Aldo Travi Lezioni di giustizia amministrativa 123.doc
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Capitolo 1
“LEZIONI INTRODUTTIVE”
1. Premessa
Nel diritto amministrativo sostanziale, la garanzia del cittadino nei confronti della
Pubblica amministrazione ha un rilievo primario: la stessa evoluzione recente del
diritto amministrativo riflette la ricerca di sempre nuovi equilibri fra
l’Amministrazione, che deve disporre di strumenti adeguati per attuare le finalità
assegnatele e il cittadino, che deve essere garantito da comportamenti arbitrari
o da sacrifici indebiti imposti dall’Amministrazione. Nello Stato di diritto più
evoluto questo equilibrio è ricercato principalmente nel principio di legalità,
che subordina il potere dell’Amministrazione a regole predeterminate, nel
rispetto del diritto e senza ledere gli interessi giuridicamente riconosciuti dai
cittadini.
Il diritto amministrativo identifica regole che valgono anche a garanzia del
cittadino. La garanzia del cittadino nei confronti dell’Amministrazione non è
riservata agli istituti di giustizia amministrativa. Gli istituti “di giustizia” svolgono
solo un ruolo suppletivo: la loro utilità consiste, in genere, nell’assicurare un
rimedio quando il diritto sostanziale non venga osservato.
2. Gli istituti della giustizia amministrativa
Con l’espressione “giustizia amministrativa” sono designati alcuni istituti diretti
ad assicurare la tutela dei cittadini nei confronti dell’Amministrazione. Nel nostro
ordinamento questi istituti sono stati elaborati per la tutela del cittadino che
abbia subito una lesione da un’attività amministrativa. L’intervento del cittadino
nel procedimento amministrativo si colloca in una logica differente rispetto agli
istituti di giustizia amministrativa. Gli strumenti di partecipazione al
procedimento amministrativo sono diretti ad assicurare uno svolgimento corretto
ed equilibrato della funzione amministrativa e non a rimediare ai vizi e alle
manchevolezze di una funzione già svolta.
Una parte della dottrina, nel porre in evidenza gli elementi caratteristici della
giustizia amministrativa, ha preso in esame il rapporto tra istituti di giustizia
amministrativa e controlli sull’attività amministrativa. Anche i controlli sugli atti
sono previsti per assicurare la regolarità e la correttezza dell’azione
amministrativa e in genere riguardano un’attività amministrativa già conclusa. Si
incentrano, in genere, sulla verifica della legittimità dell’atto amministrativo; più
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raramente sulla verifica della sua opportunità (c.d. controlli di merito). Un criterio
distintivo fra i controlli e gli istituti tipici della giustizia amministrativa sarebbe
identificabile nel fatto che i controlli attuerebbero un interesse oggettivo (ossia
l’interesse alla conformità dell’operato dell’amministrazione al diritto, o a regole
tecniche, o a criteri di efficienza), mentre gli istituti di giustizia amministrativa
assicurerebbero in modo specifico l’interesse del cittadino, tanto che tale
interesse, non solo determina l’avvio del procedimento, ma ne condiziona anche
lo svolgimento e il risultato.
Gli istituti di giustizia amministrativa non si esauriscono negli strumenti per la
tutela “giurisdizionale” dei cittadini nei confronti della pubblica amministrazione:
di conseguenza la distinzione tra i controlli e gli istituti di giustizia
amministrativa non può essere ricercata nei caratteri specifici della funzione
giurisdizionale.
Fra gli istituti di giustizia amministrativa sono compresi anche i ricorsi
amministrativi: con essi la contestazione del cittadino è proposta ad un organo
amministrativo e la decisione è assunta con un atto amministrativo, senza alcun
esercizio di funzione giurisdizionale. La controversia si svolge ed è risolta
nell’ambito dell’attività amministrativa. Ma, non si ha, neppure per i ricorsi
amministrativi, l’esercizio di un’attività assimilabile a quella di controllo: nei
ricorsi, il potere di annullamento è esercitato in seguito all’iniziativa di un
cittadino che fa valere un suo proprio interesse e tale interesse rappresenta la
ragione e identifica il limite dei poteri conferiti all’autorità decidente.
3. Le ragioni di un sistema di giustizia amministrativa
Nel nostro ordinamento, ed in generale, nei Paesi dell’Europa continentale gli
istituti di giustizia amministrativa si caratterizzano per la loro separatezza
rispetto agli strumenti ordinari di tutela del cittadino. La giustizia amministrativa
in questi Paesi si contrappone così alla giustizia “comune”, che tutela i cittadini
nei loro rapporti con soggetti equiordinati. Sulla giustizia comune domina il ruolo
dell’autorità giurisdizionale ordinaria, che appartiene ad un ordine
autonomo, qualificata da imparzialità e indipendenza.
Gli istituti di giustizia amministrativa sono strettamente dipendenti
dall’evoluzione nei rapporti fra cittadino, Amministrazione e autorità
giurisdizionale (ordinaria), ma in varia misura sono stati puntualmente
condizionati dalle vicende particolari dei singoli Paesi. Uno dei modelli più
significativi è quello francese. In Francia è radicato un sistema di contenzioso
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amministrativo nel quale le controversie tra il cittadino e la l’Amministrazione
sono sottratte al giudice e devolute ad un giudice speciale ( in origine il Consiglio
di Stato e poi anche i Tribunali amministrativi di primo grado e d’appello). Si
tratta di un giudice inquadrato nel Potere esecutivo, la cui giurisdizione è
pienamente separata da quella ordinaria, con la conseguenza che non si può
ricorrere al giudice ordinario contro la decisione del giudice speciale, né
viceversa.
Un modello profondamente diverso è quello accolto originariamente in Belgio: la
costituzione del 1831 stabilì che anche nei confronti della Pubblica
amministrazione il sindacato giurisdizionale fosse riservato al giudice ordinario
( regola superata nel secondo dopoguerra, con l’introduzione di un giudice
speciale).
In Germania, invece, dopo la riforma del 1960, la giurisdizione amministrativa è
intesa come giurisdizione su diritti e si esercita nelle vertenze concernenti il
diritto pubblico: i giudici amministrativi sono ormai pienamente autonomi dal
potere amministrativo e ricevono una collocazione piuttosto nell’ambito
dell’ordine giudiziario.
In Italia si è passati da un sistema di contenzioso amministrativo, modellato su
quello francese, ad un sistema di giurisdizione unica (1865) e poi ad un sistema
articolato in una giurisdizione del giudice ordinario e una giurisdizione del giudice
amministrativo (1889); negli ultimi anni si è manifestata la spinta ad una
maggiore omogeneità fra giudici ordinari e giudici amministrativi, con una serie
di problemi nuovi, che hanno tratto argomento anche dal testo della Costituzione
( art.103, 1°comma Cost.).
Due motivi diversi costituiscono i problemi nodali affrontati da ogni sistema di
giustizia amministrativa: le ragioni di specificità dell’Amministrazione e
l’esigenza di una tutela effettiva del cittadino anche nei confronti
dell’Amministrazione-autorità. Il primo motivo suggerisce strumenti di tutela
diversi da quelli ordinari e addirittura forme di tutela diverse da quelle
giurisdizionali, il secondo ha indotto spesso a considerare come modello la
giustizia “comune”, nella quale alla parità di posizioni delle parti corrisponde
l’elaborazione delle tecniche più raffinate di tutela del singolo.
L’Amministrazione però, non si presenta sempre necessariamente come
autorità; nel nostro ordinamento è testimoniata anzi da una vivace tendenza a
favore del ricorso a strumenti di diritto privato, anche quando l’Amministrazione
persegua una finalità pubblica. In alcuni casi, l’Amministrazione opera come
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soggetto equiordinato agli altri, rispetto al quale valgono le medesime regole che
valgono nei rapporti privati.
4. Le origini della giustizia amministrativa: cenni al sistema francese
La concezione dell’Amministrazione come soggetto tipicamente diverso dagli
altri si affermò nelle prime fasi dello Stato liberale, nel contesto del principio di
separazione dei poteri. Nella Francia degli ultimi decenni del XVIII sec. e degli
anni della Rivoluzione, con questo principio si intendeva che il Potere esecutivo
dovesse essere un potere distinto dagli altri; l’Esecutivo non poteva arrogarsi
poteri del giudice ordinario ma i suoi atti non dovevano essere soggetti al
sindacato dei giudici. In Francia, le origini di questa immunità riflettevano un
contrasto secolare fra il Governo e i Parlamenti. I Parlamenti erano giudici
superiori d’appello e rivendicavano una competenza anche nelle vertenze contro
gli atti dell’Amministrazione, entrando spesso in conflitto con le autorità
amministrative. La fine dell’Ancien régime travolse anche i Parlamenti e nel
1789-1790 prima l’Assemblea nazionale e poi l’Assemblea costituente sancirono
che gli organi giurisdizionali non avrebbero potuto intervenire
sull’Amministrazione.
Nella Rivoluzione francese si affermò il principio della “responsabilità”
dell’Amministrazione nei confronti dell’Assemblea legislativa: erano previste
forme di controllo a garanzia della legalità degli atti amministrativi, che
trovavano fondamento e svolgimento anche nell’ordinamento gerarchico. In
particolare a favore del cittadino era previsto un rimedio specifico: il ricorso
gerarchico. Questo ricorso era diretto all’organo gerarchicamente sovraordinato
a quello che aveva emanato l’atto lesivo e comportava, da parte di tale organo,
la verifica della legalità dell’atto impugnato. Per rendere più serio l’esame del
ricorso gerarchico, l’ordinamento francese prevedeva che i ricorsi venissero
decisi dalle autorità competenti, dopo aver acquisito il parere di alcuni organi
consultivi. Fra questi il più importante fu il Consiglio di Stato. Con la Costituzione
del 1848 e con una legge del 24 maggio 1872, al Consiglio di Stato fu
riconosciuta anche la competenza a decidere il ricorso, senza sanzione del Capo
dello Stato ( come avveniva precedentemente). La riforma del 1872 attribuì al
Consiglio di Stato i caratteri di organo giurisdizionale. Risultava istituito un
giudice capace di sindacare la legittimità degli atti dell’Amministrazione, senza
però deroghe o attenuazioni rispetto al principio della separazione dei poteri,
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perché competente a sindacare gli atti dell’Amministrazione era il Consiglio di
Stato, autorità ben distinta dai giudici ordinari.
5. Modelli monistici e modelli dualistici.
La distinzione tra modelli monistici e modelli dualistici è stata proposta per
classificare i diversi sistemi di tutela giurisdizionale del cittadino nei confronti
della Pubblica amministrazione. In base a tale distinzione, nei modelli monistici,
la tutela giurisdizionale del cittadino, nei confronti della Pubblica
amministrazione, viene attribuita prevalentemente ad un solo giudice; nei
modelli dualistici, invece, la giurisdizione nei confronti della Pubblica
amministrazione, è assegnata al giudice ordinario e al giudice speciale su un
piano di parità. A questo modello (dualistico) sarebbe riferibile oggi il sistema
italiano, caratterizzato dalla distribuzione delle competenze fra giudice ordinario
(civile) e giudice speciale (T.a.r. e Consiglio di Stato), in relazione alle posizioni
soggettive coinvolte. Questa classificazione, però, non ha un valore assoluto. In
Francia, ad esempio, determinate controversie con l’Amministrazione vengono
demandate al giudice ordinario, o perché relative a rapporti in cui
l’Amministrazione compare come soggetto di diritto comune, o perché
riguardano posizioni di libertà o particolari diritti del cittadino.
Neppure il modello italiano segue, in modo pieno, questa classificazione, perché
in alcuni ambiti, la competenza del giudice amministrativo non dipende dalla
configurabilità di una posizione soggettiva come interesse legittimo, ma dipende
dall’inerenza della controversia a una certa materia (c.d. giurisdizione esclusiva
del giudice amministrativo). Inoltre, nei casi in cui si discuta se la giurisdizione
sulla controversia spetti al giudice ordinario o al giudice speciale, dal 1877 è
demandato alla Cassazione decidere il conflitto. Spetta, dunque, ad un giudice
ordinario definire i limiti della giurisdizione del giudice speciale.
Capitolo 2
“LE ORIGINI DEL NOSTRO SISTEMA DI GIUSTIZIA AMMINISTRATIVA”
1. La giustizia amministrativa nel Regno di Sardegna
Il modello del contenzioso amministrativo francese fu accolto anche in Italia
nell’epoca napoleonica, dove ricevette applicazioni. Tale modello fu soppresso
quasi ovunque in Italia con la Restaurazione, ma non cessò per questo di
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rappresentare un modello significativo. Tant’è vero che già prima della prima
guerra d’indipendenza, quasi tutti gli Stati italiani avevano introdotto
ordinamenti coerenti con questo modello.
Nel Regno di Sardegna con editto 18 agosto 1831 Carlo Alberto costituì un
Consiglio di Stato, con funzioni consultive, articolato in tre sezioni: sezione
dell’Interno, sezione di Giustizia, Grazia ed affari ecclesiastici, sezione di Finanza.
Lo stesso editto stabiliva che il parere del Consiglio di Stato dovesse essere
acquisito obbligatoriamente, prima dell’adozione di certi atti (atti con forza di
legge, regolamenti, conflitti, conflitti fra “giurisdizione giudiziaria” e
amministrazione, bilancio generale dello Stato, liquidazioni del debito pubblico).
Al Consiglio di Stato l’editto assegnava, infine, alcuni particolari competenze
contenziose (art.29 ss.).
Con le regie patenti del 1842, ben presto modificate con un regio editto del 29
ottobre 1847, fu istituito un vero e proprio sistema di contenzioso
amministrativo. Il sistema si fondava, innanzi tutto, sulla distinzione fra
controversie riservate all’Amministrazione e controversie di <<amministrazione
contenziosa>>. Alcune controversie erano riservate alla giurisdizione del giudice
ordinario (giurisdizione giudiziaria) e fra esse un significato particolare
rivestivano le questioni inerenti al diritto di proprietà (art.4).
Al Consiglio di intendenza e alla Camera dei conti la giurisprudenza civile
riconobbe carattere di organi giurisdizionali. Il ruolo di questi giudici speciali fu
oggetto di polemiche, soprattutto dopo che lo Statuto albertino (art.68 ss.)
enunciò come regola la riserva della funzione giurisdizionale al giudice
ordinario.
Una serie di decreti reali del 30 ottobre 1859, ispirati dal Rattizzi, accolsero e
confermarono il sistema del contenzioso amministrativo, articolato ora in Consigli
di governo, organi di primo grado, designati anche come <<giudici ordinari del
contenzioso amministrativo>> e Consiglio di Stato, organo principalmente di
secondo grado.
Si delineava il seguente quadro:
a) Era esclusa da qualsiasi tipo di sindacato giurisdizionale la c.d.
amministrazione economica ( attività amministrativa non disciplinata da
norme di legge e rimessa a valutazioni dell’Amministrazione).
b) In alcune materie, la tutela dei cittadini nei confronti dell’Amministrazione era
demandata ai giudici ordinari del contenzioso amministrativo, ossia al
sistema articolato nei Consigli di Governo e nel Consiglio di Stato. In particolare
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ad essi spettavano le controversie sui contratti d’appalto delle Pubbliche
amministrazioni , per imposte dirette e tasse, quelle sul trattamento economico
del personale dipendente dagli enti locali.
c) In altre materie la tutela dei cittadini era demandata a giudici speciali del
contenzioso amministrativo. Questo era il caso delle controversie in materia
di contabilità pubblica, demandate alla Corte dei Conti e delle controversie in
materia di pensioni, demandate al Consiglio di Stato.
Negli altri casi la competenza spettava al giudice ordinario, ossia ai giudici
civili.
Un sistema del genere lasciava ampio spazio alla possibilità di conflitti positivi o
negativi, fra amministrazione e giudici, fra giudici del contenzioso amministrativo
e giudici ordinari.
La disciplina per la loro risoluzione fu introdotta con la legge 20 novembre 1859.
In base a questa legge il conflitto poteva essere sollevato anche dal
rappresentante locale del potere esecutivo (allora il Governatore, in seguito il
Prefetto). La decisione dei conflitti era assunta con decreto reale, previo parere
del Consiglio di Stato, su proposta del Ministro dell’Interno, sentito il Consiglio dei
Ministri. Era però evidente che la decisione effettiva spettava al Ministro
dell’Interno, che formulava la proposta del decreto. Il sistema sanciva, in questo
modo, una prevalenza dell’autorità amministrativa su quella giurisdizionale. Ai
giudici ordinari del contenzioso amministrativo non erano conferiti poteri di
annullamento rispetto agli atti amministrativi dedotti in giudizio.
Il giudice ordinario del contenzioso amministrativo, inoltre, riteneva di poter
esercitare un potere d’interpretazione degli atti amministrativi e ciò significava
che l’atto dell’Amministrazione non costituiva di per sé un limite ai suoi poteri.
In ogni caso, se l’atto amministrativo risultava in contrasto con la legge, il
giudice prescindeva da esso ai fini della decisione.
2. Il declino dei tribunali del contenzioso amministrativo.
Le discussioni, sul tema in atto, non furono superate dalla riforma del 1859. Ne è
prova il fatto che quasi subito dopo furono sottratte, alla giurisdizione dei giudici
ordinari del contenzioso amministrativo, alcune vertenze precedentemente di
loro competenza. In particolare fu sottratto ad essi il contenzioso fiscale.
A sostegno del sistema del contenzioso amministrativo risultavano invocati
tre ordini di considerazioni:
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- la tutela dell’interesse pubblico. Era considerato essenziale che l’attuazione
dell’interesse pubblico non fosse ostacolata da un intervento del giudice;
attraverso un sistema di contenzioso amministrativo sembrava che questa
esigenza fosse meglio garantita.
- l’esclusione delle garanzie di inamovibilità ed imparzialità previste per i giudici
ordinari, che avrebbe consentito di far valere, in modo più efficace, la
responsabilità dei giudici del contenzioso amministrativo.
- la specialità del diritto dell’Amministrazione. Le controversie riguardavano
istituti diversi da quelli del diritto comune; per questo era opportuno che fossero
demandate ad un giudice diverso da quello ordinario.
Questi argomenti erano vivamente criticati dagli oppositori dei modelli di
contenzioso amministrativo.
Essi sostenevano l’esigenza che anche le controversie fra l’Amministrazione ed il
cittadino fossero assegnate al giudice ordinario, estraneo all’Amministrazione e
dotato di tutte le garanzie previste per i giudici ordinari. In ogni giurisdizione
speciale sembrava annidarsi, invece, il privilegio dell’Amministrazione.
3. La legge 20 marzo 1865 n.2248
Da un lato si afferma l’esigenza di un giudice speciale, che abbia un’esperienza
specifica in un settore del diritto diverso da quello comune; dall’altro si teme che
l’introduzione di un giudice speciale si risolva in un regime processuale
privilegiato per l’Amministrazione, incompatibile con l’ideologia dello Stato
liberale.
Il dibattito raggiunse il suo culmine nelle discussioni alla Camera sull’assetto
della giustizia amministrativa, subito dopo l’Unità. Le discussioni condussero
all’approvazione di una legge che aboliva i giudici ordinari del contenzioso
amministrativo: la legge 20 marzo 1865, n.2248, allegato E (c.d.legge di
abolizione del contenzioso amministrativo).
Tale legge attuò, in alcuni settori nodali, l’unificazione dell’ordinamento
amministrativo italiano, abrogando le discipline degli Stati preunitari. Era
costituita da sei testi normativi, designati come “allegati” alla legge stessa. Dei
temi della giustizia amministrativa si interessano l’allegato D e soprattutto
l’allegato E.
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- L’allegato D disciplinava l’assetto del Consiglio di Stato. Non erano previste
particolari garanzie di indipendenza né per quanto riguarda la nomina dei suoi
componenti, né per quanto riguarda la loro inamovibilità; la continuità con
l’Amministrazione era sottolineata dalla possibilità per i Ministri di intervenire alle
sedute direttamente o attraverso delegati (art.20).
Fu confermata l’articolazione in tre sezioni, che in alcuni casi operavano
collegialmente in adunanza generale (art.12 ss.). Il Presidente del Consiglio di
Stato poteva formare, per l’esame di questioni particolari, Commissioni speciali,
designando i consiglieri che ne avrebbero fatto parte (art.21).
Al Consiglio di Stato erano assegnate competenze consultive (art.7 ss.) ed in
alcuni casi il parere del Consiglio di Stato era obbligatorio: proposte di
regolamenti generali di Pubblica amministrazione e ricorsi fatti dal Re contro la
legittimità di provvedimenti amministrativi. Si faceva riferimento al ricorso al Re,
designato come “ricorso straordinario” perché poteva essere proposto solo dopo
l’esaurimento dei rimedi ordinari, ossia dei ricorsi gerarchici.
In alcune ipotesi tassative, il Consiglio di Stato esercitava funzioni giurisdizionali,
come giudice speciale (art.10). Dall’allegato D, furono assegnate al Consiglio
di Stato, come giudice speciale competenze minori, per controversie in materia
di debito pubblico e di sequestri di beni ecclesiastici. In questi casi il
procedimento aveva carattere contenzioso e la decisione poteva comportare
l’annullamento dell’atto amministrativo. Al Consiglio di Stato, come giudice
speciale, fu conferita una competenza di particolare rilevanza: la risoluzione dei
conflitti fra l’Amministrazione e autorità giurisdizionale (art10, n.1).
- L’allegato E viene designato come “legge di abolizione del contenzioso
amministrativo”, perché all’art.1 disponeva la soppressione dei c.d. giudici
ordinari del contenzioso amministrativo.
Nell’ allegato E fu delineato il seguente assetto della giustizia amministrativa:
a)<< tutte le cause per contravvenzioni e tutte le materia nelle quali si faccia
questione di un diritto civile e politico>> furono assegnate al giudice ordinario
(art.2). La legge precisava che la competenza del giudice ordinario non poteva
subire eccezioni per il fatto che parte in giudizio fosse un’Amministrazione o
fossero coinvolti i suoi interessi.
b) << gli affari non compresi>> nell’ipotesi precedente furono riservati alla
autorità amministrative (art.3, 1°comma).
In questo ambito erano introdotte alcune garanzie per i cittadini, segno che il
legislatore aveva percepito la delicatezza della loro posizione, in un ambito
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escluso dalla tutela giurisdizionale. Era previsto che le autorità amministrative
avrebbero provveduto con <<decreti motivati>>, con l’osservanza del
contraddittorio con <<le parti interessate>> e previa acquisizione del parere
degli organi consultivi.
Nei confronti dei <<decreti>> assunti dall’Amministrazione, fu consentito il
ricorso in via gerarchica: a questo ricorso amministrativo fu riconosciuta
un’operatività molto ampia, tanto da farne, a lungo, uno degli strumenti
fondamentali per la tutela del cittadino.
Le disposizioni appena richiamate, definivano così,il quadro dei c.d. “limiti
esterni” della giurisdizione civile nei confronti dell’Amministrazione. Tali limiti
rispecchiavano la distinzione fra le <<materie nelle quali si faccia questione di
un diritto civile o politico>> e gli altri <<affari>>.
Fondamentale era la considerazione secondo cui l’espressione <<diritti civili e
politici>> non fosse onnicomprensiva. Successivamente fu, infatti, equiparata
alla nozione di <<diritti soggettivi>>, percependo in modo chiaro che vi
erano anche posizioni soggettive di altro genere, che risultavano non protette
dalla giurisdizione ordinaria.
c) Nelle controversie di competenza del giudice ordinario, le ragioni della
specialità dell’Amministrazione trovavano riscontro nei “limiti interni” della
giurisdizione civile (art.4). L’equilibrio tra garanzia della tutela giurisdizionale e
separazione dei poteri, era ricercato ammettendo un sindacato del giudice
ordinario solo sulla legittimità dell’atto amministrativo e non sulla
opportunità, che invece, poteva essere valutata esclusivamente
dall’Amministrazione stessa. Era riconosciuta al giudice ordinario la competenza
di sindacare la legittimità dell’atto amministrativo, ma non annullarlo,
revocarlo o modificarlo. L’art. 5 della legge introduceva, inoltre, l’istituto della
“disapplicazione “dell’atto amministrativo da parte del giudice ordinario.
d) L’amministrazione non era sottratta agli effetti della sentenza, essa era tenuta
a <<conformarsi>> al provvedimento del giudice. Questa prescrizione
fondamentale, di ottemperanza al giudicato, sanciva la prevalenza del potere
giurisdizionale rispetto al potere amministrativo.
4. Il bilancio dell’allegato E nei primi anni successivi al 1865
La riforma del 1865 intendeva realizzare il passaggio da un sistema di tutela nei
confronti dell’Amministrazione (modello del contenzioso amministrativo), ad un
altro imperniato sul giudice ordinario. Il sistema delineato nell’allegato E era
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rimasto inapplicato e l’istituto dei ricorsi gerarchici risultò screditato dalla
tendenza dell’Amministrazione a lasciarsi condizionare dai suoi particolari
interessi.
Dopo l’entrata in vigore della legge del 1865, l’autorità governativa sollevò, con
grande frequenza, dei conflitti. Il Consiglio di Stato propose, di conseguenza, una
lettura molto restrittiva dei limiti esterni della giurisdizione del giudice ordinario.
Molti giuristi liberali sottolinearono che, invece dell’eguaglianza dei cittadini e
dell’Amministrazione davanti alla legge, si realizzava un sistema che limitava gli
spazi per la tutela del cittadino. Mantellini identificò nella giurisprudenza del
Consiglio di Stato sui conflitti, la causa del fallimento della riforma del 1865.
Si notava, nelle decisioni del Consiglio di Stato, la tendenza ad escludere la
competenza del giudice civile, quando la vertenza riguardasse provvedimenti
dell’autorità amministrativa. La competenza del giudice civile veniva ammessa
solo in presenza di atti dell’Amministrazione emanati a tutela di un interesse
personale o patrimoniale dell’Amministrazione stessa ( e non già a tutela di un
interesse pubblico generale). La soppressione dei tribunali del contenzioso
amministrativo aveva ridotto la tutela del cittadino e non aveva esteso la
giurisdizione civile agli ambiti occupati dai giudici soppressi.
L’insuccesso della riforma era addebitato, principalmente, al Consiglio di Stato
che, quale giudice dei conflitti, poteva decidere o meno circa le controversie fra il
cittadino e l’Amministrazione.
5. La legge sui conflitti del 1877
Queste considerazioni furono all’origine di un nuovo intervento in materia di
conflitti, la legge 31 marzo 1877, n.3761. Si attribuiva alla Corte di
Cassazione di Roma la decisione sui conflitti insorti tra Amministrazione ed
autorità giudiziaria, ovvero tra giudici ordinari e giudici speciali. Alla Cassazione
fu attribuito, inoltre, il potere di decidere i ricorsi proposti contro le sentenze dei
giudici speciali, impugnate per <<incompetenza ed eccesso di potere>>.
La legge non produsse l’effetto auspicato e la Cassazione proseguì nell’indirizzo
già prospettato del Consiglio di Stato.
Capitolo 3
“ L’AFFERMAZIONE DI UNA GIURISDIZIONE AMMINISTRATIVA”.
1. L’istituzione della Quarta sezione
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I risultati della riforma del 1865 apparvero ben presto insoddisfacenti: la tutela
del cittadino, nei confronti dell’Amministrazione era tutt’altro che assicurata.
Dell’esigenza di una revisione si fecero portatori sia uomini politici, sia studiosi e
giuristi. L’argomento presentava due profili fondamentali : a) l’attuazione di una
più ampia tutela del cittadino b) l’individuazione dell’organo cui affidare la tutela.
La giurisprudenza affermava una tendenziale incompatibilità fra il diritto
soggettivo e il provvedimento amministrativo: il diritto soggettivo del cittadino
era riconosciuto e garantito nei confronti dell’Amministrazione solo quando essa
agiva <<iure privatorum>> e in altre poche ipotesi; là dove interveniva un
provvedimento amministrativo, di regola, vi erano solo interessi.
Si delineava una contrapposizione tra i diritti di abolizione del contenzioso
amministrativo e gli interessi diversi dai diritti soggettivi, che erano privi di tutela
giurisdizionale, anche quando erano di grande importanza per il cittadino.
Sorgeva l’esigenza di introdurre uno strumento di tutela per questi interessi. A
tale esigenza diede riscontro la legge 31 marzo 1889, n.5992. La tutela degli
<<interessi>> fu demandata al Consiglio di Stato, con la precisazione che
questa funzione era assegnata ad una nuova sezione: la Quarta sezione. La
competenza di tale Quarta sezione era definita nell’art.3 che stabiliva che alla 4
Sezione del Consiglio di stato spetta di decidere i ricorsi per
incompetenza,eccesso di potere o violazione di legge contro atti e provvedimenti
di un’autorità amministrativa o di un corpo amministrativo deliberante, che
abbiano per oggetto un interessi di individui o di enti morali e giuridici, quando i
ricorsi medesimi non siano di competenza dell’autorità giudiziaria, né si tratti di
materia spettante alla giurisdizione o alle attribuzioni contenziose di corpi o
collegi speciali.Il ricorso non è ammesso se trattasi di atti e provvedimenti
emanati dal governo nell’esercizio di un potere politico.Alla Quarta sezione era
demandata la tutela di interessi designati come <<interessi d’individui o di enti
morali giuridici>>. La tutela di questi <<interessi>> si realizzava con <<ricorsi
contro atti e provvedimenti di un’Autorità amministrativa>> e, quindi, nelle
forme dell’impugnazione del provvedimento amministrativo. La tutela del
cittadino si configurava come tutela contro il provvedimento
amministrativo. I ricorsi alla Quarta sezione erano mezzi di impugnazione del
provvedimento e producevano l’annullamento del provvedimento impugnato
(art.17).
Il ricorso poteva essere proposto dal cittadino, per impugnare un provvedimento
affetto da vizi tassativamente indicati dalla legge:<<incompetenza, eccesso
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de potere e violazione di legge>> . “Incompetenza” intesa come vizio degli
elementi soggettivi dell’atto amministrativo; “eccesso di potere” inteso come uso
gravemente scorretto del potere discrezionale da parte dell’Amministrazione;
“violazione di legge” come vizio specifico rappresentato dal contrasto fra un
elemento del provvedimento o del suo procedimento e una disposizione
contenuta nella legge o in un’altra fonte del diritto.
Nei confronti dell’ amministrazione economica, la tutela davanti alla Quarta
sezione risultò limitata agli ambiti dell’ eccesso di potere. Per gli ambiti definiti
come merito dell’atto amministrativo, il sindacato sulla discrezionalità
rimaneva riservato all’autorità amministrativa e ai ricorsi gerarchici. La tutela del
cittadino nei confronti della Pubblica amministrazione fu ricondotta ad uno
schema incentrato sulla distinzione tra figure soggettive. Ai diritti
soggettivi si contrapponevano gli <<interessi>> propri dei cittadini, la cui
tutela sarebbe stata demandata alla Quarta sezione.
La legge del 1889 introduceva, inoltre, un rapporto preciso fra il ricorso alla
Quarta sezione e il ricorso gerarchico (art.7), perché il ricorso alla Quarta
sezione era ammesso solo contro un provvedimento <<definitivo>>.
Dalla tutela imperniata sulla Quarta sezione erano esclusi gli atti <<emanati dal
governo nell’esercizio del potere politico>>. Questa categoria, dei c.d. atti
politici, non aveva confini chiari.
La competenza della Quarta sezione si incentrava nel sindacato di legittimità
sull’atto amministrativo. In questi casi, la Quarta sezione, nel caso di
accoglimento del ricorso, avrebbe potuto assumere una decisione sulla pratica,
in sostituzione di quella rappresentata dal provvedimento annullato (art.17).
2. La riforma del 1907.
La legge del 1889 non affrontava la questione della “natura amministrativa” o
giurisdizionale della Quarta sezione. Le pronunce della Quarta sezione erano
designate dalla legge come <<decisioni>> (non sentenze), termine che
richiamava le “decisioni” dei ricorsi gerarchici. Alcuni autori sostennero la tesi
della natura amministrativa della Quarta sezione, ma prevalse l’indirizzo che ne
valorizzava il ruolo, ponendola su un piano diverso da quello degli organi
amministrativi. La tesi del carattere giurisdizionale della Quarta sezione fu
accolta dalla Cassazione che, dichiarando inammissibili ricorsi proposti contro le
decisioni del Consiglio di Stato, riconobbe alla Quarta sezione carattere di giudice
speciale e, alle sue decisioni, valore di sentenze.
13
La legge 7 marzo 1907 n.62 riconobbe formalmente il carattere giurisdizionale
della Quarta sezione (art.1), distinguendo fra sezioni <<consultive>> del
Consiglio di Stato e sezioni <<giurisdizionali>>. Contemplò, di conseguenza, il
ricorso alla Corte di cassazione, <<agli effetti della legge 31 marzo 1877,
n.3761>>, contro le decisioni delle sezioni giurisdizionali. Istituì, inoltre, la
Quinta sezione del Consiglio di Stato, con funzioni giurisdizionali, alla quale
erano demandati i ricorsi con sindacato esteso al merito (e non solo alla
legittimità, come per la Quarta sezione). Il coordinamento tra le due sezioni era
affidato alle Sezioni riunite ( oggi Adunanza plenaria).
Altre innovazioni di rilievo, riguardarono la disciplina dell’istruttoria nel processo
amministrativo, la disciplina del procedimento amministrativo, la disciplina del
procedimento avanti alla Giunte provinciali amministrative e la disciplina del
ricorso straordinario al Re.
In attuazione della legge del 1907 e del relativo testo unico, fu emanato il r.d. 17
agosto 1907, n.642, con il <<regolamento per la procedura dinanzi alle
sezioni giurisdizionali del Consiglio di Stato>>, che è tuttora in vigore.
3. La riforma del 1923 e l’istituzione della giurisdizione esclusiva
La legge del 1907 ha segnato il nostro sistema di giustizia amministrativa,
orientando fortemente la distinzione fra la giurisdizione amministrativa e quella
ordinaria, nei termini di una distinzione fra posizioni soggettive. Un sistema
imperniato sulla distinzione tra diritti soggettivi e interessi legittimi comportava
la necessità di identificare i caratteri e i contenuti delle diverse posizioni
soggettive; operazione non sempre agevole.
La legge 30 dicembre 1923, n.2480, cui fece seguito il testo unico delle leggi
sul Consiglio di Stato, approvato con r.d. 26 giugno 1924, n.1054 (t.u.
Cons. Stato), cercò di porre rimedio a queste diatribe, attraverso due ordini di
innovazioni:
- Al giudice amministrativo fu riconosciuta la capacità di conoscere “in via
incidentale” la posizioni di diritto soggettivo, ad eccezione di quelle sullo stato e
la capacità delle persone e la querela di falso, riservate al giudice ordinario.
La possibilità di una cognizione incidentale dei diritti consentiva di evitare
che, la necessità di esaminare una questione inerente a diritti soggettivi
comportasse sempre la sospensione del giudizio e la remissione delle parti avanti
al giudice civile.
14
- In alcune materie particolari, fra le quali il pubblico impiego, al giudice
amministrativo fu attribuita la possibilità di conoscere e di giudicare anche in
tema di diritti soggettivi. In queste materie, la tutela giurisdizionale non era
articolata fra tutela degli interessi legittimi ( demandata al giudice
amministrativo) e tutela dei diritti soggettivi ( demandata al giudice ordinario),
ma era devoluta interamente al giudice amministrativo (c.d. giurisdizione
elusiva).
Dalla riforma del 1923 emergeva, in modo chiaro, che:
- nelle ipotesi di giurisdizione esclusiva, il riparto fra giurisdizione
amministrativa e giurisdizione ordinaria seguiva il criterio della distinzione per
materie (art.29, 1°c. e 30 1°c, t.u. Cons. Stato).
- nelle ipotesi di giurisdizione esclusiva, nelle vertenze per diritti soggettivi, il
giudice amministrativo disponeva degli stessi poteri di cognizione e di decisione
che gli spettavano in caso di giurisdizione degli interessi legittimi (art.29, 2° e
3°c. t.u. Cons. Stato).
- nelle ipotesi di giurisdizione esclusiva, la tutela era “aggiuntiva” rispetto a
quella degli interessi.
- anche nelle ipotesi di giurisdizione esclusiva il giudice amministrativo poteva
conoscere in via incidentale delle situazioni di diritto soggettivo, non inerenti alla
materia devoluta alla giurisdizione esclusiva, che fossero però rilevanti per la
decisione.
Al giudice amministrativo era preclusa la cognizione di questioni inerenti
allo stato e alla capacità delle persone, o questioni di falso, che erano
riservate, pertanto, al giudice ordinario.
Al giudice ordinario erano riservate le questioni attinenti a <<diritti
patrimoniali consequenziali alla pronuncia di legittimità dell’atto o del
provvedimento contro cui si ricorre>> (art.30, 2°c. t.u. Cons.Stato).
I diritti patrimoniali consequenziali furono identificati con il diritto al risarcimento
del danno, che assumeva rilevanza in seguito all’annullamento di un
provvedimento amministrativo, che avesse inciso su un diritto soggettivo.
La riforma del 1923-24 introdusse alcune modifiche anche all’ordinamento del
Consiglio di Stato; la più importante è il superamento della distinzione di
competenze tra Quarta e Quinta sezione, che divenne di ordine meramente
interno.
15
In base al testo unico del 1924 avrebbe dovuto essere emanato dal governo un
nuovo regolamento, che però non fu mai emanato: rimase in vigore, e rimane
tuttora in vigore, quello del 1907.
4. la Costituzione repubblicana e l’istituzione dei Tar
Dopo il testo unico 26 giugno 1924, n.1054, la disciplina della giurisdizione
amministrativa rimase immutata per oltre settant’anni. Nei primi anni
dell’ordinamento repubblicano le innovazioni più evidenti riguardarono l’assetto
organizzativo della giurisdizione amministrativa, ma non furono condizionate
dalla Costituzione. Con il d.l. 5 maggio 1948, n.642, era istituita una Sesta
sezione del consiglio di Stato. Subito dopo, in attuazione dell’art.23 dello Statuto
speciale per la Sicilia, con il d.lgs.6 maggio 1948, n. 654, venne istituito il
Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione Siciliana, organo
equiordinato al Consiglio di Stato, con funzioni consultive e giurisdizionali: in tal
modo divenne problematica la stessa unitarietà della giurisdizione
amministrativa.
Solo nella seconda metà degli anni ’60, l’incidenza dei principi costituzionali fu
più evidente, con riferimento alle norme sull’indipendenza del giudice (art.101,
2°c. e 108, 2°c. Cost.). la Corte costituzionale dovette dichiarare illegittima la
composizione della Giunta provinciale amministrativa in sede giurisdizionale.
