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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI NAPOLI «L’ORIENTALE» ANNALI DI ARCHEOLOGIA E STORIA ANTICA DIPARTIMENTO DI STUDI DEL MONDO CLASSICO E DEL MEDITERRANEO ANTICO Nuova Serie N. 15 - 16 2008-2009 Napoli

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Annali dell'istituto Universitario Orientale

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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI NAPOLI «L’ORIENTALE»

ANNALI DI ARCHEOLOGIAE STORIA ANTICADIPARTIMENTO DI STUDI DEL MONDO CLASSICO

E DEL MEDITERRANEO ANTICO

Nuova Serie N. 15 - 16

2008-2009 Napoli

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ANNALIDI ARCHEOLOGIAE STORIA ANTICA

Nuova Serie N. 15 - 16

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Prima di copertina: statuetta fittile da Ialysos (Museo Archeologico di Rodi).Quarta di copertina: scarabeo da Monte Vetrano, faccia inferiore (foto Soprintendenza Archeologica Salerno).

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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI NAPOLI «L’ORIENTALE»

ANNALIDI ARCHEOLOGIAE STORIA ANTICA

DIPARTIMENTO DI STUDI DEL MONDO CLASSICOE DEL MEDITERRANEO ANTICO

Nuova Serie N. 15 - 16

2008 - 2009 Napoli

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ISSN 1127-7130

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Comitato di Redazione

Giancarlo Bailo Modesti, Ida Baldassarre, Irene Bragantini, Luciano Camilli, Giuseppe Camodeca, Matteo D’Acunto, Bruno d’Agostino, Anna Maria D’Onofrio, Luigi Gallo,

Patrizia Gastaldi, Emanuele Greco, Fabrizio Pesando, Giulia Sacco

Segretaria di redazione: Patrizia Gastaldi

Direttore responsabile: Bruno d’Agostino

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NORME REDAZIONALI DI AIONArchStAnt

I contributi vanno redatti in due copie; per i testi scritti al computer si richiede l’invio del dischetto, specificando l’ambiente (Macintosch, IBM) e il programma di scrittura adoperato. Dei testi va inoltre redatto un breve riassunto (max. 1 cartella).

Documentazione fotografica: le fotografie, in bianco e nero, devono possibilmente derivare da riprese di originali, e non di altre pubblicazioni; non si accettano fotografie a colori e diapositive. Unitamente alle foto deve pervenire una garanzia di autorizzazione alla pubblicazione, firmata dall’autore sotto la propria responsabilità.

Documentazione grafica: la giustezza delle tavole della rivista è max. cm. 17x24; pertanto l’impaginato va organizzato su multi-pli di queste misure, curando che le eventuali indicazioni in lettere e numeri e il tratto del disegno siano tali da poter sostenere la riduzione. Il materiale per le tavole deve essere completo di didascalie.

Le documentazioni fornite dagli autori saranno loro restituite dopo l’uso.Gli autori riceveranno n. 30 estratti del proprio contributo.Gli estratti eccedenti tale numero sono a pagamento.Gli autori dovranno sottoscrivere una dichiarazione di rinuncia ai diritti di autore a favore dell’Università degli Studi di Napoli

“L’Orientale”.Le abbreviazioni bibliografiche utilizzate sono quelle dell’American Journal of Archaeology, integrate da quelle dell’Année Philologique.Degli autori si cita la sola iniziale puntata del nome proprio e il cognome, con la sola iniziale maiuscola; nel caso di più autori per

un medesimo testo i loro nomi vanno separati mediante trattini. Nel caso del curatore di un’opera, al cognome seguirà: (a cura di). Tra il cognome dell’autore e il titolo dell’opera va sempre posta una virgola.

I titoli delle riviste, dei libri, degli atti dei convegni, vanno in corsivo (sottolineati nel dattiloscritto).I titoli di articoli contenuti nelle opere sopra citate vanno indicati tra virgolette singole, come pure la locuzione ‘Atti’, quella

‘catalogo della mostra...’ e le voci di lessici, enciclopedie, ecc.; vanno poi seguiti da: in. I titoli di appendici o articoli a più mani sono seguiti da: apud.

Nel caso in cui un volume faccia parte di una collana, il titolo di quest’ultima va indicato tra parentesi.Al titolo del volume segue una virgola e poi l’indicazione del luogo – in lingua originale – e dell’anno di edizione.Al titolo della rivista seguono il numero dell’annata – sempre in numeri arabi – e l’anno, separati da una virgola; nel caso la rivista

abbia più serie, questa indicazione va posta tra parentesi dopo quella del numero dell’annata.Eventuali annotazioni sull’edizione o su traduzioni del testo vanno dopo tutta la citazione, tra parentesi tonde.Se la stessa citazione compare nel testo più di una volta, si utilizza un’abbreviazione costituita dal cognome dell’autore seguito

dalla data di edizione dell’opera, salvo che per i testi altrimenti abbreviati, secondo l’uso corrente nella letteratura archeologica (p. es., per il Trendall, LCS, RVAP ecc.).

L’elenco delle abbreviazioni supplementari va dattiloscritto a parte.Le parole straniere, salvo i nomi dei vasi, vanno in corsivo.I sostantivi in lingua inglese vanno citati con lettera minuscola, ad eccezione degli etnici.L’uso delle virgolette singole è riservato unicamente alle citazioni bibliografiche; per le citazioni da testi vanno adoperati i caporali;

in tutti gli altri casi si utilizzano gli apici.

AbbreviazioniAltezza: h.; ad esempio: ad es.; bibliografia: bibl.; catalogo: cat.; centimetri: cm.; circa: ca.; citato: cit.; colonna/e: col./coll.; con-

fronta o vedi: cfr.; et alii: et al.; diametro: diam.; fascicolo: fasc.; figura/e: fig./figg.; frammento/i: fr./frr.; inventario: inv.; larghezza: largh.; lunghezza: lungh.; metri: m.; numero/i: n./nn.; pagina/e: p./pp.; professore/professoressa: prof.; ristampa: rist.; secolo: sec.; seguente/i: s./ss.; serie: S.; sotto voce/i: s.v./s.vv.; supplemento: suppl.; tavola/e: tav./tavv.; tomba: T.; traduzione italiana: trad. it.

Non si abbreviano: idem, eadem, ibidem; in corso di stampa; nord, sud, est, ovest; nota/e; non vidi.

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INDICE

Ch. Malamud, Entendre et voir avec Jean-Pierre Vernant p. 9

D. Ridgway, Nicolas Coldstream e l’Italia » 17

P. Guzzo, Tucidide e le isole, tra Fenici e Greci » 21

M. D’Acunto, Una statuetta fittile del Geometrico Antico da Ialysos » 35

Ph. Zaphiropoulou, The tumulus necropolis at Tsikalario on Naxos » 49

P. Charalambidou, The pottery from the Early Iron Age necropolis of Tsikalario on Naxos: preliminary observations » 57

M. Civitillo, Sulle presunte “iscrizioni” in lineare A e B da Itaca » 71

J.K. Jacobsen - S. Handberg - G.P. Mittica, An early Euboean pottery workshop in the Sybaritide » 89

L. Cerchiai - M.L. Nava, Uno scarabeo del lyre-player group da Monte Vetrano (Salerno) » 97

M.A. Rizzo, I sigilli del Gruppo del Suonatore di Lira in Etruria e nell’agro falisco » 105

