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Capitolo 1 “LEZIONI INTRODUTTIVE” 1. Premessa Nel diritto amministrativo sostanziale, la garanzia del cittadino nei confronti della Pubblica amministrazione ha un rilievo primario: la stessa evoluzione recente del diritto amministrativo riflette la ricerca di sempre nuovi equilibri fra l’Amministrazione, che deve disporre di strumenti adeguati per attuare le finalità assegnatele e il cittadino, che deve essere garantito da comportamenti arbitrari o da sacrifici indebiti imposti dall’Amministrazione. Nello Stato di diritto più evoluto questo equilibrio è ricercato principalmente nel principio di legalità, che subordina il potere dell’Amministrazione a regole predeterminate, nel rispetto del diritto e senza ledere gli interessi giuridicamente riconosciuti dai cittadini. Il diritto amministrativo identifica regole che valgono anche a garanzia del cittadino. La garanzia del cittadino nei confronti dell’Amministrazione non è riservata agli istituti di giustizia amministrativa. Gli istituti “di giustizia” svolgono solo un ruolo suppletivo: la loro utilità consiste, in genere, nell’assicurare un rimedio quando il diritto sostanziale non venga osservato. 2. Gli istituti della giustizia amministrativa Con l’espressione “giustizia amministrativa” sono designati alcuni istituti diretti ad assicurare la tutela dei cittadini nei confronti dell’Amministrazione. Nel nostro ordinamento questi istituti sono stati elaborati per la tutela del cittadino che abbia subito una lesione da un’attività amministrativa. L’intervento del cittadino nel procedimento amministrativo si colloca in una logica differente rispetto agli istituti di giustizia amministrativa. Gli strumenti di partecipazione al procedimento amministrativo sono diretti ad 1

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Capitolo 1

“LEZIONI INTRODUTTIVE”

1. Premessa

Nel diritto amministrativo sostanziale, la garanzia del cittadino nei confronti della

Pubblica amministrazione ha un rilievo primario: la stessa evoluzione recente del

diritto amministrativo riflette la ricerca di sempre nuovi equilibri fra

l’Amministrazione, che deve disporre di strumenti adeguati per attuare le finalità

assegnatele e il cittadino, che deve essere garantito da comportamenti arbitrari

o da sacrifici indebiti imposti dall’Amministrazione. Nello Stato di diritto più

evoluto questo equilibrio è ricercato principalmente nel principio di legalità,

che subordina il potere dell’Amministrazione a regole predeterminate, nel

rispetto del diritto e senza ledere gli interessi giuridicamente riconosciuti dai

cittadini.

Il diritto amministrativo identifica regole che valgono anche a garanzia del

cittadino. La garanzia del cittadino nei confronti dell’Amministrazione non è

riservata agli istituti di giustizia amministrativa. Gli istituti “di giustizia” svolgono

solo un ruolo suppletivo: la loro utilità consiste, in genere, nell’assicurare un

rimedio quando il diritto sostanziale non venga osservato.

2. Gli istituti della giustizia amministrativa

Con l’espressione “giustizia amministrativa” sono designati alcuni istituti diretti

ad assicurare la tutela dei cittadini nei confronti dell’Amministrazione. Nel nostro

ordinamento questi istituti sono stati elaborati per la tutela del cittadino che

abbia subito una lesione da un’attività amministrativa. L’intervento del cittadino

nel procedimento amministrativo si colloca in una logica differente rispetto agli

istituti di giustizia amministrativa. Gli strumenti di partecipazione al

procedimento amministrativo sono diretti ad assicurare uno svolgimento corretto

ed equilibrato della funzione amministrativa e non a rimediare ai vizi e alle

manchevolezze di una funzione già svolta.

Una parte della dottrina, nel porre in evidenza gli elementi caratteristici della

giustizia amministrativa, ha preso in esame il rapporto tra istituti di giustizia

amministrativa e controlli sull’attività amministrativa. Anche i controlli sugli atti

sono previsti per assicurare la regolarità e la correttezza dell’azione

amministrativa e in genere riguardano un’attività amministrativa già conclusa. Si

incentrano, in genere, sulla verifica della legittimità dell’atto amministrativo; più

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raramente sulla verifica della sua opportunità (c.d. controlli di merito). Un criterio

distintivo fra i controlli e gli istituti tipici della giustizia amministrativa sarebbe

identificabile nel fatto che i controlli attuerebbero un interesse oggettivo (ossia

l’interesse alla conformità dell’operato dell’amministrazione al diritto, o a regole

tecniche, o a criteri di efficienza), mentre gli istituti di giustizia amministrativa

assicurerebbero in modo specifico l’interesse del cittadino, tanto che tale

interesse, non solo determina l’avvio del procedimento, ma ne condiziona anche

lo svolgimento e il risultato.

Gli istituti di giustizia amministrativa non si esauriscono negli strumenti per la

tutela “giurisdizionale” dei cittadini nei confronti della pubblica amministrazione:

di conseguenza la distinzione tra i controlli e gli istituti di giustizia

amministrativa non può essere ricercata nei caratteri specifici della funzione

giurisdizionale.

Fra gli istituti di giustizia amministrativa sono compresi anche i ricorsi

amministrativi: con essi la contestazione del cittadino è proposta ad un organo

amministrativo e la decisione è assunta con un atto amministrativo, senza alcun

esercizio di funzione giurisdizionale. La controversia si svolge ed è risolta

nell’ambito dell’attività amministrativa. Ma, non si ha, neppure per i ricorsi

amministrativi, l’esercizio di un’attività assimilabile a quella di controllo: nei

ricorsi, il potere di annullamento è esercitato in seguito all’iniziativa di un

cittadino che fa valere un suo proprio interesse e tale interesse rappresenta la

ragione e identifica il limite dei poteri conferiti all’autorità decidente.

3. Le ragioni di un sistema di giustizia amministrativa

Nel nostro ordinamento, ed in generale, nei Paesi dell’Europa continentale gli

istituti di giustizia amministrativa si caratterizzano per la loro separatezza

rispetto agli strumenti ordinari di tutela del cittadino. La giustizia amministrativa

in questi Paesi si contrappone così alla giustizia “comune”, che tutela i cittadini

nei loro rapporti con soggetti equiordinati. Sulla giustizia comune domina il ruolo

dell’autorità giurisdizionale ordinaria, che appartiene ad un ordine

autonomo, qualificata da imparzialità e indipendenza.

Gli istituti di giustizia amministrativa sono strettamente dipendenti

dall’evoluzione nei rapporti fra cittadino, Amministrazione e autorità

giurisdizionale (ordinaria), ma in varia misura sono stati puntualmente

condizionati dalle vicende particolari dei singoli Paesi. Uno dei modelli più

significativi è quello francese. In Francia è radicato un sistema di contenzioso

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amministrativo nel quale le controversie tra il cittadino e la l’Amministrazione

sono sottratte al giudice e devolute ad un giudice speciale ( in origine il Consiglio

di Stato e poi anche i Tribunali amministrativi di primo grado e d’appello). Si

tratta di un giudice inquadrato nel Potere esecutivo, la cui giurisdizione è

pienamente separata da quella ordinaria, con la conseguenza che non si può

ricorrere al giudice ordinario contro la decisione del giudice speciale, né

viceversa.

Un modello profondamente diverso è quello accolto originariamente in Belgio: la

costituzione del 1831 stabilì che anche nei confronti della Pubblica

amministrazione il sindacato giurisdizionale fosse riservato al giudice ordinario

( regola superata nel secondo dopoguerra, con l’introduzione di un giudice

speciale).

In Germania, invece, dopo la riforma del 1960, la giurisdizione amministrativa è

intesa come giurisdizione su diritti e si esercita nelle vertenze concernenti il

diritto pubblico: i giudici amministrativi sono ormai pienamente autonomi dal

potere amministrativo e ricevono una collocazione piuttosto nell’ambito

dell’ordine giudiziario.

In Italia si è passati da un sistema di contenzioso amministrativo, modellato su

quello francese, ad un sistema di giurisdizione unica (1865) e poi ad un sistema

articolato in una giurisdizione del giudice ordinario e una giurisdizione del giudice

amministrativo (1889); negli ultimi anni si è manifestata la spinta ad una

maggiore omogeneità fra giudici ordinari e giudici amministrativi, con una serie

di problemi nuovi, che hanno tratto argomento anche dal testo della Costituzione

( art.103, 1°comma Cost.).

Due motivi diversi costituiscono i problemi nodali affrontati da ogni sistema di

giustizia amministrativa: le ragioni di specificità dell’Amministrazione e

l’esigenza di una tutela effettiva del cittadino anche nei confronti

dell’Amministrazione-autorità. Il primo motivo suggerisce strumenti di tutela

diversi da quelli ordinari e addirittura forme di tutela diverse da quelle

giurisdizionali, il secondo ha indotto spesso a considerare come modello la

giustizia “comune”, nella quale alla parità di posizioni delle parti corrisponde

l’elaborazione delle tecniche più raffinate di tutela del singolo.

L’Amministrazione però, non si presenta sempre necessariamente come

autorità; nel nostro ordinamento è testimoniata anzi da una vivace tendenza a

favore del ricorso a strumenti di diritto privato, anche quando l’Amministrazione

persegua una finalità pubblica. In alcuni casi, l’Amministrazione opera come

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soggetto equiordinato agli altri, rispetto al quale valgono le medesime regole che

valgono nei rapporti privati.

4. Le origini della giustizia amministrativa: cenni al sistema francese

La concezione dell’Amministrazione come soggetto tipicamente diverso dagli

altri si affermò nelle prime fasi dello Stato liberale, nel contesto del principio di

separazione dei poteri. Nella Francia degli ultimi decenni del XVIII sec. e degli

anni della Rivoluzione, con questo principio si intendeva che il Potere esecutivo

dovesse essere un potere distinto dagli altri; l’Esecutivo non poteva arrogarsi

poteri del giudice ordinario ma i suoi atti non dovevano essere soggetti al

sindacato dei giudici. In Francia, le origini di questa immunità riflettevano un

contrasto secolare fra il Governo e i Parlamenti. I Parlamenti erano giudici

superiori d’appello e rivendicavano una competenza anche nelle vertenze contro

gli atti dell’Amministrazione, entrando spesso in conflitto con le autorità

amministrative. La fine dell’Ancien régime travolse anche i Parlamenti e nel

1789-1790 prima l’Assemblea nazionale e poi l’Assemblea costituente sancirono

che gli organi giurisdizionali non avrebbero potuto intervenire

sull’Amministrazione.

Nella Rivoluzione francese si affermò il principio della “responsabilità”

dell’Amministrazione nei confronti dell’Assemblea legislativa: erano previste

forme di controllo a garanzia della legalità degli atti amministrativi, che

trovavano fondamento e svolgimento anche nell’ordinamento gerarchico. In

particolare a favore del cittadino era previsto un rimedio specifico: il ricorso

gerarchico. Questo ricorso era diretto all’organo gerarchicamente sovraordinato

a quello che aveva emanato l’atto lesivo e comportava, da parte di tale organo,

la verifica della legalità dell’atto impugnato. Per rendere più serio l’esame del

ricorso gerarchico, l’ordinamento francese prevedeva che i ricorsi venissero

decisi dalle autorità competenti, dopo aver acquisito il parere di alcuni organi

consultivi. Fra questi il più importante fu il Consiglio di Stato. Con la Costituzione

del 1848 e con una legge del 24 maggio 1872, al Consiglio di Stato fu

riconosciuta anche la competenza a decidere il ricorso, senza sanzione del Capo

dello Stato ( come avveniva precedentemente). La riforma del 1872 attribuì al

Consiglio di Stato i caratteri di organo giurisdizionale. Risultava istituito un

giudice capace di sindacare la legittimità degli atti dell’Amministrazione, senza

però deroghe o attenuazioni rispetto al principio della separazione dei poteri,

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perché competente a sindacare gli atti dell’Amministrazione era il Consiglio di

Stato, autorità ben distinta dai giudici ordinari.

5. Modelli monistici e modelli dualistici.

La distinzione tra modelli monistici e modelli dualistici è stata proposta per

classificare i diversi sistemi di tutela giurisdizionale del cittadino nei confronti

della Pubblica amministrazione. In base a tale distinzione, nei modelli monistici,

la tutela giurisdizionale del cittadino, nei confronti della Pubblica

amministrazione, viene attribuita prevalentemente ad un solo giudice; nei

modelli dualistici, invece, la giurisdizione nei confronti della Pubblica

amministrazione, è assegnata al giudice ordinario e al giudice speciale su un

piano di parità. A questo modello (dualistico) sarebbe riferibile oggi il sistema

italiano, caratterizzato dalla distribuzione delle competenze fra giudice ordinario

(civile) e giudice speciale (T.a.r. e Consiglio di Stato), in relazione alle posizioni

soggettive coinvolte. Questa classificazione, però, non ha un valore assoluto. In

Francia, ad esempio, determinate controversie con l’Amministrazione vengono

demandate al giudice ordinario, o perché relative a rapporti in cui

l’Amministrazione compare come soggetto di diritto comune, o perché

riguardano posizioni di libertà o particolari diritti del cittadino.

Neppure il modello italiano segue, in modo pieno, questa classificazione, perché

in alcuni ambiti, la competenza del giudice amministrativo non dipende dalla

configurabilità di una posizione soggettiva come interesse legittimo, ma dipende

dall’inerenza della controversia a una certa materia (c.d. giurisdizione esclusiva

del giudice amministrativo). Inoltre, nei casi in cui si discuta se la giurisdizione

sulla controversia spetti al giudice ordinario o al giudice speciale, dal 1877 è

demandato alla Cassazione decidere il conflitto. Spetta, dunque, ad un giudice

ordinario definire i limiti della giurisdizione del giudice speciale.

Capitolo 2

“LE ORIGINI DEL NOSTRO SISTEMA DI GIUSTIZIA AMMINISTRATIVA”

1. La giustizia amministrativa nel Regno di Sardegna

Il modello del contenzioso amministrativo francese fu accolto anche in Italia

nell’epoca napoleonica, dove ricevette applicazioni. Tale modello fu soppresso

quasi ovunque in Italia con la Restaurazione, ma non cessò per questo di

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rappresentare un modello significativo. Tant’è vero che già prima della prima

guerra d’indipendenza, quasi tutti gli Stati italiani avevano introdotto

ordinamenti coerenti con questo modello.

Nel Regno di Sardegna con editto 18 agosto 1831 Carlo Alberto costituì un

Consiglio di Stato, con funzioni consultive, articolato in tre sezioni: sezione

dell’Interno, sezione di Giustizia, Grazia ed affari ecclesiastici, sezione di Finanza.

Lo stesso editto stabiliva che il parere del Consiglio di Stato dovesse essere

acquisito obbligatoriamente, prima dell’adozione di certi atti (atti con forza di

legge, regolamenti, conflitti, conflitti fra “giurisdizione giudiziaria” e

amministrazione, bilancio generale dello Stato, liquidazioni del debito pubblico).

Al Consiglio di Stato l’editto assegnava, infine, alcuni particolari competenze

contenziose (art.29 ss.).

Con le regie patenti del 1842, ben presto modificate con un regio editto del 29

ottobre 1847, fu istituito un vero e proprio sistema di contenzioso

amministrativo. Il sistema si fondava, innanzi tutto, sulla distinzione fra

controversie riservate all’Amministrazione e controversie di <<amministrazione

contenziosa>>. Alcune controversie erano riservate alla giurisdizione del giudice

ordinario (giurisdizione giudiziaria) e fra esse un significato particolare

rivestivano le questioni inerenti al diritto di proprietà (art.4).

Al Consiglio di intendenza e alla Camera dei conti la giurisprudenza civile

riconobbe carattere di organi giurisdizionali. Il ruolo di questi giudici speciali fu

oggetto di polemiche, soprattutto dopo che lo Statuto albertino (art.68 ss.)

enunciò come regola la riserva della funzione giurisdizionale al giudice

ordinario.

Una serie di decreti reali del 30 ottobre 1859, ispirati dal Rattizzi, accolsero e

confermarono il sistema del contenzioso amministrativo, articolato ora in Consigli

di governo, organi di primo grado, designati anche come <<giudici ordinari del

contenzioso amministrativo>> e Consiglio di Stato, organo principalmente di

secondo grado.

Si delineava il seguente quadro:

a) Era esclusa da qualsiasi tipo di sindacato giurisdizionale la c.d.

amministrazione economica ( attività amministrativa non disciplinata da

norme di legge e rimessa a valutazioni dell’Amministrazione).

b) In alcune materie, la tutela dei cittadini nei confronti dell’Amministrazione era

demandata ai giudici ordinari del contenzioso amministrativo, ossia al

sistema articolato nei Consigli di Governo e nel Consiglio di Stato. In particolare

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ad essi spettavano le controversie sui contratti d’appalto delle Pubbliche

amministrazioni , per imposte dirette e tasse, quelle sul trattamento economico

del personale dipendente dagli enti locali.

c) In altre materie la tutela dei cittadini era demandata a giudici speciali del

contenzioso amministrativo. Questo era il caso delle controversie in materia

di contabilità pubblica, demandate alla Corte dei Conti e delle controversie in

materia di pensioni, demandate al Consiglio di Stato.

Negli altri casi la competenza spettava al giudice ordinario, ossia ai giudici

civili.

Un sistema del genere lasciava ampio spazio alla possibilità di conflitti positivi o

negativi, fra amministrazione e giudici, fra giudici del contenzioso amministrativo

e giudici ordinari.

La disciplina per la loro risoluzione fu introdotta con la legge 20 novembre 1859.

In base a questa legge il conflitto poteva essere sollevato anche dal

rappresentante locale del potere esecutivo (allora il Governatore, in seguito il

Prefetto). La decisione dei conflitti era assunta con decreto reale, previo parere

del Consiglio di Stato, su proposta del Ministro dell’Interno, sentito il Consiglio dei

Ministri. Era però evidente che la decisione effettiva spettava al Ministro

dell’Interno, che formulava la proposta del decreto. Il sistema sanciva, in questo

modo, una prevalenza dell’autorità amministrativa su quella giurisdizionale. Ai

giudici ordinari del contenzioso amministrativo non erano conferiti poteri di

annullamento rispetto agli atti amministrativi dedotti in giudizio.

Il giudice ordinario del contenzioso amministrativo, inoltre, riteneva di poter

esercitare un potere d’interpretazione degli atti amministrativi e ciò significava

che l’atto dell’Amministrazione non costituiva di per sé un limite ai suoi poteri.

In ogni caso, se l’atto amministrativo risultava in contrasto con la legge, il

giudice prescindeva da esso ai fini della decisione.

2. Il declino dei tribunali del contenzioso amministrativo.

Le discussioni, sul tema in atto, non furono superate dalla riforma del 1859. Ne è

prova il fatto che quasi subito dopo furono sottratte, alla giurisdizione dei giudici

ordinari del contenzioso amministrativo, alcune vertenze precedentemente di

loro competenza. In particolare fu sottratto ad essi il contenzioso fiscale.

A sostegno del sistema del contenzioso amministrativo risultavano invocati

tre ordini di considerazioni:

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- la tutela dell’interesse pubblico. Era considerato essenziale che l’attuazione

dell’interesse pubblico non fosse ostacolata da un intervento del giudice;

attraverso un sistema di contenzioso amministrativo sembrava che questa

esigenza fosse meglio garantita.

- l’esclusione delle garanzie di inamovibilità ed imparzialità previste per i giudici

ordinari, che avrebbe consentito di far valere, in modo più efficace, la

responsabilità dei giudici del contenzioso amministrativo.

- la specialità del diritto dell’Amministrazione. Le controversie riguardavano

istituti diversi da quelli del diritto comune; per questo era opportuno che fossero

demandate ad un giudice diverso da quello ordinario.

Questi argomenti erano vivamente criticati dagli oppositori dei modelli di

contenzioso amministrativo.

Essi sostenevano l’esigenza che anche le controversie fra l’Amministrazione ed il

cittadino fossero assegnate al giudice ordinario, estraneo all’Amministrazione e

dotato di tutte le garanzie previste per i giudici ordinari. In ogni giurisdizione

speciale sembrava annidarsi, invece, il privilegio dell’Amministrazione.

3. La legge 20 marzo 1865 n.2248

Da un lato si afferma l’esigenza di un giudice speciale, che abbia un’esperienza

specifica in un settore del diritto diverso da quello comune; dall’altro si teme che

l’introduzione di un giudice speciale si risolva in un regime processuale

privilegiato per l’Amministrazione, incompatibile con l’ideologia dello Stato

liberale.

Il dibattito raggiunse il suo culmine nelle discussioni alla Camera sull’assetto

della giustizia amministrativa, subito dopo l’Unità. Le discussioni condussero

all’approvazione di una legge che aboliva i giudici ordinari del contenzioso

amministrativo: la legge 20 marzo 1865, n.2248, allegato E (c.d.legge di

abolizione del contenzioso amministrativo).

Tale legge attuò, in alcuni settori nodali, l’unificazione dell’ordinamento

amministrativo italiano, abrogando le discipline degli Stati preunitari. Era

costituita da sei testi normativi, designati come “allegati” alla legge stessa. Dei

temi della giustizia amministrativa si interessano l’allegato D e soprattutto

l’allegato E.

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- L’allegato D disciplinava l’assetto del Consiglio di Stato. Non erano previste

particolari garanzie di indipendenza né per quanto riguarda la nomina dei suoi

componenti, né per quanto riguarda la loro inamovibilità; la continuità con

l’Amministrazione era sottolineata dalla possibilità per i Ministri di intervenire alle

sedute direttamente o attraverso delegati (art.20).

Fu confermata l’articolazione in tre sezioni, che in alcuni casi operavano

collegialmente in adunanza generale (art.12 ss.). Il Presidente del Consiglio di

Stato poteva formare, per l’esame di questioni particolari, Commissioni speciali,

designando i consiglieri che ne avrebbero fatto parte (art.21).

Al Consiglio di Stato erano assegnate competenze consultive (art.7 ss.) ed in

alcuni casi il parere del Consiglio di Stato era obbligatorio: proposte di

regolamenti generali di Pubblica amministrazione e ricorsi fatti dal Re contro la

legittimità di provvedimenti amministrativi. Si faceva riferimento al ricorso al Re,

designato come “ricorso straordinario” perché poteva essere proposto solo dopo

l’esaurimento dei rimedi ordinari, ossia dei ricorsi gerarchici.

In alcune ipotesi tassative, il Consiglio di Stato esercitava funzioni giurisdizionali,

come giudice speciale (art.10). Dall’allegato D, furono assegnate al Consiglio

di Stato, come giudice speciale competenze minori, per controversie in materia

di debito pubblico e di sequestri di beni ecclesiastici. In questi casi il

procedimento aveva carattere contenzioso e la decisione poteva comportare

l’annullamento dell’atto amministrativo. Al Consiglio di Stato, come giudice

speciale, fu conferita una competenza di particolare rilevanza: la risoluzione dei

conflitti fra l’Amministrazione e autorità giurisdizionale (art10, n.1).

- L’allegato E viene designato come “legge di abolizione del contenzioso

amministrativo”, perché all’art.1 disponeva la soppressione dei c.d. giudici

ordinari del contenzioso amministrativo.

Nell’ allegato E fu delineato il seguente assetto della giustizia amministrativa:

a)<< tutte le cause per contravvenzioni e tutte le materia nelle quali si faccia

questione di un diritto civile e politico>> furono assegnate al giudice ordinario

(art.2). La legge precisava che la competenza del giudice ordinario non poteva

subire eccezioni per il fatto che parte in giudizio fosse un’Amministrazione o

fossero coinvolti i suoi interessi.

b) << gli affari non compresi>> nell’ipotesi precedente furono riservati alla

autorità amministrative (art.3, 1°comma).

In questo ambito erano introdotte alcune garanzie per i cittadini, segno che il

legislatore aveva percepito la delicatezza della loro posizione, in un ambito

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escluso dalla tutela giurisdizionale. Era previsto che le autorità amministrative

avrebbero provveduto con <<decreti motivati>>, con l’osservanza del

contraddittorio con <<le parti interessate>> e previa acquisizione del parere

degli organi consultivi.

Nei confronti dei <<decreti>> assunti dall’Amministrazione, fu consentito il

ricorso in via gerarchica: a questo ricorso amministrativo fu riconosciuta

un’operatività molto ampia, tanto da farne, a lungo, uno degli strumenti

fondamentali per la tutela del cittadino.

Le disposizioni appena richiamate, definivano così,il quadro dei c.d. “limiti

esterni” della giurisdizione civile nei confronti dell’Amministrazione. Tali limiti

rispecchiavano la distinzione fra le <<materie nelle quali si faccia questione di

un diritto civile o politico>> e gli altri <<affari>>.

Fondamentale era la considerazione secondo cui l’espressione <<diritti civili e

politici>> non fosse onnicomprensiva. Successivamente fu, infatti, equiparata

alla nozione di <<diritti soggettivi>>, percependo in modo chiaro che vi

erano anche posizioni soggettive di altro genere, che risultavano non protette

dalla giurisdizione ordinaria.

c) Nelle controversie di competenza del giudice ordinario, le ragioni della

specialità dell’Amministrazione trovavano riscontro nei “limiti interni” della

giurisdizione civile (art.4). L’equilibrio tra garanzia della tutela giurisdizionale e

separazione dei poteri, era ricercato ammettendo un sindacato del giudice

ordinario solo sulla legittimità dell’atto amministrativo e non sulla

opportunità, che invece, poteva essere valutata esclusivamente

dall’Amministrazione stessa. Era riconosciuta al giudice ordinario la competenza

di sindacare la legittimità dell’atto amministrativo, ma non annullarlo,

revocarlo o modificarlo. L’art. 5 della legge introduceva, inoltre, l’istituto della

“disapplicazione “dell’atto amministrativo da parte del giudice ordinario.

d) L’amministrazione non era sottratta agli effetti della sentenza, essa era tenuta

a <<conformarsi>> al provvedimento del giudice. Questa prescrizione

fondamentale, di ottemperanza al giudicato, sanciva la prevalenza del potere

giurisdizionale rispetto al potere amministrativo.

4. Il bilancio dell’allegato E nei primi anni successivi al 1865

La riforma del 1865 intendeva realizzare il passaggio da un sistema di tutela nei

confronti dell’Amministrazione (modello del contenzioso amministrativo), ad un

altro imperniato sul giudice ordinario. Il sistema delineato nell’allegato E era

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rimasto inapplicato e l’istituto dei ricorsi gerarchici risultò screditato dalla

tendenza dell’Amministrazione a lasciarsi condizionare dai suoi particolari

interessi.

Dopo l’entrata in vigore della legge del 1865, l’autorità governativa sollevò, con

grande frequenza, dei conflitti. Il Consiglio di Stato propose, di conseguenza, una

lettura molto restrittiva dei limiti esterni della giurisdizione del giudice ordinario.

Molti giuristi liberali sottolinearono che, invece dell’eguaglianza dei cittadini e

dell’Amministrazione davanti alla legge, si realizzava un sistema che limitava gli

spazi per la tutela del cittadino. Mantellini identificò nella giurisprudenza del

Consiglio di Stato sui conflitti, la causa del fallimento della riforma del 1865.

Si notava, nelle decisioni del Consiglio di Stato, la tendenza ad escludere la

competenza del giudice civile, quando la vertenza riguardasse provvedimenti

dell’autorità amministrativa. La competenza del giudice civile veniva ammessa

solo in presenza di atti dell’Amministrazione emanati a tutela di un interesse

personale o patrimoniale dell’Amministrazione stessa ( e non già a tutela di un

interesse pubblico generale). La soppressione dei tribunali del contenzioso

amministrativo aveva ridotto la tutela del cittadino e non aveva esteso la

giurisdizione civile agli ambiti occupati dai giudici soppressi.

L’insuccesso della riforma era addebitato, principalmente, al Consiglio di Stato

che, quale giudice dei conflitti, poteva decidere o meno circa le controversie fra il

cittadino e l’Amministrazione.

5. La legge sui conflitti del 1877

Queste considerazioni furono all’origine di un nuovo intervento in materia di

conflitti, la legge 31 marzo 1877, n.3761. Si attribuiva alla Corte di

Cassazione di Roma la decisione sui conflitti insorti tra Amministrazione ed

autorità giudiziaria, ovvero tra giudici ordinari e giudici speciali. Alla Cassazione

fu attribuito, inoltre, il potere di decidere i ricorsi proposti contro le sentenze dei

giudici speciali, impugnate per <<incompetenza ed eccesso di potere>>.

La legge non produsse l’effetto auspicato e la Cassazione proseguì nell’indirizzo

già prospettato del Consiglio di Stato.

Capitolo 3

“ L’AFFERMAZIONE DI UNA GIURISDIZIONE AMMINISTRATIVA”.

1. L’istituzione della Quarta sezione

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I risultati della riforma del 1865 apparvero ben presto insoddisfacenti: la tutela

del cittadino, nei confronti dell’Amministrazione era tutt’altro che assicurata.

Dell’esigenza di una revisione si fecero portatori sia uomini politici, sia studiosi e

giuristi. L’argomento presentava due profili fondamentali : a) l’attuazione di una

più ampia tutela del cittadino b) l’individuazione dell’organo cui affidare la tutela.

La giurisprudenza affermava una tendenziale incompatibilità fra il diritto

soggettivo e il provvedimento amministrativo: il diritto soggettivo del cittadino

era riconosciuto e garantito nei confronti dell’Amministrazione solo quando essa

agiva <<iure privatorum>> e in altre poche ipotesi; là dove interveniva un

provvedimento amministrativo, di regola, vi erano solo interessi.

Si delineava una contrapposizione tra i diritti di abolizione del contenzioso

amministrativo e gli interessi diversi dai diritti soggettivi, che erano privi di tutela

giurisdizionale, anche quando erano di grande importanza per il cittadino.

Sorgeva l’esigenza di introdurre uno strumento di tutela per questi interessi. A

tale esigenza diede riscontro la legge 31 marzo 1889, n.5992. La tutela degli

<<interessi>> fu demandata al Consiglio di Stato, con la precisazione che

questa funzione era assegnata ad una nuova sezione: la Quarta sezione. La

competenza di tale Quarta sezione era definita nell’art.3 che stabiliva che alla 4

Sezione del Consiglio di stato spetta di decidere i ricorsi per

incompetenza,eccesso di potere o violazione di legge contro atti e provvedimenti

di un’autorità amministrativa o di un corpo amministrativo deliberante, che

abbiano per oggetto un interessi di individui o di enti morali e giuridici, quando i

ricorsi medesimi non siano di competenza dell’autorità giudiziaria, né si tratti di

materia spettante alla giurisdizione o alle attribuzioni contenziose di corpi o

collegi speciali.Il ricorso non è ammesso se trattasi di atti e provvedimenti

emanati dal governo nell’esercizio di un potere politico.Alla Quarta sezione era

demandata la tutela di interessi designati come <<interessi d’individui o di enti

morali giuridici>>. La tutela di questi <<interessi>> si realizzava con <<ricorsi

contro atti e provvedimenti di un’Autorità amministrativa>> e, quindi, nelle

forme dell’impugnazione del provvedimento amministrativo. La tutela del

cittadino si configurava come tutela contro il provvedimento

amministrativo. I ricorsi alla Quarta sezione erano mezzi di impugnazione del

provvedimento e producevano l’annullamento del provvedimento impugnato

(art.17).

Il ricorso poteva essere proposto dal cittadino, per impugnare un provvedimento

affetto da vizi tassativamente indicati dalla legge:<<incompetenza, eccesso

12

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de potere e violazione di legge>> . “Incompetenza” intesa come vizio degli

elementi soggettivi dell’atto amministrativo; “eccesso di potere” inteso come uso

gravemente scorretto del potere discrezionale da parte dell’Amministrazione;

“violazione di legge” come vizio specifico rappresentato dal contrasto fra un

elemento del provvedimento o del suo procedimento e una disposizione

contenuta nella legge o in un’altra fonte del diritto.

Nei confronti dell’ amministrazione economica, la tutela davanti alla Quarta

sezione risultò limitata agli ambiti dell’ eccesso di potere. Per gli ambiti definiti

come merito dell’atto amministrativo, il sindacato sulla discrezionalità

rimaneva riservato all’autorità amministrativa e ai ricorsi gerarchici. La tutela del

cittadino nei confronti della Pubblica amministrazione fu ricondotta ad uno

schema incentrato sulla distinzione tra figure soggettive. Ai diritti

soggettivi si contrapponevano gli <<interessi>> propri dei cittadini, la cui

tutela sarebbe stata demandata alla Quarta sezione.

La legge del 1889 introduceva, inoltre, un rapporto preciso fra il ricorso alla

Quarta sezione e il ricorso gerarchico (art.7), perché il ricorso alla Quarta

sezione era ammesso solo contro un provvedimento <<definitivo>>.

Dalla tutela imperniata sulla Quarta sezione erano esclusi gli atti <<emanati dal

governo nell’esercizio del potere politico>>. Questa categoria, dei c.d. atti

politici, non aveva confini chiari.

La competenza della Quarta sezione si incentrava nel sindacato di legittimità

sull’atto amministrativo. In questi casi, la Quarta sezione, nel caso di

accoglimento del ricorso, avrebbe potuto assumere una decisione sulla pratica,

in sostituzione di quella rappresentata dal provvedimento annullato (art.17).

2. La riforma del 1907.

La legge del 1889 non affrontava la questione della “natura amministrativa” o

giurisdizionale della Quarta sezione. Le pronunce della Quarta sezione erano

designate dalla legge come <<decisioni>> (non sentenze), termine che

richiamava le “decisioni” dei ricorsi gerarchici. Alcuni autori sostennero la tesi

della natura amministrativa della Quarta sezione, ma prevalse l’indirizzo che ne

valorizzava il ruolo, ponendola su un piano diverso da quello degli organi

amministrativi. La tesi del carattere giurisdizionale della Quarta sezione fu

accolta dalla Cassazione che, dichiarando inammissibili ricorsi proposti contro le

decisioni del Consiglio di Stato, riconobbe alla Quarta sezione carattere di giudice

speciale e, alle sue decisioni, valore di sentenze.

13

Page 14: Aldo Travi Lezioni di giustizia amministrativa 123.doc

La legge 7 marzo 1907 n.62 riconobbe formalmente il carattere giurisdizionale

della Quarta sezione (art.1), distinguendo fra sezioni <<consultive>> del

Consiglio di Stato e sezioni <<giurisdizionali>>. Contemplò, di conseguenza, il

ricorso alla Corte di cassazione, <<agli effetti della legge 31 marzo 1877,

n.3761>>, contro le decisioni delle sezioni giurisdizionali. Istituì, inoltre, la

Quinta sezione del Consiglio di Stato, con funzioni giurisdizionali, alla quale

erano demandati i ricorsi con sindacato esteso al merito (e non solo alla

legittimità, come per la Quarta sezione). Il coordinamento tra le due sezioni era

affidato alle Sezioni riunite ( oggi Adunanza plenaria).

Altre innovazioni di rilievo, riguardarono la disciplina dell’istruttoria nel processo

amministrativo, la disciplina del procedimento amministrativo, la disciplina del

procedimento avanti alla Giunte provinciali amministrative e la disciplina del

ricorso straordinario al Re.

In attuazione della legge del 1907 e del relativo testo unico, fu emanato il r.d. 17

agosto 1907, n.642, con il <<regolamento per la procedura dinanzi alle

sezioni giurisdizionali del Consiglio di Stato>>, che è tuttora in vigore.

3. La riforma del 1923 e l’istituzione della giurisdizione esclusiva

La legge del 1907 ha segnato il nostro sistema di giustizia amministrativa,

orientando fortemente la distinzione fra la giurisdizione amministrativa e quella

ordinaria, nei termini di una distinzione fra posizioni soggettive. Un sistema

imperniato sulla distinzione tra diritti soggettivi e interessi legittimi comportava

la necessità di identificare i caratteri e i contenuti delle diverse posizioni

soggettive; operazione non sempre agevole.

La legge 30 dicembre 1923, n.2480, cui fece seguito il testo unico delle leggi

sul Consiglio di Stato, approvato con r.d. 26 giugno 1924, n.1054 (t.u.

Cons. Stato), cercò di porre rimedio a queste diatribe, attraverso due ordini di

innovazioni:

- Al giudice amministrativo fu riconosciuta la capacità di conoscere “in via

incidentale” la posizioni di diritto soggettivo, ad eccezione di quelle sullo stato e

la capacità delle persone e la querela di falso, riservate al giudice ordinario.

La possibilità di una cognizione incidentale dei diritti consentiva di evitare

che, la necessità di esaminare una questione inerente a diritti soggettivi

comportasse sempre la sospensione del giudizio e la remissione delle parti avanti

al giudice civile.

14

Page 15: Aldo Travi Lezioni di giustizia amministrativa 123.doc

- In alcune materie particolari, fra le quali il pubblico impiego, al giudice

amministrativo fu attribuita la possibilità di conoscere e di giudicare anche in

tema di diritti soggettivi. In queste materie, la tutela giurisdizionale non era

articolata fra tutela degli interessi legittimi ( demandata al giudice

amministrativo) e tutela dei diritti soggettivi ( demandata al giudice ordinario),

ma era devoluta interamente al giudice amministrativo (c.d. giurisdizione

elusiva).

Dalla riforma del 1923 emergeva, in modo chiaro, che:

- nelle ipotesi di giurisdizione esclusiva, il riparto fra giurisdizione

amministrativa e giurisdizione ordinaria seguiva il criterio della distinzione per

materie (art.29, 1°c. e 30 1°c, t.u. Cons. Stato).

- nelle ipotesi di giurisdizione esclusiva, nelle vertenze per diritti soggettivi, il

giudice amministrativo disponeva degli stessi poteri di cognizione e di decisione

che gli spettavano in caso di giurisdizione degli interessi legittimi (art.29, 2° e

3°c. t.u. Cons. Stato).

- nelle ipotesi di giurisdizione esclusiva, la tutela era “aggiuntiva” rispetto a

quella degli interessi.

- anche nelle ipotesi di giurisdizione esclusiva il giudice amministrativo poteva

conoscere in via incidentale delle situazioni di diritto soggettivo, non inerenti alla

materia devoluta alla giurisdizione esclusiva, che fossero però rilevanti per la

decisione.

Al giudice amministrativo era preclusa la cognizione di questioni inerenti

allo stato e alla capacità delle persone, o questioni di falso, che erano

riservate, pertanto, al giudice ordinario.

Al giudice ordinario erano riservate le questioni attinenti a <<diritti

patrimoniali consequenziali alla pronuncia di legittimità dell’atto o del

provvedimento contro cui si ricorre>> (art.30, 2°c. t.u. Cons.Stato).

I diritti patrimoniali consequenziali furono identificati con il diritto al risarcimento

del danno, che assumeva rilevanza in seguito all’annullamento di un

provvedimento amministrativo, che avesse inciso su un diritto soggettivo.

La riforma del 1923-24 introdusse alcune modifiche anche all’ordinamento del

Consiglio di Stato; la più importante è il superamento della distinzione di

competenze tra Quarta e Quinta sezione, che divenne di ordine meramente

interno.

15

Page 16: Aldo Travi Lezioni di giustizia amministrativa 123.doc

In base al testo unico del 1924 avrebbe dovuto essere emanato dal governo un

nuovo regolamento, che però non fu mai emanato: rimase in vigore, e rimane

tuttora in vigore, quello del 1907.

