Alice Miller. - Auto-Therapy · Per esperienza professionale QUATTRO ritiene molto positivo il...

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687 Alice Miller. –––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––

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Alice Miller. –––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––

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Indice. ––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––– Il percorso: dalle prime ricerche alle opere più recenti. Pag. 689 –––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––

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Il percorso: dalle prime ricerche alle opere più recenti. Di Alice Miller si può parlare da molti punti di vista. • Si può parlarne come di una psicoterapeuta che ha avuto il coraggio di dire pubblicamente che il suo dissenso concettuale dalla psicoanalisi freudiana coerentemente la costringeva a rifiutare l’appartenenza ad una corrente di pensiero alla quale l’Autrice non riconosceva valore autenticamente psicoterapeutico. • Si può parlarne come di una scrittrice che unisce chiarezza e semplicità espositiva a rigorosità di documentazione, con un impianto generale di estrema lucidità. • Si può parlare dell’appassionatezza che si sente palpitare sotto questa lucidità, nel difendere la causa dei diritti dei bambini contro le violenze fisiche e psichiche a cui sono sottoposti. • Si può parlare della rigorosità della sua ricerca di una verità concettuale (la realtà di come sono trattati i bambini) che attraverso i vari libri e nel cammino interno ad ogni libro, capitolo per capitolo, la Miller descrive facendola rivivere al lettore. • Si può parlare dell’onestà e del coraggio di avere raccontato nei suoi libri aspetti molto personali della sua infanzia e gioventù trascorse in una famiglia della quale non ha abbellito l’atmosfera emozionale ed educativa. • Si può citare la sua posizione di informatrice attraverso i mezzi di comunicazione, lungo anni ed anni di lotta pressoché solitaria contro resistenze ed ostilità culturali di ogni tipo, che scattavano appena si parlava di maltrattamenti ai bambini. • Si può elogiare la sua onestà intellettuale che le ha fatto fare riferimento a procedimenti terapeutici proposti da altri Autori, senza approfittare della propria notorietà mondiale per presentare un analogo metodo terapeutico suo personale. • Oppure si può (adottando di volta in volta aspetti di ognuno di questi punti di vista) seguire lo sviluppo del pensiero di Alice Miller attraverso l’analisi dei suoi libri, in ordine cronologico di pubblicazione, come si fa con gli autori classici. E la Miller è sicuramente ormai già un classico. Ma: –––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––

Un classico è qualcosa che ciascuno vuole avere letto, ma nessuno ha voglia di leggere. ––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––– Mark Twain - Scrittore/saggista americano (1835-1910). Citazione ricavata da fonte autorevole: una borsa di plastica per acquisti di WHSmith. (www.whsmith.co.uk/) Perciò QUATTRO, temendo che i lettori non studino a fondo le opere di Alice Miller, ne farà una dettagliata relazione, in ordine cronologico. La ragione vera e profonda è un’altra, ed è tutt’altro che scherzosa. L’esposizione del pensiero della Miller è sostanzialmente l’ultimo strumento preparatorio alla fase delle sedute di auto-aiuto che QUATTRO può mettere a disposizione dei lettori del sito. Poi il soggetto, nell’applicazione personale della metodologia, dovrà fare conto soltanto sulle sue forze. Per esperienza professionale QUATTRO ritiene molto positivo il fatto che un soggetto comprenda ciò che è accaduto attorno a lui nel suo passato, si renda conto di quale posizione

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i personaggi della sua infanzia hanno realmente tenuto verso di lui. Allora egli riuscirà più facilmente a decifrare il meccanismo con cui la sua personalità si è strutturata, afferrerà il senso dinamico di certi suoi tratti sfavorevoli di carattere, di certe abitudini negative, di talune necessità e difficoltà. E potrà aprirsi la strada verso la liberazione da questi limiti indesiderabili, perché sarà in grado di vivere pienamente le antiche emozioni di sofferenza rimosse che di tali tratti disturbati sono la causa nascosta ma sempre attiva. Ora, a parere di QUATTRO, il pensiero di Alice Miller (soprattutto all’inizio della sua ricerca) è estremamente ricco di simili spunti di comprensione teorica, generale, i quali possono aiutare grandemente il lettore a farsi un’idea abbastanza precisa di come egli sia stato influenzato nel suo inconscio ad opera dell’atteggiamento dei genitori. Per questa ragione verrà presentata una ricca esposizione delle riflessioni dell’Autrice. Sapere è potere, dice il proverbio. Ma potere essere liberi è vita, afferma QUATTRO. ––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––– 1971. Alice Miller pubblica un saggio (rivolto non al pubblico generale, ma agli addetti al lavoro psicoterapeutico): ”Contributo alla tecnica terapeutica delle cosiddette ‘nevrosi narcisistiche’”, (Traduzione italiana in: “Psicoterapia e Scienze Umane”, n° 4, pagg. 1-12). È un articolo di taglio tecnico, rivolto a specialisti. Nessun lettore medio del sito potrebbe ricavarne facilmente spunti concretamente utili alla propria ricerca interiore personale. Nè potrebbe sospettare che l’Autrice sarebbe divenuta la scrittrice conosciuta ed amata in tutto il mondo per le sue acute, lucide e chiarissime esposizioni di riflessioni di tutta una vita in difesa dei bambini. ––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––– 1973. Alice Miller incomincia a dipingere piccoli quadri, seguendo un’ispirazione spontanea non irrigidita da preconcetti di tecnica pittorica classica. Più avanti si comprenderà l’importanza di questa abitudine. ––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––– 1979. Dopo anni di apparente silenzio editoriale, pubblica il libro “Il dramma del Bambino dotato”. Nei tre saggi che lo compongono, la Miller studia i motivi per cui un individuo (un bambino) non riesce a lasciare crescere il suo vero Sé, ma è costretto a sviluppare un falso Sé. Il discorso si snoda semplice, piano, chiaro, quasi sereno, muovendosi come nel mondo delle idee astratte nonostante che l’Autrice parli delle sofferenze che segnano per sempre l’animo di un bambino. Per chi conosce anche gli altri testi della Miller (“Il bambino inascoltato. Realtà infantile e dogma psicoanalitico”, e soprattutto “La persecuzione del bambino. Le radici della violenza”) è netta l’impressione che nei libri successivi, da questa composta serenità si sia precipitati in un inferno rovente di sofferenza e di dolore. L’approfondirsi della ricerca dell’Autrice ci fornirà una spiegazione convincente di questo fatto. E poniamoci anche una domanda: Come mai soltanto dopo avere abbandonato questa visione apparentemente serena, e dopo avere esplorato nella sua ricerca abissi di dolore di bambini spezzati da durezze educative e da vere e proprie violenze dei genitori, la Miller ha incominciato a raccontare aspetti della propria infanzia e dell’atmosfera vissuta nella famiglia di origine? ––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––– Lasciamo che sia l’Autrice stessa a spiegarci come è avvenuto, nel suo libro “Bilder einer kindheit”, (Immagini di un’infanzia), (1985), e poi ”L’Infanzia Rimossa. Dal bambino maltrattato all’adulto distruttivo nel silenzio della società”, (1988). Lasciamo che siano le sue parole a farci comprendere come siano dovuti passare 10 anni dalla sua prima pubblicazione, perché questi ricordi e questi sentimenti dell’infanzia potessero riemergere alla coscienza.

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IL DRAMMA DEL BAMBINO DOTATO. ––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––– Il primo studio si occupa dell’importanza di demolire il mito pedagogico del bambino educato, obbediente e tranquillo. Lo scopo è far vedere l’importanza di lasciare emergere il vero Sé che, sia pure allo stadio primordiale, esiste al fondo di ogni bambino: un bambino che è anche capriccioso, prepotente, asociale, avido, irrispettoso, pigro, disubbidiente. Un bambino semplicemente normale, in una parola, perché non è stato ancora spezzato e non ha ancora imparato a dare agli altri, a rinunciare, a condividere, a sacrificarsi per gli altri. Il discorso della Miller prende lo spunto da sedute di psicoanalisi. E questo non può di per sé essere utilmente applicabile direttamente al lavoro individuale del lettore del sito. Può invece essere interessante anche per il lettore del sito la trama di concetti e di situazioni causali che viene sviluppata dall’Autrice. Seguendo con attenzione gli spunti il lettore può porsi alcune domande su se stesso: • È forse una persona scrupolosa, che si impegna sempre estremamente a fondo in ogni cosa che fa? • È sempre disponibile ad occuparsi degli altri? • È severo e pieno di pretese con sé? • È impietoso verso i bisogni della propria natura umana? • Sempre sereno, senza mai pretese né dubbi o incertezze, senza mai pianti? • Nonostante tutte queste caratteristiche così positive, ha però spesso stati di depressione, un senso di vuoto interiore, una condizione come di estraneità a se stesso, e l’impressione di inutilità della propria esistenza? ––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––– Attenzione: sono i segni della perdita del Sé, della auto alienazione. ––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––– Gli è stato raccontato in famiglia: • Che da bambino piccolo era sempre buono e quieto, e non ha mai creato nessun problema tanto era ubbidiente? • Che ha smesso di bagnare il letto prima di avere compiuto un anno di età? • Che a 3-4 anni era già così saggio e “ometto” da potergli affidare fratellini più piccoli? • Che non era geloso dei fratellini e sorelline nati dopo di lui? • Nella sua infanzia ha potuto liberamente, senza provocare reazioni di abbandono emotivo o rifiuto da parte della madre (o del padre) vivere pienamente nel suo comportamento sociale (e quindi coscientemente) sentimenti di ira, ribellione, gelosia, protesta, capricciosità, paura? • Ha potuto fare baccano rompere oggetti, rotolarsi per terra, saltare sul divano, fare capricci ed avere impuntature infantili senza essere sgridato, incolpato di essere testardo, di volere fare morire di dolore i genitori, o di essere un piccolo mostro ingrato? • Ha potuto esprimere liberamente anche queste parti del suo completo Sé? • Non gli è mai capitato di avere per un attimo la mente attraversata dal lampo di domande ai genitori (domande mai formulate a parole): • Sono forse stato amato solo perché ero tranquillo, ubbidiente, immobile, e non davo fastidio né creavo problemi? • Mi avreste amato se fossi stato un bambino cattivo, disubbidiente, rabbioso, geloso, pigro, sporco? • Ma io avevo l’impulso ad essere anche così, tante e tante volte. • Avete dunque amato non me, ma ciò che io mi sforzavo di essere per farvi contenti? • Allora non avete amato me. • Avete amato la mia ragionevolezza, ubbidienza, disciplina, altruismo, tranquillità, responsabilità di piccolo adulto. • Mi avete ingannato. E mi avete derubato della mia vera infanzia di semplice bambino piccolo. E i genitori (la madre specialmente) come erano? Forse individui con un tale vuoto di sicurezza personale da avere bisogno - per mantenere il proprio equilibrio narcisistico - che il bambino tenesse rigidamente questi comportamenti saggi/buoni/tranquilli/maturi, che il bambino avesse realmente un simile impossibile e innaturale modo di esistere.

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L’INIZIO.

I genitori hanno preteso, a livello inconscio, che il bambino rinunciasse ad essere quello che realmente era portato ad essere, e sviluppasse esattamente questo falso Sé che a loro era necessario. A questa condizione hanno concesso al bambino il loro amore (in realtà era il loro investimento narcisistico sul bambino, che essi vivevano non come una realtà centrata su se stessa, ma come una parte di loro due). LE CONSEGUENZE.

Il bambino non può quindi crearsi strutture sue proprie (dovendo essere il sostituto di strutture mancanti dei genitori). Non può separarsi dai genitori perché non può abbandonarsi a sentimenti e bisogni propri (non ne ha fatto esperienza). Quando sarà adulto continuerà a dipendere dalla conferma degli altri, del partner ed infine dei suoi stessi figli (ripetendo il circolo patologico). Nel secondo studio le osservazioni della Miller possono permettere al lettore del sito di farsi delle idee più sottilmente precise su aspetti della struttura inconscia dei genitori i quali hanno tenuto verso il figlio gli atteggiamenti patologici descritti. Ma attendiamo ancora un momento prima di parlarne, giusto il tempo per vedere quale è la situazione ideale, cioè quella normalità della quale dovrebbe godere ogni neonato. (La Miller ne dà una chiara sintesi, che fa riferimento anche a fondamentali concetti di due grandi della psicoterapia infantile, Donald Winnicott e Margaret Mahler). Per crescere in modo normale, dalla nascita per le prime settimane e nei primi mesi di vita, un bambino deve poter disporre di alcune condizioni: 1. La madre deve essere completamente disponibile nei confronti del neonato/bambino, deve rendersi utilizzabile del figlio in funzione del legittimo bisogno narcisistico normale per il bambino, di essere osservato, capito, preso sul serio e rispettato dalla madre. 2. Il figlio deve poter usare la madre, adoperarla, rispecchiarsi in lei. L’immagine classica è: la madre guarda il piccolo che tiene in braccio, il piccolo guarda al volto della madre e vi si ritrova riflesso. Questo però se la madre guarda veramente il suo piccolo per quello che è, indifeso ma unico al mondo. Tuttavia, se la madre fissa il bambino ma lo vede come un essere che dovrà realizzare le aspettative e i progetti materni, o accettare di ricevere le proiezioni delle paure o divieti o altre realtà inconsce che la madre ha introiettato nella propria infanzia, allora il bambino sul volto della madre non troverà se stesso, ma le esigenze della madre. Lo specchio del volto della madre resterà opaco; e per tutta la vita il bambino cercherà di vedere se stesso guardando nel volto di un altro essere umano, ma inutilmente. Peggio ancora: la madre investe narcisisticamente il bambino (cioè non lo vede come un essere a sé stante, bensì come una parte della madre stessa, una dépendence esterna incaricata di realizzare i bisogni interni della madre). Ma il bambino non si comporta come la madre si aspetta, come le è necessario per potere non guardare dentro i propri problemi irrisolti. Allora la madre si sente enormemente delusa del figlio, oppure terribilmente offesa contro di lui. 3. Se il bambino fin dalla nascita sarà stato accettato esattamente per quello che è, e soddisfatto in tutti i suoi bisogni, crescerà con un sano sentimento di sé; cioè con la istintiva, automatica, naturale sicurezza incrollabile che i sentimenti ed i desideri che prova appartengono al suo Sé, non al Sé di altri. Si renderà conto e saprà esprimere sia ciò che vuole sia ciò che non vuole. Ed in questo caso senza chiedersi nemmeno se il suo no lo potrebbe fare respingere o non amare dall’altro. 4. La madre, sicura di sé e tranquilla, avrà permesso al bambino di: a. Esprimere moti aggressivi, integrandoli poi nel suo comportamento sociale con tranquillità. b. Sviluppare tentativi di autonomia senza sentirli come attacchi alla sicurezza materna. c. Potere liberamente provare e soprattutto manifestare senza timore o senso di colpa impulsi che molti definirebbero negativi, come ostinazione, gelosia, rabbia. d. Non sentirsi obbligato a diventare buono od eccezionale per soddisfare aspirazioni nascoste dei genitori o per piacere ad essi. e. Non avere difficoltà a sperimentare sentimenti ambivalenti (amore e odio, insieme o in immediata successione, verso la stessa persona) e quindi imparare a sentire:

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• Che una realtà è la rappresentazione mentale di Sé, ed un’altra realtà è la rappresentazione mentale dell’oggetto d’amore (la madre). E che questa differenziazione non fa sentire smarriti. • Che sia il suo Sé, sia l’oggetto d’amore (la madre) sono un po’ buoni un po’ cattivi insieme. Quindi non è necessario vedere sé o l’oggetto d’amore a momenti alterni ora tutto buono ora tutto angosciosamente distruttivo e cattivo. f. Integrare tutti questi bisogni narcisistici nello sviluppo del suo Sé, cioè non doverli rimuovere o mantenere scissi dal Sé. Non avere difficoltà a provare forme di relazione sempre più evolute verso altri esseri umani sentiti come oggetti d’amore distinti da lui, dato che lui stesso è stato amato dai suoi genitori come un essere separato da loro. E SE LE COSE VANNO MALE AL BAMBINO?

Non si può allora dire che il destino sia benevolo con lui, almeno alla sua nascita o nell’infanzia. Infatti lo fa nascere da una madre: • non solo incapace di soddisfare senza condizioni i naturali bisogni narcisistici che il bambino ha, sia di ricevere dolcezza, sia di esprimere rabbia ed ostinazione, • ma per di più ella stessa con carenze narcisistiche. A livello del tutto inconscio e magari contro la sua stessa buona volontà, la madre investirà narcisisticamente il suo bambino, investirà aspettative nel suo bambino. Ed ogni investimento, è ovvio, deve rendere a colui che lo fa. La madre non può permettersi di lasciare al bambino uno spazio dove egli possa vivere i suoi propri sentimenti e le sue proprie emozioni. Sotto la spinta dei suoi bisogni inconsci specifici, la madre fornisce al bambino uno schema di riferimento speculare, al quale il Sé primitivo del bambino si adatta automaticamente (come dice Margaret Mahler). È come se - tra le infinite potenzialità di sviluppo del bambino - la madre desse corpo ed attivasse proprio quelle che creeranno per lei il figlio del quale ha necessità per realizzare i propri bisogni inconsci irrealizzati da lei stessa, il figlio su misura che riflette esattamente i bisogni individuali della madre, e soprattutto che soddisfa tali bisogni. Che cosa può fare contro questa richiesta inconscia il bambino? Assolutamente nulla. Inevitabilmente svilupperà le caratteristiche di cui la madre ha bisogno. Per esempio. Madre insicura, senza fiducia in se stessa, bisognosa di appoggio = bambino che sviluppa la sensibilità di un radar, sia come percezione dei bisogni dell’altro, sia come impulso emotivo a soddisfarli. Il prezzo, certo, c’è per il bambino: un grave disturbo nello sviluppo del primitivo sentimento del Sé. D’altra parte, il neonato deve anzitutto sopravvivere. E per il momento la sua vita è salva perché la rinuncia (attuale e molto probabilmente duratura) ad essere se stesso, gli ha conservato l’amore della madre (o del padre). Certo i naturali bisogni narcisistici propri dell’età che il bambino ha al momento della rinuncia a se stesso, non potranno venire integrati nella personalità del bambino man mano che essa si forma. E resteranno scissi, parzialmente rimossi e conservati nella originaria forma arcaica (quindi difficilmente integrabili nel Sé, in futuro). Ma, come NON diceva l’antico motto latino: ––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––– Primum vivere, deinde existere. ––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––– Comunque, al bambino oggetto di investimenti narcisistici non è consentito di vivere liberamente il suo mondo affettivo. Però gli è consentito sviluppare indisturbato le sue facoltà intellettuali. Anzi spesso è proprio quello che gli viene richiesto: eccellere nelle prestazioni intellettuali. E questo da un lato è un danno grave, perché dietro la sviluppatissima corazza intellettuale, la ferita narcisistica può farsi più profonda. Ma da un altro lato può essere la salvezza futura del soggetto, se - per mezzo della sua intelligenza ed acutissima sensibilità - egli comprenderà che deve andare a ricollegarsi con le sue antiche emozioni (per quanto arcaiche possano essere) al fine di ritrovare la sua vitalità individuale, ricorrendo all’aiuto di strumenti psicologici. E perché questo sito di auto-aiuto - nel suo lungo, meticoloso ed articolato progetto - non dovrebbe essere uno di tali strumenti?

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E’ SEMPRE NEGATIVO UNO STATO DI DEPRESSIONE?

Il lettore del sito che proceda seriamente e rigorosamente nel suo lavoro di auto-aiuto ricercando il suo vero Sé con impegno tenace e coraggioso, deve sapere che momenti di depressione sono - qua e là - da vivere. Ma non deve avere paura: tali momenti possono avere diversi significati positivi: a. La depressione come “segnale”. In senso generale, la depressione può indicare che un sentimento sta risalendo dal profondo alla superficie della coscienza, ma contemporaneamente viene ancora negato. Non importa di quale sentimento si tratta: rabbia, dolore, angoscia, desideri, fantasie. Si tratta comunque di parti negate del Sé. L’importante è che questi sentimenti possano essere espressi e vissuti per quello che sono, senza prendere più la strada della scarica trasformativa nella grandiosità. Esprimere questi sentimenti può allora far sparire di colpo la depressione. Non sono solo i sentimenti “belli”, “buoni” a farci essere vivi, a dare profondità alla nostra esistenza e comprensione al nostro intelletto, ricorda la Miller. Spesso sono proprio quelli scomodi, non adattati, che noi stessi vorremmo evitare: confusione, dolore, gelosia, invidia, vergogna, impotenza, rabbia, rivolta, meschinità, cattiveria, avidità. Negare queste parti del proprio Sé, cercare grandiosamente una inumana perfezione, porta all’autorinuncia ed alla morte come logica conseguenza della fissazione sul falso Sé. Ed impedisce al soggetto non solo l’amore oggettuale, cioè l’amore per gli altri (gli oggetti d’amore), ma anche l’amore per l’unico individuo che al soggetto dovrebbe essere in tutto e per tutto familiare: se stesso. Il lettore del sito provi a pensare ai suoi intensi sentimenti di bambino. Se ha dovuto reprimerli, per farlo ha dovuto costruire attorno ad essi una prigione. Più forte il prigioniero, più spesse le mura della prigione, fino ad impedire lo sviluppo del vero Sé del bambino. Sebbene le osservazioni della Miller facciano riferimento alla trasformazione che avviene durante il corso delle sedute psicoanalitiche, QUATTRO ritiene che anche il processo di auto-aiuto innescato dalla tecnica presentata dal sito possa produrre - in ampia misura - lo stesso mutamento interiore. Se sarà tenace e costante nel suo lavoro emozionale, il lettore del sito scoprirà che - col tempo - il suo atteggiamento verso i sentimenti indesiderabili muterà, se egli li avrà lasciati uscire dal suo animo, li avrà espressi. Questo sviluppo nuovo sarà vero soprattutto davanti al dolore. Scoprirà che non sarà più inevitabile seguire il vecchio schema: delusione/frustrazione-repressione del dolore/grandiosità/sublimazione-depressione. Scoprirà che dinanzi alla frustrazione ha ora una nuova possibilità: vivere il dolore. Questo lutto vissuto, questa conquistata capacità di rinunciare all’illusione di avere avuto un’infanzia felice o di potere averne ancora oggi qualche briciola residua, lo libererà da questa interminabile fatica di fingere con sé e con gli altri. Se riuscirà ad accettare di non essere stato amato per il bambino che era ma per ciò che faceva, le prestazioni che dava, i successi che otteneva, le qualità che metteva in mostra; e se riuscirà ad accettare che per ottenere questo “amore” (che amore non era) egli ha sacrificato la sua infanzia e se stesso, allora non vedrà più il suo mondo interiore emotivo come estraneo e terribile, non sentirà più il bisogno di tenerlo racchiuso dentro il muro della prigione del falso Sé compiacente, dell’illusione. All’inizio sarà un po’ confuso e sgomento. Ma poi gli nascerà dentro il desiderio di smettere di corteggiare questi ingannevoli fornitori di amore illusorio. Scoprirà che non ha più bisogno di conquistarsi l’amore, che l’ha sempre lasciato a mani vuote ed a bocca asciutta. Un amore che non riguardava il suo vero Sé, ma il falso Sé compiacente, del quale ora ha incominciato a disfarsi. Scoprirà il bisogno di vivere il suo vero Sé. Scoprirà di vivere per la prima volta la sua vita, e che la vita è veramente degna di essere vissuta. b. La depressione quando ci si violenta o ci si sforza (sotto la spinta di comandi introiettati nell’inconscio). Qualche volta il soggetto, proprio nel momento in cui sta incominciando ad entrare in contatto con il suo vero Sé ed inizia a sentirsi bene, di colpo si mette a fare qualcos’altro che in realtà gli è del tutto indifferente: un lavoro, conoscenze nuove, una nuova iniziativa. “Scavalca” se stesso, dice la Miller. Sotto la spinta delle pretese dei genitori che ha assorbito dentro di sé, introiettato, si mette “finalmente a fare qualcosa di buono, di concreto”, “mette finalmente la testa a posto e smette di fantasticare”, “fa ancora un piccolo sforzo e così arriva finalmente alla perfezione”. Di colpo ritorna depresso, perché in realtà si è violentato a rinunciare a se stesso, a ciò che veramente voleva e sentiva.

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c. Quando intense cariche affettive stanno per esplodere. In senso generale: la depressione può comparire prima che riescano ad emergere alla coscienza e manifestarsi cariche emotive particolarmente intense (spesso a carattere di rabbia e aggressività). È come se la depressione trattenesse l’affetto. Ma una volta che l’affetto è stato vissuto, espresso, si aprono nuove modalità di vedere le cose, si stabiliscono nuovi nessi con gli oggetti primari e il soggetto si sente di nuovo vivo. COME POSSONO ESSERE QUESTE MADRI NARCISISTICHE?

1. Possono essere affette da “grandiosità”. L’individuo grandioso: • Deve essere ammirato dovunque, da tutti. • Deve eccellere in ogni cosa che fa (sempre egli ne è convinto, ma spesso è anche vero perché se non può eccellere non incomincia nemmeno). • È spesso invidioso dei successi altrui. • È un grande ammiratore di ogni propria qualità: bellezza, intelligenza, abilità, lavoro, successi. • I partner esistono esclusivamente per dargli ammirazione, che egli pretende in continuazione (ma questo non basta mai ad appagarlo perché l’ammirazione non è amore. E per un figlio questo è certo una tragedia: al bambino è assegnato il ruolo di tenere alto il prestigio della famiglia agli occhi dei vicini, dei conoscenti, di tutto il mondo. Deve esserne il garante grazie alla eccezionalità delle sue prestazioni. Pertanto viene amato solo se produce prestazioni eccezionali. In caso contrario viene punito con un atteggiamento di totale freddezza, con l’emarginazione dalla famiglia, e con l’accusa di avere coperto i genitori di vergogna). 2. Possono essere affette da depressione, come stato di umore costante e manifesto, senza apparente rapporto con la grandiosità. Mentre la grandiosità è propriamente la difesa contro la depressione, la depressione è la difesa contro il dolore per la perdita del Sé, sintetizza la Miller. Ma anche il depresso è un figlio costretto a soddisfare le pretese della madre che ha dentro di sé. Solo che il grandioso è il figlio riuscito, dice la Miller, mentre il depresso vive se stesso come il figlio fallito. Però i punti in comune sono molti: • Falso Sé. • Autostima fragile. • Grande paura di perdere l’amore (quindi estrema adattabilità). • Aggressività intensa ma staccata dall’Io (quindi non neutralizzabile). • Vulnerabilità. • Facilità a sensi di colpa e di vergogna. • Perfezionismo (cioè ideale dell’Io molto alto): la depressione, come possibile reazione al dolore, indica che vi è un grande divario tra la rappresentazione del Sé reale e quella del Sé ideale. Solo se le due rappresentazioni coincidono, vi è uno stato di benessere emotivo. La rappresentazione del Sé ideale deriva dall’oggetto d’amore primario, il cui amore e consenso garantiscono benessere, mentre il divario tra le due rappresentazioni comporta il rischio della perdita di amore da parte dell’oggetto d’amore primario introiettato. Se il rischio è accettato ed il dolore vissuto, non vi è depressione. Ma perché questo avvenga, occorre anche oggi un ambiente che sostenga. Esattamente come nella fase simbiotica neonatale, occorre un oggetto-Sè disponibile, utilizzabile, che sopravviva alla distruttività aggressiva del neonato (o del soggetto che porta dentro di sé oggi i persistenti problemi irrisolti della sua età neonatale). Ma né il grandioso né il depresso riescono ad ammettere la realtà della storia della loro infanzia: ad essi la sorte non ha fatto questo dono. La perdita/non disponibilità dell’oggetto-Sé si è realmente verificata in passato, e niente al mondo potrà mai mutare questo fatto storico. Anche se il grandioso vive nell’illusione di riuscire a ritrovare l’oggetto-Sé, mentre il depresso vive nel continuo terrore di perderlo, per entrambi un autentico appagamento nella forma originaria non è più possibile, ricorda la Miller. Il tempo giusto è irrimediabilmente trascorso. Il bambino di allora non c’è più. Né ci sono più i genitori di allora (se sono ancora vivi, sono ormai vecchi genitori che appoggiano essi stessi ad un figlio ormai adulto). Oggi il soggetto può avere riconoscimento e successo, che soddisfano bisogni di una struttura adulta, ma non possono colmare l’antico vuoto dell’amore primario non concesso. E l’antica ferita stessa di per sé non potrà mai guarire se sarà negata

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dalla illusione della grandiosità o dall’abbandono apatico della depressione. Solo il lutto del pianto sopra la propria tragedia esistenziale, facendo rivivere l’antico dolore, può liberare il soggetto e ridargli vitalità: e proprio a tale scopo, l’articolato percorso del sito vuole fornire strumenti adeguati ed efficaci al lettore. • Negazione dei sentimenti disprezzati (come l’umana debolezza) ed in generale delle proprie sensazioni e reazioni emotive. Questa negazione è antichissima: fin dal periodo dell’allattamento il neonato sembra avere intuito che doveva bloccarsi nel vivere liberamente le prime sensazioni, se non voleva perdere l’amore dell’oggetto primario, la madre. (Perdere l’oggetto-Sé non significa sempre che l’oggetto è realmente scomparso. Spesso è soltanto diventato distratto, disinteressato, distaccato, non disponibile. Ma per il neonato questa condizione è tragedia come la scomparsa materiale dell’oggetto). Il neonato sembra avere intuito che doveva bloccarsi nel vivere liberamente sensazioni come la scontentezza, l’irritazione, la collera, il dolore, la paura, il piacere del proprio corpo, e persino la fame. E per sopravvivere si è adattato negando tutte queste parti del suo vero Sé neonatale. BAMBINI MORTIFICATI E DISPREZZATI.

Sbaglia grossolanamente chi crede che siano rari i casi in cui i bambini sono mortificati ed addirittura disprezzati. La Miller riporta un caso di comune vita quotidiana: due giovani genitori comprano per strada un gelato, ciascuno ha il suo stick. Al loro bambino, di circa due anni, non comprano invece un gelato anche piccolo ma tutto per lui. Gli offrono invece una leccatina ogni tanto dal loro stick. Ma il bambino vuole un gelato tutto per sé e piange disperatamente. I genitori ridono, e pensano di consolare il bimbo offrendogli a turno di leccare il gelato ora dell’uno ora dell’altra. Il bambino è sempre più arrabbiato contro i genitori, i quali non mutano atteggiamento, e sembrano trovare la scena divertente e non paiono comprendere la delusione e la solitudine del loro bambino, che non sa spiegare a parole i propri desideri. Alla fine il padre dà al bambino il bastoncino di legno dello stick. Il bambino prova a leccarlo speranzoso, si accorge dell’inganno, butta via arrabbiato il legnetto, cerca di raccoglierlo, desiste, è scosso da un singhiozzo di delusione e di tristezza, apparentemente si calma e cammina dietro i genitori come se non fosse accaduto nulla. Probabilmente la sua piccola personalità è riuscita a condurre a termine un complesso processo di rimozione del dolore nato dalla grave frustrazione appena subita, seppellendone nell’inconscio tutte le violentissime emozioni che non gli è stato consentito vivere. Indubbiamente il bambino è stato ferito a causa della trascuratezza, della derisione e del disprezzo dei suoi bisogni narcisistici: essere compreso nei suoi desideri inespressi, essere sollevato da una condizione di impotenza, essere rispettato come individuo, non essere deriso ed umiliato per la propria debolezza. Gli adulti che manifestano disprezzo per il più piccolo e il più indifeso, mettono chiaramente in atto una massiccia protezione contro l’emergere dei propri sentimenti di impotenza, dai quali si proteggono esteriorizzandoli sull’inerme: il disprezzo è l’espressione della debolezza scissa. Il vero forte che conosce la propria debolezza perché l’ha vissuta e l’ha integrata poi al suo Sé, non ha bisogno di sfoggiare la sua forza disprezzando l’inerme. E che cosa farà, in futuro, il bambino? Purtroppo è facile immaginare che quando avrà l’occasione (da adulto, verso i suoi figli; ma anche prima, ancora ragazzino, verso fratellini minori o verso altri bambini più piccoli), reciterà di nuovo la stessa scena del gelato. Ma questa volta, avendo lui il potere sopra un esserino indifeso, non dovrà più tenersi dentro il suo antico dramma di bambino deriso. Potrà, con estrema facilità, illudersi di liberarsene rovesciandolo fuori di sé, addosso ad un altro bambino. Alla base del suo istintivo (ma non per questo meno dannoso per altri) atteggiamento di violenza, c’è quindi un’antica esperienza di dolore disprezzato, un’esperienza ormai inaccessibile alla sua mente cosciente perché sepolta nel suo inconscio dalla lontana infanzia. E questa esperienza deve continuare a restare nascosta alla mente cosciente dell’adulto: il risultato sarà garantito dalla falsa impressione idealizzante di avere avuto un’infanzia felice, o comunque “normale”.