Analoga sorte ebbero le Sezioni dei Tribunali amministrativi per il contenzioso
elettorale. Gli interventi della Corte costituzionale e l’avvio delle Regioni a
statuto ordinario resero più urgente l’attuazione dell’art,125 della Cost., sulla
istituzione, in ogni regione, di un giudice amministrativo di primo grado. Con la
legge 6 dicembre 1971, n.1034 (legge TAR), furono istituiti, nei capoluoghi di
ogni Regione, i Tribunali amministrativi regionali (TAR).
I TAR sono giudici amministrativi di primo grado, dotati di competenza generale
per le controversie per gli interessi legittimi e per quelle su diritti soggettivi,
devolute alla giurisdizione esclusiva.
L’appello contro le sentenze del TAR va proposto al Consiglio di Stato (art.28).
L’assetto generale della giustizia amministrativa sembrava completato dal d.p.r.
24 novembre 1971, n.1199, che fu emanato per la riforma del procedimento
amministrativo, dettando per la prima volta una disciplina organica dei ricorsi
amministrativi.
16
5. Le innovazioni recenti e le tendenze espresse dalla legge n.205 del
2000
Le innovazioni successive all’istituzione dei TAR furono piuttosto limitate. Tra gli
interventi più significativi vi fu l’estensione della giurisdizione esclusiva alle
controversie sulle concessioni edilizie, sul contributo di concessione e sulle
sanzioni amministrative per abusi edilizi (art.16, legge 27 gennaio 1977, n.10).
Elementi essenziali di novità emersero, sempre più spesso, a partire dagli anni
’90. Erano introdotte discipline speciali, per accelerare la definizione del
giudizio. Questa scelta rispecchiava l’importanza riconosciuta dal legislatore a
certi interessi del cittadino: per rendere più efficace la loro tutela dovevano
essere introdotte procedure specifiche e più veloci. La legge 7 agosto 1990,
n.241 (modificata dalla legge 11 febbraio 2005, n.15 e dalla legge14 maggio
2005, n.80), dopo aver previsto il diritto d’accesso ai documenti
amministrativi, introdusse un giudizio speciale di competenza del giudice
amministrativo, caratterizzato da procedure particolari ed accelerate.
In altri casi emergeva, invece, l’esigenza di migliorare l’efficienza dell’attività
amministrativa.
Fu esteso, in molti casi, l’ambito della giurisdizione esclusiva che assunse
rilievo con la riforma del pubblico impiego (avviata d.lgs. 3 febbraio 1993),
n.29): si assoggettava a un regime contrattuale quasi tutte le categorie dei
dipendenti pubblici, trasformando il loro rapporto con l’Amministrazione da
pubblicistico in privatistico. La legge 15 marzo 1997, n.59 conferì ampia delega
al Governo, per l’attuazione e per l’assegnazione al giudice ordinario, delle
controversie dei dipendenti pubblici con rapporto contrattuale e una estensione
della giurisdizione esclusiva. La delega fu esercitata dal Governo con il d.lgs. 31
marzo 1998, n.80. Negli artt. 33 e 34, si assegnavano, alla giurisdizione
esclusiva, le vertenze in materia di pubblici servizi e di edilizia e urbanistica. Per
tali materie, il giudice amministrativo era competente a pronunciarsi su
<<risarcimento del danno ingiusto>>, cagionato dall’Amministrazione, con i
propri atti (art.35).
L’estensione della giurisdizione esclusiva, in materia di pubblici servizi, fu
ritenuta illegittima dalla Corte costituzionale (17 luglio 2000, n.292). Quasi
contemporaneamente, il Parlamento approvava la legge 21 luglio 2000, n.205,
che estese la giurisdizione esclusiva a nuove materie. Tale legge ha assegnato al
giudice amministrativo la competenza a pronunciarsi sui diritti patrimoniali
consequenziali, anche nelle materie non devolute alla sua giurisdizione; ha
17
innovato la disciplina del processo amministrativo, introducendo strumenti
specifici per la tutela dei diritti devoluti alla giurisdizione esclusiva (come i
procedimenti per ingiunzione, mutuati dal c.p.c . art.8); ha arricchito i poteri del
giudice, sia per la cognizione della vertenza, sia per la tutela cautelare; ha
previsto un rito speciale per il giudizio sul “silenzio” dell’Amministrazione,
disancorandolo dal modello dell’impugnazione di provvedimenti; ha introdotto
veri e propri riti accelerati per le vertenze di maggiore rilievo.
Le nuove concezioni emerse sono state oggetto di dibattiti, culminati nella
sentenza della Corte costituzionale 6 luglio 2004, n.204. La sentenza ha
portato al centro del dibattito le norme costituzionale, come criterio per definire
il “ruolo” del giudice amministrativo. Con l’art.103 1°c. Cost., si assegnava,
infatti, al giudice amministrativo, la funzione di tutela del cittadino nei confronti
del potere amministrativo, non consentendogli un’assegnazione indiscriminata di
ogni vertenza sui diritti, ancorché sia coinvolto un interesse pubblico. In base a
tali criteri, la Corte ha dichiarato parzialmente illegittimi gli artt. 33 e 34 del
d.lgs. n.80/1998.
Capitolo 4
L’INTERESSE LEGITTIMO
1. Considerazioni introduttive
Nel nostro diritto amministrativo, le posizioni giuridicamente rilevanti del
cittadino nei confronti dell’Amministrazione vengono distinte in: interessi
legittimi e diritti soggettivi. L’interesse legittimo è una figura centrale nei
rapporti tra cittadino e Amministrazione e rappresenta l’elemento fondante per
la giurisdizione amministrativa.
Tale figura , anche se nel nostro ordinamento è assolutamente centrale, non è
una nozione giuridica che sia imposta dai caratteri specifici del rapporto fra
Amministrazione e cittadino. Questa nozione non ha, infatti, preceduto o rese
“obbligate” le scelte del legislatore.
Di interesse legittimo, si parla, quasi esclusivamente, nel diritto italiano, mentre,
negli altri Paesi, la garanzia del cittadino è si condizionata dai caratteri del
rapporto con l’Amministrazione, ma non ha richiesto l’elaborazione della figura
dell’interesse legittimo.E’ necessario stabilire se nei confronti
18
dell’amministrazione il cittadino abbia un interesse legittimo o un diritto
soggettivo.
La distinzione fra interessi legittimi e diritti soggettivi può apparire agevole
quando si confrontino ipotesi stereotipe di posizioni soggettive: ad es. il cittadino
interessato ad un potere discrezionale dell’Amministrazione e il cittadino
creditore di un’obbligazione pecuniaria nei confronti della stessa
Amministrazione. Nel primo caso, si ritiene che possa essere identificato solo un
interesse legittimo al cittadino l’ordinamento non garantisce neppure la pretesa
a un risultato utile, perché l’esito finale del procedimento dipende da una scelta
discrezionale dell’autorità amministrativa. Nel secondo caso, l’ordinamento
riconosce e garantisce la pretesa a un risultato utile predeterminato e appresta
tutta una serie di strumenti, per assicurare una piena realizzazione di questa
pretesa. Ma la distinzione appare molto più difficile in altre ipotesi. Si pensi al
caso di un’attività vincolata dell’Amministrazione: in questo caso si ammette
la configurazione di posizioni di interesse legittimo, ma se l’attività è vincolata, si
deve riconoscere che la legge prevede e garantisce, al cittadino, un determinato
risultato e in questo modo, la distinzione, rispetto alle obbligazioni, scompare.
Anche nell’ambito del diritto privato, si tende a riconoscere la configurabilità di
situazioni, rispetto alle quali, i diritti soggettivi sono caratterizzati in termini
analoghi, rispetto agli interessi legittimi tradizionali. Si pensi al caso della
partecipazione a un concorso privato, nella costruzione delineata dalla
giurisprudenza civile, in base a riflessioni su enti pubblici economici; in questo
caso, il diritto soggettivo del cittadino non si risolve nella pretesa, giuridicamente
riconosciuta, ad un risultato utile ( l’assunzione), ma si presenta in termini di
stretta correlazione allo svolgimento del “potere” privato. La Cassazione ha
sottolineato come al cittadino debba essere assicurata l’osservanza dei principi
di buona fede e di ragionevolezza ed arriva a configurare l’esistenza di un
obbligo motivazionale.Nel caso del concorso pubblico si ha un interesse
legittimo.
Si evidenzia, inoltre, la tendenza in alcuni Paesi ad estendere la nozione di
“potere”, in senso stretto, anche alle situazioni di diritto privato, caratterizzate
istituzionalmente dalla presenza di un soggetto in posizione di supremazia. Il
rischio di questa tendenza è quello di assegnare all’Amministrazione un ruolo
istituzionalmente “dominante”, in contrasto con il principio di legalità, perdendo
di vista le ragioni della tutela nei confronti dell’Amministrazione e di indebolire
così la garanzia individuale del cittadino.
19
Veramente irrinunciabili, in uno Stato democratico, sono la garanzia e
l’ampiezza della tutela nei confronti dell’Amministrazione, e non le
nozioni e le forme attraverso le quali tale tutela è stata interpretata. La
ragione di un’attenzione particolare per la tutela nei confronti
dell’Amministrazione è costituita proprio dal carattere pubblico del soggetto, che
si pone, rispetto al cittadino, come “autorità”. In questa logica, appare
contraddittorio invocare la nozione dell’interesse legittimo, per giustificare una
tutela meno intensa del cittadino rispetto a quella offerta dal diritto comune.
Eppure, solo da pochi anni, la Corte di Cassazione, rivendicando un proprio
indirizzo, ha ammesso, anche per la lesione di interessi legittimi, il risarcimento
dei danni.
2. L’interesse legittimo e il “potere” dell’Amministrazione .
Anche se il dibattito sulla nozione di interesse legittimo appare ancora aperto, si
riscontra un ampio consenso nell’identificare alcuni elementi come propri
dell’interesse legittimo.
Un primo elemento è costituito dal carattere “relativo”(o “relazionale”)
dell’interesse legittimo: l’interesse legittimo non è una posizione soggettiva di
tipo “assoluto”(come i diritti reali), ma è una posizione correlata all’esercizio di
un potere da parte dell’Amministrazione.L’esercizio del potere produce effetti
giuridici nei confronti dei cittadini.L’Amministrazione, disponendo degli interessi
che le sono devoluti dalla legge distribuisce risorse, incide sulle posizioni
giuridiche dei cittadini.L’interesse legittimo può essere definito come una
posizione soggettiva speculare al potere dell’Amministrazione.
In passato, il potere dell’Amministrazione è stato considerato come un “valore”
che esprimeva la supremazia dello Stato e dei suoi fini rispetto al cittadino:
questa logica però è radicalmente incompatibile con i principi di ordinamento
democratico. Oggi sembra affermarsi una concezione opposta, che rifiuta
l’argomento della supremazia istituzionale e dà rilievo piuttosto ad elementi
formali, come l’assoggettamento del potere dell’Amministrazione ad una
disciplina tipica, espressa in particolare nella teoria dei vizi dell’atto
amministrativo(eccesso di potere). Molte riflessioni si sono concentrate
sull’analisi dei casi in cui sia stata riconosciuta la presenza di un potere
dell’Amministrazione. Il potere amministrativo è considerato una situazione
esclusiva del diritto pubblico: di conseguenza non è configurabile un interesse
legittimo, neppure in presenza di atti unilaterali dell’Amministrazione, quando
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essi siano riconducibili al diritto privato(rescissione o risoluzione unilaterale del
contratto). Non vale però la conclusione opposta cioè l’attività unilaterale
dell’amministrazione disciplinata dal diritto pubblico non si configura
necessariamente come potere amministrativo;in alcune situazioni l’attività svolta
dall’Amministrazione è disciplinata dal diritto pubblico, ma non ha le
caratteristiche del “potere” in senso proprio. L’ambientazione dell’interesse
legittimo nel diritto pubblico non risolve, quindi, tutti i problemi connessi
all’identificazione di questa figura.
In passato sono stati presi in considerazione vari profili dell’attività
amministrativa nel diritto pubblico, per definire il potere tipico
dell’Amministrazione.
a)In alcune interpretazioni è presentato, come profilo caratteristico del “potere”,
la c.d. autoritarietà o autoritatività. Di fronte ad un potere autoritativo
dell’Amministrazione, il cittadino non può opporre un diritto soggettivo, perché
l’Amministrazione, attraverso i propri provvedimenti, può estinguere
legittimamente i diritti dei terzi.
Il nucleo del potere amministrativo sarebbe espresso dall’autoritarietà: in questo
senso sembra prendere posizione anche l’art.1 della legge n.241/1990, come
modificato dalla legge n.15/2005, che nel contesto di una valorizzazione degli
istituti privatistici, riserva però al diritto pubblico, proprio la disciplina
dell’attività autoritativa dell’amministrazione.
Il riferimento al carattere dell’autoritarietà non spiega però, quando
l’Amministrazione sia titolare di un potere e in che cosa consista, nella generalità
delle situazioni, tale potere.
b)In altre interpretazioni è considerata, come elemento caratteristico del
“potere”, la sua funzionalità alla realizzazione dell’interesse pubblico. Di
conseguenza non si ha potere quando l’attività amministrativa sia diretta
istituzionalmente a soddisfare un interesse privato: è il caso, ad esempio, della
determinazione dell’indennità di esproprio. Questa ipotesi non può verificarsi nel
caso dell’attività discrezionale, perché tale attività, per definizione, comporta la
necessità di una scelta, in considerazione dell’interesse pubblico: invece,
secondo tale tesi in esame, si potrebbe verificare in alcune ipotesi di attività
vincolata.
c)Altre interpretazioni assumono, come caratteristica del potere amministrativo,
la sua infungibilità: mentre l’adempimento di un’obbligazione di regola è
sempre fungibile, cosicché all’adempimento di un’obbligazione si può porre
21
rimedio con una prestazione equivalente di un terzo, il “potere”
dell’Amministrazione è riservato ad uno specifico apparato.
La posizione del cittadino titolare di un interesse legittimo si caratterizzerebbe
per una dipendenza istituzionale dall’Amministrazione.
d)Alcune interpretazioni accolgono argomenti di ordine squisitamente formale e
individuano, come elemento tipico del “potere” la produzione di effetti
giuridici, in termini costitutivi: potere significa, quindi, capacità di assumere
atti produttivi di effetti giuridici propri.Viene accolta la distinzione fondamentale
tra procedimenti dichiarativi e procedimenti costitutivi.I procedimenti dichiarativi
accertano o certificano situazioni già identificate dalla legge(d.soggettivo);i
procedimenti costitutivi hanno carattere dispositivo perché sono idonei a
produrre effetti giuridici propri(int.legittimo).L’identificazione del carattere
costitutivo di certi provvedimenti amministrativi non è pacifica: alle incertezze
generali sulla figura e sull’ambito dell’atto costitutivo si sommano quelle
particolari che attengono al rapporto fra legge e atto amministrativo nella
produzione di effetti giuridici. In particolare si discute se possa considerarsi
propriamente costitutiva, anche l’attività amministrativa, che si limiti a verificare,
per la produzione di effetti giuridici, condizioni compiutamente definite dalla
legge.
Un orientamento dottrinale individua, come discriminante per la nozione di
“potere” il fatto che la legge riservi all’Amministrazione una competenza
esclusiva, intesa come capacità di operare effettuando valutazioni che
possono essere compiute solo dall’Amministrazione e non da altri
soggetti(discrezionalità tecnica ed amministrativa). Il “potere”, insomma, si
caratterizza per essere riservato ad un soggetto, ma questa “riserva” attiene alle
modalità, attraverso le quali, l’Amministrazione opera ed assume i suoi atti.
Quando la legge riserva all’Amministrazione l’effettuazione di certe valutazioni,
ai fini dell’adozione di provvedimenti, l’attività dell’Amministrazione presenta
caratteristiche particolari e introduce elementi nuovi, rispetto a quelli già
compiutamente determinati nella previsione normativa. Questa situazione si
verifica quando l’attività amministrativa sia discrezionale. Quando l’attività è
vincolata, l’Amministrazione si deve limitare ad applicare una regola già presente
nell’ordinamento, senza poter introdurre da parte sua, nulla di ulteriore. Pertanto
se l’attività è vincolata, la legge che disciplina l’attività amministrativa definisce
già completamente ciò che spetta al cittadino in quella certa situazione:
l’Amministrazione, in presenza della situazione individuata dalla legge, è tenuta
22
ad assumere nei confronti del cittadino l’atto previsto dalla legge stessa e non
può aggiungervi nulla di suo. Il cittadino è titolare perciò di un diritto
soggettivo.Se l’attività è discrezionale il cittadino no n può vantare una pretesa
giuridica a un determinato risultato perché ciò che gli spetta non è determinabile
a priori in base alla legge.
Questa tesi non viene accolta dalla giurisprudenza prevalente: essa riconosce la
presenza di interessi legittimi di fronte ad un’attività amministrativa
discrezionale, ma esclude che quando l’attività sia vincolata, siano configurabili
necessariamente diritti soggettivi.
Da ultimo si deve tener presente l’influsso del diritto comunitario che, nei
settori di competenza dell’Unione europea, sta incidendo profondamente anche
sul diritto amministrativo dei Paesi associati, introducendo elementi ed istituti
comuni e promuovendo lo sviluppo dei diversi ordinamenti nazionali secondo
direttrici omogenee. Il diritto comunitario impone una tutela efficace del cittadino
nei confronti dell’Amministrazione; nello stesso tempo non contempla la figura
dell’interesse legittimo, anche perché essa è utilizzata quasi solo nel diritto
italiano. Anche il legislatore italiano ha dovuto adeguarsi all’impostazione dettata
dalle norme comunitarie, col risultato che in passato si era delineata una
singolare distinzione fra interessi legittimi, fondati sulla normativa comunitaria
( ai quali era assicurata una tutela risarcitoria) e interessi legittimi, fondati
sulla normativa nazionale ( senza tutela risarcitoria).
In questo quadro così incerto, finisce con l’assumere rilievo determinante la
casistica elaborata dalle sezioni unite della Cassazione, quale giudice
della giurisdizione.
3. ( segue ): il contributo della giurisprudenza; la questione dei diritti
“perfetti”.
Ad opera della Corte di cassazione(quale giudice delle giurisdizioni) si è
consolidata un’interpretazione comune sulla identificazione della maggior parte
delle situazioni corrispondenti ad interessi legittimi. Per distinguere gli interessi
legittimi dai diritti soggettivi, la giurisprudenza ha accolto una serie di criteri,
invocati talvolta in via “cumulativa”, come se l’identificazione dell’interesse
legittimo discendesse, in via definitiva, da una serie di “indici” da valutare
complessivamente.
I) Tesi della distinzione fra norme d’azione e norme di relazione.
L’ordinamento comprenderebbe norme d’azione, che disciplinano un potere e il
23
suo esercizio, e norme di relazione, che disciplinano un rapporto intersoggettivo
e i suoi effetti. A questa coppia di norme corrisponderebbe nel caso di violazione
alla coppia di qualificazione degli atti in termini di “illegittimità-illeceità” e,
quindi, sul piano delle posizioni soggettive, la coppia “interesse legittimo-diritto
soggettivo”. La giurisprudenza più recente non sembra riconoscere peso decisivo
alla tesi in esame.
II) Tesi della distinzione fra attività vincolata nell’interesse pubblico e
attività vincolata nell’interesse privato. Uno dei problemi maggiori è
rappresentato dalla valutazione delle posizioni soggettive di fronte all’attività
vincolata dell’Amministrazione. L’interesse legittimo si caratterizzerebbe per il
suo confronto con un interesse pubblico. Di conseguenza se il potere
dell’Amministrazione è discrezionale, sarebbe sempre configurabile un interesse
legittimo perché il confronto con l’interesse pubblico è immanente; se il potere è
vincolato, si dovrebbe distinguere se il potere sia attribuito nell’interesse del
cittadino o nell’interesse dell’Amministrazione. Nel primo caso vi sarebbe un
diritto soggettivo, nel secondo un interesse legittimo. Secondo la Cassazione, in
certi casi di attività vincolata, il cittadino sarebbe titolare di un diritto nei
confronti dell’Amministrazione, al rilascio di un provvedimento amministrativo
(es. rilascio della carta di circolazione di un veicolo); in altri casi, a fronte di
provvedimenti vincolati si ammettono interessi legittimi (es. interventi repressivi
di attività abusive).La funzionalità di un potere vincolato a un interesse pubblico
o privato non è determinabile dalla norma giuridica.
III) Tesi della distinzione tra cattivo esercizio del potere e carenza di
potere. Secondo questa tesi, accolta dalla Cassazione, non è sufficiente la
considerazione della titolarità del potere da parte dell’Amministrazione, per
identificare la posizione del cittadino come di interesse legittimo: la valutazione
deve coinvolgere anche il vizio rispetto all’atto amministrativo. Nel caso di
cattivo esercizio di potere (vizi di incompetenza, violazione, di legge ed eccesso
di potere), l’illegittimità del provvedimento non incide sulla sua efficacia(finchè il
provvedimento non sia annullato)ed è configurabile solo una posizione di
interesse legittimo(si è in presenza di esercizio del potere dell’amministrazione);
nel caso di carenza di potere (straripamento di potere o incompetenza assoluta,
carenza di presupposti necessari) il vizio si riverbera sulla stessa efficacia
giuridica dell’atto e la posizione soggettiva del cittadino rimane quella originaria,
come individuabile in assenza dell’intervento
24
dell’Amministrazione.L’amministrazione non esercita in modo efficace alcun
potere e non è identificabile nenahce un interesse legittimo.
La Cassazione ha sostenuto che vi è carenza quando il provvedimento è previsto
dall’ordinamento, ma non come esercizio di una funzione amministrativa, oppure
ha sostenuto che vi è carenza quando il potere è attribuito ad
un’Amministrazione di ordine diverso rispetto a quella cui fa parte l’organo che
ha emesso il provvedimento, ovvero quando il provvedimento è assunto
dall’Amministrazione che è in astratto titolare del potere, ma in mancanza di un
presupposto concreto prescritto dalla legge. La legge 11 febbraio 2005, n.15
distingue fra ipotesi di <<annullabilità>> e ipotesi di<<nullità(provvedimento
che manca degli elementi essenziali e difetto assoluto di attribuzione)>>. L’atto
amministrativo nullo dovrebbe essere inefficace: di conseguenza, non
costituirebbe esercizio di un potere e potrebbe coesistere con un diritto
soggettivo del cittadino.
La sistematica dei vizi dell’atto amministrativo delineata dalla legge 15/2005
dovrebbe, quindi, orientare la Cassazione a superare la distinzione tra “cattivo
esercizio del potere” e “carenza di potere” e a considerare, invece, la distinzione
tra casi di “annullabilità” e casi di “nullità” del provvedimento.
IV) Teoria dei diritti perfetti. La giurisprudenza e la dottrina hanno proposto
una selezione delle posizioni giuridiche dotate di una protezione
qualitativamente maggiore e perciò non modificabili per effetto dell’esercizio di
un potere amministrativo. Si tratta dei c.d. diritti personalissimi (diritto
all’integrità personale, al nome etc.), sui quali l’Amministrazione non può
incidere, dei diritti definiti anche in relazioni giuridiche di diritto pubblico (diritto
all’indennità di esproprio[attività amministrativa sempre vincolata] etc.), e da
ultimo diritti ritenuti importanti sul piano costituzionale, tanto da essere definiti
“incomprimibili” (diritto alla salute, all’integrità dell’ambiente etc.).
Questa teoria trova ampio riscontro nella giurisprudenza recente della
Cassazione. Resta però ancora poco chiaro il suo fondamento, specie con
riferimento ai diritti costituzionali rilevanti. Appare problematica la possibilità di
desumere dalla Costituzione la natura di una posizione soggettiva e non è chiaro
in base a quali criteri i diritti costituzionalmente rilevanti possano a loro volta
essere discriminati.Si pensi al diritto di proprietà o al diritto d’impresa che in
presenza di un potere dell’amministrazione assumerebbero il carattere di
interesse legittimo.
25
4. L’interesse legittimo come posizione soggettiva differenziata e
qualificata.
L’interesse legittimo identifica un interesse proprio del cittadino: per questa
ragione non può essere considerato come una posizione meramente
“riflessa” rispetto al potere dell’Amministrazione. L’interesse legittimo non è
neppure una posizione diffusa, di cui possono essere titolari i cittadini in quanto
tali, ma è una posizione soggettiva, di cui sono titolari solo determinati
soggetti.
E’ stata la giurisprudenza che ha rivendicato a sé la capacità di individuare in
quali situazioni sia configurabile la titolarità di un interesse legittimo (ad es.
interessi in materia ambientale).
Va osservato, però, che in uno Stato di diritto la titolarità di una posizione
soggettiva dovrebbe essere definita dall’ordinamento giuridico e quindi dalla
legge. Di conseguenza, anche la titolarità dell’interesse legittimo deve essere
stabilita in base a criteri di legge. A questo proposito vengono considerati due
criteri. Il primo è quello della “differenziazione”; proprio perché l’interesse
legittimo è una posizione “soggettiva”, esso presuppone in capo al titolare la
sussistenza di una posizione di interesse “diversa” e “più intensa” rispetto a
quella della generalità dei cittadini.(es.posizione del commerciante x l’apertura di
un nuovo esercizio commerciale nelle vicinanze, in questo caso interessa lui e
non la generalità dei cittadini).
Ma il criterio della “differenziazione” non viene ritenuto sufficiente da buona
parte della dottrina. E’ stato perciò proposto, ad integrazione di esso, il criterio
della “qualificazione”: perché si possa avere un interesse legittimo è
necessario che il potere dell’Amministrazione coinvolga un soggetto che, rispetto
a tale potere, sia titolare di un interesse non solo differenziato, ma anche sancito
e riconosciuto dall’ordinamento. In realtà, però, non sempre, la norma che
disciplina il potere identifica i soggetti direttamente interessati. La qualificazione
viene, invece, ricavata dalla giurisprudenza, in base alla rilevanza attribuita a
quell’interesse dall’ordinamento nel suo complesso e alla sua incidenza
concreta dell’azione amministrativa su tale interesse.
5. L’interesse legittimo come posizione di diritto sostanziale.
In passato, l’attenzione sulla figura dell’interesse legittimo si è concentrata sull’
aspetto delle modalità della tutela nel caso di un interesse legittimo.
L’ordinamento sembrava risolvere la rilevanza dell’interesse legittimo
26
nell’attribuzione al titolare dell’interesse, di un “potere di reazione”, nel caso si
fosse verificata una lesione. Questo potere consisteva nella possibilità di
impugnare il provvedimento lesivo e di porre in contestazione l’esercizio del
potere dell’Amministrazione. Seguendo questa prospettiva si rilevava come la
tutela offerta all’interesse legittimo fosse tipicamente impugnatoria: a fronte
del carattere costitutivo del potere amministrativo e in particolare del
provvedimento amministrativo, sembrava che la tutela dovesse avere un
carattere altrettanto costitutivo, perché doveva eliminare l’effetto giuridico
prodotto dall’esercizio del potere, si istituisce un parallelismo tra carattere
costitutivo del potere e caratteri costitutivi della tutela offerta all’interesse
legittimo. All’interesse legittimo sembrava corrispondere una tutela tipica, di tipo
costitutivo, diretta ad elidere gli effetti del provvedimento lesivo. La modalità
della tutela veniva assunta come un carattere fondamentale del diritto
soggettivo(tutela diretta) e quindi come un elemento distintivo rispetto
all’interesse legittimo(tutela indiretta).
In passato, quando il diritto positivo sembrava riconoscere uno spazio
all’interesse legittimo, solo in termini di reazione ad una lesione, la rilevanza
dell’interesse legittimo era risolta praticamente nella vicenda della impugnazione
di un provvedimento lesivo. In questo modo era facile sostenere che l’interesse
legittimo sarebbe figura di ordine squisitamente processuale(assume
rilievo solo sul piano dell’azione).
Questo modo di ragionare oggi sembra abbandonato, ma non del tutto, e
comunque ha condizionato profondamente la giurisprudenza. Va chiarito che le
modalità della tutela non costituiscono di per sé l’elemento caratterizzante della
figura dell’interesse legittimo; il ragionamento va, invece, capovolto: sono i
caratteri dell’interesse legittimo che condizionano le modalità della tutela.
Nel nostro ordinamento la tutela giurisdizionale dell’interesse legittimo si
configura come tutela “successiva”: presuppone che sia già intervenuta una
lesione dell’interesse protetto. Ciò comporta una pretesa all’annullamento
dell’atto amministrativo lesivo. La lesione dell’interesse legittimo può essere
determinata, però, anche dalla mancanza dell’esercizio di un potere, come nel
caso del silenzio-rifiuto. In questo caso il giudizio tende a garantire
l’adempimento del dovere di provvedere dell’Amministrazione. Nel nostro
ordinamento, insomma, la tipicità della tutela è subordinata alla garanzia
dell’interesse.
27
Quanto poi alla questione della natura solo processuale o anche sostanziale
dell’interesse legittimo, essa può essere affrontata correttamente, solo sulla
base del diritto positivo. E’ decisivo stabilire se l’interesse legittimo rilevi
autonomamente, indipendentemente da una sua lesione. Un argomento
importante a favore della soluzione affermativa viene tratto dalla legge 7 agosto
1990, n. 241: essa ha assegnato rilevanza all’interesse legittimo, prescindendo
sia dalla impugnazione di un provvedimento, sia addirittura dalla configurabilità
di una lesione all’interesse del cittadino. Nella legge n.241/1990, la
partecipazione al procedimento si attua su un piano di diritto sostanziale. Inoltre,
alla luce di questa disciplina, l’interesse legittimo si presenta come figura
“attiva”, caratterizzata da una serie di prerogative dirette a influire sull’azione
amministrativa.
6.Quale “interesse” nell’interesse legittimo? L’identificazione del “bene
vita”
L’interesse legittimo non sorge per effetto della sua lesione ad opera di un potere
dell’Amministrazione e non assume rilevanza solo quando si verifichino i
presupposti per l’impugnativa; è configurabile già nel momento in cui ha inizio il
procedimento amministrativo. Perché nasca un interesse legittimo bisogna che
sussistano le condizioni, in presenza delle quali, l’esercizio del potere sia
doveroso. Non è importante che il cittadino, rispetto al potere
dell’Amministrazione, possa derivare una posizione di vantaggio o invece di
svantaggio.
La figura dell’interesse legittimo si presenta come figura del diritto sostanziale:
infatti all’identificazione dei soggetti titolari di interessi legittimi, in un
procedimento amministrativo, non corrisponde necessariamente l’identificazione
delle parti legittimate a far valere il loro interesse. Di conseguenza la
giurisprudenza esclude che quando sia impugnato un provvedimento negativo o
quando si ricorra per un silenzio-rifiuto siano parti necessarie del processo altri
cittadini diversi dal ricorrente, dal momento che il provvedimento negativo o il
silenzio-rifiuto producono effetti giuridici solo nei confronti di questi. Una volta
stabilito che l’interesse legittimo è figura del diritto sostanziale, va però chiarito
che cosa sia il “bene della vita”, quale componente fondamentale di tutte le
posizioni soggettive di diritto sostanziale.Bisogna capire in cosa va identificato il
bene della vita alla cui realizzazione tende l’interesse legittimo
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a)Il “bene della vita” non può essere identificato con un interesse alla
legittimità dell’azione amministrativa. Si deve evitare di confondere la modalità
della tutela di un interesse con il contenuto dell’interesse. E’ vero che la lesione
di un interesse legittimo si verifica ogni qual volta l’Amministrazione esercita il
suo potere senza osservare le regole che lo disciplinano. Tuttavia la legittimità
dell’azione amministrativa non è essa stessa un “bene della vita”, né tanto meno
può essere concepita come un “bene della vita” proprio di un soggetto
determinato. La legittimità dell’azione amministrativa può essere concepita forse
come l’oggetto di un interesse generico, comune a tutti i cittadini, ma non come
l’oggetto di una posizione soggettiva qualificata.
b)Per soddisfare questa esigenza viene prospettata spesso, per la figura
dell’interesse legittimo, una dissociazione fra due ordini d’interessi: sarebbero
configurabili un interesse materiale, che è proprio del titolare dell’interesse
legittimo, ma che esorbita dalla rilevanza riconosciuta dall’ordinamento
all’interesse legittimo stesso, e un interesse diverso, di cui il primo costituirebbe
solo un presupposto, e che sarebbe passibile di tutela.
c)E’ stata avanzata però, anche una concezione diversa, spesso respinta dalla
giurisprudenza e dalla dottrina. Secondo questa concezione, l’interesse c.d.
materiale non va considerato come estraneo all’interesse legittimo, ma
costituisce la componente essenziale di quest’ultimo, perché identifica proprio il
“bene della vita” cui l’interesse legittimo è funzionale. Le modalità di tutela di un
interesse sono determinate dalle caratteristiche proprie dell’interesse stesso:
perciò la realizzazione del “bene della vita”, nel caso dell’interesse legittimo, si
attua in relazione al potere amministrativo e in base alle regole che lo
disciplinano.
7. Interessi legittimi e diritti soggettivi
Il rapporto tra interesse legittimo e diritto soggettivo è al centro delle riflessioni
della dottrina e della giurisprudenza, anche in una prospettiva “dinamica”. Già
nei primi anni successivi alla legge istitutiva della Quarta sezione, furono
analizzati con attenzione alcuni procedimenti, come quello espropriativo,
caratterizzati dall’incidenza del potere amministrativo su un diritto soggettivo
(un diritto reale) del cittadino: fu osservato che, per effetto del decreto di
esproprio, il diritto soggettivo si estingueva una volta emanato il decreto di
esproprio (il privato non era più proprietario) , lasciando posto a un interesse
legittimo (il privato lo poteva impugnare davanti al giudice amministrativo).
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Lo stesso modello fu, poi, prospettato in modo simmetrico per i c.d. diritti in
attesa di espansione, consistenti nelle trasformazione di un interesse legittimo
in diritto soggettivo, per effetto di un determinato provvedimento amministrativo
con effetti costitutivi. La degradazione in genere veniva ricondotta al carattere di
autoritatività , che determinerebbe l’estinzione del diritto soggettivo e quindi la
sua trasformazione in interesse legittimo.
La teoria della degradazione non è però accettabile. Nel corso di una procedura
espropriativa, il proprietario del bene rimane titolare di un diritto reale fino al
decreto di esproprio: tale decreto determina l’acquisto del bene in capo al
soggetto espropriante e perciò l’estinzione del diritto di proprietà del cittadino.
Nei confronti del potere espropriativo il proprietario è però titolare di un
interesse legittimo, conformemente ai principi generali e senza immaginare
alcuna degradazione. L’Amministrazione esercita un potere in senso proprio e
l’interesse legittimo sorge con l’esercizio del potere e non prima del decreto di
esproprio. Che non vi sia una trasformazione del diritto soggettivo in interesse
legittimo è dimostrato dal fatto che coesistono insieme: l’interesse legittimo
rispetto al potere espropriativo e il diritto soggettivo ad ogni altro effetto.
8.Interessi legittimi e risarcimento del danno
Nella discussione sul rapporto fra interesse legittimo e diritto soggettivo ha avuto
particolare rilievo la questione del risarcimento dei danni cagionati ad
interessi legittimi: si tratta di danni provocati da provvedimenti amministrativi o
dal silenzio dell’Amministrazione. Nell’affermare che la lesione di un interesse
legittimo fosse risarcibile, la giurisprudenza era orientata nettamente in senso
negativo perché il diritto al risarcimento presuppone la lesione di un interesse
sostanziale.
a)Fino alla fine degli anni ’90, la giurisprudenza dei giudici civili, ammetteva una
responsabilità civile dell’Amministrazione, solo nel caso di lesione di un diritto
soggettivo, sulla base di una lettura dell’art.2043 c.c. che identificava il
<<danno ingiusto>> passibile di risarcimento, con il danno arrecato a diritti
soggettivi. Di conseguenza, per esempio, la Cassazione negava al cittadino il
risarcimento per i danni provocati da un diniego illegittimo di concessione
edilizia, e ciò anche se il diniego fosse annullato dal giudice amministrativo. Solo
se il provvedimento illegittimo aveva inciso su un diritto soggettivo preesistente,
estinguendolo, allora la conclusione poteva essere diversa. L’annullamento del
provvedimento illegittimo avrebbe ripristinato in via retroattiva il diritto
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soggettivo. Una volta venuto meno il provvedimento, sarebbe risultato che
l’Amministrazione aveva ingiustamente conculcato il diritto soggettivo; la lesione
a questo punto sarebbe stata riferibile a un diritto e avrebbe potuto essere
risarcita. Applicando questo schema, il risarcimento del danno causato da
provvedimenti amministrativi sarebbe stato possibile solo se la posizione del
cittadino fosse stata un diritto soggettivo “fin dall’origine”. Inoltre, per il
risarcimento sarebbe stato sempre necessario l’annullamento del provvedimento
lesivo: solo l’annullamento poteva “ripristinare” il diritto soggettivo su cui aveva
precedentemente inciso il provvedimento. Una volta verificatesi tutte queste
condizioni, il risarcimento sarebbe spettato, senza la necessità di verifiche
concernenti l’elemento soggettivo della condotta lesiva.
La giurisprudenza non delineava solo una disciplina del risarcimento dei danni
cagionati da provvedimenti amministrativi, ma ricavava da questa disciplina
anche una regola pratica sul rapporto fra le giurisdizioni. Risultava necessario
prima esperire l’azione di annullamento davanti al giudice amministrativo; solo
successivamente, si poteva esperire l’azione civile per i danni.
b)La posizione della giurisprudenza era quindi negativa rispetto alla risarcibilità
degli interessi legittimi; era ammesso in genere solo per la lesione di un diritto
soggettivo. Questa posizione fu abbandonata dalla Cassazione, solo con la
sentenza delle Sezioni Unite 22 luglio 1999, n.500. Gli argomenti invocati per il
mutamento di indirizzo furono, innanzi tutto, di diritto sostanziale e
riguardarono l’interpretazione complessiva della responsabilità aquiliana
nell’art.2043 c.c. La Cassazione affermò che tale articolo non integrava le
disposizioni sulla tutela dei diritti soggettivi, ma aveva una propria autonomia,
perché assicurava la ripartizione del danno ingiustamente subito da un soggetto
a causa del comportamento di un altro soggetto. Nel suo intervento la
Cassazione riconosceva espressamente la natura sostanziale dell’interesse
legittimo e nello stesso tempo, però, sottolineava la specificità dell’interesse
legittimo, rispetto al diritto soggettivo, rilevando che per il risarcimento, non era
necessaria anche una lesione <<al bene della vita>> correlato all’interesse ed
inteso come “utilità finale”. In concreto l’interesse legittimo riguarda una
posizione di vantaggio che il cittadino intende conservare nei confronti
dell’Amministrazione che esercita il suo potere, il danno risarcibile si identifica
col sacrificio della posizione di vantaggio (bene della vita) ad opera del
provvedimento illegittimo. Questo è il caso dei c.d. interessi oppositivi, ossia
interessi legittimi che ineriscono alla conservazione di un bene o di altra
31
posizione di vantaggio attuale. Invece se l’interesse legittimo inerisce alla
pretesa del cittadino di ottenere un provvedimento favorevole che gli attribuisca
un bene o una posizione di vantaggio (c.d. interesse pretensivo), un danno
risarcibile si configura solo se la pretesa del cittadino, sarebbe destinata ad
ottenere un esito positivo.
