, 144).

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Impariamo da Maria, dalla sua contemplazione cristica, il segreto di un evangelizzazione fondata sul primato della grazia e non dei mezzi esteriori.

Maria, contemplando il Figlio, non solo diventa ciò che ammira, ma si lascia ammirare da noi tutti per ciò che è già diventata, per sovrana iniziativa divina. Maria diventa ciò che già è: costituita Madre dallo Spirito, lo diventa nella contemplazione del Figlio.

Nessuno, più di Maria, ha obbedito al richiamo di Gesù:

«Rimanete nel mio amore» (Gv 15, 9).

Gesù ripete a noi, come ai suoi discepoli:

“Non fuggite dal mio amore, non ritraetevi dalla contemplazione del mio volto, non cercate di farvi una ragione del mio amore, specie quando le vostre ragioni umane cozzano con le ragioni insensate del mio amore”.

Rimanete! dice Gesù. Rimanete!:

“ecco la parola chiave della sequela di Gesù, il verbo che implica la fatica di accogliere la sfida posta al nostro cuore, alla nostra intelligenza, alla nostra volontà”.

Rimanete, un invito che ci supera, perché supera la nostra natura umana. Chi è in grado di penetrare questo mistero? Chi lo può spiegare? Neanche Maria, la quale non si preoccupò di spiegarselo, ma decise di viverlo!

La mia esperienza nel Rinnovamento mi ha fatto godere della vista di migliaia di persone che hanno accettato questo invito a rimanere nell’amore di Gesù, introdotti dallo Spirito nell’intensità, nel sapore, nella fantasia di questo amore, più grande di ogni dolore o solitudine, più affascinante di ogni altro amore effimero che l’esistenza umana ci offre ogni giorno.

Solo lo Spirito Santo, mediante Maria, può portarci a questa scuola di contemplazione cristica, la sola che trasfigura il nostro volto di cristiani, la sola che può trasfigurare il volto del mondo.

Lo scrittore e poeta tedesco Herman Hesse così si rivolge a Maria, in una splendida lirica:

“Non sgridarmi! Non so pregare, voglio solo, passando innanzi, salire i tuoi gradini e vedere i tuoi occhi” (in Canti a Maria ).

Nel n. 10 della Rosarium Virginis Mariae sopra riportato, Giovanni Paolo II spiega lo sguardo contemplativo di Maria in cinque sguardi, proprio come cinque gradini che ci fanno scalare le vette dell’amore di Dio.

Ognuno di questi cinque sguardi ci svela l’azione dello Spirito Santo nella nostra vita, come nella vita di Maria. Ognuno di questi cinque sguardi è un segno della nuova evangelizzazione.

Li vogliamo fare nostri e con Maria, come Maria, dire il nostro sì allo Spirito Santo che ci chiama ad essere testimoni.

Questi i cinque sguardi:

“lo sguardo interrogativo lo sguardo penetrante lo sguardo addolorato lo sguardo radioso lo sguardo ardente”.

Sia, ora, Maria a condurci. E preghiamola, aiutati dal Papa Benedetto XVI:

“Maria, parlaci di Gesù, perché la freschezza della nostra fede brilli nei nostri occhi e scaldi il cuore di chi ci incontra Vogliamo vedere Gesù. Parlare con lui. Annunciare a tutti il suo amore” (Santa Casa di Loreto, 1 settembre 2007, Agorà dei giovani italiani). E sarà nuova evangelizzazione!.

Per ogni approfondimento: di Salvatore Martinez, I cinque sguardi di Maria - Per una nuova evangelizzazione (Edizioni Rinnovamento nello Spirito Santo)

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cantiamo al signore il canto dell’amore1.

Dai «Discorsi» di sant’Agostino, vescovo (Disc. 34, 1-3. 5-6; CCL 41, 424-426)

«Cantate al Signore un canto nuovo; la sua lode nell’assemblea dei fedeli» (Sal 149, 1).

Siamo stati esortati a cantare al Signore un canto nuovo. L’uomo nuovo conosce il canto nuovo. Il cantare è segno di letizia e, se consideriamo la cosa più attentamente, anche espressione di amore. Colui dunque che sa amare la vita nuova, sa cantare anche il canto nuovo. Che cosa sia questa vita nuova, dobbiamo saperlo in vista del canto nuovo. Infatti tutto appartiene a un solo regno: l’uomo nuovo, il canto nuovo, il Testamento nuovo. Perciò l’uomo nuovo canterà il canto nuovo e apparterrà al Testamento nuovo. Non c’è nessuno che non ami, ma bisogna vedere che cosa ama. Non siamo esortati a non amare,

ma a scegliere l’oggetto del nostro amore. Ma che cosa sceglieremo, se prima non veniamo scelti? Poiché non amiamo, se prima non siamo amati. Ascoltate l’apostolo Giovanni: “Noi amiamo perché egli ci ha amati per primo” (cfr. 1 Gv 4, 10). Cerca per l’uomo il motivo per cui debba amare Dio e non troverai che questo: “perché Dio per primo lo ha amato. Colui che noi abbiamo amato, ha dato già se stesso per noi, ha dato ciò per cui potessimo amarlo”. Che cosa abbia dato perché lo amassimo, ascoltatelo più chiaramente dall’apostolo Paolo: «L’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori» (Rm 5, 5).

Da dove? Forse da noi? No. Da chi dunque? «Per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato» (Rm 5, 5). Avendo dunque una sì grande fiducia, amiamo Dio per mezzo di Dio. Ascoltate più chiaramente lo stesso Giovanni: «Dio è amore; chi sta nell’amore dimora in Dio e Dio dimora in lui» (1 Gv 4, 16). Non basta dire: «L’amore è da Dio» (1 Gv 4, 7). Chi di noi oserebbe dire ciò che è stato detto: «Dio è amore»? Lo disse colui che sapeva ciò che aveva. Dio ci si offre in un modo completo. Ci dice: Amatemi e mi avrete, perché non potete amarmi, se già non mi possedete. O fratelli, o figli, o popolo cristiano, o santa e celeste stirpe, o rigenerati in Cristo, o creature di un mondo divino, ascoltate me, anzi per mezzo mio: «Cantate al Signore un canto nuovo». Ecco, tu dici, io canto. Tu canti, certo, lo sento che canti. Ma bada che la tua vita non abbia a testimoniare contro la tua voce. Cantate con la voce, cantate con il cuore, cantate con la bocca, cantate con la vostra condotta santa. «Cantate al Signore un canto nuovo». Mi domandate che cosa dovete cantare di colui che amate? Parlate senza dubbio di colui che amate, di lui volete cantare. Cercate le lodi da cantare? L’avete sentito: «Cantate al Signore un canto nuovo». Cercate le lodi? «La sua lode risuoni nell’assemblea dei fedeli». Il cantore diventa egli stesso la lode del suo canto. Volete dire le lodi a Dio? Siate voi stessi quella lode che si deve dire, e sarete la sua lode, se vivrete bene.

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Espressiva. Una domenica qualunque, mi trovavo in una parrocchia per assistere alla Messa. Ovviamente, per deformazione professionale, ero particolarmente attento ai canti che erano eseguiti e quindi anche in quella occasione il mio orecchio poneva particolare attenzione ai suoni che venivano da un gruppetto che era ormeggiato nei primi banchi della navata centrale. Questo gruppo si dava da fare nella performance, che era praticamente costituita dal repertorio beat aggiornato alle ultime produzioni ricalcanti questo stile. Impugnavano le loro chitarre con malcelata confidenza e baldanza e, fatti sicuri di un microfono a pericolosa distanza di sicurezza, ce la mettevano proprio tutta. Osservavo questi

fedeli impegnati nell’animazione e potevo veramente vedere che ponevano tutta la loro buona volontà nel rendere quello che andavano cantando “espressivo”.

Non essendo convinto (tuttora) che quel repertorio sia adeguato alle celebrazioni liturgiche mi chiesi quale doveva essere il rapporto fra la loro buona volontà e il risultato. Mi sembra di poter fare alcune osservazioni: la prima è che solitamente questi gruppi esprimono un’appartenenza, in questo caso quella dell’essere giovani che viene mediata da un certo tipo di musica che si ascolta. La seconda è che quest’appartenenza non deve essere in contrasto con l’appartenenza liturgica. Mi spiego. Nella liturgia noi non celebriamo il presente, ma ci apriamo all’eterno. È vero che ogni musica vive nel presente ed è fatta di presente ma è anche vero che ci sono alcuni tipi di musica che sono veramente segno e simbolo del quotidiano. Come già detto, la musica pop è la regina di questi repertori, ed esprime tipicamente ansie e gioie e sentimenti pienamente iscritti nella nostra vita di tutti i giorni, chi più chi meno. Quando chiedo ai miei studenti perché a loro piace la musica pop o rock, mi dicono che si sentono “comodi”, rappresentati. Su questo non ho nulla da dire. Ma nella liturgia noi non ci rappresentiamo di per sé come gruppo (giovani, anziani, dopolavoro…) ma come comunità liturgica, come popolo di Dio. Non siamo noi che viviamo, direbbe san Paolo, ma Cristo che vive in noi. Quindi, tutto ciò che denota un’appartenenza sociale può essere inadeguato.

Mi rendo conto che ci si prodiga in liturgie per tutte le categorie sociali e questo se ben inteso è anche un bene: ma bisogna sempre tenere presente che esse dovrebbero poi essere inserite nell’ambiente liturgico del popolo di Dio, non il contrario. Ci possono essere rare eccezioni (i bambini per esempio o categorie svantaggiate) ma tutti siamo membra dell’unico corpo, ciò che celebriamo è il corpo, non le membra. Quindi sì alle liturgie per i bambini, per i militari, per i giovani ma no alle liturgie dei bambini, dei militari o dei giovani (o di chicchessia). L’espressività della musica liturgica non dovrebbe derivare dall’essere espressione della parzialità ma dovrebbe aprirsi ad una certa universalità (e questa in effetti era una delle caratteristiche che richiedeva san Pio X nel suo Motu Proprio). Quindi bisognerebbe riscoprire l’oggettività della musica liturgica come

di Aurelio Porfiri (Aurelio Porfiri vive a Macao ed è sposato, con un figlio. È professore associato di musica liturgica e direzione di coro e coordinatore per l’intero programma musicale presso la University of Saint Joseph a Macao (Cina). Da anni scrive per varie riviste tra cui: L’Emanuele, la Nuova Alleanza, Liturgia, La Vita in Cristo e nella Chie-sa. È socio del Centro Azione Liturgica (CAL) e dell’Associazione Professori di Liturgia (APL).Come compositore ha al suo attivo Oratori, Messe, Mottetti e canti liturgici in latino, italiano ed inglese.)

dieci Parole Per la mUsica litUrgica: “esPressiva”2.

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via alla rappresentazione efficace e mediata delle emozioni che proviamo. Oggettivo non significa non sentimentale ma significa che esprime il sentimento della collettività liturgica, l’insieme della Chiesa terrestre e celeste. Non è una rivendicazione di categoria ma un anelito che unisce il cielo e la terra. Anche qui vorrei chiedere aiuto a Romano Guardini:

“Il singolo deve rinunziare a pensar a modo proprio e a percorrere le vie proprie, giacché deve perseguire fini e intenti e seguire pensieri e vie, che la liturgia gli propone. Deve rinunziare per essa a disporre di sé; deve pregare con gli altri anziché procedere per conto proprio; ascoltare, anziché riflettere tra sé e sé; attenersi alla norma, anziché muoversi secondo il proprio volere. Compito dell’individuo è inoltre di ‘realizzarÈ il mondo delle idee liturgiche; deve uscire dalla cerchia consueta dei suoi pensieri e appropriarsi un mondo spirituale più vasto e comprensivo; deve andar oltre i suoi scopi personali per accogliere le finalità formative della grande comunità liturgica umana ” (“Introduzione allo Spirito della Liturgia, Pagg. 39-40).

Credo che sia espresso chiaramente il concetto che cerco di far passare: la musica liturgica non esprime l’io, ma il noi liturgico. Essa è oggettiva nel senso che si pone come scopo quello di mediare l’inconoscibile e quindi esprime ciò che è inesprimibile. Se ci si pone solo da un lato della relazione liturgica (Naturale/Soprannaturale) manca ovviamente l’elemento fondante dell’agire liturgico. Il

problema dell’appartenenza sociale non è ovviamente limitato a chi fa la musica per la chiesa di tipo pop, ma anche a chi si nasconde spesso dietro repertori come il canto gregoriano o la polifonia per difendere un’idea del passato che probabilmente è anche irreale. Come ripeto, in questo caso la colpa non è dei repertori ma di chi ne fa l’abuso. Quindi qual è la differenza? La differenza è che nel caso della musica di tipo pop, l’appartenza è insita nella musica stessa, mentre

nel secondo caso l’appartenenza è in chi fa un uso sbagliato di un repertorio che di per sé non appartiene a nessuno, se non alla Chiesa come affermato in documenti magisteriali.

Guardini anche diceva che la liturgia nel suo insieme non è favorevole all’esuberanza dei sentimenti. Io credo che questo andrebbe meditato attentamente. In effetti l’esuberanza dei sentimenti, quando prolungata e ostentata, mi fa pensare ad uno squilibrio che possiamo addirittura far riconoscere da quel mistico alla rovescia (come lo chiamava un professore di mia conoscenza) che risponde al nome di Friederich Nietzsche. Egli, ne “La Nascita della Tragedia”, suggeriva che l’unione tra l’apolinneo (ordine e misura) e il dionisiaco (disordine e estasi) dà vita alla tragedia greca. Questi due elementi non sono quindi in contraddizione se non in modo paradossale. Ecco, quando il dionisiaco prende il sopravvento si verifica uno squilibrio espressivo. La musica pop accentua fortemente l’elemento ritmico, proprio delle danze. Questo elemento è ovviamente fondamentale per la musica tutta ma nella pop è messo in particolare prevalenza, con un carattere di tipo ossessivo. Non è ovviamente un problema per la musica pop ma lo è probabilmente quando trasposto nella liturgia. La musica liturgica è espressiva nel senso corale del termine. Non sono io che mi elevo da solo alle altezze inaudite, ma le mie ali sul vento del canto nuovo sbattono all’unisono con mille altre ali per ritrovarsi insieme in un nuovo e più azzurro cielo.

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La Santa Sede ha sempre cercato di adeguare la propria struttura di governo alle necessità pastorali che in ogni periodo storico emergevano nella vita della Chiesa, modificando perciò l’organizzazione e la competenza dei Dicasteri della Curia Romana.

Il Concilio Vaticano II confermò, d’altronde, detto criterio ribadendo la necessità di adeguare i Dicasteri alle necessità dei tempi, delle regioni e dei riti, soprattutto per ciò che riguarda il loro numero, la denominazione, la competenza, i modi di procedere e il reciproco coordinamento (cfr. Decr. Christus Dominus, 9).

Seguendo tali principi, il mio Predecessore, il beato Giovanni Paolo II, procedette a un complessivo riordino della Curia Romana mediante la Costituzione apostolica Pastor bonus, promulgata il 28 giugno 1988 (AAS 80 [1988] 841-930), configurando le competenze dei vari Dicasteri tenuto conto del Codice di Diritto Canonico promulgato cinque anni prima e delle norme che già si prospettavano per le Chiese orientali. In seguito, con successivi provvedimenti, sia il mio Predecessore, sia io stesso, siamo intervenuti modificando la struttura e la competenza di alcuni Dicasteri per meglio rispondere alle mutate esigenze.

Nelle presenti circostanze è parso conveniente che la Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti si dedichi principalmente a dare nuovo impulso alla promozione della Sacra Liturgia nella Chiesa, secondo il rinnovamento voluto dal Concilio Vaticano II a partire dalla Costituzione Sacrosanctum Concilium.

lettera aPostolica in forma di motU ProPrio 3. «qUaerit semPer» del sommo Pontefice benedetto xvi

con la quale è modificata la Costituzione apostolica Pastor bonus e si trasferiscono alcune competenze dalla Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti al nuovo Ufficio per i procedimenti di dispensa dal matrimonio rato e non consumato e le cause di nullità della sacra Ordinazione costituito presso il Tribunale della Rota Romana.

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Pertanto ho ritenuto opportuno trasferire ad un nuovo Ufficio costituito presso il Tribunale della Rota Romana la competenza di trattare i procedimenti per la concessione della dispensa dal matrimonio rato e non consumato e le cause di nullità della sacra Ordinazione.

Di conseguenza, su proposta dell’Em.mo Prefetto della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti e col parere favorevole dell’Ecc.mo Decano del Tribunale della Rota Romana, sentito il parere del Supremo Tribunale della Segnatura Apostolica e del Pontificio Consiglio per i Testi Legislativi, stabilisco e decreto quanto segue:

Art. 1.

Sono aboliti gli articoli 67 e 68 della menzionata Costituzione apostolica Pastor bonus.

Art. 2.

L’articolo 126 della Costituzione apostolica Pastor bonus viene modificato secondo il testo seguente:

Art. 126 § 1. Questo Tribunale funge ordinariamente da istanza superiore nel grado di appello presso la Sede Apostolica per tutelare i diritti nella Chiesa, provvede all’unità della giurisprudenza e, attraverso le proprie sentenze, è di aiuto ai Tribunali di grado inferiore.

§ 2. Presso questo Tribunale è costituito un Ufficio al quale compete giudicare circa il fatto della non consumazione del matrimonio e circa l’esistenza di una giusta causa per concedere la dispensa. Perciò esso riceve tutti gli atti insieme col voto del Vescovo e con le osservazioni del Difensore del Vincolo, pondera attentamente, secondo la speciale procedura, la supplica volta ad ottenere la dispensa e, se del caso, la sottopone al Sommo Pontefice.

§ 3. Tale Ufficio è anche competente a trattare le cause di nullità della sacra Ordinazione, a norma del diritto universale e proprio, congrua congruis referendo.

Art. 3.

L’Ufficio per i procedimenti di dispensa dal matrimonio rato e non consumato e le cause di nullità della sacra Ordinazione è moderato dal Decano della Rota Romana, assistito da Officiali, Commissari deputati e Consultori.

