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ALMA MATER STUDIORUM UNIVERSITÀ DI BOLOGNA ________________________________________________________________________________ SCUOLA DI LETTERE E BENI CULTURALI Corso di laurea in Scienze Storiche e Orientalistiche Verona Minor Hierusalem Imitationes gerosolimitane lungo la penisola italiana Tesi di laurea in Civiltà del Basso Medioevo Relatore: Professore Berardo Pio Correlatore: Professoressa Francesca Roversi Monaco Presentata da: Giulio Doralice Appello: III __________________________________________________________________________ Anno accademico: 2015/2016

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ALMA MATER STUDIORUM – UNIVERSITÀ DI BOLOGNA

________________________________________________________________________________

SCUOLA DI LETTERE E BENI CULTURALI

Corso di laurea in Scienze Storiche e Orientalistiche

Verona Minor Hierusalem

Imitationes gerosolimitane lungo la penisola italiana

Tesi di laurea in

Civiltà del Basso Medioevo

Relatore: Professore Berardo Pio Correlatore: Professoressa Francesca Roversi Monaco

Presentata da: Giulio Doralice

Appello: III __________________________________________________________________________

Anno accademico: 2015/2016

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Voglio esprimere i miei più sentiti ringraziamenti a tutte le persone che mi

hanno aiutato, indirizzato, sostenuto durante le mie ricerche di questi mesi.

Ringrazio anzitutto la dottoressa, e collega di questi anni accademici, Chiara

Melilli che mi ha aiutato, con pazienza nel mio lavoro di ricerca e il Professor Berardo

Pio che mi ha seguito e consigliato con abilità nell’adempimento del mio lavoro.

Ringrazio in particolare i responsabili del progetto Verona Minor Hierusalem,

Paola Tessitore e Don Martino Signoretto, che si sono resi disponibili a parlare con me

del mio lavoro fornendomi contatti con professori dell’Università di Verona, generosi

e preziosi materiali per i miei studi. Inoltre ringrazio la professoressa Maria Clara

Rossi, per il precoce supporto e indirizzamento della mia ricerca, Gian Paolo Marchi,

per la sua generosa disponibilità e premura verso il mio lavoro. Ringrazio la dottoressa

Chiara Bianchini dell’Archivio di Stato di Verona che ha saputo guidarmi con abilità

nelle ricerche di archivio, consigliandomi, inoltre, preziose idee e spunti di lavoro. Un

pensiero va anche ai professori Gian Maria Varanini e Lorenzo Paolini che mi hanno

ascoltato e incoraggiato agli albori della mia tesi.

Concludo ringraziando mia madre, Rosa Anna Tirante, per avermi seguito e

supportato durante lo svolgimento del mio elaborato, insieme a tutte quelle persone

che ho avuto modo di conoscere in questo percorso di cinque anni, e a quegli amici e

famigliari che sono divenute parte della mia questa esperienza.

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Introduzione

Il presente lavoro ha come oggetto di studio il recupero di un’antica memoria

storica veronese, che individuava nella città sorta nell’ansa dell’Adige, sin dall’epoca

carolingia, una Piccola Gerusalemme. Si è trattato, nello specifico, di recuperare i

riferimenti storici e documentari che possano offrire una base storiografica ad una

tradizione che proprio negli ultimi tempi la città di Verona sta riscoprendo.

Nel primo capitolo è stato d’obbligo un inquadramento delle vicende che

portarono allo sviluppo del culto della Terra Santa e alla sua progressiva esportazione

in Oriente, a Costantinopoli, ed in Europa. Tale diffusione del culto della Passione fu

favorito dalla progressiva traslazione di reliquie o parti di esse che i pellegrini recatisi

in Terra Santa portavano con sé nel viaggio di ritorno. Così nacquero innumerevoli

luoghi di culto dal fortissimo richiamo gerosolimitano. Si trattò di un richiamo dovuto

non soltanto alla presenza fisica di reliquie della Passione, ma anche all’imitazione

architettonica delle basiliche gerosolimitane, nonché ai toponimi e alla disposizione

urbanistica delle città.

Partendo da una visione complessiva delle imitationes gerosolimitane nella

penisola italiana, nel secondo capitolo sono stati esposti i casi più significativi di

riproduzioni architettoniche nonché di reliquie presenti in varie località d’Italia. Il

complesso di Santo Stefano a Bologna, conosciuto anch’esso con il nome di Piccola

Gerusalemme; le numerose reliquie della Vera Croce, sparse un po’ dappertutto in Italia,

che furono all’origine di radicate venerazioni locali; i numerosi luoghi di culto dedicati

al Santo Sepolcro, creati ad imitazione dell’originale gerosolimitano, come la chiesa di

San Sepolcro a Pisa, di San Giovanni in Sepolcro a Brindisi oppure l’importantissima

chiesa di San Sepolcro, con annesso ospedale dei pellegrini, di Barletta; infine,

addirittura un’intera cittadina che dal suo monastero prese il nome di Sansepolcro, nome

che tuttora permane.

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E proprio l’assenza del caso veronese in tutte le ricognizioni di richiami e

riferimenti gerosolimitani in Italia mi ha spinto ad approfondire questo tema. Documenti

quattro e cinquecenteschi dicono che Verona era conosciuta con l’appellativo di Piccola

Gerusalemme, dal momento che la posizione della città, l’urbanistica e la toponomastica

presentavano non poche analogie con i luoghi di Terra Santa. Partendo da questi

documenti, che paiono far risalire tale denominazione a tempi molto antichi, addirittura

all’epoca precarolingia, nel terzo capitolo si è cercato di trovare le tracce documentarie

di quest’antica denominazione che venne attribuita alla città.

Una parte importante del lavoro riguarda anche la ricognizione dei riferimenti

gerosolimitani che, nei luoghi di culto così come nella toponomastica, si trovano sparsi

per la città di Verona. Si è trattato di recuperare, sempre facendo riferimento alla

documentazione esistente, un’antica memoria che lo sviluppo urbanistico e le

trasformazioni nella toponomastica hanno in parte cancellato.

Così nel quarto capitolo si è voluto dedicare un po’ di spazio alla descrizione di

tutti quei luoghi della città che presentano un qualche riferimento alla Terra Santa, nella

denominazione, nella collocazione geografica, o ancora nella presenza di una reliquia o

di una cappella dalla dedicazione gerosolimitana. Senza alcuna pretesa di completezza,

ho tracciato un percorso che è tanto geografico quanto cronologico: dalla prima

cattedrale veronese, alle chiese custodi dell’antichissimo culto delle reliquie dei martiri,

sino a giungere all’ottocentesco culto del Preziosissimo Sangue, cui in Verona fu

dedicata una cappella presso il Cimitero Monumentale. Ed allo stesso tempo attraverso

un percorso geografico, che ci porta dalle importanti chiese del centro medievale a

solcare il fiume verso i colli che ricordano, per la loro disposizione, quelli

gerosolimitani, e presso i quali poté sorgere addirittura una piccola Nazareth.

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Capitolo I

La Gerusalemme terrestre e la Gerusalemme celeste

Il pellegrinaggio verso Gerusalemme

La visita a Gerusalemme, la possibilità di vedere e toccare i Luoghi Santi, teatro

della vita di Cristo e del mistero della Passione, ha rappresentato sin dai primissimi

secoli dell’era cristiana e con particolare intensità durante il medioevo, il più grande

desiderio del cristiano, il compimento ed il culmine del suo percorso spirituale. Poter

camminare tra la polvere delle strade percorse da Cristo, sperimentare la salita al

Golgota, toccare con mano la pietra del Santo Sepolcro, assistere all’accensione del

“fuoco sacro”: questo attendeva quei pochi, fortunati pellegrini che riuscivano a

raggiungere la meta di quello che era considerato il viaggio per eccellenza. Un viaggio

che era tanto fisico quanto spirituale, verso una Gerusalemme che era tanto terrestre

quanto simbolica: attraversare le porte di Gerusalemme significa approdare ad una

visione di pace e di concordia, significa accedere alla Gerusalemme celeste1.

Comprendere l’essenza di questo valore simbolico è fondamentale: Gerusalemme

è una città duale, luogo fisico e luogo dell’anima, urbs e civitas, terrestre e celeste;

un’interpretazione che l’esegetica cristiana deriva direttamente dall’Apocalisse di

Giovanni (Ap 21, I-22, 5). Qui viene descritta la Gerusalemme Celeste secondo un

paradigma che sarà alla base di tutte le successive immagini prodotte dal mondo

cristiano: la vittoria di Cristo sul peccato e sulla morte daranno vita ad una nuova realtà,

un “nuovo cielo”, una “nuova terra”, ed “ogni cosa nuova”. Allora scompariranno tutti

gli elementi negativi della storia, la morte e gli inferi, e saranno sostituiti da nuovo

1 Franco Cardini, Renata Salvarani, Michele Piccirillo, Verso Gerusalemme: pellegrini, santuari,

crociati tra X e XV secolo, Rimini 2000, p. 77.

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ordine di cui la città discesa direttamente dal Cielo costituirà la perfetta sintesi. Lì si

realizzerà l’alleanza tra Dio e gli uomini. Da un monte il profeta scorge Gerusalemme,

città quadrata cinta di possenti mura, irradiata della luminosità che viene da Dio. Essa è

il punto terminale della storia, la meta che segna la fine della ricerca di senso, poiché

essa è la città universale, dimora di tutti i giusti. Nell’Apocalisse la Gerusalemme celeste

è descritta in contrapposizione a Babilonia, la città del peccato2. Pianta quadrata,

struttura cubica, mura di pietre preziose e d’oro, porte di perle lucenti3.; tutto rimanda

all’immagine della perfezione:

«E’ mi trasportò in spirito sopra un monte grande e alto, e mi mostrò la città

santa Gerusalemme che scende dal cielo da presso Dio, avendo in sé la gloria di Dio.

Il suo lume è simile a una pietra preziosissima, come pietra di diaspro dall’aspetto

cristallino. Ha mura grandi e alte, ha dodici porte, e alle porte dodici angeli, e dei nomi

sono scritti sopra, che sono i nomi delle dodici tribù dei figli di Israele. Ad oriente tre

porte, a settentrione tre porte, a mezzogiorno tre porte, e ad occidente tre porte. E le

mura della città hanno dodici basamenti, e su questi i dodici nomi dei dodici apostoli

dell’agnello. E colui che parlava con me aveva come misura una canna d’oro, per

misurare la città, le sue porte e le sue mura. E la città giace quadrangolare, e la sua

lunghezza è uguale alla larghezza. E misurò la città con la canna su dodicimila stadi;

la lunghezza e la larghezza e l’altezza di essa sono uguali. E misurò le sue mura,

centoquarantaquattro cubiti, secondo la misura umana adottata dall’angelo. E le sue

mura erano costruite in diaspro, e la città era di oro puro simile a vetro puro. I

basamenti delle mura della città erano ornati di ogni pietra preziosa: il primo

basamento è diaspro, il secondo zaffiro, il terzo calcedonio, il quarto smeraldo, il quinto

sardonice, il sesto sardio, il settimo crisolito, l’ottavo berillo, il nono topazio, il decimo

crisoprasio, l’undicesimo giacinto, il dodicesimo ametista. E le dodici porte erano

dodici perle: ognuna delle porte era formata da una perla sola. E la piazza della città

era oro puro, trasparente come vetro»4.

2 Jacques Le Goff, Il cielo sceso in terra. Le radici medievali dell’Europa, Bari 2010, p. 139. 3 Alberto Grohmann, La città medievale, Bari 2010, p. 26. 4 Ap 21, 10-21.

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Questo luogo lucente e trasparente è destinato a restare un’immagine letteraria,

che non riesce a tradursi nell’iconografia: così gli artisti che si cimentano nella sua

raffigurazione utilizzano materiali preziosi, oppure traducono la quadrangolarità

descritta da Giovanni in un’altra forma che di per sé simboleggia la perfezione: il

cerchio5.

Questa Gerusalemme celeste risulta allacciata in misura fortissima a quella

terrestre, tanto da attrarla a sé e con essa l’umanità intera nel suo divenire. Gerusalemme

è la città ideale per antonomasia, e in sé racchiude tutti gli elementi di perfezione della

società urbana che in essa si specchia. La città è il luogo del rifugio, del riposo, della

sicurezza che si contrappongono al disordine ed al pericolo che si collocano all’esterno.

Ed è così che gli artisti, pittori, scultori e miniatori, la recepiscono e la propongono: una

cerchia di mura che protegge gli abitanti, al di fuori della quale il paesaggio è arido,

deserto, privo di alberi e di vita. Anche il Paradiso terrestre è rappresentato come una

città, una città dalla quale Adamo ed Eva vengono cacciati, dopo aver compiuto il

peccato originale, destinati a vivere nel dolore6.

Come nasce la tradizione cristiana del pellegrinaggio ai Luoghi Santi? Il

pellegrinaggio cristiano si fonda sulla tradizione ebraica della salita verso la Città Santa

e sulla consuetudine del viaggio verso un santuario o un luogo connotato da un’aura di

sacralità, tradizione ben radicata nel mondo greco-romano. Le radici del pellegrinaggio

cristiano si ritrovano anche in illustri esempi biblici, sia del Vecchio che del Nuovo

Testamento: da Adamo che dovette abbandonare l'Eden, ad Abramo, Isacco e Giacobbe

che peregrinavano senza una fissa dimora, o come il popolo d'Israele che errò nel

deserto. Il pellegrinaggio cristiano, tuttavia, si distingue sin dalle origini da ogni altra

forma devozionale presente in altri culti, che pur conoscono l’idea di viaggio verso un

Luogo Sacro, per una ragione fondamentale: il pellegrinaggio cristiano si dirige verso i

luoghi che serbano una testimonianza storica del passaggio di Gesù sulla terra, della Sua

Incarnazione, Morte e Resurrezione. Per gli ebrei Gerusalemme è il luogo privilegiato

della dimora di Dio tra gli uomini, il punto della terra in cui Dio ha stretto il suo patto

5 Grohmann, La città medievale cit, pp. 27-28. 6 Ibid., p. 26.

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con Israele; ma per il cristiano Gerusalemme è soprattutto il luogo storico della Passione

di Gesù Cristo, insieme alla figura escatologica della Gerusalemme celeste apocalittica7.

A parte alcuni leggendari pellegrinaggi, appartenenti già al I secolo d.C., ma

attestati in fonti tardive e della cui storicità è lecito dubitare, è a partire dal II-III secolo

d.C. che la pratica del pellegrinaggio comincia a diffondersi lentamente: ricordiamo a

titolo di esempio il viaggio di Firmiliano vescovo di Cappadocia, che si recò in

Terrasanta nel 230, e la cui vicenda è ricordata negli scritti di San Gerolamo ed Eusebio

da Cesarea8. Si trattava di un pellegrinaggio perlopiù individuale, praticato da una

ristretta élite, il cui scopo sembra essere stato quello di verificare e chiarire dubbi di

natura biblica e teologica, oltre ad una ovvia pratica devozionale. Il pellegrinaggio a

Gerusalemme divenne per i cristiani pratica diffusa e radicata, secondo le modalità che

ci sono note, solo a partire dal 313 d.C. con l'editto di Costantino e Licinio e la

conseguente libertà di culto che esso assicurò: da allora è attestata l’esistenza di gruppi

di pellegrini anche piuttosto numerosi. Fu proprio nel periodo costantiniano, inoltre, che

venne avviato un programma di recupero e valorizzazione dei luoghi santi ed in

particolare di Gerusalemme: egli avrebbe promosso, secondo la tradizione, la

costruzione, sul sito che venne individuato come il luogo della crocifissione di Cristo,

di un’ampia basilica.

Protagonista importante di questo processo di sacralizzazione dei luoghi di Cristo

è Sant’Elena, la madre dell’imperatore Costantino, che si convertì al Cristianesimo in

seguito alla conversione del figlio. Nel 326, spinta da Macario vescovo di Gerusalemme,

che l’imperatrice aveva incontrato al Concilio di Nicea dell’anno precedente, Elena,

ormai ottantenne, intraprese un viaggio attraverso le province orientali dell’impero che

la portò in Terra Santa, sui luoghi in cui si erano consumati gli avvenimenti descritti dai

Vangeli. In quell’occasione edificò molte chiese e compì diversi atti di pietà cristiana,

ma la sua fama è, da allora, soprattutto legata al ritrovamento della Vera Croce di Gesù

e di altre reliquie9. Da questo momento si sviluppò un intenso culto della Passione e

7 Cardini, Salvarani, Piccirillo, Verso Gerusalemme cit., p. 10-12. 8 Ibid, p. 10. 9 Franco Cardini, Gerusalemme: una storia, Bologna 2012, pp. 69-70.

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della Morte di Cristo. Il leggendario ritrovamento della Vera Croce è narrato da diversi

storici: la versione più diffusa è quella narrata nel capitolo XVII della Storia

ecclesiastica di Teodoreto di Cirro10.

«Quando l'imperatrice scorse il luogo in cui il Salvatore aveva sofferto,

immediatamente ordinò che il tempio idolatra che lì era stato eretto fosse distrutto, e

che fosse rimossa proprio quella terra sulla quale esso si ergeva. Quando la tomba, che

era stata così a lungo celata, fu scoperta, furono viste tre croci accanto al sepolcro del

Signore. Tutti ritennero certo che una di queste croci fosse quella di nostro Signore

Gesù Cristo, e che le altre due fossero dei ladroni che erano stati crocifissi con Lui.

Eppure non erano in grado di stabilire a quale delle tre il Corpo del Signore era stato

portato vicino, e quale aveva ricevuto il fiotto del Suo prezioso Sangue. Ma il saggio e

santo Macario, governatore della città, risolse questa questione nella seguente maniera.

Fece sì che una signora di rango, che da lungo tempo soffriva per una malattia, fosse

toccata da ognuna delle croci, con una sincera preghiera, e così riconobbe la virtù che

risiedeva in quella del Signore. Poiché nel momento in cui questa croce fu portata

accanto alla signora, essa scacciò la terribile malattia e la guarì completamente».

Con la Croce furono anche rinvenuti i Sacri Chiodi, che Elena portò via con sé a

Costantinopoli. Scrive sempre Teodoreto nel capitolo XVII della Storia ecclesiastica:

«[Elena] fece trasportare parte della croce di nostro Signore a palazzo. Il resto fu chiuso

in un rivestimento d'argento e affidato al vescovo della città, che fu da lei esortato a

conservarlo con cura, affinché potesse essere tramandato intatto ai posteri».

Le vicende che narrano del viaggio a Gerusalemme di Elena e le circostanze dei

suoi ritrovamenti sono avvolte da una complessa leggenda, che talvolta si sdoppia e

dirama in direzioni diverse, con particolari più o meno divergenti nell’una e nell’altra11.

Sappiamo che, oltre al ritrovamento della Vera Croce, una volta giunta a Gerusalemme

10 Teodoreto di Cirro, originario di Antiochia, fu vescovo della città di Cirro in Siria nella prima metà

del V secolo. Importante scrittore ecclesiastico, fra le sue opere si annovera soprattutto la Historia ecclesiastica, continuazione di quella di Eusebio da Cesarea, che copre il periodo che va da Costantino al 428. v. Quintino Cataudella, Teodoreto di Ciro, in Enciclopedia Italiana, Roma 1937, in rete su www.treccani.it/enciclopedia .

11 Cardini, Gerusalemme cit., pp. 69-72.

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Elena individuò tre Luoghi Santi degni di particolare devozione: un sepolcro scavato

nella roccia, collocato sotto il tempio di Giove che l’imperatrice fece demolire, nella

quale vennero trovati i resti della Vera Croce; una grotta naturale sul Monte degli Ulivi

all’interno della quale, secondo la tradizione, Gesù avrebbe istruito i discepoli ed

insegnato loro la preghiera del Padre Nostro; e infine un’altra grotta naturale, quella di

Betlemme12. Costantino, con il consiglio e l’appoggio dei membri più influenti della

Chiesa, dovette far proprie le scoperte e le istanze della madre. Così incaricò gli

architetti imperiali, pochi anni dopo la fondazione della Nuova Roma, Costantinopoli,

di utilizzare modelli architettonici e simbolici tratti dalle due capitali dell’impero, per

costruire tre santuari, nella forma che allora i cristiani andavano privilegiando, ovvero

quella della basilica, a tre o cinque navate. Così venne fondata la Gerusalemme

cristiana, per risacralizzare in senso cristiano una città, dimenticandone il passato

ebraico e superandone l’aspetto pagano.

Le tre Basiliche vennero erette con la medesima struttura: il Martyrium, la

basilica vera e propria; un atrio colonnato e chiuso e infine la cripta, centro cultuale

dell’intero santuario, corrispondente nelle tre basiliche ai tre Luoghi Santi individuati

dalla madre di Costantino. Quest’ultima struttura era chiamata, nella basilica situata

all’interno della cerchia muraria di Gerusalemme, Anàstasis, che in greco significa

Resurrezione, ed era costituita dalla cisterna in cui erano stati ritrovati i resti della Croce;

nella Basilica costruita sul Monte degli Ulivi la cripta era costituita dalla grotta

dell’insegnamento di Gesù ai discepoli, mentre nella basilica della Natività di Betlemme

la cripta corrispondeva alla grotta della nascita13.

Presto altre chiese iniziarono a sorgere, valorizzando se non addirittura creando

nuovi Luoghi Santi: è molto difficile sapere se determinati culti si sono mantenuti dai

tempi di Gesù Cristo sino al momento della costruzione di un santuario, oppure se siano

stati recuperati in un secondo momento, o addirittura inventati14.

12 Cardini, Salvarani, Piccirillo, Verso Gerusalemme cit., p. 12. 13 Cardini, Gerusalemme cit., pp. 72-73. 14 Ibid., p. 74.

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Testimone di queste imprese edilizie che cambiarono il volto della città fu il

vescovo Eusebio di Cesarea15. Egli fu incaricato di tenere il discorso inaugurale il giorno

in cui terminarono i lavori e la basilica dell’Anastasys fu aperta a tutti, nel 335, ed ha

riportato traccia di quegli eventi nei suoi scritti. Così riporta: «Così presso lo stesso

testimonio salvifico veniva edificata la nuova Gerusalemme di fronte all’altra ben nota

nell’antichità», riferendosi alla Gerusalemme biblica, la cui memoria la riedificazione

romana della città non era riuscita a cancellare. Nel 70 d.C., infatti, Gerusalemme era

stata in gran parte distrutta dai soldati romani in seguito ad una rivolta, la prima, del

popolo giudaico contro Roma e l’allora imperatore Vespasiano. Nel 130 a.C.

l’imperatore Adriano ne decise la ricostruzione e la dedizione come colonia romana,

causando una seconda, durissima rivolta del popolo ebraico; la città prese il nome di

Aelia Capitolina, venne fornita di una cinta muraria con porte monumentali, di un

sistema di strade lastricate di impianto ortogonale, nonché di una serie di edifici pubblici

e privati. Sull’impianto di epoca romana si sviluppò nei secoli successivi la città

cristiana, che inglobò molti edifici dell’epoca precedente, che vennero trasformati per

lo più in chiese e luoghi di culto che vennero via via connessi ad episodi del Vangelo16.

Sempre secondo Eusebio di Cesarea, Costantino fece seppellire il corpo di sua

madre in uno splendido mausoleo che lo stesso imperatore aveva fatto realizzare a

Roma. Nella seconda metà del XII secolo le spoglie dell’imperatrice vennero trasferite

nella basilica dell’Ara Coeli sul Campidoglio, e da questo momento cominciò a

svilupparsi un intensissimo culto delle spoglie di Sant’Elena, e con esso si diffuse e

cominciò ad essere conosciuta la tradizione che individuava nella madre di Costantino

colei che aveva riportato alla luce i resti della Vera Croce; tradizione ch’era andata

scomparendo dalla memoria collettiva durante i primi secoli del Medioevo17.

La cristianizzazione di Gerusalemme, realizzata a partire dall’epoca

costantiniana attraverso la costruzione di luoghi di culto, fece crescere in maniera

15 Eusebio di Cesarea (265 – 340), vescovo di Cesarea nel 313, fu consigliere e biografo di Costantino I.

v. Alberto Pincherle, Eusebio di Cesarea, in Enciclopedia Italiana, Roma 1932, in rete su www.treccani.it/enciclopedia .

16 Cardini, Gerusalemme cit., pp. 53-63. 17 Chiara Mercuri, La Vera Croce, Roma-Bari, 2014, pp. 154-55.

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consistente il flusso di pellegrini, rendendo necessaria la riorganizzazione della città

affinché potesse accogliere un numero sempre più consistente di stranieri giunti in

pellegrinaggio, ma anche di popolazione che cominciò a stabilirvisi in maniera

definitiva. Dopo la visita di Sant’Elena la città cominciò infatti a ripopolarsi, e così

sorsero nuovi edifici, ospizi per i pellegrini e anche numerosi monasteri per quei

religiosi che vi giungevano e decidevano di stabilirsi per sempre nei luoghi dove s’era

consumata la Passione di Gesù Cristo. Dopo Sant’Elena altri illustri pellegrini vi

giunsero, soprattutto da Costantinopoli: Eutropia suocera di Costantino, l’imperatore

Teodosio, oltre ai Padri della Chiesa Anastasio, Basilio e Gregorio di Nissa18.

Di quest'antica epoca abbiamo quale preziosa testimonianza, fra le altre, la

descrizione della pellegrina Egeria, o Etheria, nobildonna proveniente dalla Gallia o,

come si è oggi propensi a ritenere, dalla Galizia, recatasi a Gerusalemme in

pellegrinaggio attorno al 380. Egeria redasse un resoconto lungo ed accurato dei luoghi

visitati, nonché delle pratiche religiose riscontrate in ognuno di essi, conosciuto come

Itinerarium Egeriae, che inviò alla sua comunità religiosa19. Ella descrisse, fra le altre

pratiche, la venerazione della Vera Croce:

«Quindi una sedia viene posta per il vescovo sul Golgota dietro la Croce, che

adesso è in piedi; il vescovo prende posto sulla sedia, e davanti a lui viene posta una

tavola coperta di un panno di lino; i diaconi stanno in piedi attorno alla tavola, e

vengono portati uno scrigno argentato in cui si trova il sacro legno della Croce e la

condanna, e posati sul tavolo. Lo scrigno viene aperto e [il legno] viene preso, e sia il

legno che la condanna vengono posati sul tavolo. Ora, quando viene messo sul tavolo,

il vescovo, sedendosi, mantiene con fermezza le estremità del sacro legno, mentre i

diaconi fermi tutto attorno lo sorvegliano. Esso viene così sorvegliato perché è

tradizione che le persone, sia i fedeli che i catecumeni, vengano una alla volta,

inginocchiandosi davanti al tavolo, per poi baciare il sacro legno e allontanarsi. E a

causa di ciò, non so quando successe, si dice che qualcuno abbia morso e quindi rubato

18 Cardini, Gerusalemme cit., p. 79. 19 Mercuri, La Vera Croce cit., pp. 23-4.

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una scheggia del sacro legno, ed è quindi sorvegliato dai diaconi che stanno

tutt'attorno, nel caso che uno di quelli che vengono dovesse tentare di farlo di nuovo. E

quando le persone passano una ad una, tutte inchinandosi, toccano la Croce e la

condanna, prima con la fronte e poi con gli occhi; poi baciano la Croce e passano, ma

nessuno stende la mano per toccarla. Quando hanno baciato la Croce e si sono

allontanati, un diacono regge l'anello di Salomone e il corno con cui venivano

Consacrati i Re; baciano il corno e guardano l'anello».

Come dimostra la testimonianza della pellegrina Egeria, sin dai primissimi secoli

l’esperienza del pellegrinaggio è frequentemente stata riportata in resoconti e memorie,

che costituiscono oggi per noi una fonte preziosissima per la ricostruzione di quelle

vicende e soprattutto dei sentimenti che animavano coloro che intraprendevano il lungo

viaggio verso la Terra Santa. A partire da allora nasce un nuovo genere letterario-

memorialistico, gli Itineraria in Terrasanta, spesso accompagnati da un genere affine e

talvolta coincidente, le Descriptiones. Si tratta di testi nei quali descrizioni geografiche

e monumentali della Terrasanta sono accompagnate da espressioni di devozione e

sentimento religioso. In questi testi si trovavano anche informazioni dal carattere più

pratico: venivano annotate le distanze, le tappe del viaggio, i servizi di cui il pellegrino

poteva usufruire a Gerusalemme e durante il percorso. Indicazioni scarne che tuttavia

manifestano già un’esigenza importante, quella di fornire indicazioni utili per i

viaggiatori, per visite brevi così come per soggiorni più lunghi20.

Oltre alla fondamentale testimonianza di Egeria, che già abbiamo citato, va

ricordato l’Itinerarium a Burdigala Hierusalem usque, databile tra il 333 ed il 334,

redatto da un pellegrino anonimo, generalmente noto come il Pellegrino di Bordeaux.

Questo testo è antesignano di una lunga tradizione: si tratta del primo testo appartenente

a questo genere letterario che ci sia pervenuto, redatto proprio in quegli anni in cui si

stava realizzando la grande trasformazione monumentale della Città Santa21.

20 Cardini, Salvarani, Piccirillo, Verso Gerusalemme cit., p. 12. 21 Ibid.

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Pellegrini partirono, in questi primissimi secoli, anche dall’Italia: ricordiamo il

vescovo di Brescia Gaudenzio, il vescovo di Cremona Eusebio, nonché un anonimo

piacentino che ci ha lasciato un prezioso Itinerarium databile al IV secolo.

Poco più di un secolo dopo la visita di Sant’Elena un’altra imperatrice, Eudossia

moglie di Teodosio II, allontanata dalla corte di Costantinopoli in seguito ad una vicenda

oscura e piuttosto complessa, compì un lungo viaggio a Gerusalemme ed in seguito

decise di stabilirvisi. L’imperatrice dette impulso ad una serie di opere pubbliche, fondò

una serie di chiese e promosse la fioritura di nuovi culti, dotando Gerusalemme di nuovi

Luoghi Santi verso i quali dirigere la pietà e la devozione dei pellegrini che vi

giungevano sempre più numerosi. Molti aristocratici decidevano di abbandonare Roma,

ormai avviata ad un lento ed inesorabile declino sia monumentale che di prestigio, per

stabilirsi nella Città Santa22.

Così il prestigio di Gerusalemme cresceva: personaggi illustri vi si recavano e

decidevano di stabilirvisi, la sua popolazione aumentava e così la sua capacità di

accoglienza. La posizione di semplice diocesi suffraganea della sede di Cesarea era

divenuta ormai insufficiente, e così nel Concilio di Calcedonia del 451 fu attribuito alla

città il titolo di Chiesa patriarcale, con autorità su tutte le comunità ecclesiastiche di

Palestina e d’Arabia23.

Reduci dalla Terrasanta, i pellegrini cominciano ben presto a recare con sé

piccole reliquie, di vario tipo e natura, che servivano perlopiù ad arricchire i tesori di

edifici sacri o, più spesso, a consacrare edifici di nuove costruzioni. Così l’Europa iniziò

a riempirsi di reliquie sante che, provenienti dalla Terrasanta, sacralizzarono i luoghi

dove venivano poste: così si svilupparono centri noti come luoghi depositari di sacre

reliquie, ed è così che prese avvio quel processo che avrebbe portato alla nascita delle

Nuove Gerusalemme.

22 Cardini, Gerusalemme cit., pp. 79-80. 23 Ibid., p. 80.

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Il viaggio stesso delle reliquie sviluppava virtù sovrannaturali e lasciava dietro di

sé una scia di altre, minime ma non per questo meno potenti o significative come

reliquie: ogni più piccola particella mantiene intatte le virtù della grande reliquia da cui

proviene. Il termine reliquia significa “resto, parcella”: fu proprio la necessità di

rispondere alla crescente richiesta di reliquie si sviluppò la pratica di smembrare corpi e

oggetti in parcelle sempre più piccole. Secondo quanto già sostenuto dal vescovo

Paolino di Nola nel V secolo, le reliquie avevano la prerogativa di mantenere intatto

tutta la loro virtus, anche in una piccolissima parcella. Presto la Chiesa stabilì una vera

e propria gerarchia nella classificazione delle reliquie, e pose al vertice quelle associabili

alla vita di Cristo; a seguire, per importanza, vi erano i resti dei santi, corpi o parti di

essi, ma anche oggetti loro appartenuti; vennero infine considerate reliquie quei

frammenti di stoffa che, posti a contatto con il corpo di un santo o con la sua tomba,

erano stati intrisi della medesima virtù. Con le reliquie nacque poi un’altra categoria di

oggetti sacri, che nel Medioevo conobbero uno sviluppo ed un’importanza notevole: i

reliquiari, oggetti atti ai contenere i frammenti dei corpi e degli oggetti sacri; realizzati

in metallo e pietre preziose, essi accrebbero il potere evocativo della nozione di reliquia

nell’immaginario comune, associandola all’inestimabile preziosità degli stessi24.

