Al Festival della Salute di Viareggio scienziati e ... cerebraleQuei dogmi... · Il progetto è...

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EVIDENCE BASED HISTORY OF MEDICINE Il lessico variegato del dolore D olore, come esperienza individuale, e dolori, nelle loro variabili soggettive e socio-culturali. È una grande varietà lessicale a tradire la difficoltà di una sua definizione univoca, proprio per la ricchezza delle sue dimensioni. Sono tre le radici attorno alle quali si struttura il vocabolario del dolore nel mondo classico: odùne, pèma e àlgos. Odùne, dolore forte e intenso, general- mente ben localizzato, associato molto spesso a ag- gettivi come oxùs e pikròs, acuto, lancinante, là dove il richiamo allo strumento che ha causato la ferita, il giavellotto o la lancia, è estremamente suggestivo, così come il riferimento alla rapidità implici- ta nel gesto. La tipologia della soffe- renza, indicata da àlgos e dai suoi derivati, è più indefinita e interessa la totalità del corpo, quasi a voler sottolineare una condizione impli- cita nel destino umano ma, spes- so, senza un coinvolgimento per- sonale. Dato il carattere più vago del- la sensazione, il termine àlgos si è dimostrato storicamente più produt- tivo per il vocabolario medico moder- no; al contrario, nel mondo omerico è il termine odùne che ricorre più frequen- temente e costituisce l’espressione tecnica, appartenente al vocabolario della medicina. Una terza famiglia di parole riconduce, invece, alla radice di pèma, associato, spesso, al verbo pà- schein, soffrire. La ferita di Filottete o il dolore di Eracle, agonizzante a causa del mortifero sangue del centauro Nesso, o l’abbraccio fatale di Laocoonte e dei suoi figli con il mostro marino segnano la pro- gressiva acquisizione di una dimensione umana e reale della sofferenza. Pulsante, gravativo, tensivo, pungente: in questa attenzione particolare alla sintomatologia, nel quadro della patologia umorale, Galeno propone, nel II seco- lo d.C., una distinzione terminologica dei diversi tipi di dolore. Divinum opus: la sedazione del dolore fisico ha rappresentato, per secoli, la sfida dell’uomo. La spongia somnifera o l’Ypnoticum adiutorium, in cui venivano sapientemente miscelate sostanze vagamente obnubilanti, hanno costituito, già nel Me- dioevo, la risorsa fondamentale per affrontare un intervento chirurgico, là dove questa pratica entrava anche nelle pieghe della letteratura: nella X novella della IV Giornata del Decamerone, Mastro Mazzeo della Montagna prepara una bevanda, che viene be- vuta per errore dall’amante della moglie, che cade in un sonno profondo. Ancora nel XIX secolo, però, oltre alla carenza di antisepsi e ai rischi delle emorragie, il limitato con- trollo del dolore inibiva lo sviluppo della chirurgia: per quanto l’etere fosse noto da tempo, e da tempo impiega- to come sedativo nel trattamento di varie patologie, non ne era stato ancora indagato il potenziale ane- stetico. E se l’introduzione del- l’anestesia, grazie a Long e Wells, era destinata a rivoluzionare la pra- tica chirurgica e il controllo del dolore operatorio, la diffusione del- la tecnica anestetica fu lenta e gra- duale, in quanto, per molti, il “potere guaritore del dolore” rappresentava una allettante lusinga. Solo negli anni ’50 del- l’800, James Young Simpson cominciò a sperimen- tare alcuni composti, rilevando che il cloroformio appariva efficace e ragionevolmente sicuro nel con- trollare il dolore delle gestanti durante il parto, e annoverando tra i suoi clienti la regina Vittoria in persona. Il protossido d’azoto compariva nei teatri chirurgici europei e statunitensi, mentre l’anestesia e la asepsi diventavano tecniche standard. Iniziava un capitolo nuovo nella storia del dolore, vissuto a livel- lo fisico e spirituale; dolore profondo, partecipato, percepito nella dimensione della sofferenza del cor- po e dell’anima, illness, metafora del nostro tempo, non-salute. * Storia della Medicina Facoltà di Medicina, Firenze D obbiamo cambiare il cri- terio che certifica la mor- te cerebrale? Come si è sviluppata la situazione a 50 an- ni dal documento della Commis- sione dell’Harvard Medical School che, nel 1968, per la pri- ma volta pose la questione della definizione di morte clinica in termini di cessazione delle fun- zioni del cervello? Il 24 settembre a Viareggio, nell’ambito del Festival della Sa- lute, vi è stata una giornata di riflessione etica, organizzata con il Campus Ifom-Ieo di Milano, sulla definizione di morte cere- brale e sulla tematica dei trapian- ti d’organo. Improvvidamente, in