Art. 4.

Il giorno dell’entrata in vigore delle presenti norme, i procedimenti di dispensa dal matrimonio rato e non consumato e le cause di nullità della sacra Ordinazione pendenti presso la Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti, saranno trasmessi al nuovo Ufficio presso il Tribunale della Rota Romana e da esso saranno definiti.

Tutto ciò che ho deliberato con questa Lettera apostolica in forma di Motu Proprio, ordino che sia osservato in tutte le sue parti, nonostante qualsiasi cosa contraria, anche se degna di particolare menzione, e stabilisco che venga promulgato mediante la pubblicazione sul quotidiano «L’Osservatore Romano», entrando in vigore il giorno 1° ottobre 2011.

Dato a Castel Gandolfo,il giorno 30 agosto dell’anno 2011, settimo del Nostro Pontificato.

Benedetto XVI

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Il Motu proprio di Pio X può essere considerato il punto di arrivo che raccoglie fermenti, istanze e principi riformatori ispirati da uomini illuminati, coraggiosi e convinti della necessità di un rinnovamento della vita liturgica e della musica sacra, oppure il punto di partenza per una rinnovata riflessione teologica e pastorale sulla liturgia e in particolare sul canto sacro che troverà il suo compimento nelle acquisizioni della Costituzione Liturgica del Concilio Vaticano II.

Un documento storico infatti può essere letto in riferimento al tempo in cui fu scritto con l’intento di scoprire i motivi che lo hanno provocato, gli effetti che ha sortito, e nello stesso tempo può essere studiato in una prospettiva più ampia e nell’eventuale sua carica profetica: quanto cioè abbia saputo interpretare, prevedere, scavalcare la contingenza per affermare principi e additare valori universali.

Non è materialmente possibile passare in rassegna tutti i documenti pontifici che

hanno direttamente o indirettamente affrontato la questione della musica sacra. Di uno almeno è importante fare cenno, la Costituzione Docta Sanctorum Patrum del 1324, poiché tra i due documenti papali, benché cronologicamente molto distanti tra loro, esiste un sottile filo che li unisce: il totale e convinto apprezzamento del canto gregoriano.

Nel primo documento (Docta Sanctorum Patrum) il canto gregoriano viene invocato in un momento storico nel quale stava perdendo la propria identità, nel secondo (Motu Proprio), ormai recuperato allo splendore della genuina tradizione, il canto gregoriano viene consacrato come canto proprio della liturgia romana. È il segno che la Chiesa ha sempre dimostrato una certa “sollecitudine” verso ciò che considera uno dei ministeri più alti che Cristo le ha donato: l’azione liturgica, come memoria del suo sacrificio, e con essa il canto sacro.

A rileggere la Costituzione Docta sanctorum patrum di Giovanni XXII del 1324, il primo di una lunga serie di documenti papali sulla musica sacra, ci spinge dunque la ricerca di alcune conferme storiche che sono alla base dei pronunciamenti successivi della Chiesa sul canto sacro; insomma è interessante indagare e scoprire quanto dei principi che oggi professiamo con Pio X, Pio XII, Paolo VI e Giovanni Paolo II sia contenuto in quel documento e quanto quelle antiche norme abbiano contribuito alla formazione dell’attuale patrimonio di idee e convinzioni.

il motU ProPrio di Pio x (1903): Una Persistente 4. attUalità

di Angelo CornoProveniente da studi filosofici, consegue presso il Pontificio Istituto Ambrosiano di Musica Sacra di Milano il Magistero in Canto Gregoriano sotto la guida di Luigi Agustoni e Fulvio Rampi. Collabora a riviste specializzate di canto gregoriano (Note Gregoriane) e canto corale (La Cartellina e Choraliter). Viene chiamato regolarmente a tenere lezioni su liturgia e canto gregoriano. È responsabile della musica liturgica della Parrocchia Santi Cosma e Damiano di Concorezzo.

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Qual era il contesto culturale in cui la Costituzione Docta sanctorum patrum fu concepita?

Una scossa alla musica ufficiale liturgica fu data certamente dai movimenti mistici duecenteschi: per la prima volta si configurava un tipo di canto religioso in volgare, confezionato per il popolo in contrapposizione con la raffinatezza del repertorio latino. In quegli anni nasceva la Divina Commedia, opera piena di fermenti, idealità, compendio della cultura universale dell’epoca e di una specifica visione religiosa del mondo, ma anche strumento di affermazione

delle lingue volgari. Nell’ambito della musica colta si allargavano gli orizzonti espressivi con la sperimentazione di forme polifoniche nuove e ciò veniva realizzato, almeno nei primi tempi, con quel canto che era quotidianamente tra le mani dei musicisti, cioè il canto liturgico.

È stato proprio il canto gregoriano che, per la prima volta nel corso della sua storia, ha pagato le spese di questo periodo di transizione. Quel tipo di canto che aveva raggiunto pochi secoli addietro vertici altissimi di perfezione stilistica, purissimo nella sua cristallina monodia, frutto portato a maturazione e alla pienezza di sapore da una diuturna e vissuta “ruminatio” del testo sacro, sul finire dell’epoca medioevale era progressivamente ignorato e soffocato da voci prive di una precisa identità che gli venivano caoticamente sovrapposte. Tali erano gli organa e i moteti. Per di più: un modo grossolano di scansione ritmica, basato sul ritorno periodico delle accentuazioni (modi ritmici) e sulla misurazione matematica dei valori (mensuralismo), tendeva gradualmente a prevalere sul libero e fluido snodarsi di frasi unicamente modellate sulla naturale musicalità della parola latina. Questi due elementi, il discanto e il mensuralismo, decretarono la fine del canto gregoriano.

In un secondo momento questi canti, la cui destinazione era sempre liturgica, cominciarono a imbastardirsi con l’applicazione alle voci superiori di testi in lingua diversa e con significati sempre più differenziati fino a quelli profani, satirici, erotici. Insomma, mentre una parte eseguiva Haec dies quam fecit Dominus le altre due si divertivano a imprecare e maledire coloro che non permettevano agli amanti di soddisfare liberamente i loro desideri d’amore.

Tutto ciò provocò la giusta disapprovazione dell’autorità ecclesiastica. Ed ecco il documento Docta Sanctorum Patrum. Spesso si è interpretato questo testo come “una condanna dell’intero sistema della polifonia misurata che con l’ars nova aveva raggiunto un assetto per certi aspetti definitivo”. (Alberto Gallo, La storia della musica, il Medioevo II, E.D.T.). In realtà il papa Giovanni XXII affronta il problema dal punto di vista liturgico e pastorale, unicamente preoccupato del decoro del canto ecclesiastico e quindi della preghiera cristiana.

Ecco le parole iniziali del documento:

“La dotta autorità dei Padri decretò che negli uffici della lode divina che si offrono per ossequio di doveroso servizio sia vigile la mente di tutti, non incespichi la parola e la modesta gravità dei salmeggianti canti ogni cosa con placida modulazione. Infatti (sta scritto che) «nella loro bocca risuonava un dolce suono». E risuona veramente dolce il suono nella bocca dei salmodianti quando, mentre pronunciano parole accolgono Dio nel cuore e con i canti accendono la devozione verso di lui”.

Fin dalle origini la Chiesa ha fissato un rapporto gerarchico tra canto e preghiera cristiana,

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nel senso che il primo era destinato al servizio della seconda: l’aspetto musicale di rivestimento sonoro non doveva risaltare a discapito della comprensione del testo liturgico; non solo, ma doveva essere coerentemente in accordo con il decoro della casa di Dio e la solennità della lode divina.

Lo stesso sant’Ambrogio, il più grande musicista dei Padri, che precede di parecchi secoli l’epoca d’oro del canto gregoriano, chiedeva un canto sacro consono all’azione liturgica. Diceva:

“La Scrittura ci insegna a cantare con gravità, a salmeggiare spiritualmente”:“Docuit nos Scriptura cantare graviter, psallere spiritualiter” (Commento al Vangelo di Luca).

E ancora:

“Il salmo è dolce ad ogni età, si addice all’uomo e alla donna. Lo cantano i vecchi, deposta la rigidezza della vecchiaia, lo cantano i giovani senza rischio di sensualità, le fanciulle senza che vacilli il loro candore…” (Commento al Salmo 1).

Insomma un canto davvero diverso da quello chiassoso e agitato delle occasioni profane.

Anche nella composizione dei suoi inni Ambrogio ebbe idee molto chiare, nonostante l’ostacolo quasi insormontabile per un autore cristiano di mettere in versi un testo sacro: fare poesia, a quei tempi, significava imitare l’arte pagana; e né Ambrogio, né altri avrebbero osato comporre poesie dal contenuto cristiano, utilizzando forme metriche pagane. Il vescovo milanese risolse il problema in maniera esemplare:

dal punto di vista metrico scelse il dimetro giambico (breve/lunga), raramente usato dai poeti classici e quindi non portatore di reminiscenze paganeggianti;

dal punto di vista formale evitò qualsiasi espressione che riconducesse a immagini mitologiche;

dal punto di vista dei contenuti fu costante il riferimento alle Sacre Scritture, facendo dell’inno uno strumento poderoso di insegnamento e di catechesi;

dal punto di vista ritmico, il sistema quantitativo cominciò a cedere il passo al sistema accentuativo, cioè si venne a delineare un rapporto nuovo tra l’accento verbale e il ritmo musicale. In tal senso Ambrogio fu sorprendentemente l’iniziatore di una nuova forma poetica rispettosa del ritmo naturale della parola.

Il papa Giovanni XXII si rifà dunque all’esempio dei Padri, non dice chi sono, ma probabilmente

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li intende nel loro insieme, come modello a cui riferirsi in materia di canto liturgico almeno fino al secolo X, epoca d’oro del canto ecclesiastico, nella quale si realizzò ciò che viene considerato ancora oggi un tesoro insuperato di musica ed espressività liturgica.

Alcune frammenti significativi del documento:

“La parola non incespichi e la modesta gravità dei salmeggianti canti ogni cosa con placida modulazione”.

È un’evidente allusione al caos prodotto dagli Organa e dai Moteti: era necessario ritornare ad una più adeguata e rispettosa proclamazione della parola biblico-liturgica, in preminenza assoluta

rispetto a qualunque tipo di musica. Questa non doveva trascurare ma rafforzare il senso delle parole. Il testo: esigenza prima e irrinunciabile, allora, oggi e domani.

“Dulcis sonus”: non è una dolcezza intesa in senso romantico-edonistico, ma una dolcezza strutturale, ontologica che il canto sacro deve possedere come dote innata, come modo di essere adeguato a sostenere e favorire la preghiera. Siamo molto lontani dalle qualità distintive indicate dai documenti più recenti; tuttavia sembra di cogliere un punto essenziale e attualissimo: il canto sacro deve essere dolce, soave, cioè in forma sapida, più intensa e maggiormente penetrante di quella espressa solo oralmente. Così la preghiera cantata è compatibile con il rito ed espressione della più pura

interiorità dell’uomo, diventando strumento di comunicazione della fede e strumento di comunione dei cuori. A proposito di centenari, ascoltiamo ciò che afferma, ribadendo questi concetti, Giovanni Paolo II il 21 settembre 1980, centesimo anniversario dell’Associazione Italiana Santa Cecilia:

“La musica destinata alla liturgia deve essere sacra per caratteristiche particolari, che le permettono di essere parte integrante e necessaria della liturgia stessa. Come la Chiesa, per quanto concerne luoghi, oggetti, vesti, esige che abbiano una predisposizione adeguata alla loro finalità sacramentale, tanto più per la musica, la quale è uno dei più alti segni epifanici della sacralità liturgica, essa (la Chiesa) vuole che possegga una predisposizione adeguata a tale finalità sacra e sacramentale, per particolari caratteristiche, che la distinguano dalla musica destinata, ad esempio, al divertimento, all’evasione o anche alla religiosità largamente e genericamente intesa”.

A questa dichiarazione fanno eco le parole pronunciate in un discorso del 1971 da Paolo VI:

“non tutto è valido, non tutto è lecito, non tutto è buono nella liturgia, esercizio del sacerdozio di Gesù Cristo, azione sacra per eccellenza”.

Ancora:

“Non indistintamente ciò che sta fuori del tempio (pro-fanum) è atto a superarne la soglia” (discorso di Paolo VI del 1973). Si potrebbe stabilire un nesso molto stretto che ricongiunge secoli di storia della Liturgia in un unico significato: dulcis sonus = predisposizione adeguata = sacro. Dove predisposizione adeguata significa quell’adesione interiore di chi si accinge ad un’opera tanto impegnativa qual è quella di cantare a Dio, “per accendere (dice il documento papale) la devozione verso di Lui”.

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oLe stesse parole ritroviamo nel Motu Proprio:

“affinché i fedeli con tale mezzo siano più facilmente eccitati alla devozione” (par. 1).

Un’ultima citazione che interessa da vicino il canto gregoriano:

“I compositori di Organa, conductus… hanno perso il senso della modalità originaria (tonos nesciant), le loro melodie obbediscono ormai ad una nuova e diversa sensibilità tonale e diventano irriconoscibili nelle nuove scale; non sono più quelle del Graduale o dell’Antifonario”.

Proprio qui deve essere ricercato il motivo principale dell’allarme del papa e di quanti avevano a cuore la sana tradizione del canto gregoriano: quel canto quasi “divinitus inspiratus”, intoccabile, veniva lacerato da rimaneggiamenti che dovevano apparire enormi e inaccettabili. Evidentemente al pontefice sfuggiva la piena consapevolezza del modus, della modalità, intesa come comportamento della melodia in simbiosi con il testo e in rapporto alla collocazione liturgica dei singoli brani, ma certamente il documento fu un forte richiamo al ritorno di uno schema strutturale della modalità, rispettosa del testo, con il quale la melodia ha uno strettissimo rapporto, e della forma legata al ruolo liturgico: insomma il pontefice, anche se in modo ingenuo e impreciso, avvertiva l’esigenza di ripristinare le melodie gregoriane in tutti i suoi aspetti, testuale, melodico e modale poiché soltanto la simbiosi di questi tre elementi era in grado di rappresentare al sommo grado la tradizione del canto liturgico. Sembra di riconoscere in questo appello “ante litteram” le ragioni di ciò che sarà il percorso di restaurazione del canto gregoriano intrapreso dai monaci benedettini di Solesmes nel secolo XIX.

Il documento fu ascoltato? In parte sì in parte no.

Qualche risultato fu ottenuto: il mottetto politestuale e di carattere profano, principale imputato, uscì di chiesa definitivamente. Le cosiddette Messe di Avignone (manoscritti di Ivrea del XIV secolo), successive al documento, hanno un carattere stranamente ascetico e calmo e una struttura musicale chiara e intelligibile. Comunque, al di là di ogni considerazione contingente, l’importanza storica del documento, per quanto datato, fu e rimane nella formulazione dei principi, dei quali ancora oggi risente l’attuale teologia della musica liturgica.

Dal punto di vista storico il canto gregoriano purtroppo subì un declino inarrestabile: la tropatura e le prime forme polifoniche portarono inevitabilmente alla disgregazione del ritmo naturale del nostro canto liturgico fino a giungere all’Editio Medicea del 1614, uno dei punti più bassi del processo di decadenza sia sotto l’aspetto della melodia, ormai lontanissima dall’originale, sia dal punto di vista della notazione quadrata per l’utilizzo di forme grafiche proporzionali. Questo “Graduale mediceo”, stampato “iussu Pauli V” è tristemente famoso perché, ristampato dall’editore Pustet di Ratisbona nel 1870 e favorito da un privilegio trentennale accordato dalla Santa Sede, servì lungamente da testo ufficiale di riferimento per le melodie gregoriane diventando, negli ultimi decenni del 1800, un concreto e serio ostacolo alla Restaurazione Gregoriana.

I redattori dell’Editio Medicea, appassionati, come sappiamo, della classicità, consideravano il latino ecclesiastico alla stregua del latino classico, prosodicamente organizzato secondo una metrica quantitativa (alternanza di sillabe lunghe e brevi: una sillaba lunga durava esattamente il doppio di una breve). Quindi anche al latino del canto gregoriano doveva essere applicato un ritmo musicale, rigorosamente rispettoso della quantità prosodica delle sillabe. Sicuri della verità della loro teoria metrica, i nostri esteti del Rinascimento si sentirono in dovere di correggere la 17

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ito melodia del canto gregoriano, quando non rientrava nei canoni enunciati, definendo tali anomalie

dei “barbarismi”.

I precedenti storici del Motu Proprio di Pio X.

I precedenti storici che portarono alla redazione del Motu Proprio si possono identificare in due grandi avvenimenti, i cui germogli spuntarono nei primi decenni del XIX secolo:

1: l’opera di restaurazione di Solesmes che si realizzò attraverso l’infaticabile lavoro dei suoi pionieri Guéranger, Pothier, Mocquereau, monaci benedettini di grande levatura culturale e spirituale, ai quali deve essere affiancata la figura importante del canonico Gontier.

2: il movimento ceciliano, che contribuì, attraverso il Congresso internazionale di Arezzo, a dare una prima scossa al privilegio accordato da Roma all’Edizione di Ratisbona.

1. L’idea restauratrice di Dom Prosper Guéranger si spiegò in due grandi direzioni, che si integravano a vicenda: la rinascita dell’ordine benedettino in Francia, dissolto dalla rivoluzione francese e il ripristino della liturgia romana, da tempo sostituita dalle liturgie locali (gallicanesimo). La prima opera sarà il mezzo più efficace per realizzare la seconda.

Le tappe di questo prodigioso cammino:

1833: viene ristabilita la vita benedettina nel Priorato di Solesmes.

1837: Guéranger viene eletto abate superiore generale della Congregazione benedettina di Francia e Solesmes diventa abbazia, casa madre della congregazione stessa.