Così, i pellegrini cominciarono a portare con sé frammenti delle reliquie; spesso

queste parcelle venivano sparse in luoghi diversi, magari sul percorso che riportava i

pellegrini a casa dalla Terrasanta; l’Oriente e l’Europa si riempirono di reliquie, e con

esse, a partire da esse, si moltiplicarono i luoghi santi25. Questi luoghi santi non sono,

dunque, semplicemente scoperti: si tratta di vere e proprie creazioni, instaurazioni; i

luoghi santi sono distribuiti nello spazio secondo logiche precise. È una vera e propria

“politica dei luoghi”26, una politica che si volge a quei luoghi che sono in cerca di

legittimazione: come abbiamo visto, Costantino fa del possesso e della risignificazione

dei luoghi uno dei cardini della sua politica di potenza e della sua immagine pubblica.

Ed è dunque, oltre che verso Roma, proprio verso Costantinopoli, la nuova capitale

dell’impero in cerca di legittimazione, che Costantino indirizza le reliquie provenienti

dalla Terrasanta.

24 Mercuri, La Vera Croce cit., pp. 95-6. 25 Cardini, Salvarani, Piccirillo, Verso Gerusalemme cit., p. 12. 26 Giovanni Ferraro, Il libro dei luoghi, cur. Giovanni Caudo, Milano 2001, p. 353.

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Trasposizione verso altri luoghi della Gerusalemme Celeste

Come abbiamo osservato, per il cristiano dei primissimi secoli la Gerusalemme

terrestre e la Gerusalemme celeste si fondono nella città della Terra Santa. Da un certo

momento in poi, secondo modalità precise e per una serie di ragioni che andremo di

seguito ad analizzare, la Gerusalemme terrestre e quella celeste cominciano a poter

essere separate. La Gerusalemme celeste, carica di spiritualità e di significati simbolici,

viene traslata all’esterno della Gerusalemme terrestre, e ciò avviene mediante

l’esportazione di parti materiali, o imitationes, dalla Gerusalemme terrestre verso altri

luoghi, che ne assumono così la sacralità o che da essa traggono legittimazione.

Quando e dove inizia questo processo di acquisizione, da parte di altri luoghi, della

Gerusalemme celeste? I primi luoghi, Nuove Gerusalemme, a ricevere le preziose

reliquie sono Roma e Costantinopoli, le capitali dell’Impero.

Secondo la tradizione, come abbiamo visto, il ritrovamento della Croce avvenne

grazie all’intervento di Elena in collaborazione con il vescovo di Gerusalemme Macario.

Tra i materiali rinvenuti vi sarebbero stati, oltre alla Croce di Cristo, quella di uno dei

ladroni, la spugna, i chiodi, il titulus della Croce, la corona di spine, la lancia27.

Secondo la tradizione, le reliquie rinvenute da Elena a Gerusalemme sarebbero

state inviate al figlio, l’imperatore Costantino, e da egli divise tra le due capitali

dell’Impero, Roma e Costantinopoli. Per quanto concerne la sede cui furono destinate

le reliquie della Passione a Roma, il Liber Pontificalis28 riporta che esse furono poste

nella Chiesa di Santa Croce in Gerusalemme, basilica romana fondata attorno alla metà

del IV secolo e nota allora con il nome di Hierusalem, nome che attesterebbe la volontà

di dotare la capitale di una propria “Gerusalemme interna”.

27 Mercuri, La Vera Croce cit., p. 21. 28 Tommaso Braccino, Reliquie della Passione da Costantinopoli alla Toscana, in Come a

Gerusalemme. Evocazioni, riproduzioni, imitazioni dei luoghi santi tra Medioevo ed Età Moderna, cur. Anna Benvenuti-Pierantonio Piatti, Firenze 2013 (Toscana Sacra, 4), p. 164.

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Costantinopoli

Simile volontà si ritrova nella Nuova Roma, Costantinopoli: secondo la notizia

riportata da Socrate Scolastico nella prima metà del V secolo, una reliquia della Vera

Croce sarebbe stata inserita per volontà di Costantino all’interno della statua che lo

ritraeva, eretta sulla colonna del suo foro. A partire dal VI secolo a Costantinopoli

comincia ad essere attestato un uso di reliquie all’interno di cerimonie pubbliche, e la

città acquisisce fama di luogo depositario e centro di diffusione di reliquie.

All’inizio del VII secolo la conquista persiana del Medio Oriente, in particolare

della Siria e della Palestina, nell’ambito di un lungo scontro che contrapponeva l’Impero

bizantino a quello Sasanide29, venne a minacciare direttamente Gerusalemme e la

posizione ch’essa aveva assunto. Iniziò una lunga fase di turbolenze e conquiste che

portò infine al trasferimento di tutte le reliquie a Costantinopoli. Il 5 maggio del 614,

dopo venti giorni di assedio, i persiani di Cosroe30 entrarono a Gerusalemme: le truppe

compirono massacri e saccheggi, la Vera Croce fu presa e portata a Ctesifonte, come

dono per la regina di Persia, di religione cristiano-nestoriana. Il furto della reliquia più

sacra di tutta la cristianità fu un’umiliazione ed un oltraggio grandissimo, e la reazione

bizantina non si fece attendere. L’imperatore Eraclio31 imperniò la propria trattativa con

i persiani su due punti fondamentali: la restituzione dei territori bizantini conquistati da

Cosroe e la riconsegna della reliquia della Vera Croce. Tutte le fonti attribuiscono

grande enfasi all’impegno che Eraclio profuse per ottenere quest’ultimo punto: è

indubbio che il furto della reliquia, se certamente fu usato a scopo propagandistico per

29 Mercuri, La Vera Croce cit., pp. 49-58. 30 Khusraw II Parwīz (propr. "il vittorioso"), noto con il nome di Cosroe II. Sovrano sasanide, regnò dal

590 al 628. Ebbe dapprima a lottare contro l'usurpatore Bahrām Ciōbīn, debellato il quale guidò vittoriose

campagne contro i Bizantini, e giunse (614) a conquistare Gerusalemme, donde i Persiani asportarono la reliquia della croce. v. Khusraw II Parwīz, in Enciclopedie on line, in rete su www.treccani.it/enciclopedia .

31 L’imperatore Eraclio fu il Fondatore della dinastia che regnò dal 610 al 717. Nacque nel 575 da Eraclio,

nobile d'origine armena, esarca d'Africa. Fatto uccidere Foca, fu incoronato dal patriarca Sergio (5 ottobre 610). Respinta la pace offerta da Eraclio, nel 611, i Persiani di Cosroe II occuparono successivamente parte della Cappadocia, l'Armenia, la Cilicia, la Siria, la Palestina. Da Gerusalemme, caduta nel maggio 614, essi asportarono il santo legno della croce, ciò che produsse una viva emozione nel mondo cristiano. La sua opera fu bruscamente interrotta dall'invasione araba. Nel 636 gli Arabi occuparono la Siria e la Palestina. v. Angelo Pernice, Eraclio imperatore d'Oriente, in Enciclopedia Italiana, Roma 1932, in rete su www.treccani.it/enciclopedia .

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il recupero dei territori perduti, dovette rafforzare il sentimento di identità cristiana e

compattare il contrattacco bizantino. La guerra si protrasse per oltre vent’anni, finché

tra il 629 ed il 630 Eraclio riuscì ad ottenere, in seguito ad una trattativa diplomatica, la

restituzione della Vera Croce, che venne riportata a Gerusalemme. Durante il saccheggio

persiano, essa non fu l’unica reliquia ad essere trafugata: altre subirono danneggiamenti,

altre furono nascoste, altre ancora andarono perdute. Quelle che furono recuperate non

vennero più riposte nei luoghi dove si trovavano in precedenza, per il timore che fossero

nuovamente danneggiate o sottratte. Una nuova invasione, infatti, a distanza di pochi

anni, minacciava Gerusalemme: quella musulmana. Memore di quanto accaduto con il

saccheggio persiano, il patriarca di Gerusalemme, Sofronio, inviò le reliquie sulla costa

perché da lì raggiungessero Costantinopoli. Tra il 636 ed il 637 la città fu posta sotto

assedio, finché non si arrese con la promessa, da parte del califfo Omar, che nessuna

distruzione sarebbe stata compiuta.

Oltre alla Vera Croce, giunsero così a Costantinopoli anche la Spugna e la Lancia;

anche la Corona di Spina giunse a Costantinopoli da Gerusalemme, ma probabilmente

molto più tardi, alla fine del X secolo32.

Principale ed originale luogo di conservazione delle reliquie a Costantinopoli era

Santa Sofia: è qui infatti che originariamente era conservata la reliquia della Vera Croce,

conservata in una cassa di legno sistemata all’interno di un armadio, dal quale veniva

estratta in determinate occasioni. Altre chiese, a Costantinopoli, destinate alla raccolta

di reliquie, si trovavano all’interno del palazzo imperiale; tra queste la più importante,

tanto da divenire Nova Hierusalem, la chiesa della Theotokos del Faro. Attestata per la

prima volta nel 769, questa chiesa si trovava all’interno del Grande Palazzo,

precisamente nella zona del Bukoleon, complesso di edifici datati per lo più al VI-VII

secolo, che insistevano su un terrazzamento affacciato sul Mar di Marmara e

caratterizzato dalla presenza, nelle sue vicinanze, di un faro, da cui appunto la chiesa

deriva il suo nome33. La chiesa del Faro divenne la cappella palatina per eccellenza, in

cui si svolgevano cerimonie imperiali come l’investitura e le nozze dei sovrani, e in cui

32 Tommaso Braccini, Reliquie della Passione da Costantinopoli alla Toscana, in Come a Gerusalemme

cit., pp. 165-166. 33 Ibid., p. 166.

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l’imperatore assisteva alle liturgie della Settimana Santa e della Pasqua; tra queste era

particolarmente solenne quella del Venerdì Santo, del cui rito faceva parte l’adorazione

della Santa Lancia, mentre la venerazione solenne della reliquia della Vera Croce aveva

luogo in questa chiesa nella domenica di Mezza Quaresima e il 1° agosto.

Tuttavia, nella prima metà del X secolo la chiesa del Faro non aveva ancora

assunto la caratteristica di grande reliquiario; la stessa reliquia della croce non era

conservata in questo luogo bensì presso il Grande Palazzo, da cui veniva estratta nelle

occasioni citate.

Tutte le successive reliquie di Cristo che giunsero a Costantinopoli andarono ad

arricchire le due chiese palatine, in particolare durante i regni di Niceforo II Foca34 e

Giovanni Zimisce35, i principali responsabili della riconquista all’impero di territori in

Siria e Palestina. Tale espansione militare in Oriente generò un nuovo consistente

afflusso di reliquie dai luoghi santi. In effetti, il primato assoluto della chiesa del Faro

come ricettacolo delle più preziose reliquie imperiali giunse, probabilmente, con Basilio

II Bulgaroctono36.

A partire dalla dinastia macedone, intorno al 975, il luogo principale deputato

alla custodia delle reliquie della passione divenne la chiesa della Theorokos del Faro, la

quale andò assumendo tra X e XI sec, le sembianze di una Gerusalemme “in nuce”. In

seguito l’esposizione da parte degli imperatori delle reliquie contribuirà alla creazione

della Costantinopoli Gerosolimitana, ed anche a livello liturgico vi era comparazione

con Gerusalemme giacché nella chiesa del Faro era adottata la liturgia gerosolimitana.

Nel 1171 il re di Gerusalemme, Almalrico37, fece visita all’imperatore Manuele

34 Niceforo II Foca (912-969), originario della Cappadocia fu uno dei più brillanti generali bizantini

dell’Impero Romano d’Oriente. v. Angelo Pernice, Niceforo II Foca, imperatore d'Oriente, innEnciclopedia Italiana, 1934, in rete su www.treccani.it/enciclopedia.

35 Giovanni I Zimisce (924circa -976), generale romano sotto Niceforo II Foca, assassinò quest’ultimo e

divenne suo successore al titolo imperiale. v. Francesco Cognasso, Giovanni I Zimisce, imperatore d'Oriente, in Enciclopedia Italiana, Roma 1933, in rete su www.treccani.it/enciclopedia .

36 Basilio II Bulgaroctono (958-1025), fu imperatore bizantino, il nome “bulgaroctono” gli fu attribuito

in quanto “distruttore di bulgari”. v. Angelo Pernice, Basilio II, soprannominato Bulgaroctono, imperatore d'Oriente, in Enciclopedia Italiana, Roma 1930, in rete su www.treccani.it/enciclopedia.

37 Amalrico I re di Gerusalemme. - Figlio cadetto (1135 circa - 1174) di Folco d'Angiò e della regina Melisenda, successe nel 1162 al fratello Baldovino III. v. Francesco Cognasso, Amalrico I, re di Gerusalemme, in Enciclopedia Italiana, Roma 1929, in rete su www.treccani.it/enciclopedia .

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Comneno38 per vedere la raccolta completa delle reliquie della passione: Costantinopoli

era divenuta davvero la nuova Gerusalemme39. Le reliquie furono osservate e venerate

in modo analogo all’arrivo dei crociati: la nuova Gerusalemme era all’interno del

palazzo, la Croce costituiva la reliquia imperiale per eccellenza.

Il valore della nuova Gerusalemme costantinopolitana è quello che

Costantinopoli costituisce una nuova Terra Santa e soprattutto una nuova Gerusalemme:

troviamo questo concetto espresso per la prima volta lucidamente nelle orazioni di

Nicola Mesarite, teologo e diacono di Santa Sofia, in particolare nella nota orazione

funebre ch’egli scrisse per la morte del fratello Giovanni, avvenuta nel 1204. Alcuni

anni prima della morte del fratello, questi aveva tentato un pellegrinaggio a

Gerusalemme; non essendoci riuscito, si era sentito dire dal padre che il tentativo era

sostanzialmente inutile, poiché Gesù si era fatto conoscere in Palestina ma ormai le

reliquie della passione si trovavano lì, a Costantinopoli; là c’è la tomba, il calvario, ma

lì, a Costantinopoli, la nuova Gerusalemme, ci sono la Croce, la Corona, la Spugna, la

Lancia, il Sudario… «Questo luogo,» - riferendosi a Costantinopoli - «figlio mio, è

Gerusalemme, Tiberiade, Nazareth, il monte Tabor, Betania e Betlemme, e partecipa

della Salvezza»40. Costantinopoli è dunque - una - Nuova Gerusalemme, che sostituisce

in tutto la vecchia, anche come fonte di reliquie del Signore e della Passione.

La posizione di Costantinopoli muta decisamente dopo la Quarta Crociata:

indirizzata, per perseguire gli interessi di Venezia, verso Costantinopoli piuttosto che

contro il mondo islamico, la spedizione portò nel 1204 ad un durissimo saccheggio della

città da parte dei crociati, che rimase profondamente impresso negli animi e contribuì

ad un raffreddamento dei rapporti tra l’Europa occidentale e quella orientale. In seguito

alla spedizione si formarono i cosiddetti Regni latini d’Oriente, la cui posizione si rivelò

38 Manuèle I Comneno (1123 circa - 1180) imperatore d'Oriente, salì al trono nel 1143. Consentì nel 1147

il transito agli eserciti della 2a Crociata. Alla morte di Ruggero II di Sicilia, il Comneno tentò la riconquista dell'Italia meridionale, ma nel 1158 i Bizantini dovettero lasciare il suolo italiano. Nell'Italia centrale e in Dalmazia, Venezia, dapprima sua alleata contro i Normanni, gli mosse una guerra marittima rovinosa per l'Impero. v. Francesco Cognasso, Manuele I Comneno, imperatore d'Oriente, in Enciclopedia Italiana, Roma 1934, in rete su www.treccani.it/enciclopedia .

39 Braccini, Reliquie della Passione cit., p. 168. 40 Ibid., p. 171.

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tuttavia ben presto alquanto precaria. Senza addentrarci, in questa sede, in una

ricognizione delle complesse vicende che ne seguirono, ci interessa però il furto ed il

trafugamento di reliquie che venne perpetrato in occasione del sacco di Costantinopoli

da parte dei latini.

Per avere un’idea della quantità e della preziosità delle reliquie che erano a

Costantinopoli è interessante riportare l’elenco di quelle trafugate dal solo dal vescovo

di Halbertstadt per onorare la sua chiesa: un’ampolla con il sangue di Gesù; un pezzo

della Vera Croce; parte del Santo Sepolcro; una parte della Corona di spine; una parte

del Santo Sudario; un frammento del tessuto che aveva impressa la faccia di Cristo; la

spugna e la canna della Crocefissione; capelli della Vergine Maria e alcuni suoi

indumenti; una parte della testa e dei capelli di Giovanni Battista oltre che un suo dito e

alcuni suoi indumenti; una tibia, capelli e frammenti di abiti di San Pietro; un pezzo

della carne di San Paolo e reliquie di San Andrea; un braccio dell’apostolo Simeone; la

testa di san Giacomo; la scapola dell’apostolo Filippo; un braccio dell’apostolo Barnaba;

parte della testa di Stefano, il primo martire, insieme al gomito; un braccio del papa

Clemente; reliquie di San Lorenzo, San Procopio, San Teodoro, San Demetrio, Abele,

San Martiniano, San Pantalone, San Ermolao, San Ermagora; un dito di San Nicola;

reliquie di San Giovanni Crisostomo, San Giovanni Elemosinaro, San Gregorio, San

Basilio; la mano e braccio di Sant’Eufemia; reliquie di Santa Lucia, Santa Margherita,

Santa Caterina, Santa Barbara, e molti altri santi martiri, confessori e vergini41.

Lo stesso Roberto di Clari, semplice cavaliere, portò a Corbie, al suo ritorno in

Francia, cinque pezzi della vera Croce; un po’ del Santo Sangue, un frammento del

tessuto che copriva i lombi di Cristo quando era sulla croce, una parte della corona di

spine, una parte della spugna e circa 45 reliquie di persone o di cose42.

Luigi IX, re di Francia, nel 1241, provenienti da Costantinopoli, ricevette, con altre

reliquie, una parte della vera Croce che custodì nella cappella fatta appositamente

costruire nel suo palazzo. Ancora, reliquie della Passione di Cristo furono portate in

41 Charles M. Brand, Byzantium confronts the west 1180-1204, Cambridge, Massachusetts, 1968, pp. 264-

65. 42 Ibid., pp 265.

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Europa, specialmente in Francia, dopo la caduta di Antiochia (1268), di Tripoli (1289),

di Acri e di Tiro (1291).

Questi lunghi e dettagliati elenchi ci permettono di comprendere quanto ormai

Costantinopoli fosse diventata ricettacolo privilegiato delle reliquie provenienti dalla

Terra Santa; e di capire allo stesso tempo come una delle missioni, coscientemente insita

negli obiettivi delle Crociate, fosse proprio quella di portare le preziose reliquie in

Europa, soprattutto dopo la rottura del mondo latino con la scismatica capitale d’Oriente.

La storia delle reliquie costantinopoliane non terminò, ovviamente, con le Crociate: la

conquista turca del XVI secolo fu un evento di portata grandissima per la cristianità

tutta, ed arrecò l’ultima insanabile ferita ad una città ormai in forte declino.

Roma

La ricerca del contatto reale con il sacro, che proietta nel presente storie ascoltate

o lette nei testi biblici, muove masse di pellegrini che cercano testimonianze materiali

della propria fede. Così è stato che «una nuova vera e propria Jerusalem translata –

peraltro assai più ricca e a volte più suggestiva di quella palestinese, ormai

drammaticamente impoverita dalle spoliazioni crociate e dai furti di tanti pellegrini – si

andava componendo, città dopo città e chiesa dopo chiesa, davanti agli occhi del

cristiano occidentale»43.

Le difficoltà sempre maggiori incontrate dai pellegrini nell’affrontare il viaggio

in Palestina, unitamente alla volontà politica dei pontefici di affermare il primato di

Roma, consegnano all’Urbe il titolo di seconda Gerusalemme. Dalla celebrazione della

presenza e del martirio degli apostoli Pietro e Paolo44, fino alla progressiva quanto

43 Ferdinando Molteni, Memoria Christi. Reliquie di Terrasanta in Occidente, Firenze 1996, p. 9. 44 In questo lavoro si è trattato in maniera pressoché esclusiva delle reliquie della Passione di Cristo,

provenienti dalla Terra Santa; non va assolutamente dimenticato che il fenomeno delle reliquie fu molto più vasto e si estese ai corpi e a tutti quegli oggetti che erano venuti in contatto con i numerosi santi.

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incessante raccolta di reliquie provenienti dalla Terra Santa, tutto mira all’esaltazione

della nuova Gerusalemme. Una città Santa «sempre più vicina, smontata in Palestina e

ricostruita, pezzo dopo pezzo, appena fuori l’uscio di casa, ma non per questo meno

luminosa e rievocativa»45.

Accanto a Costantinopoli, meta privilegiata in cui confluiscono le reliquie

provenienti da Gerusalemme è l’altra grande capitale dell’Impero: Roma.

Secondo alcune delle versioni della tradizione relativa al ritrovamento dei Luoghi

Santi e delle reliquie da parte della madre dell’imperatore una parte delle reliquie

sarebbe stata inviata dalla stessa Elena direttamente a Roma. Reliquie provenienti dalla

Terrasanta erano visibili già nei primi secoli in molte chiese romane: frammenti della

roccia della natività erano custoditi nella chiesa dedicata alla Vergine, mentre la colonna

della flagellazione si trovava in Santa Prassede; i vimini della flagellazione erano visibili

in San Luigi, le funi con cui era legato Cristo in Santa Croce ed in Santa Maria Ara

Coeli. La basilica di San Giovanni in Laterano, con il Sancta Sanctorum e la Scala Santa,

e la Basilica di Santa Croce di Gerusalemme erano i luoghi più sacri e con la maggior

concentrazione di reliquie di Cristo. In Santa Maria Maggiore erano visibili il fieno della

mangiatoia portato a Roma, come vuole la leggenda, dall’imperatrice Elena, e parti della

stessa mangiatoia erano conservate a San Giovanni in Laterano46.

Una parte consistente delle reliquie della Passione sarebbe, secondo la tradizione

riportata fra le altre fonti dal Liber Pontificalis47, confluita nella chiesa di Santa Croce

in Gerusalemme, in Roma. Questo santuario, fondato attorno al 350, è particolarmente

rilevante perché attesta di quella volontà di esportazione della Gerusalemme celeste

dalla terrestre attraverso la traslazione delle reliquie, e dell’immenso prestigio che esse

erano in grado di donare ad una città che fosse riuscita ad appropriarsene. Questo

santuario era noto, semplicemente, con il nome di Hierusalem: una scelta che testimonia

45 Molteni, Memoria Christi cit., p. 11. 46 Mercuri, La Vera Croce cit., pp. 133-38. 47 Il Liber Pontificalis è un testo il cui titolo è stato dato nel XV sec. ad una raccolta di notizie relative ai

vescovi di Roma, scritte in età diverse e continuamente aggiornate. Non vi sono dati i vari autori, le fonti e il periodo nel quale i vari componimenti sarebbero stati eseguiti; nonostante ciò rimane una fonte di prima importanza per la storia medievale non solo della Chiesa, ma anche della città di Roma e di tutto l’Occidente.

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sia della volontà di dotare la vecchia capitale di una propria Gerusalemme interna, sia

del valore topopoietico attribuito alla collezione delle reliquie della Passione48.

Le notizie che abbiamo a proposito della collezione delle suddette reliquie sono,

ovviamente, in bilico tra storia e leggenda, e non consentono certo di lasciarsi andare ad

affermazioni certe: ma, del resto, quel che in questa sede interessa indagare non è tanto

la verità fattuale, bensì il prestigio ed il significato che il possesso più o meno reale o

più o meno autentico di tali oggetti sacri era in grado di conferire ad una città. Di certo

si sa che, ad un certo momento, le reliquie vi furono poste e che nel 350 la Basilica, un

tempo palazzo di Eliogabalo, divenne tale con il nome di Hierusalem: questo il nome

con cui venne chiamata almeno sino al XI secolo. Assieme ai chiodi, alla croce e al

titulus, vi era stata trasportata anche la sacra terra del monte del Calvario; ogni elemento

era teso a ricreare a Roma il luogo in cui si era compiuto il sacrificio di Cristo.

L’importanza della Basilica è testimoniata dal fatto che, nel corso degli anni e dei secoli,

furono intraprese dai pontefici numerose iniziative per abbellirla, arricchirla e

restaurarla; gli stessi pontefici la scelsero come luogo privilegiato per importanti

cerimonie liturgiche49.

Nel corso dei secoli del Medioevo, il culto delle reliquie conobbe a Roma un

grandissimo sviluppo. Privilegiato ricettacolo di reliquie provenienti dalla Terra Santa,

luogo di martirio dei santi Pietro e Paolo, sede pontificale: Roma, soprattutto quando si

fece difficoltoso il viaggio verso la Terra Santa a causa delle vicende politiche che

interessarono i territori del Medio Oriente, divenne la meta privilegiata di pellegrinaggio

della cristianità europea.

La ricerca della Gerusalemme traslata culminò infine nel grandioso progetto di

un pontefice: la volontà del trasporto fisico del Santo Sepolcro da Gerusalemme nella

penisola italiana. Il pontefice in questione è Sisto V50: figura di grande rilievo su vari

fronti, egli è noto in particolare per gli interventi urbanistici che impostarono il volto

48 Mercuri, La Vera Croce cit., pp. 148-150. 49 Chiara di Fruscia, Roma come Gerusalemme? Reliquie e memorie di Cristo nell’Urbe, in Come a

Gerusalemme cit., p. 615 nota 17. 50 Sisto V papa, Felice Peretti (1520 o 1521-1590) fu eletto papa nel 1585. v. Giorgio Candeloro, Sisto V

papa, in Enciclopedia Italiana, Roma 1936, in rete su www.treccani.it/enciclopedia .

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della Roma moderna, ma costosi e disinvolti nei confronti di molti insigni monumenti

dell’antichità e dei primi secoli della Chiesa, col pretesto di riutilizzare i materiali o per

sostituirli con nuovi edifici. Dovette suscitare meraviglia grande ed entusiasmo una sua

particolare ambizione: nell’Avviso del 18 febbraio 1587, l’annuncio di un sensazionale

progetto. Papa Sisto V era fermamente intenzionato ad acquistare il Santo Sepolcro, a

qualsiasi prezzo.

«Si va dicendo, che ‘l Pontefice ha un pensiero gloriosissimo di volere, cioè

redimere di mano del Turco il santo sepolcro et servirsi in questo traffico delli più

omnipotenti mezzi, senza riguardo di qual si voglia somma di denari, che la Porta di

Costantinopoli adimandi, et di quali si voglia eccessiva spesa, che co vada per havere

quel felicissimo sasso, che fu arca del nostro Redentore»51.

Del centro del mondo cattolico, la splendida Roma di Pietro, Sisto avrebbe fatto

una nuova Gerusalemme, trapiantandovi il cuore della vecchia Gerusalemme. Un

progetto stupefacente che, secondo il papa, doveva essere realizzato attraverso le armi e

non con il denaro, strappando il Santo Sepolcro ai Turchi, oramai padroni anche di

Costantinopoli; un progetto stupefacente ma al contempo controverso, tanto che lo

stesso pontefice era consapevole del sacrilegio insito in una simile traslazione, danno

incalcolabile considerando che gli stessi Turchi si erano dimostrati rispettosi dei Luoghi,

più dei cristiani, data la disinvolta pratica di questi ultimi di asportazione di frammenti

e reliquie da Gerusalemme e dalla Terra Santa.

Contrari al progetto papale erano i Frati Minori, i quali detenevano per altro la

custodia del Santo Sepolcro a Gerusalemme sin dal primo Duecento. L’Ordine avrebbe

perso il controllo e la gestione dei luoghi santi a Gerusalemme e il convento dei Minori

a Venezia avrebbe perduto il ruolo chiave nel contesto del monopolio veneziano dei

viaggi per la Terra Santa. Nel 1590 venne pubblicata una Oratione rivolta a Sisto V,

nella quale il dissenso verso il progetto ideale del pontefice era sviluppato e articolato

in quattro punti cardine. In primo luogo si invitava a non lasciar affievolire «l’eterno

51 Cristiano Marchegiani, Il Santo Sepolcro da Gerusalemme a Roma, in Come a Gerusalemme cit., p.

742.

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stimolo di vendetta» al fine di «rihavere il sepolcro di Christo, e levarlo di mano de

cani» e solo «per via d’arme», evitando quindi l’acquisizione per denaro, rievocando lo

spirito crociato di San Bernardo di Chiaravalle. La seconda ragione era il misticismo del

periglioso, ma allo stesso tempo sublime, viaggio dei pellegrini decisi raggiungere la

Terra Santa, un viaggio irto di pericoli e disagi; disagi tuttavia proporzionati alla

salvezza delle anime presso Dio. La terza ragione era che una volta portato il Santissimo

Sepolcro in Italia, a Roma, si avrebbe ottenuto il risultato di infiacchire i Cristiani nella

spinta verso una eventuale guerra santa: bisognava piuttosto recuperare Gerusalemme

con le armi e con il sangue vendicarla dagli infedeli. La quarta ragione era una

pragmatica riflessione sulle difficoltà tecniche e logistiche di gestione dell’immenso

afflusso di pellegrini che, dal mondo, avrebbero raggiunto la oramai facile, facilissima

meta: tale sarebbe stata una Roma con il Santo Sepolcro.

La critica francescano-veneziana fece probabilmente riflettere il pontefice che,

forse anche a causa di una crisi di coscienza verso quel luogo sacro che è il Santo

Sepolcro, nonché in considerazione delle difficoltà pratiche che un tale progetto

comportava, giunse infine a riconsiderare il suo proposito. E così lo stesso pontefice, in

un colloquio con l’ambasciatore veneziano nel 1588, sembrava sul punto di orientarsi

verso un progetto più modesto, quello di un pellegrinaggio a Gerusalemme: «che vorria

far anco un altro viaggio al santissimo sepolcro»52.

52 Cristiano Marchegiani, Il Santo Sepolcro cit., p. 745 nota 10.

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Capitolo II

Le Gerusalemme in Italia

Imitazioni della Gerusalemme terrestre

L’imitazione della Gerusalemme terrestre assume, via via che percorriamo le

varie tappe della penisola italiana, forme e modalità differenti.

La replica può assumere, essenzialmente, tre diverse tipologie:

- memoriale e devozionale, identificazione piena dei fedeli con gli elementi della

Passione e della Resurrezione attraverso reliquie e liturgie che da esse ne derivano.

- topomimetica, concepita per riprodurre in architettura le gerosolimitane.

- parziale, impostata cioè sulla riproduzione di un singolo elemento che diventa

il perno della liturgia e della devozione53.

Nelle pagine che seguono troviamo, così, città e luoghi in cui il richiamo a

Gerusalemme si esprime attraverso l’imitazione topografica, ovvero attraverso una

distribuzione dei luoghi di culto che richiama quella della Città Santa; altrove è la

presenza di reliquie traslate dalla Terra Santa a caricare un luogo di culto di quella

spiritualità che rimanda a Gerusalemme; per ultimo, possono essere l’imitazione

architettonica o l’intitolazione a persone e luoghi della Terra Santa a conferirle tale

spiritualità.

53 Renata Salvarani, La fortuna del Santo Sepolcro nel Medioevo. Spazio, liturgia, architettura, Milano

2008, p. 133.

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L’istanza di legittimazione spinse le città italiane a procurarsi le reliquie il cui

significato in Occidente diventava sempre più importante e si intensificava con i rapporti

nascenti verso l’Oriente cristiano. La simbologia trasferiva con le reliquie in Occidente

la sacralità memoriale della Terra Santa, in Italia, nei Comuni, rafforzando anche gli

antagonismi tra le città comunali e in Europa. Le leggende dei sacri cimeli, rielaborate

per lo più tra XIII e XIV secolo, giustificarono il prestigio religioso municipale

coniugandosi con le istanze politiche.

Al di là dei singoli casi, che andremo nelle prossime pagine ad esplorare, è

fondamentale comprendere come ciò che determinò la fortuna di questi edifici imitativi

non fu la fedeltà estetica, per esempio, delle linee del Santo Sepolcro in Gerusalemme,

bensì il trasferimento della memoria e del carico di spiritualità della Passione e dei

luoghi di Cristo di quelle terre lontane.

Costruttori e committenti non ricercavano una fedeltà tecnica e architettonica

dell’originale cui si ispiravano, bensì il richiamo figurativo e sentimentale di quei

simboli religiosi.