R. Bonaudo, In rotta per l’Etruria: Aristonothos, l’artigiano e la metis di Ulisse » 143

B. d’Agostino, Il valzer delle sirene » 151

F. Croissant, Le premier kouros Parien » 155

L. Chazalon - Jérôme Wilgaux, Violences et transgressions dans le mythe de Térée » 167

A. Lupia - A. Carannante - M. Della Vecchia, Il muro di Aristodemo e la cavalleria arcaica » 191

G.L. Grassigli, La voce, il corpo. Cercando Eco » 207

RASSEGNE E RECENSIONI

L. Cerchiai, The Frustrations of Hemelrijk - a proposito della recensione di J.M. Hemelrijk a R.Bonaudo, La culla di Hermes. Iconografia e immaginario delle hydriai ceretane, Rome 2004 » 219

F. Pesando, L’ombelico dell’archeologo. Breve nota su J. Dobbin - P. Foss, The World of Pompeii, London-New York 2007, J. Berry, The complete Pompeii, London 2007 e M. Beard, Pompeii. The Life of a Roman Town, London 2008 » 222

M.A. Cuozzo, rec. a V. Nizzo, Ritorno ad Ischia - Dalla stratigrafia della necropoli di Pithekoussai alla tipologia dei materiali, Napoli 2007 » 224

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H. Tréziny, rec. a B. d’Agostino, F. Fratta, V. Malpede, Cuma. Le fortificazioni. 1. Lo scavo 1994-2002, AIONArchStAnt Quad. 15, Naples 2005 p. 231

M. Bats, rec. a M. Cuozzo, B. d’Agostino, L. Del Verme, Cuma. Le fortificazioni. 2. I materiali dai terrapieni arcaici. AIONArchStAnt Quad. 15, Naples 2006 » 233

I. Baldassarre, rec. a Peinture et couleur dans le monde grec antique, Actes de Colloque, Musée du Louvre (10 et 27 mars 2004) sous la direction de S. Descamps-Lequime, Musée du Louvre, Paris 2007 » 237

A. Taddei, rec. a Claude Vibert-Guigue, Ghazi Bisheh, Les peintures de Qusayr ‘Amra. Un bain omeyyade dans la bâdiya jordanienne » 241

RIASSUNTI » 244

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Ceux d’entre nous qui ont eu le bonheur de tra-vailler avec Jean-Pierre Vernant se souviennent peut-être d’une expression qui lui venait dans le dialogue quand il prenait son élan pour sauter à une nouvelle étape de sa réflexion, entraînant avec lui son interlo-cuteur: «Ecoute voir», disait-il, après une pause. Cette locution n’est nullement bizarre en français oral, elle ne heurte pas, mais elle n’est pas non plus très répan-due, et il me semble bien ne l’avoir entendue que de la bouche de Jipé. Au risque de surinterpréter, je suis porté à la gloser: «écoute et tu verras». Quand il s’agit d’apprendre ou de comprendre, écouter est un moyen, voir est le but ou plutôt c’est une manière de désigner le but. S’il faut, pour parler de la compré-hension, de l’appréhension intellectuelle, se référer à l’activité d’un organe des sens, l’ouïe, la vue, le toucher (la préhension, la saisie) sont en concurrence; mais sans aucun doute la manière la plus adéquate et en tout cas la plus usuelle d’exprimer la perception juste d’une situation ou d’un problème relève de la vision: on a compris, c’est-à-dire que désormais on y voit clair, les obscurités ont disparu, les choses sont devenues évidentes.

Ce trait de l’expression orale de Vernant, dans le dialogue, m’amène à poser une question sur le contenu de son œuvre: en deçà ou au delà des mé-taphores inhérentes au vocabulaire de la perception,

trouvons-nous dans ses écrits une réflexion sur les rapports entre l’entendre et le voir, le sonore et le visible dans ce que nous donne à connaître la Grèce ancienne?

Ce qui frappe d’emblée c’est que le thème du regard est un motif central de sa pensée: il apparaît non seulement dans les textes qui portent expli-citement sur l’image, le miroir, le masque, mais encore dans d’innombrables passages où Vernant entreprend d’analyser ou simplement de narrer un mythe ou de présenter un personnage mythique ou épique. Il ne s’agit pas, en général, de détails des-criptifs sur l’acuité de la vision, l’apparence des yeux ou de notations qui relèveraient du statut social du regard (qui a le droit de regarder qui?). Toujours c’est l’essentiel qui est en cause, la nature profonde, le destin des êtres saisis dans le moment où ils re-gardent ou sont regardés. L’extrême attention que portait Vernant à tout ce qui relève du visuel et du visible et donc son extraordinaire aptitude à déceler dans les textes et à mettre en lumière, en scène, les passages qui s’y rapportent, c’est ce dont on peut se rendre compte immédiatement en consultant l’Index très détaillé qui clôt les deux volumes de l’Oeuvre aux éditions du Seuil1: les entrées «œil», «regard», «vision», «vue», spectateur» etc., sont nombreuses et pourvues d’abondantes références;

ENTENDRE ET VOIR AVEC JEAN-PIERRE VERNANT*

Charles Malamoud

* Ce texte est une version quelque peu remaniée d’un com-munication présentée au colloque international organisé par le Collège de France, l’EHESS et l’EPHE Relire Jean-Pierre Vernant les 9-11 octobre 2008 à Paris.

1 Jean-Pierre Vernant, Œuvres Religions, Rationalité, Po-

litique, I et II, 2509 pages, Paris, Editions du Seuil, 2007, édition préparée par Maurice Olender sur les indications de Vernant lui-même qui a fait le choix des textes retenus et dé-cidé de l’ordre dans lequel ils seraient présentés. C’est à cette édition que je me réfère ici.

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le domaine de l’audition et du sonore, en revanche, répertorié de façon beaucoup plus lâche, est beau-coup moins bien représenté. Il faut dire qu’à cet égard l’index est quelque peu trompeur et témoigne d’un parti pris inconscient: par exemple il n’y a pas d’entrée «musique», alors que ce thème et ce terme sont évidemment présents dans le texte2. Il n’y a pas d’entrée «récitation», «rythme», «instrument de musique», bien que «les sonorités inquiétantes» asso-ciées au masque de Gorgô, les cris, les plaintes soient étudiées en détail p. 1575-1585 et soient l’occasion de tout un développement sur les instruments, les sonorités, les hennissements, les grincements, les clameurs. Il reste, malgré tout, que l’index annonce bien les conclusions que l’on tire de la lecture des cha-pitres de Vernant: il est nettement plus sollicité par ce que les Grecs voient que par ce qu’ils entendent. Il va de soi que dans cette perspective il ne faut pas considérer la parole comme une province du sonore: ce que nous savons de la manière dont les Grecs pensaient ce qui est à voir et de ce qui est à entendre, nous le savons, pour l’essentiel, par ce qu’ils nous en disent, que la parole ainsi préservée ait été d’abord dite ou écrite. Vernant lui-même a mis en lumière les conditions sociales et politiques dans lesquelles se déploie la parole, notamment la parole publique, et la trame d’histoire que dessine ce déploiement. Mais le monde des sons et des bruits autres que la parole, ou même la parole en tant qu’elle est aussi une combinaison d’unités sonores, ces motifs sont en retrait par rapport à tout ce que met en œuvre la faculté de voir. Il y a, pour expliquer cette inégalité, des raisons évidentes, trop évidentes: ce que voyaient les Grecs (ce que leurs textes en disent et les images qu’ils ont construites et qui ont subsisté), nous le voyons encore, en partie, bien que ce ne soit pas avec les mêmes yeux; nous n’entendons presque rien de ce qu’ils entendaient: les bruits de la nature mis à part, nous pouvons difficilement nous en faire une idée. Mais cette limitation, très réelle, ne doit pas nous détourner de notre question: que lisons-nous et comment lisons-nous les textes grecs, dans ce qu’ils ont à nous dire du rapport entre le voir et l’entendre?