1839-1851: pubblicazione delle sue opere fondamentali a favore di una liturgia riformata: le “Institutions liturgiques” e l’”Année liturgique” (500.000 copie vendute), con le quali ha rivelato a tutto il mondo cattolico il tesoro di bellezza e di pietà nascosto nella preghiera ufficiale della Chiesa. Per Guéranger, la liturgia era “l’insieme di simboli, di canti e di atti attraverso i quali la Chiesa esprime e manifesta la sua religione verso Dio”. Egli riteneva che non si poteva riformare la liturgia fino a quando il canto non fosse “restituito alle sue tradizioni antiche”. Questa idea della spiritualità benedettina fortemente dipendente dalla liturgia sarà il principio ispiratore dei fondatori dei vari centri monastici 18

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di Beuron e Maria Laach, di St. Ottilien, dei monasteri inglesi e italiani. Pio X ha consacrato ufficialmente questo nuovo indirizzo, proclamando nel Motu Proprio la Liturgia come “la prima e indispensabile fonte della pietà cristiana”.

1849-1852: ai Consigli Provinciali si afferma l’autorità dell’abate Guéranger e successivamente le diocesi francesi ad una ad una ritornano a Roma.

1875: data della sua morte; la Francia intera è ricondotta alla liturgia romana, l’ordine benedettino risorto si arricchisce di opere e uomini illustri.

1876: viene tessuto l’elogio del defunto abate dal pontefice Leone XIII, che lo definisce:

“strumento provvidenziale preparato da Dio alla Francia per ripristinare gli ordini religiosi, sostegno alla Chiesa romana per ristabilire l’uniformità dei riti distrutti dal vizio dei tempi”.

L’opera di restaurazione liturgica ebbe necessariamente un primo effetto, quello di sviluppare gli studi storici e critici sulla antichità cristiana. Ma, mettere in luce il valore degli antichi testi sacri, confermarne l’autorità e mostrarne la bellezza voleva dire occuparsi di ciò che accompagnava i testi medesimi e che aveva una parte così importante nel rito cattolico: il canto. Quel poco di integro che restava delle antiche melodie liturgiche bastò a dargli un’idea altissima della dignità del canto gregoriano e del compito di edificazione ad esso correlato. Per merito di Guéranger si fece strada un concetto importante: il canto è elemento integrante della liturgia.

Due erano i problemi da risolvere: ritrovare l’autentica frase gregoriana nel duplice aspetto testuale e melodico e rintracciare il metodo di esecuzione.

Per il primo punto egli enunciò un canone lapidario che dominerà tutte le ricerche successive:

“Quando manoscritti differenti di epoca e area geografica si accordano su una versione, possiamo affermare che si è ritrovata la frase gregoriana”. (dalle “Institutions liturgiques”).

Il primo passo verso la restaurazione fu fatto nella direzione del testo, restituito alla sua pronuncia autentica e tradizionale (la pronuncia romana) e alla sua integrità formale (praticata dalla liturgia romana) nel rispetto di un fraseggio chiaro e ben declamato. Nella stessa opera, l’abate afferma l’esigenza di una vera restituzione della melodia gregoriana, auspicando il ritorno all’antichità in quanto depositaria di una liturgia autentica. I suoi sforzi non approdarono ad un

risultato concreto come per esempio una rinnovata edizione di canto gregoriano. Pur seguendo le edizioni allora in corso, in particolare quella di Reims-Cambrai, aveva decisamente rifiutato le

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ito edizioni che riproducevano il canto riformato di Guillaume Nivers, organista de la “Chapelle du

Roi”, che addirittura aveva osato presuntuosamente modificare e talora creare ex-novo le melodie gregoriane per renderle degne del “decoro ecclesiastico”. L’abate era un critico avvertito e buon giudice sul valore delle edizioni correnti. Consultato nel 1846 per il progetto di un’edizione di canto sulla base di un solo codice riaffermò con decisione il principio che la lezione primitiva del canto gregoriano poteva essere ritrovata non sulla base di un solo manoscritto ma dal confronto di più manoscritti delle diverse chiese: è la prima grande intuizione verso il vero metodo paleografico che solo avrebbe condotto alla ricostruzione dell’antico canto della Chiesa.

Per quanto riguarda il modo di eseguire il canto gregoriano, la sua ancorché limitata conoscenza dei primi manoscritti che venivano alla luce in quel periodo gli aveva dato la netta sensazione che nessuna teoria mensurale potesse accordarsi a quelle antiche notazioni musicali, delle quali ancora non si conosceva l’esatto significato.

Non esitava a vedere “l’opera del diavolo” in quel canto battuto e misurato, che toglieva il carattere religioso (dulcis sonus) alla preghiera

liturgica. L’abate giudicava il ritorno all’autentica interpretazione delle melodie gregoriane altrettanto importante del ritorno alla melodia primitiva. Era certamente una affermazione di grande rilievo: se si pensa che le edizioni dei libri liturgici adottate nelle varie diocesi francesi, in particolare il già citato Graduale di Reims-Cambrai, si servivano di quattro tipi di note, di durata multipla, e che il vezzo di cantare il canto gregoriano a lunghe e brevi datava già dall’epoca rinascimentale e barocca, si comprende la portata innovatrice del ritorno al ritmo libero. Dom Guéranger indusse i suoi monaci a cantare con maggior scioltezza, senza considerare le note lunghe e brevi, con una dizione accurata e un andamento declamatorio comodo e naturale. Fu una vera rivoluzione, poiché il ritmo libero era ancora sconosciuto e sembrava irrimediabilmente perduto.

La fortuna volle che l’abate incontrasse un dotto sacerdote di Le Mans, il canonico Augustin-Mathurin Gontier, il quale, colpito dalla bellezza dei canti che l’abate faceva eseguire con metodo intuitivo nel monastero, volle dare una base storica e teorica al canto gregoriano con la sua “Méthode raisonnée de plaint-chant”, dato alle stampe nel 1859. È il primo documento di valore in materia, un’opera a cui lo studioso d’oggi deve guardare se vuole risalire alla sorgente moderna delle proprie ricerche e della propria identità. In questo lavoro è enunciato un principio fondamentale e valido ancora oggi: il ritmo libero oratorio è il ritmo proprio del canto gregoriano. Proprio perché nasce dal testo, il canto gregoriano ne assorbe pienamente tutte le qualità, dunque, accanto alla qualità melodica, anche quella del ritmo verbale, che rifiuta il concetto moderno di battuta o misura, ma poggia il suo fondamento sul fenomeno dell’”articolazione sillabica”, termine con il quale si intende il passaggio da una sillaba all’altra, da una parola all’altra, individuando in tal modo il procedimento essenziale che genera il movimento verbale nel suo continuo e diversificato fluire. È indispensabile “donare a ciascuna sillaba il suono e il valore che le appartengono, a ciascuna parola l’accento che le è proprio, a ciascun periodo la distinzione dei membri che lo compongono, per mezzo di una pausa regolare nel movimento di recitazione”.

Altre affermazioni rilevanti sono contenuto nella “Méthode”: “la nota o tempo primo gregoriano è indivisibile”; “il canto è una lettura intelligente, ben accentata, espressa in buona prosodia, in buon fraseggio”; “il canto gregoriano non è che musica allo stato di prosa, cioè musica naturale. Il suo ritmo non è che il ritmo della prosa”. Erano affermazioni di carattere generale, non ancora supportate dalle conoscenze paleografiche successive, ma che volevano contrastare le esecuzioni 20

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omensuralistiche dell’epoca e orientare decisamente gli sforzi verso la restaurazione scientifica del canto gregoriano. Infatti nella prefazione il canonico scrive:

“noi auspichiamo con tutte le forze una edizione che riproduca, perfezionandola, una versione del sec. XV; desideriamo ardentemente che un consesso di persone che studino e pratichino il canto piano si metta all’opera e doti la Chiesa di una edizione basata sui principi della scienza e della tradizione”.

Ancora:

“Nel canto piano sono presenti due caratteri il cui contrasto colpisce in modo singolare. Innanzitutto la semplicità, la naturalezza che gli assicura la perpetuità. Il canto piano è la preghiera cantata del popolo; suo testo è la prosa, suo movimento la recitazione; sua prosodia l’accentazione popolare, sua tonalità, la tonalità del popolo, la scala naturale dei suoni. Ma, eleviamo i nostri cuori, sursum corda, c’è nel canto gregoriano un senso misterioso e intraducibile. È l’accento della fede e la dolcezza della carità; è un’umiltà piena di confidenza, che sembra voler penetrare il cielo”.

Sembra anche qui di risentire l’espressione di Giovanni XXII quando parlava di “dulcis sonus”: deve penetrare nell’animo con dolcezza per orientarlo alla devozione. Ecco perché la rigidezza compassata e inflessibile della mensuralità non ha mai potuto essere l’espressione vera della preghiera pubblica: nel valore metrico della nota c’è qualcosa di mondano e artificiale (opera del diavolo, diceva Guéranger) e la nota misurata cancella in un certo modo il significato del canto; mentre “la recitazione è la natura”, e nella declamazione in prosa del canto piano valori e misura si fanno da parte, “numeri latent”, per far risaltare completamente il senso che è nel testo e nella musica. Sembra anche di avvertire un collegamento con l’estetica medievale della luce la quale è concepita come forma che tutte le cose hanno in comune: è il semplice che conferisce unità al tutto, e quindi, non diversamente dall’unisono nella musica, soddisfa l’anelito ad una armonia definitiva, alla riconciliazione del molteplice nell’unità, che è l’essenza dell’esperienza medievale della bellezza così come è l’essenza della sua fede.

Di fronte ad alcune esitazioni di Guéranger, Gontier ripeteva con insistenza che Solesmes doveva portare a compimento con determinazione l’opera di restaurazione appena intrapresa; non doveva fermarsi a metà del cammino o accontentarsi di un’opera provvisoria. Per lui le mutilazioni, le “correzioni” erano “corruzione”. In una lettera indirizzata a dom Guéranger diceva:

“Non abbiate timore di ingannarvi: voi riproducete un testo che non appartiene a voi, ma appartiene alla storia e alla liturgia”.

Joseph Pothier, anch’egli monaco di Solesmes, diede grande organicità, spinta, completezza e rinnovata modernità ai concetti sul ritmo espressi dal coraggioso Gontier. Chi, dopo la lettura della Méthode, si dedicherà alle “Mélodies grégoriennes d’après la tradition” comprenderà ancora meglio il cammino luminoso che sta alla base della restaurazione del canto gregoriano.

Pothier infatti possedeva quelle doti musicali che mancavano a Guéranger e a Gontier, e che fecero di questo monaco benedettino un gigante che riuscì a tradurre in pratica le illuminanti intuizioni dei suoi precursori. I risultati dei suoi lunghi studi furono consacrati in due opere fondamentali: “Les mélodies grégoriennes d’après la tradition” del 1880, che nell’intenzione dell’autore doveva servire da prefazione a “Il Liber Gradualis”, pubblicato nel 1883. I lavori di Pothier segnano nella storia della restaurazione gregoriana una pietra miliare da cui ha origine un lungo e fecondo periodo di studi di carattere scientifico e di utilità pratica 21

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incontestabile. Sì, il fine dell’illustre monaco fu principalmente pratico: il canto tradizionale doveva tornare intatto a vivere nella liturgia, non rimanere un bellissimo oggetto da museo per la curiosità degli eruditi. Pothier alla competenza teorica aggiungeva una preziosa esperienza, quella che gli offriva quotidianamente il coro nel monastero. In una materia così delicata solo un affinamento prolungato dell’orecchio poteva guidare sulla giusta via. I suoi principi sulla pronuncia corretta del latino, sulla unione delle sillabe e della melodia, sulla divisione della frase musicale, sulla esecuzione dei gruppi neumatici fecero scuola:

“la frase gregoriana doveva essere cantata con elasticità e calore, come un oratore proclama il suo discorso, e ciò non poteva essere realizzato attribuendo un valore proporzionale ai singoli suoni”.

Anch’egli, come Gontier, affermava che per il canto sillabico tutto il ritmo è nel testo; anche nel canto melodico, melismatico diremmo oggi, non si deve mai perdere di vista il testo; tuttavia nella melodia pura o nella frase

neumatica più ampia ci sono delle note più forti, nelle quali portiamo “un maggiore impulso”, ciò che Gontier chiamava “accento melodico”. Ma, mentre il canonico diceva che tale accento era riconoscibile nella notazione (in particolare nella nota caudata), Pothier sosteneva che “né archeologicamente, né teoricamente, né praticamente” si poteva ravvisare l’accento melodico nella notazione, ma si doveva risolvere in modo naturale, dando un impulso ora su una nota ora su un’altra. Pothier si mostrerà sempre decisamente ostile a una esagerata precisione nella determinazione del ritmo della frase gregoriana:

“la combinazione e il calcolo nel canto piano, scriveva, non esiste che nell’istinto naturale dell’orecchio, non ci sono regole per fissare le leggi del ritmo”.

La posizione di Gontier sarà alla base delle ricerche di Mocquereau, ma con una sostanziale differenza: Gontier assimilava l’ictus ritmico al tempo forte, Mocquereau, pur ammettendo la necessità di precisare il ritmo, ne segnalava l’indipendenza dall’intensità, sviluppando l’intuizione di Pothier e portandola alle estreme conseguenze con l’invenzione dei “segni ritmici”.

Il primo risultato concreto delle ricerche di Pothier , in collaborazione con un altro monaco, dom Jausions, finissimo calligrafo morto prematuramente, fu il Directorium chori, di rito monastico, pubblicato nel 1864. È importante perché viene ripristinata la notazione gregoriana in base alla forma che i neumi avevano nei manoscritti su rigo dell’epoca guidoniana. È il primo libro di canto restaurato a Solesmes, dove sono contenute le semplici preghiere che si cantavano nel refettorio: per le note isolate viene impiegata soltanto la nota quadrata; non compare né la caudata né la losanga, si scrivono d’un sol tratto i raggruppamenti neumatici divenuti perfettamente riconoscibili,

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non compare alcuna nota “forte”: tutto il ritmo è nel testo e di conseguenza viene abbandonata definitivamente la scrittura proporzionale.

Pothier, uomo libero e nemico di ogni sistematizzazione, soleva dire: “L’importante è saper dare al canto il movimento naturale della recitazione, individuare le divisioni sillabiche o melodiche necessarie ad un linguaggio semplicemente accentato o modulato, saper scegliere tra le diverse forme di raggruppamenti, quella che rende il testo più intelligibile e insieme conferisce più dolcezza alla melodia”. Ecco perché si dimostrò sempre contrario alle edizioni ritmiche del Graduale del 1908, uscito dal seno della Commissione Pontificia incaricata da Pio X di redigere una nuova e definitiva edizione dei libri di canto gregoriano per tutta la Chiesa: Pothier non riteneva necessario ricorrere a segni supplementari per meglio indicare i principali incisi della frase melodica, contrariamente a Mocquereau, altro gigante della restaurazione gregoriana, che spese molta parte della sua vita a costruire un buon sistema di “ponctuation” (la nostra punteggiatura) per facilitare l’esecuzione d’insieme del coro. È necessario ammettere che questo fu un grosso limite di questo grande monaco solesmense: quando si cerca di precisare troppo si rischia di cadere nell’arbitrario, cioè nell’errore che egli stesso voleva assolutamente evitare.

Nelle ricerche di questi studiosi, comunque, è sempre viva e ricorrente l’esigenza di ritrovare il ritmo naturale della parola. È questo principio che viene riaffermato nelle “Mélodies grégoriennes” del 1880, opera che ebbe subito una risonanza internazionale e nella quale per la prima volta si descrive e si spiega con sicurezza il significato dei neumi, le leggi del ritmo oratorio sono chiarite, la natura e il ruolo dell’accento latino sono messi in luce in modo definitivo. Nella prefazione Pothier ci rivela che lo stesso Guéranger aveva riveduto il manoscritto e suggerito parecchie correzioni. Fu una precisazione utilissima per ricollegarsi alla memoria del defunto abate, il quale, se non aveva ritenuto opportuno pubblicare l’opera, l’aveva tuttavia condivisa e assistita personalmente. A conclusione di questo paragrafo su Pothier è utile citare alcune frasi da Les Mélodies grégoriennes in ordine al concetto che l’autore aveva della musica sacra (canto gregoriano): “Per ben cantare, bisogna saperlo fare con arte… quando il canto ha per oggetto la lode di Dio, l’ignoranza e l’incuria non sono scusabili ed arrecano un grave disordine… senza dubbio la diligenza messa a ben cantare non deve degenerare in ostentazione: ciò che dobbiamo ricercare nel canto non è la soddisfazione dei sensi o il piacere dell’udito; tuttavia non bisogna credere che per lodare Dio degnamente, sia possibile offendere le orecchie e allontanare dalle nostre ufficiature ogni grazia”.

E ancora:

“Il canto gregoriano è un genere di musica capace di rendere i più svariati effetti, ma che deve attingere i suoi mezzi in se stesso e non nello sforzo e nell’arte di colui che canta. Non discostarsi dalla naturalezza è il sommo dell’arte: in questa semplicità e in questo buon gusto si ritrova il principale merito d’una buona esecuzione del canto gregoriano”.

2. Il movimento ceciliano e il congresso di Arezzo. È il secondo precedente storico che favorì una maturazione della musica sacra nella liturgia e, in qualche modo contribuì ad accelerare la riforma del canto sacro.

Riprenderemo più avanti la storia della restaurazione gregoriana con un altro grande monaco di Solesmes, dom André Mocquereau.

Erano gli anni in cui il fervore ceciliano, acceso dal canonico Franz Xaver Witt a Bamberg nel 1868 con la fondazione del Cacilien-Verein (Associazione Ceciliana), si propagava in tutta la Cristianità. In Europa e negli Stati Uniti sorsero numerose le Associazioni Ceciliane. A Milano don Guerrino Amelli inaugurava nel settembre del 1880 l’Associazione Italiana di S. Cecilia. Un nuovo spirito fermentava in campo musicale ecclesiastico e da più parti, in particolare in Francia e in Italia, si avvertiva l’urgenza di una riforma. L’ostacolo da superare era l’Editio Ratisbonensis,

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era altro che una riedizione dell’Editio Medicea, che la Sacra Congregazione dei Riti aveva dichiarato autentica in quanto conteneva il vero canto gregoriano.