Come è stato scritto, «non possiamo certo aspettarci un aggiornamento costante

e una fedeltà filologica che non erano né nell’ordine delle possibilità tecniche, né in

quello degli atteggiamenti mentali degli uomini del XII secolo. Per cui può ben darsi

che dopo il restauro crociato […] in Occidente vi fossero commissionatori e progettisti

che – ispirandosi a testi o a modelli precedenti – continuassero tranquillamente a

costruire “copie” degli edifici della Città Santa ispirate alla situazione precedente»54.

La vastità, la complessità, l’articolazione del complesso gerosolimitano doveva

colpire fortemente i pellegrini del Medioevo: difficile ipotizzare, dunque, la

progettazione di una sua replica integrale. Più semplice e diretta doveva essere

l’imitazione di singoli elementi: architettonici, come la pianta circolare che conosce

grande diffusione nelle basiliche europee, oppure devozionali.

54 Franco Cardini, Riproduzioni occidentali del S. Sepolcro, in 7 Colonne & 7 Chiese. La Vicenda

ultramillenaria del complesso di Santo Stefano, cur. Francesca Bocchi, Bologna 1987, p. 47.

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Difficoltà tecniche, dunque, ma anche un atteggiamento mentale che era alieno

da un’aderenza formale dell’imitazione, ma che concepiva quest’ultima piuttosto come

una riproduzione di significato, di valore simbolico.

Per l’uomo medievale la copia non riveste, in rapporto all’immagine da cui

proviene, la medesima posizione che la mentalità moderna è solita attribuirle. Nel

momento in cui un’immagine viene replicata, la replica che ne risulta cessa di essere la

riproposizione di un modello originario e assume essa stessa un valore pieno, di assoluta

legittimità.

Così «la Gerusalemme […]» replicata «[…] non era una semplice copia dei

Luoghi Santi; si credeva che attraverso la combinazione dell’immagine, della

consacrazione e dei riti religiosi la stessa Città Santa potesse essere ricollocata, ricreata

così come era, in un altro posto»55. Si credeva che la santità e i valori spirituali fossero

insiti in persone, luoghi e oggetti che, se spostati, portavano con sé le proprie qualità.

La città sospesa sull’acqua, Venezia

A Venezia l’imitazione dell’Anastasis è testimoniata a partire dall’Alto

Medioevo. Sono numerose le chiese che attraverso riproduzioni, affreschi ed elementi

scultorei, hanno evocato il Santo Sepolcro.

Venezia era forse il luogo di incontro e scambio per eccellenza con l’Oriente,

visto che con le Crociate divenne un solido crocevia di compravendita di reliquie, da

quelle più importanti, come quelle della Sainte Chapelle conservata a Parigi a quelle

meno. Lo stesso corpo di San Marco, patrono della città, venne trafugato da due mercanti

e portato alla Serenissima.

55 Beatrice Borghi, La Basilica di Santo Stefano in Bologna, in Come a Gerusalemme cit., p. 606.

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La reliquia più preziosa si trova nella chiesa di Santa Maria Gloriosa dei Frari,

dove è conservato il Preziosissimo Sangue, un balsamo con gocce di sangue di Cristo

che, secondo la tradizione, sarebbero state raccolte dalla Maddalena.

Altre importanti reliquie sono la Vera Croce e la Corona di Spine.

La presenza di reliquie così importanti a Venezia non vuole essere solamente una

conferma della sua supremazia politica e del suo ruolo di potere: essa implica una

religiosità ben più profonda, come veniva dimostrato dalle varie processioni cittadine.

Era un tentativo da parte delle istituzioni e della cittadinanza di Venezia di percepirsi

come città perfetta56.

Questo ideale di perfezione si esprime con il simbolismo dei luoghi dove uomo

e Dio si erano incontrati e manifestati, la Gerusalemme terrestre e la Gerusalemme

celeste. L’ideale urbano di Venezia si presta ad essere Gerusalemme celeste attraverso

l’acqua e la propria sospensione sulle acque della laguna57. Inoltre Venezia, al centro

dei contatti con l’Oriente e cardine per essi, è anche al il centro del mondo delle cose

degli uomini, come Gerusalemme è l’ombelico del mondo.

Venezia è anche legata alla Terra Santa e a Gerusalemme per il fatto di essere la

città da cui tradizionalmente partivano i lunghi viaggi marittimi per l’Oriente e la

Palestina. La città iniziò ben presto a mettere a disposizione ogni anno un consistente

numero di galee per il solo trasporto dei pellegrini. Si crearono servizi per i fedeli accolti

nella città, dove sorgevano ospedali, dove si incontravano negozianti che vendevano

indumenti e cibo, armatori che noleggiavano le galee: l’intera comunità era partecipe.

Con un numero sempre maggiore di pellegrini di diverse provenienze e lingue, la

Serenissima istituì una magistratura per la tutela di questi viandanti che si accingevano

a salpare58. La Serenissima deteneva forse il monopolio dei viaggi in Terra Santa,

organizzando viaggi a cadenze regolari. Il prestigio che Venezia si era guadagnata da

questa particolare navigazione era dovuto alla precisione delle norme e alla rigidità negli

statuti marittimi, che garantivano sicurezza e professionalità superiori che nessun’altro

56 Silvia Rapispada, Venezia e Gerusalemme, in Come a Gerusalemme cit., p. 480. 57 Ibid. 58 Ibid., p. 482.

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porto mediterraneo era in grado di offrire. Gli armatori giunsero anche a offrire tariffe

agevolate ai meno abbienti che dovevano affrontare il viaggio59.

Agli occhi del pellegrino si apriva una città, porta d’Oriente, ricca di reliquie

provenienti dalla Terra Santa, insieme ad una generosa devozione e accoglienza.

Per questi motivi i pellegrini indicavano spesso Venezia come nuova

Gerusalemme.

La città di Milano

Anche il Santo Sepolcro di Milano può essere descritto all’interno del fenomeno,

fiorito durante il movimento crociato, delle “imitazioni” di luoghi devozionali ispirati

alla tradizione gerosolimitana. Tuttavia la chiesa milanese non ha riprodotto le strutture

architettoniche delle città medievali.

Il Santo Sepolcro di Milano è l’espressione della partecipazione di una città allo

sforzo della crociata, al ricordo di essa e dei luoghi salvati60. La riproduzione è data

dall’edicola rappresentata dal sarcofago trecentesco che doveva contenere la terra di

Gerusalemme riportata dalla Terra Santa dai Crociati. Attorno ad esso dovevano

svolgersi mimesi di liturgie e processione, in grado di sostituirsi alle originali

d’Oltremare.

L’edificio, inizialmente intitolato alla Santissima Trinità, venne edificato nella

prima metà del XI secolo, e la datazione è ritenuta tale dagli studiosi61 che si basano su

due documenti del 1034 e 1066.

La ricostruzione della chiesa, strettamente legata alla crociata del 1099, fu avviata

dopo il ritorno dei primi crociati nel 1100. La chiesa del Santo Sepolcro, venne

59 Silvia Rapispada, Venezia e Gerusalemme, in Come a Gerusalemme cit., p. 483. 60 Samuele Briatore, Il Santo sepolcro a Milano, in Come a Gerusalemme cit. 61 Briatore, Il Santo Sepolcro cit., p. 490.

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rimaneggiata e riconsacrata, la nuova intitolazione convive con la precedente sino al

XIII secolo, quando scompare quella di Santissima Trinità.

Il ritorno del gruppo di crociati milanesi dopo la difficile conquista di

Gerusalemme conferì alla chiesa un importante valore e significato di ricordo del

sacrificio della città in Terra Santa. La riconsacrazione assunse così una connotazione

di voto. Nella consacrazione l’Arcivescovo fece riferimento all’impresa crociata

stabilendone una ricorrenza ad anniversario come memoria della conquista della Terra

Santa. Venne inoltre stabilito dall’Arcivescovo che fosse concessa l’indulgenza per i

peccati commessi a chi, non avendo potuto recarsi a Gerusalemme, si fosse recato al

Santo Sepolcro di Milano62.

Il Santo Sepolcro è come Santo Stefano di Bologna

Bologna possiede un particolare complesso monasteriale, tradizionalmente

denominato “Sette Chiese”, al quale fu conferito anche l’appellativo di Hjerusalem

bononiensis, attestato alla fine del IX secolo: questo complesso è Santo Stefano63.

Questo gruppo di edifici rappresenta una delle più compiute riproduzioni esistenti

della chiesa del Santo Sepolcro di Gerusalemme e ha lasciato nel corso della storia una

significativa impronta civile e religiosa nella comunità bolognese64.

Gli studiosi65 ritengono che con ogni probabilità in origine si intese riprodurre

simbolicamente la città di Gerusalemme per dotare Bologna di luoghi atti ad evocare la

Passione. Risale alla fine del IX secolo un documento, il diploma di Carlo III il Grosso,

nel quale si fa riferimento ad un Stephanum qui vocatur Sancta Hierusalem66.

62 Briatore, Il Santo Sepolcro cit., p. 492. 63 Borghi, La Basilica di Santo Stefano in Bologna cit., p. 578. 64 Salvatore Cosentino, Bologna tra la tarda antichità e l’alto Medioevo, in Storia di Bologna. Bologna

nel Medioevo, Bologna 2007, pp. 7-104. 65 Borghi, La Basilica di Santo Stefano in Bologna cit., 579. 66 Si ricorda del diploma di Carlo il Grosso in B. Borghi, La Basilica di Santo Stefano in Bologna cit., p.

579 nota 6.

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La vicenda del complesso passa dalla leggenda alla storia: la tradizione fa risalire

tra gli anni 431- 450, la fondazione di Santo Stefano da parte del Vescovo Petronio67. È

plausibile che San Petronio (successivamente sarebbe divenuto patrono della città)

avesse portato delle reliquie da un pellegrinaggio in Terra Santa.

Secondo la Vita Sancti Petronii episcopi et confessoris, Petronio avrebbe

ricostruito la città di Bologna dopo le devastazioni di Teodosio I e costruito il complesso

delle “Sette Chiese”68.

In età precomunale, tra la fine dell’XI secolo e l’inizio del XII, si verificano dei

cambiamenti nei riferimenti della devozione dei vari centri urbani in Italia. Si

incomincia ad assistere all’affermazione del culto dei santi vescovi locali, che si

inseriscono in un processo di legittimazione delle nuove comunità urbane e senso di

appartenenza di queste.

È in questo contesto che a Bologna avviene la riscoperta di una figura, Petronio,

che diventa patrono e santo protettore della città, fondamentale per la definizione di una

religiosità civica della città. Vennero rinvenute le sue reliquie nella chiesa di Santo

Stefano nel 1141 e da quel giorno, il 4 ottobre, si stabilì di dedicare tale ricorrenza alla

festa di San Petronio.

Siamo di fronte al recupero di memoria da parte di una comunità, la città di

Bologna, di una memoria antica capace di legittimare e consolidare la sua identità civica,

in un periodo in cui le città italiane incominciavano un percorso di autonomia,

indipendenza e prestigio cittadino: l’età comunale.

Con la riproduzione del Santo Sepolcro, Bologna ambiva a rappresentare

Gerusalemme, la città ideale, la meta superiore.

«In tutta Italia le città emergenti come Bologna, furono accostate a Gerusalemme

e al Paradiso. Si tendeva a paragonare la città medievale alla Gerusalemme

trascendentale […]»69

67 Paolini Lorenzo, Petronio, Santo, in Dizionario biografico degli Italiani, vol. 82, Roma 2015, pp. 750-

754. 68 Borghi, La Basilica di Santo Stefano in Bologna cit., p. 581. 69 Ibid., p. 585.

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La maggior parte degli studiosi dubbiosi sulle origini petroniane di Santo Stefano

si divide tra chi respinge completamente ogni origine del complesso di Santo Stefano

attribuita a S. Petronio e alla sua intenzione di riprodurre gli edifici sacri della Città

Santa, ritenendo invece che il complesso attuale sia una copia tardo-medievale del Santo

Sepolcro, e chi ritiene che il riferimento a Gerusalemme riguardi una Santa martire di

nome Gerusalemme70.

Benché la maggior parte degli storici abbia posto l’attenzione sulla autenticità

della fondazione da parte di Petronio, studi più recenti71 hanno portato il dibattito

sull’architettura di Santo Stefano in un’altra direzione, ovvero sulla somiglianza del

complesso gerosolimitano di Santo Stefano al Santo Sepolcro frutto del restauro di

Costantino Monomaco nel 104872, prima che i crociati lo ricostruissero. Tale

interpretazione è plausibile poiché tra XI e XII secolo i monumenti in Terra Santa

vennero meglio conosciuti, considerato che il ricordo di Gerusalemme era vivo insieme

a quello delle Crociate.

In Santo Stefano è evidente la volontà dei costruttori, così come in altri luoghi in

Italia, di portare la basilica del Santo Sepolcro da Gerusalemme nella città, per i cittadini

e per tutte le persone che non potevano compiere il viaggio.

In riferimento a ciò è singolare ed interessante il legame tra Santo Stefano e San

Giovanni in Monte, complesso costruito su un colle artificiale di terra di riporto. Oltre

all’imitazione architettonica del complesso di Santo Stefano e topografica con il colle

di San Giovanni in Monte, vi era una liturgia sorprendentemente simile alla celebrazione

liturgica di Gerusalemme nel giorno delle Palme73.

Ribadendo un concetto:

«non possiamo certo aspettarci un aggiornamento costante e una fedeltà

filologica che non erano né nell’ordine delle possibilità tecniche, né in quello degli

atteggiamenti mentali degli uomini del XII secolo. Per cui può ben darsi che dopo il

70 Borghi, La Basilica di Santo Stefano in Bologna cit., pp. 585-586-587. 71 Ibid., p. 586. 72 Distrutto nel 1009 dal califfo Hakim, il Santo Sepolcro, fu ricostruito nel 1042 dall'imperatore

Costantino Monomaco. I crociati vi aggiunsero in seguito una basilica e numerose cappelle. 73 Una celebrazione simile a quella liturgica di Gerusalemme che commemorava l’entrata di Cristo.

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restauro crociato […] in Occidente vi fossero commissionatori e progettisti che –

ispirandosi a testi o a modelli precedenti – continuassero tranquillamente a costruire

“copie” degli edifici della Città Santa ispirate alla situazione precedente.»74

I pellegrini ambivano raggiungere la Gerusalemme celeste, ma giungerci

attraverso la Gerusalemme terrestre non era cosa da tutti. Così anche Bologna creò la

sua Gerusalemme celeste, con la sua sacralità, divenendo importante meta di

pellegrinaggio per tutti.

Una conferma dell’importanza della meta bolognese giunge da uno scritto

relativo ad un itinerario del XIV secolo, di tale Frate Antonio da Cremona. Ciò che ha

colpito gli studiosi è il riferimento a Bologna e alla chiesa di Santo Stefano: Frate

Antonio durante la sua sosta alla basilica del Santo Sepolcro paragona questa alla chiesa

di Santo Stefano in Bologna e alla sua struttura. Egli non solo riconduce il Santo

Sepolcro a Santo Stefano ma non descrive il santuario di Gerusalemme limitandosi a

paragonarlo a quello bolognese:

«Ecclesiam autem praeedictam Sepulcri si vultis scire, quomodo facta est,

videatis ecclesiam Bononiae sancti Stephani. Non eadem est toto orbe veneranda»75

Nel corso dei secoli sono aumentate costantemente le reliquie custodite nel

complesso di Santo Stefano e, nel Tardo Medioevo, sono state dedicate diverse cappelle

alla Passione di Cristo, segno di un legame che si faceva sempre più vivo ai luoghi

gerosolimitani, e segno di una necessità di soddisfazione di una crescente devozione dei

numerosi pellegrini che vi giungevano.

Santo Stefano così divenne una meta ultraterrena, un viaggio dell’anima, per tanti

pellegrini.

74 Cardini, Riproduzioni occidentali cit. 75 v. Borghi, La Basilica di Santo Stefano in Bologna cit., p. 603 nota 95.; v. Fr. Antoni De Reboldis de

Crmona Ord Min., Itinerarium ad Sepulcrum Domini (1327) et ad Montem Sinai (1330), in Biblioteca bio-bibiografica della Terra Santa e dell’Oriente Francescano, di G. Golubovich, Tomo III (dal 1300 al 1332), Firenze 1919, p. 335.

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Le città di Parma e Piacenza

Le città di Parma e Piacenza, per la loro importante posizione geografica, situata

la prima al centro della pianura Padana, lungo l’itinerario della via Francigena e la

seconda accanto al fiume Po, erano non solo importanti punti per i traffici commerciali,

ma anche luoghi di passaggio e centri di ospitalità per i viaggiatori e i pellegrini.

La città di Parma ebbe una sua fondazione, il complesso dedicato al S. Sepolcro,

ma le notizie relative alla data della fondazione sono imprecise.

Qualche breve accenno si trova in un’opera Settecentesca, scritta da padre Irnerio

Affò, dedicata alla storia della città in epoca medievale. Nella sua opera si fa riferimento

alla prima crociata del 1101 a cui avrebbero partecipato membri delle famiglie parmensi;

in essa si riporta il desiderio dei crociati che erano rientrati a casa: voler riproporre ed

edificare chiese gerosolimitane a similitudine del Sepolcro di Gerusalemme. Alcuni

studi recenti seguono la fondazione della chiesa basandosi sui dati del volume

settecentesco mentre altri ritengono promotori del complesso parmense i canonici del S.

Sepolcro di Gerusalemme, anticipando la costruzione al 1100 della chiesa e

dell’ospedale76.

Probabilmente chi riuscì a tornare a Parma, intorno al 1104 avendo negli occhi la

visione di Gerusalemme e dei sancti Dei Sepulcri, sentì la necessità di promuovere la

costruzione di un luogo che favorisse la preghiera dell’Anastasis.

Nelle carte parmensi anteriori all’XI secolo non è mai citata una chiesa dedicata

al S. Sepolcro, mentre gli studiosi hanno rinvenuto un documento dove è citata in un

testamento del 1136, nel quale viene lasciata una parte di eredità alla chiesa insieme ad

altre chiese parmensi. Nel documento si parla di una Ecclesia S. Sepulcri e di un

ospedale che poteva accogliere conversi. A metà degli anni Trenta del XII secolo,

dunque, la chiesa del S. Sepolcro era un’istituzione già in piena attività, tanto da essere

76 Pietro Silanos, La fondazione della chiesa e dell’Ospedale di S. Sepolcro di Parma: tra «imitatio

hierosolymitana», in Come a Gerusalemme cit., p. 503.

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raccomandata in un testamento, con un lascito, da parte di laici non dipendenti dalla

chiesa77.

Con questi dati gli studiosi hanno dedotto che la chiesa del S. Sepolcro fu fondata,

con ogni probabilità, dopo il 1105, sulla scia dell’esperienza della prima crociata.

Il patrimonio della chiesa continuò a crescere negli anni centrali del XII secolo

attraverso atti di compravendita e tramite donazioni e rinunce di beni da parte di laici

che entravano come conversi. San Sepolcro dunque era vivo nella considerazione degli

abitanti di Parma. Le proprietà continuarono ad accumularsi è vi è una buona

documentazione a riguardo, che offre una panoramica su come la canonica, in mezzo

secolo di storia, aveva ottenuto un importante rilievo nel contado. L’espansione

continuò anche nel XIII secolo78.

Nell’esperienza del complesso del Santo Sepolcro di Parma dovette esserci una

volontà identica a quella Piacentina nella nascita di una comunità a una vocazione

ospitaliera.

Nella vicina Piacenza una fondazione simile, infatti, era stata promossa circa

cinquanta anni prima. Nel 1055 venne fondato lì un monastero con annesso ospizio per

i pellegrini, dedicato alla Trinità e poi noto come S. Sepolcro, dove sarebbe stata eretta

una edicola di imitazione del Santo Sepolcro gerosolimitano. Risale alla metà dell’XI

secolo la fondazione di S. Sepolcro seguita, nei secoli XI e XII, dalla nascita di numerose

strutture ospitaliere79.

Dunque sulla via Francigena, in un breve lasso di tempo, vengono erette due

stazioni simili all’Anastasis gerosolimitana entrambe dotate di ospedale per i pellegrini.

L’interesse per una imitatio hierosolymitana si esprime non solo grazie al quadro

toponomastico e architettonico, volto all’imitazione dell’Anastasis, ma anche con la

vocazione crociata e ospitaliera delle città.80.

77 Silanos, La fondazione della Chiesa cit., p. 517. 78 Ibid., pp. 517-518-519 / pp. 521-522. 79 Ivo Musajo Somma, Il Santo Sepolcro di Piacenza, in Come a Gerusalemme cit., pp. 496-497. 80 Silanos, La fondazione della Chiesa cit., p. 522.

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La città di Genova

A partire dal XII secolo i genovesi avevano puntato alle coste siro-palestinesi

acquisendo in breve tempo importanti posizioni in ambito militare e commerciale. Si

trattò perlopiù di interessi economici che furono accompagnati da una forte carica ideale

religiosa, non tanto centrata sull’ideale gerosolimitano ma piuttosto con la tendenza a

sottolineare il ruolo anti musulmano ricoperto Genova, un ruolo che altre città marinare

dell’epoca vantavano81.

La crociata venne avvertita come fondamentale per la costruzione dell’identità

cittadina82. Il legame con la Terra Santa venne inoltre rinforzato con una serie di

inventiones, translationes e furta sacra, che si trovano nel tessuto urbano.

I Genovesi furono sì crociati e pellegrini ma anche abili mercanti. Quasi tutti i

pellegrini armati che nell’ XI si rivolgevano verso quelle terre lontane ed esotiche lo

facevano con il desiderio di accaparrarsi qualche pegno: univano così allo spirito

crociato anche la speranza di tornare con qualche cosa di eccezionale.

Pure Genova ebbe la sua chiesa intitolata al Santo Sepolcro e la sua esistenza è

documentata a partire dal 114383.

Ciò che gli studiosi sanno deriva da alcune sparute notizie relative all’esistenza

nei suoi pressi di un ospedale adibito, con molta probabilità, alla cura dei pellegrini in

procinto di imbarcarsi. Non si sa se la fondazione fosse gestita dal clero secolare o da

una comunità di canonici locali o addirittura da canonici gerosolimitani, presenti questi

ultimi dalla metà del XII secolo.

Secondo la tradizione sulle rovine sarebbe sorta la chiesa ospitaliera di San

Giovanni di Prè, ma la questione è dibattuta considerato che l’esistenza dell’ospedale

81 Antonio Musarra, Memorie di Terrasanta, in Come a Gerusalemme cit.

82 Franco Cardini, Crociata e religione civica nell'Italia medievale, in La religion civique à l’époque

médiévale et moderne (chrétienté et islam). Actes du colloque organisé par le Centre de recherche « Histoire sociale et culturelle de l'Occident. XIIe-XVIIIe siècle», (Nanterre, 21-23 juin 1993), vol. 213, Roma 1995, pp. 155-164.; in rete su http://www.persee.fr/doc/efr0223-50991995act21314943 (collegamento attivo il 16 gennaio 2017).

83 Musarra, Memorie cit., p. 529.

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del Santo Sepolcro è documentato già nel 1190 e l’avvio dell’attuale chiesa è attestato

al 1180. Gli studiosi84 hanno dedotto, basandosi su ritrovamenti archeologici, che San

Giovanni Prè, con le sue due chiese, l’ospizio e i terreni, si sia sviluppata sull’antica

chiesa del Santo Sepolcro.

Nelle vicinanze sorgeva un oratorio dedicato a San Giacomo: nel 1880, prima che

venisse costruita una strada, vi era una lapide che ricordava il punto di deposizione delle

ceneri di San Giovanni Battista, traslate da Myra nella Prima Crociata. Le reliquie del

Battista avrebbero ricevuto immediata accoglienza nel Battistero, a fianco della

cattedrale, intitolato al Precursore.

L’abbandono dell’intitolazione al Santo Sepolcro della chiesa gerosolimitana,

potrebbe essere imputabile alla tradizione che voleva che le fondazioni gerosolimitane

del XII secolo conservassero il titolo precedente delle chiese a loro affidate.

Non prima della fine del XII secolo, in contemporanea con l’affermarsi della

presenza gerosolimitana sul territorio, le reliquie di San Giovanni Battista divennero

oggetto di venerazione, per divenire poi una sorta di simbolo di identità collettiva tra le

classi più elevate. Il culto del Battista era andato a sostituirsi a devozioni più antiche,

come quella di San Siro, protovescovo genovese.

Un deciso impulso al culto battistino si deve alla fine del XIII secolo all’impegno

dell’Arcivescovo Iacopo da Varagine, autore di una Istoria sive legenda translationis

beatissimi Iohannis Baptiste85. Nella storia86 si narra di come, dopo la presa di Antiochia

nel giugno 1098, alcuni crociati genovesi si misero a scavare sotto l’Altare Santo e ne

estrassero un tesoro contenente le ceneri del Battista.

Secondo gli studiosi si trattò di un vero e proprio tentativo di costruire, attorno al

culto del Battista, una sorta di religione civica, tentativo che risultò tuttavia fallimentare,

soprattutto a causa delle forti discordie civili della città di Genova. Nel XIII secolo il

culto, sostenuto in prevalenza dalla parte guelfa e quindi inserito nelle tensioni sociali

84 Musarra, Memorie cit. 85 Ibid., p. 535. 86 Alcuni genovesi dopo la presa di Antiochia si misero a cercare le reliquie di Nicola. A nulla valsero le

parole dei monaci del luogo, i quali si affrettarono a dichiarare che le reliquie del beato Nicola erano già state sottratte qualche tempo prima. I Genovesi si misero ugualmente a cercare sotto l’altare e poco sotto rinvennero

una capsam marmoream che estrassero e portarono alle proprie navi. Solo in quel frangente i monaci confessarono la reale consistenza del ritrovamento, ovvero che le reliquie erano del Beato Giovanni Battista.

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che caratterizzeranno le città comunali, stenta a divenire espressione della cittadinanza

intera.

Solo nel Quattrocento il culto del Battista si coprirà di significati tali da divenire

vera religione civica.

Un’altra reliquia è il Sacro Catino, che ha avuto la capacità di suscitare un forte

interesse anche in tempi molto più recenti87. La prima fonte risale all’Arcivescovo

Guglielmo di Tiro 1130-118688.

Secondo la narrazione, i Genovesi ottennero il vaso da Baldovino di

Gerusalemme durante la presa di Cesarea, alla quale parteciparono nel 1101. Il Catino

allora non era ritenuto una reliquia, questo fino alla fine del XIII secolo, quando

iniziarono ad emergere interpretazioni circa l’originaria funzione dell’oggetto.

Il Catino venne descritto come un bacile di smeraldo nel quale Nostro Signore

aveva mangiato a Pasqua con i suoi discepoli, portato via poi da Gerusalemme. È

significativo come nella descrizione, di fine del XIII secolo, del ritrovamento della

reliquia vi è la sostituzione del luogo di origine, Cesarea, con Gerusalemme, a

sottolineare e a legittimare l’importanza del reperto.

Ora, alla luce dell’attribuzione del suo utilizzo nell’Ultima Cena, il Catino è una

reliquia di grande valore.

Come già detto le reliquie del Battista rivestirono un ruolo importante, ma il

tentativo di utilizzarle per favorire la nascita di una religione civica non ebbe successo

nell’immediato. Per quanto riguarda il Catino, legato alla Passione di Cristo solo a

partire dalla fine del XIII secolo, non ricevette alcun culto.

Ciò che ricevette particolare attenzione furono i frammenti della Vera Croce,

giunti a Genova tra la fine del XII e l’inizio del XIII secolo, con la terza e la quarta

crociata. Il primo frammento della Vera Croce, denominato «Crux sancta hospitalis

87 Il 24 aprile 1806 Napoleone lo portò a Parigi, depositandolo presso il Cabinet des Antiques della

Bibliothèque Imperiale, dove venne esaminato e dichiarato opera d’arte bizantina. Il 14 giugno 1816 venne rotto

in 11 pezzi, uno andato perduto. Verrà restituito alla città di Genova dove tutt’oggi è conservato. 88 v. Musarra, Memorie di Terrasanta cit., pp. 545-546 nota 76.; v. Guglielmo d Tiro, Chronique, cur R.

B. C. Huygens-H. E. Mayer-G. Rösch, Tunhout 1986, I, p. 471.

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beati Laçari de Betania»89, venne riposto nella cattedrale ed offerto alla devozione dei

fedeli il Venerdì Santo e giunse alla città di Genova tra il 1187 e il 1191, come dono del

marchese Corrado di Monferrato al Comune.

Il secondo frammento giunse nel 1195. Stando alle parole dell’arcivescovo i

Genovesi sarebbero entrati in possesso della Vera Crux Christi, cioè del frammento della

Vera Croce solitamente portato in battaglia dal patriarca di Gerusalemme. Si riteneva

così di possedere non un frammento qualsiasi della Vera Croce, ma la parcella ritenuta

dispersa dopo la disfatta di Hittin.

Nel 1204, un colpo di mano fruttò ai genovesi la Crux Elene, il terzo frammento

della Vera Croce, un altro importante frammento acquisito. Secondo la storia, il

prezioso oggetto, imbarcato su una nave Veneziana, fu depredato da un genovese,

Guglielmo Grasso90.

Le reliquie della Vera Croce furono oggetto di una speciale venerazione da parte

dei Genovesi e in ciò è stato individuato quel particolare legame con la Terrasanta.

Questo culto non fu l’unico ad esser particolarmente sentito, vi furono altre

devozioni, sorte attorno all’ospedale gerosolimitano, che vanno a completare il quadro

di venerazione dell’immaginario ierosolimitano.

I Genovesi volsero la loro attenzione, oltre alla Vera Croce, ad altri elementi della

Passione, come la Corona di Spine, la Veste Purpurea, il Cignolo, i Sandali di Cristo e

ad un frammento della pietra del Santo Sepolcro.

I Genovesi ebbero grande famigliarità con le sponde d’Oltremare tra XII e XIV

secolo, tuttavia non crearono spazi devozionali appositi, sostitutivi del pellegrinaggio

del viaggio oltremarino e capaci di traslare la Gerusalemme celeste in una Nova

Hierusalem.

89 Musarra, Memorie cit., p. 553. 90 Ibid., pp. 556-557.; Guglielmo Grasso, un corsaro genovese vissuto nella seconda metà del XII secolo,

assalì la nave di Saladino che trasportava la Vera Croce. v. Basso Enrico, Grasso, Guglielmo, in Dizionario biografico degli Italiani, vol. 58, Roma 2002 pp. 716-720.

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La città di Siena

La translatio a Siena ricorda lo spostamento in Francia delle reliquie acquisite da

Filippo IX, re di Francia, a Costantinopoli. Il luogo in questione è l’Ospedale di Santa

Maria della Scala che ricevette un’importante collezione, risalente alla metà del

Trecento, quando Pietro Torrigiani, cittadino veneziano residente a Costantinopoli,

aveva comprato presso la Loggia dei Veneziani un lotto di reliquie imperiali, reliquie

messe in vendita dall’imperatore Giovanni Cantacuzeno. Esse erano state esaminate da

Pier Tommaso vescovo di Patti e Lipari, nunzio apostolico a Costantinopoli, e la loro

veridicità era stata confermata dalla stessa moglie dell’imperatore. Pier Tommaso si

felicitò con Torrigiani per aver tolto le reliquie de manibus scismaticum, esortandolo a

portarle via da Costantinopoli91.

In Italia si era diffusa la voce della disponibilità di una ricca collezione di reliquie,

e ciò aveva suscitato l’interesse dei Senesi.

Nel 1359 vennero acquistate le reliquie e il Comune, che deteneva assieme

all’Ospedale le chiavi del reliquiario, provvide a proprie spese ad una ristrutturazione

dello spazio urbano adiacente all’Ospedale, creando una scenografia laica per una

solenne ostensione che d’allora, ogni 25 marzo, si celebra.92

Questa è la testimonianza dell’attenzione al valore politico che le collezioni della

Passione, provenienti da Costantinopoli, avevano.

La città di Firenze

L’immagine sacra di Firenze, erede di Roma e Gerusalemme, si sviluppa tra XIII

e XV secolo quando Firenze costruisce il proprio mito della discendenza romana

91 Tommaso Braccini, Reliquie della Passione da Costantinopoli alla Toscana, in Come a Gerusalemme

cit., pp. 183-187. 92 Ibid., p 185.

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descritta da un anonimo, nella Chronica de origine civitatis, risalente al 1231. Inoltre

poco prima della caduta di Costantinopoli era giunta a Firenze una collezione di reliquie

della Passione, lotto acquistato dall’ Arte della Lana93.