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E come giustificherà a se stesso il suo atteggiamento di violenza verso il più debole? Con una serie di meccanismi di difesa: • Anzitutto la negazione (della propria sofferenza). • La razionalizzazione (“È per dare un’educazione a mio figlio che lo tratto così”). • Lo spostamento (“Soffro per quello che fa mio figlio, non per quello che mi ha fatto mio padre tanto tempo fa”). • L’idealizzazione (“Se mio padre mi ha trattato come ha fatto, era per il mio bene”). Ed in che campo può ripetersi questa “ereditarietà” tragica? In tutti. • Il campo intellettuale (“Ma chi credi di essere per fare queste domande?”). • L’incestualità abusante verso i minori (genitori che da bambini furono bloccati al nascere di scoperte sessuali possono impunemente ricuperare un’antica eccitazione attraverso indebite manipolazioni di igiene intima sui propri figli piccoli). • I legami sentimentali, nei quali si fa soffrire l’altro (un Don Giovanni che ha un impulso irresistibile a conquistare le donne, sedurle, poi abbandonarle, può avere avuto nell’infanzia ripetuti abbandoni da parte della madre) oppure si soffre (quando il soggetto continua ad innamorarsi di persone che lo rifiutano, come faceva l’uno o l’altro dei genitori, spesso esattamente nella stessa forma, nell’assurdo tentativo disperato di non dovere rinunciare alla speranza di essere finalmente capito ed accettato). LA FERITA INCONSCIA ALL’IO DEL BAMBINO RIFIUTATO O DISPREZZATO.

La madre rifiuta il neonato. Non riesce quindi ad essere - nei confronti del bambino - uno specchio che gli rimandi il sorriso di una accettazione completa ed incondizionata, giacché in sostanza pretende da lui un certo “modo di essere”. La domanda, vitale per ogni individuo sofferente perché sottoposto a questa tragico destino, è: Quali conseguenze produce, nello sviluppo della personalità del bambino, questo investimento narcisistico scorretto che la madre ha fatto sul neonato, pretendendo da lui un certo modo di essere? a. Anzitutto, viene piantato in lui il seme di una scala di valori che in futuro dividerà rigidamente: • Il bene dal male. • Il bello dal brutto. • Il giusto dallo sbagliato. E questa scala di valori sarà interiorizzata dal bambino, che in futuro non potrà far altro che adeguarsi ad essa. Rigidità di valutazione e di comportamento, facilità a sensi di colpa in caso di violazione dei valori scolpiti dentro, sono conseguenze prevedibili nell’adulto che egli sarà. b. Inoltre, fin dai suoi primi giorni, il bambino percepisce che in lui c’è qualcosa che la madre non vuole/non accetta/non sa maneggiare. Ed incomincia a pensare a se stesso come “non accettabile”, magari semplicemente perché non riesce ancora a controllare le sue funzioni corporali e la madre non sopporta più la cosa; oppure perché è particolarmente vivace e la madre non sa come controllare tale vivacità. c. Si sente quindi oppresso da un senso di colpevolezza per non avere corrisposto alle aspettative dei genitori. Questo senso di colpa imprecisato, cosmico (quali erano le aspettative dei genitori quando lui era lattante, o aveva sei mesi,un anno di vita?) resiste tenacemente ad ogni ragionamento razionale e ad ogni confutazione o rassicurazione ragionevole che il soggetto possa darsi o ricevere.

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d. E gli impulsi del vero Sé del bambino, quegli impulsi che gli sono stati impediti, e quindi lui stesso ha dovuto rifiutare, negare, reprimere, che destino avranno? • Potranno sottostare a complicati e più o meno efficaci meccanismi di difesa (come nella depressione o nella grandiosità). • Oppure cercare di esprimersi, di manifestarsi comunque all’esterno: Nella perversione. Il soggetto esteriorizza sia la disapprovazione della madre (le cose che ha l’impulso di fare sono dalla società considerate disdicevoli e vietate), sia il proprio desiderio di stupire, di indignare (quello che veramente conta è che il mondo attorno a lui sia stupito, indignato). Se un’azione prima vietata diventasse permessa, lui dovrebbe cambiare trasgressione. E il disprezzo per se stesso, l’auto svilimento, riflettono il disprezzo/rifiuto dell’oggetto primario, la madre. Ma solo nella manifestazione perversa è possibile raggiungere un minimo di soddisfazione. Nella nevrosi ossessiva. Solo in rappresentazioni mentali ossessive, apparentemente assurde per cui il soggetto non le riconosce come sue, ma angoscianti se egli non rispetta scrupolosissimamente un preciso rituale, è possibile che si riesca ad avanzare una critica minima ad antiche imposizioni e divieti sepolti nel profondo, tanto che il soggetto raramente riesce a riscoprirne il significato. A QUALE SCOPO SERVE IL DISPREZZO PER LA DEBOLEZZA?

Il disprezzo, derivante dal rifiuto dei genitori per la debolezza del bambino, serve a vari scopi nella struttura di personalità del soggetto che l’ha introiettato: a. Nascondere l’invidia per altri (magari fratelli) più fortunati, che - pur essendo anch’essi deboli - non sono stati rifiutati. b. Nascondere il dolore per non avere potuto idealizzare i genitori, che quindi devono essere disprezzati. c. Proteggere il soggetto stesso da sentimenti rifiutati: • la vergogna per avere corteggiato senza successo un genitore, • il senso di inferiorità per non essere stato accettato, • la rabbia primitiva per la non disponibilità dell’oggetto d’amore. Ma se questi sentimenti introiettati da tanto tempo vengono finalmente oggi vissuti, il soggetto può separarsi da tali oggetti interni, da tali introietti. Il disprezzo allora sparisce, perché ha perso la sua funzione. Il disprezzo per tutto ciò che non è grandioso, superlativo, intelligente (“Io so fare delle cose che gli altri non sanno fare”), serve infatti a sopravvalutare la prestazione, e quindi ad evitare il lutto di non essere stati amati di per sé. In profondità il soggetto si rende conto benissimo di essere stato accettato soltanto grazie alle prestazioni fornite (“Se non avessi fornito quelle prestazioni non sarei stato amato per niente”). Ma evitando questo lutto il soggetto continua a restare lui stesso - nel profondo - il disprezzato, l’antico bambino impotente, debole, insicuro. Il disprezzo grandioso garantisce il persistere dell’illusione di sempre (“Sono stato amato”), l’illusione di avere potere, l’illusione di essere stati compresi. Qual è la salvezza? Il soggetto potrà salvarsi solo se si ricollega al suo vero Sé infantile, rinunciando a questo sforzo di tenere in vita un castello di illusioni. Solo se accetterà il lutto di vivere il dolore del fatto che da bambino non ha avuto potere perché non gli è stato riconosciuto.

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Non ha avuto comprensione né accettazione, né - in una parola - l’amore che gli era necessario, perché questi doni non gli sono stati dati. Il lutto del rendersi conto infine quanto poco abbia ricevuto dai suoi genitori; e fino a che punto sia stato lui stesso ad andare incontro ad essi, a metterci del suo per conservare l’illusione di essere stato amato. Ma questo dolore, questo lutto, lo libereranno infine dall’obbligo di continuare per il resto della sua vita a rendersi infelice cercando di difendersi ancora oggi da una tragedia che non può più verificarsi, perché si è già verificata. Si è verificata all’inizio della nostra vita, quando eravamo indifesi, inermi, alla mercè di persone che non ci hanno protetti, che non si sono presi cura dei nostri bisogni. Ma, da allora, la vita è continuata. Ed oggi non siamo più inermi, oggi abbiamo armi per difenderci contro chiunque. Oggi possiamo proteggere noi stessi, possiamo prenderci cura perfettamente dei nostri bisogni e riuscire finalmente a dare vita al nostro vero Sé, ad essere puramente e semplicemente noi stessi, unici, irripetibili, degni di stare al mondo senza più chiedere permessi a nessuno. Nel 1994 Alice Miller ha ripreso i concetti e la forma espositiva del libro pubblicato nel 1979 e ne ha fatto una revisione. Il risultato è questa riformulazione: IL DRAMMA DEL BAMBINO DOTATO E RICERCA DEL VERO SE’. RISCRITTURA E CONTINUAZIONE. ––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––– Una ridistribuzione dei punti dove i concetti sono esposti nei diversi paragrafi ed una nuova e più agile ri titolazione, rendono più chiara l’esposizione. Ma soprattutto è l’ultima dozzina di pagine ad indicare che il pensiero della Miller ha avuto un notevole ampliamento di orizzonte nei 15 anni intercorsi tra le due scritture sullo stesso tema. Nella conclusione del 1994 l’Autrice parte da dove terminava nel 1979: lo scopo della terapia è raggiunto quando il paziente ha riacquistato la sua vitalità perché ha rielaborato sul piano emotivo la sua storia infantile, ha ripetutamente rivissuto a livello cosciente le manipolazioni e le costrizioni subite da bambino, l’essere stato inerme ed alla mercè degli altri, ed il conseguente desiderio di rivalsa che lui stesso ha così a lungo negato. E tutto questo processo non soltanto lo farà vivere bene e serenamente, ma lo renderà psichicamente più sicuro ed autonomo. Correrà molti meno rischi di idealizzare imprudentemente persone, sistemi, idee. Capace di scorgere la manipolazione, l’abuso ed il vuoto affettivo che ci sono dietro l’apparenza della facciata, non si lascerà più infantilmente affascinare ed abbindolare dalle promesse e parole seducenti ma ingannevoli. E infine, l’avere ricuperato le sue antiche e tragiche sofferenze infantili, rivissute ora come esperienze emotive risentite a livello cosciente nella sua vita di adulto lo renderà inoltre molto più attento e pronto a cogliere la sofferenza in un altro essere umano (anche quando questo non potesse permettersi di vederla in se stesso), e non se ne prenderà mai gioco, non esprimerà disprezzo verso di lui. Ma, ben oltre il campo personale e familiare, questo mutamento - dice la Miller - può avere profonde ripercussioni anche nel campo sociale e politico. (Già alcuni anni prima, nel 1988, in “La chiave accantonata” aveva incominciato a sviluppare questo tema di riflessione: vedi cap. 7 “I vestiti nuovi dell’imperatore” pagg. 133-137). L’Autrice sottolinea che colui che ha chiarito i propri sentimenti ricercandone le cause reali nel proprio passato, non ha più alcun bisogno di scaricare su persone innocenti la sua rabbia e violenza, che riesce concretamente ad indirizzare contro gli antichi responsabili nella propria infanzia. Da questo passo concettuale che solo il singolo individuo può compiere, dipende il futuro della democrazia. Non serve a nulla fare appello all’amore ed alla ragione, se al fondo dell’animo covano radici di odio che nemmeno il soggetto sa che esistano, e che non aspettano altro che uno spunto esterno per esplodere. L’odio non si può combattere con ragionamenti, ma solo comprendendone l’origine e disciogliendolo con strumenti psicologici adeguati. Rivivere intensamente le emozioni è un’esperienza trasformante, non solo perché libera corpo e mente dai sintomi patologici (per quanto antichi possano essere), ma anche perché libera la mente dalle illusioni ed apre gli occhi dinanzi alla realtà dei fatti, non solo passati ma anche presenti. E se oggi motivi nuovi possono far nascere indignazione e collera, esse esplodono e possono essere vissute come legittime.

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I DANNI POLITICI DELL’ODIO.

È invece l’odio ingiustificato, scaricato su innocenti, che non si placa mai, è inestinguibile nella sua distruttività. Deriva infatti dalla storia di annientamento infantile del soggetto, al quale non è stato permesso di rivivere quei sentimenti che erano diretti verso i genitori, per cui egli deve riversarli su persone sostitutive. Quest’odio verso persone sostitutive (come ha dimostrato già nel 1980 Alice Miller nel suo studio sull’infanzia di Adolf Hitler) è inesauribile ed inestinguibile perché sul piano cosciente il sentimento di odio è stato separato dalle persone verso cui in origine era rivolto. Quest’odio si espande come una muffa che nel cestino distrugge ogni frutto buono che venga a contatto con il suo marciume, perché ha infinite sfumature di negatività e male: • È distruttivo (come si è detto) perché deriva da una storia rimossa, della cui crudeltà la mente inconscia ha però mantenuto perfetto ricordo. • È disorientante, perché maschera i fatti reali e rende impossibile percepirli, perché li nasconde sotto fittizie ideologie. • Avvelena l’anima, divora la memoria, uccide l’intuizione e l’umanità dell’immedesimazione. In fondo uccide tutta la ragione. • Si trasmette a coloro che dipendono da un simile soggetto patologico (figli o cittadini sottoposti ad un capo totalitario). Coloro che sono inermi e succubi, pur avvertendo (magari) istintivamente la menzogna di colui che è capo, non hanno il permesso di riconoscerla come tale. Devono pagare essi il pedaggio per il rifiuto della verità da parte di chi comanda. • In qualunque paese il totalitarismo nazionalistico è in sostanza eguale ad altri simili in nazioni diverse: l’odio per la vita e l’impulso alla distruzione li accomunano come se fosse un’unica uniforme internazionale. Portando all’estremo il concetto del lavoro di affrontamento personale con il risultato finale di liberarsi ognuno della propria coazione a proiettare sugli altri la propria distruttività sepolta nel profondo di se stessi, non è assurdo pensare ad un processo di graduale trasformazione sociale che - a macchia d’olio - si diparte da ogni individuo che si è trasformato. Colui che è stato disposto ad affrontare il dolore di disseppellire la sofferenza della sua storia infantile dall’oblio, dice la Miller, incoraggerà anche altri a compiere lo stesso passo. E questi - a loro volta - grazie al risvegliarsi della loro coscienza, porteranno in misura sempre più allargata una maggiore chiarezza e luce nella visione della realtà (anche sotto l’angolatura politica) e maggiore positività nell’azione esercitata sulla realtà stessa. La modesta opinione di QUATTRO è articolata in due aspetti: 1. Che ognuno di noi possa agire solo sul ristretto numero di persone che per qualsiasi motivo e per un breve momento lo circondano, e con le quali entra in diretto contatto. Nessun trionfalismo, quindi. Ma, senza il minimo dubbio, un preciso senso di responsabilità morale. Poiché ognuno di noi può agire positivamente attorno a sé, ognuno di noi non può sottrarsi a tale obbligo. Quindi deve agire in tale senso positivo, secondo le sue doti, natura, convinzioni. Nessuno è tenuto all’impossibile compito di sanare il dolore in tutta l’umanità. Ma ognuno, poiché risponde solo di ciò che fa personalmente, per ciò stesso deve rispondere di ciò che personalmente fa. Oppure non fa. 2. Che poiché (per la legge di causa ed effetto) da cosa nasce cosa, ciò implica l’inizio di un processo positivo. In ognuno degli anche pochi soggetti che hanno ricevuto qualcosa di buono (essendo stati a contatto con il primo rappresentante di questa serie positiva), nascerà - in completa libertà morale di scelta - la possibilità di replicare anch’essi la scelta positiva ed opporsi al dilagare della negatività distruttiva. Il progredire di un simile processo di chiarificazione, libertà interiore, rispetto verso altri, e positività nell’agire - se vissuto con la sincerità e l’impegno che accomunano il bambino ed il saggio - ha un qualcosa di inarrestabile, come nella leggenda orientale sul gioco degli scacchi. Un chicco di grano sulla prima casella, due sulla seconda casella, quattro sulla terza e così via fino a quando qualcuno non deciderà di mettere la parola fine a questa crescita. Certo la Miller mette in guardia, più che correttamente, contro alcuni pericoli che possono presentarsi nel corso di una Terapia Primaria condotta sotto la guida di uno psicoterapeuta che non sia - ed a fondo - competente ed onesto:

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a. Una eccessiva concentrazione emozionale sulle passate esperienze dolorose. b. Una facilità a profondi stati di regressione, nell’impostazione tradizionale ed “ortodossa” della Terapia Primaria: ad occhi chiusi, abbandonati sul lettino, nel buio della stanza/studio del terapeuta, per tempi lunghi (fino a 3 od anche 5 ore). c. Il rischio di un abbandono totale ed assolutamente acritico al terapeuta, completamente idealizzato. Molto tranquillamente QUATTRO ricorda ai lettori del sito che nessuno di questi tre pericoli li potrà mai minacciare, in alcun modo: a. Se il dolore è troppo forte, l’animo del lettore (per difesa naturale) si chiuderà, ed egli non potrà che interrompere il contatto con la sua ferita profonda. Infatti non riuscirà a fare altro che istintivamente sospendere la seduta di auto-aiuto, sia sul momento, sia probabilmente nei giorni successivi, fino a che non avrà nuovamente accumulato forze spontanee per riprendere lo scavo in se stesso. b./c. Il sito propone al lettore un metodo di auto-aiuto. È egli stesso (e lui solo, e da solo) il guaritore di se stesso. Accanto a lui non vi è nessun terapeuta in carne ed ossa. Il lettore non può quindi regredire più di quanto lui stesso possa essere capace di ritornare al suo passato. Egualmente, non può diventare succube di nessuno, perché insieme a lui non vi è nessun altro, oltre a se stesso. Ma, lasciando stare queste teoriche possibilità catastrofiche, QUATTRO desidera (come è sua tendenza) chiudere con un fatto positivo questa sezione. Con gioia termina l’analisi della riscrittura del “Dramma del bambino dotato” proprio citando l’esempio dell’Autrice stessa. È un esempio che mostra non solo le eccezionali doti di onestà intellettuale e di rigore morale di questa Autrice che in tanti - sparsi ovunque per il mondo - amiamo e studiamo con profonda partecipazione. Le ultime righe dei ringraziamenti che concludono il libro vanno al di là della prospettiva di scrittrice di psicoterapia, e si innalzano al livello di un insegnamento di vita. Per chiunque legga queste righe infatti è ineludibile l’esempio di una madre che - dinanzi ai lettori di tutto il mondo - testimonia per iscritto al figlio la propria gratitudine per l’aiuto psicologico ed intellettuale che ne ha ricevuto nella sua ricerca interiore. Una madre che ringrazia il figlio e la figlia per averle - lungo anni - concessa una fiducia che lei stessa riconosce non sempre meritata. Una madre che si augura di poter vivere ancora abbastanza per meritare la fiducia che i figli hanno riposto in lei. QUATTRO non ha vergogna ad ammettere che anch’egli non ha avuto esitazione a chiedere perdono alle sue figlie degli errori commessi nella loro educazione, al tempo della loro infanzia. È stato spinto a questo dalla globale trasformazione indotta nella sua personalità dalla applicazione (in pura e semplice autogestione, per diversi anni) della metodica primaria, nella versione presentata da Joseph K. Stettbacher (la versione che viene descritta nel sito). Ma soprattutto ha compiuto il suo doveroso gesto sotto la spinta dell’esempio della Miller or ora citato. E ne ha riportato una pace ed una serenità senza limiti. Unita alla gioia di vedere aprirsi una più profonda comunicazione affettiva con le figlie, alle quali è certo - con il breve scritto dedicato ad ognuna di loro due - di avere lasciato un ricordo che sarà serbato in futuro.

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––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––– SCHEDA TECNICA - A CURA DI QUATTRO ––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––– AUTORE: Miller, Alice ––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––– TITOLO: La fiducia tradita. Violenze e ipocrisie dell’educazione. ––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––– EDITORE: Garzanti, Milano, 1991. Titolo originale: “Abbruch der Schweigemauer”, Hoffmann & Campe Verlag, 1990. ––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––– PAGINE: 143 INQUADRAMENTO GENERALE: vedi INDICE: vedi COMMENTO: no TEST DA COMPILARE: no ––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––– INQUADRAMENTO GENERALE.

Se traduciamo letteralmente il titolo tedesco del libro (“Abbruch der Schweigemauer”, ”Abbattimento del muro del silenzio”) riusciamo a comprendere meglio l’impostazione dello schema del libro. Esso è diviso in tre parti: 1. Aperture e prospettive. 2. Fatti. 3. La rinuncia all’ipocrisia. “La fiducia tradita. Violenze e ipocrisie dell’educazione”, non è - come lascerebbe immaginare il titolo italiano - un testo che parli degli aspetti emozionali vissuti da un bambino il quale abbia imprudentemente riposto nei genitori la sua fiducia, che questi hanno tradito. È invece un libro di denuncia sociale, che presenta prove culturali dei maltrattamenti subiti dai bambini, ricercando i segni della mancanza di solidarietà testimoniale nelle pubblicazioni della stampa indirizzata al pubblico generale. Con un esame più mirato, i segni di quest’astensione responsabile che non osa prendere posizione a difesa dei bambini sono poi ricercate nella letteratura più specializzata, psichiatrica e poi psicoanalitica. Nella sezione intermedia del libro sono prese in esame dimostrazioni di tali comportamenti maltrattanti sia in aspetti della cultura di popolazioni diverse, sia in personaggi storicamente e politicamente nefasti come Hitler e Ceausescu, terminando con un’interpretazione psicologica (sempre a difesa dei bambini maltrattati) di aspetti descrittivi di un testo biblico (Le lamentazioni di Geremia). Nella parte finale l’Autrice parla dell’effetto liberatorio che ha per il soggetto il fatto di riuscire finalmente a vedere la realtà, in definitiva la verità, della sua vita come è stata effettivamente nella sua infanzia, senza più dovere ricorrere alle mascherature della rimozione o all’abitudine (appresa nell’infanzia) di perdonare coloro che l’hanno maltrattato, con ciò sancendo ancora una volta e per di più nell’età adulta la negazione del proprio dolore infantile. Una delle domande che la Miller si pone, insieme ai suoi lettori, è: come mai i mezzi di comunicazione, la stampa, le autorità pubbliche, non si occupano dei maltrattamenti inflitti ai bambini? Non è certo un argomento come un altro. È alla base della nostra stessa esistenza individuale e sociale. Parlarne può servire a dissolvere l’ignoranza pubblica che consente il mantenimento della violenza e della distruttività sociale, a livello non solo di singola persona o famiglia, ma anche su scala di quartiere, città o Stato, ed in definitiva su scala mondiale.

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È possibile che interessi a così poca gente? La Miller, con una denuncia anticipatoria (“La fiducia tradita. Violenze e ipocrisie dell’educazione”, è stato pubblicato nel 1990), riferisce indignata la situazione di disinteresse pubblico dei primi anni Ottanta, in rapporto alla possibilità di creare consultori od associazioni di auto-aiuto sia private sia nel settore pubblico, a tutela delle donne che da bambine hanno subito violenze sessuali. Da allora, fortunatamente, la situazione è mutata. La presenza, in ogni nazione civile, di corrispettivi nazionali di associazioni che in Italia conosciamo come (per citarne solo alcuni) “Azzurro rosa”, “Gruppo Greta”, “Telefono azzurro”, ecc., testimonia che molta strada è stata percorsa, fino alla nascita di strutture altamente specializzate. Françoise Sironi (in “Persecutori e vittime. Strategie di violenza”, pubblicato nel 1999) descrive a fondo l’attività del Centro Universitario Georges Devereux di aiuto psicologico, che a Parigi si prende cura delle vittime della tortura da parte di dittature politiche. Ma da che cosa, nelle famiglie che costituiscono la nostra società ordinaria, bisogna proteggere i bambini? Alice Miller lo illustra basandosi anche su esperienze personali. Bisogna proteggerli dall’isolamento in cui li racchiude il muro del silenzio, e dalla violenza disumana del non parlare per giorni ad un bambino piccolo, con un silenzio che non spiega quale colpa sia imputata e punita in quanto vuole trasmettere un messaggio sotterraneo: “... Se non sai nemmeno perché hai meritato la punizione, vuol dire che non hai coscienza. Cerca, scava, sforzati fino a quando la coscienza ti dirà di che colpa ti sei macchiato. Solo allora potrai cercare di scusarti e, secondo l’umore del tiranno e se avrai fortuna, ti sarà forse perdonato...”. (Miller, Alice: pag. 22). Il senso di isolamento disperato sperimentato in momenti (od anni, addirittura) traumatici dell’infanzia, a causa dell’effetto minaccioso e devastante che esso possiede, può restare sepolto nell’animo di una persona per 40-50 anni, La causa? La verità dei fatti ed il suo significato (Mio padre, mia madre, mi odiano) sono stati, per la mente del bambino/bambina, così brutali ed inconcepibili che la vittima ha dovuto negarli. Dipendendo completamente dai genitori, era impossibile criticarne il comportamento, essere sicuro dei propri giudizi, abbandonare il rapporto esclusivo con il genitore aprendosi al contatto con altri adulti che fossero rispettosi ed umani verso il bambino. Rinunciare alla consapevolezza di ciò che era accaduto, negare la verità dei fatti, rimuovere dalla mente tutto quanto, in sostanza tradire i propri bisogni emotivi di bambini, era l’unica possibilità per sopravvivere. Ed ogni vittima l’ha colta ed è sopravvissuta grazie alla rimozione del ricordo di ciò che le era stato fatto, anche se ha dovuto pagare - per avere la possibilità di dimenticare - il prezzo di essere tormentata dai sintomi più diversi esprimenti il permanere nell’inconscio di tutte le memorie non superate degli antichi traumi. La denuncia della Miller prosegue poi riprendendo l’analisi psicologica del caso di Friederich Nietzsche, già affrontata nel libro “La chiave accantonata”, del 1988; e con un accenno alle gravi conseguenze del dimenticare i traumi subiti, nel caso delle vittime dell’Olocausto e dei reduci della guerra in Vietnam. La conclusione è la dimostrazione del grave errore che sarebbe commesso, a danno del paziente, dallo psichiatra che sostenesse l’utilità del dimenticare, e la necessità del perdonare chi ha fatto del male al bambino di un tempo, con frasi tipo: “Lei deve smettere di tormentarsi continuamente; cerchi piuttosto di dimenticare. Non dovrebbe agitarsi, infuriarsi. La collera è pericolosa, causa mal di testa; cerchi di dominarsi e di controllarsi. Ciascuno di noi ha dovuto subire delle ingiustizie, in qualche occasione: è del tutto normale. Ma i suoi genitori erano animati dalle migliori intenzioni: se hanno sbagliato, è umano, Deve perdonarli: solo col perdono può guarire”. (Miller, Alice: pag. 33). Alice Miller non si limita ad applicare queste osservazioni critiche alla posizione della psichiatria in generale (in quanto forma della visione medica della natura e del significato dei disturbi psichici di un paziente). In considerazione del fatto che il soggetto sofferente di disturbi psicologici spesso si rivolge ad una qualche forma di psicoterapia, ed in base alla realtà statistica del fatto che la psicoanalisi è la forma più diffusa di psicoterapia, la Miller sente il dovere di prendere pubblicamente posizione su quella che definisce la responsabilità più grave della psicoanalisi: il rischio di tradire - in nome di una costruzione ideologica, spesso con marcati atteggiamenti pedagogici e direttivi - la ricerca della verità personale del paziente nella sua infanzia.

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Secondo la Miller questa prassi tecnica ha la sua base nel continuo sottrarsi dell’analista alla storia dolorosa della propria infanzia. Il palcoscenico del sito non è e non vuole essere il luogo di polemiche contro qualcosa o qualcuno. Questo perché l’intento del sito è, ed è soltanto, quello d’inviare al lettore molti suggerimenti diversi affinchè egli possa costruirsi gli strumenti di auto-aiuto e la mappa della strada da percorrere per arrivare alla meta del sollievo delle sue sofferenze. Chi fosse interessato all’esposizione delle ragioni tecniche per le quali Alice Miller si è distaccata dalla psicoanalisi freudiana, può trovarle descritte nei suoi libri: ––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––– • anzitutto “Il bambino inascoltato. Realtà infantile e dogma psicoanalitico”, ––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––– • il successivo “La chiave accantonata”, ––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––– • poi ”L’Infanzia Rimossa. Dal bambino maltrattato all’adulto distruttivo nel silenzio della società”, ––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––– • ed il libro che qui è recensito “La fiducia tradita. Violenze e ipocrisie dell’educazione”. ––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––– Qui può bastare (questa è la sfida che QUATTRO presenta ai lettori del sito) come prova dell’onestà intellettuale di Alice Miller, come testimonianza della sua rigorosità morale professionale, il fatto che la Miller abbia nel 1980 chiuso il suo studio privato di psicoterapeuta per dedicarsi soltanto alla scrittura dei libri nei quali raccontava al mondo le scoperte delle sue ricerche circa la verità dei reali trattamenti riservati ai bambini? E che, per coerenza alle sue scoperte, nel 1988 sia uscita volontariamente sia dalla Società psicoanalitica Svizzera, sia da quella internazionale? Ma, contraddicendosi immediatamente, QUATTRO non sa resistere alla tentazione di citare un lungo passaggio della perorazione in difesa dei bambini che la Miller fa nel mentre che contestualmente precisa la responsabilità di genitori scorretti nel loro modo di trattare i figli: “La mia personale liberazione dalle ansie è stata possibile soltanto dopo che ho capito che la paura della verità e l’ignoranza della persona o delle persone che si offrono di aiutarti non sono un destino ineluttabile, bensì una scelta dell’adulto che (contrariamente al bambino) ha la possibilità di rinunciare alla rimozione. Ci si può decidere di dissolvere il rifiuto mentale e la cecità che si sono determinati come effetto della “educazione” del bambino. Solo da quando ho saputo con certezza, per esperienza personale e diretta, che la cecità psichica, che le tendenze distruttive ed autodistruttive sono dissolvibili, da quando ho rinunciato a volere comprendere i responsabili dei miei mali, soltanto allora ho osato guardare attentamente i loro misfatti e condannarli. Ho anche capito che è del tutto inutile voler comprendere la persona che ti trovi di fronte finchè questa si rifiuta di comprendere se stessa. Ed è questo appunto che avevo tentato di fare per quasi tutta la mia vita: da bambina, da donna, da psicoanalista, e - in parte - anche da autrice dei miei primi tre libri. Da quando affermo e scrivo, senza più peli sulla lingua, che i maltrattamenti inflitti ai bambini sono il peggiore crimine che l’umanità commette ai danni dell’umanità, perché danneggia sotto il profilo caratteriale le future generazioni e perché resta ignorato grazie alla rimozione delle vittime (terapeuti compresi), mi si rimprovera di essere dura e spietata. Si chiede spesso come si può pretendere di vietare la collera ai genitori. In queste “argomentazioni” non si distingue tuttavia - e purtroppo - fra il sentimento, che non danneggia nessuno, ed il suo esplicarsi in azioni. Ma è ovvio che anche i genitori devono potersi consentire dei sentimenti. Ma non deve essere loro in nessun caso consentito di picchiare impunemente i loro figli, di schiaffeggiarli o di umiliarli in altri modi, perché così facendo infieriscono su un organismo in formazione e lo danneggiano per la vita, commettendo quindi un delitto. I genitori che possono provare i loro sentimenti, ma che siano anche consapevoli della portata di questi sentimenti; e intuiscano che le loro esplosioni di collera sono bensì innescate dal comportamento del bambino ma originariamente non causate da lui, corrono anche minor rischio di sfogare la loro ira spacciandola per un atto pedagogico. Comunque sia, è ora e tempo che i genitori non si avvalgano più del diritto di commettere impunemente dei delitti. E qui parlo consapevolmente di “colpa” e di “vittime”, e non di “cause” ed “effetti” come qualcuno mi suggerisce. Perché i bambini sono sacrificati da esseri umani, e cioè dai genitori, e non da robot. E questi esseri umani non hanno il diritto di comportarsi come robot devastatori e di insistere nella loro ignoranza, anche se le opinioni tradizionali e perfino certi comandamenti morali e religiosi li sostengono in questo atteggiamento quando predicano alle vittime la necessità del perdono. Verrà il giorno in cui l’effetto distruttore di vita di questi comandamenti sarà chiaramente riconosciuto”. (Miller, Alice: pagg. 50-51).

