Amasiata d’Italia a Mosa Rassegna della stampa russa...

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Ambasciata d’Italia a Mosca Rassegna della stampa russa - Traduzioni 15 ottobre 2013 Kommersant http://www.kommersant.ru/ Pagina 8 – Il livello mondiale della minaccia terroristica – Al Qaeda allarga i suoi obiettivi. Se prima gli Stati Uniti e i loro alleati erano i principali obiettivi della jihad globale, adesso gli islamisti considerano nemici tutti gli stranieri e i non musulmani. L’allargamento della geografia e dell’agenda dell’ “internazionale del terrorismo” significa che la sua attività minaccia sempre più quei paesi, come ad esempio la Russia, che non sostengono le campagne militari degli Stati Uniti e della NATO. L’anniversario degli attentati terroristici dell’11 settembre ha coinciso con una nuova ondata di terrorismo che sta diventando il punto di svolta per tutta l’attività di Al Qaeda. Se prima l’obiettivo principale della jihad globale erano gli Stati Uniti e i loro alleati, adesso gli islamisti considerano nemici tutti gli stranieri e i non musulmani e stanno trasferendo la propria attività oltre i confini del mondo occidentale. L’allargamento della geografia e dell’agenda dell’ “internazionale del terrorismo” significa che la sua attività minaccia sempre più quei paesi, come ad esempio la Russia, che non sostengono le campagne militari degli Stati Uniti e della NATO. Il sequestro della settimana scorsa del premier libico Ali Zeidan è stato il primo caso simile dopo il rapimento e l’uccisione nel 1978 da parte delle Brigate Rosse del premier italiano Aldo Moro. Questi due eventi sono collegati solamente dal fatto che i soggetti dell’attacco erano i due capi del paese. Se nell’Italia degli anni ’70 i terroristi perseguivano un’ideologia di sinistra e uno scopo ben preciso, in Libia due anni era fa si cercava di rovesciare la dittatura di Gheddafi. Dietro al rapimento del premier, secondo alcune fonti, sta il gruppo islamico “Direzione Operativa dei Rivoluzionari Libici”, le cui motivazioni non sono ancora chiare. Comunque sia, il rapimento del premier Zeidan ha rivelato l’inspettato e, sembrerebbe, illogico risultato dell’ “esperimento democratico” in Libia. L’oggetto dell’attacco era il capo del primo governo formato dagli oppositori di Muammar Gheddafi, rimasto fino alla fine nemico irriducibile degli islamisti.

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Ambasciata d’Italia a Mosca

Rassegna della stampa russa - Traduzioni

15 ottobre 2013

Kommersant

http://www.kommersant.ru/

Pagina 8 – Il livello mondiale della minaccia terroristica – Al Qaeda allarga i suoi obiettivi. Se prima gli

Stati Uniti e i loro alleati erano i principali obiettivi della jihad globale, adesso gli islamisti considerano

nemici tutti gli stranieri e i non musulmani. L’allargamento della geografia e dell’agenda dell’

“internazionale del terrorismo” significa che la sua attività minaccia sempre più quei paesi, come ad

esempio la Russia, che non sostengono le campagne militari degli Stati Uniti e della NATO.

L’anniversario degli attentati terroristici dell’11 settembre ha coinciso con una nuova ondata di

terrorismo che sta diventando il punto di svolta per tutta l’attività di Al Qaeda. Se prima l’obiettivo

principale della jihad globale erano gli Stati Uniti e i loro alleati, adesso gli islamisti considerano nemici

tutti gli stranieri e i non musulmani e stanno trasferendo la propria attività oltre i confini del mondo

occidentale. L’allargamento della geografia e dell’agenda dell’ “internazionale del terrorismo” significa

che la sua attività minaccia sempre più quei paesi, come ad esempio la Russia, che non sostengono le

campagne militari degli Stati Uniti e della NATO.

Il sequestro della settimana scorsa del premier libico Ali Zeidan è stato il primo caso simile dopo il

rapimento e l’uccisione nel 1978 da parte delle Brigate Rosse del premier italiano Aldo Moro. Questi due

eventi sono collegati solamente dal fatto che i soggetti dell’attacco erano i due capi del paese. Se

nell’Italia degli anni ’70 i terroristi perseguivano un’ideologia di sinistra e uno scopo ben preciso, in Libia

due anni era fa si cercava di rovesciare la dittatura di Gheddafi. Dietro al rapimento del premier,

secondo alcune fonti, sta il gruppo islamico “Direzione Operativa dei Rivoluzionari Libici”, le cui

motivazioni non sono ancora chiare.