La seconda assemblea generale dei Ceciliani d’Italia, tenuta a Milano nell’ottobre del 1881, aveva deliberato di solennizzare l’inaugurazione del monumento a Guido d’Arezzo nella sua città natale con un Congresso internazionale di canto liturgico. Don Guerrino Amelli profuse tutte le sue forze per organizzarlo degnamente. Alcune proposizioni enunciate nel documento preparatorio

contenevano senz’altro una carica esplosiva, di cui lo stesso Amelli non fu in grado di valutare la portata, ma che andavano nella direzione di una riforma radicale del canto liturgico:

si affermava che il congresso era indetto “allo scopo di migliorare le condizioni del canto liturgico;

si indicava “l’opportunità di un ristabilimento del canto liturgico secondo la sua vera tradizione”;

si auspicava una “edizione pratica dei libri di canto fermo da sottoporsi all’esame definitivo della S. Sede, affinché, una volta riconosciuta e approvata come veramente più conforme al genuino canto liturgico, venga adottata in tutte le chiese”.

Il Congresso sembrava sovrapporsi alla Sacra Congregazione dei Riti strappandole di mano l’iniziativa di una riforma. L’incauto promotore fu costretto a restringere il programma, assicurando di dirigere le discussioni dei congressisti nel rispetto dell’edizione Pustet allora in uso.

In effetti la Santa Sede riponeva in quel giovane pretino troppa fiducia: il suo animo di artista e di ricercatore appassionato lo farà deviare, suo malgrado, dalla consegna affidatagli.

Al Congresso di Arezzo si trovarono di fronte solesmensi e ratisbonensi, i primi capitanati da dom Pothier e dom Schmitt, i secondi da Franz Xavier Haberl, lo strenuo difensore dell’edizione di Ratisbona.

I solesmensi giunsero ad Arezzo ben documentati e pronti quasi a sostenere una battaglia.

Dom Pothier, rivelando una volta di più le proprie doti di paleografo e la profonda conoscenza del canto gregoriano, aveva portato uno studio sulla “virga nei neumi” e un piccolo rapporto sulla “tradizione nella notazione del canto piano”, che giustificavano, da una parte, la natura del ritmo gregoriano e, dall’altra, le restituzioni melodiche di Solesmes. Dom Schmitt presentò un memoriale sul valore dei manoscritti antichi, dove erano formulate con precisione i principi 24

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fondamentali della restaurazione gregoriana. Di fronte a tale dotta documentazione, Haberl oppose ai solesmensi soltanto l’argomento dell’autorità: il canto di Solesmes può essere bellissimo, ma “il nostro dovere, diceva, è di servirci dell’edizione di Pustet”, ritenuta autentica dai numerosi decreti pontifici. Tale argomento non fu sufficiente a convincere i musicisti del Congresso. Pothier fu l’eroe del giorno, la sua dottrina fu applaudita e acclamata; e una messa cantata, celebrata il 15 settembre in occasione della festa della Madonna Addolorata, con l’ausilio di estratti ricopiati dal Liber Gradualis, in corso di pubblicazione, entusiasmò sostenitori e avversari.

Il primo dei “voti” (auspici) redatti alla conclusione del Congresso fu:

“I libri corali in uso nelle chiese siano resi conformi il più possibile all’antica tradizione”. Inoltre “si incoraggino gli studi teorici sui manoscritti, sia dedicato uno spazio maggiore al canto gregoriano nei seminari; infine l’esecuzione a note uguali e martellate sia sostituita da un’esecuzione ispirata ai principi dell’accentuazione latina”.

Roma, logicamente, fu costretta a sconfessare i voti di Arezzo: l’apparente vittoria dei ratisbonensi sarà tuttavia momentanea, perché il congresso aveva messo a nudo l’intrinseca debolezza della loro tesi, mentre la Santa Sede lasciava alla fine libertà di ricerca e di pubblicazione di edizioni private per scopi scientifici.

Solesmes saprà approfittarne. Anche il successo editoriale delle Mélodies grégoriennes incoraggerà l’abbazia a proseguire lungo il cammino intrapreso. Ed è proprio in queste circostanze che viene dato alle stampe il Liber Gradualis nel 1883.

Quando compare il Graduale tutti i competenti di allora ne riconobbero subito l’autorevolezza dal punto scientifico e musicale, soprattutto se confrontato con le edizioni allora in uso: l’edizione di Reims e Cambrai, se si poteva considerare un primo passo importante sulla via della restaurazione, non era certo lo specchio fedele del canto gregoriano. Essa traduceva soltanto la nota, non la formula, essenziale per il ritmo; soppresse gli strofici, le ripercussioni, i procedimenti melodici ripetitivi, cedendo alle pretese dell’accentuazione moderna. Il Liber Gradualis, invece, proseguendo sulla strada del Directorium chori, si può considerare il primo vero libro completo di canto liturgico, rispettoso delle antiche tradizioni manoscritte, punto di riferimento di tutte le edizioni future.

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Diamo un elenco delle caratteristiche principali:

lezione melodica notevolmente migliorata rispetto alle edizioni precedenti, sulla base del Tonario di Montpellier, seguito fedelmente dal revisore.

carattere tipografico chiaro e definitivo: per chiarire il ritmo vengono utilizzate la “spaziatura “ e l’”aggregazione” tra gruppi neumatici.

scompaiono definitivamente le “lunghe” e le “brevi”.

i raggruppamenti neumatici sono ripristinati rendendo riconoscibile il legato, che non solo si oppone al martellamento, ma tende specialmente all’unità del neuma e all’identificazione di entità verbo-melodiche ben delineate e distinte.rispetto a Reims e Cambrai c’è una diminuzione di stanghette che rende il canto più sciolto e più fraseggiato.

compare per la prima volta lo stacco neumatico, elemento grafico innovatore e importante nella precisazione del ritmo gregoriano, perché chiarisce ed evidenzia i punti nodali del movimento che esercitano una funzione ordinatrice della frase gregoriana.

Nonostante qualche piccola imprecisione, il Graduale di Pothier fu una tappa fondamentale, un vero caposaldo nel cammino della restaurazione sia dal punto di vista melodico che dal punto di vista tipografico. Era stato raggiunto davvero il primo dei due traguardi auspicati da Guéranger: dopo un lavoro di “ablatio” da tutte le incrostazioni che avevano offuscato il primitivo canto liturgico, quegli antichi segni avevano ridato vita ad una linea melodica tendente all’originale, traguardo indispensabile dal quale ripartire per una completa e definitiva comprensione del fenomeno

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“gregoriano”. Fu anche il primo serio tentativo di chiarire il ritmo gregoriano, qualcuno dice che questa fu la vera originalità dell’opera, anche se non è stata formulata pienamente la teoria.

Ma c’erano ancora alcuni ostacoli da superare. Non esisteva ancora la prova scientifica che le melodie della neo-medicea non erano altro che una caricatura delle primitive cantilene. La Chiesa, maestra e guardiana delle arti, possedeva in deposito quelle sacre melodie; avrebbe ridato loro l’antica bellezza, se si fosse provata la loro autenticità non più canonica, ma storica e scientifica.

Oltre alla suprema ragione dell’autorità, le argomentazioni preferite dai fautori della neo-medicea si articolavano in due punti:

a) l’edizione di Solesmes non poteva contenere il canto di S. Gregorio, poiché questo canto era definitivamente perduto;

b) qualora fosse stato ritrovato, era impossibile decifrare i manoscritti che lo contenevano.

A queste gratuite affermazioni era necessario dare una risposta, una risposta senza possibilità di replica. Articoli di giornale, riviste, congressi non bastavano più. Era necessario dotarsi di un’arma invincibile per superare tutti gli ostacoli e conquistare la vittoria. Questa nuova macchina da guerra, progettata da Dom Mocquereau, fu la Paléographie Musicale, cioè la pubblicazione dei principali manoscritti di canto gregoriano, corredati da importanti prefazioni di carattere scientifico.

Questa opera colossale nasce nel 1889 con l’intento di giustificare la recente pubblicazione del Liber Gradualis di Pothier, dimostrando che la versione melodica ivi contenuta si appoggiava su documenti incontestabili, cioè i numerosi manoscritti di canto gregoriano conservati nelle biblioteche europee e di cui i più antichi risalivano ai secoli IX e X. La Paléo era quindi stata concepita, pur mantenendosi sempre nelle alte sfere della ricerca scientifica, con un chiaro intento polemico nei confronti dell’edizione di Ratisbona, di cui per altro compaiono molti riferimenti nei vari volumi a dimostrazione dell’incertezza e inaffidabilità scientifica dell’edizione di Pustet. Lo scopo immediato, quindi, fu quello di provare a tutti, mediante le fonti stesse, la verità della dottrina di Pothier e della versione melodica del suo Graduale. È necessario dire che Pothier, giunto all’apice dei suoi meriti con la pubblicazione del Graduale del 1883, nel quale venne recuperata in gran parte la linea melodica dell’antico canto liturgico, ritenne di non procedere oltre nello studio dei neumi, nel timore che la pubblicazione dei manoscritti antichi messi a disposizione di dilettanti sprovvisti di adeguata preparazione, avrebbe finito per ritardare la restaurazione gregoriana.

Dom Moqcuereau, al contrario, sosteneva energicamente lo studio approfondito e comparato dei primi codici notati:

“in questi manoscritti, diceva, è racchiuso tutto ciò che vogliamo sapere sulla versione melodica, la modalità, il ritmo e la notazione delle melodie ecclesiastiche” (P.M. I, p. 23).

- Dai ratisbonensi era stata messa in dubbio la fedeltà di Pothier ai manoscritti: il primo volume provò la sostanziale coincidenza del codice sangallese 339 con il Graduale del 1883.

- Alcuni rilevarono che un solo manoscritto non faceva testo: ed ecco che il secondo e il terzo volume servirono a provare la convergenza di 219 manoscritti diversi sulla versione adottata da Pothier per il graduale Iustus ut palma.

- Infine si affacciarono dubbi sulla lettura dei neumi: Mocquereau rispose pubblicando il codice di Montpellier (voll. VII e VIII) in duplice notazione (neumatica e alfabetica), sul quale non erano più possibili dispute melodiche.

L’opera travalicherà abbondantemente l’intento polemico iniziale per la qualità dei codici selezionati, per la vastità del progetto e per le magistrali e dottissime prefazioni redatte dall’autore.

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Già la scelta del manoscritto che apre la collezione rivela la novità assoluta del progetto: è un manoscritto del X secolo, “in campo aperto”, un codice della scuola di S. Gallo, il 339. Mai Mocquereau avrebbe cominciato la sua collezione con un manoscritto che non fosse un libro liturgico propriamente detto ma un libro di scuola, come era il codice di Montpellier, che conteneva i canti raggruppati per generi e toni, testo base per le revisioni melodiche realizzate fino a quel momento. Primo, perché i codici in campo aperto erano i più antichi e quindi più conformi alla genuina tradizione. Secondo, perché i manoscritti sangallesi, oltre a conservare fedelmente i raggruppamenti neumatici, erano ricchi di lettere e segni, importantissimi per la determinazione del ritmo e delle sfumature espressive.

Si ritorna ancora a una delle questioni fondamentali della restaurazione gregoriana, la quale è incompleta se la ritrovata melodia originaria non sia vivificata dal proprio ritmo.

A tale questione Mocquereau dedica molta parte delle prefazioni dei volumi della Paléo e i due tomi de “Le nombre musicale”: gli studi sull’accento tonico latino e sul cursus letterario gli fecero scoprire i segreti delle melodie gregoriane, il carattere spirituale dell’accento latino e la preminenza del ritmo musicale su quello delle parole. Per lui il ritmo gregoriano non è più oratorio ma musicale, dipendente più dalla melodia che dal testo. Il ritmo è libero, non soggetto alla misura, tuttavia è anche sganciato dalla intensità dell’accento tonico e il peso ritmico si appoggia spesso sulle sillabe finali di parola in un gioco di tensione e distensione del movimento. Osservava altresì che la causa principale della decadenza e della rovina del canto tradizionale della Chiesa fu l’insufficienza ritmica della notazione ecclesiastica: era dunque necessario fissare un sistema ritmico che permettesse di eseguire le melodie gregoriane nel modo più elegante, più pratico e più fedele possibile ai dati della tradizione.

È da questa esigenza che scaturiranno le edizioni provviste di segni ritmici: un sistema molto preciso anche se un pò macchinoso, concepito in contrapposizione alle teorie mensurali dell’epoca, ma contrastato da Pothier e disatteso dagli stessi monaci di Solesmes.

In effetti, la teoria ritmica di Mocquereau, l’abbiamo già accennato, è il lato debole di questo insigne studioso, poiché si basa su esigenze pratiche, il cui punto di partenza tuttavia non è la notazione con tutta la ricchezza degli episemi e delle lettere significative, bensì le leggi primordiali del movimento e altre ragioni di carattere prettamente musicale. Anche Gontier parlava di ritmo che nasce dalla parola, di ritmo che trova la sua giustificazione nel testo: le sue affermazioni nel 1850 hanno un’enorme rilevanza. Ma se andiamo a leggere il capitolo II a proposito dell’accento delle parole latine, l’autore non esita a definire alcune sillabe più importanti di altre sulla base di un’analisi grammaticale che vede l’origine del ritmo del canto gregoriano esclusivamente nella materialità del testo, della parola, della sillaba (esempio: salvum me fac, propter quod…

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i monosillabi o le congiunzioni sono “tout court” prive di accento, le preposizioni si fondono in una sola parola con ciò che reggono…). Ugualmente Mocquereau non resiste alla tentazione di precisare in modo quasi pignolo e minuzioso le sfumature ritmiche, codificando addirittura un sistema complicato di punteggiatura.

Eravamo soltanto all’inizio del cammino per giungere alla piena comprensione e quindi al pieno recupero del ritmo del canto gregoriano: altri raccoglieranno l’eredità di questi grandi uomini (Eugène Cardine, Luigi Agustoni, Godehard Joppich, Fulvio Rampi) fino a giungere alla soluzione del problema del ritmo, non più inteso come ordine di un movimento primordiale, non solo inteso come semplice corretta pronuncia di un testo (salmodia), né come valore materiale delle note e

delle sillabe sottese ai neumi, ma come “modo sonoro” di proclamare “quel preciso testo con quel preciso significato in quel preciso contesto liturgico” (Rampi): il ritmo diventa strumento di senso, di significato, di esegesi.

Alla causa gregoriana Mocquereau guadagnò Padre Angelo De Santi, un gesuita di profonda cultura e maturità di giudizio, figura nobilissima per noi italiani, niente meno che il futuro ispiratore dell’Edizione Vaticana del 1908. Era appena iniziato alla scienza musicale, ma costantemente in contatto con il movimento ceciliano milanese, possedeva idee chiare e sicure a proposito della musica sacra. Incaricato da Leone XIII di trattare le questioni musicali sulla prestigiosa rivista “la Civiltà Cattolica”, egli seppe enunciare i principi che debbono reggere la composizione e l’esecuzione della musica sacra e in una serie di venti mirabili articoli tracciò le linee maestre di una vera teologia della musica.

Sul fronte gregoriano, l’incontro con Mocquereau, che gli mostrò le tavole comparative del graduale Iustus ut palma, fece toccare con mano a De Santi che la neo-medicea non fosse che una miserabile caricatura dell’antico canto liturgico. In quanto articolista de “La Civiltà cattolica”, fondata a difesa della S. Sede e delle Congregazioni romane, implicitamente doveva difendere anche la Medicea, anche se, a dire

il vero, non consumò moltissimo inchiostro a favore di tale causa. Piuttosto cominciò a tessere elogi nei suoi discorsi e nei suoi scritti nei confronti dei monaci solesmensi e della loro opera.

Ma nel gennaio del 1894 arrivò come un fulmine a ciel sereno l’annuncio che Padre De Santi era stato obbligato ad allontanarsi da Roma. La sua colpa fu quella di schierarsi apertamente contro l’edizione ufficiale e di aver usato tutta la sua influenza per condurre a buon fine l’adozione del canto tradizionale. Inoltre gli si rinfacciava il torto di aver ridato vita al movimento ceciliano. A luglio dello stesso anno venne pubblicato il decreto pontificio Quod Sanctus Augustinus che conteneva un nuovo regolamento per la musica sacra: confermava le decisioni anteriori in materia di canto gregoriano ed esortava nuovamente i vescovi ad adottare l’edizione ufficiale di Ratisbona, senza tuttavia imporla. La partita sembrava persa per i fautori del canto tradizionale, tanto più che Haberl aveva trovato un documento che provava che l’edizione medicea era davvero opera di Palestrina.

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ito Nel frattempo prosegue la Paléo con la pubblicazione del tomo IV contenente il codice 121 di

Einsiedeln della scuola di S. Gallo, a cui Mocquereau fa precedere una prefazione consacrata all’influenza dell’accento tonico e del cursus come elementi generatori della struttura melodica e ritmica della frase gregoriana. Segue la pubblicazione dell’Antifonale Ambrosiano, conservato al British Museum, il tomo V con frammenti di notazione antica, il tomo VI (1900) con la notazione su linee completa (è il più antico manoscritto conosciuto dove si conserva la tradizione del canto milanese). Nello stesso anno Mocquereau inaugura una nuova serie della Paléo, la serie II o “monumentale”, nel senso che i volumi non compaiono più distribuiti in fascicoli ma in una sola volta in un unico volume. Il primo codice di questa serie fu l’Antifonario di Hartker 390-391, contenente tutti i canti dell’Ufficio, preceduto da una breve ma puntuale prefazione di Mocquereau che riteneva tale codice estremamente importante a motivo della ricchezza delle indicazioni espressive e ritmiche ivi contenute.