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Lasciamo che il lettore del sito esplori da solo le possibilità di ricavare qualche spunto utile alla propria personale ricerca dalla lettura di due studi della Miller: A. “Adolf Hitler: dall’uccisione dell’animo del bambino allo sterminio di interi popoli”. Questo ultimo studio della Miller viene dopo la approfondita analisi fatta (in “La persecuzione del bambino. Le radici della violenza”) sulla figura di Hitler e sull’essenza psicologica del nazionalsocialismo. Dopo di questa sono venuti poi inquadramenti più brevi in ”L’Infanzia Rimossa. Dal bambino maltrattato all’adulto distruttivo nel silenzio della società”, e “La chiave accantonata”. Percorriamo, in estrema sintesi, l’ossatura di tutto lo studio, sintetizzandola in cinque citazioni del pensiero della Miller: 1. “Ogni bambino maltrattato deve completamente rimuovere le violenze, gli stati d’abbandono e i disorientamenti patiti: deve farlo per non morire, perché l’organismo infantile non è in grado di reggere l’intera gamma delle sofferenze. Soltanto alla persona adulta si prospettano poi altre possibilità di confrontarsi con i propri sentimenti. Se non approfitta di queste possibilità, la funzione della rimozione (che in passato gli ha salvato la vita) può trasformarsi in uno strumento pericoloso, distruttivo e autodistruttivo”. (Miller, Alice: pag. 76). 2. “... Per soffrire coscientemente l’illibertà, occorre saper che cosa sono la libertà e il rispetto della vita. Chi non l’ha mai appreso, chi durante l’infanzia ha conosciuto ed è stato esposto solo alla violenza estrema, alla brutalità e all’ipocrisia, senza incontrare mai nemmeno un testimone soccorrevole, non va per le strade a dimostrare per la libertà. Pretende invece l’ordine imposto con la violenza, esattamente come ha imparato da bambino: ordine e pulizia sono necessari, a ogni costo, soprattutto a costo della vita. Le vittime di una simile educazione sono ansiose di praticare sugli altri quello che è stato inflitto a loro. E se non hanno figli, oppure se questi figli si sottraggono alla loro vendetta, si mettono a marciare in favore di nuove forme di fascismo. Il fascismo ha, in sostanza, sempre lo stesso obiettivo: distruggere la verità e la libertà”. (Miller, Alice: pag. 78). 3. “... Hitler non ha inventato il fascismo: esisteva già - come per tanti altri suoi contemporanei - nel regime totalitario della sua famiglia. Le caratteristiche nazional-socialiste in cui si esplicò il fascismo di Hitler, recano l’impronta inequivocabile della sua infanzia”. (Miller, Alice: pag. 82). 4. “... Hitler è riuscito a fare dell’Europa e del mondo intero il campo di battaglia della sua infanzia perché nella Germania di allora c’erano milioni di individui che avevano fatto da bambini esperienze simili alle sue. I principi pedagogici che ora elencherò erano per loro naturali e scontati, anche se non ne erano necessariamente consapevoli: • I valori supremi sono l’ordine e l’ubbidienza, non la vita. • L’ordine si può creare e conservare solo mediante la violenza. • La creatività (insita nel bambino) è un pericolo per l’adulto, e deve essere repressa. • La prima legge è quella di ubbidire al padre. • La disubbidienza e la critica sono fenomeni che scompaiono quando si provveda a reprimerle con punizioni o minacce di morte. • Il bambino vivace e vitale deve essere educato il più presto possibile in modo da farne un ubbidiente robot, uno schiavo. • Occorre di conseguenza soffocare nel bambino, nel modo più risoluto, i sentimenti indesiderati e quelli che sono i suoi istintivi bisogni. • La madre non deve proteggere mai il bambino dalle azioni punitive del padre, e deve invece predicargli - dopo ogni punizione che gli sia inflitta - il rispetto e l’amore per i genitori”. (Miller, Alice: pagg. 82-83). 5. “... Se tuttavia questo testimone soccorrevole è del tutto mancato, al bambino non è rimasta altra possibilità (nello scenario allucinante in cui si è trovato) che di negarsi ogni reazione naturale - come la collera o la risata - e di piegarsi al rito della ininterrotta, cieca e totale ubbidienza. Solo così ha potuto mantenere entro limiti tollerabili la minaccia costituita dal padre. Hitler ha in seguito sfruttato per i suoi fini questa precoce e spietata formazione del carattere.

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Ha sviluppato la sua ideologia nazionalsocialista conformandola quasi nei minimi dettagli alle pratiche pedagogiche che aveva sperimentato sulla sua stessa pelle, e le conseguenze concrete di queste elaborazioni sono state le seguenti: • La volontà del Fuhrer è legge suprema. • Il Fuhrer creerà l’ordine con la violenza, e farà della Germania il paradiso degli ariani, della razza eletta. • Chi si sottometterà ai suoi ordini come un robot, sarà premiato. • Chi oserà sollevare critiche, finirà nei campi di concentramento. • Ebrei e zingari devono essere annientati: siano essi uomini, donne o bambini. • Russi e polacchi vanno trasformati in utili schiavi. • Gli invalidi e i malati di mente devono essere eliminati. • La libertà dell’arte è pericolosa, “degenere”, e va dunque perseguitata come ogni altra forma di libera creatività”. (Miller, Alice: pag. 83). Il confronto tra i due elenchi di principi merita un attento studio, ed un preciso impegno personale per impedire il realizzarsi di questa catastrofe dell’educazione e della libertà. B. “Nicolae Ceausescu: mostruose conseguenze d’una misera infanzia negata”. Per fortuna è piuttosto improbabile che la maggior parte dei lettori del sito provenga da un’infanzia come quella del folle dittatore paranoico della Romania: figlio di un uomo povero, che ebbe animalescamente dalla moglie dieci figli, che poi picchiò sistematicamente - in stato di ubriachezza - dicendo che lo faceva per il loro bene, del resto come li picchiava la madre rigidissima nella severità educativa, sebbene entrambi facessero vivere i figli nella misera e squallida promiscuità di un’unica stanza. Ed è anche difficile che sia poi capitato, a tale lettore, di essere picchiato, castigato, messo in collegi durissimi e punitivi, incarcerato e persino torturato. Questo spiega perché nessuno è diventato un pazzo dittatore sostenitore della redenzione attraverso la violenza né abbia costretto donne a partorire contro il proprio volere, spesso a rischio della propria vita, per potere regnare su un popolo di adulti terrorizzati e di bambini affamati ed abbandonati dai genitori. Ma chi può escludere che una scintilla di illuminazione della propria verità storica personale possa derivare anche da questa folle oscurità di malvagità umana? Dopo questa immersione in una visione globalmente angosciante sotto la prospettiva politica, sociale, culturale e familiare, ci rimane qualche speranza di una salvezza almeno individuale, di una liberazione almeno personale dalle sofferenze psicologiche che ci fossero toccate? Senza il minimo dubbio. E sono proprio le parole stesse di Alice Miller a darci questa certezza di riscatto dal dolore. Di certezza realmente si tratta, giacchè esse sono fondate su 2 pilastri inattaccabili. 1. La testimonianza personale dell’Autrice sui benefici derivanti è la garanzia migliore. 2. È concretamente indicata una metodologia precisa, che chiunque può applicare in proprio. Leggiamo quindi, una dopo l’altra, queste considerazioni che la Miller presenta, in 3 distinti punti del libro: 1. L’introduzione. 2. Il capitolo iniziale “Uscire dalla prigione del disorientamento”. 3. Alla fine del libro il capitolo “L’esperienza liberatoria della dolorosa verità”. • “La verità dell’infanzia che molti di noi hanno sofferto è inconcepibile, vergognosa, dolorosa, non di rado mostruosa e sempre rimossa. Apprendere questa verità tutta in una volta, e assimilarla consapevolmente, è semplicemente impossibile, anche quando lo desideriamo ardentemente. La capacità dell’organismo umano di sopportare sofferenze è per il suo stesso bene limitata, e tutti i tentativi di ignorare questo limite e di porre violentemente fine alla rimozione, comportano effetti solo negativi e spesso pericolosi, come del resto ogni altra forma di violenza. Le conseguenze di una esperienza traumatica, per esempio di un maltrattamento subito, possono essere eliminate solo quando tutti gli aspetti traumatici di quest’esperienza siano rivissuti, articolati e condannati nel quadro di una prudente e circospetta terapia rivelatrice”. (Miller, Alice: pag. 7). • (le persone sofferenti) “... non immaginano che nel quadro di una lenta e cauta procedura potrebbero sicuramente sopportare la verità e che soltanto questa, alla lunga, può essere d’autentico sollievo”. (Miller, Alice: pag. 8).

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• “Al di là del muro che dovrebbe proteggerci dalla storia di quest’infanzia c’è infatti ancora e sempre - il bambino disprezzato che siamo stati, e che è stato allora abbandonato a se stesso e tradito. Sta aspettando che troviamo il coraggio di dargli retta”. (Miller, Alice: pag. 8). • “È il dono della verità, che significa liberazione dal carcere degli atteggiamenti mentali distruttivi e delle menzogne radicate, e infine anche il dono della sicurezza conferitaci dalla riacquistata integrità. Quel bambino attende solo la nostra disponibilità ad avvicinarci a lui, per abbattere col suo aiuto le barriere. Molte persone non lo sanno”. (Miller, Alice: pag. 8). • “Il bambino maltrattato e abbandonato è completamente solo nel buio del turbamento e della paura, circondato da odio e arroganza, derubato dei suoi diritti e del suo linguaggio, ingannato nell’amore e nella fiducia, disprezzato, umiliato, irriso nel suo dolore, senza orientamento, senza riferimenti, cieco, esposto spietatamente al potere degli adulti ignoranti, del tutto privo di difese. Tutto il suo essere vorrebbe gridare l’ira accumulata, esprimere l’indignazione e invocare aiuto. Ma è appunto questo che non gli è permesso di fare. Gli si negano e gli si contestano tutte le reazioni di cui la natura lo ha dotato per salvarsi. Se non lo soccorre un testimone consapevole, il ricorso a queste reazioni non produrrebbe altro che un aggravamento delle pene del bambino, le prolungherebbe, tanto che infine potrebbe anche rimetterci la vita. E quindi la sana reazione di protesta contro la disumanità deve essere repressa. Il bambino cerca di cancellare dalla memoria tutto quello che è successo, di eliminarlo, di bandire dal livello della coscienza - per sempre, spera - la bruciante indignazione, la rabbia, la paura, l’intollerabile dolore. Ciò che resta è un pesante senso di colpa, anche nei casi in cui non lo abbiano costretto a baciare la mano che lo ha colpito e a chiedere perdono: e questo, purtroppo, avviene molto più spesso di quanto si creda. Nell’individuo adulto che è sopravvissuto a simili tormenti, culminati nella totale rimozione. Il bambino tormentato continua ad esistere: nel buio della paura, dell’oppressione, della minaccia. Se tutti i tentativi che questo bambino fa per indurre l’adulto a dar retta alla sua storia rimangono senza successo, cerca allora di procurarsi ascolto col linguaggio dei sintomi, rifugiandosi nelle droghe, nella psicosi, nella criminalità. E se nell’adulto infine, nonostante tutto, affiora ugualmente la sensazione delle cause vere delle sue sofferenze, e chiede agli esperti se queste sofferenze non possano essere connesse alle esperienze della sua infanzia, nella maggior parte dei casi lo si rassicura dicendogli che non è certo così, e che se per caso fosse invece proprio così, allora deve imparare a perdonare, perché è appunto il suo atteggiamento risentito a renderlo malato”. (Miller, Alice: pagg. 117-118). • “Il ricordo del senso di isolamento di quei giorni, della solitudine della bambina che cerca disperatamente la ragione della punizione che le è stata imposta, è rimasto per quasi sessant’anni rimosso in me. Ho tradito dunque, con la rimozione, la piccola bambina che voleva capire ad ogni costo le assurdità del comportamento della madre, per potere finalmente cambiare la propria sorte, per indurre finalmente la madre - di cui aveva assoluto bisogno - a parlare. Ho dovuto tradirla perché nessuno mi ha aiutato a vedere e a sopportare la verità, perché nessuno mi ha aiutata a condannare la crudeltà. Ho continuato la solitaria ricerca di una mia colpa anche nei labirinti delle concezioni astratte, che non facevano così male come i nudi fatti e che mi promettevano almeno un surrogato dell’orientamento perduto. I sentimenti provati nell’infanzia erano stati rimossi prima di poter affiorare a livello di consapevolezza, poiché la loro intensità avrebbe ucciso la piccina. Soltanto in questi ultimi anni, grazie alla terapia che mi ha consentito di revocare gradualmente la rimozione, mi sono potuta permettere di riesperire per la prima volta, consapevolmente, le sofferenze, la disperazione e la rabbia impotente e giustificata della bambina ingannata. E soltanto a questo punto mi è divenuto evidente in tutta la sua portata il delitto commesso ai danni della bambina che sono stata. Un delitto che non si può paragonare con nessuna delle crudeltà che ho pur avuto modo di soffrire nell’arco della mia vita successiva. Mi sono trovata anche in seguito, da adulta, di fronte al fenomeno del muro del silenzio, ma non vi sono più stata esposta in quella misura totalitaria. Ho potuto valutare il fenomeno, giudicarlo, condannarlo, non sono stata costretta a farmene disorientare, sono stata in grado di difendermi da accuse ingiuste, di cercare l’aiuto necessario, non ero più condannata alla cecità. Mi è capitato ancora, ripetutamente, di avere a che fare con persone che avevano - chi più e chi meno - ottuso la loro sensibilità, tanto da essere incapaci di uno scambio sincero di sentimenti e di pensieri. E ho notato spesso che cercavano di compensare l’insicurezza emotiva che scaturiva da quella corazza, con l’esercizio del potere.

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Scansare i fatti, barricarsi con l’aiuto del silenzio, pareva essere il loro unico modo di proteggersi. Eppure - quando penso a tutti questi incontri con il muro del silenzio - incontri dolorosi, irritanti, indegni o anche solo spiacevoli -, nessuno è stato minaccioso e devastante come quello di mia madre nel tempo in cui dipendevo totalmente da lei. Da adulta, quando mi sembrava importante, potevo opporre fatti e domande al mutismo, osservare criticamente il comportamento della persona con cui avevo a che fare, verificare i miei giudizi; oppure potevo anche rinunciare a questo o quell’altro rapporto perché avevo modo di accedere ad altre persone che non si chiudevano nel silenzio, che non si arrogavano il diritto di assumere simili atteggiamenti nei miei confronti. Ma da bambina non avevo questa scelta. Non potevo dire: mi cerco un’altra madre, una donna aperta che mi rispetti, che mi parli, che mi spieghi il suo comportamento, che sappia quello che fa perché vive consapevolmente, e che non mi tratti continuamente come se fossi aria. Da bambina non ho avuto altra possibilità che subire quel silenzio, cercare in me la colpa, restar cieca di fronte all’ipocrisia e alle pretese tiranniche di mia madre; e, in seguito, cercare di compensare la perdita della mia verità con le speculazioni filosofiche “sull’inconoscibilità della verità”. Poiché la verità dei fatti era così brutale e inconcepibile, ho dovuto negarla. E ho dovuto pagare un prezzo molto alto per questo rimedio, un prezzo fatto di limitazione del mio grado di consapevolezza cui si sono sostituiti sensi di colpa. Da quando conosco la mia verità, so che a innumerevoli altre persone sono capitate esperienze simili alle mie, anche quando non sono - o non sono ancora - capaci di ricordare i fatti. Ma alcune sono evidentemente in grado di farlo, perché le rivelazioni su casi di maltrattamenti di bambini si moltiplicano in ogni parte del mondo”. (Miller, Alice: pagg. 23-24). Terminando l’analisi di “La fiducia tradita. Violenze e ipocrisie dell’educazione”, QUATTRO ritiene che dopo il peso della testimonianza personale di Alice Miller non si possa che lasciare al silenzio il compito di indicare ad ogni lettore la strada per trovare la sua verità personale. INDICE. Introduzione. I - APERTURE E PROSPETTIVE. 1. L’iniziativa di Eva. 2. Uscire dalla prigione del disorientamento. 3. La lotta contro la memoria in psichiatria. 4. Il gioco della mosca cieca e la fuga dai fatti in psicoanalisi. 5. I muri del silenzio nella stampa. II - I FATTI. 1. Il sacrificio del bambino come “tradizione”. 2. Salvatori e costruttori paranoidi di regimi totalitari. • Adolf Hitler - Dall’uccisione dell’animo del bambino allo sterminio di interi popoli. • Nicolae Ceausescu - Mostruose conseguenze di una misera infanzia negata. 3. Il bambino maltrattato nelle Lamentazioni di Geremia. III - LA RINUNCIA ALL’IPOCRISIA. 1. L’esperienza liberatoria della dolorosa verità. 2. Per la difesa della vita “nata” e “vissuta”. APPENDICE. Dieci ragioni per non picchiare i nostri bambini. Di Jan Hunt.

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––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––– SCHEDA TECNICA - A CURA DI QUATTRO ––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––– AUTORE: Miller, Alice ––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––– TITOLO: L’Infanzia Rimossa. Dal bambino maltrattato all’adulto distruttivo nel silenzio della società. ––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––– EDITORE: Garzanti, Milano, 1990. Titolo originale: “Das verbannte Wissen”, Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Main, 1988. ––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––– PAGINE: 177 INQUADRAMENTO GENERALE: vedi INDICE: vedi COMMENTO: no TEST DA COMPILARE: no ––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––– INQUADRAMENTO GENERALE.

Un arcipelago d’isolette caraibiche viste da un aereo che le sorvola a volo quasi radente: macchie d’alberi e cespugli verdi, spiagge di bianca sabbia. Tra l’una e l’altro ampio tratto d’oceano, in mille sfumature d’azzurro, turchese, verde, acquamarina, tra le quali spiccano i più lunghi tratti di blu cobalto delle correnti marine che muovono le masse d’acqua tra le varie isole. Questa è l’immagine che viene in mente a QUATTRO quando pensa a questo libro della Miller: la profondità d’ampi squarci di teoria psicologica circa i vissuti emotivi dei bambini si dipana tra una serie di casi, d’episodi, di fatti di cronaca, dai quali la Miller pare dedurre la teoria, oppure confermarla. Il primo tratto di mare profondo si presenta fin dalle righe iniziali dell’introduzione: “Diversamente dall’animale che, di regola, è autonomo poco tempo dopo la nascita, il cucciolo dell’uomo necessita a lungo, molto a lungo, d’aiuto. Viene al mondo in condizioni tali da dover essere assistito in tutto e per tutto, ha assoluto bisogno del calore delle braccia umane, d’occhi vigili, di essere toccato e accarezzato con affetto. Incubatrici e calore elettrico sono surrogati molto insufficienti, e il contatto prodotto da strumenti freddi può essere una tortura. Il neonato deve essere sicuro di sentirsi protetto in ogni situazione, di essere desiderato, deve essere certo che quando piange gli si dia retta, che si risponda ai suoi sguardi e che si plachi la sua paura. Deve essere sicuro che gli si dia da bere e da mangiare quando ha fame e sete, che lo si assista con amore nelle sue esigenze fisiche, e che non si sottovalutino mai le difficoltà in cui potrebbe trovarsi”. (Miller, Alice: pag. 7). Precisata la realtà dei bisogni del neonato, la Miller delinea l’effetto della mancata protezione da parte dei genitori: “È chiedere troppo? In alcune circostanze è effettivamente troppo, è un peso grave; in altre invece è una responsabilità che dà solo gioia e arricchimento. Tutto dipende dall’esperienza che i genitori hanno avuto da bambini e da quello che sono capaci di dare. Ma anche a prescindere dalla situazione particolare, resta il fatto che il bambino dipende dagli altri per il soddisfacimento dei propri bisogni perché non può provvedere a se stesso. Può piangere e gridare, è vero, chiedere aiuto; ma poi occorre vedere se coloro che gli stanno attorno danno retta alle sue invocazioni, se lo prendono sul serio, se affrontano e soddisfano i bisogni impliciti nelle invocazioni, o se invece lo puniscono con odio perché grida, o cercano di impedirgli di piangere ricorrendo ai calmanti”. (Miller, Alice: pag. 7). E infine descrive le conseguenze negative sulla struttura di personalità del neonato, le cicatrici e deformazioni che ne derivano in maniera forse non permanente (ma solo a patto che una terapia le annulli), comunque certo durature per un certo numero di anni: “L’unica possibilità che al neonato rimane di aiutare se stesso quando non si ascolta la sua invocazione consiste nella rimozione del dolore che, a sua volta, comporta una mutilazione del suo animo, poiché la rimozione provoca un turbamento delle facoltà di sentire, percepire, ricordare. Se queste innate facoltà non hanno modo di svilupparsi, arriverà il giorno in cui l’individuo -

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per esempio - non saprà più cosa significa essere senza protezione, e non sarà nella condizione di potere dare a suo figlio la protezione di cui questi avrà, a sua volta, urgente bisogno. Genitori che non abbiano mai avuto amore, che nel venire al mondo non abbiano mai trovato ad accoglierli che freddezza, insensibilità, indifferenza e cecità, e che siano vissuti in questa atmosfera nel corso dell’infanzia e della giovinezza, non possono donare amore: e come potrebbero, del resto, visto che non sanno che cosa è e che cosa può significare l’amore? Eppure i loro figli sopravviveranno. E a loro volta, esattamente come i loro genitori, non ricorderanno affatto i traumi ai quali sono stati sottoposti in passato, perché sia questi traumi, sia i relativi bisogni, sono stati da loro rimossi, vale a dire completamente banditi dal livello di coscienza. Se un essere umano nasce in un mondo freddo e indifferente, lo considera come l’unico mondo possibile. Tutto quello che in seguito crederà, sosterrà, riterrà giusto, sarà basato su queste prime esperienze formative. Oggi si può anche dimostrare che questo prezzo è non solo troppo alto per il singolo individuo, ma implica anche un gravissimo pericolo per la collettività”. (Miller, Alice: pagg. 7-8). Ed ancora, con un’altra specificazione: “Nelle reazioni alle nuove conoscenze non si rispecchiano solo le nozioni apprese, ma anche la tragicità insita nella disparità delle occasioni avute: un bambino amato riceve il dono dell’amore, e con esso anche quello della consapevolezza e dell’innocenza. È un dono che gli servirà d’orientamento per tutta la vita. Viceversa a un bambino che sia stato traumatizzato, tutto questo viene a mancare appunto perché non ha ricevuto amore. Non sa cos’è l’amore, scambia continuamente il male col bene e la menzogna con la verità. E quindi consentirà che si continui a disorientarlo ulteriormente”. (Miller, Alice: pag. 49). Più avanti nel testo (pagg. 109-110) la Miller presenta lo stesso dramma del rapporto bambino-genitori, ma facendolo vedere dal lato del genitore, in una tragicità ineluttabile che spinge il genitore al fallimento del suo ruolo che dovrebbe essere di amoroso educatore: “Si può aiutare solo colui che cerca l’aiuto, perché sa di trovarsi in uno stato di bisogno. Tuttavia, la maggior parte dei genitori che infliggono ai loro figli pesanti sevizie, non sono quasi consapevoli delle loro condizioni. Non provano nemmeno sensi di colpa, perché hanno sperimentato nella loro infanzia solo situazioni analoghe e hanno imparato a considerare simili trattamenti come giusti. Credono fermamente di picchiare e di trattare con curiosità i loro figli perché ritengono che solo così questi possano formarsi un carattere nobile, e credono di sottoporre i loro figli a “iniziazioni sessuali” quando invece si approfittano di loro per appagare i propri piaceri. Nella maggior parte dei casi, i padri incestuosi non riescono quasi a capire che il loro è un comportamento criminale. Come si può pretendere di “aiutarli” senza spiegarglielo? E com’é possibile spiegarglielo finché si esista a definire i delitti commessi ai danni di bambini come violazioni di legge perseguibili d’ufficio, e a incardinare questo principio nella legislazione? I genitori che cercano l’aiuto della terapia o si rivolgono alle scuole per genitori sono già consapevoli del loro stato di bisogno. Però innumerevoli bambini sono esposti a gravissimi pericoli da parte dei loro genitori, perché questi non hanno il benché minimo rimorso di coscienza. Si possono soccorrere questi bambini solo con una nuova legislazione che definisca inequivocabilmente come un crimine il comportamento fin qui ritenuto “normale” dei genitori. Colui che non sia stato messo nella condizione di condannare inequivocabilmente la malvagità, la perversione, la perfidia, la brutalità e l’ipocrisia, rimarrà disorientato e soggiacerà alla tentazione di ripetere ciecamente su altri la propria esperienza”. Subito dopo si apre un nuovo percorso che presenta considerazioni psicologiche di estremo interesse. Sono le rivelazioni che Alice Miller fa sul clima in cui si è dipanata almeno la sua prima e seconda infanzia, se non addirittura la giovinezza. QUATTRO, come ogni altro lettore, si è sempre sentito onorato e grato nel ricevere il dono di queste esperienze così personali. Ha sempre letto con profonda attenzione ogni accenno (sparso qua e là nei suoi vari libri) che la Miller ha fatto sulla propria infanzia. Tuttavia ritiene che la riservatezza che si deve ad ogni sofferenza rivelata da un animo umano, imponga di limitarsi a citare un accenno: la severità e la durezza della madre e l’assenza di protezione da parte del padre. E al commento della Miller stessa, che riassume l’essenza di una sofferenza:

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a. L’assenza di protezione nell’infanzia. “Se una sola persona avesse allora compreso cosa succedeva e m’avesse preso sotto la sua protezione, tutta la mia vita avrebbe avuto un corso diverso. Avrebbe potuto aiutarmi a capire la crudeltà e a non subirla passivamente per decenni come qualcosa di normale e necessario, a scapito della mia stessa esistenza”. (Miller, Alice: pag. 11). b. La progressiva presa di coscienza. “Nel frattempo avevo anche capito che ero stata maltrattata da bambina perché i miei genitori, durante la loro infanzia, avevano sperimentato qualcosa di simile e nello stesso tempo appreso a considerare questo abuso come un’educazione impartita per il loro bene. Dal momento che non era stato concesso loro - e nemmeno agli analisti che mi hanno istruita - di sentire e quindi di capire quanto era loro capitato, non sono stati in grado di riconoscere l’abuso, e me lo hanno trasmesso senza il benché minimo turbamento di coscienza. Ho capito anche che ormai non avrei potuto minimamente modificare la storia dei miei genitori e insegnanti, e cioè le vicende che li avevano resi ciechi. Al tempo stesso, però, mi sono resa conto di poter e di dover invece mostrare ai giovani d’oggi, e soprattutto ai futuri genitori, i pericoli insiti nei loro abusi di potere, di sensibilizzarli in tal senso e di renderli attenti ai segnali che vengono dal bambino”. (Miller, Alice: pagg. 12-13). c. L’auto-aiuto liberatorio. “E questo io posso fare se aiuto la bambina che è in me a parlare, una bambina finora condannata al silenzio, vittima senza diritti, e se descrivo le sue sofferenze dal suo punto di vista e non dal punto di vista dell’adulto. Perché è stata proprio questa bambina a fornirmi informazioni essenziali risposte a domande che erano rimaste inascoltate durante tutti i miei studi di filosofia e di psicoanalisi, e che pure non hanno mai smesso di assillarmi. Solo quando mi sono compiutamente resa conto delle cause reali delle paure e delle sofferenze che ho patito da piccola, ho compreso quello che gli adulti sono costretti a rimuovere dalla loro esistenza, e perché - piuttosto che confrontarsi con la verità - preferiscono, per esempio, organizzare una gigantesca auto-distruzione nucleare senza nemmeno riuscire a coglierne l’assurdità. Un’assurdità che mi si è palesata in tutta la sua ferrea logica quando, grazie alla terapia, ho trovato accesso al tassello mancante, al segreto fin lì accuratamente nascosto dell’infanzia. Quando non si è più costretti ad assistere ciecamente alle sofferenze del bambino, si comprende improvvisamente che noi adulti abbiamo la facoltà, col nostro comportamento, di allevare i nostri figli come dei futuri mostri, oppure come persone coscienti e responsabili perché sensibili”. (Miller, Alice: pag. 13). Poi un’isoletta di descrizione. ––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––– Il racconto di una festa di San Nikolaus. E che profumo di ammonimenti ne fa emergere Alice Miller? Attenzione a non cadere nell’errore di comportarsi come se la mamma non fosse tenuta ad aiutare il bambino mentre il bambino è tenuto a sacrificarsi per la mamma. Attenzione a non fare nascere, già da piccoli, nei bambini: • La paura di fronte agli adulti apparentemente onnipotenti. • La rabbia impotente per non potere fuggire dinanzi alla violenza subita. • La vergogna per l’umiliazione sofferta. Ma soprattutto: • L’abbandono da parte degli adulti anche nell’affrontamento di sensazioni ed emozioni troppo grandi per un animo infantile. E perché, dice la Miller, i genitori non sono in grado di aiutare i loro figli? Perché i terrori che hanno dovuto rimuovere dalla loro percezione cosciente di bambini, costituiscono una barriera invisibile (quasi si trattasse di una spessa lastra di cristallo trasparente) che li separa dalle emozioni dei figli. E, a causa di questa mancata sensibilità dei genitori, che cosa accade al bambino? Nasce in lui la spaurita convinzione di essere cattivo. E questa convinzione continuerà ad esistere in lui, a livello inconscio, anche nella sua vita adulta. “Il bambino è stato costretto a credere che certe crudeltà gli sono state inflitte per il suo bene,

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e più tardi - da adulto - non sarà spesso in grado di riconoscere la falsità di questa concezione, specialmente se è fuorviato da persone per le quali prova simpatia, che risvegliano in lui delle aspettative e che parlano lo stesso linguaggio pedagogico al quale è abituato fin da piccolo. Perché è chiaramente falso che i traumi remoti non continuino ad affliggere l’individuo. L’oblio aiuta il bambino a sopravvivere, ma non il paziente adulto a liberarsi dalle proprie sofferenze. Il bambino è una vittima inerme e non un partner con uguali diritti di un processo interattivo. L’odio rimosso e inconsapevole ha effetti distruttivi, mentre l’odio esperito non è un veleno, ma una delle vie per uscire dalla trappola delle distorsioni, delle ipocrisie e delle tendenze distruttive. E si guarisce - si guarisce davvero - solo se si smette di risparmiare i responsabili delle violenze addossandosi dei sensi di colpa, se si osa finalmente guardare e sentire cosa hanno fatto”. (Miller, Alice: pag. 130). Un’altra isoletta? ––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––– Ecco il capitolo nel quale la Miller sviluppa una serie di riflessioni sull’importanza determinante di traumi infantili nella storia di uomini che hanno compiuto gravi delitti, ed ucciso altri esseri umani. (Ed ancora - all’interno delle argomentazioni del capitolo - la Miller ci mette a disposizione un altro squarcio di racconto sulla propria infanzia). E l’approfondirsi delle esperienze e delle conoscenze grazie alla sua costante ricerca consente oggi all’Autrice di affermare che in ogni caso i genitori sono responsabili nei confronti dei loro figli, anche se agiscono sotto l’effetto di una costrizione interiore e del loro stesso, tragico, passato (pag. 26). Sono responsabili perché, esattamente come hanno fatto i loro genitori molti anni prima, possono impunemente picchiare, insultare e umiliare (sotto il pretesto dell’educazione) i loro figli (pag. 31). E questo è possibile perché i bambini sono disposti a tutto pur di conquistare l’amore dei genitori, giacché non possono vivere senza questo amore (pag. 30). Ma se il soggetto è stato maltrattato nell’infanzia, non c’è pericolo - si chiede la Miller - che egli scateni oggi il suo odio contro i genitori, quando arrivi a rendersi conto del risentimento, o addirittura dell’odio contro i genitori, che i loro maltrattamenti hanno fatto nascere in lui? No, risponde la Miller. Possiamo stare tranquilli per diverse ragioni. Anzitutto le emozioni che risalgono alle esperienze infantili sono soggette alla legge della trasformazione: si modificano nel corso del tempo e lasciano il posto ad altre emozioni: “La collera nei confronti dei genitori rimane invariata finché non la si può apertamente sentire come tale: perché si ha paura di questa collera, perché la si sente come una colpa e si teme la vendetta dei genitori. Una volta però che questa paura sia stata rivissuta in tutte le sue implicazioni, e che se ne siano comprese le connessioni, l’individuo non è ulteriormente disposto a sentirsi colpevole di un qualcosa che altri hanno fatto. Questa liberazione riduce la carica dell’odio”. (Miller, Alice: pag. 29). Inoltre, dice l’Autrice, il risvegliarsi della sensibilità farà rinascere nel soggetto anche la voglia di vivere, ed egli non vorrà più comprometterla nemmeno per sfogare un impulso di antico odio. UN’IPOTESI DI PARADISO O DI INFERNO.

