ALMA MATER STUDIORUM UNIVERSITÀ DI BOLOGNA · 1 Franco Cardini, Renata Salvarani, Michele...
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ALMA MATER STUDIORUM – UNIVERSITÀ DI BOLOGNA
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SCUOLA DI LETTERE E BENI CULTURALI
Corso di laurea in Scienze Storiche e Orientalistiche
Verona Minor Hierusalem
Imitationes gerosolimitane lungo la penisola italiana
Tesi di laurea in
Civiltà del Basso Medioevo
Relatore: Professore Berardo Pio Correlatore: Professoressa Francesca Roversi Monaco
Presentata da: Giulio Doralice
Appello: III __________________________________________________________________________
Anno accademico: 2015/2016
Voglio esprimere i miei più sentiti ringraziamenti a tutte le persone che mi
hanno aiutato, indirizzato, sostenuto durante le mie ricerche di questi mesi.
Ringrazio anzitutto la dottoressa, e collega di questi anni accademici, Chiara
Melilli che mi ha aiutato, con pazienza nel mio lavoro di ricerca e il Professor Berardo
Pio che mi ha seguito e consigliato con abilità nell’adempimento del mio lavoro.
Ringrazio in particolare i responsabili del progetto Verona Minor Hierusalem,
Paola Tessitore e Don Martino Signoretto, che si sono resi disponibili a parlare con me
del mio lavoro fornendomi contatti con professori dell’Università di Verona, generosi
e preziosi materiali per i miei studi. Inoltre ringrazio la professoressa Maria Clara
Rossi, per il precoce supporto e indirizzamento della mia ricerca, Gian Paolo Marchi,
per la sua generosa disponibilità e premura verso il mio lavoro. Ringrazio la dottoressa
Chiara Bianchini dell’Archivio di Stato di Verona che ha saputo guidarmi con abilità
nelle ricerche di archivio, consigliandomi, inoltre, preziose idee e spunti di lavoro. Un
pensiero va anche ai professori Gian Maria Varanini e Lorenzo Paolini che mi hanno
ascoltato e incoraggiato agli albori della mia tesi.
Concludo ringraziando mia madre, Rosa Anna Tirante, per avermi seguito e
supportato durante lo svolgimento del mio elaborato, insieme a tutte quelle persone
che ho avuto modo di conoscere in questo percorso di cinque anni, e a quegli amici e
famigliari che sono divenute parte della mia questa esperienza.
1
Introduzione
Il presente lavoro ha come oggetto di studio il recupero di un’antica memoria
storica veronese, che individuava nella città sorta nell’ansa dell’Adige, sin dall’epoca
carolingia, una Piccola Gerusalemme. Si è trattato, nello specifico, di recuperare i
riferimenti storici e documentari che possano offrire una base storiografica ad una
tradizione che proprio negli ultimi tempi la città di Verona sta riscoprendo.
Nel primo capitolo è stato d’obbligo un inquadramento delle vicende che
portarono allo sviluppo del culto della Terra Santa e alla sua progressiva esportazione
in Oriente, a Costantinopoli, ed in Europa. Tale diffusione del culto della Passione fu
favorito dalla progressiva traslazione di reliquie o parti di esse che i pellegrini recatisi
in Terra Santa portavano con sé nel viaggio di ritorno. Così nacquero innumerevoli
luoghi di culto dal fortissimo richiamo gerosolimitano. Si trattò di un richiamo dovuto
non soltanto alla presenza fisica di reliquie della Passione, ma anche all’imitazione
architettonica delle basiliche gerosolimitane, nonché ai toponimi e alla disposizione
urbanistica delle città.
Partendo da una visione complessiva delle imitationes gerosolimitane nella
penisola italiana, nel secondo capitolo sono stati esposti i casi più significativi di
riproduzioni architettoniche nonché di reliquie presenti in varie località d’Italia. Il
complesso di Santo Stefano a Bologna, conosciuto anch’esso con il nome di Piccola
Gerusalemme; le numerose reliquie della Vera Croce, sparse un po’ dappertutto in Italia,
che furono all’origine di radicate venerazioni locali; i numerosi luoghi di culto dedicati
al Santo Sepolcro, creati ad imitazione dell’originale gerosolimitano, come la chiesa di
San Sepolcro a Pisa, di San Giovanni in Sepolcro a Brindisi oppure l’importantissima
chiesa di San Sepolcro, con annesso ospedale dei pellegrini, di Barletta; infine,
addirittura un’intera cittadina che dal suo monastero prese il nome di Sansepolcro, nome
che tuttora permane.
2
E proprio l’assenza del caso veronese in tutte le ricognizioni di richiami e
riferimenti gerosolimitani in Italia mi ha spinto ad approfondire questo tema. Documenti
quattro e cinquecenteschi dicono che Verona era conosciuta con l’appellativo di Piccola
Gerusalemme, dal momento che la posizione della città, l’urbanistica e la toponomastica
presentavano non poche analogie con i luoghi di Terra Santa. Partendo da questi
documenti, che paiono far risalire tale denominazione a tempi molto antichi, addirittura
all’epoca precarolingia, nel terzo capitolo si è cercato di trovare le tracce documentarie
di quest’antica denominazione che venne attribuita alla città.
Una parte importante del lavoro riguarda anche la ricognizione dei riferimenti
gerosolimitani che, nei luoghi di culto così come nella toponomastica, si trovano sparsi
per la città di Verona. Si è trattato di recuperare, sempre facendo riferimento alla
documentazione esistente, un’antica memoria che lo sviluppo urbanistico e le
trasformazioni nella toponomastica hanno in parte cancellato.
Così nel quarto capitolo si è voluto dedicare un po’ di spazio alla descrizione di
tutti quei luoghi della città che presentano un qualche riferimento alla Terra Santa, nella
denominazione, nella collocazione geografica, o ancora nella presenza di una reliquia o
di una cappella dalla dedicazione gerosolimitana. Senza alcuna pretesa di completezza,
ho tracciato un percorso che è tanto geografico quanto cronologico: dalla prima
cattedrale veronese, alle chiese custodi dell’antichissimo culto delle reliquie dei martiri,
sino a giungere all’ottocentesco culto del Preziosissimo Sangue, cui in Verona fu
dedicata una cappella presso il Cimitero Monumentale. Ed allo stesso tempo attraverso
un percorso geografico, che ci porta dalle importanti chiese del centro medievale a
solcare il fiume verso i colli che ricordano, per la loro disposizione, quelli
gerosolimitani, e presso i quali poté sorgere addirittura una piccola Nazareth.
3
Capitolo I
La Gerusalemme terrestre e la Gerusalemme celeste
Il pellegrinaggio verso Gerusalemme
La visita a Gerusalemme, la possibilità di vedere e toccare i Luoghi Santi, teatro
della vita di Cristo e del mistero della Passione, ha rappresentato sin dai primissimi
secoli dell’era cristiana e con particolare intensità durante il medioevo, il più grande
desiderio del cristiano, il compimento ed il culmine del suo percorso spirituale. Poter
camminare tra la polvere delle strade percorse da Cristo, sperimentare la salita al
Golgota, toccare con mano la pietra del Santo Sepolcro, assistere all’accensione del
“fuoco sacro”: questo attendeva quei pochi, fortunati pellegrini che riuscivano a
raggiungere la meta di quello che era considerato il viaggio per eccellenza. Un viaggio
che era tanto fisico quanto spirituale, verso una Gerusalemme che era tanto terrestre
quanto simbolica: attraversare le porte di Gerusalemme significa approdare ad una
visione di pace e di concordia, significa accedere alla Gerusalemme celeste1.
Comprendere l’essenza di questo valore simbolico è fondamentale: Gerusalemme
è una città duale, luogo fisico e luogo dell’anima, urbs e civitas, terrestre e celeste;
un’interpretazione che l’esegetica cristiana deriva direttamente dall’Apocalisse di
Giovanni (Ap 21, I-22, 5). Qui viene descritta la Gerusalemme Celeste secondo un
paradigma che sarà alla base di tutte le successive immagini prodotte dal mondo
cristiano: la vittoria di Cristo sul peccato e sulla morte daranno vita ad una nuova realtà,
un “nuovo cielo”, una “nuova terra”, ed “ogni cosa nuova”. Allora scompariranno tutti
gli elementi negativi della storia, la morte e gli inferi, e saranno sostituiti da nuovo
1 Franco Cardini, Renata Salvarani, Michele Piccirillo, Verso Gerusalemme: pellegrini, santuari,
crociati tra X e XV secolo, Rimini 2000, p. 77.
4
ordine di cui la città discesa direttamente dal Cielo costituirà la perfetta sintesi. Lì si
realizzerà l’alleanza tra Dio e gli uomini. Da un monte il profeta scorge Gerusalemme,
città quadrata cinta di possenti mura, irradiata della luminosità che viene da Dio. Essa è
il punto terminale della storia, la meta che segna la fine della ricerca di senso, poiché
essa è la città universale, dimora di tutti i giusti. Nell’Apocalisse la Gerusalemme celeste
è descritta in contrapposizione a Babilonia, la città del peccato2. Pianta quadrata,
struttura cubica, mura di pietre preziose e d’oro, porte di perle lucenti3.; tutto rimanda
all’immagine della perfezione:
«E’ mi trasportò in spirito sopra un monte grande e alto, e mi mostrò la città
santa Gerusalemme che scende dal cielo da presso Dio, avendo in sé la gloria di Dio.
Il suo lume è simile a una pietra preziosissima, come pietra di diaspro dall’aspetto
cristallino. Ha mura grandi e alte, ha dodici porte, e alle porte dodici angeli, e dei nomi
sono scritti sopra, che sono i nomi delle dodici tribù dei figli di Israele. Ad oriente tre
porte, a settentrione tre porte, a mezzogiorno tre porte, e ad occidente tre porte. E le
mura della città hanno dodici basamenti, e su questi i dodici nomi dei dodici apostoli
dell’agnello. E colui che parlava con me aveva come misura una canna d’oro, per
misurare la città, le sue porte e le sue mura. E la città giace quadrangolare, e la sua
lunghezza è uguale alla larghezza. E misurò la città con la canna su dodicimila stadi;
la lunghezza e la larghezza e l’altezza di essa sono uguali. E misurò le sue mura,
centoquarantaquattro cubiti, secondo la misura umana adottata dall’angelo. E le sue
mura erano costruite in diaspro, e la città era di oro puro simile a vetro puro. I
basamenti delle mura della città erano ornati di ogni pietra preziosa: il primo
basamento è diaspro, il secondo zaffiro, il terzo calcedonio, il quarto smeraldo, il quinto
sardonice, il sesto sardio, il settimo crisolito, l’ottavo berillo, il nono topazio, il decimo
crisoprasio, l’undicesimo giacinto, il dodicesimo ametista. E le dodici porte erano
dodici perle: ognuna delle porte era formata da una perla sola. E la piazza della città
era oro puro, trasparente come vetro»4.
2 Jacques Le Goff, Il cielo sceso in terra. Le radici medievali dell’Europa, Bari 2010, p. 139. 3 Alberto Grohmann, La città medievale, Bari 2010, p. 26. 4 Ap 21, 10-21.
5
Questo luogo lucente e trasparente è destinato a restare un’immagine letteraria,
che non riesce a tradursi nell’iconografia: così gli artisti che si cimentano nella sua
raffigurazione utilizzano materiali preziosi, oppure traducono la quadrangolarità
descritta da Giovanni in un’altra forma che di per sé simboleggia la perfezione: il
cerchio5.
Questa Gerusalemme celeste risulta allacciata in misura fortissima a quella
terrestre, tanto da attrarla a sé e con essa l’umanità intera nel suo divenire. Gerusalemme
è la città ideale per antonomasia, e in sé racchiude tutti gli elementi di perfezione della
società urbana che in essa si specchia. La città è il luogo del rifugio, del riposo, della
sicurezza che si contrappongono al disordine ed al pericolo che si collocano all’esterno.
Ed è così che gli artisti, pittori, scultori e miniatori, la recepiscono e la propongono: una
cerchia di mura che protegge gli abitanti, al di fuori della quale il paesaggio è arido,
deserto, privo di alberi e di vita. Anche il Paradiso terrestre è rappresentato come una
città, una città dalla quale Adamo ed Eva vengono cacciati, dopo aver compiuto il
peccato originale, destinati a vivere nel dolore6.
Come nasce la tradizione cristiana del pellegrinaggio ai Luoghi Santi? Il
pellegrinaggio cristiano si fonda sulla tradizione ebraica della salita verso la Città Santa
e sulla consuetudine del viaggio verso un santuario o un luogo connotato da un’aura di
sacralità, tradizione ben radicata nel mondo greco-romano. Le radici del pellegrinaggio
cristiano si ritrovano anche in illustri esempi biblici, sia del Vecchio che del Nuovo
Testamento: da Adamo che dovette abbandonare l'Eden, ad Abramo, Isacco e Giacobbe
che peregrinavano senza una fissa dimora, o come il popolo d'Israele che errò nel
deserto. Il pellegrinaggio cristiano, tuttavia, si distingue sin dalle origini da ogni altra
forma devozionale presente in altri culti, che pur conoscono l’idea di viaggio verso un
Luogo Sacro, per una ragione fondamentale: il pellegrinaggio cristiano si dirige verso i
luoghi che serbano una testimonianza storica del passaggio di Gesù sulla terra, della Sua
Incarnazione, Morte e Resurrezione. Per gli ebrei Gerusalemme è il luogo privilegiato
della dimora di Dio tra gli uomini, il punto della terra in cui Dio ha stretto il suo patto
5 Grohmann, La città medievale cit, pp. 27-28. 6 Ibid., p. 26.
6
con Israele; ma per il cristiano Gerusalemme è soprattutto il luogo storico della Passione
di Gesù Cristo, insieme alla figura escatologica della Gerusalemme celeste apocalittica7.
A parte alcuni leggendari pellegrinaggi, appartenenti già al I secolo d.C., ma
attestati in fonti tardive e della cui storicità è lecito dubitare, è a partire dal II-III secolo
d.C. che la pratica del pellegrinaggio comincia a diffondersi lentamente: ricordiamo a
titolo di esempio il viaggio di Firmiliano vescovo di Cappadocia, che si recò in
Terrasanta nel 230, e la cui vicenda è ricordata negli scritti di San Gerolamo ed Eusebio
da Cesarea8. Si trattava di un pellegrinaggio perlopiù individuale, praticato da una
ristretta élite, il cui scopo sembra essere stato quello di verificare e chiarire dubbi di
natura biblica e teologica, oltre ad una ovvia pratica devozionale. Il pellegrinaggio a
Gerusalemme divenne per i cristiani pratica diffusa e radicata, secondo le modalità che
ci sono note, solo a partire dal 313 d.C. con l'editto di Costantino e Licinio e la
conseguente libertà di culto che esso assicurò: da allora è attestata l’esistenza di gruppi
di pellegrini anche piuttosto numerosi. Fu proprio nel periodo costantiniano, inoltre, che
venne avviato un programma di recupero e valorizzazione dei luoghi santi ed in
particolare di Gerusalemme: egli avrebbe promosso, secondo la tradizione, la
costruzione, sul sito che venne individuato come il luogo della crocifissione di Cristo,
di un’ampia basilica.
Protagonista importante di questo processo di sacralizzazione dei luoghi di Cristo
è Sant’Elena, la madre dell’imperatore Costantino, che si convertì al Cristianesimo in
seguito alla conversione del figlio. Nel 326, spinta da Macario vescovo di Gerusalemme,
che l’imperatrice aveva incontrato al Concilio di Nicea dell’anno precedente, Elena,
ormai ottantenne, intraprese un viaggio attraverso le province orientali dell’impero che
la portò in Terra Santa, sui luoghi in cui si erano consumati gli avvenimenti descritti dai
Vangeli. In quell’occasione edificò molte chiese e compì diversi atti di pietà cristiana,
ma la sua fama è, da allora, soprattutto legata al ritrovamento della Vera Croce di Gesù
e di altre reliquie9. Da questo momento si sviluppò un intenso culto della Passione e
7 Cardini, Salvarani, Piccirillo, Verso Gerusalemme cit., p. 10-12. 8 Ibid, p. 10. 9 Franco Cardini, Gerusalemme: una storia, Bologna 2012, pp. 69-70.
7
della Morte di Cristo. Il leggendario ritrovamento della Vera Croce è narrato da diversi
storici: la versione più diffusa è quella narrata nel capitolo XVII della Storia
ecclesiastica di Teodoreto di Cirro10.
«Quando l'imperatrice scorse il luogo in cui il Salvatore aveva sofferto,
immediatamente ordinò che il tempio idolatra che lì era stato eretto fosse distrutto, e
che fosse rimossa proprio quella terra sulla quale esso si ergeva. Quando la tomba, che
era stata così a lungo celata, fu scoperta, furono viste tre croci accanto al sepolcro del
Signore. Tutti ritennero certo che una di queste croci fosse quella di nostro Signore
Gesù Cristo, e che le altre due fossero dei ladroni che erano stati crocifissi con Lui.
Eppure non erano in grado di stabilire a quale delle tre il Corpo del Signore era stato
portato vicino, e quale aveva ricevuto il fiotto del Suo prezioso Sangue. Ma il saggio e
santo Macario, governatore della città, risolse questa questione nella seguente maniera.
Fece sì che una signora di rango, che da lungo tempo soffriva per una malattia, fosse
toccata da ognuna delle croci, con una sincera preghiera, e così riconobbe la virtù che
risiedeva in quella del Signore. Poiché nel momento in cui questa croce fu portata
accanto alla signora, essa scacciò la terribile malattia e la guarì completamente».
Con la Croce furono anche rinvenuti i Sacri Chiodi, che Elena portò via con sé a
Costantinopoli. Scrive sempre Teodoreto nel capitolo XVII della Storia ecclesiastica:
«[Elena] fece trasportare parte della croce di nostro Signore a palazzo. Il resto fu chiuso
in un rivestimento d'argento e affidato al vescovo della città, che fu da lei esortato a
conservarlo con cura, affinché potesse essere tramandato intatto ai posteri».
Le vicende che narrano del viaggio a Gerusalemme di Elena e le circostanze dei
suoi ritrovamenti sono avvolte da una complessa leggenda, che talvolta si sdoppia e
dirama in direzioni diverse, con particolari più o meno divergenti nell’una e nell’altra11.
Sappiamo che, oltre al ritrovamento della Vera Croce, una volta giunta a Gerusalemme
10 Teodoreto di Cirro, originario di Antiochia, fu vescovo della città di Cirro in Siria nella prima metà
del V secolo. Importante scrittore ecclesiastico, fra le sue opere si annovera soprattutto la Historia ecclesiastica, continuazione di quella di Eusebio da Cesarea, che copre il periodo che va da Costantino al 428. v. Quintino Cataudella, Teodoreto di Ciro, in Enciclopedia Italiana, Roma 1937, in rete su www.treccani.it/enciclopedia .
11 Cardini, Gerusalemme cit., pp. 69-72.
8
Elena individuò tre Luoghi Santi degni di particolare devozione: un sepolcro scavato
nella roccia, collocato sotto il tempio di Giove che l’imperatrice fece demolire, nella
quale vennero trovati i resti della Vera Croce; una grotta naturale sul Monte degli Ulivi
all’interno della quale, secondo la tradizione, Gesù avrebbe istruito i discepoli ed
insegnato loro la preghiera del Padre Nostro; e infine un’altra grotta naturale, quella di
Betlemme12. Costantino, con il consiglio e l’appoggio dei membri più influenti della
Chiesa, dovette far proprie le scoperte e le istanze della madre. Così incaricò gli
architetti imperiali, pochi anni dopo la fondazione della Nuova Roma, Costantinopoli,
di utilizzare modelli architettonici e simbolici tratti dalle due capitali dell’impero, per
costruire tre santuari, nella forma che allora i cristiani andavano privilegiando, ovvero
quella della basilica, a tre o cinque navate. Così venne fondata la Gerusalemme
cristiana, per risacralizzare in senso cristiano una città, dimenticandone il passato
ebraico e superandone l’aspetto pagano.
Le tre Basiliche vennero erette con la medesima struttura: il Martyrium, la
basilica vera e propria; un atrio colonnato e chiuso e infine la cripta, centro cultuale
dell’intero santuario, corrispondente nelle tre basiliche ai tre Luoghi Santi individuati
dalla madre di Costantino. Quest’ultima struttura era chiamata, nella basilica situata
all’interno della cerchia muraria di Gerusalemme, Anàstasis, che in greco significa
Resurrezione, ed era costituita dalla cisterna in cui erano stati ritrovati i resti della Croce;
nella Basilica costruita sul Monte degli Ulivi la cripta era costituita dalla grotta
dell’insegnamento di Gesù ai discepoli, mentre nella basilica della Natività di Betlemme
la cripta corrispondeva alla grotta della nascita13.
Presto altre chiese iniziarono a sorgere, valorizzando se non addirittura creando
nuovi Luoghi Santi: è molto difficile sapere se determinati culti si sono mantenuti dai
tempi di Gesù Cristo sino al momento della costruzione di un santuario, oppure se siano
stati recuperati in un secondo momento, o addirittura inventati14.
12 Cardini, Salvarani, Piccirillo, Verso Gerusalemme cit., p. 12. 13 Cardini, Gerusalemme cit., pp. 72-73. 14 Ibid., p. 74.
9
Testimone di queste imprese edilizie che cambiarono il volto della città fu il
vescovo Eusebio di Cesarea15. Egli fu incaricato di tenere il discorso inaugurale il giorno
in cui terminarono i lavori e la basilica dell’Anastasys fu aperta a tutti, nel 335, ed ha
riportato traccia di quegli eventi nei suoi scritti. Così riporta: «Così presso lo stesso
testimonio salvifico veniva edificata la nuova Gerusalemme di fronte all’altra ben nota
nell’antichità», riferendosi alla Gerusalemme biblica, la cui memoria la riedificazione
romana della città non era riuscita a cancellare. Nel 70 d.C., infatti, Gerusalemme era
stata in gran parte distrutta dai soldati romani in seguito ad una rivolta, la prima, del
popolo giudaico contro Roma e l’allora imperatore Vespasiano. Nel 130 a.C.
l’imperatore Adriano ne decise la ricostruzione e la dedizione come colonia romana,
causando una seconda, durissima rivolta del popolo ebraico; la città prese il nome di
Aelia Capitolina, venne fornita di una cinta muraria con porte monumentali, di un
sistema di strade lastricate di impianto ortogonale, nonché di una serie di edifici pubblici
e privati. Sull’impianto di epoca romana si sviluppò nei secoli successivi la città
cristiana, che inglobò molti edifici dell’epoca precedente, che vennero trasformati per
lo più in chiese e luoghi di culto che vennero via via connessi ad episodi del Vangelo16.
Sempre secondo Eusebio di Cesarea, Costantino fece seppellire il corpo di sua
madre in uno splendido mausoleo che lo stesso imperatore aveva fatto realizzare a
Roma. Nella seconda metà del XII secolo le spoglie dell’imperatrice vennero trasferite
nella basilica dell’Ara Coeli sul Campidoglio, e da questo momento cominciò a
svilupparsi un intensissimo culto delle spoglie di Sant’Elena, e con esso si diffuse e
cominciò ad essere conosciuta la tradizione che individuava nella madre di Costantino
colei che aveva riportato alla luce i resti della Vera Croce; tradizione ch’era andata
scomparendo dalla memoria collettiva durante i primi secoli del Medioevo17.
La cristianizzazione di Gerusalemme, realizzata a partire dall’epoca
costantiniana attraverso la costruzione di luoghi di culto, fece crescere in maniera
15 Eusebio di Cesarea (265 – 340), vescovo di Cesarea nel 313, fu consigliere e biografo di Costantino I.
v. Alberto Pincherle, Eusebio di Cesarea, in Enciclopedia Italiana, Roma 1932, in rete su www.treccani.it/enciclopedia .
16 Cardini, Gerusalemme cit., pp. 53-63. 17 Chiara Mercuri, La Vera Croce, Roma-Bari, 2014, pp. 154-55.
10
consistente il flusso di pellegrini, rendendo necessaria la riorganizzazione della città
affinché potesse accogliere un numero sempre più consistente di stranieri giunti in
pellegrinaggio, ma anche di popolazione che cominciò a stabilirvisi in maniera
definitiva. Dopo la visita di Sant’Elena la città cominciò infatti a ripopolarsi, e così
sorsero nuovi edifici, ospizi per i pellegrini e anche numerosi monasteri per quei
religiosi che vi giungevano e decidevano di stabilirsi per sempre nei luoghi dove s’era
consumata la Passione di Gesù Cristo. Dopo Sant’Elena altri illustri pellegrini vi
giunsero, soprattutto da Costantinopoli: Eutropia suocera di Costantino, l’imperatore
Teodosio, oltre ai Padri della Chiesa Anastasio, Basilio e Gregorio di Nissa18.
Di quest'antica epoca abbiamo quale preziosa testimonianza, fra le altre, la
descrizione della pellegrina Egeria, o Etheria, nobildonna proveniente dalla Gallia o,
come si è oggi propensi a ritenere, dalla Galizia, recatasi a Gerusalemme in
pellegrinaggio attorno al 380. Egeria redasse un resoconto lungo ed accurato dei luoghi
visitati, nonché delle pratiche religiose riscontrate in ognuno di essi, conosciuto come
Itinerarium Egeriae, che inviò alla sua comunità religiosa19. Ella descrisse, fra le altre
pratiche, la venerazione della Vera Croce:
«Quindi una sedia viene posta per il vescovo sul Golgota dietro la Croce, che
adesso è in piedi; il vescovo prende posto sulla sedia, e davanti a lui viene posta una
tavola coperta di un panno di lino; i diaconi stanno in piedi attorno alla tavola, e
vengono portati uno scrigno argentato in cui si trova il sacro legno della Croce e la
condanna, e posati sul tavolo. Lo scrigno viene aperto e [il legno] viene preso, e sia il
legno che la condanna vengono posati sul tavolo. Ora, quando viene messo sul tavolo,
il vescovo, sedendosi, mantiene con fermezza le estremità del sacro legno, mentre i
diaconi fermi tutto attorno lo sorvegliano. Esso viene così sorvegliato perché è
tradizione che le persone, sia i fedeli che i catecumeni, vengano una alla volta,
inginocchiandosi davanti al tavolo, per poi baciare il sacro legno e allontanarsi. E a
causa di ciò, non so quando successe, si dice che qualcuno abbia morso e quindi rubato
18 Cardini, Gerusalemme cit., p. 79. 19 Mercuri, La Vera Croce cit., pp. 23-4.
11
una scheggia del sacro legno, ed è quindi sorvegliato dai diaconi che stanno
tutt'attorno, nel caso che uno di quelli che vengono dovesse tentare di farlo di nuovo. E
quando le persone passano una ad una, tutte inchinandosi, toccano la Croce e la
condanna, prima con la fronte e poi con gli occhi; poi baciano la Croce e passano, ma
nessuno stende la mano per toccarla. Quando hanno baciato la Croce e si sono
allontanati, un diacono regge l'anello di Salomone e il corno con cui venivano
Consacrati i Re; baciano il corno e guardano l'anello».
Come dimostra la testimonianza della pellegrina Egeria, sin dai primissimi secoli
l’esperienza del pellegrinaggio è frequentemente stata riportata in resoconti e memorie,
che costituiscono oggi per noi una fonte preziosissima per la ricostruzione di quelle
vicende e soprattutto dei sentimenti che animavano coloro che intraprendevano il lungo
viaggio verso la Terra Santa. A partire da allora nasce un nuovo genere letterario-
memorialistico, gli Itineraria in Terrasanta, spesso accompagnati da un genere affine e
talvolta coincidente, le Descriptiones. Si tratta di testi nei quali descrizioni geografiche
e monumentali della Terrasanta sono accompagnate da espressioni di devozione e
sentimento religioso. In questi testi si trovavano anche informazioni dal carattere più
pratico: venivano annotate le distanze, le tappe del viaggio, i servizi di cui il pellegrino
poteva usufruire a Gerusalemme e durante il percorso. Indicazioni scarne che tuttavia
manifestano già un’esigenza importante, quella di fornire indicazioni utili per i
viaggiatori, per visite brevi così come per soggiorni più lunghi20.
Oltre alla fondamentale testimonianza di Egeria, che già abbiamo citato, va
ricordato l’Itinerarium a Burdigala Hierusalem usque, databile tra il 333 ed il 334,
redatto da un pellegrino anonimo, generalmente noto come il Pellegrino di Bordeaux.
Questo testo è antesignano di una lunga tradizione: si tratta del primo testo appartenente
a questo genere letterario che ci sia pervenuto, redatto proprio in quegli anni in cui si
stava realizzando la grande trasformazione monumentale della Città Santa21.
20 Cardini, Salvarani, Piccirillo, Verso Gerusalemme cit., p. 12. 21 Ibid.
12
Pellegrini partirono, in questi primissimi secoli, anche dall’Italia: ricordiamo il
vescovo di Brescia Gaudenzio, il vescovo di Cremona Eusebio, nonché un anonimo
piacentino che ci ha lasciato un prezioso Itinerarium databile al IV secolo.
Poco più di un secolo dopo la visita di Sant’Elena un’altra imperatrice, Eudossia
moglie di Teodosio II, allontanata dalla corte di Costantinopoli in seguito ad una vicenda
oscura e piuttosto complessa, compì un lungo viaggio a Gerusalemme ed in seguito
decise di stabilirvisi. L’imperatrice dette impulso ad una serie di opere pubbliche, fondò
una serie di chiese e promosse la fioritura di nuovi culti, dotando Gerusalemme di nuovi
Luoghi Santi verso i quali dirigere la pietà e la devozione dei pellegrini che vi
giungevano sempre più numerosi. Molti aristocratici decidevano di abbandonare Roma,
ormai avviata ad un lento ed inesorabile declino sia monumentale che di prestigio, per
stabilirsi nella Città Santa22.
Così il prestigio di Gerusalemme cresceva: personaggi illustri vi si recavano e
decidevano di stabilirvisi, la sua popolazione aumentava e così la sua capacità di
accoglienza. La posizione di semplice diocesi suffraganea della sede di Cesarea era
divenuta ormai insufficiente, e così nel Concilio di Calcedonia del 451 fu attribuito alla
città il titolo di Chiesa patriarcale, con autorità su tutte le comunità ecclesiastiche di
Palestina e d’Arabia23.
Reduci dalla Terrasanta, i pellegrini cominciano ben presto a recare con sé
piccole reliquie, di vario tipo e natura, che servivano perlopiù ad arricchire i tesori di
edifici sacri o, più spesso, a consacrare edifici di nuove costruzioni. Così l’Europa iniziò
a riempirsi di reliquie sante che, provenienti dalla Terrasanta, sacralizzarono i luoghi
dove venivano poste: così si svilupparono centri noti come luoghi depositari di sacre
reliquie, ed è così che prese avvio quel processo che avrebbe portato alla nascita delle
Nuove Gerusalemme.
22 Cardini, Gerusalemme cit., pp. 79-80. 23 Ibid., p. 80.
13
Il viaggio stesso delle reliquie sviluppava virtù sovrannaturali e lasciava dietro di
sé una scia di altre, minime ma non per questo meno potenti o significative come
reliquie: ogni più piccola particella mantiene intatte le virtù della grande reliquia da cui
proviene. Il termine reliquia significa “resto, parcella”: fu proprio la necessità di
rispondere alla crescente richiesta di reliquie si sviluppò la pratica di smembrare corpi e
oggetti in parcelle sempre più piccole. Secondo quanto già sostenuto dal vescovo
Paolino di Nola nel V secolo, le reliquie avevano la prerogativa di mantenere intatto
tutta la loro virtus, anche in una piccolissima parcella. Presto la Chiesa stabilì una vera
e propria gerarchia nella classificazione delle reliquie, e pose al vertice quelle associabili
alla vita di Cristo; a seguire, per importanza, vi erano i resti dei santi, corpi o parti di
essi, ma anche oggetti loro appartenuti; vennero infine considerate reliquie quei
frammenti di stoffa che, posti a contatto con il corpo di un santo o con la sua tomba,
erano stati intrisi della medesima virtù. Con le reliquie nacque poi un’altra categoria di
oggetti sacri, che nel Medioevo conobbero uno sviluppo ed un’importanza notevole: i
reliquiari, oggetti atti ai contenere i frammenti dei corpi e degli oggetti sacri; realizzati
in metallo e pietre preziose, essi accrebbero il potere evocativo della nozione di reliquia
nell’immaginario comune, associandola all’inestimabile preziosità degli stessi24.