4. la Costituzione repubblicana e l’istituzione dei Tar

Dopo il testo unico 26 giugno 1924, n.1054, la disciplina della giurisdizione

amministrativa rimase immutata per oltre settant’anni. Nei primi anni

dell’ordinamento repubblicano le innovazioni più evidenti riguardarono l’assetto

organizzativo della giurisdizione amministrativa, ma non furono condizionate

dalla Costituzione. Con il d.l. 5 maggio 1948, n.642, era istituita una Sesta

sezione del consiglio di Stato. Subito dopo, in attuazione dell’art.23 dello Statuto

speciale per la Sicilia, con il d.lgs.6 maggio 1948, n. 654, venne istituito il

Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione Siciliana, organo

equiordinato al Consiglio di Stato, con funzioni consultive e giurisdizionali: in tal

modo divenne problematica la stessa unitarietà della giurisdizione

amministrativa.

Solo nella seconda metà degli anni ’60, l’incidenza dei principi costituzionali fu

più evidente, con riferimento alle norme sull’indipendenza del giudice (art.101,

2°c. e 108, 2°c. Cost.). la Corte costituzionale dovette dichiarare illegittima la

composizione della Giunta provinciale amministrativa in sede giurisdizionale.

Analoga sorte ebbero le Sezioni dei Tribunali amministrativi per il contenzioso

elettorale. Gli interventi della Corte costituzionale e l’avvio delle Regioni a

statuto ordinario resero più urgente l’attuazione dell’art,125 della Cost., sulla

istituzione, in ogni regione, di un giudice amministrativo di primo grado. Con la

legge 6 dicembre 1971, n.1034 (legge TAR), furono istituiti, nei capoluoghi di

ogni Regione, i Tribunali amministrativi regionali (TAR).

I TAR sono giudici amministrativi di primo grado, dotati di competenza generale

per le controversie per gli interessi legittimi e per quelle su diritti soggettivi,

devolute alla giurisdizione esclusiva.

L’appello contro le sentenze del TAR va proposto al Consiglio di Stato (art.28).

L’assetto generale della giustizia amministrativa sembrava completato dal d.p.r.

24 novembre 1971, n.1199, che fu emanato per la riforma del procedimento

amministrativo, dettando per la prima volta una disciplina organica dei ricorsi

amministrativi.

16

Page 17: Aldo Travi Lezioni di giustizia amministrativa 123.doc

5. Le innovazioni recenti e le tendenze espresse dalla legge n.205 del

2000

Le innovazioni successive all’istituzione dei TAR furono piuttosto limitate. Tra gli

interventi più significativi vi fu l’estensione della giurisdizione esclusiva alle

controversie sulle concessioni edilizie, sul contributo di concessione e sulle

sanzioni amministrative per abusi edilizi (art.16, legge 27 gennaio 1977, n.10).

Elementi essenziali di novità emersero, sempre più spesso, a partire dagli anni

’90. Erano introdotte discipline speciali, per accelerare la definizione del

giudizio. Questa scelta rispecchiava l’importanza riconosciuta dal legislatore a

certi interessi del cittadino: per rendere più efficace la loro tutela dovevano

essere introdotte procedure specifiche e più veloci. La legge 7 agosto 1990,

n.241 (modificata dalla legge 11 febbraio 2005, n.15 e dalla legge14 maggio

2005, n.80), dopo aver previsto il diritto d’accesso ai documenti

amministrativi, introdusse un giudizio speciale di competenza del giudice

amministrativo, caratterizzato da procedure particolari ed accelerate.

In altri casi emergeva, invece, l’esigenza di migliorare l’efficienza dell’attività

amministrativa.

Fu esteso, in molti casi, l’ambito della giurisdizione esclusiva che assunse

rilievo con la riforma del pubblico impiego (avviata d.lgs. 3 febbraio 1993),

n.29): si assoggettava a un regime contrattuale quasi tutte le categorie dei

dipendenti pubblici, trasformando il loro rapporto con l’Amministrazione da

pubblicistico in privatistico. La legge 15 marzo 1997, n.59 conferì ampia delega

al Governo, per l’attuazione e per l’assegnazione al giudice ordinario, delle

controversie dei dipendenti pubblici con rapporto contrattuale e una estensione

della giurisdizione esclusiva. La delega fu esercitata dal Governo con il d.lgs. 31

marzo 1998, n.80. Negli artt. 33 e 34, si assegnavano, alla giurisdizione

esclusiva, le vertenze in materia di pubblici servizi e di edilizia e urbanistica. Per

tali materie, il giudice amministrativo era competente a pronunciarsi su

<<risarcimento del danno ingiusto>>, cagionato dall’Amministrazione, con i

propri atti (art.35).

L’estensione della giurisdizione esclusiva, in materia di pubblici servizi, fu

ritenuta illegittima dalla Corte costituzionale (17 luglio 2000, n.292). Quasi

contemporaneamente, il Parlamento approvava la legge 21 luglio 2000, n.205,

che estese la giurisdizione esclusiva a nuove materie. Tale legge ha assegnato al

giudice amministrativo la competenza a pronunciarsi sui diritti patrimoniali

consequenziali, anche nelle materie non devolute alla sua giurisdizione; ha

17

Page 18: Aldo Travi Lezioni di giustizia amministrativa 123.doc

innovato la disciplina del processo amministrativo, introducendo strumenti

specifici per la tutela dei diritti devoluti alla giurisdizione esclusiva (come i

procedimenti per ingiunzione, mutuati dal c.p.c . art.8); ha arricchito i poteri del

giudice, sia per la cognizione della vertenza, sia per la tutela cautelare; ha

previsto un rito speciale per il giudizio sul “silenzio” dell’Amministrazione,

disancorandolo dal modello dell’impugnazione di provvedimenti; ha introdotto

veri e propri riti accelerati per le vertenze di maggiore rilievo.

Le nuove concezioni emerse sono state oggetto di dibattiti, culminati nella

sentenza della Corte costituzionale 6 luglio 2004, n.204. La sentenza ha

portato al centro del dibattito le norme costituzionale, come criterio per definire

il “ruolo” del giudice amministrativo. Con l’art.103 1°c. Cost., si assegnava,

infatti, al giudice amministrativo, la funzione di tutela del cittadino nei confronti

del potere amministrativo, non consentendogli un’assegnazione indiscriminata di

ogni vertenza sui diritti, ancorché sia coinvolto un interesse pubblico. In base a

tali criteri, la Corte ha dichiarato parzialmente illegittimi gli artt. 33 e 34 del

d.lgs. n.80/1998.

Capitolo 4

L’INTERESSE LEGITTIMO

1. Considerazioni introduttive

Nel nostro diritto amministrativo, le posizioni giuridicamente rilevanti del

cittadino nei confronti dell’Amministrazione vengono distinte in: interessi

legittimi e diritti soggettivi. L’interesse legittimo è una figura centrale nei

rapporti tra cittadino e Amministrazione e rappresenta l’elemento fondante per

la giurisdizione amministrativa.

Tale figura , anche se nel nostro ordinamento è assolutamente centrale, non è

una nozione giuridica che sia imposta dai caratteri specifici del rapporto fra

Amministrazione e cittadino. Questa nozione non ha, infatti, preceduto o rese

“obbligate” le scelte del legislatore.

Di interesse legittimo, si parla, quasi esclusivamente, nel diritto italiano, mentre,

negli altri Paesi, la garanzia del cittadino è si condizionata dai caratteri del

rapporto con l’Amministrazione, ma non ha richiesto l’elaborazione della figura

dell’interesse legittimo.E’ necessario stabilire se nei confronti

18

Page 19: Aldo Travi Lezioni di giustizia amministrativa 123.doc

dell’amministrazione il cittadino abbia un interesse legittimo o un diritto

soggettivo.

La distinzione fra interessi legittimi e diritti soggettivi può apparire agevole

quando si confrontino ipotesi stereotipe di posizioni soggettive: ad es. il cittadino

interessato ad un potere discrezionale dell’Amministrazione e il cittadino

creditore di un’obbligazione pecuniaria nei confronti della stessa

Amministrazione. Nel primo caso, si ritiene che possa essere identificato solo un

interesse legittimo al cittadino l’ordinamento non garantisce neppure la pretesa

a un risultato utile, perché l’esito finale del procedimento dipende da una scelta

discrezionale dell’autorità amministrativa. Nel secondo caso, l’ordinamento

riconosce e garantisce la pretesa a un risultato utile predeterminato e appresta

tutta una serie di strumenti, per assicurare una piena realizzazione di questa

pretesa. Ma la distinzione appare molto più difficile in altre ipotesi. Si pensi al

caso di un’attività vincolata dell’Amministrazione: in questo caso si ammette

la configurazione di posizioni di interesse legittimo, ma se l’attività è vincolata, si

deve riconoscere che la legge prevede e garantisce, al cittadino, un determinato

risultato e in questo modo, la distinzione, rispetto alle obbligazioni, scompare.

Anche nell’ambito del diritto privato, si tende a riconoscere la configurabilità di

situazioni, rispetto alle quali, i diritti soggettivi sono caratterizzati in termini

analoghi, rispetto agli interessi legittimi tradizionali. Si pensi al caso della

partecipazione a un concorso privato, nella costruzione delineata dalla

giurisprudenza civile, in base a riflessioni su enti pubblici economici; in questo

caso, il diritto soggettivo del cittadino non si risolve nella pretesa, giuridicamente

riconosciuta, ad un risultato utile ( l’assunzione), ma si presenta in termini di

stretta correlazione allo svolgimento del “potere” privato. La Cassazione ha

sottolineato come al cittadino debba essere assicurata l’osservanza dei principi

di buona fede e di ragionevolezza ed arriva a configurare l’esistenza di un

obbligo motivazionale.Nel caso del concorso pubblico si ha un interesse

legittimo.

Si evidenzia, inoltre, la tendenza in alcuni Paesi ad estendere la nozione di

“potere”, in senso stretto, anche alle situazioni di diritto privato, caratterizzate

istituzionalmente dalla presenza di un soggetto in posizione di supremazia. Il

rischio di questa tendenza è quello di assegnare all’Amministrazione un ruolo

istituzionalmente “dominante”, in contrasto con il principio di legalità, perdendo

di vista le ragioni della tutela nei confronti dell’Amministrazione e di indebolire

così la garanzia individuale del cittadino.

19

Page 20: Aldo Travi Lezioni di giustizia amministrativa 123.doc

Veramente irrinunciabili, in uno Stato democratico, sono la garanzia e

l’ampiezza della tutela nei confronti dell’Amministrazione, e non le

nozioni e le forme attraverso le quali tale tutela è stata interpretata. La

ragione di un’attenzione particolare per la tutela nei confronti

dell’Amministrazione è costituita proprio dal carattere pubblico del soggetto, che

si pone, rispetto al cittadino, come “autorità”. In questa logica, appare

contraddittorio invocare la nozione dell’interesse legittimo, per giustificare una

tutela meno intensa del cittadino rispetto a quella offerta dal diritto comune.

Eppure, solo da pochi anni, la Corte di Cassazione, rivendicando un proprio

indirizzo, ha ammesso, anche per la lesione di interessi legittimi, il risarcimento

dei danni.

2. L’interesse legittimo e il “potere” dell’Amministrazione .

Anche se il dibattito sulla nozione di interesse legittimo appare ancora aperto, si

riscontra un ampio consenso nell’identificare alcuni elementi come propri

dell’interesse legittimo.

Un primo elemento è costituito dal carattere “relativo”(o “relazionale”)

dell’interesse legittimo: l’interesse legittimo non è una posizione soggettiva di

tipo “assoluto”(come i diritti reali), ma è una posizione correlata all’esercizio di

un potere da parte dell’Amministrazione.L’esercizio del potere produce effetti

giuridici nei confronti dei cittadini.L’Amministrazione, disponendo degli interessi

che le sono devoluti dalla legge distribuisce risorse, incide sulle posizioni

giuridiche dei cittadini.L’interesse legittimo può essere definito come una

posizione soggettiva speculare al potere dell’Amministrazione.

In passato, il potere dell’Amministrazione è stato considerato come un “valore”

che esprimeva la supremazia dello Stato e dei suoi fini rispetto al cittadino:

questa logica però è radicalmente incompatibile con i principi di ordinamento

democratico. Oggi sembra affermarsi una concezione opposta, che rifiuta

l’argomento della supremazia istituzionale e dà rilievo piuttosto ad elementi

formali, come l’assoggettamento del potere dell’Amministrazione ad una

disciplina tipica, espressa in particolare nella teoria dei vizi dell’atto

amministrativo(eccesso di potere). Molte riflessioni si sono concentrate

sull’analisi dei casi in cui sia stata riconosciuta la presenza di un potere

dell’Amministrazione. Il potere amministrativo è considerato una situazione

esclusiva del diritto pubblico: di conseguenza non è configurabile un interesse

legittimo, neppure in presenza di atti unilaterali dell’Amministrazione, quando

20

Page 21: Aldo Travi Lezioni di giustizia amministrativa 123.doc

essi siano riconducibili al diritto privato(rescissione o risoluzione unilaterale del

contratto). Non vale però la conclusione opposta cioè l’attività unilaterale

dell’amministrazione disciplinata dal diritto pubblico non si configura

necessariamente come potere amministrativo;in alcune situazioni l’attività svolta

dall’Amministrazione è disciplinata dal diritto pubblico, ma non ha le

caratteristiche del “potere” in senso proprio. L’ambientazione dell’interesse

legittimo nel diritto pubblico non risolve, quindi, tutti i problemi connessi

all’identificazione di questa figura.

In passato sono stati presi in considerazione vari profili dell’attività

amministrativa nel diritto pubblico, per definire il potere tipico

dell’Amministrazione.

a)In alcune interpretazioni è presentato, come profilo caratteristico del “potere”,

la c.d. autoritarietà o autoritatività. Di fronte ad un potere autoritativo

dell’Amministrazione, il cittadino non può opporre un diritto soggettivo, perché

l’Amministrazione, attraverso i propri provvedimenti, può estinguere

legittimamente i diritti dei terzi.

Il nucleo del potere amministrativo sarebbe espresso dall’autoritarietà: in questo

senso sembra prendere posizione anche l’art.1 della legge n.241/1990, come

modificato dalla legge n.15/2005, che nel contesto di una valorizzazione degli

istituti privatistici, riserva però al diritto pubblico, proprio la disciplina

dell’attività autoritativa dell’amministrazione.

Il riferimento al carattere dell’autoritarietà non spiega però, quando

l’Amministrazione sia titolare di un potere e in che cosa consista, nella generalità

delle situazioni, tale potere.

b)In altre interpretazioni è considerata, come elemento caratteristico del

“potere”, la sua funzionalità alla realizzazione dell’interesse pubblico. Di

conseguenza non si ha potere quando l’attività amministrativa sia diretta

istituzionalmente a soddisfare un interesse privato: è il caso, ad esempio, della

determinazione dell’indennità di esproprio. Questa ipotesi non può verificarsi nel

caso dell’attività discrezionale, perché tale attività, per definizione, comporta la

necessità di una scelta, in considerazione dell’interesse pubblico: invece,

secondo tale tesi in esame, si potrebbe verificare in alcune ipotesi di attività

vincolata.

c)Altre interpretazioni assumono, come caratteristica del potere amministrativo,

la sua infungibilità: mentre l’adempimento di un’obbligazione di regola è

sempre fungibile, cosicché all’adempimento di un’obbligazione si può porre

21

Page 22: Aldo Travi Lezioni di giustizia amministrativa 123.doc

rimedio con una prestazione equivalente di un terzo, il “potere”

dell’Amministrazione è riservato ad uno specifico apparato.

La posizione del cittadino titolare di un interesse legittimo si caratterizzerebbe

per una dipendenza istituzionale dall’Amministrazione.

d)Alcune interpretazioni accolgono argomenti di ordine squisitamente formale e

individuano, come elemento tipico del “potere” la produzione di effetti

giuridici, in termini costitutivi: potere significa, quindi, capacità di assumere

atti produttivi di effetti giuridici propri.Viene accolta la distinzione fondamentale

tra procedimenti dichiarativi e procedimenti costitutivi.I procedimenti dichiarativi

accertano o certificano situazioni già identificate dalla legge(d.soggettivo);i

procedimenti costitutivi hanno carattere dispositivo perché sono idonei a

produrre effetti giuridici propri(int.legittimo).L’identificazione del carattere

costitutivo di certi provvedimenti amministrativi non è pacifica: alle incertezze

generali sulla figura e sull’ambito dell’atto costitutivo si sommano quelle

particolari che attengono al rapporto fra legge e atto amministrativo nella

produzione di effetti giuridici. In particolare si discute se possa considerarsi

propriamente costitutiva, anche l’attività amministrativa, che si limiti a verificare,

per la produzione di effetti giuridici, condizioni compiutamente definite dalla

legge.

Un orientamento dottrinale individua, come discriminante per la nozione di

“potere” il fatto che la legge riservi all’Amministrazione una competenza

esclusiva, intesa come capacità di operare effettuando valutazioni che

possono essere compiute solo dall’Amministrazione e non da altri

soggetti(discrezionalità tecnica ed amministrativa). Il “potere”, insomma, si

caratterizza per essere riservato ad un soggetto, ma questa “riserva” attiene alle

modalità, attraverso le quali, l’Amministrazione opera ed assume i suoi atti.

Quando la legge riserva all’Amministrazione l’effettuazione di certe valutazioni,

ai fini dell’adozione di provvedimenti, l’attività dell’Amministrazione presenta

caratteristiche particolari e introduce elementi nuovi, rispetto a quelli già

compiutamente determinati nella previsione normativa. Questa situazione si

verifica quando l’attività amministrativa sia discrezionale. Quando l’attività è

vincolata, l’Amministrazione si deve limitare ad applicare una regola già presente

nell’ordinamento, senza poter introdurre da parte sua, nulla di ulteriore. Pertanto

se l’attività è vincolata, la legge che disciplina l’attività amministrativa definisce

già completamente ciò che spetta al cittadino in quella certa situazione:

l’Amministrazione, in presenza della situazione individuata dalla legge, è tenuta

22

Page 23: Aldo Travi Lezioni di giustizia amministrativa 123.doc

ad assumere nei confronti del cittadino l’atto previsto dalla legge stessa e non

può aggiungervi nulla di suo. Il cittadino è titolare perciò di un diritto

soggettivo.Se l’attività è discrezionale il cittadino no n può vantare una pretesa

giuridica a un determinato risultato perché ciò che gli spetta non è determinabile

a priori in base alla legge.

Questa tesi non viene accolta dalla giurisprudenza prevalente: essa riconosce la

presenza di interessi legittimi di fronte ad un’attività amministrativa

discrezionale, ma esclude che quando l’attività sia vincolata, siano configurabili

necessariamente diritti soggettivi.

Da ultimo si deve tener presente l’influsso del diritto comunitario che, nei

settori di competenza dell’Unione europea, sta incidendo profondamente anche

sul diritto amministrativo dei Paesi associati, introducendo elementi ed istituti

comuni e promuovendo lo sviluppo dei diversi ordinamenti nazionali secondo

direttrici omogenee. Il diritto comunitario impone una tutela efficace del cittadino

nei confronti dell’Amministrazione; nello stesso tempo non contempla la figura

dell’interesse legittimo, anche perché essa è utilizzata quasi solo nel diritto

italiano. Anche il legislatore italiano ha dovuto adeguarsi all’impostazione dettata

dalle norme comunitarie, col risultato che in passato si era delineata una

singolare distinzione fra interessi legittimi, fondati sulla normativa comunitaria

( ai quali era assicurata una tutela risarcitoria) e interessi legittimi, fondati

sulla normativa nazionale ( senza tutela risarcitoria).

In questo quadro così incerto, finisce con l’assumere rilievo determinante la

casistica elaborata dalle sezioni unite della Cassazione, quale giudice

della giurisdizione.

3. ( segue ): il contributo della giurisprudenza; la questione dei diritti

“perfetti”.

Ad opera della Corte di cassazione(quale giudice delle giurisdizioni) si è

consolidata un’interpretazione comune sulla identificazione della maggior parte

delle situazioni corrispondenti ad interessi legittimi. Per distinguere gli interessi

legittimi dai diritti soggettivi, la giurisprudenza ha accolto una serie di criteri,

invocati talvolta in via “cumulativa”, come se l’identificazione dell’interesse

legittimo discendesse, in via definitiva, da una serie di “indici” da valutare

complessivamente.

I) Tesi della distinzione fra norme d’azione e norme di relazione.

L’ordinamento comprenderebbe norme d’azione, che disciplinano un potere e il

23

Page 24: Aldo Travi Lezioni di giustizia amministrativa 123.doc

suo esercizio, e norme di relazione, che disciplinano un rapporto intersoggettivo

e i suoi effetti. A questa coppia di norme corrisponderebbe nel caso di violazione

alla coppia di qualificazione degli atti in termini di “illegittimità-illeceità” e,

quindi, sul piano delle posizioni soggettive, la coppia “interesse legittimo-diritto

soggettivo”. La giurisprudenza più recente non sembra riconoscere peso decisivo

alla tesi in esame.

II) Tesi della distinzione fra attività vincolata nell’interesse pubblico e

attività vincolata nell’interesse privato. Uno dei problemi maggiori è

rappresentato dalla valutazione delle posizioni soggettive di fronte all’attività

vincolata dell’Amministrazione. L’interesse legittimo si caratterizzerebbe per il

suo confronto con un interesse pubblico. Di conseguenza se il potere

dell’Amministrazione è discrezionale, sarebbe sempre configurabile un interesse

legittimo perché il confronto con l’interesse pubblico è immanente; se il potere è

vincolato, si dovrebbe distinguere se il potere sia attribuito nell’interesse del

cittadino o nell’interesse dell’Amministrazione. Nel primo caso vi sarebbe un

diritto soggettivo, nel secondo un interesse legittimo. Secondo la Cassazione, in

certi casi di attività vincolata, il cittadino sarebbe titolare di un diritto nei

confronti dell’Amministrazione, al rilascio di un provvedimento amministrativo

(es. rilascio della carta di circolazione di un veicolo); in altri casi, a fronte di

provvedimenti vincolati si ammettono interessi legittimi (es. interventi repressivi

di attività abusive).La funzionalità di un potere vincolato a un interesse pubblico

o privato non è determinabile dalla norma giuridica.

III) Tesi della distinzione tra cattivo esercizio del potere e carenza di

potere. Secondo questa tesi, accolta dalla Cassazione, non è sufficiente la

considerazione della titolarità del potere da parte dell’Amministrazione, per

identificare la posizione del cittadino come di interesse legittimo: la valutazione

deve coinvolgere anche il vizio rispetto all’atto amministrativo. Nel caso di

cattivo esercizio di potere (vizi di incompetenza, violazione, di legge ed eccesso

di potere), l’illegittimità del provvedimento non incide sulla sua efficacia(finchè il

provvedimento non sia annullato)ed è configurabile solo una posizione di

interesse legittimo(si è in presenza di esercizio del potere dell’amministrazione);

nel caso di carenza di potere (straripamento di potere o incompetenza assoluta,

carenza di presupposti necessari) il vizio si riverbera sulla stessa efficacia

giuridica dell’atto e la posizione soggettiva del cittadino rimane quella originaria,

come individuabile in assenza dell’intervento

24

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dell’Amministrazione.L’amministrazione non esercita in modo efficace alcun

potere e non è identificabile nenahce un interesse legittimo.

La Cassazione ha sostenuto che vi è carenza quando il provvedimento è previsto

dall’ordinamento, ma non come esercizio di una funzione amministrativa, oppure

ha sostenuto che vi è carenza quando il potere è attribuito ad

un’Amministrazione di ordine diverso rispetto a quella cui fa parte l’organo che

ha emesso il provvedimento, ovvero quando il provvedimento è assunto

dall’Amministrazione che è in astratto titolare del potere, ma in mancanza di un

presupposto concreto prescritto dalla legge. La legge 11 febbraio 2005, n.15

distingue fra ipotesi di <<annullabilità>> e ipotesi di<<nullità(provvedimento

che manca degli elementi essenziali e difetto assoluto di attribuzione)>>. L’atto

amministrativo nullo dovrebbe essere inefficace: di conseguenza, non

costituirebbe esercizio di un potere e potrebbe coesistere con un diritto

soggettivo del cittadino.

La sistematica dei vizi dell’atto amministrativo delineata dalla legge 15/2005

dovrebbe, quindi, orientare la Cassazione a superare la distinzione tra “cattivo

esercizio del potere” e “carenza di potere” e a considerare, invece, la distinzione

tra casi di “annullabilità” e casi di “nullità” del provvedimento.

IV) Teoria dei diritti perfetti. La giurisprudenza e la dottrina hanno proposto

una selezione delle posizioni giuridiche dotate di una protezione

qualitativamente maggiore e perciò non modificabili per effetto dell’esercizio di

un potere amministrativo. Si tratta dei c.d. diritti personalissimi (diritto

all’integrità personale, al nome etc.), sui quali l’Amministrazione non può

incidere, dei diritti definiti anche in relazioni giuridiche di diritto pubblico (diritto

all’indennità di esproprio[attività amministrativa sempre vincolata] etc.), e da

ultimo diritti ritenuti importanti sul piano costituzionale, tanto da essere definiti

“incomprimibili” (diritto alla salute, all’integrità dell’ambiente etc.).

Questa teoria trova ampio riscontro nella giurisprudenza recente della

Cassazione. Resta però ancora poco chiaro il suo fondamento, specie con

riferimento ai diritti costituzionali rilevanti. Appare problematica la possibilità di

desumere dalla Costituzione la natura di una posizione soggettiva e non è chiaro

in base a quali criteri i diritti costituzionalmente rilevanti possano a loro volta

essere discriminati.Si pensi al diritto di proprietà o al diritto d’impresa che in

presenza di un potere dell’amministrazione assumerebbero il carattere di

interesse legittimo.

25

Page 26: Aldo Travi Lezioni di giustizia amministrativa 123.doc

4. L’interesse legittimo come posizione soggettiva differenziata e

qualificata.

L’interesse legittimo identifica un interesse proprio del cittadino: per questa

ragione non può essere considerato come una posizione meramente

“riflessa” rispetto al potere dell’Amministrazione. L’interesse legittimo non è

neppure una posizione diffusa, di cui possono essere titolari i cittadini in quanto

tali, ma è una posizione soggettiva, di cui sono titolari solo determinati

soggetti.

E’ stata la giurisprudenza che ha rivendicato a sé la capacità di individuare in

quali situazioni sia configurabile la titolarità di un interesse legittimo (ad es.

interessi in materia ambientale).

Va osservato, però, che in uno Stato di diritto la titolarità di una posizione

soggettiva dovrebbe essere definita dall’ordinamento giuridico e quindi dalla

legge. Di conseguenza, anche la titolarità dell’interesse legittimo deve essere

stabilita in base a criteri di legge. A questo proposito vengono considerati due

criteri. Il primo è quello della “differenziazione”; proprio perché l’interesse

legittimo è una posizione “soggettiva”, esso presuppone in capo al titolare la

sussistenza di una posizione di interesse “diversa” e “più intensa” rispetto a

quella della generalità dei cittadini.(es.posizione del commerciante x l’apertura di

un nuovo esercizio commerciale nelle vicinanze, in questo caso interessa lui e

non la generalità dei cittadini).

Ma il criterio della “differenziazione” non viene ritenuto sufficiente da buona

parte della dottrina. E’ stato perciò proposto, ad integrazione di esso, il criterio

della “qualificazione”: perché si possa avere un interesse legittimo è

necessario che il potere dell’Amministrazione coinvolga un soggetto che, rispetto

a tale potere, sia titolare di un interesse non solo differenziato, ma anche sancito

e riconosciuto dall’ordinamento. In realtà, però, non sempre, la norma che

disciplina il potere identifica i soggetti direttamente interessati. La qualificazione

viene, invece, ricavata dalla giurisprudenza, in base alla rilevanza attribuita a

quell’interesse dall’ordinamento nel suo complesso e alla sua incidenza

concreta dell’azione amministrativa su tale interesse.

5. L’interesse legittimo come posizione di diritto sostanziale.

In passato, l’attenzione sulla figura dell’interesse legittimo si è concentrata sull’

aspetto delle modalità della tutela nel caso di un interesse legittimo.

L’ordinamento sembrava risolvere la rilevanza dell’interesse legittimo

26

Page 27: Aldo Travi Lezioni di giustizia amministrativa 123.doc

nell’attribuzione al titolare dell’interesse, di un “potere di reazione”, nel caso si

fosse verificata una lesione. Questo potere consisteva nella possibilità di

impugnare il provvedimento lesivo e di porre in contestazione l’esercizio del

potere dell’Amministrazione. Seguendo questa prospettiva si rilevava come la

tutela offerta all’interesse legittimo fosse tipicamente impugnatoria: a fronte

del carattere costitutivo del potere amministrativo e in particolare del

provvedimento amministrativo, sembrava che la tutela dovesse avere un

carattere altrettanto costitutivo, perché doveva eliminare l’effetto giuridico

prodotto dall’esercizio del potere, si istituisce un parallelismo tra carattere

costitutivo del potere e caratteri costitutivi della tutela offerta all’interesse

legittimo. All’interesse legittimo sembrava corrispondere una tutela tipica, di tipo

costitutivo, diretta ad elidere gli effetti del provvedimento lesivo. La modalità

della tutela veniva assunta come un carattere fondamentale del diritto

soggettivo(tutela diretta) e quindi come un elemento distintivo rispetto

all’interesse legittimo(tutela indiretta).

In passato, quando il diritto positivo sembrava riconoscere uno spazio

all’interesse legittimo, solo in termini di reazione ad una lesione, la rilevanza

dell’interesse legittimo era risolta praticamente nella vicenda della impugnazione

di un provvedimento lesivo. In questo modo era facile sostenere che l’interesse

legittimo sarebbe figura di ordine squisitamente processuale(assume

rilievo solo sul piano dell’azione).

Questo modo di ragionare oggi sembra abbandonato, ma non del tutto, e

comunque ha condizionato profondamente la giurisprudenza. Va chiarito che le

modalità della tutela non costituiscono di per sé l’elemento caratterizzante della

figura dell’interesse legittimo; il ragionamento va, invece, capovolto: sono i

caratteri dell’interesse legittimo che condizionano le modalità della tutela.

Nel nostro ordinamento la tutela giurisdizionale dell’interesse legittimo si

configura come tutela “successiva”: presuppone che sia già intervenuta una

lesione dell’interesse protetto. Ciò comporta una pretesa all’annullamento

dell’atto amministrativo lesivo. La lesione dell’interesse legittimo può essere

determinata, però, anche dalla mancanza dell’esercizio di un potere, come nel

caso del silenzio-rifiuto. In questo caso il giudizio tende a garantire

l’adempimento del dovere di provvedere dell’Amministrazione. Nel nostro

ordinamento, insomma, la tipicità della tutela è subordinata alla garanzia

dell’interesse.

27

Page 28: Aldo Travi Lezioni di giustizia amministrativa 123.doc

Quanto poi alla questione della natura solo processuale o anche sostanziale

dell’interesse legittimo, essa può essere affrontata correttamente, solo sulla

base del diritto positivo. E’ decisivo stabilire se l’interesse legittimo rilevi

autonomamente, indipendentemente da una sua lesione. Un argomento

importante a favore della soluzione affermativa viene tratto dalla legge 7 agosto

1990, n. 241: essa ha assegnato rilevanza all’interesse legittimo, prescindendo

sia dalla impugnazione di un provvedimento, sia addirittura dalla configurabilità

di una lesione all’interesse del cittadino. Nella legge n.241/1990, la

partecipazione al procedimento si attua su un piano di diritto sostanziale. Inoltre,

alla luce di questa disciplina, l’interesse legittimo si presenta come figura

“attiva”, caratterizzata da una serie di prerogative dirette a influire sull’azione

amministrativa.

6.Quale “interesse” nell’interesse legittimo? L’identificazione del “bene

vita”

L’interesse legittimo non sorge per effetto della sua lesione ad opera di un potere

dell’Amministrazione e non assume rilevanza solo quando si verifichino i

presupposti per l’impugnativa; è configurabile già nel momento in cui ha inizio il

procedimento amministrativo. Perché nasca un interesse legittimo bisogna che

sussistano le condizioni, in presenza delle quali, l’esercizio del potere sia

doveroso. Non è importante che il cittadino, rispetto al potere

dell’Amministrazione, possa derivare una posizione di vantaggio o invece di

svantaggio.

La figura dell’interesse legittimo si presenta come figura del diritto sostanziale:

infatti all’identificazione dei soggetti titolari di interessi legittimi, in un

procedimento amministrativo, non corrisponde necessariamente l’identificazione

delle parti legittimate a far valere il loro interesse. Di conseguenza la

giurisprudenza esclude che quando sia impugnato un provvedimento negativo o

quando si ricorra per un silenzio-rifiuto siano parti necessarie del processo altri

cittadini diversi dal ricorrente, dal momento che il provvedimento negativo o il

silenzio-rifiuto producono effetti giuridici solo nei confronti di questi. Una volta

stabilito che l’interesse legittimo è figura del diritto sostanziale, va però chiarito

che cosa sia il “bene della vita”, quale componente fondamentale di tutte le

posizioni soggettive di diritto sostanziale.Bisogna capire in cosa va identificato il

bene della vita alla cui realizzazione tende l’interesse legittimo

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Page 29: Aldo Travi Lezioni di giustizia amministrativa 123.doc

a)Il “bene della vita” non può essere identificato con un interesse alla

legittimità dell’azione amministrativa. Si deve evitare di confondere la modalità

della tutela di un interesse con il contenuto dell’interesse. E’ vero che la lesione

di un interesse legittimo si verifica ogni qual volta l’Amministrazione esercita il

suo potere senza osservare le regole che lo disciplinano. Tuttavia la legittimità

dell’azione amministrativa non è essa stessa un “bene della vita”, né tanto meno

può essere concepita come un “bene della vita” proprio di un soggetto

determinato. La legittimità dell’azione amministrativa può essere concepita forse

come l’oggetto di un interesse generico, comune a tutti i cittadini, ma non come

l’oggetto di una posizione soggettiva qualificata.

b)Per soddisfare questa esigenza viene prospettata spesso, per la figura

dell’interesse legittimo, una dissociazione fra due ordini d’interessi: sarebbero

configurabili un interesse materiale, che è proprio del titolare dell’interesse

legittimo, ma che esorbita dalla rilevanza riconosciuta dall’ordinamento

all’interesse legittimo stesso, e un interesse diverso, di cui il primo costituirebbe

solo un presupposto, e che sarebbe passibile di tutela.

c)E’ stata avanzata però, anche una concezione diversa, spesso respinta dalla

giurisprudenza e dalla dottrina. Secondo questa concezione, l’interesse c.d.

materiale non va considerato come estraneo all’interesse legittimo, ma

costituisce la componente essenziale di quest’ultimo, perché identifica proprio il

“bene della vita” cui l’interesse legittimo è funzionale. Le modalità di tutela di un

interesse sono determinate dalle caratteristiche proprie dell’interesse stesso:

perciò la realizzazione del “bene della vita”, nel caso dell’interesse legittimo, si

attua in relazione al potere amministrativo e in base alle regole che lo

disciplinano.

7. Interessi legittimi e diritti soggettivi

Il rapporto tra interesse legittimo e diritto soggettivo è al centro delle riflessioni

della dottrina e della giurisprudenza, anche in una prospettiva “dinamica”. Già

nei primi anni successivi alla legge istitutiva della Quarta sezione, furono

analizzati con attenzione alcuni procedimenti, come quello espropriativo,

caratterizzati dall’incidenza del potere amministrativo su un diritto soggettivo

(un diritto reale) del cittadino: fu osservato che, per effetto del decreto di

esproprio, il diritto soggettivo si estingueva una volta emanato il decreto di

esproprio (il privato non era più proprietario) , lasciando posto a un interesse

legittimo (il privato lo poteva impugnare davanti al giudice amministrativo).

29

Page 30: Aldo Travi Lezioni di giustizia amministrativa 123.doc

Lo stesso modello fu, poi, prospettato in modo simmetrico per i c.d. diritti in

attesa di espansione, consistenti nelle trasformazione di un interesse legittimo

in diritto soggettivo, per effetto di un determinato provvedimento amministrativo

con effetti costitutivi. La degradazione in genere veniva ricondotta al carattere di

autoritatività , che determinerebbe l’estinzione del diritto soggettivo e quindi la

sua trasformazione in interesse legittimo.

La teoria della degradazione non è però accettabile. Nel corso di una procedura

espropriativa, il proprietario del bene rimane titolare di un diritto reale fino al

decreto di esproprio: tale decreto determina l’acquisto del bene in capo al

soggetto espropriante e perciò l’estinzione del diritto di proprietà del cittadino.

Nei confronti del potere espropriativo il proprietario è però titolare di un

interesse legittimo, conformemente ai principi generali e senza immaginare

alcuna degradazione. L’Amministrazione esercita un potere in senso proprio e

l’interesse legittimo sorge con l’esercizio del potere e non prima del decreto di

esproprio. Che non vi sia una trasformazione del diritto soggettivo in interesse

legittimo è dimostrato dal fatto che coesistono insieme: l’interesse legittimo

rispetto al potere espropriativo e il diritto soggettivo ad ogni altro effetto.

8.Interessi legittimi e risarcimento del danno

Nella discussione sul rapporto fra interesse legittimo e diritto soggettivo ha avuto

particolare rilievo la questione del risarcimento dei danni cagionati ad

interessi legittimi: si tratta di danni provocati da provvedimenti amministrativi o

dal silenzio dell’Amministrazione. Nell’affermare che la lesione di un interesse

legittimo fosse risarcibile, la giurisprudenza era orientata nettamente in senso

negativo perché il diritto al risarcimento presuppone la lesione di un interesse

sostanziale.

a)Fino alla fine degli anni ’90, la giurisprudenza dei giudici civili, ammetteva una

responsabilità civile dell’Amministrazione, solo nel caso di lesione di un diritto

soggettivo, sulla base di una lettura dell’art.2043 c.c. che identificava il

<<danno ingiusto>> passibile di risarcimento, con il danno arrecato a diritti

soggettivi. Di conseguenza, per esempio, la Cassazione negava al cittadino il

risarcimento per i danni provocati da un diniego illegittimo di concessione

edilizia, e ciò anche se il diniego fosse annullato dal giudice amministrativo. Solo

se il provvedimento illegittimo aveva inciso su un diritto soggettivo preesistente,

estinguendolo, allora la conclusione poteva essere diversa. L’annullamento del

provvedimento illegittimo avrebbe ripristinato in via retroattiva il diritto

30

Page 31: Aldo Travi Lezioni di giustizia amministrativa 123.doc

soggettivo. Una volta venuto meno il provvedimento, sarebbe risultato che

l’Amministrazione aveva ingiustamente conculcato il diritto soggettivo; la lesione

a questo punto sarebbe stata riferibile a un diritto e avrebbe potuto essere

risarcita. Applicando questo schema, il risarcimento del danno causato da

provvedimenti amministrativi sarebbe stato possibile solo se la posizione del

cittadino fosse stata un diritto soggettivo “fin dall’origine”. Inoltre, per il

risarcimento sarebbe stato sempre necessario l’annullamento del provvedimento

lesivo: solo l’annullamento poteva “ripristinare” il diritto soggettivo su cui aveva

precedentemente inciso il provvedimento. Una volta verificatesi tutte queste

condizioni, il risarcimento sarebbe spettato, senza la necessità di verifiche

concernenti l’elemento soggettivo della condotta lesiva.