In questo quadro viene meno la necessità di subordinare l’azione per i danni al
previo annullamento del provvedimento amministrativo. Tale necessità si
ricavava dall’esigenza di ripristinare la posizione originaria di diritto soggettivo,
estinta dal provvedimento amministrativo: solo il diritto soggettivo, infatti,
poteva essere risarcito. Ma nel momento in cui si riconosce la risarcibilità
dell’interesse legittimo, viene meno anche la necessità dell’annullamento del
provvedimento lesivo: secondo le Sezioni unite, per il risarcimento dei danni era
richiesto l’accertamento della illegittimità del provvedimento, non più il suo
annullamento. La Cassazione sostenne che per il risarcimento degli interessi
legittimi era essenziale la dimostrazione della imputabilità dell’illecito
all’Amministrazione a titolo di colpa o di dolo. La tesi precedente, che risolveva la
colpa nell’illegittimità dell’atto amministrativo, si riferiva al caso di lesione di
diritti soggettivi; invece, per la lesione di interessi legittimi, resterebbe ferma la
regola generale del codice civile, che comporta la necessità di una verifica
puntuale dell’elemento soggettivo.
Alla pronuncia della Cassazione del 1999 fecero seguito le disposizioni che
estesero la giurisdizione amministrativa alle vertenze risarcitorie (art.7, legge
n.205/2000). I giudici amministrativi hanno confermato in pieno il principio della
risarcibilità, nello stesso tempo però, hanno espresso indirizzi diversi sul modello
di responsabilità da applicare. Hanno messo in discussione le tesi della
Cassazione sul rapporto fra annullamento dell’atto e tutela risarcitoria,
sostenendo in genere che il risarcimento presuppone l’annullamento dell’atto
lesivo.
Sulla necessità di identificare una lesione al bene della vita sono emerse
posizioni nuove; alcuni giudici amministrativi hanno ammesso il risarcimento
anche nel caso di ritardo nell’emanazione del provvedimento favorevole
spettante al cittadino, o nel caso in cui l’illegittima esclusione del procedimento
avesse pregiudicato la possibilità di un esito favorevole, probabile ma non certo.
Questa conclusione è stata criticata dal Consiglio di Stato, che ha sostenuto che
quando non spetta un provvedimento favorevole, non è neppure configurabile
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una lesione a un “bene della vita” e senza una lesione al “bene della vita” non vi
sarebbe spazio per un risarcimento.
9. Interessi legittimi e interessi semplici
Dalle posizioni soggettive garantite nel nostro ordinamento, rimangono estranei i
c.d. interessi semplici. Essi corrispondono agli interessi che non assurgono né
al livello dei diritti soggettivi, né al livello degli interessi legittimi. Sono interessi
semplici, ad esempio, gli interessi dei cittadini che non risultano “differenziati”.
La loro distinzione dagli interessi legittimi, comporta l’esclusione di una loro
tutela giurisdizionale. La tutela degli interessi semplici è prevista solo in casi
eccezionali, da disposizioni che hanno una portata tassativa. La gravità di questo
aspetto ha suscitato un dibattito molto ampio, che ha condotto ad estrapolare,
dall’ambito degli interessi semplici, alcune tipologie particolari. La discussione ha
riguardato gli interessi c.d. collettivi o di categoria, con riferimento alla
possibilità che essi possano configurarsi come interessi legittimi delle
associazioni o degli altri enti che rappresentano la collettività o la categoria. Nel
caso dell’interesse di categoria l’associazione farebbe valere infatti un interesse
che non sarebbe direttamente proprio, ma che sarebbe piuttosto degli associati e
di riflesso coinvolgerebbe l’associazione. La giurisprudenza amministrativa ha
riconosciuto in capo a queste associazioni la titolarità dell’interesse di categoria,
consentendo ad esse di farlo valere come un proprio interesse legittimo. La
discussione più accesa ha riguardato, però, gli interessi diffusi, che
corrispondono all’interesse generale dei cittadini a certi beni comuni, come
l’ambiente , etc. Oggi, alcune disposizioni speciali ammettono la tutela di
determinati interessi diffusi, demandandola però, non al singolo, ma a particolari
associazioni. Determinate associazioni, pur non essendo titolari di un interesse
legittimo, hanno ottenuto una particolare legittimazione a ricorrere, sia nel caso
degli interessi collettivi che nel caso degli interessi diffusi. Nel caso degli
interessi collettivi, la legittimazione è riconosciuta all’associazione ma si cumula
con quella del singolo cittadino interessato, nel caso dell’interesse diffuso la
legittimazione dell’associazione non è fungibile con quella del cittadino, perché
l’interesse diffuso non può essere fatto valere in quanto tale in sede
giurisdizionale dal singolo.
In molti casi, l’insieme dei cittadini interessati è di tale estensione che, pur
essendo riconoscibile, finisce con l’identificarsi con la generalità dei cittadini
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( emblematica è la disciplina della tutela dei consumatori e degli utenti, legge 30
luglio 1998, n.28).
Nel nostro ordinamento, la tutela degli interessi legittimi è assicurata, anche da
disposizioni costituzionali, con riferimento ai vizi di legittimità e solo raramente
è ammessa con riferimento ai vizi di merito. Nelle ipotesi in cui non sia prevista
una tutela in sede giurisdizionale o in via amministrativa per i vizi di merito, non
si può affermare che il cittadino, rispetto ai vizi di merito, sia carente di interesse
legittimo: è titolare di un interesse legittimo che però è privo di una tutela
rispetto a quei vizi.
Capitolo 5
I PRINCIPI COSTITUZIONALI SULLA TUTELA GIURISDIZIONALE DEL
CITTADINO NEI CONFRONTI DELLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE
1. Quadro generale
La tutela del cittadino nei confronti dell’Amministrazione rappresenta un profilo
nodale per definire la posizione del cittadino rispetto ai pubblici poteri. Non deve
quindi stupire che questa tutela abbia ricevuto, nel nostro e in altri Paesi, una
sanzione costituzionale. Nel caso della Costituzione italiana, i principi sulla tutela
nei confronti dell’Amministrazione hanno inciso in profondità sulla giustizia
amministrativa, perché hanno imposto trasformazioni significative. A giudizio di
molti, una incidenza di pari livello dovrebbe essere riconosciuta anche alle
disposizioni dei Trattamenti comunitari e delle altre norme comunitarie. I
rapporti fra le Amministrazioni e i cittadini sono stati al centro di molti interventi
comunitari che hanno avuto riflessi anche sulla tutela giurisdizionale.
Con riferimento agli istituti processuali, va segnalata l’esistenza di un’ampia
giurisprudenza della Corte di giustizia sulle misure cautelari nei confronti degli
atti amministrativi. La preoccupazione principale della Corte pare, soprattutto,
quella di assicurare che le modalità di tutela giurisdizionale negli ordinamenti
nazionali, siano adeguate all’esigenza di salvaguardare gli interessi della
Comunità europea. Per capire quali siano i caratteri fondamentali del diritto del
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cittadino alla tutela giurisdizionale nei confronti dell’Amministrazione,
l’attenzione principale deve essere diretta sempre alla Costituzione.
La Costituzione repubblicana intende indirizzare verso un’Amministrazione,
ispirata ai principi democratici e caratterizzata dal superamento della
tradizionale contrapposizione ed estraneità del cittadino, rispetto
all’Amministrazione. Le principali disposizioni costituzionali, in questo ambito,
possono essere distinte in disposizioni “sul giudice”, e in particolare sui giudici
speciali, in “disposizioni sull’azione” e disposizioni sull’assetto della giurisdizione
amministrativa.
2. I principi sul giudice
La Costituzione considera come valori essenziali: l’indipendenza, l’imparzialità e
la terzietà del giudice. L’imparzialità e la terzietà del giudice sono considerate
dall’art.111, 2° c., Cost. e ineriscono direttamente all’esercizio della
giurisdizione. Il giudice deve decidere senza essere condizionato dalle parti
(imparzialità) e restando in una situazione di indifferenza ed equidistanza,
rispetto agli interessi di cui esse siano portatrici (terzietà). Si tratta di principi che
costituiscono uno dei nuclei del c.d. giusto processo (art. 111 Cost.).
L’imparzialità e la terzietà vanno assicurate, rispetto all’organo giurisdizionale
nella sua interezza e rispetto ad ogni singolo componente dell’organo
giurisdizionale, che deve essere del tutto indifferente sul piano personale,
rispetto alla vertenza su cui è tenuto a pronunciarsi.
L’indipendenza del giudice, invece, inerisce alla relazione dell’organo
giurisdizionale con soggetti estranei al rapporto processuale, che potrebbero
influire sulle decisioni: si tratta del Governo e del potere politico in generale.
L’indipendenza da questi poteri rappresenta una sorta di condizione preliminare,
di rilevanza “ordinamentale”, che precede tutte le altre ed è essenziale per
l’esercizio della funzione giurisdizionale.
Nella Carta costituzionale riceve particolare considerazione l’indipendenza del
giudice ordinario, ma, questa caratteristica è essenziale per l’esercizio di ogni
funzione giurisdizionale e vale, pertanto, anche per il giudice amministrativo e
per gli altri giudici speciali. Il principio costituzionale dell’indipendenza del
giudice ha avuto un ruolo fondamentale nell’assetto della giustizia
amministrativa, determinando la soppressione di quasi tutte le giurisdizioni
amministrative speciali, diverse dal Consiglio di Stato e dalla Corte dei conti.
La VI disposizione transitoria e finale della Costituzione prevedeva la
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<<revisione>> di queste giurisdizioni speciali, da effettuarsi entro cinque anni: il
termine, però, fu ritenuto non perentorio, ed esse continuarono ad operare
immutate. Verso la fine degli anni ’60 furono sollevate questioni di legittimità
costituzionale delle disposizioni su questi organi giurisdizionali, in riferimento al
principio di indipendenza del giudice speciale, sancito dagli artt. 101 e 108 Cost.
Furono dichiarate illegittime le disposizioni sulla composizione dei Consigli di
Prefettura, della Giunta amministrativa provinciale e delle Sezioni per il
contenzioso elettorale.
I giudici amministrativi non sono soggetti al Consiglio superiore della
magistratura, che è organo di autogoverno dei soli magistrati ordinari. Presso il
Consiglio di Stato è istituito un apposito organo di autogoverno dei giudici
amministrativi, il Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa, le cui
competenze sono state definite dalla legge 27 aprile 1982, n. 186. La legge 21
luglio 2000, n. 205 ha stabilito che, del Consiglio di presidenza facciano parte,
oltre al presidente del consiglio di Stato ed altri giudici amministrativi, designati
dal Consiglio di Stato e dai TAR, anche alcuni cittadini scelti dalle Camere.
3. I principi sull’azione: l’art. 24, 1° e 2° comma, e l’art. 111, 2° comma,
Cost.
L’art. 24, 1° comma, Cost(leggere articolo). garantisce il diritto d’azione,
configurando tale diritto, sia con riferimento alla tutela di diritti soggettivi, che
con riferimento alla tutela di diritti soggettivi, che con riferimento alla tutela di
interessi legittimi. Questa garanzia è estesa e precisata nel 2° comma rispetto al
diritto di difesa. In tal modo, la norma costituzionale ha operato un importante
riconoscimento della rilevanza istituzionale della tutela degli interessi legittimi,
che acquista piena dignità rispetto alla tutela “necessaria” dei diritti soggettivi.
Nello stesso tempo, la norma costituzionale ha posto una serie di vincoli e di
problemi. In particolare: a) è di rango costituzionale il principio secondo cui la
tutela giurisdizionale nei confronti dell’Amministrazione è articolata in tutela dei
diritti soggettivi e in tutela degli interessi legittimi; b) la collocazione dei diritti
soggettivi e degli interessi legittimi ha fatto sorgere la convinzione che la
Costituzione sancisse una certa interpretazione dell’interesse legittimo, da
intendersi come posizione qualificata di carattere sostanziale. Di conseguenza
l’interesse legittimo assurgerebbe al rango di interesse individuale del cittadino,
che lo fa valere. In realtà non sembra che da una posizione costituzionale, come
l’art. 24, 1° c. Cost. si possano desumere argomenti specifici a favore
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dell’interpretazione sostanziale dell’interesse legittimo. La norma afferma il
principio della completezza della tutela e non la natura dell’interesse legittimo.
L’art. 24 Cost., norma-guida per l’assetto della giustizia amministrativa, è stata
la ragione par alcuni interventi significativi della Corte costituzionale, anche, su
singoli atti ( della stessa giust. amm.). Tali interventi sono raggruppabili, in
considerazione di alcune questioni generali, di seguito elencate:
1) rilevanza del principio di effettività della tutela giurisdizionale
rispetto alla tutela cautelare. La garanzia del diritto comporta la possibilità di
chiedere al giudice amministrativo misure cautelari, per evitare che la durata del
giudizio produca un danno irreparabile all’interesse del ricorrente.
Nel caso del procedimento amministrativo, la Corte costituzionale ha sempre
valutato con rigore gli interventi del legislatore che limitavano la possibilità di
una tutela cautelare, affermando la sua netta preferenza per una interpretazione
della legge, che fosse compatibile con la permanenza della tutela cautelare. Alla
stregua di queste pronunce, le ragioni della tutela cautelare non possono
ritenersi assorbite dalla previsione di riti accelerati per la definizione del giudizio.
Principi analoghi sono stati affermati dalla Corte costituzionale anche per il
giudizio civile, quando venga impugnato un atto amministrativo. Non si deve
ritenere, però, che il principio della effettività della tutela giurisdizionale comporti
la necessità per il legislatore di adottare le medesime soluzioni nel processo
civile e nel processo amministrativo(nel potere amministrativo non è ammessa
una tutela cautelare prima del giudizio, nel processo civile si). La Corte
costituzionale ha ritenuto che l’esclusione di una tutela cautelare “ante causam”
non sia illegittima, perché la disciplina vigente assicura comunque, nel processo
amministrativo, una tutela cautelare sufficientemente tempestiva.
2) rilevanza del principio della effettività della tutela giurisdizionale nel
giudizio in materia di pubblico impiego. In questa materia la Corte
costituzionale ha considerato l’esigenza di assicurare per i pubblici dipendenti
una tutela equipollente a quella ammessa, in situazioni analoghe, ai dipendenti
con rapporto di lavoro privato. Già negli anni ’80, la progressiva assimilazione fra
i due ordini di rapporti, aveva reso poco giustificabile, la diversità di trattamento
sul piano dei contenuti della tutela processuale. Di conseguenza le pronunce
della Corte hanno preso in considerazione, anche l’art. 3 Cost., in riferimento al
principio di eguaglianza e al principio di ragionevolezza.
3) rilevanza giuridica del principio della effettività della tutela
giurisdizionale e limiti alla c.d. giurisdizione condizionata. Con il termine
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“giurisdizione condizionata” si intende l’accesso alla tutela giurisdizionale che
risulti subordinata al previo esperimento di un ricorso in via amministrativa. In
questi casi, poiché l’azione giurisdizionale è ammessa solo dopo la presentazione
del ricorso amministrativo, risulta impossibile adire immediatamente il giudice.
La questione della ammissibilità della giurisdizione condizionata ha, pertanto,
due risvolti: il primo attiene alla subordinazione dell’azione giurisdizionale ad un
adempimento estraneo al processo, come è il ricorso amministrativo, e il
secondo attiene alla esclusione della immediatezza della tutela giurisdizionale.
La prima giurisprudenza della Corte affermò che la garanzia costituzionale
avrebbe riguardato la “indefettibilità” dell’azione giurisdizionale e non la sua
immediatezza. Inoltre, l’illegittimità era configurata solo quando
l’assoggettamento del ricorso amministrativo, a termini brevi di decadenza,
risultasse incompatibile con la natura del diritto vantato dal cittadino.
A partire dalla fine degli anni ’80 si è affermato un diverso indirizzo della Corte
costituzionale, che ha considerato con sempre maggiore severità, le disposizioni
che condizionavano l’ammissibilità della tutela giurisdizionale, al previo
esperimento di un ricorso amministrativo: nelle pronunce più recenti sulla
giurisdizione condizionata, la Corte sembra considerarla incompatibile con
l’art.24 Cost. La Corte, inoltre, non ha ritenuto illegittime le disposizioni che
richiedono l’esperimento di forme di tutela non giurisdizionale, a pena di mera
improcedibilità dell’azione giurisdizionale.
Si tenga presente che, nei casi in cui sia prescritta la presentazione di un ricorso
amministrativo, a pena di improcedibilità e non di ammissibilità dell’azione
giurisdizionale, la necessità di presentare il ricorso amministrativo non
condiziona l’esercizio del diritto di azione, perchè , il suo mancato esperimento
non ne determina la perdita; tuttavia la necessità del ricorso amministrativo
esclude l’immediatezza della tutela giurisdizionale.
4) rilevanza del principio della effettività della tutela giurisdizionale e
subordinazione della tutela dei diritti soggettivi, al previo espletamento
di un procedimento amministrativo.
Nella legislazione sulle espropriazioni per pubblica utilità era previsto che la
pretesa del cittadino all’indennità potesse essere azionata in sede giudiziale, solo
dopo la determinazione dell’indennità, in via amministrativa. Di conseguenza,
fino al momento della determinazione dell’indennità, il proprietario espropriato,
pur essendo titolare di un diritto soggettivo, non avrebbe potuto farlo valere in
giudizio. La Corte costituzionale affermò che queste disposizioni erano
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incompatibili con l’art. 24, c. 1 Cost., sostenendo che, altrimenti, risulterebbe
rimessa <<all’arbitrio della Pubblica amministrazione, l’esperibilità della tutela
giurisdizionale>>.
5) illegittimità dell’arbitrato obbligatorio
Il codice di procedura civile, nel disciplinare la devoluzione ad arbitri di
controversie (art. 806 ss.), non pone limitazioni particolari rispetto alle
controversie con una Pubblica amministrazione.
La legge n. 205/2000, nell’estendere la giurisdizione esclusiva, ha previsto che,
anche le controversie su diritti soggettivi, devolute alla giurisdizione esclusiva,
possano essere risolte mediante arbitrato rituale di diritto (art. 6).
Il c.p.c. prevede che la devoluzione ad arbitri di una controversia richieda un
accordo fra le parti, di natura contrattuale. Alcune leggi speciali, tuttavia, hanno
previsto forme di arbitrato obbligatorie(nel senso che al privato è precluso il
ricorso al giudice ed ammessa una tutela solo davanti al collegio arbitrale), pur in
assenza di un accordo fra le parti. La Corte costituzionale ha ritenuto illegittime
queste disposizioni; l’esclusione della competenza del giudice può trovare
fondamento solo in una scelta compiuta dalle parti. La previsione di arbitrato
obbligatorio risulta in contrasto con l’art. 24 Cost. che garantisce l’accesso alla
tutela giurisdizionale. Inoltre risulta in contrasto con l’art. 102 Cost., che
riservando al giudice ordinario la funzione giurisdizionale, esclude implicitamente
che con una norma possono essergli sottratte vertenze di sua propria
competenza.
6) necessità di ammettere nel processo amministrativo l’istituto
dell’opposizione di terzo
Nel processo civile è contemplato l’istituto dell’opposizione di terzo (ordinaria),
per salvaguardare il terzo a un suo diritto in conseguenza di sentenze
intervenute senza che lui fosse stato posto nelle condizioni di partecipare al
processo ( art. 404 c.pc.) Un procedimento analogo non era previsto invece nel
procedimento amministrativo.
La Corte, nel 1995 ha dichiarato illegittimo l’art. 36, legge TAR, nella parte in cui
contempla l’opposizione di terzo fra i mezzi di impugnazione delle decisioni del
Consiglio di Stato.
Nel 1999, l’art. 111 Cost., veniva modificato, con l’affermazione del principio del
giusto processo. Il nuovo testo, oltre ad esigere la terzietà e l’imparzialità del
giudice, afferma il principio del contraddittorio, secondo cui non può statuire
sulla domanda se la parte, nei cui confronti è stata proposta, non sia stata
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regolarmente evocata in giudizio. In questa prospettiva, il principio del
contraddittorio integra il diritto alla difesa. Di recente, la Corte costituzionale
ne ha fatto applicazione a proposito del giudizio di ottemperanza. Senza
dichiarare l’illegittimità della norma vigente, ha affermato però che essa deve
essere applicata in coerenza con i principi costituzionali: di conseguenza, se il
ricorso per l’ottemperanza non sia stato già notificato dal ricorrente alla parte
resistente, il giudice amministrativo, d’ufficio, deve disporre la comunicazione, in
modo che la parte resistente possa difendersi adeguatamente. Il principio del
contraddittorio è stato invocato anche a favore del ricorrente, come elemento del
diritto d’azione, per sostenere, che il cittadino deve essere posto nelle
condizioni di conoscere con pienezza l’attività amministrativa che intende
contestare in giudizio.
Nel processo amministrativo, il principio del contraddittorio è parso talvolta in
conflitto con l’esigenza di rendere più spedito il giudizio. Per questo motivo, nella
legislazione più recente sono stati introdotti riti speciali : essi dovrebbero
consentire la decisione dei ricorsi in tempi molto stretti, anche prima che siano
scaduti i termini ordinari per lo svolgimento, ad opera delle parti, delle loro
attività di difesa. In particolare, se sia stata proposta un’istanza cautelare, la
decisione potrebbe intervenire prima che le parti abbiano potuto svolgere
attività, come la presentazione del ricorso incidentale da parte del
controinteressato e la presentazione dei motivi dei motivi aggiunti da parte del
ricorrente, che risultano essenziali per una difesa efficace. La Corte ha
riconosciuto l’importanza della celerità nella definizione del giudizio, che oggi è
sancita dall’art. 111 c. 2° Cost. n nel riferimento alla <<ragionevole durata>>.
4. I principi sull’azione: l’art.113 Cost.
L’art. 113 Cost. detta una serie di regole che attengono alla tutela del cittadino
nei confronti della Pubbl.Amm. Queste regole sono espressione del principio
secondo cui, che l’Amministrazione sia parte in causa non può, in alcuna modo,
giustificare limitazioni alla possibilità di tutela giurisdizionale del cittadino,
escludendo qualsiasi forma di privilegio processuale, in favore
dell’Amministrazione.
-L’art. 113, 1° c. Cost. definisce il rapporto fra la garanzia della tutela
giurisdizionale e la posizione della Pubblica Amministrazione. La norma precisa
che la garanzia della tutela giurisdizionale, contro gli atti dell’Amministrazione,
vale sia per i diritti soggettivi che per gli interessi legittimi. La distribuzione della
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giurisdizione fra giudice ordinario e giudice amministrativo deve essere tale da
assicurare la pienezza di tale tutela. La norma costituzionale garantisce
l’indefettibilità della tutela, senza però definire i contenuti. Inoltre, fino a quando
non è stata riconosciuta la possibilità di una tutela risarcitoria, la possibilità di
una tutela risarcitoria per la lesione di interessi legittimi, la tutela impugnatoria
non ammetteva alternative.
-L’art. 113, 2° c. Cost. impedisce di circoscrivere i margini della tutela
giurisdizionale, in relazione alla tipologia degli atti amministrativi impugnati o
alla tipologia dei vizi fatti valere in giudizio.
La norma ha determinato l’abrogazione delle disposizioni precedenti che
limitavano il ricorso al giudice amministrativo, solo ad alcuni dei vizi di
legittimità. La garanzia si estende, però, solo ai vizi di legittimità: rimangono
escluse, da ogni specifica protezione costituzionale, le possibilità di sindacato per
vizi di merito.
-L’art. 113, c. 3° Cost. rinvia alla <<legge>> per l’individuazione dei giudici
competenti ad annullare gli atti amministrativi e dei relativi casi ed effetti.
La norma esclude che nel nostro ordinamento valga una riserva costituzionale a
favore del giudice amministrativo del potere di annulla mento degli atti
amministrativi: non è stato “costituzionalizzato” il principio affermato dall’art. 4
della legge di abolizione del contenzioso amministrativo, sulla preclusione
per il giudice ordinario, di pronunce di annullamento. Di conseguenza non
possono essere ritenute illegittime quelle disposizioni legislative che
conferiscono al giudice ordinario il potere di annullare provvedimenti
amministrativi. D’altra parte la norma, però, esclude implicitamente che il potere
di annullamento degli atti amministrativi debba ritenersi un corollario necessario
di qualsiasi potestà giurisdizionale, nei confronti dell’Amministrazione, ma non è
sempre garantito che tale sindacato debba risolversi sempre in un potere di
annullamento.
L’art. 21-octies della legge n. 241/1990, stabilisce che la violazione di norme sul
procedimento o sulla forma degli atti, non ne comporta l’annullabilità. Stabilisce,
inoltre, che il provvedimento amministrativo non è annullabile per violazione
delle norme sulla comunicazione dell’avvio del procedimento.
5. I principi sull’assetto della giurisdizione amministrativa.
La Costituzione (art. 103, 1°c. ) ha sanzionato la regola del riparto di
giurisdizione fra giudice ordinario e giudice amministrativo, dopo aver
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richiamato il ruolo del Consiglio di Stato e di altri organi di giustizia
amministrativa, quali giudici per la tutela nei confronti della Pubblica
Amministrazione, degli interessi legittimi e, in particolare materie indicate dalla
legge, anche dei diritti soggettivi. L’art. 103, c. 1° , sancisce la distinzione tra
giurisdizione civile e giurisdizione amministrativa e riconosce la possibilità che
quest’ultima sai estesa anche a vertenze con l’amministrazione, in tema di diritti
soggettivi: è la c.d. giurisdizione esclusiva, ammessa in particolari materie
indicate dalla legge.
L’art. 103, 1° c. richiama, inoltre, nella giurisdizione amministrativa, la presenza
di <<altri organi della giustizia amministrativa>>, richiamando, così, l’art. 125
Cost. che include un giudice amministrativo di <<primo grado>>, costituito poi
nei TAR. Il riferimento all’art. 125 Cost. è all’origine della interpretazione secondo
cui il doppio grado di giurisdizione, nel caso del giudice amministrativo,
sarebbe costituzionalizzato.
L’interpretazione dell’art. 125 Cost. sembrò essere accolta dalla Corte cost., ma
successivamente sembra essersi orientata nel senso di una interpretazione più
riduttiva della norma in esame. La Corte cost., nel 1998, ha escluso che l’art. 125
Cost. imponesse il principio del doppio grado: la norma costituzionale
imporrebbe solo di ammettere l’appellabilità della sentenze dei Tar.
Il raccordo tra giurisdizione amministrativa e giurisdizione ordinaria è assicurato
nell’art. 111. c .8°, Cost., dalla previsione che contro le decisioni della Corte dei
Conti e del Consiglio di Stato sia ammesso il ricorso alla Corte di Cassazione.
Capitolo 6
LA GIURISDIZIONE ORDINARIA NEI CONFRONTI DELLA PUBBLICA
AMMINISTRAZIONE
1. I criteri per il riparto fra giurisdizione ordinaria e giurisdizione
amministrativa
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Con la legge Crispi del 1889, la questione dei limiti della giurisdizione civile fu
affrontata per i rapporti fra sindacato giurisdizionale e autorità amministrativa: si
trattava di stabilire quale ambito dell’attività amministrativa fosse immune dal
sindacato giurisdizionale. A questo proposito, ebbe particolare rilievo la tesi della
distinzione tra atti di gestione e atti d’imperio. Questa tesi contrapponeva gli atti
posti in essere dall’Amministrazione, nell’ambito dell’attività di diritto comune,
agli atti posti in essere dall’Amministrazione, nella sua specifica qualità di
soggetto pubblico. Tale tesi fu criticata alla fine del secolo scorso e
successivamente abbandonata.
Dopo la legge del 1889, la previsione di due ordini di giurisdizioni (per la tutela
del cittadino nei confronti dell’Amministrazione) ha indirizzato l’indagine verso la
ricerca di regole certe par il riparto della competenza fra giudice ordinario
e Quarta sezione. Il tema ha una sua dimensione storica, perché la nozione di
“interesse legittimo” ha acquistato una più precisa consistenza, solo in un
momento successivo. La legge del 1889, infatti, non menzionava neppure gli
interessi legittimi, ma parlava genericamente di <<interessi>>.
In discussione, non sono stati però, solo, i criteri per definire l’interesse legittimo,
ma la discussione ha riguardato anche il piano della tutela processuale:
a) le origini del dibattito vengono ricondotte, tradizionalmente, ad una sentenza
della Cassazione del 1891 e ai successivi interventi di parte della dottrina, dalla
quale fu prospettato il c.d. criterio del petitum. In base alla elaborazione di
questo criterio, il dato peculiare della giurisdizione amministrativa era
rappresentato dal potere di annullamento degli atti impugnati: nel caso di un
provvedimento lesivo di un diritto soggettivo, si doveva ammettere la possibilità
per il cittadino di ricorrere avanti al giudice amministrativo, per ottenere
l’annullamento dell’atto.
Il criterio in esame comportava la possibilità per il cittadino di far valere come
<<interessi>> i diritti soggettivi. Una volta respinte, anche in seguito alla legge
del 1907, le proposte di fondare la giurisdizione amministrativa sul potere di
annullamento, il criterio in esame fu definitivamente abbandonato dalla
giurisprudenza, a partire dagli anni ’30. Le critiche formulate nei suoi confronti
sono state principalmente di due ordini: in primo luogo è stato rilevato che
interessi legittimi e diritti soggettivi sono posizioni distinte “qualitativamente”, in
secondo luogo la tesi del petitum finiva con l’aprire la strada ad una doppia
tutela, a scelta del ricorrente, avanti a ciascuno dei due giudici.
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Oggi, l’espressione “doppia tutela” viene richiamata per indicare alcune ipotesi
particolari, in cui, il cittadino, in una stessa situazione materiale, può agire
davanti al giudice ordinario per far valere un proprio diritto, oppure davanti al
giudice amministrativo per far valere un proprio interesse legittimo (esempio
delle vertenze in materia edilizia).
b) Il rigetto della tesi del petitum induce a valorizzare l’elemento della causa
pretendi : la controversia è del giudice amministrativo, se è fatto valere un
interesse legittimo; invece, è di competenza del giudice ordinario, se è fatto
valere un diritto soggettivo. A questo proposito costituisce un termine di
confronto la c.d. teoria della prospettazione, secondo la quale si deve
attribuire rilievo decisivo alla prospettazione della posizione giuridica soggettiva.
Se l’attore allega di essere titolare di un interesse legittimo, la tutela spetta al
giudice amministrativo, se, invece, si presenta come titolare di un diritto
soggettivo, è competente il giudice ordinario. La Cassazione ha respinto la tesi
della prospettazione, fin dal 1897.
c) La tesi accolta dalla Cassazione è stata designata come tesi del “petitum
sostanziale” : ciò che rileva è l’effettiva natura della posizione giuridica e la sua
oggettiva qualificazione come diritto soggettivo o interesse legittimo. Questa
conclusione pone, però, ulteriori problemi. In primo luogo, la valutazione sulla
sussistenza della giurisdizione si presenta come preliminare, rispetto alla
decisione sul merito, quindi, tale giudizio presenta una certa astrattezza. In
secondo luogo, l’insussistenza di una posizione di diritto soggettivo comporta,
per il giudice ordinario che sia stato adito, una pronuncia di rigetto della
domanda per infondatezza. Il giudice amministrativo, invece, è solito dichiarare
inammissibile il ricorso e non respingerlo perché infondato. Evidentemente,
dunque, non si è formato un orientamento unitario dei due ordini di giudici, in
merito alla verifica e alla rilevanza della giurisdizione.
2. Il riparto della giurisdizione nelle vertenze risarcitorie per danni a
interessi legittimi
Si è già accennato, come la Corte di Cassazione, con la sentenza della sezioni
unite n.500/1999, avesse finalmente ammesso la risarcibilità dei danni a
interessi legittimi. Poco tempo dopo, la legge n. 205/2000 (art. 7), assegnava
al giudice amministrativo la vertenze per il risarcimento dei danni nel caso di
lesione di interessi legittimi. Le vertenze per il risarcimento dei danni hanno per
oggetto un diritto soggettivo ( il diritto al risarcimento). Di conseguenza, la loro
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assegnazione al giudice amministrativo comporta uno spostamento nella
giurisdizione, rispetto al criterio generale fondato sulla distinzione di situazioni
soggettive.
Nei casi di giurisdizione esclusiva, la competenza del giudice si estende a tutte le
vertenze risarcitorie per la lesione di interessi legittimi. Dubbi, invece, sono sorti
per altri casi; è stato, perciò, sostenuto che, nei casi in cui la domanda
risarcitoria prescinda dall’impugnazione dell’atto lesivo e il diritto al risarcimento
del danno non abbia carattere <<consequenziale>>, dovrebbe ammettersi
ancora la giurisdizione del giudice ordinario. La giurisprudenza amministrativa si
è espressa, invece, nel senso che tutte le vertenze risarcitorie per lesione ad
interessi legittimi spetterebbero oggi al giudice amministrativo.
Secondo la Corte cost., l’assegnazione al giudice amministrativo delle vertenze
risarcitorie non violerebbe l’art. 103 Cost., sul riparto di giurisdizione, ed inoltre,
la tutela risarcitoria costituirebbe una modalità della tutela giurisdizionale, nei
confronti della Pubblica amministrazione.
2. I limiti interni della giurisdizione ordinaria nel processo di
cognizione.
Il tema dei limiti interni della giurisdizione ordinaria coinvolge l’interpretazione
dell’art. 4 della legge di abolizione del contenzioso amministrativo. Ciò vale,
perché, il divieto di revocare o modificare <<l’atto amministrativo>> è stato
interpretato come impossibilità per il giudice di assumere qualsiasi decisione,
che potesse avere un’incidenza effettiva sull’attività amministrativa. La nozione
di “atto amministrativo” costituisce la linea discriminante per i poteri del giudice
ordinario nei confronti dell’Amministrazione (in base all’art. 4 della legge di
abolizione del contenzioso amministrativo). Una prima interpretazione portava
ad identificare tale nozione con qualsiasi atto dell’Amministrazione posto in
essere nell’interesse pubblico. Questa interpretazione, accolta con favore
dalla Cassazione, comporta una netta riduzione dei poteri del giudice ordinario,
in funzione dell’esigenza di garantire l’interesse pubblico.
Dopo l’entrata in vigore della Costituzione, la tesi esposta poc’anzi non ha più
alcuna ragion d’essere. Oggetto di protezione può essere solo ciò che, in base
alla legge, è soggetto di regime differenziato. La garanzia può riguardare solo
l’atto amministrativo, come espressione del “potere”
dell’Amministrazione; pertanto, là dove l’Amministrazione non esercita
un potere conferitole dalla legge, non si può ammettere alcuna
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limitazione ai poteri del giudice. La garanzia dell’atto amministrativo trova la
sua ragion d’essere e la definizione del suo ambito, nel principio di legalità.
Analogamente, l’atto che, per un grave vizio, risulti inefficace non può essere
considerato espressione di un potere dell’Amministrazione. Pertanto, il
provvedimento che sia “nullo” non comporta alcun limite a carico del giudice
ordinario.
Il limite interno della giurisdizione civile va circoscritto a tutto ciò che non
costituisca espressione di un potere pubblico.
La questione dei limiti interni della giurisdizione civile è stata affrontata,
soprattutto, con riferimento alle tipologie di sentenze che il giudice ordinario può
emettere nei confronti dell’amministrazione. Si sostiene che, anche nelle
vertenze su rapporti di diritto privato, l’art. 4 (della legge di abolizione del
contenzioso) vieterebbe, al giudice ordinario, non solo di incidere direttamente
su atti amministrativi, o di condannare l’Amministrazione a <<revocare o
modificare>> propri atti, ma anche di emettere sentenze, per la cui esecuzione,
l’Amministrazione fosse tenuta a svolgere un’attività amministrativa. In questa
logica, le uniche sentenze compatibili con l’art. 4 cit. sembravano essere le
sentenze di mero accertamento e le sentenze di condanna al
pagamento di somme di denaro. Le prime erano ammesse perché il loro
carattere dichiarativo escludeva che potessero avere un’efficacia esecutiva; le
sentenze di condanna al pagamento di somme di denaro, invece, perché, si
traducono in un “dare” tipicamente “fungibile” e perché, altrimenti sarebbe stata
esclusa qualsiasi garanzia per il cittadino.
Le altre sentenze di condanna comporterebbero gradi più limitati di fungibilità
fra funzione amministrativa e attività del giudice, perché la loro esecuzione
richiederebbe un esercizio da parte dell’Amministrazione di un’attività
amministrativa qualificata.
In conclusione, il principio affermato dall’art. 4 della legge del 1865 sancirebbe la
distinzione fra attività giurisdizionale e attività amministrativa: ciò che è
configurato come attività specifica dell’Amministrazione non può essere oggetto
di interferenze del giudice, anche se il rapporto dedotto in giudizio inerisce al
diritto.
Il confronto di questa interpretazione con i principi costituzionali ha imposto di
ricercare ben altri limiti per i poteri del giudice ordinario nei confronti
dell’Amministrazione.
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Questa conclusione risulta particolarmente chiara rispetto all’attività di diritto
privato dell’Amministrazione ( con riferimento, ad esempio, alle controversie fra
i dipendenti dell’Amministrazione, con rapporto “contrattuale” o “privatizzato” e
l’ente pubblico datore di lavoro).
