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Il PD e le trasformazioni del sistema democratico Atti del seminario organizzato dal Partito Democratico

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Il PD e le trasformazionidel sistema democratico

Atti del seminario organizzatodal Partito Democratico

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Indice

IntroduzioneMaurizio Migliavacca

1° SESSIONEL’evoluzione del sistema istituzionalee dei partiti in Italia nell’ultimo ventennio

Intervento di aperturaRosy Bindi

Relazioni introduttive

Massimo Luciani Donatella Della Porta Oreste Massari

Interventi

Giuseppe VaccaAlfredo ReichlinMarco MeloniStefano FassinaRoberto GualtieriMarina SereniAlfredo D’AttorreRosy Bindi

Repliche dei relatori

Donatella Della PortaOreste MassariMassimo Luciani

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2° SESSIONEPartiti, elettori, iscritti:l’esperienza americana e quella europea

Intervento di aperturaIgnazio Marino

Relazioni introduttive

Daniel ZiblattStephen AnsolabehereIgnazio MarinoYves MényIgnazio MarinoFrank Decker

Interventi

Ignazio MarinoGianluca GallettoSandro GoziAndrea ManciulliMarina SereniRosanna AbbàNico Stumpo

Repliche dei relatori

Yves MényFranck DeckerStephen AnsolabehereDaniel Ziblatt

3° SESSIONEIl PD visto dagli elettori e dagli iscritti

Intervento di aperturaMarina Sereni

Relazione introduttivaLuca Comodo

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Interventi

Walter TocciOriano GiovanelliGiorgio RaveraEttore RosatoCesare PinelliGiovanni BacheletFausto RacitiGiuseppe VaccaGianluca GallettoSandro Gozi

Intervento ConclusivoPier Luigi Bersani

APPENDICEIl PD tra iscritti ed elettoriRicerca Ipsos

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IntroduzioneMaurizio Migliavacca

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Abbiamo concepito questo seminario come una primatappa di avvicinamento alla conferenza nazionale sul partito,che il Pd ha deciso di organizzare entro quest’anno.

Il seminario è stato pensato innanzitutto come un mo-mento culturale e politico di approfondimento. Non una di-scussione sugli aspetti organizzativi, che dovrà venire dopo,ma una riflessione aperta, senza rete, sul partito nel quadropiù vasto delle trasformazioni che hanno investito i sistemi de-mocratici in Italia e nel mondo occidentale nel corso degli ul-timi decenni.

La scelta di questa impostazione è legata all’idea che anchela discussione sul Pd, sulla sua forma-partito e sul suo rapportocon la società possa svilupparsi più proficuamente, libera cioèda schemi precostituiti, se muove da una riflessione più ampia:quale democrazia, quali partiti e, quindi, quali cambiamentiper il Partito Democratico.

In questo senso, ci è sembrato utile sollecitare il contributodi autorevoli studiosi, italiani e stranieri, che sono peraltroespressione di diversi indirizzi disciplinari e culturali.

Allo stesso tempo, ci è parso opportuno tenere questa di-scussione a porte chiuse, in modo da favorire un confrontopiù libero, slegato dalle preoccupazioni di immediate ricaduteesterne.

Voglio innanzitutto ringraziare gli studiosi che hanno ac-colto il nostro invito.

Le loro relazioni offriranno certamente una base di informa-zioni e di analisi preziose per gli sviluppi del nostro dibattito.

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Un ringraziamento particolare vorrei esprimere agli stu-diosi che ci hanno raggiunto anche da molto lontano e alsen. Marino, sia per aver avanzato in assemblea l’idea diun appuntamento di questa natura, sia per aver contri-buito a rendere possibili queste autorevoli presenze.

Come avete visto il programma del seminario è artico-lato in tre sessioni, distinte ma legate – io penso - da unfilo logico.

Nella prima sessione si proverà ad inquadrare le espe-rienze del Pd all’interno delle trasformazioni che hanno in-vestito il sistema istituzionale e partitico italiano. Laquestione del partito non può essere, infatti, avulsa da unavalutazione degli effetti che queste trasformazioni hannoprodotto sulla qualità della nostra democrazia.

In particolare, penso, saranno cruciali nei nostri lavorialcuni interrogativi.

Primo, gli esiti che i processi di verticalizzazione dellaleadership e di accentuata personalizzazione hanno sortitorispetto alla partecipazione dei cittadini, alla credibilitàdelle istituzioni democratiche rappresentative, all’efficaciadei processi decisionali rispetto alle stesse promesse da cuinasceva questa verticalizzazione cioè le promesse di unamaggiore efficienza, velocità, capacità di decisione.

D’altra parte, basta guardare le cronache di questi mesi,anche di queste ore, per rendersi conto degli effetti chequesto processo, il cosiddetto ‘direttismo’, ha prodotto.

Secondo interrogativo: questa riflessione non può pre-scindere dai mutamenti che hanno attraversato la strutturasociale del nostro paese e dalla capacità del sistema parti-tico di dare rappresentanza a questi cambiamenti. Qualisono, quindi, le condizioni istituzionali, politiche, organiz-zative che possono consentire, in forme certamente rinno-vate rispetto ai primi decenni della Repubblica, di darerappresentazione a questi cambiamenti.

Infine, penso si tratti di riflettere sull’evoluzione del si-

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stema politico rispetto all’evoluzione in senso federaledell’ordinamento statale e alla connessa esigenza di rico-struire su basi solide le ragioni di una rinnovata unità na-zionale.

In che modo cioè la struttura dei partiti, e del PartitoDemocratico in primo luogo, può concorrere positiva-mente ad una dinamica virtuosa e non disgregativa delprocesso federale.

Nella seconda sessione si metteranno a confronto di-verse esperienze – Usa, Germania, Francia – sul tema delrapporto tra elettori e iscritti nella vita dei partiti e nei pro-cessi decisionali che li riguardano.

Le relazioni degli studiosi stranieri ci potranno aiutare amettere a fuoco sia l’origine, le finalità e le forme di rego-lamentazione delle primarie, dove esse godono di una piùconsolidata tradizione, gli Stati Uniti; sia le ragioni e le mo-dalità che stanno caratterizzando il ricorso, in particolaredella sinistra, a questo strumento in un paese europeo, laFrancia; sia il contesto istituzionale e sociale di una demo-crazia parlamentare, che rimane ancorata al modello delpartito fondato sugli iscritti e sugli organi deliberativi daessi eletti, la Germania.

Nella terza sessione discuteremo dei risultati di una ri-cerca molto interessante affidata all’Ipsos sulla percezionee le aspettative di iscritti ed elettori del Partito Democraticosul posizionamento del Pd, su quelle che sono o dovreb-bero essere le sue priorità ideali e programmatiche, sul giu-dizio rispetto alla sua struttura organizzativa - la vicinanzacioè ai cittadini - e anche sui caratteri della sua vita interna.

Il confronto tra le risposte del campione degli iscritti ri-spetto a quello degli elettori potrà fornire elementi interes-santi su qual è appunto la percezione del Pd, della suaattività, dei caratteri del suo dibattito interno tra unità epluralismo, a partire – questo è anche il senso dell’indaginedemoscopica – non da un’auto-rappresentazione del

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gruppo dirigente, ma da quello che è il punto di vista degliiscritti e degli elettori.

In conclusione, immaginiamo la discussione che si svol-gerà in ciascuna delle tre sessioni, dopo le relazioni, comeun continuum, prevedendo in particolare che una partedegli interventi più direttamente legati ai temi della primadelle due sessioni possano tenersi anche nella terza ses-sione di sabato mattina, che è quella che presumibilmentedisporrà di un tempo maggiore prima delle conclusioni diBersani.

Avviamo, dunque, questa discussione con la consape-volezza che non riguarda solo noi, ma la democrazia ita-liana con riferimento, in particolare, alle prospettive diquella riforma repubblicana e di quella fase ricostruttiva dinatura costituente che abbiamo messo al centro della no-stra proposta politica.

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1° Sessione

L’evoluzione del sistema istituzionale edei partiti in Italia nell’ultimo ventennio

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Intervento di aperturaRosy Bindi

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Grazie a Maurizio Migliavacca per l’organizzazione diqueste giornate e grazie per questa introduzione dallaquale risulta con molta chiarezza il senso e l’obiettivo delnostro lavoro.

Cominciamo questa prima sessione che riguarda “L’evo-luzione del sistema istituzionale dei partiti in Italia nell’ul-timo ventennio”.

Ci aiuteranno a riflettere su questo la relazione intro-duttiva del prof. Massimo Luciani, professore di Diritto co-stituzionale all’Università La Sapienza di Roma, la prof.ssaDonatella Della Porta, di formazione sociologica che inse-gna Scienza della politica all’Istituto Universitario Europeodi Firenze, il prof. Oreste Massari, che insegna all’UniversitàLa Sapienza di Roma Scienza della politica.

Non intendo fare nessuna introduzione, vorrei soloporre alcune domande ai nostri relatori, partendo dallaconvinzione che, nel momento in cui affrontiamo questotema, non siamo soltanto preoccupati del futuro del Par-tito Democratico, ma della democrazia nel nostro paese edi quella democrazia che è disegnata nella nostra Carta co-stituzionale, all’interno della quale i partiti rivestono unruolo fondamentale.

Penso soprattutto all’attuazione di alcuni principi, a par-tire da quello contenuto nell’art. 1 dove, dicendo che lasovranità appartiene al popolo, si vuole in qualche modoaffermare che nessuno può appropriarsi né della sovranità,né del popolo e nessuno può identificarsi, né un leader, né

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un partito, con il popolo, ma ne rappresenta una parte euna forma di rappresentanza.

C’è da chiedersi se questo oggi non sia un rischio chestiamo correndo nel nostro paese e in che senso i partitipossono rappresentare, al contrario, una via di attuazionee non il tradimento di questo principio. Così come c’è dainterrogarsi su come i partiti possano essere ricondotti aun’espressione delle formazioni sociali, il cui compito èquello di essere un canale di comunicazione tra la societàe le istituzioni.

L’altro principio è il rapporto tra persona e società.Penso che, se noi siamo chiamati a riflettere sulla storiadegli ultimi venti anni, è chiaro che partiamo dalla fine diquella parabola che ha visto nel nostro paese il passaggiodalla democrazia dei partiti - nella quale i partiti hanno gio-cato un ruolo fondamentale nella costruzione della demo-crazia nel nostro paese - alla degenerazione dellapartitocrazia.

Riflettere sugli ultimi venti anni credo significhi per noidomandarci se siamo riusciti a riscattare le degenerazionidella partitocrazia o se non siamo in qualche modo crollatinelle degenerazioni populistiche e liberistiche del nostro si-stema politico, nel quale i partiti forse rischiano di contri-buire a queste degenerazioni e non posseggono strumentisufficienti per evitarle e per ricollocare giustamente i partitinel ruolo democratico che devono giocare.

Penso che su questo dobbiamo riflettere in questi giornie domandarci come il Partito Democratico ha voluto rap-presentare un tentativo di riscattarci dalle degenerazionidella partitocrazia, se ci stia riuscendo e in che modo deveagire per far questo.

L’altro interrogativo riguarda il rapporto tra leggi elet-torali, trasformazione del sistema politico, indebolimentodella democrazia parlamentare e scivolamento verso unaforma di presidenzialismo non regolata nel nostro paese.

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Quanto le forme di partito, il modo con le quali i partiti sisono organizzati, hanno rischiato e rischiano di assecon-dare questa trasformazione non voluta e non scelta?

Il mancato compimento del processo di riforma istitu-zionale ha finito per essere in qualche modo assegnato allamodifica della costituzione materiale, soprattutto attra-verso le leggi elettorali e il comportamento dei partiti.

Penso che come Partito Democratico dovremmo chie-derci se noi siamo capaci di stare dentro le scelte della no-stra Costituzione e di non procedere a cambiamenti einnovazioni che non siano frutto di un processo riforma-tore davvero costituzionale, davvero condiviso.

Dentro questo, a mio avviso, ci sono altri interrogativiche mi sentirei di porre già in questa prima sessione. Perstrada penso che si siano smarriti anche i canoni tradizio-nali di formazione della classe dirigente. Cooptazione enuovo funzionariato credo rappresentino in qualche modoun rischio per tutti i partiti in questa fase, anche grazie al-l’aiuto della legge elettorale e alla difficoltà di essere dav-vero un canale di comunicazione tra la società civile e leistituzioni.

Penso che anche su questo il Partito Democratico debbainterrogarsi. Sulle primarie ci sarà un pomeriggio per la di-scussione, ma è chiaro che il tema della democrazia in-terna è un problema che ci riporta al primo interrogativoche tentavo di porre.

La democrazia interna dei partiti prefigura il livello didemocrazia che vogliamo costruire nella vita del nostropaese e quindi è un elemento dal quale non possiamo fug-gire.

A questo punto è d’obbligo una domanda: l’art.49della Costituzione prevede - o in base a quell’articolo è an-cora attuale - il tema di una legge che regolamenti la vitademocratica dei partiti in relazione alla sfida dell’essere co-struttori della democrazia del nostro paese?

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In questo senso, la democrazia interna dei partiti di-venta un presupposto della democrazia del paese. Con laconsapevolezza che questi ultimi venti anni, anziché averrappresentato un tentativo di superare le degenerazionidella partitocrazia, hanno finito per creare anche nuovedegenerazioni, nella quali naturalmente la mancanza didemocrazia nei partiti ha giocato il suo ruolo.

Aggiungerei anche questi interrogativi a quelli già moltochiari posti da chi ha preparato questo seminario, dandola parola al prof. Luciani.

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Relazioni introduttive

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Massimo LucianiProfessore di Istituzioni di Diritto PubblicoUniversità La Sapienza di Roma

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1.- È tradizionale la concezione del partito politico comecerniera tra lo Stato e la società civile: è proprio nella societàcivile che, in quanto associazione di liberi cittadini, il partitoaffonda le proprie radici, ma è allo Stato che dirige la propriaattività, perché uno dei suoi scopi (il suo unico scopo, se-condo certe fortunate, ma non convincenti, ricostruzioni) èla conquista delle istituzioni rappresentative. Questa conce-zione può essere condivisa, ma si deve essere consapevolidell’instabilità del modello ch’essa sottende. Se, infatti, il par-tito si colloca eccessivamente sul versante dello Stato, rischiadi subire un processo di sostanziale incorporazione, snatu-rando all’un tempo se stesso e le istituzioni; se, invece, ec-cede nel collocarsi sul versante della società civile, rinuncia aqualsiasi pretesa di orientamento dei fenomeni sociali, che silimita a registrare, e non sviluppa alcuna capacità di selezionedi un personale specificamente politico, accontentandosi di“promuovere” all’esercizio della politica, senza alcun cursushonorum specializzato, alcune espressioni della società civile.I due eccessi, poi, possono convivere, determinando una crisidi legittimazione del partito, allo stesso tempo etica (perchégli si può rimproverare l’“occupazione” delle istituzioni,anche a livelli ai quali dovrebbe rimanere estraneo) e funzio-nale (perché gli si può rimproverare di non svolgere un’utilefunzione sistemica).

Di questa instabilità e delle oscillazioni fra un estremo el’altro può ritenersi testimone la stessa vicenda italiana, cheprima ha conosciuto l’eccesso di vicinanza dei partiti alla di-

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mensione statuale (di qui la polemica sulla c.d. “partitocra-zia”, nata già negli anni Sessanta) e poi ha conosciuto l’altrofenomeno, con la rinuncia alle pretese di egemonia e di ela-borazione di strategie politiche, ma senza necessariamenteregistrare l’abbandono dell’ambizione all’occupazione delleistituzioni (ché, anzi, la presenza a tutti i livelli delle istituzioniè diventata un puntello dell’esistenza in vita dei partiti, afronte del segnalato smarrimento di capacità progettuale edi guida della società civile). È chiaro che la situazione cosìdeterminatasi, alla lunga, non è sostenibile ed è per questoche in alcuni partiti le forze più consapevoli hanno preso adinterrogarsi sul presente e sull’avvenire della forma-partito esulle strategie di recupero di una corretta triangolazioneStato - partiti - società civile.

2.- Del difficile equilibrio di questa triangolazione fu per-fettamente consapevole la Costituente, che, infatti, chiarìbene la dimensione intermedia nella quale i partiti eranochiamati a muoversi.

L’art. 49 Cost. affida ai partiti il compito di consentire aicittadini, in essi associati, di concorrere a “determinare” lapolitica “nazionale”. In questo modo ha inteso precisare chei partiti si muovono su un terreno diverso da (seppure inter-ferente con) quello della “forma” di governo, che attiene al-l’emersione istituzionale del potere: era al popoloorganizzato in partiti che spettava determinare la politica na-zionale, mentre era solo all’interno delle coordinate politichecosì “determinate” che il Governo poteva svolgere l’indirizzopolitico, realizzando la propria politica generale (stabilita insede collegiale, si badi, e semplicemente “diretta” dal Presi-dente del Consiglio). Su un piano intermedio doveva stare la“politica parlamentare”, come quella che avrebbe dovuto co-stituire la prima formalizzazione delle scelte compiute in sededi determinazione della politica nazionale, rielaborate inscelte legislative (e di indirizzo) condivise o comunque nego-

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ziate o almeno discusse. È chiaro che queste tre sfere della politica (nazionale, par-

lamentare, governativa), pur essendo interconnesse, eranoconcepite come distinte e che il passaggio dall’una all’altracomportava il mutamento di funzioni, di ruoli, di soggetti.

Il terreno della politica nazionale, pur assegnato formal-mente ai partiti, non era loro attribuito a titolo di monopolio,perché su quel medesimo terreno avrebbero potuto agirealtre forme di autorganizzazione dei cittadini, come dimo-strano sia l’ampiezza delle garanzie assicurate alla libertà diassociazione dall’art. 18 Cost., che la garanzia della libertàdi iniziativa economica privata contenuta nell’art. 41. Non-dimeno, è indubitabile che i Costituenti pensassero ad unprotagonismo partitico, e questo - del resto - era perfetta-mente comprensibile, perché l’Italia del secondo dopoguerraaveva trovato sul terreno, sgombrato dalle macerie del fasci-smo, solo due attori sociali forti e legittimati: la Chiesa (cheaveva saputo marcare l’immagine di una qualche distanzadal regime) e i partiti (che nella Resistenza avevano forgiatola propria identità e avevano costruito un rapporto saldo conla parte più avanzata della società civile). In quella sfera, in-vece, potevano entrare solo limitatamente, e con cautela, ipoteri pubblici: non che non fosse - e che non sia - legittimauna regolazione pubblica dei partiti politici, ma questa rego-lazione non poteva spingersi sino alla determinazione dellameritevolezza delle ideologie perseguite. Solo il disciolto par-tito fascista era espressamente vietato (dalla XII disp. fin. etrans.), mentre, al contrario di quanto accadde per il Grun-dgesetz tedesco, non erano previsti divieti di partiti “antisi-stema”, per quanto distanti dalla Costituzione fossero le lorotavole dei valori (è interessante notare che, sebbene l’art. 139Cost. sottragga la forma repubblicana alla revisione costitu-zionale, un partito monarchico non è mai stato considerato,in sé, vietato).

Il terreno della politica parlamentare, pur riservato,

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quanto alla titolarità dei poteri formali funzionali alla sua de-terminazione, alle Camere, non escludeva affatto i partiti, néescludeva il Governo. I primi, però, entrando in Parlamento,erano costretti a mutare pelle e a strutturarsi come gruppiparlamentari, titolari di specifici munera pubblici; il secondo,pur essendo titolare di importanti prerogative, a partire dal-l’iniziativa legislativa, non poteva vantare pretese di direzioneautoritativa, come dimostra, fra l’altro, l’evidente diffidenzadella Costituzione nei confronti della produzione normativaprimaria da parte del Governo (e cioè dei decreti legislativi edei decreti legge).

Il terreno della politica governativa, infine, pur formal-mente riservato al Governo, non si sottraeva agli interventiparlamentari, non solo in ragione dell’esigenza di un co-stante rapporto di fiducia, ma anche in ragione della titolaritàdei poteri di sindacato ispettivo e del condizionamento par-lamentare dell’esercizio della funzione normativa primaria daparte del governo (legge di delegazione; legge di conversionedei decreti legge).

3.- Questo schema ha retto a lungo, anche nei fatti, enegli stessi anni del centrismo l’esistenza di robuste maggio-ranze a sostegno del Governo non ha comportato uno svuo-tamento delle funzioni del Parlamento, né - men che meno- l’abbandono della sfera della politica nazionale da parte deipartiti politici. Anzi, proprio i partiti hanno svolto una pos-sente funzione nation building, nel senso che il loro con-fronto, anche se aspro, ha contribuito alla consapevolezzadell’esistenza di una comunità politica unitaria, pur nella di-varicazione delle prospettive e di alcuni dei valori di riferi-mento.

Se il modello ha retto a lungo lo si deve, oltre che alla raf-finatezza della costruzione, alla costanza delle variabili di si-stema partitico: per cinquant’anni gli attori di quel sistemarestano i medesimi e alla continuità del sistema di forze che

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aveva generato la Costituzione corrisponde la continuità difunzionamento del disegno costituzionale della triangola-zione Stato - partiti - società civile della quale ho parlato inapertura. Le cose cambiano alla fine degli anni Ottanta.

È noto che sarebbe un errore ascrivere il cambiamentosolo a fattori esterni al sistema dei partiti e in qualche modoimprevedibili come il crollo del Muro di Berlino o Tangento-poli. L’importanza di quegli eventi non può essere sottovalu-tata, ma sembra difficile negare che già alla fine degli anniSettanta la strategia del progressivo riavvicinamento tra leforze costituenti aveva prodotto il massimo dei risultati di cuiera capace e che il rapimento e l’uccisione di Aldo Moro in-terruppero senza rimedio quel processo. Non solo: se i feno-meni non fossero iniziati già da qualche tempo addietro, nonsi capirebbe perché agli eventi della fine degli anni Ottanta edei primi anni Novanta i partiti non abbiano saputo reagireadeguatamente, finendo per essere spazzati via (nelle loropreesistenti identità) e per travolgere nel proprio crollo anchele istituzioni. Proprio scavando nelle vicende che precedetteroil crollo se ne possono rintracciare le ragioni più riposte, chea mio parere vanno individuate soprattutto nella difficoltàche i partiti ebbero, allora, a comprendere la profondità e lavastità dei processi di modernizzazione e di secolarizzazionedell’Italia, così come a governarne lo svolgimento. E sì che diun loro governo ve ne sarebbe stato bisogno, in un Paeseche storicamente è caratterizzato da un debole spirito repub-blicano e da un intermittente senso civico, nel quale la messaa nudo dell’arbitrarietà di molte convenzioni sociali che fuoperata dal Sessantotto, se lasciata a se stessa, avrebbe po-tuto degenerare (come poi, in concreto, è in parte accaduto)nel cinismo individualista, non traducendosi tanto nel webe-riano politeismo dei valori, ma nel puro e semplice abban-dono, da parte di consistenti strati di popolazione, diqualsivoglia valore.

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4.- Era abbastanza naturale che, una volta che la legitti-mazione dei partiti era stata sfidata, se non perduta, unasponda rilegittimante venisse cercata nelle istituzioni. E quelladei primi anni Novanta è, non a caso, la storia dell’affannosotentativo di trovare, proprio nella dimensione istituzionale,nuova linfa legittimante. Il crollo dei vecchi partiti, però,aveva arrecato gravi danni alle stesse istituzioni, in particolarea quelle della rappresentanza, perché la polemica antiparti-tocratica aveva fatto recepire l’idea che vi fosse un eccessodi presenza, al loro interno, dei partiti. L’uscita dalla crisi dilegittimazione correva il rischio, allora, di assomigliare al ten-tativo del barone di Münchhausen di tirarsi fuori dallo stagnotirandosi su per il proprio codino.

Come sovente accade quando le istituzioni della rappre-sentanza sono in difficoltà, la soluzione del problema è statacercata sull’opposto terreno dell’applicazione del principioplebiscitario: il referendum elettorale del 1993 non fu imma-ginato soltanto come uno strumento per passare dal sistemaproporzionale a quello maggioritario, ma anche come unafonte di legittimazione popolare delle “nuove” istituzioni chene sarebbero derivate. Anche la rigidità mostrata dall’alloraPresidente della Repubblica, il quale ritenne che le nuoveleggi elettorali avrebbero dovuto essere scritte “sotto detta-tura”, replicando la normativa di risulta uscita dal referen-dum, può essere spiegata in questa chiave.

Il tentativo fu comprensibile, ma comportò elementi di ri-schio: fu agevole prevedere, infatti, che l’introduzione (pergiunta con un intervento plebiscitario) del sistema maggio-ritario proprio in un momento di grave difficoltà del sistemadei partiti ne avrebbe comportato il definitivo travolgimentoe che il sistema si sarebbe potuto rimodellare solo con l’in-tervento di risorse esterne al sistema dei partiti per come losi era conosciuto sino allora. Sarebbe bastato attendere il1994 e la scesa in campo di un noto imprenditore per verifi-care la fondatezza di quella previsione.

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Dal terremoto politico, giudiziario e istituzionale che, nelgiro di soli cinque anni, scosse l’intero sistema dei partiti edelle istituzioni non poteva non rimanere intaccata la trian-golazione Stato - partiti - società civile, né poteva rimanereindenne il funzionamento delle tre sfere della politica, nazio-nale, parlamentare, governativa. Quanto alla prima que-stione, le vecchie forme organizzative dei partiti (le forme, sibadi, sono tutt’altro che neutre, perché sono funzionali allaconcezione che si ha del rapporto fra il partito e lo Stato efra il partito e la società civile) sono entrate in crisi. In qualchecaso si è trattato della conseguenza naturale dell’avvento disoggettività politiche prima inesistenti e dell’anomalia dellostrapotere economico e mediatico del leader di uno specificopartito; in altri si è trattato in parte di un effetto collateraledella crisi finanziaria dei partiti, in parte della scelta volontariadi rispondere anche sul piano organizzativo alle novità veri-ficatesi all’esterno. Quanto alla seconda questione, la sferadella politica governativa ha assunto contorni debordanti, fi-nendo per invadere quella della politica parlamentare e neu-tralizzando quella della politica nazionale determinata, inconcorso, dai partiti, visto che l’interlocuzione tra i partiti,che è la precondizione del concorso, è finita in cortocircuito.

Il problema, a questo punto, diventa quello del rapportocon il modello costituzionale: è possibile recuperarlo? E, sefosse possibile, sarebbe auspicabile? Per elaborare un tenta-tivo di risposta occorre distinguere, per quanto siano con-nesse, la questione dei partiti e quella delle istituzioni.

5.- Quanto al modello costituzionale del partito politico,mi sembra evidente che le grandi trasformazioni storiche cheabbiamo potuto registrare in questi anni rendano velleitarial’idea di un ritorno, sic et simpliciter, al passato. Cionondi-meno, vi sono alcuni tratti del modello costituzionale chemeritano di essere salvaguardati e, dove abbiano subìtodanni, ripristinati.

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Anzitutto, non deve essere dimenticato il collegamentointimo che esiste fra l’art. 49 e l’art. 3, comma 2, Cost. Ilprimo, infatti, disegna lo strumento organizzativo grazie alquale lo sviluppo della personalità umana, voluto dal se-condo, può realizzarsi nel contesto dell’agire politico. In par-ticolare per le classi sociali e i soggetti individuali che sonoesclusi dal possesso dei mezzi di produzione economica e/oesclusi dal circuito della produzione culturale, il partito è giu-stamente inteso, nella Costituzione, come il grimaldello perscardinare gli ostacoli (ostacoli che è lo stesso art. 3, comma2, a identificare) sul percorso che conduce dall’astratta pro-clamazione dell’eguaglianza alla concreta realizzazione diuna parità di opportunità: dall’eguaglianza formale a quellasostanziale.

In secondo luogo, meritano di essere valorizzate le indi-cazioni costituzionali del “concorso” e del “metodo demo-cratico”. Le due formule vanno interpretate congiuntamente.Il concorso, infatti, è sia “fra” i partiti che “dentro” ciascunpartito: interloquiscono i partiti per determinare la politicanazionale e interloquiscono gli iscritti (è anzitutto ad essi chela Costituzione si riferisce, parlando di cittadini “associati” inpartiti, ma sulla questione della membership tornerò piùavanti) dentro ciascun partito per determinarne il governointerno. Sia l’uno che l’altro concorso, poi, debbono svolgersinel rispetto del metodo democratico. E se, per quanto ri-guarda il concorso fra i partiti, ciò equivale soprattutto al ri-pudio della violenza, per quanto riguarda il concorso dentroi partiti ciò equivale al rispetto di procedure trasparenti di se-lezione degli organi di governo e di elaborazione delle stra-tegie del partito. Procedure che, ovviamente, potrebberoanche essere definite, almeno nelle grandi linee e senza mor-tificare l’autonomia dei singoli partiti (e senza far correre ilrischio della giurisdizionalizzazione della competizione poli-tica), dalla legge, ma che, in mancanza di un intervento le-gislativo (che non sembra, ad oggi, tra le ipotesi più

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praticabili), ben potrebbero essere disegnate intervenendoadeguatamente sugli attuali statuti.

Anche l’Italia ha esperito un processo di trasformazionedei partiti comune agli altri sistemi politici occidentali, conuno spostamento dell’asse dell’azione partitica sul momentoelettorale e una riduzione quantitativa - e anche un allenta-mento qualitativo - della membership. Il collegamento ope-rato dalla Costituzione fra partiti ed eguaglianza sostanziale,che prima ho messo in luce, però, induce alla prudenzaquanto alla misura in cui questi fenomeni debbono essereregistrati. Se, infatti, la funzione positiva dei partiti sta so-prattutto nella capacità di emancipazione che sono in gradodi generare, sarebbe rischioso mettere tra parentesi alcunequestioni essenziali. Anzitutto, quella della formazione.Escluso che sia immaginabile la restaurazione della funzionepedagogica che i partiti hanno avuto per molti anni di storiarepubblicana, ciò non significa che essi non possano esserecanali di formazione culturale rivolti all’esterno, né che essinon abbiano bisogno di provvedere alla formazione politicadei propri quadri dirigenti.

Anche una salda presenza sul territorio e un maggioregrado di chiarezza ideologica sarebbero strumentali all’as-solvimento di quella funzione.

Quanto alla presenza sul territorio, il grande successo, intermini di consenso elettorale, ottenuto da un partito perso-nale e privo di strutturazione “classica” come Forza Italia nonsembra imputabile tanto al modello che ha adottato, quantoall’assoluta particolarità della persona cui il partito faceva efa capo, alla sua capacità di parlare “alla pancia” degli italiani,alla possibilità di assistere la formula organizzativa e la stra-tegia politica con una debordante dovizia di mezzi economicie comunicativi (che ai suoi competitori mancano, sicché quelmodello non è replicabile con qualche speranza di successo).

Quanto alla chiarezza ideologica, è un dato di fatto che ilprocesso di appannamento delle ideologie ha percorso tutti

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i partiti occidentali. Ciò non è avvenuto soltanto perché igrandi conflitti tra valori sono divenuti meno radicali, maanche perché per partiti catch all, che aspirano a conquistareil consenso di strati sociali sempre più vasti e variegati, la chia-rezza delle ideologie può essere d’ostacolo all’allargamentodell’area del consenso. Anche qui, però, non è detto che ilfenomeno debba essere acriticamente recepito, perché è im-maginabile anche una strategia più flessibile, che non rinuncialla chiarezza delle posizioni sulle questioni che - davvero -danno identità ad una forza politica (penso, per tutte, aquella del lavoro, sul quale, non a caso, la Costituzione fondala nostra Repubblica), ma per alcuni contenuti faccia valereil principio di neutralizzazione e di libertà di apprezzamento(penso alle questioni di coscienza, che potrebbero non lace-rare i partiti e non compromettere l’ampiezza del consensonei loro confronti qualora fossero esplicitamente e program-maticamente lasciate, appunto, al libero apprezzamento in-dividuale).

Per il resto, sarebbe opportuno che gli statuti dei partiti ele strategie politiche messe in campo facessero uno sforzo difantasia, ad esempio immaginando forme flessibili di mem-bership (intendo con questo termine non solo la formaleiscrizione, ma anche l’autopercezione dell’appartenenza),magari strutturate in forma tematica (su questioni comel’ambiente, i diritti civili, i diritti sociali, le differenze di genere,etc.) o articolate secondo modalità di coinvolgimento via viapiù intense (dalla partecipazione a focus groups o ad esperi-menti di democrazia deliberativa al sostegno economico, allapartecipazione alle primarie per la selezione di candidaturea cariche pubbliche, alla vera e propria iscrizione).

6.- Anche sul piano del modello costituzionale delle isti-tuzioni molto è cambiato e del resto l’intreccio fra sistemadei partiti e sistema delle istituzioni rende inevitabile che letrasformazioni dell’uno generino trasformazioni dell’altro: si

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pensi, ad esempio, alle conseguenze che possono essere de-terminate sul Parlamento e sulla qualità della rappresentanzadall’eventuale accentuarsi del fenomeno di partiti iperaccen-trati, ma che allo stesso tempo sono costretti a riconoscereampio margine di manovra ai leaders locali. Anche qui sa-rebbe illusorio immaginare impossibili restaurazioni, né èdetto che, nelle mutate condizioni generali, esse sarebberoauspicabili. Non per questo, però, tutte le novità degli ultimianni debbono essere acriticamente recepite.

È vero, in particolare, che un po’ tutti i parlamenti demo-cratici hanno subìto un’erosione delle loro prerogativequanto all’esercizio della funzione legislativa. Tuttavia, vi sonolimiti qualitativi e quantitativi che non dovrebbero essere su-perati. Ricordo qualche cifra: nella XIII Legislatura, il 76, 94%delle leggi approvate derivava da un’iniziativa governativa;nella XV e nell’attuale XVI siamo - rispettivamente -all’88,39% e all’82,49%. Nella XIII Legislatura, le leggi di con-versione di decreti legge sono state il 19,20% del totale ditutte le leggi; nell’attuale XVI Legislatura raggiungono il29,49%. Non si tratta di esiti inevitabili, né è inevitabile lamortificazione della discussione parlamentare alla quale ab-biamo assistito, di recente, con troppa frequenza. Anche ilnostro Parlamento, fatalmente, è destinato a contare più perl’esercizio delle funzioni di controllo sul Governo che non peril diretto esercizio della funzione legislativa, ma non per que-sto può essere espropriato di ogni sua prerogativa in materia.Del resto, la nostra percezione del fenomeno è alterata dalvigente sistema elettorale, che, penalizzando la qualità e laforza della rappresentanza, rende improbabile uno sforzo direimpossessamento di quelle prerogative. Ma non sappiamo,appunto, quanto questo sarebbe vero con un nuovo sistemaelettorale, la cui adozione costituisce la vera priorità istitu-zionale da realizzare.

La marginalizzazione del Parlamento, poi, ha anche costisociali e politici vistosi. È mio convincimento, infatti, che

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(guardando le cose dalla relativamente limitata prospettivadelle istituzioni) la costruzione dell’unità nazionale non sidebba solo e non si debba tanto alle istituzioni dell’unità(Corte costituzionale, Presidente della Repubblica), ma alleistituzioni del pluralismo, in primo luogo al Parlamento. Inun Paese attraversato da profonde fratture storiche, sonoproprio le istituzioni del pluralismo, nelle quali il confrontotra le forze politiche e sociali può esplicarsi liberamente enelle quali può essere raggiunto un compromesso capace diridurre, non di esaltare, le divisioni, che assicurano la pa-ziente, difficoltosa costruzione dell’unità. Corte costituzionalee Presidenza della Repubblica, con strumenti e logiche di-verse, possono consolidare e promuovere l’unità (e le ultimedue Presidenze, in questo, hanno avuto meriti storici inne-gabili), ma non si può chiedere loro di generare una unitàstabile e duratura, se i luoghi del confronto democratico fun-zionano male e se in essi non si riescono ad elaborare politi-che pubbliche realmente nazionali (non mi sembra un casoche la crisi dell’unità nazionale abbia seguito la crisi dei partitie della rappresentanza). La ricostruzione della rappresen-tanza, dunque, è indispensabile.

Infine, nessuno può far finta che fenomeni come la per-sonalizzazione della politica o l’invadenza dei media non esi-stano o possano tutt’ad un tratto recedere. Si hal’impressione, però, che in Italia si sia creduto che essi ab-biano generato strutture istituzionali e culturali che non sisono semplicemente sovrapposte a quelle esistenti, ma sisono ad esse sostituite. Non è stato così in altri Paesi demo-cratici e non si capisce perché da noi dovrebbe andare diver-samente. Nel Regno Unito la visibilità e il ruolo istituzionaledel Primo Ministro sono evidenti, ma ancora oggi il più bril-lante dei premier può essere mandato a casa dal suo partito.In Germania il Cancelliere ha robusti poteri di direzione poli-tica, ma non per questo può permettersi di non fare i conticon i partiti della propria coalizione. Negli Stati Uniti il Presi-

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dente è il capo dell’Esecutivo, ma è costretto a scendere acompromessi con i principali leaders del proprio partito e in-contra nella divisione dei poteri un saldissimo ostacolo allarealizzazione di eventuali mire “imperiali”. Nella stessa Fran-cia, che è il sistema in cui la forza del Presidente (a causa diun’imperfetta separazione dei poteri) può raggiungere livellialtrove inimmaginabili, non sono mancate fasi storiche(quelle della “coabitazione”) nelle quali la rappresentanza haripreso fiato e la monarchie républicaine ha dovuto ridurrele proprie pretese.

Quel che voglio dire, in definitiva, è che la personalizza-zione non determina necessariamente la semplificazione oaddirittura la banalizzazione del gioco politico, ma ne costi-tuisce un ulteriore elemento, all’interno di un complesso si-stema di azioni e di reazioni. Le cose, dunque, sono piùcomplesse e articolate di quanto non appaia ad un’analisisommaria o ideologica e meritano una risposta altrettantocomplessa e articolata sul piano delle strategie dispiegate sulterreno del sistema dei partiti e sul terreno del sistema istitu-zionale.

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Donatella Della PortaProfessoressa di Scienza della politicaIstituto universitario europeo di Firenze

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Vorrei, non con una relazione scritta, ma con un powerpoint – che è un segno di identificazione dei sociologi - e conalcune informazioni in esso contenute affrontare tre dei temianalizzati nell’interessante relazione introduttiva e, allo stessotempo, introdurre dei dati e una prospettiva un po’ diversa.

I tre punti a cui vorrei collegarmi sono il ruolo dei partiticome cerniera della triangolazione stato-società e cittadini,le ragioni della difficoltà di adattamento, in particolare delsistema politico italiano post ‘92 alle trasformazioni sociali eculturali che si sono realizzate e anche il modo in cui una let-tura parziale delle ragioni di quella crisi hanno portato adidentificare nella forza dei partiti le ragioni della corruzione,portando a delle soluzioni che non hanno rafforzato la po-litica.

Questo lo voglio fare affrontando nella mia relazione tremomenti: il modo in cui, dal punto di vista dei sociologi edegli scienziati politici, si è guardato alle trasformazioni deipartiti politici nella capacità di mettere in collegamento statoe società civile, istituzioni e cittadini; dall’altro guardandoad alcune grandi trasformazioni nelle democrazie occidentaliche sono state definite, da sociologi e politologi, con le eti-chette un po’ devianti, fuorvianti, ma di successo, di post-democrazia e contro-democrazia.

Infine, vorrei portare alcuni dati sul modo in cui gli attivistidei movimenti sociali guardano ai partiti, percepiscono la po-litica, dati che forse sarebbe interessante mettere in collega-mento anche con quelli che saranno presentati qui domani

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sulle caratteristiche degli iscritti e degli elettori del partito. Vado veloce qui, perché immagino che politici di partito

abbiano già consapevolezza di queste grandi trasformazioniche sono state individuate nella funzione dei partiti politici.

Si è detto, i partiti politici hanno avuto nella costruzionedelle democrazie un’importantissima funzione di cerniera,però l’equilibrio che è stato trovato nelle diverse fasi di evo-luzione della società e della politica è stato diverso, almenonegli studi politologici è stato descritto un progressivo avvi-cinamento dei partiti alle istituzioni e così anche un progres-sivo distacco dei partiti dai cittadini.

C’erano i partiti iniziali, che erano i partiti di notabili e dicomitati – lasciamoli da parte perché di un passato molto di-stante –, c’era quella che è stata definita la grande innova-zione di successo della sinistra, il partito ideologico di massadotato di una grande capacità di operare e funzionare comecerniera tra i cittadini e lo stato.

Poi gli studi politologici hanno descritto una progressivatrasformazione.

Non è stata definita come una degenerazione, però sicu-ramente come un forte, graduale - qualche volta con dei mo-menti di accelerazione/cambiamento nel modo di funzionaredei partiti.

È stato menzionato il catch-all party, il partito pigliatutto,di Kirchheimer e si è detto, nelle analisi sociologiche, che que-sto rappresenta un’evoluzione rispetto al partito ideologicodi base, che ha una base, che cerca di costruire un’identità,un’identità forte, e il partito pigliatutto invece si rivolge a unabase più ampia.

Un errore che si compie spesso nel rileggere questa cate-goria è dimenticare che Kirchheimer diceva che i partiti pi-gliatutto si rivolgono a una base più ampia, ma non proprioa tutti. Cioè si rivolgono e cercano di costruire alleanze tragruppi alleabili, tra gruppi che hanno qualcosa in comune.

Si è parlato di partito elettorale e si è visto in questo caso

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una tendenza a privilegiare, da parte dei partiti, la loro fun-zione rispetto allo Stato, rispetto alle funzioni, rispetto ai cit-tadini.

E poi in una quarta tappa si è parlato della costruzione dipartiti cartello, partiti che sempre più avevano le loro risorsenelle istituzioni - risorse lecite e, qualche volta, nei casi di cor-ruzione politica, risorse illecite - ma anche che vivevano unaprofonda trasformazione nel rapporto con gli iscritti.

Un mio ex collega all’Istituto universitario di Firenze (ColinCrouch), studiando il New Labour, ha definito queste trasfor-mazioni non tanto come riduzione di peso del partito degliiscritti, quanto come riduzione di peso del partito degli atti-visti.

Nell’analisi di Colin Crouch, per amore o per forza – adat-tandosi anche ad alcune trasformazioni che rendevano il par-tito ideologico di massa di difficile sviluppo -, i partiti nuovi,nel suo caso il New Labour, hanno teso a sostituire almenoin parte gli attivisti. Da un lato, nella funzione dell’attivistatradizionale di raccogliere informazioni e costruire identitànella base, con i sondaggisti; dall’altro, dal punto di vistadella capacità degli attivisti di riportare la linea del partito agruppi più ampi di cittadini, questi sono stati sostituiti inparte dagli spin doctors, dai professionisti dell’immagine.

Il problema di questo partito è stato visto in una crescenteindividualizzazione. Il partito ideologico di massa si rivolgead identità collettive, il partito cartello ha il problema, o ladifferenza, di rivolgersi invece individualmente.

E il partito cartello si rivolge individualmente in quanto,da un lato, c’è una forte personalizzazione nel leader, dal-l’altro, c’è un rapporto individuale percepito tra partito e cit-tadini.

Il senso di questo orientamento rapporto individuale trapartito e cittadini, di questa trasformazione del partito lon-tano dal partito degli attivisti testimonia di un tentativo, chesi sviluppa non solo in Italia, di rincorsa dell’elettore mediano,

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cioè di uno spostamento dei partiti politici verso posizioni –come diceva anche la relazione introduttiva – più opache.

Queste posizioni si basano sull’assunto che gli elettori ten-dano a votare per un partito ad essi più vicino e che, quindi,gli elettori collocati alle ali più estreme non abbiano altrascelta, se il loro partito si sposta verso il centro, che seguirlo.

In realtà gli studi successivi dei politologi hanno mostratoche, visto che l’atto di partecipare all’elezione è un atto aforte connotato simbolico, in realtà gli elettori spesso nonseguono un partito che si sposta verso il centro, ma preferi-scono astenersi.

Quindi, gli studi di chi fra i miei colleghi fa sondaggi indi-cano anche che l’appello individuale, l’appello all’elettoratoconsiderato più forte al centro, ha tendenzialmente indebo-lito il rapporto con la parte di elettori più politicizzati.

Quindi ci sono state queste trasformazioni, non solo inItalia, anche se questo non deve essere un elemento conso-latorio.

In generale si è parlato di sfide al modello di democraziache abbiamo conosciuto in decenni passati e che nascono,per quanto riguarda i partiti, da un declino degli iscritti, deglielettori fedeli, dello zoccolo duro, della fiducia nei partiti po-litici che seguono un processo di maggiore scetticismo del-l’elettorato.

C’è stata una riduzione delle forme di partecipazione con-venzionale: i sondaggi confermano che l’Italia è un paesedove ancora si vota molto e qualche volta ci sono anche im-pulsi di partecipazione alle elezioni positivi, ma che è ancheuno dei paesi in cui la partecipazione elettorale è scesa di più.

C’è un problema forte di riduzione della libertà nei mezzidi comunicazione, che in Italia – come ricordava la relazioneiniziale – presenta caratteri particolarmente anomali e vistosi.

C’è un problema di riduzione di quella che è stata chia-mata responsabilizzazione elettorale - perché quando si ri-ducono le forme e gli strumenti di trasparenza e di controllo

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dei cittadini si riduce anche la loro fiducia – e c’è un problemaanche più ampio. È stato sottolineato dai sociologi, maanche nella relazione introduttiva quando si parlava della ca-ratteristica fondamentale per la sinistra nella sua storia di per-cepire la politica anche come strumento di emancipazione.

C’è stata una riduzione delle capacità di intervento dellostato contro le diseguaglianze sociali; è reale e forse ancoradi più percepita. E, quindi, chi studia la qualità della demo-crazia parla di una riduzione delle capacità della democrazia,delle qualità della democrazia, anche nei partiti dei paesi de-mocratici.

Ci sono tanti dati su questo, ma non mi ci voglio soffer-mare. Volevo però sottolineare queste due categorie, chesono state utilizzate per parlare delle trasformazioni nelle no-stre democrazie.

Colin Crouch, che è un sociologo, ha guardato molto alletrasformazioni economiche e sociali, quindi alla riduzione,alla frammentazione delle società e via dicendo. E ha ancheguardato alcuni effetti che queste trasformazioni hannoavuto sulla concezione stessa della democrazia.

Si parla di post-democrazia perché, mentre la democraziaera intervento orgoglioso dello stato sul mercato, interventoorgoglioso della politica nel coinvolgimento della società chenon è solo civile, ma anche società politica, la post-demo-crazia è stata caratterizzata, soprattutto negli anni Ottanta eNovanta, da una progressiva rinuncia degli stati, e degli statidemocratici, ad intervenire nel mercato.

Dice Colin Crouch che la politica ed i governi cedono pro-gressivamente terreno, cadendo in mano ad elite privilegiate,come accadeva tipicamente prima dell’avvento della fase de-mocratica.

E, soprattutto, sottolinea che via via che le funzioni dellostato sono appaltate ai privati, lo stato comincia a perdere lacompetenza di fare cose che in precedenza gli riuscivano be-nissimo.

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La perdita di capacità di intervento dello stato nel mer-cato, il tema dei servizi pubblici, il tema delle privatizzazionisono temi che intervengono enormemente, secondo gli studidegli scienziati politici, nella percezione che i cittadini hannodella politica, della legittimità della politica stessa.

In questa situazione interviene qualcosa che però, anchese la categoria utilizzata per definirla sembra negativa, po-tenzialmente può introdurre degli elementi di rilegittima-zione nella politica e nel rapporto tra i cittadini e lo stato.

Un sociologo francese, Pierre Rosanvallon, che ha a lungostudiato le caratteristiche della democrazia e del rapportocon i cittadini non solo in Francia, in un’analisi comparata eintegrando molto diverse discipline, ha sottolineato che nellastoria delle democrazie ci sono delle diverse istituzioni e dellediverse concezioni.

A lungo la storia della democrazia si è identificata con unprocesso elettorale, con la legittimazione elettorale. La lungalotta per il suffragio elettorale ha anche significato che il di-ritto di voto e le istituzioni parlamentari, con un ruolo me-diato anche dal partito ideologico di massa, si sonolegittimate come istituzioni principali della democrazia.