La giurisprudenza non delineava solo una disciplina del risarcimento dei danni

cagionati da provvedimenti amministrativi, ma ricavava da questa disciplina

anche una regola pratica sul rapporto fra le giurisdizioni. Risultava necessario

prima esperire l’azione di annullamento davanti al giudice amministrativo; solo

successivamente, si poteva esperire l’azione civile per i danni.

b)La posizione della giurisprudenza era quindi negativa rispetto alla risarcibilità

degli interessi legittimi; era ammesso in genere solo per la lesione di un diritto

soggettivo. Questa posizione fu abbandonata dalla Cassazione, solo con la

sentenza delle Sezioni Unite 22 luglio 1999, n.500. Gli argomenti invocati per il

mutamento di indirizzo furono, innanzi tutto, di diritto sostanziale e

riguardarono l’interpretazione complessiva della responsabilità aquiliana

nell’art.2043 c.c. La Cassazione affermò che tale articolo non integrava le

disposizioni sulla tutela dei diritti soggettivi, ma aveva una propria autonomia,

perché assicurava la ripartizione del danno ingiustamente subito da un soggetto

a causa del comportamento di un altro soggetto. Nel suo intervento la

Cassazione riconosceva espressamente la natura sostanziale dell’interesse

legittimo e nello stesso tempo, però, sottolineava la specificità dell’interesse

legittimo, rispetto al diritto soggettivo, rilevando che per il risarcimento, non era

necessaria anche una lesione <<al bene della vita>> correlato all’interesse ed

inteso come “utilità finale”. In concreto l’interesse legittimo riguarda una

posizione di vantaggio che il cittadino intende conservare nei confronti

dell’Amministrazione che esercita il suo potere, il danno risarcibile si identifica

col sacrificio della posizione di vantaggio (bene della vita) ad opera del

provvedimento illegittimo. Questo è il caso dei c.d. interessi oppositivi, ossia

interessi legittimi che ineriscono alla conservazione di un bene o di altra

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Page 32: Aldo Travi Lezioni di giustizia amministrativa 123.doc

posizione di vantaggio attuale. Invece se l’interesse legittimo inerisce alla

pretesa del cittadino di ottenere un provvedimento favorevole che gli attribuisca

un bene o una posizione di vantaggio (c.d. interesse pretensivo), un danno

risarcibile si configura solo se la pretesa del cittadino, sarebbe destinata ad

ottenere un esito positivo.

In questo quadro viene meno la necessità di subordinare l’azione per i danni al

previo annullamento del provvedimento amministrativo. Tale necessità si

ricavava dall’esigenza di ripristinare la posizione originaria di diritto soggettivo,

estinta dal provvedimento amministrativo: solo il diritto soggettivo, infatti,

poteva essere risarcito. Ma nel momento in cui si riconosce la risarcibilità

dell’interesse legittimo, viene meno anche la necessità dell’annullamento del

provvedimento lesivo: secondo le Sezioni unite, per il risarcimento dei danni era

richiesto l’accertamento della illegittimità del provvedimento, non più il suo

annullamento. La Cassazione sostenne che per il risarcimento degli interessi

legittimi era essenziale la dimostrazione della imputabilità dell’illecito

all’Amministrazione a titolo di colpa o di dolo. La tesi precedente, che risolveva la

colpa nell’illegittimità dell’atto amministrativo, si riferiva al caso di lesione di

diritti soggettivi; invece, per la lesione di interessi legittimi, resterebbe ferma la

regola generale del codice civile, che comporta la necessità di una verifica

puntuale dell’elemento soggettivo.

Alla pronuncia della Cassazione del 1999 fecero seguito le disposizioni che

estesero la giurisdizione amministrativa alle vertenze risarcitorie (art.7, legge

n.205/2000). I giudici amministrativi hanno confermato in pieno il principio della

risarcibilità, nello stesso tempo però, hanno espresso indirizzi diversi sul modello

di responsabilità da applicare. Hanno messo in discussione le tesi della

Cassazione sul rapporto fra annullamento dell’atto e tutela risarcitoria,

sostenendo in genere che il risarcimento presuppone l’annullamento dell’atto

lesivo.

Sulla necessità di identificare una lesione al bene della vita sono emerse

posizioni nuove; alcuni giudici amministrativi hanno ammesso il risarcimento

anche nel caso di ritardo nell’emanazione del provvedimento favorevole

spettante al cittadino, o nel caso in cui l’illegittima esclusione del procedimento

avesse pregiudicato la possibilità di un esito favorevole, probabile ma non certo.

Questa conclusione è stata criticata dal Consiglio di Stato, che ha sostenuto che

quando non spetta un provvedimento favorevole, non è neppure configurabile

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Page 33: Aldo Travi Lezioni di giustizia amministrativa 123.doc

una lesione a un “bene della vita” e senza una lesione al “bene della vita” non vi

sarebbe spazio per un risarcimento.

9. Interessi legittimi e interessi semplici

Dalle posizioni soggettive garantite nel nostro ordinamento, rimangono estranei i

c.d. interessi semplici. Essi corrispondono agli interessi che non assurgono né

al livello dei diritti soggettivi, né al livello degli interessi legittimi. Sono interessi

semplici, ad esempio, gli interessi dei cittadini che non risultano “differenziati”.

La loro distinzione dagli interessi legittimi, comporta l’esclusione di una loro

tutela giurisdizionale. La tutela degli interessi semplici è prevista solo in casi

eccezionali, da disposizioni che hanno una portata tassativa. La gravità di questo

aspetto ha suscitato un dibattito molto ampio, che ha condotto ad estrapolare,

dall’ambito degli interessi semplici, alcune tipologie particolari. La discussione ha

riguardato gli interessi c.d. collettivi o di categoria, con riferimento alla

possibilità che essi possano configurarsi come interessi legittimi delle

associazioni o degli altri enti che rappresentano la collettività o la categoria. Nel

caso dell’interesse di categoria l’associazione farebbe valere infatti un interesse

che non sarebbe direttamente proprio, ma che sarebbe piuttosto degli associati e

di riflesso coinvolgerebbe l’associazione. La giurisprudenza amministrativa ha

riconosciuto in capo a queste associazioni la titolarità dell’interesse di categoria,

consentendo ad esse di farlo valere come un proprio interesse legittimo. La

discussione più accesa ha riguardato, però, gli interessi diffusi, che

corrispondono all’interesse generale dei cittadini a certi beni comuni, come

l’ambiente , etc. Oggi, alcune disposizioni speciali ammettono la tutela di

determinati interessi diffusi, demandandola però, non al singolo, ma a particolari

associazioni. Determinate associazioni, pur non essendo titolari di un interesse

legittimo, hanno ottenuto una particolare legittimazione a ricorrere, sia nel caso

degli interessi collettivi che nel caso degli interessi diffusi. Nel caso degli

interessi collettivi, la legittimazione è riconosciuta all’associazione ma si cumula

con quella del singolo cittadino interessato, nel caso dell’interesse diffuso la

legittimazione dell’associazione non è fungibile con quella del cittadino, perché

l’interesse diffuso non può essere fatto valere in quanto tale in sede

giurisdizionale dal singolo.

In molti casi, l’insieme dei cittadini interessati è di tale estensione che, pur

essendo riconoscibile, finisce con l’identificarsi con la generalità dei cittadini

33

Page 34: Aldo Travi Lezioni di giustizia amministrativa 123.doc

( emblematica è la disciplina della tutela dei consumatori e degli utenti, legge 30

luglio 1998, n.28).

Nel nostro ordinamento, la tutela degli interessi legittimi è assicurata, anche da

disposizioni costituzionali, con riferimento ai vizi di legittimità e solo raramente

è ammessa con riferimento ai vizi di merito. Nelle ipotesi in cui non sia prevista

una tutela in sede giurisdizionale o in via amministrativa per i vizi di merito, non

si può affermare che il cittadino, rispetto ai vizi di merito, sia carente di interesse

legittimo: è titolare di un interesse legittimo che però è privo di una tutela

rispetto a quei vizi.

Capitolo 5

I PRINCIPI COSTITUZIONALI SULLA TUTELA GIURISDIZIONALE DEL

CITTADINO NEI CONFRONTI DELLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE

1. Quadro generale

La tutela del cittadino nei confronti dell’Amministrazione rappresenta un profilo

nodale per definire la posizione del cittadino rispetto ai pubblici poteri. Non deve

quindi stupire che questa tutela abbia ricevuto, nel nostro e in altri Paesi, una

sanzione costituzionale. Nel caso della Costituzione italiana, i principi sulla tutela

nei confronti dell’Amministrazione hanno inciso in profondità sulla giustizia

amministrativa, perché hanno imposto trasformazioni significative. A giudizio di

molti, una incidenza di pari livello dovrebbe essere riconosciuta anche alle

disposizioni dei Trattamenti comunitari e delle altre norme comunitarie. I

rapporti fra le Amministrazioni e i cittadini sono stati al centro di molti interventi

comunitari che hanno avuto riflessi anche sulla tutela giurisdizionale.

Con riferimento agli istituti processuali, va segnalata l’esistenza di un’ampia

giurisprudenza della Corte di giustizia sulle misure cautelari nei confronti degli

atti amministrativi. La preoccupazione principale della Corte pare, soprattutto,

quella di assicurare che le modalità di tutela giurisdizionale negli ordinamenti

nazionali, siano adeguate all’esigenza di salvaguardare gli interessi della

Comunità europea. Per capire quali siano i caratteri fondamentali del diritto del

34

Page 35: Aldo Travi Lezioni di giustizia amministrativa 123.doc

cittadino alla tutela giurisdizionale nei confronti dell’Amministrazione,

l’attenzione principale deve essere diretta sempre alla Costituzione.

La Costituzione repubblicana intende indirizzare verso un’Amministrazione,

ispirata ai principi democratici e caratterizzata dal superamento della

tradizionale contrapposizione ed estraneità del cittadino, rispetto

all’Amministrazione. Le principali disposizioni costituzionali, in questo ambito,

possono essere distinte in disposizioni “sul giudice”, e in particolare sui giudici

speciali, in “disposizioni sull’azione” e disposizioni sull’assetto della giurisdizione

amministrativa.

2. I principi sul giudice

La Costituzione considera come valori essenziali: l’indipendenza, l’imparzialità e

la terzietà del giudice. L’imparzialità e la terzietà del giudice sono considerate

dall’art.111, 2° c., Cost. e ineriscono direttamente all’esercizio della

giurisdizione. Il giudice deve decidere senza essere condizionato dalle parti

(imparzialità) e restando in una situazione di indifferenza ed equidistanza,

rispetto agli interessi di cui esse siano portatrici (terzietà). Si tratta di principi che

costituiscono uno dei nuclei del c.d. giusto processo (art. 111 Cost.).

L’imparzialità e la terzietà vanno assicurate, rispetto all’organo giurisdizionale

nella sua interezza e rispetto ad ogni singolo componente dell’organo

giurisdizionale, che deve essere del tutto indifferente sul piano personale,

rispetto alla vertenza su cui è tenuto a pronunciarsi.

L’indipendenza del giudice, invece, inerisce alla relazione dell’organo

giurisdizionale con soggetti estranei al rapporto processuale, che potrebbero

influire sulle decisioni: si tratta del Governo e del potere politico in generale.

L’indipendenza da questi poteri rappresenta una sorta di condizione preliminare,

di rilevanza “ordinamentale”, che precede tutte le altre ed è essenziale per

l’esercizio della funzione giurisdizionale.

Nella Carta costituzionale riceve particolare considerazione l’indipendenza del

giudice ordinario, ma, questa caratteristica è essenziale per l’esercizio di ogni

funzione giurisdizionale e vale, pertanto, anche per il giudice amministrativo e

per gli altri giudici speciali. Il principio costituzionale dell’indipendenza del

giudice ha avuto un ruolo fondamentale nell’assetto della giustizia

amministrativa, determinando la soppressione di quasi tutte le giurisdizioni

amministrative speciali, diverse dal Consiglio di Stato e dalla Corte dei conti.

La VI disposizione transitoria e finale della Costituzione prevedeva la

35

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<<revisione>> di queste giurisdizioni speciali, da effettuarsi entro cinque anni: il

termine, però, fu ritenuto non perentorio, ed esse continuarono ad operare

immutate. Verso la fine degli anni ’60 furono sollevate questioni di legittimità

costituzionale delle disposizioni su questi organi giurisdizionali, in riferimento al

principio di indipendenza del giudice speciale, sancito dagli artt. 101 e 108 Cost.

Furono dichiarate illegittime le disposizioni sulla composizione dei Consigli di

Prefettura, della Giunta amministrativa provinciale e delle Sezioni per il

contenzioso elettorale.

I giudici amministrativi non sono soggetti al Consiglio superiore della

magistratura, che è organo di autogoverno dei soli magistrati ordinari. Presso il

Consiglio di Stato è istituito un apposito organo di autogoverno dei giudici

amministrativi, il Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa, le cui

competenze sono state definite dalla legge 27 aprile 1982, n. 186. La legge 21

luglio 2000, n. 205 ha stabilito che, del Consiglio di presidenza facciano parte,

oltre al presidente del consiglio di Stato ed altri giudici amministrativi, designati

dal Consiglio di Stato e dai TAR, anche alcuni cittadini scelti dalle Camere.

3. I principi sull’azione: l’art. 24, 1° e 2° comma, e l’art. 111, 2° comma,

Cost.

L’art. 24, 1° comma, Cost(leggere articolo). garantisce il diritto d’azione,

configurando tale diritto, sia con riferimento alla tutela di diritti soggettivi, che

con riferimento alla tutela di diritti soggettivi, che con riferimento alla tutela di

interessi legittimi. Questa garanzia è estesa e precisata nel 2° comma rispetto al

diritto di difesa. In tal modo, la norma costituzionale ha operato un importante

riconoscimento della rilevanza istituzionale della tutela degli interessi legittimi,

che acquista piena dignità rispetto alla tutela “necessaria” dei diritti soggettivi.

Nello stesso tempo, la norma costituzionale ha posto una serie di vincoli e di

problemi. In particolare: a) è di rango costituzionale il principio secondo cui la

tutela giurisdizionale nei confronti dell’Amministrazione è articolata in tutela dei

diritti soggettivi e in tutela degli interessi legittimi; b) la collocazione dei diritti

soggettivi e degli interessi legittimi ha fatto sorgere la convinzione che la

Costituzione sancisse una certa interpretazione dell’interesse legittimo, da

intendersi come posizione qualificata di carattere sostanziale. Di conseguenza

l’interesse legittimo assurgerebbe al rango di interesse individuale del cittadino,

che lo fa valere. In realtà non sembra che da una posizione costituzionale, come

l’art. 24, 1° c. Cost. si possano desumere argomenti specifici a favore

36

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dell’interpretazione sostanziale dell’interesse legittimo. La norma afferma il

principio della completezza della tutela e non la natura dell’interesse legittimo.

L’art. 24 Cost., norma-guida per l’assetto della giustizia amministrativa, è stata

la ragione par alcuni interventi significativi della Corte costituzionale, anche, su

singoli atti ( della stessa giust. amm.). Tali interventi sono raggruppabili, in

considerazione di alcune questioni generali, di seguito elencate:

1) rilevanza del principio di effettività della tutela giurisdizionale

rispetto alla tutela cautelare. La garanzia del diritto comporta la possibilità di

chiedere al giudice amministrativo misure cautelari, per evitare che la durata del

giudizio produca un danno irreparabile all’interesse del ricorrente.

Nel caso del procedimento amministrativo, la Corte costituzionale ha sempre

valutato con rigore gli interventi del legislatore che limitavano la possibilità di

una tutela cautelare, affermando la sua netta preferenza per una interpretazione

della legge, che fosse compatibile con la permanenza della tutela cautelare. Alla

stregua di queste pronunce, le ragioni della tutela cautelare non possono

ritenersi assorbite dalla previsione di riti accelerati per la definizione del giudizio.

Principi analoghi sono stati affermati dalla Corte costituzionale anche per il

giudizio civile, quando venga impugnato un atto amministrativo. Non si deve

ritenere, però, che il principio della effettività della tutela giurisdizionale comporti

la necessità per il legislatore di adottare le medesime soluzioni nel processo

civile e nel processo amministrativo(nel potere amministrativo non è ammessa

una tutela cautelare prima del giudizio, nel processo civile si). La Corte

costituzionale ha ritenuto che l’esclusione di una tutela cautelare “ante causam”

non sia illegittima, perché la disciplina vigente assicura comunque, nel processo

amministrativo, una tutela cautelare sufficientemente tempestiva.

2) rilevanza del principio della effettività della tutela giurisdizionale nel

giudizio in materia di pubblico impiego. In questa materia la Corte

costituzionale ha considerato l’esigenza di assicurare per i pubblici dipendenti

una tutela equipollente a quella ammessa, in situazioni analoghe, ai dipendenti

con rapporto di lavoro privato. Già negli anni ’80, la progressiva assimilazione fra

i due ordini di rapporti, aveva reso poco giustificabile, la diversità di trattamento

sul piano dei contenuti della tutela processuale. Di conseguenza le pronunce

della Corte hanno preso in considerazione, anche l’art. 3 Cost., in riferimento al

principio di eguaglianza e al principio di ragionevolezza.

3) rilevanza giuridica del principio della effettività della tutela

giurisdizionale e limiti alla c.d. giurisdizione condizionata. Con il termine

37

Page 38: Aldo Travi Lezioni di giustizia amministrativa 123.doc

“giurisdizione condizionata” si intende l’accesso alla tutela giurisdizionale che

risulti subordinata al previo esperimento di un ricorso in via amministrativa. In

questi casi, poiché l’azione giurisdizionale è ammessa solo dopo la presentazione

del ricorso amministrativo, risulta impossibile adire immediatamente il giudice.

La questione della ammissibilità della giurisdizione condizionata ha, pertanto,

due risvolti: il primo attiene alla subordinazione dell’azione giurisdizionale ad un

adempimento estraneo al processo, come è il ricorso amministrativo, e il

secondo attiene alla esclusione della immediatezza della tutela giurisdizionale.

La prima giurisprudenza della Corte affermò che la garanzia costituzionale

avrebbe riguardato la “indefettibilità” dell’azione giurisdizionale e non la sua

immediatezza. Inoltre, l’illegittimità era configurata solo quando

l’assoggettamento del ricorso amministrativo, a termini brevi di decadenza,

risultasse incompatibile con la natura del diritto vantato dal cittadino.

A partire dalla fine degli anni ’80 si è affermato un diverso indirizzo della Corte

costituzionale, che ha considerato con sempre maggiore severità, le disposizioni

che condizionavano l’ammissibilità della tutela giurisdizionale, al previo

esperimento di un ricorso amministrativo: nelle pronunce più recenti sulla

giurisdizione condizionata, la Corte sembra considerarla incompatibile con

l’art.24 Cost. La Corte, inoltre, non ha ritenuto illegittime le disposizioni che

richiedono l’esperimento di forme di tutela non giurisdizionale, a pena di mera

improcedibilità dell’azione giurisdizionale.

Si tenga presente che, nei casi in cui sia prescritta la presentazione di un ricorso

amministrativo, a pena di improcedibilità e non di ammissibilità dell’azione

giurisdizionale, la necessità di presentare il ricorso amministrativo non

condiziona l’esercizio del diritto di azione, perchè , il suo mancato esperimento

non ne determina la perdita; tuttavia la necessità del ricorso amministrativo

esclude l’immediatezza della tutela giurisdizionale.

4) rilevanza del principio della effettività della tutela giurisdizionale e

subordinazione della tutela dei diritti soggettivi, al previo espletamento

di un procedimento amministrativo.

Nella legislazione sulle espropriazioni per pubblica utilità era previsto che la

pretesa del cittadino all’indennità potesse essere azionata in sede giudiziale, solo

dopo la determinazione dell’indennità, in via amministrativa. Di conseguenza,

fino al momento della determinazione dell’indennità, il proprietario espropriato,

pur essendo titolare di un diritto soggettivo, non avrebbe potuto farlo valere in

giudizio. La Corte costituzionale affermò che queste disposizioni erano

38

Page 39: Aldo Travi Lezioni di giustizia amministrativa 123.doc

incompatibili con l’art. 24, c. 1 Cost., sostenendo che, altrimenti, risulterebbe

rimessa <<all’arbitrio della Pubblica amministrazione, l’esperibilità della tutela

giurisdizionale>>.

5) illegittimità dell’arbitrato obbligatorio

Il codice di procedura civile, nel disciplinare la devoluzione ad arbitri di

controversie (art. 806 ss.), non pone limitazioni particolari rispetto alle

controversie con una Pubblica amministrazione.

La legge n. 205/2000, nell’estendere la giurisdizione esclusiva, ha previsto che,

anche le controversie su diritti soggettivi, devolute alla giurisdizione esclusiva,

possano essere risolte mediante arbitrato rituale di diritto (art. 6).

Il c.p.c. prevede che la devoluzione ad arbitri di una controversia richieda un

accordo fra le parti, di natura contrattuale. Alcune leggi speciali, tuttavia, hanno

previsto forme di arbitrato obbligatorie(nel senso che al privato è precluso il

ricorso al giudice ed ammessa una tutela solo davanti al collegio arbitrale), pur in

assenza di un accordo fra le parti. La Corte costituzionale ha ritenuto illegittime

queste disposizioni; l’esclusione della competenza del giudice può trovare

fondamento solo in una scelta compiuta dalle parti. La previsione di arbitrato

obbligatorio risulta in contrasto con l’art. 24 Cost. che garantisce l’accesso alla

tutela giurisdizionale. Inoltre risulta in contrasto con l’art. 102 Cost., che

riservando al giudice ordinario la funzione giurisdizionale, esclude implicitamente

che con una norma possono essergli sottratte vertenze di sua propria

competenza.

6) necessità di ammettere nel processo amministrativo l’istituto

dell’opposizione di terzo

Nel processo civile è contemplato l’istituto dell’opposizione di terzo (ordinaria),

per salvaguardare il terzo a un suo diritto in conseguenza di sentenze

intervenute senza che lui fosse stato posto nelle condizioni di partecipare al

processo ( art. 404 c.pc.) Un procedimento analogo non era previsto invece nel

procedimento amministrativo.

La Corte, nel 1995 ha dichiarato illegittimo l’art. 36, legge TAR, nella parte in cui

contempla l’opposizione di terzo fra i mezzi di impugnazione delle decisioni del

Consiglio di Stato.

Nel 1999, l’art. 111 Cost., veniva modificato, con l’affermazione del principio del

giusto processo. Il nuovo testo, oltre ad esigere la terzietà e l’imparzialità del

giudice, afferma il principio del contraddittorio, secondo cui non può statuire

sulla domanda se la parte, nei cui confronti è stata proposta, non sia stata

39

Page 40: Aldo Travi Lezioni di giustizia amministrativa 123.doc

regolarmente evocata in giudizio. In questa prospettiva, il principio del

contraddittorio integra il diritto alla difesa. Di recente, la Corte costituzionale

ne ha fatto applicazione a proposito del giudizio di ottemperanza. Senza

dichiarare l’illegittimità della norma vigente, ha affermato però che essa deve

essere applicata in coerenza con i principi costituzionali: di conseguenza, se il

ricorso per l’ottemperanza non sia stato già notificato dal ricorrente alla parte

resistente, il giudice amministrativo, d’ufficio, deve disporre la comunicazione, in

modo che la parte resistente possa difendersi adeguatamente. Il principio del

contraddittorio è stato invocato anche a favore del ricorrente, come elemento del

diritto d’azione, per sostenere, che il cittadino deve essere posto nelle

condizioni di conoscere con pienezza l’attività amministrativa che intende

contestare in giudizio.

Nel processo amministrativo, il principio del contraddittorio è parso talvolta in

conflitto con l’esigenza di rendere più spedito il giudizio. Per questo motivo, nella

legislazione più recente sono stati introdotti riti speciali : essi dovrebbero

consentire la decisione dei ricorsi in tempi molto stretti, anche prima che siano

scaduti i termini ordinari per lo svolgimento, ad opera delle parti, delle loro

attività di difesa. In particolare, se sia stata proposta un’istanza cautelare, la

decisione potrebbe intervenire prima che le parti abbiano potuto svolgere

attività, come la presentazione del ricorso incidentale da parte del

controinteressato e la presentazione dei motivi dei motivi aggiunti da parte del

ricorrente, che risultano essenziali per una difesa efficace. La Corte ha

riconosciuto l’importanza della celerità nella definizione del giudizio, che oggi è

sancita dall’art. 111 c. 2° Cost. n nel riferimento alla <<ragionevole durata>>.

4. I principi sull’azione: l’art.113 Cost.

L’art. 113 Cost. detta una serie di regole che attengono alla tutela del cittadino

nei confronti della Pubbl.Amm. Queste regole sono espressione del principio

secondo cui, che l’Amministrazione sia parte in causa non può, in alcuna modo,

giustificare limitazioni alla possibilità di tutela giurisdizionale del cittadino,

escludendo qualsiasi forma di privilegio processuale, in favore

dell’Amministrazione.

-L’art. 113, 1° c. Cost. definisce il rapporto fra la garanzia della tutela

giurisdizionale e la posizione della Pubblica Amministrazione. La norma precisa

che la garanzia della tutela giurisdizionale, contro gli atti dell’Amministrazione,

vale sia per i diritti soggettivi che per gli interessi legittimi. La distribuzione della

40

Page 41: Aldo Travi Lezioni di giustizia amministrativa 123.doc

giurisdizione fra giudice ordinario e giudice amministrativo deve essere tale da

assicurare la pienezza di tale tutela. La norma costituzionale garantisce

l’indefettibilità della tutela, senza però definire i contenuti. Inoltre, fino a quando

non è stata riconosciuta la possibilità di una tutela risarcitoria, la possibilità di

una tutela risarcitoria per la lesione di interessi legittimi, la tutela impugnatoria

non ammetteva alternative.

-L’art. 113, 2° c. Cost. impedisce di circoscrivere i margini della tutela

giurisdizionale, in relazione alla tipologia degli atti amministrativi impugnati o

alla tipologia dei vizi fatti valere in giudizio.

La norma ha determinato l’abrogazione delle disposizioni precedenti che

limitavano il ricorso al giudice amministrativo, solo ad alcuni dei vizi di

legittimità. La garanzia si estende, però, solo ai vizi di legittimità: rimangono

escluse, da ogni specifica protezione costituzionale, le possibilità di sindacato per

vizi di merito.

-L’art. 113, c. 3° Cost. rinvia alla <<legge>> per l’individuazione dei giudici

competenti ad annullare gli atti amministrativi e dei relativi casi ed effetti.

La norma esclude che nel nostro ordinamento valga una riserva costituzionale a

favore del giudice amministrativo del potere di annulla mento degli atti

amministrativi: non è stato “costituzionalizzato” il principio affermato dall’art. 4

della legge di abolizione del contenzioso amministrativo, sulla preclusione

per il giudice ordinario, di pronunce di annullamento. Di conseguenza non

possono essere ritenute illegittime quelle disposizioni legislative che

conferiscono al giudice ordinario il potere di annullare provvedimenti

amministrativi. D’altra parte la norma, però, esclude implicitamente che il potere

di annullamento degli atti amministrativi debba ritenersi un corollario necessario

di qualsiasi potestà giurisdizionale, nei confronti dell’Amministrazione, ma non è

sempre garantito che tale sindacato debba risolversi sempre in un potere di

annullamento.

L’art. 21-octies della legge n. 241/1990, stabilisce che la violazione di norme sul

procedimento o sulla forma degli atti, non ne comporta l’annullabilità. Stabilisce,

inoltre, che il provvedimento amministrativo non è annullabile per violazione

delle norme sulla comunicazione dell’avvio del procedimento.

5. I principi sull’assetto della giurisdizione amministrativa.

La Costituzione (art. 103, 1°c. ) ha sanzionato la regola del riparto di

giurisdizione fra giudice ordinario e giudice amministrativo, dopo aver

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Page 42: Aldo Travi Lezioni di giustizia amministrativa 123.doc

richiamato il ruolo del Consiglio di Stato e di altri organi di giustizia

amministrativa, quali giudici per la tutela nei confronti della Pubblica

Amministrazione, degli interessi legittimi e, in particolare materie indicate dalla

legge, anche dei diritti soggettivi. L’art. 103, c. 1° , sancisce la distinzione tra

giurisdizione civile e giurisdizione amministrativa e riconosce la possibilità che

quest’ultima sai estesa anche a vertenze con l’amministrazione, in tema di diritti

soggettivi: è la c.d. giurisdizione esclusiva, ammessa in particolari materie

indicate dalla legge.

L’art. 103, 1° c. richiama, inoltre, nella giurisdizione amministrativa, la presenza

di <<altri organi della giustizia amministrativa>>, richiamando, così, l’art. 125

Cost. che include un giudice amministrativo di <<primo grado>>, costituito poi

nei TAR. Il riferimento all’art. 125 Cost. è all’origine della interpretazione secondo

cui il doppio grado di giurisdizione, nel caso del giudice amministrativo,

sarebbe costituzionalizzato.

L’interpretazione dell’art. 125 Cost. sembrò essere accolta dalla Corte cost., ma

successivamente sembra essersi orientata nel senso di una interpretazione più

riduttiva della norma in esame. La Corte cost., nel 1998, ha escluso che l’art. 125

Cost. imponesse il principio del doppio grado: la norma costituzionale

imporrebbe solo di ammettere l’appellabilità della sentenze dei Tar.

Il raccordo tra giurisdizione amministrativa e giurisdizione ordinaria è assicurato

nell’art. 111. c .8°, Cost., dalla previsione che contro le decisioni della Corte dei

Conti e del Consiglio di Stato sia ammesso il ricorso alla Corte di Cassazione.

Capitolo 6

LA GIURISDIZIONE ORDINARIA NEI CONFRONTI DELLA PUBBLICA

AMMINISTRAZIONE

1. I criteri per il riparto fra giurisdizione ordinaria e giurisdizione

amministrativa

42

Page 43: Aldo Travi Lezioni di giustizia amministrativa 123.doc

Con la legge Crispi del 1889, la questione dei limiti della giurisdizione civile fu

affrontata per i rapporti fra sindacato giurisdizionale e autorità amministrativa: si

trattava di stabilire quale ambito dell’attività amministrativa fosse immune dal

sindacato giurisdizionale. A questo proposito, ebbe particolare rilievo la tesi della

distinzione tra atti di gestione e atti d’imperio. Questa tesi contrapponeva gli atti

posti in essere dall’Amministrazione, nell’ambito dell’attività di diritto comune,

agli atti posti in essere dall’Amministrazione, nella sua specifica qualità di

soggetto pubblico. Tale tesi fu criticata alla fine del secolo scorso e

successivamente abbandonata.

Dopo la legge del 1889, la previsione di due ordini di giurisdizioni (per la tutela

del cittadino nei confronti dell’Amministrazione) ha indirizzato l’indagine verso la

ricerca di regole certe par il riparto della competenza fra giudice ordinario

e Quarta sezione. Il tema ha una sua dimensione storica, perché la nozione di

“interesse legittimo” ha acquistato una più precisa consistenza, solo in un

momento successivo. La legge del 1889, infatti, non menzionava neppure gli

interessi legittimi, ma parlava genericamente di <<interessi>>.

In discussione, non sono stati però, solo, i criteri per definire l’interesse legittimo,

ma la discussione ha riguardato anche il piano della tutela processuale:

a) le origini del dibattito vengono ricondotte, tradizionalmente, ad una sentenza

della Cassazione del 1891 e ai successivi interventi di parte della dottrina, dalla

quale fu prospettato il c.d. criterio del petitum. In base alla elaborazione di

questo criterio, il dato peculiare della giurisdizione amministrativa era

rappresentato dal potere di annullamento degli atti impugnati: nel caso di un

provvedimento lesivo di un diritto soggettivo, si doveva ammettere la possibilità

per il cittadino di ricorrere avanti al giudice amministrativo, per ottenere

l’annullamento dell’atto.

Il criterio in esame comportava la possibilità per il cittadino di far valere come

<<interessi>> i diritti soggettivi. Una volta respinte, anche in seguito alla legge

del 1907, le proposte di fondare la giurisdizione amministrativa sul potere di

annullamento, il criterio in esame fu definitivamente abbandonato dalla

giurisprudenza, a partire dagli anni ’30. Le critiche formulate nei suoi confronti

sono state principalmente di due ordini: in primo luogo è stato rilevato che

interessi legittimi e diritti soggettivi sono posizioni distinte “qualitativamente”, in

secondo luogo la tesi del petitum finiva con l’aprire la strada ad una doppia

tutela, a scelta del ricorrente, avanti a ciascuno dei due giudici.

43

Page 44: Aldo Travi Lezioni di giustizia amministrativa 123.doc

Oggi, l’espressione “doppia tutela” viene richiamata per indicare alcune ipotesi

particolari, in cui, il cittadino, in una stessa situazione materiale, può agire

davanti al giudice ordinario per far valere un proprio diritto, oppure davanti al

giudice amministrativo per far valere un proprio interesse legittimo (esempio

delle vertenze in materia edilizia).

b) Il rigetto della tesi del petitum induce a valorizzare l’elemento della causa

pretendi : la controversia è del giudice amministrativo, se è fatto valere un

interesse legittimo; invece, è di competenza del giudice ordinario, se è fatto

valere un diritto soggettivo. A questo proposito costituisce un termine di

confronto la c.d. teoria della prospettazione, secondo la quale si deve

attribuire rilievo decisivo alla prospettazione della posizione giuridica soggettiva.

Se l’attore allega di essere titolare di un interesse legittimo, la tutela spetta al

giudice amministrativo, se, invece, si presenta come titolare di un diritto

soggettivo, è competente il giudice ordinario. La Cassazione ha respinto la tesi

della prospettazione, fin dal 1897.

c) La tesi accolta dalla Cassazione è stata designata come tesi del “petitum

sostanziale” : ciò che rileva è l’effettiva natura della posizione giuridica e la sua

oggettiva qualificazione come diritto soggettivo o interesse legittimo. Questa

conclusione pone, però, ulteriori problemi. In primo luogo, la valutazione sulla

sussistenza della giurisdizione si presenta come preliminare, rispetto alla

decisione sul merito, quindi, tale giudizio presenta una certa astrattezza. In

secondo luogo, l’insussistenza di una posizione di diritto soggettivo comporta,

per il giudice ordinario che sia stato adito, una pronuncia di rigetto della

domanda per infondatezza. Il giudice amministrativo, invece, è solito dichiarare

inammissibile il ricorso e non respingerlo perché infondato. Evidentemente,

dunque, non si è formato un orientamento unitario dei due ordini di giudici, in

merito alla verifica e alla rilevanza della giurisdizione.

2. Il riparto della giurisdizione nelle vertenze risarcitorie per danni a

interessi legittimi

Si è già accennato, come la Corte di Cassazione, con la sentenza della sezioni

unite n.500/1999, avesse finalmente ammesso la risarcibilità dei danni a

interessi legittimi. Poco tempo dopo, la legge n. 205/2000 (art. 7), assegnava

al giudice amministrativo la vertenze per il risarcimento dei danni nel caso di

lesione di interessi legittimi. Le vertenze per il risarcimento dei danni hanno per

oggetto un diritto soggettivo ( il diritto al risarcimento). Di conseguenza, la loro

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Page 45: Aldo Travi Lezioni di giustizia amministrativa 123.doc

assegnazione al giudice amministrativo comporta uno spostamento nella

giurisdizione, rispetto al criterio generale fondato sulla distinzione di situazioni

soggettive.

Nei casi di giurisdizione esclusiva, la competenza del giudice si estende a tutte le

vertenze risarcitorie per la lesione di interessi legittimi. Dubbi, invece, sono sorti

per altri casi; è stato, perciò, sostenuto che, nei casi in cui la domanda

risarcitoria prescinda dall’impugnazione dell’atto lesivo e il diritto al risarcimento

del danno non abbia carattere <<consequenziale>>, dovrebbe ammettersi

ancora la giurisdizione del giudice ordinario. La giurisprudenza amministrativa si

è espressa, invece, nel senso che tutte le vertenze risarcitorie per lesione ad

interessi legittimi spetterebbero oggi al giudice amministrativo.

Secondo la Corte cost., l’assegnazione al giudice amministrativo delle vertenze

risarcitorie non violerebbe l’art. 103 Cost., sul riparto di giurisdizione, ed inoltre,

la tutela risarcitoria costituirebbe una modalità della tutela giurisdizionale, nei

confronti della Pubblica amministrazione.

2. I limiti interni della giurisdizione ordinaria nel processo di

cognizione.

Il tema dei limiti interni della giurisdizione ordinaria coinvolge l’interpretazione

dell’art. 4 della legge di abolizione del contenzioso amministrativo. Ciò vale,

perché, il divieto di revocare o modificare <<l’atto amministrativo>> è stato

interpretato come impossibilità per il giudice di assumere qualsiasi decisione,

che potesse avere un’incidenza effettiva sull’attività amministrativa. La nozione

di “atto amministrativo” costituisce la linea discriminante per i poteri del giudice

ordinario nei confronti dell’Amministrazione (in base all’art. 4 della legge di

abolizione del contenzioso amministrativo). Una prima interpretazione portava

ad identificare tale nozione con qualsiasi atto dell’Amministrazione posto in

essere nell’interesse pubblico. Questa interpretazione, accolta con favore

dalla Cassazione, comporta una netta riduzione dei poteri del giudice ordinario,

in funzione dell’esigenza di garantire l’interesse pubblico.

Dopo l’entrata in vigore della Costituzione, la tesi esposta poc’anzi non ha più

alcuna ragion d’essere. Oggetto di protezione può essere solo ciò che, in base

alla legge, è soggetto di regime differenziato. La garanzia può riguardare solo

l’atto amministrativo, come espressione del “potere”

dell’Amministrazione; pertanto, là dove l’Amministrazione non esercita

un potere conferitole dalla legge, non si può ammettere alcuna

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Page 46: Aldo Travi Lezioni di giustizia amministrativa 123.doc

limitazione ai poteri del giudice. La garanzia dell’atto amministrativo trova la

sua ragion d’essere e la definizione del suo ambito, nel principio di legalità.

Analogamente, l’atto che, per un grave vizio, risulti inefficace non può essere

considerato espressione di un potere dell’Amministrazione. Pertanto, il

provvedimento che sia “nullo” non comporta alcun limite a carico del giudice

ordinario.

Il limite interno della giurisdizione civile va circoscritto a tutto ciò che non

costituisca espressione di un potere pubblico.

La questione dei limiti interni della giurisdizione civile è stata affrontata,

soprattutto, con riferimento alle tipologie di sentenze che il giudice ordinario può

emettere nei confronti dell’amministrazione. Si sostiene che, anche nelle

vertenze su rapporti di diritto privato, l’art. 4 (della legge di abolizione del

contenzioso) vieterebbe, al giudice ordinario, non solo di incidere direttamente

su atti amministrativi, o di condannare l’Amministrazione a <<revocare o

modificare>> propri atti, ma anche di emettere sentenze, per la cui esecuzione,

l’Amministrazione fosse tenuta a svolgere un’attività amministrativa. In questa

logica, le uniche sentenze compatibili con l’art. 4 cit. sembravano essere le

sentenze di mero accertamento e le sentenze di condanna al

pagamento di somme di denaro. Le prime erano ammesse perché il loro

carattere dichiarativo escludeva che potessero avere un’efficacia esecutiva; le

sentenze di condanna al pagamento di somme di denaro, invece, perché, si

traducono in un “dare” tipicamente “fungibile” e perché, altrimenti sarebbe stata

esclusa qualsiasi garanzia per il cittadino.

Le altre sentenze di condanna comporterebbero gradi più limitati di fungibilità

fra funzione amministrativa e attività del giudice, perché la loro esecuzione

richiederebbe un esercizio da parte dell’Amministrazione di un’attività

amministrativa qualificata.

In conclusione, il principio affermato dall’art. 4 della legge del 1865 sancirebbe la

distinzione fra attività giurisdizionale e attività amministrativa: ciò che è

configurato come attività specifica dell’Amministrazione non può essere oggetto

di interferenze del giudice, anche se il rapporto dedotto in giudizio inerisce al

diritto.

Il confronto di questa interpretazione con i principi costituzionali ha imposto di

ricercare ben altri limiti per i poteri del giudice ordinario nei confronti

dell’Amministrazione.