Non si può, quindi, ammettere più una preclusione generale, per il giudice
ordinario, a pronunciare sentenze costitutive o di condanna nei confronti
dell’Amministrazione. Il giudice, quand’anche il cittadino avesse un diritto
soggettivo all’emanazione di un provvedimento, non potrebbe condannare
l’Amministrazione ad emettere il provvedimento richiesto e potrebbe solo
emettere sentenza di condanna al risarcimento dei danni. Per il resto, il giudice
può pronunciare qualsiasi tipo di sentenza nei confronti dell’Amministrazione e
può assumere ogni altra decisione prevista dalla legge, purché coerente con il
diritto fatto valere in giudizio.
L’affermazione di questa logica è avvenuta con difficoltà e riserve ad opera della
giurisprudenza. In particolare, fino a tempi recenti è stato escluso che il giudice
ordinario potesse emettere sentenze costitutive, ai sensi dell’art. 2932
c.c., nei confronti dell’Amministrazione, che non desse esecuzione a un
contratto preliminare. Si rilevava che la stipulazione di un contratto definitivo
comporterebbe sempre, per l’Amministrazione, la necessità di svolgere un
procedimento amministrativo, e che il giudice non poteva sostituirsi
all’Amministrazione, rispetto ad esso. Solo di recente, la Cassazione ha mutato
indirizzo, argomentando sulla base della considerazione che: ogni profilo di
discrezionalità amministrativa, dovrebbe ritenersi esaurito con il contratto
preliminare e che, concludendo tale contratto, l’Amministrazione avrebbe sancito
il proprio pieno assoggettamento al diritto comune.
Ugualmente emblematica è l’evoluzione della giurisprudenza civile in tema di
azioni cautelari o possessorie nei confronti dell’Amministrazione.
Originariamente si tendeva ad escludere qualsiasi possibilità di esperire tali
azioni nei confronti dell’Amministrazione. Oggi, invece, si sottolinea come
l’intervento del giudice sia precluso solo quando si richieda un provvedimento
d’urgenza che incida direttamente su un provvedimento amministrativo o sulla
sua esecuzione.
3. La disapplicazione degli atti amministrativi
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Al giudice ordinario, la legge di abolizione del contenzioso amministrativo
assegnò la capacità di procedere alla c.d. disapplicazione. Con l’art. 5 di
questa legge sono stati posti solo alcuni punti fermi:
* la disapplicazione presuppone l’esistenza di una controversia inerente a
un diritto soggettivo
* la valutazione degli atti amministrativi e dei regolamenti, ai fini della loro
disapplicazione, concerne solo la legittimità e non l’opportunità degli stessi
* attraverso la disapplicazione, il giudice può sindacare la legittimità dell’atto
amministrativo anche d’ufficio, per il solo fatto che l’atto è un elemento
rilevante per la decisione, e senza essere vincolato all’osservanza di alcun
termine particolare.
Così configurata, la disapplicazione si delinea come elemento di un modello di
tutela alternativo, rispetto all’impugnazione del provvedimento.
L’istituto della disapplicazione è stato utilizzato in due ipotesi: nel caso di una
pretesa di un privato verso l’Amministrazione, che si fondi su un atto
amministrativo, e nella controversia tra privati, in cui sia rilevante un titolo
rappresentato da un atto amministrativo.La disapplicazione presuppone che
l’atto amministrativo sia rilevante per la decisione e quindi sia produttivo di
effetti da disapplicare perciò non ha senso parlare di disapplicazione rispetto ad
un atto amministrativo inefficace.Di disapplicazione, ai sensi dell’art. 5, si può
trattare quando il giudizio verta su un rapporto giuridici determinato o
condizionato da un provvedimento amministrativo: la disapplicazione si riferisce
agli effetti prodotti dall’atto amministrativo e inerenti al rapporto dedotto in
giudizio. Invece, non è corretto invocare la disapplicazione nel caso di un atto
amministrativo “nullo”. Inoltre non è corretto invocare la disapplicazione, quando
un atto amministrativo rilevi come mera circostanza di fatto.
4. Il giudice ordinario e i procedimenti speciali nei confronti
dell’Amministrazione
Le regole desumibili dagli artt. 4 e 5 della legge di abolizione del contenzioso
amministrativo hanno una portata generale. Si tende ad escludere, oggi, che
l’art. 4 possa precludere al giudice ordinario di condannare l’Amministrazione a
un facere specifico o ad un pati , anche con incidenza diretta sull’attuazione di
provvedimenti amministrativi, quando ciò sia richiesto dalla tutela di un diritto
perfetto. In alcuni casi, il legislatore ha disciplinato alcuni giudizi sulla base di un
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assetto diverso dei limiti “interni” della giurisdizione ordinaria nei confronti
dell’Amministrazione.
-La tutela giurisdizionale del cittadino nei confronti dei provvedimenti con cui
siano state applicate sanzioni amministrative pecuniarie, spetta per legge al
giudice ordinario.
In materia di sanzioni amministrative il cittadino può ricorrere, proponendo
opposizione contro l’ordinanza-ingiunzione, mentre, prima dell’emanazione del
provvedimento sanzionatorio è ammessa, solo, una tutela in via amministrativa,
con la presentazione di difese e documenti (nel procedimento sanzionatorio).
La peculiarità di questo modello si giustifica con la logica della depenalizzazione
e l’esigenza di assicurare una tutela giurisdizionale piena. Fatto sta che
l’opposizione a sanzione amministrativa introduce un giudizio di tipo
impugnatorio, imperniato sulla contestazione di un atto dell’Amministrazione.
- Per gli accertamenti e trattamenti sanitari obbligatori, in condizioni di degenza
ospedaliera, l’art. 35 della legge n. 833/1978, prevede che il Sindaco disponga
l’effettuazione del trattamento; il provvedimento del Sindaco è immediatamente
efficace, ma deve essere convalidato dal giudice tutelare, entro un termine
perentorio molto breve. Nei confronti del provvedimento convalidato, il cittadino
interessato può ricorrere al Tribunale civile. La tutela spetta al giudice ordinario,
perché, in giudizio vi sono diritti primari di libertà.
-Nei confronti dei provvedimenti del Prefetto di espulsione de straniero, la legge
30 luglio 2002, n. 189, prevede che la tutela vada esperita avanti al giudice
ordinario: il ricorso va proposto entro 60 gg. al Tribunale civile ( oggi al giudice di
pace). Tuttavia, il quadro complessivo non appare omogeneo, perché, nell’ipotesi
di espulsione dello straniero, disposta dal Ministro dell’interno, per motivi di
ordina pubblico o di sicurezza dello Stato, il ricorso va proposto avanti al TAR.
Nel 2004, in seguito alla pronuncia della Corte cost. è stato disposto che
l’esecuzione del provvedimento di accompagnamento dello straniero alla
frontiera (in passato eseguibile a seguito di convalida del Tribunale) è sospesa
fino all’esito del giudizio di convalida ( in genere di competenza del giudice di
pace).
-La decisione del Garante, su un ricorso proposto a tutela dei diritti di privacy,
può essere impugnata dagli interessati, entro 30 gg. dalla comunicazione,
davanti al Tribunale civile. Il giudizio si svolge con il rito previsto per i
procedimenti in Camera di consiglio ed il Tribunale provvede con decreto,
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ricorribile solo per Cassazione, disponendo ogni misura necessaria per la tutela
dei diritti del cittadino.
6. Le disposizioni processuali particolari per il giudizio in cui sia parte
un’Amministrazione statale.
La circostanza che parte in giudizio sia una Pubblica Amministrazione non
comporta alcuna variazione delle regole del diritto comune. Unica variazione di
rilievo è quella determinata dalla disciplina dell’Avvocatura dello Stato, nel
caso di giudizi in cui sia parte una Amministrazione statale. L’Avvocatura dello
Stato rappresenta e assiste l’Amministrazione statale, in forza della legge, senza
la necessità di uno specifico mandato ( può compiere, cioè, gli atti processuali
per l’Amministrazione statale, senza necessità di una procura).
Per i giudizi civili in cui sia parte un’Amministrazione statale, l’art. 25 c. p. c.
assegna la competenza territoriale al giudice del luogo ove ha sede l’Avvocatura
dello Stato (c.d. foro erariale). Nelle cause promosse contro Amministrazioni
statali, gli atti introduttivi del giudizio devono essere notificati
all’Amministrazione statale (Ministero) competente, nella persona del
rispettivo Ministro, presso l’ufficio dell’Avvocatura dello Stato.
7. Il giudice ordinario e le controversie di lavoro dei dipendenti delle
Amministrazioni
Prima della riforma del 1993 per i dipendenti degli enti pubblici erano previste
due discipline: i dipendenti degli enti pubblici economici erano soggetti a un
rapporto di lavoro di diritto privato, secondo le regole del codice civile, mentre i
dipendenti degli altri enti pubblici erano soggetti ad un rapporto pubblicistico.
A partire dagli anni ’70, la disciplina del pubblico impiego è stata oggetto di una
profonda revisione. Alla fine di questa evoluzione, il d.lgs. n.29/1993 , ha
introdotto, su questa disciplina, una riforma ispirata alla c.d. privatizzazione o
contrattualizzazione del rapporto di pubblico impiego, accolta, da ultimo, nel
d.lgs n.165/2001. In base a queste disposizioni, i rapporti di lavoro dei dipendenti
delle Pubbliche amministrazioni sono regolati, dalle disposizioni del codice civile,
nonché dalle leggi sui rapporti di lavoro subordinato nell’impresa. Rimangono,
tuttavia, regolate dai principi sul pubblico impiego alcune categorie di
dipendenti dell’Amministrazione statale ( i magistrati ordinari e amministrativi,
gli avvocati dello stato etc.).
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Per il personale con rapporto contrattuale, la tutela giurisdizionale è di
competenza del giudice ordinario (giudice del lavoro), secondo la disciplina del
cod.civ. Invece, per il personale con rapporto di pubblico impiego, le vertenze
spettano sempre al giudice amministrativo, in sede di giurisdizione esclusiva.
La giurisdizione amministrativa è stata conservata per le vertenze concernenti le
procedure di concorso per l’assunzione del personale. Si tenga presente che,
invece, nel caso degli enti pubblici economici, anche le controversie relative alle
procedure concorsuali di assunzione sono di competenza del giudice ordinario.
La tutela giurisdizionale ,per il personale con rapporto contrattuale, presenta
profili peculiari: la competenza territoriale, per le vertenze di lavoro, spetta al
Tribunale civile nelle cui circoscrizione ha sede l’ufficio al quale è addetto il
dipendente. Non si applica, quindi, la disciplina del c.d. foro erariale.
Dal punto di vista processuale, nelle controversie di lavoro con Pubbliche
amministrazioni, al giudice ordinario è riconosciuta la capacità di adottare
qualsiasi ordine di pronuncia, di accertamento, costitutiva o di condanna,
richiesta dalla natura dei diritti tutelati.
La distinzione fra gli atti amministrativi e gli atti di diritto comune si riflette sui
poteri del giudice ordinario: il giudice può incidere direttamente sugli atti di
diritto comune assunti dall’Amministrazione, anche con pronunce costitutive,
mentre nel caso degli atti amministrativi può solo disapplicare.
L’argomento inerisce al diritto di sostanza. Nel caso dello Stato e degli enti
pubblici istituzionali, vi sono gli atti di organizzazione previsti dal d.lgs n.
165/2001. Essi sono configurati dalla legge come espressione di uno specifico
potere amministrativo.
Si tenga presente che, invece, un potere amministrativo di organizzazione
sembra escluso per la generalità degli enti pubblici economici ed è stato
espressamente escluso per le aziende sanitarie locali.
8. L’esecuzione forzata nei confronti dell’Amministrazione
Si devono ritenere esperibili, nei confronti dell’Amministrazione, tutte le forme di
esecuzione forzata previste dal codice civile.
Con riferimento all’espropriazione forzata emergono, però, questioni peculiari:
- Non tutti i beni dell’Amministrazione possono essere soggetti ad esecuzione
forzata; ciò vale in particolare per i beni demaniali e per i beni del
patrimonio indisponibile. Per tali beni, il codice civile non stabilisce un regime
di incompatibilità con l’espropriazione ma, dalla regola dell’art. 514 c. p. c. si
51
desume che sono impignorabili i beni necessari <<per l’adempimento di un
pubblico servizio>>.
Si deve perciò concludere che solo i beni del patrimonio disponibile sono
passibili di esecuzione forzata.
- L’esecuzione dei crediti dell’Amministrazione è stata oggetto in passato di
polemiche, non ancora superate. Era esclusa la possibilità di espropriare crediti
di cui l’Amministrazione fosse titolare, in virtù di rapporti pubblicistici, ed è
questo tuttora l’indirizzo della giurisprudenza, in tema di crediti per le entrate
tributarie. Si tendeva a limitare la possibilità di espropriazione delle somme già
nella disponibilità dell’Amministrazione e si attribuiva carattere di infungibilità e
rilevanza esterna agli adempimenti contabili imposti dalla legge
all’Amministrazione, per qualsiasi pagamento. Si affermava che, l’esecuzione era
possibile, solo, nei limiti degli importi che il bilancio dell’Ente pubblico non
destinasse a scopi specifici di interesse generale.
Solo negli anni ’80, la Cassazione ha mutato indirizzo ed ha riconosciuto che non
vi può essere discrezionalità, là dove c’è un obbligo di adempire ad una
condanna di pagamento.
La Cassazione sembra fare eccezione, solo, per quei fondi pubblici, soggetti ad
un particolare vincolo, diverso da quello risultante da un mero bilancio di spesa e
imposto da una legge speciale.
Dopo gli anni ’80, il legislatore ha introdotto nuovi limiti all’espropriabilità dei
beni dell’Amministrazione, precludendo del tutto l’espropriazione di beni e
limitando l’espropriazione dei crediti alle somme non impegnate dall’Ente per
pubblici servizi. Le innovazioni hanno riguardato i termini per l’adempimento di
sentenze di condanna, introducendo un termine dilatatorio per l’esecuzione
forzata.
- La sentenza del giudice civile può essere eseguita, anche, nelle forme del
giudizio di ottemperanza, davanti al giudice amministrativo, che può
provvedere ad assumere le iniziative necessarie per eseguire la sentenza. In
questo caso il giudice amministrativo può sostituirsi del tutto
all’Amministrazione.
Capitolo 7
I RICORSI AMMINISTRATIVI
52
1. Principi generali
Ricorso gerarchico e ricorso straordinario sono gli esempi più importanti di
ricorsi amministrativi. Questi ricorsi sono rimedi giuridici, diretti ad
un’autorità amministrativa, per ottenere da essa l’annullamento di un
provvedimento o la sua riforma (nel caso del ricorso gerarchico e del ricorso di
opposizione).
I ricorsi amministrativi non comportano l’esercizio di una funzione giurisdizionale;
i caratteri, la forma e l’efficacia della decisione sono quelli propri dell’atto
amministrativo. Sono strumenti di tutela di interessi qualificati e, quindi, di
interessi legittimi o diritti soggettivi. Ciò comporta una legittimazione limitata per
la presentazione del ricorso: rimangono estranei dalla protezione i c.d. interessi
semplici o di fatto.
Vige, inoltre, un principio dispositivo: l’annullamento dell’atto illegittimo non
può essere subordinato a valutazioni discrezionali, di opportunità, che non
trovino riscontro nei motivi del ricorso(la legittimazione spetta soltanto a chi
faccia valere un diritto soggettivo o un interesse legittimo): ciò consente di
distinguere i ricorsi amministrativi dalle denunce che qualsiasi cittadino può
presentare contro atti illegittimi, ma che possono solo sollecitare l’esercizio di
poteri di annullamento d’ufficio.
Nel nostro ordinamento, sono previste varie tipologie di ricorsi amministrativi: la
loro disciplina generale è contenuta nel d.lgs. 24 novembre 1971, n.1199. In
questo decreto sono contemplate quattro tipologie di ricorsi: gerarchico –
improprio – di opposizione – straordinario. Fra di essi, hanno carattere di
rimedi generali (per i quali non è richiesta una disposizione specifica che li
ammetta) : il ricorso gerarchico, (ammesso sempre in presenza di una relazione
gerarchica fra organi) e il ricorso straordinario (ammesso nei confronti di
provvedimenti definitivi).li altri 2 ricorsi hanno carattere di rimedi tassativi
perché sono esperibili solo quando siano espressamente previsti da una specifica
disposizione. Sulla base dei caratteri e della disciplina dei ricorsi amministrativi,
tali ricorsi vengono variamente classificati:
a) distinzione fra ricorsi ordinari e ricorso straordinario.
I ricorsi ordinari(ricorso gerarchico e in opposizione) sono ammessi solo nei
confronti di un provvedimento non definitivo. Con questo termine si
intendeva, in origine, l’atto emesso dall’organo collocato al vertice della struttura
gerarchica di un’Amministrazione. Fino alla istituzione dei TAR, il cittadino per
ricorrere al giudice amministrativo aveva l’onere di esperire previamente i ricorsi
53
amministrativi ordinari, proponendoli in più gradi, fino ad ottenere un
provvedimento definitivo. Con il d.p.r. n. 1199/1971 è stata introdotta la regola,
secondo cui, il ricorso ordinario è ammesso in un unico grado : di conseguenza,
se l’atto amministrativo da impugnare non è già di per sé definitivo, la definitività
si consegue, dopo aver esperito solo un grado di ricorso amministrativo.
Il ricorso straordinario, invece, è ammesso solo nei confronti di provvedimenti
definitivi.
Per valutare la rilevanza che la distinzione fra ricorsi ordinari e ricorso
straordinario assume oggi, si consideri che:
-nei confronti dei provvedimenti non definitivi lesivi di interessi legittimi,
sono ammessi sia il ricorso al giudice amministrativo che il ricorso al giudice
ordinario;
-nei confronti dei provvedimenti definiti lesivi di interessi legittimi, sono
ammessi sia il ricorso al giudice amministrativo che il ricorso straordinario;
-il ricorso al giudice amministrativo può essere esperito sia nei confronti di un
provvedimento definitivo, che nei confronti di un provvedimento non
definitivo;
-nei confronti dei provvedimenti lesivi di diritti soggettivi, il ricorso
amministrativo ordinario di regola è facoltativo ad eccezione dei casi di
giurisdizione condizionata.
b) distinzione fra rimedi rinnovatori e rimedi eliminatori.
Alcuni ricorsi amministrativi possono comportare solo “l’eliminazione”
(l’annullamento) del provvedimento impugnato. L’eliminazione del
provvedimento impugnato, fa salva, pertanto, la possibilità di ulteriori
provvedimenti amministrativi sulla medesima pratica, provvedimenti che
attengono all’esercizio di funzioni di amministrazione attiva.
Altri ricorsi amministrativi comportano, invece, la devoluzione dell’intera pratica
all’organo competente di decidere il ricorso: tale organo, se così viene richiesto
nel ricorso, non solo può “eliminare” l’atto impugnato, ma può anche modificarlo
o sostituirlo con un altro.
Nel caso dei ricorsi “rinnovatori” la decisione assorbe in sé, oltre alle valutazioni
sull’atto impugnato, anche il riesame della pratica: col ricorso si avvia un
procedimento che comporta, oltre all’eliminazione dell’atto, anche la sua
sostituzione con un altro (<<riforma>>). Di regola, sono innovatori i ricorsi
diretti ad un organo che è anche di per sé competente a provvedere sulla pratica
in questione e che quindi è titolare sia della funzione giustiziale, sia della
54
funzione di amministrazione attiva in quanto non comporta necessariamente la
conclusione della pratica inerente all’atto impugnato.
Sono sempre rimedi innovatori il ricorso gerarchico proprio e il ricorso in
opposizione. E’ eliminatorio il ricorso straordinario perché all’organo competente
è attribuito solo il potere di decidere il ricorso.
b) distinzione fra ricorsi ammessi solo per vizi di legittimità e ricorsi
ammessi anche per vizi di merito
L’utilità del ricorso non è circoscritta ai soli vizi di legittimità.
Il ricorso gerarchico assume rilievo nuovo, nell’organizzazione amministrativa:
non è più riflesso dei poteri riconosciuti al superiore gerarchico, ma esso è
strumento per introdurre un potere di ingerenza dell’organo superiore, rispetto
all’operato dell’organo di primo grado.
Il ricorso straordinario è, invece, rimedio ammesso solo per vizi di legittimità.
Questa limitazione, oggi, ha assunto carattere di necessarietà, perché, un
sistema amministrativo fondato sulle ragioni delle autonomie e del
decentramento, sarebbe incompatibile con un sindacato generale di merito
esercitato dall’Amministrazione statale nei confronti di Amministrazioni diverse.
Tutti i ricorsi amministrativi hanno carattere di “rimedi formali” : sono
assoggettati a modalità particolari di presentazione e a termini tassativi di
proposizione. La violazione di queste regole preclude la stessa configurabilità
dell’impugnativa come ricorso e la contestazione della legittimità dell’atto
impugnato, varrebbe come semplice esposto.
Nello stesso tempo, i ricorsi amministrativi non sono soggetti a forme o istituti
specifici dei mezzi di tutela giurisdizionale. Di conseguenza, per esempio, per la
loro presentazione non è necessaria la rappresentanza o l’assistenza di un
avvocato.
2. Il ricorso gerarchico: procedimento e decisione
In base al d.p.r. n. 1189/1971, il ricorso deve essere diretto all’organo
gerarchicamente sovraordinato a quello che ha emanato l’atto impugnato e va
proposto entro 30gg. dalla notificazione, o comunicazione, o pubblicazione o
piena conoscenza dell’atto da impugnare. Entro questo termine, il ricorso deve
essere trasmesso o all’organo cui è diretto, o all’organo che ha emesso l’atto
impugnato.La presentazione può essere effettuata anche a mezzo postale e la
data della raccomandata vale come data della presentazione.
55
Il ricorso erroneamente rivolto ad un organo diverso da quello competente, non è
irricevibile: l’organo che lo ha ricevuto provvede d’ufficio a trasmetterlo
all’organo competente (art. 2).
Anche il ricorso gerarchico non sospende l’efficacia del provvedimento
impugnato: <<per giusti motivi>> l’organo competente per la decisione del
ricorso può sospendere, anche d’ufficio, l’esecuzione (art. 3). Dopo aver acquisito
le eventuali deduzioni dei controinteressati e aver effettuato gli adempimenti
istruttori che ritiene opportuni (art. 4), l’organo competente decide il ricorso,
esercitando nel caso di accoglimento, anche poteri rinnovatori (art. 5).
a)individuazione del soggetto cui è rivolto il ricorso gerarchico
Il ricorso gerarchico è ammesso in unico grado all’organo gerarchicamente
sovraordinato rispetto a quello che ha emanato l’atto impugnato, cioè il ricorso
va diretto all’organo immediatamente sovraordinato rispetto a quello di prmo
grado.Il ricorso gerarchico ha ormai il carattere di rimedio aggiuntivo, previsto a
tutela del cittadino più che a tutela di esigenze dell’amministrazione.La relazione
di gerarchia che rileva ai fini dell’ammissibilità del ricorso gerarchico è solo
quella di ordine esterno(cioè gerarchia fra organi) e non la gerarchia interna(cioè
tra gradi).
b)tutela del contraddittorio ( art. 4, 1° e 2° c., d.p.r. 1199/1971)
Il ricorrente non è tenuto a dare notizia del ricorso, né all’organo che ha emesso
l’atto di primo grado, né ai c.d. controinteressati. Rispetto all’organo di primo
grado non è prevista alcuna forma di contraddittorio: nel ricorso gerarchico
l’interesse istituzionale dell’Amministrazione è già garantita dal fatto che il
ricorso sia diretto all’organo sovraordinato a quello che ha emanato l’atto
impugnato. Per quanto riguarda i controinteressati, l’art. 4 impone, all’organo
adito con il ricorso, di comunicarlo ai controineteressati stessi, per consentire
loro di presentare <<deduzioni (memorie scritte) e documenti>>.
Nel ricorso gerarchico non vi è garanzia piena del contraddittorio e non è
prevista alcuna forma di tutela del diritto alla difesa, nel caso di espletamento di
adempimenti istruttori.
c)istruttoria (art. 4, c. 3°, d.p.r. n. 1199/1971)
Il contenuto dei mezzi istruttori non è definito dalla norma, pertanto, restano
fermi tutti i limiti generali posti all’Amministrazione per l’esercizio dei suoi poteri
istruttori. In particolare non sono ammessi i mezzi istruttori che incidano su diritti
costituzionalmente garantiti, né mezzi istruttori che producano effetti sulla
decisione, incompatibili con i principi sul procedimento amministrativo.
56
Fermi restando questi limiti, si ritiene che l’Amministrazione possa disporre ogni
mezzo istruttorio opportuno, purchè, sia congruente con le questioni sollevate
nel ricorso.Sulle parti non grava nessun onere della prova e perciò la verifica dei
fatti segnalati dalle parti è a carico esclusivo dell’amministrazione(non sono
ammessi fatti nuovi)
d)decisione (art. 5, d.p.r. n.1199/1971)
Si individuano, con questo articolo, i contenuti possibili della decisione del ricorso
gerarchico. Tali contenuti riflettono: la distinzione generale fra decisioni di rito
(rispetto alle quali è assorbente una questione attinente alle condizioni di
ammissibilità del ricorso) e decisioni di merito (sulla fondatezza o meno dei
motivi del ricorso).
La formulazione dell’art. 5, consente di ritenere superata una discussione, che in
precedenza aveva suscitato molte incertezze, sul rapporto fra poteri decisori e
poteri di amministrazione attiva dell’organo competente. L’articolo, pur
elencando i contenuti possibili della decisione del ricorso, non contempla
l’esercizio di poteri di amministrazione attiva. Ciò non significa, però, che
l’organo adito con il ricorso sia privato di tali poteri : essi rimangono fermi e
possono senz’altro essere esercitati, ma deve essere assicurata una chiara
distinzione fra poteri di amministrazione attiva e poteri di decisione del ricorso.
e)rapporti con il ricorso giurisdizionale (art. 20, 2° c., legge TAR)
Se nei confronti dello stesso atto venga proposto, dal medesimo cittadino, sia il
ricorso gerarchico che quello giurisdizionale, secondo la giurisprudenza,
prevarrebbe sempre il ricorso giurisdizionale, con la conseguenza che il ricorso
gerarchico, se proposto per primo, diventerebbe improcedibile, ovvero, se
proposto dopo quello giurisdizionale, sarebbe inammissibile.
L’incompatibilità dei due rimedi (gerarchico e giurisdizionale) emerge con
riferimento al caso di un atto che leda gli interessi legittimi di più cittadini.
Questa impostazione non sembra considerare l’ipotesi della contemporanea
pendenza dei due ricorsi, quando essi però abbiano contenuti diversi.
f)rimedi ammessi contro la decisione del ricorso gerarchico (art. 20, 2° c.,
legge TAR)
La decisione del ricorso gerarchico costituisce un provvedimento definitivo. Essa,
pertanto, è impugnabile con ricorso straordinario oppure, se lede interessi
legittimi, anche con ricorso al giudice amministrativo. L’impugnazione della
decisione segue le regole ordinarie. La dottrine prevalente sottolinea gli elementi
di diversità fra la tutela in via gerarchica e quella in via giurisdizionale.
57
Se viene accolta in sede giurisdizionale l’impugnazione di una decisione di rigetto
di un ricorso gerarchico, il giudice dovrebbe emettere una sentenza di
annullamento “con rinvio” e restituire gli atti all’autorità adita con ricorso
gerarchico ( se il ricorso sia stato accolto per motivi di forma o di procedura della
decisione amministrativa). Questa interpretazione appare ispirata ad una sorta di
confusione fra i due rimedi, più che alla necessaria distinzione fra i caratteri e le
modalità di essi.
3. Il ricorso gerarchico: il problema del “silenzio”
Uno dei temi centrali per lo studio dei ricorsi gerarchici è costituito del tema del
c.d. “silenzio”. Carattere essenziale dei ricorsi amministrativi è la costituzione
di un dovere di provvedere: bisogna, però, capire cosa si verifichi quando
l’amministrazione non decida un ricorso. Questa situazione è considerata dall’art.
6 del d.p.r. 1199/1971 e dall’art. 20 della legge TAR.
Da queste disposizioni si desume la fissazione di un termine di 90 gg., perché
l’Amministrazione decida il ricorso gerarchico. Quali effetti produca, però, la
scadenza del termine è oggetto tuttora di ampie discussioni.
La prima giurisprudenza della Quarta sezione prospettò la conclusione che il
silenzio mantenuto su un ricorso gerarchico non precludesse la possibilità di
proporre il ricorso giurisdizionale. In una pronuncia del 1902, la Quarta sezione
affermò che il ricorso doveva ritenersi ammissibile, anche nel caso in cui
l’Amministrazione competente, benché diffidata, non avesse preso in esame il
ricorso gerarchico del cittadino(nel silenzio doveva individuarsi una decisone di
tigetto da qui il termine silenzio-rigetto).
Oggi, questo modo di ragionare non viene più condiviso, perchè
l’Amministrazione che tace su un ricorso non assume alcuna determinazione, e
perciò nel “silenzio” dell’autorità adita con un ricorso gerarchico, non si può
identificare alcun atto.
Il superamento, a partire dagli anni ’60, dell’interpretazione tradizionale del
“silenzio rigetto”, come decisione “tacita” di rigetto del ricorso gerarchico, ha
condotto in un primo tempo ad elaborazioni diverse, soprattutto, ad opera del
Consiglio di Stato. Dopo la riforme del 1971 emergevano posizioni molto
eterogenee. Nel 1978 l’Adunanza plenaria riprendeva in esame al questione, alla
luce delle due disposizioni citate e prospettava le seguenti conclusioni: a) nel
silenzio mantenuto su un ricorso gerarchico non è identificabile un
provvedimento di rigetto, per la legge si limita ad attribuire valore di rigetto alla
decorrenza del termine;b) in ogni caso, una volta formulato il silenzio-rigetto, il
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ricorso giurisdizionale si può proporre solo contro l’atto di primo grado, già
impugnato in via gerarchica c) la decorrenza del termine ha <<valore>>
equipollente ad una decisione di rigetto ed ogni eventuale decisione successiva
di accoglimento del ricorso deve ritenersi illegittima d)la decisione successiva di
rigetto esplicito del ricorso deve ritenersi improduttiva di effetti giuridici nuovi e,
quindi, deve considerarsi come atto meramente “confermativo”.
Nel 1989, il tema è stato nuovamente preso in esame dall’Adunanza plenaria del
Consiglio di Stato, in due decisioni che hanno comportato una significativa
revisione dell’indirizzo precedente. Si sostiene, ora, che la formazione del
silenzio-rigetto non privi l’Amministrazione, del potere di decidere il ricorso
gerarchico, ma consenta al ricorrente di scegliere fra la possibilità di un ricorso
giurisdizionale o straordinario, contro l’atto impugnato in via gerarchica e la
possibilità di attendere la decisione del ricorso gerarchico. In questo secondo
caso, alla scadenza del termine di 90 gg. corrisponde una situazione affine a
quella del silenzio-rifiuto: il cittadino, se l’Amministrazione tarda a decidere, può
notificare una diffida e poi tutelarsi, come nei confronti di un silenzio-rifiuto.
Per alcuni profili, le due decisioni del 1989 non sono riuscite, invece, ad
esprimere soluzioni coincidenti.
4. Il ricorso gerarchico improprio e il ricorso in opposizione
Il ricorso gerarchico improprio e il ricorso in opposizione sono rimedi
eccezionali: la loro esperibilità presuppone una specifica previsione normativa.
Tali ricorsi sono entrambi modellati sul ricorso gerarchico; quello improprio si
caratterizza per essere diretto ad un organo non gerarchicamente sovraordinato
a quello che ha emanato l’atto impugnato; quello in opposizione è diretto allo
stesso organo che ha emanato l’atto impugnato.
Un ricorso gerarchico improprio è rimedio previsto in alcune materie
particolari (impiego scolastico, ordinamenti professionali etc.), in ipotesi nelle
quali l’atto da impugnare sarebbe stato, già di per sé, definitivo.
Sembra logico affermare che il ricorso gerarchico improprio, risolvendosi in una
forma di sindacato puntuale su un atto, debba essere ammesso solo nell’ambito
di una identica Amministrazione, o nell’ambito di Amministrazioni riconducibili ad
Enti diversi, legati però da rapporti funzionali e non nell’ambito di
Amministrazioni diverse, caratterizzate reciprocamente da posizioni di autonomia
costituzionalmente garantite.
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Questa impostazione non è accolta, però, dal Consiglio di Stato, che in sostanza
tende a considerare possibile il ricorso gerarchico improprio ad un’autorità
statale, anche nei confronti di un atto regionale.
Il ricorso in opposizione rappresenta uno strumento di limitata utilizzazione,
previsto in ipotesi particolari, che ricorrono soprattutto nel pubblico impiego.
Anche in questo caso il ricorso dà inizio ad un procedimento contenzioso, di
secondo grado, cosicché sembra possibile che, anche per il ricorso in
opposizione, resterebbe ferma la distinzione fra elementi rilevanti per la
decisione ed elementi che possono essere presi in considerazione, solo, alla luce
di una funzione distinta.
5. Il ricorso straordinario
Il ricorso straordinario al Presidente della Repubblica si caratterizza per
l’attuazione più puntuale della garanzia del contraddittorio e, soprattutto, per
l’introduzione di uno strumento specifico di garanzia, rappresentato dal parere
del Consiglio di Stato. Solo una deliberazione del Consiglio dei ministri può
consentire una decisione difforme . Queste circostanze e la previsione di un
termine, per la presentazione del ricorso (120 gg.), avrebbero potuto assegnare,
al ricorso in esame, un rilievo significativo per la tutela del cittadino, nei confronti
dell’Amministrazione. Invece, questo rimedio ha avuto un ruolo pratico
marginale, soprattutto, a causa dei ritardi dei Ministeri, nell’istruzione dei ricorsi.
Il ricorso straordinario è proposto contro provvedimenti definitivi, in relazione,
solo, a censure di legittimità, per l’annullamento dell’atto impugnato.Il
termine per il ricorso è di 120 g. dalla notificazione, pubblicazione o dalla
formazione del silenzio-rigetto.Entro tale termine il ricorso straordinario deve
essere notificato ad almeno uno dei controinteressati e presentato all’autorità
amm. Che ha emanato l’atto impugnato o al ministero competente per materia.
I controinteressati, entro 60 gg. dalla notifica del ricorso, possono presentare
<<deduzioni e documenti>> ed eventualmente un ricorso incidentale col quale
possono contestare la legittimità del provvedimento impugnato.
Su richiesta del ricorrente, il Ministro adito può sospendere, in via cautelare,
l’atto impugnato,previo parere conforme del Consiglio di Stato. Una volta
presentato il ricorso ed integrato il contraddittorio, il Ministero competente deve
procedere all’istruzione del ricorso; dopo di che , il ricorso deve essere trasmesso
al Consiglio di Stato per il parere che viene emesso da una sentenza
consultiva o da commissioni speciali ad hoc. L’istruttoria dovrebbe essere
60
completata nei 120 gg. successivi al termine per le deduzioni dei
controineressati; scaduto inutilmente tale termine, è consentito al ricorrente
procedere all’interpello del Ministero e depositare, direttamente, il ricorso al
Consiglio di Stato, per il parere prescritto. Il Consiglio di Stato esprime il suo
parere, sulla base del quale, il Ministro formula la decisione, nei termini di una
sua proposta di decreto al Presidente della Repubblica. Se il Ministro
intende discostarsi dal parere del consiglio di Stato, deve sottoporre la
questione al consiglio dei Ministri. La decisione del ricorso straordinario è
assunta con le forme del decreto del Presidente della Repubblica di cui il ministro
proponente assume ogni responsabilità.Il controllo della Corte dei conti su questo
decreto è ammesso solo nel caso che il decreto sia stato assunto sulla delibera
del consiglio dei Ministri.La decisione del ricorso è impugnabile per revocazione,
con ricorso da proporre nelle stesse forme del ricorso straordinario e anche
l’impugnazione in sede giurisdizionale.
La garanzia del contraddittorio nei confronti dei controinteressarti riflette
l’esigenza di tutelare il diritto alla difesa.
La legge, invece, non prevede nulla del genere per l’Amministrazione che
abbia emanato l’atto impugnato, evidentemente sul presupposto che
l’attribuzione ad un’autorità amministrativa del potere di decidere il ricorso
assicurasse, già di per sé, la garanzia degli interessi complessivi
dell’Amministrazione.
La Corte costituzionale ha respinto questa logica, affermando che le stesse
garanzie previste per i contointeressati devono valere per l’Amministrazione
non statale che abbia assunto il provvedimento impugnato con il ricorso
straordinario.
L’intervento della Corte cost. implica il superamento di una concezione
monolitica dell’Amministrazione pubblica e il riconoscimento di un sistema di
pluralismo amministrativo : il Ministro e il Governo, nella decisione del ricorso
straordinario, non rappresentano l’Amministrazione nel suo complesso.
Il profilo peculiare della disciplina del ricorso straordinario è costituito dalla sua
alternatività con il ricorso al giudice amministrativo: non solo i due rimedi non
possono essere proposti contro il medesimo atto, ma non vale neppure un
criterio di preferenza per il ricorso giurisdizionale e la presentazione del ricorso
straordinario preclude quello giurisdizionale. Quest’ultima possibilità
comporterebbe, infatti, l’ammissibilità del ricorso al giudice
amministrativo, proposto contro il medesimo atto impugnato in via
61
straordinaria. La preclusione della tutela giurisdizionale non lede i diritti
costituzionali del ricorrente, perché, è riconducibile ad una sua scelta, quella di
agire in via straordinaria. Potrebbe ledere, però, i diritti dei controinteressati, che
sarebbero assoggettati alla scelta del ricorrente, di ottenere una decisione in
sede straordinaria e in base al principio di alternatività non potrebbero ottenere
sul medesimo provvedimento una decisione giurisdizionale.
Per evitare questa conseguenza, il d.p.r. n. 1199/1971 contempla l’istituto
dell’<<opposizione>> dei controinteressati: essi, entro 60 gg. dalla notifica del
ricorso straordinario, possono chiedere che il ricorso sia deciso in sede
giurisdizionale e il ricorrente, se vuole insistere nell’impugnazione, può proporre
il ricorso avanti al giudice amministrativo.
L’impugnazione della decisione del ricorso straordinario, avanti al giudice
amministrativo (TAR), è ammessa solo per <<vizi di forma o di
procedimento>> . Concretamente, tali vizi possono riguardare solo fasi del
procedimento, successive al parere del Consiglio di Stato.