Comunque sia, il rapimento del premier Zeidan ha rivelato l’inspettato e, sembrerebbe, illogico risultato

dell’ “esperimento democratico” in Libia. L’oggetto dell’attacco era il capo del primo governo formato

dagli oppositori di Muammar Gheddafi, rimasto fino alla fine nemico irriducibile degli islamisti.

L’incidente ha dimostrato che nel mondo compaiono sempre più buchi neri ricolmi di islamisti che non

sono controllati dalle autorità.

Oltra alla Libia, anche lo Yemen si sta trasformando in un simile buco in cui opera una filiale di Al Qaeda:

il gruppo Al Qaeda nella Penisola Araba. Pochi giorni dopo l’incidente a Tripoli, nella capitale yemenita

Sanaa è stato portato a termine un tentativo per rapire l’ambasciatore tedesco Carol Muller

Holtekemper, nel corso del quale è stata uccisa la sua guardia del corpo. Lo scorso novembre nella

capitale yemenita è stato ucciso un diplomatico saudita. Al Qaeda nella Penisola Araba definisce gli

attentati una risposta alla collaborazione tra le autorità yemenite e gli Stati Uniti in ambito di sicurezza.

Tuttavia è significativo che bersaglio dei terroristi siano non gli stessi americani, bensì cittadini di paesi

terzi.

Gli eventi degli ultimi mesi testimoniano non solo una nuova ondata di attivismo terroristico, ma anche

che a 12 di distanza dagli attacchi dell’11 settembre del 2001 negli Stati Uniti, l’internazionale mondiale

del terrorismo amplia confini e metodi di lotta, rinnovando la sua agenda. Tuttavia, nel contempo, al

terrorismo mondiale è spuntata un’altra “testa”. Essa agisce contro gli interessi americani a una distanza

notevole dal territorio degli stessi Stati Uniti. E allarga sempre più la lista dei propri scopi e nemici.

Illustrazione di questa tendenza è divenuta la decisione senza precedenti che è stata presa

dall’amministrazione Obama ad agosto di sospendere immediatamente il lavoro di 22 missioni

diplomatiche americane nei paesi del mondo arabo e islamico. Come dichiarato da Martin Dempsey,

capo dello Stato Maggiore Congiunto, l’informazione ottenuta dal serivizio investigativo in merito alla

preparazione di atti terroristici contro gli interessi degli Stati Uniti nelle problematiche regioni del Medio

Oriente, Asia Centrale e Meridionale, ha costretto la Casa Bianca a compiere questo passo. Nella lista dei

luoghi potenzialmente pericolosi figura anche il Bangladesh, lo stato musulmano lontano dal mondo

arabo che prima non era utilizzato dai terroristi come luogo di rapimento.

Martin Dempsey ha spiegato che i terroristi sono pronti a “colpire non solo gli interessi americani, ma

anche quelli occidentali”. A seguito dell’esempio fornito dagli Stati Uniti, anche il Canada, la Gran

Bretagna, la Francia e la Germania hanno sospeso il lavoro delle proprie ambasciate e consolati.

Ad agosto è stato possibile scampare a grandi atti terroristici, ma Al Qaeda non ha tardato a sferrare un

nuovo attacco. Questa volta è stato scelto il Kenia e l’esecutore era il gruppo islamista “Al Shabaab”, un

affiliato di Al Qaeda che opera in Africa orientale. A fine settembre gli islamisti hanno compiuto un

attacco al centro commerciale Westgate nella capitale Nairobi che ha provocato la morte e la cattura di

decine di visitatori, inclusi cittadini occidentali.

Questo attacco è stato meticolosamente progettato e ha potuto contare su una risonanza massima sia

in Kenia che all’estero. Attaccando l’edificio i terroristi hanno diviso i visitatori in “propri” e “altri”. Ai

musulmani disposti a invocare il nome della madre del profeta Muhammad (Amina) è stato concesso di

abbandonare il complesso. Quelli che non hanno potuto pronunciare la parola chiave sono stati fucilati o

presi in ostaggio. Secondo le dichiarazioni dei testimoni, gli aggressori non erano kenioti: parlavano in

arabo oppure in lingua somala.