Il est une situation pour le moins où l’entendre et le voir sont associés, dans l’œuvre de Vernant, en une sorte de confrontation: ce que l’œil perçoit contredit ce que l’oreille entend ou du moins lui

apporte un complément de vérité et fait donc apparaître le message sonore comme ce à quoi la vérité fait défaut. C’est l’histoire d’Ulysse avec les Sirènes. Vernant résume et commente cette aven-ture à quatre reprises3. Il est clair qu’elle lui tient à cœur, moins pour ce qu’elle nous apprend du personnage d’Ulysse que pour la leçon qu’il faut en tirer sur la signification de la mort. Rappelons la structure de ce récit dans le texte de l’Odyssée. Il comporte trois étapes:

1. Ulysse rapporte ce que Circé lui a dit en tête à tête (XII 39-54): elle lui annonce ce qui arrivera quand avec son bateau il passera près des Sirènes. Elle lui apprend les malheurs qui sont le lot de celui qui prête l’oreille à leur voix: «Elles charment les mortels qui les approchent. Mais bien fou qui relâche pour entendre leur chant! Jamais en son logis, sa femme et ses enfants ne fêtent son retour: car de leur fraîche voix, les Sirènes le charment, et le pré, leur séjour, est bordé d’un rivage tout blanchi d’ossements et de débris humains, dont les chairs se corromprent» (traduction Bérard). Viennent ensuite les recommandations de Circé: qu’Ulysse bouche avec de la cire les oreilles de ses matelots, que lui-même ait les oreilles ouvertes pour entendre les Sirènes, mais qu’il se fasse attacher au mât en sorte qu’il lui soit impossible de céder à leur appel.

2. Ulysse prend la mer et fait part à ses hommes de ce que Circé, «la redoutable à voix de femme», lui avait dit à lui seul: les dangers auxquels ils vont s’exposer, le moyen d’y échapper (XII 144-165).

3. Ulysse en vient au récit des événements eux-mêmes tels qu’ils ont eu lieu, tels qu’il les a vécus, conformes à ce que Circé avait prévu (XII 166-200).

Entre ces trois versions successives il y a des dif-férences: c’est seulement dans la première, dans les paroles de Circé à Ulysse, qu’il est fait mention du leimôn où sont assises les Sirènes et du charnier qui s’entasse près d’elles. Et c’est seulement dans le récit qu’Ulysse fait des événements une fois qu’ils se sont accomplis que sont reproduites les paroles des Sirènes telles qu’Ulysse les a entendues. Dans la reconstruc-tion (à la fois résumé et analyse) que Vernant, lecteur, fait de cette aventure, le tas de corps pourrissants est un élément essentiel. Il va de soi, bien que cela ne soit pas dit explicitement dans le texte d’Homère, que ce sont là les restes des marins qui ont cédé à l’appel

2 Il n’y a pas d’entrée «audition», «auditeur», «bruit», «écou-ter», «entendre», «oreille», «silence», «sourd», «voix» (mais on

trouvera, il est vrai, phonè et siopè).3 P. 87 s., 1384, 1406 s., 2266 s., 2282.

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des Sirènes. Ces ossements qui sont sur le leimôn, il n’est pas dit qu’Ulysse et ses compagnons les ont vus4. Mais il est sûr que c’est une réalité visible, qui impose son effroyable présence à qui vient à les regarder5. Ce que perçoit la vue contredit le chant que font entendre les Sirènes, révèle le mensonge contenu dans leurs paroles. Quand elles disent à Ulysse qu’elles lui feront connaître, s’il vient près d’elles, les propos qui célébreront à l’avenir la gloire des héros et donc sa propre gloire, elles disent vrai, et même dit Vernant, «elles lui révèlent la Vérité avec un grand V... ce qu’elles disent à Ulysse, d’une certaine façon, c’est ce qu’on dira de lui, quand il aura franchi la frontière entre le monde de la lumière et celui des ténèbres», mais elles mentent quand elles lui disent qu’heureux de ce qu’il aura entendu, s’il s’arrête dans leur îlot, il pourra retourner chez lui, riche de son nouveau savoir (XII 188). Cette promesse est démentie par l’incontestable, l’irréfutable vérité des cadavres qui pourrissent sur place. Cette vérité est la réalité, indi-cible, de la mort. La vérité des paroles que les Sirènes promettent de faire entendre à Ulysse, s’il cède à leur appel, n’est pas mise en doute. Il est bien vrai que les exploits qu’Ulysse aura accomplis feront de lui un homme glorieux que les poètes célèbreront. Mais une sorte de mensonge s’insinue dans cette vérité: il n’est pas vrai qu’après sa mort quelque chose doive subsister du héros qui lui permettra d’être conscient de sa gloire et d’en tirer une sorte de réconfort. Rien ne peut compenser l’horreur de cette perte de soi: telle est la leçon qu’Achille enseigne à Ulysse venu le visiter dans l’Hadès. C’est pourtant ce même Achille qui, alors qu’il était encore vivant, proclamait dans l’Iliade son choix de la belle mort: plutôt mourir au combat, jeune, en pleine possession de sa force et de sa beauté, et acquérir une gloire immortelle qu’attendre, dans les laideurs du vieillissement, une mort inéluctable, prélude à l’oubli. «Il existe donc, dit Vernant, (p. 2282) une tension entre d’une part la gloire du mort et la réalité concrète de la mort». Dans l’aventure d’Ulysse et des Sirènes cette tension est illustrée par une opposition entre les promesses des paroles entendues et la présence muette de ce qui s’impose à la vue.

Les yeux ne sont pas seulement l’organe qui constate la mort, ils peuvent être aussi ce par quoi

la mort survient. «La mort dans les yeux»: si le thème du regard est si intensément présent dans la pensée de Vernant, c’est aussi parce que les regards s’échangent, et que l’échange de regards est une fi-gure et la condition fondamentale de la réciprocité. L’exemple le plus net de la réciprocité impossible est l’affrontement du mortel et de la Gorgone. «Quand on regarde une Gorgone, quand on croise le regard de Méduse, qu’on soit rapide ou lent, ce qu’on voit reflété dans les yeux du monstre, c’est soi-même changé en pierre, soi-même devenu une face d’Ha-dès, une figure de mort, aveugle, sans regard» (p. 138). «Voir la Gorgone, c’est la regarder dans les yeux, et, par le croisement des regards, cesser d’être soi-même, d’être vivant, pour devenir, comme elle, puissance de mort. Dévisager Gorgô, c’est, dans son œil, perdre la vue, se transformer en pierre aveugle, opaque» (p. 1518).

Seul le regard de Méduse pétrifie le mortel dont elle croise le regard: cas extrême de réciprocité dis-symétrique. Mais si dans le face à face les regards s’affrontent, atteignent et affectent l’autre regardeur et ne sont pas une contemplation mutuelle, c’est que, d’une manière générale, l’œil n’est pas seule-ment un organe de réception, ou plus précisément, que la perception visuelle n’est pas une réception passive. «Dans la conception commune des Grecs, l’œil est de nature ignée. Aristote reconnaît que pour l’ensemble des philosophes œil et vision s’ap-parentent au feu. Le regard a souvent été considéré par les Anciens comme un rayon, aktis, émis par le feu de l’œil en direction de l’objet…» (p. 1011 sq.).