Così, i pellegrini cominciarono a portare con sé frammenti delle reliquie; spesso
queste parcelle venivano sparse in luoghi diversi, magari sul percorso che riportava i
pellegrini a casa dalla Terrasanta; l’Oriente e l’Europa si riempirono di reliquie, e con
esse, a partire da esse, si moltiplicarono i luoghi santi25. Questi luoghi santi non sono,
dunque, semplicemente scoperti: si tratta di vere e proprie creazioni, instaurazioni; i
luoghi santi sono distribuiti nello spazio secondo logiche precise. È una vera e propria
“politica dei luoghi”26, una politica che si volge a quei luoghi che sono in cerca di
legittimazione: come abbiamo visto, Costantino fa del possesso e della risignificazione
dei luoghi uno dei cardini della sua politica di potenza e della sua immagine pubblica.
Ed è dunque, oltre che verso Roma, proprio verso Costantinopoli, la nuova capitale
dell’impero in cerca di legittimazione, che Costantino indirizza le reliquie provenienti
dalla Terrasanta.
24 Mercuri, La Vera Croce cit., pp. 95-6. 25 Cardini, Salvarani, Piccirillo, Verso Gerusalemme cit., p. 12. 26 Giovanni Ferraro, Il libro dei luoghi, cur. Giovanni Caudo, Milano 2001, p. 353.
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Trasposizione verso altri luoghi della Gerusalemme Celeste
Come abbiamo osservato, per il cristiano dei primissimi secoli la Gerusalemme
terrestre e la Gerusalemme celeste si fondono nella città della Terra Santa. Da un certo
momento in poi, secondo modalità precise e per una serie di ragioni che andremo di
seguito ad analizzare, la Gerusalemme terrestre e quella celeste cominciano a poter
essere separate. La Gerusalemme celeste, carica di spiritualità e di significati simbolici,
viene traslata all’esterno della Gerusalemme terrestre, e ciò avviene mediante
l’esportazione di parti materiali, o imitationes, dalla Gerusalemme terrestre verso altri
luoghi, che ne assumono così la sacralità o che da essa traggono legittimazione.
Quando e dove inizia questo processo di acquisizione, da parte di altri luoghi, della
Gerusalemme celeste? I primi luoghi, Nuove Gerusalemme, a ricevere le preziose
reliquie sono Roma e Costantinopoli, le capitali dell’Impero.
Secondo la tradizione, come abbiamo visto, il ritrovamento della Croce avvenne
grazie all’intervento di Elena in collaborazione con il vescovo di Gerusalemme Macario.
Tra i materiali rinvenuti vi sarebbero stati, oltre alla Croce di Cristo, quella di uno dei
ladroni, la spugna, i chiodi, il titulus della Croce, la corona di spine, la lancia27.
Secondo la tradizione, le reliquie rinvenute da Elena a Gerusalemme sarebbero
state inviate al figlio, l’imperatore Costantino, e da egli divise tra le due capitali
dell’Impero, Roma e Costantinopoli. Per quanto concerne la sede cui furono destinate
le reliquie della Passione a Roma, il Liber Pontificalis28 riporta che esse furono poste
nella Chiesa di Santa Croce in Gerusalemme, basilica romana fondata attorno alla metà
del IV secolo e nota allora con il nome di Hierusalem, nome che attesterebbe la volontà
di dotare la capitale di una propria “Gerusalemme interna”.
27 Mercuri, La Vera Croce cit., p. 21. 28 Tommaso Braccino, Reliquie della Passione da Costantinopoli alla Toscana, in Come a
Gerusalemme. Evocazioni, riproduzioni, imitazioni dei luoghi santi tra Medioevo ed Età Moderna, cur. Anna Benvenuti-Pierantonio Piatti, Firenze 2013 (Toscana Sacra, 4), p. 164.
15
Costantinopoli
Simile volontà si ritrova nella Nuova Roma, Costantinopoli: secondo la notizia
riportata da Socrate Scolastico nella prima metà del V secolo, una reliquia della Vera
Croce sarebbe stata inserita per volontà di Costantino all’interno della statua che lo
ritraeva, eretta sulla colonna del suo foro. A partire dal VI secolo a Costantinopoli
comincia ad essere attestato un uso di reliquie all’interno di cerimonie pubbliche, e la
città acquisisce fama di luogo depositario e centro di diffusione di reliquie.
All’inizio del VII secolo la conquista persiana del Medio Oriente, in particolare
della Siria e della Palestina, nell’ambito di un lungo scontro che contrapponeva l’Impero
bizantino a quello Sasanide29, venne a minacciare direttamente Gerusalemme e la
posizione ch’essa aveva assunto. Iniziò una lunga fase di turbolenze e conquiste che
portò infine al trasferimento di tutte le reliquie a Costantinopoli. Il 5 maggio del 614,
dopo venti giorni di assedio, i persiani di Cosroe30 entrarono a Gerusalemme: le truppe
compirono massacri e saccheggi, la Vera Croce fu presa e portata a Ctesifonte, come
dono per la regina di Persia, di religione cristiano-nestoriana. Il furto della reliquia più
sacra di tutta la cristianità fu un’umiliazione ed un oltraggio grandissimo, e la reazione
bizantina non si fece attendere. L’imperatore Eraclio31 imperniò la propria trattativa con
i persiani su due punti fondamentali: la restituzione dei territori bizantini conquistati da
Cosroe e la riconsegna della reliquia della Vera Croce. Tutte le fonti attribuiscono
grande enfasi all’impegno che Eraclio profuse per ottenere quest’ultimo punto: è
indubbio che il furto della reliquia, se certamente fu usato a scopo propagandistico per
29 Mercuri, La Vera Croce cit., pp. 49-58. 30 Khusraw II Parwīz (propr. "il vittorioso"), noto con il nome di Cosroe II. Sovrano sasanide, regnò dal
590 al 628. Ebbe dapprima a lottare contro l'usurpatore Bahrām Ciōbīn, debellato il quale guidò vittoriose
campagne contro i Bizantini, e giunse (614) a conquistare Gerusalemme, donde i Persiani asportarono la reliquia della croce. v. Khusraw II Parwīz, in Enciclopedie on line, in rete su www.treccani.it/enciclopedia .
31 L’imperatore Eraclio fu il Fondatore della dinastia che regnò dal 610 al 717. Nacque nel 575 da Eraclio,
nobile d'origine armena, esarca d'Africa. Fatto uccidere Foca, fu incoronato dal patriarca Sergio (5 ottobre 610). Respinta la pace offerta da Eraclio, nel 611, i Persiani di Cosroe II occuparono successivamente parte della Cappadocia, l'Armenia, la Cilicia, la Siria, la Palestina. Da Gerusalemme, caduta nel maggio 614, essi asportarono il santo legno della croce, ciò che produsse una viva emozione nel mondo cristiano. La sua opera fu bruscamente interrotta dall'invasione araba. Nel 636 gli Arabi occuparono la Siria e la Palestina. v. Angelo Pernice, Eraclio imperatore d'Oriente, in Enciclopedia Italiana, Roma 1932, in rete su www.treccani.it/enciclopedia .
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il recupero dei territori perduti, dovette rafforzare il sentimento di identità cristiana e
compattare il contrattacco bizantino. La guerra si protrasse per oltre vent’anni, finché
tra il 629 ed il 630 Eraclio riuscì ad ottenere, in seguito ad una trattativa diplomatica, la
restituzione della Vera Croce, che venne riportata a Gerusalemme. Durante il saccheggio
persiano, essa non fu l’unica reliquia ad essere trafugata: altre subirono danneggiamenti,
altre furono nascoste, altre ancora andarono perdute. Quelle che furono recuperate non
vennero più riposte nei luoghi dove si trovavano in precedenza, per il timore che fossero
nuovamente danneggiate o sottratte. Una nuova invasione, infatti, a distanza di pochi
anni, minacciava Gerusalemme: quella musulmana. Memore di quanto accaduto con il
saccheggio persiano, il patriarca di Gerusalemme, Sofronio, inviò le reliquie sulla costa
perché da lì raggiungessero Costantinopoli. Tra il 636 ed il 637 la città fu posta sotto
assedio, finché non si arrese con la promessa, da parte del califfo Omar, che nessuna
distruzione sarebbe stata compiuta.
Oltre alla Vera Croce, giunsero così a Costantinopoli anche la Spugna e la Lancia;
anche la Corona di Spina giunse a Costantinopoli da Gerusalemme, ma probabilmente
molto più tardi, alla fine del X secolo32.
Principale ed originale luogo di conservazione delle reliquie a Costantinopoli era
Santa Sofia: è qui infatti che originariamente era conservata la reliquia della Vera Croce,
conservata in una cassa di legno sistemata all’interno di un armadio, dal quale veniva
estratta in determinate occasioni. Altre chiese, a Costantinopoli, destinate alla raccolta
di reliquie, si trovavano all’interno del palazzo imperiale; tra queste la più importante,
tanto da divenire Nova Hierusalem, la chiesa della Theotokos del Faro. Attestata per la
prima volta nel 769, questa chiesa si trovava all’interno del Grande Palazzo,
precisamente nella zona del Bukoleon, complesso di edifici datati per lo più al VI-VII
secolo, che insistevano su un terrazzamento affacciato sul Mar di Marmara e
caratterizzato dalla presenza, nelle sue vicinanze, di un faro, da cui appunto la chiesa
deriva il suo nome33. La chiesa del Faro divenne la cappella palatina per eccellenza, in
cui si svolgevano cerimonie imperiali come l’investitura e le nozze dei sovrani, e in cui
32 Tommaso Braccini, Reliquie della Passione da Costantinopoli alla Toscana, in Come a Gerusalemme
cit., pp. 165-166. 33 Ibid., p. 166.
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l’imperatore assisteva alle liturgie della Settimana Santa e della Pasqua; tra queste era
particolarmente solenne quella del Venerdì Santo, del cui rito faceva parte l’adorazione
della Santa Lancia, mentre la venerazione solenne della reliquia della Vera Croce aveva
luogo in questa chiesa nella domenica di Mezza Quaresima e il 1° agosto.
Tuttavia, nella prima metà del X secolo la chiesa del Faro non aveva ancora
assunto la caratteristica di grande reliquiario; la stessa reliquia della croce non era
conservata in questo luogo bensì presso il Grande Palazzo, da cui veniva estratta nelle
occasioni citate.
Tutte le successive reliquie di Cristo che giunsero a Costantinopoli andarono ad
arricchire le due chiese palatine, in particolare durante i regni di Niceforo II Foca34 e
Giovanni Zimisce35, i principali responsabili della riconquista all’impero di territori in
Siria e Palestina. Tale espansione militare in Oriente generò un nuovo consistente
afflusso di reliquie dai luoghi santi. In effetti, il primato assoluto della chiesa del Faro
come ricettacolo delle più preziose reliquie imperiali giunse, probabilmente, con Basilio
II Bulgaroctono36.
A partire dalla dinastia macedone, intorno al 975, il luogo principale deputato
alla custodia delle reliquie della passione divenne la chiesa della Theorokos del Faro, la
quale andò assumendo tra X e XI sec, le sembianze di una Gerusalemme “in nuce”. In
seguito l’esposizione da parte degli imperatori delle reliquie contribuirà alla creazione
della Costantinopoli Gerosolimitana, ed anche a livello liturgico vi era comparazione
con Gerusalemme giacché nella chiesa del Faro era adottata la liturgia gerosolimitana.
Nel 1171 il re di Gerusalemme, Almalrico37, fece visita all’imperatore Manuele
34 Niceforo II Foca (912-969), originario della Cappadocia fu uno dei più brillanti generali bizantini
dell’Impero Romano d’Oriente. v. Angelo Pernice, Niceforo II Foca, imperatore d'Oriente, innEnciclopedia Italiana, 1934, in rete su www.treccani.it/enciclopedia.
35 Giovanni I Zimisce (924circa -976), generale romano sotto Niceforo II Foca, assassinò quest’ultimo e
divenne suo successore al titolo imperiale. v. Francesco Cognasso, Giovanni I Zimisce, imperatore d'Oriente, in Enciclopedia Italiana, Roma 1933, in rete su www.treccani.it/enciclopedia .
36 Basilio II Bulgaroctono (958-1025), fu imperatore bizantino, il nome “bulgaroctono” gli fu attribuito
in quanto “distruttore di bulgari”. v. Angelo Pernice, Basilio II, soprannominato Bulgaroctono, imperatore d'Oriente, in Enciclopedia Italiana, Roma 1930, in rete su www.treccani.it/enciclopedia.
37 Amalrico I re di Gerusalemme. - Figlio cadetto (1135 circa - 1174) di Folco d'Angiò e della regina Melisenda, successe nel 1162 al fratello Baldovino III. v. Francesco Cognasso, Amalrico I, re di Gerusalemme, in Enciclopedia Italiana, Roma 1929, in rete su www.treccani.it/enciclopedia .
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Comneno38 per vedere la raccolta completa delle reliquie della passione: Costantinopoli
era divenuta davvero la nuova Gerusalemme39. Le reliquie furono osservate e venerate
in modo analogo all’arrivo dei crociati: la nuova Gerusalemme era all’interno del
palazzo, la Croce costituiva la reliquia imperiale per eccellenza.
Il valore della nuova Gerusalemme costantinopolitana è quello che
Costantinopoli costituisce una nuova Terra Santa e soprattutto una nuova Gerusalemme:
troviamo questo concetto espresso per la prima volta lucidamente nelle orazioni di
Nicola Mesarite, teologo e diacono di Santa Sofia, in particolare nella nota orazione
funebre ch’egli scrisse per la morte del fratello Giovanni, avvenuta nel 1204. Alcuni
anni prima della morte del fratello, questi aveva tentato un pellegrinaggio a
Gerusalemme; non essendoci riuscito, si era sentito dire dal padre che il tentativo era
sostanzialmente inutile, poiché Gesù si era fatto conoscere in Palestina ma ormai le
reliquie della passione si trovavano lì, a Costantinopoli; là c’è la tomba, il calvario, ma
lì, a Costantinopoli, la nuova Gerusalemme, ci sono la Croce, la Corona, la Spugna, la
Lancia, il Sudario… «Questo luogo,» - riferendosi a Costantinopoli - «figlio mio, è
Gerusalemme, Tiberiade, Nazareth, il monte Tabor, Betania e Betlemme, e partecipa
della Salvezza»40. Costantinopoli è dunque - una - Nuova Gerusalemme, che sostituisce
in tutto la vecchia, anche come fonte di reliquie del Signore e della Passione.
La posizione di Costantinopoli muta decisamente dopo la Quarta Crociata:
indirizzata, per perseguire gli interessi di Venezia, verso Costantinopoli piuttosto che
contro il mondo islamico, la spedizione portò nel 1204 ad un durissimo saccheggio della
città da parte dei crociati, che rimase profondamente impresso negli animi e contribuì
ad un raffreddamento dei rapporti tra l’Europa occidentale e quella orientale. In seguito
alla spedizione si formarono i cosiddetti Regni latini d’Oriente, la cui posizione si rivelò
38 Manuèle I Comneno (1123 circa - 1180) imperatore d'Oriente, salì al trono nel 1143. Consentì nel 1147
il transito agli eserciti della 2a Crociata. Alla morte di Ruggero II di Sicilia, il Comneno tentò la riconquista dell'Italia meridionale, ma nel 1158 i Bizantini dovettero lasciare il suolo italiano. Nell'Italia centrale e in Dalmazia, Venezia, dapprima sua alleata contro i Normanni, gli mosse una guerra marittima rovinosa per l'Impero. v. Francesco Cognasso, Manuele I Comneno, imperatore d'Oriente, in Enciclopedia Italiana, Roma 1934, in rete su www.treccani.it/enciclopedia .
39 Braccini, Reliquie della Passione cit., p. 168. 40 Ibid., p. 171.
19
tuttavia ben presto alquanto precaria. Senza addentrarci, in questa sede, in una
ricognizione delle complesse vicende che ne seguirono, ci interessa però il furto ed il
trafugamento di reliquie che venne perpetrato in occasione del sacco di Costantinopoli
da parte dei latini.
Per avere un’idea della quantità e della preziosità delle reliquie che erano a
Costantinopoli è interessante riportare l’elenco di quelle trafugate dal solo dal vescovo
di Halbertstadt per onorare la sua chiesa: un’ampolla con il sangue di Gesù; un pezzo
della Vera Croce; parte del Santo Sepolcro; una parte della Corona di spine; una parte
del Santo Sudario; un frammento del tessuto che aveva impressa la faccia di Cristo; la
spugna e la canna della Crocefissione; capelli della Vergine Maria e alcuni suoi
indumenti; una parte della testa e dei capelli di Giovanni Battista oltre che un suo dito e
alcuni suoi indumenti; una tibia, capelli e frammenti di abiti di San Pietro; un pezzo
della carne di San Paolo e reliquie di San Andrea; un braccio dell’apostolo Simeone; la
testa di san Giacomo; la scapola dell’apostolo Filippo; un braccio dell’apostolo Barnaba;
parte della testa di Stefano, il primo martire, insieme al gomito; un braccio del papa
Clemente; reliquie di San Lorenzo, San Procopio, San Teodoro, San Demetrio, Abele,
San Martiniano, San Pantalone, San Ermolao, San Ermagora; un dito di San Nicola;
reliquie di San Giovanni Crisostomo, San Giovanni Elemosinaro, San Gregorio, San
Basilio; la mano e braccio di Sant’Eufemia; reliquie di Santa Lucia, Santa Margherita,
Santa Caterina, Santa Barbara, e molti altri santi martiri, confessori e vergini41.
Lo stesso Roberto di Clari, semplice cavaliere, portò a Corbie, al suo ritorno in
Francia, cinque pezzi della vera Croce; un po’ del Santo Sangue, un frammento del
tessuto che copriva i lombi di Cristo quando era sulla croce, una parte della corona di
spine, una parte della spugna e circa 45 reliquie di persone o di cose42.
Luigi IX, re di Francia, nel 1241, provenienti da Costantinopoli, ricevette, con altre
reliquie, una parte della vera Croce che custodì nella cappella fatta appositamente
costruire nel suo palazzo. Ancora, reliquie della Passione di Cristo furono portate in
41 Charles M. Brand, Byzantium confronts the west 1180-1204, Cambridge, Massachusetts, 1968, pp. 264-
65. 42 Ibid., pp 265.
20
Europa, specialmente in Francia, dopo la caduta di Antiochia (1268), di Tripoli (1289),
di Acri e di Tiro (1291).
Questi lunghi e dettagliati elenchi ci permettono di comprendere quanto ormai
Costantinopoli fosse diventata ricettacolo privilegiato delle reliquie provenienti dalla
Terra Santa; e di capire allo stesso tempo come una delle missioni, coscientemente insita
negli obiettivi delle Crociate, fosse proprio quella di portare le preziose reliquie in
Europa, soprattutto dopo la rottura del mondo latino con la scismatica capitale d’Oriente.
La storia delle reliquie costantinopoliane non terminò, ovviamente, con le Crociate: la
conquista turca del XVI secolo fu un evento di portata grandissima per la cristianità
tutta, ed arrecò l’ultima insanabile ferita ad una città ormai in forte declino.
Roma
La ricerca del contatto reale con il sacro, che proietta nel presente storie ascoltate
o lette nei testi biblici, muove masse di pellegrini che cercano testimonianze materiali
della propria fede. Così è stato che «una nuova vera e propria Jerusalem translata –
peraltro assai più ricca e a volte più suggestiva di quella palestinese, ormai
drammaticamente impoverita dalle spoliazioni crociate e dai furti di tanti pellegrini – si
andava componendo, città dopo città e chiesa dopo chiesa, davanti agli occhi del
cristiano occidentale»43.
Le difficoltà sempre maggiori incontrate dai pellegrini nell’affrontare il viaggio
in Palestina, unitamente alla volontà politica dei pontefici di affermare il primato di
Roma, consegnano all’Urbe il titolo di seconda Gerusalemme. Dalla celebrazione della
presenza e del martirio degli apostoli Pietro e Paolo44, fino alla progressiva quanto
43 Ferdinando Molteni, Memoria Christi. Reliquie di Terrasanta in Occidente, Firenze 1996, p. 9. 44 In questo lavoro si è trattato in maniera pressoché esclusiva delle reliquie della Passione di Cristo,
provenienti dalla Terra Santa; non va assolutamente dimenticato che il fenomeno delle reliquie fu molto più vasto e si estese ai corpi e a tutti quegli oggetti che erano venuti in contatto con i numerosi santi.
21
incessante raccolta di reliquie provenienti dalla Terra Santa, tutto mira all’esaltazione
della nuova Gerusalemme. Una città Santa «sempre più vicina, smontata in Palestina e
ricostruita, pezzo dopo pezzo, appena fuori l’uscio di casa, ma non per questo meno
luminosa e rievocativa»45.
Accanto a Costantinopoli, meta privilegiata in cui confluiscono le reliquie
provenienti da Gerusalemme è l’altra grande capitale dell’Impero: Roma.
Secondo alcune delle versioni della tradizione relativa al ritrovamento dei Luoghi
Santi e delle reliquie da parte della madre dell’imperatore una parte delle reliquie
sarebbe stata inviata dalla stessa Elena direttamente a Roma. Reliquie provenienti dalla
Terrasanta erano visibili già nei primi secoli in molte chiese romane: frammenti della
roccia della natività erano custoditi nella chiesa dedicata alla Vergine, mentre la colonna
della flagellazione si trovava in Santa Prassede; i vimini della flagellazione erano visibili
in San Luigi, le funi con cui era legato Cristo in Santa Croce ed in Santa Maria Ara
Coeli. La basilica di San Giovanni in Laterano, con il Sancta Sanctorum e la Scala Santa,
e la Basilica di Santa Croce di Gerusalemme erano i luoghi più sacri e con la maggior
concentrazione di reliquie di Cristo. In Santa Maria Maggiore erano visibili il fieno della
mangiatoia portato a Roma, come vuole la leggenda, dall’imperatrice Elena, e parti della
stessa mangiatoia erano conservate a San Giovanni in Laterano46.
Una parte consistente delle reliquie della Passione sarebbe, secondo la tradizione
riportata fra le altre fonti dal Liber Pontificalis47, confluita nella chiesa di Santa Croce
in Gerusalemme, in Roma. Questo santuario, fondato attorno al 350, è particolarmente
rilevante perché attesta di quella volontà di esportazione della Gerusalemme celeste
dalla terrestre attraverso la traslazione delle reliquie, e dell’immenso prestigio che esse
erano in grado di donare ad una città che fosse riuscita ad appropriarsene. Questo
santuario era noto, semplicemente, con il nome di Hierusalem: una scelta che testimonia
45 Molteni, Memoria Christi cit., p. 11. 46 Mercuri, La Vera Croce cit., pp. 133-38. 47 Il Liber Pontificalis è un testo il cui titolo è stato dato nel XV sec. ad una raccolta di notizie relative ai
vescovi di Roma, scritte in età diverse e continuamente aggiornate. Non vi sono dati i vari autori, le fonti e il periodo nel quale i vari componimenti sarebbero stati eseguiti; nonostante ciò rimane una fonte di prima importanza per la storia medievale non solo della Chiesa, ma anche della città di Roma e di tutto l’Occidente.
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sia della volontà di dotare la vecchia capitale di una propria Gerusalemme interna, sia
del valore topopoietico attribuito alla collezione delle reliquie della Passione48.
Le notizie che abbiamo a proposito della collezione delle suddette reliquie sono,
ovviamente, in bilico tra storia e leggenda, e non consentono certo di lasciarsi andare ad
affermazioni certe: ma, del resto, quel che in questa sede interessa indagare non è tanto
la verità fattuale, bensì il prestigio ed il significato che il possesso più o meno reale o
più o meno autentico di tali oggetti sacri era in grado di conferire ad una città. Di certo
si sa che, ad un certo momento, le reliquie vi furono poste e che nel 350 la Basilica, un
tempo palazzo di Eliogabalo, divenne tale con il nome di Hierusalem: questo il nome
con cui venne chiamata almeno sino al XI secolo. Assieme ai chiodi, alla croce e al
titulus, vi era stata trasportata anche la sacra terra del monte del Calvario; ogni elemento
era teso a ricreare a Roma il luogo in cui si era compiuto il sacrificio di Cristo.
L’importanza della Basilica è testimoniata dal fatto che, nel corso degli anni e dei secoli,
furono intraprese dai pontefici numerose iniziative per abbellirla, arricchirla e
restaurarla; gli stessi pontefici la scelsero come luogo privilegiato per importanti
cerimonie liturgiche49.
Nel corso dei secoli del Medioevo, il culto delle reliquie conobbe a Roma un
grandissimo sviluppo. Privilegiato ricettacolo di reliquie provenienti dalla Terra Santa,
luogo di martirio dei santi Pietro e Paolo, sede pontificale: Roma, soprattutto quando si
fece difficoltoso il viaggio verso la Terra Santa a causa delle vicende politiche che
interessarono i territori del Medio Oriente, divenne la meta privilegiata di pellegrinaggio
della cristianità europea.
La ricerca della Gerusalemme traslata culminò infine nel grandioso progetto di
un pontefice: la volontà del trasporto fisico del Santo Sepolcro da Gerusalemme nella
penisola italiana. Il pontefice in questione è Sisto V50: figura di grande rilievo su vari
fronti, egli è noto in particolare per gli interventi urbanistici che impostarono il volto
48 Mercuri, La Vera Croce cit., pp. 148-150. 49 Chiara di Fruscia, Roma come Gerusalemme? Reliquie e memorie di Cristo nell’Urbe, in Come a
Gerusalemme cit., p. 615 nota 17. 50 Sisto V papa, Felice Peretti (1520 o 1521-1590) fu eletto papa nel 1585. v. Giorgio Candeloro, Sisto V
papa, in Enciclopedia Italiana, Roma 1936, in rete su www.treccani.it/enciclopedia .
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della Roma moderna, ma costosi e disinvolti nei confronti di molti insigni monumenti
dell’antichità e dei primi secoli della Chiesa, col pretesto di riutilizzare i materiali o per
sostituirli con nuovi edifici. Dovette suscitare meraviglia grande ed entusiasmo una sua
particolare ambizione: nell’Avviso del 18 febbraio 1587, l’annuncio di un sensazionale
progetto. Papa Sisto V era fermamente intenzionato ad acquistare il Santo Sepolcro, a
qualsiasi prezzo.
«Si va dicendo, che ‘l Pontefice ha un pensiero gloriosissimo di volere, cioè
redimere di mano del Turco il santo sepolcro et servirsi in questo traffico delli più
omnipotenti mezzi, senza riguardo di qual si voglia somma di denari, che la Porta di
Costantinopoli adimandi, et di quali si voglia eccessiva spesa, che co vada per havere
quel felicissimo sasso, che fu arca del nostro Redentore»51.
Del centro del mondo cattolico, la splendida Roma di Pietro, Sisto avrebbe fatto
una nuova Gerusalemme, trapiantandovi il cuore della vecchia Gerusalemme. Un
progetto stupefacente che, secondo il papa, doveva essere realizzato attraverso le armi e
non con il denaro, strappando il Santo Sepolcro ai Turchi, oramai padroni anche di
Costantinopoli; un progetto stupefacente ma al contempo controverso, tanto che lo
stesso pontefice era consapevole del sacrilegio insito in una simile traslazione, danno
incalcolabile considerando che gli stessi Turchi si erano dimostrati rispettosi dei Luoghi,
più dei cristiani, data la disinvolta pratica di questi ultimi di asportazione di frammenti
e reliquie da Gerusalemme e dalla Terra Santa.
Contrari al progetto papale erano i Frati Minori, i quali detenevano per altro la
custodia del Santo Sepolcro a Gerusalemme sin dal primo Duecento. L’Ordine avrebbe
perso il controllo e la gestione dei luoghi santi a Gerusalemme e il convento dei Minori
a Venezia avrebbe perduto il ruolo chiave nel contesto del monopolio veneziano dei
viaggi per la Terra Santa. Nel 1590 venne pubblicata una Oratione rivolta a Sisto V,
nella quale il dissenso verso il progetto ideale del pontefice era sviluppato e articolato
in quattro punti cardine. In primo luogo si invitava a non lasciar affievolire «l’eterno
51 Cristiano Marchegiani, Il Santo Sepolcro da Gerusalemme a Roma, in Come a Gerusalemme cit., p.
742.
24
stimolo di vendetta» al fine di «rihavere il sepolcro di Christo, e levarlo di mano de
cani» e solo «per via d’arme», evitando quindi l’acquisizione per denaro, rievocando lo
spirito crociato di San Bernardo di Chiaravalle. La seconda ragione era il misticismo del
periglioso, ma allo stesso tempo sublime, viaggio dei pellegrini decisi raggiungere la
Terra Santa, un viaggio irto di pericoli e disagi; disagi tuttavia proporzionati alla
salvezza delle anime presso Dio. La terza ragione era che una volta portato il Santissimo
Sepolcro in Italia, a Roma, si avrebbe ottenuto il risultato di infiacchire i Cristiani nella
spinta verso una eventuale guerra santa: bisognava piuttosto recuperare Gerusalemme
con le armi e con il sangue vendicarla dagli infedeli. La quarta ragione era una
pragmatica riflessione sulle difficoltà tecniche e logistiche di gestione dell’immenso
afflusso di pellegrini che, dal mondo, avrebbero raggiunto la oramai facile, facilissima
meta: tale sarebbe stata una Roma con il Santo Sepolcro.
La critica francescano-veneziana fece probabilmente riflettere il pontefice che,
forse anche a causa di una crisi di coscienza verso quel luogo sacro che è il Santo
Sepolcro, nonché in considerazione delle difficoltà pratiche che un tale progetto
comportava, giunse infine a riconsiderare il suo proposito. E così lo stesso pontefice, in
un colloquio con l’ambasciatore veneziano nel 1588, sembrava sul punto di orientarsi
verso un progetto più modesto, quello di un pellegrinaggio a Gerusalemme: «che vorria
far anco un altro viaggio al santissimo sepolcro»52.
52 Cristiano Marchegiani, Il Santo Sepolcro cit., p. 745 nota 10.
25
Capitolo II
Le Gerusalemme in Italia
Imitazioni della Gerusalemme terrestre
L’imitazione della Gerusalemme terrestre assume, via via che percorriamo le
varie tappe della penisola italiana, forme e modalità differenti.
La replica può assumere, essenzialmente, tre diverse tipologie:
- memoriale e devozionale, identificazione piena dei fedeli con gli elementi della
Passione e della Resurrezione attraverso reliquie e liturgie che da esse ne derivano.
- topomimetica, concepita per riprodurre in architettura le gerosolimitane.
- parziale, impostata cioè sulla riproduzione di un singolo elemento che diventa
il perno della liturgia e della devozione53.
Nelle pagine che seguono troviamo, così, città e luoghi in cui il richiamo a
Gerusalemme si esprime attraverso l’imitazione topografica, ovvero attraverso una
distribuzione dei luoghi di culto che richiama quella della Città Santa; altrove è la
presenza di reliquie traslate dalla Terra Santa a caricare un luogo di culto di quella
spiritualità che rimanda a Gerusalemme; per ultimo, possono essere l’imitazione
architettonica o l’intitolazione a persone e luoghi della Terra Santa a conferirle tale
spiritualità.
53 Renata Salvarani, La fortuna del Santo Sepolcro nel Medioevo. Spazio, liturgia, architettura, Milano
2008, p. 133.
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L’istanza di legittimazione spinse le città italiane a procurarsi le reliquie il cui
significato in Occidente diventava sempre più importante e si intensificava con i rapporti
nascenti verso l’Oriente cristiano. La simbologia trasferiva con le reliquie in Occidente
la sacralità memoriale della Terra Santa, in Italia, nei Comuni, rafforzando anche gli
antagonismi tra le città comunali e in Europa. Le leggende dei sacri cimeli, rielaborate
per lo più tra XIII e XIV secolo, giustificarono il prestigio religioso municipale
coniugandosi con le istanze politiche.
Al di là dei singoli casi, che andremo nelle prossime pagine ad esplorare, è
fondamentale comprendere come ciò che determinò la fortuna di questi edifici imitativi
non fu la fedeltà estetica, per esempio, delle linee del Santo Sepolcro in Gerusalemme,
bensì il trasferimento della memoria e del carico di spiritualità della Passione e dei
luoghi di Cristo di quelle terre lontane.
Costruttori e committenti non ricercavano una fedeltà tecnica e architettonica
dell’originale cui si ispiravano, bensì il richiamo figurativo e sentimentale di quei
simboli religiosi.
Come è stato scritto, «non possiamo certo aspettarci un aggiornamento costante
e una fedeltà filologica che non erano né nell’ordine delle possibilità tecniche, né in
quello degli atteggiamenti mentali degli uomini del XII secolo. Per cui può ben darsi
che dopo il restauro crociato […] in Occidente vi fossero commissionatori e progettisti
che – ispirandosi a testi o a modelli precedenti – continuassero tranquillamente a
costruire “copie” degli edifici della Città Santa ispirate alla situazione precedente»54.
La vastità, la complessità, l’articolazione del complesso gerosolimitano doveva
colpire fortemente i pellegrini del Medioevo: difficile ipotizzare, dunque, la
progettazione di una sua replica integrale. Più semplice e diretta doveva essere
l’imitazione di singoli elementi: architettonici, come la pianta circolare che conosce
grande diffusione nelle basiliche europee, oppure devozionali.