Ed è vero che i partiti e le istituzioni hanno svolto un ruoloforte e fondamentale in una lunga fase del processo di de-mocratizzazione.

Però, Pierre Rosanvallon sottolinea un altro aspetto cheera stato affrontato anche nella relazione introduttiva e cioèche la democrazia non è fatta soltanto di istituzioni rappre-sentative e che le istituzioni rappresentative stesse per fun-zionare hanno bisogno di altre istituzioni e di altri attori.

Pierre Rosanvallon dice che è in questo quadro che biso-gna apprezzare le trasformazioni attuali nella democrazia;che la democrazia basata sulle elezioni si indebolisce nonvuol dire che perde funzioni ma, piuttosto, che non può piùottenere legittimazione a partire soltanto dal momento elet-torale delle istituzioni rappresentative.

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In questo momento emergono però risorse per integrarela democrazia di elezione, o la democrazia legittimata attra-verso le elezioni, con altri forme, strumenti e attori di demo-crazia.

Rosanvallon parla di democrazia di espressione, di impli-cazione e di intervento e guarda soprattutto al ruolo che siaattori istituzionali – come per esempio il Presidente della Re-pubblica, come per esempio la magistratura – possono svol-gere nell’esercitare un controllo ma anche una proposta, siaalla funzione di altri attori, attori della cosiddetta società ci-vile.

Dico cosiddetta perché penso che sottolineare la dimen-sione civile porta a non riconoscere che questi attori hannoinvece anche una funzione sempre più politica.

E qui passo a pochissimi dati su quello che i movimentisociali possono portare in termini di sfide, senz’altro, allapolitica dei partiti e rappresentativa, ma anche in termini dirisorse.

Una delle cose che fanno i sociologi sono i sondaggi; unadelle cose che fanno poco, ma noi abbiamo cercato conqualche difficoltà di fare e continuiamo a fare, sono i son-daggi alle manifestazioni, cioè i sondaggi non dei cittadiniindividualizzati come rappresentanti della popolazione com-plessiva, ma dei cittadini più attivi.

E questi sono sondaggi che abbiamo fatto raccoglien-done migliaia a Genova, nel 2001, al Forum sociale di Ge-nova, alle manifestazioni che contestavano il G8, alla marciapacifista Perugia-Assisi dello stesso anno, al Forum socialeeuropeo, guardando soltanto, in questo caso, agli italiani del2002 e alla manifestazione pacifista del 15 febbraio del2003.

Non ho il tempo di andare nel dettaglio di questi dati, mapenso che indichino alcune tendenze di sfondo che abbiamoritrovato simili in tutti questi sondaggi che guardavano a ma-nifestazioni un po’ diverse.

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Innanzitutto, abbiamo visto che le persone che vanno eche partecipano in queste forme non disdegnano le attivitàdi partito.

Gli attivisti che abbiamo intervistato erano molto spessoanche per un terzo persone che avevano avuto esperienzeall’interno di partiti politici e di tante altre organizzazioni. In-fatti, la somma delle persone attuali non è uguale a centoperché le esperienze politiche di chi partecipava andavanoda esperienze nei gruppi religiosi ad esperienze in associa-zioni di volontariato, in vari movimenti sociali e altro.

Anche per quanto riguarda un’altra domanda che ab-biamo fatto – “Che tipo di forme di azione avete utilizzatoin passato e che tipo di forme di azione utilizzate?” – quelloche si è visto è che questi attivisti tendono ad utilizzare di-verse forme, anche quelle che hanno a che fare con la politicadei partiti.

Questi sono attivisti che si collocano decisamente a sini-stra, ma non nella sinistra necessariamente radicale. Sono,quindi, attivisti che hanno una visione di sinistra - sia di sini-stra moderata che di sinistra radicale - però sono attivisti cri-tici, nel senso che, quando gli si chiede che grado di fiduciaavete nei partiti politici, tendono ad essere attivisti esigenti,critici ed esigenti.

Qual è la principale sfida e, insieme, la potenziale risorsache viene dal rapporto con questo tipo di società, che non èl’iscritto, non è il cittadino, ma quella componente che unavolta era la componente degli attivisti di partito?

Questi attivisti sono critici dei partiti soprattutto dal puntodi vista delle forme che i partiti hanno e dei contenuti chepropongono. Però hanno anche una struttura organizzativae una formula d’azione che permettono un rapporto con ipartiti politici.

Il tipo di forme di azione che utilizzano sono prevalente-mente formule di campagne, quindi dove c’è una potenzia-lità che si è vista in tutt’altre manifestazioni recenti, di

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collegamento tra aspetti specifici, proposte specifiche deimovimenti e proposte specifiche dei partiti.

Dalle manifestazioni di “Se non ora quando” alle manife-stazioni sui referendum, queste potenziali sovrapposizioni econvergenze si sono viste. C’è una struttura di organizza-zione a rete, che si è sviluppata tantissimo negli anni No-vanta, di coalizione di ombrelli e di tavoli, di struttureorganizzative che portano e facilitano un collegamento.

Questo, da un lato, è una risorsa per un rapporto partiti-movimenti perché significa che anche in questo caso ci pos-sono essere partecipazioni focalizzate; però, dall’altra parte,vuol dire anche una concezione dell’organizzazione chetende ad orientarsi non verso la gerarchia o il privilegiare unaparte, ma verso la rete.

E, infine, sono attori dotati di quella che una ricerca hadefinito identità tolleranti, cioè di rispetto per la diversità edi capacità di interagire con soggetti diversi, però anche conuna forte attenzione a concezioni di diritti sociali e diritti civili,che gli attivisti percepiscono come troppo debolmente difesedai partiti.

Penso che questi siano elementi che portano verso poten-ziali espansioni, ma esprimono anche sicuramente il bisognodi superare ostacoli.

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Oreste MassariProfessore di Scienza della politicaUniversità La Sapienza di Roma

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Ringrazio per la possibilità che mi viene data di parteci-pare ad un evento che una volta era abbastanza usualenella vita dei partiti, perlomeno nella vita dei partiti che hofrequentato e, quindi, questo mi sembra di buon auspicio.

Anch’io non presento una relazione scritta, perché ave-vamo concordato una serie di riflessioni a ridosso della re-lazione principale di Massimo Luciani.

Il tema che affrontiamo - L’evoluzione del sistema isti-tuzionale e dei partiti in Italia nell’ultimo ventennio – è untema decisivo, molto denso, perché in questi venti anni inItalia è successo qualcosa che reputo non normale.

È successo qualcosa che spinge a un interrogativo difondo: come è stato possibile l’imporsi in Italia di un po-pulismo berlusconiano/leghista di governo? Perché questotipo di evoluzione in Italia? Cercherò di dare qualche bar-lume di risposta.

Nell’affrontare questa evoluzione è bene avanzare su-bito qualche cautela metodologica. Quando parliamo difenomeni che ci interessano direttamente – come persona-lizzazione della politica, ruolo della comunicazione politica,indebolimento dei partiti e della membership, ecc. –, natu-ralmente parliamo di trend che possiamo osservare anchein altri Paesi.

Però attenzione: non tutto quel che è successo in Italiain termini di personalizzazione, di comunicazione e altro èriportabile a un trend più generale. Ci sono delle specificitàitaliane che contano.

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Proprio a proposito della leadership e della personaliz-zazione, nelle altre democrazie occidentali ci sono contestiistituzionali e culture politiche che costituiscono una sortadi argine rispetto a possibili esondazioni della personaliz-zazione.

È uscito in questi giorni un bel libro di Sergio Fabbrini,un politologo che ha sempre studiato la leadership, dal ti-tolo significativo Addomesticare il principe. Perché i leadercontano e come controllarli [Marsilio 2011], in cui il temacentrale è proprio come mettere limiti e argini al poterepersonale. Si tenga presente che in Italia fino a qualchetempo fa la domanda principale era come dare espressionealla leadership personale.

Quando parliamo di trend oggettivi, dobbiamo tenereconto che ci sono anche scelte soggettive.

Nell’indebolimento dei partiti tradizionali, accertato chenell’80% contano le tendenze generali, però poi contanoanche scelte soggettive, cioè il ruolo della soggettività nonè perso, altrimenti non avrebbe senso la stessa competi-zione tra destra e sinistra, perché si potrebbe dire chequello che i governi decidono è condizionato dai trend og-gettivi in atto, dai vincoli in atto.

Non c’è, insomma, un mero determinismo, perché cisono pur sempre dei margini soggettivi di movimento e diintervento.

Ancora un’avvertenza: le questioni organizzative deipartiti - e qui raccolgo un invito che Migliavacca facevanella sua introduzione - non sono solo questioni organiz-zative, ma si legano strettamente a questioni di cultura po-litica, di scelte e di programmi.

Negli anni passati c’è stata una prevalenza dell’atten-zione sugli aspetti organizzativi visti in maniera isolata daquestioni più generali. Ma se oggi noi dovessimo parlaredei trend della sinistra socialista europea, certamente do-vremmo affrontare questioni organizzative e di comuni-

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cazione, ma soprattutto dovremmo affrontare questionidi contenuto, di quali politiche sono state seguite, di qualimodelli culturali si sono affermati.

Oggi, nel 2011, siamo esattamente a venti anni dalprimo referendum, quello, spesso dimenticato, del 1991che portò alla introduzione della preferenza unica (mentreprima era plurima).

Allora l’atmosfera culturale era di forte critica verso lascelta da parte degli elettori dei candidati tramite prefe-renze, a causa della cattiva gestione e della degenerazionedi questo strumento ( cordate tra i candidati, possibilitàdella criminalità organizzata di intervenire nella scelta deicandidati, spese enormemente dilatate per la conquista delvoto di preferenza, ecc.)..

Oggi l’opinione pubblica ha cambiato, per così dire,opinione: si invoca la scelta da parte degli elettori deglieletti contro le oligarchie di partito e contro la lista bloc-cata. Il tema della scelta dei candidati testimonia come nelgiro di vent’anni si possa capovolgere completamentel’opinione. Il che dovrebbe indurre a prendere con le pinzei responsi dei sondaggi d’opinione, dato che nel corso deltempo gli atteggiamenti possono mutare.

I temi distintivi dell’evoluzione politica in Italia in questiventi anni sono stati quelli relativi da una parte ai problemiistituzionale, che comprendono anche i rapporti centro-periferia, e dall’altra a quelli di carattere più squisitamentepolitico.

Sul piano istituzionale, l’attenzione maggiore va rivoltaal tentativo di passaggio da una forma di democrazia pro-porzionale e bloccata ad una forma di democrazia mag-gioritaria.

Quali erano, difatti, le parole d’ordine condivise dallastragrande maggioranza dell’opinione pubblica? Eranoquelle che possiamo riassumere così: eleggere diretta-mente una maggioranza, un governo, un leader e un pro-

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gramma e dare vita all’alternanza. Il rifiuto netto era versoi caratteri tipici della democrazia italiana dei primi cinquan-t’anni della Repubblica (mancanza di alternanza, forma-zione post-elettorale dei governi attraverso logoranti edestenuanti negoziazioni, ecc).

Scegliere direttamente i governanti e avere l’alternanzaera un fatto sentito come profondamente liberatorio.

Sennonché - ed è questa un po’ la peculiarità italiana– siamo passati alla democrazia maggioritaria, od a untentativo di democrazia maggioritaria, avendo degli stru-menti molto problematici. Il primo strumento è stato lascelta di un sistema elettorale maggioritario a turno unico(per tre quarti), ma che non esauriva tutte le possibili sceltemaggioritarie, dato che il turno unico è solo una delle pos-sibili forme del maggioritario.

È bene precisare questo, perché noi possiamo criticarebenissimo il turno unico, ma attenzione a non buttare viail bambino con l’acqua sporca. Il maggioritario non si esau-risce con il turno unico.

Il secondo strumento problematico per l’affermazionedi una democrazia maggioritaria era dato da un sistemapartitico destrutturato (come era il sistema italiano dal1994 in poi) e, quindi, questa circostanza poneva deglienormi problemi, perché la democrazia maggioritaria,come sappiamo dall’esperienza comparata e storica, ri-chiede partiti e sistemi di partito fortemente strutturati,richiede cioè o un sistema bipartitico (caso inglese) o unsistema bipolare moderato e limitato(caso tedesco). Perstare a quest’ultimo caso, la Germania presenta coalizionidi governo con due soli partiti e tra i quali c’è un chiaro enetto rapporto gerarchico (il primo partito a circa il 40%dei voti e il secondo attorno al 5%, comunque non soprail 10%), fatto che impedisce naturalmente la politica dei ri-catti tipica dei governi di coalizione con molti partiti. Ilcaso tedesco fuoriesce quindi dai governi classici di coali-

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zione e si inserisce nella categoria di democrazia maggio-ritaria o comunque competitiva. Insomma, la democraziamaggioritaria ha bisogno di partiti forti, di partiti, come sidice, maggioritari, a vocazione maggioritaria, come inse-gna soprattutto il caso inglese.

La mancanza di questo requisito sistemico delle demo-crazie maggioritarie ha determinato quello che abbiamovisto in Italia fino al 2008, ossia alternanze tra – concede-temi il termine - coalizioni-brodaglia (per la verità più mar-cate nel centro-sinistra), che alla fine non hanno assicuratola governabilità, che pure era una domanda fortementepresente.

A sopperire a questa debolezza di un maggioritario ba-sato su coalizioni liquide, si è pensato poi per un certotempo di ricorrere ad una ingessatura istituzionale come ilpremieriato forte. Ma il rimedio era ancora peggio del maleda curare.

Il premierato forte avrebbe dovuto in qualche modo ga-rantire un funzionamento maggioritario, pur in presenzadi coalizioni eterogenee, dando a un premier eletto diret-tamente poteri speciali, come quelli di nomina e revoca deiministri e di scioglimento del parlamento. Questi poterispeciali – si pensava - avrebbero mantenuto insieme lamaggioranza di governo.

Ora il punto è che questa idea di premierato forte, chepure ha avuto molte suggestioni trasversali a destra e a si-nistra, è un’idea completamente artificiosa e radicalmentesbagliata.

Per fare un esempio, il premier inglese è politicamentefortissimo – l’ha ricordato Luciani -, nondimeno quandoc’è un conflitto tra premier e partito, il primo soccombe alsecondo. Ciò è successo tra gli altri alla Thatcher , che pureaveva vinto tre elezioni consecutive, e a Blair, anch’egli trevolte vittorioso nelle elezioni. Insomma, proprio nella de-mocrazia dove si ha la più forte leadership personale, i lea-

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der vanno a casa e i partiti restano in caso di conflitto.Quello che abbiamo letto, invece, sul sistema inglese di

premierato è frutto di una profonda forzatura. Il poteredi scioglimento attribuito discrezionalmente al primo mi-nistro in carica è un’invenzione italiana, giacché il premierha solo il potere di scegliere la data di elezioni “anticipate”(ma la Camera dei Comuni non ha durata fissa) e comun-que non può andare contro la propria maggioranza. Eraun punto su cui insisteva sempre il compianto LeopoldoElia.

Ma che cosa emergeva da questa idea di premieratoforte? Emergeva l’idea di una presidenzializzazione dei si-stemi parlamentari, in cui si afferma un rapporto direttotra elettorato e capi di governo, che scavalca ed emarginalo stesso parlamento e semplifica all’estremo lo stesso rap-porto di rappresentanza politica.

Questo paradigma estremamente semplificato è, in ge-nerale, un paradigma che è stato fortemente presentenegli ultimi venti anni in Italia, contrassegnando una cul-tura politica rivolta sia alla personalizzazione della leader-ship sia a un modello di democrazia immediata o diretta.Da questo paradigma ne sono state colpite tutte le strut-ture intermedie, come i parlamenti e gli stessi partiti poli-tici.

Ma anche una democrazia maggioritaria – quindi conun’alternanza e con un rapporto con gli elettori – non puòmai fare a meno delle strutture intermedie, come innanzi-tutto il partito. Il veicolo principale della democrazia mag-gioritaria sono proprio i partiti politici. Quando i partiti siindeboliscono – come avvenuto in Inghilterra alle ultimeelezioni del maggio 2010 – , si ha un governo di coali-zione, anche se viene interpretano sempre secondo le co-ordinate del cosiddetto modello Westminster.

Quindi abbiamo dovuto fronteggiare in Italia dal ’94 al2008 una situazione nuova con degli strumenti inadeguati,

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quali erano le coalizioni-brodaglia. Per ovviare al fallimentodel maggioritario di coalizione, nel 2008 viene lanciatal’idea di un partito a vocazione maggioritaria. L’idea in séè giusta, ma è giusta su un piano astratto, dottrinale. Amio avviso è stata sbagliata in particolare per c come èstata intesa e applicata.

La nozione di partito a vocazione maggioritaria vienedall’esperienza laburista degli anni Ottanta, quando il par-tito laburista, dopo cocenti sconfitte, discute se competerealleandosi con i liberali e altre forze minori, oppure di par-tecipare da solo alla competizione per il governo.

Scelse quest’ultima via, però rilanciando il suo profiloin modo da poter conquistare l’elettorato. Ma fa questoattraverso anni di durissimo lavoro e di innovazione nel-l’organizzazione, nella cultura politica, nel programma,nella comunicazione, ecc.

La costruzione di un partito maggioritario è una costru-zione tenace, con continuità di gruppi dirigenti. Occorreche ci sia una squadra che abbia la stessa visione. Nonbasta un leader, attenzione! Senza Kinnock o senza Smith,Blair non avrebbe avuto quelle possibilità che poi ha avuto.L’innovazione duratura è un’accumulazione incrementaleche abbraccia tutte le dimensioni significative dell’attivitàdi un partito politico.

Inoltre, nell’esperienza più propriamente politica biso-gna tenere conto che ci sono dei cicli politici favorevoli aipartiti di destra e alle politiche di destra e cicli politici chesono favorevoli ai partiti di sinistra. Dobbiamo tenereconto di questo, e spesso i cicli politici si legano molto adun concetto che ora comincia ad essere studiato – il con-cetto di reputazione - per capire perché alcuni partiti per-dono e altri vincono.

Nelle competizioni elettorali non basta che il partitoproponga alcune cose. Questo è naturalmente necessarioe conta. Ma ciò che più ancora conta è l’immagine, l’idea,

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l’opinione che gli elettori hanno di quel partito. E la re-putazione che un partito ha tra gli elettori si produce at-traverso tutta una serie di accumulazioni di giudizi, dipercezioni, di impressioni che si hanno sul partito. L’armaprincipale di un partito presso gli elettori è dunque la suareputazione. E quando la si perde, è assai difficile ricon-quistarla. E comunque ci vogliono prove e tempo. Credoche il centro-sinistra abbia perso la reputazione comeschieramento di governo, come capacità di rappresentaree di governare, soprattutto nel periodo 2006-2008, cioènel periodo dell’ultimo governo Prodi.

I problemi del centro-sinistra nascono con i venti mesidel governo Prodi 2006-2008 e con tutta la vicenda poli-tica che in esso si riassume. È in quest’arco di tempo chesi compromette seriamente l’affidabilità dell’Unione comecoalizione di governo, che si crea una frattura profondatra tutti i partiti di centro-sinistra e la maggioranza del-l’elettorato, specie di quello d’opinione che nel 2006 avevaespresso fiducia a Prodi. Avviene qualcosa in questi dueanni che porta al catastrofico risultato elettorale – per l’in-tero centro-sinistra – del 2008. Infatti, il divario elettoraletra centro-sinistra e centro-destra nel 2008 è assai più fa-vorevole a quest’ultimo in una misura che non si era maiverificata nel 1994, nel 1996, nel 2001 e nel 2006. Nel2008 la differenza di voti tra centro-sinistra e centro-destraè di circa cinque milioni, calcolando tutte le aree elettoralidi riferimento, che è una differenza enorme nei sistemid’alternanza e che, giustamente, hanno fatto parlare di“elezioni critiche”, elezioni, cioè, che sono eccezionali eche preludono all’egemonia per lungo tempo di uno schie-ramento sull’altro. L’esito si spiega solamente non solo enon tanto con la straordinarietà del personaggio Berlusconi(ma per quattordici anni non aveva stravinto come nel2008), ma soprattutto con il fallimento del governo Prodie con il fallimento degli stati maggiori dei principali partiti

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del centro-sinistra, e tra questi con il fallimento del modoconcreto (non in astratto) di costruire il partito democra-tico (e qui entra in campo la responsabilità di Walter Vel-troni).

Si possono così sintetizzare così le colpe del GovernoProdi:

a) quella anzitutto di essere nato. Il risultato elettoraledel 2006 era di sostanziale pareggio ed era chiaro sin dal-l’inizio – e non con il senno di poi - che la coalizione del-l’Unione non avrebbe garantito governabilità sia per inumeri al Senato sia per la marcata mancanza di omoge-neità interna sul programma. La sua caduta anticipata eragià scritta nelle cose e nel suo destino. Invece di ragionaresul significato del voto, sulla praticabilità di un governo sta-bile in quelle condizioni, gli stati maggiori dell’Unionehanno formato il governo più numeroso della Repubblica(101 componenti), non concedendo all’opposizione nep-pure una presidenza delle due Camere, come pure sarebbestato giusto e logico e che avrebbe potuto significare unminimo di riconoscimento di una situazione eccezionale.E ciò nel pieno del risentimento popolare/populista controla “casta”. È vero, naturalmente, che il governo Prodi fuoggetto di un attacco senza precedenti – come mai nessunaltro governo lo fu – da parte non solo dell’opposizione(che fu estremamente virulenta), ma anche dai grandi gior-nali, dalle gerarchie vaticane, dalla Confindustria, spessoanche da pezzi della maggioranza, ecc. Ma è vero ancheche il pretesto per questi attacchi veniva proprio dai com-portamenti stessi dei partiti/ni e dei singoli personaggi dellacoalizione di governo. Quella coalizione non era in gradodi garantire governabilità. Ed è impensabile che nelle con-dizioni italiane si potesse governare con soli 2 voti in piùin una delle due camere. Questo fu l’errore di un maggio-ritario male inteso. Tra l’altro, mentre la maggioranza delprimo governo Prodi del 1996 era comunque figlia dei col-

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legi uninominali, in cui almeno ci si univa con un unicocandidato e c’era dunque una coesione e uno spirito di-versi, quella emersa nel 2006 era figlia del proporzionale alista bloccata. Era una differenza enorme;

b) la seconda colpa è di avere governato sin dall’inizioindipendentemente dalla ricerca o dal mantenimento delconsenso. Anzi di questo ci si vantava. Adottare misure im-popolari è doveroso per un governo, ma quando si ha unasolida maggioranza in grado di durare tutta la legislatura.In questo caso sì che si può seguire lo schema: prima i sa-crifici poi i vantaggi. Ma non era questo il caso del governoProdi. Comunque sia, la prima Finanziaria, quella per il2007, era particolarmente pesante e aumentava le tassepraticamente a tutti coloro che denunciavano un redditosuperiore a circa 20.000 euro, smentendo la solenne pro-messa fatta da Prodi in campagna elettorale di non au-mentare le tasse. Le misure sociali poi venivano disperse inmille rivoli e comunque in una misura insignificante, taleda non creare il minimo di riconoscimento al governo. Ècerto che è dalla Finanziaria 2007 che iniziano la delusionee l’avversione verso il governo Prodi in particolare da tuttii ceti medi e dai ceti professionali. Le stesse misure di libe-ralizzazione del ministro Bersani, che pure avevano il mas-simo di gradimento, non solo non hanno poi portato unvoto, ma hanno fatto perdere parecchi consensi tra i cetiprofessionali (il discorso è complesso e non è qui la sedeper farlo, resta il punto che non si può innovare senza ilconsenso se non di coloro che sono colpiti dall’innova-zione, almeno da coloro che ne sono i beneficiari. Ma que-sto non è successo). Insomma, l’immagine del “governare”del governo Prodi è stata quella della litigiosità, della diso-mogeneità, dell’irrilevanza delle promesse elettorali e dellostesso programma (posto che fosse univocamente inter-pretabile) e di una propensione tecnocratica e illuministica.

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1 La “parlamentarizzazione” della crisi di governo, operata da Romano Prodi, haignorato il fatto che un partito della coalizione al governo (l’Udeur di Mastella)aveva abbandonato la maggioranza parlamentare. Si tratta, peraltro, di un par-tito con cui il centro-sinistra si era presentato unito davanti agli elettori, e i cuivoti erano stati determinanti per il raggiungimento del premio nazionale alla Ca-mera e di diversi premi regionali al Senato. Coerenza democratica avrebbe com-portato, perciò, che il Presidente del Consiglio ne avesse preso atto, rassegnandole dimissioni, così come avevano fatto in precedenza, lungo tutta la storia re-pubblicana, i presidenti del Consiglio cui era venuto meno l’appoggio di un par-tito della coalizione, piccolo o grande che fosse. Da questo punto di vista, lecosiddette “crisi extraparlamentari”, lungi dall’essere scorrette sul piano del di-ritto costituzionale, erano essenzialmente in linea con la realtà di regimi demo-cratici fondati sulle coalizioni di partiti e quindi corrette anche sul pianocostituzionale, non quello formale e astratto ma vivente e operante. Del resto,in Gran Bretagna, quando si cambia un primo ministro (come nel caso Blair-Brown), mica c’è un voto formale del parlamento! C’è invece una decisione in-terna al partito di governo, di cui il parlamento prende semplicemente atto.

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Insomma, il governo Prodi e tutta la classe dirigente del-l’Unione apparivano profondamente distaccati dal paese edagli umori popolari;

c) infine, la terza colpa è di com’è finito, trascinando ilPaese ad elezioni anticipate e, conseguentemente, conse-gnandolo su un vassoio d’argento a Berlusconi. Non ne-cessariamente la fine del governo Prodi doveva portare aelezioni anticipate. Ma l’intero gruppo dirigente del-l’Unione – nell’illusione di brandire un’arma di deterrenza– non aveva fatto altro nei due anni che recitare come unmantra la minaccia “se cade Prodi si va alle elezioni”. Maè un’arma che si è rivoltata contro il centro-sinistra. Contain quest’atteggiamento una certa cultura e una certa in-terpretazione forzate della competizione bipolare/maggio-ritaria. Ha contato poi la testardaggine di Prodi nel voleresfidare comunque la propria maggioranza, chiedendo lafiducia nei due rami del parlamento, e di “parlamentariz-zare”1 la crisi, e con ciò bruciandosi tutti i ponti alle spalle.Non fosse andato a chiedere la fiducia anche al Senato,

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come gli chiedevano il capo dello Stato, Casini e altri leader,Prodi poteva cedere il passo ad altri tentativi di governo(come quello di Marini), sia pure transitorio, ma aprendocon ciò una fase di decantazione. Un governo transitorioe trasversale, della durata di almeno un anno e con il com-pito di riformare la legge elettorale, avrebbe comunqueconcesso tempo al centro-sinistra e avrebbe permesso diriorganizzarsi. È vero che il reale interesse di Berlusconi eraquello di andare al voto quanto prima. Ma l’interpreta-zione del maggioritario data dagli esponenti dell’Unione(se cade il governo, si va a votare) e la rigidità nella ge-stione della crisi dello stesso Prodi (parlamentarizzazionedella crisi) hanno contribuito indubbiamente a far precipi-tare la situazione.

Insomma, nel 2008 Berlusconi vince grazie al fallimentoe ai gravissimi errori del centro-sinistra. Né il rilancio mag-gioritario del partito di Veltroni poteva fare molto per ri-parare una situazione già compromessa.

Credo che ancora subiamo gli effetti di quella perditadi reputazione. E il compito davanti al centro-sinistra èquello di ricostruire un clima di fiducia tra gli elettori.

Nell’ evoluzione italiana colpisce poi è non solo la de-strutturazione del sistema partitico, ma anche la forteasimmetria tra centro-destra e centro-sinistra. Intanto, per-ché i partiti di centrosinistra sono cresciuti in questi ventianni assai più di numero e tutti hanno esibito leadershipdeboli, o comunque contingenti e provvisorie. Nel campodel centro-destra, invece, con partiti nuovi, c’è stata unastabilità straordinaria della leadership, con due partiti –Lega Nord , Forza Italia prima e Popolo della Libertà poi –il successo di ognuno dei quali sembra smentire le condi-zioni del successo dell’altro.

Abbiamo sempre creduto che senza comunicazionepolitica non si ha il successo. La Lega dimostra fino al ’94che ha successo anche senza comunicazione politica, per-

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ché fino a quell’anno era considerata un fenomeno folclo-ristico e non era particolarmente presente in televisione.

La forza della Lega viene dal territorio e viene propriodal rilancio di un partito politico inteso come comunità po-litica. Comunità fatta di simboli, di grandi narrazioni, di in-venzioni, cose che dimostrano che alcuni di questistrumenti non sono completamente abbandonati.

Ma sono partiti che hanno una struttura di comandopersonale molto forte, il che consente loro di muoversicon molta più facilità di quanto possa fare una coalizionerelativamente acefala.

Questo fatto può essere la spiegazione del perché uncentro-destra con questi due partiti – prima quando c’eraAn era lo stesso discorso – funge come una sorta di mi-noranza organizzata, di falange compatta, mentre il cen-tro-sinistra e l’opposizione tutta a Berlusconi – che oggiè probabilmente la maggioranza dell’elettorato – è divisae senza una direzione univoca e condivisa.

Viene avanti cioè una vecchia regola sociologica per cuiha il successo una minoranza fortemente organizzata ri-spetto ad una maggioranza disorganizzata. E questo è unplusvalore che Berlusconi e Bossi, in particolare, utilizzanoalla grande e, quindi, se li si vuole contrastare credo chebisogna neutralizzare il loro vantaggio stabilendo una coe-sione, una unità di intenti fra tutti coloro che non voglionoquella determinata anomalia.

Avviandomi alla conclusione, conviene fare un accennoalla destrutturazione dei partiti. Un aspetto centrale di ognisistema partitico strutturato è il problema della riprodu-zione della classe dirigente.

Ogni partito – ma mi riferisco particolarmente alla fa-miglia dei partiti di sinistra - ha dei confini molto netti nellariproduzione della sua classe dirigente. Sono dei confiniche implicano dei criteri che sono necessari alla tenuta diquel determinato partito. Io non ho trovato finora – sto

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ancora cercando - delle modalità analoghe a quelle italianenella selezione delle candidature, quello che abbiamo de-finito il nuovismo nella sinistra.

Nei partiti socialisti europei, ma anche nei conservatori,quando si vogliono superare i confini interni, si ricorre allacandidatura dei cosiddetti indipendenti.

In Spagna, per esempio, il Partito socialista spagnolo,quando vuole allargare la propria rappresentanza ed averedeterminati personaggi, li mette come indipendenti, masono personaggi che hanno delle competenze, che hannodelle storie, che hanno un qualcosa di rappresentativo.

In Italia, tanto a destra quanto a sinistra, questo pro-blema è diventato in qualche modo il segno di questa pro-fonda destrutturazione. Perché uno si dovrebbe iscriveread un partito se non conta niente nelle scelte, se viene sca-valcato di continuo? Quindi, c’è qualcosa che in questa de-strutturazione non va.

Concludo dicendo che come in politica troviamo que-sta tendenza a quello che Sartori chiama il direttismo - ilrapporto diretto tra istituzioni e singoli individui cittadinicon il sacrificio delle strutture intermedie – a me è venutoin mente che qualcosa del genere troviamo anche nelcampo del mercato, anche nel campo della cultura econo-mica.

Che cosa fa il cosiddetto neo-liberismo? Cerca di spaz-zare via tutte le strutture intermedie, a cominciare dai sin-dacati innanzitutto, e di rapportarsi al cittadino soprattuttocome consumatore.

Non esiste più solo il produttore, ma non esiste piùanche il cittadino. Esiste solo ed esclusivamente il consu-matore.

C’è un bel libro di Robert Reich, che è stato ministro delLavoro con Clinton, in cui l’autorevole economista affermache ciò che guadagniamo come consumatori, lo perdiamopoi come produttori o come cittadini. Quindi, attenzione

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a portare avanti un’idea di mercato in cui ci sono le forzedi mercato e i singoli individui visti come consumatori.

L’indebolimento dei sindacati in questo campo ha por-tato a quell’aumento di disuguaglianza sociale che è lavera questione con cui un partito di sinistra o di centrosi-nistra è alla prese in Italia e in tutta Europa.

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Interventi

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Giuseppe Vacca

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Provo a fare qualche riflessione integrativa delle rela-zioni e della tematizzazione di questo seminario - cosìcome sono state proposte a cominciare da Migliavacca - emi limito ad alcune delle questioni che riguardano stretta-mente questa mattina.

In particolare, leggi elettorali e natura dei partiti o tra-sformazione dei partiti. Penso che la ricca quantità di ana-lisi politologica comparativa, che abbiamo a disposizionee che ci è stata fornita dalle relazioni, possa essere inte-grata da qualche considerazione di carattere – mi permettodi dire – più storico o storico-politico.

In particolare, per un partito come il Pd, credo che do-vremmo approfondire la discussione su due punti: leggielettorali e natura dei partiti.

Il primo era molto interno alla relazione di Luciani. Cioè,se limitiamo la periodizzazione agli ultimi 20 anni, in chemisura riusciamo a cogliere il senso dell’alternativa fra de-mocrazia dei partiti e democrazia dei cittadini? Lo dico ri-spetto alle leggi elettorali a cui noi stessi abbiamocontribuito, alla difficoltà che oggi abbiamo di sceglieretra di noi una o un’altra riforma della legge elettorale. Noncredo ci possa essere una democrazia dei cittadini chepossa prescindere o mettere ai margini la democrazia deipartiti.

Secondo aspetto. Non da 20 anni, ma da 35 anni siamoal rimorchio di un’impostazione del problema della crisidella democrazia che è ruotata tutta intorno al problema

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della decisione.Lungo tutto questo percorso storico, il groviglio delle

leggi elettorali, non solo quelle nazionali, che sono statedate anche con il nostro contributo al Paese, hanno conti-nuato a essere influenzate fondamentalmente da questatematizzazione.

Penso perciò che tutta questa discussione vada portataa ridosso di punti di riferimento più sostanziali, come il rap-porto tra leggi elettorali e modelli di partito. Il problemasono gli strumenti regolativi con i quali si incentiva una oun’altra rappresentazione e rappresentanza della nazione.

Soprattutto, quando ci troveremo di fronte alla neces-sità di scegliere anche tra di noi un tipo o un altro di leggeelettorale, dobbiamo avere chiaro che è in gioco, in primoluogo, una democrazia con i partiti o senza i partiti e, insecondo luogo, con quali tipi di partiti.

Su questo sono molto drastico, perché il tipo di demo-crazia che abbiamo sperimentato ha fatto dei partiti unafinzione, se pensiamo ai partiti come espressione più omeno rigenerata di culture politiche che vengono da unastoria lunga, certo non solo nazionale, ma innanzitutto na-zionale.

Queste culture a loro volta sono le matrici dei partiti po-litici, matrici che questi ultimi sono più o meno in gradodi interpretare e che sono la mediazione necessaria nel rap-porto con il popolo-nazione. E sono la ricchezza della de-mocrazia.

Voglio dire che con il tipo di sistemi elettorali e, quindi,di bipolarismo a forte incentivazione bipartitica e, per cosìdire, ‘blindato’ (con un termine che forse non è scientificoma che usiamo abitualmente), cioè fondato sulla possibilerigenerazione della coppia amico-nemico nello schema de-stra-sinistra, noi abbiamo un processo di svilimento, dineutralizzazione e di svuotamento delle culture politiche.

Faccio un esempio: sicuramente una ricchezza della de-

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mocrazia italiana, a cominciare dagli inizi del Novecento esoprattutto nella seconda metà del Novecento, è stata lapresenza e il ruolo del cattolicesimo politico.

È chiaro che erano venute meno le ragioni e le condi-zioni dell’unità politica dei cattolici. Che ne è della ric-chezza e di quello che il cattolicesimo politico può dare,come una delle più raffinate culture della mediazione, inun sistema così radicalmente polarizzato? Per il modo incui si articola la presenza politica dei cattolici, si riduce for-temente l’elemento di mediazione prima richiamato e sispinge, o sulla destra o sulla sinistra, a condizioni o mino-ritarie o leonine.

Questo è un altro elemento intorno al quale ragionarea fondo quando si discute di sistema politico, di sistemadei partiti, di democrazia dei partiti, di democrazia dei cit-tadini e di sistemi elettorali.

Infine, contro-democrazia. È vero. Ma anche qui, comevanno guardati i fenomeni e le dinamiche? Credo che daquesto punto di vista abbiamo a disposizione alcune espe-rienze recenti molto significative, perché indicative delle vieda percorrere nella specificità, nella distinzione dei ruoli ri-spetto ad una rigenerazione delle funzioni politico-demo-cratiche.

Mi riferisco al combinato disposto della mobilitazionefemminile del 13 febbraio e anche del modo in cui è statodi conseguenza impostato l’8 marzo.

Se andiamo a vedere dal punto di vista dei contenutisociali, al centro c’era la questione del lavoro, ma inseritain quale narrazione? Quel tema è stato inserito in un’analisiche ravvisava un punto saliente nella destrutturazione diun elemento costitutivo del profilo della nazione vista dalpunto di vista di una nazione di donne e di uomini.

E nello stesso tempo è stata costruita un’iniziativa poli-tica che – forse solo temporaneamente – ha tolto dallemani della Destra la narrazione riguardante il soggetto

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femminile così come era stato ricacciato profondamenteindietro nella transizione italiana del 1989-1994.

Intorno a che cosa ha ricucito tutto questo? Intorno aduna categoria, quella di dignità: dignità di una persona,proiettata sul risarcimento del profilo della nazione, perchélì la battaglia fondamentale, che si è svolta per arrivare adecidere una piattaforma, ha riguardato esattamente ladefinizione di coscienza nazionale, che è l’elemento discri-minante del documento che ha mobilitato le donne per ar-rivare ad una definizione di coscienza nazionale comecoscienza politica, civile, etica e religiosa.

Penso che noi abbiamo la necessità di connettere unaprospettiva sociologica con una politologica, così ricca diintegrazioni di questo carattere, per andare un po’ piùavanti rispetto a dove siamo finora sul problema della crisidella democrazia, delle nostre risposte, di quale Pd.

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Alfredo Reichlin

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Credo sia giunto il tempo di uscire da una discussioneormai vana tra chi sostiene non si sa quale partito essen-zialmente “leggero”, che affida non ai militanti ma ai ga-zebo le sue scelte di fondo, oppure una stanca ripetizionedel vecchio modello del partito di massa, con tutte le po-lemiche che seguono (il “non vogliamo morire socialisti”che angoscia ancora qualcuno). È evidente che abbiamobisogno di un partito nuovo, e che sia non solo nuovo madiverso.

Dunque, quale partito? Io parto dalla vecchia ideagramsciana. I partiti non si inventano, sono vitali e contanose sono storicamente necessari, se “fanno storia”, se èchiara la loro funzione nella vita nazionale. Bisogna rispon-dere, quindi, ad un interrogativo che è cruciale. Qual èoggi la funzione di un partito che vuole essere riformista?In pratica, a fronte di quale problema di riforma esso sipone come necessario? Certo, la risposta deve partire dal-l’Italia e, come da anni qualcuno di noi va dicendo e scri-vendo, si tratta di creare uno strumento capace diaffrontare quella che non è una crisi come tante altre chehanno colpito questo paese, ma un rischio di dissoluzionedella nazione italiana. Ma su ciò non torno. Condivido lalinea su cui si è posto Bersani. Aggiungo però che unnuovo partito riformista non può radicarsi profondamentese non si misura con quell’autentica rivoluzione conserva-trice (il fondamentalismo di mercato) che domina il mondoda trent’anni. Non scopro nulla, dico una ovvietà. Ma forse

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non ci siamo capiti sulla natura di questa svolta. Perché lapolitica se ne occupa così poco? Per superficialità oppureperché si tratta di qualcosa che configura i termini di unnuovo conflitto di portata storica tra progresso e reazione.E ciò nel senso che ridefinisce i soggetti -noi compresi- benal di là del vecchio conflitto sociale. Si tratta del fatto (diquesto parlo) che insieme alla più gigantesca redistribu-zione del reddito a favore di una autentica oligarchia, que-sto conflitto investe la vita, le libertà, il destino, il tessutodella società. Rompe il rapporto tra capitalismo e demo-crazia, trasforma il cittadino in consumatore, contrapponel’individuo alla società con le conseguenze che vediamo:l’attuale degrado. È questo fenomeno grandioso di por-tata mondiale che crea l’anti politica, l’abisso tra i partiti ela gente, e quindi il populismo alla Berlusconi per la ra-gione fondamentale che è questo che ha reso la sinistraimpotente, dato lo squilibrio sempre più profondo tra lapotenza dell’economia finanziaria e il potere degli uominidi decidere del loro destino.

Sono solo accenni fatti per chiedere che cosa noi con-trapponiamo. Quindi: quale riformismo. Programmi? Sicerto, anche. Ma che credibilità hanno i programmi seviene meno il potere della politica e quindi l’esercizio dellademocrazia e dei diritti? È di questo che stiamo parlando,di un sistema che distrugge i legami sociali e che spiega lacrisi dei valori a cui stiamo assistendo. Insisto, non si trattadi una delle tante forme del capitalismo, è la sfida piùgrave ai fondamenti non solo economici ma morali delcompromesso sociale. Non credo di esagerare. Quando leattività finanziarie (cioè la speculazione, le scommesse suititoli e le monete, cioè la carta) sono arrivate a superaredi tre o quattro volte le attività reali, e quindi sulle spalledei produttori della ricchezza reale (la produzione non solodei soggetti ma della vita sociale) grava l’onere di remune-rare una rendita enorme e parassitaria, non possiamo non

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chiederci non solo su quali basi reali ma su quale legitti-mazione etica si regge la società di oggi. Io penso che que-sto sia il passaggio nuovo etico-politico, non soltantoeconomico a cui siamo arrivati. Enormi ricchezze si creanosulla speculazione e sul debito, cioè giocando su risorseinesistenti. Ma chi paga i debiti? Quei debiti non sono pa-gati da chi li ha fatti (e arricchendosi come si è visto) madal denaro pubblico e dal “valore aggiunto” creato dal la-voro. Ovunque il debito privato si sta trasformando in de-bito pubblico. Con la conseguenza che sarà impossibilesostenere il debito pubblico se non tagliando i servizi e ri-correndo alle tasse. Ma chi paga le tasse? Come è noto,non le paga la finanza ma il lavoro, la produzione.

Dunque per quanto tempo può reggere un sistema diquesto genere? Eppure è impressionante il fatto che nonsi veda una alternativa credibile. La mia risposta è che que-sta non ci sarà mai se non cominciamo a proporre una di-versa idea di società, liberandoci anche a sinistra daifantasmi di un modello che in realtà non esiste: l’idea diuna società socialista.

Per costruire un nuovo partito riformista bisogna met-tere in campo una visione nuova del mondo reale e una ri-voluzione intellettuale e morale. Bisogna parlare ai giovanidi problemi di questa novità e di questa natura, che poisono quelli che creano il precariato e oscurano il loro fu-turo. Significa quindi, far leva su un antagonista reale col-locando la nostra azione al livello di quella che è la grandeingiustizia, ma anche la grande contraddizione del nostrotempo e che già vediamo esplodere nelle rivolte giovanili.Da un lato è vero che la potenza dell’economia si mangiail potere della politica in quanto libertà uguale e interessegenerale, ma dall’altro c’è il fatto che la società non puòessere ridotta a società di mercato senza creare problemiinsolubili di governabilità ed esiti catastrofici anche morali.È su questa contraddizione che dobbiamo far leva, non

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solo sulle vergogne di Berlusconi. Stiamo attenti, perchése non cominciamo a scendere su questo terreno (e non achiacchiere, o solo con i dibattiti, i convegni, i discorsiideali), ma liberando forze, mobilitando interessi, mondi,bisogni, movimenti reali, io temo che il mondo progressistasi condanna ad un ruolo subalterno perché non è in gradodi resistere all’enorme potere di condizionamento che c’ènel sistema. La gente chiede nuovi beni, non solo mate-riali, i quali diano senso e significato alle loro vite, ma la ri-sposta del sistema è l’individuo solo. Per cui la sola riformacostituzionale in atto è il cosiddetto articolo quinto (chi hai soldi ha vinto).

Ecco, io vedo qui un campo enorme di iniziativa di unnuovo partito. Un campo molto vasto perché si rivolge nonsolo ad una parte ma all’intera società. E non a parole, maperché riesce, o dovrebbe riuscire, a porsi il problema diconiugare le ragioni della libertà individuale con quelledella comunità. Costruire una nuova comunità: questo è ilnostro problema. Contrastare l’individualismo senza storiae senza diritti ripartendo dal fatto che gli uomini non esi-stono se non in quanto stanno dentro un legame sociale.Contrastare le spinte dissolutive e difendere l’autonomiadelle persone e la dignità del lavoro. Tornare ad appro-priarsi delle nostre vite: questo è il riformismo. Del restoche cosa è stato nella storia l’atto di nascita del riformismose non la costruzione di una vasta rete sociale di solida-rietà, di cooperazione, di lavoro collettivo, ad opera di so-cialisti come di cattolici? In tutt’altri termini, in tutt’altrascala, anche oggi questo è riformare, dare alla società unnuovo ordine, rendere possibile un nuovo umanesimo.Ecco perché io penso che la presenza cattolica è parte co-stitutiva del partito democratico perché sta nelle cose enella lotta di oggi la necessità profonda di riunire l’uma-nesimo cristiano con la lotta per l’emancipazione del-l’uomo che fu propria della tradizione socialista.

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Vorrei quindi fosse chiaro che il tema che sollevo èqualcosa di molto diverso dall’invocazione di un classicospostamento a sinistra oppure il ritorno al vecchio scontrosociale. È invece quello di capire meglio il rapporto semprepiù stretto, sempre più complesso (questo è il punto) nelmondo moderno tra una economia sempre più dominatadal bisogno di nuovi beni e di un più qualificato capitalesociale e la rappresentanza politica democratica. Perciò oc-corre una alternativa a un modello finanziario non solo in-giusto ma tale da distruggere la creatività della persona.Lo sviluppo dipende sempre più da questo rapporto e nondall’articolo quinto. È decrepita la vecchia contrapposi-zione cara ai liberal tra Stato e Mercato, è diventata anchepoco significativa la vecchia contrapposizione socialista traprofitto e salario. Lo sfruttamento è ben altro, riguarda illavoro ma investe tutta la condizione umana, la vita, i modidi pensare, i territori. Io credo stia qui il ruolo storico e labase sociale di un partito nuovo e questo comincia ademergere dalle cose.

Il futuro di un grande partito riformista post-socialde-mocratico non dipende quindi dal suo ripiegamento aforza gestionale moderata, ma dalla capacità di costruireil suo fondamentale programma riformista intorno al nessomodernissimo (ma sempre più in contrapposizione all’eco-nomia finanziaria) tra la società, la creazione della ric-chezza e il capitale umano. Queste cose o stanno insiemeo non si va da nessuna parte.

È questa la nuova grande ragione per cui la sinistra puòtornare a diventare essenziale nell’era globale.

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Marco Meloni

Quale Partito Democratico? Pensare a noiper parlare all’Italia. Partiti e trasformazioni della democrazia:un modo per parlare di noi.

L’avvio della discussione sulla funzione dei partiti in se-guito alle trasformazioni del sistema democratico può costi-tuire per noi, per il Partito Democratico, una fondamentaleopportunità per aggiornare la riflessione sulla nostra naturae quindi, in qualche modo, sulla nostra identità.

Le origini della crisi attuale: il passaggio 1992-94Procediamo con ordine: per comprendere i mutamenti

del ruolo dei partiti nella democrazia italiana è necessariopartire da dove l’attuale vicenda politica trae origine, ov-vero da una lettura del passaggio tra la prima e la secondafase della Repubblica. Non è questa la sede per esaminarecol necessario approfondimento le cause della crisi diquella che è stata definita la “Repubblica dei partiti”.

Certo è che parte degli effetti di quella vicenda ultra-quarantennale sono ancora tra noi, e possiamo ora leg-gerne con sufficiente distacco gli elementi positivi, comequelli negativi. Tra i primi, la capacità di far diventare fon-damenti condivisi della convivenza civile, pur entro i vincolifigli degli equilibri della guerra fredda, i valori costituzionalidella Repubblica, e di aver operato attivamente per lo svi-luppo della democrazia e il rafforzamento dei diritti socialie civili fondamentali, fissati proprio dalla Costituzione, nella

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crescente condivisione delle scelte europee e atlantichecompiute nella prima legislatura.