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Page 47: Aldo Travi Lezioni di giustizia amministrativa 123.doc

Questa conclusione risulta particolarmente chiara rispetto all’attività di diritto

privato dell’Amministrazione ( con riferimento, ad esempio, alle controversie fra

i dipendenti dell’Amministrazione, con rapporto “contrattuale” o “privatizzato” e

l’ente pubblico datore di lavoro).

Non si può, quindi, ammettere più una preclusione generale, per il giudice

ordinario, a pronunciare sentenze costitutive o di condanna nei confronti

dell’Amministrazione. Il giudice, quand’anche il cittadino avesse un diritto

soggettivo all’emanazione di un provvedimento, non potrebbe condannare

l’Amministrazione ad emettere il provvedimento richiesto e potrebbe solo

emettere sentenza di condanna al risarcimento dei danni. Per il resto, il giudice

può pronunciare qualsiasi tipo di sentenza nei confronti dell’Amministrazione e

può assumere ogni altra decisione prevista dalla legge, purché coerente con il

diritto fatto valere in giudizio.

L’affermazione di questa logica è avvenuta con difficoltà e riserve ad opera della

giurisprudenza. In particolare, fino a tempi recenti è stato escluso che il giudice

ordinario potesse emettere sentenze costitutive, ai sensi dell’art. 2932

c.c., nei confronti dell’Amministrazione, che non desse esecuzione a un

contratto preliminare. Si rilevava che la stipulazione di un contratto definitivo

comporterebbe sempre, per l’Amministrazione, la necessità di svolgere un

procedimento amministrativo, e che il giudice non poteva sostituirsi

all’Amministrazione, rispetto ad esso. Solo di recente, la Cassazione ha mutato

indirizzo, argomentando sulla base della considerazione che: ogni profilo di

discrezionalità amministrativa, dovrebbe ritenersi esaurito con il contratto

preliminare e che, concludendo tale contratto, l’Amministrazione avrebbe sancito

il proprio pieno assoggettamento al diritto comune.

Ugualmente emblematica è l’evoluzione della giurisprudenza civile in tema di

azioni cautelari o possessorie nei confronti dell’Amministrazione.

Originariamente si tendeva ad escludere qualsiasi possibilità di esperire tali

azioni nei confronti dell’Amministrazione. Oggi, invece, si sottolinea come

l’intervento del giudice sia precluso solo quando si richieda un provvedimento

d’urgenza che incida direttamente su un provvedimento amministrativo o sulla

sua esecuzione.

3. La disapplicazione degli atti amministrativi

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Al giudice ordinario, la legge di abolizione del contenzioso amministrativo

assegnò la capacità di procedere alla c.d. disapplicazione. Con l’art. 5 di

questa legge sono stati posti solo alcuni punti fermi:

* la disapplicazione presuppone l’esistenza di una controversia inerente a

un diritto soggettivo

* la valutazione degli atti amministrativi e dei regolamenti, ai fini della loro

disapplicazione, concerne solo la legittimità e non l’opportunità degli stessi

* attraverso la disapplicazione, il giudice può sindacare la legittimità dell’atto

amministrativo anche d’ufficio, per il solo fatto che l’atto è un elemento

rilevante per la decisione, e senza essere vincolato all’osservanza di alcun

termine particolare.

Così configurata, la disapplicazione si delinea come elemento di un modello di

tutela alternativo, rispetto all’impugnazione del provvedimento.

L’istituto della disapplicazione è stato utilizzato in due ipotesi: nel caso di una

pretesa di un privato verso l’Amministrazione, che si fondi su un atto

amministrativo, e nella controversia tra privati, in cui sia rilevante un titolo

rappresentato da un atto amministrativo.La disapplicazione presuppone che

l’atto amministrativo sia rilevante per la decisione e quindi sia produttivo di

effetti da disapplicare perciò non ha senso parlare di disapplicazione rispetto ad

un atto amministrativo inefficace.Di disapplicazione, ai sensi dell’art. 5, si può

trattare quando il giudizio verta su un rapporto giuridici determinato o

condizionato da un provvedimento amministrativo: la disapplicazione si riferisce

agli effetti prodotti dall’atto amministrativo e inerenti al rapporto dedotto in

giudizio. Invece, non è corretto invocare la disapplicazione nel caso di un atto

amministrativo “nullo”. Inoltre non è corretto invocare la disapplicazione, quando

un atto amministrativo rilevi come mera circostanza di fatto.

4. Il giudice ordinario e i procedimenti speciali nei confronti

dell’Amministrazione

Le regole desumibili dagli artt. 4 e 5 della legge di abolizione del contenzioso

amministrativo hanno una portata generale. Si tende ad escludere, oggi, che

l’art. 4 possa precludere al giudice ordinario di condannare l’Amministrazione a

un facere specifico o ad un pati , anche con incidenza diretta sull’attuazione di

provvedimenti amministrativi, quando ciò sia richiesto dalla tutela di un diritto

perfetto. In alcuni casi, il legislatore ha disciplinato alcuni giudizi sulla base di un

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assetto diverso dei limiti “interni” della giurisdizione ordinaria nei confronti

dell’Amministrazione.

-La tutela giurisdizionale del cittadino nei confronti dei provvedimenti con cui

siano state applicate sanzioni amministrative pecuniarie, spetta per legge al

giudice ordinario.

In materia di sanzioni amministrative il cittadino può ricorrere, proponendo

opposizione contro l’ordinanza-ingiunzione, mentre, prima dell’emanazione del

provvedimento sanzionatorio è ammessa, solo, una tutela in via amministrativa,

con la presentazione di difese e documenti (nel procedimento sanzionatorio).

La peculiarità di questo modello si giustifica con la logica della depenalizzazione

e l’esigenza di assicurare una tutela giurisdizionale piena. Fatto sta che

l’opposizione a sanzione amministrativa introduce un giudizio di tipo

impugnatorio, imperniato sulla contestazione di un atto dell’Amministrazione.

- Per gli accertamenti e trattamenti sanitari obbligatori, in condizioni di degenza

ospedaliera, l’art. 35 della legge n. 833/1978, prevede che il Sindaco disponga

l’effettuazione del trattamento; il provvedimento del Sindaco è immediatamente

efficace, ma deve essere convalidato dal giudice tutelare, entro un termine

perentorio molto breve. Nei confronti del provvedimento convalidato, il cittadino

interessato può ricorrere al Tribunale civile. La tutela spetta al giudice ordinario,

perché, in giudizio vi sono diritti primari di libertà.

-Nei confronti dei provvedimenti del Prefetto di espulsione de straniero, la legge

30 luglio 2002, n. 189, prevede che la tutela vada esperita avanti al giudice

ordinario: il ricorso va proposto entro 60 gg. al Tribunale civile ( oggi al giudice di

pace). Tuttavia, il quadro complessivo non appare omogeneo, perché, nell’ipotesi

di espulsione dello straniero, disposta dal Ministro dell’interno, per motivi di

ordina pubblico o di sicurezza dello Stato, il ricorso va proposto avanti al TAR.

Nel 2004, in seguito alla pronuncia della Corte cost. è stato disposto che

l’esecuzione del provvedimento di accompagnamento dello straniero alla

frontiera (in passato eseguibile a seguito di convalida del Tribunale) è sospesa

fino all’esito del giudizio di convalida ( in genere di competenza del giudice di

pace).

-La decisione del Garante, su un ricorso proposto a tutela dei diritti di privacy,

può essere impugnata dagli interessati, entro 30 gg. dalla comunicazione,

davanti al Tribunale civile. Il giudizio si svolge con il rito previsto per i

procedimenti in Camera di consiglio ed il Tribunale provvede con decreto,

49

Page 50: Aldo Travi Lezioni di giustizia amministrativa 123.doc

ricorribile solo per Cassazione, disponendo ogni misura necessaria per la tutela

dei diritti del cittadino.

6. Le disposizioni processuali particolari per il giudizio in cui sia parte

un’Amministrazione statale.

La circostanza che parte in giudizio sia una Pubblica Amministrazione non

comporta alcuna variazione delle regole del diritto comune. Unica variazione di

rilievo è quella determinata dalla disciplina dell’Avvocatura dello Stato, nel

caso di giudizi in cui sia parte una Amministrazione statale. L’Avvocatura dello

Stato rappresenta e assiste l’Amministrazione statale, in forza della legge, senza

la necessità di uno specifico mandato ( può compiere, cioè, gli atti processuali

per l’Amministrazione statale, senza necessità di una procura).

Per i giudizi civili in cui sia parte un’Amministrazione statale, l’art. 25 c. p. c.

assegna la competenza territoriale al giudice del luogo ove ha sede l’Avvocatura

dello Stato (c.d. foro erariale). Nelle cause promosse contro Amministrazioni

statali, gli atti introduttivi del giudizio devono essere notificati

all’Amministrazione statale (Ministero) competente, nella persona del

rispettivo Ministro, presso l’ufficio dell’Avvocatura dello Stato.

7. Il giudice ordinario e le controversie di lavoro dei dipendenti delle

Amministrazioni

Prima della riforma del 1993 per i dipendenti degli enti pubblici erano previste

due discipline: i dipendenti degli enti pubblici economici erano soggetti a un

rapporto di lavoro di diritto privato, secondo le regole del codice civile, mentre i

dipendenti degli altri enti pubblici erano soggetti ad un rapporto pubblicistico.

A partire dagli anni ’70, la disciplina del pubblico impiego è stata oggetto di una

profonda revisione. Alla fine di questa evoluzione, il d.lgs. n.29/1993 , ha

introdotto, su questa disciplina, una riforma ispirata alla c.d. privatizzazione o

contrattualizzazione del rapporto di pubblico impiego, accolta, da ultimo, nel

d.lgs n.165/2001. In base a queste disposizioni, i rapporti di lavoro dei dipendenti

delle Pubbliche amministrazioni sono regolati, dalle disposizioni del codice civile,

nonché dalle leggi sui rapporti di lavoro subordinato nell’impresa. Rimangono,

tuttavia, regolate dai principi sul pubblico impiego alcune categorie di

dipendenti dell’Amministrazione statale ( i magistrati ordinari e amministrativi,

gli avvocati dello stato etc.).

50

Page 51: Aldo Travi Lezioni di giustizia amministrativa 123.doc

Per il personale con rapporto contrattuale, la tutela giurisdizionale è di

competenza del giudice ordinario (giudice del lavoro), secondo la disciplina del

cod.civ. Invece, per il personale con rapporto di pubblico impiego, le vertenze

spettano sempre al giudice amministrativo, in sede di giurisdizione esclusiva.

La giurisdizione amministrativa è stata conservata per le vertenze concernenti le

procedure di concorso per l’assunzione del personale. Si tenga presente che,

invece, nel caso degli enti pubblici economici, anche le controversie relative alle

procedure concorsuali di assunzione sono di competenza del giudice ordinario.

La tutela giurisdizionale ,per il personale con rapporto contrattuale, presenta

profili peculiari: la competenza territoriale, per le vertenze di lavoro, spetta al

Tribunale civile nelle cui circoscrizione ha sede l’ufficio al quale è addetto il

dipendente. Non si applica, quindi, la disciplina del c.d. foro erariale.

Dal punto di vista processuale, nelle controversie di lavoro con Pubbliche

amministrazioni, al giudice ordinario è riconosciuta la capacità di adottare

qualsiasi ordine di pronuncia, di accertamento, costitutiva o di condanna,

richiesta dalla natura dei diritti tutelati.

La distinzione fra gli atti amministrativi e gli atti di diritto comune si riflette sui

poteri del giudice ordinario: il giudice può incidere direttamente sugli atti di

diritto comune assunti dall’Amministrazione, anche con pronunce costitutive,

mentre nel caso degli atti amministrativi può solo disapplicare.

L’argomento inerisce al diritto di sostanza. Nel caso dello Stato e degli enti

pubblici istituzionali, vi sono gli atti di organizzazione previsti dal d.lgs n.

165/2001. Essi sono configurati dalla legge come espressione di uno specifico

potere amministrativo.

Si tenga presente che, invece, un potere amministrativo di organizzazione

sembra escluso per la generalità degli enti pubblici economici ed è stato

espressamente escluso per le aziende sanitarie locali.

8. L’esecuzione forzata nei confronti dell’Amministrazione

Si devono ritenere esperibili, nei confronti dell’Amministrazione, tutte le forme di

esecuzione forzata previste dal codice civile.

Con riferimento all’espropriazione forzata emergono, però, questioni peculiari:

- Non tutti i beni dell’Amministrazione possono essere soggetti ad esecuzione

forzata; ciò vale in particolare per i beni demaniali e per i beni del

patrimonio indisponibile. Per tali beni, il codice civile non stabilisce un regime

di incompatibilità con l’espropriazione ma, dalla regola dell’art. 514 c. p. c. si

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Page 52: Aldo Travi Lezioni di giustizia amministrativa 123.doc

desume che sono impignorabili i beni necessari <<per l’adempimento di un

pubblico servizio>>.

Si deve perciò concludere che solo i beni del patrimonio disponibile sono

passibili di esecuzione forzata.

- L’esecuzione dei crediti dell’Amministrazione è stata oggetto in passato di

polemiche, non ancora superate. Era esclusa la possibilità di espropriare crediti

di cui l’Amministrazione fosse titolare, in virtù di rapporti pubblicistici, ed è

questo tuttora l’indirizzo della giurisprudenza, in tema di crediti per le entrate

tributarie. Si tendeva a limitare la possibilità di espropriazione delle somme già

nella disponibilità dell’Amministrazione e si attribuiva carattere di infungibilità e

rilevanza esterna agli adempimenti contabili imposti dalla legge

all’Amministrazione, per qualsiasi pagamento. Si affermava che, l’esecuzione era

possibile, solo, nei limiti degli importi che il bilancio dell’Ente pubblico non

destinasse a scopi specifici di interesse generale.

Solo negli anni ’80, la Cassazione ha mutato indirizzo ed ha riconosciuto che non

vi può essere discrezionalità, là dove c’è un obbligo di adempire ad una

condanna di pagamento.

La Cassazione sembra fare eccezione, solo, per quei fondi pubblici, soggetti ad

un particolare vincolo, diverso da quello risultante da un mero bilancio di spesa e

imposto da una legge speciale.

Dopo gli anni ’80, il legislatore ha introdotto nuovi limiti all’espropriabilità dei

beni dell’Amministrazione, precludendo del tutto l’espropriazione di beni e

limitando l’espropriazione dei crediti alle somme non impegnate dall’Ente per

pubblici servizi. Le innovazioni hanno riguardato i termini per l’adempimento di

sentenze di condanna, introducendo un termine dilatatorio per l’esecuzione

forzata.

- La sentenza del giudice civile può essere eseguita, anche, nelle forme del

giudizio di ottemperanza, davanti al giudice amministrativo, che può

provvedere ad assumere le iniziative necessarie per eseguire la sentenza. In

questo caso il giudice amministrativo può sostituirsi del tutto

all’Amministrazione.

Capitolo 7

I RICORSI AMMINISTRATIVI

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Page 53: Aldo Travi Lezioni di giustizia amministrativa 123.doc

1. Principi generali

Ricorso gerarchico e ricorso straordinario sono gli esempi più importanti di

ricorsi amministrativi. Questi ricorsi sono rimedi giuridici, diretti ad

un’autorità amministrativa, per ottenere da essa l’annullamento di un

provvedimento o la sua riforma (nel caso del ricorso gerarchico e del ricorso di

opposizione).

I ricorsi amministrativi non comportano l’esercizio di una funzione giurisdizionale;

i caratteri, la forma e l’efficacia della decisione sono quelli propri dell’atto

amministrativo. Sono strumenti di tutela di interessi qualificati e, quindi, di

interessi legittimi o diritti soggettivi. Ciò comporta una legittimazione limitata per

la presentazione del ricorso: rimangono estranei dalla protezione i c.d. interessi

semplici o di fatto.

Vige, inoltre, un principio dispositivo: l’annullamento dell’atto illegittimo non

può essere subordinato a valutazioni discrezionali, di opportunità, che non

trovino riscontro nei motivi del ricorso(la legittimazione spetta soltanto a chi

faccia valere un diritto soggettivo o un interesse legittimo): ciò consente di

distinguere i ricorsi amministrativi dalle denunce che qualsiasi cittadino può

presentare contro atti illegittimi, ma che possono solo sollecitare l’esercizio di

poteri di annullamento d’ufficio.

Nel nostro ordinamento, sono previste varie tipologie di ricorsi amministrativi: la

loro disciplina generale è contenuta nel d.lgs. 24 novembre 1971, n.1199. In

questo decreto sono contemplate quattro tipologie di ricorsi: gerarchico –

improprio – di opposizione – straordinario. Fra di essi, hanno carattere di

rimedi generali (per i quali non è richiesta una disposizione specifica che li

ammetta) : il ricorso gerarchico, (ammesso sempre in presenza di una relazione

gerarchica fra organi) e il ricorso straordinario (ammesso nei confronti di

provvedimenti definitivi).li altri 2 ricorsi hanno carattere di rimedi tassativi

perché sono esperibili solo quando siano espressamente previsti da una specifica

disposizione. Sulla base dei caratteri e della disciplina dei ricorsi amministrativi,

tali ricorsi vengono variamente classificati:

a) distinzione fra ricorsi ordinari e ricorso straordinario.

I ricorsi ordinari(ricorso gerarchico e in opposizione) sono ammessi solo nei

confronti di un provvedimento non definitivo. Con questo termine si

intendeva, in origine, l’atto emesso dall’organo collocato al vertice della struttura

gerarchica di un’Amministrazione. Fino alla istituzione dei TAR, il cittadino per

ricorrere al giudice amministrativo aveva l’onere di esperire previamente i ricorsi

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Page 54: Aldo Travi Lezioni di giustizia amministrativa 123.doc

amministrativi ordinari, proponendoli in più gradi, fino ad ottenere un

provvedimento definitivo. Con il d.p.r. n. 1199/1971 è stata introdotta la regola,

secondo cui, il ricorso ordinario è ammesso in un unico grado : di conseguenza,

se l’atto amministrativo da impugnare non è già di per sé definitivo, la definitività

si consegue, dopo aver esperito solo un grado di ricorso amministrativo.

Il ricorso straordinario, invece, è ammesso solo nei confronti di provvedimenti

definitivi.

Per valutare la rilevanza che la distinzione fra ricorsi ordinari e ricorso

straordinario assume oggi, si consideri che:

-nei confronti dei provvedimenti non definitivi lesivi di interessi legittimi,

sono ammessi sia il ricorso al giudice amministrativo che il ricorso al giudice

ordinario;

-nei confronti dei provvedimenti definiti lesivi di interessi legittimi, sono

ammessi sia il ricorso al giudice amministrativo che il ricorso straordinario;

-il ricorso al giudice amministrativo può essere esperito sia nei confronti di un

provvedimento definitivo, che nei confronti di un provvedimento non

definitivo;

-nei confronti dei provvedimenti lesivi di diritti soggettivi, il ricorso

amministrativo ordinario di regola è facoltativo ad eccezione dei casi di

giurisdizione condizionata.

b) distinzione fra rimedi rinnovatori e rimedi eliminatori.

Alcuni ricorsi amministrativi possono comportare solo “l’eliminazione”

(l’annullamento) del provvedimento impugnato. L’eliminazione del

provvedimento impugnato, fa salva, pertanto, la possibilità di ulteriori

provvedimenti amministrativi sulla medesima pratica, provvedimenti che

attengono all’esercizio di funzioni di amministrazione attiva.

Altri ricorsi amministrativi comportano, invece, la devoluzione dell’intera pratica

all’organo competente di decidere il ricorso: tale organo, se così viene richiesto

nel ricorso, non solo può “eliminare” l’atto impugnato, ma può anche modificarlo

o sostituirlo con un altro.

Nel caso dei ricorsi “rinnovatori” la decisione assorbe in sé, oltre alle valutazioni

sull’atto impugnato, anche il riesame della pratica: col ricorso si avvia un

procedimento che comporta, oltre all’eliminazione dell’atto, anche la sua

sostituzione con un altro (<<riforma>>). Di regola, sono innovatori i ricorsi

diretti ad un organo che è anche di per sé competente a provvedere sulla pratica

in questione e che quindi è titolare sia della funzione giustiziale, sia della

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Page 55: Aldo Travi Lezioni di giustizia amministrativa 123.doc

funzione di amministrazione attiva in quanto non comporta necessariamente la

conclusione della pratica inerente all’atto impugnato.

Sono sempre rimedi innovatori il ricorso gerarchico proprio e il ricorso in

opposizione. E’ eliminatorio il ricorso straordinario perché all’organo competente

è attribuito solo il potere di decidere il ricorso.

b) distinzione fra ricorsi ammessi solo per vizi di legittimità e ricorsi

ammessi anche per vizi di merito

L’utilità del ricorso non è circoscritta ai soli vizi di legittimità.

Il ricorso gerarchico assume rilievo nuovo, nell’organizzazione amministrativa:

non è più riflesso dei poteri riconosciuti al superiore gerarchico, ma esso è

strumento per introdurre un potere di ingerenza dell’organo superiore, rispetto

all’operato dell’organo di primo grado.

Il ricorso straordinario è, invece, rimedio ammesso solo per vizi di legittimità.

Questa limitazione, oggi, ha assunto carattere di necessarietà, perché, un

sistema amministrativo fondato sulle ragioni delle autonomie e del

decentramento, sarebbe incompatibile con un sindacato generale di merito

esercitato dall’Amministrazione statale nei confronti di Amministrazioni diverse.

Tutti i ricorsi amministrativi hanno carattere di “rimedi formali” : sono

assoggettati a modalità particolari di presentazione e a termini tassativi di

proposizione. La violazione di queste regole preclude la stessa configurabilità

dell’impugnativa come ricorso e la contestazione della legittimità dell’atto

impugnato, varrebbe come semplice esposto.

Nello stesso tempo, i ricorsi amministrativi non sono soggetti a forme o istituti

specifici dei mezzi di tutela giurisdizionale. Di conseguenza, per esempio, per la

loro presentazione non è necessaria la rappresentanza o l’assistenza di un

avvocato.

2. Il ricorso gerarchico: procedimento e decisione

In base al d.p.r. n. 1189/1971, il ricorso deve essere diretto all’organo

gerarchicamente sovraordinato a quello che ha emanato l’atto impugnato e va

proposto entro 30gg. dalla notificazione, o comunicazione, o pubblicazione o

piena conoscenza dell’atto da impugnare. Entro questo termine, il ricorso deve

essere trasmesso o all’organo cui è diretto, o all’organo che ha emesso l’atto

impugnato.La presentazione può essere effettuata anche a mezzo postale e la

data della raccomandata vale come data della presentazione.

55

Page 56: Aldo Travi Lezioni di giustizia amministrativa 123.doc

Il ricorso erroneamente rivolto ad un organo diverso da quello competente, non è

irricevibile: l’organo che lo ha ricevuto provvede d’ufficio a trasmetterlo

all’organo competente (art. 2).

Anche il ricorso gerarchico non sospende l’efficacia del provvedimento

impugnato: <<per giusti motivi>> l’organo competente per la decisione del

ricorso può sospendere, anche d’ufficio, l’esecuzione (art. 3). Dopo aver acquisito

le eventuali deduzioni dei controinteressati e aver effettuato gli adempimenti

istruttori che ritiene opportuni (art. 4), l’organo competente decide il ricorso,

esercitando nel caso di accoglimento, anche poteri rinnovatori (art. 5).

a)individuazione del soggetto cui è rivolto il ricorso gerarchico

Il ricorso gerarchico è ammesso in unico grado all’organo gerarchicamente

sovraordinato rispetto a quello che ha emanato l’atto impugnato, cioè il ricorso

va diretto all’organo immediatamente sovraordinato rispetto a quello di prmo

grado.Il ricorso gerarchico ha ormai il carattere di rimedio aggiuntivo, previsto a

tutela del cittadino più che a tutela di esigenze dell’amministrazione.La relazione

di gerarchia che rileva ai fini dell’ammissibilità del ricorso gerarchico è solo

quella di ordine esterno(cioè gerarchia fra organi) e non la gerarchia interna(cioè

tra gradi).

b)tutela del contraddittorio ( art. 4, 1° e 2° c., d.p.r. 1199/1971)

Il ricorrente non è tenuto a dare notizia del ricorso, né all’organo che ha emesso

l’atto di primo grado, né ai c.d. controinteressati. Rispetto all’organo di primo

grado non è prevista alcuna forma di contraddittorio: nel ricorso gerarchico

l’interesse istituzionale dell’Amministrazione è già garantita dal fatto che il

ricorso sia diretto all’organo sovraordinato a quello che ha emanato l’atto

impugnato. Per quanto riguarda i controinteressati, l’art. 4 impone, all’organo

adito con il ricorso, di comunicarlo ai controineteressati stessi, per consentire

loro di presentare <<deduzioni (memorie scritte) e documenti>>.

Nel ricorso gerarchico non vi è garanzia piena del contraddittorio e non è

prevista alcuna forma di tutela del diritto alla difesa, nel caso di espletamento di

adempimenti istruttori.

c)istruttoria (art. 4, c. 3°, d.p.r. n. 1199/1971)

Il contenuto dei mezzi istruttori non è definito dalla norma, pertanto, restano

fermi tutti i limiti generali posti all’Amministrazione per l’esercizio dei suoi poteri

istruttori. In particolare non sono ammessi i mezzi istruttori che incidano su diritti

costituzionalmente garantiti, né mezzi istruttori che producano effetti sulla

decisione, incompatibili con i principi sul procedimento amministrativo.

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Page 57: Aldo Travi Lezioni di giustizia amministrativa 123.doc

Fermi restando questi limiti, si ritiene che l’Amministrazione possa disporre ogni

mezzo istruttorio opportuno, purchè, sia congruente con le questioni sollevate

nel ricorso.Sulle parti non grava nessun onere della prova e perciò la verifica dei

fatti segnalati dalle parti è a carico esclusivo dell’amministrazione(non sono

ammessi fatti nuovi)

d)decisione (art. 5, d.p.r. n.1199/1971)

Si individuano, con questo articolo, i contenuti possibili della decisione del ricorso

gerarchico. Tali contenuti riflettono: la distinzione generale fra decisioni di rito

(rispetto alle quali è assorbente una questione attinente alle condizioni di

ammissibilità del ricorso) e decisioni di merito (sulla fondatezza o meno dei

motivi del ricorso).

La formulazione dell’art. 5, consente di ritenere superata una discussione, che in

precedenza aveva suscitato molte incertezze, sul rapporto fra poteri decisori e

poteri di amministrazione attiva dell’organo competente. L’articolo, pur

elencando i contenuti possibili della decisione del ricorso, non contempla

l’esercizio di poteri di amministrazione attiva. Ciò non significa, però, che

l’organo adito con il ricorso sia privato di tali poteri : essi rimangono fermi e

possono senz’altro essere esercitati, ma deve essere assicurata una chiara

distinzione fra poteri di amministrazione attiva e poteri di decisione del ricorso.

e)rapporti con il ricorso giurisdizionale (art. 20, 2° c., legge TAR)

Se nei confronti dello stesso atto venga proposto, dal medesimo cittadino, sia il

ricorso gerarchico che quello giurisdizionale, secondo la giurisprudenza,

prevarrebbe sempre il ricorso giurisdizionale, con la conseguenza che il ricorso

gerarchico, se proposto per primo, diventerebbe improcedibile, ovvero, se

proposto dopo quello giurisdizionale, sarebbe inammissibile.

L’incompatibilità dei due rimedi (gerarchico e giurisdizionale) emerge con

riferimento al caso di un atto che leda gli interessi legittimi di più cittadini.

Questa impostazione non sembra considerare l’ipotesi della contemporanea

pendenza dei due ricorsi, quando essi però abbiano contenuti diversi.

f)rimedi ammessi contro la decisione del ricorso gerarchico (art. 20, 2° c.,

legge TAR)

La decisione del ricorso gerarchico costituisce un provvedimento definitivo. Essa,

pertanto, è impugnabile con ricorso straordinario oppure, se lede interessi

legittimi, anche con ricorso al giudice amministrativo. L’impugnazione della

decisione segue le regole ordinarie. La dottrine prevalente sottolinea gli elementi

di diversità fra la tutela in via gerarchica e quella in via giurisdizionale.

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Page 58: Aldo Travi Lezioni di giustizia amministrativa 123.doc

Se viene accolta in sede giurisdizionale l’impugnazione di una decisione di rigetto

di un ricorso gerarchico, il giudice dovrebbe emettere una sentenza di

annullamento “con rinvio” e restituire gli atti all’autorità adita con ricorso

gerarchico ( se il ricorso sia stato accolto per motivi di forma o di procedura della

decisione amministrativa). Questa interpretazione appare ispirata ad una sorta di

confusione fra i due rimedi, più che alla necessaria distinzione fra i caratteri e le

modalità di essi.

3. Il ricorso gerarchico: il problema del “silenzio”

Uno dei temi centrali per lo studio dei ricorsi gerarchici è costituito del tema del

c.d. “silenzio”. Carattere essenziale dei ricorsi amministrativi è la costituzione

di un dovere di provvedere: bisogna, però, capire cosa si verifichi quando

l’amministrazione non decida un ricorso. Questa situazione è considerata dall’art.

6 del d.p.r. 1199/1971 e dall’art. 20 della legge TAR.

Da queste disposizioni si desume la fissazione di un termine di 90 gg., perché

l’Amministrazione decida il ricorso gerarchico. Quali effetti produca, però, la

scadenza del termine è oggetto tuttora di ampie discussioni.

La prima giurisprudenza della Quarta sezione prospettò la conclusione che il

silenzio mantenuto su un ricorso gerarchico non precludesse la possibilità di

proporre il ricorso giurisdizionale. In una pronuncia del 1902, la Quarta sezione

affermò che il ricorso doveva ritenersi ammissibile, anche nel caso in cui

l’Amministrazione competente, benché diffidata, non avesse preso in esame il

ricorso gerarchico del cittadino(nel silenzio doveva individuarsi una decisone di

tigetto da qui il termine silenzio-rigetto).

Oggi, questo modo di ragionare non viene più condiviso, perchè

l’Amministrazione che tace su un ricorso non assume alcuna determinazione, e

perciò nel “silenzio” dell’autorità adita con un ricorso gerarchico, non si può

identificare alcun atto.

Il superamento, a partire dagli anni ’60, dell’interpretazione tradizionale del

“silenzio rigetto”, come decisione “tacita” di rigetto del ricorso gerarchico, ha

condotto in un primo tempo ad elaborazioni diverse, soprattutto, ad opera del

Consiglio di Stato. Dopo la riforme del 1971 emergevano posizioni molto

eterogenee. Nel 1978 l’Adunanza plenaria riprendeva in esame al questione, alla

luce delle due disposizioni citate e prospettava le seguenti conclusioni: a) nel

silenzio mantenuto su un ricorso gerarchico non è identificabile un

provvedimento di rigetto, per la legge si limita ad attribuire valore di rigetto alla

decorrenza del termine;b) in ogni caso, una volta formulato il silenzio-rigetto, il

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Page 59: Aldo Travi Lezioni di giustizia amministrativa 123.doc

ricorso giurisdizionale si può proporre solo contro l’atto di primo grado, già

impugnato in via gerarchica c) la decorrenza del termine ha <<valore>>

equipollente ad una decisione di rigetto ed ogni eventuale decisione successiva

di accoglimento del ricorso deve ritenersi illegittima d)la decisione successiva di

rigetto esplicito del ricorso deve ritenersi improduttiva di effetti giuridici nuovi e,

quindi, deve considerarsi come atto meramente “confermativo”.

Nel 1989, il tema è stato nuovamente preso in esame dall’Adunanza plenaria del

Consiglio di Stato, in due decisioni che hanno comportato una significativa

revisione dell’indirizzo precedente. Si sostiene, ora, che la formazione del

silenzio-rigetto non privi l’Amministrazione, del potere di decidere il ricorso

gerarchico, ma consenta al ricorrente di scegliere fra la possibilità di un ricorso

giurisdizionale o straordinario, contro l’atto impugnato in via gerarchica e la

possibilità di attendere la decisione del ricorso gerarchico. In questo secondo

caso, alla scadenza del termine di 90 gg. corrisponde una situazione affine a

quella del silenzio-rifiuto: il cittadino, se l’Amministrazione tarda a decidere, può

notificare una diffida e poi tutelarsi, come nei confronti di un silenzio-rifiuto.

Per alcuni profili, le due decisioni del 1989 non sono riuscite, invece, ad

esprimere soluzioni coincidenti.

4. Il ricorso gerarchico improprio e il ricorso in opposizione

Il ricorso gerarchico improprio e il ricorso in opposizione sono rimedi

eccezionali: la loro esperibilità presuppone una specifica previsione normativa.

Tali ricorsi sono entrambi modellati sul ricorso gerarchico; quello improprio si

caratterizza per essere diretto ad un organo non gerarchicamente sovraordinato

a quello che ha emanato l’atto impugnato; quello in opposizione è diretto allo

stesso organo che ha emanato l’atto impugnato.

Un ricorso gerarchico improprio è rimedio previsto in alcune materie

particolari (impiego scolastico, ordinamenti professionali etc.), in ipotesi nelle

quali l’atto da impugnare sarebbe stato, già di per sé, definitivo.

Sembra logico affermare che il ricorso gerarchico improprio, risolvendosi in una

forma di sindacato puntuale su un atto, debba essere ammesso solo nell’ambito

di una identica Amministrazione, o nell’ambito di Amministrazioni riconducibili ad

Enti diversi, legati però da rapporti funzionali e non nell’ambito di

Amministrazioni diverse, caratterizzate reciprocamente da posizioni di autonomia

costituzionalmente garantite.

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Page 60: Aldo Travi Lezioni di giustizia amministrativa 123.doc

Questa impostazione non è accolta, però, dal Consiglio di Stato, che in sostanza

tende a considerare possibile il ricorso gerarchico improprio ad un’autorità

statale, anche nei confronti di un atto regionale.

Il ricorso in opposizione rappresenta uno strumento di limitata utilizzazione,

previsto in ipotesi particolari, che ricorrono soprattutto nel pubblico impiego.

Anche in questo caso il ricorso dà inizio ad un procedimento contenzioso, di

secondo grado, cosicché sembra possibile che, anche per il ricorso in

opposizione, resterebbe ferma la distinzione fra elementi rilevanti per la

decisione ed elementi che possono essere presi in considerazione, solo, alla luce

di una funzione distinta.

5. Il ricorso straordinario

Il ricorso straordinario al Presidente della Repubblica si caratterizza per

l’attuazione più puntuale della garanzia del contraddittorio e, soprattutto, per

l’introduzione di uno strumento specifico di garanzia, rappresentato dal parere

del Consiglio di Stato. Solo una deliberazione del Consiglio dei ministri può

consentire una decisione difforme . Queste circostanze e la previsione di un

termine, per la presentazione del ricorso (120 gg.), avrebbero potuto assegnare,

al ricorso in esame, un rilievo significativo per la tutela del cittadino, nei confronti

dell’Amministrazione. Invece, questo rimedio ha avuto un ruolo pratico

marginale, soprattutto, a causa dei ritardi dei Ministeri, nell’istruzione dei ricorsi.

Il ricorso straordinario è proposto contro provvedimenti definitivi, in relazione,

solo, a censure di legittimità, per l’annullamento dell’atto impugnato.Il

termine per il ricorso è di 120 g. dalla notificazione, pubblicazione o dalla

formazione del silenzio-rigetto.Entro tale termine il ricorso straordinario deve

essere notificato ad almeno uno dei controinteressati e presentato all’autorità

amm. Che ha emanato l’atto impugnato o al ministero competente per materia.

I controinteressati, entro 60 gg. dalla notifica del ricorso, possono presentare

<<deduzioni e documenti>> ed eventualmente un ricorso incidentale col quale

possono contestare la legittimità del provvedimento impugnato.

Su richiesta del ricorrente, il Ministro adito può sospendere, in via cautelare,

l’atto impugnato,previo parere conforme del Consiglio di Stato. Una volta

presentato il ricorso ed integrato il contraddittorio, il Ministero competente deve

procedere all’istruzione del ricorso; dopo di che , il ricorso deve essere trasmesso

al Consiglio di Stato per il parere che viene emesso da una sentenza

consultiva o da commissioni speciali ad hoc. L’istruttoria dovrebbe essere

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completata nei 120 gg. successivi al termine per le deduzioni dei

controineressati; scaduto inutilmente tale termine, è consentito al ricorrente

procedere all’interpello del Ministero e depositare, direttamente, il ricorso al

Consiglio di Stato, per il parere prescritto. Il Consiglio di Stato esprime il suo

parere, sulla base del quale, il Ministro formula la decisione, nei termini di una

sua proposta di decreto al Presidente della Repubblica. Se il Ministro

intende discostarsi dal parere del consiglio di Stato, deve sottoporre la

questione al consiglio dei Ministri. La decisione del ricorso straordinario è

assunta con le forme del decreto del Presidente della Repubblica di cui il ministro

proponente assume ogni responsabilità.Il controllo della Corte dei conti su questo

decreto è ammesso solo nel caso che il decreto sia stato assunto sulla delibera

del consiglio dei Ministri.La decisione del ricorso è impugnabile per revocazione,

con ricorso da proporre nelle stesse forme del ricorso straordinario e anche

l’impugnazione in sede giurisdizionale.

La garanzia del contraddittorio nei confronti dei controinteressarti riflette

l’esigenza di tutelare il diritto alla difesa.

La legge, invece, non prevede nulla del genere per l’Amministrazione che

abbia emanato l’atto impugnato, evidentemente sul presupposto che

l’attribuzione ad un’autorità amministrativa del potere di decidere il ricorso

assicurasse, già di per sé, la garanzia degli interessi complessivi

dell’Amministrazione.

La Corte costituzionale ha respinto questa logica, affermando che le stesse

garanzie previste per i contointeressati devono valere per l’Amministrazione

non statale che abbia assunto il provvedimento impugnato con il ricorso

straordinario.

L’intervento della Corte cost. implica il superamento di una concezione

monolitica dell’Amministrazione pubblica e il riconoscimento di un sistema di

pluralismo amministrativo : il Ministro e il Governo, nella decisione del ricorso

straordinario, non rappresentano l’Amministrazione nel suo complesso.

Il profilo peculiare della disciplina del ricorso straordinario è costituito dalla sua

alternatività con il ricorso al giudice amministrativo: non solo i due rimedi non

possono essere proposti contro il medesimo atto, ma non vale neppure un

criterio di preferenza per il ricorso giurisdizionale e la presentazione del ricorso

straordinario preclude quello giurisdizionale. Quest’ultima possibilità

comporterebbe, infatti, l’ammissibilità del ricorso al giudice

amministrativo, proposto contro il medesimo atto impugnato in via

61

Page 62: Aldo Travi Lezioni di giustizia amministrativa 123.doc

straordinaria. La preclusione della tutela giurisdizionale non lede i diritti

costituzionali del ricorrente, perché, è riconducibile ad una sua scelta, quella di

agire in via straordinaria. Potrebbe ledere, però, i diritti dei controinteressati, che

sarebbero assoggettati alla scelta del ricorrente, di ottenere una decisione in

sede straordinaria e in base al principio di alternatività non potrebbero ottenere

sul medesimo provvedimento una decisione giurisdizionale.

Per evitare questa conseguenza, il d.p.r. n. 1199/1971 contempla l’istituto

dell’<<opposizione>> dei controinteressati: essi, entro 60 gg. dalla notifica del

ricorso straordinario, possono chiedere che il ricorso sia deciso in sede

giurisdizionale e il ricorrente, se vuole insistere nell’impugnazione, può proporre

il ricorso avanti al giudice amministrativo.