54 Franco Cardini, Riproduzioni occidentali del S. Sepolcro, in 7 Colonne & 7 Chiese. La Vicenda
ultramillenaria del complesso di Santo Stefano, cur. Francesca Bocchi, Bologna 1987, p. 47.
27
Difficoltà tecniche, dunque, ma anche un atteggiamento mentale che era alieno
da un’aderenza formale dell’imitazione, ma che concepiva quest’ultima piuttosto come
una riproduzione di significato, di valore simbolico.
Per l’uomo medievale la copia non riveste, in rapporto all’immagine da cui
proviene, la medesima posizione che la mentalità moderna è solita attribuirle. Nel
momento in cui un’immagine viene replicata, la replica che ne risulta cessa di essere la
riproposizione di un modello originario e assume essa stessa un valore pieno, di assoluta
legittimità.
Così «la Gerusalemme […]» replicata «[…] non era una semplice copia dei
Luoghi Santi; si credeva che attraverso la combinazione dell’immagine, della
consacrazione e dei riti religiosi la stessa Città Santa potesse essere ricollocata, ricreata
così come era, in un altro posto»55. Si credeva che la santità e i valori spirituali fossero
insiti in persone, luoghi e oggetti che, se spostati, portavano con sé le proprie qualità.
La città sospesa sull’acqua, Venezia
A Venezia l’imitazione dell’Anastasis è testimoniata a partire dall’Alto
Medioevo. Sono numerose le chiese che attraverso riproduzioni, affreschi ed elementi
scultorei, hanno evocato il Santo Sepolcro.
Venezia era forse il luogo di incontro e scambio per eccellenza con l’Oriente,
visto che con le Crociate divenne un solido crocevia di compravendita di reliquie, da
quelle più importanti, come quelle della Sainte Chapelle conservata a Parigi a quelle
meno. Lo stesso corpo di San Marco, patrono della città, venne trafugato da due mercanti
e portato alla Serenissima.
55 Beatrice Borghi, La Basilica di Santo Stefano in Bologna, in Come a Gerusalemme cit., p. 606.
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La reliquia più preziosa si trova nella chiesa di Santa Maria Gloriosa dei Frari,
dove è conservato il Preziosissimo Sangue, un balsamo con gocce di sangue di Cristo
che, secondo la tradizione, sarebbero state raccolte dalla Maddalena.
Altre importanti reliquie sono la Vera Croce e la Corona di Spine.
La presenza di reliquie così importanti a Venezia non vuole essere solamente una
conferma della sua supremazia politica e del suo ruolo di potere: essa implica una
religiosità ben più profonda, come veniva dimostrato dalle varie processioni cittadine.
Era un tentativo da parte delle istituzioni e della cittadinanza di Venezia di percepirsi
come città perfetta56.
Questo ideale di perfezione si esprime con il simbolismo dei luoghi dove uomo
e Dio si erano incontrati e manifestati, la Gerusalemme terrestre e la Gerusalemme
celeste. L’ideale urbano di Venezia si presta ad essere Gerusalemme celeste attraverso
l’acqua e la propria sospensione sulle acque della laguna57. Inoltre Venezia, al centro
dei contatti con l’Oriente e cardine per essi, è anche al il centro del mondo delle cose
degli uomini, come Gerusalemme è l’ombelico del mondo.
Venezia è anche legata alla Terra Santa e a Gerusalemme per il fatto di essere la
città da cui tradizionalmente partivano i lunghi viaggi marittimi per l’Oriente e la
Palestina. La città iniziò ben presto a mettere a disposizione ogni anno un consistente
numero di galee per il solo trasporto dei pellegrini. Si crearono servizi per i fedeli accolti
nella città, dove sorgevano ospedali, dove si incontravano negozianti che vendevano
indumenti e cibo, armatori che noleggiavano le galee: l’intera comunità era partecipe.
Con un numero sempre maggiore di pellegrini di diverse provenienze e lingue, la
Serenissima istituì una magistratura per la tutela di questi viandanti che si accingevano
a salpare58. La Serenissima deteneva forse il monopolio dei viaggi in Terra Santa,
organizzando viaggi a cadenze regolari. Il prestigio che Venezia si era guadagnata da
questa particolare navigazione era dovuto alla precisione delle norme e alla rigidità negli
statuti marittimi, che garantivano sicurezza e professionalità superiori che nessun’altro
56 Silvia Rapispada, Venezia e Gerusalemme, in Come a Gerusalemme cit., p. 480. 57 Ibid. 58 Ibid., p. 482.
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porto mediterraneo era in grado di offrire. Gli armatori giunsero anche a offrire tariffe
agevolate ai meno abbienti che dovevano affrontare il viaggio59.
Agli occhi del pellegrino si apriva una città, porta d’Oriente, ricca di reliquie
provenienti dalla Terra Santa, insieme ad una generosa devozione e accoglienza.
Per questi motivi i pellegrini indicavano spesso Venezia come nuova
Gerusalemme.
La città di Milano
Anche il Santo Sepolcro di Milano può essere descritto all’interno del fenomeno,
fiorito durante il movimento crociato, delle “imitazioni” di luoghi devozionali ispirati
alla tradizione gerosolimitana. Tuttavia la chiesa milanese non ha riprodotto le strutture
architettoniche delle città medievali.
Il Santo Sepolcro di Milano è l’espressione della partecipazione di una città allo
sforzo della crociata, al ricordo di essa e dei luoghi salvati60. La riproduzione è data
dall’edicola rappresentata dal sarcofago trecentesco che doveva contenere la terra di
Gerusalemme riportata dalla Terra Santa dai Crociati. Attorno ad esso dovevano
svolgersi mimesi di liturgie e processione, in grado di sostituirsi alle originali
d’Oltremare.
L’edificio, inizialmente intitolato alla Santissima Trinità, venne edificato nella
prima metà del XI secolo, e la datazione è ritenuta tale dagli studiosi61 che si basano su
due documenti del 1034 e 1066.
La ricostruzione della chiesa, strettamente legata alla crociata del 1099, fu avviata
dopo il ritorno dei primi crociati nel 1100. La chiesa del Santo Sepolcro, venne
59 Silvia Rapispada, Venezia e Gerusalemme, in Come a Gerusalemme cit., p. 483. 60 Samuele Briatore, Il Santo sepolcro a Milano, in Come a Gerusalemme cit. 61 Briatore, Il Santo Sepolcro cit., p. 490.
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rimaneggiata e riconsacrata, la nuova intitolazione convive con la precedente sino al
XIII secolo, quando scompare quella di Santissima Trinità.
Il ritorno del gruppo di crociati milanesi dopo la difficile conquista di
Gerusalemme conferì alla chiesa un importante valore e significato di ricordo del
sacrificio della città in Terra Santa. La riconsacrazione assunse così una connotazione
di voto. Nella consacrazione l’Arcivescovo fece riferimento all’impresa crociata
stabilendone una ricorrenza ad anniversario come memoria della conquista della Terra
Santa. Venne inoltre stabilito dall’Arcivescovo che fosse concessa l’indulgenza per i
peccati commessi a chi, non avendo potuto recarsi a Gerusalemme, si fosse recato al
Santo Sepolcro di Milano62.
Il Santo Sepolcro è come Santo Stefano di Bologna
Bologna possiede un particolare complesso monasteriale, tradizionalmente
denominato “Sette Chiese”, al quale fu conferito anche l’appellativo di Hjerusalem
bononiensis, attestato alla fine del IX secolo: questo complesso è Santo Stefano63.
Questo gruppo di edifici rappresenta una delle più compiute riproduzioni esistenti
della chiesa del Santo Sepolcro di Gerusalemme e ha lasciato nel corso della storia una
significativa impronta civile e religiosa nella comunità bolognese64.
Gli studiosi65 ritengono che con ogni probabilità in origine si intese riprodurre
simbolicamente la città di Gerusalemme per dotare Bologna di luoghi atti ad evocare la
Passione. Risale alla fine del IX secolo un documento, il diploma di Carlo III il Grosso,
nel quale si fa riferimento ad un Stephanum qui vocatur Sancta Hierusalem66.
62 Briatore, Il Santo Sepolcro cit., p. 492. 63 Borghi, La Basilica di Santo Stefano in Bologna cit., p. 578. 64 Salvatore Cosentino, Bologna tra la tarda antichità e l’alto Medioevo, in Storia di Bologna. Bologna
nel Medioevo, Bologna 2007, pp. 7-104. 65 Borghi, La Basilica di Santo Stefano in Bologna cit., 579. 66 Si ricorda del diploma di Carlo il Grosso in B. Borghi, La Basilica di Santo Stefano in Bologna cit., p.
579 nota 6.
31
La vicenda del complesso passa dalla leggenda alla storia: la tradizione fa risalire
tra gli anni 431- 450, la fondazione di Santo Stefano da parte del Vescovo Petronio67. È
plausibile che San Petronio (successivamente sarebbe divenuto patrono della città)
avesse portato delle reliquie da un pellegrinaggio in Terra Santa.
Secondo la Vita Sancti Petronii episcopi et confessoris, Petronio avrebbe
ricostruito la città di Bologna dopo le devastazioni di Teodosio I e costruito il complesso
delle “Sette Chiese”68.
In età precomunale, tra la fine dell’XI secolo e l’inizio del XII, si verificano dei
cambiamenti nei riferimenti della devozione dei vari centri urbani in Italia. Si
incomincia ad assistere all’affermazione del culto dei santi vescovi locali, che si
inseriscono in un processo di legittimazione delle nuove comunità urbane e senso di
appartenenza di queste.
È in questo contesto che a Bologna avviene la riscoperta di una figura, Petronio,
che diventa patrono e santo protettore della città, fondamentale per la definizione di una
religiosità civica della città. Vennero rinvenute le sue reliquie nella chiesa di Santo
Stefano nel 1141 e da quel giorno, il 4 ottobre, si stabilì di dedicare tale ricorrenza alla
festa di San Petronio.
Siamo di fronte al recupero di memoria da parte di una comunità, la città di
Bologna, di una memoria antica capace di legittimare e consolidare la sua identità civica,
in un periodo in cui le città italiane incominciavano un percorso di autonomia,
indipendenza e prestigio cittadino: l’età comunale.
Con la riproduzione del Santo Sepolcro, Bologna ambiva a rappresentare
Gerusalemme, la città ideale, la meta superiore.
«In tutta Italia le città emergenti come Bologna, furono accostate a Gerusalemme
e al Paradiso. Si tendeva a paragonare la città medievale alla Gerusalemme
trascendentale […]»69
67 Paolini Lorenzo, Petronio, Santo, in Dizionario biografico degli Italiani, vol. 82, Roma 2015, pp. 750-
754. 68 Borghi, La Basilica di Santo Stefano in Bologna cit., p. 581. 69 Ibid., p. 585.
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La maggior parte degli studiosi dubbiosi sulle origini petroniane di Santo Stefano
si divide tra chi respinge completamente ogni origine del complesso di Santo Stefano
attribuita a S. Petronio e alla sua intenzione di riprodurre gli edifici sacri della Città
Santa, ritenendo invece che il complesso attuale sia una copia tardo-medievale del Santo
Sepolcro, e chi ritiene che il riferimento a Gerusalemme riguardi una Santa martire di
nome Gerusalemme70.
Benché la maggior parte degli storici abbia posto l’attenzione sulla autenticità
della fondazione da parte di Petronio, studi più recenti71 hanno portato il dibattito
sull’architettura di Santo Stefano in un’altra direzione, ovvero sulla somiglianza del
complesso gerosolimitano di Santo Stefano al Santo Sepolcro frutto del restauro di
Costantino Monomaco nel 104872, prima che i crociati lo ricostruissero. Tale
interpretazione è plausibile poiché tra XI e XII secolo i monumenti in Terra Santa
vennero meglio conosciuti, considerato che il ricordo di Gerusalemme era vivo insieme
a quello delle Crociate.
In Santo Stefano è evidente la volontà dei costruttori, così come in altri luoghi in
Italia, di portare la basilica del Santo Sepolcro da Gerusalemme nella città, per i cittadini
e per tutte le persone che non potevano compiere il viaggio.
In riferimento a ciò è singolare ed interessante il legame tra Santo Stefano e San
Giovanni in Monte, complesso costruito su un colle artificiale di terra di riporto. Oltre
all’imitazione architettonica del complesso di Santo Stefano e topografica con il colle
di San Giovanni in Monte, vi era una liturgia sorprendentemente simile alla celebrazione
liturgica di Gerusalemme nel giorno delle Palme73.
Ribadendo un concetto:
«non possiamo certo aspettarci un aggiornamento costante e una fedeltà
filologica che non erano né nell’ordine delle possibilità tecniche, né in quello degli
atteggiamenti mentali degli uomini del XII secolo. Per cui può ben darsi che dopo il
70 Borghi, La Basilica di Santo Stefano in Bologna cit., pp. 585-586-587. 71 Ibid., p. 586. 72 Distrutto nel 1009 dal califfo Hakim, il Santo Sepolcro, fu ricostruito nel 1042 dall'imperatore
Costantino Monomaco. I crociati vi aggiunsero in seguito una basilica e numerose cappelle. 73 Una celebrazione simile a quella liturgica di Gerusalemme che commemorava l’entrata di Cristo.
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restauro crociato […] in Occidente vi fossero commissionatori e progettisti che –
ispirandosi a testi o a modelli precedenti – continuassero tranquillamente a costruire
“copie” degli edifici della Città Santa ispirate alla situazione precedente.»74
I pellegrini ambivano raggiungere la Gerusalemme celeste, ma giungerci
attraverso la Gerusalemme terrestre non era cosa da tutti. Così anche Bologna creò la
sua Gerusalemme celeste, con la sua sacralità, divenendo importante meta di
pellegrinaggio per tutti.
Una conferma dell’importanza della meta bolognese giunge da uno scritto
relativo ad un itinerario del XIV secolo, di tale Frate Antonio da Cremona. Ciò che ha
colpito gli studiosi è il riferimento a Bologna e alla chiesa di Santo Stefano: Frate
Antonio durante la sua sosta alla basilica del Santo Sepolcro paragona questa alla chiesa
di Santo Stefano in Bologna e alla sua struttura. Egli non solo riconduce il Santo
Sepolcro a Santo Stefano ma non descrive il santuario di Gerusalemme limitandosi a
paragonarlo a quello bolognese:
«Ecclesiam autem praeedictam Sepulcri si vultis scire, quomodo facta est,
videatis ecclesiam Bononiae sancti Stephani. Non eadem est toto orbe veneranda»75
Nel corso dei secoli sono aumentate costantemente le reliquie custodite nel
complesso di Santo Stefano e, nel Tardo Medioevo, sono state dedicate diverse cappelle
alla Passione di Cristo, segno di un legame che si faceva sempre più vivo ai luoghi
gerosolimitani, e segno di una necessità di soddisfazione di una crescente devozione dei
numerosi pellegrini che vi giungevano.
Santo Stefano così divenne una meta ultraterrena, un viaggio dell’anima, per tanti
pellegrini.
74 Cardini, Riproduzioni occidentali cit. 75 v. Borghi, La Basilica di Santo Stefano in Bologna cit., p. 603 nota 95.; v. Fr. Antoni De Reboldis de
Crmona Ord Min., Itinerarium ad Sepulcrum Domini (1327) et ad Montem Sinai (1330), in Biblioteca bio-bibiografica della Terra Santa e dell’Oriente Francescano, di G. Golubovich, Tomo III (dal 1300 al 1332), Firenze 1919, p. 335.
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Le città di Parma e Piacenza
Le città di Parma e Piacenza, per la loro importante posizione geografica, situata
la prima al centro della pianura Padana, lungo l’itinerario della via Francigena e la
seconda accanto al fiume Po, erano non solo importanti punti per i traffici commerciali,
ma anche luoghi di passaggio e centri di ospitalità per i viaggiatori e i pellegrini.
La città di Parma ebbe una sua fondazione, il complesso dedicato al S. Sepolcro,
ma le notizie relative alla data della fondazione sono imprecise.
Qualche breve accenno si trova in un’opera Settecentesca, scritta da padre Irnerio
Affò, dedicata alla storia della città in epoca medievale. Nella sua opera si fa riferimento
alla prima crociata del 1101 a cui avrebbero partecipato membri delle famiglie parmensi;
in essa si riporta il desiderio dei crociati che erano rientrati a casa: voler riproporre ed
edificare chiese gerosolimitane a similitudine del Sepolcro di Gerusalemme. Alcuni
studi recenti seguono la fondazione della chiesa basandosi sui dati del volume
settecentesco mentre altri ritengono promotori del complesso parmense i canonici del S.
Sepolcro di Gerusalemme, anticipando la costruzione al 1100 della chiesa e
dell’ospedale76.
Probabilmente chi riuscì a tornare a Parma, intorno al 1104 avendo negli occhi la
visione di Gerusalemme e dei sancti Dei Sepulcri, sentì la necessità di promuovere la
costruzione di un luogo che favorisse la preghiera dell’Anastasis.
Nelle carte parmensi anteriori all’XI secolo non è mai citata una chiesa dedicata
al S. Sepolcro, mentre gli studiosi hanno rinvenuto un documento dove è citata in un
testamento del 1136, nel quale viene lasciata una parte di eredità alla chiesa insieme ad
altre chiese parmensi. Nel documento si parla di una Ecclesia S. Sepulcri e di un
ospedale che poteva accogliere conversi. A metà degli anni Trenta del XII secolo,
dunque, la chiesa del S. Sepolcro era un’istituzione già in piena attività, tanto da essere
76 Pietro Silanos, La fondazione della chiesa e dell’Ospedale di S. Sepolcro di Parma: tra «imitatio
hierosolymitana», in Come a Gerusalemme cit., p. 503.
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raccomandata in un testamento, con un lascito, da parte di laici non dipendenti dalla
chiesa77.
Con questi dati gli studiosi hanno dedotto che la chiesa del S. Sepolcro fu fondata,
con ogni probabilità, dopo il 1105, sulla scia dell’esperienza della prima crociata.
Il patrimonio della chiesa continuò a crescere negli anni centrali del XII secolo
attraverso atti di compravendita e tramite donazioni e rinunce di beni da parte di laici
che entravano come conversi. San Sepolcro dunque era vivo nella considerazione degli
abitanti di Parma. Le proprietà continuarono ad accumularsi è vi è una buona
documentazione a riguardo, che offre una panoramica su come la canonica, in mezzo
secolo di storia, aveva ottenuto un importante rilievo nel contado. L’espansione
continuò anche nel XIII secolo78.
Nell’esperienza del complesso del Santo Sepolcro di Parma dovette esserci una
volontà identica a quella Piacentina nella nascita di una comunità a una vocazione
ospitaliera.
Nella vicina Piacenza una fondazione simile, infatti, era stata promossa circa
cinquanta anni prima. Nel 1055 venne fondato lì un monastero con annesso ospizio per
i pellegrini, dedicato alla Trinità e poi noto come S. Sepolcro, dove sarebbe stata eretta
una edicola di imitazione del Santo Sepolcro gerosolimitano. Risale alla metà dell’XI
secolo la fondazione di S. Sepolcro seguita, nei secoli XI e XII, dalla nascita di numerose
strutture ospitaliere79.
Dunque sulla via Francigena, in un breve lasso di tempo, vengono erette due
stazioni simili all’Anastasis gerosolimitana entrambe dotate di ospedale per i pellegrini.
L’interesse per una imitatio hierosolymitana si esprime non solo grazie al quadro
toponomastico e architettonico, volto all’imitazione dell’Anastasis, ma anche con la
vocazione crociata e ospitaliera delle città.80.
77 Silanos, La fondazione della Chiesa cit., p. 517. 78 Ibid., pp. 517-518-519 / pp. 521-522. 79 Ivo Musajo Somma, Il Santo Sepolcro di Piacenza, in Come a Gerusalemme cit., pp. 496-497. 80 Silanos, La fondazione della Chiesa cit., p. 522.
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La città di Genova
A partire dal XII secolo i genovesi avevano puntato alle coste siro-palestinesi
acquisendo in breve tempo importanti posizioni in ambito militare e commerciale. Si
trattò perlopiù di interessi economici che furono accompagnati da una forte carica ideale
religiosa, non tanto centrata sull’ideale gerosolimitano ma piuttosto con la tendenza a
sottolineare il ruolo anti musulmano ricoperto Genova, un ruolo che altre città marinare
dell’epoca vantavano81.
La crociata venne avvertita come fondamentale per la costruzione dell’identità
cittadina82. Il legame con la Terra Santa venne inoltre rinforzato con una serie di
inventiones, translationes e furta sacra, che si trovano nel tessuto urbano.
I Genovesi furono sì crociati e pellegrini ma anche abili mercanti. Quasi tutti i
pellegrini armati che nell’ XI si rivolgevano verso quelle terre lontane ed esotiche lo
facevano con il desiderio di accaparrarsi qualche pegno: univano così allo spirito
crociato anche la speranza di tornare con qualche cosa di eccezionale.
Pure Genova ebbe la sua chiesa intitolata al Santo Sepolcro e la sua esistenza è
documentata a partire dal 114383.
Ciò che gli studiosi sanno deriva da alcune sparute notizie relative all’esistenza
nei suoi pressi di un ospedale adibito, con molta probabilità, alla cura dei pellegrini in
procinto di imbarcarsi. Non si sa se la fondazione fosse gestita dal clero secolare o da
una comunità di canonici locali o addirittura da canonici gerosolimitani, presenti questi
ultimi dalla metà del XII secolo.
Secondo la tradizione sulle rovine sarebbe sorta la chiesa ospitaliera di San
Giovanni di Prè, ma la questione è dibattuta considerato che l’esistenza dell’ospedale
81 Antonio Musarra, Memorie di Terrasanta, in Come a Gerusalemme cit.
82 Franco Cardini, Crociata e religione civica nell'Italia medievale, in La religion civique à l’époque
médiévale et moderne (chrétienté et islam). Actes du colloque organisé par le Centre de recherche « Histoire sociale et culturelle de l'Occident. XIIe-XVIIIe siècle», (Nanterre, 21-23 juin 1993), vol. 213, Roma 1995, pp. 155-164.; in rete su http://www.persee.fr/doc/efr0223-50991995act21314943 (collegamento attivo il 16 gennaio 2017).
83 Musarra, Memorie cit., p. 529.
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del Santo Sepolcro è documentato già nel 1190 e l’avvio dell’attuale chiesa è attestato
al 1180. Gli studiosi84 hanno dedotto, basandosi su ritrovamenti archeologici, che San
Giovanni Prè, con le sue due chiese, l’ospizio e i terreni, si sia sviluppata sull’antica
chiesa del Santo Sepolcro.
Nelle vicinanze sorgeva un oratorio dedicato a San Giacomo: nel 1880, prima che
venisse costruita una strada, vi era una lapide che ricordava il punto di deposizione delle
ceneri di San Giovanni Battista, traslate da Myra nella Prima Crociata. Le reliquie del
Battista avrebbero ricevuto immediata accoglienza nel Battistero, a fianco della
cattedrale, intitolato al Precursore.
L’abbandono dell’intitolazione al Santo Sepolcro della chiesa gerosolimitana,
potrebbe essere imputabile alla tradizione che voleva che le fondazioni gerosolimitane
del XII secolo conservassero il titolo precedente delle chiese a loro affidate.
Non prima della fine del XII secolo, in contemporanea con l’affermarsi della
presenza gerosolimitana sul territorio, le reliquie di San Giovanni Battista divennero
oggetto di venerazione, per divenire poi una sorta di simbolo di identità collettiva tra le
classi più elevate. Il culto del Battista era andato a sostituirsi a devozioni più antiche,
come quella di San Siro, protovescovo genovese.
Un deciso impulso al culto battistino si deve alla fine del XIII secolo all’impegno
dell’Arcivescovo Iacopo da Varagine, autore di una Istoria sive legenda translationis
beatissimi Iohannis Baptiste85. Nella storia86 si narra di come, dopo la presa di Antiochia
nel giugno 1098, alcuni crociati genovesi si misero a scavare sotto l’Altare Santo e ne
estrassero un tesoro contenente le ceneri del Battista.
Secondo gli studiosi si trattò di un vero e proprio tentativo di costruire, attorno al
culto del Battista, una sorta di religione civica, tentativo che risultò tuttavia fallimentare,
soprattutto a causa delle forti discordie civili della città di Genova. Nel XIII secolo il
culto, sostenuto in prevalenza dalla parte guelfa e quindi inserito nelle tensioni sociali
84 Musarra, Memorie cit. 85 Ibid., p. 535. 86 Alcuni genovesi dopo la presa di Antiochia si misero a cercare le reliquie di Nicola. A nulla valsero le
parole dei monaci del luogo, i quali si affrettarono a dichiarare che le reliquie del beato Nicola erano già state sottratte qualche tempo prima. I Genovesi si misero ugualmente a cercare sotto l’altare e poco sotto rinvennero
una capsam marmoream che estrassero e portarono alle proprie navi. Solo in quel frangente i monaci confessarono la reale consistenza del ritrovamento, ovvero che le reliquie erano del Beato Giovanni Battista.
38
che caratterizzeranno le città comunali, stenta a divenire espressione della cittadinanza
intera.
Solo nel Quattrocento il culto del Battista si coprirà di significati tali da divenire
vera religione civica.
Un’altra reliquia è il Sacro Catino, che ha avuto la capacità di suscitare un forte
interesse anche in tempi molto più recenti87. La prima fonte risale all’Arcivescovo
Guglielmo di Tiro 1130-118688.
Secondo la narrazione, i Genovesi ottennero il vaso da Baldovino di
Gerusalemme durante la presa di Cesarea, alla quale parteciparono nel 1101. Il Catino
allora non era ritenuto una reliquia, questo fino alla fine del XIII secolo, quando
iniziarono ad emergere interpretazioni circa l’originaria funzione dell’oggetto.
Il Catino venne descritto come un bacile di smeraldo nel quale Nostro Signore
aveva mangiato a Pasqua con i suoi discepoli, portato via poi da Gerusalemme. È
significativo come nella descrizione, di fine del XIII secolo, del ritrovamento della
reliquia vi è la sostituzione del luogo di origine, Cesarea, con Gerusalemme, a
sottolineare e a legittimare l’importanza del reperto.
Ora, alla luce dell’attribuzione del suo utilizzo nell’Ultima Cena, il Catino è una
reliquia di grande valore.
Come già detto le reliquie del Battista rivestirono un ruolo importante, ma il
tentativo di utilizzarle per favorire la nascita di una religione civica non ebbe successo
nell’immediato. Per quanto riguarda il Catino, legato alla Passione di Cristo solo a
partire dalla fine del XIII secolo, non ricevette alcun culto.
Ciò che ricevette particolare attenzione furono i frammenti della Vera Croce,
giunti a Genova tra la fine del XII e l’inizio del XIII secolo, con la terza e la quarta
crociata. Il primo frammento della Vera Croce, denominato «Crux sancta hospitalis
87 Il 24 aprile 1806 Napoleone lo portò a Parigi, depositandolo presso il Cabinet des Antiques della
Bibliothèque Imperiale, dove venne esaminato e dichiarato opera d’arte bizantina. Il 14 giugno 1816 venne rotto
in 11 pezzi, uno andato perduto. Verrà restituito alla città di Genova dove tutt’oggi è conservato. 88 v. Musarra, Memorie di Terrasanta cit., pp. 545-546 nota 76.; v. Guglielmo d Tiro, Chronique, cur R.
B. C. Huygens-H. E. Mayer-G. Rösch, Tunhout 1986, I, p. 471.
39
beati Laçari de Betania»89, venne riposto nella cattedrale ed offerto alla devozione dei
fedeli il Venerdì Santo e giunse alla città di Genova tra il 1187 e il 1191, come dono del
marchese Corrado di Monferrato al Comune.
Il secondo frammento giunse nel 1195. Stando alle parole dell’arcivescovo i
Genovesi sarebbero entrati in possesso della Vera Crux Christi, cioè del frammento della
Vera Croce solitamente portato in battaglia dal patriarca di Gerusalemme. Si riteneva
così di possedere non un frammento qualsiasi della Vera Croce, ma la parcella ritenuta
dispersa dopo la disfatta di Hittin.
Nel 1204, un colpo di mano fruttò ai genovesi la Crux Elene, il terzo frammento
della Vera Croce, un altro importante frammento acquisito. Secondo la storia, il
prezioso oggetto, imbarcato su una nave Veneziana, fu depredato da un genovese,
Guglielmo Grasso90.
Le reliquie della Vera Croce furono oggetto di una speciale venerazione da parte
dei Genovesi e in ciò è stato individuato quel particolare legame con la Terrasanta.
Questo culto non fu l’unico ad esser particolarmente sentito, vi furono altre
devozioni, sorte attorno all’ospedale gerosolimitano, che vanno a completare il quadro
di venerazione dell’immaginario ierosolimitano.
I Genovesi volsero la loro attenzione, oltre alla Vera Croce, ad altri elementi della
Passione, come la Corona di Spine, la Veste Purpurea, il Cignolo, i Sandali di Cristo e
ad un frammento della pietra del Santo Sepolcro.
I Genovesi ebbero grande famigliarità con le sponde d’Oltremare tra XII e XIV
secolo, tuttavia non crearono spazi devozionali appositi, sostitutivi del pellegrinaggio
del viaggio oltremarino e capaci di traslare la Gerusalemme celeste in una Nova
Hierusalem.
89 Musarra, Memorie cit., p. 553. 90 Ibid., pp. 556-557.; Guglielmo Grasso, un corsaro genovese vissuto nella seconda metà del XII secolo,
assalì la nave di Saladino che trasportava la Vera Croce. v. Basso Enrico, Grasso, Guglielmo, in Dizionario biografico degli Italiani, vol. 58, Roma 2002 pp. 716-720.
40
La città di Siena
La translatio a Siena ricorda lo spostamento in Francia delle reliquie acquisite da
Filippo IX, re di Francia, a Costantinopoli. Il luogo in questione è l’Ospedale di Santa
Maria della Scala che ricevette un’importante collezione, risalente alla metà del
Trecento, quando Pietro Torrigiani, cittadino veneziano residente a Costantinopoli,
aveva comprato presso la Loggia dei Veneziani un lotto di reliquie imperiali, reliquie
messe in vendita dall’imperatore Giovanni Cantacuzeno. Esse erano state esaminate da
Pier Tommaso vescovo di Patti e Lipari, nunzio apostolico a Costantinopoli, e la loro
veridicità era stata confermata dalla stessa moglie dell’imperatore. Pier Tommaso si
felicitò con Torrigiani per aver tolto le reliquie de manibus scismaticum, esortandolo a
portarle via da Costantinopoli91.
In Italia si era diffusa la voce della disponibilità di una ricca collezione di reliquie,
e ciò aveva suscitato l’interesse dei Senesi.
Nel 1359 vennero acquistate le reliquie e il Comune, che deteneva assieme
all’Ospedale le chiavi del reliquiario, provvide a proprie spese ad una ristrutturazione
dello spazio urbano adiacente all’Ospedale, creando una scenografia laica per una
solenne ostensione che d’allora, ogni 25 marzo, si celebra.92
Questa è la testimonianza dell’attenzione al valore politico che le collezioni della
Passione, provenienti da Costantinopoli, avevano.
La città di Firenze
L’immagine sacra di Firenze, erede di Roma e Gerusalemme, si sviluppa tra XIII
e XV secolo quando Firenze costruisce il proprio mito della discendenza romana
91 Tommaso Braccini, Reliquie della Passione da Costantinopoli alla Toscana, in Come a Gerusalemme
cit., pp. 183-187. 92 Ibid., p 185.
41
descritta da un anonimo, nella Chronica de origine civitatis, risalente al 1231. Inoltre
poco prima della caduta di Costantinopoli era giunta a Firenze una collezione di reliquie
della Passione, lotto acquistato dall’ Arte della Lana93.
Firenze viene investita del ruolo sacro di erede di Roma e Gerusalemme: la città
di Firenze è filia Romae, con il carico di dignità, ereditato della città antica. Nella
cronaca la nuova Firenze carolingia, ricostruita a immagine di Roma dopo la sua
distruzione da parte di Totila, si configura secondo l’impianto delle sette chiese
stazionarie romane. L’elaborazione sacrale non era una specificità fiorentina, la
cittadinanza medievale non solo celebrava le ricorrenze civili ma anche quelle religiose
con processioni eseguite attraverso percorsi ben definiti, volti a valorizzare i luoghi
simbolici. La ricostruzione della memoria storica della città così si coniugava alla
rifondazione rituale del regime politico. Firenze vedeva aumentare innanzi al mondo
cristiano la propria centralità e importanza, la tradizione che la voleva erede di Roma
sacra: l’idea di nuova Gerusalemme della cristianità, si consolida nella città.