I secondi sono legati al fatto che quei medesimi vincoliinternazionali conducevano, inevitabilmente, a una demo-crazia bloccata, con gravi conseguenze legate all’assenzadi un’effettiva competizione per il governo fondata sui pro-grammi e la capacità di realizzarli: l’assenza di alternanzariduceva l’effettività dei meccanismi di controllo e di ricam-bio del personale politico, ancor più a partire dal momentoin cui – nelle due fasi successive del primo centro-sinistra edella solidarietà nazionale – diventava possibile, se non ine-vitabile per difendere e rafforzare la giovane democraziain pericolo, integrare nella gestione diretta o in meccanismidi compartecipazione sostanzialmente consociativa, i prin-cipali partiti che nel 1948 si erano contrapposti alla Demo-crazia Cristiana e ai suoi alleati. Con i seguenti corollari: dallato del sistema, un equilibrio costituzionale centrato piùsull’Assemblea legislativa – oltre che sui partiti – che sulgoverno, tratto che, negli anni Settanta, diventava ancorpiù accentuato e, dal lato dell’azione di governo, l’accu-mulazione di forti ritardi nelle riforme strutturali.

La “Repubblica dei partiti” ci ha, dunque, portato daun’economia arretrata e dal disfacimento civile e democra-tico del ventennio fascista ad essere una delle più grandieconomie del mondo, sia pure con un rendimento decre-scente, di cui sono manifestazione l'alta inflazione, le sva-lutazioni competitive, l'abnorme debito pubblico. Quando,col Muro di Berlino, cadono questi blocchi e si rompe que-sto equilibrio, il sistema democratico è stremato, le struttureeconomiche e la cultura delle regole sono arretrate, la fidu-cia nella politica è ridotta al lumicino. Si poneva, allora, unaquestione democratica, non populista: il Paese veniva sve-gliato, oltre che dagli scandali, dalla necessità di interventipesantissimi di risanamento finanziario. Per capire cosa èsuccesso dopo il 1992, dunque, bisogna partire da qui.

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Nel biennio successivo sono i cittadini e i movimenti cheriescono a organizzare la partecipazione della società civilea prendere la parola e a reagire: al voto come delega aipartiti si reagisce con l’elezione diretta, prima dei sindaci edei presidenti di provincia, poi dei presidenti di regione; auna democrazia che spostava nella dialettica parlamentare– con un ruolo preminente dei partiti – il processo di for-mazione dei governi, si reagisce con la scelta maggioritaria;al blocco del consociativismo si reagisce col bipolarismo,anche in seguito al superamento dell’unità politica dei cat-tolici e al successivo sdoganamento prima dei partiti eredidella tradizione comunista e poi anche di quelli che si po-nevano fuori dall’arco costituzionale. Insieme ai partiti sto-rici, crolla la loro capacità di assorbire pulsioni profonde,figlie dei divari di sviluppo e del diverso livello di efficienzaamministrativa e di cultura della legalità tra le diverse areedel Paese: è il boom della Lega che, dopo una serie di suc-cessi alle elezioni amministrative, alle politiche del 1992passa da 2 a 80 parlamentari, con oltre l’8% dei consensisu base nazionale.

Perciò, la lettura per cui la verticalizzazione delle scelte,il maggioritario e il bipolarismo siano strumenti che gene-rano la crisi e la perdita di funzione dei partiti non mi per-suade. Sebbene la nuova strada sia stata intrapresa forsetroppo rapidamente e certo in modo piuttosto approssi-mativo, è vero il contrario: essa ha consentito di risponderea una profonda crisi della democrazia e di ristabilire il cir-cuito della rappresentanza, con la relazione fondamentaletra delega, responsabilità e consenso che era ormai anne-gata nell’autoreferenzialità di soggetti che chiedevano con-senso per esercitare potere e, da tale esercizio, generavanoil consenso. Quello stesso circuito che, segnalo, l’attualelegge elettorale – il mai troppo vituperato Porcellum – spo-sta nuovamente verso i partiti, rendendoli sempre più au-toreferenziali e distanti dalla società, la quale a sua volta li

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2L’Indice di partecipazione politica diretta è costruito sulla base di quantihanno preso parte almeno una volta nel corso dell’ultimo anno ad almeno unamanifestazione politica o di partito o di movimenti di protesta o a iniziative col-legate ai problemi del quartiere, della città, dell’ambiente, del territorio. Il dato,insieme a quelli sulla fiducia nei partiti, è tratto dal Rapporto annuale su Gli Ita-liani e lo Stato realizzato da Demos & Pi con la collaborazione del LaPolis – La-boratorio di Studi Politici e Sociali dell’Università di Urbino, disponibileall’indirizzo http://www.demos.it/rapporto.php.

3Per un 42% di cittadini che ritiene che la democrazia possa funzionaresenza partiti politici, il 52,3% pensa, al contrario, che senza partiti non ci possaessere democrazia.

premia coi più bassi tassi di fiducia della storia. È, questo,un altro dato fondamentale per affrontare con realismo laquestione-partito: pur in presenza di un indice di parteci-pazione politica diretta2 in crescita (49,8% nel 2010 ri-spetto al 43,8% del 2005) e di una maggioranza deicittadini che crede nel ruolo dei partiti per la qualità de-mocratica3 , i cittadini hanno meno fiducia nei partiti chenei confronti di qualsiasi altra istituzione, siano esse leforze dell’ordine o il Presidente della Repubblica (al verticedella graduatoria con oltre il 70% dei consensi), la scuola(52%), la Chiesa (47%), le istituzioni territoriali ma anchele banche, le associazioni degli imprenditori o i sindacati(intorno al 20%). Appena il 7,7% dei cittadini esprime lapropria fiducia nei partiti e ancora più sfiduciati sono i gio-vani.

Un’altra percezione che rischia di portarci fuori stradaè legata al rapporto centro/territori. Nel nostro dibattitopubblico e nella retorica politica il federalismo e, in gene-rale, la spazializzazione, sono esigenze sempre più pres-santi. È una tendenza per cui il territorio diventa semprepiù un ambito di proiezione delle questioni politiche, anchein parole come “muri”, “confini”, “presidi” e nel grandetema della sicurezza. Questioni di simile rilievo, come delresto il vasto riconoscimento dei temi relativi alla sussidia-

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rietà, non possono essere ridotte alla semplice chiave dilettura “populistica”. Dobbiamo analizzare la realtà con at-tenzione e senza paraocchi: l’ascesa della Lega – oggi il piùvecchio partito del Parlamento – ha imposto nell’agendapolitica la riscrittura di un patto nazionale più equo, chesuperi la sensazione che al persistente divario di sviluppotra Nord e Sud corrisponda l’iniquità di una parte produt-tiva del Paese che trasferisce ricchezza ad aree più arretrateda un punto di vista economico, della legalità e della te-nuta civica. Nella questione meridionale anche i partitihanno perso la sfida della responsabilità e non hanno pie-namente affrontato questa sconfitta, di cui l’evoluzione delsistema politico della Seconda Repubblica non ha respon-sabilità. Dare le colpe al Moloch populista è la solita vec-chia strada del capro espiatorio di cui Berlusconi, in questianni, ci ha offerto fin troppe, e tristi, versioni.

Forma di Stato, modello di partito, sussidiarietàIl Partito Democratico, quindi, non può permettersi di

sottovalutare queste questioni, né può illudersi di creareartificiosamente, attraverso un suo modello organizzativofortemente centralizzato – quantomeno nella definizionedelle strategie di fondo e nella selezione dei livelli più altidella sua classe dirigente – e antitetico all’evoluzione re-gionale della forma di Stato, un elemento di coesione na-zionale. Dobbiamo, al contrario, essere un partitoterritoriale e regionale, capace di dotarsi di momenti e stru-menti di coordinamento e di unità rispettosi delle diversitàe capace di armonizzare, in questo contesto, le autonomieterritoriali.

Potremmo basarci anche qui sul principio della sussidia-rietà, estendendolo anche a quella orizzontale, con riferi-mento al rapporto tra partito – e, più in generale, politica– e società: siamo in grado di pensare, anche nelle formeorganizzative del nostro partito, a modalità di apertura,

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partecipazione, corresponsabilità, che ci consentano di ab-battere o superare le barriere, appunto, tra politica e so-cietà? Il tema riguarda la modalità di partecipazione direttadegli elettori a un’ampia gamma di scelte attraverso le con-sultazioni “primarie”, ampiamente prevista dallo statutodel PD, ma si estende anche al ruolo di realtà associative eculturali in molti aspetti dell’elaborazione e della forma-zione politica – che può essere meglio garantito e struttu-rato – nonché l’attivazione di meccanismi più costanti diconsultazione e “partecipazione deliberativa” di attori so-ciali ed economici o anche degli elettori in modo diretto.

Perché il Partito Democratico? Per quale Italia?La discussione sul partito, ovviamente, sebbene riguardi

più la sua forma e la sua organizzazione, ci spinge inevita-bilmente alla questione di fondo: la sua natura fondativae la sua funzione storica. Per quale motivo è nato il PartitoDemocratico? Dobbiamo dare una risposta precisa a que-sta domanda precisa, altrimenti avrà avuto ragione la cri-tica che ci veniva posta da autorevoli protagonisti dellaPrima Repubblica (come Cossiga e Macaluso), per cui lanostra identità incerta ci rende un partito senza un profilochiaro e, in ultima analisi, un partito inutile. La lettura diMassimo Luciani a questo proposito ha il pregio di esserechiara. Luciani dice: “il PD è il partito ‘costituzionale’ pereccellenza, il PD deve essere il partito del lavoro per rispon-dere all’articolo 1 della Costituzione”. Credo che questa vi-sione non riesca ad agganciare i cambiamenti avvenutinella società italiana: il partito che punta a conquistare ilvoto della maggioranza degli italiani non può limitarsi adire “siamo il partito della Costituzione, dobbiamo difen-dere il lavoro”. Anzitutto, una tale visione rischia di cristal-lizzare il modello della Costituente e di non coglierne lepotenzialità evolutive, legate ovviamente alla secondaparte e nello specifico all’architettura istituzionale, così da

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4 E. Gentile, Italiani senza padri, Laterza, Roma-Bari, 2011, p. 74.

poter essere, oltretutto, più forti nella constante afferma-zione dei pilastri del “patto che ci lega”, a partire dai prin-cipi fondamentali della Carta. Conosciamo tutti il carattere“vincolato” della democrazia italiana, dettato dalle circo-stanze storiche in cui è nata e dalla scelta democratica delnostro Paese negli anni della guerra fredda. Lo stesso as-setto costituzionale, con l’accentuazione della dinamicaparlamentare, assume il problema del Partito ComunistaItaliano, che “non poteva” andare al governo in quanto ciòavrebbe determinato lo schieramento italiano con il bloccostalinista. Non possiamo mettere tra parentesi una storiadi democrazia incompiuta, che era relativa al mondo dellaguerra fredda. La democrazia si differenzia dai sistemi to-talitari proprio perché tiene insieme, in modo spesso dram-matico, un carattere di ideale e di incompiutezza. Per questoi suoi strumenti – come i partiti – debbono essere analizzatisul piano storico e non trasportati nella metafisica in cui di-ventano, per usare un registro teologico, “idoli”.

L’Italia dopo il decennio perduto: crescita,equità, lavoro

A partire da queste considerazioni, prima che una nostraidea di partito, dobbiamo costruire una nostra idea dell’Ita-lia. Perché il partito è subordinato all’interesse dell’Italia enon viceversa, dato che non vi è alcuna “potenza esterna”a cui dobbiamo rispondere. Gli storici, nell’analizzare la dif-ficoltà con cui l’Italia ha posto il problema dell’interesse na-zionale e dell’interesse collettivo o generale (nelle espressioniincarnate da personalità come Beniamino Andreatta e Raf-faele Mattioli), individuano nel dopoguerra il problema delpatriottismo dei partiti: “la fedeltà verso il partito prevale epredomina sulla fedeltà rispetto allo Stato”4. Vista la crisi

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5 Limes 2/2009, p. 15.

della fedeltà nazionale e della forma statuale che attraversail nostro Paese, apparirebbe ingenuo, oltre che irrazionale,credere che il nostro deficit istituzionale possa essere su-perato attraverso un rinnovato patriottismo dei partiti.L’idea del partito come soggetto metafisico e “destinale”,in questo senso, non è dissimile dalla posizione di coloro iquali individuano i problemi dell’Italia in mali atavici e in-superabili, così affidandosi a un determinismo che chiudeogni possibilità di crescita o di ripresa. Sembra ben più ur-gente, anche per un partito, porsi le questioni lucidamenteindividuate da Lucio Caracciolo: “non credere al destinoma progettare l’avvenire a partire dalla spietata ricogni-zione dell’Italia d’oggi, implica due movimenti geopoliticiparalleli: ricompattarci e riagganciarci al resto delmondo”5.

In questo cammino di rinnovato patto nazionale e co-stitutiva capacità di stare nel mondo, dobbiamo essere ilpartito che affronta i problemi strutturali dell’Italia: il “de-cennio perduto” senza crescita, l’incapacità di costruire unmercato regolato inteso come luogo nel quale esercitarele libertà individuali e di impresa, una disuguaglianza ga-loppante e inaccettabile che colpisce le possibilità di rea-lizzazione della persona. Un Paese che cresce è un Paesenel quale il lavoro può trovare un senso effettivo e nelquale è possibile ricreare un patto di equità sociale, gene-razionale e territoriale. Senza la crescita il lavoro è una re-liquia da celebrare nelle feste comandate, non un diritto,e insieme un dovere. Dobbiamo dire no a una visione delmondo catastrofista secondo cui l’Italia è perduta, sfasciatae incapace di agganciare un interesse nazionale con cuioperare in un nuovo scenario globale.

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Il Giano Bifronte della globalizzazioneLa nostra attenzione va posta, anche come partito, non

soltanto agli assi tradizionali della politica estera italiana (gliStati Uniti e il progetto europeo) ma ai luoghi dove oggi lastoria è in movimento, dalla Cina, al Brasile, al Mediterraneo.Realtà che fra l’altro ci dicono una verità incontestabile, mache non mi pare rientri sufficientemente nelle analisi più al-larmate, che ho sentito anche qui, per lo stato dell’economiamondiale: attenzione, con la globalizzazione centinaia di mi-lioni di persone stanno uscendo dalla povertà assoluta, e perloro questa è un’epoca di sviluppo travolgente, che oltretuttoè prevedibile annunci - ove non li stia già producendo, comeci dicono le vicende degli ultimi mesi – processi di diffusionedella libertà e della democrazia. Assistiamo, come è stato no-tato, a un "risveglio politico globale". Tutto ciò si ripercuote,seppure con un ritmo accelerato, entro un più vasto scenariostorico in cui non è più possibile, per una parte del mondo,attuare né politiche né ideologie neocoloniali. È evidente chel’Occidente paghi un prezzo all’ingresso di queste masse po-polari nel mondo più sviluppato; si accumulano disegua-glianze ormai insostenibili, e tra i poteri pubblici e i grandiattori economici e finanziari vi è una asimmetria informativae decisionale – Stati nazionali, o al più unioni regionali, con-tro imprese globali – che penalizza la capacità regolatricedella politica. Il tema è sia democratico che di efficienza delmercato e di governo delle risorse ambientali, e dunque que-sto è un terreno sul quale gli attori pubblici sono chiamati –pur con le difficoltà determinate dalla presenza di interessinazionali che è assai complesso comporre – ad intervenire.Ma è una crisi legata a un’accelerazione dei processi di svi-luppo, e dunque una crisi di crescita del benessere mondiale.La crisi di una nuova storia può essere colta come opportu-nità soltanto da un partito nuovo.

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Non guardare al passato, far prevalere i riformistiTutto questo si fa con un partito di sinistra-sinistra o con

un partito socialista, socialdemocratico o laburista? Dob-biamo essere chiari: la risposta è ovviamente negativa, per-ché il PD non è nato per realizzare una promessa di questogenere né tantomeno per giustapporre due storie politichein difficoltà, quella della sinistra storica di matrice princi-palmente comunista e quella, di peso quantitativamenteminore, dei cattolici democratici. Se così fosse, la teoriadella “fusione a freddo” tra le storie da cui proveniamo tro-verebbe conferma in quella che non risulterebbe essere unafeconda contaminazione ma una riedizione di schemi pro-pri della Prima Repubblica che si limitano a “pesare” laloro forza reciproca, per poi magari cercare sul terreno par-lamentare le alleanze decisive per governare. Siamo nati, edobbiamo crescere, per raccogliere entro un nuovo codice,che accompagni l’evoluzione ordinamentale e istituzionaledella Repubblica, vecchie tradizioni politiche e nuove vita-lità culturali: per questo è necessario integrare in modo piùfecondo tutte le forze della sinistra democratica e liberale,comprese quelle del socialismo riformista e dei laici demo-cratici, le forze ambientaliste e i movimenti civici, le diversearticolazioni del cattolicesimo politico che, in questa fasedella vicenda italiana, sta ritrovando una sua rinnovata vi-talità culturale. È questa la ragione per cui ci siamo definitidemocratici, e non altrimenti. È questa la posizione chedobbiamo continuare a portare nello scenario della politicaeuropea.

Il nostro compito, nell’Italia dopo Berlusconi, non èquindi quello di ricostruire la “Repubblica dei partiti”. I ca-daveri di quell’esperienza sono stati sepolti e sta ai vivi con-frontarsi con le sfide del tempo presente. Superato ilNovecento, la nostra sfida è costruire una democrazia plu-rale e “decidente”, stabilizzando i risultati positivi di questastagione, accompagnare l’evoluzione delle istituzioni e

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delle regole democratiche. Il Partito Democratico nasce peressere moderno e competitivo, per parlare al Paese al di làdi una lotta al governo ridotta, al tempo di Berlusconi, inun’inconciliabile alterità tra bene e male che riprende itratti dello “stile paranoico in politica” teorizzato da Ri-chard Hofstadter. Il nostro compito è portare, per la primavolta nella storia italiana, la maggioranza dei nostri con-cittadini a sostenere stabilmente una proposta di governoriformista, senza che su di essa gravi – come avvenne nel2006 – l’ipoteca della presenza decisiva di forze populistee massimaliste, che (legittimamente) affermano costante-mente di non condividere le scelte strategiche – nella poli-tica internazionale ed economica – che il centrosinistra algoverno dovrà porre al centro della sua agenda. Potremmoprendere ispirazione dal congedo di Edmondo Berselli nelsuo “Sinistrati”: “Prima di esprimere la solita indignazionee rabbia si potrebbero indicare le occasioni di crescita so-ciale e culturale che andrebbero privilegiate nell’azione po-litica progressista”. Anche nel senso di chiederci in chemodo un partito, oggi, possa essere esso stesso reale oc-casione di crescita sociale e culturale. Questa missione nonpuò essere intrapresa da un partito “moderno principe”,per usare la formula di Gramsci, e nemmeno da un partitopesante, pervasivo, costoso: non possiamo permetterci disottovalutare il fastidio espresso dai cittadini e dagli elettoriper un peso eccessivo dei partiti sui conti pubblici, inun’epoca di necessaria riqualificazione della nostra spesa,per renderci in grado di competere e contare in Europa eper un peso analogamente eccessivo di un ceto politico eparapolitico che pervade la società e condiziona negativa-mente una chiara distinzione tra funzioni della politica,delle istituzioni, del mercato e della società, gravandol’economia di costi di mediazione impropri e, spesso,oscuri.

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Promuovere le risorse della società, dimostrarela nostra funzione

La nostra idea di partito, con le fondazioni e aree cul-turali ad esso collegato, non deve correre il rischio di ap-parire un fardello “castale”, davanti al quale ci si rinchiudenella fortezza gridando al populismo. Non “principe mo-derno”, dunque, ma soggetto presente e integrato nellasocietà, che si confronta con una realtà plurale e con unamolteplicità di attori sociali. Oggi i partiti, come affermaOrnaghi, svolgono una funzione certamente specifica e au-tonoma ma utile solo quando garantiscono e promuovonorealmente e responsabilmente le risorse del mercato e dellasocietà. La nuova forza della forma-partito sta nell’esserein relazione e comprendere i bisogni della società, non nelsuperare le altre realtà associative in virtù dell’investituracostituzionale. In altri termini, e per riprendere un’altra sol-lecitazione di Luciani: poiché partecipa, come gli altri sog-getti costituzionali, all’attuazione dei principi di fondo dellaCarta, a partire da quello dell’uguaglianza sostanziale dicui al secondo comma dell’articolo 3, un partito che abbianel suo codice costitutivo proprio l’uguaglianza delle op-portunità e la realizzazione delle condizioni per la realiz-zazione effettiva dei diritti di cittadinanza e l’esercizio diquelli democratici, deve, a maggior ragione, porsi comeobiettivo prioritario la capacità di essere adeguato, in ter-mini di qualità delle sue proposte e della sua classe diri-gente, a corrispondere al dettato costituzionale di“concorrere a determinare la politica nazionale”. Che dun-que dovremmo considerare più come l’asticella da supe-rare che la garanzia, scolpita nel bronzo (o meglio nellaCarta), del nostro lignaggio.

Dovremmo ragionare sapendo che la nostra democraziaè esposta ai rischi che abbiamo sperimentato in questianni, ma costruendo il dopo Berlusconi, sapendo che nullasarà come prima e che noi, nel costruire la “forma del no-

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stro partito” e una proposta per il ruolo dei partiti nella no-stra democrazia, dobbiamo essere capaci di rilanciare. Il ri-schio è la nostalgia: se non andiamo avanti nellacostruzione di un processo condiviso da tutto il partito,torneremo indietro, agli schemi, ai miti, ai riti propri deimovimenti politici del passato più che propri del PD. Il Par-tito Democratico non può permettersi l’ordinaria ammini-strazione, altrimenti sarà superato dal passato, il cherenderebbe palese il fallimento del suo progetto. Il segnaledella crisi del PD sarebbe l’incapacità di rispondere ad al-cune domande non più rinviabili: serviamo a qualcosa? IlPartito Democratico ha una funzione storica? Noi crediamodi sì, ma se non avanziamo rapidamente nella sua realiz-zazione e, dunque, nella dimostrazione concreta di talefunzione storica, il rischio che corriamo, specie nei mo-menti di difficoltà, è limitarci a pensare e lavorare nel par-tito per far sopravvivere – talvolta persinoinconsapevolmente – le storie dalle quali ciascuno di noiproviene. Il che, temo, ci porterebbe a interpretazioni dellarealtà e dei nostri compiti sempre più differenti e lontane.

Obiettivi e proposte di intervento.Vorrei indicare, conclusivamente ed in estrema sintesi,

una serie di obiettivi prioritari su cui lavorare.

1. Stabilizzare il bipolarismo, tratto fondante dell’espe-rienza del PD, quanto lo è l’idea di un partito delle oppor-tunità che vuole superare il Novecento e conquistare, dallesue posizioni riformiste di centrosinistra, il centro della do-manda politica. Lo spazio dove si incontrano i bisogni dellamaggioranza degli italiani e al quale non si arriva, lo dicocon tutto il rispetto per storie che tutti noi abbiamo vissutodirettamente, parlando con nostalgia del cattolicesimo de-mocratico o del socialismo. Per costruire un’Italia nuova,cosa possibile solo superando quei divari – sociali, gene-

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razionali, geografici, di genere – che ci impediscono di vi-vere in un paese moderno.

2. Far pace col concetto di leadership, liberandolo daBerlusconi. L’attenzione per la leadership non è mera per-sonalizzazione della politica, ma fa parte del rapporto mo-derno tra cittadini ed elettori. L’evoluzione del sistemamediatico e l’attenzione crescente per la partecipazione deicittadini, attraverso i social media, non sono processi chepossono essere arrestati dai partiti politici. Sarebbe inge-nuo crederlo, come è ingenuo credere che le dinamichedella leadership siano figlie esclusivamente dell’anomalia-Berlusconi (pur esistendo un’evidente anomalia per il ri-spetto delle regole e la convivenza civile del nostro Paese).La nostra “differenza” deve essere dare forma – anche at-traverso le primarie – a leadership contendibili, andaredalla cooptazione alla competizione e integrare le sceltedei leader, a livello politico ed istituzionale, nei meccanismidi selezione della classe dirigente del Partito. È questa lavia per superare il conflitto più o meno latente tra “partitie presidenti” e per tentare di risolvere la vera involuzionedella nostra democrazia, fatta sempre più di partiti perso-nali con leadership personali – o collettive, in pochi casi –inamovibili. Per questo è fondamentale riattivare e tenerecostantemente fluido il meccanismo di circolazione delleclassi dirigenti, anche nel rapporto tra società e partiti.

3. Una classe dirigente di qualità: circolarità, contendi-bilità, i talenti in politica. La crisi della politica deriva anchedalla qualità, troppo spesso inadeguata, del personale deipartiti e dall’incapacità di attivare un circuito virtuoso conla società. Su questo è indispensabile un’azione capillare eun’autocritica di fondo. Il partito così com’è non funziona,appare, appunto, inadeguato dal punto di vista del capi-tale umano e delle sue competenze, nonché delle strategie

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organizzative e della comunicazione. Il partito deve riuscirea mettere insieme realismo e progettualità, per compren-dere la società e attrarre i migliori talenti. Quello che tut-tora manca sono meccanismi di competizione, entromeccanismi di circolarità delle classi dirigenti. Il perduraredella crisi impone alle banche europee uno stress test,anche per comprendere la loro capacità di sostenere i re-quisiti di capitale imposti da Basilea III. Ci sarebbe bisognodi uno stress test anche per determinare la qualità e lacompetenza di una classe dirigente politica, rispondendoa una domanda semplice: “Chi fa politica viene consideratocapace di svolgere altre funzioni sociali di fondamentaleimportanza?”. Se non si sa rispondere a questa domanda,o se la risposta è negativa, qualcun altro – che non saràBerlusconi – ci verrà a dire che la classe dirigente di un par-tito che si dichiara alfiere del lavoro “non ha mai lavoratoin vita sua”. Fuori da questa semplificazione impropria, laquestione è dirimente: contendibilità delle cariche interne,verifiche elettorali costanti, superamento del modello fun-zionariale e distinzione dei compiti tra chi è eletto, protempore, per lo svolgimento di incarichi di partito o istitu-zionali e chi svolge un’attività di natura professionale nel-l’ambito dell’organizzazione del partito, devono essere inostri obiettivi. Proprio per riattivare un meccanismo di cre-dibilità e di fiducia nella rappresentanza, oltreché di affi-dabilità della classe politica e di qualità del sistema delledecisioni pubbliche. Perché ciò accada, i migliori talentiespressi dalla nostra società dovrebbero avere l’opportu-nità di impiegare parte della propria vita dentro un partitopolitico e nelle istituzioni, per poi dedicarsi ad altro. Ricor-diamo che il crollo della fiducia nei partiti – e nel Parla-mento, che nell’indagine citata, li precede di una solaposizione, insediandosi al penultimo posto col 13.4, in calodi oltre 10 punti in soli 5 anni – dipende in modo assai si-gnificativo, oltre che dai meccanismi elettorali, dalle qualità

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individuali del personale politico. Cito il dato del livello diistruzione, di per sé forse non decisivo ma certo emblema-tico: nel 1946 i componenti dell’Assemblea Costituentelaureati erano il 94,5%; oggi, mentre la popolazione lau-reata è aumentata enormemente (nell’immediato secondodopoguerra i laureati erano circa 20 mila l’anno, nel 2008sono stati 293 mila) rispetto ad allora, in questo Parla-mento i deputati laureati sono appena il 65,9% (dato PD:64,6%), con un calo di 5 punti rispetto all’ultima legisla-tura con la precedente legge elettorale (2001-2006). Se nedesume che, anche quando maggiormente (anzi, total-mente) liberi di scegliere, i partiti non sembrano prestarela sufficiente attenzione al merito e alla qualità del perso-nale parlamentare.

4. Territori e rete, società e mondo. I piedi ben piantatiin un territorio nuovo, che è allo stesso tempo mondo (vifacevamo riferimento prima), rete, realtà locale. Ho già an-ticipato il punto: dobbiamo impegnarci su forme originalidi condivisione delle realtà territoriali, con vincoli di solida-rietà ideali e organizzativi, ma con la capacità di adattarcialle diverse forme di organizzazione politica regionale eterritoriale. In una battuta, dobbiamo costruire una formaoriginale di sussidiarietà dentro il partito, con veri marginidi autonomia. Sussidiarietà orizzontale, con strumenti dicollegamento e integrazione con le realtà della società ci-vile e le strutture associative e culturali nelle quali si articolail pluralismo interno. Un partito di questo genere ha, simil-mente a quanto pensiamo per il rapporto tra Stato, auto-nomie territoriali e corpi sociali, un nucleo centrale diridotte dimensioni ma di grande efficienza e qualità e re-gole chiare per definire le modalità di relazione verticali eorizzontali. E ha regole trasparenti per l’accesso, la parte-cipazione, l’esercizio dei diritti fondamentali, a partire daquello di iscriversi, la cui effettività non può essere affidata

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a meccanismi arcaici che comportano la necessità di com-prendere dove sia possibile trovare una sede, quando siapossibile trovarla aperta, se una qualche autorità internavera o fittizia abbia o meno una disposizione d’animo chefavorisca un’eventuale iscrizione. L’iscrizione al PD deve es-sere considerata un diritto, esercitabile dal cittadino ancheattraverso Internet, con la necessaria verifica – ampiamenteconsentita dalle tecnologie informatiche – di tutti i requisitidi identificazione personale richiesti dalle nostre norme sta-tutarie, e deve poter essere negata solo per ragioni speci-fiche e in modo motivato, entro un termine rapidosuccessivo all’iscrizione medesima.

5. La simbologia è importante. I simboli: i colori, le mo-dalità di organizzazione di riunioni e incontri pubblici, lesedi, la loro funzionalità e persino la loro estetica. Sonotutti elementi fondamentali della capacità di un partito dicostruire un’identità collettiva, tanto più nella fase di avviodi un nuovo soggetto. Per questa ragione a questi aspettidobbiamo prestare un’attenzione assai maggiore diquanto fatto finora, in un processo trasparente che uniscai due momenti della elaborazione specialistica e della de-cisione politica. Lo stesso dicasi per le parole con cui desi-gniamo tutto ciò che riguarda la vita del partito: lestrutture organizzative, i momenti di incontro o elabora-zione politica, le persone con cui condividiamo la militanzapartitica. L’alternativa tra il “vuoto”, che non può che indi-viduare l’assenza di un’identità chiara, e la giustapposi-zione di “significanti” propri dei soggetti politici che si sonosciolti nel nuovo partito – fenomeno che sembra esseresempre più prevalente – porta in ogni caso a ciò di cui ab-biamo meno bisogno per costruire un partito adatto a go-vernare l’Italia: il passato.

6. L’Europa e il mondo. Sono le dimensioni con cui si

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misura – e si dovrebbe misurare molto di più – l’Italia. IlPartito Democratico lo sta facendo, nella sua totalità, an-cora troppo poco. Si tratta di sciogliere nodi politici com-plessi con chiarezza e al contempo con flessibilità eintelligenza; la qual cosa, mi rendo conto, non è affattosemplice. Però portare nel confronto con le forze demo-cratiche e progressiste europee e internazionali la nostraoriginale costruzione, di fusione di forze del centro e dellasinistra democratica entro una formazione niente affattoa-ideologica ma che supera le obsolete ideologie ottocen-tesche, è un nostro compito preciso e ineludibile. Perché èinconcepibile vivere senza avere una casa politica sovrana-zionale. Ma ancor più inconcepibile sarebbe che solo unaparte del PD potesse riconoscersi in soggetti politici di talenatura, come anche – cosa a quel punto assai probabile –che vi fossero, nell’ambito dello stesso partito, diverse af-filiazioni di questo genere.

In effetti, il realismo ci conduce a una constatazioneobiettiva: le forze di centrosinistra vincenti stanno tuttefuori dal continente europeo. Fuori dall’Europa, nei mo-menti di più grave crisi e di ridefinizione delle missioni dellegrandi democrazie, esse hanno saputo raccogliere intornoa sé, e a obiettivi di riforme ed equità, la maggioranza deglielettori. Nel nostro continente, al contrario, sembra preva-lere una loro tendenza a rimanere arroccate su posizionidifensive delle loro nobili constituencies. Nobili, superatee perdenti.

Noi democratici italiani siamo nati con un’ambizioneopposta: essere una forza che preferisce arrivare un pocoin anticipo che molto in ritardo; che vuole costituire un fat-tore effettivo di cambiamento, piuttosto che lagnarsi deltempo presente; che sa che per farlo deve saper rappre-sentare la maggioranza dei cittadini. E che, quindi, devenecessariamente essere coraggiosa, innovativa e vincente.

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Stefano Fassina

A me non pare sia casuale che noi come Partito Demo-cratico facciamo oggi queste riflessioni sul senso del partito,su come ricostruire il partito, sui modelli di partito.

Non sono sicuro che nel 2007 o all’inizio del 2008avremmo sentito il bisogno con la stessa convinzione, di farequesta discussione. Lo dico perché vorrei fare delle riflessionisul rapporto tra politica ed economia.

Confesso che nella riflessione che ci hanno proposto le in-teressanti introduzioni a questo nostro seminario mi ha col-pito la relativa distanza dell’evoluzione del contestoeconomico in cui si sono iscritti i cambiamenti intervenuti.

Penso sia invece un contesto molto rilevante per spiegarequello che è successo, per spiegare le risposte inadeguateche sono state date, per provare a trarre anche qualche in-dicazione per risposte diverse o per provare a radicare le ri-sposte, che sono state anche individuate nelle relazioni, suun terreno più solido.

Non mi pare casuale che noi oggi facciamo questa rifles-sione, perché fino a pochissimo tempo fa, fino a prima dellarottura drammatica dell’equilibrio instabile che ha regolato irapporti tra politica ed economia per un quarto di secolo,alla politica era affidata sostanzialmente una funzione ancil-lare rispetto all’economia.

Prima Reichlin ricordava che l’economia faceva la società,l’interazione economica portava a sintesi interessi parziali, liportava a diventare interesse generale.

La politica era confinata ad un ruolo di rimozione dei lacci

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che ostacolavano il fluire della dimensione economica e im-pedivano alla dimensione economica di arrivare a quella sin-tesi che aveva poi un effetto generale.

Con quella che chiamiamo crisi - ma che è evidente sem-pre di più non sia una crisi, ma un passaggio di fase - è so-stanzialmente venuta in evidenza l’inconsistenza di questoparadigma e oggi siamo qui, e altri partiti riformisti in Europafanno discorsi molto simili a quello che facciamo noi, perchési pone il problema di quale direzione politica, di quale orien-tamento politico.

Insomma, a me pare che noi possiamo cogliere – Massariprima diceva l’80% di fenomeni di portata generale rispettoad un 20% di questioni specifiche, di elementi di soggettivitàche – su quell’80% molto ha a che vedere la dimensionedell’economia rispetto a quella che è rimasta la dimensionedella politica. Cioè crisi dei partiti, crisi della democrazia difronte a strumenti di regolazione della dimensione econo-mica che sono diventati via via marginali.

Credo che su questo scarto, tra dimensione dell’economiae dimensione della politica, noi dobbiamo riflettere per capireanche che fare, quale partito politico.

Insieme a questo, guardare a quanto profondamente èmutato lo scenario sociale nel quale opera il partito politico.Qualcuno nelle introduzioni lo ha accennato, ma credo siadifficile pensare di ricostruire la democrazia com’è propostanella nostra Costituzione, comunque una democrazia vera,in un contesto così squilibrato sul piano economico-so-ciale.

Di fronte ad una sperequazione non solo di redditi e ric-chezza per come si è venuta a costruire nell’ultimo quarto disecolo, ma anche di potere economico, di potere mediatico,di produzione culturale.

Insomma, a me pare rimanga un nesso forte tra qualitàdella democrazia e qualità del lavoro e condizione del lavoro.

Il nostro art.1 della Costituzione. A me ha fatto molto ri-

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flettere, l’ho già detto in una riunione di segreteria, un com-mento al referendum di Mirafiori fatto due giorni dopo daErnesto Galli della Loggia come editoriale del Corriere dellasera, nel quale l’autore metteva in discussione (con una ri-flessione che, secondo me, va presa molto sul serio) la pos-sibilità di continuare a fondare la Repubblica democratica sullavoro nel momento in cui le condizioni del lavoro nel mer-cato globale arretrano in modo così significativo.

Credo sia una riflessione importante, credo che questonesso sia un nesso importante, però mi interrogo se è ancoraun nesso possibile. Penso che per noi sia esiziale come rifor-misti perdere quel nesso, però non c’è dubbio che le condi-zioni del lavoro arretrano e che la qualità della democrazianon ne può non risentire.

Quindi, nel momento in cui andiamo a ridefinire il partito,la sua capacità di costruire una narrazione indipendente-mente da quelle che sono le condizioni del lavoro, ci aspettapurtroppo, una fase in Europa che non sarà una fase di pro-spettive progressive sul piano economico-sociale.

I discorsi che abbiamo fatto stamattina, quella democra-zia che abbiamo richiamato con quelle caratteristiche chevorremmo costruire, come si misura con una fase in cui, perla stragrande maggioranza delle classi medie europee, si pre-figura uno scenario di arretramento relativo rispetto a quelleche sono state le condizioni del dopoguerra in cui le demo-crazie a forte contenuto sociale si sono costruite?

A me pare che questi siano elementi fondamentali - chedobbiamo assolutamente inserire in queste riflessioni - perportarci a coltivare una dimensione sovranazionale della re-golazione che ovviamente riguarda i partiti, ma non solo. Ri-guarda tutti quei soggetti che nel Novecento hannocontribuito alla regolazione della dimensione economico-sociale.

Penso innanzitutto alle forze sindacali, ma non c’è dubbioche senza questa dimensione – almeno questo è il mio punto

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di vista – sarà molto difficile ricostruire autorevolezza del par-tito, sarà molto difficile ridare senso al partito politico per riu-scire a convincere gli elettori che la partecipazione politica èeffettivamente un’attività incisiva, non un’attività residuale.

Chiudo con una riflessione su di noi, sul Partito Demo-cratico. Provo a dire perché, secondo me, per le ragioni cheho provato a sottolineare, noi dobbiamo chiarire bene comeregoliamo il nostro fondamentale, insostituibile, di grandepotenzialità, pluralismo interno. Come lo mettiamo a frutto,come lo facciamo diventare un motore che ci aiuti ad andarenella direzione che ho auspicato prima.

A me pare che noi, in una fase iniziale, abbiamo speri-mentato una regolazione del nostro pluralismo che è stataquella del partito contenitore, che conteneva tutto, che giu-stapponeva al proprio interno culture, punti di vista, espe-rienze individuali anche molto diverse, ma appunto legiustapponeva e affidava ad una leadership molto persona-listica: la necessità di arrivare ad una sintesi e quindi, ancheda questo punto di vista, quel tipo di primarie che abbiamoconosciuto servivano a fare questa operazione di semplifi-cazione.

Credo che adesso dobbiamo trovare un modo diverso diregolare il nostro pluralismo, un modo in cui tutte le com-ponenti, tutte le aree culturali, tutte le sensibilità partecipinoalla costruzione di una impalcatura identitaria che però siauna.

Su questo non c’è dubbio che noi dobbiamo fare meglioe fare di più, però l’impalcatura identitaria non può che es-sere unitaria, pur le articolazioni plurali.

A me pare dobbiamo chiarirci su questo, perché poi, sullabase del chiarimento che abbiamo, ovviamente definiamoanche quali strumenti, quale rapporto tra iscritti ed elettori.Insomma, quale sia il modello di partito coerente con l’im-postazione e gli obiettivi di fondo che ci diamo.

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Roberto Gualtieri

Resisto alla tentazione di parlare in generale del Pd, deisuoi problemi e delle sue prospettive e cerco di stare altema di questa sessione, cioè l’evoluzione del sistema isti-tuzionale e dei partiti nell’ultimo ventennio, formulandodue osservazioni alla bella relazione di Massimo Luciani.

Credo che dobbiamo porci un problema tipico di quellache Gramsci chiamava "analisi differenziata". Il punto dipartenza è quel fenomeno generale, per definire provviso-riamente il quale possiamo prendere a prestito la fortunatadefinizione di Colin Crouch che ci è stata ricordata da Do-natella Della Porta: la post-democrazia. Si tratta di un fe-nomeno comune alle democrazie europee, la cui origineva ricondotta alla contraddizione sempre più forte tra co-smopolitismo dell’economia e nazionalismo della politicae all’egemonia neoconservatrice che ha caratterizzato le ri-sposte che a partire dagli anni settanta sono state date adessa. Ciò che qui ci interessa però non è analizzare la post-democrazia in occidente, ma comprendere le ragioni chehanno reso in Italia questo fenomeno così intenso e per-vasivo e gli hanno attribuito alcune forme peculiari. Laforza dell’egemonia neoconservatrice in Italia sul terrenoistituzionale, elettorale, politologico, si esprime infatti nontanto nel pure proclamato primato del governo e della de-cisione, ma nel paradosso di un plebiscitarismo impotente,cioè in un decisionismo che non decide e che al tempostesso poggia su una partitocrazia senza partiti, che ripro-pone in forma accentuata alcune patologie del vecchio si-

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stema politico allo stesso tempo senza avere partiti degnidi questo nome.

Qual è l’origine di questa specifica modalità con cui ilciclo neoconservatore si è espresso nel nostro paese sul ter-reno specifico delle istituzioni e dei partiti?

Essa non è il frutto di una “invasione degli Icsos”, cioèuna conseguenza dell’irruzione sulla scena di un personag-gio anomalo come Silvio Berlusconi, e credo sia anche in-sufficiente dire, come ha fatto Luciani, che il crollo deipartiti ha determinato un vuoto occupato dal berlusconi-smo, cioè dal primato diretto dell’economia che si auto-rappresenta sul terreno politico.

Quella che si è determinata è una dialettica più com-plessa, come dimostra il fatto che, per fare solo un esem-pio, il sistema istituzionale ed elettorale delle regioni -questo vero e proprio mostro giuridico che unisce elezionediretta e premio di maggioranza – ed una legge elettoralenazionale simile al “Porcellum” sono alcune delle propostecontenute nel programma del Pds pubblicato in volume inoccasione delle elezioni del 1992. Siamo insomma difronte ad una pervasività a 360 gradi di un paradigma fon-dato sul mito della democrazia immediata e sulla religionedel maggioritario. Un paradigma che, come ha dettoVacca, si fonda sulla primato della decisione sulla rappre-sentanza e sulla mediazione, e che è a sua volta la tradu-zione sul terreno politico-istituzionale della lettura dellacrisi della democrazia come sovraccarico di domanda chesi è affermata nel corso degli anni settanta ed ha costituitola base analitica della rivoluzione neoconservatrice. In so-stanza, si tratta di un giacobinismo conservatore, che coe-rentemente con tale lettura mette al centro la capacità didecidere di fare cose che la maggioranza delle persone nonvuole.

Ma non basta rintracciare le origini e individuare la na-tura del giacobinismo conservatore. Quel che ci interessa

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è capire come esso si sia intrecciato con un giacobinismodi matrice differente, che potremmo definire radicale. Nel-l’incontro Occhetto-Segni infatti si esprimono due giaco-binismi diversi: uno che si poneva il problema, tutto internoal dibattito del Pci degli anni Ottanta, di come costruirel’alternativa uscendo dal dilemma tra ricerca dell’alleanzacon la Dc e subalternità al Psi. L’altro che esprimeva quellatorsione della cultura istituzionale di matrice neoconserva-trice che ha avuto in Mario Segni il suo interprete politicofondamentale.

Se dal terreno delle culture politiche ci spostiamo aquello della sociologia dei gruppi dirigenti, nell’incontroOcchetto-Segni possiamo vedere anche la saldatura tra leesigenze di un ceto politico in crisi di legittimazione e diidentità dopo la crisi del vecchio sistema politico (e dei fon-damenti culturali ideologici che lo sorreggevano), e lespinte di quei segmenti delle classi dirigenti rimasti fino adallora minoritari ed orientati ad una rappresentanza più di-retta degli interessi economici e quindi al superamento delruolo centrale svolto dai partiti politici.

È proprio l’intreccio tra giacobinismo conservatore egiacobinismo radicale che, da un lato, attraverso scelte pre-cise di ingegneria elettorale ed istituzionale e di organiz-zazione della vita interna dei partiti, ha contribuito adaffermare quei veri e propri ossimori, privi di eguali in Eu-ropa, che sono alla base del plebiscitarismo impotente edella partitocrazia senza partiti (indicazione del premiersulla scheda per l’elezione del Parlamento, bipolarismo dicoalizione, maggioritario di lista, primarie aperte per l’ele-zione dei vertici di partito), e dall’altro ha imposto e resocosì pervasivi dei veri e propri tabù politico-culturali chegravano come macigni sul discorso pubblico nazionale im-pedendo ad esso di assumere orientamenti coerenti conquelli prevalenti nel resto d’Europa. Il problema non è l’al-ternativa parlamentarismo-presidenzialismo, proporzio-

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nale-maggioritario, ma il superamento del peculiare intrec-cio tra gli elementi dei due binomi che si è determinato nelnostro paese per effetto della dialettica tra rivoluzione neo-conservatrice e spinta all’autotutela di un ceto politico incrisi di legittimità ed autonomia culturale.

E quindi: non si può contemporaneamente volere l’ele-zione diretta del primo ministro e la formazione di unamaggioranza, perché nei sistemi presidenziali il Parlamentoè autonomo dal governo e in esso possono formarsi mag-gioranze diverse, mentre quando il voto per il parlamentodetermina formazione del governo allora il primo ministropuò essere sostituito dai deputati (come avviene regolar-mente, su indicazione dei congressi di partito, nella patriadel bipolarismo: il Regno Unito). In secondo luogo: la leggeelettorale può solo aiutare la formazione di una maggio-ranza, ma non la può determinare. E finché sarà impossi-bile replicare all’accusa di “voler tornare alle maggioranzeche si formano in Parlamento”, articolando la banale af-fermazione che in una democrazia parlamentare la mag-gioranza si fa, appunto, in parlamento, è difficilecontrastare la cultura a matrice plebiscitario-presidenziale.E poi: come ha bene ricordato alcuni anni fa Valerio Onidail maggioritario dovrebbe essere sempre collegato ai collegiuninominali, perché il maggioritario di lista favorisce la po-larizzazione e la radicalizzazione contraddicendo l’esigenzadi un bipolarismo “mite” come competizione virtuosa perla soluzione dei problemi e non come contrapposizioneideologica. Infine: il bipolarismo di coalizione è un surro-gato improprio del presidenzialismo che non produce soloinstabilità ma ostacola la formazione di veri partiti politici,e non è un caso che in tutta Europa i cittadini sono chia-mati ad esprimere il proprio voto per liste o candidati dipartiti e mai per “coalizioni”.

Il mio tempo sta finendo, quindi faccio solo un cennoalla seconda osservazione alle considerazioni svolte da Lu-

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ciani, che riguarda la necessità di collocarle in un contestoche è mutato: il contesto europeo.

Oggi il governo non è più solo l’organo che esprime ilpotere esecutivo, bensì è anche una componente di unadelle due camere legislative dell’Unione europea, cioè ilConsiglio, oltre che di quel peculiare organismo di indirizzopolitico che è il Consiglio europeo. Al tempo stesso con ilTrattato di Lisbona il Parlamento europeo, in cui i deputatisono organizzati in gruppi politici transnazionali, accrescei propri poteri e assume la funzione di rappresentanza di-retta dei cittadini dell’Unione. Si tratta di un mutamentodi contesto che è processuale, che non è compiuto, mache non può che condizionare il modo in cui concepiamola funzione di governo e il ruolo dei partiti politici. Da unlato, il primo elemento rafforza l’esigenza di garantire larappresentanza e riaffermare una funzione centrale deipartiti politici e, come ha dimostrato da ultimo la vicendalibica, rende la forma di governo presidenziale poco ade-guata all’esigenza di costruire un indirizzo politico comuneall’interno di organismi come il Consiglio e il Consiglio eu-ropeo. Dall’altro, il secondo elemento impone di ancorarepiù robustamente i partiti politici ad una dimensione e aduna organizzazione europea. Non basta dunque il “ritornoalla Costituzione”, ma occorre introdurre compiutamentela dimensione europea, sul piano analitico e su quello po-litico, nelle nostre riflessioni sull’evoluzione del sistema po-litico e istituzionale italiano e sul ruolo del Partitodemocratico.