L’impugnazione della decisione del ricorso straordinario, avanti al giudice

amministrativo (TAR), è ammessa solo per <<vizi di forma o di

procedimento>> . Concretamente, tali vizi possono riguardare solo fasi del

procedimento, successive al parere del Consiglio di Stato.

Capitolo 8

QUADRO GENERALE DELLA GIURISDIZIONE AMMINISTRATIVA

1. Premessa

Il ricorso al giudice amministrativo fu configurato innanzi tutto come mezzo

d’impugnazione dell’atto amministrativo. La disciplina legislativa del

processo amministrativo riflette, ancora oggi, questa concezione originaria.

Il ricorso al Consiglio di Stato ha assicurato le garanzia dell’interesse legittimo.

D’altra parte, agli organi della giurisdizione amministrativa (ossia ai TAR e al

Consiglio di Stato) la Costituzione assegna proprio la tutela degli interessi

legittimi nei confronti della Pubblica amministrazione. Di conseguenza, la tutela

degli interessi legittimi è devoluta al giudice amministrativo, anche quando non

sia possibile l’impugnazione di un provvedimento amministrativo: si pensi

alla tutela rispetto al silenzio dell’Amministrazione.

Queste considerazioni comportano la necessità di un adeguamento del quadro

normativo al ruolo primario di garanzia degli interessi legittimi, riconosciuto

anche dalla Costituzione al giudice amministrativo.

Un ulteriore elemento di complessità, per valutare il quadro generale del giudizio

amministrativo, è rappresentato dalla giurisdizione esclusiva. In questa

62

Page 63: Aldo Travi Lezioni di giustizia amministrativa 123.doc

ipotesi, il Consiglio di Stato, alla fine degli anni ’30, ha ammesso che il ricorso al

giudice amministrativo non sia subordinato all’impugnazione di un

provvedimento: il cittadino può far valere il suo diritto all’adempimento di

un’obbligazione. L’impugnazione di un provvedimento non rappresenta, quindi,

una condizione necessaria per la giurisdizione esclusiva. Il giudizio deve potersi

svolgere in forme adeguate anche per la garanzia del diritto soggettivo. La

giurisprudenza ha ammesso, a tal proposito, per esempio, un accertamento del

diritto, non soggetta ai termini di decadenza previsti per l’impugnazione di

provvedimenti.

Inoltre, uno dei principali obiettivi della legge n. 205/2000 è stata l’introduzione

di modalità di tutela più congrue per i diritti, non più condizionate dal modello

impugnatorio.

Molti autori hanno proposto di individuare, anziché un processo amministrativo

unitario, una serie di modelli distinti. A ciascuno di questi modelli

corrisponderebbe una disciplina propria, particolarmente per gli elementi di

identificazione della domanda, per i contenuti della sentenza, per i limiti del

giudicato, e quindi per quei profili che vengono sintetizzati nel c.d. oggetto del

giudizio.

Frequentemente è sottolineata la contrapposizione fra giudizio che verte

sull’impugnazione (c.d. giudizio su atti) e un giudizio che verte sulla fondatezza

di una pretesa, in tutto o in parte, autonoma da essi (c.d. giudizio su rapporti).

La generalizzazione del secondo modello viene da molti auspicata, per conferire

maggiore incisività all’azione giurisprudenziale nei confronti

dell’Amministrazione. Ciò non significa, però, che al giudice sia preclusa la

cognizione della pretesa sostanziale del cittadino.

Una distinzione più netta si riscontra, solo, nei casi in cui il giudice esaurisce la

sua funzione giurisdizionale con l’annullamento del provvedimento e tale

annullamento non esclude un nuovo esercizio dell’attività amministrativa.

Non si dimentichi, infine, che il processo amministrativo è assoggettato anche a

tutta una serie di regole comuni, che consentono ancora oggi un’analisi unitaria

dello svolgimento del processo amministrativo.

2. Le classificazioni generali: giurisdizione di legittimità e giurisdizione

estesa al merito

Nel processo amministrativo, la prima distinzione generale ha riguardato le

ipotesi corrispondenti alla c.d. giurisdizione di merito. Queste ipotesi sono

63

Page 64: Aldo Travi Lezioni di giustizia amministrativa 123.doc

costituite da alcuni ordini di controversie (che sono tassative, aventi il carattere

dell’eccezionalità e sono passibili di interpetrazione analogica), in genere,

definite in relazione all’impugnazione di determinati atti.

Fra le più importanti ipotesi di giurisdizione di merito vi sono:

-i ricorsi per l’esecuzione del giudicato del giudice civile o del giudice

amministrativo

-i ricorsi contro le ordinanze contingibili ed urgenti del Sindaco e i ricorsi contro

provvedimenti emanati al Sindaco in materia di igiene dell’abitato

-i ricorsi contro gli ordini di riduzione in pristino, emanati dal Prefetto

-i ricorsi contro i provvedimenti per la c.d. censura cinematografica.

La disciplina positiva della giurisdizione di merito prevede l’attribuzione al

giudice amministrativo di alcuni poteri aggiuntivi, per la cognizione e la decisione

della controversia.Il giudice amministrativo può utilizzare testimonianze,

ispezioni.

In sostanza, può utilizzare i mezzi istruttori previsti dal codice di procedura

civile.Per la giurisdizione di legittimità il giudice amministrativo può soltanto

annullare l’atto impugnato. Il giudice amministrativo può, anche, <<riformare

l’atto o sostituirlo>> (art. 26 legge TAR) e, quindi, introdurre le modifiche

necessarie per rendere il contenuto dell’atto immune da vizi riscontrati.

La distinzione tra le due ipotesi di giurisdizione è mantenuta dalla disciplina

vigente (artt. 26 e 27 t.u. Cons. Stato; art.7 legge TAR), tuttavia, le

caratteristiche della giurisdizione di merito non risultano ancora chiare e sono

riconducibili a due concezioni diverse.

a) Secondo l’interpretazione più tradizionale, la giurisdizione di merito si

caratterizzerebbe per il fatto che, l’impugnazione del provvedimento

amministrativo sarebbe ammessa, oltre che per vizi di legittimità, anche per vizi

di merito. Il giudice amministrativo, ove richiesto dal ricorrente, potrebbe

effettuare tutte le valutazioni utili per stabilire se l’attività amministrativa si sia

realizzata non solo in modo legittimo, ma anche in modo opportuno, efficace,

economico, adeguato etc.

Ne consegue che la discrezionalità amministrativa potrebbe essere oggetto di un

sindacato pieno del giudice.

Questa interpretazione è stata oggetto di alcune critiche, che hanno

riguardato,da un lato la possibilità di ricondurre alla giurisdizione di merito le

varie ipotesi contemplate dall’art. 27 t.u. Cons. Stato, dall’altro la congruenza

generale del sistema così delineato, rispetto alla distinzione fondamentale e

64

Page 65: Aldo Travi Lezioni di giustizia amministrativa 123.doc

istituzionale fra “Amministrazione”e “giudice amministrativo”. Se infatti si ritiene

che alla base della discrezionalità amministrativa possa essere anche una

valutazione di ordine politico, risulta problematico ammettere, in casi del genere,

un sindacato pieno del giudice.

b) Queste perplessità, rispetto all’interpretazione tradizionale, sono all’origine di

un’interpretazione diversa, che esclude che il giudice amministrativo possa

conoscere e decidere su vizi diversi da quelli di legittimità. Tipici della

giurisprudenza di merito sarebbero: l’attribuzione al giudice di un potere di

cognizione più ampio sui fatti e di un potere di decisione più esteso,

riconducibili, però, pur sempre al sindacato sui vizi di legittimità.

Nella logica di questa interpretazione, anche il potere di <<riformare l’atto o

sostituirlo>> non implicherebbe un sindacato esteso ai vizi di merito, ma

significherebbe solo che il giudice avrebbe oltre al potere4 di annullare l’atto

anche il potere di introdurre nell’atto le modifiche conseguenti all’accertamento

di vizi di legittimità.

c) Rispetto a queste due letture divergenti, la giurisprudenza non ha avuto

frequentemente occasione di prendere posizione, se si esclude il giudizio di

ottemperanza. Con riferimento a questo giudizio, il Consiglio di Stato ha

sostenuto che il giudice amministrativo potrebbe sostituirsi direttamente e

pienamente all’Amministrazione, senza trovare alcun ostacolo nell’esistenza di

poteri discrezionali o di valutazione tecnica, riconosciuti dalla legge

all’Amministrazione.

d) Nell’ipotesi della giurisdizione di merito, il cittadino che agisca in giudizio

facendo valere un suo interesse legittimo, potrebbe pretendere, non solo

l’annullamento dell’atto che abbia leso un suo interesse legittimo, ma anche la

tutela diretta, da parte del giudice, del “bene” cui egli tende. Infatti, il giudice,

accogliendo il ricorso, nei casi di giurisdizione di merito, non si limita ad

annullare il provvedimento illegittimo, ma può emettere una sentenza di riforma,

che assegna al cittadino il risultato che gli spetta secondo diritto, ovvero il

risultato che appare più conforme ad una valutazione corretta degli interessi in

gioco.

Questa considerazione, in passato, aveva fatto dubitare persino che in queste

ipotesi fosse identificabile un interesse legittimo, ma tale affermazione non è

stata condivisa dalla dottrina e dalla giurisprudenza prevalenti.

65

Page 66: Aldo Travi Lezioni di giustizia amministrativa 123.doc

3. Le classificazioni generali: giurisdizione limitata agli interessi

legittimi e giurisdizione estesa a diritti soggettivi (giurisdizione

esclusiva)

I) La giurisdizione amministrativa ha, come nucleo originario e tipico, la garanzia

degli interessi legittimi: questo carattere risulta sancito anche dall’art. 103 Cost.

Di conseguenza è stato sostenuto che il complesso rappresentato dai TAR e dal

Consiglio di Stato costituirebbe il giudice “ordinario” degli interessi

legittimi.

La decisione, da parte del giudice amministrativo, di controversie relative ad

interessi legittimi può comportare la necessità di un esame e di una decisione,

anche rispetto a diritti soggettivi.

Solo per le questioni concernenti lo stato e la capacità delle persone e per

l’incidente di falso, ogni decisione è riservata al giudice ordinario: si tratta,

infatti, di questioni che si ritiene possano essere decise, solo, con efficacia di

giudicato e che quindi non possono essere oggetto di cognizione da parte di un

giudice diverso da quello istituzionalmente competente.

Quando il giudice amministrativo, in una controversia per la quale la sua

giurisdizione concerna solo interessi legittimi, conosce e decide di diritti

soggettivi, si pronuncia su di essi, solo in via incidentale : la pronuncia su diritti

non costituisce giudicato.

Il giudice amministrativo, invece, anche quando la sua giurisdizione concerna

solo interessi legittimi, si pronuncia con forza di giudicato sul diritto al

risarcimento dei danni cagionati all’Amministrazione, in violazione di interessi

legittimi.

II) Accanto alla giurisdizione generale sugli interessi legittimi, in alcune ipotesi è

assegnata al giudice amministrativo una giurisdizione anche su diritti

soggettivi (c.d. giurisdizione esclusiva). In queste ipotesi il cittadino può

agire davanti al giudice amministrativo, non solo per tutelare suoi interessi

legittimi che ritenga lesi dall’Amministrazione, ma anche per tutelare i diritti

soggettivi, che egli vanti nei confronti di una Pubblica Amministrazione.

Fra le ipotesi di giurisdizione esclusiva, sono significative soprattutto le seguenti:

-Le controversie nelle materie identificate dall’art. 29 t.u. Cons. Stato, fra le quali

è di particolare importanza il pubblico impiego

-Alcune controversie in materie di pubblici servizi.

Il d.lgs. n. 80/1998 e la legge n. 205/2000 avevano assegnato alla giurisprudenza

esclusiva tutte le controversie in materia di <<pubblici servizi>>, accogliendo

66

Page 67: Aldo Travi Lezioni di giustizia amministrativa 123.doc

fra l’altro una nozione molto ampia di tale materia. Il giudice amministrativo era

competente per le vertenze sugli atti di regolazione (es. regolamenti tariffari),

per quelle sull’organizzazione di servizi, per quelle sull’affidamento, sulla

gestione, sulla vigilanza dei sevizi stessi. Erano, invece, riservate al giudice civile

le vertenze in materia di invalidità e quelle <<meramente risarcitorie>> per

danni a persone o cose.

La Corte costituzionale, con la sentenza n. 204/2004, ha ritenuto che questa

estensione della giurisprudenza esclusiva violasse l’art. 103 Cost. Ha, dunque,

circoscritto la giurisdizione esclusiva, in materia di pubblici servizi, alle vertenze

sulle concessioni di servizi, alle vertenze sui provvedimenti

dell’amministrazione o del gestore di un pubblico servizio, alle vertenze per

l’affidamento di un pubblico servizio.

La Corte non è intervenuta, invece, sul testo del d.lgs. n.80/1998 che assegna

alla giurisdizione esclusiva, le vertenze in teme di vigilanza sul credito, sulle

assicurazioni e sul mercato mobiliare e quelle sul servizio farmaceutico,

sui trasporti, sulle telecomunicazioni e sugli altri servizi di pubblica

utilità.

In realtà, i confini della giurisdizione esclusiva in materia di pubblici servizi

appaiono oggi piuttosto incerti.

Anche della materia <<urbanistica>> il legislatore ha proposto una nozione

ampia, ma non univoca. Sono comunque escluse dalla devoluzione al giudice

amministrativo, le vertenze in tema di indennità di occupazione o di esproprio,

di competenza del giudice ordinario. Questa esclusione ha indotto a ritenere che

la giurisdizione esclusiva si estenda, invece, a tutte le alter vertenze concernenti

occupazioni d’urgenza o espropriazioni per pubblica utilità.

-Le controversie relative all’affidamento di lavori, servizi o forniture da parte di

Pubbliche amministrazioni, ovvero da parte di soggetti privati, che siano però

tenuti ad applicare la normativa comunitaria o procedimenti di evidenza

pubblica, nelle scelta del contraente o del socio.

La giurisdizione esclusiva riguarda le vertenze relative solo alle <<procedure di

affidamento>>,non si estende, pertanto, alle vertenze relative all’esecuzione

delle prestazioni.

-Le controversie concernenti la concessione di beni pubblici (art. 5 legge

TAR).

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Page 68: Aldo Travi Lezioni di giustizia amministrativa 123.doc

La giurisdizione esclusiva, però, non si estende alle controversie concernenti

l’indennità, canoni o corrispettivi e neppure alle controversie sulle concessioni di

beni del demanio idrico.

-Le controversie concernenti la formazione, la conclusione e l’esecuzione degli

accordi c.d. pubblici.

-Le controversie concernenti la determinazione e la corresponsione

dell’indennizzo, dovuto ai soggetti direttamente interessati, da un

provvedimento amministrativo, nel caso intervenga la revoca del provvedimento

e comporti ad essi un pregiudizio.

-Le controversie fra privati e Amministrazione competente, concernenti la

dichiarazione di inizio attività.

-I ricorsi contro provvedimenti in materia di diritto d’accesso ai documenti

amministrativi etc.

Ferma restando la competenza del giudice ordinario per le questioni concernenti

lo stato e la capacità delle persone e l’incidente di falso, la competenza del

giudice amministrativo, nelle materie devolute alla giurisdizione esclusiva, si

estende alle domande risarcitorie, sia per la lesione di diritti soggettivi che per la

lesione di interessi legittimi.

L’estensione assegnata di recente alla giurisdizione esclusiva comporta, con

maggiore frequenza, che il giudizio amministrativo sia promosso, non da un

soggetto privato contro un Amministrazione , ma da un ‘Amministrazione contro

un privato, o da un soggetto privato contro un altro privato.

In alcuni casi, l’assegnazione al giudice amministrativo di vertenze promosse

contro privati, rispecchia criteri di ragionevolezza e di organicità. In altri casi è

giustificata dal fatto che il privato svolge compiti di specifica rilevanza

pubblicistica o che la sua attività è soggetta ad una disciplina pubblicistica.

4. Il riparto per “materia” nei casi di giurisdizione esclusiva

La giurisdizione esclusiva fu introdotta dal legislatore perché in molte vertenze

l’interesse legittimo e il diritto soggettivo risultavano strettamente correlati.Il

riparto fra giudice amministrativo e giudice ordinario, nelle ipotesi di

giurisdizione esclusiva segue il criterio della “materia” : artt. 28 e 30 t.u.

Cons. Stato. Le vertenze riconducibili a quella certa materia vanno proposte

avanti al giudice amministrativo, anche se il cittadino faccia valere in giudizio un

diritto soggettivo.

68

Page 69: Aldo Travi Lezioni di giustizia amministrativa 123.doc

Le disposizioni legislative sulla giurisdizione esclusiva non sono omogenee e

rispecchiano una nozione di “materia” non uniforme. In alcuni casi, la

devoluzione al giudice amministrativo è stata disposta dal legislatore rispetto ad

istituti generali o rispetto a singoli provvedimenti.

Talvolta l’ampiezza dei riferimenti contenuti nella legge ha giustificato letture

estensive da parte della giurisprudenza; altre volte, invece, il riferimento a

situazioni particolari è sembrato insuperabile. Il termine “materia” per la

giurisdizione esclusiva ha comunque un significato diverso rispetto ad altri

contesti: in alcuni casi sono incerti i limiti concreti delle materie. Ciò ha

riguardato, in passato, la giurisdizione esclusiva in tema di pubblici servizi e in

tema di urbanistica.

A queste difficoltà, la giurisprudenza cerca di rispondere, individuando un criterio

generale di lettura delle previsioni di giurisdizione esclusiva: in passato, la Corte

di cassazione e il Consiglio di Stato discutevano, soprattutto, sulla possibilità di

adottare criteri estensivi o invece restrittivi. Oggi, è centrale il richiamo alla Corte

costituzionale, che con la sentenza n. 204/2004 cit., ha sottolineato l’esigenza di

una interpretazione più rispettosa dell’art. 103 Cost. Secondo la Corte,

l’assegnazione, da parte del legislatore, di materie alla giurisdizione esclusiva,

deve presupporre una relazione fra l’ambito devoluto alla giurisprudenza

esclusiva e un potere amministrativo.

Questa conclusione richiede, però, alcune precisazioni.

In primo luogo la Corte costituzionale non ha considerato come “potere

amministrativo”, anche gli accordi pubblici previsti dall’art. 11 della legge n.

241/1990, tant’è vero che la legge li considera nel contesto di un procedimento e

li prevede in alternativa a provvedimenti.

In secondo luogo, la Corte non ha inteso limitare la giurisdizione esclusiva alle

sole vertenze che investono direttamente un potere amministrativo, ma ha

inteso colpire, invece, l’eccessiva estensione assegnata alla giurisdizione

esclusiva dal legislatore ordinario.

5. La giurisdizione esclusiva nel processo amministrativo attuale:

problemi e prospettive

Se il cittadino è leso da un provvedimento, esso va impugnato per vizi di

legittimità, secondo le regole generali (art. 29 t.u. Cons. Stato); solo in alcune

ipotesi tassative è conferito al giudice amministrativo il potere di pronunziarsi

<<anche in merito>>.

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Page 70: Aldo Travi Lezioni di giustizia amministrativa 123.doc

Il giudice amministrativo non è soggetto alle limitazioni stabilite dagli artt. 4 e 5

della legge di abolizione del contenzioso amministrativo, perché, esse valgono

solo per il giudice ordinario. Pertanto, se accoglie il ricorso contro un

provvedimento, procede all’annullamento dell’atto impugnato, o alla sua

“riforma” nei casi di giurisdizione anche di merito. Invece, si ritiene, in genere,

che il giudice amministrativo , anche nei casi di giurisdizione esclusiva, non

possa procedere alla “disapplicazione” di un atto amministrativo.

Maggiori problemi sono sorti nel caso in cui il cittadino sia leso, non da un

provvedimento, ma da comportamenti non riconducibili alla titolarità di un

potere. Nel corso degli anni ’30, la Cassazione sostenne che l’art. 29 t.u. Cons.

Stato , che assegnava al giudice amministrativo, in via esclusiva, <<i ricorsi al

rapporto d’impiego>>, considerava, anche, controversie di questo genere.

Nessuna disposizione considerava l’ipotesi di un diritto fatto valere senza che vi

fosse un provvedimento da impugnare.

Il Consiglio di Stato, alla fine degli anni ’90, superò l’equivalenza fra il ricorso al

giudice amministrativo e impugnazione di un provvedimento, elaborando la

distinzione fra provvedimenti ed “atti paritetici”.

L’atto “paritetico” è un atto o un comportamento posto in essere

dall’Amministrazione, come da qualsiasi soggetto di diritto comune. Pertanto, in

presenza di esso non vi è alcuna necessità di impugnare l’atto

dell’Amministrazione e il ricorso non è neppure soggetto ad un termine di

decadenza.

Di questa regola, la giurisprudenza fece applicazione inizialmente a proposito

delle pretese patrimoniali, nel rapporto di pubblico impiego; poi ha esteso

questa regola ad altri contesti, come quello dei diritti non patrimoniali in materia

di pubblico impiego e dei contributi per le concessioni edilizie.

La vicenda degli atti paritetici riflette la difficoltà di una tutela adeguata dei

diritti soggettivi nel processo amministrativo.

Tuttavia, la disciplina era carente per i contenuti e per le possibilità di tutela

cautelare, oltre che per la limitatezza dei mezzi istruttori e per le tipologie della

sentenza.

Oggi, soprattutto per effetto dell’estensione della giurisdizione esclusiva, operata

nel 1998-2000, parzialmente circoscritta dall’intervento della Corte costituzionale

del 2004, l’esigenza di assicurare una tutela efficace dei diritti, anche nella

giurisdizione esclusiva, è divenuta ancora più stringente.

A tale esigenza ha dato risposta la legge 21 luglio 2000 n. 205.

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Tale legge ha introdotto, nel procedimento amministrativo, i procedimenti di

ingiunzione ed ha assegnato al giudice amministrativo, nelle vertenze devolute

alla sua giurisdizione esclusiva, la possibilità di disporre di disporre tutti i mezzi

di prova previsti dal codice di procedura civile, esclusi solo l’interrogatorio

formale e il giuramento.

In questa logica, va considerato che l’art. 6, 2° c. della legge in esame consente

la devoluzione ad arbitrato (rituale di diritto) delle vertenze, su diritti assegnate

alla giurisdizione esclusiva.

Queste innovazioni non comportano, però, che nel giudizio amministrativo

possano essere esperite, a tutela dei diritti, tutte la azioni ammesse dal codice di

procedura civile.

Capitolo 9

L’AZIONE DEL PROCESSO AMMINISTRATIVO

1. Le condizioni generali per l’azione nel processo amministrativo

Le condizioni generali per l’azione sono:interesse a ricorre e legittimazione a

ricorrere in capo a chi promuova il giudizio.Sono designate condizioni generali

per l’azione perché il giudice una volta verificata la valida instaurazione del

processo deve accertare la loro sussistenza per poter procedere alla valutazione

del merito.Le conclusioni ricorrenti, rispetto al processo amministrativo, risultano

distanti da quelle raggiunte per il processo civile.

In questa sede è opportuno fare riferimento all’impostazione tradizionale.

a)La figura più controversa è quella dell’interesse a ricorrere. Richiamandosi al

principio sancito dall’art. 100 c.p.c., la giurisprudenza amministrativa identifica,

come condizione generale per l’azione, un interesse a ricorrere, inteso non

genericamente nei termini della idoneità dell’azione a realizzare il risultato

perseguito, ma come interesse proprio del ricorrente, al conseguimento di

un’utilità o di un vantaggio(materiale o morale), attraverso il processo

amministrativo.Secondo il Consiglio di Stato l’interesse a ricorrere assume

sempre una rilevanza concreta eccettuato forse l’azione di condanna.

In particolare, l’interesse a ricorrere avrebbe una specifica rilevanza, anche nelle

azioni costitutive, con la conseguenza che, in alcune ipotesi, pur essendo

configurabile la lesione di un interesse legittimo, non sarebbe assicurata una

tutela giurisdizionale, per mancanza dell’interesse a ricorrere.

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Page 72: Aldo Travi Lezioni di giustizia amministrativa 123.doc

Secondo la giurisprudenza, il risultato “utile” che il ricorrente deve dimostrare di

poter conseguire, ai fini dell’interesse a ricorrere , non si identifica sempre, con

la semplice garanzia dell’interesse legittimo.

Risultato “utile” potrebbe essere solo il conseguimento di una posizione di

vantaggio, non necessariamente identificabile con la ripristinazione dell’interesse

legittimo.

Dell’interesse a ricorrere, vengono predicati gli attributi della personalità (il

risultato deve riguardare direttamente il ricorrente), dell’attualità (l’interesse

deve sussistere al momento del ricorso), della concretezza (l’interesse a

ricorrere va valutato con riferimento ad un pregiudizio verificatosi,

concretamente, ai danni del ricorrente). Sulla base di questi elementi viene

ricondotta alla carenza d’interesse, l’esclusione della possibilità di impugnare, in

via autonoma o immediata, alcuni atti amministrativi(atti preparatori, atti

interni).

In questi casi, l’interesse a ricorrere sarebbe insussistente, perché, la lesione

può essere prodotta solo dal provvedimento conclusivo del procedimento, ovvero

solo da un atto che sia diventato esecutivo, ovvero solo in presenza di un atto

applicativo.

La configurabilità di un tale interesse viene richiesta, non solo ai fini

dell’introduzione del giudizio, ma anche ai fini della decisione del ricorso.

Il ricorso viene dichiarato inammissibile per “sopravvenuta carenza

d’interesse”: qualsiasi circostanza sopravvenuta, che precluda il

raggiungimento del risultato utile, rende inammissibile l’azione già efficacemente

proposta.

Alcuni autori hanno sottolineato la scarsa chiarezza di confini fra tale interesse e

l’interesse legittimo. Così, alcuni autori hanno proposto o l’assimilazione delle

due figure o una nozione di interesse legittimo, tale da assorbire quella

tradizionale di interesse a ricorrere. Ma, la giurisprudenza e la dottrina

prevalente sono invece ferme nel distinguere fra due ordini di interesse. Va

considerato, tuttavia, che anche nella giurisprudenza, a proposito dell’interesse a

ricorrere, alle affermazioni di principio corrispondono, spesso, prassi almeno in

parte diverse. Di fatto, la giurisprudenza attribuisce importanza all’interesse a

ricorrere, in una logica prevalentemente negativa: l’interesse a ricorrere rileva,

non come fattore che giustifica l’azione, ma come fattore, la cui mancanza,

preclude la pronuncia sul merito del ricorso.

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Page 73: Aldo Travi Lezioni di giustizia amministrativa 123.doc

b) Per quanto riguarda la legittimazione a ricorrere, va osservato che essa

viene ancora interpretata come effettiva titolarità di tale posizione. Pertanto, il

giudice amministrativo, quando accerta che il ricorrente non è titolare di tale

posizione qualificata, dichiara il ricorso inammissibile, e non infondato.

In questo modo, la pronuncia di inammissibilità comporta un accertamento

negativo di una posizione soggettiva di rilevanza sostanziale. Di conseguenza,

per alcuni aspetti, come l’idoneità del giudicato a produrre effetti “esterni” al

processo, è stata assimilata alle pronunce di merito.

La legittimazione a ricorrere è ricondotta, in genere, alla titolarità di posizioni di

interesse qualificato: interesse legittimo o anche diritto soggettivo, nel caso

della giurisdizione esclusiva.

In alcune ipotesi, però, la legittimazione a ricorrere è costituita semplicemente

da una condizione formale del ricorrente, e non dall’affermazione o dalla

titolarità di un interesse qualificato. Ciò si verifica, in particolare, nel caso delle

azioni popolari per le quali la legittimazione a ricorrere si identifica con la

qualità generica di cittadino o con l’iscrizione elettorale nelle liste di un comune.

Alle azioni popolari sono accostate alcune previsioni, contemplate soprattutto

nella legislazione recente, a proposito della tutela degli interessi diffusi.A essi

la legittimazione a ricorrere è attribuita per legge alle associazioni previamente

identificate sulla base di criteri oggettivi e senza la necessità di verifica della

titolarità di posizioni di interesse qualificato.La legge non ha trasformato gli

interessi diffusi in interessi legittimi delle associazioni in questione ma ha

assegnato alle associazioni una particolare legittimazione a ricorrere per la tutela

di interessi che altrimenti sarebbero prive di garanzia giurisdizionale.

2. La tipologia delle azioni nel processo amministrativo

Anche nella giurisprudenza amministrativa si possono identificare, un processo di

cognizione ed un processo di esecuzione.

Come nel processo civile, anche nel processo amministrativo di cognizione sono

identificabili azioni di mero accertamento (o azioni dichiarative) , azioni

costitutive e azioni di condanna.

I tre ordini di azioni presentano, però, profili particolari e non esauriscono il

quadro complessivo della tipologia delle azioni di tutela di interessi legittimi.

L’azione costitutiva nei giudizi, promossa a tutela di interessi legittimi, si

risolve nell’impugnazione del provvedimento lesivo: col ricorso viene chiesto al

giudice amministrativo l’annullamento del provvedimento.

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Nei giudizi di tutela di diritti soggettivi è ammessa anche un’azione di

condanna. Essa fu introdotta dall’art. 26, 3° c. della legge TAR, che però la

prevedeva solo in casi limitatissimi.

3. L’azione costitutiva

La disciplina positiva del processo amministrativo si incentra sull’azione

costitutiva: il ricorso al giudice amministrativo è inteso come strumento per la

tutela costitutiva, che si attua impugnando l’atto amministrativo lesivo, per

ottenere l’annullamento o la riforma. La tutela è sempre “successiva”, perché

presuppone che l’Amministrazione abbia già leso l’interesse del cittadino. Nel

caso in cui, la lesione sia determinata da un provvedimento amministrativo,

all’effetto costitutivo del potere, corrisponde il carattere costitutivo della tutela

offerta all’interesse legittimo.

Nel processo amministrativo, la tutela costitutiva ha carattere “generale”: essa è

sempre ammessa, ogni qual volta il giudizio investa un provvedimento lesivo

dell’Amministrazione.

I caratteri e l’oggetto dell’azione costitutiva sono molto dibattuti.

Il risultato della tutela costitutiva nel processo amministrativo è di regola

l’annullamento del provvedimento impugnato; solo nei casi di giurisdizione

di merito è ammessa anche la riforma. Si tratta di un esito analogo a quello che

può essere perseguito attraverso propri atti, dalla stessa Amministrazione, come

nel caso dell’annullamento d’ufficio. Perciò l’annullamento del provvedimento

illegittimo non è un risultato infungibile, che può essere raggiunto solo attraverso

il processo, come invece, nel caso delle c.d. azioni costitutive

necessarie(es.Sciolgimento degli effetti civili del matrimonio).

L’azione costitutiva si presenta, con identici caratteri, quando sia contestato,

anziché, un provvedimento amministrativo, un silenzio-assenso. Quest’ultimo,

infatti, non è un atto amministrativo, pertanto, quando gli effetti prodotti siano

illegittimi, può esserne richiesto l’annullamento.

4. L’azione di mero accertamento e l’azione di condanna

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Page 75: Aldo Travi Lezioni di giustizia amministrativa 123.doc

a)Di azione di mero accertamento , del tutto analoga a quella ammessa nel

processo civile, nel processo amministrativo si parla propriamente con riguardo a

vertenze per diritti soggettivi, nelle materie di giurisdizione esclusiva.

Oggetto di accertamento può essere, sia un diritto patrimoniale, che un diritto

non patrimoniale. La giurisprudenza ritiene che l’azione di accertamento non sia

soggetta a termini di decadenza, fatta salva l’incidenza della prescrizione del

diritto.Nel caso di silenzio-rifiuto non vi è un atto amministrativo e non è passibile

di annullamento ma solo di accertamento.

b) L’azione di condanna nel processo amministrativo fu introdotta dall’art. 26,

3° c. legge TAR, per le controversie inerenti alla giurisdizione <<esclusiva e di

merito>>; la condanna poteva riguardare solo l’Amministrazione e poteva

consistere esclusivamente nel pagamento di una somma di denaro, ossia nella

condanna all’adempimento di un’obbligazione pecuniaria. Era considerata, come

mezzo preordinato alla costituzione di un titolo esecutivo, idoneo a consentire

l’esecuzione forzata, nelle forme previste dal libro terzo del codice di procedura

civile. Risultavano, però, poco ragionevoli i due ordini di limitazioni contemplati

dalla stessa legge.

Si tenga presente, infatti, che il giudizio avrebbe potuto essere promosso anche

dall’Amministrazione nei confronti del cittadino; in questi casi, la preclusione

dell’Amministrazione di proporre un’azione di condanna appariva molto grave,

perché poteva rendere impossibile la tutela, nelle forme del processo esecutivo (

dato che l’Amministrazione avrebbe potuto ottenere dal giudice solo una

sentenza di accertamento e il giudizio di ottemperanza di regola non è esperibile

nei confronti di soggetti privati).

In secondo luogo, l’azione poteva riguardare solo obbligazioni pecuniarie: erano

ammesse solo condanne al pagamento di somme di denaro. Nei confronti

dell’Amministrazione, però, il cittadino poteva essere titolare anche di diritti

soggettivi, che non avevano contenuto pecuniario.

In questi casi, viene esclusa la possibilità di una tutela esecutiva, nelle forme

previste in generale per i diritti.

L’art. 26, 3° c. legge TAR non è stato formalmente modificato: le modifiche

all’art. 26, introdotte dalla legge n. 205/2000 (art. 9) non hanno riguardato il

terzo comma. Tuttavia, il quadro complessivo della tutela dei diritti davanti al

giudice amministrativo è cambiato. In primo luogo, sono venute meno molte

ipotesi in cui si ammetteva un’azione di condanna contro privati; in secondo

luogo, si deve ritenere che il giudice amministrativo possa condannare

75

Page 76: Aldo Travi Lezioni di giustizia amministrativa 123.doc

l’amministrazione al pagamento di somme di denaro, anche a titolo di

risarcimento dei danni.

Inoltre, l’art. 35 del d.lgs. n. 80/1998 e l’art. 7, 3° c., legge TAR, come modificati

dall’art. 7 della legge n. 205/ 2000, prevedono , di competenza del giudice

amministrativo, sia la reintegrazione in forma specifica che il pagamento di

somme di denaro e considerano entrambe le pronunce, in termini omogenei.

Inoltre, l’art. 8 della legge n. 205/2000, che introduce nel processo

amministrativo, un giudizio monitorio per l’emanazione di ingiunzioni di

pagamento, le ammette per <<i diritti soggettivi di natura patrimoniale>>.

c) In base al principio desunto dall’art. 4 della legge del 1865, l’Amministrazione

deve porre in essere l’attività necessaria per adeguare la situazione di fatto a

quella di diritto, affermata nella sentenza. Il dovere di conformarsi al giudicato è

configurabile anche in presenza di una sentenza di annullamento o di mero

accertamento. Nel caso di inosservanza del dovere dell’Amministrazione di

conformarsi al giudicato, è esperibile il giudizio di ottemperanza, che assicura

l’esecuzione della sentenza a di tutti gli obblighi che ne derivano.

In sostanza, anche nelle vertenze su diritti, l’utilità dell’azione di accertamento,

nei confronti dell’Amministrazione, non si esaurisce nel superamento di una

incertezza obiettiva nella situazione di diritto. L’azione di accertamento può

essere anche rimedio ad una lesione concreta di un diritto soggettivo, provocata

dall’Amministrazione, perché può essere esperita in vista di una esecuzione, da

attuarsi attraverso il giudizio di ottemperanza.

d) Si discute se nel caso di danni provocati da un provvedimento amministrativo,

l’azione risarcitoria sia subordinata all’annullamento del provvedimento

lesivo.

Il diritto al risarcimento dei danni e la pretesa all’annullamento del

provvedimento lesivo sono distinti sul piano sostanziale e perciò, le rispettive

azioni dovrebbero svolgersi in reciproca autonomia. Questa conclusione, accolta

dalla Cassazione, è stata criticata dalla giurisprudenza amministrativa, che

sostiene, infatti, che il risarcimento presuppone l’annullamento dell’atto lesivo.

Secondo tale ipotesi, l’annullamento è “pregiudiziale” all’esame della domanda

di risarcimento dei danni (c.d. tesi della pregiudizialità).

Le ragioni della giurisprudenza amministrativa non sono del tutto chiare; in

alcune pronunce sono invocati argomenti di ordine sostanziale. In questa logica,

ad esempio, la domanda di risarcimento avrebbe solo carattere “ residuale”,

76

Page 77: Aldo Travi Lezioni di giustizia amministrativa 123.doc

perché potrebbe riguardare solo il danno che permane, anche dopo

l’annullamento dell’atto lesivo.

In altre pronunce, sono invocati argomenti di ordine processuale: è stato

sostenuto che, anche la domanda risarcitoria introdurrebbe una contestazione

all’assetto d’interessi, realizzato dall’atto amministrativo e, ammettere questa

domanda senza scadenze, comporterebbe un’esclusione alla regola sul termine

di decadenza per l’impugnazione dell’atto.

c) Il rapporto fra l’impugnazione dell’atto lesivo e la domanda di risarcimento è

discusso anche per la previsione di sentenze del giudice amministrativo di

<<reintegrazione in forma specifica>>.

La disposizione assegna al giudice amministrativo la giurisdizione per le vertenze

risarcitorie e, perciò, è stata interpretata da molti, alla luce delle norme del

cod.civ. sul risarcimento dei danni. In questa logica, il giudice amministrativo può

pronunciare sentenze di reintegrazione in forma specifica. Ciò comporta che la

competenza del giudice amministrativo non è circoscritta al risarcimento per

equivalente e che il contenuto pecuniario dell’obbligazione risarcitoria non

rappresenta un “limite interno” per la giurisdizione amministrativa.

A giudizio di altri, la previsione di una <<reintegrazione in forma specifica>>

comporterebbe una innovazione più radicale e varrebbe ad introdurre, nel nostro

sistema di giustizia amministrativa, un’azione di adempimento a tutela degli

interessi legittimi, soprattutto nel caso di c.d. “interessi pretensivi”.

Il giudice non dovrebbe più limitare la sua cognizione alla verifica della

illegittimità degli atti amministrativi, ma dovrebbe accertare ciò che sarebbe

spettato al ricorrente, se l’Amministrazione avesse agito legittimamente. Alcune

decisioni del Consiglio di Stato hanno criticato, però, questo indirizzo.

5. La tutela nei confronti del silenzio-rifiuto e la tutela del diritto

d’accesso.

Nel processo amministrativo, come nel processo civile, la distinzione fra le azioni

di merito e le azioni di condanna non è del tutto pacifica. Chi ritiene che la

condanna sia preordinata alla formazione di un titolo esecutivo, considera come

azioni di condanna solo quelle che possono condurre ad un titolo esecutivo.

Conclusioni opposte sono proposte da chi, invece, considera come pronunce di

condanna, anche quelle che impongano, espressamente, uno specifico obbligo

di condotta a carico della parte soccombente, indipendentemente dalla loro

idoneità a formare un titolo esecutivo.

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Page 78: Aldo Travi Lezioni di giustizia amministrativa 123.doc

Pronunce “ordinatorie” del giudice amministrativo sono previste, in particolare

nel giudizio sul silenzio-rifiuto e nel giudizio per l’accesso a documenti

amministrativi.

a) Il c.d. silenzio (o silenzio-rifiuto)

L’azione nei confronti del silenzio dell’Amministrazione ha, per certi profili, un

“carattere preventivo”: non viene impugnato un provvedimento e non è

intervenuto alcun provvedimento che possa ledere l’interesse del cittadino.