seguito ai tristi casi di Englaro e Welby, erano apparsi sulla stampa inter- venti in cui si prospettava che una considerazione su quanto stava accadendo comportasse un ripensamento della legge ita- liana sulla certificazione di mor- te (legge 29 dicembre 1993, n. 578; Dpr 22 agosto 1994 n. 582). Ebbene, uno degli scopi della giornata è stato quello di sottolineare con fermezza che le due questioni, quella dell’accani- mento terapeutico e quella della certificazione di morte, devono essere trattate separatamente, es- sendo differenti, pena la caduta in confusioni che non giovano a nessuno. Al di là di questo impli- cito momento chiarificatore, il meeting ha cercato di analizzare se effettivamente nulla di quan- to stabilito 50 anni fa debba esse- re ripensato. Sia nel report della Commissione Harvard, sia nel successivo “Uniform Determina- tion of Death Act” redatto nel 1981 dalla “President’s Commis- sion for the Study of Ethical Pro- blems in Medicine and Biomedi- cal and Behavioural Research”, sia nella nostra legge che recepi- sce quando lì indicato, si parla di «cessazione irreversibile di tutte le funzioni dell’intero cer- vello». E qui sorgono i proble- mi: Come si determina la cessa- zione di «tutte le funzioni»? Che cosa si intende per «intero cer- vello»? Qual è la soglia che certi- fica l’irreversibilità? Nel convegno, che ha visto intervenire e dibattere bioeticisti e studiosi italiani, americani e in- glesi di grande impatto scientifi- co, si è cercato di dipanare tali questioni. Una cosa è stata subito chiarita: termini vaghi come «tut- te le funzioni» e «intero cervel- lo» non dovrebbero essere pre- senti nella definizione di morte cerebrale. Questo significa che prima di affrontare la questione bisogna aver ben chiaro che cosa siano una definizione e un crite- rio e come possano essere formu- lati in modo non ambiguo e non vago. In secondo luogo c’è il problema non meno importante di capire che cosa si intenda per «irreversibilità», ossia quando si sia superata la soglia dopo la qua- le si può attestare il non ritorno e quindi la morte cerebrale. Tra l’altro, la maggior parte delle cri- tiche alla definizione di morte cerebrale si focalizzano esatta- mente nel mostrare che il passag- gio da una situazione di non-mor- te cerebrale a una di morte cere- brale è continuo. I relatori hanno dibattuto a lungo questo aspetto, e alla fine ci si è resi conto che solo una soluzione pragmatica è possibi- le. L’irreversibilità può essere fissata in modo preciso in funzio- ne della precisione dei test clini- ci che sono predisposti per accer- tare, per esempio (è quanto ri- chiede la nostra legislazione), lo stato di incoscienza, l’assenza di riflessi del tronco e di respiro spontaneo nonché il silenzio elet- trico cerebrale. Si intuisce, così, che il conve- gno non è stato affatto pensato per mettere in questione il ruolo positivo che la definizione di morte cerebrale ha avuto nel pro- teggere i pazienti in caso di tra- pianti d’organo. Differentemen- te, è stato inteso per spingere, da un lato, verso una chiarificazio- ne epistemologia della definizio- ne e del criterio, in modo che in essi non compaiano termini am- bigui e vaghi, e, dall’altro, verso un riesame, alla luce degli avan- zamenti della conoscenza biome- dica e della tecnologia a disposi- zione, dei test clinici atti a san- zionare l’irreversibilità. Questo nell’idea che non so- lo sia del tutto eticamente plausi- bile la definizione di morte cere- brale, ma che sia anche etica- mente importante una sua chiari- ficazione epistemologica e una sua messa a punto clinica. Da ultimo, due note. Questo di Viareggio è stato il primo con- vegno in cui in Italia si ha avuto un dibattito etico di livello inter- nazionale sulla definizione di morte cerebrale, ed è stato un dibattito realizzato, nonostante le differenti posizioni in campo, con grande pacatezza e senza nessuna coloritura ideologica, sia di tipo politico che religioso. Co- sa strana per un Paese abituato a sentire dibattiti costruiti da slo- gan più che da argomenti, da pre- Morte cerebrale, quei dogmi S i parla spesso dell’incidenza del diabete di tipo due, della crescita del numero di persone con diabete di tipo I e delle impressionanti previsioni al 2025 o al 2030. Forse però non ci si sofferma abbastanza su come debba essere affrontata questa patologia una volta diagnosticata. La cura non è ancora disponibile ma gli spiragli per una soluzio- ne definitiva esistono, grazie ai passi da gigante che sta facendo la ricerca scientifica in questo senso. A riprova di