Capitolo 8
QUADRO GENERALE DELLA GIURISDIZIONE AMMINISTRATIVA
1. Premessa
Il ricorso al giudice amministrativo fu configurato innanzi tutto come mezzo
d’impugnazione dell’atto amministrativo. La disciplina legislativa del
processo amministrativo riflette, ancora oggi, questa concezione originaria.
Il ricorso al Consiglio di Stato ha assicurato le garanzia dell’interesse legittimo.
D’altra parte, agli organi della giurisdizione amministrativa (ossia ai TAR e al
Consiglio di Stato) la Costituzione assegna proprio la tutela degli interessi
legittimi nei confronti della Pubblica amministrazione. Di conseguenza, la tutela
degli interessi legittimi è devoluta al giudice amministrativo, anche quando non
sia possibile l’impugnazione di un provvedimento amministrativo: si pensi
alla tutela rispetto al silenzio dell’Amministrazione.
Queste considerazioni comportano la necessità di un adeguamento del quadro
normativo al ruolo primario di garanzia degli interessi legittimi, riconosciuto
anche dalla Costituzione al giudice amministrativo.
Un ulteriore elemento di complessità, per valutare il quadro generale del giudizio
amministrativo, è rappresentato dalla giurisdizione esclusiva. In questa
62
ipotesi, il Consiglio di Stato, alla fine degli anni ’30, ha ammesso che il ricorso al
giudice amministrativo non sia subordinato all’impugnazione di un
provvedimento: il cittadino può far valere il suo diritto all’adempimento di
un’obbligazione. L’impugnazione di un provvedimento non rappresenta, quindi,
una condizione necessaria per la giurisdizione esclusiva. Il giudizio deve potersi
svolgere in forme adeguate anche per la garanzia del diritto soggettivo. La
giurisprudenza ha ammesso, a tal proposito, per esempio, un accertamento del
diritto, non soggetta ai termini di decadenza previsti per l’impugnazione di
provvedimenti.
Inoltre, uno dei principali obiettivi della legge n. 205/2000 è stata l’introduzione
di modalità di tutela più congrue per i diritti, non più condizionate dal modello
impugnatorio.
Molti autori hanno proposto di individuare, anziché un processo amministrativo
unitario, una serie di modelli distinti. A ciascuno di questi modelli
corrisponderebbe una disciplina propria, particolarmente per gli elementi di
identificazione della domanda, per i contenuti della sentenza, per i limiti del
giudicato, e quindi per quei profili che vengono sintetizzati nel c.d. oggetto del
giudizio.
Frequentemente è sottolineata la contrapposizione fra giudizio che verte
sull’impugnazione (c.d. giudizio su atti) e un giudizio che verte sulla fondatezza
di una pretesa, in tutto o in parte, autonoma da essi (c.d. giudizio su rapporti).
La generalizzazione del secondo modello viene da molti auspicata, per conferire
maggiore incisività all’azione giurisprudenziale nei confronti
dell’Amministrazione. Ciò non significa, però, che al giudice sia preclusa la
cognizione della pretesa sostanziale del cittadino.
Una distinzione più netta si riscontra, solo, nei casi in cui il giudice esaurisce la
sua funzione giurisdizionale con l’annullamento del provvedimento e tale
annullamento non esclude un nuovo esercizio dell’attività amministrativa.
Non si dimentichi, infine, che il processo amministrativo è assoggettato anche a
tutta una serie di regole comuni, che consentono ancora oggi un’analisi unitaria
dello svolgimento del processo amministrativo.
2. Le classificazioni generali: giurisdizione di legittimità e giurisdizione
estesa al merito
Nel processo amministrativo, la prima distinzione generale ha riguardato le
ipotesi corrispondenti alla c.d. giurisdizione di merito. Queste ipotesi sono
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costituite da alcuni ordini di controversie (che sono tassative, aventi il carattere
dell’eccezionalità e sono passibili di interpetrazione analogica), in genere,
definite in relazione all’impugnazione di determinati atti.
Fra le più importanti ipotesi di giurisdizione di merito vi sono:
-i ricorsi per l’esecuzione del giudicato del giudice civile o del giudice
amministrativo
-i ricorsi contro le ordinanze contingibili ed urgenti del Sindaco e i ricorsi contro
provvedimenti emanati al Sindaco in materia di igiene dell’abitato
-i ricorsi contro gli ordini di riduzione in pristino, emanati dal Prefetto
-i ricorsi contro i provvedimenti per la c.d. censura cinematografica.
La disciplina positiva della giurisdizione di merito prevede l’attribuzione al
giudice amministrativo di alcuni poteri aggiuntivi, per la cognizione e la decisione
della controversia.Il giudice amministrativo può utilizzare testimonianze,
ispezioni.
In sostanza, può utilizzare i mezzi istruttori previsti dal codice di procedura
civile.Per la giurisdizione di legittimità il giudice amministrativo può soltanto
annullare l’atto impugnato. Il giudice amministrativo può, anche, <<riformare
l’atto o sostituirlo>> (art. 26 legge TAR) e, quindi, introdurre le modifiche
necessarie per rendere il contenuto dell’atto immune da vizi riscontrati.
La distinzione tra le due ipotesi di giurisdizione è mantenuta dalla disciplina
vigente (artt. 26 e 27 t.u. Cons. Stato; art.7 legge TAR), tuttavia, le
caratteristiche della giurisdizione di merito non risultano ancora chiare e sono
riconducibili a due concezioni diverse.
a) Secondo l’interpretazione più tradizionale, la giurisdizione di merito si
caratterizzerebbe per il fatto che, l’impugnazione del provvedimento
amministrativo sarebbe ammessa, oltre che per vizi di legittimità, anche per vizi
di merito. Il giudice amministrativo, ove richiesto dal ricorrente, potrebbe
effettuare tutte le valutazioni utili per stabilire se l’attività amministrativa si sia
realizzata non solo in modo legittimo, ma anche in modo opportuno, efficace,
economico, adeguato etc.
Ne consegue che la discrezionalità amministrativa potrebbe essere oggetto di un
sindacato pieno del giudice.
Questa interpretazione è stata oggetto di alcune critiche, che hanno
riguardato,da un lato la possibilità di ricondurre alla giurisdizione di merito le
varie ipotesi contemplate dall’art. 27 t.u. Cons. Stato, dall’altro la congruenza
generale del sistema così delineato, rispetto alla distinzione fondamentale e
64
istituzionale fra “Amministrazione”e “giudice amministrativo”. Se infatti si ritiene
che alla base della discrezionalità amministrativa possa essere anche una
valutazione di ordine politico, risulta problematico ammettere, in casi del genere,
un sindacato pieno del giudice.
b) Queste perplessità, rispetto all’interpretazione tradizionale, sono all’origine di
un’interpretazione diversa, che esclude che il giudice amministrativo possa
conoscere e decidere su vizi diversi da quelli di legittimità. Tipici della
giurisprudenza di merito sarebbero: l’attribuzione al giudice di un potere di
cognizione più ampio sui fatti e di un potere di decisione più esteso,
riconducibili, però, pur sempre al sindacato sui vizi di legittimità.
Nella logica di questa interpretazione, anche il potere di <<riformare l’atto o
sostituirlo>> non implicherebbe un sindacato esteso ai vizi di merito, ma
significherebbe solo che il giudice avrebbe oltre al potere4 di annullare l’atto
anche il potere di introdurre nell’atto le modifiche conseguenti all’accertamento
di vizi di legittimità.
c) Rispetto a queste due letture divergenti, la giurisprudenza non ha avuto
frequentemente occasione di prendere posizione, se si esclude il giudizio di
ottemperanza. Con riferimento a questo giudizio, il Consiglio di Stato ha
sostenuto che il giudice amministrativo potrebbe sostituirsi direttamente e
pienamente all’Amministrazione, senza trovare alcun ostacolo nell’esistenza di
poteri discrezionali o di valutazione tecnica, riconosciuti dalla legge
all’Amministrazione.
d) Nell’ipotesi della giurisdizione di merito, il cittadino che agisca in giudizio
facendo valere un suo interesse legittimo, potrebbe pretendere, non solo
l’annullamento dell’atto che abbia leso un suo interesse legittimo, ma anche la
tutela diretta, da parte del giudice, del “bene” cui egli tende. Infatti, il giudice,
accogliendo il ricorso, nei casi di giurisdizione di merito, non si limita ad
annullare il provvedimento illegittimo, ma può emettere una sentenza di riforma,
che assegna al cittadino il risultato che gli spetta secondo diritto, ovvero il
risultato che appare più conforme ad una valutazione corretta degli interessi in
gioco.
Questa considerazione, in passato, aveva fatto dubitare persino che in queste
ipotesi fosse identificabile un interesse legittimo, ma tale affermazione non è
stata condivisa dalla dottrina e dalla giurisprudenza prevalenti.
65
3. Le classificazioni generali: giurisdizione limitata agli interessi
legittimi e giurisdizione estesa a diritti soggettivi (giurisdizione
esclusiva)
I) La giurisdizione amministrativa ha, come nucleo originario e tipico, la garanzia
degli interessi legittimi: questo carattere risulta sancito anche dall’art. 103 Cost.
Di conseguenza è stato sostenuto che il complesso rappresentato dai TAR e dal
Consiglio di Stato costituirebbe il giudice “ordinario” degli interessi
legittimi.
La decisione, da parte del giudice amministrativo, di controversie relative ad
interessi legittimi può comportare la necessità di un esame e di una decisione,
anche rispetto a diritti soggettivi.
Solo per le questioni concernenti lo stato e la capacità delle persone e per
l’incidente di falso, ogni decisione è riservata al giudice ordinario: si tratta,
infatti, di questioni che si ritiene possano essere decise, solo, con efficacia di
giudicato e che quindi non possono essere oggetto di cognizione da parte di un
giudice diverso da quello istituzionalmente competente.
Quando il giudice amministrativo, in una controversia per la quale la sua
giurisdizione concerna solo interessi legittimi, conosce e decide di diritti
soggettivi, si pronuncia su di essi, solo in via incidentale : la pronuncia su diritti
non costituisce giudicato.
Il giudice amministrativo, invece, anche quando la sua giurisdizione concerna
solo interessi legittimi, si pronuncia con forza di giudicato sul diritto al
risarcimento dei danni cagionati all’Amministrazione, in violazione di interessi
legittimi.
II) Accanto alla giurisdizione generale sugli interessi legittimi, in alcune ipotesi è
assegnata al giudice amministrativo una giurisdizione anche su diritti
soggettivi (c.d. giurisdizione esclusiva). In queste ipotesi il cittadino può
agire davanti al giudice amministrativo, non solo per tutelare suoi interessi
legittimi che ritenga lesi dall’Amministrazione, ma anche per tutelare i diritti
soggettivi, che egli vanti nei confronti di una Pubblica Amministrazione.
Fra le ipotesi di giurisdizione esclusiva, sono significative soprattutto le seguenti:
-Le controversie nelle materie identificate dall’art. 29 t.u. Cons. Stato, fra le quali
è di particolare importanza il pubblico impiego
-Alcune controversie in materie di pubblici servizi.
Il d.lgs. n. 80/1998 e la legge n. 205/2000 avevano assegnato alla giurisprudenza
esclusiva tutte le controversie in materia di <<pubblici servizi>>, accogliendo
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fra l’altro una nozione molto ampia di tale materia. Il giudice amministrativo era
competente per le vertenze sugli atti di regolazione (es. regolamenti tariffari),
per quelle sull’organizzazione di servizi, per quelle sull’affidamento, sulla
gestione, sulla vigilanza dei sevizi stessi. Erano, invece, riservate al giudice civile
le vertenze in materia di invalidità e quelle <<meramente risarcitorie>> per
danni a persone o cose.
La Corte costituzionale, con la sentenza n. 204/2004, ha ritenuto che questa
estensione della giurisprudenza esclusiva violasse l’art. 103 Cost. Ha, dunque,
circoscritto la giurisdizione esclusiva, in materia di pubblici servizi, alle vertenze
sulle concessioni di servizi, alle vertenze sui provvedimenti
dell’amministrazione o del gestore di un pubblico servizio, alle vertenze per
l’affidamento di un pubblico servizio.
La Corte non è intervenuta, invece, sul testo del d.lgs. n.80/1998 che assegna
alla giurisdizione esclusiva, le vertenze in teme di vigilanza sul credito, sulle
assicurazioni e sul mercato mobiliare e quelle sul servizio farmaceutico,
sui trasporti, sulle telecomunicazioni e sugli altri servizi di pubblica
utilità.
In realtà, i confini della giurisdizione esclusiva in materia di pubblici servizi
appaiono oggi piuttosto incerti.
Anche della materia <<urbanistica>> il legislatore ha proposto una nozione
ampia, ma non univoca. Sono comunque escluse dalla devoluzione al giudice
amministrativo, le vertenze in tema di indennità di occupazione o di esproprio,
di competenza del giudice ordinario. Questa esclusione ha indotto a ritenere che
la giurisdizione esclusiva si estenda, invece, a tutte le alter vertenze concernenti
occupazioni d’urgenza o espropriazioni per pubblica utilità.
-Le controversie relative all’affidamento di lavori, servizi o forniture da parte di
Pubbliche amministrazioni, ovvero da parte di soggetti privati, che siano però
tenuti ad applicare la normativa comunitaria o procedimenti di evidenza
pubblica, nelle scelta del contraente o del socio.
La giurisdizione esclusiva riguarda le vertenze relative solo alle <<procedure di
affidamento>>,non si estende, pertanto, alle vertenze relative all’esecuzione
delle prestazioni.
-Le controversie concernenti la concessione di beni pubblici (art. 5 legge
TAR).
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La giurisdizione esclusiva, però, non si estende alle controversie concernenti
l’indennità, canoni o corrispettivi e neppure alle controversie sulle concessioni di
beni del demanio idrico.
-Le controversie concernenti la formazione, la conclusione e l’esecuzione degli
accordi c.d. pubblici.
-Le controversie concernenti la determinazione e la corresponsione
dell’indennizzo, dovuto ai soggetti direttamente interessati, da un
provvedimento amministrativo, nel caso intervenga la revoca del provvedimento
e comporti ad essi un pregiudizio.
-Le controversie fra privati e Amministrazione competente, concernenti la
dichiarazione di inizio attività.
-I ricorsi contro provvedimenti in materia di diritto d’accesso ai documenti
amministrativi etc.
Ferma restando la competenza del giudice ordinario per le questioni concernenti
lo stato e la capacità delle persone e l’incidente di falso, la competenza del
giudice amministrativo, nelle materie devolute alla giurisdizione esclusiva, si
estende alle domande risarcitorie, sia per la lesione di diritti soggettivi che per la
lesione di interessi legittimi.
L’estensione assegnata di recente alla giurisdizione esclusiva comporta, con
maggiore frequenza, che il giudizio amministrativo sia promosso, non da un
soggetto privato contro un Amministrazione , ma da un ‘Amministrazione contro
un privato, o da un soggetto privato contro un altro privato.
In alcuni casi, l’assegnazione al giudice amministrativo di vertenze promosse
contro privati, rispecchia criteri di ragionevolezza e di organicità. In altri casi è
giustificata dal fatto che il privato svolge compiti di specifica rilevanza
pubblicistica o che la sua attività è soggetta ad una disciplina pubblicistica.
4. Il riparto per “materia” nei casi di giurisdizione esclusiva
La giurisdizione esclusiva fu introdotta dal legislatore perché in molte vertenze
l’interesse legittimo e il diritto soggettivo risultavano strettamente correlati.Il
riparto fra giudice amministrativo e giudice ordinario, nelle ipotesi di
giurisdizione esclusiva segue il criterio della “materia” : artt. 28 e 30 t.u.
Cons. Stato. Le vertenze riconducibili a quella certa materia vanno proposte
avanti al giudice amministrativo, anche se il cittadino faccia valere in giudizio un
diritto soggettivo.
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Le disposizioni legislative sulla giurisdizione esclusiva non sono omogenee e
rispecchiano una nozione di “materia” non uniforme. In alcuni casi, la
devoluzione al giudice amministrativo è stata disposta dal legislatore rispetto ad
istituti generali o rispetto a singoli provvedimenti.
Talvolta l’ampiezza dei riferimenti contenuti nella legge ha giustificato letture
estensive da parte della giurisprudenza; altre volte, invece, il riferimento a
situazioni particolari è sembrato insuperabile. Il termine “materia” per la
giurisdizione esclusiva ha comunque un significato diverso rispetto ad altri
contesti: in alcuni casi sono incerti i limiti concreti delle materie. Ciò ha
riguardato, in passato, la giurisdizione esclusiva in tema di pubblici servizi e in
tema di urbanistica.
A queste difficoltà, la giurisprudenza cerca di rispondere, individuando un criterio
generale di lettura delle previsioni di giurisdizione esclusiva: in passato, la Corte
di cassazione e il Consiglio di Stato discutevano, soprattutto, sulla possibilità di
adottare criteri estensivi o invece restrittivi. Oggi, è centrale il richiamo alla Corte
costituzionale, che con la sentenza n. 204/2004 cit., ha sottolineato l’esigenza di
una interpretazione più rispettosa dell’art. 103 Cost. Secondo la Corte,
l’assegnazione, da parte del legislatore, di materie alla giurisdizione esclusiva,
deve presupporre una relazione fra l’ambito devoluto alla giurisprudenza
esclusiva e un potere amministrativo.
Questa conclusione richiede, però, alcune precisazioni.
In primo luogo la Corte costituzionale non ha considerato come “potere
amministrativo”, anche gli accordi pubblici previsti dall’art. 11 della legge n.
241/1990, tant’è vero che la legge li considera nel contesto di un procedimento e
li prevede in alternativa a provvedimenti.
In secondo luogo, la Corte non ha inteso limitare la giurisdizione esclusiva alle
sole vertenze che investono direttamente un potere amministrativo, ma ha
inteso colpire, invece, l’eccessiva estensione assegnata alla giurisdizione
esclusiva dal legislatore ordinario.
5. La giurisdizione esclusiva nel processo amministrativo attuale:
problemi e prospettive
Se il cittadino è leso da un provvedimento, esso va impugnato per vizi di
legittimità, secondo le regole generali (art. 29 t.u. Cons. Stato); solo in alcune
ipotesi tassative è conferito al giudice amministrativo il potere di pronunziarsi
<<anche in merito>>.
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Il giudice amministrativo non è soggetto alle limitazioni stabilite dagli artt. 4 e 5
della legge di abolizione del contenzioso amministrativo, perché, esse valgono
solo per il giudice ordinario. Pertanto, se accoglie il ricorso contro un
provvedimento, procede all’annullamento dell’atto impugnato, o alla sua
“riforma” nei casi di giurisdizione anche di merito. Invece, si ritiene, in genere,
che il giudice amministrativo , anche nei casi di giurisdizione esclusiva, non
possa procedere alla “disapplicazione” di un atto amministrativo.
Maggiori problemi sono sorti nel caso in cui il cittadino sia leso, non da un
provvedimento, ma da comportamenti non riconducibili alla titolarità di un
potere. Nel corso degli anni ’30, la Cassazione sostenne che l’art. 29 t.u. Cons.
Stato , che assegnava al giudice amministrativo, in via esclusiva, <<i ricorsi al
rapporto d’impiego>>, considerava, anche, controversie di questo genere.
Nessuna disposizione considerava l’ipotesi di un diritto fatto valere senza che vi
fosse un provvedimento da impugnare.
Il Consiglio di Stato, alla fine degli anni ’90, superò l’equivalenza fra il ricorso al
giudice amministrativo e impugnazione di un provvedimento, elaborando la
distinzione fra provvedimenti ed “atti paritetici”.
L’atto “paritetico” è un atto o un comportamento posto in essere
dall’Amministrazione, come da qualsiasi soggetto di diritto comune. Pertanto, in
presenza di esso non vi è alcuna necessità di impugnare l’atto
dell’Amministrazione e il ricorso non è neppure soggetto ad un termine di
decadenza.
Di questa regola, la giurisprudenza fece applicazione inizialmente a proposito
delle pretese patrimoniali, nel rapporto di pubblico impiego; poi ha esteso
questa regola ad altri contesti, come quello dei diritti non patrimoniali in materia
di pubblico impiego e dei contributi per le concessioni edilizie.
La vicenda degli atti paritetici riflette la difficoltà di una tutela adeguata dei
diritti soggettivi nel processo amministrativo.
Tuttavia, la disciplina era carente per i contenuti e per le possibilità di tutela
cautelare, oltre che per la limitatezza dei mezzi istruttori e per le tipologie della
sentenza.
Oggi, soprattutto per effetto dell’estensione della giurisdizione esclusiva, operata
nel 1998-2000, parzialmente circoscritta dall’intervento della Corte costituzionale
del 2004, l’esigenza di assicurare una tutela efficace dei diritti, anche nella
giurisdizione esclusiva, è divenuta ancora più stringente.
A tale esigenza ha dato risposta la legge 21 luglio 2000 n. 205.
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Tale legge ha introdotto, nel procedimento amministrativo, i procedimenti di
ingiunzione ed ha assegnato al giudice amministrativo, nelle vertenze devolute
alla sua giurisdizione esclusiva, la possibilità di disporre di disporre tutti i mezzi
di prova previsti dal codice di procedura civile, esclusi solo l’interrogatorio
formale e il giuramento.
In questa logica, va considerato che l’art. 6, 2° c. della legge in esame consente
la devoluzione ad arbitrato (rituale di diritto) delle vertenze, su diritti assegnate
alla giurisdizione esclusiva.
Queste innovazioni non comportano, però, che nel giudizio amministrativo
possano essere esperite, a tutela dei diritti, tutte la azioni ammesse dal codice di
procedura civile.
Capitolo 9
L’AZIONE DEL PROCESSO AMMINISTRATIVO
1. Le condizioni generali per l’azione nel processo amministrativo
Le condizioni generali per l’azione sono:interesse a ricorre e legittimazione a
ricorrere in capo a chi promuova il giudizio.Sono designate condizioni generali
per l’azione perché il giudice una volta verificata la valida instaurazione del
processo deve accertare la loro sussistenza per poter procedere alla valutazione
del merito.Le conclusioni ricorrenti, rispetto al processo amministrativo, risultano
distanti da quelle raggiunte per il processo civile.
In questa sede è opportuno fare riferimento all’impostazione tradizionale.
a)La figura più controversa è quella dell’interesse a ricorrere. Richiamandosi al
principio sancito dall’art. 100 c.p.c., la giurisprudenza amministrativa identifica,
come condizione generale per l’azione, un interesse a ricorrere, inteso non
genericamente nei termini della idoneità dell’azione a realizzare il risultato
perseguito, ma come interesse proprio del ricorrente, al conseguimento di
un’utilità o di un vantaggio(materiale o morale), attraverso il processo
amministrativo.Secondo il Consiglio di Stato l’interesse a ricorrere assume
sempre una rilevanza concreta eccettuato forse l’azione di condanna.
In particolare, l’interesse a ricorrere avrebbe una specifica rilevanza, anche nelle
azioni costitutive, con la conseguenza che, in alcune ipotesi, pur essendo
configurabile la lesione di un interesse legittimo, non sarebbe assicurata una
tutela giurisdizionale, per mancanza dell’interesse a ricorrere.
71
Secondo la giurisprudenza, il risultato “utile” che il ricorrente deve dimostrare di
poter conseguire, ai fini dell’interesse a ricorrere , non si identifica sempre, con
la semplice garanzia dell’interesse legittimo.
Risultato “utile” potrebbe essere solo il conseguimento di una posizione di
vantaggio, non necessariamente identificabile con la ripristinazione dell’interesse
legittimo.
Dell’interesse a ricorrere, vengono predicati gli attributi della personalità (il
risultato deve riguardare direttamente il ricorrente), dell’attualità (l’interesse
deve sussistere al momento del ricorso), della concretezza (l’interesse a
ricorrere va valutato con riferimento ad un pregiudizio verificatosi,
concretamente, ai danni del ricorrente). Sulla base di questi elementi viene
ricondotta alla carenza d’interesse, l’esclusione della possibilità di impugnare, in
via autonoma o immediata, alcuni atti amministrativi(atti preparatori, atti
interni).
In questi casi, l’interesse a ricorrere sarebbe insussistente, perché, la lesione
può essere prodotta solo dal provvedimento conclusivo del procedimento, ovvero
solo da un atto che sia diventato esecutivo, ovvero solo in presenza di un atto
applicativo.
La configurabilità di un tale interesse viene richiesta, non solo ai fini
dell’introduzione del giudizio, ma anche ai fini della decisione del ricorso.
Il ricorso viene dichiarato inammissibile per “sopravvenuta carenza
d’interesse”: qualsiasi circostanza sopravvenuta, che precluda il
raggiungimento del risultato utile, rende inammissibile l’azione già efficacemente
proposta.
Alcuni autori hanno sottolineato la scarsa chiarezza di confini fra tale interesse e
l’interesse legittimo. Così, alcuni autori hanno proposto o l’assimilazione delle
due figure o una nozione di interesse legittimo, tale da assorbire quella
tradizionale di interesse a ricorrere. Ma, la giurisprudenza e la dottrina
prevalente sono invece ferme nel distinguere fra due ordini di interesse. Va
considerato, tuttavia, che anche nella giurisprudenza, a proposito dell’interesse a
ricorrere, alle affermazioni di principio corrispondono, spesso, prassi almeno in
parte diverse. Di fatto, la giurisprudenza attribuisce importanza all’interesse a
ricorrere, in una logica prevalentemente negativa: l’interesse a ricorrere rileva,
non come fattore che giustifica l’azione, ma come fattore, la cui mancanza,
preclude la pronuncia sul merito del ricorso.
72
b) Per quanto riguarda la legittimazione a ricorrere, va osservato che essa
viene ancora interpretata come effettiva titolarità di tale posizione. Pertanto, il
giudice amministrativo, quando accerta che il ricorrente non è titolare di tale
posizione qualificata, dichiara il ricorso inammissibile, e non infondato.
In questo modo, la pronuncia di inammissibilità comporta un accertamento
negativo di una posizione soggettiva di rilevanza sostanziale. Di conseguenza,
per alcuni aspetti, come l’idoneità del giudicato a produrre effetti “esterni” al
processo, è stata assimilata alle pronunce di merito.
La legittimazione a ricorrere è ricondotta, in genere, alla titolarità di posizioni di
interesse qualificato: interesse legittimo o anche diritto soggettivo, nel caso
della giurisdizione esclusiva.
In alcune ipotesi, però, la legittimazione a ricorrere è costituita semplicemente
da una condizione formale del ricorrente, e non dall’affermazione o dalla
titolarità di un interesse qualificato. Ciò si verifica, in particolare, nel caso delle
azioni popolari per le quali la legittimazione a ricorrere si identifica con la
qualità generica di cittadino o con l’iscrizione elettorale nelle liste di un comune.
Alle azioni popolari sono accostate alcune previsioni, contemplate soprattutto
nella legislazione recente, a proposito della tutela degli interessi diffusi.A essi
la legittimazione a ricorrere è attribuita per legge alle associazioni previamente
identificate sulla base di criteri oggettivi e senza la necessità di verifica della
titolarità di posizioni di interesse qualificato.La legge non ha trasformato gli
interessi diffusi in interessi legittimi delle associazioni in questione ma ha
assegnato alle associazioni una particolare legittimazione a ricorrere per la tutela
di interessi che altrimenti sarebbero prive di garanzia giurisdizionale.
2. La tipologia delle azioni nel processo amministrativo
Anche nella giurisprudenza amministrativa si possono identificare, un processo di
cognizione ed un processo di esecuzione.
Come nel processo civile, anche nel processo amministrativo di cognizione sono
identificabili azioni di mero accertamento (o azioni dichiarative) , azioni
costitutive e azioni di condanna.
I tre ordini di azioni presentano, però, profili particolari e non esauriscono il
quadro complessivo della tipologia delle azioni di tutela di interessi legittimi.
L’azione costitutiva nei giudizi, promossa a tutela di interessi legittimi, si
risolve nell’impugnazione del provvedimento lesivo: col ricorso viene chiesto al
giudice amministrativo l’annullamento del provvedimento.
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Nei giudizi di tutela di diritti soggettivi è ammessa anche un’azione di
condanna. Essa fu introdotta dall’art. 26, 3° c. della legge TAR, che però la
prevedeva solo in casi limitatissimi.
3. L’azione costitutiva
La disciplina positiva del processo amministrativo si incentra sull’azione
costitutiva: il ricorso al giudice amministrativo è inteso come strumento per la
tutela costitutiva, che si attua impugnando l’atto amministrativo lesivo, per
ottenere l’annullamento o la riforma. La tutela è sempre “successiva”, perché
presuppone che l’Amministrazione abbia già leso l’interesse del cittadino. Nel
caso in cui, la lesione sia determinata da un provvedimento amministrativo,
all’effetto costitutivo del potere, corrisponde il carattere costitutivo della tutela
offerta all’interesse legittimo.
Nel processo amministrativo, la tutela costitutiva ha carattere “generale”: essa è
sempre ammessa, ogni qual volta il giudizio investa un provvedimento lesivo
dell’Amministrazione.
I caratteri e l’oggetto dell’azione costitutiva sono molto dibattuti.
Il risultato della tutela costitutiva nel processo amministrativo è di regola
l’annullamento del provvedimento impugnato; solo nei casi di giurisdizione
di merito è ammessa anche la riforma. Si tratta di un esito analogo a quello che
può essere perseguito attraverso propri atti, dalla stessa Amministrazione, come
nel caso dell’annullamento d’ufficio. Perciò l’annullamento del provvedimento
illegittimo non è un risultato infungibile, che può essere raggiunto solo attraverso
il processo, come invece, nel caso delle c.d. azioni costitutive
necessarie(es.Sciolgimento degli effetti civili del matrimonio).
L’azione costitutiva si presenta, con identici caratteri, quando sia contestato,
anziché, un provvedimento amministrativo, un silenzio-assenso. Quest’ultimo,
infatti, non è un atto amministrativo, pertanto, quando gli effetti prodotti siano
illegittimi, può esserne richiesto l’annullamento.
4. L’azione di mero accertamento e l’azione di condanna
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a)Di azione di mero accertamento , del tutto analoga a quella ammessa nel
processo civile, nel processo amministrativo si parla propriamente con riguardo a
vertenze per diritti soggettivi, nelle materie di giurisdizione esclusiva.
Oggetto di accertamento può essere, sia un diritto patrimoniale, che un diritto
non patrimoniale. La giurisprudenza ritiene che l’azione di accertamento non sia
soggetta a termini di decadenza, fatta salva l’incidenza della prescrizione del
diritto.Nel caso di silenzio-rifiuto non vi è un atto amministrativo e non è passibile
di annullamento ma solo di accertamento.
b) L’azione di condanna nel processo amministrativo fu introdotta dall’art. 26,
3° c. legge TAR, per le controversie inerenti alla giurisdizione <<esclusiva e di
merito>>; la condanna poteva riguardare solo l’Amministrazione e poteva
consistere esclusivamente nel pagamento di una somma di denaro, ossia nella
condanna all’adempimento di un’obbligazione pecuniaria. Era considerata, come
mezzo preordinato alla costituzione di un titolo esecutivo, idoneo a consentire
l’esecuzione forzata, nelle forme previste dal libro terzo del codice di procedura
civile. Risultavano, però, poco ragionevoli i due ordini di limitazioni contemplati
dalla stessa legge.
Si tenga presente, infatti, che il giudizio avrebbe potuto essere promosso anche
dall’Amministrazione nei confronti del cittadino; in questi casi, la preclusione
dell’Amministrazione di proporre un’azione di condanna appariva molto grave,
perché poteva rendere impossibile la tutela, nelle forme del processo esecutivo (
dato che l’Amministrazione avrebbe potuto ottenere dal giudice solo una
sentenza di accertamento e il giudizio di ottemperanza di regola non è esperibile
nei confronti di soggetti privati).
In secondo luogo, l’azione poteva riguardare solo obbligazioni pecuniarie: erano
ammesse solo condanne al pagamento di somme di denaro. Nei confronti
dell’Amministrazione, però, il cittadino poteva essere titolare anche di diritti
soggettivi, che non avevano contenuto pecuniario.
In questi casi, viene esclusa la possibilità di una tutela esecutiva, nelle forme
previste in generale per i diritti.
L’art. 26, 3° c. legge TAR non è stato formalmente modificato: le modifiche
all’art. 26, introdotte dalla legge n. 205/2000 (art. 9) non hanno riguardato il
terzo comma. Tuttavia, il quadro complessivo della tutela dei diritti davanti al
giudice amministrativo è cambiato. In primo luogo, sono venute meno molte
ipotesi in cui si ammetteva un’azione di condanna contro privati; in secondo
luogo, si deve ritenere che il giudice amministrativo possa condannare
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l’amministrazione al pagamento di somme di denaro, anche a titolo di
risarcimento dei danni.
Inoltre, l’art. 35 del d.lgs. n. 80/1998 e l’art. 7, 3° c., legge TAR, come modificati
dall’art. 7 della legge n. 205/ 2000, prevedono , di competenza del giudice
amministrativo, sia la reintegrazione in forma specifica che il pagamento di
somme di denaro e considerano entrambe le pronunce, in termini omogenei.
Inoltre, l’art. 8 della legge n. 205/2000, che introduce nel processo
amministrativo, un giudizio monitorio per l’emanazione di ingiunzioni di
pagamento, le ammette per <<i diritti soggettivi di natura patrimoniale>>.
c) In base al principio desunto dall’art. 4 della legge del 1865, l’Amministrazione
deve porre in essere l’attività necessaria per adeguare la situazione di fatto a
quella di diritto, affermata nella sentenza. Il dovere di conformarsi al giudicato è
configurabile anche in presenza di una sentenza di annullamento o di mero
accertamento. Nel caso di inosservanza del dovere dell’Amministrazione di
conformarsi al giudicato, è esperibile il giudizio di ottemperanza, che assicura
l’esecuzione della sentenza a di tutti gli obblighi che ne derivano.
In sostanza, anche nelle vertenze su diritti, l’utilità dell’azione di accertamento,
nei confronti dell’Amministrazione, non si esaurisce nel superamento di una
incertezza obiettiva nella situazione di diritto. L’azione di accertamento può
essere anche rimedio ad una lesione concreta di un diritto soggettivo, provocata
dall’Amministrazione, perché può essere esperita in vista di una esecuzione, da
attuarsi attraverso il giudizio di ottemperanza.
d) Si discute se nel caso di danni provocati da un provvedimento amministrativo,
l’azione risarcitoria sia subordinata all’annullamento del provvedimento
lesivo.
Il diritto al risarcimento dei danni e la pretesa all’annullamento del
provvedimento lesivo sono distinti sul piano sostanziale e perciò, le rispettive
azioni dovrebbero svolgersi in reciproca autonomia. Questa conclusione, accolta
dalla Cassazione, è stata criticata dalla giurisprudenza amministrativa, che
sostiene, infatti, che il risarcimento presuppone l’annullamento dell’atto lesivo.
Secondo tale ipotesi, l’annullamento è “pregiudiziale” all’esame della domanda
di risarcimento dei danni (c.d. tesi della pregiudizialità).
Le ragioni della giurisprudenza amministrativa non sono del tutto chiare; in
alcune pronunce sono invocati argomenti di ordine sostanziale. In questa logica,
ad esempio, la domanda di risarcimento avrebbe solo carattere “ residuale”,
76
perché potrebbe riguardare solo il danno che permane, anche dopo
l’annullamento dell’atto lesivo.
In altre pronunce, sono invocati argomenti di ordine processuale: è stato
sostenuto che, anche la domanda risarcitoria introdurrebbe una contestazione
all’assetto d’interessi, realizzato dall’atto amministrativo e, ammettere questa
domanda senza scadenze, comporterebbe un’esclusione alla regola sul termine
di decadenza per l’impugnazione dell’atto.
c) Il rapporto fra l’impugnazione dell’atto lesivo e la domanda di risarcimento è
discusso anche per la previsione di sentenze del giudice amministrativo di
<<reintegrazione in forma specifica>>.
La disposizione assegna al giudice amministrativo la giurisdizione per le vertenze
risarcitorie e, perciò, è stata interpretata da molti, alla luce delle norme del
cod.civ. sul risarcimento dei danni. In questa logica, il giudice amministrativo può
pronunciare sentenze di reintegrazione in forma specifica. Ciò comporta che la
competenza del giudice amministrativo non è circoscritta al risarcimento per
equivalente e che il contenuto pecuniario dell’obbligazione risarcitoria non
rappresenta un “limite interno” per la giurisdizione amministrativa.
A giudizio di altri, la previsione di una <<reintegrazione in forma specifica>>
comporterebbe una innovazione più radicale e varrebbe ad introdurre, nel nostro
sistema di giustizia amministrativa, un’azione di adempimento a tutela degli
interessi legittimi, soprattutto nel caso di c.d. “interessi pretensivi”.
Il giudice non dovrebbe più limitare la sua cognizione alla verifica della
illegittimità degli atti amministrativi, ma dovrebbe accertare ciò che sarebbe
spettato al ricorrente, se l’Amministrazione avesse agito legittimamente. Alcune
decisioni del Consiglio di Stato hanno criticato, però, questo indirizzo.
5. La tutela nei confronti del silenzio-rifiuto e la tutela del diritto
d’accesso.
Nel processo amministrativo, come nel processo civile, la distinzione fra le azioni
di merito e le azioni di condanna non è del tutto pacifica. Chi ritiene che la
condanna sia preordinata alla formazione di un titolo esecutivo, considera come
azioni di condanna solo quelle che possono condurre ad un titolo esecutivo.
Conclusioni opposte sono proposte da chi, invece, considera come pronunce di
condanna, anche quelle che impongano, espressamente, uno specifico obbligo
di condotta a carico della parte soccombente, indipendentemente dalla loro
idoneità a formare un titolo esecutivo.
77
Pronunce “ordinatorie” del giudice amministrativo sono previste, in particolare
nel giudizio sul silenzio-rifiuto e nel giudizio per l’accesso a documenti
amministrativi.
a) Il c.d. silenzio (o silenzio-rifiuto)
L’azione nei confronti del silenzio dell’Amministrazione ha, per certi profili, un
“carattere preventivo”: non viene impugnato un provvedimento e non è
intervenuto alcun provvedimento che possa ledere l’interesse del cittadino.
La giurisprudenza, però, sottolinea la circostanza che nel caso di “silenzio” vi
sarebbe, comunque, una lesione di interesse legittimo.
L’azione è attualmente disciplinata dall’art. 2 della legge n. 205/2000, che
introduce fra l’altro un apposito rito speciale. Il ricorso non è soggetto al termine
ordinario di decadenza di 60 gg., ma può essere proposto finchè
l’amministrazione ometta di provvedere, purchè entro un anno dalla scadenza
del termine per l’ultimazione del procedimento.