Il ciclo di scene raffigurato sulla Porta del Paradiso del Battistero di San Giovanni
di Firenze, mette in rilievo la rappresentazione di Firenze come Gerusalemme celeste,
topos frequente nella pittura fiorentina, probabilmente legato al progetto di esaltazione
della città e comune nei percorsi di affermazione delle città medievali94.
La consacrazione della nuova cattedrale, Santa Maria del Fiore, offre uno
straordinario palco per le pretese universalistiche fiorentine. Lo spostamento del
Concilio da Ferrara a Firenze, dovuto alle pressioni di Cosimo de Medici, fu “un
capolavoro di propaganda” presso i dignitari presenti al Concilio, occidentali e
orientali95.
Il disseppellimento e la traslazione delle reliquie di san Zenobio, primo vescovo
fiorentino, furono momento di estrema importanza nella definizione di Firenze come
città Sacra e di rinnovata sacralità. L’atto della transizione del corpo di San Zenobio in
Santa Maria del Fiore ebbe lo scopo di riconsacrazione della nuova cattedrale, in una
93 Braccini, Reliquie della Passione cit., p. 187 94 Lorenzo Amato, Firenze come nuova Gerusalemme, in Come a Gerusalemme cit., p. 205. 95 Ibid., p. 207.
42
linea ininterrotta con le origini, mitiche, della sacralità cittadina. Gli studiosi rilevano
come nel poema Theotocon di Domenico Corella, un confratello di Santa Maria Novella
(1403 – 1483) si sviluppa un percorso cittadino nel quale tutte le zone della città sono
lodate per le loro chiese e le reliquie. Oltre alla rappresentazione e alla descrizione di
Firenze, il poema si pone l’obiettivo di mettere in risalto l’eredità sacra di Firenze, non
solo la sua derivazione da Roma, ma anche da Costantinopoli, città che si era posta in
alternativa a Roma96.
Il periodo laurenziano ebbe come conseguenza l’attenuazione dei tradizionali
richiami al destino sacro della nuova Gerusalemme, come l’indulgenza plenaria,
concessa nel 1471 in periodo pasquale, a chi si fosse recato in visita al Santo Sepolcro
fiorentino, riproduzione del Santo Sepolcro nella Cappella Rucellai della chiesa di San
Pancrazio.
Le tradizioni si infiammano con la caduta di Piero de’ Medici. La rinnovata
Repubblica volle fondarsi nella predicazione di Girolamo Savonarola cercando la
conferma di una ritrovata sacralità della funzione cittadina, a scapito dei più recenti
aspetti umanistici e “pagani”, che in periodo laurenziano si erano espressi.
L’interesse di Savonarola verso l’equazione fra la missione sacra di Firenze e la
funzionalità delle sue istituzioni pubbliche repubblicane è per una città che si voleva di
nuovo esemplare.
Dopo quasi tre anni di Seconda Repubblica l’oligarchia fiorentina diventa
cortigiana e abbandona ogni ambizione sacrale mentre Roma, che nel periodo dei papi
medicei (1513 – 1534) aveva conosciuto un processo di fiorentinizzazione, con il
paradossale ribaltamento del rapporto mater – filia fino ad allora proprio della tradizione
della Repubblica fiorentina, si apprestava ad ereditare nuovamente, con la fine del
periodo umanistico dei papi medicei, il carisma sacro che la voleva erede universale di
Gerusalemme.
96 Amato, Firenze come nuova Gerusalemme cit., pp. 206-207 / pp.210-211.
43
Nel XVII secolo ancora forte era l’interesse verso l’Oriente: lo conferma il caso
di Cosimo II de Medici il quale, secondo la tradizione, avrebbe avuto aspirazioni a
conquistare fisicamente il santo Sepolcro. In qualche modo accontentò le sue aspirazioni
con i cimeli della Croce d’Oro, manufatto reliquiario realizzato negli anni 1615-18 e
contenente le reliquie della Passione97.
Pisa Nova Hierusalem
Il richiamo a Gerusalemme e ai luoghi santi della Terra Santa furono molto
importanti per lo sviluppo della Repubblica Pisana: la legittimazione che Pisa ottenne
grazie all’impronta di Città Cristiana e del suo ruolo anti mussulmano fu grande e le
portò prestigio per tutto il periodo tra XII e XIII secolo.
Le prime espressioni architettoniche di imitatio si presentano dopo la
partecipazione della città alla Crociata del 1096 e alle imprese anti mussulmane
all’interno del Mediterraneo: esse sono il Santo Sepolcro, anteriore al 1113, la cappella
di Sant’Agata del 1065 e il Battistero di San Giovanni con la piazza del 1152, ispirati
questi ultimi alla spianata del Tempio di Gerusalemme98.
La seconda serie di interventi, più tarda, si colloca nella seconda metà del XIII
secolo, un periodo in cui si era esaurita la spinta iniziale mossa dall’ideale crociato. La
nuova fase, dovuta alla cessazione degli interventi militari in Oriente, è caratterizzata da
una forte sacralità espressa dal culto delle reliquie come quello della Spina, nella Chiesa
della Spina del 1333, o della terra del Golgota.
La chiesa del Santo Sepolcro costituisce la più importante memoria
gerosolimitana di Pisa: la stessa struttura è ad immagine della Cupola della Roccia,
97 Amato, Firenze come nuova Gerusalemme cit. 98 Ilaria Sabbatini, «Pisa Nova Hierusalem». Le «imitationes» gerosolimitane e la sacralizzazione civica,
in Come a Gerusalemme cit., pp. 251-257.
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ritenuta in Europa il tempio del Signore, e conferma il legame della città con
Gerusalemme, già ampiamente espresso dalla forte adesione della cittadinanza alla
prima Crociata99.
Pisa era assolutamente consapevole del suo ruolo mediterraneo e anti
mussulmano100.
Pisa dette i natali a protagonisti di rilievo internazionale come il patriarca di
Gerusalemme Daiberto101, protagonista della prima crociata, al Vescovo Ubaldo, che
portò la terra del Golgota, al pontefice Eugenio III102.
Il vescovo pisano Daiberto aveva preso parte sin dall’inizio alla Crociata, ed era
stato presente a Cleirmont, quando il Papa aveva chiamato la nobiltà francese alla prima
crociata. Egli divenne anche primo patriarca latino di Gerusalemme il 15 luglio 1099,
giorno della presa della città, e le imitationes assumono nuova importanza di fronte al
ruolo di Patriarca di Daiberto e alla fondazione dell’ordine dei Frates Ospitalieri.
Proprio gli Ospitalieri fondarono a Pisa prima del 1112 un ospedale gerosolimitano
vicino al luogo dove poi verrà costruito il Santo Sepolcro.
Pisa raggiunse l’apice del suo ruolo militare nel Mediterraneo con la vittoria delle
Baleari (1113 – 1115), che dette grande risonanza alla crociata pisana.
Nel 1135 si svolse il Concilio di Pisa al quale parteciparono i Cavalieri del
Tempio, l’ordine monastico cavalleresco più famoso della storia che venne presentato
per la prima volta in questa occasione.
99 Sabbatini, «Pisa Nova Hierusalem» cit. 100 La Repubblica Pisana, espandendosi nel Mediterraneo, si trovò a scontrarsi più volte con le navi
saracene. Nel 1005 a Reggio Calabria, nel 1034 a Bona in Africa. La cappella di Sant’Agata è legata anche lei a
vicende militari, come quelle degli Ospitalieri e dei crociati Pisani in Terrasanta, i quali riportarono reliquie e fama dalla traslazione occidentale gerosolimitana in Pisa. Ricorda la vicenda dell’azione militare in Sicilia da parte dei
Pisani, quando verso il 1063 questi catturarono le navi dei Saraceni fuori dal porto di Palermo. Si ricordi, anche, la spedizione assieme ai genovesi nel 1087 contro al–Mah–diyya. Poi negli anni 1113 – 1115 Pisa condusse con i catalani una spedizione a Maiorca.
101 Carratori Luigina, Hamilton Bernard., Daiberto, in Dizionario biografico degli Italiani,vol. 31, Roma 1985, pp. 679-684.
102 Zimmermann Herald Eugenio III, papa, in Dizionario biografico degli Italiani, vol. 43, Roma 1993, pp. 490-496.
45
Dopo che tutti i fautori delle crociate passarono da Pisa, la città poteva
considerarsi Nova Jerusalem, in chiave civile e religiosa103.
All’apice di tutto questo, sotto il pontificato di Eugenio III, Bernardo di
Chiaravalle, che in quegli anni componeva il «De laude nova militiae»104, legittimava il
disegno pisano riconoscendola quale nuova capitale morale e religiosa sulla Terra:
«Assumitur Pisa in locum Romae, et de cunctis urbibus terrae ad apostolicae sedis
culmen eligitur»105.
La città che si era arrogata la stessa autorità morale di Roma, era alla ricerca di
una legittimazione internazionale che le conferisse un ruolo di primissimo piano nel
panorama mediterraneo.
Durante il pontificato di Eugenio III, papa pisano e fautore della seconda crociata,
venne consacrata la Cupola della Roccia in Tempio del Signore e, poco dopo, iniziava
la costruzione del nuovo battistero pisano sul modello dell’Anastasi.
Non solo le imitationes pisane testimoniano la profonda devozione
gerosolimitana ma anche la familiarità con i luoghi fisici della Terra Santa. Pisa,
comunità in pieno sviluppo, ora si proponeva come nuova Roma e come nova
Jerusalem.
Risulta chiaro come la nascita del Comune sia andata di pari passo con le imprese
mediterranee contro i musulmani, facendo di Pisa una potenza tale da potersi emancipare
dai poteri feudali.
Tramite la Prima Crociata il Comune era entrato nell’ azione internazionale con
una credibilità cresciuta, con grande autorevolezza e una patente di legittimità al nuovo
potere acquisito.
103 Sabbatini, «Pisa Nova Hierusalem» cit., pp. 268-269-270. 104 Opera composta tra il 1128, l’anno del Concilio di Troyes, ed il 1136, anno della morte di Ugo di Payns. Nel De Laude Novae Militiae San Bernardo indica e definisce la figura del Cavaliere, allo stesso tempo deve essere monaco e guerriero. 105 Si scelga Pisa al posto di Roma. Roma era anche occupata dall’antipapa Anacleto e Innocenzo II fu
ospite a Pisa dal 1130 al 1137. v. Sabbatini, «Pisa Nova Hierusalem» cit., p. 262 nota 22.
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Pisa perse la spinta iniziale verso Oriente concentrandosi, dopo l’impresa alle
Baleari, prioritariamente verso Occidente, risultando così assente dalla Seconda
Crociata. Dopo la caduta di Gerusalemme nel 1187, l’Arcivescovo di Pisa aveva risposto
alla chiamata del Papa, ponendosi a capo di una nuova spedizione come legato
pontificio.
La partecipazione alla terza crociata non aveva portato la risonanza della prima
spedizione. Dopo la terza crociata il regno di Gerusalemme era ridotto alla piccola
striscia costiera del Regno di Acri, la cui capitale Acri dipendeva militarmente
dall’Occidente. Le altre città marinare si erano orientate verso altri orizzonti, mentre
Pisa si era legata al regno Latino di Gerusalemme, limitato poi alla città di Acri. Con la
caduta di Acri (1291), la città marinara di Pisa accusò un duro colpo, che segnò l’inizio
della sua decadenza e rese vani gli ultimi sforzi pisani di mantenere un prestigio ormai
al tramonto106.
Non vi saranno più imitationes nel tessuto urbano ad evocare una Gerusalemme
ma la nuova fase di devozioni passerà attraverso la “conservazione”. A differenza di
altre città, le reliquie di Pisa come la terra del Golgota e la Spina non erano giunte
durante il periodo della diaspora di Costantinopoli, quando il sacco delle reliquie era
massiccio, ma erano preesistenti. La celebrazione di queste, grazie al loro prestigio, si
rinnovava nei significati, condizionando le forme di culto e orientando la liturgia107.
Il passaggio dalle imitationes gerosolimitane al culto delle reliquie di Terra Santa
coincise per Pisa con l’ascesa, l’apice e il declino dell’epopea militare in Oriente.
106 Sabbatini, «Pisa nova Hierusalem» cit., p. 275. 107 Ibid., pp. 275-276.
47
Borgo San Sepolcro e Gerusalemme
Sansepolcro è l’unica città in Italia ad avere il nome del luogo più sacro per la
cristianità, il Sepolcro di Gerusalemme della Resurrezione. I forestieri che entravano in
città trovavano sulla lapide posta sopra la Chiesa di San Rocco, l’invito a trovare la
figura di Dio risorto tra i luoghi della città, la Cattedrale e il Palazzo Comunale.
Gli studiosi fanno risalire il legame della cittadina di Borgo (nome antico della
odierna Sansepolcro) con Gerusalemme, ad una narrazione mitica e alla presenza di una
abbazia benedettina, poi camaldolese, dedicata al Santo Sepolcro e ai Santi Quattro
Evangelisti.
Gli studi sull’ abbazia benedettina, la cui prima documentazione risale al 1012,
hanno mostrato come l’abbazia, nota per le funzioni di accoglienza di poveri e pellegrini,
aveva ricevuto privilegi nel 1013 sia dal papa Benedetto VIII, sia dall’ Imperatore,
Enrico II108.
Enrico II garantì all’Abate la libertà da ogni giurisdizione vescovile, proibendo
di infeudare il monastero e dichiarando i coloni delle terre abaziali liberi da imposizioni
fiscali, un’importante dichiarazione di immunità.
Nel 1038 il monastero si trova sotto la protezione imperiale, che gli assegnava
tutte le decime e concedeva all’abate anche l’organizzazione di un mercato settimanale
e una fiera annuale. Venivano inoltre esentati i coloni del monastero dai servizi pubblici,
altra importante concessione109.
Secondo gli studiosi l’origine del vicus burgus, Borgo Sansepolcro è da vedersi
come conseguenza dell’insediamento monastico di un preesistente ricovero per
pellegrini, situato in un luogo di passaggio obbligato tra il centro-sud Italia e il nord,
108 Andrea Czortek, Borgo San Sepolcro e Gerusalemme. Dalle reliquie alla toponomastica, in Come a
Gerusalemme cit., pp. 310-315. 109 La concessione di una fiera, le quali consentivano l’afflusso di mercanti, l’arrivo della moneta, crescita
economica e quindi aumento demografico; in combinazione con l’esenzione dai servizi pubblici, Corvée, era un importante incentivo allo sviluppo demografico del luogo.; per un riferimento al mercato e alla fiera in epoca medievale.; v. Alberto Grohmann, Fiere e mercati nell’Europa occidentale, Torino 2011.; v. Bruno Andreolli, Massimo Montanari, L’azienda curtense in Italia. Proprietà della terra e del lavoro contadino nei secoli VIII – XI, Bologna 1995.
48
diventato poi polo di attrazione per le sue reliquie legate al santo Sepolcro di
Gerusalemme.
La prima narrazione scritta relativamente all’origine dell’abbazia risale al 1418,
ad opera di Francesco Largi, notaio e cancelliere comunale, il quale il 21 settembre del
1418 narra il mito delle origini di Sansepolcro. Egli descrive le reliquie come il tesoro
più prezioso della comunità e come siano il primo bene di cui la comunità si deve
occupare. Probabilmente le reliquie a cui egli si riferisce erano quelle generalmente
portate dalla Palestina: scaglie di pietra del Santo Sepolcro, polvere della calce della
grotta del Latte, corde della stessa lunghezza del Sepolcro110.
Il mito della fondazione di Sansepolcro parla di un fenomeno non raro alla fine
del primo millennio, quando non è insolito che alcuni pellegrini concludano la loro
esperienza come eremiti. Tra questi rientrano ad esempio Egidio e Arcano che, nel finire
del X secolo, si fermano a Noceati dove, attorno all’oratorio da loro abitato, sorgerà
un’abbazia: le reliquie dalla Terra Santa faranno nascere la devozione.
Gli studi sulla nascita di Sansepolcro ritengono che la presenza delle reliquie del
Santo Sepolcro di Gerusalemme e la tradizione mitica delle origini del Borgo siano
plausibili, data la frequentazione dei pellegrini del luogo.
Tuttavia gli studiosi non hanno escluso anche il fatto che sia stata proprio la
presenza di alcuni eremiti ad attirare i pellegrini, trasformando la zona prima in una
tappa di pellegrinaggio, poi in un luogo di residenza di una comunità religiosa111.
Nonostante sia dibattuta la sua origine, si ritiene che la presenza delle reliquie
gerosolimitane abbia caratterizzato il processo di sviluppo abitativo che portò prima allo
sviluppo dell’ospedale per i viandanti, poi alla costruzione dell’abbazia la quale
determinò lo sviluppo dell’abitato.
Il legame con la Terrasanta, prima dovuto al titolo abbaziale, poi assunto come
nome del centro urbano, diventa sentimento civico, che si riscoprirà sia in età umanista
che in età moderna sino a far scomparire la parola Borgo dal nome della cittadina.
110 Franco Cardini, La «cultura folklorica». Alcune Considerazioni, ed. F. Cardini, Busto Arsizio 1988. 111 Czortek, Borgo San Sepolcro e Gerusalemme cit.
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Si rimarca così come tutta la città sia Gerusalemme, a prescindere che vi siano
importanti reliquie e luoghi particolarmente sacri.
Non a caso lo studioso Andrea Czortek nel suo saggio sulla storia gerosolimitana di
Borgo Sansepolcro, ha potuto osservare:
«Sansepolcro è figlia di Gerusalemme attraverso la civiltà del
pellegrinaggio»112.
Realtà del territorio pugliese
La Puglia, considerando la sua caratteristica fisica quasi di ponte protratto verso
l’Oriente e dentro il cuore del Mediterraneo, ha vissuto traslazioni della sacralità di
Gerusalemme e della Terra Santa, riproposte in chiave gerosolimitana, attraverso
l’edificazione di monumenti che imitavano o evocavano forme e fattezze d’oltremare.
Un’altra strada per la replicazione della Gerusalemme celeste era infatti per
mezzo di reliquie e di oggetti di importazione dai luoghi santi con lo scopo di
consacrarne di nuovi e importare nuovi culti. In questo modo i luoghi che beneficiavano
delle nuove reliquie divenivano mete di pellegrinaggio e venivano legittimate
politicamente. Un complesso di fattori ed elementi tali che avevano reso queste nuove
Gerusalemme fortemente legittimanti e in taluni casi sostitutive al cammino originario
verso Gerusalemme, godendone ugualmente i vantaggi di salvezza. Il maggior numero
di luoghi gerosolimitani, o evocativi della Terra Santa, risale al periodo successivo alla
prima crociata113.
In Puglia alcuni indizi architettonici rendono riconoscibili delle somiglianze in
alcuni edifici sacri, in particolare la pianta centrale sul modello della rotonda
dell’Anastasi.
112 Czortek, Borgo San Sepolcro e Gerusalemme cit., p. 325. 113 Luigi Michele De Palma, Memorie paleocristiane e medievali del Santo Sepolcro in Puglia, in Come
a Gerusalemme cit., p. 824.
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L’esempio gerosolimitano più antico risale al V secolo ed è il battistero di San
Giusto, nei pressi di Lucera. Gli studi archeologici hanno determinato che in origine era
un edifico romano, poi divenuto complesso paleocristiano, oggetto di una serie di
interventi e ampliamenti alla metà del VI secolo. Nel corso del VII secolo il complesso
subì un degrado progressivo sino al completo abbandono. Attraverso gli scavi è stato
scoperto che il Battistero ha subito modifiche nei secoli contemporanei all’evoluzione
del complesso paleocristiano ma sin dalla sua origine risulta che esso fosse di pianta
circolare con un nucleo centrale coperto da una cupola.
Vi è un altro battistero, con origini antecedenti alle crociate, e con struttura simile,
come quello di San Giusto, a l’Anastasis: si tratta di San Giovanni Rotondo, chiesa
rurale tra VI – VII secolo, che ha denominato la cittadina garganica, poco distante, sorta
sul finire dell’XI secolo.
Un ulteriore esempio pugliese di “rotonda”, risale al VI secolo ed è il battistero
di San Giovanni a Canosa il quale è sviluppato su una pianta che mostra, nonostante
nell’ottocento fosse stato abbandonato e poi trasformato in frantoio, l’originale schema
con struttura coperta da cupola sovrastante l’ambiente centrale114.
Tutti e tre questi battisteri pugliesi hanno questa caratteristica dell’età romana,
ripresa successivamente dai costruttori paleocristiani, soono “rotonde” che svolgevano
la funzione battesimale e imitavano l’exemplum dell’Anastasis contenente il Santo
Sepolcro115.
La città di Brindisi
Nella città pugliese di Brindisi la chiesa di San Giovanni in Sepolcro, di probabile
attribuzione ai Normanni, memori delle conquiste in Terra Santa, non fa sorgere dubbi
114 De Palma, Memorie paleocristiane cit., p. 826. 115 Ibid., p. 827.
51
sull’intenzione dei costruttori di imitare il modello de l’Anastasis per erigere nella città
pugliese un monumento evocativo della Passione di Cristo.
L’edificio faceva parte dei possedimenti dei canonici del Santo Sepolcro e
successivamente passò ai Giovanniti; in tempi recenti è stata ipotizzata una sua origine
come mausoleo di un committente, forse un pellegrino, forse Goffredo conte di
Conversano, normanno, il quale diede inizio alla ricostruzione della città di Brindisi
dopo la conquista normanna. La rotonda del Santo Sepolcro quindi sarebbe testimone di
un’attività di edilizia sacra dovuta alla magnanimità del conte. La scelta di imitare il
prototipo gerosolimitano del Sepolcro per il proprio mausoleo, faceva acquistare un
significato emblematicamente prestigioso. Goffredo, ricostruttore della città,
concessionario di fondi per ricostruzioni degli edifici della città e per le costruzioni di
chiese, tra le quali la cattedrale, preferì tramandare la sua memoria attraverso un simbolo
inconfondibile, il sepulcrum Domini. Dopo il passaggio ai canonici del Santo Sepolcro,
la rotonda di Brindisi perse la sua connotazione e si spense piano piano nella sua
accezione gerosolimitana, divenendo una cappella funeraria dell’Ordine, dunque una
delle tante chiese sul tessuto urbano. Dopo la soppressione venne man mano
abbandonata sino a quando nel 1880 il comune la acquisì e ne fece un museo116.
Ancora oggi, a testimonianza dell’esperienza religiosa e del segno lasciato da
un’epoca nella quale era stata protagonista, il Santo Sepolcro di Brindisi presenta sulle
pareti i segni delle croci lasciate dai pellegrini di passaggio.
La città di Taranto
Un esplicito riferimento al modello gerosolimitano dell’Anastasis è rappresentato
nella città di Taranto, a partire dal XII secolo, dalla tomba di Boemondo di Altavilla,
principe di Antiochia e dal 1086 signore di Taranto117.
116 De Palma, Memorie Paleocristiane e medievali cit., pp. 827-834. 117 Ibid.
52
Esterna e alla destra della cattedrale ha uno stile arabeggiante; vi sono molte
allusioni architettoniche al mausoleo del prototipo gerosolimitano, una emulazione
confermata in particolare dalla copertura a cupola a piramide poligonale dell’edicola.
La copertura discende da quella costruita, dopo la distruzione del Santo Sepolcro nel
1009, da quella dei crociati con la ricostruzione dell’Anastasis e dell’edicola. Altri
elementi, come la disposizione degli ambienti, le otto colonne che sorreggono la cupola,
fanno assomigliare il mausoleo al prototipo gerosolimitano, evidenziando una forte
imitazione architettonica del Santo Sepolcro118.
Viene rievocata partecipazione di Boemondo alla prima crociata, e la
conseguente espressione di fede, pietà, forte devozione e sacrificio al Sepolcro; il
principe crociato voleva in questo modo essere associato alla morte di Cristo, per
condividere con lui il sacrificio e la gloria eterna nella Resurrezione.
La città di Barletta
Nella cittadina di Barletta vi era una chiesa dedicata al Santo Sepolcro alla quale
era annesso un Ospedale dei Pellegrini. La chiesa nel XII secolo faceva parte dei
possedimenti della chiesa patriarcale di Gerusalemme, e dopo la caduta di San Giovanni
d’Acri, la città di Barletta acquisì il privilegio prestigioso di divenire uno dei luoghi
dove vennero accolti molti dei canonici fuggiti dalla Terra Santa.
Apparteneva in origine all’Ordine canonicale del Santo Sepolcro, che,
notevolmente indebolitosi e avendo perso la principale funzione con la perdita di
Gerusalemme, venne soppresso da Innocenzo VIII nel 1489; i suoi possedimenti
passarono all’ordine di San Giovanni di Gerusalemme, che entrò in possesso anche della
chiesa barlettana.
Forti sin dal principio furono dunque i legami di Barletta con la Terra Santa,
fortemente accentuati con la costruzione della Chiesa di Nazareth. Dal 1327 i vescovi
118 De Palma, Memorie Paleocristiane e medievali cit., pp. 834-835.
53
di Nazareth stabilirono la loro sede cattedrale a Barletta, con notevole prestigio, perché
fuggiti dalla sede in Terra Santa, a seguito della perdita da parte della Cristianità del
regno di Gerusalemme.
Il richiamo al Santo Sepolcro era rimarcato dalla chiesa del santo Sepolcro di
Barletta e dalle reliquie giunte da oltre mare, come una stauroteca contenente una
reliquia della Croce e un codice con i riti che si svolgevano a Gerusalemme presso il
Santo Sepolcro. Compare ancora l’imitationes non architettonica e/o attraverso le sole
reliquie ma anche per via di riproposta dei riti sacri della Terra Santa119.
La speciale venerazione della reliquia ha fatto sì che la chiesa del Santo Sepolcro
divenisse un santuario e mantenesse la sua funzione sino ad oggi, generando una identità
cittadina, continuando ad essere uno spazio di pellegrinaggio dove «la coscienza
cittadina continua a compiere i suoi riti»120.
La città di Molfetta
Singolare e unico è il caso del santuario di Santa Maria dei Martiri a Molfetta, un
santuario che condensa nella sua storia molte memorie dei Luoghi Santi, del
pellegrinaggio e delle crociate. Edificato sopra un precedente sito, un santuario
sepolcrale per i “martiri di Cristo” le cui sepolture erano oggetto di venerazione: dunque
una cappella funeraria, riedificata nel 1162, un luogo la cui fama è attestata ancora nei
pellegrinaggi del XV secolo.
Questo santuario era posto lungo gli itinerari dei pellegrini diretti in Terra Santa,
per questo venne edificato a fianco di uno xenodochio e di un collegio con lo scopo di
provvedere ai poveri e ai pellegrini. Posto vicino al porto, il santuario conobbe un
accrescimento continuo della propria importanza per il grande traffico di pellegrini che
119 De Palma, Memorie Paleocristiane e medievali cit., pp. 848-854. 120 Ibid., p. 854.
54
passavano per la cittadina e che dovevano attraversare il luogo per potersi dirigere ai
porti.
Santa Maria dei Martiri nacque come cappella cimiteriale in relazione al culto dei
Santi Pellegrini, la sua storia però ha un rapido cambiamento a causa della
sovrapposizione del culto mariano. Qui si coniugano l’antico e il nuovo con
l’emblematica intitolazione Santa Maria dei Martiri. Sebbene sia attestato
prevalentemente il culto mariano, il ricordo dei martiri pellegrini viene mantenuto. Nel
finire del Quattrocento il culto mariano si unisce con quello gerosolimitano grazie al
mausoleo del Santo Sepolcro con una edicola che imitava l’Anastasis121.
La meta più ambita dai pellegrini, la Terra Santa, era pressoché ormai
irraggiungibile a fine Quattrocento. Lo spazio sacro venne idealmente trasferito a
Molfetta, in Santa Maria dei Martiri, dove, per due giorni all’anno, si poteva ottenere lo
stesso beneficio spirituale che si sarebbe ottenuto presso i santuari d’Oltremare; nel 1485
Innocenzo VIII concesse l’indulgenza plenaria, la seconda domenica di Pasqua e l’8
settembre, natività di Maria e quanti avessero visitato la chiesa.
Nel Cinquecento venne introdotto un altro richiamo alla Terra Santa, il Presepe.
Edicola e presepe, collocati nello spazio sotto al pavimento della chiesa alludevano alla
collocazione del Santo Sepolcro, scavato nella roccia, e alla grotta di Betlemme. Lo
spazio sottostante la chiesa dunque riguardava il culto di Cristo mentre la parte superiore
della chiesa il culto mariano e dei Santi Pellegrini.
Santa Maria dei Martiri evoca la metafora del viaggio verso la Gerusalemme
celeste: i pellegrini sono martiri, perché hanno lasciato tutto per il loro viaggio, ma allo
stesso tempo il santuario è lo specchio della Gerusalemme terrestre, la meta principale
del pellegrinaggio cristiano, traslata attraverso la sacralità tra le mura del santuario
pugliese.
La storia del santuario è raccontata nella Breve Historia, scritta dal vescovo
carmelitano Giovanni Antonio Bovo nel 1622: nel racconto la crociata è la chiave
interpretativa dell’intera storia. La costruzione degli Ospedali, la presenza del cimitero,
i cui defunti pellegrini sono identificati come crociati, percorrono lo spirito e l’idea di
crociata post tridentino. Il martirio e la crociata in accezione tridentina si equivalevano,
121 De Palma, Memorie Paleocristiane e medievali cit., pp. 854-857.
55
perchè la lotta agli infedeli e agli eretici, fino al proprio sacrificio, coincidevano con il
nuovo costume di rinnovamento religioso, fatto di devozione e di fedeltà alla Chiesa122.
Sul territorio pugliese ci sono altri esempi di memoria gerosolimitana, oltre alle
testimonianze architettoniche, come le raffigurazioni e le pitture. Queste avevano lo
scopo di tenere viva agli occhi e alla mente della popolazione e dei pellegrini, in questo
passaggio obbligato per la Terra Santa, la memoria del Santo Sepolcro. Esse sono
testimonianze successive alla prima crociata e hanno una funzione prevalentemente
didattica. Sono numerose quindi le scene, le raffigurazioni scultoree o pittoriche, delle
quali con molta probabilità i committenti erano pellegrini locali, reduci dalla Terra Santa
e volenterosi di voler riproporre e ricordare l’esperienza vissuta per renderla partecipe
agli altri devoti. La scelta di voler imitare i prototipi gerosolimitani appare legata ai
ricordi personali, quindi è condizionata dalle reali possibilità di riprodurre il soggetto
all’interno degli spazi disponibili e, non in secondo luogo, alle disponibilità economiche
dei committenti123.
I molteplici legami religiosi della Puglia con la Terra Santa ebbero modo di
radicarsi tra la popolazione sul piano della devozione, anche tramite santuari la cui
mimesi gerosolimitana, le imitationes, aveva lo scopo di sacralizzare; ancora ricompare
la volontà di una sorta di legittimazione sacra; i suddetti luoghi, davano la possibilità di
usufruire dei benefici spirituali dei prototipi imitati. Queste copie dovevano apparire
immediatamente identificabili agli occhi dei fedeli; a volte era sufficiente solo la
dedicazione del luogo e quindi il richiamo, la presenza di reliquie o riti che
riproponessero i prototipi di Terra Santa, tutto ciò bastava per attirare fedeli e pellegrini
presso le imitationes.
122 De Palma, Memorie Paleocristiane e medievali cit. 123 Ibid., pp. 855-867.
56
Laino Borgo
La Calabria, come la Puglia, è stata sin dall’antichità un ponte verso i luoghi del
mediterraneo orientale. Nel medioevo le rotte marittime utilizzavano abitualmente i
porti calabri e i ritrovamenti di materiali provenienti dalla Terra Santa testimoniano
come la penisola calabrese fosse, non solo uno dei luoghi d’obbligo nei tragitti dei
pellegrini, ma anche una meta.
Significativa testimonianza di riproduzione di luoghi sacri in Calabria è la
Gerusalemme di Laino Borgo, un complesso devozionale situato presso Laino Borgo,
al confine tra Calabria e Basilicata. La storia di questo complesso di edifici comincia a
metà Cinquecento quando Domenico Longo, un cittadino di Laino Borgo, compie un
pellegrinaggio in Terra Santa e, visitando Gerusalemme e Betlemme, probabilmente si
procura progetti e disegni dei principali edifici sacri della Palestina.124 Era pratica dei
frati Francescani, che curavano l’amministrazione del Santo Sepolcro125, produrre
mappe e vedute della Città Santa, riportandovi i numerosi luoghi sacri.
Molteplici possono essere stati i motivi che hanno indotto Domenico Longo a
voler riproporre il “Sacro Monte” di Laino, probabilmente il principale fu quello di voler
offrire Gerusalemme e la Terra Santa ai concittadini e a quanti non potevano affrontare
tale faticoso e pericoloso viaggio. Il “Sacro Monte” infatti permette di svolgere il
percorso devozionale in un solo sito, visitando fisicamente i luoghi e soffermandosi
tappa per tappa a meditare sui significati delle immagini e dei simboli che si incontrano.