questi progressi basti dare un’occhiata alle terapie disponibili, sempre più mi- rate, efficaci e ben tollerate. Ma per controllare al meglio il diabete e quindi evitare l’insorgere delle gravissime conseguenze che altrimenti il diabete comporta, le terapie non sono suf- ficienti. La gestione di questa patologia dipende in gran parte dall’ambien- te che circonda chi ne soffre e quindi familiari, amici, medici ma soprattutto altre persone che ne sono affette. Si impara molto dal confronto. Lo scambio di espe- rienze, il raccontare ad altri il pro- prio vissuto a contatto con la pato- logia, il mettere a nudo i gesti della quotidianità e le proprie paure, la condivisio- ne di quanto appreso da medici, operatori sanitari, familiari, amici e anche da se stessi: anche queste sono armi potenti nelle mani di chi soffre di diabe- te e se ben utilizzate possono rendere la gestione della patologia molto più semplice di quanto si creda e, alla lunga, avere un impatto notevole sulla qualità di vita. Il progetto di “Diabetes Conversa- tion” nasce proprio da questa convinzione. Si tratta di un programma educativo incentrato sul paziente e finalizzato a migliorare la comprensione e l’auto- gestione del diabete e a facilitare l’interazione con gli operatori sanitari. Il progetto è stato realizzato grazie a Lilly e messo a punto utilizzando gli strumenti educativi di Conversation Map creati da Healthy Interactions, in collaborazione con la Fede- razione internazionale del diabete (Idf) - Europa. Lo scopo principale di questo progetto molto innovativo, tra il ludico e il didattico, è proprio quello di instaurare o migliorare un dialogo, il più possibile costruttivo, tra persone costrette a fare i conti giornalmente con la loro condizione. Alla base delle Diabetes conversation c’è un kit che assomiglia a un grande gioco di società. Il kit, infatti, utilizza una serie di immagini e metafore riprodotte su pannelli per stimolare l’interattività. Il “gioco” è però guidato da operatori sanitari opportunamente formati, in grado di far “giocare” le persone con diabete senza perdere di vista l’obiettivo finale della sessione. Siamo all’inizio, ma i risultati sono già molto promettenti e dati confortanti provengono da ogni altro paese in cui le mappe di conversazione sono già in uso. Canada e Messico, a esempio, hanno aggiornato l’Inter- national diabetes federation con i primi sondaggi fatti tra coloro i quali hanno sperimentato questo approccio. In Canada il 100% del- le persone con diabete che le uti- lizzano le raccomanderebbero an- che ad altri nella loro condizione. Inoltre, secondo i dati raccolti su un campione di circa 220 perso- ne, il 96% ha risposto correttamente a domande relative alla patologia e quasi il 90% ha dichiarato di voler ripetere le sessioni di conversazione per migliorare la conoscenza della patologia. Tutto in sostanza sembra confermare che si tratta di una novità che potrebbe portare grandi risultati. Come si impara proprio dai primi passi di que- sto strumento educativo interattivo però, la lotta al diabete, si combatte su più fronti. Non dimentichia- mo, infatti, che la prevenzione è di fondamentale importanza per ritardare le progressioni della pato- logia e le sue conseguenze. Attività fisica e sana alimentazione devono essere considerate infatti due priorità nella quotidiana lotta al diabete. * Vice-presidente di International Diabetes Federation © RIPRODUZIONE RISERVATA DI DONATELLA LIPPI * DI MASSIMO MASSI BENEDETTI * Conclusioni del workshop I criteri in uso per stabilire la morte cerebrale hanno fornito un parametro utile per tutelare i pazienti nel contesto medico del prelievo e del trapianto di organi Da un punto di vista clinico, legale e sociale, stiamo ancora studiando e analizzando il concetto di morte e come esso cambi in funzione di differenti contesti culturali, religiosi ecc. Pertanto, si ritiene opportuno, da un lato, evitare di assumere una posizione rigidamente ortodossa e, dall’altro, promuove- re un atteggiamento di apertura mentale Si tratta di un ambito di ricerca giovane nato dall’introduzione di nuove tecnologie biomediche e dall’avanzamento della conoscenza Al Festival della Salute di Viareggio scienziati e bioeticisti a confronto sulla definizione «Gioco di società» per educare e far dialogare tra loro i pazienti PREVENZIONE&EMPOWERMENT Umberto Boccioni - Stati d’animo, Quelli che vanno DI GIOVANNI BONIOLO * La doppia proposta: una chiarificazione epistemologica e un riesame Il diabete si combatte «conversando» I punti fermi emersi 18 6-12 ottobre 2009 D IBATTITI