Mentre Mocquereau continuava nella realizzazione del suo progetto editoriale, mons. Carlo Respighi, delegato del collegio dei Cerimonieri Pontifici, attaccava sul piano storico la povera edizione di Ratisbona, utilizzando documenti scoperti da padre Angelo De Santi tali da contestare l’attribuzione della medicea a Palestrina. Siamo nel 1899, ad un anno dalla scadenza del privilegio trentennale accordato dalla Santa Sede all’editore tedesco Pustet.

Respighi dimostrò:

1° che la correzione del Graduale romanum, intrapresa da Palestrina sotto Gregorio XIII, fu abbandonata per ordine dello stesso papa;

2° non esiste alcuna prova che il manoscritto, a quello stato di interruzione, sia mai stato portato alla stamperia dei Medici e quindi non è provata l’identità del manoscritto palestriniano con l’edizione medicea.

Queste argomentazioni frantumarono le ultime resistenze dello schieramento ratisbonense. Il privilegio a Pustet fu revocato e papa Leone XIII scrisse il 17 maggio 1901 il Breve di elogio ai monaci di Solesmes “Nos quidem”, considerata la Magna Charta della restaurazione gregoriana.

In esso, dopo aver lodato la cura e l’intelligenza con le quali i monaci di Solesmes avevano riportato alla luce il vero canto gregoriano, il Papa afferma che “è per spiegare il senso delle parole che le melodie gregoriane sono state composte con una abilità e un gusto perfetti: esse hanno il potere, dolce e grave ad un tempo, di insinuarsi facilmente nell’animo degli uditori movendoli alla pietà e a pensieri salutari”. Questa frase ha un sapore profetico particolare, soprattutto quando dice che “le melodie gregoriane sono state composte per spiegare il senso delle parole”.

È proprio la direzione verso cui si stanno orientando gli studi recenti sul canto gregoriano, in particolare sul significato retorico della notazione sangallese, studi avviati da Godehard Joppich e continuati da Massimo Lattanzi e infine da Fulvio Rampi in ordine alle ultime sorprendenti riflessioni sul fenomeno della liquescenza.

Questo breve documento pontificio chiuse un’epoca di lotte affannose alla ricerca di una giusta via nella restaurazione del canto sacro e preparò il terreno per restituire alla Chiesa il suo canto proprio nella sua integrità, affidando a Solesmes l’allestimento delle nuove edizioni ufficiali.

Continua a settebre

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A quanti con appassionata dedizione cercano nuove «epifanie»della bellezza per farne dono al mondo nella creazione artistica.

«Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona» (Gn 1, 31).

L’artista, immagine di Dio Creatore

1. Nessuno meglio di voi artisti, geniali costruttori di bellezza, può intuire qualcosa del pathos con cui Dio, all’alba della creazione, guardò all’opera delle sue mani. Una vibrazione di quel sentimento si è infinite volte riflessa negli sguardi con cui voi, come gli artisti di ogni tempo, avvinti dallo stupore per il potere arcano dei suoni e delle parole, dei colori e delle forme, avete ammirato l’opera del vostro estro, avvertendovi quasi l’eco di quel mistero della creazione a cui Dio, solo creatore di tutte le cose, ha voluto in qualche modo associarvi.

Per questo mi è sembrato non ci fossero parole più appropriate di quelle della Genesi per iniziare questa mia Lettera a voi, ai quali mi sento legato da esperienze che risalgono molto indietro nel tempo ed hanno segnato indelebilmente la mia vita. Con questo scritto intendo mettermi sulla strada di quel fecondo colloquio della Chiesa con gli artisti che in duemila anni di storia non si è mai interrotto, e si prospetta ancora ricco di futuro alle soglie del terzo millennio.

In realtà, si tratta di un dialogo non dettato solamente da circostanze storiche o da motivi funzionali, ma radicato nell’essenza stessa sia dell’esperienza religiosa che della creazione artistica. La pagina iniziale della Bibbia ci presenta Dio quasi come il modello esemplare di ogni

lettera di giovanni Paolo ii agli artisti5.

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persona che produce un’opera: nell’uomo artefice si rispecchia la sua immagine di Creatore. Questa relazione è evocata con particolare evidenza nella lingua polacca, grazie alla vicinanza lessicale fra le parole stwórca (creatore) e twórca (artefice).

Qual è la differenza tra «creatore» ed «artefice?» Chi crea dona l’essere stesso, trae qualcosa dal nulla – ex nihilo sui et subiecti, si usa dire in latino – e questo, in senso stretto, è modo di procedere proprio soltanto dell’Onnipotente. L’artefice, invece, utilizza qualcosa di già esistente, a cui dà forma e significato. Questo modo di agire è peculiare dell’uomo in quanto immagine di Dio. Dopo aver detto, infatti, che Dio creò l’uomo e la donna «a sua immagine» (cfr Gn 1, 27), la Bibbia aggiunge che affidò loro il compito di dominare la terra (cfr Gn 1, 28). Fu l’ultimo giorno della creazione (cfr Gn 1, 28-31). Nei giorni precedenti, quasi scandendo il ritmo dell’evoluzione cosmica, Jahvé aveva creato l’universo. Al termine creò l’uomo, il frutto più nobile del suo progetto, al quale sottomise il mondo visibile, come immenso campo in cui esprimere la sua capacità inventiva.

Dio ha, dunque, chiamato all’esistenza l’uomo trasmettendogli il compito di essere artefice. Nella «creazione artistica» l’uomo si rivela più che mai «immagine di Dio», e realizza questo compito prima di tutto plasmando la stupenda «materia» della propria umanità e poi anche esercitando un dominio creativo sull’universo che lo circonda. L’Artista divino, con amorevole condiscendenza, trasmette una scintilla della sua trascendente sapienza all’artista umano, chiamandolo a condividere la sua potenza creatrice. E ovviamente una partecipazione, che lascia intatta l’infinita distanza tra il Creatore e la creatura, come sottolineava il Cardinale Nicolò Cusano:

«L’arte creativa, che l’anima ha la fortuna di ospitare, non s’identifica con quell’arte per essenza che è Dio, ma di essa è soltanto una comunicazione ed una partecipazione».(1)

Per questo l’artista, quanto più consapevole del suo «dono», tanto più è spinto guardare a se stesso e all’intero creato con occhi capaci di contemplare e ringraziare, elevando a Dio il suo inno di lode. Solo così egli può comprendere a fondo se stesso, la propria vocazione e la propria missione.

La speciale vocazione dell’artista

2. Non tutti sono chiamati ad essere artisti nel senso specifico del termine. Secondo l’espressione della Genesi, tuttavia, ad ogni uomo è affidato il compito di essere artefice della propria vita: in un certo senso, egli deve farne un’opera d’arte, un capolavoro.

E importante cogliere la distinzione, ma anche la connessione, tra questi due versanti dell’attività umana. La distinzione è evidente. Una cosa, infatti, è la disposizione grazie alla quale l’essere umano è l’autore dei propri atti ed è responsabile del loro valore morale, altra cosa è la

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disposizione per cui egli è artista, sa agire cioè secondo le esigenze dell’arte, accogliendone con fedeltà gli specifici dettami.(2) Per questo l’artista è capace di produrre oggetti, ma ciò, di per sé, non dice ancora nulla delle sue disposizioni morali. Qui, infatti, non si tratta di plasmare se stesso, di formare la propria personalità, ma soltanto di mettere a frutto capacità operative, dando forma estetica alle idee concepite con la mente.

Ma se la distinzione è fondamentale, non meno importante è la connessione tra queste due disposizioni, la morale e l’artistica. Esse si condizionano reciprocamente in modo profondo. Nel modellare un’opera, l’artista esprime di fatto se stesso a tal punto che la sua produzione costituisce un riflesso singolare del suo essere, di ciò che egli è e di come lo è. Ciò trova innumerevoli conferme nella storia dell’umanità. L’artista, infatti, quando plasma un capolavoro, non soltanto chiama in

vita la sua opera, ma per mezzo di essa, in un certo modo, svela anche la propria personalità. Nell’arte egli trova una dimensione nuova e uno straordinario canale d’espressione per la sua crescita spirituale. Attraverso le opere realizzate, l’artista parla e comunica con gli altri. La storia dell’arte, perciò, non è soltanto storia di opere, ma anche di uomini. Le opere d’arte parlano dei loro autori, introducono alla conoscenza del loro intimo e rivelano l’originale contributo da essi offerto alla storia della cultura.

La vocazione artistica a servizio della bellezza

3. Scrive un noto poeta polacco, Cyprian Norwid:

«La bellezza è per entusiasmare al lavoro, il lavoro è per risorgere».(3)

Il tema della bellezza è qualificante per un discorso sull’arte. Esso si è già affacciato, quando ho sottolineato lo sguardo compiaciuto di Dio di fronte alla creazione. Nel rilevare che quanto aveva creato era cosa buona, Dio vide anche che era cosa bella.(4) Il rapporto tra buono e bello suscita riflessioni stimolanti. La bellezza è in un certo senso l’espressione visibile del bene, come il bene è la condizione metafisica della bellezza. Lo avevano ben capito i Greci che, fondendo insieme i due concetti, coniarono

una locuzione che li abbraccia entrambi:

«kalokagathía«, ossia «bellezza-bontà». Platone scrive al riguardo: «La potenza del Bene si è rifugiata nella natura del Bello».(5)

E vivendo ed operando che l’uomo stabilisce il proprio rapporto con l’essere, con la verità e con il bene. L’artista vive una peculiare relazione con la bellezza. In un senso molto vero si può dire che la bellezza è la vocazione a lui rivolta dal Creatore col dono del «talento artistico». E, certo,

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anche questo è un talento da far fruttare, nella logica della parabola evangelica dei talenti (cfr Mt 25, 14 30). Tocchiamo qui un punto essenziale. Chi avverte in sé questa sorta di scintilla divina che è la vocazione artistica – di poeta, di scrittore, di pittore, di scultore, di architetto, di musicista, di attore... – avverte al tempo stesso l’obbligo di non sprecare questo talento, ma di svilupparlo, per metterlo a servizio del prossimo e di tutta l’umanità.

L’artista ed il bene comune

4. La società, in effetti, ha bisogno di artisti, come ha bisogno di scienziati, di tecnici, di lavoratori, di professionisti, di testimoni della fede, di maestri, di padri e di madri, che garantiscano la crescita della persona e lo sviluppo della comunità attraverso quell’altissima forma di arte che è «l’arte educativa». Nel vasto panorama culturale di ogni nazione, gli artisti hanno il loro specifico posto. Proprio mentre obbediscono al loro estro, nella realizzazione di opere veramente valide e belle, essi non solo arricchiscono il patrimonio culturale di ciascuna nazione e dell’intera umanità, ma rendono anche un servizio sociale qualificato a vantaggio del bene comune.

La differente vocazione di ogni artista, mentre determina l’ambito del suo servizio, indica i compiti che deve assumersi, il duro lavoro a cui deve sottostare, la responsabilità che deve affrontare. Un artista consapevole di tutto ciò sa anche di dover operare senza lasciarsi dominare dalla ricerca di gloria fatua o dalla smania di una facile popolarità, ed ancor meno dal calcolo di un possibile profitto personale. C’è dunque un’etica, anzi una «spiritualità» del servizio artistico, che a suo modo contribuisce alla vita e alla rinascita di un popolo. Proprio a questo sembra voler alludere Cyprian Norwid quando afferma:

«La bellezza è per entusiasmare al lavoro, il lavoro è per risorgere».

L’arte davanti al mistero del Verbo incarnato

5. La Legge dell’Antico Testamento presenta un esplicito divieto di raffigurare Dio invisibile ed inesprimibile con l’aiuto di «un’immagine scolpita o di metallo fuso» (Dt 27, 15), perché Dio trascende ogni raffigurazione materiale: «Io sono colui che sono» (Es 3, 14). Nel mistero dell’Incarnazione, tuttavia, il Figlio di Dio in persona si è reso visibile: «Quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio nato da donna» (Gal 4, 4). Dio si è fatto uomo in Gesù Cristo, il quale è diventato così «il centro a cui riferirsi per poter comprendere l’enigma dell’esistenza umana, del mondo creato e di Dio stesso».(6)

Questa fondamentale manifestazione del «Dio-Mistero» si pose come incoraggiamento e sfida per i cristiani, anche sul piano della creazione artistica. Ne è scaturita una fioritura di bellezza che proprio da qui, dal mistero dell’Incarnazione, ha tratto la sua linfa. Facendosi uomo, infatti, il Figlio di Dio ha introdotto nella storia dell’umanità tutta la ricchezza evangelica della verità e del bene, e con essa ha svelato anche una nuova dimensione della bellezza: il messaggio evangelico ne è colmo fino all’orlo.

La Sacra Scrittura è diventata così una sorta di «immenso vocabolario» (P. Claudel) e di «atlante iconografico» (M. Chagall), a cui hanno attinto la cultura e l’arte cristiana. Lo stesso Antico Testamento, interpretato alla luce del Nuovo, ha manifestato filoni inesauribili di ispirazione.

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A partire dai racconti della creazione, del peccato, del diluvio, del ciclo dei Patriarchi, degli eventi dell’esodo, fino a tanti altri episodi e personaggi della storia della salvezza, il testo biblico ha acceso l’immaginazione di pittori, poeti, musicisti, autori di teatro e di cinema. Una figura come quella di Giobbe, per fare solo un esempio, con la sua bruciante e sempre attuale problematica del dolore, continua a suscitare insieme l’interesse filosofico e quello letterario ed artistico. E che dire poi del Nuovo Testamento? Dalla Natività al Golgota, dalla Trasfigurazione alla Risurrezione, dai miracoli agli insegnamenti di Cristo, fino agli eventi narrati negli Atti degli Apostoli o prospettati

dall’Apocalisse in chiave escatologica, innumerevoli volte la parola biblica si è fatta immagine, musica, poesia, evocando con il linguaggio dell’arte

il mistero del «Verbo fatto carne». Nella storia della cultura tutto ciò costituisce un ampio capitolo di fede e di bellezza. Ne hanno beneficiato soprattutto i credenti per la loro esperienza di preghiera

e di vita. Per molti di essi, in epoche di scarsa alfabetizzazione, le espressioni figurative della Bibbia rappresentarono persino una

concreta mediazione catechetica.(7) Ma per tutti, credenti e non, le realizzazioni artistiche ispirate alla Scrittura rimangono un

riflesso del mistero insondabile che avvolge ed abita il mondo.

Tra Vangelo ed arte un’alleanza feconda

6. In effetti, ogni autentica intuizione artistica va oltre ciò che percepiscono i sensi e, penetrando la realtà, si sforza di interpretarne il mistero nascosto. Essa scaturisce dal profondo dell’animo umano, là dove l’aspirazione a dare un senso alla propria vita si accompagna alla percezione fugace della bellezza e della misteriosa unità delle cose. Un’esperienza condivisa da tutti gli artisti è quella del divario incolmabile che esiste tra l’opera delle loro mani, per quanto riuscita essa sia, e la perfezione folgorante della bellezza percepita nel fervore del momento creativo: quanto essi riescono ad esprimere in ciò che dipingono, scolpiscono, creano non è che un barlume di

quello splendore che è balenato per qualche istante davanti agli occhi del loro spirito.

Di questo il credente non si meraviglia: egli sa di essersi affacciato per un attimo su quell’abisso di luce che ha in Dio la sua sorgente originaria. C’è forse da stupirsi se lo spirito ne resta come sopraffatto al punto da non sapersi esprimere che con balbettamenti? Nessuno più del vero artista è pronto a riconoscere il suo limite ed a far proprie le parole dell’apostolo Paolo, secondo il quale Dio «non dimora in templi costruiti dalle mani dell’uomo», così che «non dobbiamo pensare che la Divinità sia simile all’oro, all’argento e alla pietra, che porti l’impronta dell’arte e dell’immaginazione umana» (At 17,24.29). Se già l’intima realtà delle cose sta sempre «al di là» delle capacità di penetrazione umana, quanto più Dio nelle profondità del suo insondabile mistero!

Di altra natura è la conoscenza di fede: essa suppone un incontro personale con Dio in Gesù Cristo. Anche questa conoscenza, tuttavia, può trarre giovamento dall’intuizione artistica. Modello

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eloquente di una contemplazione estetica che si sublima nella fede sono, ad esempio, le opere del Beato Angelico. Non meno significativa è, a questo proposito, la lauda estatica, che san Francesco d’Assisi ripete due volte nella chartula redatta dopo aver ricevuto sul monte della Verna le stimmate di Cristo:

«Tu sei bellezza... Tu sei bellezza!».(8)

San Bonaventura commenta:

«Contemplava nelle cose belle il Bellissimo e, seguendo le orme impresse nelle creature, inseguiva dovunque il Diletto».(9)

Un approccio non dissimile si riscontra nella spiritualità orientale, ove Cristo è qualificato come «il Bellissimo di bellezza più di tutti i mortali».(10) Macario il Grande commenta così la bellezza trasfigurante e liberatrice del Risorto:

«L’anima che è stata pienamente illuminata dalla bellezza indicibile della gloria luminosa del volto di Cristo, è ricolma dello Spirito Santo... è tutta occhio, tutta luce, tutta volto».(11)

Ogni forma autentica d’arte è, a suo modo, una via d’accesso alla realtà più profonda dell’uomo e del mondo. Come tale, essa costituisce un approccio molto valido all’orizzonte della fede, in cui la vicenda umana trova la sua interpretazione compiuta. Ecco perché la pienezza evangelica della verità non poteva non suscitare fin dall’inizio l’interesse degli artisti, sensibili per loro natura a tutte le manifestazioni dell’intima bellezza della realtà.

I primordi

7. L’arte che il cristianesimo incontrò ai suoi inizi era il frutto maturo del mondo classico, ne esprimeva i canoni estetici e al tempo stesso ne veicolava i valori. La fede imponeva ai cristiani, come nel campo della vita e del pensiero, anche in quello dell’arte, un discernimento che non consentiva la ricezione automatica di questo patrimonio. L’arte di ispirazione cristiana cominciò così in sordina, strettamente legata al bisogno dei credenti di elaborare dei segni con cui esprimere, sulla base della Scrittura, i misteri della fede e insieme un «codice simbolico», attraverso cui riconoscersi e identificarsi specie nei tempi difficili delle persecuzioni. Chi non ricorda quei simboli che furono anche i primi accenni di un’arte pittorica e plastica? Il pesce, i pani, il pastore, evocavano il mistero diventando, quasi insensibilmente, abbozzi di un’arte nuova.