Oggi, è stabilito che <<il giudice amministrativo può conoscere della fondatezza
dell’istanza>> ( legge n. 241/1990). Ciò significa che, se il ricorso è proposto
per il silenzio mantenuto dall’Amministrazione, su richiesta di provvedimento, il
giudice può verificare la sussistenza di tutte le condizioni prescritte per il rilascio
di quel provvedimento e, in caso positivo, il suo ordine <<di provvedere>>
comporta l’obbligo, per l’Amministrazione, di rilasciare quel provvedimento.
b) L’azione a tutela del diritto d’accesso ai documenti amministrativi è
prevista dall’art. 25 della legge n. 241/1990, modificato nel 2005.
Per dare ragione della specialità di questo modello, è stato sostenuto che,
nell’ipotesi dell’art. 25 cit., il giudizio non verterebbe sulla questione di
legittimità del provvedimento di diniego d’accesso, ma verterebbe sul diritto del
cittadino ad ottenere, dall’Amministrazione, l’accesso al documento. Il
provvedimento di diniego non sarebbe oggetto di un’impugnazione in senso
proprio: il giudizio concernerebbe direttamente le fondatezza della pretesa del
cittadino ad accedere al documento e la sussistenza delle condizioni di legge per
tale accesso. Una volta accertato dal giudice che il cittadino ha titolo all’accesso,
non vi è più spazio per una <<ulteriore>> attività amministrativa che valuti la
richiesta di accesso.
Si tenga presente che, secondo le giurisprudenza, il giudizio sull’accesso è
assoggettato ai principi del processo amministrativo, nonostante che il processo
verta su un diritto. Di conseguenza, il terzo titolare di un interesse specifico alla
78
riservatezza di un documento amministrativo è considerato ad ogni effetto come
“controinteressato” , nel giudizio per l’accesso a quel documento.
Questa soluzione è stata oggetto di vivaci polemiche. Da ultimo,nelle modifiche
introdotte all’art. 25 della legge n. 241/1990, dall’art. 3 del d.l. n.35/2005,
convertito in legge n. 80/2005, si intravede una preferenza per la qualificazione
del diritto d’accesso, come diritto soggettivo.
Capito 10
ELEMENTI PRELIMINARI PER LO STUDIO DEL PROCESSO
AMMINISTRATIVO
1. Il giudice amministrativo e la sua competenza
La giurisdizione amministrativa è esercitata in primo luogo dai Tribunali
Amministrativi Regionali (TAR), in secondo grado dal Consiglio di Stato e
dal consiglio di giustizia amministrativa per la Regione siciliana.
I TAR sono istituiti in ogni Regione ed hanno sede nei rispettivi capoluoghi: in
alcune Regioni sono istituite sezioni staccate che hanno sede in un capoluogo di
Provincia. Nella Regione Trentino- Alto Adige, in base allo Statuto speciale, nel
1984 sono stati istituiti un TAR con sede a Trento e una sua sezione autonoma a
Bolzano.
In questi casi, la sezione esercita una competenza di carattere funzionale ed è
giudice in unico grado. Le altre pronunce della sezione autonoma sono
impugnabili avanti al Consiglio di Stato.
a) I criteri generali di riparto della competenza sono disciplinati dagli artt. 2 e
3 della legge TAR. Queste disposizioni attribuiscono rilievo alla sede dell’organo
che ha emanato l’atto impugnato: il TAR è competente per l’impugnazione di atti
emessi da organi che hanno la loro sede nella sua circoscrizione. Il criterio della
sede dell’organo è però temperato da quello della efficacia dell’atto(al fine di
evitare il carico eccessivo di ricorsi): se gli atti impugnati sono stati emanati da
organi centrali dello Stato, ma hanno un’efficacia limitata al territorio di una
regione o di una parte di essa, è competente il TAR, nella cui circoscrizione si
producono gli effetti dell’atto; se, invece, hanno un’efficacia territoriale più
ampia , è competente il TAR ,nella cui circoscrizione ha sede l’ente Statale o
ultraregionale . Infine, per i ricorsi proposti in materia di pubblico impiego, da
79
pubblici dipendenti in servizio, è competente il TAR nella cui circoscrizione ha
sede l’ufficio del pubblico dipendente (c.d. foro del pubblico impiego).
I rapporti fra i tre criteri sono in parte controversi, benchè alcuni aspetti
sembrano chiariti.
Il criterio dell’efficacia dell’atto non è ritenuto applicabile nel caso di
impugnazione di atti di enti locali o di organi periferici di amministrazioni
nazionali: in questa ipotesi vale il criterio della sede dell’organo che ha emanato
l’atto, senza la necessità di verifiche sull’efficacia dell’atto stesso. Il criterio del
foro del pubblico impiego è ritenuto speciale, e perciò prevalente rispetto agli
altri; si ritiene, tuttavia, non applicabile quando siano impugnati atti di un ente
ultraregionale che abbiano un contenuto inscindibile, diretto alla generalità dei
dipendenti.Nel caso di ricorso proposto da più ricorrenti(cd.cumulo soggettivo)la
competenza del TAR periferico in base al criterio dell’efficacia dell’atto o al Foro
del pubblico impiego presuppone che per tutti i ricorrenti l’atto impugnato
esaurisca la sua efficacia nell’ambito della circoscrizione del TAR o che tutti i
ricorrenti prestino servizio presso uffici con sedi comprese nella circoscrizione del
TAR.Nel caso di ricorso proposto contro atti connessi(cumulo oggettivo) di cui
uno presupposto e l’altro applicativo del primo, e la cui impugnazione in astratto
rientrerebbe nella competenza di TAR diversi.
I tre criteri generali sulla competenza si risolvono in un riparto di competenza
territoriale , la cui violazione di regola, non solo non è rilevabile d’ufficio, ma può
essere rilevata solo in esito ad un procedimento particolare, di regolamento di
competenza e non può costituire motivo di appello.
E’ invece funzionale la competenza assegnata alla sezione autonoma di Bolzano
del Tribunale ragionale di giustizia amministrativa.
Si tende a considerare funzionale anche la competenza per il giudizio di
ottemperanza, per lo meno nel caso di esecuzione di un giudicato
amministrativo. Per l’ottemperanza al giudicato civile è competente il TAR,
quando l’autorità amministrativa tenuta all’ottemperanza svolga la sua attività
esclusivamente nella circoscrizione del TAR, mentre negli altri casi è competente
il Consiglio di Stato. Invece per l’ottemperanza al giudicato amministrativo è
competente lo stesso giudice(TAR o Consiglio di Stato) che ha emesso la
sentenza della cui esecuzione si tratta; la competenza del TAR si estende, però,
anche all’ipotesi che la sentenza del TAR sia stata integralmente confermata dal
Consiglio di Stato.
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La legge, ai fini della disciplina della competenza territoriale, considera i giudizi
in materie devolute alla giurisdizione esclusiva, solo limitatamente ai giudizi
del pubblico impiego. Non chiarisce, invece, sulla base di quali criteri debba
essere identificato il TAR competente per i ricorsi proposti negli altri casi di
giurisdizione esclusiva, quando non siano in questione provvedimenti
amministrativi.La giurisprudenza afferma che competente a pronunciarsi sulla
domanda del risarcimento del danno sia il TAR cui spetta decidere sul ricorso di
annullamento del provvedimento lesivo.
b) L’incompetenza del TAR non può essere rilevata dallo stesso TAR; può essere
rilevata solo dal Consiglio di Stato, che decide in seguito a regolamento di
competenza (art. 31 legge TAR).
Le parti costituite in giudizio possono eccepire, entro un termine perentorio,
l’incompetenza del TAR adito dal ricorrente, indicando però anche quale sia il
TAR competente; l’eccezione va proposta con istanza di regolamento di
competenza; se tutte le parti aderiscono all’istanza, gli atti del giudizio vengono
trasmessi al TAR in essa indicato, davanti al quale il giudizio prosegue;
altrimenti l’istanza stessa è sottoposta ad una sommaria delibazione del TAR
davanti al quale è stato proposto il ricorso, che con sentenza può respingere
l’istanza, se ne rilevi la manifesta infondatezza. In caso contrario, il TAR
trasmette l’istanza e gli atti del giudizio al Consiglio di Stato per la decisione sulla
competenza.La disciplina del regolamento di competenza non si applica alle
questioni di competenza che investono i rapporti tra un TAR e una sezione
distaccata:per esse è previsto un procedimento speciale deciso con unìordinanza
non impugnabile del presidente del TAR.
c) Per quanto riguarda il Consiglio di Stato, se la questione sottoposta ad esso,
può dar luogo a contrasti di giurisprudenza o risulti di particolare importanza,
rispettivamente la sezione o il Presidente del Consiglio di Stato possono
rimettere il ricorso all’Adunanza plenaria.
Il Consiglio di Stato è oggi quasi esclusivamente giudice d’appello, nei confronti
delle pronunce dei TAR.
Nei confronti delle sentenze del TAR Sicilia l’appello va proposto al Consiglio di
giustizia amministrativa per la Regione siciliana(è equiordinato al Consiglio di
Stato).
2. Le parti necessarie
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Anche nel processo amministrativo si distingue fra parti necessarie e parti non
necessarie. La garanzia del contraddittorio rispetto alle parti necessarie
costituisce una condizione per la validità della sentenza, mentre per le parti non
necessarie è consentita la partecipazione al giudizio ma non vi è l’obbligo di
portare a loro conoscenza il ricorso né integrare il contraddittorio.
Con riferimento specifico al giudizio di primo grado, la distinzione fra parti
necessarie e parti non necessarie riflette considerazioni di diritto sostanziale. Nel
processo amministrativo, parti necessarie sono, oltre al ricorrente, anche
l’Amministrazione resistente e i controinteressati, soggetti titolari di un interesse
qualificato che può essere pregiudicato dal ricorso e, su cui, può avere incidenza
diretta il giudicato.Le altre parti possono essere titolari di interessi minori e
diversi che le legittimano solo ad intervenire.
Questo modello è stato elaborato sul modello del giudizio di impugnazione, ma è
stato esteso a qualsiasi tipologia di azione proposta avanti al giudice
amministrativo.
a) Il ricorrente fa valere in giudizio un proprio interesse legittimo o un proprio
diritto soggettivo. L’interesse del ricorrente identifica la posizione soggettiva su
cui verte il giudizio. Di questa posizione si ha riflesso nel fatto che: l’introduzione
del giudizio dipende da un suo atto di iniziativa (il ricorso), ma anche nel fatto
che tale atto individua l’oggetto su cui verterà il giudizio ed infine che il
ricorrente ha piena disponibilità dell’azione proposta ( nel senso che può anche
ad essa rinunciare, senza neppure la necessità di un’accettazione ad opera delle
parti).Il ricorso può essere proposto da più soggetti insieme(ricorso collettivo)
purché la loro posizione sia omogenea.
b) Parte necessaria nel processo amministrativo è anche l’Amministrazione
che ha emanato l’atto impugnato. Le disposizioni sul processo amministrativo
prevedevano, a questo proposito, la notifica all’organo che avesse emanato l’atto
impugnato e riconoscevano all’organo una legittimazione processuale passiva.
L’interpretazione data dalla giurisprudenza a queste disposizioni comporta oggi
l’identificazione della parte resistente con l’Amministrazione ossia l’ente
pubblico. L’Amministrazione “resistente” è parte nel processo e non autorità: di
conseguenza è soggetta in tutto e per tutto alle regole del processo su un piano
paritario rispetto alle altre parti. La posizione di autorità rimane tale sul piano
sostanziale ma non processuale.
c) Infine, sono parti necessarie i controinteressati; soggetti ai quali l’atto
impugnato conferisce un’utilità specifica e titolari di un interesse qualificato alla
82
conservazione dell’atto impugnato. Ad essi deve essere notificato il ricorso; nel
caso in cui i controinteressati siano più d’uno, il ricorso è ammissibile anche se
notificato ad uno solo di essi, ma nei confronti degli altri deve essere effettuata
l’integrazione del contraddittorio, nei tempi e con le modalità disposte dal
TAR (art. 21 legge TAR).
I controinteressati sono in una posizione “speculare” rispetto al ricorrente e ciò
implica una pari dignità nel processo per quanto riguarda il diritto di azione e di
difesa. La disciplina del processo amministrativo contempla istituti volti
specificamente a garantire la parità di posizione dei controinteressati, rispetto al
ricorrente: ne è esempio il ricorso incidentale.
Il ricorso incidentale è l’atto processuale con il quale il controinteressato può
impugnare a sua volta il provvedimento impugnato e far valere i vizi, il cui
accertamento potrebbe comportare, in caso di accoglimento del ricorso
principale, un risultato pratico favorevole al contrinteressato stesso.
Inoltre, con il ricorso incidentale, il controinteressato può impugnare un diverso
atto dal quale dipendono la legittimazione o l’interesse a ricorrere, o comunque
un vantaggio rilevante per il ricorrente principale.
Ai fini della identificazione dei controinteressati, secondo la giurisprudenza,
non è sufficiente, però, il requisito di ordine sostanziale, rappresentato
dall’attribuzione a tali soggetti di un’utilità specifica ad opera del provvedimento
impugnato. E’ necessario anche un requisito di ordine formale, e cioè che il
controinteressato sia identificato o facilmente identificabile, alla stregua dell’atto
amministrativo stesso.
La giurisprudenza afferma che i controinteressati non identificati nell’atto
amministrativo (c.d. controinteressati non intimati) possono intervenire nel
processo amministrativo e proporre ogni difesa ammessa per i controinteressati.
Tuttavia, perché non sono considerati parti necessarie, nei loro confronti non
sussiste un obbligo di notifica del ricorso o di integrazione del contraddittorio e la
sentenza che sia stata pronunciata, senza la loro partecipazione al giudizio, non
dovrebbe ritenersi di per sé viziata.
3. segue : le parti non necessarie
Le parti diverse da quelle necessarie sono prese in considerazione dalle leggi sul
processo amministrativo, solo in modo generico.
a) In realtà, però, non tutti i soggetti interessati al giudizio possono intervenire.
Infatti non possono intervenire in giudizio i controinteressati, e cioè i soggetti
83
titolari di un interesse legittimo analogo a quello del ricorrente, che avrebbero
potuto impugnare autonomamente l’atto amministrativo. La giurisprudenza ha
escluso la possibilità per tali soggetti di proporre un intervento liticonsortile, col
quale chiedere, a loro volta, l’annullamento del provvedimento impugnato(è
stato perché cosi’ sarebbe possibile eludere il termine di decadenza previsto per
l’impugnazione del provvedimento amministrativo.
b) Le disposizioni che disciplinano l’intervento nel processo amministrativo
definiscono lo strumento e le modalità per l’ingresso nel processo, di una parte
non necessaria, ma non identificano i contenuti e l’ampiezza della tutela offerta
alla parte che interviene. Per valutare questo aspetto è però necessario chiarire
in che cosa consista <<l’interesse>> che legittima l’intervento in giudizio(tale
interesse non può essere identico a quello del ricorrente).
La giurisprudenza ammette che l’intervento possa essere proposto a tutela di un
interesse “dipendente” da quello di una delle parti necessarie. In tal senso, il
provvedimento impugnato avrebbe un’incidenza diretta sulla posizione di una
parte necessaria e produrrebbe un effetto “riflesso” sul terzo interventore, in
virtù di una relazione giuridica intercorrente fra i due soggetti.
Si discute, inoltre, se sia sufficiente, per l’intervento, un interesse semplice o
di fatto. Nel caso di una risposta affermativa, sarebbe possibile sostenere che,
con l’intervento nel processo amministrativo, avrebbero ingresso anche gli
interessi non qualificati.
La giurisprudenza ammette un “intervento adesivo dipendente”. Di
conseguenza, il soggetto che intervenga a favore del ricorrente, può solo
introdurre argomenti a sostegno dei motivi di impugnazione proposti dal
ricorrente stesso, non può proporre conclusioni proprie né nuove censure contro
l’atto impugnato e non può dar corso ad atti d’impulso del giudizio. Il soggetto
che intervenga in una posizione corrispondente a quella della parte resistente o
di un controinteressato, non incontra, invece, particolari limitazioni in merito alle
conclusioni.
Secondo la giurisprudenza recente , titolari di un interesse giuridico
autonomo alla conservazione dell’atto impugnato, non sono però identificabili
con i controinteressati, perché, essi non sono destinatari di specifiche utilità
assegnategli dal provvedimento amministrativo. La circostanza ha condotto la
giurisprudenza a riconoscere per essi uno “status” particolare: pur non essendo
parti necessarie del processo di primo grado, possono impugnare la sentenza
loro sfavorevole, e ciò anche se non erano intervenuti nel relativo giudizio.
84
In conclusione, alla figura dell’intervento possono corrispondere posizioni
soggettive con consistenza diversa, ma alla diversa consistenza delle posizioni
soggettive corrisponde anche una diversità di prerogative processuali.
b) In passato le giurisprudenza e la dottrina ammettevano un’unica modalità di
intervento nel processo amministrativo: l’intervento volontario. Questa
conclusione non appare più sostenibile, in seguito all’introduzione
dell’opposizione di terzo.
4. La capacità processuale e il patrocinio legale
Per quanto riguarda la capacità processuale, vigono, nel processo
amministrativo, i principi vigenti anche nel processo civile. Le persone giuridiche,
sia pubbliche che private, stanno in giudizio a mezzo dei loro legali
rappresentanti. Molto frequentemente, però, il rappresentante legale dell’ente
può stare in giudizio solo se è autorizzato da un altro organo dell’ente, cui spetta
decidere se l’ente debba agire o resistere in giudizio. La delibera che autorizza a
stare in giudizio può intervenire anche in un momento successivo alla
costituzione, perchè rileverebbe come condizione di efficacia e non di validità
della costituzione. Nel processo amministrativo è obbligatoria l’assistenza di un
avvocato: solo nel giudizio in materia elettorale e nel giudizio in materia di
accesso a documenti amministrativi, la parte può stare in giudizio
personalmente. Nel giudizio avanti al Consiglio di Stato, la parte deve essere
assistita da un avvocato abilitato al patrocinio, avanti alle giurisdizioni superiori.
Invece, non è obbligatorio avvalersi anche della rappresentanza dell’avvocato,
che attribuisce al legale il potere di compiere atti processuali a nome della parte.
4. I principi generali del processo(farlo libro)
5. Il rapporto con la disciplina del processo civile
In alcuni casi, le leggi sul processo amministrativo rinviano espressamente a
disposizioni del codice di procedura civile. Ciò vale, per esempio, per la disciplina
dell’interruzione del processo per i casi di revocazione, per la disciplina del
regolamento preventivo di giurisdizione, per la decorrenza del termine breve per
l’appello.
Frequentemente, la giurisprudenza amministrativa, nella materia in esame,
prende in considerazione la disciplina del processo civile. Tuttavia, il confronto
non si risolve, di regola, con un mero rinvio alla norma processual-civilistica; il
richiamo a questa norma è il risultato di una valutazione sulla compatibilità dei
due sistemi processuali rispetto ad un determinato istituto o ad un determinato
85
ambito. Il processo amministrativo costituisce un sistema processuale autonomo
e distinto da quello civile. L’estensione della giurisdizione esclusiva, invece,
imporrebbe soluzioni più articolate, con riferimento ai giudizi che vertano solo sui
diritti. Per questi giudizi, si sostiene che le lacune non potrebbero essere
colmate, richiamando i principi di questo processo, quando essi siano stati
elaborati sul giudizio d’impugnazione. Per alcuni istituti, tale rinvio sarebbe
addirittura sviante.
In conclusione, allo scenario di un giudizio amministrativo disarticolato in due
distinti processi, quello modellato sull’impugnazione di atti e quello specifico par
la tutela di diritti, si deve replicare l’esigenza di una riflessione più ampia.
Capitolo 11
IL GIUDIZIO DI PRIMO GRADO
1. La fase introduttiva
Il ricorso è tipicamente l’atto col quale chi pretende di essere stato leso in un
proprio interesse(qualificato) da un provvedimento dell’amministrazione
impugna tale provvedimento chiedendo al giudice amministrativo di annullarlo.Il
ricorso si presenta come strumento di reazione a un atto lesivo della PA. Il
giudizio avanti al TAR è introdotto con un ricorso. Oggi il ricorso ha perso ogni
connotazione specifica di reazione ad un provvedimento lesivo e costituisce più
semplicemente l’atto processuale introduttivo del giudizio amministrativo,
indipendentemente dai contenuti o dagli interessi coinvolti.
Nel processo amministrativo, di norma, il ricorso deve essere notificato
all’Amministrazione che ha emanato l’atto impugnato e ad almeno uno dei
controinteressati, entro 60 gg. dalla comunicazione, pubblicazione o piena
conoscenza dell’atto amministrativo impugnato; successivamente, entro 30 gg.
dall’ultima notifica, deve essere depositato presso la segreteria dell’organo
giurisdizionale adito, e, solo in questo momento, viene portato a conoscenza del
giudice.
a) I contenuti necessari del ricorso sono elencati nell’art. 6 reg. proc. Cons.
Stato e sono : l’organo giurisdizionale cui è diretto, le generalità della parte,
l’esposizione delle ragioni di fatto e di diritto su cui si fonda la domanda.L’atto
deve essere sottoscritto dall’avvocato e se è stato conferito mandato senza
rappresentanza dall’avvocato e dalla parte.
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L’art. 17 reg. proc. Cons. Stato individua , come ragioni di nullità del ricorso, il
difetto di sottoscrizione e <<l’incertezza assoluta sulle persone o sull’oggetto
della domanda>>. La domanda è definita, oltre che dalla richiesta di
annullamento di un certo atto, dalle censure proposte a fondamento della
richiesta di annullamento. Ma, il rapporto fra la singola censura e la domanda
non è ben definito; si contrappongono tesi che configurano l’azione in funzione
degli atti di cui si chiede l’annullamento e tesi che , invece, configurano l’azione
in base alle censure proposte.
Il vizio dell’atto impugnato viene considerato un elemento per
l’identificazione dell’azione e, quindi, il riscontro di esso assume rilievo per
valutare quando una domanda sia completa in tutti i suoi elementi e perciò
debba ritenersi proposta ritualmente, o per valutare quando sia proposta una
domanda nuova.
Per “vizio” di un atto amministrativo si intende in genere uno dei tre ordini di vizi
che comportano l’annullabilità dell’atto: incompetenza, violazione di legge,
eccesso di potere(sviamento di potere,disparità di trattamento). Per
l’identificazione del vizio non sono previste formule sacramentali.
Il regolamento di procedura del 1907 prescrive l’indicazione nel ricorso <<degli
articoli di legge o di regolamento che si ritengono violati>>(art. 6), che sembra
adattarsi particolarmente al vizio di violazione di legge; tale indicazione, però,
non è espressamente richiesta a pena di nullità. Ciò che importa, a pena di
nullità, è che il vizio sia oggettivamente identificato nei suoi elementi concreti in
relazione al provvedimento impugnato. Invece, un errore nella qualificazione del
vizio non assume rilevanza decisiva anche perché il giudice non è vincolato dalla
qualificazione del vizio proposto dalle parti. La disciplina del ricorso, appena
decritta, è propria del giudizio di impugnazione e di conseguenza non sono
neppure configurabili censure per vizi di legittimità di un atto: la lesione
dell’interesse legittimo è causata in questo caso dall’omissione del
provvedimento.Nel caso di giurisdizione esclusiva e sia fatto valere un diritto
soggettivo è necessario identificare il contenuto della pretesa.
b) Il ricorso deve essere notificato, a pena di inammissibilità,
all’Amministrazione che ha emanato l’atto impugnato e ad almeno uno dei
controinteressati, entro 60 gg. dalla comunicazione, o pubblicazione o piena
conoscenza dell’atto impugnato ( art. 21 c. 1° legge TAR; art. 36 t.u. Cons.
Stato). La notifica ad un’Amministrazione statale deve essere effettuata presso
l’Avvocatura dello Stato nel cui distretto ha sede il TAR competente. Per la
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notifica degli atti nel processo amministrativo vale la stessa disciplina del
processo civile, pertanto, ai sensi dell’art. 149, c. 3° c.p.c., l’osservanza del
termine va verificata con riferimento alla data di consegna del ricorso all’ufficiale
giudiziario.
Il termine di 60 gg.(richiesto per esigenze di certezza nelle situazioni giuridiche)
per il ricorso decorre dalla comunicazione dell’atto amministrativo per i diretti
destinatari; dalla pubblicazione su albo o pubblicazione ufficiale per i non
diretti destinatari. Ai fini della decorrenza del termine, la comunicazione o
pubblicazione dell’atto amministrativo ha come equipollente la sua <<piena
conoscenza>>((conoscenza dei contenuti essenziali dell’atto e non conoscenza
completa). Se il ricorrente viene a conoscenza solo in un secondo tempo di
determinati altri vizi del provvedimento impugnato, può farli valere con il ricorso
per motivi aggiunti e vanno proposti con un atto da notificarsi alle parti entro
60 g. dal momento in cui si abbia avuto conoscenza legale del vizio.
Questa nozione di piena conoscenza, ai fini del termine per il ricorso, non appare
del tutto coerente con la disciplina introdotta dalla l. n. 241/1990 che, da un
lato ribadisce il dovere dell’Amministrazione di comunicare ciascun
provvedimento ai cittadini che ne siano destinatari, dall’altro impone
all’Amministrazione di porre a disposizione del cittadino il testo dell’atto
amministrativo lesivo di un suo interesse giuridico. Per questa ragione, oggi, una
parte della giurisprudenza nega che il termine per ricorrere decorra da una
conoscenza generica o indiretta dell’atto amministrativo.L’inosservanza dei
termine per la notifica, quando sia determinata da errore scusabile può essere
valutata dal giudice amministrativo ai fini di una remissione in termini(esso ha
portata generale).Il termine per la notifica del ricorso è sospeso dal 01/08 al
15/09 di ciascun anno per le ferie giudiziarie.I termini concernenti le azioni
cautelari non sono sospesi.
c) L’originale del ricorso, con la prova della notifica, deve essere depositato, a
pena di irricevibilità, entro 30 gg. dall’ultima notifica, presso la segreteria del
TAR adito (art. 21, c. 3° della legge TAR).
E’, invece, previsto che l’Amministrazione resistente, all’atto della costituzione,
sia tenuta a depositare l’atto impugnato e gli altri atti del relativo procedimento
e proceda a tale adempimento, anche se non costituisca in giudizio. Unitamente
al ricorso viene depositato il mandato speciale dell’avvocato se non è riportato
nel ricorso.
Il deposito del ricorso determina la pendenza del giudizio.
88
2. Lo svolgimento del giudizio
La costituzione in giudizio del ricorrente si attua con il deposito del ricorso
presso la segreteria del TAR.
Entro 20 gg. dalla scadenza del termine per il deposito del ricorso, ossia entro 50
gg. dall’ultima notifica del ricorso, l’Amministrazione resistente e i
controinteressati che hanno ricevuto la notifica, possono costituirsi in giudizio
presentando una memoria con le loro difese e istanze istruttorie(controricorso e
documenti).
Entro 30 gg. dalla scadenza del termine per il deposito del ricorso, i
controinteressati possono produrre ricorso incidentale che deve essere
notificato alle parti(i termini sono perentori).I termini per la costituzione
delle parti diversi dal ricorrente non è perentorio.
Una volta instaurato il giudizio, chi vi ha interesse può intervenire. L’intervento
va proposto con apposito atto, che deve essere notificato alle parti e poi
depositato presso il TAR avanti al quale pende il giudizio.Se il ricorso è stato
notificato ad uno solo dei controinteressati è prevista l’integrazione del
contraddittorio.
Perché il ricorso possa essere deciso è però necessario che sia richiesta, con
apposita istanza, la discussione del ricorso stesso.Istanza diretta al presidente
del TAR e deve essere presentata dal ricorrente entro 2 anni dal deposito del
ricorso
In mancanza dell’istanza, il ricorso cade in perenzione e il giudizio si estingue
perdendo ogni effetto giuridico.
In seguito alla presentazione dell’istanza, viene fissata l’udienza di discussione
del ricorso, di cui deve essere data comunicazione alle parti con congruo
preavviso (almeno 40 gg.).Le parti possono presentare documenti fino a 20
giorni e memorie fino a 10 giorni prima dell’udienza.
Una volta conclusa la discussione, il TAR, se non ritiene di dover adottare
pronunce interlocutorie o pronunce istruttorie, provvede a decidere il ricorso
pronunciando la sentenza.
In alcuni casi particolari, invece, il giudice amministrativo decide il ricorso senza
fissare un’altra udienza, ma semplicemente in camera di consiglio.
In base all’art. 26, 4° c. legge TAR, come modificato dall’art. 9, l. n. 205/ 2000, il
giudice amministrativo può decidere il ricorso, con sentenza succintamente
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motivata, nella camera di consiglio fissata per l’esame dell’istanza cautelare o
nell’udienza fissata in seguito all’adozione di un mezzo istruttorio, senza che sia
stata fissata l’udienza di discussione. Questa possibilità vale, quando il ricorso
risulti manifestamente fondato o manifestamente infondato, inammissibile,
improcedibile o irricevibile.
Infine, l’art. 26, c. 7 della legge TAR prevede che, quando sia verificata
l’estinzione del giudizio, ovvero, quando siano intervenute la rinuncia al ricorso,
la cessazione della materia del contendere o la perenzione, alla relativa
declaratoria provveda direttamente il Presidente competente, con un proprio
decreto senza fissare né pubblica udienza né camera di consiglio.Nei confronti
del decreto le parti possono proporre opposizione di collegio:il collegio decide
con ordinanza e se accoglie l’opposizione dispone il ricorso sia nuovamente
iscritto nel ruolo dei ricorsi pendenti.
3. I riti speciali
Oggi il processo amministrativo si presenta piuttosto articolato e la sua disciplina
ha assunto un notevole grado di complessità. Le discipline speciali sono sempre
più frequenti. Fra queste, le più importanti sono:
a) Il giudizio in materia elettorale, previsto per le elezioni amministrative.
Può essere promosso con ricorso da qualsiasi elettore dell’ente interessato dalle
elezioni, oltre che dal candidato interessato. Il ricorso va proposto di norma nei
confronti dell’atto di proclamazione degli eletti, che è l’atto conclusivo del
procedimento elettorale, e va depositato al TAR, entro 30 gg. Il Presidente del
TAR fissa con decreto l’udienza di discussione.
Il giudizio riguarda qualsiasi vizio del procedimento elettorale, che possa aver
determinato una alterazione nella posizione degli eletti. Il TAR, se accoglie il
ricorso, può disporre la rettifica dei risultati elettorali, anche con la sostituzione
degli eletti.
La sentenza è soggetta a particolari forme di pubblicità ed è passibile di
impugnazione al Consiglio di Stato.
b) La legge sull’esercizio del diritto di sciopero nei servizi pubblici
essenziali (l. n. 146/1990) ha introdotto una particolare disciplina del giudizio
promosso contro le ordinanze dell’autorità amministrativa,che impongono
l’effettuazione di prestazioni indispensabili, nel caso di sciopero. Il ricorso al TAR
nei confronti delle ordinanze va proposto entro un termine molto breve ( 7 gg).
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c) Una disciplina speciale è dettata, per il giudizio a tutela del diritto
d’accesso, dall’art. 25, l. n. 241/1990, modificato dalla legge n. 15/2005 e dal
d.l. n. 35/2005, convertito in legge n. 80/2005.
Il ricorso in materia di accesso va proposto entro 30 gg. dalla comunicazione del
rifiuto all’accesso, ovvero dalla formazione del silenzio dell’Amministrazione. Il
TAR decide in camera di consiglio , uditi i difensori delle parti, senza la necessità
di istanza di discussione. Se accoglie il ricorso, <<ordina all’amministrazione
l’esibizione dei documenti richiesti>>. L’appello al Consiglio di Stato è soggetto
ad un termine di 30 gg. dalla notifica della sentenza del TAR.
d) L’art. 21-bis della legge TAR e l’art. 2, c. 5 della legge n. 241/ 1990,
disciplinano il giudizio nei confronti del silenzio-rifiuto dell’Amministrazione. La
specialità riflette anche sullo svolgimento del processo, che è caratterizzato da
una particolare celerità.
E’ previsto che il ricorso debba essere deciso in camera di consiglio, con
sentenza motivata, entro un termine congruo, non superiore a 30 gg. Decorso
invano tale termine, su richiesta della parte, procede alla nomina di un
commissario che si sostituisce all’Amministrazione (art. 21-bis legge TAR).
c) L’art. 23-bis della legge TAR riguarda i ricorsi proposti contro
provvedimenti in tema di opere pubbliche, i ricorsi contro provvedimenti in
tema di aggiudicazione, affidamento ed esecuzione di servizi pubblici o
forniture, i ricorsi contro atti di autorità amministrative indipendenti etc.
In questi giudizi, tutti i termini processuali sono ridotti a metà, ad eccezione
del termine per notificare il ricorso di primo grado che, pertanto rimane di 60 gg.
Inoltre, se è stata richiesta una misura cautelare, il TAR, nella camera di
consiglio fissata per l’esame dell’istanza, se ritiene ad un primo esame che il
ricorso possa essere accolto e che vi sia il rischio di un danno grave e
irreparabile, dispone con ordinanza che la discussione del ricorso nel merito si
tenga nella prima udienza successiva alla scadenza di un termine di 30 gg. Il
dispositivo della sentenza è pubblicato entro sette giorni dopo l’udienza.
La disciplina prevista dall’art. 23-bis della legge TAR è richiamata, dall’art. 14 del
d.lgs n. 190/2002, per i giudizi relativi ad infrastrutture pubbliche ed
insediamenti produttivi.
4. L’istruttoria: i principi
L’istruzione è l’attività del giudice diretta a conoscere i fatti rilevanti per il
giudizio.
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Il tema dell’istruzione probatoria ruota anche nel processo amministrativo
intorno atre profili fondamentali: 1) il rapporto fra le allegazioni di fatti riservate
alle parti e poteri di cognizione del giudice; 2) i vincoli e gli effetti che
comportano le istanze istruttorie delle parti 3) i vincoli che comportano le
risultanze dell’istruttoria.
I) Il primo profilo concerne l’individuazione dei fatti che possono essere
allegati solo dalle parti. Si ricorre alla distinzione fra fatti principali (o primari)
e fatti secondari. I fatti principali sono descritti come fatti materiali che
identificano la pretesa fatta valere concretamente in giudizio e possono essere
introdotti solo dalle parti; i fatti secondari sono costituiti dai fatti materiali la cui
dimostrazione consente di verificare o meno la sussistenza dei fatti principali o la
loro rilevanza o operatività.
Nel processo amministrativo la distinzione non è pacifica. Appare logico aderire
all’interpretazione secondo cui i fatti principali, nel giudizio di impugnazione,
corrispondono ai fatti materiali su cui si fonda la pretesa dell’annullamento
dell’atto impugnato.
Costituiscono, invece, fatti secondari le circostanze di fatto sussistenti in
occasione del secondo provvedimento, che, ove consentano di identificare una
situazione diversa da quella del primo provvedimento, avrebbero giustificato
l’adozione di logiche differenti.I fattiprincipali sono sempre introdotti dalle parti
quelli secondari si pensava potessero essere introdotti da atri soggetti ma in
realtà non è cosi’, sono sempre introdotti dalle parti.
II) Il secondo profilo attiene invece alla prova dei fatti.
Nel processo amministrativo vale il principio generale sancito dall’art 2697 c.c.
sull’onere della prova, che comporta, fra l’altro, che la parte che contesta la
legittimità di un provvedimento deve fornire la prova dei fatti posti a fondamento
della sua contestazione e che la regola di giudizio, nel caso di incertezza su un
fatto, è contraria alla parte che avrebbe dovuto fornire la prova di quel fatto. La
mancanza della prova, che avrebbe dovuto fornire contezza di quel fatto,
determina la soccombenza.
III) Il processo amministrativo si basa sul principio del libero apprezzamento
del giudice: le prove nel giudizio sono rimesse, quanto alla valutazione, al
prudente apprezzamento del giudice. Questo principio comporta l’esclusione
delle prove legali, come il giuramento e la confessione, che si caratterizzano
invece per vincolare il giudice alla verità di un certo fatto. A questa conclusione
generale delle prove legali, fa eccezione la disciplina dell’atto pubblico, che
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anche nel processo amministrativo ha l’efficacia prevista dall’art. 2700 c.c.L’atto
pubblico ha un’efficacia generale che si correla più al principio di dirtto
sostanziale che processuale.
5. (segue ): i provvedimenti istruttori e i singoli mezzi istruttori
L’art. 44, 1°comma, t.u. Cons. Stato, nel disciplinare i mezzi istruttori ammessi
nel processo amministrativo, prevedeva originariamente, nel caso di
giurisdizione di legittimità che i mezzi istruttori ammessi nel caso di
giurisdizione di legittimità fossero rappresentati solo dalla richiesta di
<<chiarimenti>>, dalla richiesta di <<documenti>>, e dall’ordine di compiere
<<nuove verificazioni>>.
L’art. 16 della legge n. 205/2000 ha modificato tale disposizione, introducendo,
nel caso di giurisdizione di legittimità, la possibilità della consulenza tecnica
nell’istruzione probatoria.
La richiesta di chiarimenti è analoga, alla richiesta di informazioni alla
Pubblica amministrazione prevista dall’art. 213 c.p.c. ma a differenza di
quest’ultima, può essere indirizzata anche nei confronti di un’Amministrazione
che sia parte nel giudizio.
La richiesta di documenti può avere per oggetto qualsiasi documento
dell’Amministrazione o di terzi, la cui esibizione sia ritenuta utile per decisione
(art. 21, 5° e 6° comma della legge TAR).
Le verificazioni possono avere contenuti molti ampi e in particolare, possono
riguardare l’accertamento di fatti o di situazioni complesse; si sostiene che le
verificazioni non potrebbero riguardare elementi di valutazione o di
apprezzamento dei fatti, altrimenti, attraverso le verificazioni, il giudice potrebbe
sindacare nel loro contenuto le valutazioni tecniche riservate dalla legge
all’Amministrazione.
Da questo punto di vista, è importante la recente introduzione nel giudizio
amministrativo della consulenza tecnica. La consulenza va affidata ad un
perito che sia in condizioni di terzietà rispetto alle parti, come nel processo civile.
La consulenza dovrebbe consentire di acquisire gli elementi tecnici necessari per
comprendere il significato e il valore del fatto. Proprio per questi caratteri,
l’introduzione della consulenza dovrebbe circoscrivere i margini di insindacabilità
delle valutazioni tecniche dell’Amministrazione.