Firenze viene investita del ruolo sacro di erede di Roma e Gerusalemme: la città

di Firenze è filia Romae, con il carico di dignità, ereditato della città antica. Nella

cronaca la nuova Firenze carolingia, ricostruita a immagine di Roma dopo la sua

distruzione da parte di Totila, si configura secondo l’impianto delle sette chiese

stazionarie romane. L’elaborazione sacrale non era una specificità fiorentina, la

cittadinanza medievale non solo celebrava le ricorrenze civili ma anche quelle religiose

con processioni eseguite attraverso percorsi ben definiti, volti a valorizzare i luoghi

simbolici. La ricostruzione della memoria storica della città così si coniugava alla

rifondazione rituale del regime politico. Firenze vedeva aumentare innanzi al mondo

cristiano la propria centralità e importanza, la tradizione che la voleva erede di Roma

sacra: l’idea di nuova Gerusalemme della cristianità, si consolida nella città.

Il ciclo di scene raffigurato sulla Porta del Paradiso del Battistero di San Giovanni

di Firenze, mette in rilievo la rappresentazione di Firenze come Gerusalemme celeste,

topos frequente nella pittura fiorentina, probabilmente legato al progetto di esaltazione

della città e comune nei percorsi di affermazione delle città medievali94.

La consacrazione della nuova cattedrale, Santa Maria del Fiore, offre uno

straordinario palco per le pretese universalistiche fiorentine. Lo spostamento del

Concilio da Ferrara a Firenze, dovuto alle pressioni di Cosimo de Medici, fu “un

capolavoro di propaganda” presso i dignitari presenti al Concilio, occidentali e

orientali95.

Il disseppellimento e la traslazione delle reliquie di san Zenobio, primo vescovo

fiorentino, furono momento di estrema importanza nella definizione di Firenze come

città Sacra e di rinnovata sacralità. L’atto della transizione del corpo di San Zenobio in

Santa Maria del Fiore ebbe lo scopo di riconsacrazione della nuova cattedrale, in una

93 Braccini, Reliquie della Passione cit., p. 187 94 Lorenzo Amato, Firenze come nuova Gerusalemme, in Come a Gerusalemme cit., p. 205. 95 Ibid., p. 207.

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linea ininterrotta con le origini, mitiche, della sacralità cittadina. Gli studiosi rilevano

come nel poema Theotocon di Domenico Corella, un confratello di Santa Maria Novella

(1403 – 1483) si sviluppa un percorso cittadino nel quale tutte le zone della città sono

lodate per le loro chiese e le reliquie. Oltre alla rappresentazione e alla descrizione di

Firenze, il poema si pone l’obiettivo di mettere in risalto l’eredità sacra di Firenze, non

solo la sua derivazione da Roma, ma anche da Costantinopoli, città che si era posta in

alternativa a Roma96.

Il periodo laurenziano ebbe come conseguenza l’attenuazione dei tradizionali

richiami al destino sacro della nuova Gerusalemme, come l’indulgenza plenaria,

concessa nel 1471 in periodo pasquale, a chi si fosse recato in visita al Santo Sepolcro

fiorentino, riproduzione del Santo Sepolcro nella Cappella Rucellai della chiesa di San

Pancrazio.

Le tradizioni si infiammano con la caduta di Piero de’ Medici. La rinnovata

Repubblica volle fondarsi nella predicazione di Girolamo Savonarola cercando la

conferma di una ritrovata sacralità della funzione cittadina, a scapito dei più recenti

aspetti umanistici e “pagani”, che in periodo laurenziano si erano espressi.

L’interesse di Savonarola verso l’equazione fra la missione sacra di Firenze e la

funzionalità delle sue istituzioni pubbliche repubblicane è per una città che si voleva di

nuovo esemplare.

Dopo quasi tre anni di Seconda Repubblica l’oligarchia fiorentina diventa

cortigiana e abbandona ogni ambizione sacrale mentre Roma, che nel periodo dei papi

medicei (1513 – 1534) aveva conosciuto un processo di fiorentinizzazione, con il

paradossale ribaltamento del rapporto mater – filia fino ad allora proprio della tradizione

della Repubblica fiorentina, si apprestava ad ereditare nuovamente, con la fine del

periodo umanistico dei papi medicei, il carisma sacro che la voleva erede universale di

Gerusalemme.

96 Amato, Firenze come nuova Gerusalemme cit., pp. 206-207 / pp.210-211.

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Nel XVII secolo ancora forte era l’interesse verso l’Oriente: lo conferma il caso

di Cosimo II de Medici il quale, secondo la tradizione, avrebbe avuto aspirazioni a

conquistare fisicamente il santo Sepolcro. In qualche modo accontentò le sue aspirazioni

con i cimeli della Croce d’Oro, manufatto reliquiario realizzato negli anni 1615-18 e

contenente le reliquie della Passione97.

Pisa Nova Hierusalem

Il richiamo a Gerusalemme e ai luoghi santi della Terra Santa furono molto

importanti per lo sviluppo della Repubblica Pisana: la legittimazione che Pisa ottenne

grazie all’impronta di Città Cristiana e del suo ruolo anti mussulmano fu grande e le

portò prestigio per tutto il periodo tra XII e XIII secolo.

Le prime espressioni architettoniche di imitatio si presentano dopo la

partecipazione della città alla Crociata del 1096 e alle imprese anti mussulmane

all’interno del Mediterraneo: esse sono il Santo Sepolcro, anteriore al 1113, la cappella

di Sant’Agata del 1065 e il Battistero di San Giovanni con la piazza del 1152, ispirati

questi ultimi alla spianata del Tempio di Gerusalemme98.

La seconda serie di interventi, più tarda, si colloca nella seconda metà del XIII

secolo, un periodo in cui si era esaurita la spinta iniziale mossa dall’ideale crociato. La

nuova fase, dovuta alla cessazione degli interventi militari in Oriente, è caratterizzata da

una forte sacralità espressa dal culto delle reliquie come quello della Spina, nella Chiesa

della Spina del 1333, o della terra del Golgota.

La chiesa del Santo Sepolcro costituisce la più importante memoria

gerosolimitana di Pisa: la stessa struttura è ad immagine della Cupola della Roccia,

97 Amato, Firenze come nuova Gerusalemme cit. 98 Ilaria Sabbatini, «Pisa Nova Hierusalem». Le «imitationes» gerosolimitane e la sacralizzazione civica,

in Come a Gerusalemme cit., pp. 251-257.

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ritenuta in Europa il tempio del Signore, e conferma il legame della città con

Gerusalemme, già ampiamente espresso dalla forte adesione della cittadinanza alla

prima Crociata99.

Pisa era assolutamente consapevole del suo ruolo mediterraneo e anti

mussulmano100.

Pisa dette i natali a protagonisti di rilievo internazionale come il patriarca di

Gerusalemme Daiberto101, protagonista della prima crociata, al Vescovo Ubaldo, che

portò la terra del Golgota, al pontefice Eugenio III102.

Il vescovo pisano Daiberto aveva preso parte sin dall’inizio alla Crociata, ed era

stato presente a Cleirmont, quando il Papa aveva chiamato la nobiltà francese alla prima

crociata. Egli divenne anche primo patriarca latino di Gerusalemme il 15 luglio 1099,

giorno della presa della città, e le imitationes assumono nuova importanza di fronte al

ruolo di Patriarca di Daiberto e alla fondazione dell’ordine dei Frates Ospitalieri.

Proprio gli Ospitalieri fondarono a Pisa prima del 1112 un ospedale gerosolimitano

vicino al luogo dove poi verrà costruito il Santo Sepolcro.

Pisa raggiunse l’apice del suo ruolo militare nel Mediterraneo con la vittoria delle

Baleari (1113 – 1115), che dette grande risonanza alla crociata pisana.

Nel 1135 si svolse il Concilio di Pisa al quale parteciparono i Cavalieri del

Tempio, l’ordine monastico cavalleresco più famoso della storia che venne presentato

per la prima volta in questa occasione.

99 Sabbatini, «Pisa Nova Hierusalem» cit. 100 La Repubblica Pisana, espandendosi nel Mediterraneo, si trovò a scontrarsi più volte con le navi

saracene. Nel 1005 a Reggio Calabria, nel 1034 a Bona in Africa. La cappella di Sant’Agata è legata anche lei a

vicende militari, come quelle degli Ospitalieri e dei crociati Pisani in Terrasanta, i quali riportarono reliquie e fama dalla traslazione occidentale gerosolimitana in Pisa. Ricorda la vicenda dell’azione militare in Sicilia da parte dei

Pisani, quando verso il 1063 questi catturarono le navi dei Saraceni fuori dal porto di Palermo. Si ricordi, anche, la spedizione assieme ai genovesi nel 1087 contro al–Mah–diyya. Poi negli anni 1113 – 1115 Pisa condusse con i catalani una spedizione a Maiorca.

101 Carratori Luigina, Hamilton Bernard., Daiberto, in Dizionario biografico degli Italiani,vol. 31, Roma 1985, pp. 679-684.

102 Zimmermann Herald Eugenio III, papa, in Dizionario biografico degli Italiani, vol. 43, Roma 1993, pp. 490-496.

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Dopo che tutti i fautori delle crociate passarono da Pisa, la città poteva

considerarsi Nova Jerusalem, in chiave civile e religiosa103.

All’apice di tutto questo, sotto il pontificato di Eugenio III, Bernardo di

Chiaravalle, che in quegli anni componeva il «De laude nova militiae»104, legittimava il

disegno pisano riconoscendola quale nuova capitale morale e religiosa sulla Terra:

«Assumitur Pisa in locum Romae, et de cunctis urbibus terrae ad apostolicae sedis

culmen eligitur»105.

La città che si era arrogata la stessa autorità morale di Roma, era alla ricerca di

una legittimazione internazionale che le conferisse un ruolo di primissimo piano nel

panorama mediterraneo.

Durante il pontificato di Eugenio III, papa pisano e fautore della seconda crociata,

venne consacrata la Cupola della Roccia in Tempio del Signore e, poco dopo, iniziava

la costruzione del nuovo battistero pisano sul modello dell’Anastasi.

Non solo le imitationes pisane testimoniano la profonda devozione

gerosolimitana ma anche la familiarità con i luoghi fisici della Terra Santa. Pisa,

comunità in pieno sviluppo, ora si proponeva come nuova Roma e come nova

Jerusalem.

Risulta chiaro come la nascita del Comune sia andata di pari passo con le imprese

mediterranee contro i musulmani, facendo di Pisa una potenza tale da potersi emancipare

dai poteri feudali.

Tramite la Prima Crociata il Comune era entrato nell’ azione internazionale con

una credibilità cresciuta, con grande autorevolezza e una patente di legittimità al nuovo

potere acquisito.

103 Sabbatini, «Pisa Nova Hierusalem» cit., pp. 268-269-270. 104 Opera composta tra il 1128, l’anno del Concilio di Troyes, ed il 1136, anno della morte di Ugo di Payns. Nel De Laude Novae Militiae San Bernardo indica e definisce la figura del Cavaliere, allo stesso tempo deve essere monaco e guerriero. 105 Si scelga Pisa al posto di Roma. Roma era anche occupata dall’antipapa Anacleto e Innocenzo II fu

ospite a Pisa dal 1130 al 1137. v. Sabbatini, «Pisa Nova Hierusalem» cit., p. 262 nota 22.

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Pisa perse la spinta iniziale verso Oriente concentrandosi, dopo l’impresa alle

Baleari, prioritariamente verso Occidente, risultando così assente dalla Seconda

Crociata. Dopo la caduta di Gerusalemme nel 1187, l’Arcivescovo di Pisa aveva risposto

alla chiamata del Papa, ponendosi a capo di una nuova spedizione come legato

pontificio.

La partecipazione alla terza crociata non aveva portato la risonanza della prima

spedizione. Dopo la terza crociata il regno di Gerusalemme era ridotto alla piccola

striscia costiera del Regno di Acri, la cui capitale Acri dipendeva militarmente

dall’Occidente. Le altre città marinare si erano orientate verso altri orizzonti, mentre

Pisa si era legata al regno Latino di Gerusalemme, limitato poi alla città di Acri. Con la

caduta di Acri (1291), la città marinara di Pisa accusò un duro colpo, che segnò l’inizio

della sua decadenza e rese vani gli ultimi sforzi pisani di mantenere un prestigio ormai

al tramonto106.

Non vi saranno più imitationes nel tessuto urbano ad evocare una Gerusalemme

ma la nuova fase di devozioni passerà attraverso la “conservazione”. A differenza di

altre città, le reliquie di Pisa come la terra del Golgota e la Spina non erano giunte

durante il periodo della diaspora di Costantinopoli, quando il sacco delle reliquie era

massiccio, ma erano preesistenti. La celebrazione di queste, grazie al loro prestigio, si

rinnovava nei significati, condizionando le forme di culto e orientando la liturgia107.

Il passaggio dalle imitationes gerosolimitane al culto delle reliquie di Terra Santa

coincise per Pisa con l’ascesa, l’apice e il declino dell’epopea militare in Oriente.

106 Sabbatini, «Pisa nova Hierusalem» cit., p. 275. 107 Ibid., pp. 275-276.

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Borgo San Sepolcro e Gerusalemme

Sansepolcro è l’unica città in Italia ad avere il nome del luogo più sacro per la

cristianità, il Sepolcro di Gerusalemme della Resurrezione. I forestieri che entravano in

città trovavano sulla lapide posta sopra la Chiesa di San Rocco, l’invito a trovare la

figura di Dio risorto tra i luoghi della città, la Cattedrale e il Palazzo Comunale.

Gli studiosi fanno risalire il legame della cittadina di Borgo (nome antico della

odierna Sansepolcro) con Gerusalemme, ad una narrazione mitica e alla presenza di una

abbazia benedettina, poi camaldolese, dedicata al Santo Sepolcro e ai Santi Quattro

Evangelisti.

Gli studi sull’ abbazia benedettina, la cui prima documentazione risale al 1012,

hanno mostrato come l’abbazia, nota per le funzioni di accoglienza di poveri e pellegrini,

aveva ricevuto privilegi nel 1013 sia dal papa Benedetto VIII, sia dall’ Imperatore,

Enrico II108.

Enrico II garantì all’Abate la libertà da ogni giurisdizione vescovile, proibendo

di infeudare il monastero e dichiarando i coloni delle terre abaziali liberi da imposizioni

fiscali, un’importante dichiarazione di immunità.

Nel 1038 il monastero si trova sotto la protezione imperiale, che gli assegnava

tutte le decime e concedeva all’abate anche l’organizzazione di un mercato settimanale

e una fiera annuale. Venivano inoltre esentati i coloni del monastero dai servizi pubblici,

altra importante concessione109.

Secondo gli studiosi l’origine del vicus burgus, Borgo Sansepolcro è da vedersi

come conseguenza dell’insediamento monastico di un preesistente ricovero per

pellegrini, situato in un luogo di passaggio obbligato tra il centro-sud Italia e il nord,

108 Andrea Czortek, Borgo San Sepolcro e Gerusalemme. Dalle reliquie alla toponomastica, in Come a

Gerusalemme cit., pp. 310-315. 109 La concessione di una fiera, le quali consentivano l’afflusso di mercanti, l’arrivo della moneta, crescita

economica e quindi aumento demografico; in combinazione con l’esenzione dai servizi pubblici, Corvée, era un importante incentivo allo sviluppo demografico del luogo.; per un riferimento al mercato e alla fiera in epoca medievale.; v. Alberto Grohmann, Fiere e mercati nell’Europa occidentale, Torino 2011.; v. Bruno Andreolli, Massimo Montanari, L’azienda curtense in Italia. Proprietà della terra e del lavoro contadino nei secoli VIII – XI, Bologna 1995.

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diventato poi polo di attrazione per le sue reliquie legate al santo Sepolcro di

Gerusalemme.

La prima narrazione scritta relativamente all’origine dell’abbazia risale al 1418,

ad opera di Francesco Largi, notaio e cancelliere comunale, il quale il 21 settembre del

1418 narra il mito delle origini di Sansepolcro. Egli descrive le reliquie come il tesoro

più prezioso della comunità e come siano il primo bene di cui la comunità si deve

occupare. Probabilmente le reliquie a cui egli si riferisce erano quelle generalmente

portate dalla Palestina: scaglie di pietra del Santo Sepolcro, polvere della calce della

grotta del Latte, corde della stessa lunghezza del Sepolcro110.

Il mito della fondazione di Sansepolcro parla di un fenomeno non raro alla fine

del primo millennio, quando non è insolito che alcuni pellegrini concludano la loro

esperienza come eremiti. Tra questi rientrano ad esempio Egidio e Arcano che, nel finire

del X secolo, si fermano a Noceati dove, attorno all’oratorio da loro abitato, sorgerà

un’abbazia: le reliquie dalla Terra Santa faranno nascere la devozione.

Gli studi sulla nascita di Sansepolcro ritengono che la presenza delle reliquie del

Santo Sepolcro di Gerusalemme e la tradizione mitica delle origini del Borgo siano

plausibili, data la frequentazione dei pellegrini del luogo.

Tuttavia gli studiosi non hanno escluso anche il fatto che sia stata proprio la

presenza di alcuni eremiti ad attirare i pellegrini, trasformando la zona prima in una

tappa di pellegrinaggio, poi in un luogo di residenza di una comunità religiosa111.

Nonostante sia dibattuta la sua origine, si ritiene che la presenza delle reliquie

gerosolimitane abbia caratterizzato il processo di sviluppo abitativo che portò prima allo

sviluppo dell’ospedale per i viandanti, poi alla costruzione dell’abbazia la quale

determinò lo sviluppo dell’abitato.

Il legame con la Terrasanta, prima dovuto al titolo abbaziale, poi assunto come

nome del centro urbano, diventa sentimento civico, che si riscoprirà sia in età umanista

che in età moderna sino a far scomparire la parola Borgo dal nome della cittadina.

110 Franco Cardini, La «cultura folklorica». Alcune Considerazioni, ed. F. Cardini, Busto Arsizio 1988. 111 Czortek, Borgo San Sepolcro e Gerusalemme cit.

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Si rimarca così come tutta la città sia Gerusalemme, a prescindere che vi siano

importanti reliquie e luoghi particolarmente sacri.

Non a caso lo studioso Andrea Czortek nel suo saggio sulla storia gerosolimitana di

Borgo Sansepolcro, ha potuto osservare:

«Sansepolcro è figlia di Gerusalemme attraverso la civiltà del

pellegrinaggio»112.

Realtà del territorio pugliese

La Puglia, considerando la sua caratteristica fisica quasi di ponte protratto verso

l’Oriente e dentro il cuore del Mediterraneo, ha vissuto traslazioni della sacralità di

Gerusalemme e della Terra Santa, riproposte in chiave gerosolimitana, attraverso

l’edificazione di monumenti che imitavano o evocavano forme e fattezze d’oltremare.

Un’altra strada per la replicazione della Gerusalemme celeste era infatti per

mezzo di reliquie e di oggetti di importazione dai luoghi santi con lo scopo di

consacrarne di nuovi e importare nuovi culti. In questo modo i luoghi che beneficiavano

delle nuove reliquie divenivano mete di pellegrinaggio e venivano legittimate

politicamente. Un complesso di fattori ed elementi tali che avevano reso queste nuove

Gerusalemme fortemente legittimanti e in taluni casi sostitutive al cammino originario

verso Gerusalemme, godendone ugualmente i vantaggi di salvezza. Il maggior numero

di luoghi gerosolimitani, o evocativi della Terra Santa, risale al periodo successivo alla

prima crociata113.

In Puglia alcuni indizi architettonici rendono riconoscibili delle somiglianze in

alcuni edifici sacri, in particolare la pianta centrale sul modello della rotonda

dell’Anastasi.

112 Czortek, Borgo San Sepolcro e Gerusalemme cit., p. 325. 113 Luigi Michele De Palma, Memorie paleocristiane e medievali del Santo Sepolcro in Puglia, in Come

a Gerusalemme cit., p. 824.

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L’esempio gerosolimitano più antico risale al V secolo ed è il battistero di San

Giusto, nei pressi di Lucera. Gli studi archeologici hanno determinato che in origine era

un edifico romano, poi divenuto complesso paleocristiano, oggetto di una serie di

interventi e ampliamenti alla metà del VI secolo. Nel corso del VII secolo il complesso

subì un degrado progressivo sino al completo abbandono. Attraverso gli scavi è stato

scoperto che il Battistero ha subito modifiche nei secoli contemporanei all’evoluzione

del complesso paleocristiano ma sin dalla sua origine risulta che esso fosse di pianta

circolare con un nucleo centrale coperto da una cupola.

Vi è un altro battistero, con origini antecedenti alle crociate, e con struttura simile,

come quello di San Giusto, a l’Anastasis: si tratta di San Giovanni Rotondo, chiesa

rurale tra VI – VII secolo, che ha denominato la cittadina garganica, poco distante, sorta

sul finire dell’XI secolo.

Un ulteriore esempio pugliese di “rotonda”, risale al VI secolo ed è il battistero

di San Giovanni a Canosa il quale è sviluppato su una pianta che mostra, nonostante

nell’ottocento fosse stato abbandonato e poi trasformato in frantoio, l’originale schema

con struttura coperta da cupola sovrastante l’ambiente centrale114.

Tutti e tre questi battisteri pugliesi hanno questa caratteristica dell’età romana,

ripresa successivamente dai costruttori paleocristiani, soono “rotonde” che svolgevano

la funzione battesimale e imitavano l’exemplum dell’Anastasis contenente il Santo

Sepolcro115.

La città di Brindisi

Nella città pugliese di Brindisi la chiesa di San Giovanni in Sepolcro, di probabile

attribuzione ai Normanni, memori delle conquiste in Terra Santa, non fa sorgere dubbi

114 De Palma, Memorie paleocristiane cit., p. 826. 115 Ibid., p. 827.

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sull’intenzione dei costruttori di imitare il modello de l’Anastasis per erigere nella città

pugliese un monumento evocativo della Passione di Cristo.

L’edificio faceva parte dei possedimenti dei canonici del Santo Sepolcro e

successivamente passò ai Giovanniti; in tempi recenti è stata ipotizzata una sua origine

come mausoleo di un committente, forse un pellegrino, forse Goffredo conte di

Conversano, normanno, il quale diede inizio alla ricostruzione della città di Brindisi

dopo la conquista normanna. La rotonda del Santo Sepolcro quindi sarebbe testimone di

un’attività di edilizia sacra dovuta alla magnanimità del conte. La scelta di imitare il

prototipo gerosolimitano del Sepolcro per il proprio mausoleo, faceva acquistare un

significato emblematicamente prestigioso. Goffredo, ricostruttore della città,

concessionario di fondi per ricostruzioni degli edifici della città e per le costruzioni di

chiese, tra le quali la cattedrale, preferì tramandare la sua memoria attraverso un simbolo

inconfondibile, il sepulcrum Domini. Dopo il passaggio ai canonici del Santo Sepolcro,

la rotonda di Brindisi perse la sua connotazione e si spense piano piano nella sua

accezione gerosolimitana, divenendo una cappella funeraria dell’Ordine, dunque una

delle tante chiese sul tessuto urbano. Dopo la soppressione venne man mano

abbandonata sino a quando nel 1880 il comune la acquisì e ne fece un museo116.

Ancora oggi, a testimonianza dell’esperienza religiosa e del segno lasciato da

un’epoca nella quale era stata protagonista, il Santo Sepolcro di Brindisi presenta sulle

pareti i segni delle croci lasciate dai pellegrini di passaggio.

La città di Taranto

Un esplicito riferimento al modello gerosolimitano dell’Anastasis è rappresentato

nella città di Taranto, a partire dal XII secolo, dalla tomba di Boemondo di Altavilla,

principe di Antiochia e dal 1086 signore di Taranto117.

116 De Palma, Memorie Paleocristiane e medievali cit., pp. 827-834. 117 Ibid.

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Esterna e alla destra della cattedrale ha uno stile arabeggiante; vi sono molte

allusioni architettoniche al mausoleo del prototipo gerosolimitano, una emulazione

confermata in particolare dalla copertura a cupola a piramide poligonale dell’edicola.

La copertura discende da quella costruita, dopo la distruzione del Santo Sepolcro nel

1009, da quella dei crociati con la ricostruzione dell’Anastasis e dell’edicola. Altri

elementi, come la disposizione degli ambienti, le otto colonne che sorreggono la cupola,

fanno assomigliare il mausoleo al prototipo gerosolimitano, evidenziando una forte

imitazione architettonica del Santo Sepolcro118.

Viene rievocata partecipazione di Boemondo alla prima crociata, e la

conseguente espressione di fede, pietà, forte devozione e sacrificio al Sepolcro; il

principe crociato voleva in questo modo essere associato alla morte di Cristo, per

condividere con lui il sacrificio e la gloria eterna nella Resurrezione.

La città di Barletta

Nella cittadina di Barletta vi era una chiesa dedicata al Santo Sepolcro alla quale

era annesso un Ospedale dei Pellegrini. La chiesa nel XII secolo faceva parte dei

possedimenti della chiesa patriarcale di Gerusalemme, e dopo la caduta di San Giovanni

d’Acri, la città di Barletta acquisì il privilegio prestigioso di divenire uno dei luoghi

dove vennero accolti molti dei canonici fuggiti dalla Terra Santa.

Apparteneva in origine all’Ordine canonicale del Santo Sepolcro, che,

notevolmente indebolitosi e avendo perso la principale funzione con la perdita di

Gerusalemme, venne soppresso da Innocenzo VIII nel 1489; i suoi possedimenti

passarono all’ordine di San Giovanni di Gerusalemme, che entrò in possesso anche della

chiesa barlettana.

Forti sin dal principio furono dunque i legami di Barletta con la Terra Santa,

fortemente accentuati con la costruzione della Chiesa di Nazareth. Dal 1327 i vescovi

118 De Palma, Memorie Paleocristiane e medievali cit., pp. 834-835.

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di Nazareth stabilirono la loro sede cattedrale a Barletta, con notevole prestigio, perché

fuggiti dalla sede in Terra Santa, a seguito della perdita da parte della Cristianità del

regno di Gerusalemme.

Il richiamo al Santo Sepolcro era rimarcato dalla chiesa del santo Sepolcro di

Barletta e dalle reliquie giunte da oltre mare, come una stauroteca contenente una

reliquia della Croce e un codice con i riti che si svolgevano a Gerusalemme presso il

Santo Sepolcro. Compare ancora l’imitationes non architettonica e/o attraverso le sole

reliquie ma anche per via di riproposta dei riti sacri della Terra Santa119.

La speciale venerazione della reliquia ha fatto sì che la chiesa del Santo Sepolcro

divenisse un santuario e mantenesse la sua funzione sino ad oggi, generando una identità

cittadina, continuando ad essere uno spazio di pellegrinaggio dove «la coscienza

cittadina continua a compiere i suoi riti»120.

La città di Molfetta

Singolare e unico è il caso del santuario di Santa Maria dei Martiri a Molfetta, un

santuario che condensa nella sua storia molte memorie dei Luoghi Santi, del

pellegrinaggio e delle crociate. Edificato sopra un precedente sito, un santuario

sepolcrale per i “martiri di Cristo” le cui sepolture erano oggetto di venerazione: dunque

una cappella funeraria, riedificata nel 1162, un luogo la cui fama è attestata ancora nei

pellegrinaggi del XV secolo.

Questo santuario era posto lungo gli itinerari dei pellegrini diretti in Terra Santa,

per questo venne edificato a fianco di uno xenodochio e di un collegio con lo scopo di

provvedere ai poveri e ai pellegrini. Posto vicino al porto, il santuario conobbe un

accrescimento continuo della propria importanza per il grande traffico di pellegrini che

119 De Palma, Memorie Paleocristiane e medievali cit., pp. 848-854. 120 Ibid., p. 854.

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passavano per la cittadina e che dovevano attraversare il luogo per potersi dirigere ai

porti.

Santa Maria dei Martiri nacque come cappella cimiteriale in relazione al culto dei

Santi Pellegrini, la sua storia però ha un rapido cambiamento a causa della

sovrapposizione del culto mariano. Qui si coniugano l’antico e il nuovo con

l’emblematica intitolazione Santa Maria dei Martiri. Sebbene sia attestato

prevalentemente il culto mariano, il ricordo dei martiri pellegrini viene mantenuto. Nel

finire del Quattrocento il culto mariano si unisce con quello gerosolimitano grazie al

mausoleo del Santo Sepolcro con una edicola che imitava l’Anastasis121.

La meta più ambita dai pellegrini, la Terra Santa, era pressoché ormai

irraggiungibile a fine Quattrocento. Lo spazio sacro venne idealmente trasferito a

Molfetta, in Santa Maria dei Martiri, dove, per due giorni all’anno, si poteva ottenere lo

stesso beneficio spirituale che si sarebbe ottenuto presso i santuari d’Oltremare; nel 1485

Innocenzo VIII concesse l’indulgenza plenaria, la seconda domenica di Pasqua e l’8

settembre, natività di Maria e quanti avessero visitato la chiesa.

Nel Cinquecento venne introdotto un altro richiamo alla Terra Santa, il Presepe.

Edicola e presepe, collocati nello spazio sotto al pavimento della chiesa alludevano alla

collocazione del Santo Sepolcro, scavato nella roccia, e alla grotta di Betlemme. Lo

spazio sottostante la chiesa dunque riguardava il culto di Cristo mentre la parte superiore

della chiesa il culto mariano e dei Santi Pellegrini.

Santa Maria dei Martiri evoca la metafora del viaggio verso la Gerusalemme

celeste: i pellegrini sono martiri, perché hanno lasciato tutto per il loro viaggio, ma allo

stesso tempo il santuario è lo specchio della Gerusalemme terrestre, la meta principale

del pellegrinaggio cristiano, traslata attraverso la sacralità tra le mura del santuario

pugliese.

La storia del santuario è raccontata nella Breve Historia, scritta dal vescovo

carmelitano Giovanni Antonio Bovo nel 1622: nel racconto la crociata è la chiave

interpretativa dell’intera storia. La costruzione degli Ospedali, la presenza del cimitero,

i cui defunti pellegrini sono identificati come crociati, percorrono lo spirito e l’idea di

crociata post tridentino. Il martirio e la crociata in accezione tridentina si equivalevano,

121 De Palma, Memorie Paleocristiane e medievali cit., pp. 854-857.

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perchè la lotta agli infedeli e agli eretici, fino al proprio sacrificio, coincidevano con il

nuovo costume di rinnovamento religioso, fatto di devozione e di fedeltà alla Chiesa122.

Sul territorio pugliese ci sono altri esempi di memoria gerosolimitana, oltre alle

testimonianze architettoniche, come le raffigurazioni e le pitture. Queste avevano lo

scopo di tenere viva agli occhi e alla mente della popolazione e dei pellegrini, in questo

passaggio obbligato per la Terra Santa, la memoria del Santo Sepolcro. Esse sono

testimonianze successive alla prima crociata e hanno una funzione prevalentemente

didattica. Sono numerose quindi le scene, le raffigurazioni scultoree o pittoriche, delle

quali con molta probabilità i committenti erano pellegrini locali, reduci dalla Terra Santa

e volenterosi di voler riproporre e ricordare l’esperienza vissuta per renderla partecipe

agli altri devoti. La scelta di voler imitare i prototipi gerosolimitani appare legata ai

ricordi personali, quindi è condizionata dalle reali possibilità di riprodurre il soggetto

all’interno degli spazi disponibili e, non in secondo luogo, alle disponibilità economiche

dei committenti123.

I molteplici legami religiosi della Puglia con la Terra Santa ebbero modo di

radicarsi tra la popolazione sul piano della devozione, anche tramite santuari la cui

mimesi gerosolimitana, le imitationes, aveva lo scopo di sacralizzare; ancora ricompare

la volontà di una sorta di legittimazione sacra; i suddetti luoghi, davano la possibilità di

usufruire dei benefici spirituali dei prototipi imitati. Queste copie dovevano apparire

immediatamente identificabili agli occhi dei fedeli; a volte era sufficiente solo la

dedicazione del luogo e quindi il richiamo, la presenza di reliquie o riti che

riproponessero i prototipi di Terra Santa, tutto ciò bastava per attirare fedeli e pellegrini

presso le imitationes.

122 De Palma, Memorie Paleocristiane e medievali cit. 123 Ibid., pp. 855-867.

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Laino Borgo

La Calabria, come la Puglia, è stata sin dall’antichità un ponte verso i luoghi del

mediterraneo orientale. Nel medioevo le rotte marittime utilizzavano abitualmente i

porti calabri e i ritrovamenti di materiali provenienti dalla Terra Santa testimoniano

come la penisola calabrese fosse, non solo uno dei luoghi d’obbligo nei tragitti dei

pellegrini, ma anche una meta.