Si le thème du regard, du visible et de la figura-tion de l’invisible est chez Vernant l’objet de tant de développements, de tant de reprises insistantes et de formulations frappantes, c’est, nous l’avons noté, parce qu’il réfléchit, mieux que quiconque, aux liens paradoxaux qui unissent la vision à l’in-dicible, à l’impensable de la mort. Mais en deçà de cette limite, il y a la perception du monde qui est «beau comme un dieu», et ce à quoi l’homme tient par-dessus tout: «être dans le monde humain, c’est être vivant à la lumière du soleil, voir les autres et être vu par eux, vivre en réciprocité, se souvenir de soi et des autres». C’est ainsi que se définissent les biens qu’Ulysse s’expose à perdre à chaque étape de

4 La traduction de Philippe Jacottet («et l’on voit s’entasser près d’elles») ajoute au texte (La Découverte, 1982, p. 199).

5 «Il [Ulysse] a vu ce qu’était la mort, il l’a vu lorsqu’il était

chez les Cimmériens, à la bouche d’enfer, il l’a vu aussi auprès des Sirènes qui chantaient sa gloire, depuis leur îlot entouré de charognes» (p. 93).

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sa navigation. Le lecteur peut se demander si «vivre en réciprocité» serait aussi «entendre les autres et être entendu par eux»6.

La prééminence du visuel sur tous les autres do-maines du sensible dans l’œuvre de Vernant n’est pas une simple constatation de lecteur. Vernant lui-même s’en explique magnifiquement dans son Intro-duction au volume collectif publié sous sa direction, L’homme grec7. Répondant implicitement à la contri-bution de Charles Segal, «L’homme grec, spectateur et auditeur», Vernant écrit: «Pour la culture grecque, le “voir” a un statut privilégié, il est valorisé jusqu’à occuper dans l’économie des capacités humaines une position sans égale… D’une certaine façon l’homme est regard dans sa nature même. Et cela pour deux raisons, l’une et l’autre décisives. En premier lieu, voir et savoir c’est tout un… La connaissance est in-terprétée et exprimée sur le mode du voir. Connaître est une forme de vision. En second lieu, voir et vivre, c’est aussi tout un. Pour être vivant il faut à la fois voir la lumière du soleil et être visible aux yeux de tous. Quitter la vie signifie perdre en même temps la vie et la visibilité, abandonner la clarté du jour pour pénétrer dans un autre monde, celui où, perdu dans la Ténèbre, on est dépouillé tout ensemble de sa figure et de son regard…Notre regard opère dans le monde où il trouve sa place comme un morceau de ce monde» (p. 1912).

Peut-on, sur le modèle de L’Homme grec, penser à un Homme indien? Les difficultés sont évidentes. On ne pourrait commencer à les surmonter qu’en délimitant arbitrairement, et en assumant cet arbitraire, le fragment du monde indien que l’on se proposerait de prendre en considération. Les coupures ou articulations chronologiques n’ont pas en Inde la même netteté ni la même portée qu’en Grèce. Et le monde indien n’a pas la même unité que le monde grec: tous les Grecs parlaient grec, des dialectes grecs que tous les Grecs pouvaient comprendre. Dans l’Inde qu’il est convenu d’appeler l’Inde ancienne (quand finit-elle? Avec la conquête musulmane? Peut-on dire même que l’Inde an-

cienne appartient tout entière au passé?) la diversité des langues est un fait majeur: à côté du sanscrit et des langues moyen-indiennes qui en sont issues, les langues dravidiennes,le tamoul, en premier lieu, s’affirment et donnent lieu à des littératures qui leur sont propres. Cela posé il faut bien reconnaître qu’il y a des blocs de traditions, des manières de concevoir les rapports des hommes entre eux et avec les autres formes du vivant et l’ensemble du cosmos qui constituent un vaste «savoir partagé», commun à tout ce qui peuple le Continent du Pommier rose.

C’est en me limitant à une face de cette culture, celle que nous font connaître les textes composés en sanscrit, que je voudrais poser, à propos de l’Inde, la question qu’avait suscitée en moi la lecture de l’Oeuvre de Vernant: comment y pense-t-on le rap-port du voir et de l’entendre? Ainsi formulée, dans le présent contexte, la question prend une tournure ou dévoile une ambition comparatiste. Cette ambition n’est recevable que si on précise bien le corpus de données que l’on prend en compte et si ces corpus ont, dans les cultures ainsi confrontées, des analo-gies quant à leur structure propre et à leur statut. C’est à ce prix, me semble-t-il, que d’une part on évite de verser dans des considérations trop vagues sur les «mentalités» et que d’autre part les contrastes ou les différences prennent sens. C’est du moins la leçon que je tire de Jean-Pierre Vernant.

Dans le cadre ainsi proposé, il est clair qu’on est

amené à souligner l’extrême importance, pour la pensée indienne, de la sphère du sonore. Il serait bien sûr absurde d’opposer une Inde qui écoute et entend à une Grèce qui regarde et voit. La Grèce a son tonnerre, ses cris, ses plaintes, sa musique et ses chants, son acoustique, le bruit et le silence de ses paroles. L’Inde, de son côté, tout autant que la Grèce, est peuplée d’images, ses dieux et aussi ceux des mortels qui par leur ascèse ont acquis des pouvoirs surnaturels ont des regards foudroyants, les poètes inspirés sont des «voyants» ( i) ou des visionnaires (kavi)8, ses penseurs élaborent des doctrines qui sont des «vues» (darśana), ce qui est

6 Sans doute: la vie sociale n’est possible que si les partenaires s’écoutent les uns les autres et même parviennent à s’entendre. Mais on voit bien la différence, qui n’est pas propre à la culture grecque: je peux voir le regard d’autrui, même le regard qu’il porte sur moi, je ne peux entendre son oreille. Tout au plus puis-je essayer d’imaginer son écoute ou me contenter d’une réciprocité différée, dans laquelle mon interlocuteur et moi

écouterions et nous ferions entendre tour à tour. 7 Edition italienne, L’Uomo greco, Rome- Bari, Laterza, 1991;

édition française, L’homme grec, Paris, Seuil, 1993. 8 Jan Gonda, The Vision of the Vedic Poets, La Haye, Mouton,

1963; Eye and Gaze in the Veda, Amsterdam, North Holland Pub. Co., 1969.

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Entendre et voir avec Jean-Pierre Vernant 13

évident ou clair est «vu» (d a, spa a), les fidèles se pressent dans les sanctuaires pour avoir la vue (le darśan) de la divinité qui y révérée (et pour être vus d’elle), cette divinité elle-même n’est vraiment présente dans son image que lorsqu’a eu lieu la céré-monie d’ «ouverture des yeux» (ak yunme a- a), et, bien entendu, les verbes paś, d ś, īk , qui signifient «voir» ou «regarder» ou «examiner» fournissent nombre de termes relatifs à l’intelligence, à la ré-flexion, à l’investigation (un nom pour l’activité intellectuelle qui se rapproche le plus de ce que nous nommons philosophie est ānvīk īkī, de la racine īk ). L’Inde ne se lasse pas de créer des formes, de combiner des couleurs, de jouer de l’ombre et de la lumière, et je le répète, de produire des textes qui décrivent et expliquent ces actions, sans oublier le topos des œillades dans les scènes amoureuses, ni, dans un autre registre, celui du Veda, l’obligation faite aux hommes et aux femmes présents sur l’aire sacrificielle, tantôt d’échanger des regards, tantôt de ne pas voir9.

Néanmoins me paraissent caractéristiques de l’Inde (pour l’essentiel, de l’Inde brahmanique) les traits que voici.