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EVIDENCE BASED HISTORY OF MEDICINE

Il lessico variegato del dolore

D olore, come esperienza individuale, e dolori,nelle loro variabili soggettive e socio-culturali.

È una grande varietà lessicale a tradire la difficoltà diuna sua definizione univoca, proprio per la ricchezzadelle sue dimensioni.

Sono tre le radici attorno alle quali si struttura ilvocabolario del dolore nel mondo classico: odùne,pèma e àlgos. Odùne, dolore forte e intenso, general-mente ben localizzato, associato molto spesso a ag-gettivi come oxùs e pikròs, acuto, lancinante, là doveil richiamo allo strumento che ha causato la ferita, ilgiavellotto o la lancia, è estremamente suggestivo,così come il riferimento alla rapidità implici-ta nel gesto. La tipologia della soffe-renza, indicata da àlgos e dai suoiderivati, è più indefinita e interessala totalità del corpo, quasi a volersottolineare una condizione impli-cita nel destino umano ma, spes-so, senza un coinvolgimento per-sonale.

Dato il carattere più vago del-la sensazione, il termine àlgos si èdimostrato storicamente più produt-tivo per il vocabolario medico moder-no; al contrario, nel mondo omerico èil termine odùne che ricorre più frequen-temente e costituisce l’espressione tecnica,appartenente al vocabolario della medicina.

Una terza famiglia di parole riconduce, invece,alla radice di pèma, associato, spesso, al verbo pà-schein, soffrire. La ferita di Filottete o il dolore diEracle, agonizzante a causa del mortifero sangue delcentauro Nesso, o l’abbraccio fatale di Laocoonte edei suoi figli con il mostro marino segnano la pro-gressiva acquisizione di una dimensione umana ereale della sofferenza.

Pulsante, gravativo, tensivo, pungente: in questaattenzione particolare alla sintomatologia, nel quadrodella patologia umorale, Galeno propone, nel II seco-lo d.C., una distinzione terminologica dei diversi tipidi dolore. Divinum opus: la sedazione del dolorefisico ha rappresentato, per secoli, la sfida dell’uomo.

La spongia somnifera o l’Ypnoticum adiutorium,in cui venivano sapientemente miscelate sostanzevagamente obnubilanti, hanno costituito, già nel Me-dioevo, la risorsa fondamentale per affrontare unintervento chirurgico, là dove questa pratica entravaanche nelle pieghe della letteratura: nella X novelladella IV Giornata del Decamerone, Mastro Mazzeodella Montagna prepara una bevanda, che viene be-vuta per errore dall’amante della moglie, che cade inun sonno profondo.

Ancora nel XIX secolo, però, oltre alla carenza diantisepsi e ai rischi delle emorragie, il limitato con-

trollo del dolore inibiva lo sviluppo dellachirurgia: per quanto l’etere fossenoto da tempo, e da tempo impiega-to come sedativo nel trattamento di

varie patologie, non ne era statoancora indagato il potenziale ane-stetico. E se l’introduzione del-l’anestesia, grazie a Long e Wells,era destinata a rivoluzionare la pra-tica chirurgica e il controllo deldolore operatorio, la diffusione del-la tecnica anestetica fu lenta e gra-

duale, in quanto, per molti, il “potereguaritore del dolore” rappresentava una

allettante lusinga. Solo negli anni ’50 del-l’800, James Young Simpson cominciò a sperimen-

tare alcuni composti, rilevando che il cloroformioappariva efficace e ragionevolmente sicuro nel con-trollare il dolore delle gestanti durante il parto, eannoverando tra i suoi clienti la regina Vittoria inpersona. Il protossido d’azoto compariva nei teatrichirurgici europei e statunitensi, mentre l’anestesia ela asepsi diventavano tecniche standard. Iniziava uncapitolo nuovo nella storia del dolore, vissuto a livel-lo fisico e spirituale; dolore profondo, partecipato,percepito nella dimensione della sofferenza del cor-po e dell’anima, illness, metafora del nostro tempo,non-salute.