La giurisprudenza, però, sottolinea la circostanza che nel caso di “silenzio” vi

sarebbe, comunque, una lesione di interesse legittimo.

L’azione è attualmente disciplinata dall’art. 2 della legge n. 205/2000, che

introduce fra l’altro un apposito rito speciale. Il ricorso non è soggetto al termine

ordinario di decadenza di 60 gg., ma può essere proposto finchè

l’amministrazione ometta di provvedere, purchè entro un anno dalla scadenza

del termine per l’ultimazione del procedimento.

Oggi, è stabilito che <<il giudice amministrativo può conoscere della fondatezza

dell’istanza>> ( legge n. 241/1990). Ciò significa che, se il ricorso è proposto

per il silenzio mantenuto dall’Amministrazione, su richiesta di provvedimento, il

giudice può verificare la sussistenza di tutte le condizioni prescritte per il rilascio

di quel provvedimento e, in caso positivo, il suo ordine <<di provvedere>>

comporta l’obbligo, per l’Amministrazione, di rilasciare quel provvedimento.

b) L’azione a tutela del diritto d’accesso ai documenti amministrativi è

prevista dall’art. 25 della legge n. 241/1990, modificato nel 2005.

Per dare ragione della specialità di questo modello, è stato sostenuto che,

nell’ipotesi dell’art. 25 cit., il giudizio non verterebbe sulla questione di

legittimità del provvedimento di diniego d’accesso, ma verterebbe sul diritto del

cittadino ad ottenere, dall’Amministrazione, l’accesso al documento. Il

provvedimento di diniego non sarebbe oggetto di un’impugnazione in senso

proprio: il giudizio concernerebbe direttamente le fondatezza della pretesa del

cittadino ad accedere al documento e la sussistenza delle condizioni di legge per

tale accesso. Una volta accertato dal giudice che il cittadino ha titolo all’accesso,

non vi è più spazio per una <<ulteriore>> attività amministrativa che valuti la

richiesta di accesso.

Si tenga presente che, secondo le giurisprudenza, il giudizio sull’accesso è

assoggettato ai principi del processo amministrativo, nonostante che il processo

verta su un diritto. Di conseguenza, il terzo titolare di un interesse specifico alla

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Page 79: Aldo Travi Lezioni di giustizia amministrativa 123.doc

riservatezza di un documento amministrativo è considerato ad ogni effetto come

“controinteressato” , nel giudizio per l’accesso a quel documento.

Questa soluzione è stata oggetto di vivaci polemiche. Da ultimo,nelle modifiche

introdotte all’art. 25 della legge n. 241/1990, dall’art. 3 del d.l. n.35/2005,

convertito in legge n. 80/2005, si intravede una preferenza per la qualificazione

del diritto d’accesso, come diritto soggettivo.

Capito 10

ELEMENTI PRELIMINARI PER LO STUDIO DEL PROCESSO

AMMINISTRATIVO

1. Il giudice amministrativo e la sua competenza

La giurisdizione amministrativa è esercitata in primo luogo dai Tribunali

Amministrativi Regionali (TAR), in secondo grado dal Consiglio di Stato e

dal consiglio di giustizia amministrativa per la Regione siciliana.

I TAR sono istituiti in ogni Regione ed hanno sede nei rispettivi capoluoghi: in

alcune Regioni sono istituite sezioni staccate che hanno sede in un capoluogo di

Provincia. Nella Regione Trentino- Alto Adige, in base allo Statuto speciale, nel

1984 sono stati istituiti un TAR con sede a Trento e una sua sezione autonoma a

Bolzano.

In questi casi, la sezione esercita una competenza di carattere funzionale ed è

giudice in unico grado. Le altre pronunce della sezione autonoma sono

impugnabili avanti al Consiglio di Stato.

a) I criteri generali di riparto della competenza sono disciplinati dagli artt. 2 e

3 della legge TAR. Queste disposizioni attribuiscono rilievo alla sede dell’organo

che ha emanato l’atto impugnato: il TAR è competente per l’impugnazione di atti

emessi da organi che hanno la loro sede nella sua circoscrizione. Il criterio della

sede dell’organo è però temperato da quello della efficacia dell’atto(al fine di

evitare il carico eccessivo di ricorsi): se gli atti impugnati sono stati emanati da

organi centrali dello Stato, ma hanno un’efficacia limitata al territorio di una

regione o di una parte di essa, è competente il TAR, nella cui circoscrizione si

producono gli effetti dell’atto; se, invece, hanno un’efficacia territoriale più

ampia , è competente il TAR ,nella cui circoscrizione ha sede l’ente Statale o

ultraregionale . Infine, per i ricorsi proposti in materia di pubblico impiego, da

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Page 80: Aldo Travi Lezioni di giustizia amministrativa 123.doc

pubblici dipendenti in servizio, è competente il TAR nella cui circoscrizione ha

sede l’ufficio del pubblico dipendente (c.d. foro del pubblico impiego).

I rapporti fra i tre criteri sono in parte controversi, benchè alcuni aspetti

sembrano chiariti.

Il criterio dell’efficacia dell’atto non è ritenuto applicabile nel caso di

impugnazione di atti di enti locali o di organi periferici di amministrazioni

nazionali: in questa ipotesi vale il criterio della sede dell’organo che ha emanato

l’atto, senza la necessità di verifiche sull’efficacia dell’atto stesso. Il criterio del

foro del pubblico impiego è ritenuto speciale, e perciò prevalente rispetto agli

altri; si ritiene, tuttavia, non applicabile quando siano impugnati atti di un ente

ultraregionale che abbiano un contenuto inscindibile, diretto alla generalità dei

dipendenti.Nel caso di ricorso proposto da più ricorrenti(cd.cumulo soggettivo)la

competenza del TAR periferico in base al criterio dell’efficacia dell’atto o al Foro

del pubblico impiego presuppone che per tutti i ricorrenti l’atto impugnato

esaurisca la sua efficacia nell’ambito della circoscrizione del TAR o che tutti i

ricorrenti prestino servizio presso uffici con sedi comprese nella circoscrizione del

TAR.Nel caso di ricorso proposto contro atti connessi(cumulo oggettivo) di cui

uno presupposto e l’altro applicativo del primo, e la cui impugnazione in astratto

rientrerebbe nella competenza di TAR diversi.

I tre criteri generali sulla competenza si risolvono in un riparto di competenza

territoriale , la cui violazione di regola, non solo non è rilevabile d’ufficio, ma può

essere rilevata solo in esito ad un procedimento particolare, di regolamento di

competenza e non può costituire motivo di appello.

E’ invece funzionale la competenza assegnata alla sezione autonoma di Bolzano

del Tribunale ragionale di giustizia amministrativa.

Si tende a considerare funzionale anche la competenza per il giudizio di

ottemperanza, per lo meno nel caso di esecuzione di un giudicato

amministrativo. Per l’ottemperanza al giudicato civile è competente il TAR,

quando l’autorità amministrativa tenuta all’ottemperanza svolga la sua attività

esclusivamente nella circoscrizione del TAR, mentre negli altri casi è competente

il Consiglio di Stato. Invece per l’ottemperanza al giudicato amministrativo è

competente lo stesso giudice(TAR o Consiglio di Stato) che ha emesso la

sentenza della cui esecuzione si tratta; la competenza del TAR si estende, però,

anche all’ipotesi che la sentenza del TAR sia stata integralmente confermata dal

Consiglio di Stato.

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Page 81: Aldo Travi Lezioni di giustizia amministrativa 123.doc

La legge, ai fini della disciplina della competenza territoriale, considera i giudizi

in materie devolute alla giurisdizione esclusiva, solo limitatamente ai giudizi

del pubblico impiego. Non chiarisce, invece, sulla base di quali criteri debba

essere identificato il TAR competente per i ricorsi proposti negli altri casi di

giurisdizione esclusiva, quando non siano in questione provvedimenti

amministrativi.La giurisprudenza afferma che competente a pronunciarsi sulla

domanda del risarcimento del danno sia il TAR cui spetta decidere sul ricorso di

annullamento del provvedimento lesivo.

b) L’incompetenza del TAR non può essere rilevata dallo stesso TAR; può essere

rilevata solo dal Consiglio di Stato, che decide in seguito a regolamento di

competenza (art. 31 legge TAR).

Le parti costituite in giudizio possono eccepire, entro un termine perentorio,

l’incompetenza del TAR adito dal ricorrente, indicando però anche quale sia il

TAR competente; l’eccezione va proposta con istanza di regolamento di

competenza; se tutte le parti aderiscono all’istanza, gli atti del giudizio vengono

trasmessi al TAR in essa indicato, davanti al quale il giudizio prosegue;

altrimenti l’istanza stessa è sottoposta ad una sommaria delibazione del TAR

davanti al quale è stato proposto il ricorso, che con sentenza può respingere

l’istanza, se ne rilevi la manifesta infondatezza. In caso contrario, il TAR

trasmette l’istanza e gli atti del giudizio al Consiglio di Stato per la decisione sulla

competenza.La disciplina del regolamento di competenza non si applica alle

questioni di competenza che investono i rapporti tra un TAR e una sezione

distaccata:per esse è previsto un procedimento speciale deciso con unìordinanza

non impugnabile del presidente del TAR.

c) Per quanto riguarda il Consiglio di Stato, se la questione sottoposta ad esso,

può dar luogo a contrasti di giurisprudenza o risulti di particolare importanza,

rispettivamente la sezione o il Presidente del Consiglio di Stato possono

rimettere il ricorso all’Adunanza plenaria.

Il Consiglio di Stato è oggi quasi esclusivamente giudice d’appello, nei confronti

delle pronunce dei TAR.

Nei confronti delle sentenze del TAR Sicilia l’appello va proposto al Consiglio di

giustizia amministrativa per la Regione siciliana(è equiordinato al Consiglio di

Stato).

2. Le parti necessarie

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Page 82: Aldo Travi Lezioni di giustizia amministrativa 123.doc

Anche nel processo amministrativo si distingue fra parti necessarie e parti non

necessarie. La garanzia del contraddittorio rispetto alle parti necessarie

costituisce una condizione per la validità della sentenza, mentre per le parti non

necessarie è consentita la partecipazione al giudizio ma non vi è l’obbligo di

portare a loro conoscenza il ricorso né integrare il contraddittorio.

Con riferimento specifico al giudizio di primo grado, la distinzione fra parti

necessarie e parti non necessarie riflette considerazioni di diritto sostanziale. Nel

processo amministrativo, parti necessarie sono, oltre al ricorrente, anche

l’Amministrazione resistente e i controinteressati, soggetti titolari di un interesse

qualificato che può essere pregiudicato dal ricorso e, su cui, può avere incidenza

diretta il giudicato.Le altre parti possono essere titolari di interessi minori e

diversi che le legittimano solo ad intervenire.

Questo modello è stato elaborato sul modello del giudizio di impugnazione, ma è

stato esteso a qualsiasi tipologia di azione proposta avanti al giudice

amministrativo.

a) Il ricorrente fa valere in giudizio un proprio interesse legittimo o un proprio

diritto soggettivo. L’interesse del ricorrente identifica la posizione soggettiva su

cui verte il giudizio. Di questa posizione si ha riflesso nel fatto che: l’introduzione

del giudizio dipende da un suo atto di iniziativa (il ricorso), ma anche nel fatto

che tale atto individua l’oggetto su cui verterà il giudizio ed infine che il

ricorrente ha piena disponibilità dell’azione proposta ( nel senso che può anche

ad essa rinunciare, senza neppure la necessità di un’accettazione ad opera delle

parti).Il ricorso può essere proposto da più soggetti insieme(ricorso collettivo)

purché la loro posizione sia omogenea.

b) Parte necessaria nel processo amministrativo è anche l’Amministrazione

che ha emanato l’atto impugnato. Le disposizioni sul processo amministrativo

prevedevano, a questo proposito, la notifica all’organo che avesse emanato l’atto

impugnato e riconoscevano all’organo una legittimazione processuale passiva.

L’interpretazione data dalla giurisprudenza a queste disposizioni comporta oggi

l’identificazione della parte resistente con l’Amministrazione ossia l’ente

pubblico. L’Amministrazione “resistente” è parte nel processo e non autorità: di

conseguenza è soggetta in tutto e per tutto alle regole del processo su un piano

paritario rispetto alle altre parti. La posizione di autorità rimane tale sul piano

sostanziale ma non processuale.

c) Infine, sono parti necessarie i controinteressati; soggetti ai quali l’atto

impugnato conferisce un’utilità specifica e titolari di un interesse qualificato alla

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Page 83: Aldo Travi Lezioni di giustizia amministrativa 123.doc

conservazione dell’atto impugnato. Ad essi deve essere notificato il ricorso; nel

caso in cui i controinteressati siano più d’uno, il ricorso è ammissibile anche se

notificato ad uno solo di essi, ma nei confronti degli altri deve essere effettuata

l’integrazione del contraddittorio, nei tempi e con le modalità disposte dal

TAR (art. 21 legge TAR).

I controinteressati sono in una posizione “speculare” rispetto al ricorrente e ciò

implica una pari dignità nel processo per quanto riguarda il diritto di azione e di

difesa. La disciplina del processo amministrativo contempla istituti volti

specificamente a garantire la parità di posizione dei controinteressati, rispetto al

ricorrente: ne è esempio il ricorso incidentale.

Il ricorso incidentale è l’atto processuale con il quale il controinteressato può

impugnare a sua volta il provvedimento impugnato e far valere i vizi, il cui

accertamento potrebbe comportare, in caso di accoglimento del ricorso

principale, un risultato pratico favorevole al contrinteressato stesso.

Inoltre, con il ricorso incidentale, il controinteressato può impugnare un diverso

atto dal quale dipendono la legittimazione o l’interesse a ricorrere, o comunque

un vantaggio rilevante per il ricorrente principale.

Ai fini della identificazione dei controinteressati, secondo la giurisprudenza,

non è sufficiente, però, il requisito di ordine sostanziale, rappresentato

dall’attribuzione a tali soggetti di un’utilità specifica ad opera del provvedimento

impugnato. E’ necessario anche un requisito di ordine formale, e cioè che il

controinteressato sia identificato o facilmente identificabile, alla stregua dell’atto

amministrativo stesso.

La giurisprudenza afferma che i controinteressati non identificati nell’atto

amministrativo (c.d. controinteressati non intimati) possono intervenire nel

processo amministrativo e proporre ogni difesa ammessa per i controinteressati.

Tuttavia, perché non sono considerati parti necessarie, nei loro confronti non

sussiste un obbligo di notifica del ricorso o di integrazione del contraddittorio e la

sentenza che sia stata pronunciata, senza la loro partecipazione al giudizio, non

dovrebbe ritenersi di per sé viziata.

3. segue : le parti non necessarie

Le parti diverse da quelle necessarie sono prese in considerazione dalle leggi sul

processo amministrativo, solo in modo generico.

a) In realtà, però, non tutti i soggetti interessati al giudizio possono intervenire.

Infatti non possono intervenire in giudizio i controinteressati, e cioè i soggetti

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Page 84: Aldo Travi Lezioni di giustizia amministrativa 123.doc

titolari di un interesse legittimo analogo a quello del ricorrente, che avrebbero

potuto impugnare autonomamente l’atto amministrativo. La giurisprudenza ha

escluso la possibilità per tali soggetti di proporre un intervento liticonsortile, col

quale chiedere, a loro volta, l’annullamento del provvedimento impugnato(è

stato perché cosi’ sarebbe possibile eludere il termine di decadenza previsto per

l’impugnazione del provvedimento amministrativo.

b) Le disposizioni che disciplinano l’intervento nel processo amministrativo

definiscono lo strumento e le modalità per l’ingresso nel processo, di una parte

non necessaria, ma non identificano i contenuti e l’ampiezza della tutela offerta

alla parte che interviene. Per valutare questo aspetto è però necessario chiarire

in che cosa consista <<l’interesse>> che legittima l’intervento in giudizio(tale

interesse non può essere identico a quello del ricorrente).

La giurisprudenza ammette che l’intervento possa essere proposto a tutela di un

interesse “dipendente” da quello di una delle parti necessarie. In tal senso, il

provvedimento impugnato avrebbe un’incidenza diretta sulla posizione di una

parte necessaria e produrrebbe un effetto “riflesso” sul terzo interventore, in

virtù di una relazione giuridica intercorrente fra i due soggetti.

Si discute, inoltre, se sia sufficiente, per l’intervento, un interesse semplice o

di fatto. Nel caso di una risposta affermativa, sarebbe possibile sostenere che,

con l’intervento nel processo amministrativo, avrebbero ingresso anche gli

interessi non qualificati.

La giurisprudenza ammette un “intervento adesivo dipendente”. Di

conseguenza, il soggetto che intervenga a favore del ricorrente, può solo

introdurre argomenti a sostegno dei motivi di impugnazione proposti dal

ricorrente stesso, non può proporre conclusioni proprie né nuove censure contro

l’atto impugnato e non può dar corso ad atti d’impulso del giudizio. Il soggetto

che intervenga in una posizione corrispondente a quella della parte resistente o

di un controinteressato, non incontra, invece, particolari limitazioni in merito alle

conclusioni.

Secondo la giurisprudenza recente , titolari di un interesse giuridico

autonomo alla conservazione dell’atto impugnato, non sono però identificabili

con i controinteressati, perché, essi non sono destinatari di specifiche utilità

assegnategli dal provvedimento amministrativo. La circostanza ha condotto la

giurisprudenza a riconoscere per essi uno “status” particolare: pur non essendo

parti necessarie del processo di primo grado, possono impugnare la sentenza

loro sfavorevole, e ciò anche se non erano intervenuti nel relativo giudizio.

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Page 85: Aldo Travi Lezioni di giustizia amministrativa 123.doc

In conclusione, alla figura dell’intervento possono corrispondere posizioni

soggettive con consistenza diversa, ma alla diversa consistenza delle posizioni

soggettive corrisponde anche una diversità di prerogative processuali.

b) In passato le giurisprudenza e la dottrina ammettevano un’unica modalità di

intervento nel processo amministrativo: l’intervento volontario. Questa

conclusione non appare più sostenibile, in seguito all’introduzione

dell’opposizione di terzo.

4. La capacità processuale e il patrocinio legale

Per quanto riguarda la capacità processuale, vigono, nel processo

amministrativo, i principi vigenti anche nel processo civile. Le persone giuridiche,

sia pubbliche che private, stanno in giudizio a mezzo dei loro legali

rappresentanti. Molto frequentemente, però, il rappresentante legale dell’ente

può stare in giudizio solo se è autorizzato da un altro organo dell’ente, cui spetta

decidere se l’ente debba agire o resistere in giudizio. La delibera che autorizza a

stare in giudizio può intervenire anche in un momento successivo alla

costituzione, perchè rileverebbe come condizione di efficacia e non di validità

della costituzione. Nel processo amministrativo è obbligatoria l’assistenza di un

avvocato: solo nel giudizio in materia elettorale e nel giudizio in materia di

accesso a documenti amministrativi, la parte può stare in giudizio

personalmente. Nel giudizio avanti al Consiglio di Stato, la parte deve essere

assistita da un avvocato abilitato al patrocinio, avanti alle giurisdizioni superiori.

Invece, non è obbligatorio avvalersi anche della rappresentanza dell’avvocato,

che attribuisce al legale il potere di compiere atti processuali a nome della parte.

4. I principi generali del processo(farlo libro)

5. Il rapporto con la disciplina del processo civile

In alcuni casi, le leggi sul processo amministrativo rinviano espressamente a

disposizioni del codice di procedura civile. Ciò vale, per esempio, per la disciplina

dell’interruzione del processo per i casi di revocazione, per la disciplina del

regolamento preventivo di giurisdizione, per la decorrenza del termine breve per

l’appello.

Frequentemente, la giurisprudenza amministrativa, nella materia in esame,

prende in considerazione la disciplina del processo civile. Tuttavia, il confronto

non si risolve, di regola, con un mero rinvio alla norma processual-civilistica; il

richiamo a questa norma è il risultato di una valutazione sulla compatibilità dei

due sistemi processuali rispetto ad un determinato istituto o ad un determinato

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Page 86: Aldo Travi Lezioni di giustizia amministrativa 123.doc

ambito. Il processo amministrativo costituisce un sistema processuale autonomo

e distinto da quello civile. L’estensione della giurisdizione esclusiva, invece,

imporrebbe soluzioni più articolate, con riferimento ai giudizi che vertano solo sui

diritti. Per questi giudizi, si sostiene che le lacune non potrebbero essere

colmate, richiamando i principi di questo processo, quando essi siano stati

elaborati sul giudizio d’impugnazione. Per alcuni istituti, tale rinvio sarebbe

addirittura sviante.

In conclusione, allo scenario di un giudizio amministrativo disarticolato in due

distinti processi, quello modellato sull’impugnazione di atti e quello specifico par

la tutela di diritti, si deve replicare l’esigenza di una riflessione più ampia.

Capitolo 11

IL GIUDIZIO DI PRIMO GRADO

1. La fase introduttiva

Il ricorso è tipicamente l’atto col quale chi pretende di essere stato leso in un

proprio interesse(qualificato) da un provvedimento dell’amministrazione

impugna tale provvedimento chiedendo al giudice amministrativo di annullarlo.Il

ricorso si presenta come strumento di reazione a un atto lesivo della PA. Il

giudizio avanti al TAR è introdotto con un ricorso. Oggi il ricorso ha perso ogni

connotazione specifica di reazione ad un provvedimento lesivo e costituisce più

semplicemente l’atto processuale introduttivo del giudizio amministrativo,

indipendentemente dai contenuti o dagli interessi coinvolti.

Nel processo amministrativo, di norma, il ricorso deve essere notificato

all’Amministrazione che ha emanato l’atto impugnato e ad almeno uno dei

controinteressati, entro 60 gg. dalla comunicazione, pubblicazione o piena

conoscenza dell’atto amministrativo impugnato; successivamente, entro 30 gg.

dall’ultima notifica, deve essere depositato presso la segreteria dell’organo

giurisdizionale adito, e, solo in questo momento, viene portato a conoscenza del

giudice.

a) I contenuti necessari del ricorso sono elencati nell’art. 6 reg. proc. Cons.

Stato e sono : l’organo giurisdizionale cui è diretto, le generalità della parte,

l’esposizione delle ragioni di fatto e di diritto su cui si fonda la domanda.L’atto

deve essere sottoscritto dall’avvocato e se è stato conferito mandato senza

rappresentanza dall’avvocato e dalla parte.

86

Page 87: Aldo Travi Lezioni di giustizia amministrativa 123.doc

L’art. 17 reg. proc. Cons. Stato individua , come ragioni di nullità del ricorso, il

difetto di sottoscrizione e <<l’incertezza assoluta sulle persone o sull’oggetto

della domanda>>. La domanda è definita, oltre che dalla richiesta di

annullamento di un certo atto, dalle censure proposte a fondamento della

richiesta di annullamento. Ma, il rapporto fra la singola censura e la domanda

non è ben definito; si contrappongono tesi che configurano l’azione in funzione

degli atti di cui si chiede l’annullamento e tesi che , invece, configurano l’azione

in base alle censure proposte.

Il vizio dell’atto impugnato viene considerato un elemento per

l’identificazione dell’azione e, quindi, il riscontro di esso assume rilievo per

valutare quando una domanda sia completa in tutti i suoi elementi e perciò

debba ritenersi proposta ritualmente, o per valutare quando sia proposta una

domanda nuova.

Per “vizio” di un atto amministrativo si intende in genere uno dei tre ordini di vizi

che comportano l’annullabilità dell’atto: incompetenza, violazione di legge,

eccesso di potere(sviamento di potere,disparità di trattamento). Per

l’identificazione del vizio non sono previste formule sacramentali.

Il regolamento di procedura del 1907 prescrive l’indicazione nel ricorso <<degli

articoli di legge o di regolamento che si ritengono violati>>(art. 6), che sembra

adattarsi particolarmente al vizio di violazione di legge; tale indicazione, però,

non è espressamente richiesta a pena di nullità. Ciò che importa, a pena di

nullità, è che il vizio sia oggettivamente identificato nei suoi elementi concreti in

relazione al provvedimento impugnato. Invece, un errore nella qualificazione del

vizio non assume rilevanza decisiva anche perché il giudice non è vincolato dalla

qualificazione del vizio proposto dalle parti. La disciplina del ricorso, appena

decritta, è propria del giudizio di impugnazione e di conseguenza non sono

neppure configurabili censure per vizi di legittimità di un atto: la lesione

dell’interesse legittimo è causata in questo caso dall’omissione del

provvedimento.Nel caso di giurisdizione esclusiva e sia fatto valere un diritto

soggettivo è necessario identificare il contenuto della pretesa.

b) Il ricorso deve essere notificato, a pena di inammissibilità,

all’Amministrazione che ha emanato l’atto impugnato e ad almeno uno dei

controinteressati, entro 60 gg. dalla comunicazione, o pubblicazione o piena

conoscenza dell’atto impugnato ( art. 21 c. 1° legge TAR; art. 36 t.u. Cons.

Stato). La notifica ad un’Amministrazione statale deve essere effettuata presso

l’Avvocatura dello Stato nel cui distretto ha sede il TAR competente. Per la

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Page 88: Aldo Travi Lezioni di giustizia amministrativa 123.doc

notifica degli atti nel processo amministrativo vale la stessa disciplina del

processo civile, pertanto, ai sensi dell’art. 149, c. 3° c.p.c., l’osservanza del

termine va verificata con riferimento alla data di consegna del ricorso all’ufficiale

giudiziario.

Il termine di 60 gg.(richiesto per esigenze di certezza nelle situazioni giuridiche)

per il ricorso decorre dalla comunicazione dell’atto amministrativo per i diretti

destinatari; dalla pubblicazione su albo o pubblicazione ufficiale per i non

diretti destinatari. Ai fini della decorrenza del termine, la comunicazione o

pubblicazione dell’atto amministrativo ha come equipollente la sua <<piena

conoscenza>>((conoscenza dei contenuti essenziali dell’atto e non conoscenza

completa). Se il ricorrente viene a conoscenza solo in un secondo tempo di

determinati altri vizi del provvedimento impugnato, può farli valere con il ricorso

per motivi aggiunti e vanno proposti con un atto da notificarsi alle parti entro

60 g. dal momento in cui si abbia avuto conoscenza legale del vizio.

Questa nozione di piena conoscenza, ai fini del termine per il ricorso, non appare

del tutto coerente con la disciplina introdotta dalla l. n. 241/1990 che, da un

lato ribadisce il dovere dell’Amministrazione di comunicare ciascun

provvedimento ai cittadini che ne siano destinatari, dall’altro impone

all’Amministrazione di porre a disposizione del cittadino il testo dell’atto

amministrativo lesivo di un suo interesse giuridico. Per questa ragione, oggi, una

parte della giurisprudenza nega che il termine per ricorrere decorra da una

conoscenza generica o indiretta dell’atto amministrativo.L’inosservanza dei

termine per la notifica, quando sia determinata da errore scusabile può essere

valutata dal giudice amministrativo ai fini di una remissione in termini(esso ha

portata generale).Il termine per la notifica del ricorso è sospeso dal 01/08 al

15/09 di ciascun anno per le ferie giudiziarie.I termini concernenti le azioni

cautelari non sono sospesi.

c) L’originale del ricorso, con la prova della notifica, deve essere depositato, a

pena di irricevibilità, entro 30 gg. dall’ultima notifica, presso la segreteria del

TAR adito (art. 21, c. 3° della legge TAR).

E’, invece, previsto che l’Amministrazione resistente, all’atto della costituzione,

sia tenuta a depositare l’atto impugnato e gli altri atti del relativo procedimento

e proceda a tale adempimento, anche se non costituisca in giudizio. Unitamente

al ricorso viene depositato il mandato speciale dell’avvocato se non è riportato

nel ricorso.

Il deposito del ricorso determina la pendenza del giudizio.

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Page 89: Aldo Travi Lezioni di giustizia amministrativa 123.doc

2. Lo svolgimento del giudizio

La costituzione in giudizio del ricorrente si attua con il deposito del ricorso

presso la segreteria del TAR.

Entro 20 gg. dalla scadenza del termine per il deposito del ricorso, ossia entro 50

gg. dall’ultima notifica del ricorso, l’Amministrazione resistente e i

controinteressati che hanno ricevuto la notifica, possono costituirsi in giudizio

presentando una memoria con le loro difese e istanze istruttorie(controricorso e

documenti).

Entro 30 gg. dalla scadenza del termine per il deposito del ricorso, i

controinteressati possono produrre ricorso incidentale che deve essere

notificato alle parti(i termini sono perentori).I termini per la costituzione

delle parti diversi dal ricorrente non è perentorio.

Una volta instaurato il giudizio, chi vi ha interesse può intervenire. L’intervento

va proposto con apposito atto, che deve essere notificato alle parti e poi

depositato presso il TAR avanti al quale pende il giudizio.Se il ricorso è stato

notificato ad uno solo dei controinteressati è prevista l’integrazione del

contraddittorio.

Perché il ricorso possa essere deciso è però necessario che sia richiesta, con

apposita istanza, la discussione del ricorso stesso.Istanza diretta al presidente

del TAR e deve essere presentata dal ricorrente entro 2 anni dal deposito del

ricorso

In mancanza dell’istanza, il ricorso cade in perenzione e il giudizio si estingue

perdendo ogni effetto giuridico.

In seguito alla presentazione dell’istanza, viene fissata l’udienza di discussione

del ricorso, di cui deve essere data comunicazione alle parti con congruo

preavviso (almeno 40 gg.).Le parti possono presentare documenti fino a 20

giorni e memorie fino a 10 giorni prima dell’udienza.

Una volta conclusa la discussione, il TAR, se non ritiene di dover adottare

pronunce interlocutorie o pronunce istruttorie, provvede a decidere il ricorso

pronunciando la sentenza.

In alcuni casi particolari, invece, il giudice amministrativo decide il ricorso senza

fissare un’altra udienza, ma semplicemente in camera di consiglio.

In base all’art. 26, 4° c. legge TAR, come modificato dall’art. 9, l. n. 205/ 2000, il

giudice amministrativo può decidere il ricorso, con sentenza succintamente

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Page 90: Aldo Travi Lezioni di giustizia amministrativa 123.doc

motivata, nella camera di consiglio fissata per l’esame dell’istanza cautelare o

nell’udienza fissata in seguito all’adozione di un mezzo istruttorio, senza che sia

stata fissata l’udienza di discussione. Questa possibilità vale, quando il ricorso

risulti manifestamente fondato o manifestamente infondato, inammissibile,

improcedibile o irricevibile.

Infine, l’art. 26, c. 7 della legge TAR prevede che, quando sia verificata

l’estinzione del giudizio, ovvero, quando siano intervenute la rinuncia al ricorso,

la cessazione della materia del contendere o la perenzione, alla relativa

declaratoria provveda direttamente il Presidente competente, con un proprio

decreto senza fissare né pubblica udienza né camera di consiglio.Nei confronti

del decreto le parti possono proporre opposizione di collegio:il collegio decide

con ordinanza e se accoglie l’opposizione dispone il ricorso sia nuovamente

iscritto nel ruolo dei ricorsi pendenti.

3. I riti speciali

Oggi il processo amministrativo si presenta piuttosto articolato e la sua disciplina

ha assunto un notevole grado di complessità. Le discipline speciali sono sempre

più frequenti. Fra queste, le più importanti sono:

a) Il giudizio in materia elettorale, previsto per le elezioni amministrative.

Può essere promosso con ricorso da qualsiasi elettore dell’ente interessato dalle

elezioni, oltre che dal candidato interessato. Il ricorso va proposto di norma nei

confronti dell’atto di proclamazione degli eletti, che è l’atto conclusivo del

procedimento elettorale, e va depositato al TAR, entro 30 gg. Il Presidente del

TAR fissa con decreto l’udienza di discussione.

Il giudizio riguarda qualsiasi vizio del procedimento elettorale, che possa aver

determinato una alterazione nella posizione degli eletti. Il TAR, se accoglie il

ricorso, può disporre la rettifica dei risultati elettorali, anche con la sostituzione

degli eletti.

La sentenza è soggetta a particolari forme di pubblicità ed è passibile di

impugnazione al Consiglio di Stato.

b) La legge sull’esercizio del diritto di sciopero nei servizi pubblici

essenziali (l. n. 146/1990) ha introdotto una particolare disciplina del giudizio

promosso contro le ordinanze dell’autorità amministrativa,che impongono

l’effettuazione di prestazioni indispensabili, nel caso di sciopero. Il ricorso al TAR

nei confronti delle ordinanze va proposto entro un termine molto breve ( 7 gg).

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Page 91: Aldo Travi Lezioni di giustizia amministrativa 123.doc

c) Una disciplina speciale è dettata, per il giudizio a tutela del diritto

d’accesso, dall’art. 25, l. n. 241/1990, modificato dalla legge n. 15/2005 e dal

d.l. n. 35/2005, convertito in legge n. 80/2005.

Il ricorso in materia di accesso va proposto entro 30 gg. dalla comunicazione del

rifiuto all’accesso, ovvero dalla formazione del silenzio dell’Amministrazione. Il

TAR decide in camera di consiglio , uditi i difensori delle parti, senza la necessità

di istanza di discussione. Se accoglie il ricorso, <<ordina all’amministrazione

l’esibizione dei documenti richiesti>>. L’appello al Consiglio di Stato è soggetto

ad un termine di 30 gg. dalla notifica della sentenza del TAR.

d) L’art. 21-bis della legge TAR e l’art. 2, c. 5 della legge n. 241/ 1990,

disciplinano il giudizio nei confronti del silenzio-rifiuto dell’Amministrazione. La

specialità riflette anche sullo svolgimento del processo, che è caratterizzato da

una particolare celerità.

E’ previsto che il ricorso debba essere deciso in camera di consiglio, con

sentenza motivata, entro un termine congruo, non superiore a 30 gg. Decorso

invano tale termine, su richiesta della parte, procede alla nomina di un

commissario che si sostituisce all’Amministrazione (art. 21-bis legge TAR).

c) L’art. 23-bis della legge TAR riguarda i ricorsi proposti contro

provvedimenti in tema di opere pubbliche, i ricorsi contro provvedimenti in

tema di aggiudicazione, affidamento ed esecuzione di servizi pubblici o

forniture, i ricorsi contro atti di autorità amministrative indipendenti etc.

In questi giudizi, tutti i termini processuali sono ridotti a metà, ad eccezione

del termine per notificare il ricorso di primo grado che, pertanto rimane di 60 gg.

Inoltre, se è stata richiesta una misura cautelare, il TAR, nella camera di

consiglio fissata per l’esame dell’istanza, se ritiene ad un primo esame che il

ricorso possa essere accolto e che vi sia il rischio di un danno grave e

irreparabile, dispone con ordinanza che la discussione del ricorso nel merito si

tenga nella prima udienza successiva alla scadenza di un termine di 30 gg. Il

dispositivo della sentenza è pubblicato entro sette giorni dopo l’udienza.

La disciplina prevista dall’art. 23-bis della legge TAR è richiamata, dall’art. 14 del

d.lgs n. 190/2002, per i giudizi relativi ad infrastrutture pubbliche ed

insediamenti produttivi.

4. L’istruttoria: i principi

L’istruzione è l’attività del giudice diretta a conoscere i fatti rilevanti per il

giudizio.

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Page 92: Aldo Travi Lezioni di giustizia amministrativa 123.doc

Il tema dell’istruzione probatoria ruota anche nel processo amministrativo

intorno atre profili fondamentali: 1) il rapporto fra le allegazioni di fatti riservate

alle parti e poteri di cognizione del giudice; 2) i vincoli e gli effetti che

comportano le istanze istruttorie delle parti 3) i vincoli che comportano le

risultanze dell’istruttoria.

I) Il primo profilo concerne l’individuazione dei fatti che possono essere

allegati solo dalle parti. Si ricorre alla distinzione fra fatti principali (o primari)

e fatti secondari. I fatti principali sono descritti come fatti materiali che

identificano la pretesa fatta valere concretamente in giudizio e possono essere

introdotti solo dalle parti; i fatti secondari sono costituiti dai fatti materiali la cui

dimostrazione consente di verificare o meno la sussistenza dei fatti principali o la

loro rilevanza o operatività.

Nel processo amministrativo la distinzione non è pacifica. Appare logico aderire

all’interpretazione secondo cui i fatti principali, nel giudizio di impugnazione,

corrispondono ai fatti materiali su cui si fonda la pretesa dell’annullamento

dell’atto impugnato.

Costituiscono, invece, fatti secondari le circostanze di fatto sussistenti in

occasione del secondo provvedimento, che, ove consentano di identificare una

situazione diversa da quella del primo provvedimento, avrebbero giustificato

l’adozione di logiche differenti.I fattiprincipali sono sempre introdotti dalle parti

quelli secondari si pensava potessero essere introdotti da atri soggetti ma in

realtà non è cosi’, sono sempre introdotti dalle parti.

II) Il secondo profilo attiene invece alla prova dei fatti.

Nel processo amministrativo vale il principio generale sancito dall’art 2697 c.c.

sull’onere della prova, che comporta, fra l’altro, che la parte che contesta la

legittimità di un provvedimento deve fornire la prova dei fatti posti a fondamento

della sua contestazione e che la regola di giudizio, nel caso di incertezza su un

fatto, è contraria alla parte che avrebbe dovuto fornire la prova di quel fatto. La

mancanza della prova, che avrebbe dovuto fornire contezza di quel fatto,

determina la soccombenza.

III) Il processo amministrativo si basa sul principio del libero apprezzamento

del giudice: le prove nel giudizio sono rimesse, quanto alla valutazione, al

prudente apprezzamento del giudice. Questo principio comporta l’esclusione

delle prove legali, come il giuramento e la confessione, che si caratterizzano

invece per vincolare il giudice alla verità di un certo fatto. A questa conclusione

generale delle prove legali, fa eccezione la disciplina dell’atto pubblico, che

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Page 93: Aldo Travi Lezioni di giustizia amministrativa 123.doc

anche nel processo amministrativo ha l’efficacia prevista dall’art. 2700 c.c.L’atto

pubblico ha un’efficacia generale che si correla più al principio di dirtto

sostanziale che processuale.

5. (segue ): i provvedimenti istruttori e i singoli mezzi istruttori

L’art. 44, 1°comma, t.u. Cons. Stato, nel disciplinare i mezzi istruttori ammessi

nel processo amministrativo, prevedeva originariamente, nel caso di

giurisdizione di legittimità che i mezzi istruttori ammessi nel caso di

giurisdizione di legittimità fossero rappresentati solo dalla richiesta di

<<chiarimenti>>, dalla richiesta di <<documenti>>, e dall’ordine di compiere

<<nuove verificazioni>>.

L’art. 16 della legge n. 205/2000 ha modificato tale disposizione, introducendo,

nel caso di giurisdizione di legittimità, la possibilità della consulenza tecnica

nell’istruzione probatoria.

La richiesta di chiarimenti è analoga, alla richiesta di informazioni alla

Pubblica amministrazione prevista dall’art. 213 c.p.c. ma a differenza di

quest’ultima, può essere indirizzata anche nei confronti di un’Amministrazione

che sia parte nel giudizio.

La richiesta di documenti può avere per oggetto qualsiasi documento

dell’Amministrazione o di terzi, la cui esibizione sia ritenuta utile per decisione

(art. 21, 5° e 6° comma della legge TAR).

Le verificazioni possono avere contenuti molti ampi e in particolare, possono

riguardare l’accertamento di fatti o di situazioni complesse; si sostiene che le

verificazioni non potrebbero riguardare elementi di valutazione o di

apprezzamento dei fatti, altrimenti, attraverso le verificazioni, il giudice potrebbe

sindacare nel loro contenuto le valutazioni tecniche riservate dalla legge

all’Amministrazione.