1. Au cours des cinq ou six siècles qui précèdent le début de notre ère se constituent des savoirs, à vrai dire des sciences, descriptives et normatives qui portent sur le langage, toujours saisi dans son aspect sonore: la grammaire, la phonétique, la métrique. Par la suite les philosophes disputeront du rapport entre son et sens10, mais jamais le mot ne sera conçu en dehors de sa manifestation sonore. La gram-maire, notamment, est cultivée avec zèle et jouit d’un prestige incomparable; avec ses catégories, ses procédures d’analyse, elle détermine des manières de penser qui agissent dans d’autres disciplines11. La grammaire est le point d’appui de philosophies

et de spéculations qui sont au centre de la création intellectuelle de l’Inde ancienne12.

2. D’immenses séquences textuelles se trans-mettent de génération en génération, pendant des siècles, jusqu’à nos jours encore, oralement. Nombre de ces textes ne sont ni répétitifs, ni lâches, ni portés par un rythme. Souvent ce sont au contraire des textes denses, difficiles, ou chaque détail compte: les formules de la Grammaire de Pā ini au premier chef. Confier à la mémoire humaine ce qui doit être préservé et transmis, considérer qu’on ne sait vraiment que ce qu’on sait par cœur: ces pratiques et ces idées se sont maintenues dans l’Inde bien après que l’usage de l’écriture s’y fut répandue, (les premiers textes écrits qui nous soient parvenus sont les inscriptions d’Asoka, qui datent du milieu du III siècle avant notre ère). Les savoirs essentiels sont faits de paroles dites et entendues. Cela suppose des méthodes d’apprentissage spécifiques13.

3. Le massif de textes le plus ancien de l’Inde est le Veda, terme qui signifie «savoir». Un synonyme de Veda est śruti, «audition»14. Pour les hommes qui, du fait de leur naissance dans une des trois plus hautes classes de la société, sont tenus, dans leur enfance, d’apprendre le Veda (cet apprentissage commence par une initiation qui fait d’eux des «deux fois nés»), ce savoir ne peut être reçu que de la bouche d’un maître: on répète ce qu’il dit, de la manière dont il le dit. L’essentiel de la śruti a été composé avant que l’écriture ne fût connue. Par la suite, il n’ y a jamais eu d’interdiction de mettre par écrit le texte du Veda et de le lire, mais toujours il a été prescrit, telle est sur ce point l’orthodoxie brahmanique, de l’apprendre en écoutant un maître. C’est, en principe, pour assurer la transmis-sion correcte, orale, et, autant que faire se peut, la compréhension du Veda, que se sont constituées les

9 Stephanie W. Jamison, Sacrificed Wife, Sacrificer’s Wife, Wo-men, Ritual, and Hospitality in Ancient India, Oxford University Press, 1966, pp. 139-141; Ch. Malamoud, La Danse des pierres, Paris, Seuil, 2005, pp. 147 s.

10 Madeleine Biardeau, Théorie de la connaissance et philosophie de la parole, Paris-La Haye, Mouton, 1964.

11 Louis Renou, ‘Les connexions entre le rituel et la gram-maire en sanskrit’, Journal Asiatique, 1941-1942, pp. 105-165, notamment la conclusion (article repris dans Louis Renou, Choix d’études indiennes, réunies par Nalini Balbir et Georges-Jean Pinault, Paris, Ecole française d’Extrême-Orient, 1997, pp. 311-371; voir aussi les réserves et précisions de Johannes Bronkhorst, ‘The relationship between liguistics and other sciences in India’, in Histoire des sciences du langage, édité par Sylvain Auroux - E.F.K. Koerner - Hans-Josef Niederehe -

Kees Versteegh - Walter de Gruyter, Berlin NewYork, 2000, tome I, pp. 166-173.

12 David Seyfort Ruegg, Contributions à l’histoire de la philosophie linguistique indienne, Paris, E. de Boccard, 1959; Madeleine Biardeau, op. cit.

13 Sur la méfiance de l’Inde brahmanique à l’égard de l’écri-ture, voir Ch. Malamoud, Cuire le monde, rite et pensée dans l’Inde ancienne, Paris, La Découverte,1989, pp. 295-306; Le Jumeau solaire, Paris, Seuil, 2002, pp. 127-149 et 166-169. Voir aussi les compléments et correctifs de R. Torella, Il Pensiero dell’India. Un’introduzione, Rome, Carocci, 2008, p. 159.

14 C’est à ce titre que cette «audition» qu’est la parole (désignée comme śabda) fait partie, dans les darśana de l’orthodoxie brah-manique, des pramā a, moyens de connaissance valide, à côté du témoignage des sens (pratyak a) et de l’inférence (anumāna).

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14 Charles Malamoud

sciences auxiliaires, «membres» (a ga) de ce corps qu’est le Veda lui-même: la Grammaire, la Phoné-tique et la Métrique déjà mentionnées, et aussi la science du Rituel (les Kalpasūtra) et l’Etymologie (le Nirukta).

4. Pour la tradition indienne, les différents élé-ments dont est fait le Veda, les poèmes et groupes de poèmes qui en constituent la partie la plus ancienne, mais aussi les traités en prose de la partie la plus récente n’ont pas à proprement parler d’auteur, ils ont été «vus» par des poètes, des i, terme que la science de l’Etymologie fait dériver de la racine d ś «voir» (de même que les dieux sont censés avoir «vu» les rites que célèbrent les hommes). Le pouvoir, le talent qui leur est propre est de transposer en mots du langage, en poèmes sonores, ce dont ils ont eu l’intuition visuelle. Mais cela même qu’ils ont «vu» est la manifestation d’une parole incréée, éternelle, cachée. En sorte que les paroles des poèmes sont comme une réfraction de cette parole sans com-mencement. Nombre de poèmes védiques sont une célébration de la parole védique elle-même, de la force qui anime les poètes et aussi de cette parole d’où émanent tous les sons du Veda et qui se révèle en tant que telle dans le jeu des énigmes que les poètes, à cer-tains moments de la cérémonie sacrificielle, se posent les uns aux autres15. Il y a une déesse Parole, divinité parmi d’autres dans le panthéon védique. Elle parle, s’adresse directement à celui qu’elle inspire («écoute, toi qui es écouté», śrudhi śruta), montre que tout re-pose sur elle, que c’est d’elle que les dieux tirent tout leur pouvoir16. Mais dès la fin de la période védique, dans les Upani ad, se déploie une spéculation sur le brahman, l’«absolu» dont le Veda est la manifesta-tion sonore, le śabdabrahman17. A vrai dire, ce qui caractérise la pensée védique et les spéculations que le Veda a suscitées, ce n’est pas tant la prééminence de l’audition comme mode de perception que la

nature sonore de ce qu’il y a à percevoir, de ce dont les poètes ont la révélation. L’emploi du verbe «voir» pour désigner la manière d’appréhender une réalité indubitablement, essentiellement sonore apparaît clairement dans la règle de Pā ini selon laquelle les mélodies (sāman) du Sāma-Veda sont nommées d’après le nom du i qui les a vues18. Bien des siècles après la période védique, les poètes reprennent ce thème de la parole sonore qu’est le brahman et qui, ayant été vue par eux, est restituée dans leur poème. Bhavabhūti (VIIIème siècle de notre ère) semble particulièrement attaché à ce thème. Dans le drame Uttararāmacarita, il évoque la création de l’Epopée du Rāmāyā a par Vālmīki, après qu’il a eu la révé-lation du śabdabrahman. Le dieu Brahmā s’adresse alors à lui en ces termes: «te voilà initié à présent à l’Absolu dont la Parole est l’essence (prabuddho’si vāgātmani brahma i). Dis la geste de Rāma. Ton œil prophétique de voyant possède un irrésistible éclat (avyāhatajyotir ār a te prātibha cak u )»19.