* Storia della MedicinaFacoltà di Medicina, Firenze

D obbiamo cambiare il cri-terio che certifica la mor-te cerebrale? Come si è

sviluppata la situazione a 50 an-ni dal documento della Commis-sione dell’Harvard MedicalSchool che, nel 1968, per la pri-ma volta pose la questione delladefinizione di morte clinica intermini di cessazione delle fun-zioni del cervello?

Il 24 settembre a Viareggio,nell’ambito del Festival della Sa-lute, vi è stata una giornata diriflessione etica, organizzata conil Campus Ifom-Ieo di Milano,sulla definizione di morte cere-brale e sulla tematica dei trapian-ti d’organo.

Improvvidamente, in seguitoai tristi casi di Englaro e Welby,erano apparsi sulla stampa inter-venti in cui si prospettava cheuna considerazione su quantostava accadendo comportasseun ripensamento della legge ita-liana sulla certificazione di mor-te (legge 29 dicembre 1993, n.578; Dpr 22 agosto 1994 n.582). Ebbene, uno degli scopidella giornata è stato quello disottolineare con fermezza che ledue questioni, quella dell’accani-

mento terapeutico e quella dellacertificazione di morte, devonoessere trattate separatamente, es-sendo differenti, pena la cadutain confusioni che non giovano anessuno. Al di là di questo impli-cito momento chiarificatore, ilmeeting ha cercato di analizzarese effettivamente nulla di quan-to stabilito 50 anni fa debba esse-re ripensato. Sia nel report dellaCommissione Harvard, sia nelsuccessivo “Uniform Determina-tion of Death Act” redatto nel1981 dalla “President’s Commis-sion for the Study of Ethical Pro-blems in Medicine and Biomedi-cal and Behavioural Research”,sia nella nostra legge che recepi-sce quando lì indicato, si parladi «cessazione irreversibile ditutte le funzioni dell’intero cer-vello». E qui sorgono i proble-mi: Come si determina la cessa-zione di «tutte le funzioni»? Checosa si intende per «intero cer-vello»? Qual è la soglia che certi-fica l’irreversibilità?

Nel convegno, che ha vistointervenire e dibattere bioeticistie studiosi italiani, americani e in-glesi di grande impatto scientifi-co, si è cercato di dipanare taliquestioni. Una cosa è stata subitochiarita: termini vaghi come «tut-

te le funzioni» e «intero cervel-lo» non dovrebbero essere pre-senti nella definizione di mortecerebrale. Questo significa cheprima di affrontare la questionebisogna aver ben chiaro che cosasiano una definizione e un crite-rio e come possano essere formu-lati in modo non ambiguo e nonvago. In secondo luogo c’è ilproblema non meno importantedi capire che cosa si intenda per«irreversibilità», ossia quando sisia superata la soglia dopo la qua-le si può attestare il non ritorno equindi la morte cerebrale. Tral’altro, la maggior parte delle cri-tiche alla definizione di mortecerebrale si focalizzano esatta-

mente nel mostrare che il passag-gio da una situazione di non-mor-te cerebrale a una di morte cere-brale è continuo.

I relatori hanno dibattuto alungo questo aspetto, e alla fineci si è resi conto che solo unasoluzione pragmatica è possibi-le. L’irreversibilità può esserefissata in modo preciso in funzio-ne della precisione dei test clini-ci che sono predisposti per accer-tare, per esempio (è quanto ri-chiede la nostra legislazione), lostato di incoscienza, l’assenza diriflessi del tronco e di respirospontaneo nonché il silenzio elet-trico cerebrale.

Si intuisce, così, che il conve-

gno non è stato affatto pensatoper mettere in questione il ruolopositivo che la definizione dimorte cerebrale ha avuto nel pro-teggere i pazienti in caso di tra-pianti d’organo. Differentemen-te, è stato inteso per spingere, daun lato, verso una chiarificazio-ne epistemologia della definizio-ne e del criterio, in modo che inessi non compaiano termini am-bigui e vaghi, e, dall’altro, versoun riesame, alla luce degli avan-zamenti della conoscenza biome-dica e della tecnologia a disposi-zione, dei test clinici atti a san-zionare l’irreversibilità.

Questo nell’idea che non so-lo sia del tutto eticamente plausi-

bile la definizione di morte cere-brale, ma che sia anche etica-mente importante una sua chiari-ficazione epistemologica e unasua messa a punto clinica.