L’attacco, uno dei più importanti al mondo dopo l’11 settembre, è stato compiuto in risposta alla

partecipazione del contingente keniota all’operazione antiterrostica contro gli islamisti nella vicina

Somalia. L’azione compiuta a Nairobi ha ribadito che il centro della disputa tra Al Qaeda e l’Occidente si

sta spostando in paesi terzi, ampliando estremamente la geografia del terrorismo mondiale. Nella lista

delle vittime ci sono cittadini americani, inglesi, canadesi, francesi, indiani, cinesi, della Corea del Sud e

anche il noto poeta africano ghanese Kofi Awoonor che rappresentava il suo paese all’ONU. Inoltre, al

Westgate sono stati uccisi anche parenti del presidente del Kenia Uhuru Kenyatta.

Lo scenario dell’ “11 settembre keniota” ha ricordato il grande atto terroristico compiuto da un gruppo

di terroristi nella capitale economica indiana Mumbay a novembre del 2008. Allora gli islamisti per più di

un giorno hanno tenuto in ostaggio un albergo di lusso e nella scelta degli ostaggi hanno cercato i

proprietari di passaporti stranieri.

Il massacro di Nairobi ha coinciso con un’altra azione degli islamisti in un diverso continente: in Pakistan.

Come risultato del doppio attentato a Peshawar, realizzato da attentatori suicidi in una delle chiese più

antiche del paese, più di 80 parrocchiani sono stati uccisi e i feriti erano 140.

Nonostante in Pakistan si registrino quasi quotidianamente attacchi terroristici, l’azione compiuta nella

Chiesa di Tutti i Santi sta in disparte. Si tratta del più importante attacco compiuto nel paese contro i

membri della comunità cristiana. La responsabilità è stata assunta dal gruppo di talebani pakistani

chiamato Junul Ul Haifa, che ha dichiarato che lo scopo del suo attacco agli stranieri e ai pakistani non

musulmani era un segno di protesta contro l’attacco dei droni americani.

I frequenti attacchi contro i cristiani sono un’altra dimostrazione della nuova tendenza nello sviluppo del

terrorismo. Ad aprile in Siria sono stati rapiti i leader della comunità cristiana di Aleppo: il fratello del

Patriarca Giovanni X di Antiochia, il metropolita di Aleppo Paolo e il metropolita ortodosso cristiano di

Aleppo Giovanni Ibrahim.

Alla 68 esima sessione dell’Assemblea Generale dell’ONU Barack Obama, ricordando gli attacchi a

Nairobi e a Peshawar, ha parlato della decentralizzazione dell’attività di Al Qaeda che “già non consente

ai terroristi di compiere atti terroristici di ampia scala del tipo dell’11 settembre”. Allo stesso tempo ha

riconosciuto “una seria minaccia nei confronti dei governi, diplomatici, uomini d’affari e cittadini di tutto

il mondo”.

L’ampliamento dell’agenda dell’internazionale del terrorismo significa che d’ora in poi la minaccia è

rivolta al mondo intero. Inclusi i paesi che non sostengono la campagna militare degli Stati Uniti.

Autore: Sergei Strokan Taglio: alto

Traduzione: Camilla Bisesti

Kommersant http://www.kommersant.ru/

Pagina 11 – L’Europa si toglie dai tubi di Gazprom – Bruxelles ha promesso sostegno al GNL e al

“Southern Gas Corridor”

Sommario: L’Europa che importa le risorse energetiche non considera più indispensabili nuovi gasdotti

per la fornitura del gas. Dei circa 100 progetti per il suo trasporto che la Commissione Europea intende

sostenere entro il 2020 non c’è nessun progetto di gasdotto nuovo e nessun progetto di gasdotto per il

trasporto di gas dalla Russia. Quanto al deficit crescente a causa del calo nella produzione propria di gas,

l’Europa pensa di compensarlo con l’importazione di gas naturale liquefatto (GNL) e di carbone. Nuovi

gasdotti di Gazprom rischiano di non trovare consumatori

Ieri la Commissione Europea ha approvato la lista di 250 progetti nell’ambito delle infrastrutture

energetiche (Projects of Common Interest, PCI) che nel 2014-2020 possono ottenere sovvenzioni dal

fondo comune europeo dal volume di 5,85 miliardi di euro. Circa il 40% di questi progetti hanno a che

fare con il trasporto del gas. Alle questioni delle forniture esterne di gas in Europa tramite condotti è

stata però dedicata sorprendentemente poca attenzione. Nessun progetto di fornitura di gas dalla

Russia è entrato nella lista: né il Nord Stream, condotto già in esercizio della cui probabile estensione

Gazprom ha parlato, né South Stream, che deve ancora essere costruito.