Quando ai cristiani, con l’editto di Costantino, fu concesso di esprimersi in piena libertà, l’arte divenne un canale privilegiato di manifestazione della fede. Lo spazio cominciò a fiorire di maestose basiliche, in cui i canoni architettonici dell’antico paganesimo venivano ripresi e insieme piegati alle esigenze del nuovo culto. Come non ricordare almeno l’antica Basilica di San Pietro e quella di San Giovanni in Laterano, costruite a spese dello stesso Costantino? O, per gli splendori dell’arte bizantina, la Haghia Sophía di Costantinopoli voluta da Giustiniano?

Mentre l’architettura disegnava lo spazio sacro, progressivamente il bisogno di contemplare il mistero e di proporlo in modo immediato ai semplici spinse alle iniziali espressioni dell’arte pittorica e scultorea. Insieme sorgevano i primi abbozzi di un’arte della parola e del suono, e se Agostino, fra i tanti temi della sua produzione, includeva anche un De musica, Ilario, Ambrogio, Prudenzio,

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Efrem il Siro, Gregorio di Nazianzo, Paolino di Nola, per non citare che alcuni nomi, si facevano promotori di una poesia cristiana che spesso raggiunge un alto valore non solo teologico ma anche letterario. Il loro programma poetico valorizzava forme ereditate dai classici, ma attingeva alla pura linfa del Vangelo, come efficacemente sentenziava il santo poeta nolano:

«La nostra unica arte è la fede e Cristo è il nostro canto».(12)

Gregorio Magno, per parte sua, qualche tempo più tardi poneva con la compilazione dell’Antiphonarium la premessa per lo sviluppo organico di quella musica sacra così originale che da lui ha preso nome. Con le sue ispirate modulazioni il Canto gregoriano diverrà nei secoli la tipica espressione melodica della fede della Chiesa durante la celebrazione liturgica dei sacri Misteri. Il «bello» si coniugava così col «vero», perché anche attraverso le vie dell’arte gli animi fossero rapiti dal sensibile all’eterno.

In questo cammino non mancarono momenti difficili. Proprio sul tema della rappresentazione del mistero cristiano l’antichità conobbe un’aspra controversia passata alla storia col nome di «lotta iconoclasta». Le immagini sacre, ormai diffuse nella devozione del popolo di Dio, furono fatte oggetto di una violenta contestazione. Il Concilio celebrato a Nicea nel 787, che stabilì la liceità delle immagini e del loro culto, fu un avvenimento storico non solo per la fede, ma per la stessa cultura. L’argomento decisivo a cui i Vescovi si appellarono per dirimere la controversia fu il mistero dell’Incarnazione: se il Figlio di Dio è entrato nel mondo delle realtà visibili, gettando un ponte mediante la sua umanità tra il visibile e l’invisibile, analogamente si può pensare che una rappresentazione del mistero possa essere usata, nella logica del segno, come evocazione sensibile del mistero. L’icona non è venerata per se stessa, ma rinvia al soggetto che rappresenta.13)

Il Medioevo

8. I secoli che seguirono furono testimoni di un grande sviluppo dell’arte cristiana. In Oriente

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ito continuò a fiorire l’arte delle icone, legata a significativi canoni teologici ed estetici e sorretta

dalla convinzione che, in un certo senso, l’icona è un sacramento: analogamente, infatti, a quanto avviene nei Sacramenti, essa rende presente il mistero dell’Incarnazione nell’uno o nell’altro suo aspetto. Proprio per questo la bellezza dell’icona può essere soprattutto gustata all’interno di un tempio con lampade che ardono e suscitano nella penombra infiniti riflessi di luce. Scrive in proposito Pavel Florenskij:

«L’oro, barbaro, pesante, futile nella luce diffusa del giorno, con la luce tremolante di una lampada o di una candela si ravviva, poiché sfavilla di miriadi di scintille, ora qui ora là, facendo presentire altre luci non terrestri che riempiono lo spazio celeste».(14)

In Occidente i punti di vista da cui partono gli artisti sono i più vari, in dipendenza anche dalle convinzioni di fondo presenti nell’ambiente culturale del loro tempo. Il patrimonio artistico che s’è venuto accumulando nel corso dei secoli annovera una vastissima fioritura di opere sacre altamente ispirate, che lasciano anche l’osservatore di oggi colmo di ammirazione. Restano in primo piano le grandi costruzioni del culto, in cui la funzionalità si sposa sempre all’estro, e quest’ultimo si lascia ispirare dal senso del bello e dall’intuizione del mistero. Ne nascono gli stili ben noti alla storia dell’arte. La forza e la semplicità del romanico, espressa nelle cattedrali o nei complessi abbaziali, si va gradatamente sviluppando negli slanci e negli splendori del gotico. Dentro queste forme, non c’è solo il genio di un artista, ma l’animo di un popolo. Nei giochi delle luci e delle ombre, nelle forme ora massicce ora slanciate, intervengono certo considerazioni di tecnica strutturale, ma anche tensioni proprie dell’esperienza di Dio, mistero «tremendo» e «fascinoso». Come sintetizzare in pochi cenni, e per le diverse espressioni dell’arte, la potenza creativa dei lunghi secoli del medioevo cristiano? Un’intera cultura, pur nei limiti sempre presenti dell’umano, si era impregnata di Vangelo, e dove il pensiero teologico realizzava la Summa di S. Tommaso, l’arte delle chiese piegava la materia all’adorazione del mistero, mentre un mirabile poeta come Dante Alighieri poteva comporre «il poema sacro, al quale ha posto mano e cielo e terra»,(15) come egli stesso qualifica la Divina Commedia.

Umanesimo e Rinascimento

9. La felice temperie culturale, da cui germoglia la straordinaria fioritura artistica dell’Umanesimo e del Rinascimento, ha riflessi significativi anche sul modo in cui gli artisti di questo periodo si rapportano al tema religioso. Naturalmente le ispirazioni sono variegate quanto lo sono i loro stili, o almeno quelli dei più grandi tra essi. Ma non è nelle mie intenzioni richiamare cose che voi, artisti, ben conoscete. Vorrei piuttosto, scrivendovi da questo Palazzo Apostolico, che è anche uno scrigno di capolavori forse unico al mondo, farmi voce dei sommi artisti che qui hanno riversato le ricchezze del loro genio, intriso spesso di grande profondità spirituale. Da qui parla Michelangelo, che nella Cappella Sistina ha come raccolto, dalla Creazione al Giudizio Universale, il dramma e il mistero del mondo, dando volto a Dio Padre, a Cristo giudice, all’uomo nel suo faticoso cammino dalle origini al traguardo della storia. Da qui parla il genio delicato e profondo di Raffaello, additando nella varietà dei suoi dipinti, e specie nella «Disputa» della Stanza della Segnatura, il mistero della rivelazione del Dio Trinitario, che nell’Eucaristia si fa compagnia dell’uomo, e proietta luce sulle domande e le attese dell’intelligenza umana. Da qui, dalla maestosa Basilica dedicata al Principe degli Apostoli, dal colonnato che da essa si diparte come due braccia aperte ad accogliere l’umanità, parlano ancora un Bramante, un Bernini, un Borromini, un Maderno, per non citare che i maggiori, dando plasticamente il senso del mistero che fa della Chiesa una comunità universale, ospitale, madre e compagna di viaggio per ogni uomo alla ricerca di Dio. L’arte sacra ha trovato, 38

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in questo complesso straordinario, un’espressione di eccezionale potenza, raggiungendo livelli di imperituro valore insieme estetico e religioso. Ciò che sempre di più la caratterizza, sotto l’impulso dell’Umanesimo e del Rinascimento, e poi delle successive tendenze della cultura e della scienza, è un interesse crescente per l’uomo, il mondo, la realtà della storia. Questa attenzione, di per sé, non è affatto un pericolo per la fede cristiana, centrata sul mistero dell’Incarnazione, e dunque sulla valorizzazione dell’uomo da parte di Dio. Proprio i sommi artisti su menzionati ce lo dimostrano. Basterebbe pensare al modo con cui Michelangelo esprime, nelle sue pitture e sculture, la bellezza del corpo umano.(16)

Del resto, anche nel nuovo clima degli ultimi secoli, in cui parte della società sembra divenusta indifferente alla fede, l’arte religiosa non ha interrotto il suo cammino. La constatazione si amplia, se dal versante delle arti figurative, passiamo a considerare il grande sviluppo che, proprio nello stesso arco di tempo, ha avuto la musica sacra, composta per le esigenze liturgiche, o anche solo legata a temi religiosi. A parte i tanti artisti che si sono dedicati principalmente ad essa – come non ricordare almeno un Pier Luigi da Palestrina, un Orlando di Lasso, un Tomás Luis de Victoria? – è noto che molti grandi compositori – da Handel a Bach, da Mozart a Schubert, da Beethoven a Berlioz, da Liszt a Verdi – ci hanno dato opere di grandissima ispirazione anche in questo campo.

Verso un rinnovato dialogo

10. E vero però che nell’età moderna, accanto a questo umanesimo cristiano che ha continuato a produrre significative espressioni di cultura e di arte, si è progressivamente affermata anche una forma di umanesimo caratterizzato dall’assenza di Dio e spesso dall’opposizione a lui. Questo clima ha portato talvolta a un certo distacco tra il mondo dell’arte e quello della fede, almeno nel senso di un diminuito interesse di molti artisti per i temi religiosi.

Voi sapete tuttavia che la Chiesa ha continuato a nutrire un grande apprezzamento per il valore dell’arte come tale. Questa, infatti, anche al di là delle sue espressioni più tipicamente religiose, quando è autentica, ha un’intima affinità con il mondo della fede, sicché, persino nelle condizioni di maggior distacco della cultura dalla Chiesa, proprio l’arte continua a costituire una sorta di ponte gettato verso l’esperienza religiosa. In quanto ricerca del bello, frutto di un’immaginazione che va al di là del quotidiano, essa è, per sua natura, una sorta di appello al Mistero. Persino quando scruta le profondità più oscure dell’anima o gli aspetti più sconvolgenti del male, l’artista si fa in qualche modo voce dell’universale attesa di redenzione.

Si comprende, dunque, perché al dialogo con l’arte la Chiesa tenga in modo speciale e desideri che nella nostra età si realizzi una nuova alleanza con gli artisti, come auspicava il mio venerato predecessore Paolo VI nel vibrante discorso rivolto agli artisti durante lo speciale incontro nella

Cappella Sistina, il 7 maggio 1964.(17) Da tale collaborazione la Chiesa si augura una rinnovata «epifania» di bellezza per il nostro tempo e adeguate risposte alle esigenze proprie della comunità cristiana.

Nello spirito del Concilio Vaticano II

11. Il Concilio Vaticano II ha gettato le basi di un rinnovato rapporto fra la Chiesa e la cultura, con immediati riflessi anche per il mondo dell’arte. E un rapporto che si propone nel segno dell’amicizia, dell’apertura e del dialogo.

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ito Nella Costituzione pastorale Gaudium et spes i Padri conciliari hanno sottolineato la «grande

importanza» della letteratura e delle arti nella vita dell’uomo:

«Esse si sforzano, infatti, di conoscere l’indole propria dell’uomo, i suoi problemi e la sua esperienza, nello sforzo di conoscere e perfezionare se stesso e il mondo; si preoccupano di scoprire la sua situazione nella storia e nell’universo, di illustrare le sue miserie e le sue gioie, i suoi bisogni e le sue capacità, e di prospettare una migliore condizione dell’uomo».(18)

Su questa base, a conclusione del Concilio, i Padri hanno rivolto agli artisti un saluto e un appello:

«Questo mondo – hanno detto – nel quale noi viviamo ha bisogno di bellezza, per non cadere nella disperazione. La bellezza, come la verità, mette la gioia nel cuore degli uomini ed è un frutto prezioso che resiste al logorio del tempo, che unisce le generazioni e le fa comunicare nell’ammirazione».(19)

Appunto in questo spirito di profonda stima per la bellezza, la Costituzione sulla Sacra Liturgia Sacrosanctum Concilium aveva ricordato la storica amicizia della Chiesa per l’arte, e parlando più specificamente dell’arte sacra, «vertice» dell’arte religiosa, non aveva esitato a considerare «nobile ministero» quello degli artisti quando le loro opere sono capaci di riflettere, in qualche modo, l’infinita bellezza di Dio, e indirizzare a lui le menti degli uomini.(20) Anche grazie al loro contributo «la conoscenza di Dio viene meglio manifestata e la predicazione evangelica si rende più trasparente all’intelligenza degli uomini».(21) Alla luce di ciò, non sorprende l’affermazione del P. Marie Dominique Chenu, secondo cui lo stesso storico della teologia farebbe opera incompleta, se non riservasse la dovuta attenzione alle realizzazioni artistiche, sia letterarie che plastiche, che costituiscono, a loro modo, «non soltanto delle illustrazioni estetiche, ma dei veri “luoghi” teologici».(22)

La Chiesa ha bisogno dell’arte

12. Per trasmettere il messaggio affidatole da Cristo, la Chiesa ha bisogno dell’arte. Essa deve, infatti, rendere percepibile e, anzi, per quanto possibile, affascinante il mondo dello spirito, dell’invisibile, di Dio. Deve dunque trasferire in formule significative ciò che è in se stesso ineffabile.

Ora, l’arte ha una capacità tutta sua di cogliere l’uno o l’altro aspetto del messaggio traducendolo in colori, forme, suoni che assecondano l’intuizione di chi guarda o ascolta. E questo senza privare il messaggio stesso del suo valore trascendente e del suo alone di mistero.

La Chiesa ha bisogno, in particolare, di chi sappia realizzare tutto ciò sul piano letterario e figurativo, operando con le infinite possibilità delle immagini e delle loro valenze simboliche. Cristo stesso ha utilizzato ampiamente le immagini nella sua predicazione, in piena coerenza con la scelta di diventare egli stesso, nell’Incarnazione, icona del Dio invisibile.

La Chiesa ha bisogno, altresì, dei musicisti. Quante composizioni sacre sono state elaborate nel corso dei secoli da persone 40

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profondamente imbevute del senso del mistero! Innumerevoli credenti hanno alimentato la loro fede alle melodie sbocciate dal cuore di altri credenti e divenute parte della liturgia o almeno aiuto validissimo al suo decoroso svolgimento. Nel canto la fede si sperimenta come esuberanza di gioia, di amore, di fiduciosa attesa dell’intervento salvifico di Dio.

La Chiesa ha bisogno di architetti, perché ha bisogno di spazi per riunire il popolo cristiano e per celebrare i misteri della salvezza. Dopo le terribili distruzioni dell’ultima guerra mondiale e l’espansione delle metropoli, una nuova generazione di architetti si è cimentata con le istanze del culto cristiano, confermando la capacità di ispirazione che il tema religioso possiede anche rispetto ai criteri architettonici del nostro tempo. Non di rado, infatti, si sono costruiti templi che sono, insieme, luoghi di preghiera ed autentiche opere d’arte.

L’arte ha bisogno della Chiesa?

13. La Chiesa, dunque, ha bisogno dell’arte. Si può dire anche che l’arte abbia bisogno della Chiesa? La domanda può apparire provocatoria. In realtà, se intesa nel giusto senso, ha una sua motivazione legittima e profonda. L’artista è sempre alla ricerca del senso recondito delle cose, il suo tormento è di riuscire ad esprimere il mondo dell’ineffabile. Come non vedere allora quale grande sorgente di ispirazione possa essere per lui quella sorta di patria dell’anima che è la religione? Non è forse nell’ambito religioso che si pongono le domande personali più importanti e si cercano le risposte esistenziali definitive? Di fatto, il soggetto religioso è fra i più trattati dagli artisti di ogni epoca. La Chiesa ha fatto sempre appello alle loro capacità creative per interpretare il messaggio evangelico e la sua concreta applicazione nella vita della comunità cristiana. Questa collaborazione è stata fonte di reciproco arricchimento spirituale. In definitiva ne ha tratto vantaggio la comprensione dell’uomo, della sua autentica immagine, della sua verità. E emerso anche il peculiare legame esistente tra l’arte e la rivelazione cristiana. Ciò non vuol dire che il genio umano non abbia trovato suggestioni stimolanti anche in altri contesti religiosi. Basti ricordare l’arte antica, specialmente quella greca e romana, e quella ancora fiorente delle antichissime civiltà dell’Oriente. Resta vero, tuttavia, che il cristianesimo, in virtù del dogma centrale dell’incarnazione del Verbo di Dio, offre all’artista un orizzonte particolarmente ricco di motivi di ispirazione. Quale impoverimento sarebbe per l’arte l’abbandono del filone inesauribile del Vangelo!

Appello agli artisti

14. Con questa Lettera mi rivolgo a voi, artisti del mondo intero, per confermarvi la mia stima e per contribuire al riannodarsi di una più proficua cooperazione tra l’arte e la Chiesa. Il mio è un invito a riscoprire la profondità della dimensione spirituale e religiosa che ha caratterizzato in ogni tempo l’arte nelle sue più nobili forme espressive. E in questa prospettiva che io faccio appello a voi, artisti della parola scritta e orale, del teatro e della musica, delle arti plastiche e delle più moderne tecnologie di comunicazione. Faccio appello specialmente a voi, artisti cristiani: a ciascuno vorrei ricordare che l’alleanza stretta da sempre tra Vangelo ed arte, al di là delle esigenze funzionali, implica l’invito a penetrare con intuizione creativa nel mistero del Dio incarnato e, al contempo, nel mistero dell’uomo.