Proviamo adesso, con l’aiuto delle parole di Alice Miller, a tratteggiare un quadro teorico di quello che avviene, che intercorre, (nel male) tra genitori e bambino, e di ciò che invece potrebbe dolcemente e positivamente passare dalla madre al suo bimbo. La Miller inizia le sue riflessioni sull’argomento partendo dall’annotazione che si potrebbe pensare che se i genitori fossero più informati sui modi in cui possono fare del male ai loro figli, potrebbero smettere di continuare a farlo in futuro. Ma questo pensiero non corrisponde alla realtà: sono i genitori che hanno avuto un’infanzia serena, che non sono stati traumatizzati da piccoli, quelli che si informano, che studiano, che si impegnano - nel loro quotidiano atteggiamento verso il bambino - a rispettarne la natura, le esigenze emotive. Ma, dice la Miller: “... purtroppo sono una minoranza. Infatti, la maggior parte dei genitori sono rinchiusi fin dall’infanzia in una trappola emotiva e non aspettano altro che di potere finalmente sfogare l’antico, inconscio furore che hanno accumulato. E non trovano altra via d’uscita dalla trappola che non sia quella rappresentata dai loro figli. Infatti solo loro, i figli, possono essere impunemente picchiati, insultati e umiliati col pretesto dell’educazione, esattamente come un tempo avevano fatto i genitori dei genitori.

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Tragicamente, un individuo in trappola che veda una sola via d’uscita, non sa né può rinunciare all’idea di sfruttarla. Rimarrà cieco e sordo dinanzi a qualsiasi informazione ragionevole fino a quando quella strada non sarà stata definitivamente sbarrata da una adeguata legislazione. (Miller, Alice: pag. 31). Quando la legge vieterà finalmente di sfogare sui figli la rabbia accumulata nei confronti dei propri genitori, bisognerà trovare un’altra via di scampo dalla trappola: ed è possibile trovarla. Certo, non si potrà evitare di provare il dolore di ciò che si è personalmente patito, ma questo dolore è certamente salutare e non distruttivo. Se una madre fosse messa nelle condizioni di capire e di sentire le ferite che infligge a suo figlio, scoprirebbe anche di essere stata a sua volta ferita in passato, e potrebbe quindi liberarsi dalla costrizione ripetitiva. Tuttavia l’educazione e la religione le vietano di sentire e di capire cosa le è successo, e la precipitano così in un nuovo groviglio di colpe. Il rifiuto di ammettere le conseguenze dei danni e delle lesioni precocemente inflitti al bambino permea l’intera nostra società. Tutte le istituzioni religiose predicano da millenni ai loro credenti il rispetto per i genitori. Sono prediche che non sarebbe affatto necessarie se tutti fossero allevati con amore e rispetto, perché in tal caso corrisponderebbero con istintivo e naturale rispetto all’affetto che hanno ricevuto. È evidente che solo quando una persona non ha alcun motivo per rispettare i genitori, occorre costringerla a farlo. Una simile costrizione ha un effetto pericoloso, nel senso che ogni critica rivolta ai genitori è definita peccato e fa di conseguenza insorgere gravi sensi di colpa. Dal momento che si pretende che i genitori, anche quando sono ormai morti, siano rispettati, il rispetto dovuto loro è pagato dai figli. Che poi questa soluzione sia anche considerata morale, non fa che aggravare lo scandalo. Si sacrifica la vita futura per garantire il rispetto coatto di persone che questo rispetto non hanno meritato, perché hanno gravemente abusato del loro potere quando i figli erano piccoli, e si fidavano di loro. Eppure, in quasi tutte le culture ci si attiene a questo comandamento. Indiani, vietnamiti, cinesi, arabi, neri d’Africa mi raccontano tutti sempre le stesse storie. “Abbiamo meritato le botte, erano inevitabili per farci imparare a rispettare i nostri genitori. Quello che loro dicevano e facevano era sempre sacro”. Alcuni aggiungono: “Anche noi dobbiamo inculcare nei nostri figli il rispetto per noi, altrimenti diverranno dei vandali”. E solo in rari casi si accorgono che, con queste violenze, non fanno altro che accumulare della dinamite nei loro figli e allevare dei vandali: esattamente come fanno i bianchi. (Miller, Alice: pag. 32). Un africano, studente di psicologia, mi ha detto una volta nel corso d’un lavoro di gruppo a Londra: “Io lo so che fin da quando ero piccolo si è abusato di me: fisicamente, psichicamente e sessualmente”. “Come mai ha potuto rendersene conto?”. “L’ho compreso leggendo i suo libri e ora ne ho ovunque la riprova nel mio ambiente. Eppure tutti, bianchi e neri, sostengono che quello che io constato non è vero. Per di più i nostri genitori affermano di avere appreso la crudeltà dai bianchi e negano che vi abbiano contribuito i loro genitori”. (Miller, Alice: pag. 33). Ma cerchiamo ora di capire un punto importantissimo, che senza dubbio assilla la mente di tutti coloro che riflettono su questi temi: in che modo, con quale meccanismo, le colpe dei padri ricadono sui figli e vengono ripetute dai figli stessi? Quale è il percorso sotterraneo ed apparentemente invisibile, attraverso il quale le sofferenze subite da un bambino nell’infanzia lo portano, quando sia adulto, ad infliggere gli stessi o più gravi tormenti ad una sua creatura, inerme ed innocente? L’esposizione della Miller è ampiamente documentata, ed articolata con lucida gradualità. QUATTRO sceglie quindi di farne una estesa citazione, lasciando spazio al rigore intellettuale dell’Autrice: “La cecità fisica innata, nella maggior parte dei casi, è irreversibile. Invece la cecità emotiva che mi accingo a descrivere non è innata. È la conseguenza di una rimozione di sentimenti e di ricordi che rende l’individuo, in seguito, cieco di fronte a certe precise connessioni. Questa cecità non è irreversibile, perché ogni individuo può ad un certo punto decidere di far cessare la rimozione. Ovviamente, in un simile momento ha bisogno dell’aiuto di altre persone, un aiuto che può trovare soltanto se è davvero risoluto a confrontarsi con la verità. Che il singolo individuo colga o meno questa occasione dipende, in elevata misura, dal modo

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in cui si è svolta la sua infanzia; se è stata simile, insomma, a un regime totalitario che non offriva altre istanze che non fossero quelle poliziesche, oppure se il bambino ha avuto in qualche caso l’occasione di sperimentare qualcosa di diverso dalla crudeltà, tanto da potersi rifare, da adulto, nella sua situazione attuale, a quella esperienza. L’incontro con la propria storia non si limita a rimediare alla cecità che il bambino aveva dato per scontata, ma indebolisce anche il blocco mentale ed emozionale. È un punto sul quale tornerò in seguito: ora vorrei dimostrare, esempi alla mano, come funziona questa cecità e come influenza il modo di pensare degli uomini. In una rivista statunitense (Jones, Ann: “Mothers who kill”, in: “The Newdays Magazine”,) si analizza per molte pagine il problema di cosa possa indurre una donna a uccidere il suo bambino. Un infanticidio appena commesso, l’uccisione di un lattante di otto mesi, funge da punto di partenza per una serie di considerazioni di carattere generale. Innanzi tutto è descritta la situazione: una giovane donna è sola in casa con il figlio di tre anni e la figlia di otto mesi. (Miller, Alice: pag. 37). Ha appena avuto una sgradevole conversazione telefonica con suo padre, e vorrebbe riferirne alla sorella, però la piccina le impedisce continuamente di parlare, non la smette di strillare. La donna non riesce più a sentire la voce della sorella, si dispera sempre di più e improvvisamente colpisce la piccola con il ricevitore del telefono, fino a farla tacere. E così diventa un’infanticida pur non avendo avuto l’intenzione di uccidere. Voleva soltanto liberarsi di quegli strilli insopportabili. L’autrice dell’articolo illustra la situazione di grave disagio che la donna in questione aveva patito durante l’infanzia. Il padre era un alcolizzato che s’aggirava spesso per casa armato d’un coltello, minacciando di uccidere le due figlie. Le picchiava sistematicamente ed aveva incominciato ad abusare sessualmente di loro fin da quando erano piccole. In un’occasione aveva strappato una delle bambine dal sonno e, servendosi della camicia da notte di lei, l’aveva appesa a un chiodo infisso in una parete, tenendola lì per tre ore. I genitori avevano appena litigato e la madre aveva abbandonato il padre proprio la sera in cui lui aveva poi appeso la figlia al muro. Già questi esempi mostrano a che tipo di torture la futura infanticida era stata esposta da bambina. Nemmeno negli anni seguenti, da ragazza, era mai stata messa nella condizione di poter fare quello che avrebbe voluto: studiare, per esempio. E poi si era ritrovata incinta, sempre contro la sua volontà, e non le era stato consentito di abortire. Il ruolo di madre le era stato imposto sia dal partner immaturo, sia dai medici chiamati ad esprimersi sul suo caso e che le avevano negato il diritto di abortire: e infine aveva ucciso la sua stessa creatura. Ed è significativo che l’abbia fatto proprio nel momento in cui cercava, vanamente, di spiegare il suo stato d’angoscia. Stava tentando di trovare un po’ di sollievo in una conversazione telefonica, forse di raccontare alla sorella di raccontare quello che il padre, nella telefonata precedente, aveva per l’ennesima volta preteso da lei, ma gli strilli della bambina le avevano impedito di farlo. La piccina le aveva imposto di assumersi il ruolo di madre in un momento in cui era meno che mai preparata a farlo, l’aveva costretta a reprimere la sua angoscia, ancora una volta, come già altri avevano fatto in passato. Però lì, in quel caso, aveva potuto “difendersi” infierendo sulla creatura più debole. Più tardi, in prigione, aveva messo al mondo un altro bambino e - ancora una volta - non aveva trovato nessuno attorno a sé (pag. 38) capace di cercare, assieme a lei, le cause di quell’insensato succedersi di vite generate e distrutte. L’infanzia della donna, sommariamente descritta nella parte iniziale, è poi rapidamente accantonata, e si enumerano invece una serie di circostanze della sua vita adulta come cause scatenanti dell’infanticidio: i partner, i comportamenti degli uomini con cui aveva avuto a che fare, l’indigenza. L’articolo conclude che quando una madre uccide suo figlio, la colpa è di questi fattori. Cita vari esperti, considera varie teorie, fa una serie di proposte e chiede che siano svolte delle ricerche capaci finalmente di accertare scientificamente le ragioni per cui la società induce certe donne a uccidere i loro figli. Quello che era evidente all’inizio dell’articolo, diviene poi una cosa quasi imperscrutabile. Perché? Per una ragione semplicissima, la stessa che era stata probabilmente determinante anche nella rimozione della verità da parte di Sigmund Freud nel 1897 (vedi capitolo 4). Proviamo a figurarci di essere stati abbandonati da nostra madre, da bambini, di essere stati appesi a un muro per tre ore, in camicia da notte, esposti all’arbitrio di un padre infuriato, e cerchiamo poi anche di immaginare quali sentimenti questa situazione poteva suscitare in noi. Ci rifiutiamo persino di pensarlo, perché un tentativo simile ci rimanderebbe oscuramente a situazioni analoghe di cui non vogliamo ricordarci a nessun costo. Cosa può fare un bambino lasciato completamente solo in preda ad una paura panica, alla rabbia impotente, alla disperazione e al dolore? Non può nemmeno piangere, per non parlare di gridare, se non vuole essere ucciso. L’unico modo di liberarsi di queste sensazioni è di rimuoverle. Ma la rimozione è una illusione ingannevole. È d’aiuto sul momento, ma il prezzo di questo aiuto dovrà essere pagato in seguito. La rabbia impotente torna a rivivere nel momento in cui viene al mondo un figlio proprio,

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e allora finalmente può sfogarsi, di nuovo a spese di una creatura indifesa. Se un bambino deve impiegare tutte le sue facoltà ed energie nel lavoro di rimozione che gli è sul momento assolutamente necessario, e se - in aggiunta - non ha mai avuto modo di sperimentare l’amore e la protezione di qualcuno, non sarà in futuro capace di proteggere se stesso e di organizzare (pag. 39) la propria esistenza in un modo assennato e produttivo. Si tormenterà in altre relazioni devastatrici, si unirà a partner irresponsabili e soffrirà per causa loro, senza però riuscire a rendersi conto o quasi che all’origine di tutte le sue sofferenze vi sono i suoi genitori e gli altri educatori che ha avuto. Il lavoro di rimozione compiuto in passato in funzione della sopravvivenza rende questa constatazione impossibile, e stavolta contro gli interessi della persona ormai adulta. Ciò che ha dovuto “non vedere” da bambino, per sopravvivere, continuerà - in determinate circostanze - a “non poter vedere” per tutta la vita. La funzione salvifica della rimozione, nell’infanzia, si trasforma poi, nell’adulto, in un potere distruttivo. Perché se quella madre divenuta infine un’infanticida avesse potuto consapevolmente vivere l’odio per il padre, se non avesse dovuto rimuovere i sentimenti dell’infanzia, non sarebbe diventata un’assassina. Avrebbe saputo contro chi dirigere il suo odio nel momento in cui, al telefono, era stata presa dalla disperazione, e non ne avrebbe fatto pagare il prezzo a sua figlia. È stata la cecità, in passato indispensabile, a farne un’omicida, e la cecità della società nel suo complesso contribuisce a far sì che quella donna non trovi l’aiuto che le occorre. Perché nemmeno dopo molti anni di prigione o dopo molti anni di una terapia dai vaghi intenti pedagogici potrà liberarsi dell’odio latente per il padre e della paura di essere una bambina che strilla e che va punita. Finché la società - terapeuti compresi - sarà dominata dalla paura di mettere in discussione il ruolo e le colpe dei genitori, quella donna correrà il pericolo di ripetere il suo delitto, di dover continuare ad eliminare la bambina urlante che non è potuta essere”. È dunque senza una luce di speranza la visione pessimistica che emerge da simili considerazioni? No, dice la Miller, ma a due precise condizioni: che il genitore si disposto a cercare - dentro di sé - la propria verità, la verità dei fatti accadutigli nella sua infanzia; e che sia disposto a compiere lo sforzo di essere onesto verso il proprio figlio, nel comunicargli esattamente anche i sentimenti negativi che si agitano dentro il suo animo, spiegandogliene l’origine nei tempi della propria infanzia: in una parola rispettandolo grazie al fatto di dirgli la verità: “Ma non c’è davvero altro modo di uscirne che non consista nello sminuire l’importanza dei fatti? Perché non dire piuttosto, francamente e apertamente, ai genitori come mai maltrattano i loro figli? Non tutti, certo, ma almeno alcuni smetterebbero di farlo. È invece certo che non smetteranno di tormentare i loro figli (pag. 34) se mai si dirà loro - come già s’era fatto coi loro genitori trent’anni prima - che uno schiaffo in più o in meno non produce danni quando si voglia bene al bambino. Benché questo principio sia inficiato da una contraddizione interna, lo si continua a trasmettere da una generazione all’altra perché siamo abituati a sentirlo dire. E invece l’amore e la crudeltà si escludono a vicenda. Non si schiaffeggia mai per amore, bensì solo perché in situazioni analoghe, quando si era indifesi, si sono subiti degli schiaffi, e si è stati costretti ad accettarli come “segni di amore”. Ci si è attenuti per trenta, quarant’anni a questa confusione, e la si tramanda ai propri figli. Ecco tutto. Spacciare al bambino questa mistificazione come verità conduce solo a ulteriori confusioni, che trovano bensì l’approvazione di certi presunti esperti, senza cessare però di essere confusioni. Se invece si è capaci di ammettere i propri errori di fronte al bambino e di scusarsi con lui per aver perso il controllo, allora le confusioni non si ingenerano. Se una madre è capace di spiegare al figlio che, sì, è stato l’amore che prova per lui a farle perdere la pazienza, ma anche che è stata travolta da sentimenti estranei, che non hanno niente a che vedere con lui, allora il figlio può conservare la mente lucida, si sente rispettato ed è in grado di orientarsi nel rapporto che ha con la madre. Certo, non si può imporre l’amore per il bambino, ma la decisione di rinunciare all’ipocrisia è una scelta che ognuno è libero di fare”. (Miller, Alice: pag. 35).

NOTA BENE. Il grassetto è di QUATTRO.

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STORIA NATURALE DI UN METODO TERAPEUTICO.

Per “Storia naturale” intendiamo il resoconto di come un fenomeno (nel caso esaminato: il comportamento spontaneo di un bambino di tre anni) può essere letto come una realizzazione naturale, spontanea, esente da influenze esterne di qualsiasi tipo di insegnamento, di un qualcosa di assai più complesso e tecnicamente sofisticato quale un metodo terapeutico, un procedimento di aiuto psicologico mirante a ridurre od impedire sofferenze emotive. È evidente come, per tale metodo di aiuto psicologico, l’essere un perfezionamento di un atteggiamento naturale di auto protezione, possa essere considerato una garanzia di capacità di rispondere ai bisogni naturali del soggetto, ed anche una garanzia della sua concreta facilità e possibilità di applicazione da parte del soggetto grazie all’utilizzo delle forze naturali della sua personalità. QUATTRO, invita perciò caldamente ogni lettore del sito a seguirlo con grande attenzione nell’esposizione delle considerazioni che saranno ora fatte, seguendo con cura meticolosa il dipanarsi delle osservazioni della Miller che sono alla base di questa sezione del sito. Ancora una volta, per afferrare pienamente il pensiero della Miller è necessario fare ampie citazioni della sua esposizione, in pratica le quattro pagine del capitolo “Il bambino pone dei limiti”: “Nell’ambito della pedagogia cui noi stessi siamo stati assoggettati, l’esercizio illimitato del potere degli adulti sui bambini continua a essere considerato come una cosa ovvia. La maggior parte delle persone non sanno nemmeno che possa darsi una situazione diversa. Solo da un bambino che non sia stato traumatizzato possiamo apprendere comportamenti del tutto nuovi, sinceri e autenticamente umani. Un bambino siffatto non accoglie più passivamente quelle argomentazioni pedagogiche che sono state ancora capaci di impressionare noi. Si sente in diritto di porre delle domande, di chiedere spiegazioni, di difendersi e di esprimere i suoi bisogni. Una giovane madre statunitense mi ha riferito quanto segue: Mi è capitato di dover affidare a mia madre, per alcuni giorni, mio figlio Daniel, che ha tre anni. L’ho fatto non senza qualche perplessità, perché sapevo che mia madre, durante la mia infanzia, non aveva fatto altro che “educarmi” in continuazione, e che attribuiva quindi grande valore alle buone maniere. D’altra parte vuole molto bene a Daniel, e anche il bambino vuole molto bene alla nonna perché, quando era lei a venire da noi in visita, gli leggeva volentieri delle favole. Quando però, dopo quei due giorni, sono tornata a riprendere Daniel, il bambino mi ha detto, appena salito in macchina: “Non voglio più andare dalla nonna”. E quando, stupita, gli ho chiesto il perché, mi ha detto: “Mi ha fatto male”. Più tardi ho telefonato a mia madre e le ho chiesto che cosa era successo. Mi ha raccontato che Daniel si era messo a piangere quando lei aveva tentato di spiegargli che un bambino bene educato non si serve da solo, a tavola, senza chiedere “per favore” e dire “grazie”. Mia madre ha sostenuto che io viziavo Daniel, che gli insegnavo delle assai brutte maniere. Si era sentita in dovere di correggere questa mia impostazione, perché il bambino, comportandosi in modo scorretto, non ne avesse a soffrire in futuro, trovandosi esposto - anziché all’affetto - al disprezzo e all’irritazione dell’ambiente. Mia madre era convinta di agire per il bene di Daniel e non si accorgeva di comportarsi invece sotto l’effetto di una costrizione che scaturiva dalle sue stesse paure infantili. Non si accorgeva che minacciava il bambino di sottrargli il suo amore se non le ubbidiva. E soprattutto non si accorgeva - come, del resto, faceva con me - che sacrificava l’animo del bambino a vuote convenzioni, com’era avvenuto sessant’anni prima con lei. Però Daniel se ne è accorto. Non è stato capace di esprimersi chiaramente, almeno non nel modo in cui lo faccio io ora, però si è fatto capire nell’unico modo possibile per lui. Ed è questo appunto che ho desunto dalla precisa descrizione dei fatti che via via è emersa dal racconto di mia madre. La storia era di una intuibile semplicità. In tavola c’era la pietanza preferita di Daniel, lo sformato di ricotta. Finita la porzione che gli era stata messa nel piatto, ha afferrato il cucchiaio di portata per prenderne un’altra. Lo fa anche a casa, molto orgoglioso della sua indipendenza. In quel caso però mia madre lo ha trattenuto, ha messo affettuosamente, mi ha assicurato - la sua mano su quella del bambino e gli ha detto: “Prima di servirti devi chiedere il permesso, e domandare anche se ce n’è abbastanza per gli altri”. “Dove sono questi altri?”, ha domandato Daniel, e ha cominciato a piangere. Ha buttato il cucchiaio sul tavolo e non ha più voluto mangiare, benché mia madre lo pregasse di farlo: ha detto di non avere più fame e di voler tornare a casa. Mia madre ha tentato di rabbonirlo, ma Daniel è stato preso da un autentico attacco di rabbia. Dopo pochi minuti la sua furia si è placata, però ha aggiunto: “Mi hai fatto male, non ti voglio. Voglio la mamma”. Dopo un po’ ha aggiunto: “Perché lo hai fatto? So servirmi da solo”.

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“Si”, ha replicato mia madre, “però prima devi chiedere se ti è permesso farlo”. “Perché ?”, ha domandato Daniel. “Perché devi imparare le buone maniere”. “Come mai?”, ha voluto sapere Daniel. “Perché sono importanti”, è stata la risposta di mia madre. Al che Daniel ha tranquillamente replicato: “Non per me. Dalla mamma, quando ho fame, posso mangiare”. Così reagisce un bambino sano di tre anni quando abbia imparato a casa, che ha diritto di difendersi, che ha diritto di essere nutrito dai genitori, perché questi ne hanno l’ovvio dovere fin dal momento in cui hanno deciso di mettere al mondo un bambino. Il bambino ha il diritto di ribellarsi, ha il diritto di manifestare la sua collera quando si frenano i suoi istinti naturali e gli si danno in cambio argomentazioni che non capisce, non può capire e non è nemmeno tenuto a capire perché sono insensate e comprensibili solo a partire dalla storia della nonna. Quando un bambino osserva a tavola che gli adulti chiedono “per favore” e dicono “grazie”, lo farà poi automaticamente anche lui, senza che lo si debba ammaestrare a farlo. È comprensibilissimo che una simile pretesa di ammaestramento abbia suscitato la rabbia di Daniel, il quale ha avuto anche la possibilità di esprimere la sua rabbia perché era nella condizione di fare dei paragone: ha potuto confrontare la pretesa di ammaestramento della nonna con le migliori esperienze fatte coi suoi genitori. A me sono mancate entrambe queste possibilità. È da poco che mi sono ricordata come anche mia madre mi ammaestrava quotidianamente in questo modo, senza che a me fosse consentito di protestare, neanche una sola volta. E come avrei potuto osare? Ero totalmente alla sua mercé, non potevo dire: “Se mi tratti così torno da mia madre”, perché mia madre era lei. Non potevo nemmeno accorgermi di cosa faceva perché non conoscevo altro genere di rapporto. Sulla base di questo piccolo episodio relativo a Daniel ho capito, per l’ennesima volta, che la tragedia della mia infanzia non è soltanto consistita nell’essere costantemente esposta alle pretese educative di mia madre e alla paura di ribellarmi, ma anche e soprattutto all’impossibilità di rendermi conto di cosa mi accadeva. Quando ho intitolato le edizioni tedesche dei miei libri “All’inizio era l’educazione” (“La persecuzione del bambino. Le radici della violenza”, nella versione italiana) e “Non devi accorgerti” (“Il bambino inascoltato. Realtà infantile e dogma psicoanalitico”) non sapevo ancora fino a che punto questi titoli erano parafrasi della mia storia. Il piccolo Daniel di tre anni (e presumibilmente molti altri bambini che oggi crescono più liberamente) ha potuto fare i quattro passi che costituiscono il nucleo della terapia di Stettbacher: esporre la situazione e le sensazioni, esperire ed esprimere i sentimenti, mettere in discussione la situazione, manifestare i bisogni. Poiché in questa procedura è insita una legge di natura, quella di una sana legittima difesa da parte dell’individuo, ci si può domandare perché questa legge sia rimasta tanto a lungo celata. Questo dipende dall’essenza stessa dei traumi inflitti al bambino, traumi che distruggono quest’innata, naturale capacità. E così occorre tornare a scoprire, nel corso delle terapie, questa possibilità, affinché la confusa storia dell’infanzia, fatti di tanti modi - rozzi taluni, e altri più sottili - di maltrattamento, assuma chiari contorni nella coscienza dell’adulto e cessi di bloccarlo con sentimenti di colpa. Evidentemente Daniel era immune da questi blocchi. Se non avesse disposto delle esperienze positive vissute con i suoi genitori, quel gesto della nonna, fatto per impedirgli di mangiare, lo avrebbe presumibilmente umiliato. Si sarebbe vergognato di aver fatto qualcosa di sbagliato, di non conoscere le “buone maniere”, si sarebbe vergognato perfino di essere stato orgoglioso della sua indipendenza. Perché è appunto questa indipendenza che non era evidentemente desiderata, quanto meno nel momento in cui ha voluto procurarsi del cibo, e cioè nel momento in cui intendeva fare qualcosa di particolarmente importante per sé. Lo hanno trattenuto, reso insicuro. Se lo avessero allevato con intenti pedagogico, avrebbe immagazzinato per sempre nel cervello e in ogni sua fibra quell’insegnamento: mangiare non deve darmi soddisfazione, non devo appagare il mio sano appetito nemmeno se c’é abbastanza da mangiare. Devo prima fare cose che mi sono incomprensibili, devo assoggettarmi ad una legge astrusa che mi toglie l’appetito, mi mette in uno stato di tensione, mi carica di sensi di colpa e di vergogna, a cui sono esposto senza difesa alcuna. Le conseguenze - a seconda dell’ulteriore evoluzione del processo di ammaestramento - disturbi digestivi che poi affliggono l’individuo per tutta la vita, varie forme di inibizione alimentare, ingordigia smodata nell’assunzione di cibi grassi o magri, e così via. Nel descrivere questo caso non intendo affatto affermare che un individuo debba necessariamente ammalarsi se gli capita di sperimentare una sola volta una simile situazione.