In totale, nella lista UE sono elencati soltanto tre progetti dall’estero: “Southern Gas Corridor” (fornitura

di 23 miliardi di metri cubi di gas all’anno dal Turkmenistan e Azerbaigian), il gasdotto Algeria-Italia (7,5

miliardi di metri cubi) e da Cipro in Grecia (8 miliardi di metri cubi). Il Turkmenistan però ha contrattato

volumi significativi di gas per la Cina, e la Russia sta bloccando l’idea di costruire un gasdotto verso

l’occidente, sul fondo del Mar Caspio. Sarà quindi soltanto l’Azerbaigian a poter fornire gas per il

“Southern Gas Corridor”, e i volumi saranno limitati a 10 miliardi di metri cubi l’anno. Il gasdotto

dall’Algeria (progetto Galsi) è in discussione dal 2002, la costruzione non è ancora iniziata per mancanza

di gas libero, che alla società statale locale, Sonatrach, adesso conviene di più liquefare. Le prospettive

di un gasdotto da Cipro sono offuscate da contenziosi territoriali con la Turchia e dall’incertezza riguardo

ai volumi delle riserve.

Intanto scendono i volumi delle estrazioni proprie di gas in Europa. Stando alla previsione dell’Agenzia

internazionale dell'energia (IEA), per il 2020 le estrazioni nell’UE caleranno di più di 40 miliardi di metri

cubi l’anno, fino al livello di 250 miliardi di metri cubi, soprattutto a causa dell’esaurimento dei

giacimenti del mare del Nord. Evidentemente, per compensare questo calo Bruxelles intende ricorrere

per la maggior parte alle importazioni di GNL. Nella lista PCI sono stati inseriti circa 20 terminal per la

ricezione di GNL, soprattutto nei paesi baltici. Ma l’attenzione principale è dedicata alla rete interna

europea di trasporto del gas: due terzi dei progetti sono legati alle capacità di scambio di gas tra vari

paesi dell’UE, soprattutto in Europa Centrale e Orientale. Questi progetti corrispondono al modello

obiettivo del mercato del gas UE, che è stato approvato in via di principio nel 2012. Stando a questo

modello, tutto il mercato deve essere composto da alcune zone, entro le quali il gas viene commerciato

nei punti di scambio virtuali.

L’approccio della Commissione Europea si basa sulla visione per la quale in Europa la domanda per il gas

è in stagnazione. Il consumo di gas non è ancora stato ripresto dopo la crisi e, secondo i dati IEA, alla fine

del 2012 era del 10% più basso rispetto al livello del 2008 (49 miliardi di metri cubi al mese), prima della

crisi ci si aspettava una crescita di una volta e mezza per il 2020. Inoltre, nell’energia europea il gas viene

attivamente pressato dal carbone.

Gli analisti del centro energetico della Skolkovo Business School valutano la nicchia di mercato per

forniture supplementari di gas in Europa per il 2020 in 50 miliardi di metri cubi, ma solo i condotti

sostenuti dall’UE, se ci sarà lo scenario conservativo di vendita, coprono metà di questo fabbisogno.

Rimane aperta la questione se all’UE serviranno nuovi gasdotti dalla Russia. Tenendo conto di Nord

Stream, del sistema ucraino di trasporto del gas, delle due diramazioni di South Stream e dei piani di

estendere il gasdotto Yamal-Europa, Gazprom potrebbe ottenere, per il 2020, capacità di esportazione

fino a 340 miliardi di metri cubi l’anno, ricorda Serghey Vakhrameyev di “Ancorinvest”. Adesso i volumi

contrattuali delle forniture di Gazprom in Europa sono circa 160 miliardi di metri cubi l’anno.

Autore: Y. Barsukov

Taglio: alto Traduzione: Lev Kats

Nezavisimaya Gazeta http://www.ng.ru/

Pagina 11 (inserto diplomatico) – Esiste una vita dopo Vilnius ?