Da ultimo, due note. Questodi Viareggio è stato il primo con-vegno in cui in Italia si ha avutoun dibattito etico di livello inter-nazionale sulla definizione dimorte cerebrale, ed è stato undibattito realizzato, nonostante ledifferenti posizioni in campo,con grande pacatezza e senzanessuna coloritura ideologica, siadi tipo politico che religioso. Co-sa strana per un Paese abituato asentire dibattiti costruiti da slo-gan più che da argomenti, da pre-

Morte cerebrale, quei dogmi

S i parla spesso dell’incidenza del diabete di tipodue, della crescita del numero di persone con

diabete di tipo I e delle impressionanti previsioni al2025 o al 2030. Forse però non ci si soffermaabbastanza su come debba essere affrontata questapatologia una volta diagnosticata. La cura non èancora disponibile ma gli spiragli per una soluzio-ne definitiva esistono, grazie ai passi da giganteche sta facendo la ricerca scientifica in questosenso. A riprova di questi progressi basti dareun’occhiata alle terapie disponibili, sempre più mi-rate, efficaci e ben tollerate. Ma per controllare almeglio il diabete e quindi evitare l’insorgere dellegravissime conseguenze che altrimenti il diabetecomporta, le terapie non sono suf-ficienti.

La gestione di questa patologiadipende in gran parte dall’ambien-te che circonda chi ne soffre equindi familiari, amici, medicima soprattutto altre persone chene sono affette. Si impara moltodal confronto. Lo scambio di espe-rienze, il raccontare ad altri il pro-prio vissuto a contatto con la pato-logia, il mettere a nudo i gestidella quotidianità e le proprie paure, la condivisio-ne di quanto appreso da medici, operatori sanitari,familiari, amici e anche da se stessi: anche questesono armi potenti nelle mani di chi soffre di diabe-te e se ben utilizzate possono rendere la gestionedella patologia molto più semplice di quanto sicreda e, alla lunga, avere un impatto notevole sullaqualità di vita. Il progetto di “Diabetes Conversa-tion” nasce proprio da questa convinzione. Si trattadi un programma educativo incentrato sul pazientee finalizzato a migliorare la comprensione e l’auto-gestione del diabete e a facilitare l’interazione congli operatori sanitari. Il progetto è stato realizzatograzie a Lilly e messo a punto utilizzando glistrumenti educativi di Conversation Map creati daHealthy Interactions, in collaborazione con la Fede-razione internazionale del diabete (Idf) - Europa.

Lo scopo principale di questo progetto molto

innovativo, tra il ludico e il didattico, è proprioquello di instaurare o migliorare un dialogo, il piùpossibile costruttivo, tra persone costrette a fare iconti giornalmente con la loro condizione. Allabase delle Diabetes conversation c’è un kit cheassomiglia a un grande gioco di società. Il kit,infatti, utilizza una serie di immagini e metaforeriprodotte su pannelli per stimolare l’interattività.

Il “gioco” è però guidato da operatori sanitariopportunamente formati, in grado di far “giocare”le persone con diabete senza perdere di vistal’obiettivo finale della sessione. Siamo all’inizio,ma i risultati sono già molto promettenti e daticonfortanti provengono da ogni altro paese in cui

le mappe di conversazione sonogià in uso. Canada e Messico, aesempio, hanno aggiornato l’Inter-national diabetes federation con iprimi sondaggi fatti tra coloro iquali hanno sperimentato questoapproccio. In Canada il 100% del-le persone con diabete che le uti-lizzano le raccomanderebbero an-che ad altri nella loro condizione.Inoltre, secondo i dati raccolti suun campione di circa 220 perso-

ne, il 96% ha risposto correttamente a domanderelative alla patologia e quasi il 90% ha dichiaratodi voler ripetere le sessioni di conversazione permigliorare la conoscenza della patologia.

Tutto in sostanza sembra confermare che sitratta di una novità che potrebbe portare grandirisultati.

Come si impara proprio dai primi passi di que-sto strumento educativo interattivo però, la lotta aldiabete, si combatte su più fronti. Non dimentichia-mo, infatti, che la prevenzione è di fondamentaleimportanza per ritardare le progressioni della pato-logia e le sue conseguenze. Attività fisica e sanaalimentazione devono essere considerate infattidue priorità nella quotidiana lotta al diabete.