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Marina Sereni

Anche se l’ultimo intervento di Gualtieri smentisce par-zialmente la mia convinzione voglio comunque partire daqui: le introduzioni, e in particolar modo quella del prof.Luciani, mi sembra ci aiutino a fare una riflessione sui partitie sul partito non necessariamente a partire dai sistemi elet-torale e dalle forme di governo.

Trovo infatti che sia stato un limite nella nostra discus-sione in questi anni aver scambiato e sovrapposto conti-nuamente questi due livelli. È evidente che c’è un nesso tral’idea di partito e il modello istituzionale verso cui tenderee tuttavia centrando troppo l’attenzione sui sistemi eletto-rali – come se il modello di partito discendesse automati-camente da questi – abbiamo tolto dignità e autonomia aduna riflessione specifica e ad un approfondimento sulleforme della politica, sulle modalità organizzative dei partitie su come noi dobbiamo mettere mano a delle modifichedella nostra struttura organizzata.

La seconda sottolineatura: nelle relazioni – in particolarmodo nella prima – si mettevano in evidenza le modifica-zioni profonde intervenute nella triangolazione stato-so-cietà-partito. Non tutto ciò che è accaduto in Italia nellacosiddetta Seconda Repubblica può essere registrato comeun dato assoluto, immodificabile, cui ci si dovrebbe sem-plicemente adeguare. È al tempo stesso evidente che nonci può essere alcuna risposta positiva se ci illudiamo di poterrimettere indietro l’orologio.

Siamo esattamente dentro questo perimetro: dobbiamo

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fare i conti con le novità intervenute nella società italiana,con i mutamenti che hanno investito il rapporto tra società-stato-partiti, ma, al tempo stesso, non dobbiamo neces-sariamente ritenere che l’unica forma possibile di partito siaquella che si è venuta sviluppando nella seconda Repub-blica.

Insisto su questo punto perché sento a volte tra di noila tentazione e l’illusione che sia sufficiente rimettere indie-tro le lancette dell’orologio: la società dei partiti di massa,come li abbiamo conosciuti nella prima Repubblica, pensonon torni più e quindi non tornano più neanche quei par-titi.

Tra la partitocrazia senza partiti e i partiti dinosauropenso che in mezzo ci sia uno spazio grande che noi dob-biamo riempire.

Terza considerazione: proprio noi abbiamo il dovere difarlo anche perché – come è stato sottolineato più volte –nello scenario politico italiano siamo gli unici che si chia-mano “partito”.

Il Partito Democratico è l’unico partito che si autodefi-nisce tale e, se tra di noi non brandiamo il tema dell’orga-nizzazione come una questione di puro scontro interno,allora forse la discussione che cominciamo questa mattinapuò aiutarci a porre le domande giuste e a cercare, più chetrovare, delle risposte giuste.

Credo dobbiamo tutti dirci che se nella prima fase di vitadel Pd ci sono stati giudizi affrettati e scelte sbagliate, poi iltema del partito è stato usato strumentalmente nella dia-lettica interna, e questo non ha aiutato la ricerca di nuoveforme, di nuovi modelli organizzativi di partito che possanofare i conti con quelle novità nella triangolazione stato-so-cietà-politica che sono state qui ricordate.

Provo a riprendere alcune delle ‘piste’ che ci lanciava ilProf. Luciani. La prima: membership tematica. Si può ade-rire al Partito Democratico sulla base di un interesse speci-

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fico: l’ambiente, i diritti civili, le donne, la cultura o altro?Personalmente, credo che questo tema sia da approfon-

dire, sono predisposta a rispondere di sì, un po’ per la miaformazione “movimentista” – ne parlava prima la profes-soressa Della Porta – e un po’ perché ogni giorno di più noiincontriamo persone che non sono interessate a fare poli-tica nel Pd in maniera generalista, hanno voglia di occuparsidi una questione che li riguarda più da vicino, che li appas-siona di più, che conoscono meglio, che fa parte della lorocompetenza professionale e via dicendo.

Questo presuppone un’organizzazione che si fa flessi-bile, più flessibile, e presuppone però altre due questioniche non ho risolto nella mia testa e quindi le metto comepunti di domanda.

Come e dove si fa la sintesi? Dove si assumono le deci-sioni nel momento in cui hai previsto strutturalmente checi possano essere dei luoghi tematici in cui gli aderenti ela-borano, costruiscono una idea politica che in qualche mi-sura li lega al Partito Democratico? Dove si fa la sintesigenerale di queste idee?

Perché è evidente che le identità parziali – penso a quelladell’ambiente, qui c’è Fabrizio Vigni che fa il presidentedell’unica associazione che fa capo al Pd, gli Ecodem –quella identità parziale, quella che si occupa dell’ambiente,tanto più in quest’epoca, ha l’ambizione - credo giusta-mente - di condizionare, di colorare complessivamentel’identità del Partito Democratico.

Questa militanza tematica dov’è che ritrova (e dov’è ilPd nel suo insieme) la possibilità di costruire la sintesi traqueste eventuali forme diverse di membership e quindianche di elaborazione politica?

Seconda questione. Se non possiamo assumere acritica-mente tutto ciò che è accaduto in questi decenni, dalla Se-conda Repubblica, però dobbiamo sapere che lapersonalizzazione della politica e l’intreccio tra politica e co-

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municazione – cioè tra ciò che la politica pensa e ciò checomunica – è assolutamente ineludibile. C’è una rivoluzione– noi non l’abbiamo mai nominata – ma la rivoluzione diinternet ha cambiato e sta cambiando tantissimo.

In un seminario che abbiamo fatto poche settimane fa,il direttore di Raitre ci diceva che ci sono dieci milioni di per-sone che normalmente si informano attraverso la televisione- e sono mediamente poco acculturate, poco scolarizzate- e ce ne sono altre dieci milioni che invece sono su Face-book e sono mediamente molto più acculturate, molto piùpreparate.

Il tema delle forze progressiste democratiche è comecontrastiamo il populismo, il plebiscitarismo che non credoderivi esclusivamente dai sistemi elettorali ma da molti altrifattori.

In un tempo in cui le questioni sono globali e compli-cate, il populismo semplifica e rende più chiaro il rapportocon l’elettore.

Di fronte all’immigrazione la Destra semplifica e noi nonsiamo in grado di semplificare. Anche di fronte a Mirafioriqualcuno semplificava e noi non potevamo semplificare.C’era qualcuno che stava con Marchionne e qualcun’altroche stava con Landini. Noi - che abbiamo provato a nonstare né Marchionne, né con Landini - abbiamo faticato dipiù.

Di fronte a questo dato – la complessità pretende lasemplificazione per essere comunicata – mi domando se ipartiti non possano essere quei soggetti che organizzanooccasioni di democrazia deliberativa, cioè un dibattito pub-blico informato, non solo per far capire alle persone checosa essi pensano, ma anche per costruire la loro posizione.

Cioè se il dibattito pubblico che noi siamo in grado dicostruire in alcuni contesti non è quello che ci serve per poitrarre una strategia politica, una posizione politica, chesfugga in qualche modo al rischio della semplificazione.

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Perché, altrimenti, se non riusciamo a fare questo, ri-schiamo di scegliere una somma di posizioni - e la sommadi posizioni dà un profilo sfocato - oppure di scegliere laposizione mediana tra le due estreme, ma anche quella nonsempre è particolarmente efficace.

Finisco con una sola considerazione: mi pare anche daapprofondire il tema delle diverse forme di membership in-tese come gradi di intensità di appartenenza e di militanza.

Nel nostro seminario di Cortona, Segatti e Vezzoni ci fa-cevano notare che oltre la metà dell’elettorato non ha rap-porti con i partiti, ma l’altra metà sì. C’è almeno una metàdegli elettori che, in un modo o in un altro, ha qualche rap-porto con la politica e con i partiti.

Questo significa che tra l’elettore e il militante attivistaci sono tanti diversi gradi di intensità, di partecipazione edi senso di appartenenza. Non credo che dovremo fare iconti solo con quelli che sono i militanti attivisti, penso dob-biamo tenere aperta questa griglia di opportunità, di pos-sibilità e capire che cosa noi offriamo, qual è l’offerta dipartecipazione politica che siamo in grado di far corrispon-dere a questi diversi gradi di appartenenza.

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Alfredo D’Attorre

Voglio sottolineare un punto della relazione introduttivadel prof. Luciani, rappresentato dal nesso o, meglio, dal«collegamento intimo», come egli l’ha definito, tra l’arti-colo 3 e l’articolo 49 della Carta costituzionale. Si tratta diun’indicazione di grande interesse, perché suggerisce unariflessione più generale: la perdita di efficacia dell’articolo49, o comunque il profondo cambiamento rispetto alloscenario da esso disegnato, si è accompagnata di fattoanche un’interruzione del processo politico e sociale di at-tuazione dell’articolo 3, l’articolo sul principio di ugua-glianza intesa in senso non puramente formale.

Credo sia una chiave di lettura di importanza cruciale,che ci consente di esaminare in parallelo l’evoluzione sulpiano politico-istituzionale e le trasformazioni sul pianoeconomico e sociale nell’ultimo ventennio. Sono stati ventianni – e gli ultimi dieci in modo particolare- in cui le dise-guaglianze sociali e territoriali si sono accresciute dramma-ticamente e in cui anche le forme di mobilità sociale hannoconosciuto un drastico restringimento.

Mi sembra anche molto interessante il percorso teoricocon il quale Luciani è giunto ad avanzare questa tesi, par-tendo dalla concezione della politica e della partecipazionepolitica, solo apparentemente innocente e neutra, sottesaalla formulazione dell’articolo 49 della Costituzione (Tutti icittadini hanno il diritto di associarsi liberamente in partitiper concorrere con metodo democratico a determinare lapolitica nazionale). Ciò che i costituenti affermano è che

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esercitare i diritti di partecipazione politica significa con-correre a determinare la politica nazionale, ossia concor-rere a dirigere lo Stato.

È evidente che alle spalle di questa concezione c’è unalinea importante del pensiero politico novecentesco, chetrova forse la sua espressione più limpida e influente in unclassico come Max Weber, il quale arriva a definire toutcourt la politica come «l’attività che vuole influire sulla di-rezione dello Stato». Qual è il significato ultimo di questaconcezione? È un’idea alta e impegnativa della politica, in-tesa come pretesa di trasformare la realtà e, insieme, comepossibilità di farlo attraverso la leva della decisione sovranadello Stato. Una concezione di cui si può misurare la di-stanza da ciò che, in assenza di partiti funzionanti, la po-litica è progressivamente e prevalentemente diventata inItalia (ma non solo) negli ultimi decenni, ossia rappresen-tazione mediatica e chiacchiera televisiva.

L’aspetto storicamente interessante è che questa ideadel rapporto tra politica, partiti e Stato viene elaborata an-zitutto da autori di orientamento liberaldemocratico. È in-dubbio, ad esempio, che alle spalle della riflessione deicostituenti vi sia il pensiero di un grande giurista liberale,Hans Kelsen, per il quale la democrazia è semplicementeimpensabile senza i partiti politici. Kelsen definiva i soste-nitori della tesi opposta mossi «da ipocrisia o da malafede».Perché i partiti politici sono essenziali in una moderna de-mocrazia di massa? Per la semplice ragione, osserva Kelsen,che l’individuo isolato non conta nulla, non può esercitarealcun influsso sulla «formazione della volontà dello Stato».Ne deriva per Kelsen (ed è evidente l’affinità di ispirazionecon l’articolo 49 della nostra Costituzione) che «la demo-crazia può quindi esistere soltanto se gli individui si rag-gruppano secondo le loro affinità politiche, allo scopo diindirizzare la volontà generale verso i loro fini politici, co-sicché, fra l’individuo e lo Stato, si inseriscono quelle for-

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mazioni collettive che, come partiti politici, riassumono leuguali volontà dei singoli individui»

Se questo è il modo in cui la funzione dei partiti è statapensata dalla parte più avanzata della tradizione liberalde-mocratica novecentesca (che è cosa diversa e ben più com-plessa dalla rappresentazione caricaturale che improbabilirappresentanti del liberalismo hanno preteso di darne inItalia nell’ultimo ventennio), si comprende come ciò che siè prodotto negli ultimi decenni possa essere interpretatoanzitutto come l’esito di una poderosa offensiva neocon-servatrice, diretta a colpire il ruolo della politica, a ridimen-sionare il ruolo degli Stati (che rappresentano tuttoral’istituzione fondamentale nella quale la politica democra-tica si esprime) e, per questa via, a ridurre la possibilità deiceti economicamente deboli di avere accesso e influenzaalla sfera delle decisioni politiche.

L’idea che la disarticolazione del disegno costituzionalefondato sulla mediazione dei partiti avrebbe fatto emer-gere una società degli individui, in cui ciascuno avrebbeavuto più chances, più voce, più opportunità, più libertàdi movimento, si è rivelata una pura illusione. O, meglio,una costruzione ideologica, favorita dall’offensiva neo-con-servatrice, che di fatto è andata a incidere in maniera moltoconcreta e negativa sulle condizioni di vita della parte piùdebole economicamente della società. Questa analisi –credo lo dicesse prima benissimo Reichlin –non può essereconfusa con il classico schema dello spostamento a sinistrao con la ricerca nostalgica di identità passate e di forme diorganizzazione della politica che oggi non potrebbero na-turalmente avere l’efficacia storica che hanno esercitato neiprimi decenni della nostra esperienza repubblicana.

Piuttosto, questa chiave di lettura ci consente di leggerein maniera realistica il carattere peculiare delle trasforma-zioni politiche, economiche e sociali prodotte in Italia nel-l’ultimo ventennio dall’egemonia culturale neoconservatrice.

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Da qui bisogna muovere per ricostruire concretamente lecondizioni di un’autonoma soggettività politica del campodemocratico e progressista.

In relazione a questo punto, mi limito a due brevi os-servazioni. Quali sono le condizioni ‘materiali’ che possonorendere credibile e non velleitario un tentativo di ricostru-zione dell’autonomia culturale, organizzativa e, quindi, po-litica di un moderno soggetto collettivo?

Se vogliamo affrontare con franchezza questa discus-sione, riconsiderando anche luoghi comuni che si sonoconsolidati nel dibattito pubblico dell’ultimo ventennio, ioritengo- e qui mi piacerebbe approfondire la discussionerispetto a quanto detto prima da Marco Meloni – che,anche nel mutato scenario, una qualche forma di profes-sionismo politico, inteso naturalmente in modo rinnovato,sia ineludibile.

Se ci sono persone in grado di svolgere con professio-nalità e competenza più attività e in grado addirittura difarle bene anche contemporaneamente, questo è senz’al-tro un titolo di merito individuale per loro. Ma attenzione,così come io non affiderei certo una cattedra universitariaa qualcuno solo perché è un bravo dirigente politico, allostesso modo, francamente, non credo che essere un bravoprofessore universitario o un bravo medico comporti di persé il possesso di quelle attitudini specialistiche di natura in-tellettuale che sono necessarie per un lavoro di direzionepolitica. D’altra parte, proprio chi, nel corso della sua vita,si è cimentato in più campi e ha maturato in essi una certaesperienza tende a rendersi conto abbastanza in fretta chefare politica non è certo l’attività più semplice. La politicasi rivela anzi, comparativamente, come l’attività che ri-chiede un grado di addestramento, di pratica, di espe-rienza persino superiore a quello richiesto da altreprofessioni intellettuali, sia pure di grado specialistico.

Questo non vuol dire affatto, naturalmente, che l’espe-

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rienza politica o amministrativa debba rimanere ristretta aquanti fanno la scelta del funzionariato di partito o sianoprivi di altre competenze professionali. Significa piuttostoche, se non affrontiamo realisticamente e senza ipocrisie iltema di come assicuriamo a una nuova generazione le con-dizioni di formazione, di percorso e anche di autonomiaeconomica per misurarsi (anche soltanto per un periododeterminato e senza che questo comporti la rinuncia defi-nitiva ad altri percorsi professionali) sul terreno dell’attivitàe della direzione politica, noi semplicemente rinunciamo,come in parte avviene ormai da molti anni, alla possibilitàdi poter misurare sul terreno dell’impegno politico il megliodelle nuove generazioni. Con il conseguente rischio di af-fidare il lavoro politico a una selezione puramente al ri-basso, per esclusione rispetto a quanti, magari piùpromettenti, ritengano più stimolante e gratificante cimen-tarsi su altri terreni.

Infine, dobbiamo riflettere su come si ricostruisca unacapacità integrativa delle forze politiche rispetto a processidi frammentazione territoriale e sociale. Pensiamo al signi-ficato e alle implicazioni della riforma federale dello Stato.Qui credo che non si possa rinunciare all’obiettivo che l’ar-ticolazione del partito riesca a ricostruire una dimensionenazionale, direi federale, se questo termine non avesse su-bito nel discorso pubblico italiano un vero e proprio per-vertimento. In Germania o negli Stati Uniti, quando si dicefederale, si indica il potere centrale, che svolge una fun-zione di ricomposizione delle differenze. In altre parole, ilfederalismo è stato storicamente il modo di pensare e or-ganizzare l’unità del plurale. In Italia, come sappiamo, que-sto termine ha assunto una connotazione completamentediversa.

Rispetto ai mutamenti sociali degli ultimi decenni, nonpuò essere eluso il tema di come ripensiamo la capacitàdel partito di tornare a rappresentare concretamente inte-

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ressi, gruppi sociali e forze sociali, evitando il rischio cheesso si riduca a essere semplicemente e vagamente un par-tito di opinione. Si colloca qui, credo, come è stato peraltrosottolineato da diversi interventi, il ruolo fondante del temadel lavoro, inteso anzitutto come elemento cruciale di unanuova strutturazione dei soggetti sociali e di un ripensa-mento della centralità dell’individuo-persona oltre il disposi-tivo ideologico neo-liberista dell’individualismo proprietario.

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Rosy Bindi

Non vorrei approfittare del fatto che ho la presidenza,però una battuta per interloquire con D’Attorre sul temadel professionismo della politica lo vorrei fare.

Semplicemente per segnalarlo come un tema sul quale,secondo me, un po’ di approfondimento dovremmo farlo,perché io non ho mai negato che la politica richieda la suaprofessionalità.

Credo che il professionismo per selezionare la classe di-rigente sia un metodo oggi sbagliato e, da certi punti divista, anche incapace di fare dei partiti quel canale di rap-porto tra la società e le istituzioni e che, men che meno, losi possa utilizzare come uno strumento carrieristico nelquale ad incarico politico corrisponde automaticamente ildiritto ad altro incarico politico.

Seguirei lo strumento delle donne, cioè politiche di con-ciliazione tra la professione, l’impegno nei movimenti, nelleassociazioni e l’impegno politico.

Temo che noi ci dovremmo attrezzare di più così. Pen-sando non che questo significhi che per un tempo dellavita le persone non si debbano dedicare a questo o adaltro, ma - soprattutto partendo dalle giovani generazioni- sarebbe molto più educativo e formativo l’accompagna-mento nei due settori della vita, ma poi ci sono anche lafamiglia, gli affetti, gli hobby, c’è tutto il resto e magarifarlo con un’attenzione particolare anche nei tempi.

Qualche volta penso che l’organizzazione dei partiti chetiene conto dei ritmi della vita normale riesce forse a tra-

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sferire anche un’idea di partito più vicina alle persone.Tra le tante differenze delle nostre storie, c’è la novità -

che rappresenta il Pd - di essere un partito plurale nelle sueculture fondative - non ideologizzato, ma anche non qua-lunquista - e con un pensiero che è frutto di un pluralismodi culture, di esperienze, di storie.

Quindi, tra le differenze dovute al pluralismo c’è ancheil modo diverso di selezionare la classe dirigente e pensoche su questo una riflessione sia il caso di farla.

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Repliche dei relatori

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Donatella Della Porta

Sullo stesso tema volevo fare una nota non da studiosama da cittadina. Se un partito pensa che la politica la fac-ciano solo i professionisti, i cittadini se ne vanno. Nel sensoche chi fa politica siamo noi – adesso parlo come cittadinanon come studioso – e il fare politica richiede varie com-petenze e tante di queste sono competenze che hanno icittadini e che sarebbe il caso di riconoscerle.

Ritorno al ruolo di studiosa, perché volevo riprenderealcuni elementi degli interventi soprattutto di Vacca, Rei-chlin, Sereni, ma che sono stati ripresi anche da altri. Qualesarebbe una possibile alternativa?

Reichlin diceva che ci vuole una democrazia più socialee una democrazia più politica.

I modelli che sono disponibili nella teoria politica, nellascienza politica, adoperano soprattutto due etichette checredo siano consonanti con quelli che Reichlin e gli altriche sono intervenuti sottolineavano.

Una è un’etichetta che è stata estremamente impor-tante. Una concezione di democrazia che è stata sicura-mente importante nel movimento operaio e che poi, apoco a poco, è stata soppiantata dalla concezione dellapolitica solo dei professionisti ed è quella della democraziapartecipativa.

Il rapporto tra attori come movimenti sociali, cittadiniche intervengono in vario modo e partiti, non è un pro-blema, secondo me, di rapporto tra leadership e movi-menti.

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È il problema di creazione di spazi dove si possano ve-rificare - come in passato per il movimento delle donne oper il movimento ecologista - degli incontri tra attivisti chesono molto spesso attivisti con appartenenze multiple,cioè che non sono attivisti di partiti che si incontrano conattivisti di movimento, ma che sono attivisti dotati di com-petenze diverse, di capacità che si intrecciano.

Un altro concetto - che non è stato frequentato in pas-sato dal movimento operaio come concetto, ma in praticaera frequentato anch’esso - è il concetto di democrazia de-liberativa.

Vale a dire è un ragionamento sulla democrazia che nondeve essere visto solo come momento di decisione –quindi, da questo punto di vista, alcune formule comequelle delle primarie non sono sufficienti – e infatti è unaconcezione che sottolinea l’importanza di costruire identitàin maniera democratica, cioè di creare sfere di incontrodove persone, individui, soggetti con diverse identità si in-contrino e, parlando, trasformino le proprie identità stesse.

Questo credo che sia un elemento che, da quello cheveniva sottolineato, sia particolarmente importante per unpartito che si percepisce come plurale e non ancora suffi-cientemente integrato.

Diceva Massari che c’è un problema di reputazione dellapolitica, che in Italia si pone in maniera particolarmentedrammatica per entrambe le caratteristiche che ci hannoportato fin qui e che hanno caratterizzato l’ultimo venten-nio: il 1992, quindi gli scandali di Tangentopoli, e Berlu-sconi.

Questo ha portato ad una perdita di reputazione nonsolo di un partito o di una parte politica, ma complessiva-mente della politica dei professionisti in particolare.

Però, al contempo, c’è anche una forte domanda – isondaggi lo dicono – di politica nel senso di capacità di chigestisce la cosa pubblica di riappropriarsi di funzioni. Il mo-

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vimento contro la privatizzazione dell’acqua, a cui parte-cipano anche amministratori ed istituzioni, ne è una prova.

Ultime due battute su altri due temi. Si è detto che se illavoro arretra vuol dire che non ci si può più affidare al la-voro. Ci sono tanti studi - non solo sull’Europa, ma anchesull’America Latina - che guardano alla ripresa di movi-menti sulle tematiche del lavoro, a partire dal precariatoma non solo.

In Brasile e in generale nel Sud America ci sono statistudi che parlano di una forte pressione per una reincor-porazione, che vuol dire per nuovo riconoscimento del va-lore del lavoro. E questo credo sia anche un temaimportante.

L’ultimo elemento su un altro tema che è stato citatospesso: il maggioritario. Senza intervenire su maggioritarioo proporzionale che nella scienza politica ci porta lontano,forse sarebbe il caso di tenere conto del fatto che il mag-gioritario è un’eccezione nel panorama europeo, dove il si-stema proporzionale è stato spesso utile a gestire conflittimolteplici.

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Oreste Massari

I vari interventi hanno rivolto l’attenzione verso una di-mensione più vasta degli stessi processi politici, dimensionecomprensiva del ruolo dell’economia, degli effetti della glo-balizzazione, dei processi economici in generale e via di-cendo. Credo che queste forze economiche siano forze dicondizionamento potentissimo sulla politica, sulle istituzioni,sui soggetti.

Sarebbe illusorio non tenere conto che nello scenario at-tuale i rapporti tra politica ed economia sono profondamentecambiati e a svantaggio della politica, rispetto a 50 anni fa.

Detto questo, però, ci sono anche dei contesti nazionali,delle strutture che possono più o meno limitare e condizio-nare questo condizionamento.

Si consideri il ruolo appunto dello Stato nella recente crisifinanziaria. Quindi la politica non è solamente alla mercéesclusiva dell’economia. Anche la politica deve dare la suavoce.

Perché se è vero che una delle vocazioni fondamentali delpartito politico e della sua nascita è quello di essere stru-mento di emancipazione, di difesa dei ceti più deboli e, co-munque, di essere un veicolo di uguaglianza sostanziale, nonsolo formale, è chiaro che in questo senso la politica, la po-litica partitica si deve rafforzare e un suo indebolimento, lovediamo dappertutto e ogni giorno, porta ad un aumentodelle disuguaglianze sociali.

Un concetto però che va riaffermato e che prima nonavevo avuto modo di indicare è che non tutti i partiti sono

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uguali o non tutti i partiti sono sottoposti agli stessi condi-zionamenti, alle stesse influenze.

I partiti si richiamano ai loro mondi di riferimento e quindici sono delle differenze tra i partiti di destra e i partiti di sini-stra, partiti progressisti, partiti riformisti, perché hanno deiriferimenti sociali completamente diversi, con esigenze e condomande diverse.

La semplificazione leaderistica in un partito di sinistra nonpuò mai passare, perché è un tipo di elettorato, di cittadini,di pubblico che vuole essere coinvolto, far parte dei ceti co-gnitivi.

È diverso il modo di stabilire un rapporto rappresentativotra partiti di sinistra – il cui riferimento è il mondo del lavoro,il mondo dei più deboli - e partiti di destra.

Queste differenze nel riferimento ai rispettivi mondi di ri-ferimento fanno poi la differenza anche sul tipo di organiz-zazione partitica. Uno dei problemi che hanno oggi i partiticollocati sul versante della sinistra – uso questa espressionein senso proprio spaziale di collocazione - è quello della rap-presentanza.

Vari interventi si sono richiamati a questo problema. Rei-chlin ha detto una frase bellissima: “Abbiamo inseguito lagovernabilità tradendo la rappresentanza”. Direi che quellaa cui abbiamo assistito in Italia in questi anni è proprio la ero-sione continua di un rapporto di rappresentanza.

Nello sforzo di collocarci, direi giustamente, al centro inmaniera innovativa, è successo probabilmente – e questonon è solo un problema italiano - che non si sono conquistatielettori di centro, o molto meno rispetto alle aspettative, e sisono persi elettori tradizionali, di ceti tradizionali, che ricor-rono all’astensione.

Molti studiosi elettorali ora ci dicono che la competizionenon è più quella classica tra destra e sinistra, perché i pas-saggi tra i due campi sono molto limitati, non solo in Italiama dappertutto, per cui riesce a vincere chi riesce a mante-

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nere il proprio elettorato intatto senza concedere la fugaverso l’astensione.

Modello di partito. Quello che non si può replicare indub-biamente - lo abbiamo detto tutti – è il partito di massa.Però, quale partito di massa? Il partito di massa che abbiamoabbandonato e che dobbiamo abbandonare è il partito bu-rocratico di massa, cioè è l’aggettivo burocratico che va eli-minato, ma non la dimensione di massa o la dimensionecollettiva.

Ciò che connotava il vecchio partito era la burocratizza-zione in termini di gerarchie, di rituali. Va tolta la burocratiz-zazione, quel congelamento burocratico ed organizzativo,però la dimensione di massa va mantenuta e in questo am-bito un partito può essere leggero come apparato, ma nonpuò essere leggero come modo di pensare, come modo diformare l’agenda politica, di affrontare i problemi.

Lo spiega bene il bel libretto di Salvatore Biasco, Per unasinistra pensante. Quindi no al partito pesante, ma sì ad unasinistra pensante.

Gli spazi per una intelaiatura collettiva ci sono anche conle nuove tecnologie. Se andiamo a vedere la caratteristicadella campagna di Obama, essa è un sapiente uso di questetecnologie attraverso il suo ruolo personale di leader e poi dimigliaia, di centinaia di migliaia di attivisti volontari che sisono mobilitati per un progetto che naturalmente li entusia-smava e che condividevano.

Concludo dicendo sì ad innovazioni organizzative, chevadano però di pari passo con quel problema di recuperodella reputazione, quanto alla capacità sia di rappresentaresia di governare. Naturalmente non ci può essere una scis-sione tra l’una e l’altra.

Non ci sono scorciatoie al duro lavoro di rappresentare,di interpretare, di capire e di proporre.

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Massimo Luciani

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Mi sembra che la discussione abbia messo sul campo unconcetto, che è quello della complessità e del rifiuto dellasemplificazione; per fortuna, sia sul terreno dei partiti che sulterreno delle istituzioni.

Sul terreno dei partiti sono emersi vari temi, almeno cin-que.

La questione del modello di partito: sono molteplici, maalmeno che ci si chieda quale modello di partito.

La questione del tipo di membership: anche qui è inutilesemplificare, perche la membership può essere molto varia.Ci possiamo entusiasmare per quelle più compatte e più or-ganiche, oppure per quelle invece più flessibili e più lontane.Però è un dato di fatto che la membership è plurale, quindibisogna prenderne atto.

Sulla formazione della dirigenza: io non credo che D’At-torre intendesse dire che la politica è riservata ai soli profes-sionisti. Sono passati quasi cento anni dalla conferenzaweberiana Politik-als Beruf, comunque la politica è anche deiprofessionisti. Su questo pure non avrei dubbi.

E poi su funzione del partito e selezione delle candidature:non dico niente perché è una questione molto aperta propriosu questo specifico partito.

Anche per quanto riguarda il terreno delle istituzionianche lì complessità.

Insomma ci siamo crocifissi sulla questione dell’alternativatra democrazia della decisione della governabilità da unaparte e decisione della rappresentanza dall’altra.

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Un’alternativa che non può stare in piedi, anche perchél’alternativa non è duplice, ma triplice; perché, semmai, ci sa-rebbero decisioni di governabilità, rappresentanza, parteci-pazione.

Quindi le cose sono ulteriormente complesse e sfidochiunque a dire che è disponibile a sacrificare tutta la deci-sione della governabilità per la rappresentanza, o che è di-sponibile a sacrificare tutta la rappresentanza per la decisionedi governabilità. Le cose debbono stare in piedi e poi è unpunto di sapiente equilibrio.

Cosa è successo nel dibattito pubblico italiano, ma anchenelle strategie di molti partiti? C’è stato un problema di de-ficit culturale e, quindi, l’intellettualità non ha aiutato e si ètentato di semplificare ciò che semplice non era, mentre in-vece – ripeto – la parola che esce dalla discussione di oggimi sembra che sia proprio questa: consapevolezza della com-plessità delle cose. No alla uni-direzionalità delle spiegazioni,no alla mono-causalità delle spiegazioni, no alla uni-direzio-nalità delle strategie.

Lo stesso vale per la complessità dei nessi eziologici. Èstato detto: “Attenzione non è il sistema elettorale checrea..”. È giustissimo, certo è verissimo.

Anzi è vero il contrario, perché non sono i sistemi elettoraliche creano i sistemi politici, ma sono i sistemi politici che sidanno un sistema elettorale che meglio si adatta a loro. Que-sto è il punto.

Basta vedere la storia italiana. È casuale che il sistema pro-porzionale ante-’93 desse una sovra-rappresentazione allaDemocrazia Cristiana grossomodo del 3% e dell’1,7-1,8 alPartito Comunista, mentre invece i socialisti erano rappresen-tati fotograficamente e i più piccoli partiti erano penalizzati?È casuale? Non credo!

È casuale che nel 1993 – va bene c’era il referendum - sisia insistito per quel maggioritario corretto, perché c’era bi-sogno di una legittimazione con candidature forti e c’era

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una quota proporzionale da salvaguardare, perché era unafase di transizione. È casuale? Non credo!

È casuale la legge del 2005? Non mi sembra. Quella iol’ho dovuta qualificare il sistema elettorale della debolezza,perché la maggioranza di allora, prevedendo di perdere,cercò un sistema elettorale che l’avrebbe fatta perdere dimeno.

E dall’altra parte non ci furono resistenze, che mi per-metto di dire avrebbero dovuto esserci, perché c’era una dif-ficoltà generale di tutti i partiti ed il sistema delle liste bloccateconsentiva una identificazione delle candidature meno con-flittuale possibile. Era casuale? Non credo!

Però i sistemi elettorali producono degli effetti di “bac-klash” sui sistemi politici. I sistemi politici si danno i loro si-stemi elettorali, però il sistema elettorale, una volta che èstato costruito, riproduce degli effetti di ritorno sul sistemapolitico ed è per questo che io ho insistito sul fatto che lamodifica del sistema elettorale è una priorità, perché adessoil sistema elettorale determina effetti nefasti sul sistema po-litico.

Che poi questa sia una cosa praticabile o meno nonspetta dirlo a chi registra una necessità; che poi alla necessitàfaccia seguito un esito positivo è tutt’altra questione.

Quindi, mi sembra abbastanza evidente che, se ragio-niamo in termini di complessità della questione e rifiu-tiamo le spiegazioni mono-causali e le strategieuni-direzionali, probabilmente arriviamo ad una conclusionepositiva.

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2° Sessione

Partiti, elettori, iscritti:l’esperienza americana e quella europea

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Apertura dei lavoriIgnazio Marino

Questa mattina abbiamo ascoltato, con l’introduzione delprof. Massimo Luciani, un approfondimento dedicato ai no-stri princìpi costituzionali, in particolare all’art. 49 della Co-stituzione.

È un concetto essenziale: al popolo, organizzato in partiti,spettano le indicazioni di politica nazionale e, di conse-guenza, il parlamento diviene il luogo dove essa si concretain leggi.

Dalle parole dei tre relatori di questa mattina – il prof.Massimo Luciani, la prof.ssa Donatella Della Porta e il prof.Oreste Massari – è anche emersa l’idea di un sentimento li-beratorio che nasce dalla partecipazione diretta dei cittadinialla vita politica di un paese.

Quindi, oggi pomeriggio – ne avevamo parlato diversimesi fa, com’è stato ricordato questa mattina dalla presi-dente Rosy Bindi – vorremmo approfondire il concetto di pri-marie come elemento distintivo del Partito Democratico. Unelemento che è sancito nello statuto del Pd.

Farò una brevissima introduzione, poi presenterò i nostriospiti stranieri.

Le primarie in Italia, rispetto agli Stati Uniti (dove fannoparte della vita politica da centinaia di anni), hanno una storiamolto più breve. In realtà, fu il Partito Democratico della Si-nistra che organizzò nel 1994 il primo esperimento - a metàtra primarie vere e proprie e sondaggi – per scegliere chi do-vesse guidare, in quel momento, il partito.

Poi, nel 1999, i Democratici di Sinistra a Bologna organiz-

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zarono delle primarie per scegliere il candidato sindaco e nel2004, quindi molti anni dopo, la Regione Toscana decise ad-dirittura di istituire le primarie per legge, come sono ancoraoggi in quella Regione.

Ma certamente nell’immaginario di tutti noi, il primoesperimento di primarie è quello del 2005 in Puglia, dove fu-rono organizzate per scegliere il candidato da opporre al pre-sidente uscente di Forza Italia, Raffaele Fitto.

Poi, il 16 ottobre 2005, le primarie dell’Unione, dove Ro-mano Prodi vinse con un ampio e netto distacco rispetto alsecondo candidato, che era Fausto Bertinotti. Prodi ebbe il74,1%, Bertinotti il 14,7%.

E poi negli anni ci sono stati vari altri esperimenti, fino aigiorni più recenti: nel 2006, nel 2008, nel 2009, nel 2010,nel 2011 primarie per diverse competizioni amministrative;nel 2007 e nel 2009, primarie per l’elezione del segretariodel Partito Democratico. È un elenco di processi, in sostanza,molto diversi tra loro. In alcuni casi si è voluto ratificare conun voto popolare una decisione già presa e in altri, invece, èstato un vero confronto di programmi, di proposte, di per-sonalità diverse.

Penso che l’aspetto positivo delle primarie sia l’idea dicontendibilità, rimarcata anche da alcuni nel dibattito di que-sta mattina: un sistema non contendibile, e anche un partitonon contendibile, allontana le persone invece di attrarle.

È chiaro che in un’esperienza così recente per il nostropaese e per il nostro partito, le riflessioni sono importanti,per capire quali devono essere i percorsi per regolamentarein maniera migliore questo processo. Le domande sonomolte. Io ne faccio alcune: chi sono, ad esempio, gli elettoriche debbono o possono partecipare?

Anche in sistemi così sperimentati come gli Stati Uniti esi-stono differenze fra Stati e Stati. C’è la possibilità di parteci-pazione aperta a tutti e credo – ma i nostri ospiti del NordAmerica su questo potranno fare dei commenti più precisi –

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che questo possa favorire, ad esempio, delle candidatureesterne al partito, candidature indipendenti. Oppure ci sonole primarie solo per gli iscritti al partito; o ancora primariedove partecipano iscritti ad una lista di elettori che non in-clude però soltanto coloro che aderiscono al partito. Questoha anche un altro grande vantaggio che io, come elettorealle primarie negli Stati Uniti, ho sperimentato personal-mente: quello di costruire un database degli elettori, che di-venta strumento per continuare a coinvolgerli anche quandonon ci sono appuntamenti elettorali.

Ad esempio, avendo la doppia cittadinanza e vivendo inItalia, faccio parte di un’organizzazione, la DemocratsAbroad, che a scadenze regolari riunisce tutti gli iscritti diRoma per discutere i progetti di Barack Obama; una dimo-strazione di come in una società molto improntata sulla tec-nologia, sul web e i social network, alla fine, il contattodiretto è l’elemento che motiva le persone alla partecipa-zione. Nella nostra esperienza un database non lo abbiamo,oppure se esiste non è stato certamente utilizzato in questomodo.

Un’altra serie di domande sul quorum. Nel caso in cui visiano molti candidati, è importante avere una soglia di rap-presentatività da raggiungere? Cinque candidati per 2.500elettori: uno vince perché ha il 20% dei voti, ma evidente-mente ha anche una rappresentatività molto limitata. E nelcaso di una soglia inferiore al 51% è importante che vi sia unballottaggio, oppure no?

Infine, le primarie sono utili solo, ad esempio, per le cari-che monocratiche oppure sono anche importanti per eleg-gere un segretario di partito a livello nazionale o regionale?

Questi sono alcuni dei quesiti che vorremmo cercare diutilizzare per la nostra riflessione dedicata a partiti, elettori eiscritti, oltre all’esperienza americana ed europea.

Voglio ringraziare i nostri ospiti stranieri: Stephen Anso-labehere e Daniel Ziblatt, entrambi Professor of Government

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all’Harvard University. Stephen Ansolabehere ha iniziato lasua carriera accademica all’University of California a Los An-geles, poi ha insegnato in un altro prestigiosissimo istituto, ilMassachusetts Institute of Technology (MIT) e adesso è pro-fessore ad Harvard ed è, in particolare, studioso delle cam-pagne di finanziamento dei partiti e delle primarie negli StatiUniti.

Daniel Ziblatt insegna al Centro Studi Europei di Harvarded è studioso di sistemi politici europei.

Abbiamo anche il piacere di ospitare Yves Mény, che èstato per moltissimi anni professore di scienze politiche inuna delle più grandi istituzioni europee - l’Institute d’étudespolitiques di Parigi - per otto anni presidente dell’EuropeanUniversity Institute e componente dell’Editorial Board di mol-tissime riviste di scienze politiche, come l’European PoliticalScience, autore di oltre 30 libri e esperto di public policy e dipolitica comparata.

Infine, Franck Decker che, a partire dal 1989, ha avuto di-versi incarichi di ricerca presso l’Istituto di scienze politichedell’Università di Amburgo e che, dal 2001, è professore diScienze politiche presso l’Università di Bonn. Non ce la faccioa non ricordare che aveva 35 anni quando è diventato pro-fessore ordinario a Bonn e che la percentuale di professoriordinari della stessa età nel nostro paese è pari allo 0,05%.È studioso di sistemi di governo, di partiti politici e sta peressere pubblicato un suo libro sui sistemi partitici.

Infine, a metà tra il blocco nordamericano e il blocco eu-ropeo, avremo un video di otto minuti, a cura di Paolo Gua-rino, che è docente universitario e consulente politico. Lo harealizzato durante il primo mese delle primarie per le presi-denziali di Barack Obama, a gennaio 2008.

Darei per primo la parola a Daniel Ziblatt che proietteràdelle diapositive in power point e illustrerà la sua visione suquesti temi, soprattutto concentrandosi sulle primarie.

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Relazioni introduttive

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Daniel ZiblattProfessor of Government, Harvard University

Grazie per l’invito. Sono arrivato questa mattina da Bo-ston ed è veramente entusiasmante per me essere qui. Ioe il mio collega vi parleremo dell’esperienza americana evi illustrerò le questioni principali. Quello che vorrei fareè iniziare a rispondere e ad esporre le questioni che Ignazioha posto, ma con un respiro più ampio. In sostanza sitratta di un messaggio estremamente semplice ma con unemendamento più complesso. Negli Stati Uniti le primariepossono presentare un’incredibile opportunità per creareo rafforzare i partiti politici. Non voglio fare promesse av-ventate poiché esistono difficoltà e complicate problema-tiche che accompagnano le primarie di qualsiasi partitopolitico. Per cui fatemi prima esporre le opportunità. Iniziocol darvi un esempio positivo per cui le primarie sono im-portanti. Quello che è stato scritto dal punto di vista let-terario, politico e scientifico, e le esperienze di primarie inaltri paesi, dimostrano che le primarie possono essere unutile metodo per limitare il conflitto tra opposte fazioni.Come? In un certo senso questo potrebbe sembrare con-tro- intuitivo, ma vi è una valida ragione perché su questosi possa ragionare.

Elezioni primarie ben pubblicizzate oltre al fatto checoinvolgono la diretta partecipazione dei membri del par-tito, non offrono molta opportunità ai gruppi perdenti didisputare la legittimità del processo di nomina, per cui, inun certo senso le primarie assicurano la legittimità del can-didato che emerge da questo processo di candidatura. I

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membri votano per il candidato dandogli quindi legitti-mità. Fatemi fare due esempi dell’esperienza americana.Nel 1948 il Partito Democratico era spaccato in due, pra-ticamente tra il nord e il sud. Il Presidente Harry Trumanaveva abolito la segregazione nelle forze armate americanee questo causò una rivolta alla convenzione del partito daparte di Stromm Thurman, democratico del sud che si erapresentato con un Ticket “Dixiecrat” separato dalla parteprincipale del partito. Si può argomentare che se il si-stema di primarie fosse esistito negli Stati Uniti nel 1948questo potrebbe essere stato evitato. Analogamente nel1968 Hubert Humphrey Vice Presidente, con Lyndon Joh-nson Presidente, identificati con la guerra in Vietnam, ot-tennero la nomina alla convenzione e questo causòfuriose proteste e incredibili disordini all’esterno. Dinuovo si può dire che questo fosse un fallimento, una de-bolezza del sistema delle primarie e infatti fu l’inizio di unaserie di riforme per rafforzare il sistema delle primarie dal1968.

Il punto qui è che le primarie possono dare maggiorelegittimità alla selezione dei candidati e minore spazio allafazioni. Quindi questo è il primo punto positivo. Il secondopunto positivo è che le primarie possono far emergerenuovi tipi di candidati. In contrasto con un sistema in cuii leader dei partiti possono selezionare candidati in base aqualsiasi criterio, è molto discusso nella scienza politica ecredo che ci si possa basare anche sull‘esperienza di altripaesi, ma si può affermare che le primarie portano sullascena candidati più popolari che possono connettere congli elettori in vari modi. Pensiamo all’esperienza di BarackObama per esempio: se il sistema americano delle primarienon fosse esistito, sarebbe stato quasi impossibile, direiassolutamente impossibile, che venisse scelto come il can-didato del Partito Democratico. Studiosi latino-americanihanno anch’essi argomentato che da analisi sistematiche

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emerge che le primarie danno ai candidati e agli elettoriun “bonus primarie” e che i candidati selezionati tramiteprimarie ricevono una spinta aggiuntiva nelle classifichedi elezioni parlamentari. Il terzo punto che vorrei fare afavore delle primarie è che queste galvanizzano gli elettori.Esiste un timore negli Stati Uniti che il processo delle pri-marie del Partito Democratico dura troppo a lungo, spe-cialmente se paragonato a quello del Partito Repubblicano,ma si può anche dire che questo lungo processo rende glielettori più partecipi ed aumenta il livello di identificazionedell’elettore con il partito, incrementando la partecipazioneelettorale. Queste sono ipotesi che possono essere fatte.Nel caso dell’Italia e del PD, una grande coalizione di partiticomposto da numerosi gruppi, si può immaginare che visiano elettori marginalizzati e da quello che ho ascoltatooggi un crescente numero di elettori che non si identificain nessun partito. Avere la possibilità di partecipare in unprocesso di primarie potrebbe indurre un maggior sensodi identificazione con il partito. Questi sono argomenti afavore delle primarie. Ma non è una cura automatica. Esi-stono problematiche e domande che dobbiamo porci.Sulla base dell’esperienza americana e di quella di altre na-zioni vi sono una serie di quesiti che si pongono. Questa èuna lista di paesi che hanno introdotto il sistema delle pri-marie. Quello che è interessante è che questi paesi hannoun sistema elettorale proporzionale, che è un aspetto delsistema elettorale italiano e ovviamente diverso da quelloamericano. Per cui in Spagna, per esempio, molti di voi sa-pranno che le primarie furono introdotte alla fine deglianni 90 per le elezioni degli esecutivi, ovvero Primi Ministri,Governatori di regioni, Sindaci. Il sistema fu poi abbando-nato. In Israele il sistema di primarie fu introdotto agli inizidegli anni 90 dai partiti Likud e Labour e in questo paeseè il sistema che elegge tutti i candidati al Parlamento.Nell’America Latina negli ultimi 20 anni, il 40% dei candi-

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dati presidenziali sono stati selezionati tramite il sistemadelle primarie. Quindi abbiamo un gran numero di paesi,inclusi quelli latino-americani. Che cosa ci insegnano que-ste esperienze? Ci pongono tre diverse questioni, tra cuiquelle importanti sollevate da Ignazio. La prima: chi do-vrebbe essere selezionato tramite il sistema di primarie?Negli Stati Uniti la maggior parte dei funzionari pubblici èeletto tramite le primarie. In Israele e in Spagna è evidenteche per il sistema proporzionale è più complicato. In Spa-gna i dirigenti sono eletti tramite primarie o nel periodobreve. In Israele un vasto numero di politici. Quindi chidovrebbe essere selezionato tramite le primarie? In Ame-rica Latina solo i presidenti sono selezionati tramite le pri-marie. Quindi in un certo senso abbiamo due diverseopzioni. Dirigenti o legislatori in senso generale. Per quantoriguarda i dirigenti in misura più modesta. Il secondopunto è come le primarie si possono accompagnare al si-stema proporzionale. Venendo dagli Stati Uniti questa perme è una domanda difficile, poiché in molti modi intro-durre primarie in un sistema in cui hai un singolo candi-dato in un sistema elettorale maggioritario distrettuale ècosa molto più semplice. Quindi come si crea una lista dipartito con un sistema di primarie? Di nuovo si puo’ argo-mentare che una soluzione è focalizzarsi sui dirigenti, ov-vero avere primarie per i dirigenti per le principali cariche,primi ministri, governatori, sindaci. La terza questione è chidovrebbe votare. È chiaro che in un sistema senza primarieè il leader politico che decide. Dovrebbero forse essere imembri del partito? Che cosa questo significherebbe se gliiscritti al partito sono in diminuzione? Negli Stati Uniti imembri di partito non sono in realtà una categoria poichéabbiamo elettori registrati, ma questo forse non si può ap-plicare all’Italia. Un categoria più inclusiva sono le primarieaperte che sono state sperimentate negli Stati Uniti e chesignifica che persone di qualsiasi partito possono votare

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nelle primarie. Quindi è chiaro che abbiamo una serie diopzioni e non è automaticamente chiaro quale sia la mi-gliore. Voglio indicarvi altri rischi, in essenza l’altra partedella medaglia delle argomentazioni che vi ho appena il-lustrato. Vi sono molti che criticano le primarie e che di-cono che in effetti questo sistema non risolve il problemadelle fazioni, ma che in verità lo esacerba. Questo è parti-colarmente rilevante in un sistema proporzionale dovel’opzione di lasciare e formare il proprio partito è forte. InIsraele questo è stato un problema. Vi sono molti critici delsistema in Israele. Una risposta potrebbe essere che il si-stema elettorale in Italia con i suoi problemi e in un certosenso con sbarramenti potrebbe in effetti incoraggiare, daquello che io capisco del sistema elettorale, un certo gradodi maggioritario. Quindi, in un certo senso, il fatto cheavete questo consolidarsi di partiti nella sinistra e nella de-stra, suggerisce il fatto che ci siano incentivi a tenere lecose insieme e le primarie non offrirebbero questa possi-bilità. La seconda critica potenziale è che dal sistema po-trebbe emergere un Barack Obama ma anche una SarahPalin, un candidato populista che emerge orizzontalmentein politica, questa è una possibilità e quindi un rischio.Non ho risposte ma dovremmo riflettere su questi rischi.Una terza questione è in risposta alla domanda se questosistema può aumentare l’identificazione degli elettori.Un’argomentazione che viene spesso esternata nei mediaamericani è che le primarie possono essere la causa di stan-chezza degli elettori. Forse nel breve tempo le persone vo-tano nelle primarie in maggior numero, ma nel lungotempo gli elettori forse diventano stanchi e perdono inte-resse. Ci sono troppo elezioni e non vanno più a votare,quindi il sistema avrebbe un effetto deleterio. Steve ci diràche questo è più mito che realtà nel contesto americano,ma comunque è un’argomentazione che esiste. Quindi inbreve direi che abbiamo un insieme di evidenze. Il punto

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finale con cui vorrei concludere è che vi sono una serie diincertezze.