Con l’avvicinarsi del Vertice del Partenariato Orientale aumenta il grado delle dispute sulle prospettive

dell’integrazione dell’Ucraina

Sullo sfondo della polemica tra Presidenti e Primi Ministri su come Mosca risponderà alla svolta di Kiev

verso l’UE, mi è venuta in mente un’antica vicenda. Negli anni 1228-1229 un certo Federico II,

imperatore germanico e, secondo le testimonianze dei contemporanei, uomo estremamente particolare

e di talento, organizzò la sesta Crociata. Ma una volta giunto in Palestina preferì non intraprendere azioni

militari, ma accordarsi in modo pacifico con il sultano egiziano Al-Kamil sul trasferimento, sotto la sua

tutela, dei territori cristiani di Betlemme, Nazareth e Gerusalemme. Chiaramente Federico II, che

ottenne la reputazione di protettore della scienza e della formazione, e di modello di tolleranza religiosa,

entrò nella storia grazie a questa vittoria senza spargimenti di sangue. (…)

Chiaramente la decisione di Kiev di firmare l’accordo di associazione con l’UE è un fatto straordinario che

testimonia indirettamente la continuazione del cambiamento dell’equilibrio europeo a vantaggio

dell’Occidente. Dall’altro lato, l’associazione dell’Ucraina con l’UE non è di certo una richiesta di ingresso

ed è lontana dalla prospettiva di adesione. L’accordo di associazione non prevede inoltre condizioni e

impegni di alleato.

La deriva di Kiev verso Bruxelles ha già avuto un effetto negativo sui rapporti russo-ucraini, già di per sé

inquieti. Un’interpretazione letterale delle dichiarazioni dei dirigenti russi permette di valutarle come

monito sulla possibile contrazione dei rapporti economici in tutti gli ambiti. Proviamo però comunque a

capire quanto la firma dell’accordo tra Ucraina e UE possa riflettersi sui rapporti economici e sulle

possibilità delle principali parti interessate.

Ucraina

Nel cominciare le trattative di associazione e di zona di libero scambio con l’UE, i governi ucraini

perseguivano l’obiettivo di attrarre investimenti, ampliare il mercato e stimolare la modernizzazione

dell’amministrazione. Una delle principali priorità strategiche era il calcolo per la creazione di un regime

commerciale liberale con l’UE e i Paesi della CSI, che permettesse di sviluppare le esportazioni in

entrambe le direzioni.

Chiaramente a Kiev capivano la minaccia di rafforzamento della competitività sul mercato interno, ma

acconsentivano ad una serie di condizioni che presupponevano una liberalizzazione graduale delle

limitazioni commerciali e l’adattamento alla base normativa e legislativa dell’UE.

Nel regime liberale equilibrato dei rapporti economici Kiev vede la possibilità di creare un’economia più

competitiva e di mantenere un potenziale di transito che era stato messo a repentaglio dopo i conflitti

per il gas nel 2006 e nel 2009.

Per il momento è chiaramente prematuro interpretare l’accordo preparato come passo verso l’ingresso

nell’UE. Nello stesso accordo a questo proposito si dice che l’accordo non determina anticipatamente e

lascia aperto il futuro sviluppo dei rapporti Ucraina-UE.

Il passaggio al nuovo regime nei rapporti con UE non prevede l’entrata dell’Ucraina nella zona doganale

dell’UE o neanche, come nel caso della Turchia, la stipulazione di un accordo sull’Unione Doganale. Ciò

significa che il controllo doganale viene mantenuto sia nei confini occidentali sia in quelli orientali

dell’Ucraina.

Unione Europea

Dal punto di vista dell’UE, la firma degli accordi di associazione è il principale anello e strumento nello

sviluppo del programma del Partenariato Orientale. Nel preparare gli accordi con Ucraina, Georgia e

Moldavia, viene utilizzato un progetto standard di accordo, nel quale possono essere apportate delle

modifiche che rispecchiano in particolare caratteristiche e interessi settoriale. Dal punto di vista

dell’equilibrio economico, l’associazione permette al business europeo di rafforzare le posizioni sui

mercati dei Paesi che partecipano al Partenariato Orientale. Ma la creazione della zona di libero scambio

difficilmente porterà ad un profondo cambiamento della struttura di commercio. Più probabilmente la

riduzione e l’abolizione dei dazi permetteranno di ridurre in parte i prezzi delle merci della tradizionale

esportazione e importazione, il che può interessare potenzialmente gli investitori. Se al Vertice del

Partenariato Orientale a Vilnius (28-29 novembre) l’accordo di associazione verrà sottoscritto, esso verrà

soggetto a ratifica al Parlamento ucraino, al Parlamento Europeo e nei parlamenti dei Paesi-membri

dell’UE. Il processo di ratifica promette di essere piuttosto lungo. Eppure, siccome la Commissione

Europea e diverse grandi associazioni commerciali ucraine sono interessate all’aspetto economico

dell’accordo, assieme al contratto principale può essere firmato l’accordo di applicazione temporanea

delle condizioni sulla zona di libero scambio. Con il passaggio di tutte le procedure esso può entrare in

vigore nell’estate del 2014. Ma dato che le sue condizioni prevedono lunghi periodi di transizione, da 3-4

anni a 10-12 anni, l’influenza economica delle nuove forme dei rapporti tra Ucraina e UE difficilmente

potrà manifestarsi seriamente prima delle elezioni presidenziali della primavera 2015.