5. Le terme usuel pour «parole» est śabda (un dictionnaire est un śabdako a, «coffret de mots»), mais śabda signifie également «son» ou même «bruit». Insistons-y, la parole est douée de sens (artha), mais ne peut être séparée de son substrat sonore, même quand elle n’est pas effectivement prononcée. Le silence est encore une modalité de la parole. Ni śabda, ni cet autre mot pour parole, le féminin vāc, n’ont connu d’extension ou de glisse-ment comparables à ceux de logos20. Elle peut être exaltée comme divinité, comme principe suprême, elle n’est pas pour autant un synonyme de raison. La «voix», vā ī, par quoi la parole se fait entendre, est célébrée comme partie immortelle de l’âme ou comme immortelle et, en tant que telle, partie de l’ātman, du «soi»21. Que la parole soit faite de sons, et que sous cet aspect, à ce titre, elle soit un élément de l’univers, c’est ce que montre aussi ce texte vé-

15 Louis Renou, «L’énigme dans la littérature de l’Inde an-cienne», Diogène 29 (1960) pp. 37-48, repris dans Louis Renou, L’Inde fondamentale, études d’indianisme réunies et présentées par Charles Malamoud, Paris, Hermann, 1978, 11-20; ‘Sur la notion de brahman’ (avec le concours de Lilian Silburn), Jour-nal Asiatique, 1949, pp. 7-46, repris dans L’Inde fondamentale, pp. 83-116.

16 ·k-Sa hitā X 125. Ce texte fameux a été commenté notamment par Louis Renou, Etudes védiques et pā inéennes, tome XVI, Paris, éditions E. de Boccard, 1967, pp. 166 s. et par Georges Dumézil, Apollon sonore et autres essais, Esquisses de mythologie, Paris, Gallimard, 1982, pp. 13-24.

17 David Seyfort Ruegg, op. cit., p. 11.

18 Pā ini IV 2, 7: d a sāma.19 Uttararāmacarita, II, prose après la strophe 5. Traduction

de Lyne Bansat-Boudon, in Théâtre de l’Inde ancienne, sous la direction de Lyne Bansat-Boudon, Paris, Gallimard, 2006, Bibliothèque de la Pléiade, p. 870.

20 Ce qui ne veut pas dire que les composantes de logos autres que «parole» sont inconnues de la pensée indienne! Pour expri-mer les notions de calcul, proportion, raison, le sanscrit a recours notamment à des dérivés de la racine mā, «mesurer»; la raison raisonnante est rendue par des dérivés de hetu, «cause» etc., et, bien sûr, la Logique est une discipline majeure.

21 Bhavabhūti, Uttararāmacarita, invocation liminaire: van-demahi ca tā vā īm am tām ātmana kalām.

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Entendre et voir avec Jean-Pierre Vernant 15

dique connu sous le nom d’«upani ad de la parole tout entière», qui associe les consonnes occlusives à la terre et au feu, les sifflantes au feu et à l’air, les voyelles au soleil22.

6. Le thème védique des «pouvoirs de la parole» ne concerne évidemment que ceux qui ont accès au Veda. De même les spéculations sur l’Absolu comme parole donneront lieu, à la fin du premier millénaire de notre ère à des philosophies mystiques fort complexes qui s’écartent de l’orthodoxie brah-manique et qu’on englobe sous le nom générique de tantrisme23. Les doctrines tantriques sur l’énergie de la parole sont le domaine, dans l’Inde, de ceux qui adhèrent à ces courants de pensée. En revanche fait partie du «savoir partagé», dès la fin de la période védique, l’idée que les cinq sens et les organes sen-soriels qui en sont le siège correspondent chacun à un des cinq éléments du monde physique, sans qu’on puisse dire en quoi consiste au juste cette cor-respondance ou cette affinité: ainsi l’œil et la vision correspondent au feu, ce qui n‘est pas surprenant; la langue et le goût, à l’eau; le nez et l’odorat, à la terre; la peau et le toucher, à l’air. Quant à l’oreille et à l’ouïe, elles correspondent à l’ākāśa, terme qui signifie à la fois «éther», «ciel» et «espace». Or si le ciel est un des secteurs de l’univers, l’espace les englobe tous, il est aussi le lieu des points cardinaux (diś). L’ouïe, donc, est en rapport avec la partie la plus vaste et, si on peut dire, la plus abstraite du cosmos. Les poètes tirent parti de cette connexion. Ainsi Kālidāsa, pour dire que le dieu Vi u, après un séjour sur terre, remonte au ciel, dans l’ākāśa, a cette périphrase: «le dieu pénétra dans son empire, domaine du son». Le même Kālidāsa, dans la béné-diction qui ouvre le drame Śakuntalā, énumère les cinq éléments (ils font partie des huit formes sous lesquelles se manifeste la divinité suprême, Śiva en l’occurrence): seul dans la liste l’ākāśa est défini par le domaine sensoriel qu’il constitue, l’espace, ou l’éther qui occupe le tout de l’univers et qui a pour qualité propre (gu a) la śruti, l’audition24. Telle est la sublimité de l’audition: entendre c’est avoir rapport à l’espace infini. Les sculptures qui figurent

Śiva dansant à Chidambaram le montrent pourvu des divers objets qui symbolisent l’éther et du tam-bour, figuration du sonore en général et allusion à la tradition selon laquelle c’est Śiva qui a enseigné à Pā ini la façon de présenter rationnellement les phonèmes du sanscrit25.

Revenons, pour terminer, au Veda. La partie an-cienne, les recueils d’hymnes, est faite de poèmes caractérisés par leur mètre, chandas. L’homme qui entreprend d’offrir un sacrifice est censé abandonner son corps profane et se donner un corps nouveau, «fait de parole et de mètres», un corps qui n’a d’autre consistance que les textes védiques récités pendant la cérémonie26. Ces structures métriques sont des arran-gements numériques de syllabes: tant de syllabes dans le vers, tant de vers dans la strophe, tant de syllabes dans la strophe27. Dans les textes de la prose védique les formes métriques des hymnes (indépendamment de leur contenu, du sens des mots) sont mises en correspondance avec telle partie du cosmos, de la société, du corps humain. Les auteurs de ces textes s’ingénient à décomposer une action ou un objet en un nombre d’éléments qui soit identique au nombre de syllabes caractéristique de tel mètre et enseignent qu’il y a une affinité, fondée sur cette congruence nu-mérique, entre cet objet ou cette action et ce schéma métrique: cet objet ou cette action sont alors sous la protection de ce mètre (jeu étymologique sur le nom chandas, «mètre», qu’on fait dériver de la racine verbale chad, «protéger, couvrir»). Ce jeu sur les nombres est étourdissant et donne l’impression d’être parfaitement arbitraire, mais cela ne doit pas nous faire perdre de vue ce qui sous-tend ces additions et multiplications: c’est l’idée que le texte des poèmes védiques est avant une combinaison d’éléments so-nores, à tout le moins un chapelet de syllabes à réciter et l’idée aussi que ce sont les structures phoniques du poème qui permettent de découper la partie extra-textuelle du monde, d’en recombiner les éléments de manière à les rendre signifiants.