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ito Ogni essere umano, in un certo senso, è sconosciuto a se stesso. Gesù Cristo non soltanto

rivela Dio, ma «svela pienamente l’uomo all’uomo».(23) In Cristo Dio ha riconciliato a sé il mondo. Tutti i credenti sono chiamati a rendere questa testimonianza; ma tocca a voi, uomini e donne che avete dedicato all’arte la vostra vita, dire con la ricchezza della vostra genialità che in Cristo

il mondo è redento: è redento l’uomo, è redento il corpo umano, è redenta l’intera creazione, di cui san Paolo ha scritto che «attende con impazienza la rivelazione dei figli di Dio» (Rm 8, 19). Essa aspetta la rivelazione dei figli di Dio anche mediante l’arte e nell’arte. E questo il vostro compito. A contatto con le opere d’arte, l’umanità di tutti i tempi – anche quella di oggi – aspetta di essere illuminata sul proprio cammino e sul proprio destino.

Spirito creatore ed ispirazione artistica

15. Nella Chiesa risuona spesso l’invocazione allo Spirito Santo:

Veni, Creator Spiritus - «Vieni, o Spirito creatore, visita le nostre menti, riempi della tua grazia i cuori che hai creato».24)

Lo Spirito Santo, «il Soffio» (ruah), è Colui a cui fa cenno già il Libro della Genesi:

«La terra era informe e deserta e le tenebre ricoprivano l’abisso e lo Spirito di Dio aleggiava sulle acque» (1,2).

Quanta affinità esiste tra le parole «soffio - spirazione» e «ispirazione»! Lo Spirito è il misterioso artista dell’universo. Nella prospettiva del terzo millennio, vorrei augurare a tutti gli artisti di poter ricevere in abbondanza il dono di quelle ispirazioni creative da cui prende inizio ogni autentica opera d’arte. Cari artisti, voi ben lo sapete, molti sono gli stimoli, interiori ed esteriori, che possono ispirare il vostro talento. Ogni autentica ispirazione, tuttavia, racchiude in sé qualche fremito di quel «soffio» con cui lo Spirito creatore pervadeva sin dall’inizio l’opera della creazione. Presiedendo alle misteriose leggi che governano l’universo, il divino soffio dello Spirito creatore s’incontra con il genio dell’uomo e ne stimola la capacità creativa. Lo raggiunge con una sorta di illuminazione interiore, che unisce insieme l’indicazione del bene e del bello, e risveglia in lui le energie della mente e del cuore rendendolo atto a concepire l’idea e a darle forma nell’opera d’arte. Si parla allora giustamente, se pure analogicamente, di «momenti di grazia», perché l’essere umano ha la possibilità di fare una qualche esperienza dell’Assoluto che lo trascende.

La «Bellezza» che salva

16. Sulla soglia ormai del terzo millennio, auguro a tutti voi, artisti carissimi, di essere raggiunti da queste ispirazioni creative con intensità particolare. La bellezza che trasmetterete alle generazioni di domani sia tale da destare in esse lo stupore! Di fronte alla sacralità della vita e dell’essere umano, di fronte alle meraviglie dell’universo, l’unico atteggiamento adeguato è quello dello stupore. 42

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oDa qui, dallo stupore, potrà scaturire quell’entusiasmo di cui parla Norwid nella poesia a cui mi riferivo all’inizio. Di questo entusiasmo hanno bisogno gli uomini di oggi e di domani per affrontare e superare le sfide cruciali che si annunciano all’orizzonte. Grazie ad esso l’umanità, dopo ogni smarrimento, potrà ancora rialzarsi e riprendere il suo cammino. In questo senso è stato detto con profonda intuizione che «la bellezza salverà il mondo».(25)

La bellezza è cifra del mistero e richiamo al trascendente. E invito a gustare la vita e a sognare il futuro. Per questo la bellezza delle cose create non può appagare, e suscita quell’arcana nostalgia di Dio che un innamorato del bello come sant’Agostino ha saputo interpretare con accenti ineguagliabili:

«Tardi ti ho amato, bellezza tanto antica e tanto nuova, tardi ti ho amato!».(26)

I vostri molteplici sentieri, artisti del mondo, possano condurre tutti a quell’Oceano infinito di bellezza dove lo stupore si fa ammirazione, ebbrezza, indicibile gioia.

Vi orienti ed ispiri il mistero del Cristo risorto, della cui contemplazione gioisce in questi giorni la Chiesa.

Vi accompagni la Vergine Santa, la «tutta bella» che innumerevoli artisti hanno effigiato e il sommo Dante contempla negli splendori del Paradiso come «bellezza, che letizia era ne li occhi a tutti li altri santi».(27)

«Emerge dal caos il mondo dello spirito»! Dalle parole che Adam Mickiewicz scriveva in un momento di grande travaglio per la patria polacca(28) traggo un auspicio per voi: la vostra arte contribuisca all’affermarsi di una bellezza autentica che, quasi riverbero dello Spirito di Dio, trasfiguri la materia, aprendo gli animi al senso dell’eterno.

Con i miei auguri più cordiali!

Dal Vaticano, 4 aprile 1999, Pasqua di Risurrezione.

© Copyright 1999 - Libreria Editrice Vaticana

NOTE(1) Dialogus de ludo globi, lib. II: Philosophisch-Theologische Schriften, Wien 1967, III, p. 332. (2) Le virtù morali, e tra queste in particolare la prudenza, consentono al soggetto di agire in armonia con il criterio del bene e del male morale: secondo la recta ratio agibilium (il giusto criterio dei comportamenti). L’arte, invece, è definita in filosofia come recta ratio factibilium (il giusto criterio delle realizzazioni). (3) Promethidion: Bogumil vv. 185-186: Pisma wybrane, Warszawa 1968, vol. 2, p. 216. 43

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ito (4) Espresse efficacemente questo aspetto la traduzione greca dei Settanta, rendendo il termine t(o-)b (buono) del

testo ebraico con kalón (bello). (5) Filebo, 65 A. (6) Giovanni Paolo ii, Fides et ratio (14 settembre 1998), 80: AAS 91 (1999), 67. (7) Questo principio pedagogico è stato autorevolmente enunciato da S. Gregorio Magno in una lettera del 599 al Vescovo di Marsiglia Sereno: «La pittura è adoperata nelle chiese perché gli analfabeti, almeno guardando sulle pareti, leggano ciò che non sono capaci di decifrare sui codici», Epistulae, IX, 209: CCL 140A, 1714. (8) Lodi di Dio altissimo, vv. 7 e 10: Fonti Francescane, n. 261. Padova 1982, p. 177. (9) Legenda maior, IX, 1: Fonti Francescane, n. 1162, l.c., p. 911. (10) Enkomia dell’Orthós del Santo e Grande Sabato. (11) Omelia I, 2: PG 34, 451. (12) «At nobis ars una fides et musica Christus»: Carmen 20, 31: CCL 203, 144. (13) Cfr Giovanni Paolo ii, Duodecimum saeculum (4 dicembre 1987), 8-9: AAS 80 (1988), 247-249. (14) La prospettiva rovesciata ed altri scritti, Roma 1984, p. 63. (15) Paradiso XXV, 1-2. (16) Cfr Giovanni Paolo ii, Omelia alla Messa per la conclusione dei restauri degli affreschi di Michelangelo nella Cappella Sistina (8 aprile 1994): Insegnamenti 171 (1994), 899-904. (17) Cfr AAS 56 (1964), 438-444. (18) N. 62. (19) Paolo vi, Messaggio agli artisti (8 dicembre 1965): AAS 58 (1966), 13. (20) Cfr n. 122. (21) ConC. ECum. vat. ii, Gaudium et spes, 62. (22) La teologia nel XII secolo, Milano 1992, p. 9. (23) ConC. ECum. vat. ii, Gaudium et spes, 22. (24) Inno ai Vespri di Pentecoste. (25) F. DostoEvskij, L’Idiota, P. III, cap. V, Milano 1998, p. 645. (26) «Sero te amavi, pulchritudo tam antiqua et tam nova, sero te amavi!», Confessiones 10, 27: CCL 27,251. (27) Paradiso XXXI, 134-135. (28) Oda do młodosci, v. 69: Wybór poezji, Wrocław 1986, vol. I, p. 63.

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1. Introduzione

Chi si accinge a cantare, può farlo subito bene (molto raro), oppure presentare dei difetti per svariati motivi.

Quali? Per esempio una cattiva impostazione anche nel parlato, che si trascina nell’atto cantato;

anche un cattivo esempio di fonazione da parte di genitori,educatori, direttori di coro, può essersi sedimentato in chi, per un pò di tempo ha fatto parte di qualche gruppo e ha cantato senza controllo ...

Questi “atteggiamenti” fonatori sono solo il risultato di cattive abitudini e risolvibili con l’aiuto di un buon insegnante.

Le patologie, che si presentano come danni ai tessuti delle corde vocali, richiedono l’intervento del foniatra.

2. La voce nasale

La voce nasale nell’atto cantato è necessariamente collegata al mancato sollevamento del velo palatino (o palato molle) durante la fonazione, che favorisce l’incanalamento del suono nelle cavità nasali piuttosto che nella cavità orale.

Si risolve abbastanza facilmente pensando di “sbadigliare” durante la vocalizzazione, poiché il palato molle è alto e “chiude” le cavità nasali, impedendo al suono di migrare “nel naso”, appunto.

Per maggiori chiarimenti circa lo sbadiglio, tornate alla sesta lezione!

3. La voce gutturale

È causata da tensioni che non permettono alla faringe di allargarsi, alla lingua di rimanere rilassata sul fondo della bocca, con la punta contro gli incisivi inferiori e alla mandibola di scendere e salire morbidamente.

La voce perde brillantezza e morbidezza e diventa dura, la salita all’acuto diventa impossibile poiché non c’è il sollevamento del palato molle, che permette al suono di girare ed andare in “maschera” (vedi sesta lezione).

La lingua è rigida e nel migliore dei casi contratta e sollevata invece di essere appoggiata rilassata sul fondo della bocca.

Cito un passo dell’intervista ad un noto didatta del campo lirico, Sherman Lowe, a proposito della voce gutturale:

“...La lingua tirata indietro, alzata o schiacciata è come una spugna infilata nella cavità orale: assorbe le vibrazioni. Il cantante con questo difetto, in pratica riduce lo spazio tra la faringe orale e la cavità orale (istmo delle fauci). Il suono che ne risulta è di natura gutturale.” (tratto da “La voce del cantante-Saggi di foniatria artistica” a cura di FranCo Fussi, Ed. Omega)

Come si può immaginare, è necessaria la presenza di un buon insegnante che guidi l’allievo a compiere le “manovre” corrette a risolvere questo problema:

allargare la gola, simulando lo sbadiglio; lasciare morbida la mandibola; in alcuni casi potrebbe essere utile poggiarsi un cucchiaino sulla lingua per verificare se si

alza o meno;lo si faccia solo cantando le vocali O ed A, per la cui pronuncia la lingua rimane naturalmente bassa.

Anche concentrarsi a tenere la punta della lingua contro gli incisivi inferiori può essere utile. 46

difetti nell’Uso della voce.1.

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Purtroppo, da soli, è molto difficile far fronte alla risoluzione completa di questi fatti. È possibile, e molto prezioso, provare a registrare la propria voce e ascoltare il risultato; in questo

modo si prende consapevolezza del proprio suono e si possono magari notare dei giovamenti, lezione dopo lezione.

La regola generale di base però, rimane una: il canto deve essere spontaneo, senza cercare posizioni assurde e innaturali del viso.

Piuttosto, le sensazioni a cui fare più attenzione sono quelle interne: comodità nell’emissione, nessuna fatica, se non a livello dei muscoli addominali, sensazione di gola aperta, in particolare per quest’ultimo caso.

4. La voce sfiatata

Ciò che si ode, in chi presenta questo difetto, è un piccolo o grande sibilo d’aria (i foniatri lo chiamano “fuga d’aria glottica”) che sembra accompagnare il suono.

Se il difetto si è presentato all’improvviso, cioè non lo si è mai avvertito prima, potrebbe essere stato causato da un qualche abuso vocale. Può accompagnarsi ad affaticamento rapido subito dopo l’esercizio e/o a raucedine.

In questo caso è indispensabile una visita foniatrica, prima di intraprendere qualsiasi esercizio vocale, per poter escludere infiammazioni alle corde o formazioni pre-nodulari.

Se invece la fuga d’aria è molto ridotta, ma udibile ad un orecchio attento e non si accompagna ad altri sintomi, potrebbe essere un difetto di adduzione delle corde, quasi certamente frutto di abitudini di canto senza adeguato sostegno di fiato. Può essere utile richiamare alla memoria il meccanismo grazie al quale le corde vibrano (vedi prima lezione del corso!).

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imPariamo a sUonare Un canto con la cHitarra2.

di Marcello Manco (musicista e compositore)

In questa sezione di volta in volta verrà proposto un canto del libretto “Dio della mia lode” per aiutare tutti coloro che suonano la chitarra. Le frecce sono l’aiuto più immediato ed efficace. La freccia in basso (battere) rappresenta la pennata in basso, la freccia in alto rappresenta la pennata in alto (levare). Nel canto di specie, c’è anche una tablatura. I numeri sulla tablatura rappresentano i tasti della tastiera della chitarra mentre i numeri all’inizio della tablatura rappresentano invece le note.

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Alcune precisazioni e convincimenti

♦ Parliamo dell’uso dell’organo nella liturgia, nelle celebrazioni della chiesa cattolica, come strumento a servizio del rito e delle persone. Affermare questo, non significa escludere l’utilizzo dell’organo anche per altre finalità: concertistiche, di ascolto, di concerti spirituali, ecc.Però, tutte le volte che l’organo entra nella liturgia, deve sottostare alle leggi e alle norme celebrative. Non può suonare per proprio conto, non può avere la libertà di praticare percorsi musicali alternativi, non può seguire una regia musicale alternativa alla celebrazione. Dire questo, significa porre lo strumento all’interno della celebrazione, considerarlo strumento utile e a volte indispensabile alla celebrazione. In passato, prima della Riforma Liturgica del Vaticano II, il suo utilizzo ubbidiva a una impostazione rituale e celebrativa diversa da quella odierna; né possiamo nasconderci la idealizzazione e la enfatizzazione avvenuta lungo tutta la sua secolare storia.

♦ Oggi bisogna fare i conti con il nuovo rito della Messa e di conseguenza vanno reinterpretati i ruoli e l’utilizzo dello stesso strumento e dell’organista che lo suona. Dire questo non significa, decretare la morte dell’organo e la scomparsa dell’organista.

Vanno risignificati alcuni concetti e alcuni ruoli:

va ridefinito il nuovo modo di pensare “la vera solennità” liturgica; va riscoperta la vera partecipazione attiva alla celebrazione dei misteri; va approfondito il compito ministeriale svolto dall’organista come da tutti gli operatori musicali impegnati nella celebrazione.

È necessario, ampliare ad altri strumenti, questo servizio di sostegno musicale; va ristudiato il rapporto tra la funzione dei riti e il tipo di forme musicali adeguate; inoltre vanno ridisegnati i ruoli e le competenze dei vari “attori” del canto e della musica.

Comprendete bene allora che non basta porsi la domanda:

si può o non si può, è lecito o è proibito, oppure collocare un pezzo all’inizio, uno all’offertorio... e tutto è risolto.

Le prospettive ispirate dalla riforma liturgica del Vaticano II, possono essere viste almeno da alcuni organisti come una diminutio del loro ruolo, come realtà troppo subalterna, come una rinuncia all’arte. Tali interpretazioni nascono a partire da una mistica dell’organo, dal mito che enfatizza “un sacerdozio” dell’organista, da una esaltazione romantica di un ruolo. Dice don Felice Rainoldi:

“Come non basta dire: ‘Signore, Signore’... così non basta dire ‘Organo, Organo’, per pretendere di essere ecclesialmente e liturgicamente ben situati (....). Siamo nel cantiere aperto di una ‘riforma’, che è obbedienza ai moti dello Spirito del Signore e non strategia vaticana o clericale.”

♦ Professionalità

Ma appunto non si riforma nulla senza una lucida presa di coscienza del senso e delle

gli strUmenti mUsicali nella litUrgia1. A cura dell’ufficio liturgico nazionale CEICenni storici ( le origini – i padri – medio evo – oggi)

continua dal mese di Marzo 2012

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ocomponenti di un rinnovato o almeno ‘aggiornato’ tipo di ministerialità, posto che si sia scelto di servire il Popolo di Dio e non invece di servirsi della Chiesa.

E l’aggiornamento di cui faccio parola, è tra l’altro, componente insurrogabile di una autentica professionalità. La ‘riforma’ è certamente anche nelle cose (organi, repertori, contratti...), ma è soprattutto nelle persone.

Don Guido Genero in un suo intervento apparso su Informazione Organistica n. 1/2 1994, così scriveva:

“(....) gli organisti si impegnino per una vera formazione liturgica, basata sulla comprensione specialistica dell’azione celebrativa cattolica e delle sue ragioni. È evidente che senza una esplicita condivisione della fede cristiana e dei suoi contenuti, o almeno, senza un chiaro riferimento al sentire tipicamente ecclesiale intorno alla liturgia come esperienza religiosa non sia possibile un esercizio credibile di questo ruolo musicale... L’esigenza formativa è dunque imprescindibile. E lo è quanto più lontana dalle istanze ecclesiali è l’attuale proposta di programma in vigore nei Conservatori di Stato, nella quale manca ad esempio una scuola di improvvisazione che risulterebbe indispensabile per la pratica liturgico-musicale”.

Ed aggiungo, bisognerebbe anche istituire un corso di liturgia per chi vuole specializzarsi in questo ambito della musica.

I compiti liturgici dell’organista

Bisogna sfatare l’impressione espressa da molti che “non ci sia più posto per l’organista” nella liturgia cattolica. Basta scorrere le pagine del rituale romano per farsi una obiettiva concezione del grande spazio potenzialmente offerto allo strumentista.

Accenno molto schematicamente ad alcuni interventi previsti dal Messale. a) Accompagnamento della vocalità liturgica.Sostegno dell’assemblea, del coro, dei solisti, dei ministri. b) Intervento solistico: si tratta di preludiare, interludiare, e postludiare ai canti o alle azioni. c) Ambientazione musicale prima della celebrazione o chiusura festosa di una solennità.