La Russia e i Paesi dell’Unione Doganale

Per la Russia e i Paesi dell’Unione Doganale, per lo meno nei prossimi anni, la prospettiva di istituzione

dell’associazione tra Ucraina e UE si presenta importante in primo luogo dal punto di vista politica.

Nonostante nel progetto dell’accordo di associazione tra UE e Ucraina (art.39) si dica direttamente che

l’accordo “non ostacola il mantenimento o l’instaurazione di unioni doganali, di zone di libero scambio o

di accordi sul commercio tra zone di confine” con Paesi terzi, in questo documento c’è una nota che tali

obblighi non devono entrare in conflitto con le normative vigenti tra UE e il Paese che partecipa

all’accordo.

A Bruxelles queste condizioni vengono trattate perentoriamente come impossibilità per l’Ucraina di

partecipare all’Unione Doganale, e a Mosca allo stesso modo valutano la prospettiva di firma

dell’accordo di associazione tra Ucraina e UE. Quindi viene posta la questione come un “aut aut”, contro

il quale Kiev tenta di muovere obiezioni, anche se senza particolare successo.

Finora le autorità ucraine sono riuscite a evitare di partecipare alle discussioni a proposito della

concorrenza spaziale tra i progetti di integrazione europeo ed euroasiatico. La riluttanza della Kiev

ufficiale di agire nel ruolo di mela della discordia tra Bruxelles e Mosca può essere considerata

pienamente consapevole e razionale. L’attuale status di politica economica dell’Ucraina si basa su tre

fattori principali: consolidamento della sicurezza comune europea nel ruolo di anello di congiunzione tra

Oriente e Occidente, status all’esterno di un blocco, e zone di libero scambio di diversi vettori. Se si toglie

anche solo uno di questi supporti, verrà messa in dubbio l’intera costruzione. Per questo Kiev tenterà di

non inasprire le contraddizioni nei confronti di Mosca e di proporre forme di rapporti che possano

andare bene a tutte le parti. Quindi il governo ucraino intende partecipare alla zona di libero scambio

nell’ambito della CSI e negli accordi chiamati ad armonizzare le relazioni dei Paesi della CSI e dell’Unione

Doganale, è pronto ad aderire ai singoli accordi nell’ambito della Comunità Economica Euroasiatica e

dell’Unione Doganale, se, chiaramente, lo consentiranno tutti e tre i Paesi membri dell’associazione, e

anche a sottoscrivere un singolo accordo sulle relazioni con l’Unione Economica Euroasiatica, qualora

essa venga fondata.

A Kiev ritengono che gli avvertimenti espressi dai rappresentanti delle autorità russe sul fatto che

l’Ucraina riempirà il mercato dell’Unione Doganale con merci proprie a basso costo e prodotti della

riesportazione illegale hanno un carattere pretestuoso ed esclusivamente polemico. In primo luogo gli

organi della dogana ucraina non lasceranno chiaramente filtrare merci che non hanno un destinatario

all’interno del paese. Esiste una certa speranza che alla dogana ucraina vi saranno più ordine e controllo.

In secondo luogo, come mostra la pratica, in caso di blocco dei contratti di esportazione le imprese

ucraine sono maggiormente predisposte a contrarre la produzione piuttosto che a intensificarla, tanto

più in assenza di ordinazioni garantite. In terzo luogo, la prova di misure doganali rafforzate da parte

russa ha già portato a far sì che le compagnie commerciali russe cominciassero a rifiutare i prodotti

ucraini, in particolare allo scopo di assicurarsi l’incolumità da possibili rischi in caso di aumento dei dazi

sulle merci ucraine o di possibile blocco doganale delle esportazioni ucraine.