Di ritorno dalla Terra Santa, nel 1557 costruì su una piccola altura, all’interno dei
suoi possedimenti, con le prime cinque cappelle dedicate rispettivamente al Santo
Sepolcro, alla Natività a Betlemme, alla Nuca della Croce del Calvario, alla Pietra
dell’Unzione, all’Ascensione di Gesù sul Monte degli Ulivi126.
124 Giuseppe Roma, La tradizione del pellegrinaggio e la riproduzione dei luoghi Santi in Calabria: La
Gerusalemme di Laino Borgo, in Come a Gerusalemme cit., pp. 869-884. 125 Nel 1342, con l’approvazione del papa Clemente VI, l’onore di custodia dei Luoghi Santi fu assegnato
ai Francescani, presenti in Terra Santa dal 1335. Da allora i frati francescani occupano la Cappella dell’Apparizione di Gesù risorto a sua Madre; v. C. Marchegiani, Il Santo Sepolcro da Gerusalemme a Roma, in Come a Gerusalemme cit., p. 746.
126 Giuseppe Roma, La tradizione del pellegrinaggio cit., pp. 874.
57
Dopo la costruzione delle prime piccole cappelle chiese un aiuto economico ai
devoti per poter ampliare e portare a termine l’opera. Complessivamente vennero
realizzate sedici cappelle, distribuite secondo un ordine topografico definito127.
Il santuario è diviso per aree: il Calvario, il Monte degli Ulivi, il Cenacolo, la
Valle di Giosafat e vi è un riferimento anche a Betlemme con la grotta della Natività.
Il pellegrino che visitava il complesso devozionale, contemplando le cappelle
attraverso spazi angusti, giungeva a compiere un percorso che gli faceva sentire anche
fisicamente la fatica del pellegrinaggio a Gerusalemme.
Questo è il vero ritratto del S. Sepolcro
Dentro la città di Gerusalemme con
Portella, e finestrella ed è Grandezza
Lunghezza, ed altezza ed emana
Odore soavissimo128
127 Giuseppe Roma, La tradizione del pellegrinaggio cit., p. 875. 128 Scritta che compare sulla parete interna della cappella del Santo Sepolcro di Laino.
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59
Capitolo III
Verona Minor Hierusalem
Collocazione storico-geografica di Verona
La città di Verona fu un importante punto strategico del nord est della penisola
italiana, perché grazie alla sua posizione aveva la possibilità di giungere, attraverso la
Val d’Adige al Brennero, e quindi al Nord Europa.
Situata nell’incontro tra le Prealpi Venete Occidentali e la Pianura Padana,
attraverso valli minori come la Valpantena, la Valpolicella e la principale direttiva della
Val d’Adige, è l’ideale punto d’incontro con la zona montuosa Trentina. La sua
particolare posizione, non di confine, ma strettamente legata all’importante via della Val
d’Adige e del Brennero, l’ha resa, sino a tempi molto recenti, fondamentale per i
“contatti” della Pianura Padana lombarda e veneta con il Nord tedesco.
A partire dalla sua fondazione, infatti, fu sempre crocevia, assumendo un ruolo di
passaggio, snodo e congiunzione, per diversi aspetti, strategici, commerciali, di
comunicazione e culturali.
Il fiume Adige, navigabile fino agli inizi del 1900, oltre ad essere fondamentale
via di comunicazione con il nord, faceva parte del sistema difensivo naturale della città
assieme alle colline e alle montagne della Lessinia, collocate alle spalle della città di
Verona. La città assunse sin dall’epoca romana il ruolo di crocevia tra la parte orientale
e occidentale del nord della pianura padana e tra sud e nord del gruppo alpino delle
Dolomiti Trentine, un ruolo che si mantenne nei secoli successivi alla caduta del tessuto
di comunicazioni tra città romane, e che nonostante cambiamenti politici e strutturali
della città e del territorio, rivisse una importante stagione tra l’VIII e il IX secolo.
Questa importanza è data sin dai tempi di Teodorico ad inizio VI secolo, quando egli la
designò come una delle capitali del Regno Italico, costruendo sulle colline affacciate
60
sulla città il complesso fortificato del castrum, un luogo che ancora oggi possiede la
denominazione “Re Teodorico”; poi, in una parentesi del regno longobardo, divenne
anche capitale, come pure per un periodo con i carolingi. Dunque Verona mantenne per
tutto l’arco dell’Alto Medioevo, ma anche successivamente in periodo comunale e
signorile, una importante condizione strategica nel nord italiano.
Dopo la frammentazione e la caduta del sistema romano e dell’Impero, vi fu un
periodo di stabilità con Teodorico, il quale regnò assicurando una vera e propria
rinascita, situazione favorevole di cui beneficiò anche Verona.
Prediletta dal sovrano come una delle capitali, venne restaurata con
l’ampliamento delle mura cittadine anche sulla sponda sinistra dell’Adige, inglobando
così la prima cattedrale di Verona, Santo Stefano: sorta poco dopo il ritrovamento a
Gerusalemme delle reliquie del protomartire è di fatto la chiesa più antica di Verona.
Il tracciato della cinta muraria teodoriciana rimase pressoché immutato sino al periodo
comunale. Il periodo è anche testimoniato da un bassorilievo, “La Caccia Infernale”129,
sulla facciata della basilica di San Zeno a Verona, raffigurante la leggenda della morte
di Teodorico.
Dopo il periodo del regno di Teodorico, Verona e tutta la penisola Italiana
subirono le disastrose conseguenze della logorante guerra greco – gotica, che per
diciotto anni dilaniò la penisola, con il relativo indebolimento politico, economico e
militare, creando un fertile terreno per l’occupazione longobarda.
Verona fu capitale temporanea, sempre per la sua importanza strategica al centro
dei territori conquistati, dell’iniziale regno longobardo. Alboino si insedierà nel castrum
“di Teodorico”.
129 La Caccia infernale è la storia della morte di Teodorico, raffigurata in un bassorilievo sulla facciata
della Chiesa del Monastero di San Zeno a Verona. Secondo la leggenda Teodorico mentre a bagno nell’Adige,
vide un maestoso cervo e si mise ad inseguirlo cavalcando un cavallo misterioso che gli era apparso. Il cavallo nero in realtà era un animale demoniaco che portò il cacciatore per tutta la penisola italiana nella folle caccia, sino a giungere a Lipari e Vulcano, dove venne scaraventato nell’Inferno. La pietra sulla facciata di San Zeno ha un
contenuto elevato di zolfo e si narra che le madri veronesi facessero annusare ai bambini indisciplinati l’odore
infernale da quelle pietre. Sul mito di Teodorio ricordo la Leggenda di Teodorico di Giosuè Carducci, in versi nella raccolta Rime Nuove.
61
La dominazione franca
Con la conquista del regno longobardo da parte dei Franchi, per l’Italia e per
Verona cambia il rapporto delle parti tra poteri locali e poteri del sovrano o dei signori.
Nelle conquiste franche le élites locali erano una base del meccanismo di conquista
politica carolingia, la quale basava buona parte della stabilità sul rapporto di
collaborazione e affidamento con i potentati locali. Con essi, e attraverso questi rapporti,
si consolidava la legittimità carolingia. In seguito ad ogni conquista, per lo più vittorie
militari, con l’assoggettamento di nuove genti si avviavano subito strategie di
collaborazione con le aristocrazie locali. Successivamente al periodo iniziale, post
conquista militare, le aristocrazie locali delle città, comprese quelle importanti, le sedes
regiae, come Pavia, Milano e Verona, vennero mantenute dai carolingi. In seguito venne
intrapresa da Carlo Magno una strategia differente: posizionamento di aristocrazie
franche, o già alleate dei franchi nei meccanismi politici.
A Verona, venne elaborata presso lo scriptorium Capitulare vescovile, da parte
dei vescovi tra la fine dell’VIII e l’inizio del IX secolo, una propaganda di legittimazione
del potere e della sovranità carolingia sopra quella longobarda. Con ogni probabilità
nell’ambiente dello scriptorium Capitulare veronese venivano scritti questi documenti
“propagandistici” con il fine di legittimare i nuovi sovrani franchi nel periodo compreso
tra la fine dell’VIII secolo e gli inizi del IX secolo, riprendendo la storia degli ultimi
regni d’Italia, “recensendoli”, coniugando le vestigia passate, con quelle dei sovrani
carolingi; a Verona, ad inizio IX secolo, venne elaborata l’Epitome phillipsiana130.
La città, in continuità con il passato longobardo, mantenne un ruolo di grande
rilievo all’interno della compagine carolingia, divenendo in seguito capitale con Pipino,
figlio di Carlo. Nel Versus de Verona, si disegna Pipino come il più “illustre abitante
della città”, anche se Pipino non risiedette a lungo a Verona.
130 Francesco Veronese, Reliquie in movimento. Traslazioni, agiografie e politica tra Venetia e Alemannia
(VIII-X secolo), Dottorato di ricerca in Scienze storiche, Università degli Studi di Padova (XXIV ciclo) – Université Paris 8 – Vincennes-Sain-Denis Centre de Recherches Historiques : Historie des Pouvoirs, Savoirs et Sociétés, École Doctorale Pratiques et Théories du Sens Doctorat Histoire et Civilisations, pp. 105-113.
62
La città di Verona sarebbe divenuta uno dei centri di diffusione dell’ideale
imperiale carolingio. Il documento de l’Epitome rappresenta, dopo la prova di un
documento della campagna di legittimazione carolingia, l’espressione dell’ideologia
degli ambienti delle autorità imperiali in contatto con le élites locali e in rapporto con i
vescovi, quindi con la società cittadina rappresentata da essi.
Un’ immagine di Verona quale centro importante nell’Italia Carolingia.
Lo scriptorium e la biblioteca, legati al capitolo della cattedrale dimostrano di
aver saputo coniugare la città di Verona ai centri culturali del regno franco e alla cultura
d’Oltralpe. Nell’825, con la riforma del sistema scolastico, promossa da Lotario, la
scuola della cattedrale di Verona diverrà uno dei centri di formazione sul territorio del
regno Italico.
Lo scriptorium Capitulare veronese
In pieno periodo carolino, nella prima metà del IX secolo, lo scriptorium
Capitulare di Verona fu importante luogo di produzione di documenti. Lo scriptorium
era sotto il controllo dei vescovi, i quali, rispetto agli altri rappresentanti, come il conte,
del nuovo potere regio, ebbero un ruolo di maggior rilievo per attuare le strategie con
l’obbiettivo della legittimazione del dominio franco sul Regnum Langobardorum
appena conquistato, agli occhi delle élites locali.
I vescovi veronesi dell’inizio del IX secolo, nello svolgere i loro incarichi di
vescovi d’oltralpe assegnati dalla nuova dinastia regnante carolingia, procedettero
all’esaltazione della città attraverso il Versus de Verona o Ritmo Pipiniano, uno dei più
antichi esempi di laus civitatis131, composto in versi ritmici. Il testo si sviluppa con
l’esaltazione dei monumenti antichi, il decus civitatis, della sua storia come capitale di
regni, della sua storia cristiana e profana, oltre che all’esaltazione del più importante
131 Veronese, Reliquie in movimento cit., p. 114.
63
santo veronese, il vescovo Zeno; un complessivo elogio di tutti quegli elementi che
avevano fatto grande Verona in passato.
Il poema dedica l’inizio132 tessendo le lodi della città di Verona, narrando
l’importanza della città antica con i grandi monumenti classici: le mura Gallieniche, le
48 torri e la particolare magnificenza di 8 di esse133, il laberintum riferendosi
all’anfiteatro de La Rena, le piazze con la particolarità del foro, i templi anche se pagani
hanno il loro rilievo, il castrum e i ponti di pietra sul fiume Adige. La città viene descritta
come si presentava ai tempi del poeta, con tutta la propria magnificenza ereditata dagli
antichi, anche se pagani ignari della legge di Dio e veneratori di idoli.
Dopo un numero di versi134 dedicati alla narrazione della storia di Cristo e della
fede cattolica seguono quelli135 dedicati alla storia degli otto vescovi susseguitisi a
Verona, da Euprepio a Zeno.
I successivi versi136 sono dedicati al vescovo Zeno, ottavo vescovo veronese al
quale è anche dedicata una preghiera finale da parte del poeta. Il Versus racconta che
San Zeno, di origine siriana, battezzò l’intera popolazione di Verona, liberò la figlia
dell’imperatore Gallieno da una possessione, e compì altri atti miracolosi di guarigione,
resurrezione ed esorcismo. Il buon rapporto tra il vescovo veronese, rappresentanza
successiva di tutti i vescovi veronesi, e l’imperatore romano Gallieno sembra
rispecchiare il buon rapporto tra la politica carolingia e l’autorità episcopale di Verona.
Un lungo apparato di versi137 del poema del Versus porta il lettore in un viaggio
attraverso le chiese e le reliquie di santi presenti a Verona, la cui santità proteggeva la
città.
Verso la conclusione138 del Ritmo Pipiniano è presente l’elogio al Re Pipino, una
stagione felice, proprio per la presenza del sovrano. A portare omaggio a Verona
giungono le altre tre capitali della storia d’Italia: Roma, Ravenna e Pavia. Le lodi che
132 Gian Battista Pighi, Versus de Verona, versum de mediolano civitate, Bologna 1960, vv. 4-24. 133 ex quibus octo sunt excelse. 134 Ibid., vv. 25-39. 135 Ibid., vv. 40-45. 136 Ibid., vv. 46-54. 137 Ibid., vv. 55-90. 138 Ibid., vv. 94-96.
64
vengono attribuite a Pipino e il suo ricordo sono probabilmente una imitazione
dell’omaggio fatto a Liutprando dall’autore del Versum de Mediolano civitate:
«l’elogio del sovrano carolingio è in realtà la chiave per comprendere il vero
significato del componimento in lode di Verona, che vuole velatamente esprimere la
speranza – abbastanza largamente diffusa – che Pipino fosse destinato a rinnovare
l’antica indipendenza del regno longobardo, sia pure sotto una dinastia forestiera, e che
volesse scegliere definitivamente come capitale la città in cui per motivi militari aveva
fissato la sua residenza e che gli aveva ora presentata sotto una luce così favorevole»139
Non tutti gli studiosi sono d’accordo sullo scopo e il significato del Versus,
Marchi dice che probabilmente è l’aspetto religioso ad essere centrale nel Versus
assieme all’esaltazione della città140.
Il Versus si conclude141 con una lode a Dio e con la preghiera finale a San Zeno.
Plausibilmente prodotto all’interno del medesimo ambiente dello scriptorium vi è un
altro testo, il Sermo de vita beati Zenonis di Coronatus142. Non si è certi se questo
testo risalga ad epoca longobarda o carolingia; in ogni caso esso si inserisce nella
medesima volontà di legittimare il proprio presente attraverso il riferimento al passato,
riferimento al passato che passa per la celebrazione del vescovo Zeno, figura
particolarmente sentita dalla comunità cittadina già dai primi secoli del medioevo.
L’agiografia di San Zeno conosce, in epoca carolingia, una certa diffusione
anche nei territori d’oltralpe; sappiamo che alcuni vescovi originari di queste zone,
dopo aver ricoperto cariche ecclesiastiche a Verona, fanno propri quei motivi
agiografici del Sermo che essi stessi e la loro cerchia avevano prodotto all’interno
della scola, e li portano con sé nei propri viaggi. Così sappiamo del vescovo Egino,
139 Fasoli, La coscienza civica nelle «Laudes Civitatum», in La coscienza cittadina nei Comuni Italiani
del Duecento, Todi 1972, p. 944. 140 Gian Paolo Marchi, Forma Veronae. L’immagine della città nella letteratura medioevale e umanistica,
in Estratto dal volume Ritratto di Verona. Lineamenti di una storia urbanistica, Verona 1978, p. 6. 141 Pighi, Versus de Verona cit., vv. 97-99 142 Nulla si sa a proposito di questo autore, che solo si firma Coronatus. v. Veronese, Reliquie in
movimento cit. p. 129.
65
che si fece carico di favorire la diffusione del Sermo aldilà delle Alpi. Quali le ragioni
di tale esportazione? Se non sorprende che un vescovo si appropri dell’agiografia di
un altro vescovo, suo predecessore illustre, è invece più interessante comprendere le
ragioni che spinsero a diffondere in pieno territorio dell’impero la storia della vita di
un santo che, pur celebre e conosciuto anche al di fuori di Verona, rimaneva comunque
legato ad un contesto periferico, nello spazio del più vasto impero. Tali ragioni vanno
ricercate proprio nella più volte citata volontà di legittimazione da parte delle élites
carolingie, che attraverso la diffusione ad ampie zone dell’impero di scritti cittadini
fortemente identitari, come appunto l’agiografia del Santo, vogliono rafforzare i
legami tra il potere centrale e le periferie. L’esportazione di tale testo, poi, testimonia
del ruolo di primo piano ricoperto da Verona all’interno dell’Impero carolingio, o
meglio del ruolo che la città svolse nel favorire il processo di affermazione politica
dei carolingi all’interno del territorio che era stato longobardo.
Questo processo venne perseguito in maniera rilevante proprio e soprattutto dai
vescovi, che in virtù della posizione e del ruolo ricoperto, erano in grado di dialogare
con l’una e con l’altra parte. Di origine transalpina al pari delle autorità carolingie
laiche che vennero inviate nei territori di quello che era stato il Regnum
Langobardorum, questi personaggi riuscirono tuttavia ad integrarsi all’interno della
società cittadina, e in tal modo poterono svolgere in maniera forse esclusiva il ruolo
di anelli di congiunzione tra le élites carolingie e le élites locali. Essi, infatti,
sperimentarono quasi una duplice identità, una duplice appartenenza – non è più
possibile vedere oggi in questi personaggi degli stranieri, degli estranei143: essi erano
sì di origine transalpina, ma furono in grado di inserirsi all’interno della comunità
cittadina e di fare proprio, in qualche modo, il senso di appartenenza, il discorso
identitario.
143 Come una parte consistente della storiografia sino a tempi recenti, si tendeva a vedere nella cerchia
vescovile, composta da individui d’origine transalpina, e nella scuola cattedrale, formata invece da soggetti locali,
due entità distinte, contrapposte, spesso in contrasto tra loro. In realtà sappiamo che esistettero anche importanti forme di collaborazione.
66
L’Arcidiacono Pacifico
Figura sopra tutte rilevante dell’epoca carolingia veronese è quella
dell’arcidiacono Pacifico, cui una certa tradizione storiografica144 attribuisce, tra
l’altro, la paternità del Versus de Verona, o Ritmo Pipiniano, di cui si è detto poco
sopra.
La tradizione riguardante Pacifico lo narra arcidiacono della chiesa veronese e
attivo durante la prima metà del IX secolo. Secondo la tradizione sarebbe nato tra gli
anni 776-778 d. C. nella località di Quinzano, sulle colline poco a nord di Verona. Il
nome Pacifico, di chiara origine latina, rappresenta un’eccezione tra i nomi che si
incontrano sui monumenti tra i secoli VIII e X, ed indica una provenienza non barbara
o che poco aveva risentito l’influsso degli idiomi barbarici. Secondo gli studiosi Pacifico
fu un intellettuale longobardo, educato probabilmente presso l’abbazia di Reichenau145.
Nel 798, ancora giovane, fu scelto in qualità di rappresentante delle ragioni della pars
ecclesiae in un contrasto che la oppose alla pars pubblica della città di Verona; nei
decenni successivi egli sarebbe divenuto il difensore del capitolo veronese, difensore
delle consuetudini locali, protagonista degli eventi che avrebbero consolidato il
patrimonio e il prestigio della scola sacerdotum di Verona146.
Pacifico operò nell’ambiente veronese nel periodo immediatamente successivo
alla conquista carolingia del regnum Langobardorum; anni nei quali Verona fu
144 La figura dell’arcidiacono pacifico è stata oggetto di molte controversie tra gli storici; per la critica
alla memoria “pacifichiana” v. Cristina La Rocca, Pacifico di Verona. Il passato carolingio nella costruzione della memoria urbana, Istituto Storico italiano per il Medio Evo, Roma 1995 (Nuovi Studi storici, 31); per la critica ad alcune considerazioni di La Rocca v. Gian Paolo Marchi, Ancora sull’arcidiacono Pacifico di Verona, in Studi medievali e umanistici, VII, Università degli studi di Messina 2009, pp. 355-380.
145 La Rocca, Pacifico di Verona cit., p. 2. 146 Su Pacifico di Verona Gian Paolo Marchi, Ancora su Pacifico di Verona cit., pp. 355-380 note 1-2-3.;
v. Cristina La Rocca, Pacifico di Verona cit.; Le molte vite di Pacifico di Verona, arcidiacono carolingio, «Quaderni storici» 93 (1996), in Erudizioni e fonti. Storiografie della rivendicazione, cur. F. Artifoni-A. Torre, pp. 519-47.; La Rocca, A man for all seasons: Pacificus of Verona and the creation of a local carolingian past, in The uses of the past in the early Middle Age, ed. Y. Hen and M. Innes, Cambridge 2000, pp. 250-79.; La Rocca, Pacifico di Verona, arcidiacono carolingio, e la sua nuova personalità nel XII secolo, in Secoli XI e XII: l’invenione della memoria, Atti del Seminario internazionale, (27-29 aprile 2006), Montepulciano2006, cur. S. Allegra-F. Cenni, pp. 51-61.
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direttamente interessata dalle politiche di assimilazione del regnum Langobardorum,
grazie allo scriptorium Capitulare.
In questo quadro di ridefinizione delle prerogative del nuovo potere centrale, e
del ruolo da protagonista che Verona andava pian piano assumendovi, Pacifico ricoprì
l’importante carica di archidiaconus della scola sacerdotum della città, la cui
fondazione, ad opera del vescovo d’oltralpe Ratoldo, risale all’813. Quella di
arcidiacono era una carica politica di primissimo piano nella gerarchia ecclesiastica.
Grazie alla figura di Pacifico, personaggio di grande doti intellettuali, la figura
dell’arcidiacono divenne l’anello di congiunzione tra le élites locali, longobarde, e le
nuove autorità di origine straniera. Fu una importante figura dello scriptorium della
scuola, figura «il cui intellettualismo è testimoniato perfettamente perfino dal fatto che
il suo nome è conservato trilingue nella seconda parte del suo epitafio»147: Pacificus
Salomon mihi nomen atque Ireneus148.
La principale fonte diretta da cui ricaviamo notizie sulla vita e sulle opere di
Pacifico è l’epitaffio o, per meglio dire, i due epitaffi, posti all’interno del Duomo della
città, sopra la porta della sagrestia alla sinistra dell’altare, che conduce nella corte
Sant’Elena. Di seguito si riporta il testo del primo epitaffio.
Archidiaconus quiescit hic vero Pacificus
Sapientia praeclarus et forma praefulgida,
Nullus talis est inventus nostris in temporibus
Quod nec ullum advenire umquam tale credimus.
Ecclesiarum fundator, renovator optimus,
Zenonis, Proculi, Viti, Petri et Laurentii,
147 Gian Paolo Marchi, Verona Minor Hierusalem. Contributo alla storia dell’urbanistica carolingia, in
La stagione storica dell’arcidiacono Pacifico, Quinzano 2013. 1200 anni della comunità parrocchiale, (27 settembre 2013), Verona 2013, p. 10.
148 Così nel secondo epitaffio egli rende il suo nome in latino, ebraico e greco.
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Dei quoque genitricis, nec non et Georgii.
Quidquid auro vel argento et metallis caeteris,
Quidquid lignis ex diversis et marmore candido
Nullus unquam sic peritus in tantis operibus.
Bis centenos terque senos codicesque fecerat,
Horologium nocturnum nullus ante viderat,
En invenit argumentum et primum fundaverat.
Glosam veteris et novi testamenti posuit,
Horologioque carmen spera e caeli optimam,
Plura alia grafia que prudens inveniet.
Tres et decim vixit lustra, trinos annos amplius
Quadraginta et tres annos fuit Archidiaconus,
Septimo vicesimo aetatis anno caesaris Lotharii.
Mole carnis est solutus, perrexit ad Dominum;
Nono sane kalendarum obiit Decembrium
Nocte sancta quae vocatur a nobis dominica.
Lugent quoque sacerdotes et ministri optimi,
Ejus morte nempe dolet infinitus populus.
Vestros pedes quasi tenens vosque precor cernuus,
O lectores, exorare quaeso pro Pacifico.
La lapide sulla quale si trova l’epitaffio è, secondo comune opinione degli storici,
di poco posteriore alla morte di Pacifico, collocata tra l’844 e l’846.
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Nell’epitaffio si menziona la sua attività letteraria: a lui viene attribuito il merito
di ben duecento e diciotto codici, scritti o trascritti, o acquistati per la biblioteca annessa
alla residenza dei canonici. Particolarmente interessante è l’attribuzione di una glossa
del Vecchio e Nuovo Testamento e di altri scritti, sulla quale gli studiosi non sono stati,
nel corso del tempo, concordi149. Ancora, Pacifico è lodato per l’abilità nel lavorare il
legno, la pietra ed i metalli, nonché per l’invenzione di un orologio notturno150.
Dopo aver detto della morte di Pacifico, l’epitaffio riferisce quanto lutto recò a
Verona la perdita di una così importante figura: piansero i sacerdoti e con essi il popolo
tutto. Chiude mettendo sulle labbra del defunto un invito ed una supplica a tutti i
cittadini, che tutti vogliano pregare per lui.
Oltre che dall’epitaffio, qualche notizia in merito a Pacifico ci viene dal suo
testamento, fatto in comune con la sorella Ansa il giorno 9 settembre dell’anno 844. Da
esso sappiamo che Pacifico aveva moltissimi possedimenti nel contado veronese e anche
al di fuori di esso, dei quali disponeva in favore di opere pie, principalmente nella
fondazione e mantenimento di un ospedale, forse ancora da costruire o piuttosto già
eretto «in vico Quintiano», a Quinzano, località della quale era, come si è detto,
originario. Dopo la morte sua e della sorella, dispone che i beni lasciati per
quell’ospedale siano amministrati dai suoi nipoti, ai quali raccomanda la cura e custodia
di quella chiesa e della sua ufficiatura. Agli stessi impone che nel primo giorno di ogni
mese «per omnes kalendas» diano da mangiare a sessanta poveri; così pure a quaranta
poveri ed a dieci preti nell’anniversario della morte sua ed in quello della morte della
sorella: alla morte dei nipoti sostituisce loro la scuola dei sacerdoti. Altri beni lascia
direttamente agli stessi canonici, e pone l’ospedale e l’oratorio di S. Giovanni ed un
149 Secondo Maffei e Giuliari, di questa Glosa sarebbe una parte la Glosa in Exodum conservata nella
Biblioteca Capitolare della città. Il canonico Dionisi pensò che vi appartenesse un commento in libros Regum, anch’esso conservato nella Capitolare; ancora, il dottor. Mercati scrittore della Vaticana, ritenne che appartenesse
a qualcuna delle glosse pubblicate a Coimbra nell’anno 1827. Infine, secondo Da Prato, le parole dell’epitaffio
significherebbero che Pacifico teneva lezioni orali sulla Sacra Scrittura agli studiosi della «schola sacerdotum». v. Giovanni Battista Pighi, Cenni storici sulla chiesa veronese, vol. 1, pp. 197-205.
150 Miguel de Jesús María y Hualde, Compendio dell'era cristiana, ed anni giuliani in tavole solari dimostrative, colle quali si giustifica il giorno, ed anno certo, della Morte e Passione di nostro Signore Gesù Cristo, ed altri misteri, Roma 1762, pp. 13-24.
70
piccolo tesoro dello stesso sotto la loro tutela «sub defensione scholae sacerdotum vel
(et) praepositorum ejus».
Sotto la lapide contenente l’epitaffio di Pacifico, si incontra un’altra lapide su cui
si legge scolpito un secondo epitaffio in eleganti distici elegiaci, nei quali lo stesso
Pacifico parla al lettore. Già il Maffei dubitava che tale elegia fosse realmente stata
scritta da Pacifico; probabilmente è da attribuire all’autore del primo epitaffio. Di
seguito si riportano tali versi.
Hic rogo pauxillum veniens subsiste viator,
Et mea scrutare pectore dieta tuo.
Quod nunc es, fueram, famosus in orbe viator,
Et quod nunc ego sum, tuque futurus eris.
Delicias mundi pravo sectabar amore,
Nunc cinis et pulvis, vermibus atque cibus.
Ouapropter potius animam curare memento
Quam carnem; quoniam haec manet, illa perit.
Cur tibi plura paras? quam parvo cernis in antro
Me tenet hic requies; sic tua parva fiet.
Ut flores pereunt vento veniente minaci,
Sic tua namque caro, gloria tota perit.
Tu mihi redde vicem, lector, rogo, carminis hujus,
Et dic: da veniam, Christe, tuo famulo.
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Pacificus Salomon mihi nomen atque Ireneus,
Pro quo funde preces mente, legens titulum
Obsecro, nulla manus violet pia iura sepulcri,
Personet angelica donec ab arce tuba.
Qui iaces in tumulo terrae de pulvere surge,
Magnus adest iudex rnilibus innurneris.
Tolle hinc segnitiern, pone fastidia mentis,
Crede mihi, frater, doctior hinc redies.
Anno Dominicae Incarnationis DCCCXLVI, Ind. X. 151
Verona Minor Hierusalem
Il codice Trivulziano 964, conservato presso la Biblioteca Trivulziana di Milano,
risalente al XV secolo, scritto dal veronese Bartolomeo di Simone Bolzanino dal
Muronovo152, e il Codice Capitolare CCVI, conservato presso la Biblioteca Capitolare
di Verona, databile al XVI secolo153, sono due tra le più antiche attestazioni
documentarie dell’esistenza di un’associazione tra la città di Verona e Gerusalemme.
Secondo il codice Trivulziano:
«Reperitur in dicionario condito per virum sublimen Pacificum archidiaconum
et canonicum Veronensem huiusmodi scriptura, quam ponit in lettera V secundum
151 De Jesús María y Hualde, Compendio dell'era cristiana cit., pp. 11-27.; trascrizione dell’epitaffio in
rete su http://www.veja.it/2014/01/31/larcidiacono-pacifico/ (collegamento attivo il 16 febbraio 2017) 152 Scritto quattrocentesco del veronese Bartolomeo di Simon Bonzanino dal Muronovo, una descrizione
del codice compresa di notizie su Bartolomeo di Simone Bonzanino dal Muronovo v. Gian Paolo Marchi, Giacomo Robazzi e Antonio da Legnago, «Italia medioevale e umanistica», XVII, 1974, pp. 499-503.
153 Marchi, Forma Veronae cit., p. 7.
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ordinem alphabeti. Et tenor tallis est: verona nobillis urbs Ytaliae, quam Ebrey a Sem
filio Noe post diluvium conditam ferunt, quam etiam vocant minorem Yerusalem.
Theatrum a teorando inspiciendo, quasi mirabile opus ad inspiciendum»154. «Si rinviene
nel dizionario elaborato per opera di quell’illustre uomo che fu l’arcidiacono e canonico
veronese Pacifico una scrittura di tal fatta posta alla lettera V secondo l’ordine
alfabetico. Ed il seguito è questo: Verona nobile città dell’Italia, che gli Ebrei dicono
essere stata fondata da Sem figlio di Noè dopo il diluvio e che chiamano Gerusalemme
minore. Un anfiteatro... è opera quasi mirabile da osservare da vicino»155.
Simile riferimento troviamo nel codice Capitolare CCVI di Verona:
«Hyreneus Pacificus homo nobilis et litteris eruditus et mansionarius Eclesie
maioris Verone sub lettera V ita loquitur de civitate Verone: urbs Verona in Italia sita
condita fuit a filiis Noe et eam vocaverunt minorem Yerusalem, ut patet etiam in proemio
statutorum comunis veronensis». «Ireneo Pacifico uomo nobile ed erudito nelle lettere
e mansionario della chiesa maggiore di Verona sotto la lettera V così parla della città di
Verona: la città di Verona posta in Italia fu fondata dai figli di Noè e la chiamarono
Gerusalemme minore, come appare anche nel proemio degli statuti del Comune di
Verona»156.