Ces remarques aideront à comprendre ce qui est en cause dans le passage védique que voici28. Je l’ai choisi parce qu’il met en question le rapport

22 Aitareya-Āra yaka III 2, 5.23 En guise d’introduction, André Padoux, L’énergie de la

parole, cosmogonies de la parole tantrique, Fata Morgana, 1994. 24 Kālidāsa, Śakuntalā, invocation liminaire.25 C. Sivaramamurti, Na arāja in Art, Thought and Literature,

Delhi, National Museum, 1974, p. 181.26 Charles Malamoud, La danse des pierres, op. cit., pp. 15-32.

27 En fait il faut distinguer entre syllabes brèves et longues, respecter des contraintes, notemment les cadences. Le symbo-lisme des Brāhma a n’en tient aucun compte.

28 Taittirīya-Brāhma a I 1, 4, 1-2 à compléter par Kā haka-Sa hitā VIII 3. Cfr. Herta Krick, Das Ritual der Feuergründung, Vienne, Verlag der österreichischen Akademie der Wissenschaften, Wissenschaften, pp. 62 ss.

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16 Charles Malamoud

du voir et de l’entendre. Il s’agit d’instructions sur l’aménagement du terrain sacrificiel que le nouveau maître de maison doit installer pour y célébrer les rites solennels réguliers. Il faut y construire trois foyers de briques. D’abord, près du milieu de la bordure occidentale, le foyer gārhapatya, carré. Puis, à une distance de douze pas en direction de l’est, le foyer āhavanīya, circulaire. Puis, prenant pour origine un point sur la droite qui sépare ces deux foyers, on se dirige vers le sud, et, à une distance de douze pas, encore, on construit le feu dit anvāhāryapacana, qui est un demi-cercle. Se-lon certains ces distances varient en fonction de la «classe» sociale (var a) à laquelle appartient le sacrifiant: si c’est un brahmane, huit pas; si c’est un rājanīya, onze pas; si c’est un vaiśya, douze pas. A quoi correspondent ces chiffres? Au nombre de syllabes dans certains des mètres védiques les plus employés: la strophe dite gāyatrī est faite de trois séquences de huit syllabes; la strophe tri ubh de quatre séquences de onze syllabes, la strophe jagatī de quatre séquences de douze syllabes. Or il y a non pas par convention, mais par nature, une affinité entre la classe des brahmanes et le mètre gāyatrī, entre la classe des k atriya et le mètre tri ubh, entre la clase des vaiśya et le mètre jagatī. Un des textes qui donnent ces instructions sur la distance qui doit séparer les foyers ajoute: parce que le nombre de pas est déterminé et limité, le sacrifiant obtiendra ce qui est déterminé et délimité. Mais il peut aussi évaluer la distance d’un coup d’œil, sans compter les pas. Ce faisant il obtient ce qui est non déterminé, illimité. Ici comme en d’autres circonstances, l’il-limité s’oppose au limité, il ne l’englobe pas. Pour avoir le tout il faut les deux. Le texte ne dit pas com-ment on peut à la fois ou successivement mesurer et évaluer à l’œil, mais il recommande de le faire,

pour avoir les deux types de biens. Mais il saisit l’occasion de faire l’éloge de l’œil. Se référant à un adage bien connu selon lequel on doit croire plutôt le témoin qui dit: «j’ai vu» que celui qui dit: «j’ai entendu dire», le texte ajoute: «on peut dire le faux par la parole, on peut penser le faux par l’esprit, mais l’œil, lui, est vérité. Celui qui construit son autel sur un emplacement déterminé à vue d’œil, c’est sur le vrai qu’il le construit. En conséquence de quoi, le maître de maison qui est en possession d’un autel qu’il a ainsi construit sur le vrai ne doit pas dire le faux [ce n’est pas seulement qu’il ne doit pas mentir: il ne doit pas dire non quand son devoir est de dire oui]; et donc dans sa maison il ne doit pas y avoir de brahmane qui ne soit pas rassasié». Notons que cet éloge de l’œil est une sorte d’ornement qui s’ajoute à la règle proprement dite. Que la distance soit réalisée par des pas effectués et comptés ou globalement évaluée, elle consiste de toute manière en unités dont le nombre correspond à un nombre de syllabes, c’est-à-dire à un trait de la parole poétique en tant qu’elle est une substance sonore. De même, les empreintes des pas de la vache qu’on fait venir sur le terrain du sacrifice pour être le prix d’achat du soma et qui, cela est dit avec in-sistance, est une figure de la parole, de la parole du Veda: ces empreintes sont des objets visibles qui, parce qu’ils sont appelés pada, «trace de pas», sont destinés à illustrer, matérialiser ces autres pada, cette autre signification du mot pada: «mot»; le «mot», pada, est l’ unité constitutive du pāda, «vers», qui, lui-même entre dans la composition de l’unité su-périeure, la strophe. La terre de ces empreintes est recueillie, confiée au sacrifiant et à son épouse: les pas de la vache portent jusqu’au cœur du sacrifice les sonorités de la parole29.

29 Taittirīya-Sa hitā VI 1, 8, 1-5; Śatapatha-Brāhma a III 3, 1, 1-11. Notons qu’une fois la vache introduite sur l’aire sacrificielle, l’étape suivante, dans le déroulement du rite, est

un échange de regards entre l’épouse du sacrifiant et la Parole ainsi présente devant ses yeux.

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Nato il 30 marzo 1927, Nicolas Coldstream ci ha lasciato il 21 marzo 2008, pochi giorni prima della partenza per Atene. Lì, la British School si accin-geva a festeggiare non solo il suo 81° compleanno ma anche i quarant’anni e la seconda edizione del suo Greek Geometric Pottery1 con una giornata di studio, dedicata poi alla sua memoria. Così finisce una carriera scientifica davvero straordinaria, che ha cambiato per sempre la nostra percezione della Grecia e del mondo greco nei secoli preclassici.

Nicolas Coldstream era uno dei rari studiosi di cui moltissimi altri, per molti anni e molto volontieri, si sono ritenuti allievi, anche se non hanno avuto la fortuna di averlo formalmente come maestro all’Università di Londra. Dopo il suo ritiro dall’insegnameno universitario, ben 26 dei suoi allievi “formali” gli hanno presentato un Festschrift, dal titolo evocativo Klados (cfr. Hdt. vii.19), nel quale Paul Courbin, Vassos Karageor-ghis e Peter Warren hanno sottolineato in quale misura il Coldstream ha portato avanti la nostra conoscenza della Grecia, di Cipro e dell’Età del Bronzo egea2. Non è necessario riepilogare qui le loro parole, anche se il contributo del festeggiato è stato arricchito in questo frattempo da notevoli

addizioni a tutti e tre questi settori: basta citare i quattro tomi del rapporto di scavo della necropoli settentrionale a Knossos3, nonché l’analisi (che presto vedrà la luce) della ceramica geometrica proveniente dalla necropoli Toumba di Lefkandi4.

Forse può destare meraviglia che manchi l’Italia da Klados come dal leggendario “MA programme” diretto per anni dal Coldstream a Londra. Ma se non compariva nella lista ufficiale dei filoni di studio previsti (Studi Minoici e Micenei; la Prima Età del Ferro della Grecia; Cipro), l’Italia era in ve-rità sempre presente nel suo insegnamento: come hanno scritto Christine Morris e Alan Peatfield, Coldstream «encouraged in his students a disci-plined and profound familiarity with the material, not just of their own particular field of study, but of the full range of Greek archaeology»5. E per Coldstream le scoperte di ceramica geometrica gre-ca (o di tipo greco) che si sono susseguite in Italia durante la seconda metà del secolo scorso hanno sempre costituito una parte importantissima della “full range of Greek archaeology” che era indispen-sabile alla comprensione della madrepatria e del Levante6. Per nostra fortuna, tale convinzione (che nulla doveva alla famigerata Archeologia “Nuova”,

NICOLAS COLDSTREAM E L’ITALIA

David Ridgway

1 J.N. Coldstream, Greek Geometric Pottery: a survey of ten local styles and their chronology, London 1968; Exeter 20082.