Abbiamo formulato domande e non provveduto a darerisposte e in un certo senso la ragione per cui ho fatto que-sto, un trapianto di pratiche e organizzazioni da un con-testo all’altro, involve un alto grado di incertezza politica.Questo è un modo strategico di costruire un partito piut-tosto che un modo organico, come è accaduto negli StatiUniti. Quindi in un contesto di costruzione strategica di unpartito si è coscienti delle conseguenze e si cerca di esserecoscienti di effetti imprevisti di varie azioni e che vi è unalto grado di incertezza. Quindi cosa facciamo di questo,cosa facciamo con l’incertezza? Io direi che piuttosto di es-sere sconfitti dall’incertezza una cosa da fare è di iniziaremodestamente e di cominciare a sperimentare con le pri-marie come avete cominciato a fare in Italia, in Toscana ein altri posti. Di farlo in maniera sistematica e cercare disperimentare con primarie come per esempio in elezioni diprofilo meno alto, come quelle di sindaci, non di portatanazionale ma, di farlo in modo sistematico per cominciarea studiare quali conseguenze potrebbero avere questo tipodi riforme. Questa è la proposta che vi faccio.

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Stephen Ansolabehere Professor of Government, Harvard University

Sono molto contento di essere qui poiché quando io eDaniel abbiamo lasciato Boston la scorsa notte che comin-ciava a nevicare. Apprezziamo molto questo bel tempo.

Prima di tutto vi mostro il titolo del mio intervento e il mioindirizzo email che potrete annotare se avete domande dafare. Lo mostrerò anche alla fine dell’intervento. Sono sem-pre pronto a discutere molti dei dettagli che non commen-terò, ma lo scopo di questa presentazione è di esporre idettagli del sistema delle elezioni primarie.

Penso sia giusto considerarlo un sistema piuttosto cheun’idea solitaria per fare un’elezione, poiché le primarie sisono sviluppate durante un lungo periodo di storia, in ec-cesso di oltre 200 anni, e in alcuni casi risalgono a prima dellaCostituzione Americana. Quell’evoluzione fu la causa di duegrandi coincidenze, che voglio enfatizzare: la prima è che leprimarie di oggi derivano da una storia molto lunga e si sonoevolute sulla base di passate pratiche in risposta a specificiproblemi e crisi nella storia degli Stati Uniti – e ne parlerò nelcorso del mio intervento. La risoluzione di questi probleminon fu necessariamente il risultato di un approccio inge-gneristico, meccanico o economico. In ultima analisi fu unasoluzione politica e questo è probabilmente il modo in cuidovrete pensare. In secondo luogo esistono molte variazioni,di quello che chiamiamo un’elezione con primarie e in alcunicasi non potrebbero nemmeno essere considerate elezioniprimarie. A grandi linee consideriamo elezioni primarie un si-stema di nomina di candidati che hanno una base popolare.

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L’ influenza popolare può essere diretta, come quando votiper un candidato, o indiretta quando voti per un delegatoche a sua volta sceglierà un candidato e vi sono molti modellinegli Stati Uniti a cui potete ispirarvi. Il mio compito è di darviun senso di quei modelli e come si possono adattare a sistemidiversi. Per iniziare questa evoluzione, la prima di quattro im-portanti procedure che possono essere designate come pri-marie negli Stati Uniti è quella che era chiamata il caucuslegislativo o il caucus del congresso.

Cominciarono nel 1801 a seguito della controversa ele-zione di Thomas Jefferson. Non pensiamo di Jefferson comeun presidente controverso ma egli fu eletto dalla Camera deiRappresentanti dopo 125 ballottaggi e fu una specie di sfidatra Jefferson, Adams e Heron Burn e Burn si accordò per di-ventare il Vice Presidente di Jefferson.

La soluzione fu di non permettere, ai partiti, di far emer-gere i candidati, ma di esercitare il controllo del Congressosu chi sarebbe stato il candidato con l’etichetta del partito.A quel tempo i partiti non erano come i partiti di oggi e nonsarebbero stati chiamati partiti, ma tra il 1801 e 1824 i partitinominavano i candidati in maggior parte per le elezioni pre-sidenziali e per il vice presidente.

Il secondo modello che abbiamo è quello chiamato laConvenzione che avrete probabilmente visto in molte scenein televisione, ma noi abbiamo tenuto Convenzioni, per no-minare esecutivi degli Stati Uniti, almeno dal 1760 nello Statodel Massachusetts.

Dal 1820 al 1920 la Convenzione era il metodo per no-minare i candidati degli Stati Uniti e consisteva di leader deipartiti a livello locale e nazionale selezionati tramite alcunimeccanismi e spesso all’epoca tramite delegati nominatidalle autorità locali o dallo Stato. Anche il metodo della Con-venzione emerge da una crisi, ovvero l’elezione di AndrewJackson che di nuovo non fu possibile eleggere tramite il votopopolare ma fu eletto dalla Camera dei Rappresentanti e di

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nuovo questo fu un tentativo di chiarire chi è il candidatocon l’etichetta del partito e che tipi di accordi possono esserefatti. A quel tempo le persone si presentavano come titolaridell‘etichetta del partito e nella storia degli Stati Uniti finoagli anni ‘60 i politici si candidavano senza l’etichetta del par-tito. Per esempio il nome di John Kennedy non era sulleschede dell’Alabama nel 1960, un’altra persona era sulla listacome il delegato democratico. La convenzione è ancora inuso oggi, è molto importante e ha funzioni differenti in varicontesti locali, lo stato di Utah, per esempio, la usa per sele-zionare i candidati. Se sei alla Convenzione e non prendi ab-bastanza voti non sei sulla scheda e questo è quello chesuccesse al Senatore Robert Hurd che fu sconfitto da un can-didato non ufficiale, finì terzo nella votazione e non fu sele-zionato per la rielezione. I partiti scrivono anche i manifesti,le politiche, le posizioni che vengono usate per la campagnaelettorale dei partiti e determinano le regole del partito. Unpezzo della storia del 1948 che Daniel non vi ha menzionatoè che un giovane sindaco di Minneapolis, Hubert Humphrey,introdusse il piano per l’integrazione, o meglio per de-segre-gare i servizi pubblici negli Stati Uniti e questo fu quello chefece precipitare la situazione con Stromm Thurnam e gli altridemocratici del sud inducendoli a lasciare. Più importante èche le primarie sono ancora una soluzione di sicurezza chepermette di risolvere problemi. È possibile trovare soluzionia problemi nei grandi incontri. Tutto questo è evidente. Nel2008, alla Convenzione democratica, Barack Obama fu no-minato e dalla foto si possono vedere piccole bandiere blusul davanti. Queste rappresentano i diversi Stati e votanocome stati alla Convenzione. Quindi se Hilary Clinton e Ba-rack Obama non avessero avuto la maggioranza dei voti que-gli Stati avrebbero iniziato a prendere accordi tra di loro percercare di scegliere il candidato presidenziale per il PartitoDemocratico (o per quello Repubblicano). È utile notare chela stagione delle elezioni primarie del 2008 fu molto ritardata

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per gli americani e divenne quasi una Convenzione divisa.Obama batté Hilary Clinton per meno dell’1 % dei voti e pocopiù di 1% dei delegati alla Convenzione. Fu un risultato diquasi parità. Il terzo modello sono le primarie indirette equelle che a volte vengono chiamati caucuses per distinguerlidai caucuses legislativi. Queste sono riunioni locali per no-minare delegati alle Convenzioni. Furono introdotti su largascala nella seconda parte del diciannovesimo secolo e sonoancora in frequente uso. Il caucus dell’ Iowa nomina solocandidati, quello del Minnesota da il suo appoggio a candi-dati per le primarie dirette e il Texas è l’esempio di uno statoin cui metà dei candidati alla Convenzione nazionale sonodesignati tramite caususes e metà con dirette primarie. I cau-cases sono altamente deliberativi. Quello che succede è chehanno luogo in una stanza come questa e tutti coloro chesono qualificati a votare per la loro area di appartenenza puòpartecipare, incontrare e discutere. Sono stato in molti cau-cases in Minnesota e Iowa e letteralmente quello che cer-chiamo di fare è di entrare nella stanza e poi qualcuno dice“chi è per Hilary Clinton vada a quella porta, quelli per BarackObama vadano all’altra porta” e le persone si dividono . Poicontano i loro rispettivi voti ed eleggono chi vogliono qualeloro rappresentante. Il piccolo gruppo sceglie in modo or-ganico e il designato si reca in un'altra stanza. Poi tutti si in-contrano e il sistema procede in questa maniera. Quindi cisono locali caucuses che eleggono delegati per i caucusesdelle contee, per i caucuses degli stati e per la convenzione.Il processo finale che emerge all’inizio del ventesimo secolosono le primarie dirette. È questo quello di cui noi abbiamomaggiormente parlato, le persone votano direttamente perun candidato e queste sono le primarie moderne. Negli StatiUniti abbiamo usato le primarie per quasi tutti gli incarichidagli anni 20, per elezioni di sindaci, consigli comunali, co-mitati scolastici, incarichi di stato, governatori, legislatori distato, Congresso, ecc. e durante quel periodo alcuni Stati

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cominciarono ad usare le primarie per scegliere delegati perle convenzioni presidenziali. Negli anni 60, come menzionatoda Daniel, le primarie dirette diventano un meccanismo perla scelta del candidato presidenziale. E se sei un elettore que-sto nella foto è quello di cui consistono le primarie: unascheda elettorale con molte riquadri e tu scegli con l’aiuto diuna penna riempiendo un tondino per ogni nomina. Quelloche vi mostro è Cider County nel Nebraska. Ogni città, ognicontea, ha la sua lista di nomine. Vi sono urne per il Senato,per i rappresentati del circuito congressuale, per il Governa-tore, per il Segretario di Stato, giù fino al cancelliere e al can-celliere del distretto ecc. Le liste possono essere molto lunghee come potete vedere si eleggono molti funzionari pubbliciin questa maniera. Quindi il sistema delle primarie degli StatiUniti consiste in quattro diversi metodi per governare il par-tito, è in realtà per la governance del partito e tutti i metodisono ancora in uso oggi. Sebbene non usiamo più i caucuseslegislativi per scegliere il candidato presidenziale, essi sonoancora rilevanti perché questi inviano automaticamente rap-presentanti alla Convenzione dello Stato. Non usiamo più leConvenzioni quali mezzo per la scelta di delegati alle con-venzioni di stato per le Convenzioni nazionali, noi ora usiamole primarie in caucuses per questo, ma le Convenzioni delloStato sono di vitale importanza per scrivere l’agenda ed inol-tre le Convenzioni decidono le regole del partito. Determi-nano come il partito si governerà. Un fatto moltoimportante. Le primarie degli Stati Uniti non hanno una sto-ria semplice. Vi sono un gran numero di dettagli e regole chei partiti hanno determinato nel tempo e, per usare un’espressione americana “il diavolo è nel dettaglio “. Sono si-curo che ci sarà una versione latina di questo detto.

Vi mostrerò due esempi. Il primo è quello delle primariecome sistema politico aperto, un partito aperto. La foto vimostra il Wisconsin in 1903. Il Senatore Robert Lathollett checombatte la corruzione politica, la macchina dell’establi-

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shment e vince le elezioni a Governatore e convince lo Statodel Wisconsin, con l’etichetta del progressista, di creare leprimarie per ottenere un sistema di partito aperto e questodiviene un modello per molti Stati, specialmente nel Far Weste nel Mid West. L’altra immagine che vi mostro è il sud dell’America dove le primarie erano usate per limitare il suffragio,restringere la competizione e essenzialmente ottenere cheuna piccola minorità controlli le politiche dello Stato per ge-nerazioni. Tra gli anni dal 1890 al 1920 molti Stati del sudadottarono quello che venivano chiamate le primarie bian-che, ovvero solo ai bianchi era permesso di votare alle pri-marie democratiche con il risultato che i neri erano esclusidalla politica perché i democratici erano anche il partito dimaggioranza. Il Texas adottò una legge nel 1923 per forma-lizzare questo e la Corte Suprema abrogò quella legge nel1944 in un famoso caso chiamato Smith contro Alwright evi è una piccola lezione per altri paesi: l’abuso delle regoleper le primarie, che sono regole interne del partito, può cau-sare l’interferenza delle corti nel regolamento del sistemaelettorale. Il caso Smith contro Alwright è stato ripetuta-mente invocato dalla Corte Suprema come il caso che dà allecorti federali il potere di regolare il governo dei partiti perqualsiasi questione, quindi questo ha permesso alle corti fe-derali di regolare i partiti. Un grande cambio nella legge elet-torale e a cui si deve prestare molta attenzione ed esserevigilanti.

Negli Stati Uniti tutte queste regole dettagliate che homenzionato sono oggetto di continui negoziati tra i dirigentidei partiti. Ogni anno si negozia per determinare le regole:chi è qualificato, come possono essere messi in lista, chi puòvotare nel sistema, come vengono scelti i delegati, ecc. Visono molte regole per il governo del partito e quasi tuttesono decise all’interno dello stesso, quasi tutte vengono ne-goziate alle Convenzioni. I Comitati Regolatori del ComitatoNazionale del Partito Democratico e del Comitato Nazionale

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del Partito Repubblicano sono molto potenti e durante il pe-riodo che va dagli anni 70 agli anni 80 i problemi sulla de-terminazione delle regole indussero i democratici a stabilireuna serie di commissioni per discutere come le regole dove-vano essere governate. La determinazione delle regole è unagrande questione per ogni tipo di sistema elettorale come leprimarie. Alcune di queste regole, come quelle che riguar-dano la raccolta di fondi in primarie dello Stato, sono deter-minate dai legislatori dello Stato negli Stati Uniti, vi saràquindi un analogo del governo regionale che determina inquali date tenere le primarie e le regole determinano chi hail potere all’interno del Partito Democratico e del Partito Re-pubblicano. Brevemente, le regole determinano quali incari-chi devono essere assegnati o quale delegato deve essereinviato a una Convenzione, chi può partecipare, chi può es-sere candidato, quanto viene discusso o deliberato, se vienetenuto un caucus o primarie, come sono finanziate le cam-pagne elettorali, chi organizza le primarie, se un burocratelocale o un funzionario del partito, quando si tengono le pri-marie e infine chi vincerà, ovvero qual è la regola che traduceil mio voto in un vincitore nelle primarie. Penso che la que-stione più grande che Daniel ha sollevato è come questo si-stema può essere adattato al sistema proporzionale italiano.Il sistema delle primarie è parte di un più grande sistema elet-torale che deve essere adattato a quel sistema. La ragioneper cui il sistema statunitense appare come appare è perchénoi abbiamo un sistema federale dove gli Stati sono moltopotenti, la politica è abbastanza localizzata in termini ammi-nistrativi e usiamo la regola della pluralità negli Stati e nei di-stretti congressuali nel determinare chi ottiene qualedelegato. Le città hanno primarie in cui il vincitore si prendetutto, elezioni di sindaci, consigli comunali ecc. oppure unballottaggio cioè i due con più voti nella lista si affronterannofino ad ottenere una maggioranza. Anche gli Stati e il con-gresso operano nella stessa maniera e con ballottaggi usati

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in alcune aree. Il sistema presidenziale è diverso. Gli elettoriin elezioni locali e per il congresso votano per i candidati,quasi sempre nel sistema presidenziale delle primarie si votaper i delegati. Questo potrebbe essere un modello interes-sante da considerare perché il processo è che il delegato delloStato che ti rappresenta alla Convenzione lascia alla Conven-zione occuparsi di tutti i dettagli, i delegati negli USA sonoimpegnati solo per la prima votazione, quindi se nessunovince alla prima votazione si procede alla costruzione di unacoalizione e le primarie scelgono parzialmente tra caucus eprimarie, con il vincitore che prende tutto per i distretti con-gressionali per i repubblicani, mentre i democratici usanodal 1988, interessante, il sistema proporzionale. Questa èl’unica elezione a livello nazionale negli USA che usa il si-stema proporzionale.

Quindi è un modello interessante: come si potrebbe tra-durre il sistema dato che i democratici usano il sistema pro-porzionale nel decidere i delegati alla Convenzione? Infine viè una sequenza da seguire, approssimativamente da gennaioa giugno. Un lungo periodo e se si pensa al calendario elet-torale in Italia è una domanda interessante come il calendarioelettorale statunitense potrebbe essere tradotto nel calenda-rio italiano. Se si devono fare delle primarie dopo che le ele-zioni sono state annunciate ci sarebbe troppo caos. Comesi potrebbero inserire le primarie nel calendario?

L’altra grande questione, penso, è chi può partecipare.Chi è nel partito? Come si definisce chi è nel PD? Negli USAè su basi volontarie. Tu ti identifichi, sottoscrivi e ti registri pervotare. Metà degli Stati negli USA hanno registrazioni di par-titi come quelli con primarie chiuse, metà non hanno regi-strazioni. Tu ti identifichi e firmi. Se vuoi votare nelle elezionidemocratiche ti presenti e chiedi di avere la scheda demo-cratica. Se vuoi votare nelle elezioni repubblicane ti presentie chiedi di avere la scheda repubblicana e questo è tuttoquello che serve. Oppure sei in un sistema aperto e voti come

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ti pare perché ti viene data una lista di candidati. Quindi chipuò votare nelle primarie chiuse e chi in quelle aperte? Se seiregistrato con il partito puoi solo votare per quel partito inun sistema chiuso, mentre in un partito aperto chiedi unascheda. E poi c’è un terzo metodo chiamato primarie giun-gla. Le primarie giungla danno agli elettori una lista di tuttii candidati per ambedue i partiti e puoi scegliere chi vuoi e iprimi due che ottengono più voti sono designati. Tu puoiavere due repubblicani o due democratici o un repubblicanoe un democratico, un candidato Green o uno costituzionale,qualsiasi cosa. Quindi questa è un’alternativa con una lungatradizione alle spalle. È stata usata a lungo nello Stato diWashington. Vorrei aggiungere un semplice punto su a chiè data la possibilità di candidarsi, il fatto che vi sono elezioniprimarie dà ad alcuni gruppi molto più potere politico. Ladestra religiosa negli Stati Uniti rappresenta il 30 % dell’elet-torato, e sono la maggioranza del partito repubblicano,quindi qualsiasi candidato che vinca la nomina repubblicanadeve tener conto nella sua campagna della destra religiosa.Non hanno scelta poiché sono la maggioranza del partito. Isindacati sono il 10% della forza lavoro degli Stati Uniti, sonocirca un terzo degli elettori democratici e sono i maggiori fi-nanziatori delle campagne democratiche. Qualsiasi candi-dato che vuole essere nominato per i democratici deve essereappoggiato dai sindacati e questo solidifica il potere dei sin-dacati e il potere della destra religiosa negli Stati Uniti.

Credo che vi sia un grande valore, come ha accennatoIgnazio, nelle primarie che va oltre le stesse e questo è lo svi-luppo dell’informazione tecnologica e l’abilità del partito dicontattare e identificare i propri elettori. E questa è la rivolu-zione che sta accadendo negli Stati Uniti adesso, cioè che ipartiti stanno usando informazioni e la tecnologia della socialnetwork per definire come contattare il pubblico. Un esem-pio è la compagnia chiamata Catalyst che i democraticiusano. È una società di management. Hanno preso tutte le

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liste degli elettori e le hanno abbinate a tutti i dati consuma-tori degli Stati Uniti: abbonamenti a pubblicazioni, livelli dientrate, servizi telefonici, indirizzo e quant’altro sono messiinsieme se hai votato per le primarie democratiche alle ul-time elezioni. Queste sono informazioni di incredibile utilità.Un'altra cosa che i democratici hanno stabilito sono i gruppidi analisti che fanno esclusivamente ricerche di mercato peri democratici ogni singolo giorno. Usano le liste elettoralicome loro punto di partenza e fanno continue ricerche percapire quale messaggio vende. Queste sono enormi innova-zioni e stanno completamente cambiando il panorama po-litico. Un punto interessante è che i democratici sono semprestati il partito disorganizzato, ma ora hanno superato i re-pubblicani di almeno cinque anni. Questi metodi hanno datoai democratici un enorme vantaggio alle ultime elezioni.

Possibili modelli per il PD. Il primo credo sia il modello lo-cale, cioè tenere primarie locali. Avete già sperimentato que-sto modello, potete espandere su questo ed estendere leprimarie. Il secondo modello è quello della Convenzione na-zionale che sarebbe eleggere i delegati tramite un sistemadi primarie proporzionali. Si può fare o tramite una coali-zione di partiti o solo tramite il PD, e poi lasciare alla Con-venzione stabilire la nomina per il leader del partito o dellacoalizione e la determinazione della lista proporzionale. E ilterzo è il modello di primarie nazionali ovvero singole prima-rie nazionali o una serie di primarie regionali che scelgono illeader del partito o della coalizione.

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Ignazio Marino

Prima di proiettare il breve video che avevo annunciatoprima, volevo fare qualche considerazione, partendo daldetto americano ‘il diavolo si nasconde nei dettagli’.

Mi ha molto colpito il fatto che nell’esperienza ameri-cana le regole per le primarie siano anche soggette all’in-tervento, se c’è conflittualità, della magistratura. Questo èun aspetto che sicuramente va considerato. Poi mi è ve-nuto in mente, guardando le diapositive di Stephen, unpassaggio del discorso di Pierluigi Bersani in Direzione Na-zionale, dedicato ai referendum. È chiaro che non è il temadi oggi, però sul retro di una scheda elettorale negli USAspesso si chiede all’elettore di pronunciarsi su quesiti con-creti come l’ampliamento dell’autostrada Philadelphia-New York, perché è un progetto da finanziare con lafiscalità e, quindi, il contribuente viene chiamato a parte-cipare alla decisione. Sono strumenti di democrazia allar-gata e partecipata interessanti in un altro momentopotrebbero essere oggetto di riflessione.

Infine, due riflessioni su meccanismi che vanno da unestremo all’altro. Da un lato, abbiamo il ‘delegate commit-ted’ solo per il primo ballottaggio, per cui il delegato hal’impegno col suo elettore sulla figura da eleggere solo allaprima votazione. Dalla seconda votazione ha le “mani li-bere”. Dall’altro lato, c’è il ‘jungle primary’, un modello chenel nostro paese certamente sappiamo come finirebbe. Setutti possono votare per tutti, chiunque può tentare di at-trarre in maniera libera i propri elettori.

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Davvero importante mi è parsa poi la possibilità di uti-lizzare i database degli elettori di un partito e quelli com-merciali, perché sono disponibili e non è illegale utilizzarli.Così si può sapere chi tra i sostenitori di una forza politicalegge il New York Times, chi compra in un supermercatopiuttosto che in un altro, uno strumento straordinario perun partito.

Fatte queste considerazioni, se possibile proietterei ilvideo – dura solo otto minuti – un documentario realizzatoda Paolo Guarino sul primo mese delle primarie di BarackObama.

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Yves MényProfessore di scienza della politica,Istituto universitario europeo di Firenze

Vorrei prima di tutto ringraziare Ignazio Marino e SandroGozi che mi hanno invitato a questo seminario.

Ho cambiato un po’ il mio programma, perché all’iniziopensavo di parlare soltanto della Francia, che forse sarebbe unpo’ noioso e, alla luce di quello che è stato detto di colleghiamericani, vorrei fare due o tre riflessioni sul caso americano,riprendere un po’ le tematiche di stamani per vedere in qualecontesto siamo – perché non credo dobbiamo accontentarcisoltanto della meccanica delle primarie – e, finalmente, vedereun po’ il caso francese.

Sull’America. Credo sia molto interessante perché è vera labarzelletta che sugli Stati Uniti si può dire tutto e il suo con-trario ed avere sempre ragione. Cioè: 1) ci sono mille soluzionidiverse secondo gli Stati membri e una fonte di informazionee di ispirazione straordinaria;

2) questo non è stato detto dai colleghi americani perchéforse troppo ovvio per loro, ma tutte le soluzioni americaneche sono state utilizzate durante l’ultimo secolo – primarie, re-ferendum, recall – sono delle soluzioni ispirate dal populismosfrenato americano dalla fine del secolo scorso all’inizio di que-sto secolo; dunque, è una specie di uscita del populismo o diinserimento del populismo nelle istituzioni americane, forseuna fonte di riflessione per l’Italia;

3) le primarie negli Stati Uniti sono anche un elemento checi ricorda – secondo uno speaker del Congresso - all politics islocal, tutta la politica è locale; in un paese grande come gliStati Uniti, le primarie sono uno strumento molto utile;

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4) queste primarie sono molto divertenti; io non sono si-curo, almeno in Francia, che le primarie siano divertenti, sonopiuttosto un esercizio noioso e abbastanza difficile, visto chesi tratta di una battaglia tra fazioni all’interno di un partito;come diceva un re di Francia: proteggetemi dai miei amici, iomi occupo dei miei nemici.

Dunque la situazione è molto interessante, si impara moltoe finalmente a conclusione di questa piccola parte direi: italianiattenti, perché l’Italia ha un fascino per le esperienze stranieree per importare delle soluzioni che qualche volta non conven-gono.

Negli Stati Uniti, il partito - come lo chiamiamo noi – nonesiste. Qualcuno può dirmi oggi chi è il leader del Partito Re-pubblicano? Non c’è risposta. Il leader è il presidente per unpartito e il candidato scelto per la prossima campagna eletto-rale dell’altro partito.

Invece, nella tradizione parlamentare europea, il leader delpartito, quello che normalmente guida l’elezione e che ha vo-cazione a diventare primo ministro, è il leader della maggio-ranza e del partito.

Dimentico un’altra cosa, che negli Stati Uniti tutti e due ipartiti si sono arrangiati in modo che nessun altro partito possaemergere. O, se emerge, è talmente marginale che non riusciràmai.

In Europa, purtroppo, siamo in una situazione molto di-versa, dove anche dei partiti inesistenti da un giorno all’altropossono incrementare e diventare partiti di maggioranza.

Il mio secondo capitolo parte dalla riflessione su alcuni ele-menti che abbiamo sentito stamani, per rimettere il sistemadelle primarie nel contesto. Abbiamo parlato dell’individuali-smo sfrenato negli Stati Uniti. Anche in Francia l’individualismoè molto forte, ma anche in Italia, c’è una tendenza forte al-l’individualismo.

Mi ha colpito l’anno scorso a Firenze una pubblicità per unprodotto qualunque nella quale era scritto univers, ma non

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era scritto u-n-i-v-e-r-s, ma y-o-u cioè you are the word, sieteil mondo. E questo è il significato: se la pubblicità usa questoargomento significa che paga. Quindi individualismo.

Secondo elemento della politica di oggi: consumerismo. Èquello che chiamo la poligamia partitica, nel senso che oggic’è un’enorme volatilità elettorale.

Non si vota per lo stesso partito nel tempo, non si vota perlo stesso partito secondo le elezioni, si vota qualche volta inmodo strategico: io voto per te non perché ti amo, ma perchévoglio ostacolare l’altro. Questa poligamia è ormai un fattocompiuto.

Terzo elemento che si impone agli europei: c’è un divariosempre più grande tra lo spazio politico – qualcuno l’ha men-zionato stamani – che rimane nazionale, la politica è nazio-nale, e lo spazio delle politiche pubbliche che non lo sono piùo che sono, per larga misura, fuori del controllo dei politici na-zionali.

Quarto elemento: la sinistra europea e mondiale si è la-sciata domare dall’ideologia liberale. Per me il caso più ovvioè il caso del British labor sotto molti punti di vista e non dob-biamo dimenticare quello che ha spiegato la vittoria di Reagannegli Stati Uniti: il Partito Repubblicano si è reso conto cheprima di tutto era una vittoria delle idee, più che dell’organiz-zazione e di altro.

Quinto elemento: la sinistra forza di conservazione. Temoche la sinistra, nel corso di 25-30 anni, sia diventata una forzadi conservazione per resistere o tentare di resistere all’ideologianeo liberale, ma in tanti casi anche a causa delle forze internesulle quali la sinistra si era tradizionalmente appoggiata.

La sinistra è diventata troppo spesso il partito della keep, ilpartito che si tiene.

La sinistra, a parer mio, deve riflettere su questo punto pernon perdere l’energia.

Chiudo su questo punto, sottolineando il divario crescenteche c’è fra le responsabilità dei partiti politici, nel senso che la

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popolazione aspetta sempre di più tutto dal partito politico,anche le condizioni del tempo.

Se il tempo è brutto che fa la politica? Siamo quasi a questopunto. E, invece, la capacità dei partiti politici di dare, di fareè molto limitata a causa della globalizzazione, a causa anchedell’europeizzazione.

Stamani, quello che mi ha colpito è che si è parlato moltodi partecipazione, deliberazione, decisione e tutte queste pa-role sono la narrazione, the narrative, della politica.

La parola attuazione non è stata pronunciata. Molti citta-dini vogliono partecipare, ma ci sono molti più cittadini chevogliono soprattutto che la politica fornisca quello che aspet-tano. Molti non hanno alcuna voglia di partecipare. Non cifacciamo illusioni, anche se l’Italia è un paese dove si partecipamolto di più che non, per esempio, in un paese come la Fran-cia.

La Francia per una volta ha importato qualcosa dall’Italia,ha importato il sistema delle primarie. Perché l’ha fatto? Piut-tosto, perché il Partito Socialista l’ha fatto?

Perché il Partito Socialista ha il grosso problema della fri-zione tra il sistema istituzionale – che è un sistema presiden-ziale con una forte leadership – e la sua tradizione storica e lasua tradizione intellettuale.

Vi ricordate forse che nel 1905, quando fu creato l’ante-nato del Partito Socialista, la Sfio (Sezione Francese dell’Inter-nazionale Operaia), questa era un insieme disparato di fazionie di frazioni socialiste di tutti i colori.

L’unica spinta per creare la Sfio era nel fatto che i nostriamici tedeschi avevano un partito socialista molto più forte ei socialisti francesi non contavano nulla nell’Internazionale So-cialista proprio in virtù della frammentazione del movimentosocialista in Francia.

Questo la dice lunga sul fatto che i partiti in Francia sonodelle scatole vuote in larga misura. I partiti francesi sono an-cora partiti di notabili, perché tutti i nostri grandi eletti sono

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sindaci, presidenti di provincia, presidenti di regione. Dunque,c’è ancora un forte notabilato.

E soprattutto la Francia è un paese monarchico, un paeseche non si è mai rimesso dalla ghigliottina e che ha sempremantenuto l’aspirazione all’efficienza, all’uomo forte, alla con-centrazione dei poteri.

Questo è sopravvissuto durante tutto il Novecento e, so-prattutto, è sopravvissuto a livello locale, con il sindaco o conil prefetto, che era il rappresentante dello Stato ma che eraanche l’uomo forte.

In un certo modo, de Gaulle ha rimesso l’orologio in orario,ristabilendo la presidenza francese, perché se noi abbiamoavuto dei regimi deboli tra il 1870 e la Quinta Repubblica èperché la Terza Repubblica aveva previsto un presidente forte,ma visti gli errori del primo presidente tutti gli altri sono diven-tati deboli. Fu un errore storico. Dunque, da questo punto divista, siamo molto lontani dalla tradizione italiana.

Il problema per il Partito Socialista era scegliere il leader inuna tradizione molto più pluralistica, ma anche di battaglia in-terna sulle tematiche e sull’ideologia o sul notabilato, che èun’altra dimensione.

Il Partito Socialista ha immaginato, secondo l’ispirazioneitaliana, di organizzare le primarie come lotta ai cosiddetti ele-fanti, cioè ai grandi leader del partito.

Il Partito Socialista, che ha lo svantaggio di avere troppi lea-ders che possono diventare presidenti, ha organizzato nel2006 le primarie per la prima volta.

Non si può rifare la storia, ma possiamo pensare che le pri-marie del 2006 sono state in parte il motivo della vittoria diSarkozy, perché i militanti socialisti scelsero la candidata – adessere franco, non bravissima – che piaceva perché parlava alcuore piuttosto che alla ragione.

Ma, soprattutto, ebbe la fortuna di essere sostenuta da unmovimento di stampa straordinario anche perché c’era sim-patia per una candidata donna. E i sondaggi vennero in soc-

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corso di Ségolène Royal, che vinse alla grande anche su uncandidato bravo come Strauss-Kahn, o anche come Fabius.Non quest’ultimo, ma Strauss-Kahn aveva alcune chances, atal punto che oggi sembra il candidato preferito dai francesi eforse anche dal partito. Le primarie, quindi, non hanno indi-cato il candidato o la candidata migliore per vincere.

L‘esempio americano ci dimostra che le primarie sono unostrumento favoloso per far emergere persone sconosciute oemarginate come Barack Obama, ma in campo repubblicanostanno facendo emergere il tea party, che mette il partito inuna situazione impossibile, quella di non sapere quale candi-dato presentare.

Dunque, le primarie, come qualunque meccanismo tec-nico, non produce i risultati che si auspicano ma quelli a se-condo delle circostanze.

Tornando alla Francia, il Partito Socialista non era così con-tento di questo sistema, ma non aveva altra soluzione vistoche, dopo Mitterrand non c’era più un leader che potesse im-porsi all’insieme del partito. Allora hanno immaginato un si-stema un po’ diverso, che si avvicina forse un pò di più adalcune primarie americane.

Ma ci sono molti punti da discutere. Il primo punto è il ca-lendario: quando organizzare queste primarie. Non troppopresto, non troppo tardi e lì c’è stato un compromesso tra isostenitori di Strauss-Kahn e gli altri.

Strauss-Kahn è, come sapete, il direttore del Fondo mone-tario e, quindi, non può pronunciarsi troppo presto, altrimentisarebbe obbligato a dare le dimissioni. E, dunque, il voto sifarà ad ottobre anche se i sostenitori di Strauss-Kahn avreb-bero preferito luglio.

Ora però, in particolare tra i sostenitori di Strauss-Kahn maanche di altri, c’è chi dice fermiamo tutto perché forse ab-biamo il candidato giusto ed è inutile esporre le nostre divisionisei mesi prima delle elezioni presidenziali - ci saranno più pro-grammi – concedendo al partito di destra la possibilità di stru-

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mentalizzare queste divisioni. Secondo punto. Per evitare che siano soltanto i militanti a

scegliere – magari un candidato che non conviene alla mag-gioranza degli elettori -, si è deciso di aprire le primarie alla si-nistra in genere.

Cos’è questa sinistra? Intanto, per sapere chi è di sinistra,chi voterà per le primarie dovrà fare una piccola offerta sim-bolica, almeno un euro, perché la stima del costo delle prima-rie è un milione di euro e forse più. Poi, e questa è la cosa checreerà più problemi, l’elettore dovrà firmare una dichiarazione– non ne conosco ancora il testo – sui valori della sinistra.

Visto che non potrà essere qualcosa di molto preciso, temoche sia un po’ un decalogo dei grandi principi che non soltantola sinistra ma anche altri partiti di centro dovrebbero accettare.In questo caso, alcune persone potrebbero avere l’impressionedi essere legati a questo.

Purtroppo, questo sistema un po’ ingegnoso per allargarel’elettorato non elimina il problema tipicamente francese, maanche italiano, che intorno al partito principale - il partito so-cialista in questo caso - ci sono tanti partiti piccoli di sinistrache vogliono avere il loro candidato e nessuno può impedirealla sinistra radicale o ai verdi di avere il candidato, che ovvia-mente è competitore con il candidato scelto dal Partito Socia-lista.

Dunque questo elemento, che ha causato il fallimento diJospin, potrebbe ripetersi, ma questa volta non è detto che siala sinistra che ne soffra di più.

Questo perché la terza persona che potrebbe arrivare al se-condo turno delle elezioni presidenziali è Marine Le Pen, chefa l’operazione di passare da un partito di estrema destra a unpartito più accettabile. Ovviamente ha ancora una lunghissimastrada da fare per raggiungere Fini, ma è in cammino.

Da questo punto di vista la candidata del Fronte Nationaldiventa una candidata pericolosissima.

Oggi, in quasi tutti i sondaggi, Marine Le Pen è nel ticket

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del primo turno e, visto che c’è posto soltanto per due, o Sar-kozy o il candidato della sinistra potrebbero essere eliminatidal secondo turno.

A questo punto le primarie diventano molto importanti.Immaginiamo - non credo succederà - che gli attori di questeprimarie scelgano Hollande, che è l‘ex segretario generale delPartito Socialista o anche Martine Aubry. Sono dei candidatipiù deboli di fronte a Sarkozy.

L’unico che per il momento ha veramente delle chances divincere è Strauss-Kahn, perché è l’unico che seduce anchel’elettorato del centro e in Francia non si vince una elezionepresidenziale senza convincere il 4-5% di elettori un po’ inde-cisi.

In Francia - essendo strutturata per poco più del 50% a de-stra, per il 45% a sinistra e avendo un gruppo del 5%-7% dielettori che va da una parte all’altra - è assolutamente fonda-mentale, per una sinistra che vuole vincere, avere un candidatoche non sia della sinistra radicale. Queste sono le condizioniimposte dalle elezioni presidenziali.

Come si voterà? Si voterà con due turni. Il primo turno, ainizio ottobre, per scegliere tra questi candidati e non sap-piamo quanti saranno e, se nessuno otterrà la maggioranza,si andrà verso un secondo turno con i due candidati preferiti.

Come vedete è un elemento di divisione ma anche, soprat-tutto, di organizzazione delle fazioni all’interno del partito.

Il Partito Socialista utilizzerà le liste elettorali – ha già otte-nuto parere favorevole dal ministro dell’Interno - ma ci po-trebbe essere l’intervento delle Corti – come negli Stati Uniti– su due punti: il primo è che il Partito Socialista avrà una listadi elettori che avranno dichiarato di aderire ad un sistema divalori e questo è proibito dalla legge.

Essendo il voto segreto, non si può avere una lista che per-metta l’identificazione degli elettori come elettori di sinistra; ilsecondo elemento - che potrebbe essere problematico dalpunto di vista giuridico - è sapere se il milione di euro che uti-

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lizzerà per la scelta del candidato sarà contabilizzato comespese elettorali a carico del candidato vincente.

Questo avrebbe effetto sulla sua capacità di spesa e qua-lunque sia la risposta è ovvio che ci sarà l’intervento della Cortecostituzionale, che anche da noi è il giudice delle elezioni pre-sidenziali.

Per concludere, il sistema delle primarie utilizzato dal PartitoSocialista francese probabilmente è al tempo stesso la miglioree la peggiore soluzione al quale ricorrere per identificare il can-didato.

È una soluzione che non è senza rischi. Vedremo in seguitose è la soluzione miracolo o se, al contrario, la soluzione nonstia nel miglior funzionamento del partito.

I partiti francesi sono tra i più deboli d’Europa struttural-mente e le elezioni presidenziali hanno rafforzato la debolezzadei partiti mettendo l’accento sulla leadership del presidente.

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Ignazio Marino

Grazie a Yves, che ha spaziato oltre le primarie, sottoli-neando che la difficoltà per la sinistra è apparire conserva-trice quando di fronte a diverse problematiche socialidifende alcune istituzioni o alcuni princìpi. Tutto giusto ma,evidentemente, dà l’idea del conservare piuttosto che delriformare.

Importante poi l’idea delle primarie collegate alla re-sponsabilità di un partito politico, da cui le persone si at-tendono soluzioni e anche il richiamo alle tre parole chesono state utilizzate questa mattina - partecipazione, deli-berazione e decisione –, forse dimenticando la parola at-tuazione, che è poi quello che le persone vogliono.

E, infine, le primarie come strumento e non come fine,perché è evidente che l’obiettivo è vincere le elezioni vere.

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Franck DekerProfessore di Scienze della politica - Università di Bonn

Mi trovo in una situazione piuttosto difficile perché laRepubblica Federale è quella che ha meno esperienza ri-guardo l’applicazione delle primarie nei partiti. È una cosache riguarda la socialdemocrazia.

Occasionalmente, le primarie vengono utilizzate a livelloregionale per decidere su questioni relative alla presidenzadi partito, o per scegliere il candidato di punta in una corsaelettorale.

Viene a crearsi una situazione di concorrenza in cui c’èun presidente di partito in carica che viene sfidato da unaltro candidato, o più sovente, se un rappresentante dà ledimissioni da una carica, o se si rinuncia alla leadership diun partito, è possibile occupare il posto vacante, ci sonovari candidati che possono proporsi per questa carica.

Per quanto riguarda il livello nazionale o federale, inGermania abbiamo solo un esempio. Nel ’93, il presidentedell’Spd, allora governatore dello Schleswig-Holstein, si èdovuto dimettere dalla sua carica per una serie di questionie a quel punto ci fu un’elezione diretta per la direzione delpartito; ma il contesto era del tutto strumentale, in quantoil Governatore della Bassa Sassonia, Schroeder, poi è di-ventato cancelliere. Tali considerazioni sono state fatte so-prattutto dal governatore della Renania.

Si voleva ostacolare Schroeder. Non c’è stato un ballot-taggio, ma un’elezione fra tre candidati e Scharping nel’94 era il candidato cancelliere per l’Spd.

Helmut Kohl aveva già governato per dodici anni e l’Spd

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aveva buone possibilità di vincere, ma si presentavano conun candidato molto debole quale era Scharping, per que-sto persero le elezioni.

Lo strumento delle primarie nei partiti tedeschi è statoscreditato per questo. Perché possano funzionare deve es-serci l’elezione di un candidato che abbia buone possibilitàdi vittoria e questo con Scharping non è avvenuto. Non acaso un anno dopo è stato sostituito da Oskar Lafontaine,con una decisione del Congresso di partito.

Questo è il motivo per cui si sollevano continue discus-sioni sul tema dell’introduzione delle primarie in Germania,ma sono discussioni a livello accademico, che non sonomai seguite da vere iniziative in tal senso. Dunque il sistemache abbiamo in Germania è rimasto intatto.

Abbiamo parlato anche del perché introdurre le prima-rie in Italia, visto il difficile rapporto tra la base del partito,gli elettori e i partiti stessi. Queste riflessioni andrebberofatte anche in Germania, come del resto in altri paesi eu-ropei.

Tuttavia abbiamo degli equivalenti delle primarie moltofunzionali. Faccio un esempio pratico: si doveva deciderechi avrebbe dovuto assumere il cancellierato quattro annidopo Scharping.

Il favorito dall’establishment del partito era Lafontainee probabilmente avrebbe avuto anche la maggioranza deimembri, ma non era molto amato dalla popolazione per-tanto gli vennero attribuite poche possibilità di vincere perl’Spd.

Il suo rivale era Schroeder e l’Spd si è posta il quesito dichi scegliere. Schroeder, più popolare a livello nazionale,oppure Oskar Lafontaine, più radicato nel partito?

Forse il secondo avrebbe potuto diventare candidato,ma pretendeva la sua elezione nella bassa Sassonia conuna sorta di plebiscito. Dichiarò che avrebbe voluto almenoil 48% dei voti e la cosa non andò in porto per la sua man-

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cata disponibilità. Lafontaine si dichiarò disposto a ritirarsi per lasciare la

candidatura Schroeder, ma rimase presidente del partito ein seguito decise di proporsi per entrare nel governo diSchroeder come ministro delle Finanze.

Si sentiva che ci sarebbe stato un conflitto perché i dueavevano politiche diverse, soprattutto nella politica econo-mica. Schroeder preferiva un corso che seguiva un po’ inew live della Gran Bretagna, mentre Lafontaine tendevapiù verso la socialdemocrazia più tradizionale, quindi piùvicino a D’Estaing in Francia.

Quindi praticamente c’è stato uno show down, unaresa dei conti inevitabile e Lafontaine si è dimesso non solocome ministro delle Finanze, ma anche dalla presidenzadel partito che poi è stata assunta da Gerhard Schroeder.

Perché nella Repubblica Federale Tedesca non si parla diprimarie? Perché noi non abbiamo avuto esperienze posi-tive con questo strumento.

Abbiamo altri metodi di partecipazione. Negli ultimianni gli stessi partiti hanno notato che c’è un rapporto di-retto con gli elettori, soprattutto a livello regionale, anchese a livello nazionale il riscontro è minore.

Non c’è un movimento di partiti che in qualche modosi incentri sul sistema elettorale. Gli elettori non decidonola successione dei candidati, anche l’Spd non era dispostoa cedere questo potere, in quanto temevano di perdere ilcontrollo sulla possibilità di nominare i candidati.

Riguardo alla partecipazione, in Germania l’elettoratosi orienta prima di tutto in base ai risultati prodotti dallapolitica. Qui risiede la ragione della forte insoddisfazioneverso l’Spd che alle politiche di un anno e mezzo fa haavuto il peggior risultato dal ‘49. I consensi sono scesi al23%.

In che modo l’Spd potrà risollevarsi da questa situa-zione? La Germania è sempre stata considerata un insieme

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di partiti stabile con un sistema elettorale proporzionale. C’era solo un piccolo partito, poi si sono aggiunti i Verdi

e ora abbiamo un sistema pentapartitico, composto dacinque partiti e due schieramenti.

Abbiamo uno schieramento borghese di centrodestra,i cristianodemocratici e i liberali, e uno schieramento di si-nistra, dove non abbiamo più solo due partiti, l’Spd e iVerdi, ma anche il Partito Socialista di Sinistra. Quindi a si-nistra non abbiamo più due soli partiti, ma tre.

Di conseguenza, a differenza dei cristianodemocratici,l’Spd non deve vedersela solo con un partito concorrente,ma con due. Quindi nel sistema di partiti che abbiamo lasituazione per l’SPD non è semplice.

Certamente non si può fare della storiografia a poste-riori, ma sarebbe bello vedere cosa sarebbe accaduto sel’unificazione tedesca nell’89 avesse avuto un corso di-verso.

Se si analizza quello che è avvenuto nella Ddr, non ci sirende conto del fatto che noi ad est avevamo una societàpost-comunista che si doveva raffrontare con altre societàsimili.

Nella Germania dell’est abbiamo fatto sempre raffronticon l’ovest, l’idea era che l’est si dovesse allineare all’ovestil prima possibile.