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Nei casi di giurisdizione di merito, il giudice amministrativo può disporre con
maggiore ampiezza oltre che dei mezzi istruttori contemplati per la giurisdizione
di legittimità, anche dei mezzi istruttori attribuiti in via generale al giudice civile,
come le perizie, le ispezioni, la prova testimoniale. Sono preclusi l’interrogatorio
formale ed il giuramento, perché preordinati ad una prova legale.
Dal confronto tra il 1° e 2° c. dell’art. 44 emerge in modo evidente la limitatezza
dei mezzi istruttori previsti per il giudizio amministrativo di legittimità. E’
naturale porsi l’interrogativo della legittimità di questa limitazione.
A tal proposito, è utile tener conto della distinzione tra i c.d. limiti probatori
assoluti e i c.d. limiti probatori relativi: i primi comportano l’impossibilità della
parte di contestare un certo fatto, che per la stessa assume un rilievo negativo,
mentre i secondi consistono solo nell’impossibilità nella parte di utilizzare certi
mezzi di prova. La Corte costituzionale ha sempre ritenuto illegittimi i limiti
probatori assoluti.
Di conseguenza, il fatto che nel giudizio di legittimità siano ammessi solo i tre
mezzi istruttori tradizionali non sarebbe di per se illegittimo: atterrebbe infatti a
limiti probatori relativi, e non assoluti.
Nel corso negli anni ’80 la limitatezza dei mezzi istruttori nella giurisdizione
esclusiva provocò un intervento della Corte costituzionale : con la sentenza n.
146/1987 dichiarò l’illegittimità costituzionale dell’art. 44, 1° c. , t.u. Cons. Stato,
nella parte in cui non ammetteva,nelle controversie in materie di pubblico
impiego, i mezzi istruttori previsti dal c.p.c. . Argomento centrale era la
disparità di trattamento che si configurava nella tutela processuale del pubblico
dipendente rispetto al lavoratore privato: di conseguenza, la Corte negò che la
ragione di illegittimità costituzionale potesse valere per altre vertenze, in
particolare quelle su diritti soggettivi assegnate alla giurisdizione esclusiva.
Rispetto alla giurisdizione esclusiva questo quadro è mutato solo di recente. In
particolare l’art. 7 della l.n. 205/2000, modificando l’art. 35, 3° c. del d. lgs. n.
80/1995, ha attribuito al giudice amministrativo, nelle controversie considerate
nel 1° c. dello stesso art. 35, il potere di assumere i mezzi di prova previsti
dal c.p.c. , oltre alla consulenza tecnica.
I provvedimenti istruttori del giudice possono essere assunti dal Presidente o da
un magistrato da lui delegato, fino all’udienza di discussione, ovvero dal collegio
nel corso o in esito all’udienza di discussione.
6. Le ingiunzioni
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Agli artt. 633 ss. il c.p.c. disciplina il procedimento d’ingiunzione: chi è creditore
di una somma liquida di denaro o di una determinata quantità di cose fungibili, o
ha diritto alla consegna di una cosa mobile, può, avvalersi anche di questo
procedimento. Se fornisce una prova scritta del suo credito, può ricorrere al
giudice, chiedendo che sia ingiunto all’obbligato di provvedere al pagamento e/o
consegna delle cose; il giudice provvede senza necessità di contraddittorio, con
decreto. La parte cui è stato notificato il decreto ingiuntivo può opporsi entro un
termine perentorio. Se non è proposta opposizione, il decreto acquista efficacia;
nel caso di opposizione si apre un normale giudizio di cognizione sulla pretesa
del creditore.
La novella del 1990 c.p.c. ha previsto che il giudice civile, su richiesta della parte
interessata, nel corso del giudizio, possa emettere un’ingiunzione per il
pagamento di somme di denaro non contestate dal debitore costituito in giudizio
e che, inoltre, possa pronunciare un’ingiunzione, quando ricorrano le condizioni
previste per l’emissione di un decreto ingiuntivo.
L’estensione della giurisdizione esclusiva ha fatto sorgere l’esigenza di
ammettere pronunce di questo genere anche nel processo amministrativo, per la
tutela dei diritti patrimoniali.
Anche in questo ambito è intervenuta la legge n. 205/2000, introducendo decreti
ingiuntivi del giudice amministrativo, nei casi previsti dagli artt. 633 ss. c.p.c. .
L’intervento della Corte costituzionale, nel 2004 ha limitato l’ambito della
giurisdizione esclusiva per le vertenze di ordine meramente patrimoniale.
7. Gli incidenti del giudizio
Come si verifica anche nel processo civile, una serie di eventi possono incidere
sul corso dei procedimenti, precludendo la prosecuzione del giudizio.
Tra questi vanno ricordati la proposizione, da parte del collegio, della questione
di legittimità costituzionale, che introduce il giudizio d’avanti alla Corte
costituzionale, e il deferimento alla Corte di giustizia di una questione di
interpretazione di norma comunitaria.
La legge istitutiva dei TAR ha previsto la proponibilità del regolamento
preventivo di giurisdizione (art. 41 c.p.c.): esso è proposto dalle parti, con
istanza alla Corte di cassazione, finchè sul ricorso non sia intervenuta un
decisione del TAR. La proposizione del regolamento non comporta la sospensione
del giudizio, che è disposta dal TAR, solo dopo aver verificato che l’istanza non
sia manifestamente inammissibile o infondata.
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Il giudizio amministrativo deve essere sospeso anche nell’ipotesi che siano poste
questioni inerenti allo stato alla capacità delle persone e di falso. La decisione, in
questi casi, è riservata al giudice civile e il giudice amministrativo non può
provvedere su di essere, neppure in via incidentale. In questi casi la
sospensione del giudizio deve essere disposta sulla base di una semplice
valutazione della rilevanza della questione, rispetto al giudizio amministrativo. La
sospensione è invece rimessa ad una valutazione di opportunità del giudice
amministrativo quando sia pendente un procedimento penale, relativo ai
medesimi fatti di cui si controverte nel processo amministrativo, o in relazione
alla pendenza di altri procedimenti civili o amministrativi per vicende connesse.
La legge istitutiva dei TAR ha introdotto, infine, l’istituto dell’interruzione del
processo analogamente a quanto previsto per il processo civile.
Quando sia cessata la causa di sospensione è necessario un atto d’impulso della
parte interessata. Nel processo amministrativo, tale atto si identifica
normalmente con una nuova istanza di discussione del ricorso; un vero e proprio
atto di riassunzione, da notificarsi alle altre parti, è necessario, secondo la
giurisprudenza prevalente, solo nel caso di interruzione.
Capitolo 12
LA TUTELA CAUTELARE
1. Il quadro normativo
Anche la disciplina della tutela cautelare, nel processo amministrativo, è stata
modellata sul giudizio d’impugnazione di provvedimenti: di conseguenza, la
tutela cautelare si è incentrata, fino ad epoca recente, nella sospensione del
provvedimento impugnato. Solo con la legge n. 205/2000 (art. 3) il legislatore ha
considerato l’istituto in termini più generali.
L'art. 39 t.u. Cons. Stato, inoltre, ha confermato che «i ricorsi in via contenziosa
non hanno effetto sospensivo» e ha precisato che «l’esecuzione dell'atto»
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impugnato, può essere sospesa dal giudice amministrativo «per gravi ragioni»,
su richiesta del ricorrente. Nello stesso senso ha disposto l'art. 21, 8° comma,
legge TAR, anche nella nuova formulazione, introdotta dalla legge n. 205/2000
(art. 3).
Spetta quindi alla parte interessata richiedere l’intervento del giudice, per
evitare che le sue ragioni possano essere compromesse, prima della decisione
del ricorso. In base all’art. 36 reg. proc. Cons. Stato, la domanda di una misura
cautelare deve essere presentata dal ricorrente al giudice adito per il ricorso
principale, con istanza scritta, che deve essere notificata all’Amministrazione
resistente e agli «interessati». Questa previsione era interpretata, in passato, nel
senso che non fosse necessaria la notifica a tutti i controinteressati. Per questo
profilo la disciplina del processo cautelare risultava gravemente lacunosa.
Negli anni ‘90, però, il Consiglio di Stato si è indirizzato nel senso che il giudice
amministrativo possa provvedere definitivamente sull’istanza cautelare, solo
dopo l’integrazione del contraddittorio, con tutte le parti necessarie del giudizio.
Questa soluzione è stata sancita dalla legge n. 205/2000 (art. 21, 8° comma,
legge TAR, come modif. dall'art. 3 della legge n. 205/2000). Prima
dell'integrazione del contraddittorio, il giudice amministrativo può adottare solo
misure cautelari provvisorie, soggette a riesame.
La richiesta di misura cautelare viene esaminata in camera di consiglio dal
giudice amministrativo, nella sua ordinaria composizione collegiale, decorsi
almeno dieci giorni dalla notifica dell'istanza. In camera di consiglio possono
comparire i difensori delle parti che ne facciano richiesta, per discutere l’istanza
stessa. Sull’istanza cautelare il giudice amministrativo decide con ordinanza
motivata (art. 21, 8° comma, della legge TAR, introdotto dalla legge n.
205/2000); l’ordinanza è efficace fin dal momento del suo deposito.
In caso di estrema gravità e urgenza, la misura cautelare può essere richiesta al
Presidente del TAR o della sezione cui il ricorso principale sia stato assegnato,
previa notifica della relativa istanza alle altre parti. Il Presidente provvede con un
decreto motivato che rimane efficace fino all’ordinanza del collegio, cui va
sottoposta l’stanza cautelare nella prima camera di consiglio utile. Anche in
quest'ultimo caso, comunque, la tutela cautelare ha sempre carattere
incidentale e si svolge nell’ambito di un giudizio instaurato col ricorso
principale. L’istanza di misura cautelare, quando sia presentata successivamente
al ricorso, deve essere sempre diretta al medesimo giudice che è competente
per la decisione del ricorso. La pronuncia sull’istanza cautelare deve essere
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motivata. L’obbligo di motivazione delle pronunce cautelari, benché sancito
dalla legge, spesso, in passato, non era rispettato. Questa prassi dei giudici
amministrativi appare molto grave. L’art. 21, 8° comma, legge TAR, introdotto
dall’art. 1 della legge n. 205/2000, è intervenuto anche su questo punto, non solo
confermando la necessità che le pronunce cautelari siano motivate, ma anche
precisando che la motivazione deve estendersi «alla valutazione del pregiudizio
allegato» dalla parte istante (c.d. periculum in mora) e deve indicare «i profili
che, ad un sommario esame, inducono ad una ragionevole previsione sull’esito
del ricorso» (c.d. fumus boni iuris).
La tutela cautelare è soggetta ad una medesima disciplina sia nel caso che
venga richiesta nel giudizio di primo grado, avanti al TAR, sia nel caso che essa
venga richiesta per la prima volta nel giudizio d’appello, avanti al Consiglio di
Stato.
2. I caratteri generali della tutela cautelare nel processo ammini -
strativo
La tutela cautelare, anche nel processo amministrativo, ha sempre carattere di
strumentalità: realizza, così, l’interesse ad evitare che la durata del giudizio
possa rendere praticamente inutile per il ricorrente la decisione finale.
L’esecuzione di un provvedimento amministrativo può compromettere in modo
molto grave, o addirittura irreversibile, la posizione del destinatario del
provvedimento stesso (si pensi al caso dell'esecuzione di un provvedimento di
esproprio, oppure al caso dell'esecuzione di un ordine di chiusura di un'azienda).
In queste ipotesi, anche se il provvedimento fosse illegittimo e perciò venisse in
un secondo tempo annullato dal giudice amministrativo, la sentenza di
annullamento non sarebbe idonea a soddisfare effettivamente l’interesse del
cittadino.
In base ai principi generali, la concessione della misura cautelare da parte del
giudice presuppone l’accertamento di un “fumus boni iuris” e di un
“periculum in mora” .
Il primo elemento consiste in una valutazione sommaria sul merito della pretesa
fatta valere dal cittadino con l’impugnazione.
Deve essere chiaro che la misura cautelare non va concessa in presenza di un
ricorso manifestamente infondato o inammissibile, perché altrimenti non avrebbe
più valore la regola generale secondo cui il ricorso non ha effetto sospensivo e si
realizzerebbero risultati incompatibili con il principio della “strumentalità”.
98
Particolare rilievo assume, inoltre , il profilo costituito dal “periculum in
mora” . L'art. 21 ult. comma della legge TAR identifica questo elemento nella
possibilità di «danni gravi ed irreparabili» derivanti dal provvedimento
impugnato; tali danni devono essere allegati dal ricorrente nell’istanza di
sospensione e perciò il giudice non può d’ufficio ipotizzarne l’esistenza né
introdurli nel processo.
Il danno che giustifica l’ accoglimento dell'istanza cautelare deve essere
considerato come danno determinato dal provvedimento amministrativo ad un
interesse materiale rilevante del ricorrente e qualificato dal carattere della
gravità e della “irreparabilità”. Questo carattere, può essere verificato in senso
“assoluto” (ossia, in relazione al tipo di interesse pregiudicato dal
provvedimento), ovvero in senso “relativo” (ossia, in relazione all’incidenza del
provvedimento alla luce delle condizioni soggettive del ricorrente). Nello stesso
tempo, però, il giudice amministrativo deve considerare anche i riflessi che
produrrebbe la misura cautelare rispetto all'Amministrazione e rispetto ai
controinteressati. Il giudice amministrativo, ai fini dell’accoglimento dell’istanza
cautelare, deve effettuare una valutazione “comparata” di tutti questi interessi,
sulla base del suo prudente apprezzamento.
L’art. 21, 8° comma, legge TAR, precisa espressamente che la concessione o il
diniego della misura cautelare può essere subordinato ad una cauzione, a
garanzia del pregiudizio subito dalla parte su cui grava la pronuncia del giudice;
la cauzione non è ammessa, però, quando siano in gioco «interessi essenziali
della persona, quali il diritto alla salute o all’integrità dell’ambiente».
3. La tipologia delle misure cautelari
La tutela cautelare, nel processo amministrativo, si è incentrata, a lungo, in una
misura tipica e generale: la sospensione del provvedimento impugnato.
Tale previsione, si ricollegava al fatto che il processo amministrativo era risolto
nella impugnazione del provvedimento amministrativo. Di conseguenza, la
“lesività” di un provvedimento era individuata nella idoneità dell’atto
amministrativo a modificare unilateralmente la situazione giuridica sostanziale
del destinatario e nella possibilità, di realizzare “in via amministrativa”
l’esecuzione materiale del provvedimento, ai danni del privato. In questa logica,
obiettivo della tutela cautelare era ottenere la sospensione dell'atto
impugnato.La tutela cautelare si incentrava cosi’ in una misura ablatoria rispetto
al provvedimento amministrativo perché precludeva la produzione degli effetti
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propri del provvedimento impugnato o inibiva all’amministrazione di attuare
l’esecuzione materiale.Questa configurazione risultava inadeguata già nel
giudizio promosso a tutela di interessi legittimi, che riguardasse provvedimenti
negativi o il “silenzio” dell'Amministrazione. La sospensione di un
provvedimento negativo o del silenzio rifiuto, infatti, non comporta alcun
beneficio per il ricorrente, perché in questi casi il pregiudizio materiale non è
superato dalla preclusione degli effetti del provvedimento: può essere superato
solo da un diverso esito del procedimento. L'inutilità di una “sospensione”
cautelare dei provvedimenti negativi portava a concludere che, nei confronti di
questi provvedimenti, non era ammessa, in pratica, alcuna tutela cautelare, dato
che l’unica misura cautelare prevista in via generale nel processo amministrativo
era costituita, appunto, dalla sospensione.
Di fronte a una conclusione così grave, a partire dagli anni ’30, si affermò una
giurisprudenza che cercava di individuare, nell’ambito dei provvedimenti
negativi, alcune categorie di atti assimilabili, dal punto di vista degli effetti, ai
provvedimenti positivi.
Più di recente, soprattutto negli anni ‘90, alcuni giudici amministrativi avevano
cercato di estendere la “sospensione” ai provvedimenti “meramente”
negativi e al silenzio-rifiuto dell'Amministrazione, con esiti controversi. La
maggiore ampiezza della tutela cautelare conduceva a esiti sempre più lontani
dal modello normativo. Infatti, nei confronti di atti meramente negativi o del
silenzio-rifiuto, una tutela cautelare può consistere solo nella introduzione di una
nuova disciplina del rapporto. La sospensione di un silenzio-rifiuto o di un
provvedimento negativo diventava, l’ordine all’Amministrazione di pronunciarsi
sulla richiesta di provvedimento; la concessione della sospensione era intesa
come equipollente al provvedimento richiesto dal cittadino o negato
dall’Amministrazione.
La legge n. 205/2000 ha comportato, anche in questo ambito, innovazioni
sostanziali. La tutela cautelare, in base all'art. 21, 8° comma, della legge TAR,
non si risolve più in una misura tipica, quella della “sospensione”, ma si attua
con misure di contenuto atipico, modellate sul caso concreto. Di conseguenza,
molti ritengono che oggi il giudice possa intimare all’Amministrazione di
assumere determinati atti, ovvero possa lui stesso autorizzare lo svolgimento
dell’attività richiesta dal ricorrente.
In questo contesto, rimane ferma l’esigenza di definire i limiti ai poteri cautelari
del giudice amministrativo.
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In primo luogo, una misura cautelare non può determinare, neppure in via di
fatto, la definizione del giudizio. Altrimenti la tutela cautelare si configurerebbe,
in termini incompatibili con il principio di strumentalità.
In secondo luogo, si dubita della possibilità per il giudice amministrativo di
definire, seppure in sede cautelare, l’assetto di interessi che sia demandato dalla
legge alla discrezionalità amministrativa. Rispetto a questi stessi ambiti, infatti,
la valutazione discrezionale dell’ Amministrazione dovrebbe ritenersi infungibile.
4. I rimedi ammessi nei confronti delle ordinanze cautelari
La misura cautelare ha effetto fino alla sentenza che definisce quel grado di
giudizio. Se il giudizio si estingue, la misura cautelare perde la sua efficacia.
Anche le eventuali valutazioni, circa la fondatezza dei motivi di ricorso non
producono alcun vincolo sulla sentenza perché l’ordinanza che provvede su
un’istanza cautelare non fa stato nel giudizio. Inoltre, l’ordinanza è passibile di
revoca, su richiesta della parte che vi abbia interesse e, nel caso di rigetto
dell'istanza cautelare, l’istanza può essere riproposta (art. 21, 13° comma, legge
TAR). Pertanto, può essere richiesta la revoca dell’ordinanza nel caso di
sopravvenienza di elementi nuovi, esterni rispetto al giudizio, quali il mutamento
della situazione di fatto e il mutamento della situazione di diritto .
La revoca può essere pronunciata solo su istanza di parte; l’istanza deve essere
presentata allo stesso giudice che ha emesso l’ordinanza in questione ed è
soggetta alla medesima procedura dell’istanza cautelare.
Nei confronti dell’ordinanza del TAR che decide sull’istanza cautelare è
consentito, inoltre, l’appello al Consiglio di Stato. A differenza dell’istanza di
revoca, l’appello è ammesso non per fatti nuovi sopravvenuti, ma per
“l’ingiustizia” dell’ordinanza stessa. Con l’appello si contesta la decisione del
giudice di primo grado sull’istanza cautelare e si chiede il suo riesame da parte
del giudice di secondo grado. L’appello va proposto entro 60 gg. dalla notifica
dell’ordinanza, ovvero, in mancanza di notifica, entro 120 gg. dalla comunica-
zione del deposito dell’ordinanza (art. 28); il giudizio prosegue poi secondo le
regole previste per l’appello contro le sentenze, fermo restando che, anche in
secondo grado la decisione è assunta con ordinanza.
Nei confronti delle ordinanze cautelari la giurisprudenza amministrativa
ammette, infine, il rimedio della revocazione, ai sensi degli artt. 395 e 396
c.p.c.
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5. L'esecuzione delle ordinanze cautelari
Alcune volte, la sospensione cautelare comporta la necessità, per
l’Amministrazione, di compiere una certa attività e di attenersi quindi ad un certo
comportamento. Se l’Amministrazione non compie l’attività necessaria,
l’ordinanza di sospensione rischia di rimanere improduttiva di risultati pratici. Per
assicurare l’esecuzione di una pronuncia del giudice amministrativo, il processo
amministrativo contempla il rimedio del giudizio di ottemperanza (art. 27, n. 4,
t.u. Cons. Stato).
A partire dagli inizi degli anni ’80, il Consiglio di Stato si indirizzò nel senso di
ritenere inammissibile il giudizio di ottemperanza per l’esecuzione di ordinanze
cautelari, sostenendo che tale giudizio avrebbe come presupposto necessario
l’inottemperanza a una sentenza. Nel caso del processo cautelare, però, il potere
di sospendere il provvedimento impugnato implicherebbe anche il potere di
assumere tutte le determinazioni idonee ad assicurare l’esecuzione
dell’ordinanza di sospensione (Cons. Stato, ad. plen., n. 6/1982).
Le conclusioni della giurisprudenza sono state recepite dal legislatore, nell’art.
21, 14° comma, legge TAR. La nuova disposizione precisa che, se
l’Amministrazione non ha eseguito un’ordinanza cautelare, la parte interessata,
con istanza che deve essere notificata alle altre parti, può rivolgersi al giudice
che ha emesso l’ordinanza. Il giudice amministrativo adotta le misure necessarie
per assicurare l’esecuzione dell’ordinanza cautelare e, a tal fine, dispone di
tutti i poteri che sono ammessi per il giudizio di ottemperanza. In particolare può
dettare ordini all’Amministrazione e può nominare Commissari che si
sostituiscano all’organo inadempiente.
6. I nuovi problemi e le prospettive della tutela cautelare
Il legislatore è intervenuto più volte, in passato, con disposizioni speciali sulla
tutela cautelare nel processo amministrativo. I suoi interventi sono stati diretti, in
genere, a ridurre il pericolo che le misure cautelari potessero paralizzare l’azione
amministrativa, ritardando la realizzazione di interventi importanti (soprattutto
nel settore dei lavori pubblici) o pregiudicando altri interessi di rilievo per la
collettività. La legge n. 205/2000 ha considerato queste esigenze: sia quella di
accelerare la conclusione del giudizio, in vertenze di particolare rilievo generale,
sia quella di consentire, in taluni casi, l’anticipazione della sentenza alla fase
cautelare. In particolare l’art. 9 ha modificato il testo dell’art. 26 legge TAR che,
102
oggi, dispone che il giudice amministrativo può decidere il ricorso (con «sentenza
succintamente motivata») nella camera di consiglio fissata per l’esame
dell’istanza cautelare, ogni qual volta riscontri «la manifesta fondatezza ov-
vero la manifesta irricevibilità, inammissibilità, improcedibilità o
infondatezza del ricorso». Si tenga presente, però, che le parti intimate in
giudizio, quando vi sia il rischio di una decisione del ricorso anticipata alla fase
cautelare, hanno l’onere di costituirsi al più presto per svolgere le loro difese in
tempo utile per la camera di consiglio fissata per l’esame dell’istanza cautelare;
di fatto i termini per le loro difese risultano decurtati in modo consistente.
Per quanto riguarda, invece, la tutela cautelare in vertenze di particolare
interesse generale, va considerata la particolare disciplina prevista dall'art.
23-bis, legge TAR. Questa disciplina, dettata per le vertenze sull’affidamento di
appalti pubblici, su occupazioni ed espropriazioni, sui provvedimenti delle
autorità indipendenti, ecc., comporta che, se sia stata presentata un’istanza
cautelare, il giudice amministrativo, se riscontra gli estremi per il suo
accoglimento, non adotti alcuna misura cautelare, ma fissi l’udienza di
discussione del ricorso, in modo che si tenga a breve scadenza. Solo «in caso di
estrema gravità ed urgenza>> il giudice adotta la misura cautelare del caso. Se
l’istanza cautelare è respinta dal TAR e viene proposto appello contro l’ordinanza
di rigetto, il Consiglio di Stato che accolga il gravame non adotta di regola una
misura cautelare (fatta salva l’ipotesi «di estrema gravità ed urgenza»), ma
rimette gli atti al TAR, che deve subito fissare, nei termini prescritti, l’udienza di
discussione del ricorso.
Il legislatore ha dimostrato, in questo modo, di ricercare un equilibrio fra le
esigenze suddette.
Non pare, invece, che un equilibrio sia stato raggiunto dall’art. 14, d.lgs.
n.190/2002, sui giudizi in materia di infrastrutture pubbliche ed
insediamenti produttivi. In questo caso il legislatore ha affermato che il
giudice amministrativo, ai fini dell’eventuale concessione della misura cautelare,
deve considerare il «preminente interesse nazionale alla sollecita realizzazione
dell’opera». Emerge l'intenzione del legislatore di limitare sostanzialmente lo
spazio per una tutela cautelare, con soluzioni che non sono compensate da
misure processuali alternative.
Capitolo 13
103
LA DECISIONE DEL RICORSO E I RIMEDI NEI CONFRONTI DELLA
SENTENZA
1. La decisione del ricorso
Il giudizio amministrativo è definito in genere da una sentenza, che viene
deliberata dal collegio giudicante.
Nel giudizio amministrativo, in molti casi, il termine “sentenza” identifica la
forma dei provvedimenti assunti dal collegio dopo una camera di consiglio o una
pubblica udienza.
Nel processo amministrativo sono ammesse infatti anche sentenze
interlocutorie, con le quali il collegio, in esito a una pubblica udienza o a una
camera di consiglio, detta disposizioni per lo svolgimento del giudizio e
sentenze istruttorie . Queste sentenze non solo non sono idonee a passare in
giudicato, ma non sono neppure in grado di costituire un vincolo di ordine interno
sulla decisione finale e pertanto non sono impugnabili.
Hanno invece carattere decisorio le sentenze parziali, con le quali il giudice
amministrativo decide, rigettandole, alcune questioni pregiudiziali o preliminari,
ovvero decide su alcune delle censure proposte nel ricorso, riservando la
decisione delle altre ad un’ulteriore pronuncia. Esse sono idonee a costituire cosa
giudicata.
Con riferimento alle pronunce parziali e alle sentenze definitive, si è soliti
distinguere fra sentenze di rito e sentenze di merito.
Le prime si esaurirebbero nell’esame di questioni strettamente processuali o
nella verifica delle c.d. condizioni per l’azione, o nell’esame di questioni
inerenti alla giurisdizione o nella declaratoria della c.d. cessazione della
materia del contendere, che si verifica quando il provvedimento impugnato
venga annullato d’ufficio dall’Amministrazione, in termini conformi all’interesse
del ricorrente, prima della pronuncia del giudice. In alcuni di questi casi il giudizio
viene definito oggi, anziché con una sentenza, con un decreto presidenziale.
Le seconde riguarderebbero invece il merito della domanda e delle questioni
pregiudiziali di merito che siano state sollevate nel corso del giudizio e possono
quindi essere pronunce di accoglimento della domanda o pronunce di rigetto per
ragioni di merito.
Nel caso di accoglimento del ricorso, le sentenze di merito, possono quindi
disporre l’annullamento del provvedimento impugnato, o la sua revoca o riforma
nelle ipotesi di giurisdizione di merito (art. 26, 2° comma, legge TAR), ovvero
104
ordinare all’Amministrazione di provvedere nel caso di un giudizio sul silenzio-
rifiuto, ovvero accertare un diritto soggettivo del ricorrente in ipotesi di
giurisdizione esclusiva, o anche condannare l’Amministrazione al pagamento di
somme di denaro di cui essa risulti debitrice.
Nell’esame della domanda, il giudice deve tener conto del vincolo di
pregiudizialità che può sussistere fra le varie questioni rilevanti per la decisione.
Fenomeno diverso da quello della pregiudizialità è il c.d. assorbimento delle
questioni, che si verifica quando le questioni sollevate seguono un preciso ordine
logico, che il giudice deve seguire ai fini della decisione.
Il giudice amministrativo, comunque, suole disporre frequentemente
l’assorbimento dei motivi di ricorso sulla base di criteri di mera opportunità
pratica.
Questo uso improprio dell’istituto dell’assorbimento appare grave, perché
determina di fatto una pronuncia incompleta sul ricorso e impedisce al cittadino
di conseguire tutte le utilità che potrebbero derivare dall’accoglimento degli altri
motivi di impugnazione.
Una sentenza con caratteri particolari è stata prevista dall'art. 35, 2° comma, del
d.lgs. n. 80/1998, come modif. dall'art. 7 della legge n. 205/2000, per le
vertenze risarcitorie. II giudice, se accoglie la domanda risarcitoria può
limitarsi a fissare nella sentenza i «criteri» per determinare la misura del
risarcimento; entro il termine fissato nella sentenza, l’amministrazione deve
formulare, sulla base di questi criteri, la sua proposta di pagamento; in
mancanza di accordo la determinazione della somma dovuta può essere richiesta
nelle forme previste per il giudizio d’ottemperanza.
La sentenza deve essere sottoscritta dal presidente del collegio giudicante e
dall’estensore e viene depositata, unitamente al dispositivo, presso la segreteria
del TAR (legge n. 186/1982, art. 55) Il deposito comporta la pubblicazione della
sentenza: da quel momento la sentenza produce i suoi effetti e decorre il termine
annuale per l’eventuale impugnazione. Del deposito della sentenza la segreteria
dà comunicazione alle parti; la notifica della sentenza costituisce, invece, un
onere delle parti, che determina la decorrenza del termine breve per l’eventuale
impugnazione
2. Gli effetti della sentenza di annullamento
105
Il nucleo della sentenza di annullamento è stato identificato a lungo con
l’accertamento della illegittimità del provvedimento impugnato, in
relazione a determinati vizi enunciati nel ricorso.
A questa concezione, se ne è poi contrapposta un’altra. Anch’essa identifica
come centrale il momento dell’accertamento, ma si concentra in modo
particolare sull’interesse tutelato nel processo amministrativo: la sentenza
accerta la lesione di un interesse legittimo. La verifica compiuta dal giudice
inerisce ad una posizione soggettiva: l’interesse legittimo. Nel dibattito, alcuni
punti sembrano acquisiti. Innanzi tutto, l’accertamento dell’illegittimità del
provvedimento o della lesione dell’interesse legittimo, costituisce il nucleo
essenziale e ineliminabile della sentenza del giudice amministrativo. Inoltre,
sembra maturata una quasi unanimità di consensi su un punto: la sentenza di
annullamento non può essere considerata solo nella prospettiva della
eliminazione di un atto amministrativo.
Il potere dell’Amministrazione non si esaurisce per effetto della sentenza
che accolga un ricorso.
Il riconoscimento della permanenza del potere amministrativo pone l’esigenza di
salvaguardare il contenuto di accertamento della sentenza.
Da questo punto di vista appare significativa la sistematica proposta da alcuni
autori, che individua tre ordini di effetti della sentenza di annullamento:
- un effetto “eliminatorio” o “caducatorio”. La sentenza di annullamento
comporta l'eliminazione dalla c.d. realtà giuridica del provvedimento annullato.
L'annullamento di un decreto di esproprio, ad es., comporta come effetto il venir
meno del titolo giuridico e gli atti amministrativi che ad esso abbiano dato
esecuzione o attuazione (atti consequenziali) ecc.
- un effetto “ripristinatorio”. La sentenza di annullamento opera ex tunc:
essa, pertanto, non solo elimina dalla realtà giuridica attuale un certo assetto di
interessi, ma impone che quell'assetto di interessi sia eliminato fin dall’origine.
- un effetto “conformativo”. L’accertamento contenuto nella sentenza non
può essere disatteso dall'Amministrazione.
In questa sistematica la riflessione sugli effetti della sentenza di annullamento si
concentra particolarmente sugli effetti conformativi, perché essi determinano la
stabilità o meno del risultato raggiunto dal ricorrente con sentenza stessa.
L'art. 21-octies della legge n. 241/1990, introdotto dalla legge n. 15/2005,
nel secondo comma esclude l'annullamento del provvedimento. Questa
disposizione è oggetto di interpretazioni diverse. Alcune ambientano la norma in
106
un quadro tipicamente sostanziale, altre invece in un quadro processuale.
L’interpretazione della disposizione ne condiziona anche la rilevanza rispetto al
tema in esame, sulla portata della sentenza d’accoglimento, nel caso di im-
pugnazione di un atto illegittimo.Attraverso la sentenza di annullamento
possiamo avere una classificazione delle utilità.Se l’annullamento è stato
disposto per un vizio di legittimità sostanziale impedisce l’emanazione di un
nuovo provvedimento con quel contenuto.Se invece è predisposta per un vizio di
legittimità formale il vantaggio del ricorrente è minore perché l’annullamento
non impedisce di per sé l’emanazione di un nuovo atto con lo stesso contenuto
purchè l’atto sia emendato dai vizi accertati nella sentenza.
3. La revocazione
L’art. 28 della legge TAR ammette, nei confronti delle sentenze dei TAR, il
rimedio della revocazione; l’art. 36 della stessa legge ammette la revocazione
anche nei confronti delle decisioni del Consiglio di Stato. In entrambi i casi non è
dettata una disciplina specifica dell’ istituto, con riferimento a pronunce di giudici
amministrativi, ma è fatto rinvio al c.p.c..
Va osservato, però, che nella legge istitutiva dei TAR le disposizioni del codice di
rito sono richiamate in modo impreciso e con varie incongruenze e illogicità. In
particolare, l’art. 36, legge TAR, a proposito dei casi di revocazione ammessi nei
confronti delle decisioni pronunciate in grado d’appello dal Consiglio di Stato,
richiama l'art. 396 c.p.c. (che riguarda i casi di revocazione nei confronti di
sentenze di primo grado passate in giudicato) anziché l’art, 395 c.p.c. (che
invece riguarda i casi di revocazione di sentenze pronunciate in unico grado o in
grado d’appello).
Ancora, l’art. 28, 1° comma, legge TAR richiama per le sentenze dei TAR, oltre
che i casi di revocazione previsti dall’art. 396 c.p.c. (sulla revocazione
straordinaria delle sentenze di primo grado), anche quelli previsti dall’art. 395
(sulla revocazione delle sentenze pronunciate in grado d’appello o in unico
grado), creando così confusione in merito al rapporto fra la revocazione (c.d.
ordinaria) e l’appello: il Consiglio di Stato si è orientato nel senso di ritenere che i
due rimedi siano fra loro concorrenti.
La revocazione ordinaria è ammessa in tutti i casi previsti dall’art. 395 c.p.c; la
revocazione straordinaria (che riguarda le sentenze passate in giudicato) è
ammessa invece solo nelle ipotesi previste dall’art. 395, nn. 1, 2, 3 e 6, c.p.c.
I casi di revocazione previsti dall'art. 395 c.p.c. riguardano:
107
- la sentenza che sia effetto del dolo di una parte in danno a un’altra
- la sentenza pronunciata in base a prove riconosciute o dichiarate false dopo la
sentenza o che la parte soccombente ignorava essere state riconosciute o
dichiarate false prima della sentenza
- il caso di ritrovamento dopo la sentenza di uno o più documenti decisivi che la
parte non aveva potuto produrre in giudizio per causa di forza maggiore o per
fatto dell'avversario.
- la sentenza che sia affetta da errore di fatto risultante dagli atti o documenti
della causa. Si tratta dell’ipotesi di revocazione più importante e discussa:
l’errore di fatto che consente la revocazione deve essere stato determinante per
la sentenza e deve consistere in una errata od omessa percezione del contenuto
materiale degli atti o dei documenti prodotti nel giudizio
- la sentenza contraddittoria con altra precedente passata in giudicato, purché
non abbia pronunciato sulla relativa eccezione. Questa ipotesi presuppone
l’identità degli elementi di identificazione dell’azione nei due diversi giudizi.
- la sentenza affetta da dolo del giudice, accertato con sentenza passata in
giudicato.
Nel processo amministrativo, il ricorso per revocazione si propone avanti al
medesimo giudice che ha emesso la sentenza: il giudice adito procede
all’accertamento delle condizioni per la revocazione e, nel caso di accertamento
positivo, al riesame del merito della controversia già precedentemente decisa.
4. L'appello al Consiglio di Stato: considerazioni preliminari
La legge istitutiva dei TAR, nel dare attuazione all’art. 125, 2° comma, Cost., ha
introdotto con carattere di generalità il c.d. doppio grado di giurisdizione nel
processo amministrativo: nei confronti delle sentenze (parziali o definitive) dei
TAR la parte soccombente può proporre l’appello al Consiglio di Stato.
Meritano di essere segnalate particolarmente le discussioni concernenti:
a) la nozione di soccombenza. Questa nozione inerisce a quella condizione
generale per l’appello che è costituita dall’interesse ad appellare. In passato tale
interesse spesso veniva identificato con la soccombenza: ha interesse ad
impugnare la sentenza di primo grado chi sia risultato soccombente in quel
grado di giudizio.
Va osservato, però, che la configurabilità di una soccombenza risulta pacifica
solo in alcune ipotesi, in altre, invece, la configurabilità e i caratteri della
soccombenza appaiono più opinabili.
108
b) la nozione di capo (o “parte”) di sentenza. L’appello, al pari di ogni altra
impugnazione, deve identificare l’ambito della sentenza impugnato perché
tendenzialmente è, rispetto a tale ambito, che si riapre la controversia (art. 329
c.p.c). A questo fine, però, diventa essenziale capire quale sia l’ambito di una
sentenza passibile di autonoma contestazione: il c.d. capo di sentenza. L’appello
può riguardare uno o più capi di sentenza; rispetto a quelli non gravati da
appello, si forma il giudicato.
La nozione di capo di sentenza, molto dibattuta nel processo civile, risulta
ancora più controversa nel processo amministrativo. Risultato di queste
incertezze è, in dottrina, la presenza di interpretazioni che spaziano da quella
che identifica il “capo” di sentenza in base al “petitum” del ricorso (=
l’annullamento di un determinato provvedimento) a quella che invece identifica il
“capo” con il singolo determinato profilo di illegittimità fatto valere nel ricorso (a
ciascun vizio esaminato nella sentenza corrisponde un “capo” distinto). Su una
posizione intermedia si colloca la tesi secondo cui la nozione di capo di sentenza
dovrebbe essere conformata alle utilità che l’accoglimento di una censura
comporta per il ricorrente, tenendo conto di tutti gli effetti della sentenza di
annullamento. In questo modo il capo di sentenza si identificherebbe in base a
una qualità degli effetti della sentenza.