* Vice-presidente di International Diabetes Federation© RIPRODUZIONE RISERVATA

DI DONATELLA LIPPI * DI MASSIMO MASSI BENEDETTI *

Conclusioni del workshop

● I criteri in uso per stabilire la morte cerebrale hanno fornitoun parametro utile per tutelare i pazienti nel contesto medicodel prelievo e del trapianto di organi

● Da un punto di vista clinico, legale e sociale, stiamo ancorastudiando e analizzando il concetto di morte e come essocambi in funzione di differenti contesti culturali, religiosi ecc.

● Pertanto, si ritiene opportuno, da un lato, evitare di assumereuna posizione rigidamente ortodossa e, dall’altro, promuove-re un atteggiamento di apertura mentale

● Si tratta di un ambito di ricerca giovane nato dall’introduzione dinuove tecnologie biomediche e dall’avanzamento della conoscenza

Al Festival della Salute di Viareggio scienziati e bioeticisti a confronto sulla definizione

«Gioco di società»per educaree far dialogaretra loro i pazienti

PREVENZIONE&EMPOWERMENT

Umberto Boccioni - Stati d’animo, Quelli che vanno

DI GIOVANNI BONIOLO *

La doppia proposta: una chiarificazione epistemologica e un riesame

Il diabete si combatte «conversando»

I punti fermi emersi

18 6-12 ottobre 2009DIBATTITI

se di posizione più che da capaci-tà di ascoltare e di modificare ilproprio pensiero qualora il pen-siero altrui si riveli più valido.

La seconda nota riguarda l’at-teggiamento con cui gli organiz-zatori si sono presentati: offrireun servizio alla comunità in mo-do da aumentare la cultura deitrapianti d’organo incrementan-do la consapevolezza etica nonsolo dell’atto del donare, ma pu-re della definizione di morte ce-rebrale, nell’idea che non si pos-sa fare della buona etica senzauna preliminare chiarificazioneepistemologica. Insomma, unservizio anche a coloro che quoti-dianamente si preoccupano e si

occupano di trapianti. Bisogna,infatti, rammentare il grande estraordinario lavoro svolto dalCentro nazionale trapianti cheha portato l’Italia a essere al-l’avanguardia in questo settore.

L’importante è discutere conpacatezza e senza ideologia enon con l’intento di servire lapropria parte politica o religiosama con l’intento di servire il cit-tadino qualora abbia la sventuradi trovarsi nelle vesti di paziente.

* Facoltà di MedicinaUniversità di Milano&Ifom,

Istituto Firc di Oncologiamolecolare - Milano

© RIPRODUZIONE RISERVATA

da rivedereCnt: «Il rischio di un piano inclinato che metta in dubbio gli standard di Harvard»

I l workshop di Viareggio ha ripreso il dibattitosull’accertamento di morte effettuato con gli

standard neurologici fissati dalla Commissione diHarvard nel 1968. Il punto è: la determinazione dimorte con standard neurologico è la morte del-l’essere umano? E ancora: come si può sostenerela validità dello standard neurologico, stabilito 40anni fa, senza tener conto di dubbi e discordanzeriportate negli anni dalla stampa, dalla letteraturae dalla pratica medica, nonché dall’evoluzione del-le scienze antropologico-religiose?

Una risposta a tali legittime domande si trovanel recente position paper pubblicato sul sito delministero della Salute e condiviso dalla comunitàtrapiantologica italiana. Il contenuto può esserecosì riassunto: oggi, la pratica clinica e le modernetecniche diagnostiche dimostrano che la mortedel cervello è un processo nel quale minime

funzioni residuali possono permanere oltre il mo-mento in cui la morte è identificata e diagnostica-ta con certezza. Ciò non smentisce la validità deicriteri di Harvard né la possibilità di stabilire consicurezza il momento delle morte. Aspetti su cuila nostra normativa prevede rigorose e prudentiprocedure per l’accertamento di morte, separan-do categoricamente l’accertamento di morte concriteri neurologici, atto medico obbligatorio, dallaeventuale possibilità di prelievo degli organi.

La necessità di approfondire e divulgare que-sti temi è evidente, tanto quanto il rischio diaccrescere la confusione apportando argomentidi natura diversa. Ed è su questo piano inclinatoche le conclusioni del workshop sono scivolate,riportando una sintesi delle posizioni che, ai più,è parsa mettere in discussione la sostanzialevalidità dei criteri di Harward e, dunque, la sicu-

rezza e le garanzie dell’accertamento di morte.Dire, a esempio, che «i criteri di morte cerebra-le hanno avuto una funzione di protezione neiconfronti dei pazienti, nel contesto del reperi-mento e del trapianto di organi» può indurre ildubbio che la morte encefalica sia stata per tantotempo un artefatto funzionale alla trapiantologiae non, come è, una realtà biologica, scientifica,etica e giuridica.