Ma il documento in assoluto più rilevante è il Proemio degli Statuti del Comune
di Verona, scritto dal cancelliere Silvestro Lando, notaio veronese, insigne erudito ed
umanista, nel 1450. Negli atti del Consiglio del Comune risalenti all’anno 1450157, ho
rinvenuto la messa per iscritto dell’approvazione da parte del Consiglio dei Dodici e del
Consiglio dei Cinquanta, dell’inserimento in apertura agli Statuti cittadini del nuovo
154 Codice Trivulziano 964, f. 23 r. v. Marchi, Forma Veronae cit., p. 7.; Marchi, Verona Minor
Hierusalem, in La stagione storica dell’arcidiacono Pacifico cit., p. 10. 155 Per la traduzione v. presente in rete su
http://www.ildesertofiorira.org/index.php?option=com_content&view=section&layout=blog&id=3&Itemid=6&limitstart=36 (collegamento attivo il 10 febbraio 2017)
156 Codice Capitolare CCVI, si tratta di un codice conservato nella biblioteca capitolare di Verona datato intorno al XVI secolo v. in rete su http://www.ildesertofiorira.org/index.php?option=com_content&view=section&layout=blog&id=3&Itemid=6&limitstart=36 (collegamento attivo il 10 febbraio 2017)
157 Archivio di Stato di Verona (ASVr), Atti del Consiglio del Comune di Verona, vol. 60, cc. 9-14.
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proemio. Lo stesso proemio si ritrova poi nelle successive ristampe anastatiche degli
Statuti di media e tarda età moderna; presso l’Archivio di Stato di Verona si conservano
quelle risalenti al 1561, al 1588 ed al 1747158. Si tratta di un documento estremamente
significativo poiché segna la definitiva ricezione da parte delle istituzioni cittadine
dell’esistenza di un comune sentire che accostava Verona a Gerusalemme; e in questo
modo le autorità fanno di questa tradizione uno degli elementi dell’appartenenza e
dell’identità cittadine. Il proemio è piuttosto lungo, e partire dalle origini mitiche della
città ne ripercorre la storia e le vicende; di seguito se ne riporta solo una piccola parte,
quella che tocca il tema di Verona Piccola Gerusalemme:
«In primis namque scriptores Hebraici a Sem Noe filio eam conditam tradunt,
posteaque minorem Ierusalem munitione locorum, agrorum amenitate, fructuum
affluentia, situs fere totius similitudine vocitatam». «Da principio infatti gli scrittori
ebraici tramandano che essa sia stata fondata da Sem figlio di Noè, e che poi sia stata
abitualmente chiamata Gerusalemme minore per la sicurezza dei luoghi, l’amenità dei
campi, l’abbondanza dei frutti prodotti, la somiglianza quasi dell’intera disposizione».
Quest’immagine di Verona piccola Gerusalemme promossa dal cancelliere trovò
la sua piena applicazione in una dimensione che potremmo definire pubblica, ufficiale,
con l’inserimento della formula Verona minor Hierusalem nel nuovo sigillo della città,
deliberata dal Consiglio dei Dodici e dei Cinquanta della città nel 1474. Così nel verbale
di tale importante deliberazione159:
Giovedì 25 dicembre 1473, nel Consiglio dei Dodici e dei Cinquanta, presente il
Magnifico Podestà. Per il nuovo sigillo del Comune. Fu ricordato da me Silvestro Lando
cancelliere come altra volta nel 1442 fu proposto di fare un nuovo sigillo del Comune
in luogo di quello perduto nella confusione del 1438160, il quale sigillo aveva una forma
158 Archivio di Stato di Verona (ASVr), Statuta Magnificae Civitatis Veronae, Verona 1561-1588-1747. 159 Marchi, Forma Veronae cit., p. 10.
160 Non si conosce con precisione l’origine del primo sigillo comunale: il più antico riferimento
documentario certo risale alla fine del XII secolo, e la veduta della città in esso rappresentata, tipica della fase storica di aff ermazione dei Comuni, confermerebbe tale datazione. Su questo sigillo erano scolpite le mura di una città con porte, tre torri e una croce alla sommità di ciascuna torre – immagine nella quale alcuni studiosi hanno visto un riferimento al monte Calvario, a testimonianza di come il riferimento gerosolimitano fosse già presente
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come per rappresentare la città di Verona, secondo l’iscrizione per traverso Verona e
tutto intorno l’iscrizione Est iusti latrix urbs hec et laudis amatrix. E questa forma era
una cupola come di un tempio ad arco con due capitelli a pinnacolo ai lati, e con cinque
porte nella parte inferiore; la qual forma non si riesce in alcun modo a capire che sia
stata effettivamente un qualche monumento della nostra città; e pure quel verso non
solo non è per nulla dignitoso, ma anche risulta fuor di proposito e insulso. Ricordai
anche come dal 1443 in poi non sia mai stata presa una deliberazione in ordine ad un
altro sigillo, se non che fu ed è in uso un piccolo sigillo con l’effigie di San Zeno, il
quale non è conforme al decoro di una città così importante ecc. E fatta questa relazione
e deliberato che fosse fatto in ogni modo un altro sigillo più decoroso e più adatto, si
discusse della forma, e alla fine fu deliberato che rappresenti San Zeno sullo sfondo
della città, con intorno un’iscrizione più adatta e più bella.
Parimenti sabato 26 febbraio 1474, nel consiglio dei Dodici, radunato col consenso del
Podestà, nel quale furono presenti più di due parti, alla presenza anche dei
Provveditori, in merito sull’iscrizione da porre intorno al sigillo fu deliberata la
seguente:
Verona minor Hierusalem di(vo) Zenoni patrono161
Nei codici trivulziano e capitolare sopra citati si fa riferimento ad un scritto
dell’arcidiacono Pacifico nel quale la fondazione della città è attribuita ai figli di Noè,
che le attribuiscono il nome di Gerusalemme Minore. Ecco quindi comparire, nei
documenti quattrocenteschi, il nome di uno dei personaggi più rilevanti dell’epoca
carolingia a Verona: l’arcidiacono Pacifico, di cui poco sopra abbiamo tracciato un
breve profilo biografico. Entrambe le attribuzioni sono importanti, e richiedono due
prima del cambio di sigillo. Su di esso era posta la scritta che si ritrova oggi tra le mani della statua di Madonna Verona in Piazza Erbe, importante simbolo cittadino: «Est iusti latrix urbs hec et laudis amatrix» (Questa città è portatrice del giusto e amante della lode). Sembra che questo sigillo fosse stato poi sostituito da un sigillo più piccolo che riportava l’effige di San Zeno finché nel 1474 non si decise di mutarlo con uno più adeguato alla
grandezza e all’importanza della città: così, attorno all’immagine del santo patrono, fu posta la scritta di cui si è
detto: «Verona minor Hierusalem di(vo) Zenoni patron». v. Antonella Arzone, L’Iconografia rateriana e il sigillo
medievale di Verona: appunti per una ricerca, in L'iconografia rateriana. La più antica veduta di Verona. L'archetipo e l'immagine tramandata, Atti del Seminario di studi, (6 maggio 2011), Verona-Museo di Castelvecchio. Comune di Verona 2011, pp. 183-198.
161 ASVr, Atti del Consiglio del Comune di Verona, vol. 63, c. 60.
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trattazioni a sé stanti: ci occuperemo intanto di recuperare la memoria carolingia del
binomio Verona-Gerusalemme, per trattare solo più avanti la questione della fondazione
mitica della città.
A Pacifico è attribuito, nella prima metà del IX secolo, un significativo
rinnovamento urbanistico della città, basato soprattutto sulla fondazione di numerose
chiese, di cui è detto «fundator renovator optimus»162. Così nel suo celebre epitaffio,
conservato presso il Duomo di Verona, che ci ricorda che, fra le numerose opere ed
iniziative che a lui si possono far risalire, vi è la fondazione o la ricostruzione di ben
sette chiese veronesi. Si tratta di San Zeno – non è chiaro se si tratti dell’attuale basilica
oppure della chiesa di San Zeno in oratorio -, San Procolo, San Vito, San Pietro in
Castello, San Lorenzo, Santa Maria Matricolare (l’attuale duomo), San Giorgio. La
tradizione attribuisce all’opera di Pacifico la fondazione o sistemazione di altre chiese,
fra cui quella di Sant’Elena o di Sant’Alessandro a Quinzano (oggi San Rocco); in ogni
caso non possediamo certezze documentarie che permettano di affermarlo163.
Come ha osservato Migliorini164, la toponomastica dei luoghi sacri veronesi che
richiamano i luoghi della Terra Santa sembra accertabile, per via documentaria ed
archeologica, per lo meno allo stato attuale delle ricerche, solo dopo l’anno Mille, se
non addirittura in età scaligera, dunque tra Due e Trecento. Per quanto concerne il
periodo carolingio, non vi sono certezze che vadano oltre i riferimenti contenuti in testi
quattrocenteschi o ciò che si può ricavare dall’epitaffio dell’arcidiacono Pacifico165. Nel
testo dell’epitaffio Pacifico è assimilato a Beleseel, il biblico creatore del tabernacolo: i
versi 8-11 dell’epitaffio sono la trasposizione in versi ritmici del passo biblico relativo
a questo personaggio166.
162 Marchi, Forma Veronae cit., p. 11. 163 Per la consacrazione della chiesa di Sant’Alessandro nell’ 844, i documenti erano ritenuti un falso del
1140 circa già da Biancolini e dal Da Prato.; v. La Rocca, Pacifico di Verona cit., p. 14. 164 Tommaso Migliorini, Come a Gerusalemme… così a Verona. Considerazioni in margine a una recente
pubblicazione, «MEG» 15, 2015, p. 323. 165 Ibid., p. 323. 166 Marchi, Forma Veronae, p.11.
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Secondo Gian Paolo Marchi, che a buon titolo possiamo considerare come il
maggior esperto della materia, l’assimilazione di Verona a Gerusalemme risalirebbe
molto più addietro del Quattrocento e della sua ufficializzazione negli Statuti Veronesi:
e proprio all’età carolingia, ed all’opera di pianificazione architettonico-urbanistica
dell’arcidiacono Pacifico di cui resta traccia nell’epitaffio167.
La fondazione mitica della città
Nei codici trivulziano e capitolare di cui abbiamo parlato nelle pagine precedenti
troviamo interessanti riferimenti alla fondazione mitica della città, attribuita ai figli di
Noè oppure, più precisamente, a Sem figlio di Noè. Tale racconto della fondazione della
città, assieme all’attribuzione del nome di Verona Minor Hierusalem, viene fatto risalire
direttamente a Pacifico, che ne avrebbe scritto nel controverso dizionario di cui, secondo
l’epitaffio, fu autore.
Nel corso del Medioevo fioriscono i miti fondativi delle città168. Senza
addentrarci in complesse questioni che riguardano il significato di mito e la sua
evoluzione dall’età antica a quella medievale, che esulano del resto dallo scopo di questo
lavoro e per le quali rimando a studi più specifici, è comunque opportuno fare alcune
considerazioni. I miti di fondazione delle città, che compaiono per lo più come
introduzione di componimenti municipali di varia natura, sono nella maggior parte dei
casi rielaborazioni di materiale classico, o riproposizioni di elementi sparsi che
appartengono al mondo antico169, «miti di fondazione e di eroi fondatori come ne aveva
167 A sostegno di tale tesi, Marchi adduce la somiglianza di Verona con altre città dell’Impero carolingio,
soprattutto Aquisgrana, nonché l’interpretazione di una nota manoscritta che attribuirebbe al lemma Verona di un
dizionario “pacifichiano”, citato in più parti ma non pervenuto, proprio il binomio Verona-Gerusalemme. 168 Per la coscienza della città di Verona nel corso dei Secoli v. Pierpaolo Brugnoli, La coscienza della
città e del suo decoro, in Cultura e vita civile a Verona: Uomini e istituzioni dall'epoca carolingia al Risorgimento, cur. P. Brugnoli, Verona 1979, pp. 461-515.
169 Renato Bordone, Uno stato d'animo. Memoria del tempo e comportamenti urbani nel mondo comunale italiano, Firenze 2002, p. 38.
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conosciuti l’Antichità, che il Medioevo, per questo aspetto, riproponeva»170. A partire
proprio dall’epoca carolingia, tuttavia, tali motivi vengono spesso sviluppati e rivisti,
cristianizzati potremmo dire, ricorrendo ad elementi biblici: è particolarmente frequente,
nella letteratura medievale, il motivo della fondazione da parte di Noè e della sua
progenie171.
Nel caso specifico della città di Verona, si è già parlato di come la scrittura di un
testo quale il Versus risponda ad esigenze molteplici, tra cui quella di ottenere, da parte
della nuova classe dirigente carolingia, legittimazione da parte delle élites locali di
ascendenza longobarda. Tale ricerca di legittimazione passa attraverso la celebrazione
del passato mitico della città, nonché del suo vescovo Zeno. Qui la fondazione pagana
della città viene in qualche modo riscattata, come scrive Marchi, mediante una grande
attenzione alla successiva storia sacra della città: «Ecco come fu bene fondata da uomini
pagani, che ignoravano la legge del nostro Dio, e veneravano i vecchi idoli, di legno e
di pietra»172. Ma poi venne l’era cristiana, un’era nuova anche per Verona, un’era che
raggiunge qui il suo massimo splendore, come abbiamo visto, proprio con Pipino e
durante l’età carolingia173.
Questo processo di ricerca e di celebrazione delle fondazioni raggiunse il periodo
più splendido durante l’epoca carolingia, quando l’Europa, che dopo lungo tempo riuscì
a conseguire un’unità politica e spirituale, perlomeno sotto molti aspetti, volle
legittimarsi e celebrarsi attraverso un recupero della storia classica e della civiltà
romana. Così le città dell’impero producono testi che ne nobilitano l’origine, ne
celebrano e giustificano i programmi e gli obiettivi politici.
170 Le Goff, Il cielo sceso in Terra cit., Bari 2010, p. 133. 171 Bordone, Uno stato d'animo cit., p. 38. 172 Marchi, Forma Veronae cit., p. 6. 173 Per quanto riguarda la coscienza cittadina in periodo carolingio v. Pier Paolo Brugnoli, La coscienza
della città e del suo decoro, in Cultura e vita civile a Verona: Uomini e istituzioni dall'epoca carolingia al Risorgimento, cur. P. Brugnoli, Verona 1979, pp. 461-515.
78
Una versione del mito della fondazione della città si ritrova in un racconto di Pier
Luigi Zagata174, Cronica della città di Verona, poi trascritta dal Biancolini, erudita
veronese del XVIII secolo. Qui la riporto:
«Hora è da sapere le cose meravigliose che sono state inanti, che Christo
vegnisse, secondo che scrive Sicardo Vescovo di Cremona, che trova per croniche
antiche, che quando fu destrutta Troia, e che se ne partì molta zente, zoè homeni e
donne, come fò principalmente Eneas, secondo è scritto qui inanzi, et Antetor, e molti
altri, i quali foro in el trattato della destruttion de Troia per patti fatti co’Greci per aver
la città, i fò d’accordo d’esser salve le persone, e le donne, e quelle robe che i podea
portar con loro onde i cargò quella nave, che i posse, e mettesse in mare per vegnire in
Italia, e venne, como piacete a Dio. Scrive questo Sicardo, che fra le altre donne el
venne una donna chiamata Madonna Verona, et ella vedendo el paese esser bello, et
aconzo, per ella si è dificato il Laberinto, che si chiama la Rena. Sì che per quello
edificio andò poi crescendo la città di Verona. Et questo afferma Orosio e
Giustino…»175
Si è visto dunque come nell’era cristiana lo schema di fondazione mitica, mutuato
dall’età classica, si mantenga sostanzialmente il medesimo: in esso però si inseriscono
elementi cristiani, nomi di personaggi provenienti da Vecchio e Nuovo Testamento, ma
anche quello d’un personaggio d’invenzione come Madonna Verona176. Nella versione
174 Sulla Cronica della città di Verona di Luigi Zagata v. Petrucci Armando, Biancolini, Giambattista, in
Dizionario Biografico Italiani, vol. 10, Roma 1968, pp. 243-244. Fra il 1745 e il 1749 il B. pubblicò la sua prima opera d'erudizione: l'edizione critica, commentata e farcita d'ogni genere d'annotazioni e di aggiunte, della importante cronaca volgare veronese di Pier Zagata (Cronica della città di Verona descritta da Pier Zagata ampliata e supplita,annessovi un Trattato della moneta antica veronese, I, Verona 1745; II, ibid. 1747; II, 2,Supplementi, ibid. 1749). Il testo edito nel primo volume era basato su un solo codice, del quale però veniva rispettata l'ortografia: "per nulla toglierle della pregevole e veneranda antichità" (p. X).
175 v. Marchi, Verona Minor Hierusalem, in La stagione storica dell’arcidiacono Pacifico cit., p. 9 nota 1.; v. Cronaca della citta di Verona descritta da Pier Luigi Zagata, ampliata e supplita da Gian Battista Biancolini, ecc., Verona 1745, p. 1.
176 Quella di Madonna Verona è una figura ben nota ai veronesi: è la figura che troneggia al centro della fontana situata in Piazza Erbe, l’antico foro romano, cuore pulsante della città. Il monumento venne fatto costruire
da Cansignorio della Scala durante l'anno 1368, recuperando una vasca termale in marmo rosso veronese di epoca romana e apponendovi il corpo di una statua altrettanto antica, cui vennero aggiunte le parti mancanti, vale a dire il capo e le braccia. Si trattò di un'edificazione volta a rendere omaggio alla città e alla sua lunga storia, in occasione probabilmente del ripristino dell'acquedotto che sin dal tempo dei Romani riforniva la città con l'acqua proveniente dalle colline. In linea con la volontà di celebrare la tradizione storica dell'urbe, vennero fatti scolpire tutt'intorno allo stelo che s'innalza dalla vasca e funge da piedistallo per la statua, le effigi dei re del passato di Verona. Tra
79
del mito di fondazione dello Zagata, che il poeta veronese deriva in parte dalla nota
cronaca di Sicardo177, elementi pagani e cristiani trovano una felice combinazione.
questi rientra anche il mitico re Vero, da cui secondo un’altra tradizione fondativa deriverebbe il nome stesso della città, Verona sua regina. Si possono poi notare i volti di Alboino re dei Longobardi e Berengario duca del Friuli che proprio a Verona stabilì la capitale del suo regno. Tra le mani, la figura femminile reca un cartiglio in rame sul quale è tuttora possibile leggere un’incisione: essa riporta l'antico motto della Verona comunale "Est iusti latrix
urbs haec et laudis amatrix", ossia "Questa città è dispensatrice di giustizia e amante della lode ". 177 Brocchieri Emilio, Sicardo di Cremona e la sua opera letteraria, (Annali della biblioteca civica di
Cremona, volume XI), Cremona, Ed. Athenaeum cremonense, 1958.
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81
Capitolo IV
Riferimenti gerosolimitani a Verona
Sono molteplici i riferimenti gerosolimitani presenti nella geografia sacra
veronese, dalla somiglianza urbanistica, ai toponimi, sino alle molte reliquie conservate
nelle chiese della città. Mi sembra utile, per procedere con ordine, partire dall’analisi di
quelle sette chiese che l’epitaffio pacifichiano, di cui si è tanto parlato nel capitolo
precedente, individua come fondate o rinnovate dall’arcivescovo Pacifico. In seguito,
sulla scia di Marchi, procederò ad un confronto tra l’antica forma urbis di Gerusalemme
e quella di Verona. Infine, per concludere questa ricognizione di imitationes
gerosolimitane, mi è parso utile riportare tutti quei casi di reliquie o culti isolati che,
sparsi per la città, presentano una qualche connessione con Gerusalemme178.
Le Sette Chiese di Pacifico
Si riporta quella parte dell’epitaffio pacifichiamo in cui si elencano le chiese di
cui l’arcidiacono fu fondatore o rinnovatore:
Ecclesiarum fundator, renovator optimus,
Zenonis, Proculi, Viti, Petri et Laurentii,
Dei quoque genitricis, nec non et Georgii.
178 Per i riferimenti sull’ubicazione dei luoghi menzionati a Verona si veda mappa Verona. Ubicazione
dei luoghi menzionati, p. 110.
82
San Zeno
Tra le chiese fondate o rinnovate da Pacifico compare il nome di San Zeno; a tal
proposito non si è certi se l’epitafio faccia riferimento all’abbazia di San Zeno oppure
alla chiesa di San Zeno in Oratorio, una piccola chiesa ritenuta luogo di preghiera e di
pesca del Santo179. Una leggenda narra che nel 589, durante un’inondazione dell’Adige,
la cosiddetta “rotta della Cucca”, le acque del fiume si bloccarono davanti alle porte
della chiesa, ed i fedeli che vi si erano rifugiati furono, così, salvi; il fatto è riportato
nella Historia Langobardorum180 di Paolo Diacono, e non è chiaro se esso si riferisca
alla chiesa di San Zeno Maggiore oppure a San Zeno in Oratorio.
San Zeno Maggiore
Si ritiene che, nel luogo dove sorge la chiesa di San Zeno Maggiore, si siano
susseguite nel corso del tempo ben cinque chiese, tutte edificate sopra la tomba di San
Zeno181. Durante il regno di Re Pipino e sotto la diocesi di Ratoldo, venne costruita la
chiesa della quale restano oggi le parti della cripta; potrebbe essere stata questa la chiesa
alla quale si fa riferimento nell’epitaffio di Pacifico, dal momento che vi è convergenza
cronologica. La costruzione dell’attuale chiesa ebbe inizio nel X secolo, dopo che la
precedente fu distrutta agli inizi dello stesso secolo dagli Ungari, e si protrasse a lungo.
Nel 921, il 21 maggio, il corpo di San Zeno fu riposto nella cripta. L’edificio divenne
abbazia benedettina della quale oggi rimane, oltre al bel chiostro, anche la grande torre
179 Giovanni Battista Biadego, Del ponte nuovo sull' Adige a Verona in un solo arco di m. 90 e di altri
ponti in ferro in arco ed a travi rette fondati su pali a vite ..., ed. H.F. Münster, Verona 1885, p. 351. 180Verso la fine del regno di Autari, ottobre 589, avvenne la cosiddetta Rotta della Cucca, conosciuta
anche come “diluvio di Paolo Diacono” proprio perché narrata nel Diluvium nella Historia Langobardorum, III, 23.; v. Adelino Perini, Villa Bartolomea. Ambiente-Territorio-Vicende storiche, cur. GRUPPO CULTURALE della PRO LOCO di Villa Bartolomea, Legnago (VR) 1994, pp. 89-100: 91-92-93.; v. C. Balista, Il territorio cambia idrografia: la rotta della Cucca, in Archeologia e idrografia del veronese a cent’anni dalla deviazione del
fiume Guà (1904-2004), cur. G. Leonardi-S. Rossi, Verona.; v. Federica Gonzato, Giovanna Falezza, Alberto Manicardi, Pressana, via Padovana. Due nuovi insediamenti rurali di epoca romana, «Notizie di Archeologia del Veneto», 3 (2014), pp. 142-151.
181 Gianfranco Benini, Le chiese di Verona. Guida storico artistica, Verona 1988, p. 214
83
merlata ad essa adiacente, sede nel corso dei secoli di alcuni vescovi, nonché destinata
all’alloggiamento di tutti gli imperatori che sostavano a Verona, come riportato da
Maffei182.
San Zeno in Oratorio
L’attuale chiesa romanica di San Zeno in Oratorio, conosciuta anche come San
Zenetto, risale al XIII secolo e subì modifiche nel XIV secolo. L’edificio romanico sorge
su quello che si ritiene essere stato un mausoleo, poi riedificato in edificio di culto
cristiano tra il VII e l’VIII secolo. Una leggenda narra che Zeno, vescovo di Verona
negli anni 356 – 380, lì avesse fondato un proprio oratorio e che vi si recasse per pregare
e pescare sull’Adige, che da lì scorre ad una decina di metri; all’interno della chiesa è
conservata la pietra sulla quale, secondo la tradizione, si dovette sedere San Zeno per
pescare183. Basandosi sulla leggenda sopracitata riguardante l’inondazione dell’Adige,
alcuni studiosi hanno ritenuto in passato ch’essa facesse riferimento proprio alla
chiesetta di San Zeno in Oratorio, in virtù soprattutto della posizione in prossimità del
fiume; altri studiosi invece, tra i quali l’autorevole Maffei, ritennero che la leggenda
facesse riferimento ad una delle precedenti chiese sul luogo di San Zeno Maggiore184.
L’attuale chiesa romanica di San Zeno in Oratorio, come già accennato, risale a
tempi successivi, e il radicale cambio di aspetto, come molti altri santuari veronesi, è
dovuto al terremoto del 1117, dopo il quale risultano riedificate molte altre chiese. Nei
secoli successivi venne modificata sino a quando, dopo l’invasione napoleonica, venne
chiusa. La chiesa fu danneggiata durante la seconda guerra mondiale e, abbandonata a
sé stessa dalla noncuranza delle amministrazioni, subì negli anni Cinquanta un crollo
della navata orientale, il quale causò l’irrimediabile perdita di pregevoli affreschi
medievali.
182 Scipione Maffei, La Verona illustrata: ridotta in compendio, principalmente per uso de' forestieri, con
varie aggiunte, vol. 2, Verona 1771, p 48. 183 Benini, Le chiese di Verona cit., pp. 220-21. 184 Biadego, Del ponte nuovo sull' Adige a Verona cit., p. 351.
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San Procolo
Proprio accanto alla grande Basilica del monastero di San Zeno a Verona sorge
la chiesa ubicata in quello che fu “il più antico documento del cristianesimo
veronese”185. Mi riferisco alla chiesa di San Procolo, un luogo le cui origini sono
antichissime. Il primitivo luogo cristiano veronese infatti affonda le sue origini nel III
secolo d.C., quando i primi vescovi di Verona guidavano la chiesa veronese da qui
offrendo rifugio ai primi cristiani, distanti dalla città nei cimiteri, pagani e cristiani,
come era costume romano, lungo la via Postumia a sud-ovest di Verona romana. Una
Chiesa perseguitata, con un forte attaccamento ai propri martiri, e ai propri cristiani,
sepolti anche in quel luogo. San Procolo infatti prese nome da uno dei proto-vescovi
veronesi, San Procolo (260-301), quarto vescovo. Il momento della sua edificazione è
incerto, si parla del III186 o V secolo, gli scavi archeologici, i primi risalgono agli anni
Venti, degli anni Ottanta del Novecento, hanno rinvenuto, oltre che le tombe pagane e
dei martiri cristiani del III secolo, le fondamenta di quella che era la chiesa
paleocristiana187. La storia dell’edificio prosegue nei secoli: nella prima metà del IX
secolo viene attribuito un suo rifacimento ad opera dell’arcidiacono Pacifico, ricordato
nel celebre epitafio; ma ne reca notizia anche il famoso Versus de Verona, nel quale
viene indicato come luogo di sepoltura del vescovo Santo Zeno, patrono della città,
ricordato per aver battezzato l’intera Verona:
«qui Veronam predicando deduxit ad baptismo»188
La chiesa venne interamente ricostruita dopo il terremoto del 1117 e nei secoli
successivi, nel Duecento e nel Trecento, venne ripetutamente restaurata e ampliata, con
l’aggiunta di parti strutturali e affreschi.
185 Benini, Le chiese di Verona cit., p. 179. 186 v. La chiesa di San Procolo in Verona, cur. Pier Paolo Brugnoli, Verona 1988. 187 In rete su
http://www.archeoveneto.it/portale/?page_id=131&recid=64 (collegamento attivo il 20 gennaio 2017).
188 Maureen C. Miller, Chiesa e Società in Verona Medievale, cur. Paolo Golinelli, Verona 1998 (Biblioteca dei Quaderni di Storia Religiosa, 2), p. 202 nota 4.
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Nel 1492 vennero rinvenute le reliquie dei santi vescovi: Euprepio primo vescovo
di Verona, Procolo quarto vescovo, Cricino settimo vescovo e Agapio nono vescovo; il
fatto fece sì che si riscoprisse il culto di San Procolo, precursore della comunità cristiana
della città, e della sua chiesa, così antica. Durante il periodo napoleonico la chiesa
attraversò una lunga crisi: perse l’uso parrocchiale, poi fu chiusa e sconsacrata, con il
conseguente trasferimento delle reliquie nella adiacente Basilica di San Zeno. Ridotta a
magazzino militare, a deposito, a cinematografo ai primi del ‘900, San Procolo ricevette
i primi restauri negli anni Venti, poi interrottisi e ripresi negli anni Ottanta189.
San Pietro in Castello
La chiesa dedicata a San Pietro sorgeva sulla cima del colle che ancora oggi porta
il nome del Santo, Colle San Pietro. Il colle sin dall’antichità era vissuto e abitato: la sua
storia fu un susseguirsi di fortificazioni da Teodorico passando per i Longobardi di
Alboino sino a giungere ai carolingi con Pipino. Berengario re d’Italia vi costruì un
castello tra la fine del IX secolo e l’inizio del X. Nell’809 l’arcidiacono Pacifico è
menzionato nella lista dei testimoni all’atto con il quale il vescovo Ratoldo e il conte
Hucpaldo donarono i beni del defunto conte Hadumar alla chiesa di San Pietro de castro.
Pochi anni dopo Pacifico ricompare tra i testimoni fautori del consolidamento del
patrimonio della scola di Verona, e ancora nell’811 il Vescovo e Pacifico compaiono in
una carta dove viene sottoposta alla Chiesa di San Pietro in castro, la cappella di «sancti
Bartolomei apostoli in eodem monte eiusdem castri scitam» con il fine di far divenire la
cappella e i suoi redditi patrimonio del capitolo. Il vescovo afferma nelle carte di avere
agito per consiglio divino e «dilecti archidiaconi nostri Pacifici auggerente
benevolencia»190. Prima del 1046 la chiesa risulta essere stata sottoposta alla cattedra
vescovile e successivamente divenuta pieve, ma non risulta potesse svolgere la funzione
battesimale. Presso la chiesa Galeazzo Visconti fece costruire il complesso fortificato di
189 Benini, Le chiese di Verona cit., p. 179-180.
190 La Rocca, Pacifico di Verona cit., p. 4.; Per i documenti menzionati v. Ibid., p. 4 note 6-7.
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Castel San Pietro in un momento di declino della chiesa, incominciato con il XIII secolo
e l’impoverimento della chiesa stessa191. Nel 1801 il complesso fortificato di San Pietro
venne demolito dai francesi di Napoleone e successivamente, nel 1840, quando la città
di Verona fu divisa in due zone di influenza tra francesi, sulla riva destra dell’Adige, e
Austriaci, sulla riva sinistra, questi ultimi demolirono i resti del Castel San Pietro e
anche quello che rimaneva della chiesa, costruendovi poi una caserma. Di quel passato
non rimane oggi più traccia, solo qualche rovina della cinta muraria e frammenti di torre
del castello Trecentesco.
San Lorenzo
La chiesa di San Lorenzo sorge nel centro cittadino lungo la via Postumia,
laddove tra IV e il V secolo venne edificata; fu dedicata a San Lorenzo, dal momento
che conserva all’interno le reliquie del Santo. La chiesa è menzionata dal Versus de
Verona e compare, come abbiamo visto, tra le chiese rinnovate da Pacifico. Le reliquie
di San Lorenzo in essa conservate, assieme a quelle di altri santi custodi, fanno parte di
quella cerchia santa che proteggeva Verona dai nemici, secondo le parole del Versus192.
La chiesa originale venne fortemente danneggiata tra il X e l’XI secolo, nel
periodo delle invasioni Ungare e a causa del terremoto del 1117. Della chiesa antica
rimangono alcuni resti come i frammenti del pluteo di epoca longobarda, dei capitelli,
le colonne e le lapidi che si trovano nel cortile della chiesa attuale. L’attuale San Lorenzo
risale al XII secolo e venne ricostruita in diverse fasi; nella ricostruzione furono aggiunte
le torri scalari, magnifiche torri di ispirazione normanna, raro esempio nell’Italia
settentrionale. L’edificio, con i matronei, il transetto in due campate, le cinque absidi e
le importanti torri scalari rappresenta un caso pressoché unico di architettura di
191 Per quanto riguarda i fondi della chiesa questo sono contenuti nel Fondo Veneto I nell’Archivio segreto
Vaticano, documentazione citata nel Codice digitale degli archivi veronesi (VIII-XII secolo), cur. Andrea Brugnoli, v. in rete su http://cdavr.dtesis.univr.it/index.php/san-pietro-in-castello-fondo-veneto-i#_ftn1 (collegamento attivo il 20 gennaio 2017)
192 Pighi, Versus de Verona cit., vv. 55-90.
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ispirazione cluniacense e di architettura “carolingia”. Nel XII secolo vennero riposte le
reliquie di Sant’Ippolito e sul finire del XII secolo, quando il Pontefice Lucio III si
rifugiò a Verona a causa sordini romani, egli concesse alla Chiesa di San Lorenzo gli
stessi privilegi dell’omonima chiesa romana, la Basilica di San Lorenzo193.