Quali siano i problemi sorti dall’esistenza di questogrande fratello ad est, sia a livello economico che di men-talità, è una cosa che non è ancora stata analizzata afondo.

Nel 1989-90, la Germania ad est ha potuto riprendereun po’ le orme del sistema esistente ad ovest, dunque que-sti partiti comunisti sono riusciti a mantenere qualcosadella loro antica struttura comunista, salvo poi iniziare aporsi come polo che si opponeva ai partiti borghesi.

Questo per i post-comunisti significò assumere il ruolodi modernizzatori radicali che dovevano portare avanti

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delle riforme capitali nei processi di trasformazione. Nella Ddr, il Pds non ha dovuto subire un tale processo

di apprendimento. Il partito ha potuto continuare a viverecomodamente in un ruolo di opposizione e la sua esistenzala deve ai forti successi elettorali ad est. Si potrebbe direche è un’ingiustizia storica che l’Unione e l’FDP, in qualchemodo, avessero acquisito tutto il potenziale dei loro partitifratelli, mentre l’Spd abbia dovuto tenersi lontano dai post-comunisti.

Lafontaine una volta ha addirittura detto che dopo l’89un procedere comune di Pds ed Fpd forse avrebbe potutoesserci, ma non è stato così. Quindi la sopravvivenza dellaPds non era ancora segnata, ma l’Fpd e i post-comunistiavrebbero percorso strade diverse.

C’è stato veramente uno svantaggio notevole a livellodi concorrenza, perché l’Spd guardando alle elezioni hamolti meno membri e la Fdp nei nuovi Länder si collocadopo la Cdu e dopo la Linke, quindi è la terza forza poli-tica.

Per esempio in Sassonia l’Spd ottiene solo il 10% deivoti, dunque è diventato un piccolo partito.

La politologia, dopo il 1989, pensava ancora che il Pdsed i post-comunisti sarebbero scomparsi dal sistema poli-tico, invece questo non è avvenuto, anzi, sempre più e condisappunto di alcuni cittadini, con l’unificazione il Pds èstata sempre più sostenuta ed ha un elettorato stabile neinuovi Länder e si colloca con una percentuale tra il 20 e il30% di consensi.

Il Pds fino al 2005 era un partito regionale - viene inmente un parallelo con la Lega Nord in Italia - e quindi rap-presenta fondamentalmente gli interessi dell’est, come laLega rappresenta il nord Italia.

Il Pds, pur essendo presente in occidente, non ha ungran consenso, arriva ad ottenere l’1% di consensi. Comedicevo, è un partito veramente regionale.

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Ma nel 2005 la situazione è cambiata, perché c’è statauna scissione ed è stata creata la Wasg e questa era sortagrazie agli elettori non soddisfatti della politica economicadei socialdemocratici, soprattutto quella di Schroeder chesi era fortemente identificato con un corso neoliberistapensando ad una flessibilità del mercato del lavoro e aduna riduzione delle prestazioni sociali.

Questo ha creato malumori all’interno dell’Spd e alcunise ne sono andati – sia membri, sia delegati – confluendoin questo nuovo partito.

Quelli che erano usciti dall’Spd hanno trovato Oskar La-fontaine pronto ad operare con loro purché ci fosse unaunione in un partito di sinistra attivo su tutta la Germania.

Così ora la Linke oggi raggiunge circa il 5% dei voti edovete pensare che la Germania occidentale ha il quintuplodei cittadini di quella orientale, ciò significa che a livellonazionale hanno una percentuale di consensi che può ar-rivare anche al 10% e questo non si è modificato neanchecon le politiche del 2009.

Dunque vediamo che ci sono state conseguenze dram-matiche per l’Spd che, con la vittoria della Linke, non hapiù una maggioranza a livello nazionale ed ha perso cre-dito anche come partner di coalizione.

L’Spd però non è disposta a fare coalizione con la Linke,lo fa soltanto nei Länder ad est o a Berlino, che è una città-stato dove a settembre si voterà e sarà interessante vederese si formerà di nuovo questa coalizione rossa-rossa.

In una regione occidentale una coalizione del generenon c’è mai stata ed anche a livello nazionale l’Spd si èsempre rifiutata.

Quindi, abbiamo questo schieramento di sinistra perquanto riguarda l’elettorato, ma non è uno schieramentopolitico perché l’Spd non è disposto a formare una coali-zione con i Verdi e con la Linke. Per l’Spd l’unica coalizionepossibile è con i Verdi.

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La Linke ha consensi pari all’8%-10%, mentre l’Spd habisogno di un altro partner per la coalizione perché nonarriverebbe altrimenti ad avere una maggioranza nel go-verno. Per questo è disposta a coalizioni con i cristianode-mocratici. Preferisce assumere questa linea perché,altrimenti, non potrebbe neanche esprimere il candidatocancelliere.

Schroeder in passato, nonostante sia il partito più forteche esprime il cancelliere, si era proposto in quella vesteanche se l’Spd aveva l’1% in meno rispetto all’Unione.

L’unica possibilità è quindi una coalizione con i Verdi ei Liberali, ma questi ultimi dal 1980 sono anche più a de-stra dei cristianodemocratici quindi una coalizione tra Spde Fdp non è possibile e anche alle prossime elezioni l’Spdnon ha alcuna prospettiva di vincere e questo problemarecentemente si è addirittura acuito perché ha perso unagrande quantità di elettori a favore dei Verdi.

Questa perdita di credito ricade anche sui Liberali che,secondo i sondaggi, sono scesi dal 15% al 5%, mentre iCristiano Democratici sono rimasti stabili.

Questa grande insoddisfazione della popolazione nonva a vantaggio della socialdemocrazia ma dei Verdi, chenelle ultime elezioni in Baden-Wurttemberg hanno avutoun risultato addirittura migliore dell’Spd e quindi in quelcaso hanno potuto esprimere un governatore. Questo ri-sultato un partito piccolo in Germania non lo aveva maiottenuto.

Questo cambiamento del baricentro e questo sposta-mento verso i Verdi fa sì che la distanza nei confronti deiCristiano Democratici sia aumentata.

Penso che questa situazione non varierà e quindi l’Spdsi trova di fronte ad un dilemma, perché nella corsa elet-torale deve concorrere con i grandi partiti popolari di cen-tro e con gli altri due dello schieramento di sinistra, per cuideve davvero trovare un nuovo profilo programmatico. C’è

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anche il problema che a volte l’Spd non è chiaramente ri-conoscibile.

In Germania e in Italia – attualmente è la cosa più im-portante – si affronta l’argomento del nucleare. Negli annisettanta, con Helmut Schmidt, l’Spd si è molto impegnatoper il nucleare, è proprio per questo che sono sorti i Verdi.

Se l’Spd sul nucleare avesse avuto una posizione diversaforse i Verdi non sarebbero così forti in Germania. L’Spd,rispetto al nucleare, ha modificato un po’ il proprio atteg-giamento, nel senso che è favorevole ad un abbandonodel nucleare ma non pubblicizza questa posizione primadelle elezioni perché i Verdi risultano più credibili sulla que-stione.

Stato sociale. È vero che l’Spd si impegna ed è favore-vole all’introduzione di un salario minimo di legge, ma lofa in concorrenza con la Linke, che pure sostiene questosalario minimo ma più alto. Quindi fondamentalmente nonc’è un profilo politico chiaro del partito.

Torno all’introduzione delle primarie, forse si potrebbeaumentare l’attrattiva di questo sistema presso gli elettoriintroducendo delle primarie che potrebbero mobilitare dipiù il proprio elettorato, ma questa ricetta non è graditaall’Spd alla quale consiglierei di osservare ciò che avvienenegli altri paesi come in Italia o Spagna o seguire tutte lediscussioni che vertono sull’argomento.

D’altra parte vedo che c’è una gestione strumentaledella questione, nel senso che potrebbero esserci delle mo-tivazioni o slanci solo retorici cui non farebbero seguito ifatti.

Per quanto riguarda le riforme, nello statuto dell’Spdc’è la possibilità per i membri di presentare una posizioneche si oppone a quella che è la linea di partito, ma questaformula dai tempi di Schroeder non è mai stata utilizzata.

Direi alla leadership del partito di cominciare prima inmodo pacato e poi di ampliare questi esperimenti in modo

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che le resistenze interne degli elettori possano essere su-perate.

In primavera ci saranno le elezioni nello Schleswig-Hol-stein – dove si sono svolte una specie di elezioni primariecon un’ampia mobilitazione di elettori – e ci potrà essereun’alleanza con i Verdi che porti alla vittoria.

Dunque è vero che le primarie mobilitano i membri el’elettorato, ma si potrebbe convincere la leadership delpartito anche in un altro modo.

Se ci sono cinque partiti in un sistema, la concorrenzasarà più forte, mentre una volta si decideva la competi-zione tra Spd e Cristiano Democratici.

La democrazia diretta viene tematizzata perché l’atten-zione si dirige sui partiti e per mesi si crea una sorta di con-correnza interna ai partiti che se ne occupano e chemobilitano i propri elettori. L’Spd si fonda molto di più suuna cosa del genere.

Se gli sviluppi saranno quelli che auspico, nel 2013 laMerkel potrà scegliersi un partner di coalizione e potrebbegovernare con l’Spd o con i Verdi, perché, se l’attuale go-verno affronterà seriamente l’idea di allontanarsi dal nu-cleare, è probabile che si superi una situazione per cui l’Spdnel 2013 non avrà più una opzione di potere.

L’Spd, quindi, deve darsi un profilo chiaro a livello pro-grammatico in modo che partecipazione e democrazia di-retta siano temi importanti. Dovrà portarli avanti emostrare che fa sul serio per quanto riguarda la democra-tizzazione del sistema elettorale.

Ultima osservazione. Stamattina ho ascoltato con moltaattenzione e ho notato che molti oratori hanno parlato deisistemi elettorali con riferimento all’Italia, dunque è untema di cui si parla da tempo.

Anche noi in Germania prevediamo una riforma del si-stema elettorale che avverrà a luglio, in conseguenza del-l’intervento della Corte Costituzionale per elementi di

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incostituzionalità.Ora non si parla assolutamente di questa riforma nel di-

battito pubblico eppure l’elezione è fondamentale per lademocrazia. Il sistema elettorale non stabilisce solo la spar-tizione del potere; trovo assurdo che non se ne parli vistoche la sovranità popolare si esprime attraverso le elezioni.

Il problema è che i partiti, e anche l’Spd, non sono in-teressati ad avere un dibattito pubblico, in quanto non vo-gliono democratizzare il sistema dando agli elettori piùpossibilità di scelta.

Sono i partiti a voler decidere le liste, per questo nonc’è un dibattito aperto sulla riforma del sistema elettorale.Abbiamo ancora molta strada da fare se vogliamo confron-tarci con la questione delle primarie.

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Interventi

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Ignazio Marino

Innanzitutto vorrei chiedere a Frank Decker se pensa chein questo scenario complesso l’Spd e il resto della sinistra po-trebbero trovare nelle primarie un meccanismo che uniscapiuttosto che dividere, insomma se l’utilizzo delle primarieavrebbe potuto evitare che una parte della sinistra lasciassel’Spd.

L’ultimo punto che vorrei sollevare è quello del federali-smo. Vorrei sapere se, secondo la sua opinione, esso rendel’introduzione delle primarie più semplice o più complessa.

Apriamo ora la fase delle riflessioni, delle domande e dellediscussioni da parte del nostro panel. Abbiamo già alcuniiscritti a parlare.

Diamo la parola a Gianluca Galletto, responsabile nellaDirezione nazionale del PD per il Nord America.

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Gianluca Galletto

Sono molto contento di essere qui in questa giornatadensa di argomenti. Sono da 15 anni negli Stati Uniti quindiho la doppia cittadinanza e ho una certa esperienza anchenel Partito Democratico americano.

Ho avuto un’esperienza nella cabina di regia nella cam-pagna di Obama nel 2008, soprattutto nello Stato di NewYork. Cercherò dunque di portare una prospettiva mista,proprio per l’esperienza sia italiana che americana.

Ciò che è risaltato maggiormente nella campagna eletto-rale di Obama è stata la grandissima organizzazione, con cuiè stata compiuta, gestita e il livello di professionalità.

Oltre a questo c’è da evidenziare il dato importante dellamaggiore competitività del mercato elettorale, sia esternoche interno al partito. Questo è un dato abbastanza ogget-tivo e variabile.

Vi parlerò anche dello Stato di New York, ma soprattuttodella città di New York dove invece, pur essendoci le primariedall’inizio del secolo scorso, comunque l’apparato – quelloche si chiama macchina - ha un peso determinante.

Oggi si è parlato molto anche di reputazione del partito,di legittimazione, identità e partecipazione.

Sono tutte cose su cui ci si interroga anche negli StatiUniti, in un momento in cui la domanda di maggiore effica-cia della politica è fortissima e c’è allo stesso tempo ancheuna certa insofferenza verso la partisanship, cioè la politicadi partito, che non porta alla risoluzione dei problemi.

Questo perché c’è un nuovo trend: la maggior parte dei

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giovani oggi non si riconosce in un partito. C’è una crescitaforte di chi non si identifica in un partito e non si iscrive aun partito.

Altro spunto di riflessione ci viene dato dal nostro parti-colare meccanismo elettorale, in quanto, al di là delle prima-rie, noi eleggiamo anche il leader del nostro partito con unaprimaria aperta e la cosa, parlando con gli amici americani,risulta abbastanza inusuale.

Infine, un punto comparativo importante è la tensioneche c’è tra partito nazionale e partito locale. Ho fatto ancheun’esperienza di regionali al sud e il partito nazionale ha unaforza molto limitata in certe zone. Sono i leaders locali chehanno in mano le leve della politica del posto e c’è una ne-goziazione costante; anzi a volte il partito nazionale sembraaddirittura impotente.

Negli stati Uniti le primarie sono state introdotte – comedicevano i professori che mi hanno preceduto - principal-mente dai leaders di partito per far fronte al problema dellamancanza di controllo dei leader locali. Questo accadevaalla fine dell’Ottocento, primi del Novecento.

Non so se le primarie possano risolvere questi problemi.È plausibile che laddove il clientelismo è tanto diffuso, l’out-sider non abbia possibilità di vittoria, ma credo che attraversoun meccanismo che le regoli meglio, potrebbero risolvere iproblemi di legittimazione locale e anche di controllo del cen-tro e della periferia.

Vi porto alcuni dati sullo Stato di New York – dati ancorapiù marcati nella città - che rappresenta un caso particolareper la forte preponderanza dei democratici.

È uno Stato in cui le leggi sulla finanza di partito sono‘lasche’ e i contributi che l’individuo può dare al candidato oal partito sono molto elevati rispetto al resto del paese. A li-vello di corporations sono molto liberi, pertanto chi ha piùrisorse controlla i risultati.

Alle primarie si elegge quella che corrisponde alla nostra

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Direzione nazionale. Si vota nei 150 collegi dell’assembleastatale, vengono elette due persone per ogni collegio - ‘di-scrict’- e sono sempre un uomo e una donna. Questi sa-ranno i dirigenti del partito che poi dovranno eleggere unsegretario.

È la legge che stabilisce la regola, pertanto abbiamo uncaso in cui lo Stato è entrato nella regolamentazione dei par-titi.

New York è un luogo dove ci sono circa 4 milioni e mezzodi elettori, i democratici sono circa 3 milioni. I repubblicanisono solo mezzo milione, gli indipendenti centomila e i nonregistrati circa 800mila. Dunque si contano circa 1 milione emezzo di persone non iscritte al Partito Democratico.

È ovvio che, in una città dove un candidato democraticoprende il 70%-80% dei voti, i repubblicani non hanno nes-suna possibilità di vittoria. Di conseguenza una grande fettadi elettorato viene esclusa dalle scelte dei candidati.

Questo lo dico per sottolineare il fatto che le primarie nonbastano ad aprire il mercato politico, serve una serie di altreregole.

Altro dato da sottolineare è che la fetta più consistentedi persone che non sono iscritte a nessun partito è compostada giovani.

Questo è un fenomeno in crescita, gli indipendenti spin-gono per avere primarie aperte in tutto il paese e portarecosì a votare anche questa parte di elettorato.

Altro punto da approfondire è la finanza. Questo aspettoha un valore fondamentale, perché nel caso di un’elezioneregionale - dove il limite della spesa viene sistematicamenteviolato - un outsider non ha nessuna possibilità. È un datofacilmente controllabile, eppure non vedo magistrati localiinteressati alla risoluzione di questo problema.

Spero che su questo punto si possa iniziare un percorsodi riflessione molto serio.

Concludo richiamando il tema della reputazione, del-

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l’identità e della partecipazione. In questo momento ab-biamo una grande perdita di reputazione.

Il nostro brand ha bisogno di essere rilanciato per attrarrei giovani. Essendo noi un partito nato con le primarie, dob-biamo trovare un sistema per mantenerle. Non possiamocontinuare a gestirle come è stato fatto finora, è necessariotrovare dei meccanismi per cui le liste, l’accesso al voto, lefirme siano controllate.

Non ho una soluzione, ma si potrebbe sviluppare l’ideadi liste elettorali che di volta in volta vengano controllate daun supervisore esterno.

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Sandro Gozi

Io avrei una serie di domande. La prima riguarda i profilidei candidati alle primarie - soprattutto negli Stati Uniti - ei profili dei candidati alle elezioni generali.

Vorrei sapere se un profilo, considerato competitivo perle primarie, può essere altrettanto efficace per vincere allegenerali. Se così non è, qual è il modo per attenuare que-sto aspetto che può incidere sulla competitività rispetto alleelezioni secondarie?

Il fatto che ci siano delle primarie aperte anziché chiuse,può attenuare questo aspetto e può fare delle primarie laselezione anche del candidato più competitivo rispetto alleelezioni generali?

Come si collega la competitività delle primarie al carat-tere aperto o chiuso delle elezioni primarie?

La seconda domanda ci interessa molto, guardando alleprimarie americane con la nostra visione italiana.

Dopo la vittoria alle primarie del candidato A, il partitolavora in modo coeso oppure i candidati sconfitti esconodal gioco?

Se lo stesso candidato risultasse vincente alle generali,qual è il grado di inclusione dei suoi competitor battuti alleprimarie?

La terza questione è la seguente: ho notato una schedaelettorale con candidature a vari posti; Senato, Camera deiRappresentanti ecc.. Ci sono alleanze trasversali tra i can-didati a diversi posti? Oppure ognuno fa la propria corsasenza alleanze?

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Un altro aspetto emerso era il discorso che sinistra ora-mai equivale a conservazione. Abbiamo un’economia glo-balizzata e meno da distribuire. Dunque una sinistra che sibasa su una logica di distribuzione quando la quantità dadistribuire è sempre minore, rischia di passare per una si-nistra conservatrice.

Una soluzione può essere quella di tentare una politi-cizzazione della dimensione europea? È necessario spin-gere verso un’elezione diretta del presidente dellaCommissione?

Riguardo al calendario delle primarie francesi, può es-sere un vantaggio competitivo per la ‘gauche’ quello di en-trare in campagna elettorale attraverso le primarie per lepresidenziali prima dell’apertura ufficiale della campagnaelettorali, e dunque prima di Sarkozy?

Facendo riferimento alle difficoltà del Partito Socialista:si è affermato che si deve ricorrere alle primarie per trovareil candidato competitivo. Mi chiedo se in Europa oggi unastruttura di partito che continua a rifiutare di fare emergereun leader e ragiona in collettivo possa creare un partitocompetitivo.

Ai giovani italiani piacciono le primarie. In Francia i gio-vani del Centrosinistra possono essere attratti dalle prima-rie?

Noi in Italia parliamo di primarie di coalizione. Per qualimotivi in Francia vengono escluse?

Per quanto riguarda il caso tedesco, la prima domandariguarda l’equilibrio. Come si trova un equilibrio tra le di-verse esigenze a livello politico, tra la struttura federale e ilpartito nazionale?

E ancora: conviene ai riformisti, anche in periodi diffi-cili, fare grandi coalizioni con le destre, tenendo presentile esperienze negative del passato? O c’è il rischio che que-ste ultime risultino sempre vincenti?

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Andrea Manciulli

Stamani uno dei nostri ospiti ha citato la Toscana in quantounica regione in Italia ad avere una legge istituzionale per leprimarie.

Siamo una delle realtà nel Paese in cui l’esercizio delle pri-marie è stato più assiduo, pertanto vorrei fare un interventoteso a sviluppare soprattutto un’analisi critica dello strumento,cercando di trovare soluzioni per il futuro.

Noi abbiamo riscontrato un limite, in quanto la legge, cheabbiamo fatto a norme vigenti nazionali, non può che avereun carattere facoltativo.

Non si può obbligare nessuno a fare le primarie e, nelle duetornate elettorali in cui la legge è stata utilizzata, il Pd è statoil solo partito ad avvalersene.

Questo ha creato qualche problema politico. Noi abbiamodato ai cittadini la scelta dei nostri rappresentanti, mentre ilcentrodestra ha vissuto una stagione di scelte discutibili, chehanno avuto conseguenze politiche.

Il centrodestra in Toscana ha avuto un gruppo consiliarecreato a tavolino dal coordinatore Denis Verdini e questo hafatto sì che, nella scomposizione del centrodestra, nel Consiglioregionale della Toscana non ci sia stato nessuno che abbia datoorigine al terzo polo. Questo deve farci riflettere.

Un’altra riflessione riguarda il rispetto dell’esito delle pri-marie. Anche in Toscana talvolta le primarie non chiudono levicende di selezione delle candidature.

Nella cultura delle primarie degli Usa c’è una sorta di regolanon scritta che tutti rispettano: chi vince è il candidato di tutti.

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In Italia sono frequenti i casi in cui il candidato che perdele primarie costituisce una lista per proprio conto. È evidenteche questo riflette una cultura che non si è affermata fino infondo. Fare le primarie significa accettarne l’esito e da noi nonsempre è così. Segno che su questa cultura bisogna ancora la-vorare perché si radichi appieno.

La terza argomentazione riguarda il problema di accessibi-lità delle candidature, che diventa sempre più serio. Personal-mente ho avuto occasione di dover affrontare il tema diammissibilità o meno alle primarie di un candidato che volevapresentarsi.

Si trattava di un sindaco che non aveva ancora finito il pro-prio mandato e che lo avrebbe abbandonato per candidarsialle primarie del comune accanto.

Non trovo serio che qualcuno abbandoni un incarico perandare a candidarsi altrove, ma noi non abbiamo nessuna re-gola che lo impedisca, se non la prassi politica.

Ritengo che siano temi di cui si dovrebbe discutere se sivuole che l’esercizio delle primarie abbia efficacia.

Ho portato l’esempio di un sindaco. Ma se non stabiliamoregole precise, cosa accadrebbe se ci fossero primarie per leelezioni parlamentari?

Questi sono temi che meritano di essere approfonditi sevogliamo affinare uno strumento che ha bisogno di modifiche.

Penso che la proposta più volte avanzata di istituire un alboper partecipare alle primarie sia una cosa che valga la penafare. Questo potrebbe aiutarci in molti casi, dando certezzaalla base elettorale.

Un’ultima questione riguarda la valutazione politica che, amio avviso, è il punto più importante.

Ritengo che la cosa più giusta sia dare a questo strumentosempre la possibilità di avere a fianco una valutazione politica.

Come emergeva dalle cose qui dette, il sistema politico eu-ropeo e italiano è molto diverso. Se le primarie in quei luoghidove un partito ha una forza tale da essere di fatto partito-

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coalizione è evidente, questo meccanismo diventa meno au-tomatico in quelle realtà dove la situazione è più variegata.

Ho visto comuni in cui potevamo vincere facendo una coa-lizione più larga e che abbiamo perso perché, essendoci partitiche non volevano le primarie, noi abbiamo rotto un’alleanzavolendole a tutti i costi. E nei piccoli comuni essere una coali-zione fa la differenza.

Penso che se non ci si lascia lo spazio di una valutazionepolitica, imbocchiamo una strada di fedeltà a un mezzo senzapolitica, che può andare bene per una setta ma non per unpartito.

Si fa un gran parlare sull’idea del leader mediatico, che esi-ste un po’ ovunque ma che in Italia ha toccato l’ apice.

Questa figura ha un po’ contagiato anche noi. Qualunquepartito si voglia fare è bene tenere presente che nel partitoserve un leader, ma anche un gruppo dirigente, un insieme dipersone legato da solidarietà politica e da comunità di azione.

Un gruppo dirigente non si costruisce solo con rapporti diforza ingessati, ma nello stare insieme, nella capacità anche dicontaminarsi, che non sempre avviene attraverso rapporti diforza, ma non avviene sicuramente attraverso un meccanismomodaiolo e mediatico.

Spesso abbiamo attribuito ad un leader politico delle po-tenzialità e delle aspettative a seguito di un intervento brillantead una trasmissione o ad un convegno e troppe volte il corsodel tempo ce lo ha restituito in modo diverso.

La cosa da fare è lavorare a delle primarie fatte seriamentecon l’uso della politica e delle regole precise e alla funzione diun partito che sappia educare e formare un gruppo dirigenteche si costruisce con la politica, perché se c’è una cosa che ipartiti non possono permettersi di abbandonare è la politica.Penso si debba partire da questo.

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Marina Sereni

Ho alcune questioni rapidissime per i nostri interlocutoristatunitensi.

Nella vulgata della discussione italiana si dice che i par-titi americani sono leggeri. La descrizione che è stata fattadel percorso delle primarie negli Usa dà l’idea invece di par-titi organizzati, forse diversamente da come noi abbiamopensato in Europa, ma è chiaro che le primarie pretendonouna struttura organizzata.

Dovremmo dunque tornare a discutere di come si deveorganizzare un partito che include le primarie tra gli stru-menti utilizzati per selezionare la propria classe dirigente.

La seconda domanda riguarda il rapporto tra il ruolodei social network e il ruolo del contatto diretto. Poichéabbiamo a che fare con elettori di fasce di età diverse, gradidi istruzione diversa e, tenendo conto che non tutti utiliz-zano gli strumenti della rete allo stesso modo, mi interes-sava capire, ai fini della partecipazione alle primarie, chepeso attribuiscono i nostri interlocutori a queste diverseforme di contatto.

La terza questione riguarda il rapporto tra la posizioneespressa da un determinato partito a livello nazionale equella locale.

A noi elettori europei ha colpito che, nello stesso giornoin cui Obama stravinceva le primarie in un determinato ter-ritorio, gli stessi elettori davano un voto che a noi apparivaconservatore su alcuni temi legati ai diritti civili.

Come si organizza una differenza culturale e politica tra

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il partito democratico o repubblicano in un determinatostato e il partito nazionale?

Infine, quali accorgimenti pensate ci possano essere perridurre quei due rischi che voi stessi avete indicato riguardoalle primarie, cioè che un candidato con una forte perso-nalità vinca le primarie ma perda le elezioni?

Come evitare che la selezione delle primarie contrasticon la possibilità di conquistare la maggioranza degli elet-tori? E come evitare che al termine delle primarie la parteche ha scelto un altro candidato sia poi effettivamente mo-bilitata?

Quali accorgimenti sta adottando un paese che ha allespalle una storia molto lunga per quanto riguarda l’usodelle primarie?

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Rosanna Abbà

La nostra recente esperienza riguardo alle primarie chesi sono svolte il 27 febbraio a Torino è stata molto positiva.Vorrei dire alcune cose rispetto a ciò che è avvenuto, anchese il nostro non può essere considerato un caso di scuola,avendo noi un candidato particolare come Piero Fassino.

C’è stata un’ampia partecipazione alle primarie: 53.000votanti, ed è stato molto interessante verificare che sul ri-sultato della candidatura di Fassino abbia influito sia la suavisibilità in quanto personaggio nazionale, sia il legame for-tissimo con la città che lo ha immediatamente ‘adottato’.

All’interno del partito si sono palesati quattro aspiranticandidati alle primarie, due dei quali non sono stati am-messi, non essendo riusciti a raccogliere il numero di firmesufficiente tra gli iscritti previsto dallo Statuto, e ci si è pre-sentati con due candidati del Partito Democratico tra icomplessivi cinque candidati alle primarie di coalizione.

Questo percorso, affatto semplice, deve invitarci a riflet-tere seriamente sul tema delle primarie di partito e di coa-lizione, argomento che anche nel gruppo dirigentetorinese ha dato vita a molte discussioni.

Il rischio che i candidati del Partito Democratico, se piùdi uno, siano indeboliti credo sia un’ipotesi più che plausi-bile, sulla quale è necessario riflettere e ideare soluzioni chenon danneggino i nostri candidati, pur nel rispetto del plu-ralismo interno al partito.

Naturalmente una città dove si sta per andare al votonon è il luogo nel quale regna la lucidità necessaria per stu-

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diare soluzioni, noi non abbiamo potuto fare altro che re-gistrare il problema che io consegno alla discussione dioggi.

Gli aspetti positivi delle primarie riguardano l’enormevisibilità cui vengono esposti sia il candidato sia il partito,che parte molto prima della campagna elettorale vera epropria.

Uno dei principali lati negativi riguarda l’aspetto orga-nizzativo ed economico che grava soprattutto sul Pd: leprimarie, soprattutto se vere, costano molto, è dunque unaquestione su cui riflettere.

Un aspetto che non è stato toccato negli interventi chemi hanno preceduto, e a mio avviso sottovalutato, è il ri-schio che primarie di dimensioni importanti all’interno delPd, come quelle che ci sono state a Torino, rischino di tra-mutarsi in uno pseudo congresso.

Ultima nota negativa è l’eventualità che altre forze po-litiche godano di grandissima visibilità a scapito nostro. IlPartito Democratico rischia di fare un lavoro enorme e perpoi constatare che, nel caso di alcune candidature parti-colarmente efficaci, ma indicate da altre forze politiche, inostri iscritti votano candidati di altri partiti.

L’esperienza, tuttavia, è stata bellissima e il risultato ec-cezionale.

Un inciso sui temi interessantissimi ascoltati oggi: mi hamolto colpito la disattenzione emersa sulla questionedell’attuazione, che non è stata mai citata negli interventi,pur essendo una delle migliori prerogative delle nostre am-ministrazioni.

Il Centrosinistra spesso non si preoccupa di dare comu-nicazione e informazione di tutto ciò che fa e fa bene,quindi ci si dimentica anche un po’ di sostenerla ed esi-gerla. Mentre dal versante del governo accade l’esatto op-posto, ossia cose che non si sono fatte e che non sifaranno, vengono ‘vendute’ agli elettori come fatte (vedi

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L’Aquila e Lampedusa). Non intendo assolutamente contrapporre l’attuazione

alla partecipazione, ma ritengo sarebbe utile ed interes-sante fare un sondaggio per capire di che dimensionistiamo discutendo quando ci preoccupiamo di alcuni temie meno di altri.

Sono più numerosi i cittadini che vogliono che chi li go-verna e le forze politiche a cui guardano li coinvolgano, oquelli che si aspettano che le proposte, che vengono loropresentate e che li convincono a scegliere un partito, ven-gano realizzate?

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Nico Stumpo

Spesso, parlando di primarie, si rischia di dire cose scon-tate e ovvie, come quando si asserisce che fanno partedello strumento che utilizziamo o che, quando scegliamocon le primarie un candidato, diamo a questo candidatomaggiore legittimità, o ancora che è un bene che parteci-pino alle scelte più persone.

Credo siano fatti scontati da cui partire. Alcuni di noipossono andare indietro di poche settimane per dire se cisono state critiche per alcune persone che hanno poi par-tecipato alle primarie e se è bastata quella partecipazioneper dare visibilità a quei candidati, che poi non sono andatiavanti.

Dico questo perché, come tutti gli strumenti, le primarievanno viste esattamente come tali.

Esistono strumenti in grado di salvare la vita, ma chevanno usati per quella determinata operazione, e altri chevanno usati in quel momento e non in un altro, sapendoche quella decisione può comportare il problema o la suasoluzione.

Tuttavia deve esserci qualcuno che si prende la respon-sabilità di quella scelta. Credo che le primarie vadano af-frontate così, sapendo che possono essere uno strumentosalvavita molto utile e che ci sono momenti in cui quellostrumento va utilizzato o meno.

Sono state accennate altre tematiche di cui dovremoparlare. Noi siamo un partito che ha scritto nel proprio Sta-tuto di essere un partito di iscritti e di elettori, credo che

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dovremmo discutere quale cessione di sovranità gli iscrittifanno verso gli elettori e in quali momenti lo fanno.

Perché scegliere un candidato ad una carica monocra-tica per le amministrative non è come scegliere i dirigentidi partito.

Noi delle primarie dobbiamo discutere in modo laicosenza entrare in queste vicende.

Si è detto che le primarie ‘sono’ il Partito Democratico.Io non credo sia così, penso invece che le primarie sianouno dei migliori strumenti che abbiamo messo in campo.

Ritengo che si debba un po’ uscire dagli schemi di sini-stra e destra ed entrare in modalità diverse, parlare più diprogressisti e conservatori.

Una delle prime scommesse che abbiamo davanti noi,progressisti di questa parte del mondo che avrà sempremeno ricchezze nei prossimi anni, sarà quella di trovare unnuovo modello di sviluppo capace, con meno risorse, diavere gli stessi livelli di oggi.

Significa saper investire e studiare per realizzare quelloche in Italia è solo in embrione. Capire il nuovo benesseree garantirlo, seppure con meno risorse.

Rispetto alle alleanze penso che sempre di più il mondoavrà bisogno di chiarezza, ma non sempre si può sempli-ficare.

In Italia siamo in una fase in cui si fa sempre più torbidal’uscita da un percorso anomalo e c’è bisogno di avere unafase di rilancio per il paese, che ha bisogno di riforme pro-fonde, distinguendo con nettezza chi lavora per il pro-gresso e chi invece tende ad avere una cultura piùconservatrice.

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Repliche relatori

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Yves Mény

Cercherò di rispondere rapidamente, soprattutto ad al-cune domande tecniche e soffermarmi di più sulle do-mande di concetto.

Per quanto riguarda le primarie, la domanda era se c’èun rischio, nei sistemi partitici dei nostri paesi europei, dirifiutare la leadership.

La risposta è sì. Non c’è nessun sistema politico dovela leadership non sia un elemento cruciale. Ovviamente esi-stono molti modi di assumere questa evoluzione.

Ma la leadership è una componente oramai fondamen-tale, il problema è che abbiamo dei sistemi opposti moltoevidenti.

Abbiamo il sistema americano in cui questa corsa fati-cosa e straordinaria, che porta dalle primarie alle elezionidel presidente, fa emergere chi ha la stoffa di un leader.

Ci sono dei sistemi, come quello francese, che favoriscela leadership presidenziale, e la Destra francese si è ade-guata abbastanza bene a questo.

Abbiamo un sistema opposto, di leadership all’ingleseo alla tedesca, dove il leader del governo è il leader del par-tito maggioritario.

Abbiamo invece dei sistemi dove la scelta non è statafatta. C’è il sistema italiano, soprattutto a sinistra, e la si-nistra francese.

Uno dei problemi fondamentali della sinistra francese èl’attrito che c’è tra la leadership del partito e la leadershipper le elezioni presidenziali.

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Fino a che non sarà chiaro che la leadership naturaleper la presidenza è il segretario del partito, il partito avràdei problemi.

Purtroppo da molti anni non si cercano più le stessequalità per essere segretario del partito e per essere il pre-sidente della repubblica.

Mi è stato chiesto se i giovani di sinistra saranno più in-teressati grazie alle primarie: ho un po’ di dubbi al ri-guardo, perché il sistema è abbastanza formalizzato.

Sappiamo già chi sono i concorrenti e chi ha una pos-sibilità di vincere, perché c’è l’elemento esterno del son-daggio, che dà per vincitore il favorito ancor prima delvoto, creando caos tra le preferenze dei francesi e quelledei votanti.

L’opinione pubblica viene un po’ manipolata perchénon è chiaro se il sondaggio sia l’espressione dei francesitutti.

In Francia non abbiamo primarie di coalizione, perché ipartiti di sinistra, o vicini alla sinistra, hanno un forte inte-resse a presentare i candidati al primo turno delle presi-denziali, essendo una piattaforma straordinaria dipubblicità e di finanziamento.

Da questo punto di vista, il dramma della sinistra fran-cese è la frammentazione, un dato storico che condividecon l’Italia.

Alla domanda che è stata posta: se ai riformisti con-venga o meno una coalizione con la destra, rispondo no.

Questo vale anche per il caso inglese circa la coalizionetra conservatori e liberali. A breve in Inghilterra ci sarà unreferendum, voluto dai liberali, sul cambiamento dellalegge elettorale, ed è probabile che questo referendumboccerà l’idea di tale riforma.

E alla domanda relativa al calendario delle primarie inFrancia, rispondo che nel sistema francese i potenziali can-didati sono noti ed entrare in campagna elettorale troppo

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presto può essere uno svantaggio.Vengo ora alle due domande che meritano risposte più

approfondite. La sinistra e la conservazione. Mi chiedo spesso se la si-

nistra non sia nella situazione del Partito radicale francesedi inizio secolo.

Il suo programma verteva sui diritti fondamentali e sullelibertà politiche. Si era detto che, una volta esaurito questoprogramma, sarebbe finito anche il partito.

Io non credo che la sinistra morirà perché il suo pro-gramma di ridistribuzione si è esaurito, ma a patto chescelga degli obiettivi fattibili, perché nessuno crede più allepromesse per il paradiso.

Ci sono molte cose da proporre. La sinistra italiana oggisi è condannata ad essere il difensore della magistratura edell’amministrazione pubblica, perché questi due corpidello Stato sono costantemente sotto attacco dell’attualegoverno.

Chi può dire che la magistratura italiana non abbia bi-sogno di una grande e profonda riforma? Nessuno puònegare questo. Purtroppo Berlusconi vi ha messo nella con-dizione di essere difensori dell’indifendibile.

La dimensione europea si potrebbe migliorare. Io lavoromolto con Bruxelles, che è diventata una grande macchinaburocratica in cui la parola ‘politica’ equivale ad una paro-laccia.

Una macchina come l’Europa non può funzionaresenza avere un impulso politico. La sinistra europea develavorare un po’ di più sulla divisione del lavoro che è statastabilita dall’europeizzazione.

La regolamentazione economica è affare dell’Europa ele politiche sociali rimangono a livello nazionale. Questadivisione nel lungo termine è insostenibile, primo perchél’economia è una cosa importantissima che non può esserelasciata solo all’Europa; ma anche perché bisogna trasferire

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a livello europeo alcuni elementi di politiche sociali per evi-tare la competizione fiscale.

Senza questi accorgimenti prima o poi si creerà una si-tuazione insostenibile.

Non dimentichiamo che, alla nascita dell’Europa, i duesettori su cui si è lavorato di più sono stati acciaio e agri-coltura. Due cambiamenti di settore che sono stati accom-pagnati da politiche sociali molto vigorose a livelloeuropeo.

Questo ha permesso una transizione fantastica da eco-nomie medievali ad economie moderne. Non esiste nulladi equivalente per tutti gli altri settori e sono convinto chequesto non possa durare.

Forse la sinistra italiana ha dimenticato la sua dimen-sione a causa di quell’ europeismo, che condivido, ma es-sere europeista non significa accettare tutto ciò cheun’Europa, governata da un certo neoliberismo, vorrebbeimporci.

Essere europei non ci impedisce di essere anche critici edi resistere alle eventuali imposizioni.

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Franck Deker

Ho preparato cinque risposte. La prima riguarda il rap-porto tra il livello federale e quello dei Länder.

In Germania abbiamo un sistema di federalismo diversoda quello americano, pur essendoci un chiaro nesso traquesti due livelli.

Per il reclutamento dei politici questo può essere unvantaggio in quanto spesso alcuni candidati per la cancel-leria hanno già avuto esperienza come governatori dei Län-der, di conseguenza sono a conoscenza del funzionamentodell’esecutivo e non si presentano solo come politici del-l’opposizione.

I politici a livello regionale, come i governatori, cono-scono molto bene anche il Bundesrat che, diversamentedal Senato italiano, è composto dai rappresentanti delleRegioni.

I Länder presentano degli altri vantaggi per quanto ri-guarda la formazione delle coalizioni. In Germania fino aglianni ‘70 c’erano tre partiti con tre diverse modalità di coa-lizione, mentre ora, a livello regionale, le modalità di coa-lizione sono tredici.

Ciò rende tutto molto più complicato, ma questo puòessere già un modello per il livello federale, nel senso cheuna coalizione di tale livello deve essere già stata sperimen-tata a livello regionale. I Länder, in questo senso, sono unasorta di laboratorio.

L’ aspetto problematico invece riguarda l’incidenza cheil livello federale ha sul quello locale.

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I Länder devono avere la libertà di formare determinatecoalizioni, a prescindere da ciò che avviene nelle elezioniper il Bundestag. Questo è dovuto al fatto che il sistema digoverno e le costituzioni dei singoli Länder sono comun-que simili.

Nei Bundesländer non c’è una seconda camera. Perquanto riguarda il livello elettorale questo è molto simile aquello federale. Nei Länder ci sono gli stessi partiti che ab-biamo a livello federale.

Nelle mie pubblicazioni, per esempio, mi sono occupatoanche di federalismo e ho sempre avanzato la propostache si potrebbe introdurre lo stesso sistema di governodegli Usa a livello di Länder.

Potremmo avere dunque una sorta di sistema presiden-ziale perché allora le coalizioni a livello legislativo sarebberodiverse da quelle a livello di esecutivo. Ma questa è unaproposta minoritaria.

Alla seconda domanda devo rispondere partendo dallaprospettiva tedesca. L’esperienza tedesca è diversa. Ciò èdovuto al fatto che una decisione personale riguarda anchequelli che sono gli orientamenti di fondo del partito, dun-que, se c’è un conflitto contenutistico può emergere unproblema.

Ho fatto l’esempio di Schroeder e Lafontaine, ma inquell’occasione c’è stato un plebiscito a favore del primocandidato.

C’è stato inoltre il caso di Amburgo, nel quale la Spdvoleva lasciare ai membri la scelta del candidato per di-ventare sindaco: fu scelto un outsider che aveva militato alungo nel partito, un medico che non era il tipico espo-nente politico, che vinse le elezioni.

Quando però si andò al conteggio dei voti le urne eranostate rubate. Si può pensare che questo accada solo neipaesi del terzo mondo, invece è avvenuto in Germania.

Quell’outsider non ha potuto avere una possibilità e

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questo ci fa capire che in Germania non abbiamo espe-rienza nell’utilizzare questo strumento.

Per quanto riguarda la domanda relativa all’Europa, iocredo che con un’elezione diretta del presidente dellaCommissione avremmo una sorta di sistema presidenziale,mentre coloro che vogliono democratizzare l’Europa siorientano verso un modello parlamentare.

Il presidente potrebbe essere eletto dal Parlamento Eu-ropeo, invece di essere dallo stesso solo confermato. Glielettori europei potrebbero determinare gli orientamenti.

Al riguardo, ho appena scritto un saggio in cui presentovarie tesi e soprattutto spiego come si è giunti alla situa-zione odierna.

Per rispondere alla domanda sulle coalizioni con i Libe-rali, posso dire che io non simpatizzo per i Liberali, che ingenere non possono essere classificati sempre come partitidi destra.

Questi, per quanto riguarda l’asse economico, hannoideali di destra ma riguardo i valori sono più orientati a si-nistra, il che significa che come partner di una coalizioneandrebbero bene per entrambe le direzioni.

Per quanto riguarda l’asse dei valori culturali, i Liberalisono un po’ all’ombra dei Cristiano Democratici

Forse non alle prossime elezioni, ma a medio termine,si potrebbe pensare di fare delle coalizioni anche con l’Spde i Verdi. Se si raffrontano i vari partiti a livello europeonon si può generalizzare.

Le possibili coalizioni vanno valutate ogni volta in baseal contesto nazionale, perché la politica non può che essereaffrontata in questo modo.

Questo mi porta all’ultimo punto, che è una questionemolto interessante. Gli elettori di un partito dovrebberopoter determinare anche le coalizioni? Dal punto di vistanormativo la questione è quasi evidente, nel senso che inun sistema democratico come quello americano, un elet-

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tore può scegliere; ma in un sistema parlamentare, sono ipartiti a decidere la formazione di una coalizione o chi di-venta capo del Governo, e questo non è molto democra-tico.

Questo è un problema che si acuisce quando i partitinon dichiarano con chi vorrebbero allearsi durante la cam-pagna elettorale. Lo abbiamo visto nel nostro sistema pen-tapartitico, in quanto alcuni hanno capito che è meglionon dire con chi intendono allearsi perché perderebberovoti.

Bisogna pensare a come risolvere questo problema. Èpossibile che gli elettorii pensino a quali siano le coalizionipossibili e forse agli elettori bisognerebbe dare un secondovoto alle elezioni.

Bisogna riflettere seriamente sulla questione altrimentile elezioni finiranno per essere una sorta di lotteria per chisi reca alle urne.

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Stephen Ansolabehere

Le domande poste sono molte. Comincerò da quella re-lativa al profilo dei candidati alle primarie.

Negli Stati Uniti sappiamo come funzionano questimeccanismi. Generalmente, durante le primarie, i candidativincono sulla base delle loro qualità personali, dal mo-mento che dal punto di vista ideologico all’interno del par-tito sono su posizioni abbastanza simili.

Nelle primarie le differenze dal punto di vista ideologicosono contenute, gli elettori prestano più attenzione al ca-risma individuale, alle potenzialità che il candidato ha divincere le generali e alle capacità di attuazione delle poli-tiche.

Questo processo di preparazione ha portato i repub-blicani ad escludere alcuni candidati. Coloro che hannomeno potenzialità per come sono strutturate le primarie,tendono ad essere esclusi già in partenza.

La maggior parte delle candidature indipendenti a li-vello presidenziale negli Usa sono state create attorno apersonalità importanti e, quindi, tendono a non essere rap-presentativi di fazioni all’interno di un partito.

Tanto i candidati quanto gli elettori utilizzano le con-vention come un momento molto importante per cercaredi risolvere il problema delle differenze evidenziate dalleprimarie e di ricomporre il quadro generale.

Per quanto riguarda le posizioni che vengono poi of-ferte al candidato che non passa alle primarie, spesso èuna questione diretta che avviene nei confronti dei candi-

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dati. Questo è avvenuto anche in passato all’interno delpartito con la vicenda Jackson.

Per quanto riguarda gli elettori, questi decidono princi-palmente su due aspetti nelle generali: l’ideologia e le ca-pacità del candidato. Gli elettori all’interno del partitotendono ad essere molto fedeli.

Una terza questione è rappresentata dalle differenze trail livello di stato e quello federale. A Los Angeles viene de-finita una lista di candidati i quali cercano di raggiungeretutti gli elettori e di spiegare loro come si vota.

Per quanto riguarda i sindaci, spesso durante ilprocesso pre-elettorale questi vanno a proporsi e proporrealleanze con altri candidati, ma non è un fenomeno chesi verifica ovunque.

Ci sono anche delle variazioni per quanto riguarda ilmodo di comporre le alleanze. Un caso interessante è NewYork, dove un candidato può presentarsi per più partiti earrivare alle elezioni generali col proprio nome associato atutte queste diverse forze politiche, come nel caso di RudyGiuliani.

Questo potrebbe essere un modello interessante daprendere in considerazione quando pensiamo al voto dicoalizione, accettando che un politico possa correre per di-verse formazioni politiche.

Per quanto riguarda l’accessibilità è una questione cheogni stato ha affrontato in base alle proprie leggi. Adesempio, nella maggior parte degli stati non è possibileconcorrere alle primarie per due cariche diverse, mentre ilTexas lo permette.

La prima domanda molto interessante, che ha postoMarina Sereni, riguardava l’efficienza e l’organizzazionedei partiti nonostante il folle sistema di primarie centraliz-zate.

Si chiedeva come questo fosse possibile. Il punto è chei partiti hanno una forte struttura permanente fondamen-

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talmente incentrata al vertice. I comitati locali aiutano dalpunto di vista del reperimento fondi, dell’individuazionedei candidati, del supporto di professionisti al lavoro elet-torale, ma anche i singoli candidati apportano le proprierisorse.