E, infine, un ultimo argomento che consiste nell’indeterminatezza dei risultati del Vertice di Vilnius. La

prospettiva di firma dell’accordo di associazione tra UE e Ucraina dipende dalla risoluzione della

questione Yulia Timoshenko, che la Kiev ufficiale non vuole chiaramente lasciar andare in Europa senza

un suo forte rifiuto a partecipare alla politica ucraina. Dal punto di vista della maggior parte dei governi

europei, però, Kiev deve accettare le richieste europee nei confronti della Timoshenko e rinunciare ai

tentativi di limitare il suo status politico.

In questa matassa intricata di problemi Kiev sta cercando qualsiasi possibilità di salvare l’economia da

sanzioni e limitazioni, che possono mettere in dubbio la positiva dinamica economica nell’immediato

futuro. Senza dubbio con interessi comuni l’Ucraina e i paesi dell’Unione Doganale potrebbero trovare

forme di collaborazione nella sfera dell’industria metalmeccanica, stipulare effettivi accordi settoriali,

garantire la difesa della proprietà intellettuale, eccetera. In una situazione simile per Kiev è

estremamente importante la comprensione da parte di Bielorussia e Kazakhstan, in quanto senza

l’accordo dei leader di questi Paesi difficilmente il Cremlino potrà introdurre contro l’economia ucraina

sanzioni e limitazioni unilaterali.

Un’ultima osservazione, che riguarda la reversibilità o l’irreversibilità della scelta di integrazione:

osserviamo che il progetto di accordo di associazione tra UE e Ucraina ha una serie di momenti

procedurali irrisolti, e si prevede tra l’altro la possibilità di sospensione di diverse condizioni e posizioni

dell’accordo. Se traduciamo dal linguaggio contrattuale e normativo a quello quotidiano, ciò significa che

il gioco sta appena cominciando, e prevedere le sue conclusioni è chiaramente prematuro.

Autore: Sergey Tolstov,

direttore del Dipartimento dell’Istituto di Economia Mondiale e Relazioni Internazionali dell’Accademia Nazionale ucraina delle Scienze

Taglio: medio alto Traduzione: Alice Bravin

Vedomosti http://www.vedomosti.ru/

Pagina 1/6 – La sommossa delle periferie

La protesta spontanea degli abitanti del quartiere dormitorio Biryulovo Ovest, in periferia di Mosca, che

domenica è sfociata in disordini gravi, è unica e tipica allo stesso tempo. Gli abitanti del posto sono

convinti che il loro quartiere negli ultimi decenni è diventato un ghetto in cui i migranti provenienti dalle

repubbliche del Sud dell’ex URSS hanno superato il livello del 50% della popolazione. Le istituzioni

competenti sono talmente corrotte che non sappiamo niente dei numeri veri. Probabilmente i migranti

nel quartiere sono tanti, ma non una metà: allora dovrebbero essere in più di 50000 persone (questo è il

numero degli elettori in Biryulovo Ovest).

L’ostilità tra la popolazione indigena e i migranti che periodicamente sfocia in disordini di strada esiste in

tanti paesi e in tante metropoli del mondo: basti ricordare i tumulti in Francia nel 2005 e 2010, le

esplosioni locali di violenza in Germania, Gran Bretagna, Svezia. Gli abitanti locali, di regola, guardano in

modo negativo all’avvento degli “estranei”, portatori di costumi, credenze e valori sconosciuti che

cercano di mantenere nell’ambito dei ghetti. Però ultimamente la maggior parte degli scontri sulle

strade delle città europee sono legati al malcontento delle minoranze etniche e sociali per la propria

posizione. I casi di azione violenta da parte della maggioranza, come a Biryulovo, sono relativamente

rari. Sentiamo di rado che i francesi, i tedeschi o gli svedesi vanno a picchiare gli immigrati (anche se

vicende del genere ogni tanto capitano – per esempio, a Stoccolma primavera scorsa). Nei paesi in cui

c’è un’elevata tensione sociale e culturale, la maggioranza locale ha la possibilità di agire per vie

politiche: le persone possono sostenere partiti nazionalistici di destra, andare alle manifestazioni e farsi

notare in altri modi non violenti.

In Russia, a protestare sono proprio gli esponenti della maggioranza. Gli eventi del 2006 a Kondopoga, la

manifestazione dei nazionalisti in piazza Manezhnaya a Mosca in dicembre 2010, gli scontri a Sagra e

Nevinnomyssk nel 2011, la sommossa a Pugachov in estate 2013 riflettono un accumulo di indignazione

per i problemi economici o quotidiani il cui detonatore diventa un conflitto che coinvolge diverse

nazionalità e l’immobilismo degli organismi della giustizia.