Da questo punto di vista, è importante la recente introduzione nel giudizio

amministrativo della consulenza tecnica. La consulenza va affidata ad un

perito che sia in condizioni di terzietà rispetto alle parti, come nel processo civile.

La consulenza dovrebbe consentire di acquisire gli elementi tecnici necessari per

comprendere il significato e il valore del fatto. Proprio per questi caratteri,

l’introduzione della consulenza dovrebbe circoscrivere i margini di insindacabilità

delle valutazioni tecniche dell’Amministrazione.

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Page 94: Aldo Travi Lezioni di giustizia amministrativa 123.doc

Nei casi di giurisdizione di merito, il giudice amministrativo può disporre con

maggiore ampiezza oltre che dei mezzi istruttori contemplati per la giurisdizione

di legittimità, anche dei mezzi istruttori attribuiti in via generale al giudice civile,

come le perizie, le ispezioni, la prova testimoniale. Sono preclusi l’interrogatorio

formale ed il giuramento, perché preordinati ad una prova legale.

Dal confronto tra il 1° e 2° c. dell’art. 44 emerge in modo evidente la limitatezza

dei mezzi istruttori previsti per il giudizio amministrativo di legittimità. E’

naturale porsi l’interrogativo della legittimità di questa limitazione.

A tal proposito, è utile tener conto della distinzione tra i c.d. limiti probatori

assoluti e i c.d. limiti probatori relativi: i primi comportano l’impossibilità della

parte di contestare un certo fatto, che per la stessa assume un rilievo negativo,

mentre i secondi consistono solo nell’impossibilità nella parte di utilizzare certi

mezzi di prova. La Corte costituzionale ha sempre ritenuto illegittimi i limiti

probatori assoluti.

Di conseguenza, il fatto che nel giudizio di legittimità siano ammessi solo i tre

mezzi istruttori tradizionali non sarebbe di per se illegittimo: atterrebbe infatti a

limiti probatori relativi, e non assoluti.

Nel corso negli anni ’80 la limitatezza dei mezzi istruttori nella giurisdizione

esclusiva provocò un intervento della Corte costituzionale : con la sentenza n.

146/1987 dichiarò l’illegittimità costituzionale dell’art. 44, 1° c. , t.u. Cons. Stato,

nella parte in cui non ammetteva,nelle controversie in materie di pubblico

impiego, i mezzi istruttori previsti dal c.p.c. . Argomento centrale era la

disparità di trattamento che si configurava nella tutela processuale del pubblico

dipendente rispetto al lavoratore privato: di conseguenza, la Corte negò che la

ragione di illegittimità costituzionale potesse valere per altre vertenze, in

particolare quelle su diritti soggettivi assegnate alla giurisdizione esclusiva.

Rispetto alla giurisdizione esclusiva questo quadro è mutato solo di recente. In

particolare l’art. 7 della l.n. 205/2000, modificando l’art. 35, 3° c. del d. lgs. n.

80/1995, ha attribuito al giudice amministrativo, nelle controversie considerate

nel 1° c. dello stesso art. 35, il potere di assumere i mezzi di prova previsti

dal c.p.c. , oltre alla consulenza tecnica.

I provvedimenti istruttori del giudice possono essere assunti dal Presidente o da

un magistrato da lui delegato, fino all’udienza di discussione, ovvero dal collegio

nel corso o in esito all’udienza di discussione.

6. Le ingiunzioni

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Page 95: Aldo Travi Lezioni di giustizia amministrativa 123.doc

Agli artt. 633 ss. il c.p.c. disciplina il procedimento d’ingiunzione: chi è creditore

di una somma liquida di denaro o di una determinata quantità di cose fungibili, o

ha diritto alla consegna di una cosa mobile, può, avvalersi anche di questo

procedimento. Se fornisce una prova scritta del suo credito, può ricorrere al

giudice, chiedendo che sia ingiunto all’obbligato di provvedere al pagamento e/o

consegna delle cose; il giudice provvede senza necessità di contraddittorio, con

decreto. La parte cui è stato notificato il decreto ingiuntivo può opporsi entro un

termine perentorio. Se non è proposta opposizione, il decreto acquista efficacia;

nel caso di opposizione si apre un normale giudizio di cognizione sulla pretesa

del creditore.

La novella del 1990 c.p.c. ha previsto che il giudice civile, su richiesta della parte

interessata, nel corso del giudizio, possa emettere un’ingiunzione per il

pagamento di somme di denaro non contestate dal debitore costituito in giudizio

e che, inoltre, possa pronunciare un’ingiunzione, quando ricorrano le condizioni

previste per l’emissione di un decreto ingiuntivo.

L’estensione della giurisdizione esclusiva ha fatto sorgere l’esigenza di

ammettere pronunce di questo genere anche nel processo amministrativo, per la

tutela dei diritti patrimoniali.

Anche in questo ambito è intervenuta la legge n. 205/2000, introducendo decreti

ingiuntivi del giudice amministrativo, nei casi previsti dagli artt. 633 ss. c.p.c. .

L’intervento della Corte costituzionale, nel 2004 ha limitato l’ambito della

giurisdizione esclusiva per le vertenze di ordine meramente patrimoniale.

7. Gli incidenti del giudizio

Come si verifica anche nel processo civile, una serie di eventi possono incidere

sul corso dei procedimenti, precludendo la prosecuzione del giudizio.

Tra questi vanno ricordati la proposizione, da parte del collegio, della questione

di legittimità costituzionale, che introduce il giudizio d’avanti alla Corte

costituzionale, e il deferimento alla Corte di giustizia di una questione di

interpretazione di norma comunitaria.

La legge istitutiva dei TAR ha previsto la proponibilità del regolamento

preventivo di giurisdizione (art. 41 c.p.c.): esso è proposto dalle parti, con

istanza alla Corte di cassazione, finchè sul ricorso non sia intervenuta un

decisione del TAR. La proposizione del regolamento non comporta la sospensione

del giudizio, che è disposta dal TAR, solo dopo aver verificato che l’istanza non

sia manifestamente inammissibile o infondata.

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Page 96: Aldo Travi Lezioni di giustizia amministrativa 123.doc

Il giudizio amministrativo deve essere sospeso anche nell’ipotesi che siano poste

questioni inerenti allo stato alla capacità delle persone e di falso. La decisione, in

questi casi, è riservata al giudice civile e il giudice amministrativo non può

provvedere su di essere, neppure in via incidentale. In questi casi la

sospensione del giudizio deve essere disposta sulla base di una semplice

valutazione della rilevanza della questione, rispetto al giudizio amministrativo. La

sospensione è invece rimessa ad una valutazione di opportunità del giudice

amministrativo quando sia pendente un procedimento penale, relativo ai

medesimi fatti di cui si controverte nel processo amministrativo, o in relazione

alla pendenza di altri procedimenti civili o amministrativi per vicende connesse.

La legge istitutiva dei TAR ha introdotto, infine, l’istituto dell’interruzione del

processo analogamente a quanto previsto per il processo civile.

Quando sia cessata la causa di sospensione è necessario un atto d’impulso della

parte interessata. Nel processo amministrativo, tale atto si identifica

normalmente con una nuova istanza di discussione del ricorso; un vero e proprio

atto di riassunzione, da notificarsi alle altre parti, è necessario, secondo la

giurisprudenza prevalente, solo nel caso di interruzione.

Capitolo 12

LA TUTELA CAUTELARE

1. Il quadro normativo

Anche la disciplina della tutela cautelare, nel processo amministrativo, è stata

modellata sul giudizio d’impugnazione di provvedimenti: di conseguenza, la

tutela cautelare si è incentrata, fino ad epoca recente, nella sospensione del

provvedimento impugnato. Solo con la legge n. 205/2000 (art. 3) il legislatore ha

considerato l’istituto in termini più generali.

L'art. 39 t.u. Cons. Stato, inoltre, ha confermato che «i ricorsi in via contenziosa

non hanno effetto sospensivo» e ha precisato che «l’esecuzione dell'atto»

96

Page 97: Aldo Travi Lezioni di giustizia amministrativa 123.doc

impugnato, può essere sospesa dal giudice amministrativo «per gravi ragioni»,

su richiesta del ricorrente. Nello stesso senso ha disposto l'art. 21, 8° comma,

legge TAR, anche nella nuova formulazione, introdotta dalla legge n. 205/2000

(art. 3).

Spetta quindi alla parte interessata richiedere l’intervento del giudice, per

evitare che le sue ragioni possano essere compromesse, prima della decisione

del ricorso. In base all’art. 36 reg. proc. Cons. Stato, la domanda di una misura

cautelare deve essere presentata dal ricorrente al giudice adito per il ricorso

principale, con istanza scritta, che deve essere notificata all’Amministrazione

resistente e agli «interessati». Questa previsione era interpretata, in passato, nel

senso che non fosse necessaria la notifica a tutti i controinteressati. Per questo

profilo la disciplina del processo cautelare risultava gravemente lacunosa.

Negli anni ‘90, però, il Consiglio di Stato si è indirizzato nel senso che il giudice

amministrativo possa provvedere definitivamente sull’istanza cautelare, solo

dopo l’integrazione del contraddittorio, con tutte le parti necessarie del giudizio.

Questa soluzione è stata sancita dalla legge n. 205/2000 (art. 21, 8° comma,

legge TAR, come modif. dall'art. 3 della legge n. 205/2000). Prima

dell'integrazione del contraddittorio, il giudice amministrativo può adottare solo

misure cautelari provvisorie, soggette a riesame.

La richiesta di misura cautelare viene esaminata in camera di consiglio dal

giudice amministrativo, nella sua ordinaria composizione collegiale, decorsi

almeno dieci giorni dalla notifica dell'istanza. In camera di consiglio possono

comparire i difensori delle parti che ne facciano richiesta, per discutere l’istanza

stessa. Sull’istanza cautelare il giudice amministrativo decide con ordinanza

motivata (art. 21, 8° comma, della legge TAR, introdotto dalla legge n.

205/2000); l’ordinanza è efficace fin dal momento del suo deposito.

In caso di estrema gravità e urgenza, la misura cautelare può essere richiesta al

Presidente del TAR o della sezione cui il ricorso principale sia stato assegnato,

previa notifica della relativa istanza alle altre parti. Il Presidente provvede con un

decreto motivato che rimane efficace fino all’ordinanza del collegio, cui va

sottoposta l’stanza cautelare nella prima camera di consiglio utile. Anche in

quest'ultimo caso, comunque, la tutela cautelare ha sempre carattere

incidentale e si svolge nell’ambito di un giudizio instaurato col ricorso

principale. L’istanza di misura cautelare, quando sia presentata successivamente

al ricorso, deve essere sempre diretta al medesimo giudice che è competente

per la decisione del ricorso. La pronuncia sull’istanza cautelare deve essere

97

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motivata. L’obbligo di motivazione delle pronunce cautelari, benché sancito

dalla legge, spesso, in passato, non era rispettato. Questa prassi dei giudici

amministrativi appare molto grave. L’art. 21, 8° comma, legge TAR, introdotto

dall’art. 1 della legge n. 205/2000, è intervenuto anche su questo punto, non solo

confermando la necessità che le pronunce cautelari siano motivate, ma anche

precisando che la motivazione deve estendersi «alla valutazione del pregiudizio

allegato» dalla parte istante (c.d. periculum in mora) e deve indicare «i profili

che, ad un sommario esame, inducono ad una ragionevole previsione sull’esito

del ricorso» (c.d. fumus boni iuris).

La tutela cautelare è soggetta ad una medesima disciplina sia nel caso che

venga richiesta nel giudizio di primo grado, avanti al TAR, sia nel caso che essa

venga richiesta per la prima volta nel giudizio d’appello, avanti al Consiglio di

Stato.

2. I caratteri generali della tutela cautelare nel processo ammini -

strativo

La tutela cautelare, anche nel processo amministrativo, ha sempre carattere di

strumentalità: realizza, così, l’interesse ad evitare che la durata del giudizio

possa rendere praticamente inutile per il ricorrente la decisione finale.

L’esecuzione di un provvedimento amministrativo può compromettere in modo

molto grave, o addirittura irreversibile, la posizione del destinatario del

provvedimento stesso (si pensi al caso dell'esecuzione di un provvedimento di

esproprio, oppure al caso dell'esecuzione di un ordine di chiusura di un'azienda).

In queste ipotesi, anche se il provvedimento fosse illegittimo e perciò venisse in

un secondo tempo annullato dal giudice amministrativo, la sentenza di

annullamento non sarebbe idonea a soddisfare effettivamente l’interesse del

cittadino.

In base ai principi generali, la concessione della misura cautelare da parte del

giudice presuppone l’accertamento di un “fumus boni iuris” e di un

“periculum in mora” .

Il primo elemento consiste in una valutazione sommaria sul merito della pretesa

fatta valere dal cittadino con l’impugnazione.

Deve essere chiaro che la misura cautelare non va concessa in presenza di un

ricorso manifestamente infondato o inammissibile, perché altrimenti non avrebbe

più valore la regola generale secondo cui il ricorso non ha effetto sospensivo e si

realizzerebbero risultati incompatibili con il principio della “strumentalità”.

98

Page 99: Aldo Travi Lezioni di giustizia amministrativa 123.doc

Particolare rilievo assume, inoltre , il profilo costituito dal “periculum in

mora” . L'art. 21 ult. comma della legge TAR identifica questo elemento nella

possibilità di «danni gravi ed irreparabili» derivanti dal provvedimento

impugnato; tali danni devono essere allegati dal ricorrente nell’istanza di

sospensione e perciò il giudice non può d’ufficio ipotizzarne l’esistenza né

introdurli nel processo.

Il danno che giustifica l’ accoglimento dell'istanza cautelare deve essere

considerato come danno determinato dal provvedimento amministrativo ad un

interesse materiale rilevante del ricorrente e qualificato dal carattere della

gravità e della “irreparabilità”. Questo carattere, può essere verificato in senso

“assoluto” (ossia, in relazione al tipo di interesse pregiudicato dal

provvedimento), ovvero in senso “relativo” (ossia, in relazione all’incidenza del

provvedimento alla luce delle condizioni soggettive del ricorrente). Nello stesso

tempo, però, il giudice amministrativo deve considerare anche i riflessi che

produrrebbe la misura cautelare rispetto all'Amministrazione e rispetto ai

controinteressati. Il giudice amministrativo, ai fini dell’accoglimento dell’istanza

cautelare, deve effettuare una valutazione “comparata” di tutti questi interessi,

sulla base del suo prudente apprezzamento.

L’art. 21, 8° comma, legge TAR, precisa espressamente che la concessione o il

diniego della misura cautelare può essere subordinato ad una cauzione, a

garanzia del pregiudizio subito dalla parte su cui grava la pronuncia del giudice;

la cauzione non è ammessa, però, quando siano in gioco «interessi essenziali

della persona, quali il diritto alla salute o all’integrità dell’ambiente».

3. La tipologia delle misure cautelari

La tutela cautelare, nel processo amministrativo, si è incentrata, a lungo, in una

misura tipica e generale: la sospensione del provvedimento impugnato.

Tale previsione, si ricollegava al fatto che il processo amministrativo era risolto

nella impugnazione del provvedimento amministrativo. Di conseguenza, la

“lesività” di un provvedimento era individuata nella idoneità dell’atto

amministrativo a modificare unilateralmente la situazione giuridica sostanziale

del destinatario e nella possibilità, di realizzare “in via amministrativa”

l’esecuzione materiale del provvedimento, ai danni del privato. In questa logica,

obiettivo della tutela cautelare era ottenere la sospensione dell'atto

impugnato.La tutela cautelare si incentrava cosi’ in una misura ablatoria rispetto

al provvedimento amministrativo perché precludeva la produzione degli effetti

99

Page 100: Aldo Travi Lezioni di giustizia amministrativa 123.doc

propri del provvedimento impugnato o inibiva all’amministrazione di attuare

l’esecuzione materiale.Questa configurazione risultava inadeguata già nel

giudizio promosso a tutela di interessi legittimi, che riguardasse provvedimenti

negativi o il “silenzio” dell'Amministrazione. La sospensione di un

provvedimento negativo o del silenzio rifiuto, infatti, non comporta alcun

beneficio per il ricorrente, perché in questi casi il pregiudizio materiale non è

superato dalla preclusione degli effetti del provvedimento: può essere superato

solo da un diverso esito del procedimento. L'inutilità di una “sospensione”

cautelare dei provvedimenti negativi portava a concludere che, nei confronti di

questi provvedimenti, non era ammessa, in pratica, alcuna tutela cautelare, dato

che l’unica misura cautelare prevista in via generale nel processo amministrativo

era costituita, appunto, dalla sospensione.

Di fronte a una conclusione così grave, a partire dagli anni ’30, si affermò una

giurisprudenza che cercava di individuare, nell’ambito dei provvedimenti

negativi, alcune categorie di atti assimilabili, dal punto di vista degli effetti, ai

provvedimenti positivi.

Più di recente, soprattutto negli anni ‘90, alcuni giudici amministrativi avevano

cercato di estendere la “sospensione” ai provvedimenti “meramente”

negativi e al silenzio-rifiuto dell'Amministrazione, con esiti controversi. La

maggiore ampiezza della tutela cautelare conduceva a esiti sempre più lontani

dal modello normativo. Infatti, nei confronti di atti meramente negativi o del

silenzio-rifiuto, una tutela cautelare può consistere solo nella introduzione di una

nuova disciplina del rapporto. La sospensione di un silenzio-rifiuto o di un

provvedimento negativo diventava, l’ordine all’Amministrazione di pronunciarsi

sulla richiesta di provvedimento; la concessione della sospensione era intesa

come equipollente al provvedimento richiesto dal cittadino o negato

dall’Amministrazione.

La legge n. 205/2000 ha comportato, anche in questo ambito, innovazioni

sostanziali. La tutela cautelare, in base all'art. 21, 8° comma, della legge TAR,

non si risolve più in una misura tipica, quella della “sospensione”, ma si attua

con misure di contenuto atipico, modellate sul caso concreto. Di conseguenza,

molti ritengono che oggi il giudice possa intimare all’Amministrazione di

assumere determinati atti, ovvero possa lui stesso autorizzare lo svolgimento

dell’attività richiesta dal ricorrente.

In questo contesto, rimane ferma l’esigenza di definire i limiti ai poteri cautelari

del giudice amministrativo.

100

Page 101: Aldo Travi Lezioni di giustizia amministrativa 123.doc

In primo luogo, una misura cautelare non può determinare, neppure in via di

fatto, la definizione del giudizio. Altrimenti la tutela cautelare si configurerebbe,

in termini incompatibili con il principio di strumentalità.

In secondo luogo, si dubita della possibilità per il giudice amministrativo di

definire, seppure in sede cautelare, l’assetto di interessi che sia demandato dalla

legge alla discrezionalità amministrativa. Rispetto a questi stessi ambiti, infatti,

la valutazione discrezionale dell’ Amministrazione dovrebbe ritenersi infungibile.

4. I rimedi ammessi nei confronti delle ordinanze cautelari

La misura cautelare ha effetto fino alla sentenza che definisce quel grado di

giudizio. Se il giudizio si estingue, la misura cautelare perde la sua efficacia.

Anche le eventuali valutazioni, circa la fondatezza dei motivi di ricorso non

producono alcun vincolo sulla sentenza perché l’ordinanza che provvede su

un’istanza cautelare non fa stato nel giudizio. Inoltre, l’ordinanza è passibile di

revoca, su richiesta della parte che vi abbia interesse e, nel caso di rigetto

dell'istanza cautelare, l’istanza può essere riproposta (art. 21, 13° comma, legge

TAR). Pertanto, può essere richiesta la revoca dell’ordinanza nel caso di

sopravvenienza di elementi nuovi, esterni rispetto al giudizio, quali il mutamento

della situazione di fatto e il mutamento della situazione di diritto .

La revoca può essere pronunciata solo su istanza di parte; l’istanza deve essere

presentata allo stesso giudice che ha emesso l’ordinanza in questione ed è

soggetta alla medesima procedura dell’istanza cautelare.

Nei confronti dell’ordinanza del TAR che decide sull’istanza cautelare è

consentito, inoltre, l’appello al Consiglio di Stato. A differenza dell’istanza di

revoca, l’appello è ammesso non per fatti nuovi sopravvenuti, ma per

“l’ingiustizia” dell’ordinanza stessa. Con l’appello si contesta la decisione del

giudice di primo grado sull’istanza cautelare e si chiede il suo riesame da parte

del giudice di secondo grado. L’appello va proposto entro 60 gg. dalla notifica

dell’ordinanza, ovvero, in mancanza di notifica, entro 120 gg. dalla comunica-

zione del deposito dell’ordinanza (art. 28); il giudizio prosegue poi secondo le

regole previste per l’appello contro le sentenze, fermo restando che, anche in

secondo grado la decisione è assunta con ordinanza.

Nei confronti delle ordinanze cautelari la giurisprudenza amministrativa

ammette, infine, il rimedio della revocazione, ai sensi degli artt. 395 e 396

c.p.c.

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Page 102: Aldo Travi Lezioni di giustizia amministrativa 123.doc

5. L'esecuzione delle ordinanze cautelari

Alcune volte, la sospensione cautelare comporta la necessità, per

l’Amministrazione, di compiere una certa attività e di attenersi quindi ad un certo

comportamento. Se l’Amministrazione non compie l’attività necessaria,

l’ordinanza di sospensione rischia di rimanere improduttiva di risultati pratici. Per

assicurare l’esecuzione di una pronuncia del giudice amministrativo, il processo

amministrativo contempla il rimedio del giudizio di ottemperanza (art. 27, n. 4,

t.u. Cons. Stato).

A partire dagli inizi degli anni ’80, il Consiglio di Stato si indirizzò nel senso di

ritenere inammissibile il giudizio di ottemperanza per l’esecuzione di ordinanze

cautelari, sostenendo che tale giudizio avrebbe come presupposto necessario

l’inottemperanza a una sentenza. Nel caso del processo cautelare, però, il potere

di sospendere il provvedimento impugnato implicherebbe anche il potere di

assumere tutte le determinazioni idonee ad assicurare l’esecuzione

dell’ordinanza di sospensione (Cons. Stato, ad. plen., n. 6/1982).

Le conclusioni della giurisprudenza sono state recepite dal legislatore, nell’art.

21, 14° comma, legge TAR. La nuova disposizione precisa che, se

l’Amministrazione non ha eseguito un’ordinanza cautelare, la parte interessata,

con istanza che deve essere notificata alle altre parti, può rivolgersi al giudice

che ha emesso l’ordinanza. Il giudice amministrativo adotta le misure necessarie

per assicurare l’esecuzione dell’ordinanza cautelare e, a tal fine, dispone di

tutti i poteri che sono ammessi per il giudizio di ottemperanza. In particolare può

dettare ordini all’Amministrazione e può nominare Commissari che si

sostituiscano all’organo inadempiente.

6. I nuovi problemi e le prospettive della tutela cautelare

Il legislatore è intervenuto più volte, in passato, con disposizioni speciali sulla

tutela cautelare nel processo amministrativo. I suoi interventi sono stati diretti, in

genere, a ridurre il pericolo che le misure cautelari potessero paralizzare l’azione

amministrativa, ritardando la realizzazione di interventi importanti (soprattutto

nel settore dei lavori pubblici) o pregiudicando altri interessi di rilievo per la

collettività. La legge n. 205/2000 ha considerato queste esigenze: sia quella di

accelerare la conclusione del giudizio, in vertenze di particolare rilievo generale,

sia quella di consentire, in taluni casi, l’anticipazione della sentenza alla fase

cautelare. In particolare l’art. 9 ha modificato il testo dell’art. 26 legge TAR che,

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Page 103: Aldo Travi Lezioni di giustizia amministrativa 123.doc

oggi, dispone che il giudice amministrativo può decidere il ricorso (con «sentenza

succintamente motivata») nella camera di consiglio fissata per l’esame

dell’istanza cautelare, ogni qual volta riscontri «la manifesta fondatezza ov-

vero la manifesta irricevibilità, inammissibilità, improcedibilità o

infondatezza del ricorso». Si tenga presente, però, che le parti intimate in

giudizio, quando vi sia il rischio di una decisione del ricorso anticipata alla fase

cautelare, hanno l’onere di costituirsi al più presto per svolgere le loro difese in

tempo utile per la camera di consiglio fissata per l’esame dell’istanza cautelare;

di fatto i termini per le loro difese risultano decurtati in modo consistente.

Per quanto riguarda, invece, la tutela cautelare in vertenze di particolare

interesse generale, va considerata la particolare disciplina prevista dall'art.

23-bis, legge TAR. Questa disciplina, dettata per le vertenze sull’affidamento di

appalti pubblici, su occupazioni ed espropriazioni, sui provvedimenti delle

autorità indipendenti, ecc., comporta che, se sia stata presentata un’istanza

cautelare, il giudice amministrativo, se riscontra gli estremi per il suo

accoglimento, non adotti alcuna misura cautelare, ma fissi l’udienza di

discussione del ricorso, in modo che si tenga a breve scadenza. Solo «in caso di

estrema gravità ed urgenza>> il giudice adotta la misura cautelare del caso. Se

l’istanza cautelare è respinta dal TAR e viene proposto appello contro l’ordinanza

di rigetto, il Consiglio di Stato che accolga il gravame non adotta di regola una

misura cautelare (fatta salva l’ipotesi «di estrema gravità ed urgenza»), ma

rimette gli atti al TAR, che deve subito fissare, nei termini prescritti, l’udienza di

discussione del ricorso.

Il legislatore ha dimostrato, in questo modo, di ricercare un equilibrio fra le

esigenze suddette.

Non pare, invece, che un equilibrio sia stato raggiunto dall’art. 14, d.lgs.

n.190/2002, sui giudizi in materia di infrastrutture pubbliche ed

insediamenti produttivi. In questo caso il legislatore ha affermato che il

giudice amministrativo, ai fini dell’eventuale concessione della misura cautelare,

deve considerare il «preminente interesse nazionale alla sollecita realizzazione

dell’opera». Emerge l'intenzione del legislatore di limitare sostanzialmente lo

spazio per una tutela cautelare, con soluzioni che non sono compensate da

misure processuali alternative.

Capitolo 13

103

Page 104: Aldo Travi Lezioni di giustizia amministrativa 123.doc

LA DECISIONE DEL RICORSO E I RIMEDI NEI CONFRONTI DELLA

SENTENZA

1. La decisione del ricorso

Il giudizio amministrativo è definito in genere da una sentenza, che viene

deliberata dal collegio giudicante.

Nel giudizio amministrativo, in molti casi, il termine “sentenza” identifica la

forma dei provvedimenti assunti dal collegio dopo una camera di consiglio o una

pubblica udienza.

Nel processo amministrativo sono ammesse infatti anche sentenze

interlocutorie, con le quali il collegio, in esito a una pubblica udienza o a una

camera di consiglio, detta disposizioni per lo svolgimento del giudizio e

sentenze istruttorie . Queste sentenze non solo non sono idonee a passare in

giudicato, ma non sono neppure in grado di costituire un vincolo di ordine interno

sulla decisione finale e pertanto non sono impugnabili.

Hanno invece carattere decisorio le sentenze parziali, con le quali il giudice

amministrativo decide, rigettandole, alcune questioni pregiudiziali o preliminari,

ovvero decide su alcune delle censure proposte nel ricorso, riservando la

decisione delle altre ad un’ulteriore pronuncia. Esse sono idonee a costituire cosa

giudicata.

Con riferimento alle pronunce parziali e alle sentenze definitive, si è soliti

distinguere fra sentenze di rito e sentenze di merito.

Le prime si esaurirebbero nell’esame di questioni strettamente processuali o

nella verifica delle c.d. condizioni per l’azione, o nell’esame di questioni

inerenti alla giurisdizione o nella declaratoria della c.d. cessazione della

materia del contendere, che si verifica quando il provvedimento impugnato

venga annullato d’ufficio dall’Amministrazione, in termini conformi all’interesse

del ricorrente, prima della pronuncia del giudice. In alcuni di questi casi il giudizio

viene definito oggi, anziché con una sentenza, con un decreto presidenziale.

Le seconde riguarderebbero invece il merito della domanda e delle questioni

pregiudiziali di merito che siano state sollevate nel corso del giudizio e possono

quindi essere pronunce di accoglimento della domanda o pronunce di rigetto per

ragioni di merito.

Nel caso di accoglimento del ricorso, le sentenze di merito, possono quindi

disporre l’annullamento del provvedimento impugnato, o la sua revoca o riforma

nelle ipotesi di giurisdizione di merito (art. 26, 2° comma, legge TAR), ovvero

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Page 105: Aldo Travi Lezioni di giustizia amministrativa 123.doc

ordinare all’Amministrazione di provvedere nel caso di un giudizio sul silenzio-

rifiuto, ovvero accertare un diritto soggettivo del ricorrente in ipotesi di

giurisdizione esclusiva, o anche condannare l’Amministrazione al pagamento di

somme di denaro di cui essa risulti debitrice.

Nell’esame della domanda, il giudice deve tener conto del vincolo di

pregiudizialità che può sussistere fra le varie questioni rilevanti per la decisione.

Fenomeno diverso da quello della pregiudizialità è il c.d. assorbimento delle

questioni, che si verifica quando le questioni sollevate seguono un preciso ordine

logico, che il giudice deve seguire ai fini della decisione.

Il giudice amministrativo, comunque, suole disporre frequentemente

l’assorbimento dei motivi di ricorso sulla base di criteri di mera opportunità

pratica.

Questo uso improprio dell’istituto dell’assorbimento appare grave, perché

determina di fatto una pronuncia incompleta sul ricorso e impedisce al cittadino

di conseguire tutte le utilità che potrebbero derivare dall’accoglimento degli altri

motivi di impugnazione.

Una sentenza con caratteri particolari è stata prevista dall'art. 35, 2° comma, del

d.lgs. n. 80/1998, come modif. dall'art. 7 della legge n. 205/2000, per le

vertenze risarcitorie. II giudice, se accoglie la domanda risarcitoria può

limitarsi a fissare nella sentenza i «criteri» per determinare la misura del

risarcimento; entro il termine fissato nella sentenza, l’amministrazione deve

formulare, sulla base di questi criteri, la sua proposta di pagamento; in

mancanza di accordo la determinazione della somma dovuta può essere richiesta

nelle forme previste per il giudizio d’ottemperanza.

La sentenza deve essere sottoscritta dal presidente del collegio giudicante e

dall’estensore e viene depositata, unitamente al dispositivo, presso la segreteria

del TAR (legge n. 186/1982, art. 55) Il deposito comporta la pubblicazione della

sentenza: da quel momento la sentenza produce i suoi effetti e decorre il termine

annuale per l’eventuale impugnazione. Del deposito della sentenza la segreteria

dà comunicazione alle parti; la notifica della sentenza costituisce, invece, un

onere delle parti, che determina la decorrenza del termine breve per l’eventuale

impugnazione

2. Gli effetti della sentenza di annullamento

105

Page 106: Aldo Travi Lezioni di giustizia amministrativa 123.doc

Il nucleo della sentenza di annullamento è stato identificato a lungo con

l’accertamento della illegittimità del provvedimento impugnato, in

relazione a determinati vizi enunciati nel ricorso.

A questa concezione, se ne è poi contrapposta un’altra. Anch’essa identifica

come centrale il momento dell’accertamento, ma si concentra in modo

particolare sull’interesse tutelato nel processo amministrativo: la sentenza

accerta la lesione di un interesse legittimo. La verifica compiuta dal giudice

inerisce ad una posizione soggettiva: l’interesse legittimo. Nel dibattito, alcuni

punti sembrano acquisiti. Innanzi tutto, l’accertamento dell’illegittimità del

provvedimento o della lesione dell’interesse legittimo, costituisce il nucleo

essenziale e ineliminabile della sentenza del giudice amministrativo. Inoltre,

sembra maturata una quasi unanimità di consensi su un punto: la sentenza di

annullamento non può essere considerata solo nella prospettiva della

eliminazione di un atto amministrativo.

Il potere dell’Amministrazione non si esaurisce per effetto della sentenza

che accolga un ricorso.

Il riconoscimento della permanenza del potere amministrativo pone l’esigenza di

salvaguardare il contenuto di accertamento della sentenza.

Da questo punto di vista appare significativa la sistematica proposta da alcuni

autori, che individua tre ordini di effetti della sentenza di annullamento:

- un effetto “eliminatorio” o “caducatorio”. La sentenza di annullamento

comporta l'eliminazione dalla c.d. realtà giuridica del provvedimento annullato.

L'annullamento di un decreto di esproprio, ad es., comporta come effetto il venir

meno del titolo giuridico e gli atti amministrativi che ad esso abbiano dato

esecuzione o attuazione (atti consequenziali) ecc.

- un effetto “ripristinatorio”. La sentenza di annullamento opera ex tunc:

essa, pertanto, non solo elimina dalla realtà giuridica attuale un certo assetto di

interessi, ma impone che quell'assetto di interessi sia eliminato fin dall’origine.

- un effetto “conformativo”. L’accertamento contenuto nella sentenza non

può essere disatteso dall'Amministrazione.

In questa sistematica la riflessione sugli effetti della sentenza di annullamento si

concentra particolarmente sugli effetti conformativi, perché essi determinano la

stabilità o meno del risultato raggiunto dal ricorrente con sentenza stessa.

L'art. 21-octies della legge n. 241/1990, introdotto dalla legge n. 15/2005,

nel secondo comma esclude l'annullamento del provvedimento. Questa

disposizione è oggetto di interpretazioni diverse. Alcune ambientano la norma in

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Page 107: Aldo Travi Lezioni di giustizia amministrativa 123.doc

un quadro tipicamente sostanziale, altre invece in un quadro processuale.

L’interpretazione della disposizione ne condiziona anche la rilevanza rispetto al

tema in esame, sulla portata della sentenza d’accoglimento, nel caso di im-

pugnazione di un atto illegittimo.Attraverso la sentenza di annullamento

possiamo avere una classificazione delle utilità.Se l’annullamento è stato

disposto per un vizio di legittimità sostanziale impedisce l’emanazione di un

nuovo provvedimento con quel contenuto.Se invece è predisposta per un vizio di

legittimità formale il vantaggio del ricorrente è minore perché l’annullamento

non impedisce di per sé l’emanazione di un nuovo atto con lo stesso contenuto

purchè l’atto sia emendato dai vizi accertati nella sentenza.

3. La revocazione

L’art. 28 della legge TAR ammette, nei confronti delle sentenze dei TAR, il

rimedio della revocazione; l’art. 36 della stessa legge ammette la revocazione

anche nei confronti delle decisioni del Consiglio di Stato. In entrambi i casi non è

dettata una disciplina specifica dell’ istituto, con riferimento a pronunce di giudici

amministrativi, ma è fatto rinvio al c.p.c..

Va osservato, però, che nella legge istitutiva dei TAR le disposizioni del codice di

rito sono richiamate in modo impreciso e con varie incongruenze e illogicità. In

particolare, l’art. 36, legge TAR, a proposito dei casi di revocazione ammessi nei

confronti delle decisioni pronunciate in grado d’appello dal Consiglio di Stato,

richiama l'art. 396 c.p.c. (che riguarda i casi di revocazione nei confronti di

sentenze di primo grado passate in giudicato) anziché l’art, 395 c.p.c. (che

invece riguarda i casi di revocazione di sentenze pronunciate in unico grado o in

grado d’appello).

Ancora, l’art. 28, 1° comma, legge TAR richiama per le sentenze dei TAR, oltre

che i casi di revocazione previsti dall’art. 396 c.p.c. (sulla revocazione

straordinaria delle sentenze di primo grado), anche quelli previsti dall’art. 395

(sulla revocazione delle sentenze pronunciate in grado d’appello o in unico

grado), creando così confusione in merito al rapporto fra la revocazione (c.d.

ordinaria) e l’appello: il Consiglio di Stato si è orientato nel senso di ritenere che i

due rimedi siano fra loro concorrenti.

La revocazione ordinaria è ammessa in tutti i casi previsti dall’art. 395 c.p.c; la

revocazione straordinaria (che riguarda le sentenze passate in giudicato) è

ammessa invece solo nelle ipotesi previste dall’art. 395, nn. 1, 2, 3 e 6, c.p.c.

I casi di revocazione previsti dall'art. 395 c.p.c. riguardano:

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- la sentenza che sia effetto del dolo di una parte in danno a un’altra

- la sentenza pronunciata in base a prove riconosciute o dichiarate false dopo la

sentenza o che la parte soccombente ignorava essere state riconosciute o

dichiarate false prima della sentenza

- il caso di ritrovamento dopo la sentenza di uno o più documenti decisivi che la

parte non aveva potuto produrre in giudizio per causa di forza maggiore o per

fatto dell'avversario.

- la sentenza che sia affetta da errore di fatto risultante dagli atti o documenti

della causa. Si tratta dell’ipotesi di revocazione più importante e discussa:

l’errore di fatto che consente la revocazione deve essere stato determinante per

la sentenza e deve consistere in una errata od omessa percezione del contenuto

materiale degli atti o dei documenti prodotti nel giudizio

- la sentenza contraddittoria con altra precedente passata in giudicato, purché

non abbia pronunciato sulla relativa eccezione. Questa ipotesi presuppone

l’identità degli elementi di identificazione dell’azione nei due diversi giudizi.

- la sentenza affetta da dolo del giudice, accertato con sentenza passata in

giudicato.

Nel processo amministrativo, il ricorso per revocazione si propone avanti al

medesimo giudice che ha emesso la sentenza: il giudice adito procede

all’accertamento delle condizioni per la revocazione e, nel caso di accertamento

positivo, al riesame del merito della controversia già precedentemente decisa.

4. L'appello al Consiglio di Stato: considerazioni preliminari

La legge istitutiva dei TAR, nel dare attuazione all’art. 125, 2° comma, Cost., ha

introdotto con carattere di generalità il c.d. doppio grado di giurisdizione nel

processo amministrativo: nei confronti delle sentenze (parziali o definitive) dei

TAR la parte soccombente può proporre l’appello al Consiglio di Stato.

Meritano di essere segnalate particolarmente le discussioni concernenti:

a) la nozione di soccombenza. Questa nozione inerisce a quella condizione

generale per l’appello che è costituita dall’interesse ad appellare. In passato tale

interesse spesso veniva identificato con la soccombenza: ha interesse ad

impugnare la sentenza di primo grado chi sia risultato soccombente in quel

grado di giudizio.

Va osservato, però, che la configurabilità di una soccombenza risulta pacifica

solo in alcune ipotesi, in altre, invece, la configurabilità e i caratteri della

soccombenza appaiono più opinabili.

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b) la nozione di capo (o “parte”) di sentenza. L’appello, al pari di ogni altra

impugnazione, deve identificare l’ambito della sentenza impugnato perché

tendenzialmente è, rispetto a tale ambito, che si riapre la controversia (art. 329

c.p.c). A questo fine, però, diventa essenziale capire quale sia l’ambito di una

sentenza passibile di autonoma contestazione: il c.d. capo di sentenza. L’appello

può riguardare uno o più capi di sentenza; rispetto a quelli non gravati da

appello, si forma il giudicato.

La nozione di capo di sentenza, molto dibattuta nel processo civile, risulta

ancora più controversa nel processo amministrativo. Risultato di queste

incertezze è, in dottrina, la presenza di interpretazioni che spaziano da quella

che identifica il “capo” di sentenza in base al “petitum” del ricorso (=

l’annullamento di un determinato provvedimento) a quella che invece identifica il

“capo” con il singolo determinato profilo di illegittimità fatto valere nel ricorso (a

ciascun vizio esaminato nella sentenza corrisponde un “capo” distinto). Su una

posizione intermedia si colloca la tesi secondo cui la nozione di capo di sentenza

dovrebbe essere conformata alle utilità che l’accoglimento di una censura

comporta per il ricorrente, tenendo conto di tutti gli effetti della sentenza di

annullamento. In questo modo il capo di sentenza si identificherebbe in base a

una qualità degli effetti della sentenza.