Significativa testimonianza di riproduzione di luoghi sacri in Calabria è la

Gerusalemme di Laino Borgo, un complesso devozionale situato presso Laino Borgo,

al confine tra Calabria e Basilicata. La storia di questo complesso di edifici comincia a

metà Cinquecento quando Domenico Longo, un cittadino di Laino Borgo, compie un

pellegrinaggio in Terra Santa e, visitando Gerusalemme e Betlemme, probabilmente si

procura progetti e disegni dei principali edifici sacri della Palestina.124 Era pratica dei

frati Francescani, che curavano l’amministrazione del Santo Sepolcro125, produrre

mappe e vedute della Città Santa, riportandovi i numerosi luoghi sacri.

Molteplici possono essere stati i motivi che hanno indotto Domenico Longo a

voler riproporre il “Sacro Monte” di Laino, probabilmente il principale fu quello di voler

offrire Gerusalemme e la Terra Santa ai concittadini e a quanti non potevano affrontare

tale faticoso e pericoloso viaggio. Il “Sacro Monte” infatti permette di svolgere il

percorso devozionale in un solo sito, visitando fisicamente i luoghi e soffermandosi

tappa per tappa a meditare sui significati delle immagini e dei simboli che si incontrano.

Di ritorno dalla Terra Santa, nel 1557 costruì su una piccola altura, all’interno dei

suoi possedimenti, con le prime cinque cappelle dedicate rispettivamente al Santo

Sepolcro, alla Natività a Betlemme, alla Nuca della Croce del Calvario, alla Pietra

dell’Unzione, all’Ascensione di Gesù sul Monte degli Ulivi126.

124 Giuseppe Roma, La tradizione del pellegrinaggio e la riproduzione dei luoghi Santi in Calabria: La

Gerusalemme di Laino Borgo, in Come a Gerusalemme cit., pp. 869-884. 125 Nel 1342, con l’approvazione del papa Clemente VI, l’onore di custodia dei Luoghi Santi fu assegnato

ai Francescani, presenti in Terra Santa dal 1335. Da allora i frati francescani occupano la Cappella dell’Apparizione di Gesù risorto a sua Madre; v. C. Marchegiani, Il Santo Sepolcro da Gerusalemme a Roma, in Come a Gerusalemme cit., p. 746.

126 Giuseppe Roma, La tradizione del pellegrinaggio cit., pp. 874.

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Dopo la costruzione delle prime piccole cappelle chiese un aiuto economico ai

devoti per poter ampliare e portare a termine l’opera. Complessivamente vennero

realizzate sedici cappelle, distribuite secondo un ordine topografico definito127.

Il santuario è diviso per aree: il Calvario, il Monte degli Ulivi, il Cenacolo, la

Valle di Giosafat e vi è un riferimento anche a Betlemme con la grotta della Natività.

Il pellegrino che visitava il complesso devozionale, contemplando le cappelle

attraverso spazi angusti, giungeva a compiere un percorso che gli faceva sentire anche

fisicamente la fatica del pellegrinaggio a Gerusalemme.

Questo è il vero ritratto del S. Sepolcro

Dentro la città di Gerusalemme con

Portella, e finestrella ed è Grandezza

Lunghezza, ed altezza ed emana

Odore soavissimo128

127 Giuseppe Roma, La tradizione del pellegrinaggio cit., p. 875. 128 Scritta che compare sulla parete interna della cappella del Santo Sepolcro di Laino.

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Capitolo III

Verona Minor Hierusalem

Collocazione storico-geografica di Verona

La città di Verona fu un importante punto strategico del nord est della penisola

italiana, perché grazie alla sua posizione aveva la possibilità di giungere, attraverso la

Val d’Adige al Brennero, e quindi al Nord Europa.

Situata nell’incontro tra le Prealpi Venete Occidentali e la Pianura Padana,

attraverso valli minori come la Valpantena, la Valpolicella e la principale direttiva della

Val d’Adige, è l’ideale punto d’incontro con la zona montuosa Trentina. La sua

particolare posizione, non di confine, ma strettamente legata all’importante via della Val

d’Adige e del Brennero, l’ha resa, sino a tempi molto recenti, fondamentale per i

“contatti” della Pianura Padana lombarda e veneta con il Nord tedesco.

A partire dalla sua fondazione, infatti, fu sempre crocevia, assumendo un ruolo di

passaggio, snodo e congiunzione, per diversi aspetti, strategici, commerciali, di

comunicazione e culturali.

Il fiume Adige, navigabile fino agli inizi del 1900, oltre ad essere fondamentale

via di comunicazione con il nord, faceva parte del sistema difensivo naturale della città

assieme alle colline e alle montagne della Lessinia, collocate alle spalle della città di

Verona. La città assunse sin dall’epoca romana il ruolo di crocevia tra la parte orientale

e occidentale del nord della pianura padana e tra sud e nord del gruppo alpino delle

Dolomiti Trentine, un ruolo che si mantenne nei secoli successivi alla caduta del tessuto

di comunicazioni tra città romane, e che nonostante cambiamenti politici e strutturali

della città e del territorio, rivisse una importante stagione tra l’VIII e il IX secolo.

Questa importanza è data sin dai tempi di Teodorico ad inizio VI secolo, quando egli la

designò come una delle capitali del Regno Italico, costruendo sulle colline affacciate

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sulla città il complesso fortificato del castrum, un luogo che ancora oggi possiede la

denominazione “Re Teodorico”; poi, in una parentesi del regno longobardo, divenne

anche capitale, come pure per un periodo con i carolingi. Dunque Verona mantenne per

tutto l’arco dell’Alto Medioevo, ma anche successivamente in periodo comunale e

signorile, una importante condizione strategica nel nord italiano.

Dopo la frammentazione e la caduta del sistema romano e dell’Impero, vi fu un

periodo di stabilità con Teodorico, il quale regnò assicurando una vera e propria

rinascita, situazione favorevole di cui beneficiò anche Verona.

Prediletta dal sovrano come una delle capitali, venne restaurata con

l’ampliamento delle mura cittadine anche sulla sponda sinistra dell’Adige, inglobando

così la prima cattedrale di Verona, Santo Stefano: sorta poco dopo il ritrovamento a

Gerusalemme delle reliquie del protomartire è di fatto la chiesa più antica di Verona.

Il tracciato della cinta muraria teodoriciana rimase pressoché immutato sino al periodo

comunale. Il periodo è anche testimoniato da un bassorilievo, “La Caccia Infernale”129,

sulla facciata della basilica di San Zeno a Verona, raffigurante la leggenda della morte

di Teodorico.

Dopo il periodo del regno di Teodorico, Verona e tutta la penisola Italiana

subirono le disastrose conseguenze della logorante guerra greco – gotica, che per

diciotto anni dilaniò la penisola, con il relativo indebolimento politico, economico e

militare, creando un fertile terreno per l’occupazione longobarda.

Verona fu capitale temporanea, sempre per la sua importanza strategica al centro

dei territori conquistati, dell’iniziale regno longobardo. Alboino si insedierà nel castrum

“di Teodorico”.

129 La Caccia infernale è la storia della morte di Teodorico, raffigurata in un bassorilievo sulla facciata

della Chiesa del Monastero di San Zeno a Verona. Secondo la leggenda Teodorico mentre a bagno nell’Adige,

vide un maestoso cervo e si mise ad inseguirlo cavalcando un cavallo misterioso che gli era apparso. Il cavallo nero in realtà era un animale demoniaco che portò il cacciatore per tutta la penisola italiana nella folle caccia, sino a giungere a Lipari e Vulcano, dove venne scaraventato nell’Inferno. La pietra sulla facciata di San Zeno ha un

contenuto elevato di zolfo e si narra che le madri veronesi facessero annusare ai bambini indisciplinati l’odore

infernale da quelle pietre. Sul mito di Teodorio ricordo la Leggenda di Teodorico di Giosuè Carducci, in versi nella raccolta Rime Nuove.

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La dominazione franca

Con la conquista del regno longobardo da parte dei Franchi, per l’Italia e per

Verona cambia il rapporto delle parti tra poteri locali e poteri del sovrano o dei signori.

Nelle conquiste franche le élites locali erano una base del meccanismo di conquista

politica carolingia, la quale basava buona parte della stabilità sul rapporto di

collaborazione e affidamento con i potentati locali. Con essi, e attraverso questi rapporti,

si consolidava la legittimità carolingia. In seguito ad ogni conquista, per lo più vittorie

militari, con l’assoggettamento di nuove genti si avviavano subito strategie di

collaborazione con le aristocrazie locali. Successivamente al periodo iniziale, post

conquista militare, le aristocrazie locali delle città, comprese quelle importanti, le sedes

regiae, come Pavia, Milano e Verona, vennero mantenute dai carolingi. In seguito venne

intrapresa da Carlo Magno una strategia differente: posizionamento di aristocrazie

franche, o già alleate dei franchi nei meccanismi politici.

A Verona, venne elaborata presso lo scriptorium Capitulare vescovile, da parte

dei vescovi tra la fine dell’VIII e l’inizio del IX secolo, una propaganda di legittimazione

del potere e della sovranità carolingia sopra quella longobarda. Con ogni probabilità

nell’ambiente dello scriptorium Capitulare veronese venivano scritti questi documenti

“propagandistici” con il fine di legittimare i nuovi sovrani franchi nel periodo compreso

tra la fine dell’VIII secolo e gli inizi del IX secolo, riprendendo la storia degli ultimi

regni d’Italia, “recensendoli”, coniugando le vestigia passate, con quelle dei sovrani

carolingi; a Verona, ad inizio IX secolo, venne elaborata l’Epitome phillipsiana130.

La città, in continuità con il passato longobardo, mantenne un ruolo di grande

rilievo all’interno della compagine carolingia, divenendo in seguito capitale con Pipino,

figlio di Carlo. Nel Versus de Verona, si disegna Pipino come il più “illustre abitante

della città”, anche se Pipino non risiedette a lungo a Verona.

130 Francesco Veronese, Reliquie in movimento. Traslazioni, agiografie e politica tra Venetia e Alemannia

(VIII-X secolo), Dottorato di ricerca in Scienze storiche, Università degli Studi di Padova (XXIV ciclo) – Université Paris 8 – Vincennes-Sain-Denis Centre de Recherches Historiques : Historie des Pouvoirs, Savoirs et Sociétés, École Doctorale Pratiques et Théories du Sens Doctorat Histoire et Civilisations, pp. 105-113.

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La città di Verona sarebbe divenuta uno dei centri di diffusione dell’ideale

imperiale carolingio. Il documento de l’Epitome rappresenta, dopo la prova di un

documento della campagna di legittimazione carolingia, l’espressione dell’ideologia

degli ambienti delle autorità imperiali in contatto con le élites locali e in rapporto con i

vescovi, quindi con la società cittadina rappresentata da essi.

Un’ immagine di Verona quale centro importante nell’Italia Carolingia.

Lo scriptorium e la biblioteca, legati al capitolo della cattedrale dimostrano di

aver saputo coniugare la città di Verona ai centri culturali del regno franco e alla cultura

d’Oltralpe. Nell’825, con la riforma del sistema scolastico, promossa da Lotario, la

scuola della cattedrale di Verona diverrà uno dei centri di formazione sul territorio del

regno Italico.

Lo scriptorium Capitulare veronese

In pieno periodo carolino, nella prima metà del IX secolo, lo scriptorium

Capitulare di Verona fu importante luogo di produzione di documenti. Lo scriptorium

era sotto il controllo dei vescovi, i quali, rispetto agli altri rappresentanti, come il conte,

del nuovo potere regio, ebbero un ruolo di maggior rilievo per attuare le strategie con

l’obbiettivo della legittimazione del dominio franco sul Regnum Langobardorum

appena conquistato, agli occhi delle élites locali.

I vescovi veronesi dell’inizio del IX secolo, nello svolgere i loro incarichi di

vescovi d’oltralpe assegnati dalla nuova dinastia regnante carolingia, procedettero

all’esaltazione della città attraverso il Versus de Verona o Ritmo Pipiniano, uno dei più

antichi esempi di laus civitatis131, composto in versi ritmici. Il testo si sviluppa con

l’esaltazione dei monumenti antichi, il decus civitatis, della sua storia come capitale di

regni, della sua storia cristiana e profana, oltre che all’esaltazione del più importante

131 Veronese, Reliquie in movimento cit., p. 114.

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santo veronese, il vescovo Zeno; un complessivo elogio di tutti quegli elementi che

avevano fatto grande Verona in passato.

Il poema dedica l’inizio132 tessendo le lodi della città di Verona, narrando

l’importanza della città antica con i grandi monumenti classici: le mura Gallieniche, le

48 torri e la particolare magnificenza di 8 di esse133, il laberintum riferendosi

all’anfiteatro de La Rena, le piazze con la particolarità del foro, i templi anche se pagani

hanno il loro rilievo, il castrum e i ponti di pietra sul fiume Adige. La città viene descritta

come si presentava ai tempi del poeta, con tutta la propria magnificenza ereditata dagli

antichi, anche se pagani ignari della legge di Dio e veneratori di idoli.

Dopo un numero di versi134 dedicati alla narrazione della storia di Cristo e della

fede cattolica seguono quelli135 dedicati alla storia degli otto vescovi susseguitisi a

Verona, da Euprepio a Zeno.

I successivi versi136 sono dedicati al vescovo Zeno, ottavo vescovo veronese al

quale è anche dedicata una preghiera finale da parte del poeta. Il Versus racconta che

San Zeno, di origine siriana, battezzò l’intera popolazione di Verona, liberò la figlia

dell’imperatore Gallieno da una possessione, e compì altri atti miracolosi di guarigione,

resurrezione ed esorcismo. Il buon rapporto tra il vescovo veronese, rappresentanza

successiva di tutti i vescovi veronesi, e l’imperatore romano Gallieno sembra

rispecchiare il buon rapporto tra la politica carolingia e l’autorità episcopale di Verona.

Un lungo apparato di versi137 del poema del Versus porta il lettore in un viaggio

attraverso le chiese e le reliquie di santi presenti a Verona, la cui santità proteggeva la

città.

Verso la conclusione138 del Ritmo Pipiniano è presente l’elogio al Re Pipino, una

stagione felice, proprio per la presenza del sovrano. A portare omaggio a Verona

giungono le altre tre capitali della storia d’Italia: Roma, Ravenna e Pavia. Le lodi che

132 Gian Battista Pighi, Versus de Verona, versum de mediolano civitate, Bologna 1960, vv. 4-24. 133 ex quibus octo sunt excelse. 134 Ibid., vv. 25-39. 135 Ibid., vv. 40-45. 136 Ibid., vv. 46-54. 137 Ibid., vv. 55-90. 138 Ibid., vv. 94-96.

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vengono attribuite a Pipino e il suo ricordo sono probabilmente una imitazione

dell’omaggio fatto a Liutprando dall’autore del Versum de Mediolano civitate:

«l’elogio del sovrano carolingio è in realtà la chiave per comprendere il vero

significato del componimento in lode di Verona, che vuole velatamente esprimere la

speranza – abbastanza largamente diffusa – che Pipino fosse destinato a rinnovare

l’antica indipendenza del regno longobardo, sia pure sotto una dinastia forestiera, e che

volesse scegliere definitivamente come capitale la città in cui per motivi militari aveva

fissato la sua residenza e che gli aveva ora presentata sotto una luce così favorevole»139

Non tutti gli studiosi sono d’accordo sullo scopo e il significato del Versus,

Marchi dice che probabilmente è l’aspetto religioso ad essere centrale nel Versus

assieme all’esaltazione della città140.

Il Versus si conclude141 con una lode a Dio e con la preghiera finale a San Zeno.

Plausibilmente prodotto all’interno del medesimo ambiente dello scriptorium vi è un

altro testo, il Sermo de vita beati Zenonis di Coronatus142. Non si è certi se questo

testo risalga ad epoca longobarda o carolingia; in ogni caso esso si inserisce nella

medesima volontà di legittimare il proprio presente attraverso il riferimento al passato,

riferimento al passato che passa per la celebrazione del vescovo Zeno, figura

particolarmente sentita dalla comunità cittadina già dai primi secoli del medioevo.

L’agiografia di San Zeno conosce, in epoca carolingia, una certa diffusione

anche nei territori d’oltralpe; sappiamo che alcuni vescovi originari di queste zone,

dopo aver ricoperto cariche ecclesiastiche a Verona, fanno propri quei motivi

agiografici del Sermo che essi stessi e la loro cerchia avevano prodotto all’interno

della scola, e li portano con sé nei propri viaggi. Così sappiamo del vescovo Egino,

139 Fasoli, La coscienza civica nelle «Laudes Civitatum», in La coscienza cittadina nei Comuni Italiani

del Duecento, Todi 1972, p. 944. 140 Gian Paolo Marchi, Forma Veronae. L’immagine della città nella letteratura medioevale e umanistica,

in Estratto dal volume Ritratto di Verona. Lineamenti di una storia urbanistica, Verona 1978, p. 6. 141 Pighi, Versus de Verona cit., vv. 97-99 142 Nulla si sa a proposito di questo autore, che solo si firma Coronatus. v. Veronese, Reliquie in

movimento cit. p. 129.

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che si fece carico di favorire la diffusione del Sermo aldilà delle Alpi. Quali le ragioni

di tale esportazione? Se non sorprende che un vescovo si appropri dell’agiografia di

un altro vescovo, suo predecessore illustre, è invece più interessante comprendere le

ragioni che spinsero a diffondere in pieno territorio dell’impero la storia della vita di

un santo che, pur celebre e conosciuto anche al di fuori di Verona, rimaneva comunque

legato ad un contesto periferico, nello spazio del più vasto impero. Tali ragioni vanno

ricercate proprio nella più volte citata volontà di legittimazione da parte delle élites

carolingie, che attraverso la diffusione ad ampie zone dell’impero di scritti cittadini

fortemente identitari, come appunto l’agiografia del Santo, vogliono rafforzare i

legami tra il potere centrale e le periferie. L’esportazione di tale testo, poi, testimonia

del ruolo di primo piano ricoperto da Verona all’interno dell’Impero carolingio, o

meglio del ruolo che la città svolse nel favorire il processo di affermazione politica

dei carolingi all’interno del territorio che era stato longobardo.

Questo processo venne perseguito in maniera rilevante proprio e soprattutto dai

vescovi, che in virtù della posizione e del ruolo ricoperto, erano in grado di dialogare

con l’una e con l’altra parte. Di origine transalpina al pari delle autorità carolingie

laiche che vennero inviate nei territori di quello che era stato il Regnum

Langobardorum, questi personaggi riuscirono tuttavia ad integrarsi all’interno della

società cittadina, e in tal modo poterono svolgere in maniera forse esclusiva il ruolo

di anelli di congiunzione tra le élites carolingie e le élites locali. Essi, infatti,

sperimentarono quasi una duplice identità, una duplice appartenenza – non è più

possibile vedere oggi in questi personaggi degli stranieri, degli estranei143: essi erano

sì di origine transalpina, ma furono in grado di inserirsi all’interno della comunità

cittadina e di fare proprio, in qualche modo, il senso di appartenenza, il discorso

identitario.

143 Come una parte consistente della storiografia sino a tempi recenti, si tendeva a vedere nella cerchia

vescovile, composta da individui d’origine transalpina, e nella scuola cattedrale, formata invece da soggetti locali,

due entità distinte, contrapposte, spesso in contrasto tra loro. In realtà sappiamo che esistettero anche importanti forme di collaborazione.

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L’Arcidiacono Pacifico

Figura sopra tutte rilevante dell’epoca carolingia veronese è quella

dell’arcidiacono Pacifico, cui una certa tradizione storiografica144 attribuisce, tra

l’altro, la paternità del Versus de Verona, o Ritmo Pipiniano, di cui si è detto poco

sopra.

La tradizione riguardante Pacifico lo narra arcidiacono della chiesa veronese e

attivo durante la prima metà del IX secolo. Secondo la tradizione sarebbe nato tra gli

anni 776-778 d. C. nella località di Quinzano, sulle colline poco a nord di Verona. Il

nome Pacifico, di chiara origine latina, rappresenta un’eccezione tra i nomi che si

incontrano sui monumenti tra i secoli VIII e X, ed indica una provenienza non barbara

o che poco aveva risentito l’influsso degli idiomi barbarici. Secondo gli studiosi Pacifico

fu un intellettuale longobardo, educato probabilmente presso l’abbazia di Reichenau145.

Nel 798, ancora giovane, fu scelto in qualità di rappresentante delle ragioni della pars

ecclesiae in un contrasto che la oppose alla pars pubblica della città di Verona; nei

decenni successivi egli sarebbe divenuto il difensore del capitolo veronese, difensore

delle consuetudini locali, protagonista degli eventi che avrebbero consolidato il

patrimonio e il prestigio della scola sacerdotum di Verona146.

Pacifico operò nell’ambiente veronese nel periodo immediatamente successivo

alla conquista carolingia del regnum Langobardorum; anni nei quali Verona fu

144 La figura dell’arcidiacono pacifico è stata oggetto di molte controversie tra gli storici; per la critica

alla memoria “pacifichiana” v. Cristina La Rocca, Pacifico di Verona. Il passato carolingio nella costruzione della memoria urbana, Istituto Storico italiano per il Medio Evo, Roma 1995 (Nuovi Studi storici, 31); per la critica ad alcune considerazioni di La Rocca v. Gian Paolo Marchi, Ancora sull’arcidiacono Pacifico di Verona, in Studi medievali e umanistici, VII, Università degli studi di Messina 2009, pp. 355-380.

145 La Rocca, Pacifico di Verona cit., p. 2. 146 Su Pacifico di Verona Gian Paolo Marchi, Ancora su Pacifico di Verona cit., pp. 355-380 note 1-2-3.;

v. Cristina La Rocca, Pacifico di Verona cit.; Le molte vite di Pacifico di Verona, arcidiacono carolingio, «Quaderni storici» 93 (1996), in Erudizioni e fonti. Storiografie della rivendicazione, cur. F. Artifoni-A. Torre, pp. 519-47.; La Rocca, A man for all seasons: Pacificus of Verona and the creation of a local carolingian past, in The uses of the past in the early Middle Age, ed. Y. Hen and M. Innes, Cambridge 2000, pp. 250-79.; La Rocca, Pacifico di Verona, arcidiacono carolingio, e la sua nuova personalità nel XII secolo, in Secoli XI e XII: l’invenione della memoria, Atti del Seminario internazionale, (27-29 aprile 2006), Montepulciano2006, cur. S. Allegra-F. Cenni, pp. 51-61.

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direttamente interessata dalle politiche di assimilazione del regnum Langobardorum,

grazie allo scriptorium Capitulare.

In questo quadro di ridefinizione delle prerogative del nuovo potere centrale, e

del ruolo da protagonista che Verona andava pian piano assumendovi, Pacifico ricoprì

l’importante carica di archidiaconus della scola sacerdotum della città, la cui

fondazione, ad opera del vescovo d’oltralpe Ratoldo, risale all’813. Quella di

arcidiacono era una carica politica di primissimo piano nella gerarchia ecclesiastica.

Grazie alla figura di Pacifico, personaggio di grande doti intellettuali, la figura

dell’arcidiacono divenne l’anello di congiunzione tra le élites locali, longobarde, e le

nuove autorità di origine straniera. Fu una importante figura dello scriptorium della

scuola, figura «il cui intellettualismo è testimoniato perfettamente perfino dal fatto che

il suo nome è conservato trilingue nella seconda parte del suo epitafio»147: Pacificus

Salomon mihi nomen atque Ireneus148.

La principale fonte diretta da cui ricaviamo notizie sulla vita e sulle opere di

Pacifico è l’epitaffio o, per meglio dire, i due epitaffi, posti all’interno del Duomo della

città, sopra la porta della sagrestia alla sinistra dell’altare, che conduce nella corte

Sant’Elena. Di seguito si riporta il testo del primo epitaffio.

Archidiaconus quiescit hic vero Pacificus

Sapientia praeclarus et forma praefulgida,

Nullus talis est inventus nostris in temporibus

Quod nec ullum advenire umquam tale credimus.

Ecclesiarum fundator, renovator optimus,

Zenonis, Proculi, Viti, Petri et Laurentii,

147 Gian Paolo Marchi, Verona Minor Hierusalem. Contributo alla storia dell’urbanistica carolingia, in

La stagione storica dell’arcidiacono Pacifico, Quinzano 2013. 1200 anni della comunità parrocchiale, (27 settembre 2013), Verona 2013, p. 10.

148 Così nel secondo epitaffio egli rende il suo nome in latino, ebraico e greco.

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Dei quoque genitricis, nec non et Georgii.

Quidquid auro vel argento et metallis caeteris,

Quidquid lignis ex diversis et marmore candido

Nullus unquam sic peritus in tantis operibus.

Bis centenos terque senos codicesque fecerat,

Horologium nocturnum nullus ante viderat,

En invenit argumentum et primum fundaverat.

Glosam veteris et novi testamenti posuit,

Horologioque carmen spera e caeli optimam,

Plura alia grafia que prudens inveniet.

Tres et decim vixit lustra, trinos annos amplius

Quadraginta et tres annos fuit Archidiaconus,

Septimo vicesimo aetatis anno caesaris Lotharii.

Mole carnis est solutus, perrexit ad Dominum;

Nono sane kalendarum obiit Decembrium

Nocte sancta quae vocatur a nobis dominica.

Lugent quoque sacerdotes et ministri optimi,

Ejus morte nempe dolet infinitus populus.

Vestros pedes quasi tenens vosque precor cernuus,

O lectores, exorare quaeso pro Pacifico.

La lapide sulla quale si trova l’epitaffio è, secondo comune opinione degli storici,

di poco posteriore alla morte di Pacifico, collocata tra l’844 e l’846.

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Nell’epitaffio si menziona la sua attività letteraria: a lui viene attribuito il merito

di ben duecento e diciotto codici, scritti o trascritti, o acquistati per la biblioteca annessa

alla residenza dei canonici. Particolarmente interessante è l’attribuzione di una glossa

del Vecchio e Nuovo Testamento e di altri scritti, sulla quale gli studiosi non sono stati,

nel corso del tempo, concordi149. Ancora, Pacifico è lodato per l’abilità nel lavorare il

legno, la pietra ed i metalli, nonché per l’invenzione di un orologio notturno150.

Dopo aver detto della morte di Pacifico, l’epitaffio riferisce quanto lutto recò a

Verona la perdita di una così importante figura: piansero i sacerdoti e con essi il popolo

tutto. Chiude mettendo sulle labbra del defunto un invito ed una supplica a tutti i

cittadini, che tutti vogliano pregare per lui.

Oltre che dall’epitaffio, qualche notizia in merito a Pacifico ci viene dal suo

testamento, fatto in comune con la sorella Ansa il giorno 9 settembre dell’anno 844. Da

esso sappiamo che Pacifico aveva moltissimi possedimenti nel contado veronese e anche

al di fuori di esso, dei quali disponeva in favore di opere pie, principalmente nella

fondazione e mantenimento di un ospedale, forse ancora da costruire o piuttosto già

eretto «in vico Quintiano», a Quinzano, località della quale era, come si è detto,

originario. Dopo la morte sua e della sorella, dispone che i beni lasciati per

quell’ospedale siano amministrati dai suoi nipoti, ai quali raccomanda la cura e custodia

di quella chiesa e della sua ufficiatura. Agli stessi impone che nel primo giorno di ogni

mese «per omnes kalendas» diano da mangiare a sessanta poveri; così pure a quaranta

poveri ed a dieci preti nell’anniversario della morte sua ed in quello della morte della

sorella: alla morte dei nipoti sostituisce loro la scuola dei sacerdoti. Altri beni lascia

direttamente agli stessi canonici, e pone l’ospedale e l’oratorio di S. Giovanni ed un

149 Secondo Maffei e Giuliari, di questa Glosa sarebbe una parte la Glosa in Exodum conservata nella

Biblioteca Capitolare della città. Il canonico Dionisi pensò che vi appartenesse un commento in libros Regum, anch’esso conservato nella Capitolare; ancora, il dottor. Mercati scrittore della Vaticana, ritenne che appartenesse

a qualcuna delle glosse pubblicate a Coimbra nell’anno 1827. Infine, secondo Da Prato, le parole dell’epitaffio

significherebbero che Pacifico teneva lezioni orali sulla Sacra Scrittura agli studiosi della «schola sacerdotum». v. Giovanni Battista Pighi, Cenni storici sulla chiesa veronese, vol. 1, pp. 197-205.

150 Miguel de Jesús María y Hualde, Compendio dell'era cristiana, ed anni giuliani in tavole solari dimostrative, colle quali si giustifica il giorno, ed anno certo, della Morte e Passione di nostro Signore Gesù Cristo, ed altri misteri, Roma 1762, pp. 13-24.

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piccolo tesoro dello stesso sotto la loro tutela «sub defensione scholae sacerdotum vel

(et) praepositorum ejus».

Sotto la lapide contenente l’epitaffio di Pacifico, si incontra un’altra lapide su cui

si legge scolpito un secondo epitaffio in eleganti distici elegiaci, nei quali lo stesso

Pacifico parla al lettore. Già il Maffei dubitava che tale elegia fosse realmente stata

scritta da Pacifico; probabilmente è da attribuire all’autore del primo epitaffio. Di

seguito si riportano tali versi.

Hic rogo pauxillum veniens subsiste viator,

Et mea scrutare pectore dieta tuo.

Quod nunc es, fueram, famosus in orbe viator,

Et quod nunc ego sum, tuque futurus eris.

Delicias mundi pravo sectabar amore,

Nunc cinis et pulvis, vermibus atque cibus.

Ouapropter potius animam curare memento

Quam carnem; quoniam haec manet, illa perit.

Cur tibi plura paras? quam parvo cernis in antro

Me tenet hic requies; sic tua parva fiet.

Ut flores pereunt vento veniente minaci,

Sic tua namque caro, gloria tota perit.

Tu mihi redde vicem, lector, rogo, carminis hujus,

Et dic: da veniam, Christe, tuo famulo.

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Pacificus Salomon mihi nomen atque Ireneus,

Pro quo funde preces mente, legens titulum

Obsecro, nulla manus violet pia iura sepulcri,

Personet angelica donec ab arce tuba.

Qui iaces in tumulo terrae de pulvere surge,

Magnus adest iudex rnilibus innurneris.

Tolle hinc segnitiern, pone fastidia mentis,

Crede mihi, frater, doctior hinc redies.

Anno Dominicae Incarnationis DCCCXLVI, Ind. X. 151

Verona Minor Hierusalem

Il codice Trivulziano 964, conservato presso la Biblioteca Trivulziana di Milano,

risalente al XV secolo, scritto dal veronese Bartolomeo di Simone Bolzanino dal

Muronovo152, e il Codice Capitolare CCVI, conservato presso la Biblioteca Capitolare

di Verona, databile al XVI secolo153, sono due tra le più antiche attestazioni

documentarie dell’esistenza di un’associazione tra la città di Verona e Gerusalemme.

Secondo il codice Trivulziano:

«Reperitur in dicionario condito per virum sublimen Pacificum archidiaconum

et canonicum Veronensem huiusmodi scriptura, quam ponit in lettera V secundum

151 De Jesús María y Hualde, Compendio dell'era cristiana cit., pp. 11-27.; trascrizione dell’epitaffio in

rete su http://www.veja.it/2014/01/31/larcidiacono-pacifico/ (collegamento attivo il 16 febbraio 2017) 152 Scritto quattrocentesco del veronese Bartolomeo di Simon Bonzanino dal Muronovo, una descrizione

del codice compresa di notizie su Bartolomeo di Simone Bonzanino dal Muronovo v. Gian Paolo Marchi, Giacomo Robazzi e Antonio da Legnago, «Italia medioevale e umanistica», XVII, 1974, pp. 499-503.

153 Marchi, Forma Veronae cit., p. 7.

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ordinem alphabeti. Et tenor tallis est: verona nobillis urbs Ytaliae, quam Ebrey a Sem

filio Noe post diluvium conditam ferunt, quam etiam vocant minorem Yerusalem.

Theatrum a teorando inspiciendo, quasi mirabile opus ad inspiciendum»154. «Si rinviene

nel dizionario elaborato per opera di quell’illustre uomo che fu l’arcidiacono e canonico

veronese Pacifico una scrittura di tal fatta posta alla lettera V secondo l’ordine

alfabetico. Ed il seguito è questo: Verona nobile città dell’Italia, che gli Ebrei dicono

essere stata fondata da Sem figlio di Noè dopo il diluvio e che chiamano Gerusalemme

minore. Un anfiteatro... è opera quasi mirabile da osservare da vicino»155.

Simile riferimento troviamo nel codice Capitolare CCVI di Verona:

«Hyreneus Pacificus homo nobilis et litteris eruditus et mansionarius Eclesie

maioris Verone sub lettera V ita loquitur de civitate Verone: urbs Verona in Italia sita

condita fuit a filiis Noe et eam vocaverunt minorem Yerusalem, ut patet etiam in proemio

statutorum comunis veronensis». «Ireneo Pacifico uomo nobile ed erudito nelle lettere

e mansionario della chiesa maggiore di Verona sotto la lettera V così parla della città di

Verona: la città di Verona posta in Italia fu fondata dai figli di Noè e la chiamarono

Gerusalemme minore, come appare anche nel proemio degli statuti del Comune di

Verona»156.