Per rispondere alla domanda riguardo la relazione tra isocial network e i candidati, posso dire che i Democraticihanno adottato tale struttura come modello organizzativo.Si stila la lista di tutti gli elettori e si cerca di classificarli se-condo cinque diverse tipologie:

• 5^ Sei uno di noi, devo solo portarti al voto;• 4^ Potresti essere uno di noi ma pensi ad altri can-

didati;• 3^ Sei totalmente incerto;• 2^ Sei orientato verso qualcun altro. Ti posso

ignorare;• 1^ Tu stai con un’altra coalizione, la sola cosa che

posso fare è cercare di non farti andare a votare. È necessario individuare il tipo di elettore e sviluppare

la giusta comunicazione di cui c’è bisogno per entrare incontatto con quegli elettori: mandare sms o messaggi suFacebook, inviare messaggi vocali di famosi candidati cheti ricordano di andare a votare, concentrando questaazione sugli elettori delle categorie tre e quattro sopraci-tate.

Per quanto riguarda l’organizzazione locale e nazionale,spesso si ha l’impressione sbagliata che gli Usa siano piùuniti di quanto non siano in realtà.

Negli anni sessanta il Partito democratico era profon-damente disgregato e c’era una spaccatura sulla questionerazziale. Nel momento in cui la questione è stata risolta,gli elettori si sono divisi ancora di più.

Ci sono delle tematiche complicate come quella dei ma-trimoni gay, il problema è che certe questioni a livello divalori sono percepite come qualcosa di molto impopolare,

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l’accettazione è molto graduale da parte della popola-zione, e ciò spiega le contraddizioni.

Infine, quali strumenti possiamo adottare per ridurre ilrischio di rivalità tra i diversi candidati ed elettori? La rispo-sta è che i leaders politici devono fare un notevole sforzoper superare le differenze.

Se ci siamo scontrati in fase di primarie, è necessariotornare insieme in fase di elezioni generali, e questo negliUsa avviene. Ci si aspetta che il candidato che ha perso egli elettori che lo hanno votato ritornino al partito.

Si possono adottare alcune misure per superare questedifficoltà. Per recuperare i debiti accumulati dalla campa-gna di Clinton, Obama ha fatto un grande sforzo.

La questione è riuscire a fare in modo che le masse la-vorino insieme, per cui il processo delle convention è utileper far sì che la gerarchia organizzativa si affidi davveroalle primarie dirette o indirette, per stimolare gli elettori.

Altrettanto gli elettori guardano ai leaders e ai dirigentiperché il partito si tenga insieme. Da questo punto di vista,tanto nei Democratici quanto nei Repubblicani è una lottaper l’equilibrio, una volta che le primarie sono finite biso-gna fare in modo che si trovino gli accordi di cui c’è biso-gno.

Questo può comportare forse un ulteriore dibattito. Sa-rebbe interessante per voi convocare alcuni dirigenti deiComitati nazionali Democratico e Repubblicano per rac-contarvi come hanno fatto a tenere insieme il partitoquando avevano delle personalità così forti che erano arri-vate ad un grande livello di scontro.

In qualche maniera i dirigenti politici americani riesconoad appianare queste divergenze nel momento cruciale. Leconvention, che dall’esterno sono percepite come occa-sione per farsi pubblicità, hanno in realtà la funzione di ri-mettere insieme il partito e di fare in modo che tuttiinsieme si sia pronti ad affrontare la sfida elettorale.

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Daniel Ziblatt

È stata posta una domanda da Gianluca Galletto ri-guardo il finanziamento.

La tematica è sicuramente da affrontare. C’è questaidea che le primarie siano una democratizzazione dei par-titi, ma non è sempre così.

Se c’è una regola che consente l’inclusione di tutti, mapoi non ci sono le risorse, non è poi così democratico. Bi-sogna trovare un nuovo sistema e capire che ruolo svolgeil denaro.

Noi nelle primarie abbiamo pensato a dei finanziamentiche siano dello stesso livello per tutti i candidati a livellofederale, così creiamo una par condicio.

Ma nelle ultime tornate elettorali, Obama ha deciso dinon utilizzare tale sistema e così ha fatto anche Bush. Lorosono riusciti a raccogliere molti soldi. Nel 2008 tutti i can-didati hanno speso centinaia di milioni di dollari.

Non c’è una soluzione per quanto riguarda il finanzia-mento per le campagne. Ogni volta che si risolve un pro-blema, ne emerge un altro.

Credo che dobbiamo pensare alle primarie anche in re-lazione al sistema di finanziamento, perché non sono leistituzioni individuali o singole a poter risolvere da soletutti i problemi.

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3° Sessione

Il PD visto dagli elettori e dagli iscritti

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Apertura dei lavoriMarina Sereni

Ieri abbiamo discusso sulla trasformazione dei sistemidemocratici e su come questa trasformazione, nel passag-gio dalla Prima alla Seconda Repubblica, abbia mutato irapporti tra Stato, partiti e società.

L’ambito di questa riflessione è stato molto ricco e sonoemerse due questioni: una relativa a ciò che il Pd può fareper interpretare una forte domanda di innovazione daparte dei cittadini, senza limitarsi ad assecondare le ten-denze che sembrano prevalenti negli ultimi decenni, e l’al-tro su come possiamo raccogliere la spinta all’innovazionesenza scegliere anche noi la strada che è sembrata l’unicafattibile, cioè la spinta populista, plebiscitaria e la fortissimapersonalizzazione della leadership.

Ieri è emerso con nettezza che la leadership accentrata,personale e mediatica non coincide con la capacità e la ve-locità della decisione e della risoluzione.

Basta osservare gli attuali accadimenti sulla vicenda im-migrazione a Lampedusa per capire che ad una forte lea-dership e ad un forte impianto mediatico non semprecorrisponde una capacità di risoluzione dei problemi.Siamo al tramonto dell’epoca del berlusconismo.

Questo porta con sé l’esigenza, non di cancellare la do-manda di innovazione, ma di rispondere ad essa in mododiverso. Quel modello oggi sembra al tramonto, ma la que-stione su come fare dei partiti nuovi rimane. Come fare perdare alla parola ‘partito’ un significato positivo e riempirladi contenuti nuovi senza assecondare la tendenza dei par-

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titi populisti. Nel pomeriggio abbiamo approfondito la questione

delle primarie, comprendendo che per un partito politicoscegliere la via della larga partecipazione significa avereuna forte cultura organizzativa e che la partecipazioneesige dei gruppi dirigenti che scelgono come, quando edove organizzare un processo di selezione attraverso unostrumento di partecipazione come le primarie.

Nella giornata odierna torneremo a parlare in modospecifico del Pd. Luca Comodo ci illustrerà una ricerca daloro effettuata circa la percezione che iscritti ed elettorihanno del Pd. Abbiamo chiesto di verificare se la variabileintensità di partecipazione e coinvolgimento nella vita delPd da’ luogo anche ad una percezione diversa del partitoo se tra iscritti ed elettori troviamo una certa sintonia. Que-sto è il tema che Dpsos ha affrontato per noi, per farci ca-pire quali sono i temi su cui concentrare la nostraattenzione e per definire meglio la nostra identità.

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Relazione introduttivaLuca Comodo Ipsos – Direttore dipartimento politico-sociale

Abbiamo intervistato in tempi recenti, tra il 22 e il 24marzo 2011, due segmenti di popolazione:

a) gli iscritti al Partito democratico nel 2010. Sono stateeffettuate 540 interviste e poi classificate per tipologia e re-gione di residenza;

b) abbiamo poi intervistato un campione di elettori del Pdnel 2008, nel numero di mille, che verranno analizzati e sud-divisi in elettori attuali - ossia coloro che hanno votato e con-tinuano a votare per il Pd - ed elettori che hanno votato peril Pd nel 2008 ma che attualmente sono incerti sul partitoper il quale votare o propensi all’astensione.

Questo è il segmento più interessante al quale rivolgersiper recuperare consensi.

Il campione di elettori è stato costruito sulla base dei no-stri dati storici. Il primo risultato principale riguarda la perce-zione del ruolo dei partiti, i valori e le priorità del Pd.

Per quanto riguarda il ruolo dei partiti abbiamo datoquattro diverse possibili opzioni di risposta che sono le se-guenti:

• il ruolo dei partiti come strumenti di partecipazione de-mocratica dei cittadini è ancora attuale;

• il fatto che nell’ultimo ventennio i partiti non siano piùstati in grado di svolgere il ruolo assegnato loro dalla Costi-tuzione ha peggiorato la qualità della democrazia italiana;

• i partiti hanno svolto una funzione importante nel pas-sato, ma oggi c’è bisogno di nuove forme di partecipazione;

• il ruolo centrale che la Costituzione assegna ai partiti ha

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creato difficoltà per il buon funzionamento della democraziaitaliana.

Le percentuali riportano i pareri degli intervistati. È nettala percezione da parte degli iscritti e degli elettori (79%) chevedono nel partito uno strumento con una sua funzione at-tuale, ma che necessita di essere rivisto nella modalità e nelleforme, perché nel ventennio berlusconiano i partiti nonhanno svolto il loro ruolo e oggi c’è bisogno di studiarenuove forme di partecipazione.

Una parte molto importante, seppure minoritaria, siadegli iscritti che degli elettori (43%) ritiene che i partiti ab-biano creato difficoltà al buon funzionamento della demo-crazia.

C’è una visione complessa, molte di queste opinioni si so-vrappongono nello stesso individuo, si nota la richiesta diammodernamento e rinnovamento di uno strumento che ècentrale, ma che non svolge più la funzione che gli era statarichiesta.

La differenza più consistente tra le opinioni degli elettoried ex elettori del Pd è relativa alla centralità del ruolo dei par-titi.

Si può notare che tra gli ex elettori, solo una minoranzaritiene che il ruolo dei partiti sia ancora attuale. Sull’altrofronte, gli elettori incerti astensionisti accentuano l’opinioneche bisogna cercare nuove forme di partecipazione.

Per quanto riguarda i valori del Pd, sia elettori che iscrittiritengono che siano molto importanti. Questo vale anche perelettori ed ex elettori.

Riguardo le priorità del Pd, al primo posto c’è il tema dellaprecarietà del lavoro, che viene accentuata come prioritàdagli elettori e rimane al primo posto anche per gli iscritti. Alsecondo posto il tema degli investimenti in ricerca, scuola ecultura, mentre al terzo posto troviamo il tema della ripresaeconomica. La questione del conflitto di interessi si collocasolo al quarto posto.

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I nuclei tematici centrali sono due ‘economia e precariato’ed ‘innovazione, ricerca, scuola e cultura’.

Gli ex elettori accentuano fortemente il tema del preca-riato e attenuano il tema del conflitto di interessi, avvicinan-dosi molto a quella che è la percezione complessiva dellacittadinanza italiana.

Come partito di governo, le priorità sono le stesse. Gli elet-tori accentuano il tema della precarietà del lavoro nell’even-tualità che il Pd diventasse partito di governo.

L’altro blocco tematico è relativo al percorso del Pd, dallanascita ad oggi e il suo posizionamento attuale.

Si chiedeva se il Pd avesse mantenuto le promesse conte-nute nel suo progetto iniziale.

La risposta maggioritaria, sia tra gli iscritti che tra gli elet-tori, è che le promesse sono state mantenute solo in parte.Più di 1/4 degli iscritti pensa che le promesse non siano statemantenute e poco più del 10% ritiene che ciò che inizial-mente è stato promesso sia stato mantenuto nel percorso.

Queste opinioni cambiano un po’ tra gli ex elettori, cherimarcano nettamente le loro aspettative che sono state di-sattese dal Pd.

Circa il 60% di iscritti ed elettori trova valido il progettodel Pd.

Una quota non irrilevante (quasi il 30% degli iscritti ed1/4 degli elettori) afferma invece che era un progetto valido,ma che oggi è stato snaturato, dunque è necessario rimet-terlo in sesto.

Infine, una posizione più radicale afferma che il progettodel Pd, così come era strutturato all’inizio, è finito ed è ne-cessario trovare nuove strade.

Tuttavia, per una serie di aspetti, il percorso che ha carat-terizzato il Pd fino ad oggi viene valutato in modo positivo.

Abbiamo chiesto per tutti questi aspetti la capacità di pro-porre soluzioni efficaci, dando una valutazione da positiva anegativa.

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I 3/4 degli elettori affermano che il Pd è un partito capacedi individuare le necessità del Paese; per i 2/3 il Pd è capacedi proporre soluzioni efficaci per i problemi dell’Italia. Valu-tata positivamente anche la presenza su Internet.

I punti in cui si registrano più difficoltà sono quelli relativial tema dell’identità e al ricambio della classe dirigente.

Per quanto riguarda gli ex elettori, i punti critici, oltre aquelli sopracitati, riguardano la capacità di individuare le prio-rità del Paese.

Questa è una fetta di elettorato che si è allontanata per-ché non comprende le proposte del partito.

I punti di forza del Pd percepiti nell’ultimo anno sono re-lativi al modo con cui sono stati trattati i temi economici edel lavoro, l’attenzione verso la scuola e la cultura.

I punti di debolezza riguardano invece il tema della liti-giosità, punto di maggior sensibilità. Troppe divisioni all’in-terno del partito.

Al secondo posto troviamo i due elementi che dividonol’elettorato che sono l’antiberlusconismo eccessivo e latroppa arrendevolezza, che mostra un’opposizione troppoattendista. Incapacità di produrre un programma alternativo,chiaro e coerente.

Per quanto riguarda il posizionamento politico del Pd, gliintervistati lo trovano corretto, ma una quota consistente so-stiene che è una linea troppo spostata verso il centro, mentreuna percentuale minore ritiene che sia troppo tendente a si-nistra. C’è difficoltà a cogliere i punti qualificanti della posi-zione del Pd.

La divisione intravista nelle risposte spontanee diventa evi-dente. Rispetto al tema Berlusconi c’è un 40% che dice cheil Pd è troppo condizionato dall’antiberlusconismo, mentre1/3 degli elettori e 1/4 degli iscritti ritiene che il partito siatroppo indulgente con Berlusconi.

Sono opinioni nettamente contrastanti; solo una mino-ranza afferma che rispetto al tema berlusconiano il posizio-

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namento è corretto. L’altro tema è quello della rappresentanza, del rinnova-

mento e delle primarie. Il Pd deve essere un partito che lascia autonomia alle re-

altà locali: e qui c’è un’adesione massiccia sia da parte deglielettori che degli iscritti.

Gli elettori ed i militanti del Pd si sentono più rappresentatidai dirigenti nazionali o locali?

A questa domanda i pareri si sono nettamente suddivisitra iscritti ed elettori. Per quanto riguarda la valutazione delrinnovamento dei gruppi dirigenti, l’opinione non è del tuttonegativa pur sottolineando che c’è ancora molto da fare,mentre a livello locale le opinioni si polarizzano.

È interessante notare che c’è una valutazione nettamentedifferente per aree geografiche rispetto al processo di rinno-vamento delle classi dirigenti a livello locale.

A nord diminuisce la percentuale di coloro che affermanodi non aver visto nessun rinnovamento, mentre sale l’opi-nione positiva.

Questo dato è più marcato nelle regioni dove si concentrauna parte consistente della forza del Pd, tant’è che l’idea po-sitiva è il valore modale. Nel centro-sud l’opinione prevalenteè che nulla sia stato fatto con il 50%.

Fino a questo punto le opinioni di iscritti ed elettori eranopiù o meno allineate, ma toccando il tema relativo a ciò chedovrebbe fare il Pd riguardo alle primarie, qualche differenzasi nota.

Il 42% degli iscritti sostiene le primarie e ritiene che deb-bano essere aperte tutti, mentre più di 1/3 si dice d’accordo,a patto che vengano regolamentate. Il 12% dichiara che èbene lasciar decidere ai dirigenti e iscritti al partito e il 10%è radicale nel chiedere che vengano abolite.

Tra gli elettori la tendenza prevalente è il sì alle primarie,mentre nel segmento degli ex elettori si verifica un dato ina-spettato: il 21% chiede che le primarie vengano abolite e il

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14% pensa che si debba lasciar decidere a dirigenti ed iscritti,dunque in questo caso l’idea della regolamentazione è incalo.

Questo è un segmento di elettori un po’ più distanti, for-mato da coloro che si aspettano, oltre ad un’indicazione,anche la capacità di prendere in mano i destini del Paese.

Una situazione similare la ritroviamo anche in segmentidi elettorato locali, che tendono ad essere annoiati all’ideadell’ascolto e del coinvolgimento.

Per quanto riguarda le elezioni degli organi dirigenti delpartito, le posizioni degli iscritti cambiano: il 40% pensa chesiano gli iscritti a dover decidere, senza bisogno di ricorrerealle primarie, mentre il 27% sostiene le primarie, purché re-golamentate e solo il 30% sostiene sempre le primarie.

Tra gli elettori rimane prevalente la convinzione che si deb-bano fare la primarie anche per gli organismi di partito el’elezione dei dirigenti. Di nuovo gli ex elettori rimarcanol’idea delle primarie inutili.

In materia di immigrazione, la posizione del Pd apparecorretta per circa la metà di iscritti ed elettori.

Per una quota non irrilevante sia degli iscritti (34%) chedegli elettori (28%) l’atteggiamento è corretto, ma bisogne-rebbe essere più inclusivi, mentre una percentuale più bassadi iscritti e una più rilevante di elettori, sostiene che si do-vrebbe prestare più attenzione ai temi della sicurezza.

Ovviamente le opinioni degli italiani in tema di immigra-zione sono in evoluzione per via degli ultimi eventi. Ritengodunque che questi dati nel corso del tempo subiranno dellevariazioni. Tra gli ex elettori le differenze non sono partico-larmente apprezzabili, dunque non vale la pena soffermarsi.

I temi etici non sono stati approfonditi in modo capillare,ma abbiamo cercato di capire qual è l’orientamento, rispettoalla ricerca o meno di una posizione comune, sapendo cheall’interno del partito queste tematiche creano diversità diopinioni.

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La posizione nettamente prevalente, sia tra gli iscritti chetra gli elettori, è quella di decidere in base alla propria co-scienza; la richiesta della ricerca di una posizione comune èuna richiesta minoritaria.

Si verifica lo stesso trend anche tra gli ex elettori che ac-centuano l’idea della decisione secondo coscienza.

Per quanto riguarda la riforma dell’articolo 41, questo èvisto da un lato come un articolo necessario in una situazionedi crisi come quella attuale, che esprime il giusto equilibriotra difesa dell’interesse generale e iniziativa economica pri-vata, ma dall’altro lato c’e un orientamento molto consi-stente in cui è rimarcata una sovrapposizione di opinioni.

I 2/3 degli intervistati, tuttavia, sostengono che l’impresaabbia troppi vincoli e che sia giusto e necessario attuare delleriforme.

Torna in termini di alone culturale generale la situazioneche abbiamo potuto riscontrare per quanto riguarda i partiti.

Se da un lato c’è la volontà di mantenerlo, dall’altro vi-viamo il disagio del partito che non funziona come dovrebbee la libertà economica di impresa che è troppo vincolata,dunque si rende necessaria una riforma.

Questa situazione dà l’idea generale della difficoltà di in-terpretazione che nell’elettorato è molto presente. Si vor-rebbe mantenerlo ma ci si rende conto che non funzionacome dovrebbe.

In che misura il Pd è in grado di valorizzare le opinioni eil ruolo dei propri iscritti e militanti?

A questa domanda, il 24% degli iscritti afferma che lecapacità sono elevate, il 42% dice che è in grado di farlo ab-bastanza bene, mentre 1/3 è critico su tale capacità.

Per quanto riguarda il coinvolgimento attraverso le sezionie i circoli, abbiamo un 59% di valutazioni positive e un 40%di area critica che si sente poco coinvolta. Il 44% afferma disentirsi coinvolto tramite internet.

Sul tema degli amministratori locali l’83% degli iscritti af-

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ferma che dovrebbero essere ascoltati di più perché sono iveri interpreti dei cittadini.

Anche gli iscritti e gli elettori percepiscono un sentimentodi progressivo distacco rispetto alla politica. Anche loro,come molti elettori italiani, riconoscono nell’amministratorelocale una figura fondamentale che, vivendo in prima per-sona le realtà locali, conosce i problemi reali e sa interpretarli.

Ora abbiamo alcuni dati con cui abbiamo classificato gliintervistati.

Il primo dato riguarda i mezzi di informazione. Alla domanda “Qual è il mezzo principale che usi per in-

formarti e farti un’opinione?”, il 6% degli iscritti e il 9% deglielettori hanno risposto che usano esclusivamente la televi-sione, mentre tra gli italiani la percentuale è del 16%.

Bisogna tenere presente il fatto che quasi la metà degliitaliani usa la televisione come unico mezzo di informazione.

Un’altra tipologia di intervistati che utilizza la televisionecome mezzo prevalente, ma si avvale anche di altri strumentidi informazione, si compone del 19% degli iscritti, il 25%degli elettori e il 31% degli italiani.

La differenza più rilevante è l’utilizzo del quotidiano: il58% degli iscritti lo usa come strumento di informazione,mentre Internet è lo strumento prevalente per il 10% degliintervistati. Tra gli ex elettori c’è un fenomeno interessante:l’aumento nell’utilizzo dei quotidiani, mentre il ruolo della tvrimane sostanzialmente invariato.

Per quanto riguarda l’autocollocazione politica sull’assesinistra-destra, iscritti ed elettori si sentono prevalentementedi centrosinistra (56% iscritti, 59% elettori). Si colloca a sini-stra il 39% degli iscritti e il 36% degli elettori. Al centro sicollocano il 5% degli iscritti e il 6% degli elettori.

Gli elettori incerti o astensionisti si pongono nell’area deinon collocati, dato più evidente al centro.

Gli iscritti partecipano in modo articolato per la metà asindacati e associazioni di categoria, per quasi la metà ad as-

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sociazioni di volontariato e altro. Gli elettori partecipano unpo’ meno; tuttavia, il 18% è iscritto ad un partito.

I nostri ex elettori manifestano un livello di partecipazionenon irrilevante, non sono distanti dalla vita del Paese, infattiaccentuano la presenza nelle associazioni di volontariato,mentre fanno scendere nettamente l’iscrizione ai sindacati enon sono iscritti ad alcun partito.

Poco meno di 1/4 di iscritti e di elettori sono praticanti, inlinea con la media italiana. Diminuisce in maniera evidentela partecipazione saltuaria nel punto di maggior consensoper il centrodestra.

In sintesi possiamo riassumere così: • i partiti sono strumento attuale ma, da rivedere;• le priorità sono precariato, innovazione e ripresa eco-

nomica;• il percorso del Pd è un progetto che non ha mantenuto

tutte le sue promesse. È ancora valido ma da ricalibrare;• i punti di forza del Pd sono programmi e individuazione

delle priorità del paese, i punti deboli sono identità, ricambiodella classe dirigente ed eccesso di divisioni;

• sul berlusconismo e antiberlusconismo c’è una distin-zione netta soprattutto tra gli elettori. È un tema che divide;

• per quanto riguarda il rinnovamento dei gruppi diri-genti, lo sforzo non è ancora sufficiente;

• sì alle primarie, ma normate per le cariche monocrati-che, non necessariamente per i gruppi dirigenti del partito;

• centro e periferia: importante attenzione al territorio,alle realtà e agli amministratori locali a livelli decentrati.

In appendice la versione completa della ricerca Ipsos

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Interventi

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Walter Tocci

Per la prima volta nella sua vita il Pd si prende cura dellaforma partito. Bersani ha annunciato un lungo lavoro perdare un senso moderno a quella parola partito che portiamonel simbolo. È un’intenzione meritoria e proprio per questobisogna fin da subito evitare i fraintendimenti che possonoimpedirne l’attuazione. Abbiamo bisogno di un nuovo ap-proccio al problema per superare i soliti schemi giornalisticie le false alternative - primarie si o no, partito leggero o pe-sante, partito degli elettori o degli iscritti – che in passatohanno condotto il nostro dibattito su strade senza uscita.Ancora di più siamo consapevoli che la discussione è espostaal rischio di uno sterile amarcord dei vecchi partiti di massa.Si tratta, invece, di ripensare la funzione del partito come co-struttore di democrazia nell'Italia di oggi, come protagonistadella ricostruzione civile del dopo Berlusconi.

È davvero necessario? È possibile praticamente? Siamo ingrado di realizzare tale compito? Partire da queste domande,a mio avviso, aiuta a evitare il rischio e a cogliere l'opportu-nità.

1) La necessità di un rilancio della forma partito scaturisceda una lettura critica del ventennio, come ha sottolineatoMaurizio Migliavacca nell'introduzione. Negli anni novantal'idea di demolire i partiti, peraltro non nuova, promettevaun futuro radioso per la politica: più decisione, potere direttoai cittadini e una fase nuova per il nostro paese, chiamatapoi Seconda Repubblica. Queste promesse sono clamorosa-mente fallite. Il populismo, tra i tanti difetti, ha anche quello

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di non prendere alcuna decisione rilevante per il futuro delpaese. L'ultima scelta importante è stato l'euro, poi solo pro-paganda e gestione corrente. Il potere dei cittadini non è maistato così debole e mai così forte il dominio delle oligarchieeconomiche, politiche e corporative. Le recenti manifesta-zioni dei giovani e delle donne hanno messo a nudo primadi tutto queste diseguaglianze. E infine, la Repubblica invecedi rinnovarsi rischia di spezzarsi sotto i colpi del leghismo edel sovversivismo dall'alto. Dove è il pericolo è anche ciò chesalva, diceva il poeta. Proprio nelle fratture della crisi demo-cratica si misura la necessità del rilancio del partito, comesoggetto collettivo della Decisione, come promotore del-l'Eguaglianza, e come forza coesiva dell'Unità della Repub-blica.

2) Esistono processi oggettivi – società mediatica e per-sonalizzazione, ad esempio – che militano contro la possibi-lità di organizzare grandi partiti. Tutto ciò è vero, ma contieneanche esagerazioni strumentali. Quei processi hanno certouna carica destrutturante delle forme politiche ma possonoessere anche utilizzati per un’opera ricostruttiva. La culturadel community organizing, ad esempio, ha suggerito aObama di impiegare i nuovi media come infrastruttura or-ganizzativa della vittoria elettorale. I vecchi partiti italiani sa-pevano piegare la personalizzazione come fattore coesivodell'organizzazione, tanto è vero che ancora oggi parliamodi Moro e Berlinguer, per dire solo degli ultimi.

D'altro canto, dovremmo porre più attenzione alle causesoggettive: chi ha interesse oggi a mantenere deboli i partiti?Innanzitutto, le oligarchie e i poteri che proprio sfruttando ilvuoto della politica hanno dominato la società italiana finoa bloccarne le energie civili e perfino quelle economiche.Qualcosa del genere, però, è accaduto anche all'interno deipartiti, poiché la debolezza dell'organizzazione ha permessoal ceto politico di affermare il proprio dominio a discapitodei referenti sociali e delle coerenze ideali. Non a caso oggi

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proprio dall'interno – da correnti, notabilati, gruppi di potere- vengono molte resistenze alla costruzione di forti partiti. Sesono in buona salute, infatti, essi costringono il personalepolitico a rispondere del proprio operato, costituiscono unaforma di accountability degli eletti.

3) Di conseguenza, saremo in grado di costruire ungrande partito solo se faremo i conti con questo anomaloprimato del ceto politico, senza facili demagogie, ma conuna lucidità storico-politica. Se lo si vuole ridurre bisognaprima di tutto capire le cause di quel primato.

Non va mai dimenticato che l’attuale sistema politico ènato dal crollo del precedente e in quel passaggio è statoproprio il ceto politico a conservare la continuità della fun-zione rappresentativa, mentre venivano meno tutte le altrerisorse ideologiche e sociali dei vecchi partiti. Il primato,quindi, nasce da funzioni e perfino da meriti acquisiti sulcampo. E ciò spiega tante cose. Ci sono caratteri del sistemapolitico italiano – instabilità dei fondamenti istituzionali, va-riabilità delle formazioni politiche, dinamica distruttiva delbipolarismo – che non si ritrovano nei paesi dell’Europa oc-cidentale e sono invece del tutto simili ai modelli dell’Europaorientale caratterizzati dal medesimo surplus di ceto politico.I primi, infatti, sono prodotti da lunghe continuità politiche,mentre i secondi scaturiscono da transizioni ancora più trau-matiche della nostra.

Non solo, quel primato spiega anche la vicenda politica:negli anni novanta il centrosinistra ha vinto con un forte cetopolitico ereditato dai vecchi partiti, mentre la destra era ingran parte diretta da parvenu della borghesia professionalee imprenditoriale. Negli anni duemila però il rapporto di forzasi è ribaltato perché loro hanno imparato il mestiere e i nostrisi sono logorati per mancanza di ricambio.

Infine, quel primato, sia a destra sia a sinistra, scaturiscedalla straordinaria capacità del personale politico di adattarsialle nuove dinamiche dei mass-media e della personalizza-

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zione. Da questo processo di apprendimento sono natenuove forme politiche che mettono insieme elementi pre epost-partito di massa. Da un lato leader mediatici e dall’altronotabili territoriali sono tenuti insieme da una sorta di pattodi franchising, in cui i primi si occupano della cura del brande i secondi dell’organizzazione del consenso.

Queste trasformazioni hanno interessato tutto il sistema,ma dovremmo analizzare secondo un principio di realtà cosaè davvero successo in casa nostra. Siamo stati certamenteparte di queste tendenze, ma anche forza di resistenza, piùo meno consapevolmente. Non è un caso che il Pd sia oggil’unica formazione politica italiana che ancora si definiscepartito e rifiuta il nome del leader sulle proprie bandiere.Certo, il primato del ceto politico si è imposto anche noi e inmodi talvolta esorbitanti, ma siamo anche un’organizzazionein cui persistono motivazioni ed energie più corpose. Si do-vrebbe farne una ricognizione in modo sistematico, ma a ti-tolo di esempio indico quattro elementi: a) militantipoliticizzati ed educati dalle vecchie culture politiche di cuisiamo eredi; b) attivisti nativi del Pd, per lo più giovani, for-mati dalle culture contemporanee, aperti alla rete e alla glo-balizzazione; c) arcipelago di insediamenti a tradizione dibuongoverno locale; d) comitati elettorali con legami popo-lari, anche se in forme talvolta degradate, soprattutto nelMezzogiorno.

Sono i residui delle trasformazioni non pienamente riu-scite degli ultimi venti anni - guidate spesso da operazionisimboliche sui cambiamenti di nomi e di leader - che nonhanno mai curato i concreti processi di organizzazione. Sonomateriali inerti ed eterogenei, come i ciottoli lasciati sullaspiaggia dalle diverse mareggiate. Finora a tenerli insieme èstato il ceto politico, ma si è trattato di un collante non solofriabile e a scarsa tenuta - come si vede ogni giorno - maanche corrosivo di quegli stessi elementi che proprio per que-sto oggi rischiano di perdere le migliori qualità. Eppure, si

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deve partire da questi materiali per ricostruire un nuova casapolitica e bisogna trovare una malta buona capace di legarlie di utilizzarli nel modo migliore. E il collante non può chetrovarsi in una forte cultura politica.

Proprio qui si annida la nostra debolezza, poiché siamorimasti subalterni alle due tendenze dominanti – il populismoe l’antipolitica – che hanno prosperato negli ultimi venti anninel vuoto lasciato dai grandi partiti popolari. Questa tenagliaha frenato la nascita del Pd e - hic Rhodus hic salta – il veroPd si affermerà solo battendo quelle tendenze ovvero strap-pando ad esse i rispettivi nuclei di verità: parlare al popolomeglio del populismo e per questa via restituire la credibilitàalla politica. Tutto ciò sembrava annunciato nelle primarie diProdi e Veltroni, perciò sono diventate il mito fondativo delPd. E hanno anche amalgamato al meglio quei materiali di-sponibili.

Le primarie, però, sono state anche una regola di sele-zione del personale politico. Oggi, i guai vengono propriodalla sovrapposizione di queste due funzioni. Spesso si de-termina il cortocircuito tra il mito e la regola: quando si è co-stretti a ricorrere alle primarie pur sapendo che in quella cittàportano alla sconfitta, oppure quando i difetti della regolariverberano negativamente sul mito, come è successo a Na-poli. Si tratta quindi di separare il mito e la regola. Non acaso dagli studiosi americani viene il consiglio di utilizzare leprimarie come uno strumento e non come una religione, cor-reggendone alcune procedure difettose. È una soluzione dibuon senso, che però lascia un vuoto. Un partito ha pur sem-pre bisogno di un mito fondativo, se non è più nelle primarie,bisognerà cercarlo nel significato più profondo che quella re-gola ha evocato in milioni di elettori e cioè che siamo decisinel dare all'Italia un partito mai visto prima, un moderno par-tito popolare. Dobbiamo progettarlo nell'organizzazione,nella cultura e perfino nella simbologia. Moderno perchévuole superare le nuove fratture tra istituzioni e società tipi-

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che dell'età contemporanea. Popolare perché vuole dare ilpotere a chi non ce l'ha. Nella lectio introduttiva, MassimoLuciani ha ricordato che il partito pensato dai costituenti èscritto non solo nell'articolo 49 – con quel verbo impegnativodeterminare riferito alla politica nazionale – ma anche nel-l'articolo 3, nel rimuovere gli ostacoli che impediscono l'egua-glianza effettiva dei cittadini. Il Pd deve essere il partitodell'articolo 3, il partito dell'eguaglianza per l'Italia di oggi.

Ciò che vogliamo per la società deve valere anche per lanostra comunità. Anche qui bisogna rimuovere gli ostacoliche il primato del ceto politico frappone al pieno sviluppodella funzione democratica. C’è quindi una sorta di articolo3 da affermare nella vita interna del Pd perché il Pd possa af-fermarlo nel paese. Abbiamo, deciso, infatti non solo di chia-marci partito, ma anche democratico. Per noi e per l'Italia.

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Oriano Giovanelli

Il Pd compirà quattro anni ad ottobre. Dobbiamo af-frontare la questione che stiamo discutendo in questo se-minario avendo la consapevolezza che la nostra è unaformazione giovane, ancora in via di strutturazione, e perquesto assieme alla consapevolezza dell’urgenza e dellacentralità del tema, dobbiamo saper mantenere una certaserenità anche per evitare semplificazioni frutto della ine-vitabile influenza di storie precedenti. Il dibattito sulla na-tura del partito non è del resto reso semplice dallasostanziale confusione e indeterminatezza che su questotema abbiamo scontato nella fase di avvio dell’esperienzadel PD.

Ho deciso di intervenire sollecitato dalla discussione diieri dove ho avvertito il rischio di astrazioni che credo siaimportante evitare. A me non sembra che la situazioneconcreta che viviamo oggi, nel rapporto tra sistema deipartiti e sistema democratico, ci proponga una alternativafra un modello imperniato sulla democrazia dei partiti eun altro imperniato sulla democrazia degli elettori.

È piuttosto, la nostra, una situazione in cui i partiti nonhanno democrazia interna tanto sono strumento personaledi alcuni leader, né si pongono come architrave della de-mocrazia fra società e istituzioni come prevede la nostraCostituzione, e gli elettori gestiscono spazi democraticisempre più ristretti , che vengono via via schiacciati dal-l’invadenza di una comunicazione che tende a diffondersiovunque in un modo sempre più invasivo. Questa è la re-

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altà dell’Italia, una realtà con un deficit alto di democraziaeffettiva.

Se non porremo un freno a questa situazione, rischiamodi andare incontro ad una situazione di notabilato di ri-torno, particolarmente aggressivo e in questo scenario, esolo in questo ovviamente per me Berlusconi e Monteze-molo sono pari.

Ieri gli interventi dei nostri amici stranieri, mi hannofatto sentire nettamente tutto il peso della nostra storia.Quello che i nostri ospiti ci hanno prospettato e consigliatoè difficile da mettere in atto nella realtà italiana perché inverità noi abbiamo vissuto per 45 anni in un’anomalia sto-rica che non ha conosciuto il sistema dell’alternanza fraforze diverse alla guida del paese.

Abbiamo avuto partiti condannati a governare con tuttele degenerazioni che questo ha comportato nella coinci-denza di fatto fra partito e stato, pervadendo l’ammini-strazione, favorendo la corruzione, e partiti condannati aresistere e quindi impossibilitati a sperimentare sul campoil loro effettivo riformismo, la loro cultura di governo. Que-sto non è stato un modello sano di vita politica.

Da quell’anomalia siamo passati ad un’altra: il berlusco-nismo e la piegatura autoritaria e populista del sistema cheha prodotto. Non sarà facile collocare una riflessione sulruolo dei partiti nel sistema democratico al di fuori dellaproposta di una fase costituente delle istituzioni democra-tiche nel nostro paese.

A noi è mancata questa fase. Abbiamo tentato con laBicamerale D’Alema e se quel tentativo avesse avuto suc-cesso oggi saremmo a commentare una altra situazione.Ma non siamo riusciti a dare sistemazione all’assetto de-mocratico del nostro Paese, che si è sviluppato per ven-t’anni in un disordine evidente che alimenta l’antipoliticae il personalismo. Tant’è che a me sembra improprio par-lare di una seconda repubblica che in verità non è mai nata

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e quella che viviamo può anche essere definita ancoracome la crisi della prima. Ma questo sarebbe un dibattitoastratto.

Il fatto è che questa situazione è andata a ripercuotersisulla vita politica dei partiti. I risultati del sondaggio, cheabbiamo visto stamattina, parlano della necessità per il no-stro partito di tenere ben saldo il rapporto tra questionedemocratica e questione sociale, affinché possa interpre-tare bene il suo ruolo. È una importante conferma dellaimpostazione che Bersani ha dato al nostro lavoro: il rap-porto indissolubile fra questione democratica e questionesociale è la cifra della sua segreteria.

Abbiamo avuto troppo spesso un atteggiamento remis-sivo dinanzi a dibattiti interni e esterni al partito che met-tevano in ombra questa nostra missione e questadebolezza ha portato delle conseguenze anche nel carat-tere del partito che oggi discutiamo di correggere. Se in-fatti ci accodiamo ad un dibattito tutto giocato in puntadi polemica sulle questioni giudiziarie del premier piuttostoche sui rischi di limitazione di alcune libertà fondamentalidiamo una piegatura all’idea di partito che poi fa fatica arappresentare la questione sociale nella sua drammaticitàe con le sue conseguenze sul sistema democratico. Per farsì che un partito possa interpretare la questione sociale, ènecessario che la viva, che vi sia strutturalmente immerso,che la condivida.

Un partito che vive di stenti e diventa un comitato elet-torale, qual è il rischio che il Partito ha corso nel recentepassato, è un partito che non potrà mai vivere la questionesociale fino in fondo.

L’altro tema è quello del decentramento amministrativo,della scelta istituzionale verso un federalismo italiano.

La percezione che si ha all’interno del Partito riguardola figura dell’ amministratore in qualche modo rispecchiauna cultura riscontrabile nella nostra popolazione e con-

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divisa. Gli amministratori sono avvertiti per il loro lavororavvicinato e concreto come un punto di riferimento solido.Quindi noi facciamo bene a contrapporre un federalismovero a quello ideologico della Lega. Per noi nel federalismoall’italiana, gli aspetti dell’autonomia devono essere con-cepiti in funzione di una nuova unità del paese, dal mo-mento che il centralismo non è riuscito a corrispondere aquesta esigenza di unità. Questo è il punto distintivo e dacui non possiamo derogare. Per questo dobbiamo valoriz-zare, mentre rivendichiamo una autonomia forte dei poterilocali, tutto ciò che concorre ad una identità nazionale. Ilpartito, i partiti sono uno di questi elementi. Quindi dob-biamo essere capaci di coniugare anche per il partito unasua forte caratterizzazione federale assieme al fatto che ilpartito è e deve essere portatore di una visione nazionale.

Il Partito Democratico ha già pagato e pagherà unprezzo ogni qualvolta dimostrerà incoerenza nell’affron-tare un evento in sede locale che contraddice le afferma-zioni politiche e culturali fatte dal partito stesso a livellonazionale.

Un tempo, i partiti erano una realtà di condivisione in-tellettuale e culturale, dove anche quegli amministratorimeno esperti e preparati, che gestivano i Comuni più pe-riferici del paese, erano in grado di fare scelte programma-tiche e di governo estremamente lungimiranti, espressionedi una cultura diffusa e condivisa. Penso al governo del ter-ritorio piuttosto che alle politiche sociali o ai servizi per l’in-fanzia.

Dobbiamo mantenere questa peculiarità. Essere promo-tori di una cultura di governo diffusa e condivisa sul pianonazionale significa dare una identità distintiva al PD e a chiporta il suo nome nelle disparate esperienze di governo enello stesso tempo diventare uno strumento di cambia-mento del paese, di diffusione di esperienze positive di ri-forma. Non dobbiamo lasciare senza risposta le questioni

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e i temi propri della autonomia che ci sono sempre stati acuore e che rispecchiano quella cultura federale che vo-gliamo affermare a livello nazionale; ma non possiamoneppure permetterci che su questioni distintive di unaidentità politica nazionale si prendano decisioni che la con-traddicono platealmente e ripetutamente. Una sorta diclausola di supremazia su alcuni temi deve esserci, anchein un partito autonomista.

Concludo rapidamente dicendo che, in un’ ottica in cuigli amministratori hanno un peso rilevante nel rapportocon l’opinione pubblica, il valore di un partito si misuradalla capacità che ha di responsabilizzare gli amministra-tori stessi a questo principio: chi governa non porta con sesolo la sua faccia ma anche quella del partito e di coloroche lo sostengono.

Se lo guardiamo anche da questo punto di vista, il di-battito sull’autonomia del partito, sui funzionari e sulle ri-sorse per il partito forse non è del tutto secondario eirrilevante.

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Giorgio Ravera

Innanzitutto vorrei ringraziare i nostri deputati per l’op-posizione che hanno fatto alla Camera in questi ultimigiorni. Avete dato una bella lezione di stile ai più giovani ela speranza che in Parlamento possiamo ancora portare acasa dei risultati.

Passando ai lavori di questo seminario, finalmente iltema della reputazione/ percezione del Partito è diventatocentrale. Per chi è là fuori, noi chi siamo? La tendenza allageneralizzazione che banalizza ci emargina al ruolo di an-tiberlusconiani e dall’opposizione debole, facendo perdereal PD la sua peculiarità, il suo apporto innovativo, che nondipende né da Berlusconi né da altri, se non da noi stessi,cioè essere quella casa di incontro di provenienze diverseche fanno da sintesi per un fine comune. Credo che ancheragionando della forma partito questo sia un elemento davalorizzare, perché in questa identità io - giovane, cattolicoe con una militanza a sinistra - mi sento a mio agio.

Abbiamo proposte, posizioni discusse e votate, ma avolte, anche per colpa nostra, e dico di chi è impegnato allivello più vicino al territorio, non sono abbastanza cono-sciute; altra cosa da tenere in considerazione è trovare stru-menti che ne facilitino una maggiore fruibilità e diffusione.

Per quanto riguarda gli strumenti, noi siamo “quellidelle primarie”, il dibattito non verte tanto sul primarie sìo primarie no, ma piuttosto sul primarie come: una con-sultazione ampia e democratica, si indebolisce forse conqualche regola? Piuttosto guadagna in autorevolezza e

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credibilità. L’altro punto è primarie per cosa: le abbiamofatte per ogni necessità, a tutti i livelli, sempre con regolediverse, sempre quando dopo c’erano le preferenze e quasimai sulle liste bloccate; il paradosso è quello di rischiare ditrasformare uno strumento, che dovrebbe essere la forzadi questo partito, in qualcosa che disorienta. La riflessionesulle primarie deve essere centrale e di lungo termine; mi-gliorarne le regole, senza né esaltarle né demonizzarle, nonlasciandole come via di fuga per empasse decisionali ocome alibi per la “non scelta” della classe dirigente, anzifacendole essere il massimo momento di una assunzionedi responsabilità collettiva, prima e dopo. Dobbiamo fidarcipiù degli elettori e ascoltare di meno delle nostre paure.

Siamo anche “quelli della partecipazione”, credo quindiche valutare opzioni diverse di avvicinamento al partitopossa essere uno strumento per attirare più persone, so-prattutto i giovani che se da un lato sono restii al tessera-mento, dall’altro partecipano in massa e sono pronti adimpegnarsi quando si affrontano questioni importanti; puòessere utile dunque anche una mobilitazione tematica.

Riguardo alla forma del partito, ritengo che sia impor-tante far emergere la nostra identità, cioè trasmettere l’im-magine di un gruppo intento più a portare tutti altraguardo comune, piuttosto che lanciare qualche singolovelocista che non si sa neppure se arriva al traguardo.

Un accenno al tema della formazione e del rinnova-mento. Sicuramente è un investimento necessario ma dafarsi su tutti gli iscritti, non solo sui giovani, l’impegno deveessere quello di non cadere nel dibattito del nuovismo po-nendo tutto in chiave generazionale: non è questo il pro-blema. Sia piuttosto lo sforzo di una progettazioneculturale più ampia che permetta a chiunque chiede di es-sere selezionato per mettersi al servizio o del partito o dellacollettività un percorso chiaro e trasparente; il rinnova-mento si rafforza se è inserito in un progetto comune e si

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indebolisce se ha come unico presupposto il dato anagra-fico o il “tempo di attesa”.

Contro ogni legittimo interesse credo di poter dire cheanche a 27 anni si può essere vecchi; dunque pensiamoalla formazione ed al rinnovamento come forza di cambia-mento, il che vuol dire, prima di tutto, accettare di esserevalutati e di cambiare un po’ di sé, della propria mentalitàin relazione al fine comune da realizzare assieme, per poteressere davvero in grado di cambiare il Paese.

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Ettore Rosato

La riflessione odierna mi sembra molto utile. Vorrei sof-fermarmi brevemente sulla questione del recupero delruolo della politica. Dobbiamo essere infatti consapevoliche, nella società contemporanea, alla politica non vienepiù riconosciuto un ruolo di guida, e questo soprattutto acausa dell’incapacità di scegliere e mediare che essa sta di-mostrando.

Questa abdicazione al proprio ruolo ha innumerevoliconseguenze; si ripercuote ad esempio nei rapporti con lapubblica amministrazione, contrassegnati da una semprepiù evidente perdita di autorevolezza, al punto da lasciareall’alta burocrazia larghi spazi di autogoverno. Non credoesageri chi sostenga che le forze armante non aspettino leindicazioni del ministro La Russa per muoversi in Libia.

Ulteriore ragione di debolezza rappresenta l’omologa-zione; un appiattimento che riguarda pressoché tutte leforze politiche, accomunate inoltre da una permanente si-tuazione di caos interno.

La delegittimazione della classe politica, che stiamo vi-vendo in generale, colpisce in modo più particolare e durol’area del centrosinistra rispetto al centrodestra, perché ilnostro elettorato è tradizionalmente, e giustamente, menoportato a scontare le debolezze del ceto politico, che civengono addebitate pesantemente.

Le conseguenze di una debolezza complessiva della po-litica sono verificabili anche nell’analisi, fatta ieri, riguardola produzione legislativa del Parlamento, che dovrebbe es-

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sere chiamato a lavorare e risolvere problemi concreti e cheinvece è incapace di definire provvedimenti di ampio re-spiro e puntuale efficacia.

La maggior parte delle leggi approvate sono conversionidi decreti legge o ratifiche di trattati internazionali: una na-vigazione a vista nell’ordinaria amministrazione inevitabilequando manca un indirizzo politico forte che sia in gradodi proporre e condurre a termine riforme degne di questonome.

Le ultime vere riforme sono state le liberalizzazioni,quelle varate nel breve lasso di tempo in cui abbiamo go-vernato, ma sono rimaste un episodio isolato, non seguitoda alcun altro tipo di riforma. E questa paralisi è sicura-mente uno dei motivi per cui oggi la politica viene valutatadai nostri cittadini solo in termini di costi e non di rendita.Dovrebbe spettare a noi trovare il coraggio di combatterequesto aspetto deteriore, ma a volte sembra che ce ne ali-mentiamo.

Per quanto riguarda la questione dell’esaurimento delceto politico come classe dirigente, dobbiamo ricordareche in passato era netta e chiara l’ambizione dei migliori avoler entrare in politica, mentre oggi questa ambizione staprogressivamente svanendo, come si può facilmente veri-ficare nelle università o nei gruppi di volontariato, dovenon si trovano giovani che abbiano voglia di impegnarsi inpolitica.