Il tema etnico, però, è lontano dall’essere principale in questa vicenda. Il tema principale è l’assenza di

una strategia in materia delle migrazioni, che si somma alla diffusa corruzione nel servizio migrazioni,

nella polizia e negli organismi di sorveglianza. Conta anche la situazione particolare al mercato russo del

lavoro, e persino la politica estera. Le prime persone dello Stato, quando gli conviene una cosa,

chiedono di inasprire la modalità di attraversamento dei confini, e quando gli conviene un’altra, parlano

del danno del regime dei visti. Le parole sulla necessità di tutelare gli interessi degli indigeni seguono

all’ammorbidimento delle condizioni di assunzione dei migranti. Intanto lo Stato non ha intrapreso

nessuna riforma efficace del mercato della manodopera in grado di aumentare fortemente i rischi

finanziari e di reputazione per gli usufruttari del lavoro da schiavi dei migranti e contribuire alla

competitività dei cittadini russi che cercano di essere assunti a un posto di lavoro.

I costi bassi delle assunzioni dei migranti e i superprofitti dei suoi beneficiari creano un vuoto di potere

corrotto, quando i funzionari non vogliono né possono controllare la situazione nel territorio loro

affidato, temono un confronto con gli abitanti. Questo vuoto genera l’aumento della violenza, la volontà

di utilizzare istituzioni e leve di risoluzione dei problemi informali. Se i servizi speciali avessero seguito le

esortazioni in Rete dei nazionalisti e degli ultrà di calcio a loro affiliati, e il capo della giunta insieme a

quello della sede locale di polizia avessero messo a punto contatti con i residenti subito dopo l’omicidio,

gli estremisti sarebbero rimasti, per strada, a tu per tu con le teste di cuoio.

È da notare che lo scoppio di Biryulovo è in gran parte “merito” delle stesse autorità e dei politici, che

nel corso degli ultimi mesi hanno stimolato, con le proprie azioni e dichiarazioni clamorose, gli umori

xenofobi dei cittadini. Manipolavano con i dati riguardanti la criminalità e la bassa qualifica dei

gastarbeiter. L’84% degli interrogati da Levada-Centre in luglio si sono espressi favorevolmente

all’introduzione dei visti con i paesi CSI, il 65% - alla limitazione dell’ingresso nella propria città di

persone provenienti da altre regioni russe. La retorica xenofoba ha generato raid dei nazionalisti che

cercavano di controllare i documenti a persone dall’aspetto fisico sospetto, e i pogrom di domenica. È

indicativo come le autorità non abbiano avuto fretta di parlare con i propri sostenitori (Serghey

Sobyanin in Biryulovo Ovest ha preso il 64% dei voti, il secondo risultato all’interno del Grande Raccordo

Anulare). Non è escluso che la canalizzazione politica degli umori anti-migranti sarebbe stata un bene,

poiché il nazionalismo politico avrebbe permesso di passare dalle botte a un dibattito sulle misure

politiche concrete. Il Cremlino, però, come da tradizione, ha soffocato qualsiasi iniziativa del genere.

Con l’aggravamento della crisi economica e sociale, la tensione inevitabilmente continuerà a salire.

Continuando a proporre soluzioni locali e palliative, il potere provoca l’inasprimento della situazione. In

assenza di una reale rappresentanza degli interessi dei cittadini negli organi del potere e nelle condizioni

del rafforzamento della propaganda statale del patriottismo che spesso travasa in nazionalismo, è

legittimo aspettarsi che i tumulti avranno sempre più spesso un aspetto interetnico. I potenziali mini-

Biryulovo, dove abitano gastarbeiter legali e illegali, sono sparsi per le periferie di Mosca, vicino ai

mercati, magazzini e zone industriali.

Se c’è qualcosa, nelle azioni dello Stato negli ultimi anni, che ricorda una politica coerente, sono le

misure mirate a disunire i cittadini, far passare a loro la voglia di fidarsi uno dell’altro e di influire sulla

politica. I discorsi dei demagoghi di vari livelli mirano sempre più spesso a contrapporre i locali e i

migranti, gli operai di “Uralvagonzavod” e quelli del nastrino bianco, i poveri e gli oligarchi, i conservatori

e i liberali. Tali divisioni non fanno che stimolare la decomposizione del paese in parti numerosi che

vivono a seconda dei propri concetti e idee.

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Traduzione: Lev Kats