Ma il documento in assoluto più rilevante è il Proemio degli Statuti del Comune

di Verona, scritto dal cancelliere Silvestro Lando, notaio veronese, insigne erudito ed

umanista, nel 1450. Negli atti del Consiglio del Comune risalenti all’anno 1450157, ho

rinvenuto la messa per iscritto dell’approvazione da parte del Consiglio dei Dodici e del

Consiglio dei Cinquanta, dell’inserimento in apertura agli Statuti cittadini del nuovo

154 Codice Trivulziano 964, f. 23 r. v. Marchi, Forma Veronae cit., p. 7.; Marchi, Verona Minor

Hierusalem, in La stagione storica dell’arcidiacono Pacifico cit., p. 10. 155 Per la traduzione v. presente in rete su

http://www.ildesertofiorira.org/index.php?option=com_content&view=section&layout=blog&id=3&Itemid=6&limitstart=36 (collegamento attivo il 10 febbraio 2017)

156 Codice Capitolare CCVI, si tratta di un codice conservato nella biblioteca capitolare di Verona datato intorno al XVI secolo v. in rete su http://www.ildesertofiorira.org/index.php?option=com_content&view=section&layout=blog&id=3&Itemid=6&limitstart=36 (collegamento attivo il 10 febbraio 2017)

157 Archivio di Stato di Verona (ASVr), Atti del Consiglio del Comune di Verona, vol. 60, cc. 9-14.

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proemio. Lo stesso proemio si ritrova poi nelle successive ristampe anastatiche degli

Statuti di media e tarda età moderna; presso l’Archivio di Stato di Verona si conservano

quelle risalenti al 1561, al 1588 ed al 1747158. Si tratta di un documento estremamente

significativo poiché segna la definitiva ricezione da parte delle istituzioni cittadine

dell’esistenza di un comune sentire che accostava Verona a Gerusalemme; e in questo

modo le autorità fanno di questa tradizione uno degli elementi dell’appartenenza e

dell’identità cittadine. Il proemio è piuttosto lungo, e partire dalle origini mitiche della

città ne ripercorre la storia e le vicende; di seguito se ne riporta solo una piccola parte,

quella che tocca il tema di Verona Piccola Gerusalemme:

«In primis namque scriptores Hebraici a Sem Noe filio eam conditam tradunt,

posteaque minorem Ierusalem munitione locorum, agrorum amenitate, fructuum

affluentia, situs fere totius similitudine vocitatam». «Da principio infatti gli scrittori

ebraici tramandano che essa sia stata fondata da Sem figlio di Noè, e che poi sia stata

abitualmente chiamata Gerusalemme minore per la sicurezza dei luoghi, l’amenità dei

campi, l’abbondanza dei frutti prodotti, la somiglianza quasi dell’intera disposizione».

Quest’immagine di Verona piccola Gerusalemme promossa dal cancelliere trovò

la sua piena applicazione in una dimensione che potremmo definire pubblica, ufficiale,

con l’inserimento della formula Verona minor Hierusalem nel nuovo sigillo della città,

deliberata dal Consiglio dei Dodici e dei Cinquanta della città nel 1474. Così nel verbale

di tale importante deliberazione159:

Giovedì 25 dicembre 1473, nel Consiglio dei Dodici e dei Cinquanta, presente il

Magnifico Podestà. Per il nuovo sigillo del Comune. Fu ricordato da me Silvestro Lando

cancelliere come altra volta nel 1442 fu proposto di fare un nuovo sigillo del Comune

in luogo di quello perduto nella confusione del 1438160, il quale sigillo aveva una forma

158 Archivio di Stato di Verona (ASVr), Statuta Magnificae Civitatis Veronae, Verona 1561-1588-1747. 159 Marchi, Forma Veronae cit., p. 10.

160 Non si conosce con precisione l’origine del primo sigillo comunale: il più antico riferimento

documentario certo risale alla fine del XII secolo, e la veduta della città in esso rappresentata, tipica della fase storica di aff ermazione dei Comuni, confermerebbe tale datazione. Su questo sigillo erano scolpite le mura di una città con porte, tre torri e una croce alla sommità di ciascuna torre – immagine nella quale alcuni studiosi hanno visto un riferimento al monte Calvario, a testimonianza di come il riferimento gerosolimitano fosse già presente

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come per rappresentare la città di Verona, secondo l’iscrizione per traverso Verona e

tutto intorno l’iscrizione Est iusti latrix urbs hec et laudis amatrix. E questa forma era

una cupola come di un tempio ad arco con due capitelli a pinnacolo ai lati, e con cinque

porte nella parte inferiore; la qual forma non si riesce in alcun modo a capire che sia

stata effettivamente un qualche monumento della nostra città; e pure quel verso non

solo non è per nulla dignitoso, ma anche risulta fuor di proposito e insulso. Ricordai

anche come dal 1443 in poi non sia mai stata presa una deliberazione in ordine ad un

altro sigillo, se non che fu ed è in uso un piccolo sigillo con l’effigie di San Zeno, il

quale non è conforme al decoro di una città così importante ecc. E fatta questa relazione

e deliberato che fosse fatto in ogni modo un altro sigillo più decoroso e più adatto, si

discusse della forma, e alla fine fu deliberato che rappresenti San Zeno sullo sfondo

della città, con intorno un’iscrizione più adatta e più bella.

Parimenti sabato 26 febbraio 1474, nel consiglio dei Dodici, radunato col consenso del

Podestà, nel quale furono presenti più di due parti, alla presenza anche dei

Provveditori, in merito sull’iscrizione da porre intorno al sigillo fu deliberata la

seguente:

Verona minor Hierusalem di(vo) Zenoni patrono161

Nei codici trivulziano e capitolare sopra citati si fa riferimento ad un scritto

dell’arcidiacono Pacifico nel quale la fondazione della città è attribuita ai figli di Noè,

che le attribuiscono il nome di Gerusalemme Minore. Ecco quindi comparire, nei

documenti quattrocenteschi, il nome di uno dei personaggi più rilevanti dell’epoca

carolingia a Verona: l’arcidiacono Pacifico, di cui poco sopra abbiamo tracciato un

breve profilo biografico. Entrambe le attribuzioni sono importanti, e richiedono due

prima del cambio di sigillo. Su di esso era posta la scritta che si ritrova oggi tra le mani della statua di Madonna Verona in Piazza Erbe, importante simbolo cittadino: «Est iusti latrix urbs hec et laudis amatrix» (Questa città è portatrice del giusto e amante della lode). Sembra che questo sigillo fosse stato poi sostituito da un sigillo più piccolo che riportava l’effige di San Zeno finché nel 1474 non si decise di mutarlo con uno più adeguato alla

grandezza e all’importanza della città: così, attorno all’immagine del santo patrono, fu posta la scritta di cui si è

detto: «Verona minor Hierusalem di(vo) Zenoni patron». v. Antonella Arzone, L’Iconografia rateriana e il sigillo

medievale di Verona: appunti per una ricerca, in L'iconografia rateriana. La più antica veduta di Verona. L'archetipo e l'immagine tramandata, Atti del Seminario di studi, (6 maggio 2011), Verona-Museo di Castelvecchio. Comune di Verona 2011, pp. 183-198.

161 ASVr, Atti del Consiglio del Comune di Verona, vol. 63, c. 60.

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trattazioni a sé stanti: ci occuperemo intanto di recuperare la memoria carolingia del

binomio Verona-Gerusalemme, per trattare solo più avanti la questione della fondazione

mitica della città.

A Pacifico è attribuito, nella prima metà del IX secolo, un significativo

rinnovamento urbanistico della città, basato soprattutto sulla fondazione di numerose

chiese, di cui è detto «fundator renovator optimus»162. Così nel suo celebre epitaffio,

conservato presso il Duomo di Verona, che ci ricorda che, fra le numerose opere ed

iniziative che a lui si possono far risalire, vi è la fondazione o la ricostruzione di ben

sette chiese veronesi. Si tratta di San Zeno – non è chiaro se si tratti dell’attuale basilica

oppure della chiesa di San Zeno in oratorio -, San Procolo, San Vito, San Pietro in

Castello, San Lorenzo, Santa Maria Matricolare (l’attuale duomo), San Giorgio. La

tradizione attribuisce all’opera di Pacifico la fondazione o sistemazione di altre chiese,

fra cui quella di Sant’Elena o di Sant’Alessandro a Quinzano (oggi San Rocco); in ogni

caso non possediamo certezze documentarie che permettano di affermarlo163.

Come ha osservato Migliorini164, la toponomastica dei luoghi sacri veronesi che

richiamano i luoghi della Terra Santa sembra accertabile, per via documentaria ed

archeologica, per lo meno allo stato attuale delle ricerche, solo dopo l’anno Mille, se

non addirittura in età scaligera, dunque tra Due e Trecento. Per quanto concerne il

periodo carolingio, non vi sono certezze che vadano oltre i riferimenti contenuti in testi

quattrocenteschi o ciò che si può ricavare dall’epitaffio dell’arcidiacono Pacifico165. Nel

testo dell’epitaffio Pacifico è assimilato a Beleseel, il biblico creatore del tabernacolo: i

versi 8-11 dell’epitaffio sono la trasposizione in versi ritmici del passo biblico relativo

a questo personaggio166.

162 Marchi, Forma Veronae cit., p. 11. 163 Per la consacrazione della chiesa di Sant’Alessandro nell’ 844, i documenti erano ritenuti un falso del

1140 circa già da Biancolini e dal Da Prato.; v. La Rocca, Pacifico di Verona cit., p. 14. 164 Tommaso Migliorini, Come a Gerusalemme… così a Verona. Considerazioni in margine a una recente

pubblicazione, «MEG» 15, 2015, p. 323. 165 Ibid., p. 323. 166 Marchi, Forma Veronae, p.11.

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Secondo Gian Paolo Marchi, che a buon titolo possiamo considerare come il

maggior esperto della materia, l’assimilazione di Verona a Gerusalemme risalirebbe

molto più addietro del Quattrocento e della sua ufficializzazione negli Statuti Veronesi:

e proprio all’età carolingia, ed all’opera di pianificazione architettonico-urbanistica

dell’arcidiacono Pacifico di cui resta traccia nell’epitaffio167.

La fondazione mitica della città

Nei codici trivulziano e capitolare di cui abbiamo parlato nelle pagine precedenti

troviamo interessanti riferimenti alla fondazione mitica della città, attribuita ai figli di

Noè oppure, più precisamente, a Sem figlio di Noè. Tale racconto della fondazione della

città, assieme all’attribuzione del nome di Verona Minor Hierusalem, viene fatto risalire

direttamente a Pacifico, che ne avrebbe scritto nel controverso dizionario di cui, secondo

l’epitaffio, fu autore.

Nel corso del Medioevo fioriscono i miti fondativi delle città168. Senza

addentrarci in complesse questioni che riguardano il significato di mito e la sua

evoluzione dall’età antica a quella medievale, che esulano del resto dallo scopo di questo

lavoro e per le quali rimando a studi più specifici, è comunque opportuno fare alcune

considerazioni. I miti di fondazione delle città, che compaiono per lo più come

introduzione di componimenti municipali di varia natura, sono nella maggior parte dei

casi rielaborazioni di materiale classico, o riproposizioni di elementi sparsi che

appartengono al mondo antico169, «miti di fondazione e di eroi fondatori come ne aveva

167 A sostegno di tale tesi, Marchi adduce la somiglianza di Verona con altre città dell’Impero carolingio,

soprattutto Aquisgrana, nonché l’interpretazione di una nota manoscritta che attribuirebbe al lemma Verona di un

dizionario “pacifichiano”, citato in più parti ma non pervenuto, proprio il binomio Verona-Gerusalemme. 168 Per la coscienza della città di Verona nel corso dei Secoli v. Pierpaolo Brugnoli, La coscienza della

città e del suo decoro, in Cultura e vita civile a Verona: Uomini e istituzioni dall'epoca carolingia al Risorgimento, cur. P. Brugnoli, Verona 1979, pp. 461-515.

169 Renato Bordone, Uno stato d'animo. Memoria del tempo e comportamenti urbani nel mondo comunale italiano, Firenze 2002, p. 38.

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conosciuti l’Antichità, che il Medioevo, per questo aspetto, riproponeva»170. A partire

proprio dall’epoca carolingia, tuttavia, tali motivi vengono spesso sviluppati e rivisti,

cristianizzati potremmo dire, ricorrendo ad elementi biblici: è particolarmente frequente,

nella letteratura medievale, il motivo della fondazione da parte di Noè e della sua

progenie171.

Nel caso specifico della città di Verona, si è già parlato di come la scrittura di un

testo quale il Versus risponda ad esigenze molteplici, tra cui quella di ottenere, da parte

della nuova classe dirigente carolingia, legittimazione da parte delle élites locali di

ascendenza longobarda. Tale ricerca di legittimazione passa attraverso la celebrazione

del passato mitico della città, nonché del suo vescovo Zeno. Qui la fondazione pagana

della città viene in qualche modo riscattata, come scrive Marchi, mediante una grande

attenzione alla successiva storia sacra della città: «Ecco come fu bene fondata da uomini

pagani, che ignoravano la legge del nostro Dio, e veneravano i vecchi idoli, di legno e

di pietra»172. Ma poi venne l’era cristiana, un’era nuova anche per Verona, un’era che

raggiunge qui il suo massimo splendore, come abbiamo visto, proprio con Pipino e

durante l’età carolingia173.

Questo processo di ricerca e di celebrazione delle fondazioni raggiunse il periodo

più splendido durante l’epoca carolingia, quando l’Europa, che dopo lungo tempo riuscì

a conseguire un’unità politica e spirituale, perlomeno sotto molti aspetti, volle

legittimarsi e celebrarsi attraverso un recupero della storia classica e della civiltà

romana. Così le città dell’impero producono testi che ne nobilitano l’origine, ne

celebrano e giustificano i programmi e gli obiettivi politici.

170 Le Goff, Il cielo sceso in Terra cit., Bari 2010, p. 133. 171 Bordone, Uno stato d'animo cit., p. 38. 172 Marchi, Forma Veronae cit., p. 6. 173 Per quanto riguarda la coscienza cittadina in periodo carolingio v. Pier Paolo Brugnoli, La coscienza

della città e del suo decoro, in Cultura e vita civile a Verona: Uomini e istituzioni dall'epoca carolingia al Risorgimento, cur. P. Brugnoli, Verona 1979, pp. 461-515.

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Una versione del mito della fondazione della città si ritrova in un racconto di Pier

Luigi Zagata174, Cronica della città di Verona, poi trascritta dal Biancolini, erudita

veronese del XVIII secolo. Qui la riporto:

«Hora è da sapere le cose meravigliose che sono state inanti, che Christo

vegnisse, secondo che scrive Sicardo Vescovo di Cremona, che trova per croniche

antiche, che quando fu destrutta Troia, e che se ne partì molta zente, zoè homeni e

donne, come fò principalmente Eneas, secondo è scritto qui inanzi, et Antetor, e molti

altri, i quali foro in el trattato della destruttion de Troia per patti fatti co’Greci per aver

la città, i fò d’accordo d’esser salve le persone, e le donne, e quelle robe che i podea

portar con loro onde i cargò quella nave, che i posse, e mettesse in mare per vegnire in

Italia, e venne, como piacete a Dio. Scrive questo Sicardo, che fra le altre donne el

venne una donna chiamata Madonna Verona, et ella vedendo el paese esser bello, et

aconzo, per ella si è dificato il Laberinto, che si chiama la Rena. Sì che per quello

edificio andò poi crescendo la città di Verona. Et questo afferma Orosio e

Giustino…»175

Si è visto dunque come nell’era cristiana lo schema di fondazione mitica, mutuato

dall’età classica, si mantenga sostanzialmente il medesimo: in esso però si inseriscono

elementi cristiani, nomi di personaggi provenienti da Vecchio e Nuovo Testamento, ma

anche quello d’un personaggio d’invenzione come Madonna Verona176. Nella versione

174 Sulla Cronica della città di Verona di Luigi Zagata v. Petrucci Armando, Biancolini, Giambattista, in

Dizionario Biografico Italiani, vol. 10, Roma 1968, pp. 243-244. Fra il 1745 e il 1749 il B. pubblicò la sua prima opera d'erudizione: l'edizione critica, commentata e farcita d'ogni genere d'annotazioni e di aggiunte, della importante cronaca volgare veronese di Pier Zagata (Cronica della città di Verona descritta da Pier Zagata ampliata e supplita,annessovi un Trattato della moneta antica veronese, I, Verona 1745; II, ibid. 1747; II, 2,Supplementi, ibid. 1749). Il testo edito nel primo volume era basato su un solo codice, del quale però veniva rispettata l'ortografia: "per nulla toglierle della pregevole e veneranda antichità" (p. X).

175 v. Marchi, Verona Minor Hierusalem, in La stagione storica dell’arcidiacono Pacifico cit., p. 9 nota 1.; v. Cronaca della citta di Verona descritta da Pier Luigi Zagata, ampliata e supplita da Gian Battista Biancolini, ecc., Verona 1745, p. 1.

176 Quella di Madonna Verona è una figura ben nota ai veronesi: è la figura che troneggia al centro della fontana situata in Piazza Erbe, l’antico foro romano, cuore pulsante della città. Il monumento venne fatto costruire

da Cansignorio della Scala durante l'anno 1368, recuperando una vasca termale in marmo rosso veronese di epoca romana e apponendovi il corpo di una statua altrettanto antica, cui vennero aggiunte le parti mancanti, vale a dire il capo e le braccia. Si trattò di un'edificazione volta a rendere omaggio alla città e alla sua lunga storia, in occasione probabilmente del ripristino dell'acquedotto che sin dal tempo dei Romani riforniva la città con l'acqua proveniente dalle colline. In linea con la volontà di celebrare la tradizione storica dell'urbe, vennero fatti scolpire tutt'intorno allo stelo che s'innalza dalla vasca e funge da piedistallo per la statua, le effigi dei re del passato di Verona. Tra

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del mito di fondazione dello Zagata, che il poeta veronese deriva in parte dalla nota

cronaca di Sicardo177, elementi pagani e cristiani trovano una felice combinazione.

questi rientra anche il mitico re Vero, da cui secondo un’altra tradizione fondativa deriverebbe il nome stesso della città, Verona sua regina. Si possono poi notare i volti di Alboino re dei Longobardi e Berengario duca del Friuli che proprio a Verona stabilì la capitale del suo regno. Tra le mani, la figura femminile reca un cartiglio in rame sul quale è tuttora possibile leggere un’incisione: essa riporta l'antico motto della Verona comunale "Est iusti latrix

urbs haec et laudis amatrix", ossia "Questa città è dispensatrice di giustizia e amante della lode ". 177 Brocchieri Emilio, Sicardo di Cremona e la sua opera letteraria, (Annali della biblioteca civica di

Cremona, volume XI), Cremona, Ed. Athenaeum cremonense, 1958.

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Capitolo IV

Riferimenti gerosolimitani a Verona

Sono molteplici i riferimenti gerosolimitani presenti nella geografia sacra

veronese, dalla somiglianza urbanistica, ai toponimi, sino alle molte reliquie conservate

nelle chiese della città. Mi sembra utile, per procedere con ordine, partire dall’analisi di

quelle sette chiese che l’epitaffio pacifichiano, di cui si è tanto parlato nel capitolo

precedente, individua come fondate o rinnovate dall’arcivescovo Pacifico. In seguito,

sulla scia di Marchi, procederò ad un confronto tra l’antica forma urbis di Gerusalemme

e quella di Verona. Infine, per concludere questa ricognizione di imitationes

gerosolimitane, mi è parso utile riportare tutti quei casi di reliquie o culti isolati che,

sparsi per la città, presentano una qualche connessione con Gerusalemme178.

Le Sette Chiese di Pacifico

Si riporta quella parte dell’epitaffio pacifichiamo in cui si elencano le chiese di

cui l’arcidiacono fu fondatore o rinnovatore:

Ecclesiarum fundator, renovator optimus,

Zenonis, Proculi, Viti, Petri et Laurentii,

Dei quoque genitricis, nec non et Georgii.

178 Per i riferimenti sull’ubicazione dei luoghi menzionati a Verona si veda mappa Verona. Ubicazione

dei luoghi menzionati, p. 110.

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San Zeno

Tra le chiese fondate o rinnovate da Pacifico compare il nome di San Zeno; a tal

proposito non si è certi se l’epitafio faccia riferimento all’abbazia di San Zeno oppure

alla chiesa di San Zeno in Oratorio, una piccola chiesa ritenuta luogo di preghiera e di

pesca del Santo179. Una leggenda narra che nel 589, durante un’inondazione dell’Adige,

la cosiddetta “rotta della Cucca”, le acque del fiume si bloccarono davanti alle porte

della chiesa, ed i fedeli che vi si erano rifugiati furono, così, salvi; il fatto è riportato

nella Historia Langobardorum180 di Paolo Diacono, e non è chiaro se esso si riferisca

alla chiesa di San Zeno Maggiore oppure a San Zeno in Oratorio.

San Zeno Maggiore

Si ritiene che, nel luogo dove sorge la chiesa di San Zeno Maggiore, si siano

susseguite nel corso del tempo ben cinque chiese, tutte edificate sopra la tomba di San

Zeno181. Durante il regno di Re Pipino e sotto la diocesi di Ratoldo, venne costruita la

chiesa della quale restano oggi le parti della cripta; potrebbe essere stata questa la chiesa

alla quale si fa riferimento nell’epitaffio di Pacifico, dal momento che vi è convergenza

cronologica. La costruzione dell’attuale chiesa ebbe inizio nel X secolo, dopo che la

precedente fu distrutta agli inizi dello stesso secolo dagli Ungari, e si protrasse a lungo.

Nel 921, il 21 maggio, il corpo di San Zeno fu riposto nella cripta. L’edificio divenne

abbazia benedettina della quale oggi rimane, oltre al bel chiostro, anche la grande torre

179 Giovanni Battista Biadego, Del ponte nuovo sull' Adige a Verona in un solo arco di m. 90 e di altri

ponti in ferro in arco ed a travi rette fondati su pali a vite ..., ed. H.F. Münster, Verona 1885, p. 351. 180Verso la fine del regno di Autari, ottobre 589, avvenne la cosiddetta Rotta della Cucca, conosciuta

anche come “diluvio di Paolo Diacono” proprio perché narrata nel Diluvium nella Historia Langobardorum, III, 23.; v. Adelino Perini, Villa Bartolomea. Ambiente-Territorio-Vicende storiche, cur. GRUPPO CULTURALE della PRO LOCO di Villa Bartolomea, Legnago (VR) 1994, pp. 89-100: 91-92-93.; v. C. Balista, Il territorio cambia idrografia: la rotta della Cucca, in Archeologia e idrografia del veronese a cent’anni dalla deviazione del

fiume Guà (1904-2004), cur. G. Leonardi-S. Rossi, Verona.; v. Federica Gonzato, Giovanna Falezza, Alberto Manicardi, Pressana, via Padovana. Due nuovi insediamenti rurali di epoca romana, «Notizie di Archeologia del Veneto», 3 (2014), pp. 142-151.

181 Gianfranco Benini, Le chiese di Verona. Guida storico artistica, Verona 1988, p. 214

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merlata ad essa adiacente, sede nel corso dei secoli di alcuni vescovi, nonché destinata

all’alloggiamento di tutti gli imperatori che sostavano a Verona, come riportato da

Maffei182.

San Zeno in Oratorio

L’attuale chiesa romanica di San Zeno in Oratorio, conosciuta anche come San

Zenetto, risale al XIII secolo e subì modifiche nel XIV secolo. L’edificio romanico sorge

su quello che si ritiene essere stato un mausoleo, poi riedificato in edificio di culto

cristiano tra il VII e l’VIII secolo. Una leggenda narra che Zeno, vescovo di Verona

negli anni 356 – 380, lì avesse fondato un proprio oratorio e che vi si recasse per pregare

e pescare sull’Adige, che da lì scorre ad una decina di metri; all’interno della chiesa è

conservata la pietra sulla quale, secondo la tradizione, si dovette sedere San Zeno per

pescare183. Basandosi sulla leggenda sopracitata riguardante l’inondazione dell’Adige,

alcuni studiosi hanno ritenuto in passato ch’essa facesse riferimento proprio alla

chiesetta di San Zeno in Oratorio, in virtù soprattutto della posizione in prossimità del

fiume; altri studiosi invece, tra i quali l’autorevole Maffei, ritennero che la leggenda

facesse riferimento ad una delle precedenti chiese sul luogo di San Zeno Maggiore184.

L’attuale chiesa romanica di San Zeno in Oratorio, come già accennato, risale a

tempi successivi, e il radicale cambio di aspetto, come molti altri santuari veronesi, è

dovuto al terremoto del 1117, dopo il quale risultano riedificate molte altre chiese. Nei

secoli successivi venne modificata sino a quando, dopo l’invasione napoleonica, venne

chiusa. La chiesa fu danneggiata durante la seconda guerra mondiale e, abbandonata a

sé stessa dalla noncuranza delle amministrazioni, subì negli anni Cinquanta un crollo

della navata orientale, il quale causò l’irrimediabile perdita di pregevoli affreschi

medievali.

182 Scipione Maffei, La Verona illustrata: ridotta in compendio, principalmente per uso de' forestieri, con

varie aggiunte, vol. 2, Verona 1771, p 48. 183 Benini, Le chiese di Verona cit., pp. 220-21. 184 Biadego, Del ponte nuovo sull' Adige a Verona cit., p. 351.

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San Procolo

Proprio accanto alla grande Basilica del monastero di San Zeno a Verona sorge

la chiesa ubicata in quello che fu “il più antico documento del cristianesimo

veronese”185. Mi riferisco alla chiesa di San Procolo, un luogo le cui origini sono

antichissime. Il primitivo luogo cristiano veronese infatti affonda le sue origini nel III

secolo d.C., quando i primi vescovi di Verona guidavano la chiesa veronese da qui

offrendo rifugio ai primi cristiani, distanti dalla città nei cimiteri, pagani e cristiani,

come era costume romano, lungo la via Postumia a sud-ovest di Verona romana. Una

Chiesa perseguitata, con un forte attaccamento ai propri martiri, e ai propri cristiani,

sepolti anche in quel luogo. San Procolo infatti prese nome da uno dei proto-vescovi

veronesi, San Procolo (260-301), quarto vescovo. Il momento della sua edificazione è

incerto, si parla del III186 o V secolo, gli scavi archeologici, i primi risalgono agli anni

Venti, degli anni Ottanta del Novecento, hanno rinvenuto, oltre che le tombe pagane e

dei martiri cristiani del III secolo, le fondamenta di quella che era la chiesa

paleocristiana187. La storia dell’edificio prosegue nei secoli: nella prima metà del IX

secolo viene attribuito un suo rifacimento ad opera dell’arcidiacono Pacifico, ricordato

nel celebre epitafio; ma ne reca notizia anche il famoso Versus de Verona, nel quale

viene indicato come luogo di sepoltura del vescovo Santo Zeno, patrono della città,

ricordato per aver battezzato l’intera Verona:

«qui Veronam predicando deduxit ad baptismo»188

La chiesa venne interamente ricostruita dopo il terremoto del 1117 e nei secoli

successivi, nel Duecento e nel Trecento, venne ripetutamente restaurata e ampliata, con

l’aggiunta di parti strutturali e affreschi.

185 Benini, Le chiese di Verona cit., p. 179. 186 v. La chiesa di San Procolo in Verona, cur. Pier Paolo Brugnoli, Verona 1988. 187 In rete su

http://www.archeoveneto.it/portale/?page_id=131&recid=64 (collegamento attivo il 20 gennaio 2017).

188 Maureen C. Miller, Chiesa e Società in Verona Medievale, cur. Paolo Golinelli, Verona 1998 (Biblioteca dei Quaderni di Storia Religiosa, 2), p. 202 nota 4.

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Nel 1492 vennero rinvenute le reliquie dei santi vescovi: Euprepio primo vescovo

di Verona, Procolo quarto vescovo, Cricino settimo vescovo e Agapio nono vescovo; il

fatto fece sì che si riscoprisse il culto di San Procolo, precursore della comunità cristiana

della città, e della sua chiesa, così antica. Durante il periodo napoleonico la chiesa

attraversò una lunga crisi: perse l’uso parrocchiale, poi fu chiusa e sconsacrata, con il

conseguente trasferimento delle reliquie nella adiacente Basilica di San Zeno. Ridotta a

magazzino militare, a deposito, a cinematografo ai primi del ‘900, San Procolo ricevette

i primi restauri negli anni Venti, poi interrottisi e ripresi negli anni Ottanta189.

San Pietro in Castello

La chiesa dedicata a San Pietro sorgeva sulla cima del colle che ancora oggi porta

il nome del Santo, Colle San Pietro. Il colle sin dall’antichità era vissuto e abitato: la sua

storia fu un susseguirsi di fortificazioni da Teodorico passando per i Longobardi di

Alboino sino a giungere ai carolingi con Pipino. Berengario re d’Italia vi costruì un

castello tra la fine del IX secolo e l’inizio del X. Nell’809 l’arcidiacono Pacifico è

menzionato nella lista dei testimoni all’atto con il quale il vescovo Ratoldo e il conte

Hucpaldo donarono i beni del defunto conte Hadumar alla chiesa di San Pietro de castro.

Pochi anni dopo Pacifico ricompare tra i testimoni fautori del consolidamento del

patrimonio della scola di Verona, e ancora nell’811 il Vescovo e Pacifico compaiono in

una carta dove viene sottoposta alla Chiesa di San Pietro in castro, la cappella di «sancti

Bartolomei apostoli in eodem monte eiusdem castri scitam» con il fine di far divenire la

cappella e i suoi redditi patrimonio del capitolo. Il vescovo afferma nelle carte di avere

agito per consiglio divino e «dilecti archidiaconi nostri Pacifici auggerente

benevolencia»190. Prima del 1046 la chiesa risulta essere stata sottoposta alla cattedra

vescovile e successivamente divenuta pieve, ma non risulta potesse svolgere la funzione

battesimale. Presso la chiesa Galeazzo Visconti fece costruire il complesso fortificato di

189 Benini, Le chiese di Verona cit., p. 179-180.

190 La Rocca, Pacifico di Verona cit., p. 4.; Per i documenti menzionati v. Ibid., p. 4 note 6-7.

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Castel San Pietro in un momento di declino della chiesa, incominciato con il XIII secolo

e l’impoverimento della chiesa stessa191. Nel 1801 il complesso fortificato di San Pietro

venne demolito dai francesi di Napoleone e successivamente, nel 1840, quando la città

di Verona fu divisa in due zone di influenza tra francesi, sulla riva destra dell’Adige, e

Austriaci, sulla riva sinistra, questi ultimi demolirono i resti del Castel San Pietro e

anche quello che rimaneva della chiesa, costruendovi poi una caserma. Di quel passato

non rimane oggi più traccia, solo qualche rovina della cinta muraria e frammenti di torre

del castello Trecentesco.

San Lorenzo

La chiesa di San Lorenzo sorge nel centro cittadino lungo la via Postumia,

laddove tra IV e il V secolo venne edificata; fu dedicata a San Lorenzo, dal momento

che conserva all’interno le reliquie del Santo. La chiesa è menzionata dal Versus de

Verona e compare, come abbiamo visto, tra le chiese rinnovate da Pacifico. Le reliquie

di San Lorenzo in essa conservate, assieme a quelle di altri santi custodi, fanno parte di

quella cerchia santa che proteggeva Verona dai nemici, secondo le parole del Versus192.

La chiesa originale venne fortemente danneggiata tra il X e l’XI secolo, nel

periodo delle invasioni Ungare e a causa del terremoto del 1117. Della chiesa antica

rimangono alcuni resti come i frammenti del pluteo di epoca longobarda, dei capitelli,

le colonne e le lapidi che si trovano nel cortile della chiesa attuale. L’attuale San Lorenzo

risale al XII secolo e venne ricostruita in diverse fasi; nella ricostruzione furono aggiunte

le torri scalari, magnifiche torri di ispirazione normanna, raro esempio nell’Italia

settentrionale. L’edificio, con i matronei, il transetto in due campate, le cinque absidi e

le importanti torri scalari rappresenta un caso pressoché unico di architettura di

191 Per quanto riguarda i fondi della chiesa questo sono contenuti nel Fondo Veneto I nell’Archivio segreto

Vaticano, documentazione citata nel Codice digitale degli archivi veronesi (VIII-XII secolo), cur. Andrea Brugnoli, v. in rete su http://cdavr.dtesis.univr.it/index.php/san-pietro-in-castello-fondo-veneto-i#_ftn1 (collegamento attivo il 20 gennaio 2017)

192 Pighi, Versus de Verona cit., vv. 55-90.

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ispirazione cluniacense e di architettura “carolingia”. Nel XII secolo vennero riposte le

reliquie di Sant’Ippolito e sul finire del XII secolo, quando il Pontefice Lucio III si

rifugiò a Verona a causa sordini romani, egli concesse alla Chiesa di San Lorenzo gli

stessi privilegi dell’omonima chiesa romana, la Basilica di San Lorenzo193.