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Abbiamo del resto visto come il piccolo Daniel l’abbia fronteggiata e sia stato capace di non farsene danneggiare. Non si tratta, in questo caso, di una esperienza grave, traumatica; ed è da presumere che l’episodio non lascerà tracce in Daniel, dal momento che ha saputo difendersi. Se però Daniel fosse non il nipote, ma il figlio di quella donna, allora non avrebbe vie di scampo: dovrebbe necessariamente assoggettarsi alle manipolazioni cui si dà il nome di “educazione”, e sviluppare - oltre ai disturbi legati all’alimentazione - anche svariate altre forme di inibizione della propria consapevolezza”. (Miller, Alice: pagg. 147-150). E a proposito di “svariate forme di inibizione della propria consapevolezza”, il lettore che si appoggi al pensiero della Miller per costruirsi griglie di riferimento intellettuali ed un personale patrimonio di concetti guida in base in base ai quali possa orientare la linea di azione della ricerca della propria verità, deve tenere ben presente la presenza di punti di vista fuorvianti. E ciò riguarda non soltanto opinioni fornite da altri, ma anche modi di vedere la propria vita passata (ed in essa, i rapporti con i genitori) che sembrano sicuramente veri perché basati su incrollabili sentimenti personali, che ognuno di noi spesso ritiene che non possano ingannarlo mai, perché nascono dal profondo del suo cuore. Invece (con un discorso che parte da premesse le quali si riferiscono a forme di terapia su donne che da bambine hanno subito abusi sessuali da parte di padre, o fratelli o zii, o nonni) Alice Miller ci mette in guardia: “Quando una terapeuta abbia imparato a considerare soltanto gli uomini responsabili di ogni male del mondo, potrà bensì assistere le sue pazienti quando scoprono finalmente che i loro padri, nonni, o fratelli hanno sessualmente approfittato di loro. Non cercherà più di distoglierle da questa verità, come fanno i seguaci della teoria delle pulsioni. Altrimenti, se resta esclusa l’altra parte della verità, quella relativa alle madri che hanno consentito che l’abuso avvenisse, che non hanno protetto la loro creatura e hanno ignorato il suo stato di bisogno, non sarà possibile scoprire nella sua interezza la realtà infantile, non la si coglierà nella sua autenticità. Finché i sentimenti dei bambini non saranno considerati nella loro totalità, l’indignazione nei confronti dei maschi rimarrà inefficace e impotente. Potrà addirittura continuare a convivere con l’irrisolta fedeltà e dipendenza nei confronti del padre o di altri uomini dediti alle violenze”. (Miller, Alice: “Il bambino inascoltato. Realtà infantile e dogma psicoanalitico”, pagg. 88-110). Se le madri sono difese come povere vittime, la paziente non può a sua volta scoprire che il padre o il fratello non si sarebbero mai potuti approfittare di lei se avesse avuto una madre amorosa, protettiva, con gli occhi aperti e coraggiosa. Una volta che un bambino abbia appreso dalla madre di essere degno di protezione, troverà questa protezione anche negli estranei e saprà difendersi da solo. Se ha appreso cos’è l’amore, non cadrà vittima di un amore solo apparente. Però una bambina che sia stata solo respinta ed educata con freddezza, che non abbia mai appreso l’effetto rasserenante della tenerezza, non sa che può esistere la tenerezza disinteressata. Dovrà necessariamente accettare ogni braccio che le si offra, pur di non precipitare. Accetterà perfino, in certe circostanza, l’abuso sessuale pur di trovare un po’ di simpatia e di non dovere completamente inaridire. Se la donna adulta è successivamente messa nella condizione di potere comprendere di essere stata ingannata nel suo amore, forse si vergognerà dello stato di necessità cui ha ceduto in passato, e se ne sentirà colpevole. Ma accuserà soprattutto se stessa, perché non osa accusare la madre che a suo tempo ha lasciati insoddisfatti i bisogni della bambina o li ha addirittura condannati. Gli psicoanalisti proteggono il padre e banalizzano l’abuso sessuale che si fa del bambino, ricorrendo al complesso di Edipo oppure di Elettra, mentre alcune terapeute femministe idealizzano la madre al punto da rendere più arduo l’accesso alle prime traumatiche esperienze con la madre. Entrambi gli atteggiamenti possono condurre in un vicolo cieco, perché il dissolvimento delle sofferenze e delle paure è possibile solo quando si può guardare e accettare la piena verità dei fatti. È tuttavia possibile che si arrivi all’esclusione della verità, nel corso delle terapie. Anche senza motivazioni ideologiche, e questo quando il paziente non dispone degli strumenti per la elaborazione dei propri sentimenti, per dubitare e verificare sistematicamente le proprie ipotesi. Perché nemmeno i più intensi rimproveri ai genitori lo aiuteranno a liberarsi finché la verità continuerà a restare celata. È questo il caso, per esempio, del bambino che abbia avuto un padre davanti al quale non poteva aprire bocca senza essere subito interrotto o redarguito. Potrà succedere che ad un paziente del genere sfugga a lungo la possibilità di confrontarsi dentro di sé col padre e di formulare le sue accuse. I sentimenti liberati si orienteranno lì per lì contro la madre che ha terrorizzato il bambino in modo meno pesante. E può viceversa capitare che fosse il padre a incutere meno paura al figlio e che il paziente contesti al padre cose subite invece dalla madre:

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senza saperlo, perché gli eventi di un tempo continuano a restargli inaccessibili. Si determina così, per auto difesa, per paura, un quadro distorto del passato. Nel corso della terapia queste distorsioni possono essere corrette se la terapia tende davvero a scoprire la verità. Allora il terapeuta sa che il paziente è nella condizione di biasimare solo il genitore col quale aveva un minimo rapporto di fiducia, e non quello di fronte al quale impietriva di paura. E gli consentirà di scoprire la verità della sua storia personale, tanto da indurlo a smettere di accusare le persone sbagliate, bensì soltanto coloro che lo abbiano davvero meritato e soltanto per fatti che siano davvero accaduti. Perché nessuno si libera accusando persone che in realtà non gli hanno fatto niente. Il paziente che attribuisce a dei sostituti colpe vaghe, non specifiche e non circostanziate, non potrà migliorare il proprio stato, e rimarrà anzi spesso in una condizione di fatale disorientamento. (Miller, Alice: pagg. 9-78). Ci si libera invece nei casi in cui ci si ribella nei confronti di colui che è il vero responsabile. E il paziente ci riuscirà tanto meglio, quanto più sarà libero da stravolgimenti ideologici e teoretici”. (Miller, Alice: pagg. 72-74). Lasciamo ora giungere alla conclusione la appassionata indagine/requisitoria della Miller. La tesi che ha sviluppato è stata chiara fin dal titolo: se l’infanzia (con i maltrattamenti che l’hanno marchiata) è stata rimossa, dal bambino maltrattato si arriverà ad un adulto distruttivo su coloro che lo circondano, se la società continuerà a tacere. E questo, dice la Miller, riguarda anche il singolo soggetto, che - se pure non sarà portato a fare del male ad altri - sicuramente farà del male a se stesso. Sempre che, nella sua infanzia, non vi sia stato qualcuno che abbia parlato in suo favore e - nei fatti - l’abbia difeso realmente. Vediamo quindi, per concludere, quale debba essere l’atteggiamento di chi voglia essere testimone soccorrevole, e che cosa invece egli non debba fare. “... Indubbiamente la tribuna pubblica non è il luogo più adatto per procedere ad un confronto con i propri genitori: a un confronto che sia tale da poterne trarre anche un beneficio personale. Per far rivivere le sensazioni dell’infanzia abbiamo bisogno di una persona in grado di assisterci consapevolmente, e non dell’odio compatto e irriflesso di quelli che sono stati un tempo dei bambini maltrattati, e che ora, da adulti, si identificano completamente coi responsabili dei maltrattamenti. Esporsi in questo modo al pubblico, indifesi, con i propri sentimenti infantili, può sembrare una specie di autopunizione che si va a cercare, quando ci si senta ancora, e nonostante tutto, colpevoli delle considerazioni critiche che si formulano; può sembrare quindi, che si accolga la reazione d’odio come una punizione meritata. Molti figli e molte figlie falliscono nel tentativo del confronto, esponendosi alla crudeltà del pubblico esattamente come un tempo si erano trovati esposti all’arbitrio di genitori inconsapevoli e incapaci di affetto; oppure cercando di accattivarsi le simpatie del pubblico con l’assicurare i lettori di essere pronti a perdonare tutto ai genitori che li hanno maltrattati”. (Miller, Alice: pag. 87). “... Anche i personaggi del dramma condividono con l’Autore la solidarietà nei confronti dei genitori visti come vittime. Benché i figli assumano un atteggiamento critico e siano in grado di formulare delle accuse, non abbandonano mai la prospettiva dei genitori. Alla fin fine considerano la loro sorte come un fallimento personale e se ne sentono responsabili. Capiscono, vogliono capire perché il padre è diventato un avaro. Lo amano e sono disposti a perdonargli tutto. Solo a se stessi non sanno perdonare nulla. Non è loro consentito capire perché sono diventati quello che sono. E dal momento che approvano, immedesimandosi emotivamente, tutto quello che i genitori fanno, i figli non trovano più l’oggetto su cui scaricare la loro rabbia. La collera, pur giustificata, è rimossa, e in questa forma rimossa continua a roderli; incontrollata, fino alla totale autodistruzione nella malattia e nel vizio”. (Miller, Alice: pag. 93). “... E ora, visto che il potere non riesce ad affermarsi, che non c’è altro argomento con cui sostenere la vergogna, visto che il figlio non si lascia distogliere così facilmente dalla verità, si ricorre all’ultima arma: il padre si appella alla compassione e alla comprensione del figlio, ne dimentica la malattia e si immerge totalmente nella propria infanzia. È un’arma che evidentemente non ha mai mancato di avere effetto sul figlio. Il bambino dimentica subito la propria angoscia e si trasforma immancabilmente nel sostegno dei propri genitori che piangono sulle loro sofferenze”. (Miller, Alice: pag. 95).

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“... Non si può restare insensibili di fronte al bambino una volta che si siano letti e capiti questi libri: né dinanzi al figlio proprio, né dinanzi al bambino che ognuno di noi è stato. Però questo risveglio della sensibilità per le sofferenze dell’infanzia, ha conseguenze di vasta portata: improvvisamente non ci è più possibile considerare la crudeltà, la perversione e il crimine come fattori di educazione esercitati per il nostro bene; siamo costretti a fare una scelta e a non banalizzare più quelli che sono degli autentici delitti. Alcune persone sono capaci di farlo. Non intendono più contribuire a nascondere la verità. Lavorano a contatto con bambini di cui si è abusato, vedono ciò che è quotidianamente inflitto ai bambini, vedono come stato, scuola e chiesa si erigono a difensori di delitti, anziché riconoscerli in quanto tali. Chi sono queste singole persone? Anche se, come noi tutti, hanno dovuto soffrire gli effetti della “pedagogia nera”, devono tuttavia avere e incontrato nell’infanzia almeno una persona che non è stata crudele con loro, una persona che - con questo comportamento - ha dato loro la possibilità di intuire almeno la crudeltà dei genitori. Ma per arrivare a questa intuizione occorre appunto la presenza di un testimone soccorrevole e quindi capace di correggere le percezioni della realtà. Un bambino che non sperimenti altro che crudeltà e cui manchi la presenza di un simile testimone, non può riconoscere la crudeltà in quanto tale”. (Miller, Alice: pag. 143). Vediamo ora come la Miller collega concettualmente il problema di aspetti tecnici della psicoanalisi con il punto fondamentale del ri-collegamento che ognuno deve cercare di effettuare con le emozioni della propria infanzia. “... Benché taluni analisti cerchino di non manipolare i loro pazienti nel senso suggerito dalle loro teorie e dalla loro morale pedagogica, e di assecondarli invece nella scoperta della loro storia personale, finiscono necessariamente di fallire quando lavorano col metodo delle libere associazioni. Questo metodo, che è poi anche regola fondamentale della psicoanalisi, rafforza la difesa mentale contro i sentimenti e contro la realtà, perché fino a che ci si limita a parlare dei sentimenti, questi non si possono autenticamente esperire. E finché non li si esperisce, continuano a sussistere i blocchi autolesivi. Entrambe le regole fondamentali della psicoanalisi - lo scenario (setting) e il metodo delle libere associazioni - presumono inoltre che vi sia da un lato un interprete superiore e consapevole, e cioè l’analista, e dall’altro il paziente inconsapevole, al quale l’analista spieghi la sua situazione, i desideri, i pensieri e gli impulsi inconsci. Perché l’analista sia messo nella condizione di farlo, occorre che il paziente gli scopra, gli sveli, gli tradisca in un certo senso, il proprio inconscio con l’ausilio delle libere associazioni (cfr. Miller, Alice: “Il bambino inascoltato. Realtà infantile e dogma psicoanalitico”, pagg. 245-252). La struttura autoritaria dell’educazione resta dunque acriticamente conservata in entrambe le regole fondamentali. Già prima dell’analista, anche i genitori si arrogavano il diritto di dire al bambino, dal loro punto di vista, come si sentiva e cosa doveva sentire, e il bambino credeva che loro lo sapessero meglio di lui. Sulla base di questo modello pedagogico, che è inscindibilmente implicato nei costrutti freudiani, gli analisti apprendono durante la loro stessa formazione a discutere e a “capire” i sentimenti dei pazienti, ma non a esperire essi stessi questi sentimenti. Non è dunque il caso di stupirsi che poi non sappiano renderlo possibile nemmeno agli altri. Il paziente se ne accorge, e di regola, non osa fare affiorare i propri sentimenti (cfr. Miller, Alice: “Il dramma del bambino dotato”, pag. 22 e segg.). E se poi per caso cerca di farlo ugualmente, forse perché ha letto alcuni libri che gli hanno offerto una prima via di accesso alle proprie sofferenze, imparerà presto, nel corso della prassi psicoanalitica, a disciplinare la propria ansia, a catalogarla, e a manipolarla con parole astratte per potersi poi di nuovo “sentire meglio”. Il paziente si accorgerà che gli interpreti dell’anima si sentono minacciati dai sentimenti, perché hanno appreso - nella loro concezione - solo a difendersene; e farà di tutto per non esporre alla minaccia dei sentimenti questi surrogati di genitori. Si assoggetterà al metodo delle libere associazioni mentali, li limiterà a parlare con loro dei suoi sentimenti, e non saprà mai di abbandonarsi, così facendo, a una vana, pluri decennale peregrinazione in un labirinto, mancando così l’occasione di vivere. Perché la sua vita impietrita può risvegliarsi

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solo quando comincia dentro di lui il confronto tra il bambino che egli è stato e coloro che hanno causato le sue sofferenze; quando il paziente smette di filosofare e di chiedersi perché i suoi genitori gli hanno fatto questa o quell’altra cosa, e comincia invece a scoprire e sentire, con l’aiuto di numerose traslazioni, che cosa gli hanno specificamente fatto; quando è in grado di confrontare, nella terapia, i genitori interiorizzati con la sua sofferenza; quando, infine, a ogni nuova sofferenza che gli ricorda quella passata, cerca di dirsi dentro di sé cosa prova e sottopone a verifica questa situazione. Esattamente come ha fatto Daniel. Quello che il bambino non traumatizzato può esprimere nella realtà immediata alle persone con cui è in relazione, la persona adulta, un tempo traumatizzata, deve essere in grado di sperimentarlo e di imparare a farlo nell’ambito protetto e sicuro della terapia”. (Miller, Alice: pagg. 152-153). Lasciamo ora alle appassionate parole della Miller la conclusione di una incalzante perorazione in difesa del bambino: “... Quest’opinione, secondo cui non si dovrebbero mai colpevolizzare i genitori, qualunque cosa abbiano fatto, ha causato molti guasti. Guardiamo alla situazione concreta. Coll’atto della riproduzione i genitori si assumono un impegno, quello di provvedere al bambino, di proteggerlo, di soddisfarne le esigenze e di non maltrattarlo. Se non fanno fronte a questo impegno rimangono debitori di qualcosa al bambino, esattamente come quando rimangono debitori alla banca se contraggono un mutuo. Restano obbligati. Restano obbligati indipendentemente dal fatto che siano o meno consapevoli delle conseguenze di ciò che fanno. È lecito mettere al mondo un bambino e dimenticare gli obblighi connessi? Il bambino non è un giocattolo, non è un gattino, ma una creatura piena di bisogni che necessita di una assistenza affettuosa per dispiegare le proprie potenzialità. Se non si è disposti a dargliela, allora si rinunci a mettere al mondo dei figli. Sono parole che possono sembrare dure solo alle orecchie di persone che non hanno mai avuto quest’assistenza e che non sono state quindi nemmeno in grado di darla ai loro figli. Ma non suonano dure per coloro che abbiano sperimentato protezione e tenerezza nella loro infanzia, e che non siano dunque a loro volta dei figli inappagati. Per loro queste parole sono ovvie e scontate. Picchiare un bambino, umiliarlo e farlo oggetto di abusi sessuali è un delitto, perché danneggia un individuo per tutta la sua esistenza. È importante che lo sappiano anche terze persone, perché l’apertura mentale e il coraggio dei testimoni possono avere un’importanza fondamentale, salvifica per un bambino. Dal dato di fatto che chiunque faccia del male a un bambino è stato a sua volta in passato vittima di maltrattamenti, non consegue infatti necessariamente che ogni individuo che sia stato maltrattato debba in futuro praticare violenza sui propri figli. Non è detto che questo debba ineluttabilmente avvenire, a patto che egli abbia avuto, durante l’infanzia, l’occasione - anche una sola occasione - di incontrare una persona capace di dargli dell’altro oltre all’educazione e alla crudeltà: un maestro, una zia, una vicina, una sorella, un fratello. Solo sperimentando l’amore e la comprensione il bambino riesce a valutare la crudeltà in quanto tale, a coglierla e a ribellarsi ad essa. Senza questa esperienza non può nemmeno sapere che al mondo può esistere dell’altro che non sia crudeltà, vi si assoggetterà quindi passivamente e l’eserciterà in seguito come la più normale delle cose quando - da adulto - si troverà a sua volta al potere”. (Miller, Alice: pagg. 162-163). “... Per riconoscere la crudeltà, per rifiutarla recisamente, per risparmiarla ai propri figli, occorre almeno poterla cogliere come tale. I bambini che sono stati educati con severità e violenza non sono in condizione di poterlo fare; hanno dovuto subire con gratitudine il trattamento loro riservato dai genitori, perdonare loro tutto, cercare sempre in se stessi le cause dei loro sfoghi, e non sono mai stati in grado di mettere in discussione i loro genitori. Cosa succede quando un bambino cresciuto nell’amore, nella comprensione e nella sincerità, viene improvvisamente picchiato? Grida, manifesta la sua collera, infine piange, esprime il suo dolore, e presumibilmente chiede: perché mi fai questo? Non accadrà invece nulla di tutto questo se a essere picchiato dai genitori - che egli ama - è un bambino addestrato da sempre all’ubbidienza passiva. Deve reprimere il dolore e la collera, e - per sopravvivere - è costretto a rimuovere quest’intera situazione: perché, per mostrare dolore, ha bisogno di confidenza e di essere sicuro

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che non lo si sopprimerà per questo. Un bambino maltrattato non ha modo di costituire questo rapporto di confidenza; e in effetti ci sono a volte dei bambini che vengono soppressi solo perché osano ribellarsi all’ingiustizia. Per sopravvivere in un ambiente ostile, il bambino deve quindi reprimere la sua rabbia. Deve reprimere anche le sensazioni di un dolore violento, sopraffattore: per non morirne. E così, su quest’intera situazione, cala il silenzio dell’oblio e i genitori vengono idealizzati: non hanno mai commesso degli errori. “E se mi hanno picchiato, vuol dire che me lo meritavo”: è questa la versione corrente dei traumi ai quali si è sopravvissuti. Oblio e rimozione sarebbero una soluzione accettabile se tutto finisse lì. Ma le sofferenze rimosse paralizzano la sensibilità e provocano l’insorgere di una sintomatologia fisica. E - quel che è peggio - i risentimenti del bambino maltrattato, zittiti nel momenti in cui erano fondati, e cioè nel rapporto con i genitori che erano la causa della sofferenza, tornano a manifestarsi nei confronti dei propri figli. E come se queste persone fossero rimaste per decenni chiuse in una trappola dalla quale non c’era via d’uscita perché nella nostra società la collera rivolta verso i genitori è vietata. Però nel momento della nascita dei figli propri si apre una porta, e di lì si può sfogare senza alcun ritegno la collera accumulata per anni, disgraziatamente su una piccola creatura indifesa che ci si sente autorizzati a tormentare, spesso senza esserne nemmeno consapevoli: vi si è indotti da una forza sconosciuta”. (Miller, Alice: pagg. 164-165). QUATTRO non crede che occorrano altre parole per legittimare l’esistenza di uno strumento concreto, (quale il sito spera di essere), che miri a fornire a uomini di buona volontà i mezzi pratici per diventare ciò che Alice Miller ci insegna che dobbiamo tendere ad essere. INDICE. Introduzione. I - IL FATALE SONNO DELL’UMANITA’. 1. Una festa di San Nikolaus. 2. Uccidere per preservare l’innocenza dei genitori. 3. Il bambino cattivo: una delle favole predilette degli studiosi. 4. Teorie come scudi. 5. Come se si volesse sapere. 6. L’alto prezzo della menzogna. 7. Senza verità, non c’è aiuto che tenga. II - IL RISVEGLIO. 1. La strada che mi ha portata a me stessa. 2. Il testimone consapevole. 3. Il bambino pone dei limiti. 4. Perché rifiuto la psicoanalisi anche come metodo terapeutico. III - APPENDICE. Come uscire dalla trappola. IV - LA SITUAZIONE NEL 1990. Bibliografia.

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––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––– SCHEDA TECNICA - A CURA DI QUATTRO ––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––– AUTORE: Miller, Alice ––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––– TITOLO: La chiave accantonata. ––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––– EDITORE: Garzanti, Milano, 1988. Titolo originale: “Der gemiedene Schlussel”, Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Main, 1988. ––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––– PAGINE: 140 INQUADRAMENTO GENERALE: vedi INDICE: vedi COMMENTO: no TEST DA COMPILARE: no ––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––– INQUADRAMENTO GENERALE.

Quale linea ideale collega tra loro i sette capitoli del libro, così differenti tra loro? Due elementi, essenzialmente: 1. Si tratta, per la maggior parte, di “casi clinici letterari”, cioè di analisi psicologiche che l’Autrice ha compiuto su alcuni personaggi storici famosi (artisti, filosofi), secondo uno dei filoni classici degli studi psicologici su personaggi molto noti. 2. Il collegamento tra le opere (filosofiche o figurative o letterarie) e la storia personale, consente di individuare la costante presenza ed i segni palesi di una intensa sofferenza infantile derivante da gravi e continui maltrattamenti in famiglia. Proprio questo vuole essere, ed è, l’essenza del libro della Miller: l’offerta di spunti di riflessione, di scoperte, di intuizioni, andando alla ricerca delle chiavi smarrite che possono aprire antiche porte dell’infanzia di alcuni personaggi noti, consentendo ai lettori di vederne in una luce tutta diversa sia la vita sia l’opera. Ma il libro, stimolante alla lettura, è difficile da recensire se si segue l’impostazione del sito, volta a fornire al lettore spunti pratici di auto-aiuto psicologico. Non si tratta infatti di un’opera che si sviluppi in una direzione unica, ma di un insieme di riflessioni che partono da punti di origine diversi. Per esempio, nello studio su Friederich Nietzsche (il più ampio tra quelli che compongono il libro) la Miller all’inizio presenta - quasi paradossalmente - quelle che potrebbero essere definite conclusioni. In sostanza, all’inizio pone una tesi della quale lo studio - nel suo sviluppo - è una completa e articolata dimostrazione, quasi dicesse: “Dopo avere visto il nesso tra il pensiero filosofico espresso nelle opere di Nietzsche e la sua vita (esaminata alla luce delle costanti costrizioni subite in famiglia a danno della libera espressione di ogni emozione, a partire dalla sua più tenera infanzia fino alla sua ultima età adulta) nessuno potrebbe utilizzare pensieri (né tanto meno singole frasi avulse dal testo in cui sono state scritte) di Nietzsche, per asservirli a scopi demagogici e totalitari come ha fatto il nazionalsocialismo”. In sostanza la Miller presenta Nietzsche come un vulcano di vitalità intellettuale ed emozionale impetuosamente erompente, non come il filosofo al quale si attribuisce la creazione delle basi culturali per una ideologia dittatoriale. QUATTRO pensa che ogni lettore potrà ricavarne spunti interessanti per la sua personale operazione di conoscenza di sé. Potrà ricercare nella propria storia il peso che possano avere avuto costrizioni ed ordini, divieti ed imposizioni, con il risultato di bloccare sue potenziali tendenze naturali. Per non rendere troppo ardua al lettore la fatica di trovare la strada della propria serenità, ritiene tuttavia sia meglio non chiedergli di inoltrarsi obbligatoriamente sull’impervio terreno del pensiero filosofico di Nietzsche e delle sue acute penetrazioni, spesso fulminanti, talora paradossali, mai facili. Ma, sotto il profilo delle umane emozioni, quale era

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il quadro psicologico familiare in cui visse Nietzsche, dall’infanzia alla sua fine? Il padre: capace di tenere il bambino con sé quando suonava o improvvisava al pianoforte, ma portato a violenti attacchi di ira e fondamentalmente rigido educatore nel reprimere le manifestazioni di spontanea vitalità ed indipendenza del bambino. Inoltre divenne invalido per una malattia cerebrale (un “rammollimento cerebrale”, forse da emorragia cerebrale) e - dopo 11 mesi di malattia che lo rese come demente - morì quando Friederich aveva 4 anni. Poco dopo morì anche il fratellino minore di Friederich. Da allora Friederich Nietzsche rimase l’unico bambino maschio della famiglia, completamente soffocato dal controllo di una madre descritta come donna fredda, ottusa e apatica. Per tutta la vita Nietzsche non riuscì a liberarsi dal dominio della madre e della sorella minore. La sorella era una donna manipolatrice, perbenista, sleale (pubblicò molte delle lettere del fratello dopo averle alterate e purgate), costantemente intrigante contro gli interessi del fratello. Non si diede pace fino a quando non riuscì a fare rompere la relazione tra il fratello e Lou Andreas Salomè, donna certo tumultuosamente viva, non solo bellissima ma anche di gran livello intellettuale e culturale e d’estrema vitalità emotiva. Si aggiungano due zie (sorelle nubili della madre) vissute in casa Nietzsche fin da prima della nascita di Friederich, dedite sostanzialmente a tre attività: i lavori di casa, le opere di beneficenza, e l’educazione dell’unico nipote maschio. Ora, si chiede la Miller nel suo studio, quale destino emozionale, quali condizioni di vita avrebbe probabilmente avuto Nietzsche se non avesse subito nella sua prima infanzia la perdita del padre e del fratellino e se non fosse stato sottoposto ad una educazione di ferrea pedagogia nera dalle donne della sua famiglia? Forse non avrebbe avuto fin dall’infanzia numerosi, costanti e gravi disturbi psicosomatici: • continui e debilitanti mal di testa, • frequentissimi mal di gola, • forme dolorose ed invalidanti vagamente definibili come reumatiche. Forse non avrebbe avuto le sofferenze interiori angoscianti che lo accompagnarono lungo tutta la sua vita: • isolamento interiore, • solitudine emozionale disperata, • angoscia esistenziale, • misoginia e difficoltà emozionali nei rapporti sentimentali con le donne, • una vita vissuta quasi solo nel pensiero, quasi mai nella realtà concreta, nella consistenza palpabile di un rapporto normalmente caldo, affettivo, umano, semplice. Negli studi successivi la Miller analizza le possibili influenze di esperienze infantili sull’opera di artisti nella loro età adulta, ponendosi interrogativi tipo: • Può un terrore legato a circostanze esterne di carattere catastrofico vissuto da un bambino primogenito di 3 anni, (in immediata concomitanza con la nascita di una sorellina, sullo sfondo di un insegnamento a non parlare mai delle emozioni che si hanno nel cuore), lasciare un segno così forte da improntare l’impostazione stessa di un’opera d’arte? (Pablo Ricasso e il suo dipinto “Guernica” - 1937).

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• Può un addestramento a ricevere fino dai 3-4 anni maltrattamenti fisici insieme alla precisa pretesa di non lasciare trasparire alcun segno di dolore, condizionare la nascita di una tale abitudine a reprimere le emozioni da non riuscire più a manifestare alcun moto dell’animo, non potere più togliersi una sorta di maschera di pietra che copre il volto? (Buster Keaton - 1895/1966).

• Può una madre depressa (morta alla vita per la perdita del suo sempre amato e ricordato piccolo primogenito maschio e poi di altri due figli maschi), costantemente in ansia per le manifestazioni di spontanea vitalità della figlia (le quali quindi furono sempre controllate a vista e, di fatto, represse), e sostanzialmente incapace di provare interesse per le manifestazioni di individualità della figlia, riuscire ad influenzare lo sviluppo di tematiche ideative (come l’idea pittorica della morte) dell’ispirazione artistica di questa figlia ormai pittrice adulta? (Kathe Kollwitz - 1867/1945).

Kathe Kollwitz, Call of Death. 1934

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Interessante per i lettori è un concetto che la Miller esprime al termine di questo studio. Quando ad un essere umano (obbligato ad essere sempre buono, operoso, generoso, devoto) non è mai stato consentito - dall’ambiente - di esprimere i propri sentimenti forti (in quanto essi sono scomodi per l’ambiente) quest’essere umano - mancando dell’esperienza dell’ira e della rabbia - non potrà nelle sue manifestazioni umane o artistiche lasciare emergere (di fronte alla frustrazione o al dolore) i normali sentimenti di tristezza, ma sarà pervaso dalla depressione. A parere di QUATTRO, questo breve accenno è uno spunto che potrebbe risultare non solo interessante ma addirittura di importanza vitale nell’aiutare molti lettori del sito tormentati da problemi di depressione. Questa breve analisi de “La chiave accantonata” non può concludersi senza che venga fatta almeno una citazione del breve studio che la Miller (dopo Hitler e Ceausescu) fa di un’altra figura di dittatore: Stalin. Stalin, metodicamente picchiato in modo brutale e disumano fin da piccolo dal padre, fu deturpato in volto dal vaiolo a 7 anni; a 10 anni ebbe una malattia ossea al braccio sinistro che rimase per tutta la vita più corto di 8 centimetri del destro, con impossibilità di aprire bene la mano sinistra. Le due deformazioni gli causarono gravi disagi psicologici per tutta la vita. Si aggiunga che Stalin ebbe una madre inflessibile, anche se molto legata al figlio, religiosa fino al bigottismo, chiusa in se stessa ed incapace di proteggere il figlio dalla violenza del padre. Come mezzo di difesa istintivo contro le percosse del padre, Stalin si trasformò in un essere insensibile, duro e spietato, pieno di odio verso tutti gli altri esseri umani, facilmente portato ad idee di persecuzione, capace - con assoluta indifferenza emozionale umana - di far uccidere chiunque per imporre il proprio punto di vista. Il quadro psicologico del dittatore sovietico spiega le purghe politiche a danno dei suoi avversari, fa luce sullo sterminio di milioni di contadini kulaki, getta una luce di comprensione sull’universo dei gulag siberiani. Ma che cosa, si chiede la Miller, può salvarci dalla catastrofe sociale, dal moltiplicarsi e dilagare delle guerre, dal pericolo ultimo della follia militare nucleare? La capacità di sentire, di provare emozioni umane. Dinanzi ai terrificanti progetti della violenza che la mente di coloro che hanno potere sono in grado di concepire ed attuare, bisogna essere in grado di inorridire, e soprattutto essere in grado di “sentire” l’indignazione senza reprimere o svuotare questo sentimento. Reagire, lottare concretamente, in una forma qualsiasi, è poi il successivo passo, che nasce come conseguenza ovvia. Questa esperienza (il “sentire” l’indignazione) conferirà all’uomo che si permette di viverla, quelle consapevolezze che ad altri sono negate per tutta la vita. È l’esperienza di questi sentimenti forti (come l’indignazione, la rabbia, la protesta) che ci consente di stabilire le correlazioni giuste, dice la Miller (pag. 131), di accorgerci di ciò che accade attorno a noi, e che - aprendoci gli occhi attraverso il dolore - ci trasforma da vittime passive in persone capaci di agire. Al contrario, chi nell’infanzia non è stato autorizzato a provare dei sentimenti, non riesce ad imparare dall’esperienza, sa soltanto ripetere per tutta la vita ciò che gli è stato insegnato da genitori e maestri (insegnamenti di ieri, sempre più vecchi ed inutili perché superati, e quindi per lo più errati nelle condizioni di oggi). Rimarrà, per tutta la vita un bambino ubbidiente, anche se sarà un vecchio dai capelli bianchi. Si sottrarrà per tutta la vita, alle esperienze fondamentali perché deve difendersi dalla tensione, dalla paura, dalla sofferenza. Alla fin fine si difenderà, in sostanza, dalla verità. QUATTRO ritiene che queste parole di Alice Miller possano costituire un insegnamento da lasciare a tutti i lettori del sito, come congedo di questa scheda di recensione del libro “La chiave accantonata”. INDICE. Premessa. 1. La vita non vissuta e l’opera di un filosofo della vita. (Friederich Nietzsche). 2. Il terremoto di Malaga e gli occhi da pittore di un bambino di tre anni. (Pablo Picasso). 3. Gli angioletti morti della madre e le opere impegnate della figlia. (Kathe Kollwitz). 4. Salve di risate di fronte a maltrattamenti di bambini e l’arte dell’autocontrollo. (Buster Keaton). 5. Despota o artista? 6. Se Isacco abbandona l’altare sacrificale. 7. I vestiti nuovi dell’imperatore.

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––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––– SCHEDA TECNICA - A CURA DI QUATTRO ––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––– AUTORE: Miller, Alice ––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––– TITOLO: Le vie della vita. ––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––– EDITORE: Garzanti, Milano, 1998. Titolo originale: “Wege des Lebens. Sieben Geschichte”, Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Main, 1988. ––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––– PAGINE: 219 INQUADRAMENTO GENERALE: vedi INDICE: vedi COMMENTO: no TEST DA COMPILARE: no ––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––– INQUADRAMENTO GENERALE.