Inoltre deve porre attenzione ad alcune priorità: - tener conto dell’assemblea presente e dei suoi ministri, della loro situazione religiosa e

culturale, - fare attenzione alla sequenza rituale in cui si opera, - mantenere un costante riferimento al mistero celebrato (memoria, festa, solennità). A mò di esempio vi cito un intervento di Felice Rainoldi che documentava le principali idee del passato in alcuni trattati presi in esame. - Una spiritualità dell’organista - Virtù umane a supporto della spiritualità - Professionalità, competenza tecnica: esame previo, la conoscenza dello strumento,

l’abilità del concertare, evitare ogni sorta di inconvenienti, una tipologia di quattro generi di organisti

- Adesione alle norme: spirito e lettera - Sensibilità rituale: attenzione al contesto, armonia con i tempi e le feste,attenzione ai singoli riti

Si lavora, in silenzio, ma mettendo le basi per preparare una nuova generazione di musicisti di chiesa e di organisti liturgici.

È un cammino difficile e lungo, perché trova resistenze dovute a diversi fattori: varie provenienze formative, diverse scuole organistiche, prevalenza di presenza di giovani organisti-concertisti, nostalgie e ritorni al passato, scarsa preparazione liturgica. 53

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ito Io ho dato questa definizione dell’organista:

“è un cristiano convinto e maturo, che vuol essere utile alla comunità, offrendo un servizio specifico nel settore dell’animazione musicale della liturgia. Ha la consapevolezza di aver scoperto una vocazione ministeriale e vuol mettere al servizio della comunità i propri talenti musicali. Per svolgere bene tale ministero, gli occorre competenza e preparazione spirituale, liturgica, musicale e tutto un bagaglio di qualità umane, psicologiche, di buon senso, di collaborazione, di gusto estetico”.

Avendo una particolare formazione e competenza musicale, per i suoi studi di Conservatorio, dovrebbe svolgere in pratica le seguenti mansioni:

- preparare il repertorio di una celebrazione, - individuare ed intendersi con il direttore del coro e con la guida dell’assemblea, - insegnare il canto ai solisti e al sacerdote, - provare con eventuali altri strumentisti, - se è necessario, curare l’amplificazione e l’utilizzo dei microfoni, - scrivere il ritornello del salmo responsoriale e i recitativi, - comporre le acclamazioni e le risposte, se è necessario, - curare il gruppo dei cantori con incontri, con gite, - curare il libro dei canti parrocchiali, - tenere i contatti con il responsabile diocesano.

Alcune questioni tecniche

Il mio punto di partenza è quello di un pastore che guarda a questa ampia problematica con gli occhi non di un esperto o di un organologo, ma con una preoccupazione pastorale e specificatamente liturgica.

Altri, potranno evidenziare aspetti e problematiche diverse, in modo da offrire una visione completa di questo tema.

La prima domanda che mi pongo: qual è l’organo adatto alla liturgia d’oggi?

Io evidenzio le esigenze e le richieste di un sacerdote impegnato in una parrocchia. Fondamentalmente, un organo situato in una chiesa, è utilizzato per il 90% per scopi liturgici. Cosa significa? Prima di tutto uno strumento che accompagni, sostenga e aiuti il canto

dell’assemblea. Uno strumento che sappia accompagnare un cantore o uno strumento solista. Ancora, può essere utilizzato per accompagnare una processione rituale, per chiudere una celebrazione, o prima di una celebrazione, creare un clima adatto alla preghiera.

Deve poter accompagnare inni, corali, recitativi, litanie, ostinati, acclamazioni, canzoni. Allora, mi occorre un organo con registri di Principale, Ottava, Decimaquinta e 2 file di Ripieno.

Un Flauto 8 e 4 piedi, un Nazardo e una Voce Umana. Escluderei le ance, perché hanno bisogno di accordatura.

Come parroco potrei spendere fino a 50.000 euro, chiavi in mano e Iva inclusa, senza aggiornamenti prezzi.

In conformità a questa cifra, i costruttori dovranno dirmi se è possibile avere due tastiere, sarebbe auspicabile, con pedaliera, oppure una sola tastiera e pedaliera.

La trasmissione: non mi pronuncio sulla trasmissione meccanica o elettrica o midizzata, non mi interessa; mi serve quella trasmissione più adatta a permettere all’organista di vedere e ascoltare l’assemblea, il coro, il direttore e il presbiterio. 54

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oL’organo è uno strumento in funzione…della liturgia e quindi le leggi, le esigenze vengono date dalla liturgia, sempre nel rispetto delle normative, e non preoccupati da nostalgie o da esigenze storico-filologiche.

E tutta l’attività concertistica e artistica: dove svolgerla e organizzarla? Tale preoccupazione non rientra nella specifica competenza di un pastore, né rappresenta lo scopo principale della liturgia.

Se servono organi per esecuzioni concertistiche, allora bisogna rivolgersi agli enti pubblici e statali e poi installarli nelle sale da concerto.

Vari modelli di prassi esecutiva

Un valido approccio alla questione, dovrebbe partire da un progetto globale di liturgia entro cui si inseriscono gli strumenti. Si possono delineare alcuni modelli principali a cui la prassi strumentale si è riferita.

♦ Il modello dell’epoca post-tridentina: è la festa sacro-profana in cui l’occhio e l’orecchio erano ammaliati dallo splendore e dallo sfarzo di una ritualità compassata ed essenzialmente clericale. La faceva da padrone lo strumento-pontefice, l’organo, con intorno tutta l’orchestra di archi, flauti e percussioni, specialmente nelle grandi festività. “Più concerto, più liturgia; più organo, più sacro” (F. Rainoldi).

♦ Un secondo modello lo possiamo individuare tra l’800 e buona parte del ‘900, fin quasi alla riforma del Vaticano II. Modello liturgico di una pietà popolare raccolta entro un mondo rurale, stretto intorno al prete e alle varie Arciconfraternite. Si esegue un gregoriano ritmizzato con l’accompagnamento dell’organo o armonio; si vive una ritualità tradizionale e ripetitiva, perciò anche il canto fa riferimento a tale ambiente rurale e popolare.

♦ Ulteriore modello è quello di oggi: un gruppo di giovani che anima musicalmente le varie celebrazioni. Gruppo che fa riferimento ai comportamenti di massa; che vive immerso nei fenomeni musicali enfatizzati dai mass-media (microfoni, strumenti elettronici, musica leggera).

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area carismaticaAnno 0 - Numero 0 Cantare a dio con arte (tratto Da PuF rns - livEllo BasE v CaPitolo)Anno 0 - Numero 0 L’importante del canto nella preghiera della comunità cristiana (di l. villani)

Anno 0 - Numero 1 Cantare a dio con arte (tratto Da PuF rns - livEllo BasE v CaPitolo)Anno 0 - Numero 1 Musica e canto: un carisma profetico (di l. monaCo)Anno 0 - Numero 1 Chiamati a servire Davide e Maria (di a.t. FranCia)

Anno 0 - Numero 2 Chiamati a servire Davide e Maria (di a.t. FranCia)

Anno 0 - Numero 3 Chiamati a servire Davide e Maria (di a.t. FranCia)Anno 0 - Numero 3 L’evangelizzazione con la musica e il canto (di m. CiamEi)

Anno 0 - Numero 4 La musica e il canto profezia dell’amore (di l. monaCo)

Anno 0 - Numero 5 Etica ed estetica della musica (di l. lEonE)

Anno 0 - Numero 6 La lode nel giubilo: il cuore si apre a una gioia senza parole e la gioia si dilata immensamente (aa.vv.)

Anno 0 - Numero 7 La musica dono o tentazione (di l. lEonE)Anno 0 - Numero 7 La danza negli insegnamenti dei Padri della chiesa (di aa.vv)

Anno 0 - Numero 8-9-10 Cantiamo al Signore con gioia (di n. montuori)Anno 0 - Numero 8-9-10 Maria conosce il segreto dell’evangelizzazione (di s. martinEz)

area liturgico-musicaleAnno 0 - Numero 0 Il potere di comunicare (di m. Frisina)Anno 0 - Numero 0 Dieci parole per la musica liturgica “ecclesiale” (di a. PorFiri)Anno 0 - Numero 0 Il canto Gregoriano (aa.vv.)Anno 0 - Numero 0 Il papa è la musica sacra: L’arte musicale al servizio del culto divino (di aa.vv.)

Anno 0 - Numero 1 Sacro e liturgico (aa.vv.)Anno 0 - Numero 1 Dieci parole per la musica liturgica “Eccellente” (di a. PorFiri)Anno 0 - Numero 1 La spiritualità del canto gregoriano (aa.vv.)Anno 0 - Numero 1 La musica sacra per la chiesa è di grande ecc. ecc. (aa.vv.)

Anno 0 - Numero 2 Canto Liturgico (aa.vv.)Anno 0 - Numero 2 Dieci parole per la musica liturgica: “Eccedente” (di a. PorFiri)Anno 0 - Numero 2 Valorizzare il canto gregoriano (di E. sottilE)Anno 0 - Numero 2 Lo sviluppo della musica sacra deve essere fedele alla tradizione e dare dignità alla liturgia (di a. DE Carolis)

Anno 0 - Numero 3 Avvento in musica: Sette antifone tutte da riscoprire (padre m. GilBErt)Anno 0 - Numero 3 La promessa a noi vacillanti: “Ci sarò domani, e sempre” (di m. CorraDi) Anno 0 - Numero 3 Canto liturgico (aa.vv.)

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INDICE DELL’ANNATA

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Anno 0 - Numero 3 Dieci parole per la musica liturgica: “Estetica” (di a. PorFiri)Anno 0 - Numero 3 Introduzione ai brani di canto gregoriano per il tempo di avvento (di m° E. sanDrEtti)Anno 0 - Numero 3 La musica un’arte familiare al Logos di Benedetto XVI (di j. ratzinGEr)

Anno 0 - Numero 4 Dieci parole per la musica liturgica: “Edificante” (di a. PorFiti)Anno 0 - Numero 4 Metodo di canto Gregoriano (aa.vv.)Anno 0 - Numero 4 Il Papa ribadisce che il concilio vaticano II impone il primato del canto Gregoriano, il quale non può essere considerato superato (di m. introviGnE)

Anno 0 - Numero 5 Dieci parole per la musica liturgica “Elegante” (di a. PorFiri)Anno 0 - Numero 5 Canto Gregoriano come canto dell’assemblea (di m. DolorEs aGuirrE)Anno 0 - Numero 5 Cantare la Quaresima (di D. saBaino)Anno 0 - Numero 5 Tempo di Quaresima (di Don D. Piazzi)Anno 0 - Numero 5 Le ragioni della musica...ad alta voce (di Don a. Parisi)Anno 0 - Numero 5 Papa Benedetto XVI e “L’arte musicale al servizio del culto divino” (di j. ratzinGEr)

Anno 0 - Numero 6 Dieci parole per la musica liturgica “Educante” (di a. PorFiri)Anno 0 - Numero 6 Il canto Gregoriano e la liturgia tradizionale (di r. mamEli)Anno 0 - Numero 6 Il Papa ribadisce che il concilio vaticano II impone il primato del canto Gregoriano, il quale non può essere considerato superato (di m. introviGnE)

Anno 0 - Numero 7 Dieci parole per la musica liturgica “Espandente” (di a. PorFiri)Anno 0 - Numero 7 Quando la preghiera diventa canto “Regina Coeli” (di aa.vv.)Anno 0 - Numero 7 Questa sinfonia è un grande inno di lode a Dio (di j. ratzinGEr)

Anno 0 - Numero 8-9-10 Cantiamo al Signore il canto dell’amore (aa.vv.)Anno 0 - Numero 8-9-10 Dieci parole per la musica liturgica “Espressiva” (di a. PorFiri)Anno 0 - Numero 8-9-10 Lettera apostolica di Motu Proprio “Quaerit Semper” del sommo pontefice Benedetto XVI (di j. ratzinGEr)Anno 0 - Numero 8-9-10 Il Motu Prprio di Pio X (1903): una persistente attualità (di a. Corno)Anno 0 - Numero 8-9-10 Lettera di Giovanni Paolo II agli Artisti (Giovanni Paolo ii)

area tecnica

Anno 0 - Numero 0 Il fenomeno “voce” definizione e produzione (uFF. nazion. liturG. musiCalE CEi)Anno 0 - Numero 0 Canto: Rallegratevi nel signore (di m. ColuCCi)Anno 0 - Numero 0 Come leggere una tablatura (aa.vv.)

Anno 0 - Numero 1 Il fenomeno “voce” definizione e produzione (uFF. nazion. liturG. musiCalE CEi)Anno 0 - Numero 1 Canto: Sono qui a lodarti Canto: Io credo in te Gesù

Anno 0 - Numero 2 Impariamo a conoscere la musica (uFF. nazion. liturG. musiCalE CEi)Anno 0 - Numero 2 Canto: Alzati 57

segue area liturgico-musicale

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Anno 0 - Numero 3 La legatura e il punto di valore (uFF. nazion. liturG. musiCalE CEi)Anno 0 - Numero 3 Canto: Mi basta la tua grazia

Anno 0 - Numero 4 Le caratteristiche della voce: Estensione e timbro (uFF. nazion. liturG. musiCalE CEi)Anno 0 - Numero 4 Scrivere e leggere le note (uFF. nazion. liturG. musiCalE CEi)Anno 0 - Numero 4 Canto: Quale gioia è star con te

Anno 0 - Numero 5 Vocalità (uFF. nazion. liturG. musiCalE CEi)Anno 0 - Numero 5 Laboratorio di lettura della musica (uFF. nazion. liturG. musiCalE CEi)Anno 0 - Numero 5 Canto: Per sempre re di gloria

Anno 0 - Numero 6 La classificazione delle voci in base all’estensione e al timbro (uFF. nazion. liturG. musiCalE CEi)Anno 0 - Numero 6 La danza negli insegnamenti dei Padri della chiesa (di aa.vv)Anno 0 - Numero 6 Canto: Celebriamo il Signore

Anno 0 - Numero 7 La corretta produzione delle vocali nel canto (uFF. nazion. liturG. musiCalE CEi)Anno 0 - Numero 7 canto: Alzati

Anno 0 - Numero 8-9-10 Difetti nell’uso della voce (uFF. nazion. liturG. musiCalE CEi)Anno 0 - Numero 8-9-10 Canto: Diamo gloria al SignoreAnno 0 - Numero 8-9-10 Canto: Lodate il Signore

gli strumenti musicali nella liturgia

Anno 0 - Numero 0 L’uso degli strumenti musicali nella liturgia (di Mons. a. Parisi)

Anno 0 - Numero 1 Si abbia in grande onore l’organo a canne (di a. PorFiri)

Anno 0 - Numero 2 L’organo e la chitarra (aa.vv.)

Anno 0 - Numero 3 Chitarra e liturgia (di P. ruaro)

Anno 0 - Numero 4 Come accompagnare un canto con la chitarra (di P. ruaro)

Anno 0 - Numero 5 Quando il chitarrista è l’unico strumentista accompagnatore (aa.vv.)

Anno 0 - Numero 6 Quando vi sono due o più chitarristi (aa.v.v.)

Anno 0 - Numero 7 Accompagnare i Salmi (aa.vv.)Anno 0 - Numero 7 Cenni storici: Le origini - i Padri - Medio Evo - Oggi (uFF. nazion. liturG. musiCalE CEi)

Anno 0 - Numero 8-9-10 Cenni storici: Le origini - i Padri - Medio Evo - Oggi (uFF. nazion. liturG. musiCalE CEi)58

segue area tecnica

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INDICE DELL’ANNATA

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ogli strumenti musicali nella bibbia

Anno 0 - Numero 0 La musica nella bibbia (di Suor m. CECilia Pia manElli)

Anno 0 - Numero 1 La musica nella bibbia (di Suor m. CECilia Pia manElli)

Anno 0 - Numero 2 Lo Shofar (aa.vv.)

Anno 0 - Numero 6 Cenni storici: Le origini - i Padri - Medio Evo - Oggi (uFF. nazion. liturG. musiCalE CEi)

animazione domenicali

Anno 0 - Numero 6 Il Salmo responsoriale (di l. GuGliElmi)

numero speciale aprile 2012 la santa Pasqua

Nel cuore della sacralità: il Triduo Pasquale (di s. marsili) Preparare e Celebrare Il Triduo Pasquale (di D. Piazzi) Cantare la passione del Signore (aa.vv.) Cantare la veglia Pasquale (di F. GomEro) Cantare la messa nella cena del Signore (di F. GomEro)

inserto speciale

da Maggio 2012 Manuale di improvvisazione per chi suona la chitarra a orecchio (di R. VillaRi)

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SulleotedelloSpirito

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Progetto grafico e impaginazione: Francesco Angioletti

Il prossimo numero sarà online nella prima settimana del mese di Settembre 2012

DECALOGO DEL BEL CANTO

1. Cercare di comprendere bene il senso delle parole, se non si vuole un canto senz’anima, o quel che è peggio, una preghiera senza senso.

2. Curare una dizione più perfetta possibile.

3. Si impari ad usare per le note alte la voce di testa, sì da evitare acuti stridenti e sgraziati.

4. In genere si canti a mezza voce, perchè il canto è preghiera, e meglio lo si comprenderà se si terrà un tono di voce atto a favorire il raccogliemto.

5. Regolare con molta cura la respirazione. Respirare profondamente, adagio, acquistando vigoria e padronanza sull’emissione della propria voce.

6. Terminare rallentando e diminuendo il volume della voce.

7. Cercare di fondere la propria voce con tutte le altre del coro, evitando martellamenti, suoni sforzati, portamenti di voce.

8. Curare le pause, senza peraltro renderle più frequenti del necessario e così lunghe da rom-pere la snellezza del brano.

9. Abbellire il canto con un pò di espressione per non limitarsi ad un continuo, monotono mez-zoforte.

10. Curare anche la posizione del corpo, perchè anche essa favorisce il bel canto.

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