Nella giurisprudenza amministrativa prevale la tendenza che identifica come
unità minima della sentenza, ai fini dell’appello, qualsiasi pronuncia espressa su
una “questione” sollevata dalle parti o rilevata d’ufficio nel giudizio di primo
grado. Capo della sentenza finisce così col risultare non solo la pronuncia sul
singolo vizio, ma anche il rigetto di ogni eccezione pregiudiziale o preliminare.
e) la configurabilità e l’ampiezza di un effetto devolutivo dell’appello. L’appello
si caratterizza, fra i mezzi di impugnazione, per essere diretto ad ottenere dal
giudice di secondo grado il riesame della vertenza decisa dal giudice di primo
grado. Pertanto, il giudice d’appello deve poter conoscere e decidere la vertenza
con la stessa pienezza del giudice di primo grado. A questo proposito si parla di
un effetto devolutivo dell’appello: si designa così la riemersione automatica, nel
giudizio d’appello, delle questioni già sollevate nel giudizio di primo grado e del
relativo materiale di cognizione e probatorio. La configurabilità di un effetto
devolutivo dell’appello, oggetto di contestazioni nel processo civile, è data come
elemento pacifico dal Consiglio di Stato.
109
Un effetto devolutivo si può produrre solo nei limiti dell’impugnazione proposta:
pertanto può riguardare solo questioni risolte nei capi di sentenza che siano
impugnati.
d) l'oggetto della contestazione nell’appello.
E’ stato osservato, in passato, che l’appello al Consiglio di Stato si propone con
ricorso contro la sentenza di primo grado e che le disposizioni sul giudizio avanti
al Consiglio di Stato modellano il ricorso nei termini di reazione demolitoria ad un
atto: oggi, dato che il Consiglio di Stato è giudice d’appello, tale atto sarebbe,
appunto, la sentenza di primo grado. La legge istitutiva dei TAR prevede, però,
un accentuato parallelismo nella competenza e nei poteri di cognizione e di
decisione fra TAR e Consiglio di Stato (art. 28, 3° e 4° comma) e questo
parallelismo non sembra conciliabile con una contrapposizione nell’oggetto dei
due gradi del giudizio, come si avrebbe, se il primo investisse il provvedimento
amministrativo e il secondo la sentenza appellata. Gli artt. 34 e 35 della legge
istitutiva dei TAR sanciscono che il Consiglio di Stato, se accoglie l’appello, in
ipotesi tassative, si limita ad annullare la sentenza di primo grado. Sottolineano,
così, la capacità del Consiglio di Stato di assumere una pronuncia pienamente
sostitutiva di quella di primo grado e perciò l’attitudine del giudice d’appello a
decidere dell’impugnazione del provvedimento amministrativo.
Si tenga presente che le conclusioni accolte dalla giurisprudenza prevalente
sull’oggetto del giudizio d’appello, nel processo amministrativo non esauriscono
le questioni concernenti i rapporti fra i due gradi di giudizio.
5. (segue): l’appello principale e l’appello incidentale
Tradizionalmente, la legittimazione all’appello era riconosciuta solo alle parti
necessarie nel giudizio di primo grado, sia per ragioni di coerenza con quanto
previsto nel processo civile, sia perché in generale la proposizione dell’appello
sembrava espressione di un potere di disposizione della controversia, riservato
alle parti necessarie. Più di recente, però, nel quadro di una nuova rimeditazione
del ruolo di alcune parti intervenute, il Consiglio di Stato ha riconosciuto la
legittimazione a proporre l'appello anche all’interventore ad opponendum, nel
giudizio di primo grado, quando esso risulti titolare di una posizione autonoma
rispetto alle altre parti (Cons. Stato, ad. plen. n. 2/1996).
Una parte della giurisprudenza, per assicurare una tutela ai terzi titolari di una
posizione giuridica autonoma, che non siano intervenuti nel giudizio di primo
grado e subiscano un pregiudizio, dall’annullamento del provvedimento
110
impugnato, riconosce anche ad essi la legittimazione a proporre l’appello. Ma, in
merito ai contenuti dell’atto d’appello, la giurisprudenza sembra ancora lontana
da conclusioni omogenee.
Ai fini che qui interessano, si intende far riferimento alla necessità che l’atto
d’appello identifichi, a pena di inammissibilità, le ragioni per le quali la sentenza
non venga ritenuta corretta o condivisibile. Questo profilo assumerebbe rilievo
anche a fini più generali. La necessità di una critica alla sentenza di primo grado,
infatti, sottolineerebbe la distinzione fra il giudizio d’appello e il giudizio di primo
grado ed escluderebbe la possibilità di accogliere, per l’appello al Consiglio di
Stato, il modello di appello fondato semplicemente sull’esigenza di assicurare
una seconda pronuncia di merito su quella certa controversia.
Su questo tema la giurisprudenza amministrativa appare divisa. L’Adunanza
plenaria ha prospettato una soluzione di mediazione, sostenendo che il giudizio
d’appello avrebbe «come oggetto immediato e diretto» la sentenza, e non il
provvedimento impugnato in primo grado, e affermando nello stesso tempo che,
però, anche la semplice riproposizione delle censure proposte in primo grado
soddisferebbe l’onere di allegazione dei motivi. In questo modo, la critica alla
sentenza di primo grado sarebbe desumibile nella proposizione stessa dell’atto
d’appello; d’altra parte, la funzione della motivazione dell’appello si esaurirebbe
nella individuazione dei capi di sentenza impugnati. Questa soluzione, però, non
è consolidata.
b) Le parti alle quali sia stato notificato l’appello (principale) possono, a loro
volta, impugnare la sentenza del TAR, per le statuizioni che ritengono lesive del
loro interesse, proponendo appello incidentale. Il principio di concentrazione
delle impugnazioni sancito dall'art. 333 c.p.c, ritenuto oggi applicabile anche al
processo amministrativo, comporta la necessità di proporre con appello
incidentale tutti gli appelli successivi al primo.
Nel caso di un interesse autonomo all’impugnazione, l’appello incidentale (c.d.
appello incidentale autonomo) riceve una considerazione specifica, ma nel senso
che l’accoglimento dell’appello principale non è condizione per il suo esame da
parte del giudice.
L’istituto dell’appello incidentale si presenta in stretto rapporto con l’effetto
devolutivo.Non vi è onere di impugnazione e quindi di appello incidentale nei casi
in cui opera l’effetto devolutivo.
Effetto devolutivo ed onere di appello incidentale si collocano in una relazione di
alternatività: ciò significa, che le conclusioni del Consiglio di Stato sulla limita-
111
tezza dell’effetto devolutivo, nel processo amministrativo comportano, come
necessaria conseguenza, l’estensione dell’onere di proporre appello incimentale.
L'istituto dell’appello incidentale si pone, inoltre, in stretta relazione con la
nozione di soccombenza accolta nel processo amministrativo: l’interpretazione
del Consiglio di Stato, già richiamata, comporta la possibilità di un appello
incidentale anche per la parte che sia stata soccombente solo su singole
questioni.
c) Uno dei profili ritenuti, tradizionalmente, più qualificanti, per valutare il
modello di appello, è rappresentato dalla disciplina dei “nova”, in particolare
dalla possibilità per la parte di porre rimedio alle manchevolezze delle sue difese
nel precedente grado di giudizio, proponendo censure, eccezioni o mezzi di prova
che non aveva proposto in primo grado. È stata perciò assunta, come il fatto che
determina la differenza fra un giudizio d’appello, come rimedio agli errori del
giudice di primo grado e un giudizio d’appello che attua semplicemente il «diritto
di ottenere dal giudice una nuova sentenza di merito» sulle medesime questioni.
Con l’appello al Consiglio di Stato non è ammessa la presentazione di nuovi
motivi di ricorso contro il provvedimento impugnato in primo grado. L’esclusione
di nuovi motivi di ricorso dipende dalla vigenza di un termine generale di
decadenza per l’impugnazione del provvedimento amministrativo. Si comprende,
in questa logica, perché siano ammessi anche in grado di appello i c.d. motivi
aggiunti: la possibilità di presentarli in grado di appello, pur costituendo una
deroga al principio del doppio grado, si giustifica per il fatto che essi concernono
vizi che emergono da documenti, conosciuti per la prima volta, in quel grado di
giudizio. I motivi aggiunti, nel giudizio di secondo grado, si configurano come
strumento integrativo del ricorso, in seguito alla acquisizione al processo di fatti
nuovi, prima non noti al ricorrente.
Nei giudizi su questioni patrimoniali in materia di pubblico impiego, il Consiglio di
Stato ha ammesso che potessero essere richiesti, in grado d’appello, per la
prima volta, interessi e rivalutazione monetaria (Cons. Stato, ad. plen., n.
18/1985). Il disposto dell’art. 429 c.p.c. (che prevede la liquidazione d’ufficio
degli interessi maturati sui crediti di lavoro) viene applicato anche ai processi
amministrativi sul pubblico impiego, con la conseguenza che il Consiglio di Stato
può provvedere in proposito anche d’ufficio, quando la questione non sia già
stata decisa dal giudice di primo grado; l’eventuale domanda della parte non fa
che sollecitare poteri, che il giudice eserciterebbe anche autonomamente.
112
Con riferimento, invece, ad ogni altro genere di vertenza si deve ritenere che, in
grado d’appello, possano essere richiesti per la prima volta solo gli interessi, la
rivalutazione e, in generale i c.d. accessori che siano maturati dopo la sentenza
di primo grado. Inoltre può essere richiesta la restituzione di quanto corrisposto
in base alla sentenza di primo grado e, nelle vertenze risarcitorie, può essere
chiesto il risarcimento dei danni subiti dopo la sentenza del TAR.
Per quanto riguarda, invece, le eccezioni, la giurisprudenza amministrativa, in
passato, era orientata nel senso di ammettere nel giudizio d’appello eccezioni
nuove, anche quando esse fossero state riservate alle parti. Questo
orientamento, che trovava argomento nel testo previgente dell’art. 345 c.p.c, ha
dovuto confrontarsi con le modifiche di tale articolo, ad opera della legge n.
353/1990, che ha circoscritto la possibilità di proporre eccezioni nuove
nell’appello civile solo alle eccezioni rilevabili d’ufficio. La giurisprudenza sembra
ancora divisa, ma prevale l’indirizzo favorevole ad applicare il nuovo testo
dell'art 345 c.p.c anche al processo amministrativo.
Le modifiche apportate nel 1990 all’art. 345 c.p.c assumono rilievo anche per la
deduzione di nuovi mezzi di prova: l’art. 345, oggi, li ammette solo in ipotesi
eccezionali, mentre la giurisprudenza amministrativa in passato li consentiva
senza limiti.
In alcune decisioni recenti il Consiglio di Stato ne ha esteso la portata anche ai
mezzi di prova nel processo amministrativo d’appello. Inoltre, anticipando un
recente indirizzo della Cassazione, ha affermato che anche le prove documentali
sarebbero assoggettate ai limiti previsti per i nuovi mezzi di prova: di
conseguenza, sarebbe preclusa alle parti anche la produzione di nuovi
documenti.
L’appello al Consiglio di Stato, rappresenterebbe, oggi, più un rimedio agli errori
del giudice di primo grado, che il mezzo per ottenere un nuovo esame della
controversia da parte del giudice di grado superiore.
6. {segue): lo svolgimento del giudizio
L’appello contro una sentenza del TAR deve essere proposto con ricorso al
Consiglio di Stato da notificarsi, di regola, entro 60 gg. dalla notifica della
sentenza (art. 28, 2° comma, legge TAR). Se la sentenza di primo grado non è
stata notificata, per analogia con quanto previsto per il processo civile, il termine
per la notifica dell’appello è di un anno dalla data di deposito della sentenza.
L’appello deve essere notificato alle altre parti del giudizio di primo grado, siano
113
esse costituite o non, osservando le regole previste per la notifica delle
impugnazioni nel processo civile; se l’atto non è notificato a tutte le parti, ma
almeno ad una, l’appello non è inammissibile, ma il Consiglio di Stato ordina di
procedere all’integrazione del contraddittorio con gli effetti previsti dall’art. 331
c.p.c.. Nei 30 gg. successivi alla notifica, il ricorso deve essere depositato presso
il Consiglio di Stato (art. 36, 4° comma, t.u. Cons. Stato); col deposito si
determina anche la costituzione in giudizio dell’appellante e la pendenza del
giudizio.
L’appello non sospende l’esecutività della sentenza; la sospensione può essere
disposta dal giudice d’appello, in seguito ad istanza dell’appellante, con le
modalità e secondo i principi già esaminati a proposito delle misure cautelari nel
giudizio di primo grado.
Gli appellati possono costituirsi in giudizio, depositando una memoria di
costituzione (controricorso), entro il termine ordinatorio di 30 gg. dalla scadenza
del termine per il deposito dell’appello; tale termine è invece perentorio per
l’appello incidentale, che va notificato all’appellante, presso il suo difensore
nel giudizio d’appello (art. 37, t.u. Cons. Stato). La giurisprudenza prevalente,
sostiene però che l’appello incidentale, se investe capi di sentenza diversi (o
autonomi) da quelli impugnati dall’appellante, va notificato prima della scadenza
dei termini per l’appello principale (c.d. appello incidentale “improprio”).
Anche nel giudizio d’appello è ammesso l’intervento di quanti avrebbero potuto
intervenire nel giudizio di primo grado.
In sede d’appello il Consiglio di Stato, in coerenza con il carattere rin-
novatorio del giudizio d’appello, non è vincolato dalla regola del fatto enunciata
nella sentenza impugnata, né è limitato nella conoscenza dei fatti a quelli già
acquisiti nel giudizio avanti al TAR. Il giudice d’appello, nel processo
amministrativo, può disporre l’acquisizione di tutti i mezzi istruttori rilevanti,
rispetto ai capi di sentenza impugnati, con gli stessi poteri e con gli stessi limiti
previsti per il giudice di primo grado, fatto salvo quanto si è già visto,
sull’incidenza del nuovo testo dell’art. 345 c.p.c.
Alle ulteriori fasi di svolgimento del giudizio si applicano regole analoghe a quelle
previste per il giudizio di primo grado.
Nelle vertenze in materia di aggiudicazione di appalti pubblici e nella altre
vertenze assoggettate al rito speciale previsto dall’art. 23-bis legge TAR.
7. La decisione del Consiglio di Stato e gli ulteriori gravami
114
La pronuncia del Consiglio di Stato sull’appello è designata dalla legge come
«decisione» (art. 43 t.u. Cons. Stato e art. 36 legge TAR). Solo quando si sia
verificata una causa di estinzione del giudizio, ovvero siano intervenute la
rinuncia al ricorso, la cessazione della materia del contendere o la perenzione,
provvede alla relativa declaratoria il Presidente della sezione con un decreto, ai
sensi dell’art. 26 legge TAR, come nel giudizio di primo grado.
L’appello, nel processo amministrativo, ha carattere rinnovatorio: di
conseguenza il Consiglio di Stato, se accoglie l’appello, di regola «decide anche
sulla controversia» (art. 35 legge TAR), pronunciandosi quindi sull’ impugnazione
del provvedimento amministrativo. Il carattere rinnovatorio del giudizio d’appello
consente di richiamare, per le decisioni del Consiglio di Stato, quanto è stato
visto a proposito della sentenza del TAR, con alcune importanti precisazioni, che
riguardano i vizi della sentenza appellata rilevabili d'ufficio dal giudice
d’appello e i casi in cui la decisione del Consiglio di Stato ha un contenuto solo
demolitorio della sentenza impugnata e non si risolve quindi in una decisione
sulla controversia, già esaminata dal giudice di primo grado.
a) Per quanto riguarda il primo punto, va osservato che il Consiglio di Stato
ritiene di poter rilevare anche d’ufficio alcuni vizi della sentenza impugnata: è il
caso del difetto di giurisdizione, della nullità, inammissibilità o
irricevibilità della domanda originaria, dell’irregolare costituzione del
rapporto processuale. La giurisprudenza prevalente sostiene che tali vizi siano
rilevabili d’ufficio da parte del Consiglio di Stato, se non siano stati oggetto di
esplicita statuizione nella sentenza appellata. Il Consiglio di Stato, è orientato in
prevalenza nel senso che, in mancanza di una statuizione esplicita nella
sentenza del TAR, la questione debba ritenersi “non affrontata” nel giudizio di
primo grado e che quindi non vi sarebbe spazio per alcun giudicato.
Se invece i vizi in questione sono stati oggetto di una statuizione nella sentenza
di primo grado, non possono più essere rilevati d’ufficio, perché la pronuncia su
di essi da parte del giudice di primo grado identificherebbe un “capo” della
sentenza impugnato, inattaccabile, se non tempestivamente impugnato, e
perché, anche nel processo amministrativo vale la regola secondo cui tutte le
questioni rilevabili d’ufficio, in ogni stato e grado del giudizio, cessano di essere
tali una volta che su di esse il giudice abbia pronunciato.
b) Gli artt. 34 e 35 della legge TAR prevedono ipotesi di decisioni del Consiglio di
Stato di annullamento senza riforma della sentenza appellata, in alcuni casi
con rinvio al giudice di primo grado, in altri casi senza rinvio. Il Consiglio di
115
Stato, se accerta che il TAR si è pronunciato nonostante che il ricorso non
potesse essere deciso nel merito, per un vizio dell’atto introduttivo o per difetto
di giurisdizione, o per la presenza di cause impeditive o estintive del giudizio, si
limita ad annullare la sentenza di primo grado: il processo amministrativo si
conclude. In presenza, invece, di «difetto di procedura o vizio di forma», nonché
nel caso di erronea declaratoria di «incompetenza» da parte del TAR, il Consiglio
di Stato annulla la sentenza di primo grado, restituendo gli atti al TAR per la
rinnovazione del giudizio. Appena ricevuti gli atti, il TAR procede d’ufficio a
fissare l’udienza di discussione.
E’ stata a lungo discussa l’ipotesi del «difetto di procedura», rispetto alla quale si
sono scontrate due posizioni diverse: la prima favorevole ad estendere le ipotesi
di annullamento con rinvio al giudice di primo grado, perché più idonee a
garantire un doppio grado di giurisdizione, la seconda favorevole a limitare le
ipotesi di annullamento con rinvio, perché l’assunzione diretta della decisione da
parte del giudice d’appello assicura meglio le esigenze di economia e di
speditezza del giudizio e perché il principio del doppio grado non ha mai
implicato la necessità di un esercizio, in doppio grado, di una cognizione di
merito. Nel complesso sembra essere prevalso il secondo indirizzo.
Nei confronti della decisioni del Consiglio di Stato è ammesso il ricorso alla
Corte di cassazione a sezioni unite per motivi di giurisdizione (art. 111,8°
comma, Cost., art. 48 t.u. Cons. Stato e art. 36 legge TAR).
Il ricorso alla Corte di cassazione è ammesso per denunciare la violazione dei
limiti esterni della giurisdizione amministrativa; la violazione dei limiti esterni
può concretarsi sia in un’erronea declinatoria di giurisdizione, sia
nell’accoglimento del ricorso, in ipotesi esorbitanti rispetto alla giurisdizione
amministrativa. Di conseguenza il ricorso è ammesso sia per il caso che il giudice
amministrativo abbia deciso una questione riservata all’Amministrazione, o
devoluta al giudice ordinario o ad un altro giudice speciale, sia per il caso che
abbia declinato la propria giurisdizione, in ipotesi in cui invece la questione
sarebbe stata di sua competenza.
La Cassazione ha accolto un’interpretazione estensiva della condizione
rappresentata dai «motivi inerenti alla giurisdizione», per il ricorso contro le
decisioni del Consiglio di Stato. Non ha identificato questi «motivi» solo con
profili inerenti alla distinzione fra interessi legittimi e diritti soggettivi, o fra
interessi qualificati (= diritti soggettivi o interessi legittimi) e interessi non
qualificati (= interessi semplici o interessi di fatto). Ha ritenuto, invece, che in
116
essi fossero comprese anche altre ipotesi, come la distinzione fra giurisdizione di
legittimità e giurisdizione di merito, pur trattandosi, di una distinzione
riconducibile alla competenza del medesimo giudice amministrativo, o addirittura
certi vizi formali, come l’irregolare composizione del collegio giudicante.
La disciplina del ricorso contro le decisioni del Consiglio di Stato per motivi di
giurisdizione è dettata dal codice di rito (art. 362 c.p.c). Il ricorso va proposto nei
termini previsti per il ricorso per cassazione (art. 325 c.p.c), ossia nel termine di
60 gg. dalla notifica della decisione del Consiglio di Stato, ovvero di un anno dal
deposito della decisione, nel caso che essa non sia stata notificata.
8. L'opposizione di terzo
L’istituto dell’opposizione di terzo (art. 404 c.p.c.) non è contemplato nelle
leggi sul processo amministrativo. La Corte costituzionale, con la sentenza, n.
177/1995, richiamandosi agli artt. 3 e 24 Cost., ha dichiarato l’illegittimità
costituzionale dell’art. 36, legge TAR «nella parte in cui non prevede
l’opposizione di terzo ordinaria, fra i mezzi di impugnazione delle sentenze del
Consiglio di Stato» e l’illegittimità costituzionale dell’art. 28 della stessa legge
«nella parte in cui non prevede l’opposizione di terzo ordinaria, fra i mezzi di
impugnazione delle sentenze del tribunale amministrativo regionale divenute
giudicato».
La sentenza della Corte costituzionale ha pertanto introdotto nel processo
amministrativo l’opposizione di terzo c.d. ordinaria, attraverso la quale un terzo
può porre in discussione una sentenza passata in giudicato o esecutiva che
pregiudichi i suoi diritti e che sia stata pronunciata in un giudizio, cui sia rimasto
estraneo.
L’opposizione di terzo, nel processo civile, non è soggetta a termini di
decadenza; la tutela degli interessi legittimi, nel processo amministrativo, è
invece soggetta a termini di decadenza. È controverso se tali termini vadano
applicati nel processo amministrativo anche all’opposizione di terzo: la soluzione
affermativa (condivisa dalla prima giurisprudenza del Consiglio di Stato, con
riferimento ad ipotesi di tutela di interessi legittimi) porta ad estendere le regole
sul termine per l’impugnazione degli atti amministrativi anche a una situazione
ben diversa come è l’opposizione ad una sentenza.
L’opposizione di terzo dovrebbe essere proposta davanti allo stesso giudice che
ha pronunciato la sentenza pregiudizievole per il terzo, tuttavia, una parte della
117
giurisprudenza sostiene che nei confronti delle sentenze dei TAR l’opposizione
vada proposta al giudice d’appello. Il problema maggiore riguarda, però,
l’identificazione dei soggetti legittimati a proporre l’opposizione e la
qualificazione del “pregiudizio” determinato a carico del terzo dalla sentenza
opposta e in relazione al quale è ammessa l’opposizione.
Secondo il Consiglio di Stato, legittimati a proporre l’opposizione di terzo sono,
nel processo amministrativo, i controinteressati pretermessi e i soggetti, ai quali
non sia opponibile il giudicato, che siano titolari di una posizione giuridica
incompatibile e autonoma con quella che forma oggetto del giudicato.
In questo modo, nell’opposizione di terzo sono ricomprese due ipotesi diverse di
tutela: la reazione a un vizio della sentenza, rappresentato dalla violazione
dell’integrità del contraddittorio e la reazione nei confronti di una sentenza non
viziata, che abbia deciso in termini incompatibili con l’interesse qualificato di
terzi estranei al giudizio.
Capitolo 14
IL GIUDICATO AMMINISTRATIVO E L'ESECUZIONE DELLA SENTENZA
1. Il giudicato amministrativo
Il passaggio in giudicato di una sentenza del giudice amministrativo si ha
quando nei suoi confronti non è più ammessa un’impugnazione c.d. ordinaria.
Nei confronti della sentenza del giudice amministrativo, passata in giudicato,
sono proponibili solo il ricorso per revocazione nei casi previsti dall’art. 395, nn.
1, 2, 3, 6, c.p.c. e l’opposizione di terzo.
Per valutare quali effetti comporti il passaggio in giudicato della sentenza del
giudice amministrativo si suole distinguere fra un giudicato solo interno e un
giudicato anche esterno: nel primo caso la sentenza comporta un vincolo (nel
senso che la questione decisa con forza di giudicato non può più essere posta in
discussione) solo rispetto alle ulteriori fasi di quel giudizio, mentre nel secondo
caso la sentenza comporta un vincolo anche rispetto a giudizi diversi, che
possano instaurarsi fra le medesime parti, nei quali assuma rilevanza la
medesima questione. Le sentenze di rito comportano tipicamente solo vincoli
“interni”; le sentenze di merito, invece, si caratterizzano per la loro idoneità a
comportare vincoli “esterni”.
Appare invece controversa la collocazione di altri tipi di sentenze.
118
Per quanto riguarda, invece, i c.d. limiti soggettivi del giudicato, la
giurisprudenza amministrativa ritiene che il giudicato amministrativo di regola
valga solo fra le parti, i loro successori e aventi causa (art. 2909c.c.).
A questa giurisprudenza, che ammette con larghezza gli effetti del giudicato
amministrativo, si oppone una parte della dottrina, che cerca di risolvere i
problemi creati dall’annullamento di atti indivisibili attraverso la distinzione fra
effetti della sentenza e autorità del giudicato. Alla stregua di questa dottrina nel
processo amministrativo si dovrebbe distinguere fra “effetti dell’annullamento” e
“autorità” (= immodificabilità) del giudicato; i primi travolgerebbero tutte le
utilità assegnate dall’atto annullato e, quindi, anche tutti i soggetti che ne fosse-
ro titolari, mentre la seconda riguarderebbe solo le parti processuali (nonché i
loro eredi e aventi causa).
2. L'esecuzione della sentenza non ancora passata in giudicato
La sentenza del TAR (parziale o definitiva) che decide su un ricorso è
immediatamente esecutiva (art. 33, 1° comma, legge TAR). Fatto salvo il caso
di sospensione della sentenza del TAR, l’Amministrazione è tenuta a dare
esecuzione alla sentenza, adottando tutti i comportamenti e gli atti necessari per
portare a compimento quanto disposto nella sentenza. A questo proposito vanno
presi in considerazione i vari ordini di effetti della sentenza : il dovere
dell’Amministrazione di dare esecuzione alla sentenza non riguarda solo il profilo
eliminatorio o ripristinatorio, ma riguarda anche il momento rinnovatorio, rispetto
al quale rileva particolarmente l’effetto conformativo della sentenza.
L'esecuzione della sentenza investe anche la fase di rinnovazione del potere
amministrativo, aspetto questo che risulta di particolare rilievo quando il giudizio
abbia riguardato l’impugnazione di un provvedimento negativo (diniego di
autorizzazione, di concessione, ecc.) o un silenzio-rifiuto: in queste ipotesi
l’interesse del cittadino è assicurato solo, rispettivamente, attraverso il
riesercizio o l’esercizio del potere da parte dell’Amministrazione, dopo la
sentenza.
Il dovere dell'Amministrazione di dare esecuzione alla sentenza si scontra
talvolta con il mutamento del quadro normativo che disciplina la materia
oggetto del giudizio (c.d. sopravvenienze).
La giurisprudenza in passato sosteneva che l’Amministrazione non poteva pre-
scindere dall’applicazione della normativa in vigore nel momento del nuovo
provvedimento. Di recente, il Consiglio di Stato ha temperato questa
119
conclusione, affermando che i mutamenti di disciplina successivi alla notifica
della sentenza di primo grado sarebbero comunque irrilevanti e non potrebbero
essere opposti al dovere di dare esecuzione alla sentenza (Cons. Stato, ad. plen.,
, n. 1/1986 ). Questa conclusione, però, non appare soddisfacente.
In passato, secondo la giurisprudenza, l’esecutività della sentenza, non ancora
passata in giudicato, non avrebbe consentito la proposizione del giudizio di
ottemperanza (art. 27, n. 4, t.u. Cons. Stato). L’esecutività della sentenza
avrebbe avuto rilevanza solo determinando la cessazione degli effetti del
provvedimento amministrativo annullato e, quindi, privando del titolo l’attività
amministrativa svolta in base a tale provvedimento. Inoltre avrebbe comportato
la cessazione degli effetti di eventuali misure cautelari; tali effetti sarebbero stati
superati dalla sentenza di rigetto, mentre nel caso di sentenza di accoglimento
avrebbero trovato fondamento non più nell’ordinanza cautelare, bensì nella
sentenza. Tuttavia, la sentenza non passata in giudicato non sarebbe stata pas-
sibile di un giudizio di esecuzione.
L’anomalia di una sentenza "esecutiva” per legge, ma non passibile di
esecuzione forzata, è stata superata dall'art. 33, 5° comma, legge TAR ,in-
trodotto dalla legge n. 205/2000 (art. 10). Tale disposizione ha introdotto uno
specifico giudizio di esecuzione per le sentenze di primo grado non sospese
dal Consiglio di Stato: ha stabilito che, il ricorso per l’esecuzione vada proposto
allo stesso TAR che ha pronunciato la sentenza e che il giudice eserciti tutti i
poteri che gli sono attribuiti per il giudizio di ottemperanza. La legge non ha
definito, invece, la procedura del nuovo giudizio.
Si ritiene che, anche il ricorso per l’esecuzione di sentenza non ancora passata in
giudicato, debba essere preceduto dalla notifica di un atto di messa in mora,
considerandola come adempimento necessario per dar corso al processo
d’esecuzione. Invece, per quanto concerne le modalità di presentazione, si
sostiene che il ricorso, per l’esecuzione di sentenza non ancora passata in
giudicato, debba essere notificato all’Amministrazione inadempiente secondo le
regole generali previste per i ricorsi giurisdizionali.
Il profilo più controverso per l’esecuzione di una sentenza non ancora passato in
giudicato è collegato alla mancanza di definitività della statuizione da eseguire. Il
Consiglio di Stato, infatti, ha affermato che l’esecuzione della sentenza non
ancora passata in giudicato non dovrebbe mai determinare un assetto «definito
ed immutabile», perché altrimenti verrebbe frustrato l’esito pratico di un
eventuale appello contro la sentenza.
120
3. Il giudizio di ottemperanza
L’esecuzione del giudicato da parte dell’Amministrazione comporta l’adozione di
meri atti, che concretino i comportamenti materiali necessari per l’esecuzione
della sentenza. Rispetto a sentenze del giudice amministrativo, invece,
l’esecuzione del giudicato richiede, spesso, l’adozione di atti corrispondenti a
provvedimenti amministrativi. Per il caso di inesecuzione del giudicato è previsto
il ricorso per l’ottemperanza al giudice amministrativo.
Col ricorso per l’ottemperanza si introduce un giudizio che realizza la sua utilità
attraverso un intervento di ordine sostitutivo rispetto all’Amministrazione rimasta
inadempiente. L’art. 27, n. 4, t.u. Cons. Stato stabilisce che il giudice
amministrativo, nel giudizio di ottemperanza, eserciti una giurisdizione estesa al
merito. La previsione della giurisdizione di merito, in questa ipotesi, secondo la
giurisprudenza consentirebbe al giudice amministrativo di sostituirsi,
direttamente o attraverso un commissario da esso eventualmente nominato agli
organi amministrativi inadempienti. In questo giudizio nessun limite “interno”
della giurisdizione amministrativa potrebbe essere opposto a garanzia
dell’Amministrazione. Il giudice per l’ottemperanza avrebbe la capacità di
esercitare tutti i poteri di valutazione e di scelta demandati all’Amministrazione
attiva (Cons. Stato, sez. VI, n. 41/1995).
La possibilità di una sostituzione del giudice all’Amministrazione, seppur
inadempiente, anche ai fini di valutazioni tipicamente discrezionali, crea molte
incertezze. Sta di fatto che una volta nominato il Commissario, il giudice
amministrativo non si ritiene esautorato: esercita poteri di vigilanza anche
d’ufficio sull’ operato del Commissario e al giudice vanno rivolte eventuali
contestazioni circa tale operato.
L’esecuzione del giudicato può richiedere diversi ordini di valutazioni, che non
sono necessariamente già assorbiti dalla sentenza da eseguire. Le valutazioni
circa la fondatezza o meno dell’istanza non sono svolte nel giudizio di merito. In
questi casi, l’attività del Commissario o direttamente del giudice
dell’ottemperanza non è meramente attuativa di quanto disposto nella sentenza:
le regole dettate nella sentenza non esauriscono il complesso delle regole
rilevanti per provvedere nel caso concreto. Per provvedere sono necessarie
ulteriori valutazioni e, pertanto, è necessario elaborare altre regole.
In questo modo, nel giudizio confluirebbero profili propri dell’attività di
cognizione,oltre che quelli tipici dell’esecuzione.
121
Secondo alcuni il Commissario dovrebbe essere considerato come un organo
straordinario dell’Amministrazione: la sua nomina comporterebbe la
sostituzione, agli organi amministrativi ordinariamente competenti, di un organo
straordinario, competente solo per l’esecuzione di quella sentenza. Ma, proprio
perché organo straordinario dell’Amministrazione, il Commissario dovrebbe
essere considerato come un’autorità amministrativa, con la conseguenza, che i
suoi atti, in quanto normali atti amministrativi, dovrebbero essere impugnati
davanti al giudice-amministrativo secondo le regole generali.
Prevale la tesi che il Commissario operi come ausiliario del giudice, in un ruolo
non molto diverso da quello del consulente o dell’esperto nel processo civile. I
suoi atti non sono atti giurisdizionali ma vanno inquadrati nelle vicende del
giudizio di esecuzione. Di conseguenza, nei confronti di tali atti, la tutela
dovrebbe essere svolta nell’ambito dello stesso giudizio di esecuzione e
dovrebbe essere indirizzata al giudice dell’ottemperanza. Non mancano, però,
anche indirizzi diversi.
Il giudizio di ottemperanza è richiamato, in un contesto particolare, dall’art. 35,
2° comma, d.lgs. n. 80/1998 (disposizione conservata dall’art. 7 della legge n.
205/2000). La disposizione prevede che, nelle vertenze risarcitorie assegnate
al giudice amministrativo, nel caso di accoglimento del ricorso la sentenza possa
limitarsi a fissare i criteri per il risarcimento, demandando all’amministrazione di
proporre, sulla base di questi criteri, un’offerta alla parte vittoriosa. Se l’offerta
non viene accolta, la determinazione del danno può essere richiesta dalla parte
interessata al giudice.
Caratteri particolari ha invece l’intervento del Commissario nel giudizio sul
silenzio, ai sensi dell'art. 21 bis legge TAR, introdotto dall’art. 2 della legge n.
205/2000. In questo caso la legge non richiama le disposizioni sul giudizio di
ottemperanza; l’ intervento del Commissario si svolge non tanto a fini della
esecuzione di una sentenza, ma comporta la sostituzione di un’Amministrazione
rimasta inerte. La peculiarità dell'intervento del Commissario nel caso del
silenzio trova conferma nella specialità della procedura: non si applicano le
norme sullo svolgimento del giudizio di ottemperanza e la giurisprudenza
sottolinea che la nomina del Commissario non interviene in un giudizio di
esecuzione, ma interviene nella seconda fase di un giudizio unitario sul
“silenzio”.. La figura del Commissario, nel caso del silenzio, sembra
corrispondere a quella di un organo straordinario dell’Amministrazione.
122
4. Lo svolgimento del giudizio di ottemperanza
Il giudizio di ottemperanza è ammesso, solo, per l’esecuzione di una sentenza
passata in giudicato. Il ricorso deve essere preceduto dalla notifica
all’Amministrazione di un atto di messa in mora, costituito da una diffida a
provvedere; può essere presentato solo decorsi 30 gg. dalla notifica dell’atto di
messa in mora (art. 90, reg. proc. Cons. Stato).
Per quanto riguarda il riparto della competenza fra TAR e Consiglio di Stato. Per il
ricorso, non era richiesta la previa notificazione all’Amministrazione, era previsto
invece che, una volta depositato il ricorso presso il giudice competente (art. 91,
reg. proc, Cons. Stato), la segreteria ne desse comunicazione d’ufficio al
Ministero competente. Alcuni giudici amministrativi si erano, pertanto, orientati
nel senso di richiedere che il ricorrente notificasse il ricorso all’Amministrazione e
ai controinteressati, come era previsto per il giudizio ordinario o, nel caso di
ricorsi contro Amministrazioni non statali, effettuavano la comunicazione di rito
direttamente all’Amministrazione interessata. Sul punto è intervenuta nel 2005
la Corte costituzionale, che ha sostenuto la necessità di una applicazione della
normativa vigente, coerente con i principi costituzionali: di conseguenza, ha
affermato che se il ricorso per l’ottemperanza non sia stato notificato dal
ricorrente alla parte resistente, il giudice amministrativo, d’ufficio, deve disporne
la comunicazione. Presupposto del ricorso è l’inottemperanza al giudicato,
che può configurarsi anche nell’adozione di atti diretti a rinviare o ad eludere
l’esecuzione del giudicato. Per evitare che un comportamento del genere potesse
frustrare l’esecuzione del giudicato, imponendo l’avvio di nuovi giudizi di
cognizione, la giurisprudenza ha affermato che l’adozione di atti soprassessori o
elusivi non comporterebbe l’onere di nuove impugnazioni, ma che il sindacato su
tali atti si dovrebbe compiere davanti al giudice per l’ottemperanza.
Questa tesi, elaborata per esigenze tipicamente processuali, di recente è stata
sancita anche dal legislatore. L’art. 21 septies della legge n. 241/1990 (introdotto
dalla legge n. 15/2005), stabilisce infatti che è nullo «il provvedimento
amministrativo .. che è stato adottato in violazione o elusione del giudicato»,
precisando che di questa ipotesi di nullità conosce direttamente il giudice
amministrativo (ossia, il giudice dell’ottemperanza).
Il giudice amministrativo provvede sul ricorso per ottemperanza in camera di
consiglio (art. 27 della legge TAR). Prima di dar corso a interventi sostitutivi, può
fissare un termine all’Amministrazione perché provveda; in questo caso, si ritiene
che l’inutile decorrenza del termine sancisca il venir meno del potere
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dell’Amministrazione di provvedere all’esecuzione del giudicato, con la
conseguente irrilevanza di atti assunti tardivamente.
Nei confronti delle decisioni assunte dal TAR in sede di ottemperanza è ammesso
l’appello al Consiglio di Stato. Le incertezze e le ambiguità del giudizio di
ottemperanza si riflettono però anche sulla disciplina dell’appello.
La decisione del Consiglio di Stato assunta in sede di ottemperanza, come ogni
altra decisione del Consiglio di Stato, è impugnabile avanti alla Corte di
cassazione, per violazione dei limiti esterni della giurisdizione amministrativa.
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