Questo libro è diverso da tutte le altre opere di Alice Miller. L’Autrice si è (e lo dichiara subito apertamente) concessa il piacere personale di scrivere un libro di storie, una creazione in forma più letteraria che psicologica, anche se non scritta a scopi principalmente di letteratura, ma con l’evidente intento di fare riflettere il lettore. La Miller dice espressamente: “Il mio interesse va al di là dei problemi dei singoli, investe questioni generali e si può riassumere essenzialmente in questa domanda: “Come si riflettono sulla vita dell’individuo e sui suoi rapporti con il prossimo le prime esperienze di dolore e di amore?”. (Miller, Alice: pag. 12). I personaggi del libro sono immaginari (anche se l’Autrice, nel tratteggiarne la storia, oltre che infondere in essi la propria esperienza di essere umano e di indagatrice psicologica, è stata affascinata - come tutti gli scrittori - dall’autonomia di vita che ogni personaggio sembrava acquistare). Essi non devono essere visti come modelli, ma come individui qualsiasi che raccontano semplicemente ciò che è loro accaduto e come sono riusciti a farvi fronte (oppure no). Così il lettore non deve aspettarsi l’abituale tesoro di spunti psicologici che gli altri testi della Miller gli hanno sempre offerto, per cui quasi automatico era applicarli alla propria storia e comprendere così aspetti prima avvolti nel mistero della propria infanzia incompresa. Profonda è la fiducia che la Miller ripone nell’effetto trasformativi di tale presa di coscienza: tutti siamo stati segnati, nella nostra infanzia, dalle prime impressioni ricevute in famiglia. Alcuni ripetono, in rapporto ai figli, le esperienze vissute da bambini, ciò sembra loro del tutto normale. “Per alcuni invece l’improvvisa e sorprendente constatazione di non potere disporre, nei rapporti con i figli o i partner, della libertà interiore che avevano tanto desiderato in gioventù, diventa motivo di sofferenza. E allora può darsi che provino la sensazione di essere in un vicolo cieco. Da bambini non erano riusciti a trovare una via di uscita e non avevano avuto altra scelta se non quella di adattarsi all’ambiente e ai suoi influssi. Da adulti spesso non sanno neanche di avere delle alternative. Eppure, per quanto si possa essere stati segnati in negativo e in positivo dalla nostra origine, dal patrimonio ereditario e dall’educazione, quando siamo adulti possiamo gradualmente prendere coscienza di queste impronte ed evitare di comportarci come automi. Con il crescere della consapevolezza aumenta anche il margine di libertà necessario per sottrarsi ai vicoli ciechi e assumere nuove informazioni. I percorsi che portano a questa liberazione sono molto differenti, numerosi quanto i singoli destini. Le storie che seguono raccontano alcuni di questi destini, dimostrando fra l’altro come le tracce lasciate dall’infanzia non ci accompagnino soltanto nelle famiglie che formiamo da adulti, ma si manifestino anche nell’insieme della vita sociale”. (Miller, Alice: pagg. 9-10). Che cosa può ricavare il lettore dalla conoscenza di queste storie? Certamente qualche suggerimento di riflessioni su scelte si vita analoghe o problemi simili che anch’egli/ella ha vissuto:

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• L’angoscia della incomunicabilità in un rapporto coniugale male assortito e fondato sull’irragionevole speranza di cambiare l’altro. (Claudia e Daniel). • L’assenza di appoggio e conforto nelle difficoltà che parte dai genitori assenti (per alcoolismo o per altra causa). (Claudia e Daniel). • Il dramma, come genitore, di un rapporto di intimità che non si è riusciti a stabilire con un figlio. (Claudia e Daniel). • Le misteriose strade sotterranee che possono collegare una violenza sessuale subita nell’adolescenza con le difficoltà di un parto 15 anni dopo. (Jolanta e Linda). • La lunghissima estenuante fatica di collegare sparsi frammenti di sintomi a formare la chiara visione di un abuso genitale in età quasi neonatale, ed il coraggio supremo di parlarne al responsabile, il padre. (Sandra). • Il coraggio di denunciare la colpevole immaturità infantile di una madre che abusando del potere concessole dalla sua condizione materna, manipola la propria figlia genitorializzandola e pretendendo che rinuncia a se stessa ed ai propri diritti. (Anika). • Il dolore di scoprire che la realtà del rapporto con il proprio padre è stata quella di un desiderio di essere amati, di una speranza di essere amati, mentre non si è stati veramente amati. Nella realtà concreta della vita quotidiana il padre era, nella sostanza, assente: si eclissava, si sottraeva continuamente, non c’era mai quando il figlio/figlia aveva bisogno di lui, non lo proteggeva, non rivelava nulla di sé e del suo mondo interiore. La sorte, la natura, i bisogni, i desideri del figlio/figlia non costituivano un desiderio per lui, li manteneva fuori dai propri pensieri. In sostanza, un padre che forse ha dato denaro ma non ha mai creato intimità, né possibilità di confidenze con i figli, né ha trasmesso insegnamenti di vita gioiosi e positivi. E il senso schiacciante di angoscia del proprio destino ineluttabile, quando si scopre che nella scelta dei partner sentimentali si è ripetuto in sostanza lo stesso tipo di legame: stessa attrazione per un fantasma elusivo, stessa capacità di accontentarsi di illusioni anziché mirare ad avere concretezza di un rapporto solidamente nutriente nella sua lealtà, stessa assurdità del non riuscire a spezzare questa attrazione irragionevole ma fortissima. (Margot e Lilka). Lasciamo ora le sette storie accontentandoci dei suggerimenti che ne abbiamo ricavato. Ma il libro della Miller non si esaurisce nelle storie. Dal capitolo sulle riflessioni riguardanti i processi psicologici con cui agiscono i capi carismatici, QUATTRO prenderà spunti da utilizzare nella costruzione della sezione del sito riguardante le Terapie Primarie (vedi punto 8, paragrafo 1 del percorso del sito: Terapia Primaria - Cos’è la Terapia Primaria). Dal capitolo de “Le vie della vita” che ha come titolo “Come nasce l’odio?” QUATTRO desidera invece riportare una serie di riflessioni psicologiche della Miller, le quali consentono di mettere a fuoco alcuni temi. IL CONCETTO DI SFRUTTAMENTO DELLA SOLITUDINE INFANTILE.

In mancanza di ogni altra fonte che gli dia l’amore che gli è necessario per potere sentire che esiste, imparare a riconoscere le sue caratteristiche, non essere distrutto dalla paura del mondo esterno terribile, ignoto, sovrastante, ed infine per non vivere il terrore di essere abbandonato, il bambino è disposto ad accogliere come una specie di conforto imposizioni e pretese educative di ogni tipo, maltrattamenti e insulti, percosse e persino abusi sessuali. I palpeggiamenti di un adulto o addirittura veri e propri rapporti sessuali sono una tragedia meno spaventosa che una totale solitudine, abbandonati da ogni altro essere umano. Ovviamente il bambino non può riconoscere, ammettere a se stesso ciò che gli è stato fatto, non può né prendere coscienza né conservare o ricuperare la memoria di essere stato semplicemente usato, di essere stato ridotto a puro corpo oggetto di piacere. Non può farlo, da solo, per due diversi motivi (che confluiscono nel produrre lo steso risultato: la rimozione dei fatti accaduti dalla coscienza del bambino): Un motivo interno: la mente del bambino non potrebbe resistere all’accecante ed esplosivo dolore di prendere atto del fatto che l’adulto malvagiamente ha approfittato di lui. Infatti il bambino - secondo il bisogno naturale - si aspettava, con fiducia innocente, di ricevere amore, poiché naturalmente egli dà tutta la sua devozione di amore all’adulto accettandone la visione del mondo, l’educazione, la richiesta di obbedienza, ecc. Un motivo esterno: la paura di perdere, ancora più completamente e gravemente, le attenzioni dell’adulto.

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Per questi due motivi il bambino deve disconoscere la verità dei fatti accaduti, deve rimuoverne il ricordo. Deve aggrapparsi all’illusione di essere stato amato, deve radicare nel suo modo di pensare la convinzione (indebita!) che la devozione a tutti i costi e l’auto sacrificio fanno parte dei doveri che si hanno - per tutta la vita - verso i genitori. Il bambino ha bisogno di saper che l’adulto lo ha amato, desidera sapere che lo ha amato. Finisce per crederci, a costo di vivere in un mondo di illusioni. Se nessun adulto è mai accanto a lui per aiutarlo a confrontarsi con la realtà dei maltrattamenti subiti prendendone piena coscienza, egli deve quindi rimuovere questa realtà per non essere travolto e distrutto dalla sofferenza e dal terrore. Ma la percezione dei fatti realmente accaduti nel passato è (anche biologicamente) conservata nel cervello - come viene ricordata un’infinità di altri fatti oggetti, sapori, suoni, volti -, resta immagazzinata come ricordi dei quali il bambino non ha più coscienza, ricordi quindi inconsci. La Miller esprime così questi concetti: “L’animale reagisce all’aggressione con la fuga o con la lotta, ovvero con comportamenti impossibili per il bambino piccolo che sia vessato o tormentato dai parenti prossimi. E così la reazione naturale è trattenuta e immagazzinata, a volte per decenni, fino a quando trova l’occasione di sfogarsi su un obiettivo più debole. Allora il sentimento represso si scarica senza più remore...”. (Miller, Alice: pag. 187). “Qualunque precetto morale un bambino impari in seguito - in casa dei genitori, a scuola o in chiesa - non avrà mai lo stesso effetto di ciò che il suo organismo ha assorbito nei primi giorni, nelle prime settimane, nei primi mesi. La lezione dei primi tre anni di vita viene indelebilmente immagazzinata. Se dunque l’organismo di un bambino apprende fin dalla nascita che è giusto tormentare e punire una creatura innocente, questo messaggio rimane più forte di ogni sapere intellettuale acquisito in seguito”. (Miller, Alice: pag. 202). “Le emozioni non focalizzate, disgiunte dalle loro cause originarie, hanno infatti bisogni di un oggetto per rendere possibili azioni che in passato erano negate al bambino”. (Miller, Alice: pag. 187). “Tuttavia questi ricordi inconsci e “immagazzinati” costringono poi l’individuo a riprodurre continuamente le scene rimosse per affrancarsi dalle paure depositate dalle violenze subite in passato. La vittima crea situazione in cui assume ora il ruolo attivo per venire a capo dell’impotenza passiva del bambino e sottrarsi così alle paure inconsce. Tuttavia questo comportamento non porta alla liberazione. La vittima di un tempo insiste nel riproporsi nel ruolo attivo e si procura sempre nuove vittime. Ma fino a quando l’odio e la paura sono proiettati su capri espiatori, non possono essere vinti. L’odio cieco riversato sugli innocenti può dissolversi e cessare solo quando la sua vera origine sia stata riconosciuta, e sia stata compresa e accettata la reazione naturale all’ingiustizia: si dissolve perché viene meno la sua funzione di mascherare la verità”. (Miller, Alice: pag. 186). “Che cosa è, in sostanza, l’odio? Ai miei occhi è una possibile conseguenza della collera e della disperazione del bambino vilipeso e disprezzato fin dal periodo averbale, e cioè fin da quando non era neppure in grado di esprimersi a parole. E fino a quando il risentimento verso il genitore responsabile rimane inconscio e negato, quest’odio non si dissolve. Lo si può solo sfogare su capri espiatori: sui propri figli o su presenti nemici. Questa collera, questo risentimento mutato in odio diviene particolarmente pericoloso quando è mascherato da ideologia, perché allora è praticamente indistruttibile e si colloca al di là di ogni norma morale. Basta osservare con partecipe attenzione gli strilli di un lattante disperato per capire l’intensità e la portata di certi sentimenti”. (Miller, Alice: pagg. 186-187). Più avanti la Miller accenna all’appassionante interrogativo: perché tra tutti gli individui sottoposti a maltrattamenti e repressioni delle reazioni emotive spontanee nell’infanzia molti sopravvivono apparentemente senza danni, mentre altri sviluppano gravi sintomi oppure divengono dei malvagi o dei criminali? Certo, dice la Miller citando un concetto ormai generalmente accettato, non sono i traumi di per sé a far sviluppare una nevrosi o a far nascere tendenze criminali, ma è il modo della loro elaborazione da parte del soggetto. La presenza di un qualche testimone soccorrevole che ha fornito al bambino l’esperienza di un minimo di riconoscimento e di sostegno

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può consentire un superamento delle ferite ricevute. Un’educazione crudele minacciosa ed umiliante che riduce in grado estremo la libertà del bambino, lo degrada e gli impedisce ogni forma di libera espressione, e tutto ciò fin dalla più tenera infanzia, magari fin dal periodo in cui il bambino non sa ancora nemmeno esprimersi a parole, senza che ci sia mai stato accanto al bambino un testimone consapevole e soccorrevole che mettesse in discussione questa educazione contrapponendole valori più umani, può far sì che il bambino impari ad ammirare e persino ad esaltare questa crudeltà. Da queste premesse può nascere un criminale sociale. Infatti il desiderio di vendetta, l’odio causato dai maltrattamenti, represso nell’infanzia a causa della paura, continua a restare a restare attivo anche nella vita adulta, quando il soggetto non ha più ragioni immediate per dovere odiare, e continua ad alimentare vita natural durante sfoghi persecutori contro capri espiatori innocenti. LA POSSIBILITA’, PER L’ADULTO, DI LIBERARSI DAI LEGAMI INCONSCI CON IL PASSATO DI MALTRATTAMENTI.

Molto diverse sono le possibilità concrete di liberazione, tra adulto e bambino. “Un bambino non può capire le ragioni per cui le persone che ama e ammira lo feriscono. Stravolge quindi questo comportamento e si convince che sia giusto. L’abuso acquista, nel suo sistema cognitivo, una valenza positiva che poi conserva per tutta la vita: a meno che, da adulto, non proceda a una nuova valutazione dell’accaduto”. (Miller, Alice: pag. 182). La Miller sottolinea che la lealtà verso i genitori e la fedeltà verso noi stessi si escludono a vicenda solo durante l’infanzia. L’adulto è capace, sia pure con uno sforzo emozionale ed intellettivo, di riaccostarsi alla verità della sua visione dei fatti accadutigli nell’infanzia e del significato specifico che hanno avuto per la sua vita, cioè rinunciare all’auto inganno (quindi essere liberato dai sintomi che tale auto inganno sostengono) e rimanere fedele a se stesso, ai propri bisogni, desideri, impulsi, pensieri. PICCOLO INTERMEZZO. Uno spunto interessante preso da una delle sette storie (Helga), che conferisce una precisa luce di speranza di riscatto (dai traumi passati) al lavoro di auto-aiuto fatto dal ogni soggetto nella sua vita di oggi. QUATTRO ritiene importante sottolineare agli utenti del sito l’applicazione di questo concetto alle loro eventuali difficoltà nei rapporti sentimentali, sulle quali esso apre nuove e concrete possibilità di soluzione: “La paura di parlare è così tenace perché ha le sue radici nell’infanzia. Ma non è lì, nell’infanzia, che è possibile superarla, bensì solo nel presente...”. (Miller, Alice: pag. 113). “Anche le esperienze che ho fatto negli ultimi anni mi hanno insegnato che si possono superare le conseguenze del trauma infantile togliendo di mezzo il trauma attuale. Quelle conseguenze consistono, come giustamente osservi, in un blocco fatto di paura, mutismi, avvilimento. Sono d’accordo: se l’adulto supera questa paura, non ha più bisogno di regredire di continuo nel disorientamento, nella disperazione e nel mutismo di un tempo. La rabbia impotente del bambino riaffiora probabilmente solo quando l’adulto si riassoggetta di sua volontà allo stato di dipendenza in cui era per necessità vissuto da bambino”. (Miller, Alice: pag. 112).

NOTA BENE. Il grassetto è di QUATTRO. Questa ri acquisizione razionale di autonomia, sottolinea la Miller, libera il soggetto dalla coazione (che tutti i soggetti ben conoscono quando sono impigliati nelle maglie delle sofferenze infantili) ad aggredire emotivamente i genitori, ad incolparli come fa il bambino piccolo, senza alcun costrutto concreto, con una ripetitività angosciante, disperata ma inevitabile, specialmente alle continue provocazioni dei genitori patologici. La Miller aggiunge anche un’altra osservazione: questa ri acquisizione razionale di autonomia consente anche al soggetto (emozionalmente non più inibito e sofferente) di comprendere le ragioni per cui i genitori gli hanno fatto del male, senza accorgersene o senza volersene rendere conto non importa, di comprendere emotivamente che i genitori stessi erano allora in uno stato interiore di problematica ed inadeguatezza anche molto gravi

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e non eliminabili. Questa capacità di comprensione - che l’adulto oggi può acquisire nelle sua ricerca della propria verità, valutata con occhi autonomi - pur essendo qualcosa di fondamentalmente diverso dall’atto religioso del perdono (che, secondo la Miller non comporta o addirittura esclude l’importanza della conoscenza precisa dei fatti) consente tuttavia all’adulto di oggi di non rinunciare all’affetto che prova per i suoi genitori. Amare e comprendere sono possibili all’adulto accanto al rimanere fedele a se stesso. QUATTRO è particolarmente interessato a questa possibilità di composizione di due stati interiori che apparentemente sembrano inconciliabili o quantomeno molto difficili da coniugare, e sui quali si è - per anni - a lungo dibattuto in studio nel lavoro clinico con i suoi clienti, desiderosi di conservare in se stessi (nonostante l’antico risentimento sottostante alla sofferenza, e nonostante l’apparente spietatezza della ricerca della verità nella psicoterapia) la possibilità umana di continuare a provare sentimenti di amore verso i genitori, per quanto questi fossero stati negativi. INDICE. Premessa. Introduzione. LE SETTE STORIE. 1. Claudia e Daniel - Trent’anni dopo. 2. Jolanta e Linda - Sinceramente benvenute. 3. Sandra - Il coraggio premiato. 4. Anika - Almeno un tentativo. 5. Helga - L’affare delle lacrime. 6. Gloria - L’intelligenza del cuore. 7. Margot e Lilka - Fra Varsavia e Sidney. UNA RIFLESSIONE. Come funzionano i capi carismatici e i guru? Come nasce l’odio? EPILOGO. Il dialogo fra le generazioni.

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In questo libro Alice Miller continua la sua battaglia contro la Pedagogia Nera (... “Un’educazione intesa a spezzare la volontà del bambino e a fare di lui un suddito obbediente, esercitando in modo palese o occulto il potere, la manipolazione e il ricatto”). (Miller, Alice: pag. 7). L’Autrice sottolinea il ruolo del Testimone soccorrevole nell’infanzia del soggetto: “Il Testimone soccorrevole è la persona che si accosta (pur saltuariamente) al bambino maltrattato, gli offre un sostegno, una sorta di contrappeso alle crudeltà che segnano i suoi giorni. Può essere qualsiasi persona dell’ambiente in cui vive: un insegnante, una vicina, una domestica o la nonna. Molto spesso sono i fratelli o le sorelle. Questo testimone offre simpatia o persino amore al bambino picchiato o trascurato, non intende manipolarlo a scopi pedagogici, gli dà fiducia e gli trasmette la sensazione che lui non è cattivo e merita gentilezza. Grazie a questo testimone, che non è necessariamente consapevole del suo ruolo salvifico, il bambino impara che nel mondo vi è qualcosa che assomiglia all’amore. Nei casi fortunati, da questa esperienza cresce in lui la fiducia nel prossimo e il piccolo può conservare dentro di sé amore, bontà e altri valori della vita. Là dove è mancato anche un solo Testimone soccorrevole, il bambino esalta la violenza e, più tardi, vi farà egli stesso ricorso, con maggiore o minore brutalità e sotto il medesimo pretesto ipocrita. È significativo che nell’infanzia di chi ha praticato l’omicidio di massa - Hitler, Stalin o Mao - non troviamo traccia di un solo Testimone soccorrevole”. Ma, ovviamente, dato che purtroppo spesso la storia del paziente è intrisa di dolore a causa di abbandono e di maltrattamenti, la Miller enfatizza il ruolo del Testimone consapevole come presenza positiva nella vita adulta del soggetto ormai ferito: “Un ruolo simile a quello esercitato nell’infanzia dal Testimone soccorrevole può averlo nella vita adulta il Testimone consapevole. Con questa espressione intendo la persona che conosce le conseguenze dello stato di abbandono e dei maltrattamenti inflitti al bambino e che pertanto sarà in grado di sostenere chi ha subito un danno, di esprimergli empatia e di aiutarlo a capire meglio, partendo dalla sua storia, i sentimenti di paura e di impotenza, spesso incomprensibili anche a chi li prova, al fine di cogliere più liberamente le possibilità che si offrono alla persona diventata adulta. Nel mio libro ”L’Infanzia Rimossa. Dal bambino maltrattato all’adulto distruttivo nel silenzio della società”, ho dedicato un capitolo ad entrambi i concetti. Testimoni consapevoli sono alcuni terapeuti, ma possono esserlo anche certi insegnanti illuminati, avvocati, consulenti o autori di libri. Io stessa mi considero un’autrice che, tra altri scopi, si propone anche quello di trasmettere ai lettori informazioni che tuttora sono considerate tabù. Il mio desiderio è di aiutare anche gli specialisti che operano in ambiti diversi a capire meglio la propria vita e diventare in tal modo Testimoni consapevoli per i propri clienti e pazienti, per i propri figli e, non da ultimo, per se stessi. Come talvolta effettivamente accade”. (Miller, Alice: pag. 8).

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L’obbiettivo terapeutico di liberare il paziente dai disturbi che egli sente nella sua mente e nel suo corpo, è raggiunto quando egli può permettersi di percepire le informazioni provenienti da due fonti: a. Quelle che la memoria corporea ha registrato quando da piccolo era stato sottoposto ad abusi e maltrattamenti. b. Quelle che la sua comprensione può fargli vedere circa la realtà dei fatti accadutigli, non appena egli riesce a liberarsi dalla cecità emotiva. In sintesi: 1. Confrontarsi con i propri traumi infantili. 2. Individuare i molti meccanismi di difesa che servirono al bambino per proteggersi da una sofferenza altrimenti insopportabile. ––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––– L’adulto oggi è in grado di fare entrambe le cose. ––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––– Lo studio della Miller, lungo il libro, si articola in tre parti: 1. La prima (“Infanzia, una fonte inesauribile trascurata”). È costituita da esempi di silenzio responsabile sulle sofferenze dell’infanzia (la medicina che preferisce prescrivere farmaci; certe psicoterapie che non parlano dell’infanzia; ideologie educative che portano a dittature politiche; il silenzio di molte Chiese). 2. La seconda (“Aprire una breccia nella storia della propria vita”). Sviluppa il tema della possibilità che ogni singolo essere umano ha di opporsi al male fattogli nel passato, compiendo un cammino che ha tre fasi: • Opporsi all’ordine ricevuto nell’infanzia: “Non devi vedere ciò che ti è stato fatto”. • Accettare la dura e dolorosa realtà: “Così è stato”. • Impegnarsi con onestà: “Con i miei figli agirò in modo diverso”. Certamente negli anni dell’infanzia si è stati vittime inermi dei maltrattamenti degli adulti. La conoscenza della propria storia può aiutare molte persone (che continuano a “sentirsi” vittime impotenti anche da adulti, pur quando non sono più obiettivamente maltrattate) a comprendere il perché di questa tragica e dolorosa cecità. E poi liberarsene, smettendo di tenere atteggiamenti rinunciatari, e scoprendo di potere assumere (con piacere, per di più) la responsabilità del proprio comportamento. Alice Miller ribadisce il concetto - perché il cammino terapeutico sia efficace - dell’importanza che il paziente (intenzionato realmente a scoprire la verità che ha dentro di sé) sia affiancato da un terapeuta che abbia già percorso lo stesso cammino e quindi ne conosca i pericoli, e sappia valutare quanto in profondità deve spingersi la ricerca del soggetto. Il percorso non è necessariamente eguale per tutti (come profondità e lunghezza) a parità di obiettivo finale per il soggetto: scoprire quale è stata la sua programmazione originaria alla paura, alla sottomissione, all’adattamento alienante, alla rinuncia di sé. Ovviamente, allo scopo di potersi infine liberare da questi pesi. Se invece il terapeuta non si è liberato dalle sue personali paure e problematiche derivanti dalla propria infanzia, dinanzi ai problemi del paziente egli stesso entra in difficoltà. E il paziente avverte l’angoscia del terapeuta, la fa propria. E anziché capire la sua personale infanzia rivivendola da adulto, ricade ancora una volta nel panico prodottogli anticamente dai traumi vissuti quando era bambino. L’Autrice illustra questo concetto con un esempio semplice ma chiaro: • Un bambino viene picchiato a casa. A scuola egli farà un’attenzione spasmodica ad evitare la punizioni, osservando ossessivamente l’insegnante da cui si aspetta le percosse che, per sua esperienza, sono inevitabili. Farà quindi poca attenzione a ciò che l’insegnante spiega, comprenderà poco ed imparerà ancora meno. Da adulto avrà problemi simili, anche se la forma sarà diversa.

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Non imparerà a proteggersi dai pericoli e danni reali, ma dalla collera degli altri adulti (come se si trattasse ancora dei genitori). Non riconoscerà il dolore come una cosa negativa. Essendo stato da piccolo aggredito quando era indifeso, imparerà a credere che un individuo non merita protezione né rispetto. I messaggi sbagliati rimasti depositati nella sua struttura fin dall’infanzia lo costringeranno a costruire una immagine distorta della realtà esterna. E conserverà questa immagine negativa ed ingiustificata del mondo anche da adulto. 3. La terza (“Come si origina la cecità emotiva”). Presenta una serie di dati che in base a recenti ricerche sul funzionamento del cervello consentono di formulare interessanti ipotesi neurofisiologiche sui meccanismi della rimozione, della cecità emotiva dinanzi alla verità della propria storia passata. Ovviamente il discorso della Miller è sempre espresso in termini psicologici. Il lettore del sito che fosse interessato ad approfondire il tema del collegamento tra il processo della nascita delle emozioni e la base neurofisiologica del cervello (persino la sua base biochimica) può prendere lo spunto dai 4/5 testi che l’Autrice cita nella bibliografia finale. In sintesi qui possiamo accennare al concetto che le prime emozioni lasciano nel cervello tracce indelebili che permangono in certe aree del cervello stesso. Vengono codificate (come molecole proteiche sintetizzate dalle cellule cerebrali al momento dell’evento, o come circuiti nervosi attivati nella stessa circostanza) come informazioni indelebili. Tali informazioni influenzano (anche in età adulta) il modo di pensare e di sentire del soggetto, pur restando sempre nascoste al pensiero logico e consapevole. La prima impronta lasciata dall’esperienza (che il neonato/bambino piccolo fa della realtà esterna) è quindi conservata dal corpo, dal cervello (prevalentemente emisfero cerebrale destro, inconscio-inconscio, se si vuole usare il vecchio termine che ci è noto e caro -). Del resto è un termine appropriato. Infatti non solo il soggetto (neonato/bambino) non è cosciente di ciò che è successo nello stesso modo in cui lo sarebbe un adulto. Ma soprattutto il corpo conserva traccia di tutto ciò che è successo al soggetto, tuttavia non è in grado di esprimerlo con lo strumento cosciente e logico della ragione e delle parole. Le cause sono di tre tipi: a. Le tracce dei fatti accaduti (chimiche, neurofisiologiche) sono sepolte nella massa cerebrale (molecole proteiche sintetizzate, circuiti di cellule e fibre nervose inizialmente attivati e poi - per protezione - isolati e mantenuti staccati dalle aree e circuiti abitualmente in azione). b. Le esperienze originarie sono state fortissime (tanto da lasciare traccia perenne), ma caotiche, confuse, disordinate, parcellari, prive del significato che avrebbe potuto darvi un adulto: esperienze di un neonato/bambino piccolo. c. Tali esperienze sono state in origine accompagnate dalla paure (la paura di un bambino piccolo: uno spavento enorme, distruttivo, senza nessuna luce rassicurante o speranza di protezione, di aiuto, di possibilità di difesa e di lotta contro la minaccia). Di conseguenza, quando dalla memoria appaiono i ricordi delle situazioni del passato con le relative emozioni, essi sono sempre accompagnati dalla paura che le colorava all’inizio. Ed è una paura enorme, senza nome, e senza limiti, annichilante, paralizzante. La paura di un bambino piccolo, piccolissimo. Paura di sentirsi in balia di adulti minacciosi e terrorizzanti, senza alcuna protezione. Tutti gli studiosi oggi concordano nell’affermare la necessità che il bambino possa avere fin dalla nascita una figura protettiva di riferimento (la madre o una figura con aspetti materni). Questa figura, con la sua presenza fisica in costante contatto corporeo, con il suo assiduo intervento protettivo e tranquillizzante, permette al neonato di assorbire gli stimoli esterni senza esserne sopraffatto o terrorizzato, imparare a manifestare gli impulsi interni senza doverli reprimere ma senza nemmeno esserne travolto, conoscere pian piano parti sempre più ampie della realtà imparando contemporaneamente ad entrarvi in contatto in modo sempre più efficace, sicuro e piacevole. Molti autori affermano che lo sviluppo stesso dell’intelligenza è legati alle emozioni della prima infanzia e che senza una calda e costante protezione di una figura di riferimento si possono avere gravi disturbi nello sviluppo dell’intelligenza del bambino. La necessità del bambino (quando non protetto da un adulto amorevole)

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di rimuovere la sofferenza fin dalla più tenera età infantile, comporterebbe la negazione non solo dei ricordi della propria infanzia (la propria storia negata, dimenticata, quindi) ma anche la negazione della sofferenza in se stessa. Di qui lo sviluppo di forme di insensibilità, di incapacità di protezione, e di veri e propri blocchi del pensiero, veri e propri notevoli difetti nella capacità di pensare. La Miller sintetizza il concetto: “Per effetto della negazione della sofferenza (cecità emotiva alla propria storia dolorosa) si producono nel cervello delle barriere (“blocchi nel funzionamento del pensiero”) che sono poste a protezione dei pericoli (ossia di traumi che hanno già avuto luogo ma che - essendo negati - sono codificati nel cervello come pericoli perennemente in agguato”). (Miller, Alice: pag. 11). All’opposto, evidentemente, agisce l’offerta di protezione, di sicurezza, stabilità, non soltanto in età infantile ma anche in età adulta. Questo accade nella psicoterapia, ma anche nelle forme di auto aiuto. Quando l’adulto, non più impotente, mette il suo raziocinio sviluppato, le sue conoscenze psicologiche (che può sempre ampliare) e la sua esperienza di vita a disposizione del corpo (il suo inconscio), a disposizione del bambino che egli è stato e che porta ancora dentro di sé, prestandogli ascolto, accadranno molte cose positive. I ricordi coscienti frammentari si organizzeranno in una visione articolata e significativa. Il soggetto diventerà cosciente della propria storia e potrà raccontarla in modo completo e secondo il suo punto di vista. Le antiche emozioni potranno acquistare significato ed emergere, non più incomprensibili, non più minacciose, bensì vivificanti e portatrici di gioia. INDICE. Premessa. Prologo: tu non devi sapere. Parte prima. INFANZIA: UNA FONTE INESAURIBILE, TRASCURATA. Preambolo. 1. Medicine anziché conoscenza. 2. Perché la psicoterapia evita la realtà infantile? 3. Punizioni corporali e “missioni” politiche. 4. Bombe ad orologeria nel cervello. 5. Il silenzio della Chiesa. 6. Agli inizi della vita, ovvero il bambino dimenticato dai biografi. Parte seconda. COME SI ORIGINA LA CECITA’ EMOTIVA? 7. Perché quella rabbia improvvisa? 8. Blocchi nel funzionamento del pensiero. Parte terza. APRIRE UNA BRECCIA NELLA STORIA DELLA PROPRIA VITA. Preambolo. 9. Crescere nel dialogo. 10. Senza testimone consapevole. 11. L’efficacia terapeutica della verità. Epilogo. Bibliografia.