Santa Maria Assunta, Matricolare
La chiesa cattedrale di Verona, come molti altri luoghi sacri, sorge sopra
precedenti chiese. La prima chiesa risale alla prima metà del IV secolo, e tale primitivo
edificio è ancora oggi parzialmente visibile; successivamente, nel V secolo, venne
edificata una basilica. Verso la fine dell’VIII secolo tale basilica venne dismessa e di
fronte ad essa venne eretta la nuova chiesa che, in quanto chiesa madre, quindi
matricularis ecclesia, venne intitolata a Santa Maria Matricolare, per opera di Annone
o di Eginone, a cavallo del 774194. La sede episcopale passò dalla Cattedrale di Santo
Stefano protomartire extra moenia alla nuova chiesa Madre, matricularis, intra
moenia195. In epoca carolingia, al tempo dell’arcidiaconato di Pacifico, la sede
episcopale venne rinnovata: essa fu restaurata per volere del vescovo Ratoldo (803-840)
e di Pacifico, e contemporaneamente furono rinnovati gli spazi del capitolo, come la
schola sacerdotum e lo xnodochium196. Come si è visto, nell’epitaffio di Pacifico la
cattedrale risulta tra le chiese che furono edificate e o rinnovate dall’arcidiacono; è lecito
annoverarla, vista la cronologia, tra le chiese che Pacifico contribuì a ricostruire.
Il devastante terremoto del 1117 colpì anche questa chiesa, la quale venne
fortemente danneggiata, tanto che si rese necessaria la quasi completa ricostruzione, che
si svolse tra il 1120 e il 1187. Nell’anno in cui terminarono i lavori di ricostruzione, la
cattedrale ricevette consacrazione solenne da parte del pontefice Urbano III. Santa Maria
193 Benini, Le chiese di Verona cit., p. 139.; Per riferimenti alla chiesa di San Lorenzo v.
www.beweb.chiesacattolica.it 194 Carlo Guido Mor, Dalla caduta dell’impero al Comune, in Verona e il suo territorio, II, Verona 1964,
p. 229. 195 Benini, Le chiese di Verona cit., p. 61. 196 Per riferimenti alla chiesa Cattedrale di Verona v. www.beweb.chiesacattolica.it .
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Matricolare fu ricostruita in pieno stile romanico: di questa ricostruzione oggi restano,
dopo i grossi rifacimenti del XV secolo, tracce visibili, come le caratteristiche mura
laterali in cotto, tufo e marmo veronese, la parte inferiore della facciata con il bel protiro,
il protiro laterale e l’abside197.
L’aspetto odierno è frutto delle modifiche del XV secolo, realizzate basandosi su
progetti anteriori e in stile gotico. Il campanile non venne mai completato, infatti il
progetto originale di Michele Sanmicheli198, impostato sul campanile romanico, non
venne compiuto anche se, sul medesimo progetto, negli anni 1913-1930 venne innalzato
alla quota attuale199.
San Giorgio Martire, in Braida
San Giorgio in Braida sorge nel luogo dove, nell’XI secolo, venne fondato un
monastero benedettino, e dove già esisteva una basilica paleocristiana databile al V
secolo. Qui, all’inizio del IX secolo, durante il vescovato di Ratoldo e l’arcidiaconato di
Pacifico, fu edificata una nuova chiesa, che sarebbe divenuta sede della scuola
cattedrale. In quest’occasione un contrasto oppose Ratoldo e Pacifico: il primo, infatti,
affidò la consacrazione di San Giorgio al patriarca di Aquileia, ponendo la chiesa sotto
la sua diretta giurisdizione200. A ciò si oppose Pacifico, rivendicando una sorta di
proprietà sulla chiesa, dal momento che questa sorgeva su un terreno di sua proprietà.
La costruzione di una chiesa su di un terreno privato, libero dunque da ogni vincolo
giuridico e che rendeva l’edificio soggetto alla volontà del detentore, costituisce di per
sé un caso eccezionale, del tutto in contrasto con la giurisdizione dei luoghi sacri201. Pare
197 Benini, Le chiese di Verona cit., p. 61. 198 Michele Sanmicheli, architetto veronese di fine Quattrocento, la data di nascita è incerta (1484/88-
1559) fu architetto militare della Serenissima. Le sue opere di fortificazione si possono trovare in numerosi luoghi della Repubblica di Venezia compreso l’arsenale di Venezia.; v. Bruno Maria Apollonj, Sanmichèli, Michele, in Enciclopedia Italiana, Roma 1936, in rete su www.treccani.it/enciclopedia .
199 Benini, Le chiese di Verona cit., p. 61. 200 C. Fiorio Tedone-S. Lusuardi Siena-P. Piva, ll complesso paleocristiano e altomedievale, in La
cattedrale di Verona nelle sue vicende edilizie dal secolo IV al secolo XVI, cur. Pier Paolo Brugnoli, Verona 1987, pp. 80-81.
201 Mor, Dalla caduta dell’impero cit., p. 229.
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che, nonostante recenti studi archeologici mostrino che la chiesa doveva essere estesa in
piccolissima parte su terreni allodiali di proprietà di Pacifico, tale rivendicazione sia
bastata per convincere Ratoldo a rinunciare ai propri diritti sull’edificio202.
Nell’XI secolo sul medesimo sito venne edificato un monastero benedettino “in
località pradonego” ovvero prato del Signore, che dalla voce longobarda “breit” divenne
“braida” o “brà”, indicando un campo generico203.
L’attuale costruzione risale al 1477, per iniziativa dei monaci veneziani di San
Giorgio in Alga, mentre la facciata è più tarda risalendo al XVII secolo204.
Nell’epitaffio pacifichiano si nomina infine un’ultima chiesa, San Vito, ma non
è stato possibile recuperare alcuna notizia in merito all’esistenza di una chiesa, o di una
cappella, intitolata a questo santo. Va detto che, nei secoli immediatamente successivi
alla vita e all’opera dell’arcidiacono Pacifico, la città crebbe e si modificò notevolmente
dal punto di vista urbanistico, architettonico e monumentale, e molti edifici vennero
danneggiati e distrutti, oppure furono inglobati in nuove strutture edilizie.
Forma Urbis
Già negli scritti quattro e cinquecenteschi del cancelliere Silvestro Lando e del
poeta Torello Saraina205 si trovano riferimenti a luoghi precisi, il cui percorso e le cui
vicende mi sembra qui utile ricostruire. Nel verbale, analizzato nel capitolo precedente,
che contiene l’approvazione, da parte del Comune di Verona, di un nuovo sigillo per la
città, si rilevano i punti di contatto tra la situazione geografica di Gerusalemme e quella
di Verona:
202 Fiorio Tedone-Lusuardi Siena-Piva, ll complesso paleocristiano cit., pp. 80-81. 203 Benini, Le chiese di Verona cit., p. 123. 204 Ibid. 205 Torello Saraina erudito veronese (1475-1550), notaio e giureconsulto, fu uno dei primi e autorevoli
storici veronesi.; v. Giuseppe Trecca, Giovanni Caroto, in Madonna Verona, IV (1910), pp. 190-196.; v. Safarik E., Caroto, Giovanni, in Dizionario Biografico Italiani, vol. 20, Roma 1977, pp. 563-564.
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« Nam et in hunc usque diem apud nos, et loca eadem six maxime montis Domini,
Nazaret, Bethlem, Sepulchri nomina consequentia praestant. Qua laude vetustatis nulla
maior, aut prestantior proferri potest»206.
Così scrisse Torello Saraina nella sua opera De origine et amplitudine civitatis
Veronae del 1540, pubblicata nella versione volgarizzata dal nipote Gabriele nel 1546:
«[…] e preso il cammino su per lo monte, a quella parte pervenimmo, ov’è posto
il castel S. Pietro. Quivi essendo giunti, mentre che tutti eravamo sul rimirar la città:
sapete voi, io incominciai, la cagione, perché nelle prefazioni degli statuti i nostri
maggiori lasciarono scritto, Verona essere chiamata picciola Gerusalemme? Io non,
rispose M. Giovannicola, acciocché io parli per tutti; donde giudicherei, che ciò ne
dovesse esser fatto palese.
Ed io seguitai: i nostri antichi, o perché vedessero la città nostra tenere alcuna
sembianza con Gerusalemme, o che sapessero in que’ luoghi, a quali nomi della terra
santa fossero imposti, operarvisi meglio alle genti, e starvisi con più divozione; pajono
avere amato in questa una certa imitazione di Gerusalemme. E primieramente quella
valle, che a man destra vedete, chiamarono la valle dominica, come oggi Valle Donnica
sia detta volgarmente. E quel monte, la cui chiesetta di San Roco poi diede il nome,
dissero il monte Calvario; e quivi vollero che ad imitazione del vero tre croci si
drizzassero. Quella chiesa, che di rimpetto a noi vedete, e chiamata Nazareth, e il
picciol tempio di San Giovanni in monte, nominato Betlemme, e il sepolcro ancora non
è guari lontano. Per le quali cose tutte, quelli, che furono gli autori dei nostri statuti,
meritatamente chiamarono questa città picciola Gerusalemme.
Certamente M. Torello, quivi rispose M. Giovannicola, voi dite il vero; né può
essere altramente…»207.
206 ASVr, Atti del Consiglio del Comune, vol. 63, c. 60. 207 Cesare Cavattoni, Dell' origine ed ampiezza di Verona volgarizzamento fatto nel 1546 da Gabriele
Saraina sopra l'opera latina di torello suo zio: e nelle nozze de nobilissimi signori il Conte Antonio Portalupi e la Marchesa Maria di Canossa. Verona 8 sett. 1851, p. 29.
91
A partire da questi riferimenti e sulla scia di Marchi208, è possibile rilevare alcune
somiglianze tra l’antica forma urbis di Gerusalemme e quella di Verona.
San Rocchetto, ovvero il Santo Sepolcro, e la Santissima Trinità in Oliveto,
ovvero il Monte degli Olivi
Se si osserva il posizionamento dei citati santuari rispetto alla città e all’Adige,
si scorge che il fiume separa il Monte Oliveto, sopra il quale sorge la chiesa della
Santissima Trinità, dal Monte del Calvario, il Cavro, il quale è presso il paese di
Quinzano, in cima al quale sorge San Rocchetto, ovvero il Santo Sepolcro. Entrambi
questi santuari sono esterni alla cinta muraria antecedente al periodo della signoria Della
Scala; la medesima cosa avviene a Gerusalemme per quanto riguarda i luoghi ad essi
corrispondenti. Il torrente Cedron a Gerusalemme scorre fuori dalle mura e divide le due
colline del Calvario e del Monte Oliveto.
La collina sovrastante il paese di Quinzano a ovest ha una storia religiosa le cui
origini risalgono all’antichità209; il colle era allora denominato del Calvario: oggi questa
collina è chiamata Monte Cavro, un toponimo che è la trasformazione, la corruzione del
nome più antico210. Tra il XII e il XIII secolo sulla sommità del colle venne costruita
una grotta sovrastata dalla riproduzione del monte brullo del Golgota sul quale furono
erette tre croci, che ancora oggi possono essere scorte dal visitatore. All’interno della
grotta venne collocato un sepolcro circondato da statue raffiguranti i personaggi che
presenziarono alla sepoltura di Cristo. Antonio Pighi a fine Ottocento, così scrisse: «[…]
Al di dietro della grotta si appoggia l’altar maggiore della chiesetta che copre e
circonda e che per più secoli si disse perciò la chiesa del S. Sepolcro»211. Secondo
208 Marchi, Forma Veronae. L’immagine della città nella letteratura medioevale e umanistica, in Ritratto
di Verona, cur. L. Puppi, Verona 1978, pp. 11-12. 209 All’Età del Bronzo risale la presenza di un castelliere probabile luogo di culto. 210Antonio Pighi, Il santuario di S. Rocco in Quinzano veronese, Verona 1887, p. 6. 211 Pighi, Il santuario di S. Rocco in Quinzano cit.
92
Saraina, il monte del Calvario sarebbe stato rappresentato dalla collina sulla quale sorge
la chiesa chiamata San Rocchetto, già dedicata a Sant’Alessandro e che si ritiene fondata
dall’Arcidiacono Pacifico212.
La chiesetta del Santo Sepolcro, oggi San Rocchetto, venne edificata nel XV
secolo e a quella fase appartengono l’aula, le absidi ed il campanile. Edificata con la
componente di alcune pietre provenienti dalla Palestina, Terra Santa, stette in questo
modo a significare che l’intera chiesa era una reliquia213. Tra il 1580 e il 1596 la chiesa
subì delle modifiche, e l’intera facciata originale venne coperta con una nuova struttura.
In quello stesso frangente l’interno della chiesa venne decorato con un ciclo di affreschi
raffigurante le “Storie di San Rocco”. Con il XVII secolo la dedicazione al Santo
Sepolcro scomparve, e da allora rimase soltanto quella a San Rocco.
Separata dal corso dell’Adige, si trova opposta alla chiesa del Santo Sepolcro,
oggi san Rocchetto, la Santissima Trinità in Monte Oliveto. Ancora oggi la chiesa
mantiene la denominazione in Oliveto. L’abbazia dedicata alla Santissima Trinità venne
edificata dai monaci di Vallombrosa tra il 1073 ed il 1117, consacrata il 12 gennaio 1117
ed ampliata tra il 1130 e il 1140. Il complesso vallombrosano della Santissima Trinità,
sorge in una piccola altura denominata Monte Oliveto. Alessandro Canobbio, erudito
veronese cinquecentesco, narrando la storia di Verona scrisse, riferendosi alla
fondazione della Santissima Trinità: «si edificò la Chiesa della Santissima Trinità, nel
qual luogo vi era un monticello, che si chiamava il monte Oliveto»214. È possibile, in
realtà, che la denominazione Oliveto discenda dall'Ordine degli Olivetani di
Vallombrosa, uno dei filoni usciti dai monaci San Benedetto, che costruirono il
monastero. Durante il XII secolo presso la Santissima Trinità era presente uno
scriptorium e nel XIII secolo fu edificato uno xenodochum per poveri e pellegrini diretti
in Terra Santa; potrebbero essere stati anche pellegrini di ritorno dalla Palestina ad aver
212 Per quanto riguarda l’attribuzione a Pacifico e la critica alla documentazione si veda: La Rocca,
Pacifico di Verona cit., p. 14 nota 41; v. Andrea Castagnetti, La Pieve Rurale nell’Italia Padana. Territorio,
organizzazione patrimoniale e vicende della pieve veronese di San Pietro di ‘Tillida’ dall’alto medioevo al secolo
XIII, Roma 1976 (Italia Sacra, 23) p. 141 nota 534. 213 G. B. Pighi, Cenni storici sulla chiesa veronese cit., pp. 181-182. 214 Alessandro Canobbio, Historia intorno la nobiltà e l’antichità di Verona, Ms. 1968, VI, c. 18v.; v.
Angelo Passuello, La chiesa della Santissima Trinità in Monte Oliveto a Verona. Analisi storico-architettonica della fabbrica vallombrosana (XI-XIV secolo), «Arte Cristiana», (2014 884/102), p. 324.
93
intravisto in quel monte il monte Oliveto, dando così origine al toponimo dal forte
richiamo gerosolimitano.
Questa altura, particolare e unica nella sua conformazione, contribuì molto presto
a rientrare nel contesto gerosolimitano della città, declinandosi assieme agli altri luoghi
ed elementi nel panorama cittadino215.
Santa Toscana, già Santo Sepolcro
La chiesa di Santa Toscana ha origine antecedente alla sua assegnazione ai
Gerosolimitani nel 1135 e successivamente ai membri dell’Ordine degli Ospitalieri di
San Giovanni di Gerusalemme, avvenuta nel 1178. Inizialmente la chiesa era un
cimitero dei benedettini di San Nazaro i quali, in seguito ad una disputa che li oppose
all’Ordine degli Ospitalieri, perdettero il controllo della chiesa a favore di questi ultimi.
Di memoria gerosolimitana assieme a Santa Toscana vi era la chiesa di San
Vitale, con le sue reliquie, la quale appartenne all’Ordine dei cavalieri Templari sino
alla loro soppressione, avvenuta nel 1312, quando entrò a far parte dei possedimenti
della Commenda dei Cavalieri di Malta. San Vitale oggi non c’è più, poiché fu demolita
in periodo napoleonico; di essa rimane però memoria nel tessuto urbano con l’omonima
via San Vitale; le reliquie del Santo vennero spostate in Santa Maria del Paradiso216.
Biancolini scrisse che «Questa chiesa è tanto antica che da essa ebbe origine il
nome alla porta della città posta nelle seconde mura, dette il Muro nuovo, non guari
discoste dal monistero di Santa Maria in Organo […] Fino del 1037 s’hanno memorie
che la detta porta si chiamava del Santo Sepolcro. Ma col passar del tempo venne a
perdere l’antico nome, e a chiamarsi la Porta del vescovo»217.
La chiesa dunque era dedicata al Santo Sepolcro prima del periodo crociato e
prima della cessione agli ordini gerosolimitani. Vicino alla chiesa e quindi alla porta del
215 Passuello, La chiesa della Santissima Trinità cit., pp. 323-330. 216 Migliorini, Come a Gerusalemme… cit., p.322. 217 Marchi, Forma Veronae cit., p. 12.; Per il testo di Biancolini v. Gianbattista Biancolini, Notizie storiche
delle Chiese di Verona, vol. 2, Verona 1749. Pp. 573.
94
Santo Sepolcro, ora Porta Vescovo, vi era un ospedale gestito dall’Ordine di San
Giovanni, gli Ospitalieri. La porta in questione era l’antica porta delle mura medievali
risalenti al X secolo, poste a difesa della città sulla riva sinistra dell’Adige; oggi la porta
esiste ancora, ed è un edificio privato. Con la costruzione dei bastioni veneziani le più
vecchie mura vennero racchiuse nella nuova cerchia e la porta rimase isolata
nell’abitato218.
Con queste parole, nel 1668, Lodovico Moscardo descrivendo la vita di Santa
Toscana, parlò dell’ospedale del Santo Sepolcro, comunemente chiamato “Ospedal di
Pietà”:
«Nel 1174 furono portati i Corpi di S. Biagio, e delli due suoi discepoli, con
quello di S. Giuliana martire, … In questo tempo era l’hospital del Santo Sepolcro
vicino alla porta del Vescovo, era soggetto alla Religione di S. Giovanni
Gierosolimitano, dove si albergavano i poveri infermi. In questo morì S. Toscana di
Zevio vedova di Occhio di Cane de’ Occhio de Cani Pattrizio Veronese. […]»219.
La chiesa era adibita a cimitero benedettino del convento di San Nazaro, e
tutt’oggi per accedere alla chiesa si attraversa l’antico cimitero. All’interno della chiesa
si trova il Santo Sepolcro in una cappella, una cella stretta e umida, dove la Santa
veronese avrebbe trascorso gli ultimi giorni della sua vita in preghiera.
Nella chiesa si trova un crocefisso la cui storia, secondo una leggenda, è quella
di essere stato il crocefisso di un pellegrino tedesco, devoto alla Croce, il quale viaggiava
sempre con questo oggetto di culto. Giunto a Verona decise di lasciare il crocefisso a
questa chiesa, affinché i fedeli potessero pregare davanti a quella croce, così come lui
aveva fatto.
Il 14 luglio 1432 vennero traslate all’interno del Santo Sepolcro le reliquie di
Santa Toscana220 che, restaurata e riconsacrata, ricevette la nuova dedicazione il 29
218 v. mappa Verona: Veronetta. Ubicazione luoghi 14, p. 145. 219 Vita di Santa Toscana da Verona, in rete su
http://www.veja.it/2016/02/08/vita-santa-toscana-verona/#more-32855 (collegamento attivo il 18 gennaio 2017).
220 Verona Minor Hierusalem. Alla riscoperta di un antico percorso, cur. Davide Galati-Marta Scandola-Martino Signoretto, Verona 2011.
95
novembre 1489. È utile ricordare che Santa Toscana fu conversa gerosolimitana in età
comunale, XII secolo, o scaligera, XIV secolo. All’interno della chiesa, come sottolinea
Migliorini, non è un caso forse che sia presente un Compianto sul Cristo datato all’inizio
Cinquecento: pur trattandosi di un’opera di epoca moderna, essa appartiene ad una
tipologia di opere che giunse in Occidente da Bisanzio221. Dell’antica dedicazione della
chiesa medievale rimane oggi una traccia nella toponomastica cittadina: nei pressi della
chiesa una piccola via, che giunge all’odierna porta Vescovo, si chiama Via Salita San
Sepolcro.
Il fatto che vi fosse una denominazione al Santo Sepolcro prima del periodo
crociato conferma che la dedicazione di chiese con nomi che richiamano la Terra Santa
non è dovuta alla devozione e allo spirito verso la causa crociata che, come ho avuto
modo di sottolineare, fu un impulso in molte città al richiamo gerosolimitano. Anzi,
come sottolineato da Marchi, alcune di queste denominazioni sono cadute in disuso
proprio in periodo crociato222.
Santa Anastasia
Secondo uno studio di Pier Paolo Brugnoli la basilica di Santa Anastasia potrebbe
portare nel suo nome una origine differente rispetto alla provenienza dal nome della
santa paleocristiana223. Si tratterebbe di un importante riferimento gerosolimitano:
quello dell’Anastasis. Tale origine presupporrebbe l’intitolazione originale alla
Resurrezione di Cristo e un riferimento alla chiesa omonima gerosolimitana del Santo
Sepolcro a Gerusalemme. Come ha sottolineato Migliorini, non sono stati condotti
ulteriori studi, dal momento che i riferimenti gerosolimitani al Santo Sepolcro a Verona
221 Migliorini, Come a Gerusalemme… cit., p. 321. 222 Marchi, Foma Veronae cit., p. 12. 223 Pier Paolo Brugnoli, Santa Anastasia, tempio della Resurrezione, «Verona Fedele», numero speciale,
3 aprile 1960.
96
furono già presenti e posteriormente a questa chiesa di Santa Anastasia: si veda la
sopracitata Santa224.
Brugnoli mette in risalto come l’ubicazione della chiesa corrispondesse alle
medesime contestualità della chiesa della Anastasis a Costantinopoli, la quale imitava
l’Anastasis di Gerusalemme. La chiesa, sorgendo alla conclusione del decumano
massimo, avrebbe imitato nella sua costruzione quella di Costantinopoli, con la
costruzione di un tempio225. La chiesa strutturalmente sorge sull’area di due preesistenti
chiese, forse volute da Teodorico, dedicate a San Remigio e Sant’Anastasia226. Reputo
importante considerare dunque che già originariamente il nome Anastasia era presente
e che quindi la teoria di Brugnoli porrebbe il riferimento gerosolimitano in una chiesa
molto antica, con la possibilità che vi fosse tale riferimento a l’Anastasis in periodo pre-
carolingio e quindi una ipotesi che si legherebbe allo sviluppo di Marchi di una Verona
gerosolimitana precedente il periodo carolino227. Nel 1261 i Domenicani iniziarono la
costruzione dell’attuale Basilica di Santa Anastasia, la quale appunto ereditò il nome
dalla precedente costruzione e parte delle murature, divenendo la chiesa più grande di
Verona228. All’interno sono presenti dei riferimenti artistici gerosolimitani: tra questi il
famoso affresco di Antonio di Puccio, detto Pisanello, San Giorgio e la principessa è
stato letto come un episodio da interpretare nell’ottica della crociata antiturca, tra l’altro
un motivo presente in altri luoghi veronesi come ai Santi Apostoli, a San Pietro Martire
e a San Zeno229.
224 Migliorini, Come a Gerusalemme… cit., p. 320 nota 39.; per la chiesa dell’Anastasis = Santo Sepolcro
di Gerusalemme v. Renata Salvarani, Liturgie di Gerusalemme nello specchio delle fonti di pellegrinaggio tra l’età costantiniana e la conquista crociata, pp. 97-132.; per Santa Anastasia di Verona = Anastasis v. Brugnoli, Santa Anastasia cit., cit. in Marchi, Verona minor Ierusalem. Contributo alla storia dell’urbanistica carolingia,
«Architetti Verona» 3/13, 1961, p. 32, p. 33 nota 16. 225 “La chiesa, me si sa, sorge in capo al decumano massimo, prolungamento del quale era, fuori delle
mura, la via dei sepolcri. La chiesa ancora par sia collocata sulle rovine dell’antico circo. È dunque probabile, che
in epoca molto remota, quando il cristianesimo si era da poco affermato nella nostra città, si sia eretto un tempio (in capo alla via dei morti, si badi bene) ad imitazione dell’Anastasis di Costantinopoli, la quale a sua volta
riproduceva l’Anastasis, basilica della resurrezione, in Gerusalemme”. v. Brugnoli, Santa Anastasia cit.; Migliorini, Come a Gerusalemme… cit., p. 320 nota 39.
226 Benini, Le chiese di Verona cit., p. 72. 227 Marchi, Forma Veronae cit., p. 12. 228 Benini, Le chiese di Verona cit., p. 72. 229 L’affresco viene presentato dallo storico dell’arte Puppi come episodio da interpretare in chiave
crociata antiturca. v. Migliorini, Come a Gerusalemme… cit., pp. 320-321. […] un motivo iconografico la cui precedenza veronese parrebbe inconfutabile (affreschi delle chiese veronesi dei Santi Apostoli, si San Pietro Martire sive San Giorgetto, di San Zeno […]. L’opera sarebbe, non a caso, databile «tra il finir del 1437, allorché
lo scioglimento del consesso è [sc. Concilio] di Basilea appare confortato dalla decisione della riaperturea in Ferrara e dall’assenso di Giovanni VIII Paleologo» (superatore della «vecchia diatriba» con i regnanti dissidenti
97
Nell’affresco riguardante l’episodio del Santo Megalomartire vi sarebbero
richiami gerosolimitani nell’edicola, la quale sembra riferire alla iconografia del
periodo, della Cappella del Santo Sepolcro230.
Un cenno meritano anche altri due luoghi della città che presentano un forte
riferimento gerosolimitano, e pertanto devono essere inseriti in questa ricognizione delle
analogie tra Verona e la Terra Santa.
La Scala Santa
La Scala Santa è una strada in lieve salita che, partendo dalla chiesa di San
Giovanni in Valle, termina nei pressi della chiesetta di San Zeno in Monte, già nota con
il nome di Santa Maria di Betlemme231. Pare che tale scalinata fosse stata eretta dai padri
somaschi nel XVI secolo232; Don Giovanni Calabria pose lungo il percorso una serie di
formelle, stazioni per una Via Crucis che tutt’oggi gli abitanti del borgo risalgono in
preghiera durante le celebrazioni della Settimana Santa.
La presenza di una scalinata nota come Scala Santa, al di là delle sue reali origini,
istituisce un parallelo preciso con uno dei luoghi di Roma maggiormente legati alla Terra
Santa, contribuendo a connotare fortemente questa parte di Verona. Il percorso della
Scala Santa conduce ad una chiesa il cui nome antico, Santa Maria in Betlemme,
rimanda con forza alla Terrasanta233.
di Trebisonda «attraverso quel matrimonio con Maria Comnena mediato dal trapezuntino Bessarione» […] «e l’estate del 1438 quando Pisanello decide di muovere verso la città estense» […] l’eco veronese del concilio di
ferrara, grande speranza nitaria, conciliare e crociata, nella riproduzione della medaglia pisanelliana di Giovanni VIII Paleologo, da parte del pittore locale Giovanni Badiglie, nella cappella absidale dedicata a San Girolamo nella chiesa veronese di Santa Maria della Scala, 1443) […]».
230 Migliorini, Come a Gerusalemme… cit., p. 321. 231 v. mappa Verona. Ubicazione dei luoghi 10, 11, 12, 13, p. 131. 232 Ibid., p. 322. 233 Ibid., pp. 321-322.
98
San Zeno in Monte, già Santa Maria di Betlemme
Scrive il Biancolini234 che «sovra il monte che alla nostra città sovrasta de’
templi innalzarono: uno […] in memoria del Parto miracoloso di essa Vergine in
Betlemme»235. Si tratta della Chiesa di Santa Maria in Betlemme. Così ne parla il
Biancolini «Giace [...] S. Zeno in Monte […] entro le mura di Verona sopra una collina
separata dalla moltitudine della gente, in cui non solo godesi un’aria salubre e perfetta;
ma ancora da tal luogo si domina ampiamente la città divisa dal fiume Adige, e monti,
e colli, e vasto tratto d’amenissima campagna. Orti coltivati lo circondano, percorsi da
lunghi filari di viti, macchiettati da ulivi, mandorli, ciliegi; e meli e fichi, e ogni albero
da frutto. E sparsi in quel mare di verde, svettano scuri cipressi al cielo. È un incanto
in primavera. Ai reduci delle crociate quei luoghi apparvero come ricordi lontani della
terra di Palestina. E battezzarono quel colle tufaceo, traforato da grotte e spelonche,
col nome di Betlemme […]»236.
La Chiesa di San Zeno in Monte è uno dei più affascinanti esempi di architettura
romanica a Verona. Le notizie a proposito della sua fondazione e della sua storia sono
quanto mai scarse, per non dire quasi del tutto assenti. Si ritiene che la chiesa abbia
origini molto antiche, risalenti all’epoca carolingia, ma le tracce documentarie per un
periodo così antico sono labili. Nel libro III del suo “Notizie storiche delle Chiese di
Verona”, del 1749, il Biancolini scrisse che in un: «documento del 15 ottobre 1265
nell’archivio di S. Leonardo si dice di S. Zeno in Monte»237. Sappiamo che la chiesa subì
lavori di ricostruzione e ampliamento anche nel XIII, XIV e XVI secolo finché, nel
1770, il monastero annesso fu soppresso, a causa di un ridotto numero di frati. Con
l'arrivo di Napoleone la struttura fu saccheggiata, e successivamente, con gli austriaci,
234 Gianbattista Biancolini - Nacque a Verona il 10 marzo 1697 v. Petrucci A., Biancolini, Giambattista,
in Dizionario Biografico degli Italiani, vol. 10, Roma 1968, pp. 243-244. 235 G. B. Biancolini, Notizie storiche delle chiese di Verona, vol. 1, Verona, 1749, p. 384. 236 Don Mario Gadili, Don Luigi Adami, primo collaboratore di San Giovanni Calabria, in «Rivista di
studi calabriani», XIII, 2012, p. 69. 237 Biancolini, Notizie storiche delle chiese di Verona, vol. 1, cit.
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nel 1806, divenne parrocchiale. Oggi la Chiesa di San Zeno in Monte è parte del
complesso di edifici della Fondazione Don Calabria di Verona238.
Altro elemento gerosolimitano importante, sul lato esterno della chiesa di San
Zeno in Monte si trova rappresentata una mappa della Terrasanta.
La Fontana del Ferro e Santa Maria di Nazareth
La Fontana del Ferro è posta all’inizio di Via Nazareth e alla fine di Via della
Fontana del Ferro, la quale incomincia nei pressi della chiesa di San Giovanni in Valle,
dove anche ha inizio la Scala Santa. Si tratta di un luogo ben noto ad ogni veronese, le
cui origini si perdono nel tempo e nella leggenda. Si trattava di un luogo mistico sin
dall’antichità, dove sgorgava una sorgente d’acqua apprezzata dai veronesi per le sue
straordinarie proprietà: «Una vasta e copiosa sorgente d’acqua, detta la Fontana del
Ferro, alla quale è costume della popolazione di tutte le classi di accedere in numerose
brigate specialmente nella notte del 24 Giugno d’ogn’anno. L’acqua che vi esce e che
tutti gli accorrenti, copiosamente bevono mangiando paste, dolci, ed altro, non senza
mescere vini, e qualche liquore spiritoso, è di una purezza e virtù igienica proverbiali.
V’ha tradizione popolare che in questo luogo, o poco discosta, vi esistesse una sedia,
dove il re Pipino collocarsi per ascoltare le pubbliche istanze. Fia meglio credere che
il facesse ordinariamente (constando che abitava a S. Zeno) per godervi l’amenità del
sito e delle di lui delizie»239. Ecco qui tornare un riferimento preciso ad un altro dei
personaggi storici, il re Pipino, cui la tradizione veronese di frequente si volge nel
recupero del proprio passato.
Quale il richiamo di questa fonte antichissima, che sembra in realtà connotata da
elementi pagani, ai culti e ai luoghi di Terra Santa? Nella chiesa ortodossa di San
Gabriele a Nazareth, una chiesa posta appena sopra la basilica dell’Annunciazione, è
custodita la sorgente dell’antico villaggio del primo secolo, chiamata Fontana della
238 Per notizie sulla Fondazione Don Calabria, v. www.doncalabria.net. 239 Luigi Giro, Sunto della storia di Verona politica, letteraria ed artistica dalla sua origine all’anno
1866…, vol. 2, Verona 1869, p. 240.
100
Vergine, collocata in una posizione pressoché analoga240 a quella della fonte veronese
in rapporto alla vicina chiesa di Santa Maria di Nazareth241.
Dalla Fontana del Ferro la via Nazareth porta all’omonima chiesetta: Santa Maria
di Nazareth. Costruita nel XIII secolo, conserva al proprio interno affreschi del XIV ed
un pregevole portale del secolo successivo.