Nella giurisprudenza amministrativa prevale la tendenza che identifica come

unità minima della sentenza, ai fini dell’appello, qualsiasi pronuncia espressa su

una “questione” sollevata dalle parti o rilevata d’ufficio nel giudizio di primo

grado. Capo della sentenza finisce così col risultare non solo la pronuncia sul

singolo vizio, ma anche il rigetto di ogni eccezione pregiudiziale o preliminare.

e) la configurabilità e l’ampiezza di un effetto devolutivo dell’appello. L’appello

si caratterizza, fra i mezzi di impugnazione, per essere diretto ad ottenere dal

giudice di secondo grado il riesame della vertenza decisa dal giudice di primo

grado. Pertanto, il giudice d’appello deve poter conoscere e decidere la vertenza

con la stessa pienezza del giudice di primo grado. A questo proposito si parla di

un effetto devolutivo dell’appello: si designa così la riemersione automatica, nel

giudizio d’appello, delle questioni già sollevate nel giudizio di primo grado e del

relativo materiale di cognizione e probatorio. La configurabilità di un effetto

devolutivo dell’appello, oggetto di contestazioni nel processo civile, è data come

elemento pacifico dal Consiglio di Stato.

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Un effetto devolutivo si può produrre solo nei limiti dell’impugnazione proposta:

pertanto può riguardare solo questioni risolte nei capi di sentenza che siano

impugnati.

d) l'oggetto della contestazione nell’appello.

E’ stato osservato, in passato, che l’appello al Consiglio di Stato si propone con

ricorso contro la sentenza di primo grado e che le disposizioni sul giudizio avanti

al Consiglio di Stato modellano il ricorso nei termini di reazione demolitoria ad un

atto: oggi, dato che il Consiglio di Stato è giudice d’appello, tale atto sarebbe,

appunto, la sentenza di primo grado. La legge istitutiva dei TAR prevede, però,

un accentuato parallelismo nella competenza e nei poteri di cognizione e di

decisione fra TAR e Consiglio di Stato (art. 28, 3° e 4° comma) e questo

parallelismo non sembra conciliabile con una contrapposizione nell’oggetto dei

due gradi del giudizio, come si avrebbe, se il primo investisse il provvedimento

amministrativo e il secondo la sentenza appellata. Gli artt. 34 e 35 della legge

istitutiva dei TAR sanciscono che il Consiglio di Stato, se accoglie l’appello, in

ipotesi tassative, si limita ad annullare la sentenza di primo grado. Sottolineano,

così, la capacità del Consiglio di Stato di assumere una pronuncia pienamente

sostitutiva di quella di primo grado e perciò l’attitudine del giudice d’appello a

decidere dell’impugnazione del provvedimento amministrativo.

Si tenga presente che le conclusioni accolte dalla giurisprudenza prevalente

sull’oggetto del giudizio d’appello, nel processo amministrativo non esauriscono

le questioni concernenti i rapporti fra i due gradi di giudizio.

5. (segue): l’appello principale e l’appello incidentale

Tradizionalmente, la legittimazione all’appello era riconosciuta solo alle parti

necessarie nel giudizio di primo grado, sia per ragioni di coerenza con quanto

previsto nel processo civile, sia perché in generale la proposizione dell’appello

sembrava espressione di un potere di disposizione della controversia, riservato

alle parti necessarie. Più di recente, però, nel quadro di una nuova rimeditazione

del ruolo di alcune parti intervenute, il Consiglio di Stato ha riconosciuto la

legittimazione a proporre l'appello anche all’interventore ad opponendum, nel

giudizio di primo grado, quando esso risulti titolare di una posizione autonoma

rispetto alle altre parti (Cons. Stato, ad. plen. n. 2/1996).

Una parte della giurisprudenza, per assicurare una tutela ai terzi titolari di una

posizione giuridica autonoma, che non siano intervenuti nel giudizio di primo

grado e subiscano un pregiudizio, dall’annullamento del provvedimento

110

Page 111: Aldo Travi Lezioni di giustizia amministrativa 123.doc

impugnato, riconosce anche ad essi la legittimazione a proporre l’appello. Ma, in

merito ai contenuti dell’atto d’appello, la giurisprudenza sembra ancora lontana

da conclusioni omogenee.

Ai fini che qui interessano, si intende far riferimento alla necessità che l’atto

d’appello identifichi, a pena di inammissibilità, le ragioni per le quali la sentenza

non venga ritenuta corretta o condivisibile. Questo profilo assumerebbe rilievo

anche a fini più generali. La necessità di una critica alla sentenza di primo grado,

infatti, sottolineerebbe la distinzione fra il giudizio d’appello e il giudizio di primo

grado ed escluderebbe la possibilità di accogliere, per l’appello al Consiglio di

Stato, il modello di appello fondato semplicemente sull’esigenza di assicurare

una seconda pronuncia di merito su quella certa controversia.

Su questo tema la giurisprudenza amministrativa appare divisa. L’Adunanza

plenaria ha prospettato una soluzione di mediazione, sostenendo che il giudizio

d’appello avrebbe «come oggetto immediato e diretto» la sentenza, e non il

provvedimento impugnato in primo grado, e affermando nello stesso tempo che,

però, anche la semplice riproposizione delle censure proposte in primo grado

soddisferebbe l’onere di allegazione dei motivi. In questo modo, la critica alla

sentenza di primo grado sarebbe desumibile nella proposizione stessa dell’atto

d’appello; d’altra parte, la funzione della motivazione dell’appello si esaurirebbe

nella individuazione dei capi di sentenza impugnati. Questa soluzione, però, non

è consolidata.

b) Le parti alle quali sia stato notificato l’appello (principale) possono, a loro

volta, impugnare la sentenza del TAR, per le statuizioni che ritengono lesive del

loro interesse, proponendo appello incidentale. Il principio di concentrazione

delle impugnazioni sancito dall'art. 333 c.p.c, ritenuto oggi applicabile anche al

processo amministrativo, comporta la necessità di proporre con appello

incidentale tutti gli appelli successivi al primo.

Nel caso di un interesse autonomo all’impugnazione, l’appello incidentale (c.d.

appello incidentale autonomo) riceve una considerazione specifica, ma nel senso

che l’accoglimento dell’appello principale non è condizione per il suo esame da

parte del giudice.

L’istituto dell’appello incidentale si presenta in stretto rapporto con l’effetto

devolutivo.Non vi è onere di impugnazione e quindi di appello incidentale nei casi

in cui opera l’effetto devolutivo.

Effetto devolutivo ed onere di appello incidentale si collocano in una relazione di

alternatività: ciò significa, che le conclusioni del Consiglio di Stato sulla limita-

111

Page 112: Aldo Travi Lezioni di giustizia amministrativa 123.doc

tezza dell’effetto devolutivo, nel processo amministrativo comportano, come

necessaria conseguenza, l’estensione dell’onere di proporre appello incimentale.

L'istituto dell’appello incidentale si pone, inoltre, in stretta relazione con la

nozione di soccombenza accolta nel processo amministrativo: l’interpretazione

del Consiglio di Stato, già richiamata, comporta la possibilità di un appello

incidentale anche per la parte che sia stata soccombente solo su singole

questioni.

c) Uno dei profili ritenuti, tradizionalmente, più qualificanti, per valutare il

modello di appello, è rappresentato dalla disciplina dei “nova”, in particolare

dalla possibilità per la parte di porre rimedio alle manchevolezze delle sue difese

nel precedente grado di giudizio, proponendo censure, eccezioni o mezzi di prova

che non aveva proposto in primo grado. È stata perciò assunta, come il fatto che

determina la differenza fra un giudizio d’appello, come rimedio agli errori del

giudice di primo grado e un giudizio d’appello che attua semplicemente il «diritto

di ottenere dal giudice una nuova sentenza di merito» sulle medesime questioni.

Con l’appello al Consiglio di Stato non è ammessa la presentazione di nuovi

motivi di ricorso contro il provvedimento impugnato in primo grado. L’esclusione

di nuovi motivi di ricorso dipende dalla vigenza di un termine generale di

decadenza per l’impugnazione del provvedimento amministrativo. Si comprende,

in questa logica, perché siano ammessi anche in grado di appello i c.d. motivi

aggiunti: la possibilità di presentarli in grado di appello, pur costituendo una

deroga al principio del doppio grado, si giustifica per il fatto che essi concernono

vizi che emergono da documenti, conosciuti per la prima volta, in quel grado di

giudizio. I motivi aggiunti, nel giudizio di secondo grado, si configurano come

strumento integrativo del ricorso, in seguito alla acquisizione al processo di fatti

nuovi, prima non noti al ricorrente.

Nei giudizi su questioni patrimoniali in materia di pubblico impiego, il Consiglio di

Stato ha ammesso che potessero essere richiesti, in grado d’appello, per la

prima volta, interessi e rivalutazione monetaria (Cons. Stato, ad. plen., n.

18/1985). Il disposto dell’art. 429 c.p.c. (che prevede la liquidazione d’ufficio

degli interessi maturati sui crediti di lavoro) viene applicato anche ai processi

amministrativi sul pubblico impiego, con la conseguenza che il Consiglio di Stato

può provvedere in proposito anche d’ufficio, quando la questione non sia già

stata decisa dal giudice di primo grado; l’eventuale domanda della parte non fa

che sollecitare poteri, che il giudice eserciterebbe anche autonomamente.

112

Page 113: Aldo Travi Lezioni di giustizia amministrativa 123.doc

Con riferimento, invece, ad ogni altro genere di vertenza si deve ritenere che, in

grado d’appello, possano essere richiesti per la prima volta solo gli interessi, la

rivalutazione e, in generale i c.d. accessori che siano maturati dopo la sentenza

di primo grado. Inoltre può essere richiesta la restituzione di quanto corrisposto

in base alla sentenza di primo grado e, nelle vertenze risarcitorie, può essere

chiesto il risarcimento dei danni subiti dopo la sentenza del TAR.

Per quanto riguarda, invece, le eccezioni, la giurisprudenza amministrativa, in

passato, era orientata nel senso di ammettere nel giudizio d’appello eccezioni

nuove, anche quando esse fossero state riservate alle parti. Questo

orientamento, che trovava argomento nel testo previgente dell’art. 345 c.p.c, ha

dovuto confrontarsi con le modifiche di tale articolo, ad opera della legge n.

353/1990, che ha circoscritto la possibilità di proporre eccezioni nuove

nell’appello civile solo alle eccezioni rilevabili d’ufficio. La giurisprudenza sembra

ancora divisa, ma prevale l’indirizzo favorevole ad applicare il nuovo testo

dell'art 345 c.p.c anche al processo amministrativo.

Le modifiche apportate nel 1990 all’art. 345 c.p.c assumono rilievo anche per la

deduzione di nuovi mezzi di prova: l’art. 345, oggi, li ammette solo in ipotesi

eccezionali, mentre la giurisprudenza amministrativa in passato li consentiva

senza limiti.

In alcune decisioni recenti il Consiglio di Stato ne ha esteso la portata anche ai

mezzi di prova nel processo amministrativo d’appello. Inoltre, anticipando un

recente indirizzo della Cassazione, ha affermato che anche le prove documentali

sarebbero assoggettate ai limiti previsti per i nuovi mezzi di prova: di

conseguenza, sarebbe preclusa alle parti anche la produzione di nuovi

documenti.

L’appello al Consiglio di Stato, rappresenterebbe, oggi, più un rimedio agli errori

del giudice di primo grado, che il mezzo per ottenere un nuovo esame della

controversia da parte del giudice di grado superiore.

6. {segue): lo svolgimento del giudizio

L’appello contro una sentenza del TAR deve essere proposto con ricorso al

Consiglio di Stato da notificarsi, di regola, entro 60 gg. dalla notifica della

sentenza (art. 28, 2° comma, legge TAR). Se la sentenza di primo grado non è

stata notificata, per analogia con quanto previsto per il processo civile, il termine

per la notifica dell’appello è di un anno dalla data di deposito della sentenza.

L’appello deve essere notificato alle altre parti del giudizio di primo grado, siano

113

Page 114: Aldo Travi Lezioni di giustizia amministrativa 123.doc

esse costituite o non, osservando le regole previste per la notifica delle

impugnazioni nel processo civile; se l’atto non è notificato a tutte le parti, ma

almeno ad una, l’appello non è inammissibile, ma il Consiglio di Stato ordina di

procedere all’integrazione del contraddittorio con gli effetti previsti dall’art. 331

c.p.c.. Nei 30 gg. successivi alla notifica, il ricorso deve essere depositato presso

il Consiglio di Stato (art. 36, 4° comma, t.u. Cons. Stato); col deposito si

determina anche la costituzione in giudizio dell’appellante e la pendenza del

giudizio.

L’appello non sospende l’esecutività della sentenza; la sospensione può essere

disposta dal giudice d’appello, in seguito ad istanza dell’appellante, con le

modalità e secondo i principi già esaminati a proposito delle misure cautelari nel

giudizio di primo grado.

Gli appellati possono costituirsi in giudizio, depositando una memoria di

costituzione (controricorso), entro il termine ordinatorio di 30 gg. dalla scadenza

del termine per il deposito dell’appello; tale termine è invece perentorio per

l’appello incidentale, che va notificato all’appellante, presso il suo difensore

nel giudizio d’appello (art. 37, t.u. Cons. Stato). La giurisprudenza prevalente,

sostiene però che l’appello incidentale, se investe capi di sentenza diversi (o

autonomi) da quelli impugnati dall’appellante, va notificato prima della scadenza

dei termini per l’appello principale (c.d. appello incidentale “improprio”).

Anche nel giudizio d’appello è ammesso l’intervento di quanti avrebbero potuto

intervenire nel giudizio di primo grado.

In sede d’appello il Consiglio di Stato, in coerenza con il carattere rin-

novatorio del giudizio d’appello, non è vincolato dalla regola del fatto enunciata

nella sentenza impugnata, né è limitato nella conoscenza dei fatti a quelli già

acquisiti nel giudizio avanti al TAR. Il giudice d’appello, nel processo

amministrativo, può disporre l’acquisizione di tutti i mezzi istruttori rilevanti,

rispetto ai capi di sentenza impugnati, con gli stessi poteri e con gli stessi limiti

previsti per il giudice di primo grado, fatto salvo quanto si è già visto,

sull’incidenza del nuovo testo dell’art. 345 c.p.c.

Alle ulteriori fasi di svolgimento del giudizio si applicano regole analoghe a quelle

previste per il giudizio di primo grado.

Nelle vertenze in materia di aggiudicazione di appalti pubblici e nella altre

vertenze assoggettate al rito speciale previsto dall’art. 23-bis legge TAR.

7. La decisione del Consiglio di Stato e gli ulteriori gravami

114

Page 115: Aldo Travi Lezioni di giustizia amministrativa 123.doc

La pronuncia del Consiglio di Stato sull’appello è designata dalla legge come

«decisione» (art. 43 t.u. Cons. Stato e art. 36 legge TAR). Solo quando si sia

verificata una causa di estinzione del giudizio, ovvero siano intervenute la

rinuncia al ricorso, la cessazione della materia del contendere o la perenzione,

provvede alla relativa declaratoria il Presidente della sezione con un decreto, ai

sensi dell’art. 26 legge TAR, come nel giudizio di primo grado.

L’appello, nel processo amministrativo, ha carattere rinnovatorio: di

conseguenza il Consiglio di Stato, se accoglie l’appello, di regola «decide anche

sulla controversia» (art. 35 legge TAR), pronunciandosi quindi sull’ impugnazione

del provvedimento amministrativo. Il carattere rinnovatorio del giudizio d’appello

consente di richiamare, per le decisioni del Consiglio di Stato, quanto è stato

visto a proposito della sentenza del TAR, con alcune importanti precisazioni, che

riguardano i vizi della sentenza appellata rilevabili d'ufficio dal giudice

d’appello e i casi in cui la decisione del Consiglio di Stato ha un contenuto solo

demolitorio della sentenza impugnata e non si risolve quindi in una decisione

sulla controversia, già esaminata dal giudice di primo grado.

a) Per quanto riguarda il primo punto, va osservato che il Consiglio di Stato

ritiene di poter rilevare anche d’ufficio alcuni vizi della sentenza impugnata: è il

caso del difetto di giurisdizione, della nullità, inammissibilità o

irricevibilità della domanda originaria, dell’irregolare costituzione del

rapporto processuale. La giurisprudenza prevalente sostiene che tali vizi siano

rilevabili d’ufficio da parte del Consiglio di Stato, se non siano stati oggetto di

esplicita statuizione nella sentenza appellata. Il Consiglio di Stato, è orientato in

prevalenza nel senso che, in mancanza di una statuizione esplicita nella

sentenza del TAR, la questione debba ritenersi “non affrontata” nel giudizio di

primo grado e che quindi non vi sarebbe spazio per alcun giudicato.

Se invece i vizi in questione sono stati oggetto di una statuizione nella sentenza

di primo grado, non possono più essere rilevati d’ufficio, perché la pronuncia su

di essi da parte del giudice di primo grado identificherebbe un “capo” della

sentenza impugnato, inattaccabile, se non tempestivamente impugnato, e

perché, anche nel processo amministrativo vale la regola secondo cui tutte le

questioni rilevabili d’ufficio, in ogni stato e grado del giudizio, cessano di essere

tali una volta che su di esse il giudice abbia pronunciato.

b) Gli artt. 34 e 35 della legge TAR prevedono ipotesi di decisioni del Consiglio di

Stato di annullamento senza riforma della sentenza appellata, in alcuni casi

con rinvio al giudice di primo grado, in altri casi senza rinvio. Il Consiglio di

115

Page 116: Aldo Travi Lezioni di giustizia amministrativa 123.doc

Stato, se accerta che il TAR si è pronunciato nonostante che il ricorso non

potesse essere deciso nel merito, per un vizio dell’atto introduttivo o per difetto

di giurisdizione, o per la presenza di cause impeditive o estintive del giudizio, si

limita ad annullare la sentenza di primo grado: il processo amministrativo si

conclude. In presenza, invece, di «difetto di procedura o vizio di forma», nonché

nel caso di erronea declaratoria di «incompetenza» da parte del TAR, il Consiglio

di Stato annulla la sentenza di primo grado, restituendo gli atti al TAR per la

rinnovazione del giudizio. Appena ricevuti gli atti, il TAR procede d’ufficio a

fissare l’udienza di discussione.

E’ stata a lungo discussa l’ipotesi del «difetto di procedura», rispetto alla quale si

sono scontrate due posizioni diverse: la prima favorevole ad estendere le ipotesi

di annullamento con rinvio al giudice di primo grado, perché più idonee a

garantire un doppio grado di giurisdizione, la seconda favorevole a limitare le

ipotesi di annullamento con rinvio, perché l’assunzione diretta della decisione da

parte del giudice d’appello assicura meglio le esigenze di economia e di

speditezza del giudizio e perché il principio del doppio grado non ha mai

implicato la necessità di un esercizio, in doppio grado, di una cognizione di

merito. Nel complesso sembra essere prevalso il secondo indirizzo.

Nei confronti della decisioni del Consiglio di Stato è ammesso il ricorso alla

Corte di cassazione a sezioni unite per motivi di giurisdizione (art. 111,8°

comma, Cost., art. 48 t.u. Cons. Stato e art. 36 legge TAR).

Il ricorso alla Corte di cassazione è ammesso per denunciare la violazione dei

limiti esterni della giurisdizione amministrativa; la violazione dei limiti esterni

può concretarsi sia in un’erronea declinatoria di giurisdizione, sia

nell’accoglimento del ricorso, in ipotesi esorbitanti rispetto alla giurisdizione

amministrativa. Di conseguenza il ricorso è ammesso sia per il caso che il giudice

amministrativo abbia deciso una questione riservata all’Amministrazione, o

devoluta al giudice ordinario o ad un altro giudice speciale, sia per il caso che

abbia declinato la propria giurisdizione, in ipotesi in cui invece la questione

sarebbe stata di sua competenza.

La Cassazione ha accolto un’interpretazione estensiva della condizione

rappresentata dai «motivi inerenti alla giurisdizione», per il ricorso contro le

decisioni del Consiglio di Stato. Non ha identificato questi «motivi» solo con

profili inerenti alla distinzione fra interessi legittimi e diritti soggettivi, o fra

interessi qualificati (= diritti soggettivi o interessi legittimi) e interessi non

qualificati (= interessi semplici o interessi di fatto). Ha ritenuto, invece, che in

116

Page 117: Aldo Travi Lezioni di giustizia amministrativa 123.doc

essi fossero comprese anche altre ipotesi, come la distinzione fra giurisdizione di

legittimità e giurisdizione di merito, pur trattandosi, di una distinzione

riconducibile alla competenza del medesimo giudice amministrativo, o addirittura

certi vizi formali, come l’irregolare composizione del collegio giudicante.

La disciplina del ricorso contro le decisioni del Consiglio di Stato per motivi di

giurisdizione è dettata dal codice di rito (art. 362 c.p.c). Il ricorso va proposto nei

termini previsti per il ricorso per cassazione (art. 325 c.p.c), ossia nel termine di

60 gg. dalla notifica della decisione del Consiglio di Stato, ovvero di un anno dal

deposito della decisione, nel caso che essa non sia stata notificata.

8. L'opposizione di terzo

L’istituto dell’opposizione di terzo (art. 404 c.p.c.) non è contemplato nelle

leggi sul processo amministrativo. La Corte costituzionale, con la sentenza, n.

177/1995, richiamandosi agli artt. 3 e 24 Cost., ha dichiarato l’illegittimità

costituzionale dell’art. 36, legge TAR «nella parte in cui non prevede

l’opposizione di terzo ordinaria, fra i mezzi di impugnazione delle sentenze del

Consiglio di Stato» e l’illegittimità costituzionale dell’art. 28 della stessa legge

«nella parte in cui non prevede l’opposizione di terzo ordinaria, fra i mezzi di

impugnazione delle sentenze del tribunale amministrativo regionale divenute

giudicato».

La sentenza della Corte costituzionale ha pertanto introdotto nel processo

amministrativo l’opposizione di terzo c.d. ordinaria, attraverso la quale un terzo

può porre in discussione una sentenza passata in giudicato o esecutiva che

pregiudichi i suoi diritti e che sia stata pronunciata in un giudizio, cui sia rimasto

estraneo.

L’opposizione di terzo, nel processo civile, non è soggetta a termini di

decadenza; la tutela degli interessi legittimi, nel processo amministrativo, è

invece soggetta a termini di decadenza. È controverso se tali termini vadano

applicati nel processo amministrativo anche all’opposizione di terzo: la soluzione

affermativa (condivisa dalla prima giurisprudenza del Consiglio di Stato, con

riferimento ad ipotesi di tutela di interessi legittimi) porta ad estendere le regole

sul termine per l’impugnazione degli atti amministrativi anche a una situazione

ben diversa come è l’opposizione ad una sentenza.

L’opposizione di terzo dovrebbe essere proposta davanti allo stesso giudice che

ha pronunciato la sentenza pregiudizievole per il terzo, tuttavia, una parte della

117

Page 118: Aldo Travi Lezioni di giustizia amministrativa 123.doc

giurisprudenza sostiene che nei confronti delle sentenze dei TAR l’opposizione

vada proposta al giudice d’appello. Il problema maggiore riguarda, però,

l’identificazione dei soggetti legittimati a proporre l’opposizione e la

qualificazione del “pregiudizio” determinato a carico del terzo dalla sentenza

opposta e in relazione al quale è ammessa l’opposizione.

Secondo il Consiglio di Stato, legittimati a proporre l’opposizione di terzo sono,

nel processo amministrativo, i controinteressati pretermessi e i soggetti, ai quali

non sia opponibile il giudicato, che siano titolari di una posizione giuridica

incompatibile e autonoma con quella che forma oggetto del giudicato.

In questo modo, nell’opposizione di terzo sono ricomprese due ipotesi diverse di

tutela: la reazione a un vizio della sentenza, rappresentato dalla violazione

dell’integrità del contraddittorio e la reazione nei confronti di una sentenza non

viziata, che abbia deciso in termini incompatibili con l’interesse qualificato di

terzi estranei al giudizio.

Capitolo 14

IL GIUDICATO AMMINISTRATIVO E L'ESECUZIONE DELLA SENTENZA

1. Il giudicato amministrativo

Il passaggio in giudicato di una sentenza del giudice amministrativo si ha

quando nei suoi confronti non è più ammessa un’impugnazione c.d. ordinaria.

Nei confronti della sentenza del giudice amministrativo, passata in giudicato,

sono proponibili solo il ricorso per revocazione nei casi previsti dall’art. 395, nn.

1, 2, 3, 6, c.p.c. e l’opposizione di terzo.

Per valutare quali effetti comporti il passaggio in giudicato della sentenza del

giudice amministrativo si suole distinguere fra un giudicato solo interno e un

giudicato anche esterno: nel primo caso la sentenza comporta un vincolo (nel

senso che la questione decisa con forza di giudicato non può più essere posta in

discussione) solo rispetto alle ulteriori fasi di quel giudizio, mentre nel secondo

caso la sentenza comporta un vincolo anche rispetto a giudizi diversi, che

possano instaurarsi fra le medesime parti, nei quali assuma rilevanza la

medesima questione. Le sentenze di rito comportano tipicamente solo vincoli

“interni”; le sentenze di merito, invece, si caratterizzano per la loro idoneità a

comportare vincoli “esterni”.

Appare invece controversa la collocazione di altri tipi di sentenze.

118

Page 119: Aldo Travi Lezioni di giustizia amministrativa 123.doc

Per quanto riguarda, invece, i c.d. limiti soggettivi del giudicato, la

giurisprudenza amministrativa ritiene che il giudicato amministrativo di regola

valga solo fra le parti, i loro successori e aventi causa (art. 2909c.c.).

A questa giurisprudenza, che ammette con larghezza gli effetti del giudicato

amministrativo, si oppone una parte della dottrina, che cerca di risolvere i

problemi creati dall’annullamento di atti indivisibili attraverso la distinzione fra

effetti della sentenza e autorità del giudicato. Alla stregua di questa dottrina nel

processo amministrativo si dovrebbe distinguere fra “effetti dell’annullamento” e

“autorità” (= immodificabilità) del giudicato; i primi travolgerebbero tutte le

utilità assegnate dall’atto annullato e, quindi, anche tutti i soggetti che ne fosse-

ro titolari, mentre la seconda riguarderebbe solo le parti processuali (nonché i

loro eredi e aventi causa).

2. L'esecuzione della sentenza non ancora passata in giudicato

La sentenza del TAR (parziale o definitiva) che decide su un ricorso è

immediatamente esecutiva (art. 33, 1° comma, legge TAR). Fatto salvo il caso

di sospensione della sentenza del TAR, l’Amministrazione è tenuta a dare

esecuzione alla sentenza, adottando tutti i comportamenti e gli atti necessari per

portare a compimento quanto disposto nella sentenza. A questo proposito vanno

presi in considerazione i vari ordini di effetti della sentenza : il dovere

dell’Amministrazione di dare esecuzione alla sentenza non riguarda solo il profilo

eliminatorio o ripristinatorio, ma riguarda anche il momento rinnovatorio, rispetto

al quale rileva particolarmente l’effetto conformativo della sentenza.

L'esecuzione della sentenza investe anche la fase di rinnovazione del potere

amministrativo, aspetto questo che risulta di particolare rilievo quando il giudizio

abbia riguardato l’impugnazione di un provvedimento negativo (diniego di

autorizzazione, di concessione, ecc.) o un silenzio-rifiuto: in queste ipotesi

l’interesse del cittadino è assicurato solo, rispettivamente, attraverso il

riesercizio o l’esercizio del potere da parte dell’Amministrazione, dopo la

sentenza.

Il dovere dell'Amministrazione di dare esecuzione alla sentenza si scontra

talvolta con il mutamento del quadro normativo che disciplina la materia

oggetto del giudizio (c.d. sopravvenienze).

La giurisprudenza in passato sosteneva che l’Amministrazione non poteva pre-

scindere dall’applicazione della normativa in vigore nel momento del nuovo

provvedimento. Di recente, il Consiglio di Stato ha temperato questa

119

Page 120: Aldo Travi Lezioni di giustizia amministrativa 123.doc

conclusione, affermando che i mutamenti di disciplina successivi alla notifica

della sentenza di primo grado sarebbero comunque irrilevanti e non potrebbero

essere opposti al dovere di dare esecuzione alla sentenza (Cons. Stato, ad. plen.,

, n. 1/1986 ). Questa conclusione, però, non appare soddisfacente.

In passato, secondo la giurisprudenza, l’esecutività della sentenza, non ancora

passata in giudicato, non avrebbe consentito la proposizione del giudizio di

ottemperanza (art. 27, n. 4, t.u. Cons. Stato). L’esecutività della sentenza

avrebbe avuto rilevanza solo determinando la cessazione degli effetti del

provvedimento amministrativo annullato e, quindi, privando del titolo l’attività

amministrativa svolta in base a tale provvedimento. Inoltre avrebbe comportato

la cessazione degli effetti di eventuali misure cautelari; tali effetti sarebbero stati

superati dalla sentenza di rigetto, mentre nel caso di sentenza di accoglimento

avrebbero trovato fondamento non più nell’ordinanza cautelare, bensì nella

sentenza. Tuttavia, la sentenza non passata in giudicato non sarebbe stata pas-

sibile di un giudizio di esecuzione.

L’anomalia di una sentenza "esecutiva” per legge, ma non passibile di

esecuzione forzata, è stata superata dall'art. 33, 5° comma, legge TAR ,in-

trodotto dalla legge n. 205/2000 (art. 10). Tale disposizione ha introdotto uno

specifico giudizio di esecuzione per le sentenze di primo grado non sospese

dal Consiglio di Stato: ha stabilito che, il ricorso per l’esecuzione vada proposto

allo stesso TAR che ha pronunciato la sentenza e che il giudice eserciti tutti i

poteri che gli sono attribuiti per il giudizio di ottemperanza. La legge non ha

definito, invece, la procedura del nuovo giudizio.

Si ritiene che, anche il ricorso per l’esecuzione di sentenza non ancora passata in

giudicato, debba essere preceduto dalla notifica di un atto di messa in mora,

considerandola come adempimento necessario per dar corso al processo

d’esecuzione. Invece, per quanto concerne le modalità di presentazione, si

sostiene che il ricorso, per l’esecuzione di sentenza non ancora passata in

giudicato, debba essere notificato all’Amministrazione inadempiente secondo le

regole generali previste per i ricorsi giurisdizionali.

Il profilo più controverso per l’esecuzione di una sentenza non ancora passato in

giudicato è collegato alla mancanza di definitività della statuizione da eseguire. Il

Consiglio di Stato, infatti, ha affermato che l’esecuzione della sentenza non

ancora passata in giudicato non dovrebbe mai determinare un assetto «definito

ed immutabile», perché altrimenti verrebbe frustrato l’esito pratico di un

eventuale appello contro la sentenza.

120

Page 121: Aldo Travi Lezioni di giustizia amministrativa 123.doc

3. Il giudizio di ottemperanza

L’esecuzione del giudicato da parte dell’Amministrazione comporta l’adozione di

meri atti, che concretino i comportamenti materiali necessari per l’esecuzione

della sentenza. Rispetto a sentenze del giudice amministrativo, invece,

l’esecuzione del giudicato richiede, spesso, l’adozione di atti corrispondenti a

provvedimenti amministrativi. Per il caso di inesecuzione del giudicato è previsto

il ricorso per l’ottemperanza al giudice amministrativo.

Col ricorso per l’ottemperanza si introduce un giudizio che realizza la sua utilità

attraverso un intervento di ordine sostitutivo rispetto all’Amministrazione rimasta

inadempiente. L’art. 27, n. 4, t.u. Cons. Stato stabilisce che il giudice

amministrativo, nel giudizio di ottemperanza, eserciti una giurisdizione estesa al

merito. La previsione della giurisdizione di merito, in questa ipotesi, secondo la

giurisprudenza consentirebbe al giudice amministrativo di sostituirsi,

direttamente o attraverso un commissario da esso eventualmente nominato agli

organi amministrativi inadempienti. In questo giudizio nessun limite “interno”

della giurisdizione amministrativa potrebbe essere opposto a garanzia

dell’Amministrazione. Il giudice per l’ottemperanza avrebbe la capacità di

esercitare tutti i poteri di valutazione e di scelta demandati all’Amministrazione

attiva (Cons. Stato, sez. VI, n. 41/1995).

La possibilità di una sostituzione del giudice all’Amministrazione, seppur

inadempiente, anche ai fini di valutazioni tipicamente discrezionali, crea molte

incertezze. Sta di fatto che una volta nominato il Commissario, il giudice

amministrativo non si ritiene esautorato: esercita poteri di vigilanza anche

d’ufficio sull’ operato del Commissario e al giudice vanno rivolte eventuali

contestazioni circa tale operato.

L’esecuzione del giudicato può richiedere diversi ordini di valutazioni, che non

sono necessariamente già assorbiti dalla sentenza da eseguire. Le valutazioni

circa la fondatezza o meno dell’istanza non sono svolte nel giudizio di merito. In

questi casi, l’attività del Commissario o direttamente del giudice

dell’ottemperanza non è meramente attuativa di quanto disposto nella sentenza:

le regole dettate nella sentenza non esauriscono il complesso delle regole

rilevanti per provvedere nel caso concreto. Per provvedere sono necessarie

ulteriori valutazioni e, pertanto, è necessario elaborare altre regole.

In questo modo, nel giudizio confluirebbero profili propri dell’attività di

cognizione,oltre che quelli tipici dell’esecuzione.

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Secondo alcuni il Commissario dovrebbe essere considerato come un organo

straordinario dell’Amministrazione: la sua nomina comporterebbe la

sostituzione, agli organi amministrativi ordinariamente competenti, di un organo

straordinario, competente solo per l’esecuzione di quella sentenza. Ma, proprio

perché organo straordinario dell’Amministrazione, il Commissario dovrebbe

essere considerato come un’autorità amministrativa, con la conseguenza, che i

suoi atti, in quanto normali atti amministrativi, dovrebbero essere impugnati

davanti al giudice-amministrativo secondo le regole generali.

Prevale la tesi che il Commissario operi come ausiliario del giudice, in un ruolo

non molto diverso da quello del consulente o dell’esperto nel processo civile. I

suoi atti non sono atti giurisdizionali ma vanno inquadrati nelle vicende del

giudizio di esecuzione. Di conseguenza, nei confronti di tali atti, la tutela

dovrebbe essere svolta nell’ambito dello stesso giudizio di esecuzione e

dovrebbe essere indirizzata al giudice dell’ottemperanza. Non mancano, però,

anche indirizzi diversi.

Il giudizio di ottemperanza è richiamato, in un contesto particolare, dall’art. 35,

2° comma, d.lgs. n. 80/1998 (disposizione conservata dall’art. 7 della legge n.

205/2000). La disposizione prevede che, nelle vertenze risarcitorie assegnate

al giudice amministrativo, nel caso di accoglimento del ricorso la sentenza possa

limitarsi a fissare i criteri per il risarcimento, demandando all’amministrazione di

proporre, sulla base di questi criteri, un’offerta alla parte vittoriosa. Se l’offerta

non viene accolta, la determinazione del danno può essere richiesta dalla parte

interessata al giudice.

Caratteri particolari ha invece l’intervento del Commissario nel giudizio sul

silenzio, ai sensi dell'art. 21 bis legge TAR, introdotto dall’art. 2 della legge n.

205/2000. In questo caso la legge non richiama le disposizioni sul giudizio di

ottemperanza; l’ intervento del Commissario si svolge non tanto a fini della

esecuzione di una sentenza, ma comporta la sostituzione di un’Amministrazione

rimasta inerte. La peculiarità dell'intervento del Commissario nel caso del

silenzio trova conferma nella specialità della procedura: non si applicano le

norme sullo svolgimento del giudizio di ottemperanza e la giurisprudenza

sottolinea che la nomina del Commissario non interviene in un giudizio di

esecuzione, ma interviene nella seconda fase di un giudizio unitario sul

“silenzio”.. La figura del Commissario, nel caso del silenzio, sembra

corrispondere a quella di un organo straordinario dell’Amministrazione.

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4. Lo svolgimento del giudizio di ottemperanza

Il giudizio di ottemperanza è ammesso, solo, per l’esecuzione di una sentenza

passata in giudicato. Il ricorso deve essere preceduto dalla notifica

all’Amministrazione di un atto di messa in mora, costituito da una diffida a

provvedere; può essere presentato solo decorsi 30 gg. dalla notifica dell’atto di

messa in mora (art. 90, reg. proc. Cons. Stato).

Per quanto riguarda il riparto della competenza fra TAR e Consiglio di Stato. Per il

ricorso, non era richiesta la previa notificazione all’Amministrazione, era previsto

invece che, una volta depositato il ricorso presso il giudice competente (art. 91,

reg. proc, Cons. Stato), la segreteria ne desse comunicazione d’ufficio al

Ministero competente. Alcuni giudici amministrativi si erano, pertanto, orientati

nel senso di richiedere che il ricorrente notificasse il ricorso all’Amministrazione e

ai controinteressati, come era previsto per il giudizio ordinario o, nel caso di

ricorsi contro Amministrazioni non statali, effettuavano la comunicazione di rito

direttamente all’Amministrazione interessata. Sul punto è intervenuta nel 2005

la Corte costituzionale, che ha sostenuto la necessità di una applicazione della

normativa vigente, coerente con i principi costituzionali: di conseguenza, ha

affermato che se il ricorso per l’ottemperanza non sia stato notificato dal

ricorrente alla parte resistente, il giudice amministrativo, d’ufficio, deve disporne

la comunicazione. Presupposto del ricorso è l’inottemperanza al giudicato,

che può configurarsi anche nell’adozione di atti diretti a rinviare o ad eludere

l’esecuzione del giudicato. Per evitare che un comportamento del genere potesse

frustrare l’esecuzione del giudicato, imponendo l’avvio di nuovi giudizi di

cognizione, la giurisprudenza ha affermato che l’adozione di atti soprassessori o

elusivi non comporterebbe l’onere di nuove impugnazioni, ma che il sindacato su

tali atti si dovrebbe compiere davanti al giudice per l’ottemperanza.

Questa tesi, elaborata per esigenze tipicamente processuali, di recente è stata

sancita anche dal legislatore. L’art. 21 septies della legge n. 241/1990 (introdotto

dalla legge n. 15/2005), stabilisce infatti che è nullo «il provvedimento

amministrativo .. che è stato adottato in violazione o elusione del giudicato»,

precisando che di questa ipotesi di nullità conosce direttamente il giudice

amministrativo (ossia, il giudice dell’ottemperanza).

Il giudice amministrativo provvede sul ricorso per ottemperanza in camera di

consiglio (art. 27 della legge TAR). Prima di dar corso a interventi sostitutivi, può

fissare un termine all’Amministrazione perché provveda; in questo caso, si ritiene

che l’inutile decorrenza del termine sancisca il venir meno del potere

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dell’Amministrazione di provvedere all’esecuzione del giudicato, con la

conseguente irrilevanza di atti assunti tardivamente.

Nei confronti delle decisioni assunte dal TAR in sede di ottemperanza è ammesso

l’appello al Consiglio di Stato. Le incertezze e le ambiguità del giudizio di

ottemperanza si riflettono però anche sulla disciplina dell’appello.

La decisione del Consiglio di Stato assunta in sede di ottemperanza, come ogni

altra decisione del Consiglio di Stato, è impugnabile avanti alla Corte di

cassazione, per violazione dei limiti esterni della giurisdizione amministrativa.

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