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Per rispettare sia il pensiero che Alice Miller ha ritenuto di formulare in maniera precisa, sia la cronologia delle sue opere, QUATTRO inizierà questa recensione de “Il bambino inascoltato. Realtà infantile e dogma psicoanalitico”, rifacendosi proprio alla premessa “Le mie posizioni nel 1990”, che è nota a tutti i lettori affezionati della Miller. Dopo aver ricordato che sono trascorsi una decina d’anni dalla pubblicazione dei suoi primi tre libri (“Il dramma del bambino dotato”, “La persecuzione del bambino. Le radici della violenza”, e “Il bambino inascoltato. Realtà infantile e dogma psicoanalitico”), Alice Miller parla del suo percorso interiore: “Nei libri pubblicati dopo il 1985 ho descritto il percorso che mi ha portato alla scoperta della mia storia e alle mie nuove conoscenze: “Immagini di un’infanzia”, (1985), ”L’Infanzia Rimossa. Dal bambino maltrattato all’adulto distruttivo nel silenzio della società”, (1988) “La Chiave accantonata”, (1988) e “La fiducia tradita. Violenze e ipocrisie dell’educazione”, (1990). I primi tre libri segnano l’inizio di questa mia evoluzione, poiché solo quando li scrissi incominciai a scandagliare sistematicamente il mondo dell’infanzia, incluso il mio. Fu solo grazie all’impegno posto nello scrivere questi libri e in seguito anche grazie agli esiti di una terapia volta a smascherare in maniera sistematica il passato, ma al tempo stesso condotta con tatto e cautela, che riuscii a scorgere ciò che nei vent’anni della mia attività analitica mi era sempre rimasto nascosto, malgrado avessi un atteggiamento critico nei confronti della teoria delle pulsioni”. (Miller, Alice: pag. 7-8). “... Tale terapia può consentire a molti di accostarsi sistematicamente, passo dopo passo, alla loro infanzia e di accogliere in se stessi il sapere che avevano messo al bando. Se si conosce la propria storia, si perde l’inclinazione a cercare aiuti irreali come il sostegno di ideologie, di vuote speculazioni e di menzogne religiose, perché non è più necessario essere ciechi per proteggersi dalle proprie paure. Quando si è diventati creature reali, non si deve più temere la realtà, né fuggirne lontano. La pedagogia e le speculazioni psicoanalitiche e filosofiche, volte a mascherare la realtà, perderanno allora tutto il proprio potere e dovranno lasciare il posto alla trasparenza e alla possibilità di verifica”. (Miller, Alice: pag. 9). Questa citazione ed il sottotitolo stesso dell’opera (“Realtà infantile e dogma psicoanalitico”) caratterizzano questo studio della Miller come un’opera nella quale tre parti su quattro (come si può vedere dall’indice sotto riportato) sono dedicate ad una serie di argomentazioni serrate contro aspetti della psicoanalisi freudiana che la Miller ha pubblicamente criticato con argomentazioni tecniche di tutto rispetto.

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INDICE.

Poiché questo è un sito di auto-aiuto, QUATTRO ha sempre citato il pensiero della Miller analizzandone le opere successive alla applicazione su se stessa (nel 1985) del metodo volto a scavare nel proprio passato (come è la caratteristica fondamentale del metodo proposto dal sito), quindi a partire da ”L’Infanzia Rimossa. Dal bambino maltrattato all’adulto distruttivo nel silenzio della società”, 1988, e tutte le opere successive. De “Il bambino inascoltato. Realtà infantile e dogma psicoanalitico”, 1981, non sarà quindi fatta un’analisi bibliografica dettagliata (come anche de “La persecuzione del bambino. Le radici della violenza”, 1980). Tuttavia piace a QUATTRO, da sempre ammiratore del coraggio e della lucidità di Alice Miller, onorare in una maniera particolare la Grande Signora, a mostrarle che il suo pensiero è stato seguito lungo ogni pagina di tutte le sue opere. A guisa di recensione de “Il bambino inascoltato. Realtà infantile e dogma psicoanalitico”, sarà quindi ora riportato, da “La rivolta del corpo. I danni di un’educazione violenta”, 2005, l’incipit del capitolo 4 “Posso dirlo?” della Parte Seconda (“La Morale tradizionale e il sapere del corpo”), che riassume il pensiero dell’Autrice, a distanza di 24 anni, sul tema in questione: POSSO DIRLO?

“Ricordo ancora molto bene le paure che mi hanno assillato mentre scrivevo “Il Bambino Inascoltato”. Mi interessava allora il fatto che la Chiesa fosse riuscita a bloccare per trecento anni la scoperta di Galileo e che il corpo dello scienziato avesse reagito con la cecità quando era stato costretto a ritrattare ciò che sapeva essere vero. Fui sopraffatta dal senso di impotenza. Sapevo con certezza di essermi scontrata con una legge non scritta, con l’uso devastante che l’adulto fa del bambino per soddisfare i propri bisogni di vendetta e contro il tabù che regna nella società intorno a questo fatto: non abbiamo il diritto di registrarlo. Forse anch’io dovevo aspettarmi di essere ferocemente punita se mettevo in atto la mia decisione di infrangere il tabù. Tuttavia, la mia paura mi aiutò anche a capire molte cose, tra l’altro il fatto che (per quella stessa ragione) Freud aveva tradito le proprie scoperte. Mi domandai pertanto se non fosse meglio seguire le sue tracce e revocare ciò che ero venuta scoprendo, ovvero la frequenza e le conseguenze dei maltrattamenti inflitti ai bambini. Altrimenti, rischiavo di provocare coloro su cui la società si regge, di subire i loro attacchi ed essere messa al bando. Avevo veduto qualcosa che i numerosi estimatori di Freud continuavano acriticamente a non vedere, ossia il suo auto inganno: ma ero autorizzata a farlo? Ricordo i sintomi corporei che inevitabilmente subentravano non appena cercavo di scendere a patti con me stessa e mi domandavo se non fosse meglio scegliere un compromesso, per esempio pubblicando soltanto una parte della verità. Accusavo disturbi della digestione e del sonno e cadevo spesso in depressione. Tutti sintomi che prontamente scomparvero appena decisi che nessun compromesso era possibile. Il libro incontrò effettivamente un rifiuto totale e io stessa fui messa al bando nell’ambiente degli specialisti, dove allora mi sentivo ancora “di casa”. L’esclusione permane ma, a differenza di quando ero bambina, la mia vita non dipende più dal riconoscimento della “famiglia”. Il libro è andato per la sua strada e le sue tesi, allora “proibite”, sono nel frattempo accettate come ovvie da profani e da esperti del settore. Molti si sono uniti a me nel criticare la condotta di Freud, e la maggior parte degli specialisti tiene in sempre maggior conto, se non altro teoricamente, le pesanti conseguenze del maltrattamento inflitto ai bambini. Dunque, nessuno mi ha messo a morte e la mia voce è riuscita a imporsi. Questa esperienza mi ha dato fiducia riguardo al fatto che anche il presente libro un giorno sarà capito. Dapprima, forse, susciterà scandalo, poiché la maggior parte delle persone contano sull’amore dei genitori e non vogliono abbandonare le loro speranze. Nondimeno, molti capiranno il mio libro non appena vorranno capire se stessi. L’effetto scandalo si attenuerà non appena si renderanno conto di non essere soli con ciò che hanno capito e di non essere più esposti ai pericoli dell’infanzia”. (Miller, Alice: pagg. 83-84). Lasciamo ora che siano ancora le parole di Alice Miller a concludere questo breve schizzo che cerca di dare un’idea dell’impostazione de “Il bambino inascoltato. Realtà infantile e dogma psicoanalitico”. Ovviamente, sono le parole che l’Autrice pose quasi alla conclusione del libro, nel 1981:

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“... Infatti le vittime necessitano dell’aiuto di terapeuti che le conducano ad esprimere quel sapere muto che esse portano registrato nel proprio corpo. Poiché ognuno di noi farebbe qualsiasi cosa pur di non accusare i propri genitori, e perciò da bambino ha appreso a tacere e ad incolparsi, dobbiamo aiutare le vittime danneggiate e chi è stato leso precocemente a cercare e trovare il proprio linguaggio. Non appena coloro che sono sopravvissuti all’abuso avranno ritrovato la loro voce, i terapeuti impareranno da queste persone più di quanto non abbiano mai appreso dai loro maestri e al tempo stesso rinunceranno più facilmente a molte opinioni fuorvianti che si fondano sulla pedagogia dei secoli passati. Solo se ci libereremo dalle tendenze pedagogiche potremo capire a fondo la reale situazione vissuta dal bambino. Questa comprensione si può riassumere nei seguenti punti: 1. Il bambino è sempre innocente. 2. Ogni bambino ha bisogni cui non può rinunciare; tra di essi troviamo il bisogno di sicurezza, di affetto, di protezione, di contatto, di sincerità, di calore e di tenerezza. 3. Questi bisogni vengono di rado appagati, ma spesso sono sfruttati dagli adulti per i loro scopi (trauma dell’abuso perpetrato sul bambino). 4. Le conseguenze di un abuso compiuto su un bambino si protraggono per tutta la vita. 5. La società sta dalla parte dell’adulto e addossa al bambino la colpa di ciò che gli è stato fatto. 6. La realtà del sacrificio del bambino viene costantemente negata. 7. Le conseguenze di tale sacrificio vengono perlopiù ignorate. 8. Il bambino, abbandonato a se stesso dalla società, non ha altra possibilità che rimuovere il trauma e idealizzare l’autore del misfatto. 9. La rimozione genera nevrosi, psicosi, disturbi psicosomatici e criminalità. 10. Nella nevrosi si rimuovono e rinnegano i bisogni autentici e, al loro posto, si vivono sensi di colpa. 11. Nella psicosi l’abuso viene trasformato in un’idea delirante. 12. Nel disturbo psicosomatico si soffre il dolore del maltrattamento, ma rimangono nascoste le vere cause della sofferenza. 13. Nella criminalità si mettono in atto continuamente il turbamento emotivo, la seduzione e il maltrattamento. 14. Il processo terapeutico può avere successo soltanto se non viene rinnegatala verità relativa all’infanzia del paziente. 15. La teoria psicoanalitica della “sessualità infantile” rinforza la cecità della società e legittima l’abuso sessuale compiuto sul bambino. Essa rende colpevole il bambino e risparmia l’adulto. 16. Le fantasie sono al servizio della sopravvivenza. Aiutano a esprimere la realtà intollerabile dell’infanzia, e allo stesso tempo a nasconderla o a minimizzarla. Un avvenimento o un trauma “inventato”, per così dire, nella fantasia cela sempre un fatto reale. 17. Nella letteratura, come nell’arte, nelle fiabe e nei sogni, spesso si esprimono in forma simbolica esperienze rimosse della prima infanzia. 18. Sulla base della nostra ignoranza cronica della situazione reale vissuta dal bambino queste testimonianze simboliche di tormenti sono non solo tollerate, ma persino apprezzate nella nostra civiltà. Se venisse compreso lo sfondo reale di questa esperienza cifrata, esse verrebbero messe al bando dalla società. 19. Le conseguenze di un crimine compiuto non vengono eliminate per il fatto che vittima e carnefice sono entrambi ciechi e turbati sul piano emotivo. 20. Si possono evitare nuovi crimini se le vittime cominciano a vederci chiaro. La coazione a ripetere verrà, in tal modo, eliminata o indebolita. 21. Mettendo allo scoperto in maniera inconfondibile e priva di ambiguità la fonte della conoscenza celata nell’evento dell’infanzia, i resoconti delle vittime possono aiutare la società in generale e la scienza in particolare ad accrescere il loro grado di consapevolezza”. (Miller, Alice: pagg. 330-331).

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L’opera (pubblicata per la prima volta nel 1980) si apre con la stessa presentazione che Alice Miller ha premesso a “Il bambino inascoltato. Realtà infantile e dogma psicoanalitico”, cioè “Le mie posizioni nel 1990”. QUATTRO terrà quindi la stessa impostazione che ha specificato nella scheda bibliografica su “Il bambino inascoltato. Realtà infantile e dogma psicoanalitico”. Poiché questo è un sito di auto-aiuto, QUATTRO ha sempre citato il pensiero della Miller analizzandone le opere successive alla applicazione su se stessa (nel 1985) del metodo volto a scavare nel proprio passato (come è la caratteristica fondamentale del metodo proposto da questo sito), quindi a partire da ”L’Infanzia Rimossa. Dal bambino maltrattato all’adulto distruttivo nel silenzio della società”, e tutte le opere successive. De “La persecuzione del bambino. Le radici della violenza”, non sarà quindi fatta un’analisi bibliografica dettagliata (come anche de “Il bambino inascoltato. Realtà infantile e dogma psicoanalitico”). Ma anche nella stesura dell’analisi de “La persecuzione del bambino. Le radici della violenza”, QUATTRO non vuole rinunciare a tributare un omaggio ad Alice Miller, con alcune citazioni su concetti particolarmente significativi. Il primo, come tutti i lettori della Miller immaginano, è una breve citazione dei principi della Pedagogia nera. Della Pedagogia nera (termine e tessuto concettuale di un libro per altro non della Miller ma di Rutschky, Katharina: “Schwarze Pädagogik”), la Miller è stata senz’altro la voce più nota nel diffondere il concetto tra intere generazioni dei lettori di questa nostra epoca. È giusto quindi che di questa opera di diffusione culturale le sia dato il meritato tributo. Dopo una citazione presa dal libro della Rutschky, saranno quindi riportate due esaustive sintesi che la Miller fa dei principi della Pedagogia nera. La Rutschky, nel suo libro riporta un brano di J. G. Krüger uno dei pedagogisti che, sebbene avessero pubblicato le loro teorie tra la metà del Settecento e la fine dell’Ottocento, avevano ancora credito di applicazione dei loro principi negli anni 1960/1970 nell’area culturale austro-germanica: “A mio giudizio non bisogna mai punire i bambini per punire gli sbagli che essi commettono a cagione di debolezza. L’unico vizio che merita le busse è la testardaggine. È dunque ingiusto picchiarli affinché apprendano meglio; è ingiusto picchiarli perché sono caduti; è ingiusto picchiarli perché inavvertitamente hanno fatto dei danni; è ingiusto picchiarli perché piangono; ma è giusto e ragionevole batterli per ognuno di questi misfatti, oltre che per altre inezie, se essi l’hanno fatto per cattiveria. Se il vostro figliuolo non vuole studiare, perché invece voi lo volete, se piange con l’intento di tenervi il broncio, se fa danni per ingiuriarvi, in breve, se s’incaponisce: allora picchiatelo pure di santa ragione e lasciatelo urlare: no, no, papà, no! Giacché una simile disobbedienza equivale a una dichiarazione di guerra contro la vostra persona. Se vostro figlio vuole togliervi la sovranità, voi siete autorizzati a scacciare la violenza con la violenza per rafforzare la considerazione di cui godete presso di lui, senza la quale non sarà possibile educarlo in alcun modo. Le busse non devono essere un semplice trastullo, ma mirare a convincerlo che il padrone siete voi. Perciò voi non dovete assolutamente smettere prima che egli abbia fatto ciò di cui prima, per cattiveria, si rifiutava.

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GENITORI Ti uccidono il cuore a poco a poco, giorno dopo giorno, sguardo dopo sguardo con movimenti sistematici, ingannevoli. Si cibano della tua anima millantando legittimità, reclamando possesso, succhiandoti via la vita, spegnendoti il sorriso. E poi ancora ti accusano di non aver dato loro abbastanza riempiendoti di colpa, appesantendoti il già incerto passo. Genitori. Genitori? ––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––– Poesia di 29. Se invece non se ne dà cura, voi avete ingaggiato con lui una battaglia in cui la sua malvagità ha trionfato, prefiggendosi seriamente anche in futuro di non dar retta alle percosse solo per non restar soggetto alla potestà dei genitori; se invece già dalla prima volta si è riconosciuto vinto e ha dovuto umiliarsi dinanzi a voi, perderà il coraggio di ribellarsi un’altra volta. Comunque dovete badare a non lasciarvi sopraffare dall’ira durante il castigo. Giacché il fanciullo diverrà sufficientemente perspicace da scorgere la vostra debolezza, e considererà il castigo come un effetto dell’ ira non quale esercizio di giustizia, come invece sarebbe opportuno. Se dunque non riuscite a dominarvi in questi frangenti, lasciate piuttosto a un altro il compito di attuare il castigo, raccomandandogli però caldamente di non interrompere prima che il fanciullo abbia esaudito il volere paterno e venga a chiedervi perdono. Il perdono, come osserva assai giustamente Locke, non dovete negarglielo del tutto ma renderglielo un po’ brusco e non dimostrargli pienamente il vostro affetto prima che egli abbia emendato nella più totale obbedienza la sua precedente malefatta e dimostrato di essere deciso a rimanere fedele suddito dei propri genitori. Se si educano i fanciulli fin dalla più tenera età con opportuna avvedutezza, si dovrà sicuramente ricorrere molto di rado a siffatti metodi violenti di correzione; sarà invece assai difficile mutare le cose qualora si prendano sotto la propria tutela fanciulli che sono già stati abituati ad avere una volontà propria. Talvolta ci si potranno risparmiare le percosse, in special modo se essi sono ambiziosi, anche per gravi mancanze, se per esempio li si fa camminare a piedi nudi, se li si costringe, affamati, a servire a tavola, oppure se li si colpisce in qualche altro punto debole”. (J. G. Krüger, Gedanken von der Erziehung der Kinder, 1752, citato in: Rutschky, Katharina: “Schwarze Pädagogik”, pag. 120 e segg.). (Citato in Miller, Alice: pagg. 15-16).

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29, Il persecutore. 2006 Non occorrono altre citazioni per chiarire meglio questi aberranti concetti che non hanno nulla a che vedere con l’amore paterno o materno, che dipingono il rapporto con un bambino di 2-3 anni come una guerra nella quale bisogno sottomettere un nemico e ridurlo all’obbedienza più prona mossa da un terrore abietto, che presentano l’educazione dei propri figli alla loro vita futura come un ridurli in schiavitù. Ecco ora la formulazione che la Miller fa sinteticamente di principi della Pedagogia nera, in queste sue prime tappe della lotta per la difesa dei bambini che ha occupato tutta la sua vita e la sua opera professionale: “È possibile ricavare direttamente i singoli aspetti dai passi citati, dai quali possiamo imparare quanto segue: 1. Gli adulti sono i padroni (anziché i servitori) dei bambini che da loro dipendono. 2. Essi, atteggiandosi a dèi, decidono che cosa sia giusto o ingiusto. 3. La loro collera deriva dai loro conflitti personali. 4. Essi ne considerano responsabile il bambino. 5. I genitori vanno sempre difesi. 6. I sentimenti impetuosi del bambino rappresentano un pericolo per il loro padrone. 7. Si deve “privare” il più presto possibile il bambino della sua volontà. 8. Tutto questo deve accadere molto presto affinché il bambino “non si accorga” di nulla e non possa smascherare gli adulti. I metodi usati per reprimere la vitalità del bambino sono i seguenti: trappole, menzogne e trucchetti astuti, dissimulazione, manipolazione, induzione di paure, sottrazione d’amore, isolamento, diffidenza, umiliazione, disprezzo, derisione, vergogna, impiego della violenza sino alla tortura. Caratteristico della “Pedagogia nera” è anche fornire al bambino, sin dall’inizio, false informazioni e opinioni che si trasmettono di generazione in generazione e vengono accolte dai bambini con rispetto, per quanto non soltanto esse siano indimostrate, ma si possa anche provare che sono false. Tra di esse rientrano, ad esempio, le opinioni seguenti: 1. L’amore può nascere dal senso del dovere. 2. L’odio può essere eliminato a forza di divieti. 3. I genitori meritano rispetto a priori, proprio in quanto genitori. 4. I bambini, a priori, non meritano rispetto.

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5. L’obbedienza fortifica. 6. Un alto grado di auto stima è nocivo. 7. Un basso grado di auto stima favorisce l’altruismo. 8. Le tenerezze sono dannose (amore cieco). 9. È male venire incontro ai bisogni dei bambini. 10. La severità e la freddezza costituiscono una buona preparazione per la vita. 11. Una gratitudine simulata vale più di una sincera ingratitudine. 12. L’agire è più importante dell’essere. 13. I genitori e Dio non sopravvivrebbero ad un’offesa. 14. Il corpo è qualcosa di sporco e disgustoso. 15. L’impetuosità dei sentimenti è nemica. 16. I genitori sono creature innocenti e prive di pulsioni. 17. I genitori hanno sempre ragione. (Miller, Alice: pagg. 51-52). QUATTRO desidera, attraverso un altra piccola citazione dall’opera della Miller, far notare ai lettori del sito che il fatto che egli non abbia recensito quest’opera della Miller con la stessa ampiezza con la quale ha recensito tutto le altre opere dell’Autrice dopo il 1985 (vedi sopra) non significa minimamente che egli pensi che il lettore del sito possa trascurare di studiare a fondo questo testo. Ad ogni passo infatti, egli può trovare illuminazioni e spunti di comprensione per la propria liberazione interiore. Valga come esempio questo breve passaggio, che a parere di QUATTRO - tutti i lettori afflitti da storie sentimentali tormentose che non riescono ad interrompere, potrebbero utilmente meditare: “Ben diverso è invece quanto succede ai bambini, i cui padri hanno accessi di ira, ma poi negli intervalli riescono a giocare di nuovo in modo simpatico con i loro figli. Infatti in questi casi l’odio non può venire coltivato in forma così pura. Questi individui presentano tutt’altro tipo di problemi: si cercano un partner con una struttura di carattere egualmente propenso a comportamenti estremi, si sentono legati a lui con mille catene, non riescono a lasciarlo e continuano a vivere nell’attesa che finalmente si stabilizzi il lato buono, e tornano a disperarsi ad ogni nuova ricaduta. Questi legami sado masochistici, che risalgono alla doppia faccia di un genitore, sono più saldi di un rapporto amoroso, non si possono troncare, e portano a un’autodistruzione permanente dei due partner”. (Miller, Alice: pag. 146). Nel capitolo “L’ira non vissuta”, parlando della triste consuetudine di molti genitori di educare i figli a suon di botte, la Miller dice: “1. Affinché i genitori avvertano il male che stanno facendo ai propri figli, dovrebbero anche avvertire il male che è stato fatto a loro stessi negli anni dell’infanzia. Ma è proprio questo che è stato loro impedito quando erano bambini. Quando l’accesso a tale sapere sia bloccato, i genitori possono pure battere i loro figli, umiliarli o sottoporli ad altre forme di tormento o di supplizio, senza tuttavia accorgersi minimamente di quanto male stiano loro facendo; anzi, essi si sentono addirittura in dovere di farlo. 2. Se la tragedia dell’infanzia di una persona, per il resto onesta e sincera, rimane completamente nascosta dietro le sue idealizzazioni, succede allora che la conoscenza inconscia del vero stato di cose debba cercare altre vie, indirette, per imporsi. Questo avviene tramite la coazione a ripetere. Per motivi a lei incomprensibili, quella persona continuerà costantemente a riprodurre situazioni e ad allacciare relazioni, nelle quali tormenta il partner o viene da lui tormentata, o tutte e due le cose insieme. 3. Siccome il tormentare i propri figli trova la sua legittimazione nel fatto che così facendo si crede di educarli, tutta l’aggressività accumulata trova una naturale e facile valvola di sfogo in quella sede. 4. Dato che le risposte aggressive ai maltrattamenti fisici e psichici subiti dai genitori sono vietate da quasi tutte le religioni, i genitori saranno quindi facilmente indotti a servirsi di tale valvola di sfogo”. (Miller, Alice: pagg. 235-236).

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Ed infine ancora una piccola manciata di citazioni del pensiero della Miller su un tema che ogni lettore del sito dovrà avere ben chiarito dentro di sé quando si accingerà a fare le proprie sedute di auto-aiuto, le quali coinvolgeranno fatalmente i genitori: le citazioni sono prese dal capitolo 8: “Anche la crudeltà non voluta fa male”: “Contrariamente all’opinione corrente le ingiustizie, le umiliazioni, i maltrattamenti e le violenze subite non restano senza effetto. Il fatto tragico è che le conseguenze del maltrattamento si ripercuotono su nuove vittime incolpevoli, anche quando nella coscienza della vittima non ne sia rimasta traccia. Come si può spezzare questo circolo vizioso. La religione sostiene che si dovrebbero perdonare le ingiustizie patite, e solo allora si diventerebbe liberi di amare e ci si purificherebbe dall’odio. Questa è di per sé un’idea giusta; ma dove troviamo la via che porta ad un autentico perdono? Si può forse parlare di perdono, quando non si sa neppure che cosa ci è stato fatto e perché? E proprio questa è la situazione in cui ci trovavamo noi tutti da bambini. Non riuscivamo a capire perché mai venissimo umiliati, messi da parte derisi, trattati come oggetti, come mai si giocasse con noi come con delle bambole o come mai venissimo picchiati a sangue, oppure tutte e due le cose, alternativamente. E ancora non ci era neppure consentito di accorgerci che ci accadeva tutto questo, dato che ci decantavano tutti quei maltrattamenti come misure necessarie, prese per il nostro bene. Neppure il bambino più sveglio e furbo è in grado di smascherare una simile bugia, quando esca dalla bocca dei suoi amati genitori, che però gli mostrano anche altri lati, più amorevoli. Egli non può fare a meno di credere che il genere di trattamenti che gli viene impartito sia veramente giusto e opportuno per lui e non serberà rancore ai suoi genitori per questo. Da adulto si limiterà a comportarsi allo stesso modo con i propri figli, per dimostrare in questo modo che i suoi genitori lo hanno trattato come si doveva. Non è forse questo che la maggior parte delle religioni intende per perdono: castigare “amorevolmente” il proprio figlio, seguendo la tradizione dei padri, ed educarlo al rispetto dei genitori? Ma un perdono che si fonda sul rinnegamento della verità e che si serve di un bambino indifeso come valvola di sfogo, non è vero perdono; è questo il motivo per cui le religioni non riescono a domare l’odio in questo modo, bensì, al contrario, lo esasperano involontariamente. L’intensa ira infantile verso i genitori, che è stata severamente proibita, verrà ora semplicemente spostata su altre persone e sul proprio Sé, non però eliminata, ma al contrario - grazie alla possibilità che si offre di venire legittimamente scaricata sui propri figli - si diffonda come una sorta di peste in tutto il mondo. Perciò non ci si deve meravigliare che esistano guerre religiose, sebbene questo dovrebbe essere una contraddizione in termini. Il vero perdono non “passa sopra” all’ira, ma passa “attraverso” di essa. Solo quando sono in grado di indignarmi per un’ingiustizia che mi è stata fatta, quando riconosco la persecuzione in quanto tale e riesco a riconoscere e odiare il mio persecutore, solo allora mi si apre la via al perdono. L’ira, la rabbia e l’odio repressi cessano di venir perpetuati soltanto se si è in grado di scoprire la storia delle persecuzioni subite nei primissimi anni di vita. Tali sentimenti si tramuteranno nel lutto e nel dolore per il fatto che le cose siano dovute andare proprio a quel modo, e pur in tale rincrescimento lasceranno posto a una comprensione autentica: la comprensione di chi ormai è adulto e riesce ad avere una conoscenza profonda dell’infanzia dei suoi genitori e, finalmente libero dal suo odio, è in grado di nutrire un vero e maturo sentimento di empatia. Non è possibile costringere a donare tale perdono mediante prescrizioni e divieti; esso è nutrito come una grazia e appare spontaneamente quando non ci sia più l’odio represso, perché proibito, ad avvelenare l’animo”. (Miller, Alice: pagg. 221-222). “Appunto perché ci si è permesso di vivere coscientemente quei sentimenti che erano diretti verso i genitori, non si è più costretti a riversarli su persone sostitutive. Soltanto l’odio che si prova per persone sostitutive è inesauribile e inestinguibile, come ci insegna l’esempio di Adolf Hitler, in quanto, sul piano cosciente, il sentimento venne separato dalla persona cui in origine era rivolto”. (Miller, Alice: pag. 225). “Il capire che, pur con tutta la nostra più buona volontà, non siamo onnipotenti, che siamo soggetti a forme di coazione, che non siamo in grado di amare i nostri figli così come vorremmo, ci potrebbe condurre a provare un senso di lutto e di rammarico, ma non a sensi di colpa, perché questi ultimi ci attribuiscono un potere e una libertà che di fatto non abbiamo. Oppressi da sensi di colpa, li scaricheremmo addosso ai nostri figli per legarli così vita natural durante a noi. Invece, con il sentimento del lutto possiamo liberare anche loro.

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Operare una distinzione tra lutto e sensi di colpa potrebbe anche contribuire a rompere il silenzio che regna tra le generazioni a proposito dei crimini del periodo nazista. La capacità di provare rincrescimento e di vivere il lutto è proprio il contrario dei sensi di colpa. Vivere il lutto significa provare dolore per ciò che è successo, e per il fatto che il passato non si possa mutare in alcun modo. Mentre è possibile condividere un dolore insieme ai propri figli senza doversene vergognare, i sensi di colpa si tenta invece di rimuoverli o di trasferirli sui figli, o tutt’e due le cose insieme”. (Miller, Alice: pag. 224). INDICE. Premessa: Le mie posizioni nel 1990. Prefazione. LA PERSECUZIONE DEL BAMBINO: L’EDUCAZIONE COME PERSECUZIONE D’OGNI ELEMENTO VITALE. 1. La “pedagogia nera”. 2. Esiste una “pedagogia bianca”? L’ULTIMO ATTO DEL DRAMMA SILENZIOSO: IL MONDO INTERO È AGGHIACCIATO. 3. Introduzione. 4. La guerra di annientamento contro il proprio sé. 5. L’infanzia di Adolf Hitler: dagli orrori segreti a quelli manifesti. 6. Jürgen Bartsch: retrospettiva di una vita. 7. Considerazioni conclusive. SULLA VIA DELLA RICONCILIAZIONE: ANGOSCIA, IRA E LUTTO, MA NON SENSI DI COLPA. 8. Anche la crudeltà non voluta fa male. 9. Sylvia Plath o la proibizione di soffrire. 10. L’ira non vissuta. 11. Il permesso di sapere. 12. Poscritto.

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DELLE COSE NASCOSTE FIN DALLA FONDAZIONE (*) DEL SITO www.auto-therapy.it ––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––– Essendo giunto il percorso del sito a questo punto, è necessario per QUATTRO fare accenno ad alcuni elementi legati al lato umano di personaggi dei quali nel sito si è riferito a lungo circa le opere ed il pensiero. Qualcuno potrebbe chiedere: “Perché accennare a cose delle quali non si vuole parlare?”. Per due ragioni: 1. Perché nessuno possa in futuro dire che il team del sito ha proposto ad utenti di tutto il mondo una metodica di auto-aiuto ispirata a tecniche di Terapia Primaria, senza sapere che il mondo della Terapia Primaria e dei suoi personaggi ha qualche lato che solitamente non viene citato. Il team del sito è a conoscenza di questi dati. 2. QUATTRO ha preferito parlare personalmente di tali aspetti in modo da poterli accennare in modo che a lui sembra giusto ed utile alla creazione degli strumenti da fornire agli utenti, evitando che altri punti di vista ne possano fare un uso meno indicato. Perciò QUATTRO si è impegnato a documentarsi sull’argomento, cercando qua e là informazioni da fonti diverse. (*) Il titolo vuole espressamente fare riferimento al notissimo libro dello scrittore Girard, René: “Delle cose nascoste fin dalla fondazione del mondo“. La scelta del riferimento è legata al fatto che la sezione accennerà a questioni psicologicamente delicate concernenti personaggi del mondo psicologico. Ma QUATTRO (e con lui tutto il team del sito) pensa che non sia né utile né necessario (per la ricerca della propria verità che ogni utente del sito deve avere come suo unico scopo) che tali aspetti vengano esposti come pettegolezzi. No Gossip, please! Tuttavia (come si è precisato nella nota a proposito del titolo) di per sé queste informazioni, nella loro natura di notizie, non fanno parte degli strumenti che il sito è tenuto (per il suo codice etico) a mettere a disposizione dei possibili utenti. QUATTRO seguirà quindi una propria forma di esposizione, sostanzialmente rifacendo il percorso delle domande che egli stesso si era posto lungo gli anni. PRIMA TAPPA.