Oggi il complesso è gestito dalla Congregazione dei Servi della Divina
Provvidenza, l’opera Don Calabria; dalla piazzetta Nazaret si aprono due ingressi
dirimpettai: quello della struttura del Don Calabria che conserva la chiesetta e quella di
villa Wallner, dove si trovava l’oratorio dedicato all’arcangelo Gabriele, di cui oggi non
sembra rimanere alcuna traccia.
In questa parte di Verona i toponimi, la disposizione delle strade, la posizione e
l’intitolazione delle chiese sembrano richiamare fortemente Nazaret.
Santa Maria di Nazaret, la vicina fonte e ciò che rimane dell’oratorio - là dove le
cartine antiche indicano la cappella dell’Angelo - sono un contesto, un luogo con
molteplici richiami biblici, situato in una delle zone più antiche di Verona, esterna
rispetto alla città medievale.242
In una veduta della città datata al 1630243, nei pressi di Castel S. Felice e poco
distante dal complesso di Sant’Angelo, oggi Villa Wallner, è raffigurata una chiesetta
indicata come “Nazarè”.
240 v. mappe Confronto tra Verona e Nazareth, p. 137. 241 In rete su
http://www.ildesertofiorira.org/index.php?option=com_content&view=article&id=108:santa-maria-di-nazareth&catid=22:verona-minor-hierusalem&Itemid=26 (collegamento attivo il 10 febbraio 2017)
242 In rete su http://www.ildesertofiorira.org/index.php?option=com_content&view=article&id=108:santa-maria-di-nazareth&catid=22:verona-minor-hierusalem&Itemid=26 (collegamento attivo il 10 febbraio 2017)
243 v. figura 12.2, Paolo Ligozzi, 1630, p. 141.
101
La Scala Santa di cui abbiamo detto, e la Via Fontana del Ferro, che porta alla
omonima fontana, prendono avvio dalla chiesa di San Giovanni in Valle, altro luogo di
grande importanza nello sviluppo della città medievale, cui occorre adesso dedicare
alcune righe.
San Giovanni Battista, in Valle
Gli studiosi non sono concorsi nello stabilire la fondazione di San Giovanni in
Valle: secondo Luigi Simeoni la prima chiesa risalirebbe addirittura al IV secolo, mentre
un’altra corrente di pensiero ritiene che la chiesa trovi le sue origini durante la
dominazione longobarda tra 568 e 750.
Il nome in Valle propende a far discendere la denominazione dal fatto che la
chiesa sorgesse presso il Vallum eretto in periodo goto, il quale sarebbe stato costruito
per volontà di Teodorico. Presso la chiesa esiste una vasca battesimale ed è documentato
che, sino al 1300, nella notte di Pasqua si svolgesse qui la funzione battesimale. Dal
momento che tale funzione era prerogativa della cattedrale e delle pievi, questo ha
portato gli studiosi a ritenere che San Giovanni in Valle avesse la funzione di Cattedrale
Ariana. Infatti, mentre i cattolici ebbero la loro sede episcopale originaria nella chiesa
di San Procolo, di cui ho già trattato e poi, dal V secolo, in Santo Stefano, San Giovanni
in Valle sarebbe divenuta sì cattedrale, ma ariana. Sia che si ponga la sua origine con la
dominazione gota sia con quella longobarda, San Giovanni avrebbe svolto la funzione
di cattedrale per questa pars cittadina di fede ariana. Durante le loro dominazioni, la
cattedrale cattolica si trovava sulla stessa parte dell’Adige e nella stessa zona
dell’abitato, precisamente alle pendici del Monte San Pietro, sottolineerei vicino al
Castrum teodoriciano. Nei pressi della chiesa si insediarono i dignitari longobardi, in
una località denominata “Corte del Duca”, le circostanze hanno fatto ritenere alla
maggior parte degli studiosi che la chiesa sarebbe sorta dunque in periodo longobardo e
che quasi con sicurezza fosse stata la loro cattedrale ariana244.
244 v. riferimeti San Giovanni Battista, in Valle in rete su www.beweb.chiesacattolica.it .
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La chiesa primitiva sorse su di un’area precedentemente adibita ad un tempio
pagano, forse al Dio Sole, edificio visibile nell’abside. Tra il VI e il VII secolo la chiesa
venne innalzata sopra l’attuale cripta e venne anche innalzata quest’ultima per rendere
possibili le sepolture. All’ingresso si costruì il nartece, laterale come in una basilica,
destinato alla vasca battesimale e agli scomunicati. La chiesa attuale venne ricostruita
dopo il terremoto del 1117; della chiesa originaria rimangono solo l’abside e la cripta245.
Un tempo affrescata, la chiesa venne irrimediabilmente danneggiata dai
bombardamenti alleati durante la Seconda Guerra Mondiale; di tali affreschi ora restano
solo frammenti. La cripta, durante i bombardamenti, divenne rifugio per molti cittadini,
nonostante il divieto delle autorità, le quali ritenevano non sicuro il luogo. Alla fine del
XII secolo risalgono alcune decorazioni come quella di San Giorgio che uccide il drago,
liberando la principessa. Nei pressi della chiesa, nel 1069, quindi in periodo pre crociato,
venne costruito un ospedale per i pellegrini, venne data una certa indipendenza
economica a questo luogo per i pellegrini, infatti fu dotato di terre presso San Nazaro e
in Campo Marzio. Sempre in zona, anche Santa Maria in Organo ebbe un suo ospedale
per i pellegrini. Su questa riva dell’Adige, concentrati in una area relativamente piccola
erano dunque presenti nel XII secolo tre ospedali dedicati alla cura dei pellegrini.
Reliquie e culti della Terra Santa
Santo Stefano Protomartire
La chiesa di Santo Stefano Protomartire sorge in un luogo le cui fondamenta sacre
hanno origini molto antiche. Il luogo in questione è lo spazio ricavato all’immediato
interno delle mura costruite dall’Imperatore Gallieno sulla riva sinistra dell’Adige,
sorpassato il ponte romano Ponte Pietra, l’ingresso urbano della via Claudia Augusta,
proveniente dalla Raetia246. Vicino alla nuova porta, internamente alle mura, sorgeva un
245 Benini, Le chiese di Verona cit., p. 135. 246 Migliorini, Come a Gerusalemme… cit., p. 319.
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importante complesso di edifici con funzione urbana e sacra, il complesso delle
fontanelle, ad Fontinticulos; e un tempio dedicato a Iside e Serapide, due divinità egizie.
Le fontanelle erano vasche di raccolta per l’acqua per poi essere distribuita in città,
documentate da una iscrizione del 44 d.C., mentre il tempio alle due divinità risaliva la
sua costruzione approssimativamente al II secolo d.C247.
Nel 415 d.C. circa venne eretta la chiesa dedicata a Santo Stefano ai Martiri sopra
i resti dei templi pagani e sopra quella che era divenuta un’area cimiteriale di 40 martiri
veronesi, periti durante le persecuzioni dell’imperatore Diocleziano. La dedicazione a
Santo Stefano avviene in occasione del ritrovamento delle reliquie del protomartire e
quasi in concomitanza con la costruzione della Basilica di Santo Stefano per volere del
vescovo di Gerusalemme nel 439, sul sito dell’uccisione del Santo248.
Stefano apparteneva ad una delle prime comunità convertitesi al cristianesimo in
Palestina e la dedica della chiesa veronese prende nome dunque dal protomartire
cristiano, fondamenta del cristianesimo nascente249. La chiesa fu una delle due prime
sedi episcopali veronesi, entrambe sedi situate alla periferia della città e su terreno
consacrato con il sangue di martiri veronesi. Nel V secolo i vescovi di Verona posero la
loro cattedra presso la chiesa di Santo Stefano, spostandosi dalla prima chiesa
episcopale, San Procolo, forse per la volontà di introdurre la venerazione ai martiri.250
Durante il dominio dei Goti di Teodorico, di fede cristiana ariana, la chiesa originaria
venne demolita, probabilmente a causa di una frizione con il vescovo cattolico.
Nonostante questo avvenimento la chiesa venne ricostruita e mantenne la carica di sede
episcopale sino alla conversione ufficiale dei sovrani longobardi, Desiderio e
Liutprando; nell’VIII secolo la sede venne spostata all’interno della città.
All’intero del santuario erano conservate alcune importanti reliquie di santi
vescovi e di martiri veronesi, ma soprattutto della Vera Croce, della Vergine Maria e del
protomartire stesso, Santo Stefano. La presenza del protomartire e delle reliquie è
testimoniata anche dall’epigrafe in pietra presente nella cripta sino al XVII secolo,
247 v. riferimenti su Santo Stefano Protomartire in rete su www.beweb.chiesacattolica.it . 248 Miller, Chiesa e società in Verona medievale cit., p. 202. 249 Mario Patuozzo, Apologia del Sole. Sol Invictus breve storia del periodo solstiziale invernale,
in rete su https://books.google.it/books?id=5HvmBwAAQBAJ&printsec=frontcover&hl=it#v=onepage&q&f=false (collegamento attivo il 6 gennaio 2017).
250 Miller, Chiesa e Società in Verona medievale cit., p. 202.
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successivamente trasferita e murata in una colonna vicino ad una cappella, quella degli
Innocenti, nella quale furono anche trasferite la maggior parte delle reliquie251.
La presenza delle reliquie del protomartire è anche narrata in alcuni versi del
Versus de Verona, oltre alla presenza di martiri e santi: «Ab oriente habes primum
protomartyrem Stephanum, Florentium, Vindimialem et Maurum episcopum, Mammam,
Andronicum et Probum cum quadraginta martyribus»252.
Santa Maria in Organo e la Muletta
Forte riferimento gerosolimitano presente nella Chiesa di Santa Maria in Organo
è la Muletta, o Mulèta per i veronesi, oggi posta nel transetto di sinistra. Una leggenda
vuole che questa statua lignea, arenatasi davanti alla porta della chiesa quando esisteva
ancora il ramo dell’Adige ora interrato253, dopo varie vicissitudini fosse raccolta e
portata finalmente in chiesa. Secondo una tradizione popolare parallela, la statua
conserva al suo interno la pelle dell’asino che portò Cristo a Gerusalemme attraverso la
porta d’oriente. L’asino della domenica delle palme ebbe a capitare a Verona e vi fu
ospitato con tutti gli onori; alla sua morte l’animale emise un raglio di grande intensità
che fu udito da tutta la città; gli furono resi grandi onori e le reliquie, raccolte con
devozione, vennero deposte nel ventre della statua lignea.
La Muletta veniva portata in processione durante la Domenica delle Palme, ed
anche in altre importanti feste religiose, come il giorno del Corpus Domini. In suo onore
venne istituita anche una confraternita laicale alla quale, nel 1537, venne concesso l’uso
251 v. L. Venturini, Santo Stefano in Verona, Verona 2013, p. 66.; Per un approfondimento su Santo
Stefano v. Venturini, ibid.; Migliorini, Come a Gerusalemme… così a Verona cit., p. 319 nota 38. 252 Un apparato di versi del poema del Versus porta il lettore in un viaggio attraverso le chiese le reliquie
di santi presenti a Verona, la cui santità proteggeva la città.; v. Battista Pighi, Versus de Verona cit., vv. 55-90. 253 Prima del 1882, quando dopo una disastrosa alluvione il comune decise di interrare i due rami
dell’Adige, esisteva un ramo dell’Adige che creava un’isolo nei pressi di Ponte Pietra e il Teatro Romano. v.
Pierpaolo Brugnoli, Le strade di Verona, Roma 1999, p. 60-61.
105
della cappella detta della Maestà (o di San Benedetto), la stessa dove ancora oggi
troviamo esposta la statua254.
Così ne parla Gian Paolo Marchi: «[...] Una splendida statua lignea del XIII
secolo, conservata nella chiesa di Santa Maria in Organo a Verona, oggetto (un tempo)
di larga venerazione popolare e di conseguenti polemiche ispirate alla contestazione
del culto cattolico per le immagini. La solennità delle Palme veniva celebrata dai
monaci olivetani di S. Maria in Organo portando in processione la statua (ciò si usa
fare ancora oggi in alcune zone di lingua tedesca, come Hall in Tirolo). L’entusiasmo
popolare dava luogo a qualche intemperanza, forse non sufficientemente contrastata
dai religiosi: certo, l’immagine lignea entrò ben presto a far parte dell’immaginario
collettivo e del folclore religioso, come risulta da una memoria del celebre musicista
Adriano Banchieri, che soggiornò a Verona nei primi anni del seicento»255.
Un’altra leggenda sorta attorno alla Muletta vuole che l’autore fosse un abile
scultore monaco dell’abbazia, ritiratosi a vita eremitica in Trentino. Il monaco avrebbe
lasciato detto ai confratelli che all’avvicinarsi della sua morte li avrebbe avvertiti con
un segno speciale. Un giorno, la statua del Cristo trasportata dalle acque del canale
dell’Adige, si arenò di fronte alla chiesa; fu raccolta e trasportata altrove ma,
miracolosamente, ricomparve nel punto dov’era stata trovata la prima volta. I
benedettini compresero allora che essa era opera e dono del fratello ormai deceduto256.
Per l’importanza storico-artistica, merita almeno qualche cenno la Chiesa di
Santa Maria in Organo, presso la quale è conservata la preziosa reliquia. Il nome non
deriva dal prezioso strumento musicale, bensì da un misterioso edificio denominato
organum, probabilmente una struttura idraulica non meglio precisata che sorgeva
proprio accanto alla chiesa257. La prima chiesa apparteneva al complesso del monastero
254 In rete su
http://www.veja.it/2009/06/20/verona-la-muletta-di-santa-maria-in-organo/#more-6596 (collegamento attivo il 10 febbraio 2017).
255 Gian Paolo Marchi, Luoghi Letterari, Verona 2001, p. 162. 256 Luciano Rognini, Tarsie e intagli di Fra Giovanni da Verona a Santa Maria in Organo di Verona,
Verona 1985, p. 17. 257 Se ne trova testimonianza nella più antica mappa di Verona, l’Iconografia Rateriana, risalente al X
secolo, oggi conservata presso la Biblioteca Capitolare.
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benedettino, fondato nel VII o nell’VIII secolo, il primo di Verona; venne ricostruita
dopo il terremoto del 1117, e della struttura originaria rimangono alcuni elementi nella
cripta. Nei secoli successivi vennero apportate numerose modifiche che ne
trasformarono sensibilmente l’aspetto: tra queste la facciata, realizzata alla fine del XVI
secolo su disegno di Michele Sanmicheli e rimasta incompiuta258. Capolavoro assoluto
della Chiesa sono le tarsie lignee, opera tardoquattrocentesca dell’olivetano Fra
Giovanni da Verona, che decorano il coro e la sagrestia, definita dal Vasari la più bella
d’Italia.
San Bernardino
Nella chiesa di San Bernardino, facente parte dell’omonimo complesso
francescano, si trova, tra le altre, una piccola cappella dedicata al Santo Sepolcro. Si
tratta in realtà di un piccolo spazio posto a destra della cappella Avanzi, chiamato
appunto cappella del Sepolcro; in essa si trova un gruppo scultoreo che raffigura un
compianto sul Cristo morto, composto da sei statue in tufo dipinto. La piccola cappella
è coperta da un soffitto a vela e sui muri conserva tracce degli affreschi originali. Le
sculture, quattrocentesche, raffigurano Cristo disteso, la Vergine svenuta e sostenuta da
due donne, San Giovanni e la Maddalena, mentre la statua di Bartolomeo Avanzi è stata
perduta. Di forte impronta mantegnesca, alcuni critici ritengono che sia addirittura opera
del maestro.
Chiesa e convento di S. Bernardino furono edificati ex novo tra il 1452 ed il 1466
per volontà dei veronesi, profondamente colpiti dal fervore delle prediche di frà
Bernardino da Siena259.
258 Benini, Le chiese di Verona cit., p. 149. 259 Ibid., p. 86.
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La reliquia del Preziosissimo Sangue
Il cimitero di Verona ha una cappella con una reliquia importante, quella del
Prezioso Sangue di Cristo.
La vicenda della realizzazione del cimitero pubblico per la città di Verona prese
avvio nel 1804, quando la Municipalità veronese ne deliberò la costruzione. Le strutture
cimiteriali allora esistenti erano presso la chiesa della Santissima Trinità, riservato alla
gente meno abbiente della città, mentre i signori e i nobili venivano generalmente
tumulati nei chiostri di San Bernardino. Prima che venisse scelto il luogo di costruzione
dell’attuale cimitero, erano state avanzate diverse proposte, tutte fallite, finché la
normativa francese di Saint Cloud (1804), recepita da un decreto cittadino del 1817,
impose per ragioni igienico sanitarie la realizzazione di cimiteri di sepoltura al di fuori
della cinta muraria della città.
Solo alla fine del 1826 venne eletto il sito attuale, posto appena al di fuori dalla Porta
Vittoria; nel 1828 il progetto definitivo, presentato dall'ingegnere architetto Giuseppe
Barbieri, l'allora capo degli ingegneri municipali, venne approvato e presero avvio i
lavori di costruzione260.
A partire dagli anni Quaranta del secolo la custodia del cimitero monumentale,
nonché l’officiatura delle celebrazioni, venne affidata ai Frati minori; nel 1881 venne
istituita la Pia Unione del Preziosissimo Sangue e del Perpetuo Suffragio presso la chiesa
del SS. Redentore del Cimitero.
La venerazione del Preziosissimo Sangue e delle annesse reliquie è presente nella
pietà cristiana da tempo remoto, ma essa conobbe una particolare diffusione a partire
dal Settecento261. La Festa dedicata al Preziosissimo Sangue di Gesù affonda le sue
radici in una celebrazione annuale legata a una reliquia custodita nella chiesa di San
260 Per il cimitero monumentale di Verona v. Lia Camerlengo, I cimiteri: i casi di Vicenza, Verona,
Padova, in Il veneto e l’Austria. Vita e cultura artistica nelle città venete 1814-1846, Milano, 1989, pp. 408-09. 261 Per la diffusione della venerazione del Preziosissimo Sangue v. Ragguaglio Storico Intorno All'Insigne
Reliquia Del Preziosissimo Sangue Di Gesù Christo N. S. Che pubblicamente si venera ella chiesa collegiata di S. Andrea da Mantova, in occasione, che per la quarta volta viene portata processionalmente per la citta, Regio-Ducale Stamperia 1799.
108
Nicola in Carcere a Roma che, secondo la tradizione, era un lembo del mantello del
Centurione che trafisse Cristo con la lancia per verificarne la morte. Quel lembo sarebbe
stato ritagliato perché bagnato da "sangue e acqua" - Gv 19, 34 - usciti dal costato di
Gesù. I principi Savelli di Roma nel 1708 donarono alla chiesa di San Nicola la preziosa
reliquia, dove ogni anno, nella prima domenica di giugno, si iniziò a celebrare la festa
del Preziosissimo Sangue, in seguito estesa universalmente da un decreto pontificio. A
partire dal XIX secolo cominciarono ad essere fondate diverse associazioni e
congregazioni pie in onore del Preziosissimo Sangue.
La presenza della reliquia del Preziosissimo Sangue di Gesù, presso la chiesa del
SS. Redentore del cimitero di Verona, pare sia dovuta a Mons. Andrea Avogadro,
vescovo di Verona dal 1790 al 1805262. Il prelato trovatosi a Venezia nel 1790 ne venne
in possesso, intingendone alcune garze da un'ampolla custodita nella chiesa parrocchiale
di san Simeone profeta. La reliquia era giunta a Venezia dopo la IV crociata nel 1204
da Costantinopoli e faceva parte delle reliquie raccolte e conservate da sant'Elena. Alla
morte di Mons. Avogrado la reliquia passò nelle mani del frate minore P. Arcangelo
Bianchi, che ne fece dono alla chiesa del cimitero, per mezzo del confratello P.
Benvenuto da Bergamo nel 1856.
262 In rete su
http://www.chiesacimiteroverona.it/index.php/il-preziosissimo-sangue/la-festa-del-preziosissimo-sangue (collegamento attivo il 10 febbraio 2017).
109
Immagini
110
Verona. Ubicazione dei luoghi menzionati
Veduta di Verona
111
Legenda:
- a, cardo e decumano
- b, cinta muraria di epoca romana
- c, cinta muraria XII secolo
- 1, San Rocchetto, Monte Cavro
- 2, San Zeno Maggiore e San Procolo
- 3, San Zeno in Oratorio
- 4, Santissima Trinità, Monte Oliveto
- 5, San Lorenzo
- 6, San Giorgio Martire in Braida
- 7, Cattedrale di Santa Maria Assunta
- 8, San Pietro Martire in Santa Anastasia
- 9, Santo Stefano
- 10, Santa Maria in Organo, Muletta
- 11, San Giovanni Battista, in Valle
- 12, S. Maria di Nazareth, Fontana del Ferro
- 13, Scala Santa, San Zeno in Monte
- 14, Santa Toscana
112
113
1 San Rocchetto
Figura 1, Facciata Chiesa di San Rocchetto
Figura 1.1, Altare e abside centrale con il S. Sepolcro e le tre croci
114
115
2 San Zeno e San Procolo
Figura 2, Facciata della Chiesa dell’abbazia di S. Zeno
Figura 2.1, San Procolo, lato verso San Zeno
116
117
3 San Zeno in Oratorio
Figura 3, San Zeno in Oratorio
118
119
4 Santissima Trinità in Monte Oliveto
Figura 4, Santissima Trinità in Monte Oliveto
120
121
5 San Lorenzo
Figura 5, San Lorenzo, particolare delle due torri scalari
122
123
6 San Giorgio Martire in Braida
Figura 6, San Giorgio Martire in Braida
124
125
7 Cattedrale di Santa Maria Assunta
Figura 7, Duomo di Verona
126
127
8 San Pietro Martire in Sant’Anastasia
Figura 8, Facciata Santa Anastasia
Figura 8.1, Arco esterno Cappella Pellegrini, San Giorgio e la Principessa
128
129
9 Santo Stefano Protomartire
Figura 9, Facciata di Santo Stefano
130
131
Verona. Ubicazione dei luoghi 10, 11, 12, 13
Cappella dell’Angelo Gabriele
12, Santa Maria di Nazareth
12.1, Fontana del ferro
11, San Giovanni in Valle.
13.1, Scala Santa
13, Chiesa di San Zeno in Monte, già Santa Maria in Betlemme
o Santa Maria in Betlemme
Via Fontana del Ferro
10, Santa Maria in Organo
132
133
10 Santa Maria Assunta, in Organo, e la Muletta
Figura 10 Facciata di Santa Maria in Organo
Figura 10.1 La Muletta, XIII secolo.
134
135
11 San Giovanni Battista, in Valle
Figura 11, Facciata di San Giovanni Battista, in Valle
136
137
Verona Nazareth
Confronto tra Verona e Nazareth
Cappella dell’Angelo Gabriele
12, Santa Maria di Nazareth
12, Fontana del ferro
Grotta di Maria, Annunciazione
Fontana della Vergine
San Gabriele Arcangelo
138
139
12 Santa Maria di Nazareth e Fontana del Ferro
Figura 12 Santa Maria di Nazareth
Figura 12.1 Fontana del Ferro
140
141
Figura 12.2 Paolo Ligozzi, 1630,
142
143
13 Scala Santa e San Zeno in Monte, già Santa Maria in Betlemme
Figura 13 San Zeno in Monte, già Santa Maria in Betlemme
Figura 13.1 Scala Santa
144
145
Verona: Veronetta. Ubicazione luoghi 14
Zona Veronetta, Porta Vescovo.
Porta vescovo
Antica Porta del vescovo, già del Sepolcro
Via Salita San Sepolcro
14, Santa Toscana
146
147
14 Santa Toscana, già Santo Sepolcro
Figura 14, Facciata di Santa Toscana.
148
149
Conclusione
Attraverso il presente lavoro ho cercato di ritrovare i riferimenti documentari ad
una tradizione che poneva la città di Verona in analogia con Gerusalemme, a partire dal
titolo che le fu assegnato sino alla disposizione urbanistica ed ai toponimi cittadini.
Durante i miei studi, condotti presso l’Archivio di Stato di Verona, ho rinvenuto
un documento manoscritto datato al 1450 che, allo stato attuale delle ricerche, sembra
essere la più antica attestazione scritta dell’esistenza di tale appellativo e di una comune
coscienza ad esso connessa. Durante la consultazione degli Atti del Consiglio del
Comune risalenti all’anno 1450, ho rinvenuto la messa per iscritto dell’approvazione da
parte del Consiglio dei Dodici e del Consiglio dei Cinquanta, dell’inserimento in
apertura agli Statuti cittadini di un nuovo proemio, redatto dal cancelliere Silvestro
Lando. In esso si narrano le vicende della fondazione mitica della città e dei successivi
sviluppi, e alcune righe sono dedicate proprio alla denominazione di Gerusalemme
minore, che a Verona venne attribuita per la somiglianza dell’intera disposizione
urbanistica.
Di tale documento si era a conoscenza solo attraverso le stampe anastatiche degli
Statuti Veronesi di media e tarda età moderna, che riportano integralmente il testo del
proemio e la sua datazione in apertura degli Statuti, e su di esse si erano basate le ricerche
degli storici che avevano toccato il tema di Verona Minor Hierusalem. Il documento è
assai interessante, poiché non solo testimonia dell’esistenza e del radicamento di una
tradizione che fa di Verona una Piccola Gerusalemme, ma ne sancisce la definitiva
ricezione da parte delle istituzioni cittadine, che in questo modo ne fanno uno degli
elementi dell’appartenenza e dell’identità cittadine. Ciò viene confermato quando, nel
1474, le autorità comunali decisero di procedere ad un cambio del sigillo, e sul nuovo
venne apposta, accostata all’immagine di San Zeno, patrono della città, la scritta
«Verona minor hierusalem di(vo) Zenoni patrono».
150
La mia ricerca non può dirsi conclusa con il presente lavoro, dal momento che
gli spunti di ulteriore approfondimento sono molteplici. Anzitutto una diffusa,
approfondita ricerca archivistica promette di svelare nuovi riferimenti documentari,
riconducibili all’epoca carolingia, che tanto ricca e produttiva fu a Verona. Non si può
inoltre escludere che possano emergere ulteriori luoghi dai richiami gerosolimitani,
soprattutto nell’antica denominazione delle vie cittadine: uno studio approfondito dei
toponimi potrebbe rivelare interessanti riferimenti che nella memoria collettiva sono
ormai andati perduti.
In questo lavoro ho cercato di inserire l’accostamento che di Verona si fece a
Gerusalemme ed alla Terra Santa nel più ampio contesto dello sviluppo che la città
conobbe durante il periodo carolingio, un periodo fiorente ma delicato sotto molteplici
aspetti: proprio la dominazione carolingia ebbe la forte necessità di trovare fonti di
legittimazione, e la sacralizzazione dei luoghi urbani in senso gerosolimitano fu almeno
parzialmente una risposta a tale esigenza. Capire in quale misura è un obiettivo che nel
presente lavoro non si può dire compiutamente raggiunto, e che merita senza dubbio che
al tema venga dedicata ulteriore attenzione, dal momento che l’epoca carolingia
costituisce per la città un passaggio cruciale affinché se ne possano comprendere gli
sviluppi futuri.
Nonostante la parzialità di cui si è detto, sembra possibile trarre alcune brevi
conclusioni. Anzitutto dalle ricerche svolte mi pare possibile affermare l’origine
carolingia dell’immagine gerosolimitana della città, che collocherebbe Verona nel
gruppo di quelle città in cui la connotazione sacra dei luoghi in senso gerosolimitano
precedette il periodo crociato: infatti in alcuni casi i riferimenti gerosolimitani presenti
in città sin dall’epoca carolingia decaddero nel periodo crociato e post-crociato.
Dalle ricerche condotte emerge altresì il ruolo di primo piano che nella sua
creazione svolse un personaggio fortemente dibattuto quale fu l’arcidiacono Pacifico. I
richiami gerosolimitani presenti in città sono troppi e troppo coerenti perché si possa
negarne il concepimento e la precisa volontà di realizzazione; senza esagerare,
ovviamente, la portata complessiva delle singole reliquie e imitationes di Terra Santa
151
sparse per la città, alcune delle quali certamente si svilupparono in seguito alla
devozione popolare e non possono dunque essere attribuite ad un disegno coerente e
pensato.
Le ragioni che mi hanno spinto a volgere la mia attenzione a questo tema sono
molteplici. Anzitutto ha contribuito il grande interesse per la storia della mia città,
soprattutto durante il periodo medievale: e proprio tale interesse ha fatto sì che venissi
a conoscenza di un interessante progetto di recupero della memoria storica veronese.
Tale progetto, ideato dalla Diocesi e patrocinato dalla Banca Popolare di Verona sotto
il nome di Verona minor Hierusalem, nasce come prosecuzione ideale di un percorso
urbanistico antico di cui fecero parte alcune chiese della città di Verona, viste come il
parallelo di luoghi della Terra Santa. L’obiettivo è quello di tenere aperte in modo
permanente alcune chiese di grande valore storico e artistico, solitamente escluse dai
pellegrinaggi e dai percorsi turistici, creando degli itinerari, ciascuno arricchito da
materiale informativo e supporti multimediali. Tale obiettivo è reso possibile dall’azione
di un gran numero di volontari di ogni età che con la propria disponibilità contribuisce
alla tutela ed alla salvaguardia del patrimonio cittadino.
All’interesse per questo progetto di recupero ho sin dall’inizio affiancato quello
per le fondamenta storiche e documentarie del fenomeno. Senza alcuna pretesa di
esaustività, spero che questo mio lavoro possa costituire un solido riferimento per tutti
coloro che si accostano all’interessante progetto «Verona Minor Hierusalem» con
l’intento di riscoprire una pagina importante della storia e della memoria cittadine.
152
153
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Atti del Consiglio del Comune, vol. 63.
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l'Occident. XIIe-XVIIIe siècle», (Nanterre, 21-23 juin 1993), vol. 213, Roma
1995, pp. 155-164
In rete su
165
http://www.persee.fr/doc/efr_0223-5099_1995_act_213_1_4943
(collegamento attivo il 16 gennaio 2017).
Codice digitale degli archivi veronesi (VIII-XII secolo), cur. Andrea Brugnoli,
http://cdavr.dtesis.univr.it/index.php/san-pietro-in-castello-fondo-veneto-
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Fondazione Don Calabria
www.doncalabria.net
Il deserto fiorirà
http://www.ildesertofiorira.org/
Mario Patuozzo, Apologia del Sole. Sol Invictus breve storia del periodo solstiziale
invernale,
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(collegamento attivo il 6 gennaio 2017)
Preziosissimo Sangue
http://www.chiesacimiteroverona.it
Treccani, biografie
www.treccani.it/biografie
Treccani, enciclopedia
www.treccani.it/enciclopedia
Veja.it
http://www.veja.it
166
Indice
Introduzione
1
Capitolo I
La Gerusalemme terrestre e la Gerusalemme Celeste
3
Il pellegrinaggio verso Gerusalemme 3
Trasposizione verso altri luoghi della Gerusalemme Celeste 14
Costantinopoli 15
Roma 20
Capitolo II
Le Gerusalemme in Italia
25
Imitazione della Gerusalemme terrestre 25
La città sospesa sull’acqua, Venezia 27
La città di Milano 29
Il Santo Sepolcro è come Santo Stefano di Bologna 30
Le città di Parma e Piacenza 34
La città di Genova 36
La città di Siena 40
La città di Firenze 40
Pisa Nova Hierusalem 43
Borgo San Sepolcro 47
Realtà del territorio pugliese 49
La città di Brindisi 50
La città di Taranto 51
La città di Barletta 52
La città di Molfetta 53
Laino Borgo 56
Capitolo III
Verona Minor Hierusalem
59
Collocazione storico-geografica di Verona 59
La dominazione franca 61
Lo scriptorium Capitulare veronese 62
L’Arcidiacono Pacifico 66
Verona Minor Hierusalem 71
La fondazione mitica della città 76
Capitolo IV
Riferimenti gerosolimitani a Verona 81
Le Sette Chiese di Pacifico 81
San Zeno 82
San Zeno Maggiore 82
San Zeno in Oratorio 83
San Procolo 84
San Pietro in Castello 85
San Lorenzo 86
Santa Maria Assunta, Matricolare 87
San Giorgio Martire, in Braida 88
Forma Urbis 89
Santa Toscana, già Santo Sepolcro 93
Santa Anastasia 95
La Scala Santa 97
San Zeno in Monte, già Santa Maria di Betlemme 98
La Fontana del Ferro e Santa Maria di Nazareth 99
San Giovanni Battista, in Valle 101
Reliquie e culti della Terra Santa 102
Santo Stefano Protomartire 102
Santa Maria in Organo e la Muletta 104
San Bernardino 106
La reliquia del Preziosissimo Sangue 107
Immagini 109
Verona. Ubicazione dei luoghi menzionati 110
Conclusione 149
Bibliografia 153
Sitografia 164