Questo fenomeno apre un circolo vizioso che chiede diessere spezzato. In tale contesto, infatti, il rinnovamentopuò essere fatto solo se qualcuno fa forza per inserirsi eguadagnarsi posizioni di primo piano; diventa difficile osterile quando manca questa spinta esterna.

Ecco allora che l’indagine presentata oggi ci offre spuntidi riflessione anche sul tema delle primarie, che mi parestrettamente connesso con le considerazioni che ho pro-vato a svolgere fin qui. Le primarie ritengo possano essere

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uno strumento per avvicinare i giovani, ma non sono suf-ficienti per riportare i nostri concittadini alla politica.

Anzi. proporrei di abbandonare la definizione ‘primarie’per tutte quelle elezioni riservate ai nostri iscritti, in quantoevidentemente non sono tali. Le vere primarie, anziché es-sere troppo spesso brandite come arma di resa dei contipolitica al nostro interno, dovrebbero essere gelosamentedifese e utilizzate.

Le primarie, inoltre, andrebbero viste come uno stru-mento di cui il partito si giova per una sua organizzazione,con la consapevolezza che dal tema dell’organizzazionenon è disgiunto il tema dei costi della politica, al qualedobbiamo rapportarci con severità per non riprodurre alnostro interno gli stessi modelli che combattiamo.

Identifico il modello partito in cinque punti, e cinqueconseguenti criticità.

In primo luogo, penso che nel nostro partito dovremmosuperare il modello del comitato elettorale, che abbiamovisto in opera durante le elezioni regionali, fino agli esempipiù deteriori del cosiddetto elettoralismo.

La seconda questione riguarda il rapporto tra indirizzopolitico generale, forma partito federale e autonomia deiterritori. All’impianto federale va attribuito grande valore,ma è al contempo necessario un delicato lavoro di cucitura,perché non possiamo pensare che i rapporti di coalizionepossano essere gestiti esclusivamente dal livello locale.

Nell’agire politico è compresa anche la capacità di go-vernare e condurre a sintesi i rapporti tra forze diverse, ese non abbiamo un partito solido che possa dare indica-zioni chiare su forme e contenuti della sintesi, rischiamo difarci sfuggire il risultato. Credo che, nonostante il lavorosvolto nella nostra campagna elettorale, qualche debolezzaci sia.

La terza questione verte sulla necessità di fare un partitole cui regole siano condivise. Non possiamo permetterci

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uno statuto perennemente in fieri: se vogliamo parlare deicontenuti dobbiamo chiudere in modo condiviso e defini-tivamente il capitolo delle regole interne.

Se da un lato occorre chiarire il tema dei rapporti con ipartiti, quale ad esempio interviene nelle dialettiche di coa-lizione o nelle costruzioni delle alleanze, ritengo che do-vremmo pure avere chiaro che sussiste un rapporto fortetra noi e la società, e che quindi non possiamo escluderesnobisticamente i movimenti, che sono invece un elementovivo e importante del nostro elettorato.

Concludo sfiorando l’argomento della debolezza che inquesto momento ci viene attribuita, e che sta a noi smon-tare con i fatti, trasformando la debolezza in forza. Noisiamo l’unico partito a non avere un proprietario e questa,che mi piace chiamare “proprietà diffusa”, può essere lanostra forza, a patto che sappiamo riappropriarci del no-stro ruolo di mediazione e direzione politica: è il problemacon cui ho iniziato la mia riflessione, e che non possiamocominciare a risolvere se non partiamo da un dato essen-ziale: la democrazia non è solo nel nostro nome ma, anorma di Costituzione, nella nostra compagine ideale e or-ganizzativa.

Da qui potrebbe aprirsi un terreno credo fertile per lariflessione del partito su se stesso e sui suoi doveri verso ilPaese. Da qui potremmo riprendere a riflettere anche sultema di partito inteso anche come comunità di personeche hanno fatto una scelta di servizio, sulla scia del catto-licesimo democratico, come ci ha ricordato poc’anzi Rei-chlin.

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Cesare Pinelli

Per comprendere cosa un partito pensa di se stesso, delsuo futuro, della democrazia italiana, può essere utile par-tire dal suo statuto, specialmente quando risulta appro-vato da poco tempo. E lo statuto del Partito Democraticoè stato approvato dall’Assemblea Costituente Nazionale il16 febbraio 2008.

“Il Partito Democratico è un partito federale costituitoda elettori ed iscritti”, dice l’art. 1, che “affida alla parteci-pazione di tutte le sue elettrici e di tutti i suoi elettori ledecisioni fondamentali che riguardano l’indirizzo politico,l’elezione delle più importanti cariche interne, la sceltadelle candidature per le principali cariche istituzionali”. Glielettori sono definiti “le persone che dichiarino di ricono-scersi nella proposta politica del Partito, di sostenerlo alleelezioni, e accettino di essere registrate nell’Albo pubblicodelle elettrici e degli elettori”, gli iscritti sono definiti “lepersone che si iscrivono al partito sottoscrivendo il Mani-festo dei valori, il presente Statuto, il Codice etico, e accet-tando di essere registrate nell’Anagrafe degli iscritti e delleiscritte oltre che nell’Albo pubblico delle elettrici e deglielettori”. (art. 2). Iscritti ed elettori sono titolari di dirittiquasi sempre equivalenti, compreso il diritto di elettoratoattivo e passivo per la candidatura a cariche istituzionali,mentre ai soli iscritti è riservato il diritto di candidarsi pergli organismi dirigenti.

Quanto agli organi interni, il Segretario è eletto dall’As-semblea con modalità stabilite con regolamento tali da ga-

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rantire la segretezza del voto, le candidature alla caricavengono collegate a liste di candidati a componente del-l’Assemblea nazionale, e, ove nessun candidato raggiungala maggioranza assoluta, si procede al ballottaggio fra icandidati collegati al maggior numero dei componentil’Assemblea (art. 9). Le prerogative sono le seguenti: “Il Se-gretario nazionale rappresenta il Partito, ne esprime l’indi-rizzo politico sulla base della piattaforma approvata almomento della sua elezione ed è proposto dal Partitocome candidato all’incarico di Presidente del Consiglio deiministri” (art. 3).

L’Assemblea è composta di mille iscritti per l’elezionedel Segretario, integrata da trecento elettori e da centoparlamentari per le altre sue competenze, (fra cui gli “in-dirizzi sulla politica del partito” attraverso mozioni, risolu-zioni, ordini del giorno). Vi è poi una Segreteria nazionaledi non più di quindici membri nominati e revocabili dalSegretario, e un Coordinamento di centoventi membrieletti dall’Assemblea nazionale con compiti di esecuzionedell’“indirizzo politico” (artt. 3-8).

Con l’insistenza sul ruolo degli elettori, soprattutto invista delle primarie, lo statuto prende congedo dal modellodi partito di iscritti tipico della tradizione italiana (ed euro-pea), e riflette istanze di democrazia interna (il Capo I ènon a caso intitolato “Principi e soggetti della democraziainterna”) e l’auspicio di un sistema politico bipartitico, piut-tosto che una realtà organizzativa su cui investire in occa-sione delle scadenze elettorali. Se all'interno del partito lostatuto rivela l’ambizione di combinare l’affermazione in-discussa del leader eletto con la partecipazione di elettorie iscritti alla vita del partito (da cui l’insistenza sui forumtematici, sui referendum e altre forme di consultazione),esso è stato concepito come l’embrione di un processodecisionale esterno al partito, culminante nella modificacostituzionale della stessa forma di governo della Repub-

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blica da sistema parlamentare classico ad uno “neo-parla-mentare”, nel quale la maggioranza uscita dalle urneesprime un governo destinato a restare in carica per l’interalegislatura pena lo scioglimento delle Camere. Questa vo-lontà di preparare un processo del genere è dimostratanel testo tanto dalle modalità di designazione alla caricadel leader, quanto ovviamente dalla previsione della suaautomatica candidatura alla Presidenza del Consiglio.

È significativo che lo statuto del Popolo della Libertà,approvato il 27-29 marzo 2009 dal I Congresso Nazionale,pur differendo notevolmente da quello del PD a propositodella designazione dei candidati a cariche istituzionali, af-fidata agli organi di vertice (art. 25), e per il fatto che il Pre-sidente nazionale è eletto dal Congresso nazionale “ancheper alzata di mano” (art. 15), rechi disposizioni analoghea quelle dello statuto del PD relativamente alla elezione allecariche interne (l’elettorato attivo è assicurato tanto agliaderenti quanto agli associati, l’elettorato passivo ai soliassociati (artt. 3 e 4), nonché per le prerogative (a parte ilpotere del Presidente del PdL di “nomina degli organi dipartito”) e per la proiezione esterna del leader.

Quest’ultimo mi sembra il dato più significativo, perchériflette la stagione del “modello di partito a vocazionemaggioritaria”, che era stato all’epoca teorizzato dal PD eche da allora è stato innestato dal PdL in una prassi nondemocratica ma plebiscitaria, che pure convive con strut-turazioni correntizie sempre più sviluppate. Le differenzesono innegabili, e non mi sogno di disconoscerle. Il puntodi partenza ‘modellistico’ aveva purtuttavia qualcosa in co-mune, su cui mi pare giusto riflettere a distanza di pocopiù di tre anni dall’approvazione dello statuto del PD.

Il nostro incontro si intitola “Il PD e le trasformazioni delsistema democratico”. Ed è inutile dire che oggi i problemidi organizzazione interna del PD sono poca cosa di fronteal rischio che tutti gli italiani stanno correndo di scivolare

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verso una democrazia illiberale, ossia una democrazia dovesi vota regolarmente, ma dove le garanzie dei diritti fon-damentali e la legalità costituzionale possono venire messeda parte senza scrupoli. Non un regime autoritario, dun-que, ma un sistema dove le maggioranze di turno ‘coman-dano’ senza essere vincolate al rispetto delle procedure edei diritti. Questa volta, oltretutto, non avremmo il bre-vetto del modello, perché in qualche paese minore dell’Eu-ropa e soprattutto fuori dall’Europa sistemi del generesono già in funzione da alcuni anni.

Di fronte a un rischio simile, la responsabilità del mag-gior partito di opposizione è enorme, ed è su di essa chegiustamente il PD si sta concentrando. Non posso affron-tare qui tutti i problemi che ne conseguono. Dico solo chec’è una difficile equazione da risolvere. È certo necessariorichiamare la Costituzione di fronte agli stravolgimenti aiquali stiamo assistendo in Parlamento e fuori di esso. Nellostesso tempo, però, bisogna aver sempre presente che nonc’è un “partito della Costituzione”. Essa deve restare unatavola di princìpi e di regole comune a tutti gli italiani,anche quando il governo e la maggioranza la stravolgono,o vi prestano ossequio solo formale. Per risolvere l’equa-zione, è necessario avere e trasmettere fiducia negli italianioltre le differenze di voto. E vi sono, per giustificarla, segninon secondari, dai risultati del referendum costituzionaledel 2006 alle massicce manifestazioni popolari che hannoaccompagnato le celebrazioni del 150° anniversario del-l’Unità al Nord come altrove.

In ogni caso, mi pare chiaro che nei mesi e probabil-mente negli anni a venire il massimo investimento di ener-gie politiche, nel PD e sperabilmente non solo nel PD,dovrà indirizzarsi verso l’obiettivo di continuare a vivere inuna democrazia costituzionale. Eppure a un certo puntoverrà il momento di riflettere sui limiti che lo statuto ha di-mostrato anche a chi, come me, non partecipa alla vita in-

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terna di partito, seguendone tuttavia gli sviluppi con inte-resse.

Mi riferisco anzitutto alle regole relative alle primarie.Troppo spesso il ricorso ad esse è apparso strumentale ocomunque differenziato a seconda delle realtà locali. Oc-corrono regole più certe, e comportamenti ad esse con-formi. Inoltre, è indispensabile che la giusta esigenza diapertura delle primarie verso l’esterno del partito non com-porti il rischio di un’apertura indifferenziata, che può frale altre cose determinare inquinamenti del voto. Tecnica-mente, non è certo impossibile fare in modo che un rischiodel genere non si corra. Infine, sarebbe bene avviare unariflessione sui diversi status dell’elettore e dell’iscritto.L’esperienza conferma le buone ragioni di quanto prevedelo statuto? Non saprei rispondere, ma credo anche che ladomanda meriti di essere posta.

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Giovanni Bachelet

Inizio commentando il sondaggio. Molte risposte eranoprevedibili per chi, come noi, va in giro per l’Italia e parlacon quelli che li invitano. Ho avuto grande sorpresa soloper la risposta sull’articolo 41 della Costituzione: su questodovremmo interrogarci perché o la domanda era postamale –come qualcun altro ha già ipotizzato– oppure i no-stri elettori e iscritti sono cambiati dentro: non conosconopiù la Costituzione o ne rinnegano un elemento essenziale.Una sorpresa parziale l’ho avuta su berlusconismo e anti-berlusconismo, esattamente alla pari fra i nostri. Un po’ didelusione, infine, sulla libertà di coscienza che, sui diritticivili, prevale fra le risposte possibili. Per un partito demo-cratico i diritti civili non possono, a mio avviso, diventareun optional sul quale ognuno la pensa come gli pare. Sututti e tre questi temi i sondaggi sono istruttivi. Non pos-siamo, però, basarci solo sui loro risultati per sapere checosa fare e dove portare il partito. In USA, piú di trent’annifa, un collega fisico enunciò un principio che non ho di-menticato: A leader should lead the public opinion, notfollow it. La buona politica orienta la pubblica opinione,non si limita a seguirla.

La seconda osservazione riguarda il “no alle primarie”per la scelta dei dirigenti. Non lo condivido, avendo a suotempo sostenuto la mozione Bersani che diceva: “Il Pdcoinvolge gli elettori, attraverso le primarie, per selezionarele candidature alle cariche elettive, con particolare riferi-mento alle elezioni in cui non sia presente il voto di prefe-

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renza.” Che c’entra questo con le primarie per i dirigenti?Anzitutto, in caso di elezioni politiche, lo statuto PD pre-vede ancora che il Segretario nazionale sia il candidato delPD alla presidenza del Consiglio; poi, con l’attuale leggeelettorale, sono i dirigenti PD a comporre le liste del Parla-mento. Almeno fino al livello regionale, dirigenti di partitoe candidati sono strettamente intrecciati e, in un modo onell’altro, se vogliamo davvero coinvolgere gli elettori ci vo-gliono le primarie, anche se forse regolamentate per legge,puntando, più in generale, ad una attuazione legislativadell’articolo 49 della Costituzione.

Il terzo punto riguarda le correnti, l’articolazione in-terna. Dovremmo viverla come una risorsa e metterla afrutto, non esorcizzarla. Bersani mi ha dato l’incaricato delForum Scuola. Di fronte alla valanga di precari Ichino scriveche per la scuola come per il Pubblico Impiego la soluzioneè non garantire nessuno a vita: tutti a tempo indetermi-nato, nessuno inamovibile. Russo parla ai precari del sud.Rubinato ai precari del nord. Fioroni, ex ministro, difendeil proprio operato. Posizioni da confrontare per produrreuna sinfonia con un motivo dominante e qualche garbatocontrocanto: una linea prevalente e chiara che tutti i leaderconoscono e della quale tiene conto anche chi vi ha con-tribuito da posizioni oggi minoritarie che domani, magari,diventeranno maggioritarie. Cercando di superare la caco-fonia e tendere alla sinfonia ho scoperto che, almeno sullascuola, il patrimonio comune del PD è molto ampio. Nonsolo: per il poco che divide davvero, i confini non passanoné fra le precedenti appartenenze partitiche, né fra le ul-time aggregazioni congressuali: essi passano attraverso lasocietà italiana e testimoniano soprattutto la natura au-tenticamente plurale del PD.

In un grande partito come il nostro non conviene de-monizzare le correnti ma valorizzarle, potenziando unasempre più trasparente democrazia interna.

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Ciò richiama di nuovo il secondo punto: migliori leggielettorali e una nuova legge sui partiti. Quando parlo dileggi elettorali non parlo solo di Porcellum. Anche il pro-porzionale con preferenza unica, prodotto dal primo refe-rendum elettorale del 1991 e vigente in diversi tipi dielezioni amministrative, introducendo il principio “morstua, vita mea”, ha a mio avviso inferto un durissimo colpoalla solidarietà politica all’interno di ogni partito, trasfor-mando le campagne elettorali in una lotta di tutti controtutti. Finché, però, non ci sarà una legge che impone e re-gola in tutti i partiti la democrazia interna, le primarie fattein casa rimangono uno strumento utile per noi e, per glialtri partiti, un utile stimolo alla democrazia interna, all’in-novazione e all’apertura agli elettori.

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Fausto Raciti

Ho l’impressione che corriamo il rischio di fare una di-scussione politologica e non politica. Penso che se vo-gliamo capire che forma vogliamo dare al partito e qualedirezione seguire per trasformare il Pd, sia indispensabilecapire qual è il suo scopo e cosa vuole rappresentare.

Perché se il Pd vuole essere il partito dei ceti medio-ur-bani l’impostazione è corretta, anzi dovremmo spingercipiù in là, creando i dirigenti tramite concorso e verifican-done il titolo di studio; ma se vogliamo che il Partito diavoce a chi non ce l’ha allora dovremmo capire che tipo diformula ci reinventiamo e solo alla fine di questo ragiona-mento porci il problema delle primarie e di come vengonoconcepite. Personalmente le ritengo solo un mezzo e nonla ragione sociale del partito.

Abbiamo il problema di dover colmare un vuotoenorme, tra le istituzioni e alcuni strati bassi della societàche finora è stato sanato in chiave populista da Berlusconi.

Pensare ad un partito progressista di questi tempi signi-fica iniziare a concepire il radicamento non come un fattoburocratico o di semplice conteggio del numero degliiscritti e dei circoli, ma come occasione per toccare conmano alcune realtà difficili e costruire una relazione traquella fetta di società che ha difficoltà a trovare interlocu-zione e un partito politico.

Serve riorganizzare un progetto e ricominciare a pen-sare al partito come ad uno strumento per fare societàsenza la pretesa di avere il monopolio della formazione

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delle decisioni politiche. Il problema è questo, dobbiamorisolverlo ed uscirne.

È necessario smetterla di pensare al rapporto con la so-cietà soltanto in termini elettorali e provare a capire qualistrumenti abbiamo, per tornare a costruire pezzi di societàche potrebbero guardare a noi.

Questo tentativo ci porta ad affrontare il tema del plu-ralismo, ma penso sia scontato che un grande partito siaplurale. A meno che non parliamo di partiti unici. Ho lasensazione il pluralismo politico non venga più concepitocome tanti modi diversi di guardare allo stesso problema,ma come guadare a problemi diversi. Questa è una rifles-sione che prima o poi andrà affrontata.

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Giuseppe Vacca

Ho chiesto di parlare anche oggi perché vorrei fare unaproposta. Dopo le giornate di ieri e di oggi confermo ilmio giudizio positivo su questa iniziativa. I risultati sonoincoraggianti e ci dicono che, nonostante i problemi, c’e’una fase di stabilizzazione del Pd.

A questo scopo sarebbe interessante proseguire nell’in-dagine demoscopica relativamente al processo della ride-finizione dell’identità del partito che è in corso. Il Pd, nelsuo atto di nascita, è nato come partito dei leader. È adessoin corso un processo di ridefinizione come partito nazio-nale, partito della Costituzione, partito popolare e partitoriformatore, in un percorso che va dal partito dei leaderalla proposta di un nuovo patto repubblicano.

Ritengo che ci siano cinque temi che potrebbero essereaffrontati proseguendo con l’indagine.

Primo: partito nazionale. L’Italia è una nazione di donnee di uomini e secondo questo paradigma cambia il pro-cesso di elaborazione delle soggettività. Come proporrequesto tema nell’interazione con iscritti ed elettori?

Secondo: il riferimento sociale, il lavoro. Che significatoassume rispetto alla costruzione di identità?

Terzo: partito dell’unità della nazione. Quarto: partito di credenti e non credenti. Quinto: partito a vocazione europeistica.Potremmo vedere come elaborare bene questi temi, in

modo da essere indagati in una ricerca che credo sarebbemolto utile.

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Gianluca Galletto

Volevo solo fare alcuni chiarimenti su argomenti di cuisi è discusso ieri pomeriggio.

Il primo riguarda le primarie e come sono organizzatenegli Usa. Ieri si è parlato un po’ troppo di come sonostrutturate le primarie del presidente, che sono l’unicaforma di primarie non diretta, mentre le primarie negli StatiUniti sono fatte per qualunque carica e sono regolamen-tate dallo Stato.

Vengo al punto che ci interessa, ossia come regolamen-tarle perché così come sono ci creano dei problemi.

La membership negli Stati Uniti si crea attraverso unadichiarazione all’ente che regola le elezioni. Quando si vaa fare le primarie, che sono compendiate da regole interne,si eleggono anche tutta una serie di dirigenti. Dobbiamoun po’ riflettere su come traslare questa regola.

Ho apprezzato l’intervento di Tocci perché vorrei un par-tito dove esiste un equilibrio tra la partecipazione direttacon le primarie e il filtro rappresentato da un gruppo diri-gente che cresce insieme.

La primaria da sola non risolve il problema del notabile.A New York ci sono 3 milioni di iscritti al Pd, ma la parte-cipazione alle primarie è fatta solo dal 10% delle persone.

L’apparato conta tantissimo. Ma è un apparato che safiltrare e selezionare persone che in parte sono degli out-sider, ma che hanno comunque fatto esperienza professio-nale .

Una proposta che volevo fare al segretario è questa. Ve-

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dendo i sondaggi mi son ricordato di una ricerca fatta afine anni Novanta.

Era una prima ricerca empirica su dati panel in cui sichiedeva alle stesse persone, in anni diversi, come cam-biava la loro identificazione di partito. Questo rivelavaanche il passaggio dalle vecchie identità alle traslazioni deinuovi partiti. C’erano cose interessanti in quello studio cheandrebbero riprese, ma noto che nella tradizione italianaquesto non viene fatto, mentre ci si concentra di più allacollocazione destra-sinistra.

Penso che non possiamo prescindere da come l’econo-mia sia cambiata nel mondo. Se prima mangiavamo sedutiad una tavola mentre un pezzo di mondo era distante, oraquello stesso pezzo di mondo mangia con noi, ma i primiche si vedono togliere la fetta, sono gli stessi che noi vo-gliamo rappresentare.

Se non affronteremo questo problema non riusciremoa definire la nostra identità.

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Sandro Gozi

Mi atterrò strettamente ai punti emersi stamani. Il primoriguarda l’articolo 41. Personalmente non sono sorpreso, nonperché penso che vada modificato, ma perché ritengo chela nuova percezione dell’ineguaglianza in Italia sia legata adun paese che è in mano alle oligarchie, alle corporazioni eagli ordini professionali di altre epoche.

Credo che debba essere affrontata una battaglia che vadaproprio contro tali oligarchie e i gruppi di potere, che poi ge-nerano le cricche. Tutto questo è percepito molto distinta-mente dagli italiani e, quando gli si chiede se voglionomodificare l’articolo 41, ovviamente rispondono sì.

Sono d’accordo con quanto affermato da Tocci, le prima-rie vanno regolate. Nel 2011 le principali caratteristiche diun Partito Democratico di centrosinistra dovrebbero essereliberalizzazioni economiche per garantire giustizia sociale euna lotta radicale per i diritti civili. Questi due aspetti ci ca-ratterizzerebbero in maniera forte.

Sono d’accordo con Tocci anche quando sostiene che leprimarie vanno mantenute, ma richiedono un partito forte elegittimato. Dobbiamo lavorare sulle due cose.

Riferendomi al tema della politica di questi ultimi ven-t’anni: pessima sotto tanti punti di vista, pessima perché èuna politica sondaggista e non decisionista.

La verifica dei grandi temi, che non emergono durante leelezioni ma soltanto dopo, è un aspetto su cui possiamo la-vorare, come prevede lo Statuto.

I sondaggi riportano una percezione migliore degli am-

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ministratori locali, a mio avviso, perché tali figure riesconoad attuare e sono politicamente più responsabili. È evidenteche per un partito di opposizione a livello nazionale è moltopiù difficile attuare e rendere conto politicamente.

Una questione aperta e molto grave, che va affrontatafortemente è quella della politica nel meridione.

Ultimo punto, la promessa non è stata mantenuta perchénon abbiamo trovato un equilibrio. Non siamo ancora venutifuori dalle tradizioni, dobbiamo inventarci un nuovo modellodi partito.

Indebolirci è funzionale a tutta una serie di gruppi di po-tere. Dobbiamo inventarci un nuovo modello di partitosenza guardare indietro, lavorare sulla fiducia al nostro in-terno.

Anche se il Pd non è il partito di un solo leader , credoche il gruppo dirigente debba riconoscerlo in maniera nettae forte una volta che è stato eletto.

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Intervento ConclusivoPier Luigi Bersani

Sono molto soddisfatto di questo nostro appuntamento.Cercherò anche di chiarire come possiamo mettere a fruttociò che si è detto.

Valuteremo l’opportunità di affidare a qualcuno il compitodi fare una sintesi ragionata dei lavori, perché abbiamo biso-gno di proseguire e sviluppare questa riflessione.

È vero che i seminari non sono impegnativi a livello deci-sionale, ma è giusto che io provi a dire, in sintesi, ciò che hoin mente. Quando ho avanzato la proposta di tenere una con-ferenza nazionale sul tema del partito, l’ho classificata inmodo un po’ sobrio e riduttivo come un ‘tagliando’.

Questa affermazione fa capire che cosa penso: siamotroppo giovani per aver risolto tutti i nostri problemi, masiamo anche ormai troppo vecchi per essere considerati falliti.E questo è anche ciò che il sondaggio ci segnala: la gente sache ci siamo, nessuno pensa più che siamo di passaggio. Noi,come Beppe Vacca ricordava, siamo entrati in una fase di sta-bilizzazione del progetto del PD, che richiede scelte di orien-tamento.

Per questa ragione, quando penso alla conferenza nazio-nale sul tema del partito, in realtà immagino una vera discus-sione di massa, su un oggetto che si chiama partito, ma nelquadro più generale del modello di democrazia che vogliamo.

È un tema sul quale abbiamo ancora molta strada da fare.Cercherò di fare il punto su alcuni degli aspetti che, a mio giu-dizio, meritano un approfondimento della nostra riflessione.

Come ricordava Marina Sereni, noi siamo l’unica forza po-

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litica che, a partire dal nome, si definisce ‘partito’. Io aggiungoche le formazioni politiche da cui venivamo non si chiama-vano ‘partito’. Persino nel Pds, a un certo punto, c’è stata ladiscussione che ci ha portato ad essere i Democratici di Sini-stra.

Sono sicuro che tanti di noi avranno pensato che eranosolo parole. Abbiamo deciso di chiamarci Partito Democratico,ma sono convinto che molti ritenevano che stessimo sce-gliendo il comun denominatore più banale e più semplice. Laparola ‘democrazia’ è diventata invece la parola più impegna-tiva nel mondo, perché tutti affermano il valore della demo-crazia, ma ormai vi sono intere biblioteche sulla crisi deimeccanismi di rappresentanza nel governare i fenomeni realidella società.

Noi siamo perciò di fronte a un tema tremendamente serioe impegnativo, che ha aspetti sistemici rilevantissimi. Credoperciò che questo nesso tra la nostra discussione e la rifles-sione più generale sulla democrazia e sui partiti debba essereconcepito come uno snodo cruciale del processo costituenteche vogliamo avviare nel paese. Qualcuno penserà che cistiamo ponendo un obiettivo troppo ambizioso, ma l’alter-nativa è rassegnarci a ciò che abbiamo.

Oggi, sulla base dell’esperienza dell’ultimo decennio, noisappiamo che la democrazia populista è una democrazia chenon decide e che accelera drammaticamente il declino del-l’Italia. Per affrontare credibilmente questo nodo dobbiamoaffermare tra di noi un’analisi condivisa sullo stato della nostrademocrazia, delle nostre istituzioni e dei meccanismi di rap-presentanza, portando alla luce il rapporto tra il tema dei par-titi e quello della qualità della democrazia .

In altre parole, non dobbiamo correre il rischio di passareper folli o per sognatori, come se si dovesse o potesse fare lademocrazia in un partito solo, anche perché questo ci impe-direbbe di parlare a tutto il Paese.

Nel gruppo dirigente del PD io vedo le condizioni culturali

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e politiche per poter affrontare con questa ispirazione la ri-flessione sul partito. Se questa dovesse invece essere invasada logiche correntizie, sarebbe piuttosto meglio rinunciarvi.Vediamo allora davvero se siamo in condizione di affrontarequesto percorso a viso aperto e senza pregiudizi. Predispo-niamo una bozza delle nostre idee, da cui la discussione possaprendere le mosse, e facciamo questa discussione nel modopiù ampio e partecipato possibile. Alla fine tiriamo le sommesenza pregiudizi.

Ieri Massimo Luciani, nel suo intervento, ha affermato cosemolto importanti. Vorrei riprendere qui l’analisi del problemache egli ha affrontato, la cui origine è precedente alla cadutadel Muro e a Tangentopoli, e provare a capire dove si collocaquesta origine.

Abbiamo vissuto una fase di circa 20 anni in cui i grandipartiti popolari sono stati tutt’uno con la crescita della demo-crazia e con la rinascita del Paese, svolgendo una funzionestorica straordinaria.

A cominciare dalla fine dagli anni Sessanta, sono emersifenomeni che oggi definiremmo di società civile alla ricercadi riconoscimento politico. Quei grandi partiti hanno svoltoancora una funzione nelle emergenze degli anni Settanta, manon sono stati in grado di risolvere questo problema di fondo.

L’ultimo generoso tentativo (Moro-Berlinguer) di indicareuna prospettiva che potesse proiettarsi oltre la crisi latente siè arenato per le ragioni storiche che conosciamo.

Poi è arrivata la caduta del Muro di Berlino, che ci ha coltiin una fase avanzata del processo di deterioramento della po-litica, nella quale si è inserita l’illusione di un rapporto direttotra istituzioni e cittadini. Questo sviluppo ci ha condotto a ciòche chiamiamo bipolarismo e alternanza.

Tuttavia, se, come è stato detto, il concetto di federalismoimplica l’esistenza di un centro, quello di bipolarismo presup-pone un ubi consistam, in cui entrambi i contendenti si rico-noscano.

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Quando avevamo l’ubi consistam, che era la Costituzione,non potevamo avere l’alternanza per ragioni di blocco inter-nazionale. Quando invece è venuto meno l’ubi consistam, èarrivato il bipolarismo, che, però, proprio perché privo dell’ubiconsistam, non sta in piedi. Accade così che, quando vinceBerlusconi, noi diciamo che ha vinto perché ha le tv e i soldie che, quando vinciamo noi, lui dice che vinciamo per i broglie per i giudici. Non funziona.

Noi dobbiamo essere interessati a un percorso che rico-struisca quel minimo di ubi consistam che consenta un’alter-nanza. Anche perché ormai, nel nostro Paese, il bipolarismoesiste in natura. L’elettorato è diviso grosso modo tra duecampi. C’è un oscillazione del 3% o 4 % da un campo all’al-tro.

Aggiungo che nella nostra riflessione dobbiamo tenereconto anche di quello che in questi decenni, in Italia e nelmondo, è mutato ulteriormente. È successo qualcosa che nonpossiamo derubricare semplicemente come un’anomalia nelrapporto tra società civile e politica.

In questi anni la questione si è complicata maggiormente.Ovunque il tema della democrazia in termini di canali tradi-zionali di rappresentanza si è indebolito, mentre ha preso piùforza una volontà di espressione, di implicazione e di inter-vento diretto dei cittadini. Questo è un dato di cui dobbiamotenere conto.

Mi viene in mente ciò che Amartya Sen scriveva qualcheanno fa sul concetto di democrazia, criticando l’idea tutta oc-cidentale per la quale la democrazia è soltanto pluralismo po-litico e libere elezioni. Sen complicava e arricchiva questoconcetto, rimandando all’idea di discussione pubblica, cioèalla capacità di coinvolgere i cittadini.

Quando oggi parliamo di partiti, dobbiamo tener contodi un’esigenza, divenuta ormai strutturale, di costruire un rap-porto anche con quei soggetti e fenomeni sociali meno inte-ressati ai tradizionali meccanismi di rappresentanza e più

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orientati, invece, a esprimere altre forme di politicità e di im-pegno.

Tornando alla situazione italiana, dobbiamo anzitutto af-fermare che la governabilità non può essere scissa dal temadella rappresentanza.

Se il populismo è una democrazia che non decide, non sipuò non porre il tema di come riformare la rappresentanza.Dobbiamo cioè dire qual è il sistema democratico che vo-gliamo.

Personalmente sono per mantenere l’ancoraggio a un si-stema parlamentare, rafforzato però con le riforme che pro-poniamo. Ritengo che, in linea di principio, sia legittima anchel’opzione presidenziale, purché bilanciata, come avviene inaltri sistemi occidentali.

Ho sempre pensato che la parola Costituzione vada ma-neggiata con attenzione, facendo in modo che essa nonesprima un’idea conservatrice. Mentre giustamente valoriz-ziamo l’impianto e l’ispirazione della Costituzione, dobbiamosaper proporre le riforme che rendano quella ispirazione effi-cace nell’Italia di oggi.

Ribadiamo perciò gli assi di riforma che abbiamo già pro-posto e l’esigenza di dare fondamento e flessibilità politicaalla costruzione del bipolarismo e dell’alternanza, sapendoche, in un paese divaricato come il nostro, elezioni presiden-ziali inevitabilmente finirebbero con il prendere una piega po-pulista.

Abbiamo bisogno di meccanismi elettorali che garanti-scano una soggettività delle formazioni politiche, ma che ren-dano anche esigibile dall’elettore una maggiore stabilità dellemaggioranze di governo. Si può arrivare a questo correg-gendo qualcosa sia nel modello francese che in quello tede-sco.

In questo quadro, l’esigenza è che ci siano partiti funzio-nanti. Possiamo affermarne la funzione ineludibile solo sesiamo credibili nella critica delle loro degenerazioni. Si tratta

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di una vera e propria esigenza nazionale. Chi altrimenti puòportare a sintesi le parzialità sociali? Chi può sostenere la sta-bilità attraverso la costruzione di maggioranze?

In questi anni la stabilità di governo è mancata non permancanza di capi, ma per mancanza di maggioranze. Se ilproblema della stabilità non è stata risolto attraverso unachiave personalistica, non si può che tentare riaffermandouna funzione dei partiti.

Io affronterei in quest’ottica la questione dell’articolo 49della Costituzione. Capisco i possibili rischi legati dell’istitu-zionalizzazione dei partiti, ma se collochiamo il tema nelloscenario attuale non possiamo ignorare quanta antipoliticac’è in giro. Siamo in salita, ma non siamo in salita se poniamola domanda: “finito Berlusconi è finita anche l’illusione?”.

Io non credo. Quando diciamo ‘partiti’, dobbiamo perciòdire forte e chiaro anche ‘riforma’. L’articolo 49 ci aiuterà adire che i partiti servono, ma devono avere alcune regole. Unodei punti è il rapporto strutturale con una realtà mutata e connuove istanze di partecipazione. C’è un problema di infles-sione del nostro messaggio: dobbiamo riaffermare il ruolo, lafunzionalità dei partiti e, contemporaneamente, saperne ri-conoscere i limiti.

Bisogna studiare nuove forme di compenetrazione tra par-tito e soggetti esterni, che però tengano il profilo dell’auto-nomia, della flessibilità reciproca e della comunicazione. Noncredo basti ciò che abbiamo inventato fin qui. Dobbiamo farein modo che dalla mancata risposta a questa esigenza nontragga alimento l’antipolitica. È un tema sul quale non siamoancora arrivati a una sintesi.

Abbiamo bisogno di un partito che sia il più leggero e ilpiù aperto possibile, compatibilmente con la capacità di svol-gere quella funziona basica che un partito deve garantire adun paese. Abbiamo perciò bisogno non di un professionismodi carriera, ma di snodo, legato al riconoscimento della spe-cificità della politica.

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Un partito, a parer mio, di iscritti e di elettori, in cui la so-vranità è degli iscritti e può essere delegata agli elettori, o pervia statutaria o per via di decisione politica.

Ciò vale anche per quanto riguarda le primarie. È impor-tante che da questo seminario sia venuta una conferma delleprimarie come una peculiarità originale del nostro partito. Tut-tavia, proprio perché ne conosciamo il rilievo, dobbiamo prov-vedere a un’attenta manutenzione di questo sistema.

La funzione delle regole deve essere comprensibile. È unaregola anche stabilire che le primarie restino uno strumentoe che niente in un’associazione politica può esimere dall’esi-genza di svolgere il compito politico. Bisogna stare attenti aquesto punto perché altrimenti andiamo fuori strada. Noidobbiamo correggere le primarie proprio per non avere quelleche sono state definite dai nostri ospiti americani “primarie-giungla”.

Anche sulla base della discussione svolta in questo semi-nario, penso che si possa lavorare a una proposta di manu-tenzione di questo sistema, riconfermandolo come una chiaveimportante di apertura nel rapporto tra partito e società.

Vorrei però sottolineare che non dobbiamo limitare alleprimarie la ricerca di meccanismi nuovi di rapporto tra ‘in-terno’ ed ‘esterno’ al partito.

Ad esempio sperimenterei la famosa democrazia di retenella vita dei partiti, trovando le giuste occasioni. Questo è untema interessante che vorrei svolgessimo per primi. Mi piace-rebbe che il Pd fosse il primo partito a fare una scelta di que-sto tipo.

Poi c’è il tema del partito federale. Abbiamo fatto dei passiin avanti su questo fronte, ma bisogna proseguire in due di-rezioni. In primo luogo, mentre trasferiamo poteri ai territori,bisogna sapere che questo processo presuppone un raffor-zamento di alcune funzioni centrali. Perché il marchio è unaproprietà indivisa e, nel momento in cui decentri decisioni,corri il rischio che qualche scelta metta in gioco una proprietà

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indivisa. Bisogna fare il punto su questo.In secondo luogo, dobbiamo anche rafforzare il meccani-

smo inverso e complementare. Credo che la dimensione ter-ritoriale debba avere più espressione nei luoghi dirigentinazionali. Si rafforzano dunque le funzioni centrali, ma le di-mensioni territoriali devono avere più spazio e voce a Roma.

Questa mi pare, peraltro, l’unica via per risagomare gra-dualmente la forma del nostro pluralismo interno, per arrivarecioè a un punto in cui, valorizzando la dimensione territoriale,man mano le articolazioni plurali del partito assomiglino sem-pre di più ad aree politico-culturali.

Aree di questo tipo, che siano espressione e abbiano unforte punto di ancoraggio nella dimensione territoriale, ar-ricchiscono l’elaborazione e tengono vivi i rapporti esterni,ben più di un’organizzazione correntizia verticalizzata cheparta dal centro. Si cita spesso il caso della DC, ma la DC, perragioni storiche, non poteva non esserci ed era stabilmenteal governo. Un partito grande non può che essere plurale,ma, se si organizza a canne d’organo in correnti verticalizzate,non può vivere.

Quindi, dal momento che questo problema non va predi-cato ma risolto, è necessario innescare una controtendenza,rappresentata dal rafforzamento delle dimensioni territoriali.Le organizzazioni territoriali devono trovare espressione a li-vello centrale, raggiungendo un giusto equilibrio con la pre-ziosa funzione delle aree politico-culturali.

D’altronde, nessuno pensa di criticarci perché abbiamopoco pluralismo, tutti ci imputano semmai l’assenza di unità.

Nel seminario si è toccato il tasto anche di questioni deli-cate, come quelle etiche e di coscienza. Rimango del parereche un partito deve riconoscere la libertà di coscienza e, in-sieme, fare attenzione a che non vi sia una distorsione di que-sto prezioso concetto. Credo, in altre parole, che un partito,su temi che toccano il bene comune, debba lavorare per tro-vare dei punti di sintesi, trattandosi di questioni che non pos-

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sono non essere affrontate se si vuole governare una società.Stiamo creando nel partito dei luoghi nei quali su questi

temi ci si confronti, perché su argomenti del genere il Pd devetrovare una chiave di merito e di metodo. Dobbiamo muo-verci con questa ispirazione, sicuri che la libertà di coscienzanon può essere in discussione. Il punto è semmai un altro:siamo un partito che ha il dovere di indicare una prospettivaa questo Paese. Dunque, ci tocca fare lo sforzo perché le no-stre culture siano una ricchezza per la sintesi.

Nel percorso che ci aspetta, ci troveremo ad affrontare iltema della leadership. Noi non sottovalutiamo la personaliz-zazione, ma la leadership non può che essere pro-tempore,legata a un processo politico e democratico. Non può spin-gersi in ogni caso fino al punto di legare la vita dell’istituzioneal suo destino. Detto in altri termini, sia che si parli di partito,di legislatura o di Parlamento, la leadership è importante, manon può essere legata in modo inestricabile alla vita delle isti-tuzioni di riferimento.

Questo deve essere un punto chiaro. È vero che siamo aun tramonto pericoloso, perché si avvia un conflitto istituzio-nale e politico, ma la domanda è se riusciremo ad andare oltrela domanda di semplificazione.

Sul tema di sistema, come ho detto, siamo in salita, c’èmolta antipolitica. Il tema partitocratico non è dimenticato.Allora dico: teniamo conto nelle nostre proposte di tutto que-sto, ma poi, anche a livello comportamentale, dobbiamo es-sere in grado di sfidare il sentimento dominante. Se nonfacciamo vedere che il giusto pluralismo ha il sapore della co-munità che si collega al popolo, non possiamo andare a ven-dere la merce di sistema che vogliamo.

In questo nostro percorso teniamo perciò sempre presentequesto punto: saremo chiamati a confermare con il miracolodell’unità la nostra dottrina.

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Appendice

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276

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277

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278

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279

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281

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282

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283

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284

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286

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287

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288

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46%

Tu

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tori

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D t

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ttori

© 2011 Ipso

27

15%

No

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a

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291

L’op

posi

zion

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tto

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con

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tada

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erlu

scon

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25%

31%

31%

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ppo

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31%

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tto

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No

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Il P

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scrit

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ele

ttori

© 2011 Ipso

28

2%N

on

sa

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292

L’op

posi

zion

e ch

e at

tual

men

te il

PD

sta

fa

cend

o se

cond

o le

i è …

elet

tori

att

ual

iel

etto

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cert

i o

ast

ensi

on

isti

41%

40%

Tro

ppo

cond

izio

nata

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anti

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30%

27%

43%

Tro

ppo

ten

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oB

erlu

sco

ni

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27%

1%

11%

Tu

tto

so

mm

ato

giu

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No

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elet

tori

attu

ali

ed e

x el

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ri

Il P

D t

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ele

ttori

© 2011 Ipso

29

6%N

on

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293

Rap

pres

enta

nza

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ovam

ento

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Rap

pres

enta

nza,

rin

nova

men

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294

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ondo

lei i

l PD

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67%

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26%

No

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D t

ra i

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© 2011 Ipso

31

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295

Sec

ondo

lei i

l PD

…el

etto

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ali

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tori

ince

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ast

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68%

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no

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loca

li

26%

30%

Do

vreb

be

esse

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cent

raliz

zato

os

7%

30%

No

n s

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elet

tori

attu

ali

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ri

Il P

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© 2011 Ipso

32

11%

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296

In g

ener

ale

lei p

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che

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ttor

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si s

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no p

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dir

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45%

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© 2011 Ipso

33

11%

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297

In g

ener

ale

lei p

ensa

che

ele

ttor

i e m

ilita

nti d

el

PD

si s

enta

no p

iù r

appr

esen

tati

…el

etto

ri a

ttu

ali

elet

tori

ince

rti o

ast

ensi

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isti

44% 46

%

Dai

dir

igen

ti lo

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45%

39%

Dai

dir

igen

ti n

azio

nal

i

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11%

39%

No

n s

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tori

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ali

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© 2011 Ipso

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15%

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298

Com

e va

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il r

inno

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dei

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l PD

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25%

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ma

rim

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e m

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9%

1%

11%

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© 2011 Ipso

35

1%N

on

sa

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299

Com

e va

luta

il r

inno

vam

ento

dei

gru

ppi d

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enti

de

l PD

a li

vello

naz

iona

le …

elet

tori

att

ual

iel

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ri in

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i o a

sten

sio

nis

ti

26%

17%

Mal

e, è

sta

to f

atto

po

coo

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nte

, ci

so

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stes

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62%

11%

75%

ben

e nè

mal

e,qu

alco

sa f

atto

ma

rim

an

e m

olt

o d

a fa

re

Be

ne

siè

aia

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11%

1%

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ne,

si

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© 2011 Ipso

36

3%N

on

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300

E in

vece

nel

la s

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il

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dei

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PD

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tto

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35%

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Mal

e, è

sta

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atto

po

coo

nie

nte

, ci

so

no le

stes

se f

acce

37%

27%

37%

ben

e nè

mal

e,qu

alco

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atto

ma

rim

an

e m

olt

o d

a fa

re

Be

ne

siè

aia

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os

27%

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29%

Be

ne,

si

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ro p

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di

rinn

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men

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No

nsa

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ttori

© 2011 Ipso

37

6%N

on

sa

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301

E in

vece

nel

la s

ua z

ona,

com

e va

luta

il

rinn

ovam

ento

dei

gru

ppi d

irig

enti

del

PD

elet

tori

attu

ali

elet

tori

ince

rti

o a

sten

sio

nis

ti

28%

15%

Mal

e, è

sta

to f

atto

po

coo

nie

nte

, ci

so

no l

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esse

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ben

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Be

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Be

ne,

si

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via

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rin

no

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No

nsa

elet

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ttori

© 2011 Ipso

38

9%N

on

sa

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302

Il r

inno

vam

ento

dei

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Mal

e, è

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tto

po

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nien

te,

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ono

le s

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ben

e nè

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e, q

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Be

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63%

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ben

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No

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303

E in

vece

nel

la s

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ona,

com

e va

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il

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dei

gru

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ale,

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bene

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rim

ane

mo

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si

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viat

o u

n v

ero

pro

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i rin

no

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ento

No

n s

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25%

36%

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35%

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Il P

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© 2011 Ipso

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35%

37%

27%

2%to

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304

E in

vece

nel

la s

ua z

ona,

com

e va

luta

il

rinn

ovam

ento

dei

gru

ppi d

irig

enti

del

PD

…M

ale,

è s

tato

fat

to p

oco

o n

ien

te,

ci s

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ale

qua

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tto

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bene

ma

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o m

a r

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e m

olt

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e, s

i è

avvi

ato

un

ve

ro p

roc

esso

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sa

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gion

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o s

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Il P

D t

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© 2011 Ipso

41

28%

37%

29%

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tale

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305

Sec

ondo

lei i

l PD

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nti e

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10%

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© 2011 Ipso

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306

E p

er s

cegl

iere

i di

rige

nti d

i par

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, il P

D

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ebbe

…Is

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mp

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pri

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© 2011 Ipso

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on

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307

E p

er s

cegl

iere

i di

rige

nti d

i par

tito

, il P

D

dovr

ebbe

… elet

tori

att

ual

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ri in

cert

i o a

sten

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re le

pri

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erte

a t

utt

i gli

elet

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22%

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Far

e p

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arie

con

un

albo

cui

iscr

iver

si p

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Lasc

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iscr

itti

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Lasc

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ag

li is

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ti a

lpa

rtit

o di

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gge

re i

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ige

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Il P

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45

15%

No

n s

a

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308

Imm

igra

zion

ete

mie

tici

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form

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ll’ar

tico

lo41

Imm

igra

zion

e, t

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colo

41

Nob

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npre

dict

able

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Page 289: Amazon S3 PD e le...Indice Introduzione Maurizio Migliavacca 1° SESSIONE L’evoluzione del sistema istituzionale e dei partiti in Italia nell’ultimo ventennio Intervento di apertura

309

Sec

ondo

lei i

n m

ater

ia d

i im

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one

la

posi

zion

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l PD

… Iscr

itti

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teg

razi

on

e

Do

rebb

ees

sere

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17%

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Do

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bb

e es

sere

più

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ai p

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lem

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310

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311

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312

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313

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314

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315

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316

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317

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318

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319

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320

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321

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322

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323

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324

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325

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326

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327

Freq

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328

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