Santa Maria Assunta, Matricolare

La chiesa cattedrale di Verona, come molti altri luoghi sacri, sorge sopra

precedenti chiese. La prima chiesa risale alla prima metà del IV secolo, e tale primitivo

edificio è ancora oggi parzialmente visibile; successivamente, nel V secolo, venne

edificata una basilica. Verso la fine dell’VIII secolo tale basilica venne dismessa e di

fronte ad essa venne eretta la nuova chiesa che, in quanto chiesa madre, quindi

matricularis ecclesia, venne intitolata a Santa Maria Matricolare, per opera di Annone

o di Eginone, a cavallo del 774194. La sede episcopale passò dalla Cattedrale di Santo

Stefano protomartire extra moenia alla nuova chiesa Madre, matricularis, intra

moenia195. In epoca carolingia, al tempo dell’arcidiaconato di Pacifico, la sede

episcopale venne rinnovata: essa fu restaurata per volere del vescovo Ratoldo (803-840)

e di Pacifico, e contemporaneamente furono rinnovati gli spazi del capitolo, come la

schola sacerdotum e lo xnodochium196. Come si è visto, nell’epitaffio di Pacifico la

cattedrale risulta tra le chiese che furono edificate e o rinnovate dall’arcidiacono; è lecito

annoverarla, vista la cronologia, tra le chiese che Pacifico contribuì a ricostruire.

Il devastante terremoto del 1117 colpì anche questa chiesa, la quale venne

fortemente danneggiata, tanto che si rese necessaria la quasi completa ricostruzione, che

si svolse tra il 1120 e il 1187. Nell’anno in cui terminarono i lavori di ricostruzione, la

cattedrale ricevette consacrazione solenne da parte del pontefice Urbano III. Santa Maria

193 Benini, Le chiese di Verona cit., p. 139.; Per riferimenti alla chiesa di San Lorenzo v.

www.beweb.chiesacattolica.it 194 Carlo Guido Mor, Dalla caduta dell’impero al Comune, in Verona e il suo territorio, II, Verona 1964,

p. 229. 195 Benini, Le chiese di Verona cit., p. 61. 196 Per riferimenti alla chiesa Cattedrale di Verona v. www.beweb.chiesacattolica.it .

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Matricolare fu ricostruita in pieno stile romanico: di questa ricostruzione oggi restano,

dopo i grossi rifacimenti del XV secolo, tracce visibili, come le caratteristiche mura

laterali in cotto, tufo e marmo veronese, la parte inferiore della facciata con il bel protiro,

il protiro laterale e l’abside197.

L’aspetto odierno è frutto delle modifiche del XV secolo, realizzate basandosi su

progetti anteriori e in stile gotico. Il campanile non venne mai completato, infatti il

progetto originale di Michele Sanmicheli198, impostato sul campanile romanico, non

venne compiuto anche se, sul medesimo progetto, negli anni 1913-1930 venne innalzato

alla quota attuale199.

San Giorgio Martire, in Braida

San Giorgio in Braida sorge nel luogo dove, nell’XI secolo, venne fondato un

monastero benedettino, e dove già esisteva una basilica paleocristiana databile al V

secolo. Qui, all’inizio del IX secolo, durante il vescovato di Ratoldo e l’arcidiaconato di

Pacifico, fu edificata una nuova chiesa, che sarebbe divenuta sede della scuola

cattedrale. In quest’occasione un contrasto oppose Ratoldo e Pacifico: il primo, infatti,

affidò la consacrazione di San Giorgio al patriarca di Aquileia, ponendo la chiesa sotto

la sua diretta giurisdizione200. A ciò si oppose Pacifico, rivendicando una sorta di

proprietà sulla chiesa, dal momento che questa sorgeva su un terreno di sua proprietà.

La costruzione di una chiesa su di un terreno privato, libero dunque da ogni vincolo

giuridico e che rendeva l’edificio soggetto alla volontà del detentore, costituisce di per

sé un caso eccezionale, del tutto in contrasto con la giurisdizione dei luoghi sacri201. Pare

197 Benini, Le chiese di Verona cit., p. 61. 198 Michele Sanmicheli, architetto veronese di fine Quattrocento, la data di nascita è incerta (1484/88-

1559) fu architetto militare della Serenissima. Le sue opere di fortificazione si possono trovare in numerosi luoghi della Repubblica di Venezia compreso l’arsenale di Venezia.; v. Bruno Maria Apollonj, Sanmichèli, Michele, in Enciclopedia Italiana, Roma 1936, in rete su www.treccani.it/enciclopedia .

199 Benini, Le chiese di Verona cit., p. 61. 200 C. Fiorio Tedone-S. Lusuardi Siena-P. Piva, ll complesso paleocristiano e altomedievale, in La

cattedrale di Verona nelle sue vicende edilizie dal secolo IV al secolo XVI, cur. Pier Paolo Brugnoli, Verona 1987, pp. 80-81.

201 Mor, Dalla caduta dell’impero cit., p. 229.

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che, nonostante recenti studi archeologici mostrino che la chiesa doveva essere estesa in

piccolissima parte su terreni allodiali di proprietà di Pacifico, tale rivendicazione sia

bastata per convincere Ratoldo a rinunciare ai propri diritti sull’edificio202.

Nell’XI secolo sul medesimo sito venne edificato un monastero benedettino “in

località pradonego” ovvero prato del Signore, che dalla voce longobarda “breit” divenne

“braida” o “brà”, indicando un campo generico203.

L’attuale costruzione risale al 1477, per iniziativa dei monaci veneziani di San

Giorgio in Alga, mentre la facciata è più tarda risalendo al XVII secolo204.

Nell’epitaffio pacifichiano si nomina infine un’ultima chiesa, San Vito, ma non

è stato possibile recuperare alcuna notizia in merito all’esistenza di una chiesa, o di una

cappella, intitolata a questo santo. Va detto che, nei secoli immediatamente successivi

alla vita e all’opera dell’arcidiacono Pacifico, la città crebbe e si modificò notevolmente

dal punto di vista urbanistico, architettonico e monumentale, e molti edifici vennero

danneggiati e distrutti, oppure furono inglobati in nuove strutture edilizie.

Forma Urbis

Già negli scritti quattro e cinquecenteschi del cancelliere Silvestro Lando e del

poeta Torello Saraina205 si trovano riferimenti a luoghi precisi, il cui percorso e le cui

vicende mi sembra qui utile ricostruire. Nel verbale, analizzato nel capitolo precedente,

che contiene l’approvazione, da parte del Comune di Verona, di un nuovo sigillo per la

città, si rilevano i punti di contatto tra la situazione geografica di Gerusalemme e quella

di Verona:

202 Fiorio Tedone-Lusuardi Siena-Piva, ll complesso paleocristiano cit., pp. 80-81. 203 Benini, Le chiese di Verona cit., p. 123. 204 Ibid. 205 Torello Saraina erudito veronese (1475-1550), notaio e giureconsulto, fu uno dei primi e autorevoli

storici veronesi.; v. Giuseppe Trecca, Giovanni Caroto, in Madonna Verona, IV (1910), pp. 190-196.; v. Safarik E., Caroto, Giovanni, in Dizionario Biografico Italiani, vol. 20, Roma 1977, pp. 563-564.

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« Nam et in hunc usque diem apud nos, et loca eadem six maxime montis Domini,

Nazaret, Bethlem, Sepulchri nomina consequentia praestant. Qua laude vetustatis nulla

maior, aut prestantior proferri potest»206.

Così scrisse Torello Saraina nella sua opera De origine et amplitudine civitatis

Veronae del 1540, pubblicata nella versione volgarizzata dal nipote Gabriele nel 1546:

«[…] e preso il cammino su per lo monte, a quella parte pervenimmo, ov’è posto

il castel S. Pietro. Quivi essendo giunti, mentre che tutti eravamo sul rimirar la città:

sapete voi, io incominciai, la cagione, perché nelle prefazioni degli statuti i nostri

maggiori lasciarono scritto, Verona essere chiamata picciola Gerusalemme? Io non,

rispose M. Giovannicola, acciocché io parli per tutti; donde giudicherei, che ciò ne

dovesse esser fatto palese.

Ed io seguitai: i nostri antichi, o perché vedessero la città nostra tenere alcuna

sembianza con Gerusalemme, o che sapessero in que’ luoghi, a quali nomi della terra

santa fossero imposti, operarvisi meglio alle genti, e starvisi con più divozione; pajono

avere amato in questa una certa imitazione di Gerusalemme. E primieramente quella

valle, che a man destra vedete, chiamarono la valle dominica, come oggi Valle Donnica

sia detta volgarmente. E quel monte, la cui chiesetta di San Roco poi diede il nome,

dissero il monte Calvario; e quivi vollero che ad imitazione del vero tre croci si

drizzassero. Quella chiesa, che di rimpetto a noi vedete, e chiamata Nazareth, e il

picciol tempio di San Giovanni in monte, nominato Betlemme, e il sepolcro ancora non

è guari lontano. Per le quali cose tutte, quelli, che furono gli autori dei nostri statuti,

meritatamente chiamarono questa città picciola Gerusalemme.

Certamente M. Torello, quivi rispose M. Giovannicola, voi dite il vero; né può

essere altramente…»207.

206 ASVr, Atti del Consiglio del Comune, vol. 63, c. 60. 207 Cesare Cavattoni, Dell' origine ed ampiezza di Verona volgarizzamento fatto nel 1546 da Gabriele

Saraina sopra l'opera latina di torello suo zio: e nelle nozze de nobilissimi signori il Conte Antonio Portalupi e la Marchesa Maria di Canossa. Verona 8 sett. 1851, p. 29.

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A partire da questi riferimenti e sulla scia di Marchi208, è possibile rilevare alcune

somiglianze tra l’antica forma urbis di Gerusalemme e quella di Verona.

San Rocchetto, ovvero il Santo Sepolcro, e la Santissima Trinità in Oliveto,

ovvero il Monte degli Olivi

Se si osserva il posizionamento dei citati santuari rispetto alla città e all’Adige,

si scorge che il fiume separa il Monte Oliveto, sopra il quale sorge la chiesa della

Santissima Trinità, dal Monte del Calvario, il Cavro, il quale è presso il paese di

Quinzano, in cima al quale sorge San Rocchetto, ovvero il Santo Sepolcro. Entrambi

questi santuari sono esterni alla cinta muraria antecedente al periodo della signoria Della

Scala; la medesima cosa avviene a Gerusalemme per quanto riguarda i luoghi ad essi

corrispondenti. Il torrente Cedron a Gerusalemme scorre fuori dalle mura e divide le due

colline del Calvario e del Monte Oliveto.

La collina sovrastante il paese di Quinzano a ovest ha una storia religiosa le cui

origini risalgono all’antichità209; il colle era allora denominato del Calvario: oggi questa

collina è chiamata Monte Cavro, un toponimo che è la trasformazione, la corruzione del

nome più antico210. Tra il XII e il XIII secolo sulla sommità del colle venne costruita

una grotta sovrastata dalla riproduzione del monte brullo del Golgota sul quale furono

erette tre croci, che ancora oggi possono essere scorte dal visitatore. All’interno della

grotta venne collocato un sepolcro circondato da statue raffiguranti i personaggi che

presenziarono alla sepoltura di Cristo. Antonio Pighi a fine Ottocento, così scrisse: «[…]

Al di dietro della grotta si appoggia l’altar maggiore della chiesetta che copre e

circonda e che per più secoli si disse perciò la chiesa del S. Sepolcro»211. Secondo

208 Marchi, Forma Veronae. L’immagine della città nella letteratura medioevale e umanistica, in Ritratto

di Verona, cur. L. Puppi, Verona 1978, pp. 11-12. 209 All’Età del Bronzo risale la presenza di un castelliere probabile luogo di culto. 210Antonio Pighi, Il santuario di S. Rocco in Quinzano veronese, Verona 1887, p. 6. 211 Pighi, Il santuario di S. Rocco in Quinzano cit.

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Saraina, il monte del Calvario sarebbe stato rappresentato dalla collina sulla quale sorge

la chiesa chiamata San Rocchetto, già dedicata a Sant’Alessandro e che si ritiene fondata

dall’Arcidiacono Pacifico212.

La chiesetta del Santo Sepolcro, oggi San Rocchetto, venne edificata nel XV

secolo e a quella fase appartengono l’aula, le absidi ed il campanile. Edificata con la

componente di alcune pietre provenienti dalla Palestina, Terra Santa, stette in questo

modo a significare che l’intera chiesa era una reliquia213. Tra il 1580 e il 1596 la chiesa

subì delle modifiche, e l’intera facciata originale venne coperta con una nuova struttura.

In quello stesso frangente l’interno della chiesa venne decorato con un ciclo di affreschi

raffigurante le “Storie di San Rocco”. Con il XVII secolo la dedicazione al Santo

Sepolcro scomparve, e da allora rimase soltanto quella a San Rocco.

Separata dal corso dell’Adige, si trova opposta alla chiesa del Santo Sepolcro,

oggi san Rocchetto, la Santissima Trinità in Monte Oliveto. Ancora oggi la chiesa

mantiene la denominazione in Oliveto. L’abbazia dedicata alla Santissima Trinità venne

edificata dai monaci di Vallombrosa tra il 1073 ed il 1117, consacrata il 12 gennaio 1117

ed ampliata tra il 1130 e il 1140. Il complesso vallombrosano della Santissima Trinità,

sorge in una piccola altura denominata Monte Oliveto. Alessandro Canobbio, erudito

veronese cinquecentesco, narrando la storia di Verona scrisse, riferendosi alla

fondazione della Santissima Trinità: «si edificò la Chiesa della Santissima Trinità, nel

qual luogo vi era un monticello, che si chiamava il monte Oliveto»214. È possibile, in

realtà, che la denominazione Oliveto discenda dall'Ordine degli Olivetani di

Vallombrosa, uno dei filoni usciti dai monaci San Benedetto, che costruirono il

monastero. Durante il XII secolo presso la Santissima Trinità era presente uno

scriptorium e nel XIII secolo fu edificato uno xenodochum per poveri e pellegrini diretti

in Terra Santa; potrebbero essere stati anche pellegrini di ritorno dalla Palestina ad aver

212 Per quanto riguarda l’attribuzione a Pacifico e la critica alla documentazione si veda: La Rocca,

Pacifico di Verona cit., p. 14 nota 41; v. Andrea Castagnetti, La Pieve Rurale nell’Italia Padana. Territorio,

organizzazione patrimoniale e vicende della pieve veronese di San Pietro di ‘Tillida’ dall’alto medioevo al secolo

XIII, Roma 1976 (Italia Sacra, 23) p. 141 nota 534. 213 G. B. Pighi, Cenni storici sulla chiesa veronese cit., pp. 181-182. 214 Alessandro Canobbio, Historia intorno la nobiltà e l’antichità di Verona, Ms. 1968, VI, c. 18v.; v.

Angelo Passuello, La chiesa della Santissima Trinità in Monte Oliveto a Verona. Analisi storico-architettonica della fabbrica vallombrosana (XI-XIV secolo), «Arte Cristiana», (2014 884/102), p. 324.

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intravisto in quel monte il monte Oliveto, dando così origine al toponimo dal forte

richiamo gerosolimitano.

Questa altura, particolare e unica nella sua conformazione, contribuì molto presto

a rientrare nel contesto gerosolimitano della città, declinandosi assieme agli altri luoghi

ed elementi nel panorama cittadino215.

Santa Toscana, già Santo Sepolcro

La chiesa di Santa Toscana ha origine antecedente alla sua assegnazione ai

Gerosolimitani nel 1135 e successivamente ai membri dell’Ordine degli Ospitalieri di

San Giovanni di Gerusalemme, avvenuta nel 1178. Inizialmente la chiesa era un

cimitero dei benedettini di San Nazaro i quali, in seguito ad una disputa che li oppose

all’Ordine degli Ospitalieri, perdettero il controllo della chiesa a favore di questi ultimi.

Di memoria gerosolimitana assieme a Santa Toscana vi era la chiesa di San

Vitale, con le sue reliquie, la quale appartenne all’Ordine dei cavalieri Templari sino

alla loro soppressione, avvenuta nel 1312, quando entrò a far parte dei possedimenti

della Commenda dei Cavalieri di Malta. San Vitale oggi non c’è più, poiché fu demolita

in periodo napoleonico; di essa rimane però memoria nel tessuto urbano con l’omonima

via San Vitale; le reliquie del Santo vennero spostate in Santa Maria del Paradiso216.

Biancolini scrisse che «Questa chiesa è tanto antica che da essa ebbe origine il

nome alla porta della città posta nelle seconde mura, dette il Muro nuovo, non guari

discoste dal monistero di Santa Maria in Organo […] Fino del 1037 s’hanno memorie

che la detta porta si chiamava del Santo Sepolcro. Ma col passar del tempo venne a

perdere l’antico nome, e a chiamarsi la Porta del vescovo»217.

La chiesa dunque era dedicata al Santo Sepolcro prima del periodo crociato e

prima della cessione agli ordini gerosolimitani. Vicino alla chiesa e quindi alla porta del

215 Passuello, La chiesa della Santissima Trinità cit., pp. 323-330. 216 Migliorini, Come a Gerusalemme… cit., p.322. 217 Marchi, Forma Veronae cit., p. 12.; Per il testo di Biancolini v. Gianbattista Biancolini, Notizie storiche

delle Chiese di Verona, vol. 2, Verona 1749. Pp. 573.

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Santo Sepolcro, ora Porta Vescovo, vi era un ospedale gestito dall’Ordine di San

Giovanni, gli Ospitalieri. La porta in questione era l’antica porta delle mura medievali

risalenti al X secolo, poste a difesa della città sulla riva sinistra dell’Adige; oggi la porta

esiste ancora, ed è un edificio privato. Con la costruzione dei bastioni veneziani le più

vecchie mura vennero racchiuse nella nuova cerchia e la porta rimase isolata

nell’abitato218.

Con queste parole, nel 1668, Lodovico Moscardo descrivendo la vita di Santa

Toscana, parlò dell’ospedale del Santo Sepolcro, comunemente chiamato “Ospedal di

Pietà”:

«Nel 1174 furono portati i Corpi di S. Biagio, e delli due suoi discepoli, con

quello di S. Giuliana martire, … In questo tempo era l’hospital del Santo Sepolcro

vicino alla porta del Vescovo, era soggetto alla Religione di S. Giovanni

Gierosolimitano, dove si albergavano i poveri infermi. In questo morì S. Toscana di

Zevio vedova di Occhio di Cane de’ Occhio de Cani Pattrizio Veronese. […]»219.

La chiesa era adibita a cimitero benedettino del convento di San Nazaro, e

tutt’oggi per accedere alla chiesa si attraversa l’antico cimitero. All’interno della chiesa

si trova il Santo Sepolcro in una cappella, una cella stretta e umida, dove la Santa

veronese avrebbe trascorso gli ultimi giorni della sua vita in preghiera.

Nella chiesa si trova un crocefisso la cui storia, secondo una leggenda, è quella

di essere stato il crocefisso di un pellegrino tedesco, devoto alla Croce, il quale viaggiava

sempre con questo oggetto di culto. Giunto a Verona decise di lasciare il crocefisso a

questa chiesa, affinché i fedeli potessero pregare davanti a quella croce, così come lui

aveva fatto.

Il 14 luglio 1432 vennero traslate all’interno del Santo Sepolcro le reliquie di

Santa Toscana220 che, restaurata e riconsacrata, ricevette la nuova dedicazione il 29

218 v. mappa Verona: Veronetta. Ubicazione luoghi 14, p. 145. 219 Vita di Santa Toscana da Verona, in rete su

http://www.veja.it/2016/02/08/vita-santa-toscana-verona/#more-32855 (collegamento attivo il 18 gennaio 2017).

220 Verona Minor Hierusalem. Alla riscoperta di un antico percorso, cur. Davide Galati-Marta Scandola-Martino Signoretto, Verona 2011.

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novembre 1489. È utile ricordare che Santa Toscana fu conversa gerosolimitana in età

comunale, XII secolo, o scaligera, XIV secolo. All’interno della chiesa, come sottolinea

Migliorini, non è un caso forse che sia presente un Compianto sul Cristo datato all’inizio

Cinquecento: pur trattandosi di un’opera di epoca moderna, essa appartiene ad una

tipologia di opere che giunse in Occidente da Bisanzio221. Dell’antica dedicazione della

chiesa medievale rimane oggi una traccia nella toponomastica cittadina: nei pressi della

chiesa una piccola via, che giunge all’odierna porta Vescovo, si chiama Via Salita San

Sepolcro.

Il fatto che vi fosse una denominazione al Santo Sepolcro prima del periodo

crociato conferma che la dedicazione di chiese con nomi che richiamano la Terra Santa

non è dovuta alla devozione e allo spirito verso la causa crociata che, come ho avuto

modo di sottolineare, fu un impulso in molte città al richiamo gerosolimitano. Anzi,

come sottolineato da Marchi, alcune di queste denominazioni sono cadute in disuso

proprio in periodo crociato222.

Santa Anastasia

Secondo uno studio di Pier Paolo Brugnoli la basilica di Santa Anastasia potrebbe

portare nel suo nome una origine differente rispetto alla provenienza dal nome della

santa paleocristiana223. Si tratterebbe di un importante riferimento gerosolimitano:

quello dell’Anastasis. Tale origine presupporrebbe l’intitolazione originale alla

Resurrezione di Cristo e un riferimento alla chiesa omonima gerosolimitana del Santo

Sepolcro a Gerusalemme. Come ha sottolineato Migliorini, non sono stati condotti

ulteriori studi, dal momento che i riferimenti gerosolimitani al Santo Sepolcro a Verona

221 Migliorini, Come a Gerusalemme… cit., p. 321. 222 Marchi, Foma Veronae cit., p. 12. 223 Pier Paolo Brugnoli, Santa Anastasia, tempio della Resurrezione, «Verona Fedele», numero speciale,

3 aprile 1960.

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furono già presenti e posteriormente a questa chiesa di Santa Anastasia: si veda la

sopracitata Santa224.

Brugnoli mette in risalto come l’ubicazione della chiesa corrispondesse alle

medesime contestualità della chiesa della Anastasis a Costantinopoli, la quale imitava

l’Anastasis di Gerusalemme. La chiesa, sorgendo alla conclusione del decumano

massimo, avrebbe imitato nella sua costruzione quella di Costantinopoli, con la

costruzione di un tempio225. La chiesa strutturalmente sorge sull’area di due preesistenti

chiese, forse volute da Teodorico, dedicate a San Remigio e Sant’Anastasia226. Reputo

importante considerare dunque che già originariamente il nome Anastasia era presente

e che quindi la teoria di Brugnoli porrebbe il riferimento gerosolimitano in una chiesa

molto antica, con la possibilità che vi fosse tale riferimento a l’Anastasis in periodo pre-

carolingio e quindi una ipotesi che si legherebbe allo sviluppo di Marchi di una Verona

gerosolimitana precedente il periodo carolino227. Nel 1261 i Domenicani iniziarono la

costruzione dell’attuale Basilica di Santa Anastasia, la quale appunto ereditò il nome

dalla precedente costruzione e parte delle murature, divenendo la chiesa più grande di

Verona228. All’interno sono presenti dei riferimenti artistici gerosolimitani: tra questi il

famoso affresco di Antonio di Puccio, detto Pisanello, San Giorgio e la principessa è

stato letto come un episodio da interpretare nell’ottica della crociata antiturca, tra l’altro

un motivo presente in altri luoghi veronesi come ai Santi Apostoli, a San Pietro Martire

e a San Zeno229.

224 Migliorini, Come a Gerusalemme… cit., p. 320 nota 39.; per la chiesa dell’Anastasis = Santo Sepolcro

di Gerusalemme v. Renata Salvarani, Liturgie di Gerusalemme nello specchio delle fonti di pellegrinaggio tra l’età costantiniana e la conquista crociata, pp. 97-132.; per Santa Anastasia di Verona = Anastasis v. Brugnoli, Santa Anastasia cit., cit. in Marchi, Verona minor Ierusalem. Contributo alla storia dell’urbanistica carolingia,

«Architetti Verona» 3/13, 1961, p. 32, p. 33 nota 16. 225 “La chiesa, me si sa, sorge in capo al decumano massimo, prolungamento del quale era, fuori delle

mura, la via dei sepolcri. La chiesa ancora par sia collocata sulle rovine dell’antico circo. È dunque probabile, che

in epoca molto remota, quando il cristianesimo si era da poco affermato nella nostra città, si sia eretto un tempio (in capo alla via dei morti, si badi bene) ad imitazione dell’Anastasis di Costantinopoli, la quale a sua volta

riproduceva l’Anastasis, basilica della resurrezione, in Gerusalemme”. v. Brugnoli, Santa Anastasia cit.; Migliorini, Come a Gerusalemme… cit., p. 320 nota 39.

226 Benini, Le chiese di Verona cit., p. 72. 227 Marchi, Forma Veronae cit., p. 12. 228 Benini, Le chiese di Verona cit., p. 72. 229 L’affresco viene presentato dallo storico dell’arte Puppi come episodio da interpretare in chiave

crociata antiturca. v. Migliorini, Come a Gerusalemme… cit., pp. 320-321. […] un motivo iconografico la cui precedenza veronese parrebbe inconfutabile (affreschi delle chiese veronesi dei Santi Apostoli, si San Pietro Martire sive San Giorgetto, di San Zeno […]. L’opera sarebbe, non a caso, databile «tra il finir del 1437, allorché

lo scioglimento del consesso è [sc. Concilio] di Basilea appare confortato dalla decisione della riaperturea in Ferrara e dall’assenso di Giovanni VIII Paleologo» (superatore della «vecchia diatriba» con i regnanti dissidenti

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Nell’affresco riguardante l’episodio del Santo Megalomartire vi sarebbero

richiami gerosolimitani nell’edicola, la quale sembra riferire alla iconografia del

periodo, della Cappella del Santo Sepolcro230.

Un cenno meritano anche altri due luoghi della città che presentano un forte

riferimento gerosolimitano, e pertanto devono essere inseriti in questa ricognizione delle

analogie tra Verona e la Terra Santa.

La Scala Santa

La Scala Santa è una strada in lieve salita che, partendo dalla chiesa di San

Giovanni in Valle, termina nei pressi della chiesetta di San Zeno in Monte, già nota con

il nome di Santa Maria di Betlemme231. Pare che tale scalinata fosse stata eretta dai padri

somaschi nel XVI secolo232; Don Giovanni Calabria pose lungo il percorso una serie di

formelle, stazioni per una Via Crucis che tutt’oggi gli abitanti del borgo risalgono in

preghiera durante le celebrazioni della Settimana Santa.

La presenza di una scalinata nota come Scala Santa, al di là delle sue reali origini,

istituisce un parallelo preciso con uno dei luoghi di Roma maggiormente legati alla Terra

Santa, contribuendo a connotare fortemente questa parte di Verona. Il percorso della

Scala Santa conduce ad una chiesa il cui nome antico, Santa Maria in Betlemme,

rimanda con forza alla Terrasanta233.

di Trebisonda «attraverso quel matrimonio con Maria Comnena mediato dal trapezuntino Bessarione» […] «e l’estate del 1438 quando Pisanello decide di muovere verso la città estense» […] l’eco veronese del concilio di

ferrara, grande speranza nitaria, conciliare e crociata, nella riproduzione della medaglia pisanelliana di Giovanni VIII Paleologo, da parte del pittore locale Giovanni Badiglie, nella cappella absidale dedicata a San Girolamo nella chiesa veronese di Santa Maria della Scala, 1443) […]».

230 Migliorini, Come a Gerusalemme… cit., p. 321. 231 v. mappa Verona. Ubicazione dei luoghi 10, 11, 12, 13, p. 131. 232 Ibid., p. 322. 233 Ibid., pp. 321-322.

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San Zeno in Monte, già Santa Maria di Betlemme

Scrive il Biancolini234 che «sovra il monte che alla nostra città sovrasta de’

templi innalzarono: uno […] in memoria del Parto miracoloso di essa Vergine in

Betlemme»235. Si tratta della Chiesa di Santa Maria in Betlemme. Così ne parla il

Biancolini «Giace [...] S. Zeno in Monte […] entro le mura di Verona sopra una collina

separata dalla moltitudine della gente, in cui non solo godesi un’aria salubre e perfetta;

ma ancora da tal luogo si domina ampiamente la città divisa dal fiume Adige, e monti,

e colli, e vasto tratto d’amenissima campagna. Orti coltivati lo circondano, percorsi da

lunghi filari di viti, macchiettati da ulivi, mandorli, ciliegi; e meli e fichi, e ogni albero

da frutto. E sparsi in quel mare di verde, svettano scuri cipressi al cielo. È un incanto

in primavera. Ai reduci delle crociate quei luoghi apparvero come ricordi lontani della

terra di Palestina. E battezzarono quel colle tufaceo, traforato da grotte e spelonche,

col nome di Betlemme […]»236.

La Chiesa di San Zeno in Monte è uno dei più affascinanti esempi di architettura

romanica a Verona. Le notizie a proposito della sua fondazione e della sua storia sono

quanto mai scarse, per non dire quasi del tutto assenti. Si ritiene che la chiesa abbia

origini molto antiche, risalenti all’epoca carolingia, ma le tracce documentarie per un

periodo così antico sono labili. Nel libro III del suo “Notizie storiche delle Chiese di

Verona”, del 1749, il Biancolini scrisse che in un: «documento del 15 ottobre 1265

nell’archivio di S. Leonardo si dice di S. Zeno in Monte»237. Sappiamo che la chiesa subì

lavori di ricostruzione e ampliamento anche nel XIII, XIV e XVI secolo finché, nel

1770, il monastero annesso fu soppresso, a causa di un ridotto numero di frati. Con

l'arrivo di Napoleone la struttura fu saccheggiata, e successivamente, con gli austriaci,

234 Gianbattista Biancolini - Nacque a Verona il 10 marzo 1697 v. Petrucci A., Biancolini, Giambattista,

in Dizionario Biografico degli Italiani, vol. 10, Roma 1968, pp. 243-244. 235 G. B. Biancolini, Notizie storiche delle chiese di Verona, vol. 1, Verona, 1749, p. 384. 236 Don Mario Gadili, Don Luigi Adami, primo collaboratore di San Giovanni Calabria, in «Rivista di

studi calabriani», XIII, 2012, p. 69. 237 Biancolini, Notizie storiche delle chiese di Verona, vol. 1, cit.

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nel 1806, divenne parrocchiale. Oggi la Chiesa di San Zeno in Monte è parte del

complesso di edifici della Fondazione Don Calabria di Verona238.

Altro elemento gerosolimitano importante, sul lato esterno della chiesa di San

Zeno in Monte si trova rappresentata una mappa della Terrasanta.

La Fontana del Ferro e Santa Maria di Nazareth

La Fontana del Ferro è posta all’inizio di Via Nazareth e alla fine di Via della

Fontana del Ferro, la quale incomincia nei pressi della chiesa di San Giovanni in Valle,

dove anche ha inizio la Scala Santa. Si tratta di un luogo ben noto ad ogni veronese, le

cui origini si perdono nel tempo e nella leggenda. Si trattava di un luogo mistico sin

dall’antichità, dove sgorgava una sorgente d’acqua apprezzata dai veronesi per le sue

straordinarie proprietà: «Una vasta e copiosa sorgente d’acqua, detta la Fontana del

Ferro, alla quale è costume della popolazione di tutte le classi di accedere in numerose

brigate specialmente nella notte del 24 Giugno d’ogn’anno. L’acqua che vi esce e che

tutti gli accorrenti, copiosamente bevono mangiando paste, dolci, ed altro, non senza

mescere vini, e qualche liquore spiritoso, è di una purezza e virtù igienica proverbiali.

V’ha tradizione popolare che in questo luogo, o poco discosta, vi esistesse una sedia,

dove il re Pipino collocarsi per ascoltare le pubbliche istanze. Fia meglio credere che

il facesse ordinariamente (constando che abitava a S. Zeno) per godervi l’amenità del

sito e delle di lui delizie»239. Ecco qui tornare un riferimento preciso ad un altro dei

personaggi storici, il re Pipino, cui la tradizione veronese di frequente si volge nel

recupero del proprio passato.