Sottolineare i limiti delle conclusioni delworkshop serve a evitare inutili fraintendimenti enon a ostacolare la necessaria rivalutazione termi-nologica e epistemologica delle questioni che, ci siaugura, possa continuare con il contributo ditutti.

Alessandro Nanni CostaDirettore Centro nazionale trapianti

Raccomandazioni del workshop

● Porre attenzione nel non incorrere in fraintendimenti ampia-mente diffusi che confondono l’opinione pubblica

● Mantenere aperta la discussione con il pubblico

● Sviluppare analisi multidisciplinari sulle diverse istanze solleva-te dal tema della morte cerebrale

● Riconsiderare definizioni troppo rigide in cui compaiono ter-mini come “cessazione irreversibile”, “tutte le funzioni”,“tutto il cervello”, poiché queste non sono applicabili nellacorrente pratica clinica

Fonte: G.Boniolo, H.R.Doyle, B.Fantini, J.Harris, I.R.Marino,T.Powell, M.C.Tallacchini, R.D.Truog, S.J.Youngner

dei criteri per accertare il decesso

Aido: «Teorie e argomenti datati» Siaarti&Sito: «Dibattiamo tra tecnici»

In Italia, ogni volta che si affronta l’argomento della donazione diorgani, viene rilanciato un dubbio: quelle persone sono davvero

morte? È da oltre quarant’anni che la medicina ha detto una parolachiara sull’argomento: la morte cerebrale, testimoniata dall’assenza direspiro spontaneo e registrata dall’elettroencefalogramma piatto, corri-sponde alla morte dell’individuo e non dell’organismo. Il cuore continuaa battere perché una macchina glielo impone. Questa parola, chiara eprecisa della scienza, è tanto affermata e diffusa in tutto il mondo che sudi essa si basano tutte le leggi che definiscono la morte e il suoaccertamento. Anche il legislatore italiano, con la legge 29 dicembre del1993 sulla morte cerebrale, ha voluto e ha imposto le massime garanzienel decretare la fine della vita e, nel contempo, ha imposto la sospensio-ne delle manovre rianimatorie per impedire di curare un morto.

Spiace constatare che nel workshop di Viareggio si siano ascoltatiargomenti “datati” e che non c’è stato nessun accenno né all’opera direvisione del regolamento recante le modalità per l’accertamento e lacertificazione di morte condotta da un gruppo di lavoro costituitonell’ambito della Consulta tecnica permanente per i trapianti, col sup-porto delle società scientifiche, né al documento del Cnt che contienegli elementi informativi essenziali sulla definizione e sul concetto dimorte cerebrale.

Vincenzo PassarelliPresidente nazionale Aido

L a Siaarti, attraverso il presidente Vito Aldo Peduto, affermache: «Le conclusioni del workshop non intaccano la validità di

quanto avviene nelle rianimazioni italiane, dove la diagnosi di mortesi effettua con esami neurologici clinici e strumentali, standardizzatiapplicando una procedura clinica basata su rigorose metodologiescientifiche, obbligatorie per legge. Per affermare che i criteri vannorivisti e che la cessazione irreversibile delle funzioni cerebrali è unadefinizione troppo rigida, sarebbe opportuno partire da chiari pre-supposti biologici, basati su ricerche e pubblicazioni scientifiche.Inoltre, una corretta impostazione del confronto avrebbe richiestol’ascolto di chi opera sul campo, come gli anestesisti-rianimatoriitaliani». Anche Antonio Famulari, presidente Sito, esprime pre-occupazione: «Nel nostro Paese vigono norme avanzate e garanti-ste che identificano in modo preciso cosa sia la diagnosi di mortecerebrale. Quando si parla di “criteri rigidi” ricordiamo che siapplicano in scienza e coscienza oramai da decenni e questo hagarantito sia il soggetto in morte cerebrale che il rispetto della legge.Le enunciazioni su un tema così delicato possono risultare avventa-te e inopportune, finendo per creare confusione. Non abbiamo, nelmerito, una posizione di chiusura. Siamo disponibili al dibattito nellesedi idonee e con dati scientifici certi e verificati. Il “purché se neparli” non è serio né metodologicamente né moralmente, visto checoinvolge l’opinione pubblica con spot di cui non comprendiamo ilreale significato».

dei test clinici oggi applicati

dal workshop toscano

6-12 ottobre 2009 19DIBATTITI