QUATTRO acquistò i libri di Alice Miller pubblicati nel 1991 quasi alla loro prima uscita in libreria. In particolare acquistò insieme ”L’Infanzia Rimossa. Dal bambino maltrattato all’adulto distruttivo nel silenzio della società”, e “La fiducia tradita. Violenze e ipocrisie dell’educazione” nel settembre 1991, contemporaneamente al libro “Perché la sofferenza”, di J. Konrad Stettbacher. Queste edizioni egli ha studiato per anni ed usato nel suo lavoro in studio con i pazienti. Gli stessi libri (con le annotazioni che ogni lettore ed ogni professionista fa) ha usato nella stesura dei testi del sito, per rispetto alla forma iniziale della propria conoscenza circa il pensiero della Miller e della tecnica di Stettbacher. Nel 1992, ‘93, ‘94, ‘95, ‘96 ha usato (come variante per lui accettabile della tecnica descritta nel testo di Stettbacher) il metodo delle sedute di auto-aiuto (dapprima scritte, poi - dal 1994 - anche orali), sia personalmente, sia con i clienti in studio. E ne ha approfondito la conoscenza tecnica e le implicazioni psico dinamiche. SECONDA TAPPA.

Ma l’idea del sito era ancora nel grembo di Giove, nel mondo delle idee potenziali. Il primo abbozzo dell’idea del sito nacque (lo abbiamo raccontato) nel gennaio 2000. E subito 3, da perfetta segretaria, incominciò a digitare al computer i testi che QUATTRO scriveva a mano; e si assunse incarichi di archivista e di bibliotecaria. Fornì così a QUATTRO parecchi articoli presi da Internet. In particolare qui saranno citati due articoli scaricati il 23-01-2000.

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TERZA TAPPA.

Il 24 dicembre 1996 comparve su Internet una lunga lettera dal titolo “Thoughts on Alice’s Miller Communication”, scritta da una ragazza olandese che si firmava Janneke. Questa ragazza riferiva di essere stata molto colpita dalla posizione di rifiuto presa da Alice Miller nei confronti della psicoterapia proposta da Stettbacher. Riferiva anche di non avere compreso né trovate esplicative le ragioni che Alice Miller aveva esposto nella sua “Comunicazione ai miei lettori”, per respingere la terapia di Stettbacher. La ragazza sottolineava che la Miller non menzionava alcunché di sbagliato nel concetto sequenziale dei 4 passi. Janneke raccontava di essersi rivolta per lettera a Stettbacher e di averne avuto alcune informazioni aggiuntive che le chiarirono in che cosa lei aveva sbagliato prima, nell’usare la tecnica dei 4 passi. La lettera di Janneke su Internet è lunga (6 pagine) e con molti riferimenti personali che (pur umanamente toccanti) non sono attinenti al tema di questa sezione del nostro sito. Vi rientra invece pienamente un altro aspetto. Le cause che Janneke ipotizza per spiegare sia il rovesciamento della posizione di Alice Miller nei confronti della terapia secondo Stettbacher, sia l’inspiegato rifiuto verso l’uomo Stedbacher, sono probabilmente sbagliate, come lei stessa dice. Tuttavia dalla appassionata pubblica dichiarazione emergono almeno tre conclusioni sicuramente degne di rispetto e di ascolto: 1. Non si può negare l’onestà interiore della pubblica confessione di una persona la quale si definisce ammiratrice di Alice Miller al punto da averla idealizzata ed idolatrata, e di conseguenza (comprensibilmente, al di là del reale comportamento di tale idolo) essersene sentita tradita. 2. Janneke non afferma che Alice Miller sbagli o affermi il falso. Si limita a dichiarare che, a suo modo di vedere, la Miller nella sua “Comunicazione ai miei lettori”, non fornisce un quadro di affermazioni che il lettore possa considerare esauriente. E che giustifichi il passaggio all’opposto dell’Autrice, dalla raccomandazione del metodo (raccomandazione che era stata illustrata e motivata) ad un rifiuto totale (non chiaramente spiegato come motivazioni). 3. Corretta è anche l’altra affermazione di Janneke: la Miller parla dell’uomo Stettbacher, non fa critiche al metodo dei 4 passi, critiche che sarebbero accettabili, mentre non interessano quelle rivolte alla persona. Inevitabile presa di posizione. (“Amicus Plato, sed magis amica veritas”). Come già detto, QUATTRO ha utilizzato per le due citazioni delle opere di Alice Miller l’edizione italiana del 1991. Lo ha fatto non solo per ragioni di “abitudine”, come ha accennato, ma anche per ragioni diciamo così “storiche”, - infatti le parole scritte in tale edizioni sono state pubblicamente dichiarate. Carlo Levi dice, anche se si riferisce alle emozioni ed alle scelte (e non soltanto alle pure idee) che sono al di sotto di una presa di posizione. Ma l’essenza della conclusione non cambia: “... ed è tutta e soltanto in quel continuo discorso senza fine, tutta intera: la sua vita di contadine, il suo passato di donna abbandonata e poi vedova, il suo lavoro di anni, e la morte del figlio, e la solitudine e la casa, e Sciara, e la Sicilia, e la vita tutta, chiusa in quel corso ordinato e violento di parole. Niente altro esiste di lei e per lei, se non questo processo che essa istruisce e svolge da sola, seduta sulla sua sedia di fianco al letto: il processo del feudo, della condizione servile contadina, il processo della mafia e dello Stato. Essa stessa si identifica totalmente con il suo processo e ha le sue qualità: acuta, attenta, diffidente, astuta, abile, imperiosa, implacabile. Così questa donna si è fatta in un giorno: le lacrime non sono più lacrime, ma parole, e le parole sono pietre. Parla con la durezza e la precisione di un processo verbale, con una profonda assoluta sicurezza, come di chi ha raggiunto d’improvviso un punto fermo su cui può poggiare, una certezza: questa certezza che le asciuga il pianto e la fa spietata, è la Giustizia. La giustizia vera, la giustizia come realtà della propria azione, come decisione presa una volta per tutte, e da cui non si torna indietro: non la giustizia dei giudici, la giustizia ufficiale. Di questa, Francesca diffida, e la disprezza questa fa parte dell’ingiustizia che è nelle cose”. (Levi, Carlo: “Le parole sono pietre”).

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Non occorre essere studiosi di metodologia critica storica per pensare che le parole scritte in un libro impegnano l’Autore ad accettare di averle scritte, vi è un onore, ma anche un onere nell’avere affinché fosse letta e meditata) scritta una certa frase, in un determinato contesto, in un anno specifico, con un certo qual ragionevolmente comprensibile effetto sui lettori che l’hanno letta nel libro come è stato pubblicato. Quando era al liceo classico, anche QUATTRO fu costretto a leggere e a studiare capitolo per capitolo (lungo tutto un anno scolastico) il sia pur bel romanzo di Alessandro Manzoni, “I promessi sposi”, allora imposto dai programmi della scuola con una impostazione di ammirazione culturale quasi vicina all’idolatria. Ma ricorda perfettamente che non gli fu mai insegnato che Alessandro Manzoni abbia rettificato semplicemente (in una meditazione successiva) qualche periodo da lui ritenuto inopportuno o mal formulato, rispetto alla prima stesura del suo romanzo, che aveva allora il titolo “Fermo e Lucia”. Gli è stato insegnato che Manzoni aveva semplicemente riscritto il romanzo, dandogli un diverso titolo (“I promessi sposi”) e non aveva più fatto menzione di “Fermo e Lucia”. Ma non scrisse lettere ai suoi lettori per spiegare le ragioni del suo mutamento creativo. E nessun professore si permise mai di leggere brani di “Fermo e Lucia”, e de “I promessi sposi”, a confronto. Scrittori di secoli fa? Insegnanti severi ma con un rigore di professionalità didattica di antica coerenza e rispetto per la verità quale fu storicamente espressa? QUATTRO non saprebbe rispondere. Allora era solo un giovane studente liceale che non si poneva certo queste domande. Oggi, divenuto vecchio, certo si rende conto di una differenza: una cosa è avere scritto un romanzo, altra cosa è avere scritto saggi psicologici. Tuttavia tutti possono rivendicare il diritto del: ––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––– Quod dixi, dixi. Ciò che ho detto, ho detto. ––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––– Non solo Pilato. Ma forse tutti sono anche tenuti a rispettare questa coerenza. Cosicché anche per i lettori sia valido il reciproco del diritto di dire: ––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––– Quod legi, legi. Ciò che ho letto, sono sicuro di averlo letto. ––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––– Comunque, non tema Alice Miller. In questa querelle (più verbale che reale, a giudizio di QUATTRO), tutti i lettori del mondo sono stati sicuramente saldi su alcuni punti indiscutibili: 1. Tutti coloro che hanno letto i libri di Alice Miller hanno perfettamente capito che l’Autrice, in vari suoi libri, parlava della tecnica proposta da un altro Autore, e non di una tecnica di sua propria creazione. Nessun lettore, a parere di QUATTRO, ha mai pensato di attribuire ad Alice Miller eventuali inconvenienti od insuccessi di tale tecnica altrui. 2. Tutti i lettori sono persone adulte, dotate (QUATTRO lo spera per loro) di capacità critica nel valutare, selezionare, accettare o rifiutare le idee proposte in un libro qualsiasi che abbiano letto. Nessuno si è mai sentito (QUATTRO si augura) minimamente obbligato ad accettare una qualsiasi ideologia o tecnica psicoterapeutica solo perché uno scrittore, in un suo libro, ha citato tale ideologia o tecnica di un altro Autore. QUATTRO ne è totalmente convinto, perché ha sempre sentito personalmente il suo inviolabile diritto di prendere da un libro ciò (e soltanto ciò) che gli interessava, e farne l’uso che gli sembrava più utile per se stesso.

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Ha sempre avuto un principio inderogabile, con 2 espressioni: a. I miei doveri di obbedienza (come lettore) nei confronti dell’autore si esprimono completamente e si esauriscono totalmente nel pagare il prezzo di copertina. Delle idee che ne ricavo, e dell’uso che ne faccio per me stesso, sono padrone assoluto ed insindacabile. b. Il secondo ed ultimo mio dovere nei confronti dell’autore è costituito (nel caso io usi per scopi scientifici o letterari una citazione del suo testo) dal fatto di fare la citazione: • Tra virgolette (“..........”) che contengono l’esatto testo originale. • Citando titolo, Editore, città, anno di pubblicazione e pagina citata. • Precisando con frasi standard (tipo: “NOTA BENE: il grassetto è di QUATTRO”) un mutamento del carattere tipografico rispetto a quello originale. Coerentemente con questa visione personale QUATTRO (dopo avere letto, nel settembre 1991 il libro “Perché la sofferenza. Il salutare incontro con la propria storia personale”, di J. Konrad Stettbacher) incominciò a farne oggetto di riflessioni. Progressivamente si sentì in grado di proporre ai suoi clienti (persone maggiorenni e libere nelle loro scelte di accettazione o di rifiuto) l’utilizzo di una variante del metodo descritto nel testo. Si è trattato - fin dall’inizio - di una metodica di auto-aiuto catartico e conoscitivo che i clienti hanno sempre applicato per conto proprio a casa loro, e poi discusso con QUATTRO nella seduta successiva (al ritmo standard massimo di 1 seduta alla settimana, fatta parlando vis à vis, seduti di fronte, ai due lati di una scrivania, in una stanza bene illuminata). Alla fine del 1992 scrisse a Stettbacher esponendogli la propria modalità nell’eseguire le sedute (allora solo per iscritto) e chiedendogli alcune precisazioni e suggerimenti tecnici, in special modo sul problema delle resistenze. Ne ebbe una cortesissima risposta scritta, con l’offerta di scrivere ancora, liberamente, in caso di futuri altri problemi. QUATTRO non ritenne necessario approfittare ulteriormente di tale disponibilità, anche perché aveva l’impressione di poter continuare ad usare il metodo facendo leva sul proprio patrimonio generale di conoscenze psicoterapiche, che ha sempre considerato suo diritto espandere in qualsiasi direzione gli sembrasse interessante da esplorare legittimamente. Anche perché QUATTRO ha sempre condiviso il principio che Alice Miller ha ribadito ne ”L’Infanzia Rimossa. Dal bambino maltrattato all’adulto distruttivo nel silenzio della società” (pagg. 133-133 edizione italiana), riferendo il colloquio avuto con Arthur Janov, in occasione di una visita fatta - nel 1985 - a Parigi, all’Istituto per la Terapia Primaria: “... Io non ritengo tuttavia che un metodo terapeutico possa essere mantenuto riservato con misure a carattere autoritario. È la precisa e accurata descrizione, fatta in modo tale da orientare il lettore, che può semmai trattenere potenziali pazienti e terapeuti dall’abuso. E può aiutarli a sottrarsi all’ignoranza dei terapeuti-pedagoghi che non sanno quello che fanno”. (Miller, Alice: pagg. 132-133). Di conseguenza, non ha ritenuto necessario nemmeno andare a Berna a conoscere personalmente J. K. Stettbacher. Tuttavia sembra che nei 6-12 mesi successivi alcuni (pochi) clienti si siano rivolti a QUATTRO di rimbalzo, in quanto - essendo entrati in contatto con Stettbacher per averne l’opera professionale - si erano sentiti dire che nel Nord Italia vi era uno psichiatra che utilizzava una forma scritta del suo metodo in variante eseguita dal paziente a casa propria. QUATTRO non ama ricevere imposizioni, ma non ama neanche farne ad altri. Non è interessato a questa posizione, non ne sente il diritto o la garanzia del sapere enciclopedico che dell’insegnamento per autorità è la base indispensabile. Di conseguenza si verificò il fatto curioso che tutti i 6-7 soggetti che vennero da varie parti d’Italia per essere addestrati alla metodologia variata (ed ai quali QUATTRO aveva sottolineato la mancanza di basi preliminari di conoscenze indispensabili per un percorso di auto-aiuto compiuto in ragionevole sicurezza) non portarono a termine tale percorso che avevano espressamente chiesto fosse loro indicato. E QUATTRO li lasciò andare per la strada che avevano scelto. La sua convinzione era - allora come oggi - ferma e precisa: l’applicazione (in modalità di auto-aiuto) di una tecnica che porti il soggetto a contatto con le emozioni e i vissuti della propria infanzia richiede tassativamente in questi un lungo addestramento mediante lo studio di molti aspetti delle proprie modalità di relazioni interpersonali. Questo cammino (lo stesso che è stato presentato in questo sito) QUATTRO ha sempre preteso dai suoi clienti, a tutela del loro equilibrio interiore. Coloro che hanno accettato, hanno poi ricevuto tutte le spiegazioni e gli spunti che QUATTRO era stato in grado di accumulare in anni

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di applicazione del metodo e di riflessioni su di esso. Chi non accettava, non proseguiva nel lavoro di addestramento al metodo di auto-aiuto e molte volte - dato il cortese ma fermo dissenso di QUATTRO - dopo poco abbandonava la psicoterapia. Per scelta personale QUATTRO non ha mai voluto accettare di fare cose sulle quali non fosse convinto e concorde. 3. In ultima analisi tutti devono avere ben chiaro che questo sito: ––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––– • Insegna una tecnica di auto-aiuto psicologico. Non è un manuale di addestramento ad una psicoterapia. ––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––– • Non afferma assolutamente che tale tecnica sia adatta ad affrontare tutti i tipi di problemi, né che sortisca sempre effetti miracolosi di risanamento. ––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––– • Non fa riferimento e non utilizza assolutamente la tecnica della Terapia Primaria nella sua forma originaria. ––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––– • Non propone la presenza di nessun psicoterapeuta in rapporto diretto con l’utente (nemmeno in forma di e-therapy online). ––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––– • Non vuole plagiare, manipolare e sfruttare economicamente o psicologicamente nessuno. E pensa proprio di non farlo, dato che non si rivolge a nessun essere umano particolare in carne ed ossa. ––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––– • Non fa pubblicità a nessuna forma di psicoterapia non codificata o non riconosciuta da ordini professionali. ––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––– • Non fa pubblicità a nessun psicoterapeuta in quanto persona fisica. ––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––– In conclusione: non si indigni la Grande Signora che tanto ha parlato in difesa dei bambini. E non estragga contro il povero e umile QUATTRO le armi di rivendicazione legale che minaccia. In altra sezione QUATTRO si è limitato a citare la posizione concettuale esposta da Alice Miller sul tema “Perdonare o non perdonare i genitori”. Non vi sono state altre affermazioni che violassero i suoi desideri. Conscio dei suoi diritti di intellettuale e di professionista che scrive pubblicamente di psicologia (sia pure a livello divulgativo di un sito Internet di auto-aiuto) QUATTRO si aspetta di essere giudicato da qualsiasi utente che legga ciò che egli ha scritto (e perciò anche dall’Autore di qualsiasi pensiero che egli abbia citato) esclusivamente per ciò che egli ha scritto. Non desidera essere interpretato facendo ipotesi su supposte intenzioni che non aveva, o con l’affermazione dell’esistenza di retro-significati che egli non ha inteso mettere nelle parole che ha usato. QUARTA TAPPA.

La “Comunicazione ai miei lettori” di Alice Miller, alla quale - come si è detto - rispose, sempre su Internet, la turbata ammiratrice Janneke. Cercando di comprendere se tale turbamento avesse delle ragioni oggettive, intrinsecamente legate ad affermazioni dello scritto, QUATTRO ha analizzato il testo della comunicazione utilizzando semplicemente la suddivisione in 16 paragrafi fatta dalla Miller stessa. Ne è risultato il seguente schema o indice: ––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––– 1. Premessa: dichiarazione di rifiuto. ––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––– 2. e 3. Dichiarazioni circa l’uomo Stettbacher (non sulla sua metodica in quanto tale). ––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––– 4 a. (Righe 1-5): Concetti a difesa degli ordini professionali. –––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––

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––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––– 4 b. (Righe 5-11): Obbiezione generica al setting della Terapia Primaria (la camera al buio). ––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––– 4 c. (Righe 11-12): Inserimento di un commento su Arthur Janov (?). ––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––– 5. Generico commento critico sugli effimeri effetti dei risultati iniziali della Terapia Primaria. ––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––– 6. Generico commento critico sulla frequente (?) comparsa di sintomi successivi (ansia, comparsa di dipendenza dalla sofferenza). ––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––– 7. Commento critico un po’ più tecnico sulla esagerata efficacia attribuita allo scarico catartico (Ma la brevità del commento ne fa un’affermazione, non una spiegazione documentata). ––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––– 8. Obbiezione del tipo “pars pro toto”: poiché alcuni terapeuti primari sono stati senza scrupoli, ed hanno abusato sessualmente di pazienti, e li hanno manipolati, allora tutta la Terapia Primaria è da rifiutare. È però una obbiezione a uomini scorretti e malvagi, non ad una metodica in quanto inefficace. ––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––– 9. Affermazioni sull’uomo Stettbacher (non sulla sua metodica in quanto tale). ––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––– 10. Alice Miller parla dei suoi limiti personali di 10 anni prima che giustificherebbero il suo appoggio di allora al metodo di Stettbacher. ––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––– 11. Idem come 10. ––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––– 12. e 13. Considerazioni generiche sul futuro della Terapia Primaria (in caso di seria e onesta ricerca scientifica, eticamente corretta, di nuove forme tecniche. Condanna (ovvia) di abusi settari illegali e immorali. ––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––– 14 a. (Righe 1-5): Importanza dello sviluppo di forme terapeutiche nella direzione di tecniche di auto-aiuto. (Nota di QUATTRO: Ma auto-aiuto e Terapia Primaria sono due cose del tutto diverse). ––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––– 14 b. (Righe 5-10): Considerazioni sull’uomo Stettbacher. ––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––– 15 a. (Righe 1-6): Considerazioni generiche sulla psicoterapia (importanza della formazione, della supervisione, dell’appartenenza ad una associazione e dell’adeguamento a standards etici). ––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––– 15 b. (Righe 6-8 ): Formulazione di una decisione personale. ––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––– 15 c. (Righe 8-12 ): Viene ribadita la decisione di rifiuto/distacco. ––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––– 16. Conclusione: Rafforzando il punto del 15 c. viene ribadita la decisione di rifiuto. Possibilità di citazione legale in giudizio. ––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––– CONCLUSIONI.

Duole a QUATTRO dovere concludere che su un totale di 3 pagine di testo (per complessive 115 righe): ––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––– 4 b. (Righe 5-11): righe di obbiezione generica al settino della Terapia Primaria (stanza al buio - Pag. 1). ––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––– 5. Cinque righe di generico commento critico sugli effimeri effetti dei momenti iniziali della Terapia Primaria. –––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––

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––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––– 6. Sette righe di generico commento critico sulla frequente (?) comparsa di sintomi successivi (ansia, comparsa di dipendenza dalla sofferenza - Pag. 2). ––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––– 7. Otto righe di commento critico un po’ più tecnico (ma in forma di affermazione, non di spiegazione documentata) sulla esagerata efficacia terapeutica attribuita allo scarico catartico. ––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––– Escludendo le considerazioni sugli abusi illegali e delinquenziali della Terapia Primaria e le considerazioni futuribili su sviluppi onesti di nuove forme di Terapia Primaria (specialmente nella direzione di auto-aiuto, che però non è Terapia Primaria), si ha quindi la seguente somma: Su 3 pagine (115 righe), soltanto 27 righe (cioè poco più di mezza pagina) costituiscono le obbiezioni tecniche fornite nella sua “Comunicazione ai miei lettori” da Alice Miller, per spiegare il suo rifiuto della Terapia Primaria nella variante proposta da Stettbacher. E si tratta sostanzialmente di: • Obbiezioni generiche, • Presentate in forma di affermazione. Troppo poco per essere considerata una comunicazione sconvolgente, cara Janneke, pensa QUATTRO. E gli viene in mente il titolo che Shakespeare ha dato ad una sua opere: ––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––– Much adoo for nothing. Molto rumore per nulla. ––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––– Faticosamente QUATTRO ha dovuto rimettersi in cerca di altre informazioni per capire ciò che anche a lui era apparso misterioso. E per trovare tali informazioni ha seguito semplicemente le indicazioni fornite da Alice Miller stessa, nei riferimenti che l’Autrice fa (nel corso della “Comunicazione ai miei lettori”) ad alcune sue interviste. QUATTRO si è procurati gli articoli originali ma una volta avutane la traduzione in italiano (tutti gli articoli originali sono in lingua tedesca) il suo impulso di cercare di capire che cosa ci fosse dietro il rifiuto della Miller si è completamente spento. QUATTRO è una persona in fondo timida, tendenzialmente molto riservata. Non ama che gli altri curiosino nella sua vita privata, ma non ama nemmeno curiosare nella vita privata degli altri, per una sorta di pudore mentale. Dal punto di vista professionale è interessato agli aspetti di una tecnica creata da un Autore, non ai lati umani di tale Autore. La tecnica (con le sue implicazioni di soggiacente psico dinamica che essa fa intravedere nell’animo dell’uomo al quale viene applicata; e la possibilità di utilizzare questo strumento per dare sollievo alle sofferenze di quest’uomo), è tutto ciò che uno psicoterapeuta dovrebbe mirare a conoscere per realizzare la sua missione medica. Inoltre - in se stessi - tutti questi elementi costituiscono una costruzione, una architettura mentale talmente bella da far pensare ad una grande cattedrale gotica. Anche per questa ragione non vi è bisogno di altri elementi (come notizie personali) che suonerebbero piccini e irrilevanti. Con ciò non si sta dicendo che i 4 articoli, che sono stati letti con estrema attenzione, non fossero saggi giornalistici pregevoli. Ma dagli spunti di piccola cronaca quotidiana e dagli aspetti umani che si intravedono da questi spiragli, emergevano immagini fortemente dissonanti. Erano come una folla di turisti vocianti dinanzi alla cattedrale, intenti a fotografarsi a beneficio dei lontani parenti; oppure seduti a gambe larghe, sfatti dalla fatica, sulle gradinate della cattedrale, ad addentare insipidi panini da snack bar. Turbato da queste immagini, quelle di una donna di ingenuità quasi inimmaginabile, non meno che da quelle che mostravano i lati oscuri di un uomo, QUATTRO si consigliò con un collega psichiatra con il quale stava discutendo la possibilità di utilizzare una qualche variante del metodo di auto-aiuto con i pazienti seguiti dalla struttura pubblica di assistenza psichiatrica. Entrambi si trovarono d’accordo nel pensare responsabilmente che:

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1. Tutto il polverone di questa vicenda personale non aveva nulla a che vedere con la metodica di auto-aiuto basata sulla sequenza dei 4 passi, la quale rimaneva indiscussa. 2. In rapporto ad aspetti umani degli Autori, la conclusione fu: una anestesista con forte ipotensione arteriosa può ben preparare un paziente sofferente di appendicite ad essere efficacemente operato con la tecnica descritta da un chirurgo sofferente di ulcera gastrica. E questa conclusione a quattro mani fu la fine di ogni scrupolo deontologico di QUATTRO circa la tecnica di auto-aiuto. Dopo queste ricerche sugli articoli pubblicati nel 1995-1996, QUATTRO non cercò più altre informazioni. Ciò avvenne anche sull’onda della dignitosissima risposta - piena di sincera gratitudine - data a QUATTRO da Mariella Mehr. La storia è la seguente: Nei primi anni dopo il 1991, QUATTRO cercava in molti modi di carpire aspetti tecnici della terapia, per arricchire la propria impostazione. Nel 1993 vide su un quotidiano un articolo che annunciava una settimana di film d’essai. Mariella Mehr avrebbe fatto da ospite d’onore al tavolo della presidenza. QUATTRO conosceva il libro “Steinzeit” (“Età della pietra”) di Mariella Mehr dalla recensione entusiasta di Alice Miller nelle ultime pagine de “La persecuzione del bambino. Le radici della violenza”. “Steinzeit”, non era stato allora ancora pubblicato in Italia. QUATTRO se ne procurò una copia nell’originale tedesco, che fece tradurre (confrontando poi la traduzione con la versione francese che si era successivamente procurata). Lo scopo di QUATTRO era individuare aspetti della tecnica dalla narrazione di una persona che era stata in terapia da Stettbacher stesso. In verità, non ricavò elementi nuovi particolari, forse per il taglio “letterario” e non clinico del libro. Pensando tuttavia che il testo della Mehr potesse comunque essere interessante per molte persone sofferenti, ne propose la pubblicazione a 2 grandi case editrici (chiedendo soltanto la cortesia che come traduttore venisse scelto il traduttore che aveva fornito a QUATTRO la versione italiana di “Steinzeit”). Trovò da una editrice silenzio indifferente senza risposta, dall’altra una educata risposta di non interesse. Il libro di Mariella Mehr è stato poi (del tutto indipendentemente) pubblicato da Guaraldi Editore-AIEP. Vista la possibilità di porre delle domande di persona alla Mehr per prudenza linguistica si fece accompagnare da un interprete residente nella città dove venivano proiettati i film. Purtroppo vi fu un fraintendimento nei passaggi linguistici del colloquio a tre, condotto in tedesco. QUATTRO non sapeva allora nulla della vicenda tra la Miller e Stettbacher ed il suo scopo era semplicemente sapere notizie tecniche sul modo con cui quest’ultimo lavorava (tipo di interventi, eventuale uso di registratore e modalità di riascolto della seduta, frequenza delle sedute stesse e loro durata, ecc). Forse perché QUATTRO non era riuscito a spiegare bene all’interprete ciò che voleva sapere, forse perché la traduzione risultò più letteraria e globale che tecnica e analitica, di fatto Mariella Mehr ebbe probabilmente l’impressione che QUATTRO volesse sapere indiscrezioni su comportamenti umani di Stettbacher. La Mehr, con grande finezza, rispose quindi: “I pettegolezzi non mi interessano. Stettbacher ha tutta la mia riconoscenza perché mi ha aiutato molto. E non ha voluto niente altro in cambio”. E QUATTRO non ebbe più la possibilità di sapere come veniva fatto il lavoro in seduta. Dovette quindi ritornare a pensare da solo alla tecnica delle sedute, al come farne scaturire risultati utili ai pazienti, ed al come interpretare tali risultati. Nello steso modo ora procederà in rapporto ai 4 articoli in questione. Essi sono: 1. Stamm, Hugo: “Die Flucht in die Falle” (La fuga nella trappola), intervista di Hugo Stamm (autore di un libro sulle sette: “Le Sette. Manipolazione, potere, schiavitù: consigli per liberare e liberarsi”), ad Alice Miller, per il quotidiano “Tages Anzeiger” di Zurigo, uscita nell’inserto Das Magazin, Aprile 1995. 2. Tischy, Gerhard: “Das Psycho - Geschaft und die Wurde des Patienten” (Il mercato della psiche e la dignità del paziente), intervista di Gerhard Tischy, neurologo e psicoterapeuta di Berlino, ad Alice Miller e pubblicata dalla rivista “Psychologie Heute”, Aprile 1995.

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3. Matter, Katherina: “Was denkst Du, wem sie glauben werden?” (Cosa pensi, a chi crederanno?), intervista di Katherina Matter ad una donna che 18 anni prima era stata in cura da Stettbacher, pubblicata sul quotidiano di Berna “Der Bund”, 4 juli 1995. Sul quotidiano segue un articolo di commento psicologico dal titolo: “Sexualitat in der Pssychotherapie?” (“Der Bund”, 4 juli 1995) firmato dal Dott. Alexander Wildbolz, psichiatra e psicoterapeuta FMH e membro della Società Elvetica di Psicoanalisi di Berna. 4. Lukesch, Barbara - Elsner, Constanze: “Das Drama der begabtene Dame” (Il dramma della Donna dotata), pubblicato sul settimanale FACTS n° 26/1995 (presumibilmente uscito a fine giugno - primi luglio 1995, ma pervenuto a QUATTRO in fotocopia senza indicazione della data esatta). È un articolo in cui 2 giornaliste (Barbara Lukesch e Constanze Elsner) tracciano un quadro completo della vicenda (incominciata agli inizi degli anni Ottanta). Con serena obiettività di narrazione dei fatti nella loro sequenza, le due giornaliste mettono in evidenza non solo gli aspetti riferibili ai comportamenti attribuiti a Stettbacher, ma anche il peso di intensi entusiasmi e di quasi incredibili ingenuità di Alice Miller nei confronti dell’uomo Stettbacher. All’articolo segue una più breve intervista che Barbara Lukesch ha fatto al Dott. Arno Gruen, psicoanalista di Zurigo, dal titolo: “Sexueller Missbrausch: Man muss die Mauer des Schweigens brechen” (Abuso sessuale: bisogna rompere il muro del silenzio). Chi fosse interessato può mettersi in contatto con le testate in questione. E con questo QUATTRO chiude la presente sezione ricordando il modo di dire latino: ––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––– Et de hoc satis. E adesso basta parlare di questo argomento. ––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––– Bene, hai completato la sezione “Alice Miller”. Se non ti senti stanco, puoi proseguire con il punto 8 del percorso del sito, relativo a “Terapia Primaria”.