Quale il richiamo di questa fonte antichissima, che sembra in realtà connotata da

elementi pagani, ai culti e ai luoghi di Terra Santa? Nella chiesa ortodossa di San

Gabriele a Nazareth, una chiesa posta appena sopra la basilica dell’Annunciazione, è

custodita la sorgente dell’antico villaggio del primo secolo, chiamata Fontana della

238 Per notizie sulla Fondazione Don Calabria, v. www.doncalabria.net. 239 Luigi Giro, Sunto della storia di Verona politica, letteraria ed artistica dalla sua origine all’anno

1866…, vol. 2, Verona 1869, p. 240.

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Vergine, collocata in una posizione pressoché analoga240 a quella della fonte veronese

in rapporto alla vicina chiesa di Santa Maria di Nazareth241.

Dalla Fontana del Ferro la via Nazareth porta all’omonima chiesetta: Santa Maria

di Nazareth. Costruita nel XIII secolo, conserva al proprio interno affreschi del XIV ed

un pregevole portale del secolo successivo.

Oggi il complesso è gestito dalla Congregazione dei Servi della Divina

Provvidenza, l’opera Don Calabria; dalla piazzetta Nazaret si aprono due ingressi

dirimpettai: quello della struttura del Don Calabria che conserva la chiesetta e quella di

villa Wallner, dove si trovava l’oratorio dedicato all’arcangelo Gabriele, di cui oggi non

sembra rimanere alcuna traccia.

In questa parte di Verona i toponimi, la disposizione delle strade, la posizione e

l’intitolazione delle chiese sembrano richiamare fortemente Nazaret.

Santa Maria di Nazaret, la vicina fonte e ciò che rimane dell’oratorio - là dove le

cartine antiche indicano la cappella dell’Angelo - sono un contesto, un luogo con

molteplici richiami biblici, situato in una delle zone più antiche di Verona, esterna

rispetto alla città medievale.242

In una veduta della città datata al 1630243, nei pressi di Castel S. Felice e poco

distante dal complesso di Sant’Angelo, oggi Villa Wallner, è raffigurata una chiesetta

indicata come “Nazarè”.

240 v. mappe Confronto tra Verona e Nazareth, p. 137. 241 In rete su

http://www.ildesertofiorira.org/index.php?option=com_content&view=article&id=108:santa-maria-di-nazareth&catid=22:verona-minor-hierusalem&Itemid=26 (collegamento attivo il 10 febbraio 2017)

242 In rete su http://www.ildesertofiorira.org/index.php?option=com_content&view=article&id=108:santa-maria-di-nazareth&catid=22:verona-minor-hierusalem&Itemid=26 (collegamento attivo il 10 febbraio 2017)

243 v. figura 12.2, Paolo Ligozzi, 1630, p. 141.

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La Scala Santa di cui abbiamo detto, e la Via Fontana del Ferro, che porta alla

omonima fontana, prendono avvio dalla chiesa di San Giovanni in Valle, altro luogo di

grande importanza nello sviluppo della città medievale, cui occorre adesso dedicare

alcune righe.

San Giovanni Battista, in Valle

Gli studiosi non sono concorsi nello stabilire la fondazione di San Giovanni in

Valle: secondo Luigi Simeoni la prima chiesa risalirebbe addirittura al IV secolo, mentre

un’altra corrente di pensiero ritiene che la chiesa trovi le sue origini durante la

dominazione longobarda tra 568 e 750.

Il nome in Valle propende a far discendere la denominazione dal fatto che la

chiesa sorgesse presso il Vallum eretto in periodo goto, il quale sarebbe stato costruito

per volontà di Teodorico. Presso la chiesa esiste una vasca battesimale ed è documentato

che, sino al 1300, nella notte di Pasqua si svolgesse qui la funzione battesimale. Dal

momento che tale funzione era prerogativa della cattedrale e delle pievi, questo ha

portato gli studiosi a ritenere che San Giovanni in Valle avesse la funzione di Cattedrale

Ariana. Infatti, mentre i cattolici ebbero la loro sede episcopale originaria nella chiesa

di San Procolo, di cui ho già trattato e poi, dal V secolo, in Santo Stefano, San Giovanni

in Valle sarebbe divenuta sì cattedrale, ma ariana. Sia che si ponga la sua origine con la

dominazione gota sia con quella longobarda, San Giovanni avrebbe svolto la funzione

di cattedrale per questa pars cittadina di fede ariana. Durante le loro dominazioni, la

cattedrale cattolica si trovava sulla stessa parte dell’Adige e nella stessa zona

dell’abitato, precisamente alle pendici del Monte San Pietro, sottolineerei vicino al

Castrum teodoriciano. Nei pressi della chiesa si insediarono i dignitari longobardi, in

una località denominata “Corte del Duca”, le circostanze hanno fatto ritenere alla

maggior parte degli studiosi che la chiesa sarebbe sorta dunque in periodo longobardo e

che quasi con sicurezza fosse stata la loro cattedrale ariana244.

244 v. riferimeti San Giovanni Battista, in Valle in rete su www.beweb.chiesacattolica.it .

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La chiesa primitiva sorse su di un’area precedentemente adibita ad un tempio

pagano, forse al Dio Sole, edificio visibile nell’abside. Tra il VI e il VII secolo la chiesa

venne innalzata sopra l’attuale cripta e venne anche innalzata quest’ultima per rendere

possibili le sepolture. All’ingresso si costruì il nartece, laterale come in una basilica,

destinato alla vasca battesimale e agli scomunicati. La chiesa attuale venne ricostruita

dopo il terremoto del 1117; della chiesa originaria rimangono solo l’abside e la cripta245.

Un tempo affrescata, la chiesa venne irrimediabilmente danneggiata dai

bombardamenti alleati durante la Seconda Guerra Mondiale; di tali affreschi ora restano

solo frammenti. La cripta, durante i bombardamenti, divenne rifugio per molti cittadini,

nonostante il divieto delle autorità, le quali ritenevano non sicuro il luogo. Alla fine del

XII secolo risalgono alcune decorazioni come quella di San Giorgio che uccide il drago,

liberando la principessa. Nei pressi della chiesa, nel 1069, quindi in periodo pre crociato,

venne costruito un ospedale per i pellegrini, venne data una certa indipendenza

economica a questo luogo per i pellegrini, infatti fu dotato di terre presso San Nazaro e

in Campo Marzio. Sempre in zona, anche Santa Maria in Organo ebbe un suo ospedale

per i pellegrini. Su questa riva dell’Adige, concentrati in una area relativamente piccola

erano dunque presenti nel XII secolo tre ospedali dedicati alla cura dei pellegrini.

Reliquie e culti della Terra Santa

Santo Stefano Protomartire

La chiesa di Santo Stefano Protomartire sorge in un luogo le cui fondamenta sacre

hanno origini molto antiche. Il luogo in questione è lo spazio ricavato all’immediato

interno delle mura costruite dall’Imperatore Gallieno sulla riva sinistra dell’Adige,

sorpassato il ponte romano Ponte Pietra, l’ingresso urbano della via Claudia Augusta,

proveniente dalla Raetia246. Vicino alla nuova porta, internamente alle mura, sorgeva un

245 Benini, Le chiese di Verona cit., p. 135. 246 Migliorini, Come a Gerusalemme… cit., p. 319.

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importante complesso di edifici con funzione urbana e sacra, il complesso delle

fontanelle, ad Fontinticulos; e un tempio dedicato a Iside e Serapide, due divinità egizie.

Le fontanelle erano vasche di raccolta per l’acqua per poi essere distribuita in città,

documentate da una iscrizione del 44 d.C., mentre il tempio alle due divinità risaliva la

sua costruzione approssimativamente al II secolo d.C247.

Nel 415 d.C. circa venne eretta la chiesa dedicata a Santo Stefano ai Martiri sopra

i resti dei templi pagani e sopra quella che era divenuta un’area cimiteriale di 40 martiri

veronesi, periti durante le persecuzioni dell’imperatore Diocleziano. La dedicazione a

Santo Stefano avviene in occasione del ritrovamento delle reliquie del protomartire e

quasi in concomitanza con la costruzione della Basilica di Santo Stefano per volere del

vescovo di Gerusalemme nel 439, sul sito dell’uccisione del Santo248.

Stefano apparteneva ad una delle prime comunità convertitesi al cristianesimo in

Palestina e la dedica della chiesa veronese prende nome dunque dal protomartire

cristiano, fondamenta del cristianesimo nascente249. La chiesa fu una delle due prime

sedi episcopali veronesi, entrambe sedi situate alla periferia della città e su terreno

consacrato con il sangue di martiri veronesi. Nel V secolo i vescovi di Verona posero la

loro cattedra presso la chiesa di Santo Stefano, spostandosi dalla prima chiesa

episcopale, San Procolo, forse per la volontà di introdurre la venerazione ai martiri.250

Durante il dominio dei Goti di Teodorico, di fede cristiana ariana, la chiesa originaria

venne demolita, probabilmente a causa di una frizione con il vescovo cattolico.

Nonostante questo avvenimento la chiesa venne ricostruita e mantenne la carica di sede

episcopale sino alla conversione ufficiale dei sovrani longobardi, Desiderio e

Liutprando; nell’VIII secolo la sede venne spostata all’interno della città.

All’intero del santuario erano conservate alcune importanti reliquie di santi

vescovi e di martiri veronesi, ma soprattutto della Vera Croce, della Vergine Maria e del

protomartire stesso, Santo Stefano. La presenza del protomartire e delle reliquie è

testimoniata anche dall’epigrafe in pietra presente nella cripta sino al XVII secolo,

247 v. riferimenti su Santo Stefano Protomartire in rete su www.beweb.chiesacattolica.it . 248 Miller, Chiesa e società in Verona medievale cit., p. 202. 249 Mario Patuozzo, Apologia del Sole. Sol Invictus breve storia del periodo solstiziale invernale,

in rete su https://books.google.it/books?id=5HvmBwAAQBAJ&printsec=frontcover&hl=it#v=onepage&q&f=false (collegamento attivo il 6 gennaio 2017).

250 Miller, Chiesa e Società in Verona medievale cit., p. 202.

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successivamente trasferita e murata in una colonna vicino ad una cappella, quella degli

Innocenti, nella quale furono anche trasferite la maggior parte delle reliquie251.

La presenza delle reliquie del protomartire è anche narrata in alcuni versi del

Versus de Verona, oltre alla presenza di martiri e santi: «Ab oriente habes primum

protomartyrem Stephanum, Florentium, Vindimialem et Maurum episcopum, Mammam,

Andronicum et Probum cum quadraginta martyribus»252.

Santa Maria in Organo e la Muletta

Forte riferimento gerosolimitano presente nella Chiesa di Santa Maria in Organo

è la Muletta, o Mulèta per i veronesi, oggi posta nel transetto di sinistra. Una leggenda

vuole che questa statua lignea, arenatasi davanti alla porta della chiesa quando esisteva

ancora il ramo dell’Adige ora interrato253, dopo varie vicissitudini fosse raccolta e

portata finalmente in chiesa. Secondo una tradizione popolare parallela, la statua

conserva al suo interno la pelle dell’asino che portò Cristo a Gerusalemme attraverso la

porta d’oriente. L’asino della domenica delle palme ebbe a capitare a Verona e vi fu

ospitato con tutti gli onori; alla sua morte l’animale emise un raglio di grande intensità

che fu udito da tutta la città; gli furono resi grandi onori e le reliquie, raccolte con

devozione, vennero deposte nel ventre della statua lignea.

La Muletta veniva portata in processione durante la Domenica delle Palme, ed

anche in altre importanti feste religiose, come il giorno del Corpus Domini. In suo onore

venne istituita anche una confraternita laicale alla quale, nel 1537, venne concesso l’uso

251 v. L. Venturini, Santo Stefano in Verona, Verona 2013, p. 66.; Per un approfondimento su Santo

Stefano v. Venturini, ibid.; Migliorini, Come a Gerusalemme… così a Verona cit., p. 319 nota 38. 252 Un apparato di versi del poema del Versus porta il lettore in un viaggio attraverso le chiese le reliquie

di santi presenti a Verona, la cui santità proteggeva la città.; v. Battista Pighi, Versus de Verona cit., vv. 55-90. 253 Prima del 1882, quando dopo una disastrosa alluvione il comune decise di interrare i due rami

dell’Adige, esisteva un ramo dell’Adige che creava un’isolo nei pressi di Ponte Pietra e il Teatro Romano. v.

Pierpaolo Brugnoli, Le strade di Verona, Roma 1999, p. 60-61.

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della cappella detta della Maestà (o di San Benedetto), la stessa dove ancora oggi

troviamo esposta la statua254.

Così ne parla Gian Paolo Marchi: «[...] Una splendida statua lignea del XIII

secolo, conservata nella chiesa di Santa Maria in Organo a Verona, oggetto (un tempo)

di larga venerazione popolare e di conseguenti polemiche ispirate alla contestazione

del culto cattolico per le immagini. La solennità delle Palme veniva celebrata dai

monaci olivetani di S. Maria in Organo portando in processione la statua (ciò si usa

fare ancora oggi in alcune zone di lingua tedesca, come Hall in Tirolo). L’entusiasmo

popolare dava luogo a qualche intemperanza, forse non sufficientemente contrastata

dai religiosi: certo, l’immagine lignea entrò ben presto a far parte dell’immaginario

collettivo e del folclore religioso, come risulta da una memoria del celebre musicista

Adriano Banchieri, che soggiornò a Verona nei primi anni del seicento»255.

Un’altra leggenda sorta attorno alla Muletta vuole che l’autore fosse un abile

scultore monaco dell’abbazia, ritiratosi a vita eremitica in Trentino. Il monaco avrebbe

lasciato detto ai confratelli che all’avvicinarsi della sua morte li avrebbe avvertiti con

un segno speciale. Un giorno, la statua del Cristo trasportata dalle acque del canale

dell’Adige, si arenò di fronte alla chiesa; fu raccolta e trasportata altrove ma,

miracolosamente, ricomparve nel punto dov’era stata trovata la prima volta. I

benedettini compresero allora che essa era opera e dono del fratello ormai deceduto256.

Per l’importanza storico-artistica, merita almeno qualche cenno la Chiesa di

Santa Maria in Organo, presso la quale è conservata la preziosa reliquia. Il nome non

deriva dal prezioso strumento musicale, bensì da un misterioso edificio denominato

organum, probabilmente una struttura idraulica non meglio precisata che sorgeva

proprio accanto alla chiesa257. La prima chiesa apparteneva al complesso del monastero

254 In rete su

http://www.veja.it/2009/06/20/verona-la-muletta-di-santa-maria-in-organo/#more-6596 (collegamento attivo il 10 febbraio 2017).

255 Gian Paolo Marchi, Luoghi Letterari, Verona 2001, p. 162. 256 Luciano Rognini, Tarsie e intagli di Fra Giovanni da Verona a Santa Maria in Organo di Verona,

Verona 1985, p. 17. 257 Se ne trova testimonianza nella più antica mappa di Verona, l’Iconografia Rateriana, risalente al X

secolo, oggi conservata presso la Biblioteca Capitolare.

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benedettino, fondato nel VII o nell’VIII secolo, il primo di Verona; venne ricostruita

dopo il terremoto del 1117, e della struttura originaria rimangono alcuni elementi nella

cripta. Nei secoli successivi vennero apportate numerose modifiche che ne

trasformarono sensibilmente l’aspetto: tra queste la facciata, realizzata alla fine del XVI

secolo su disegno di Michele Sanmicheli e rimasta incompiuta258. Capolavoro assoluto

della Chiesa sono le tarsie lignee, opera tardoquattrocentesca dell’olivetano Fra

Giovanni da Verona, che decorano il coro e la sagrestia, definita dal Vasari la più bella

d’Italia.

San Bernardino

Nella chiesa di San Bernardino, facente parte dell’omonimo complesso

francescano, si trova, tra le altre, una piccola cappella dedicata al Santo Sepolcro. Si

tratta in realtà di un piccolo spazio posto a destra della cappella Avanzi, chiamato

appunto cappella del Sepolcro; in essa si trova un gruppo scultoreo che raffigura un

compianto sul Cristo morto, composto da sei statue in tufo dipinto. La piccola cappella

è coperta da un soffitto a vela e sui muri conserva tracce degli affreschi originali. Le

sculture, quattrocentesche, raffigurano Cristo disteso, la Vergine svenuta e sostenuta da

due donne, San Giovanni e la Maddalena, mentre la statua di Bartolomeo Avanzi è stata

perduta. Di forte impronta mantegnesca, alcuni critici ritengono che sia addirittura opera

del maestro.

Chiesa e convento di S. Bernardino furono edificati ex novo tra il 1452 ed il 1466

per volontà dei veronesi, profondamente colpiti dal fervore delle prediche di frà

Bernardino da Siena259.

258 Benini, Le chiese di Verona cit., p. 149. 259 Ibid., p. 86.

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La reliquia del Preziosissimo Sangue

Il cimitero di Verona ha una cappella con una reliquia importante, quella del

Prezioso Sangue di Cristo.

La vicenda della realizzazione del cimitero pubblico per la città di Verona prese

avvio nel 1804, quando la Municipalità veronese ne deliberò la costruzione. Le strutture

cimiteriali allora esistenti erano presso la chiesa della Santissima Trinità, riservato alla

gente meno abbiente della città, mentre i signori e i nobili venivano generalmente

tumulati nei chiostri di San Bernardino. Prima che venisse scelto il luogo di costruzione

dell’attuale cimitero, erano state avanzate diverse proposte, tutte fallite, finché la

normativa francese di Saint Cloud (1804), recepita da un decreto cittadino del 1817,

impose per ragioni igienico sanitarie la realizzazione di cimiteri di sepoltura al di fuori

della cinta muraria della città.

Solo alla fine del 1826 venne eletto il sito attuale, posto appena al di fuori dalla Porta

Vittoria; nel 1828 il progetto definitivo, presentato dall'ingegnere architetto Giuseppe

Barbieri, l'allora capo degli ingegneri municipali, venne approvato e presero avvio i

lavori di costruzione260.

A partire dagli anni Quaranta del secolo la custodia del cimitero monumentale,

nonché l’officiatura delle celebrazioni, venne affidata ai Frati minori; nel 1881 venne

istituita la Pia Unione del Preziosissimo Sangue e del Perpetuo Suffragio presso la chiesa

del SS. Redentore del Cimitero.

La venerazione del Preziosissimo Sangue e delle annesse reliquie è presente nella

pietà cristiana da tempo remoto, ma essa conobbe una particolare diffusione a partire

dal Settecento261. La Festa dedicata al Preziosissimo Sangue di Gesù affonda le sue

radici in una celebrazione annuale legata a una reliquia custodita nella chiesa di San

260 Per il cimitero monumentale di Verona v. Lia Camerlengo, I cimiteri: i casi di Vicenza, Verona,

Padova, in Il veneto e l’Austria. Vita e cultura artistica nelle città venete 1814-1846, Milano, 1989, pp. 408-09. 261 Per la diffusione della venerazione del Preziosissimo Sangue v. Ragguaglio Storico Intorno All'Insigne

Reliquia Del Preziosissimo Sangue Di Gesù Christo N. S. Che pubblicamente si venera ella chiesa collegiata di S. Andrea da Mantova, in occasione, che per la quarta volta viene portata processionalmente per la citta, Regio-Ducale Stamperia 1799.

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Nicola in Carcere a Roma che, secondo la tradizione, era un lembo del mantello del

Centurione che trafisse Cristo con la lancia per verificarne la morte. Quel lembo sarebbe

stato ritagliato perché bagnato da "sangue e acqua" - Gv 19, 34 - usciti dal costato di

Gesù. I principi Savelli di Roma nel 1708 donarono alla chiesa di San Nicola la preziosa

reliquia, dove ogni anno, nella prima domenica di giugno, si iniziò a celebrare la festa

del Preziosissimo Sangue, in seguito estesa universalmente da un decreto pontificio. A

partire dal XIX secolo cominciarono ad essere fondate diverse associazioni e

congregazioni pie in onore del Preziosissimo Sangue.

La presenza della reliquia del Preziosissimo Sangue di Gesù, presso la chiesa del

SS. Redentore del cimitero di Verona, pare sia dovuta a Mons. Andrea Avogadro,

vescovo di Verona dal 1790 al 1805262. Il prelato trovatosi a Venezia nel 1790 ne venne

in possesso, intingendone alcune garze da un'ampolla custodita nella chiesa parrocchiale

di san Simeone profeta. La reliquia era giunta a Venezia dopo la IV crociata nel 1204

da Costantinopoli e faceva parte delle reliquie raccolte e conservate da sant'Elena. Alla

morte di Mons. Avogrado la reliquia passò nelle mani del frate minore P. Arcangelo

Bianchi, che ne fece dono alla chiesa del cimitero, per mezzo del confratello P.

Benvenuto da Bergamo nel 1856.

262 In rete su

http://www.chiesacimiteroverona.it/index.php/il-preziosissimo-sangue/la-festa-del-preziosissimo-sangue (collegamento attivo il 10 febbraio 2017).

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Immagini

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Verona. Ubicazione dei luoghi menzionati

Veduta di Verona

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Legenda:

- a, cardo e decumano

- b, cinta muraria di epoca romana

- c, cinta muraria XII secolo

- 1, San Rocchetto, Monte Cavro

- 2, San Zeno Maggiore e San Procolo

- 3, San Zeno in Oratorio

- 4, Santissima Trinità, Monte Oliveto

- 5, San Lorenzo

- 6, San Giorgio Martire in Braida

- 7, Cattedrale di Santa Maria Assunta

- 8, San Pietro Martire in Santa Anastasia

- 9, Santo Stefano

- 10, Santa Maria in Organo, Muletta

- 11, San Giovanni Battista, in Valle

- 12, S. Maria di Nazareth, Fontana del Ferro

- 13, Scala Santa, San Zeno in Monte

- 14, Santa Toscana

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1 San Rocchetto

Figura 1, Facciata Chiesa di San Rocchetto

Figura 1.1, Altare e abside centrale con il S. Sepolcro e le tre croci

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2 San Zeno e San Procolo

Figura 2, Facciata della Chiesa dell’abbazia di S. Zeno

Figura 2.1, San Procolo, lato verso San Zeno

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3 San Zeno in Oratorio

Figura 3, San Zeno in Oratorio

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4 Santissima Trinità in Monte Oliveto

Figura 4, Santissima Trinità in Monte Oliveto

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5 San Lorenzo

Figura 5, San Lorenzo, particolare delle due torri scalari

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6 San Giorgio Martire in Braida

Figura 6, San Giorgio Martire in Braida

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7 Cattedrale di Santa Maria Assunta

Figura 7, Duomo di Verona

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8 San Pietro Martire in Sant’Anastasia

Figura 8, Facciata Santa Anastasia

Figura 8.1, Arco esterno Cappella Pellegrini, San Giorgio e la Principessa

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9 Santo Stefano Protomartire

Figura 9, Facciata di Santo Stefano

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Verona. Ubicazione dei luoghi 10, 11, 12, 13

Cappella dell’Angelo Gabriele

12, Santa Maria di Nazareth

12.1, Fontana del ferro

11, San Giovanni in Valle.

13.1, Scala Santa

13, Chiesa di San Zeno in Monte, già Santa Maria in Betlemme

o Santa Maria in Betlemme

Via Fontana del Ferro

10, Santa Maria in Organo

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10 Santa Maria Assunta, in Organo, e la Muletta

Figura 10 Facciata di Santa Maria in Organo

Figura 10.1 La Muletta, XIII secolo.

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11 San Giovanni Battista, in Valle

Figura 11, Facciata di San Giovanni Battista, in Valle

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Verona Nazareth

Confronto tra Verona e Nazareth

Cappella dell’Angelo Gabriele

12, Santa Maria di Nazareth

12, Fontana del ferro

Grotta di Maria, Annunciazione

Fontana della Vergine

San Gabriele Arcangelo

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12 Santa Maria di Nazareth e Fontana del Ferro

Figura 12 Santa Maria di Nazareth

Figura 12.1 Fontana del Ferro

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Figura 12.2 Paolo Ligozzi, 1630,

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13 Scala Santa e San Zeno in Monte, già Santa Maria in Betlemme

Figura 13 San Zeno in Monte, già Santa Maria in Betlemme

Figura 13.1 Scala Santa

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Verona: Veronetta. Ubicazione luoghi 14

Zona Veronetta, Porta Vescovo.

Porta vescovo

Antica Porta del vescovo, già del Sepolcro

Via Salita San Sepolcro

14, Santa Toscana

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14 Santa Toscana, già Santo Sepolcro

Figura 14, Facciata di Santa Toscana.

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Conclusione

Attraverso il presente lavoro ho cercato di ritrovare i riferimenti documentari ad

una tradizione che poneva la città di Verona in analogia con Gerusalemme, a partire dal

titolo che le fu assegnato sino alla disposizione urbanistica ed ai toponimi cittadini.

Durante i miei studi, condotti presso l’Archivio di Stato di Verona, ho rinvenuto

un documento manoscritto datato al 1450 che, allo stato attuale delle ricerche, sembra

essere la più antica attestazione scritta dell’esistenza di tale appellativo e di una comune

coscienza ad esso connessa. Durante la consultazione degli Atti del Consiglio del

Comune risalenti all’anno 1450, ho rinvenuto la messa per iscritto dell’approvazione da

parte del Consiglio dei Dodici e del Consiglio dei Cinquanta, dell’inserimento in

apertura agli Statuti cittadini di un nuovo proemio, redatto dal cancelliere Silvestro

Lando. In esso si narrano le vicende della fondazione mitica della città e dei successivi

sviluppi, e alcune righe sono dedicate proprio alla denominazione di Gerusalemme

minore, che a Verona venne attribuita per la somiglianza dell’intera disposizione

urbanistica.

Di tale documento si era a conoscenza solo attraverso le stampe anastatiche degli

Statuti Veronesi di media e tarda età moderna, che riportano integralmente il testo del

proemio e la sua datazione in apertura degli Statuti, e su di esse si erano basate le ricerche

degli storici che avevano toccato il tema di Verona Minor Hierusalem. Il documento è

assai interessante, poiché non solo testimonia dell’esistenza e del radicamento di una

tradizione che fa di Verona una Piccola Gerusalemme, ma ne sancisce la definitiva

ricezione da parte delle istituzioni cittadine, che in questo modo ne fanno uno degli

elementi dell’appartenenza e dell’identità cittadine. Ciò viene confermato quando, nel

1474, le autorità comunali decisero di procedere ad un cambio del sigillo, e sul nuovo

venne apposta, accostata all’immagine di San Zeno, patrono della città, la scritta

«Verona minor hierusalem di(vo) Zenoni patrono».

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La mia ricerca non può dirsi conclusa con il presente lavoro, dal momento che

gli spunti di ulteriore approfondimento sono molteplici. Anzitutto una diffusa,

approfondita ricerca archivistica promette di svelare nuovi riferimenti documentari,

riconducibili all’epoca carolingia, che tanto ricca e produttiva fu a Verona. Non si può

inoltre escludere che possano emergere ulteriori luoghi dai richiami gerosolimitani,

soprattutto nell’antica denominazione delle vie cittadine: uno studio approfondito dei

toponimi potrebbe rivelare interessanti riferimenti che nella memoria collettiva sono

ormai andati perduti.

In questo lavoro ho cercato di inserire l’accostamento che di Verona si fece a

Gerusalemme ed alla Terra Santa nel più ampio contesto dello sviluppo che la città

conobbe durante il periodo carolingio, un periodo fiorente ma delicato sotto molteplici

aspetti: proprio la dominazione carolingia ebbe la forte necessità di trovare fonti di

legittimazione, e la sacralizzazione dei luoghi urbani in senso gerosolimitano fu almeno

parzialmente una risposta a tale esigenza. Capire in quale misura è un obiettivo che nel

presente lavoro non si può dire compiutamente raggiunto, e che merita senza dubbio che

al tema venga dedicata ulteriore attenzione, dal momento che l’epoca carolingia

costituisce per la città un passaggio cruciale affinché se ne possano comprendere gli

sviluppi futuri.

Nonostante la parzialità di cui si è detto, sembra possibile trarre alcune brevi

conclusioni. Anzitutto dalle ricerche svolte mi pare possibile affermare l’origine

carolingia dell’immagine gerosolimitana della città, che collocherebbe Verona nel

gruppo di quelle città in cui la connotazione sacra dei luoghi in senso gerosolimitano

precedette il periodo crociato: infatti in alcuni casi i riferimenti gerosolimitani presenti

in città sin dall’epoca carolingia decaddero nel periodo crociato e post-crociato.

Dalle ricerche condotte emerge altresì il ruolo di primo piano che nella sua

creazione svolse un personaggio fortemente dibattuto quale fu l’arcidiacono Pacifico. I

richiami gerosolimitani presenti in città sono troppi e troppo coerenti perché si possa

negarne il concepimento e la precisa volontà di realizzazione; senza esagerare,

ovviamente, la portata complessiva delle singole reliquie e imitationes di Terra Santa

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sparse per la città, alcune delle quali certamente si svilupparono in seguito alla

devozione popolare e non possono dunque essere attribuite ad un disegno coerente e

pensato.

Le ragioni che mi hanno spinto a volgere la mia attenzione a questo tema sono

molteplici. Anzitutto ha contribuito il grande interesse per la storia della mia città,

soprattutto durante il periodo medievale: e proprio tale interesse ha fatto sì che venissi

a conoscenza di un interessante progetto di recupero della memoria storica veronese.

Tale progetto, ideato dalla Diocesi e patrocinato dalla Banca Popolare di Verona sotto

il nome di Verona minor Hierusalem, nasce come prosecuzione ideale di un percorso

urbanistico antico di cui fecero parte alcune chiese della città di Verona, viste come il

parallelo di luoghi della Terra Santa. L’obiettivo è quello di tenere aperte in modo

permanente alcune chiese di grande valore storico e artistico, solitamente escluse dai

pellegrinaggi e dai percorsi turistici, creando degli itinerari, ciascuno arricchito da

materiale informativo e supporti multimediali. Tale obiettivo è reso possibile dall’azione

di un gran numero di volontari di ogni età che con la propria disponibilità contribuisce

alla tutela ed alla salvaguardia del patrimonio cittadino.

All’interesse per questo progetto di recupero ho sin dall’inizio affiancato quello

per le fondamenta storiche e documentarie del fenomeno. Senza alcuna pretesa di

esaustività, spero che questo mio lavoro possa costituire un solido riferimento per tutti

coloro che si accostano all’interessante progetto «Verona Minor Hierusalem» con

l’intento di riscoprire una pagina importante della storia e della memoria cittadine.

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Indice

Introduzione

1

Capitolo I

La Gerusalemme terrestre e la Gerusalemme Celeste

3

Il pellegrinaggio verso Gerusalemme 3

Trasposizione verso altri luoghi della Gerusalemme Celeste 14

Costantinopoli 15

Roma 20

Capitolo II

Le Gerusalemme in Italia

25

Imitazione della Gerusalemme terrestre 25

La città sospesa sull’acqua, Venezia 27

La città di Milano 29

Il Santo Sepolcro è come Santo Stefano di Bologna 30

Le città di Parma e Piacenza 34

La città di Genova 36

La città di Siena 40

La città di Firenze 40

Pisa Nova Hierusalem 43

Borgo San Sepolcro 47

Realtà del territorio pugliese 49

La città di Brindisi 50

La città di Taranto 51

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La città di Barletta 52

La città di Molfetta 53

Laino Borgo 56

Capitolo III

Verona Minor Hierusalem

59

Collocazione storico-geografica di Verona 59

La dominazione franca 61

Lo scriptorium Capitulare veronese 62

L’Arcidiacono Pacifico 66

Verona Minor Hierusalem 71

La fondazione mitica della città 76

Capitolo IV

Riferimenti gerosolimitani a Verona 81

Le Sette Chiese di Pacifico 81

San Zeno 82

San Zeno Maggiore 82

San Zeno in Oratorio 83

San Procolo 84

San Pietro in Castello 85

San Lorenzo 86

Santa Maria Assunta, Matricolare 87

San Giorgio Martire, in Braida 88

Forma Urbis 89

Santa Toscana, già Santo Sepolcro 93

Santa Anastasia 95

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La Scala Santa 97

San Zeno in Monte, già Santa Maria di Betlemme 98

La Fontana del Ferro e Santa Maria di Nazareth 99

San Giovanni Battista, in Valle 101

Reliquie e culti della Terra Santa 102

Santo Stefano Protomartire 102

Santa Maria in Organo e la Muletta 104

San Bernardino 106

La reliquia del Preziosissimo Sangue 107

Immagini 109

Verona. Ubicazione dei luoghi menzionati 110

Conclusione 149

Bibliografia 153

Sitografia 164