2 P. Courbin, ‘J.N. Coldstream: English archaeologist’, in C. Morris (a cura di), Klados. Essays in honour of J.N. Coldstream (BICS Suppl. 63), London 1995, pp. 1-7; V. Karageorghis, ‘J.N. Coldstream and the archaeology of Cyprus’, ibidem, pp. 9-12; P. Warren, ‘Nicolas Coldstream and the Aegean Bronze Age’, ibidem, pp. 13-14.

3 J.N. Coldstream - H.W. Catling (a cura di), Knossos North Cemetery: Early Greek tombs (BSA Suppl. 28), London 1996.

4 In I.S. Lemos (a cura di), Lefkandi III: The Toumba Cem-etery. The excavations of 1981, 1984, 1986 and 1992-4: Text

(BSA Suppl. 29), London: in corso di stampa. Il volume delle relative tavole (Lefkandi III: Plates), compilato dal compianto M.R. Popham con I.S. Lemos, è uscito già nel 1996.

5 ‘Introduction’, in C. Morris (a cura di), Klados cit., p. xi.6 Fondamentali rimangono ‘A figured Geometric oinochoe

from Italy [nel British Museum: inv. GR 1849, 0518.18]’, in BICS 15, 1968, pp. 86-96 e ‘Some problems of eighth-century pottery in the West, seen from the Greek angle’, in La céramique grecque ou de tradition grecque au VIIIe siècle en Italie centrale et méridionale (Cahiers du Centre Jean Bérard III), Napoli 1982, pp. 21-37; nonché l’esemplare ‘bilan archéologique’, ibidem, pp. 216-222.

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David Ridgway18

o “post-processuale” che sia7) ha reso possibili non solo le pagine riguardanti l’Occidente già nelle prime edizioni di Greek Geometric Pottery (1968) e Geometric Greece (1977), ma anche una serie di studi fondamentali più recenti che mettono a confronto diversi centri dell’Occidente con altre parti del mondo greco8 in un’ottica che va ben oltre la ceramica geometrica. Così, alla fine di un’accurata disamina di “Pithekoussai, Cyprus and the Cesnola Painter”, aveva occasione di osservare a proposito della presenza di Demarato a Tarquinia che «however energetically he may have pursued his commerce among the Etruscans, he would not have wished to be without his land and his horses»9. Altrove, ha dato nuova vita al dibattito, ancora vivace, sul tema prettamente umano dei matrimoni misti10.

Particolarmente intenso è stato l’interesse del Coldstream nelle scoperte effettuate dal compianto Giorgio Buchner a Pithekoussai11, dove le sue visite erano attese come quelle di pochi altri – e dove chi scrive aveva l’immenso privilegio di conoscere da vi-cino le sue doti eccezionali non solo di studioso ma anche di essere umano. Si, sembrava (e infatti lo era) un vero English gentleman: ma era eccezionalmente aperto ad altre situazioni e culture, e – a differenza

di molti altri English gentlemen – non le riteneva affatto inferiori alle sue. Riusciva a farsi capire da chiunque; e aveva un sense of humour squisito. Questo fra l’altro (una sera, a cena...) l’ha portato alla definizione (ormai famosa in certi ambienti) del Kreis- und Wellenband Stil come “spaghetti style”. Certo, nemmeno l’Isola Verde poteva soppiantare la sua amata Grecia nel suo cuore; ma con noi stava a suo agio, e dava il meglio di sé quando Buchner ed io l’abbiamo invitato a studiare la ceramica geome-trica euboica dallo Scarico Gosetti sull’acropoli. Il risultato, destinato in origine al volume Pithekoussai II (la cui stesura fu poi abbandonata per motivi indipendenti dalla volontà dei suoi curatori), ha visto la luce nel BSA12. Mostra in piccolo la stessa straordinaria abilità di “estrarre” storia (e non solo cronologia) dalle cose (e non solo dalla ceramica) che lo aveva portato anni prima da Greek Geometric Pottery a Geometric Greece.

Come faremo senza il Coldstream?Non è mistero a nessuno ormai che, specialmente

nel mondo anglosassone, la metodologia “tradizio-nale” (ma preferisco definirla “normale”) non è uni-versalmente ritenuta sufficiente per le esigenze post-moderne. Della seconda edizione del Geometric Greece (2003) è stato perfino osservato, e anche

7 V. la prefazione alla seconda edizione di Geometric Greece 900-700 B.C., London 2003, p. 3: ‘We cannot deal here with theoretical reconstructions of Early Greek society, often based on anthropological analogies far removed in space and time’.

8 ‘Achaean pottery around 700 B.C., at home and in the colonies’, in D. Katsonopoulou et al. (a cura di), Helike II: Ancient Helike and Aigialeia. Proceedings of the Second Inter-national Conference, Aigion, 1-3 December 1995. Athens 1998, pp. 323-334; ‘Greek Geometric pottery in Italy and Cyprus: contrasts and comparisons’, in L. Bonfante - V. Karageorghis (a cura di), Italy and Cyprus in Antiquity 1500-450 B.C. Proceedings of an International Symposium held at the Italian Academy for Advanced Studies in America at Columbia Univer-sity, November 16-18, 2000, Nicosia 2001, pp. 227-238; ‘The various Aegean affinities of the early pottery from Sicilian Naxos’, in M.C. Lentini (a cura di), Le due città di Naxos. Atti del Seminario di Studi, Giardini Naxos, 29-31 ottobre 2000, Giardini Naxos 2004, pp. 40-49; da ultimo, segnalato da chi scrive con animo particolarmente grato, ‘Other peoples’ pots. Ceramic borrowing between the early Greeks and Levantines, in various Mediterranean contexts’, in E. Herring et al. (a cura di), Across Frontiers: Etruscans, Greeks, Phoenicians and Cypriots. Studies in honour of David Ridgway and Francesca Romana Serra Ridgway, London 2006, pp. 49-55.

9 In B. d’Agostino - D. Ridgway (a cura di), Apoikia: Scritti in onore di Giorgio Buchner (= AIONArchStAnt n.s. 1), Napoli 1994, pp. 77-86 (Demarato: p. 85).

10 ‘Mixed marriages at the frontiers of the early Greek world’,

in OJA 12, 1993, pp. 89-107. Sullo stesso tema v. succes-sivamente G. Shepherd, ‘Fibulae and females: intermarriage in the Western Greek colonies and the evidence from the cemeteries’, in G.R. Tsetskhladze (a cura di), Ancient Greeks West and East, Leiden-Boston-Köln 1999, pp. 267-300; I.S. Lemos, ‘Craftsmen, traders and some wives in Early Iron Age Greece’, in N. Chr. Stampolidis - V. Karageorghis (a cura di), Ploev... Sea Routes ...: Interconnections in the Medterranean, 16th-6th c. B.C. Proceedings of the International Symposium held at Rethymnon, Crete, September 29th-October 2nd 2002, Athens 2003, pp. 187-195.

11 Oltre alle non poche pagine dedicate a questo centro nelle due edizioni di Greek Geometric Pottery e Geometric Greece, v. anche ‘Prospectors and pioneers: Pithekoussai, Kyme and Central Italy’, in G.R. Tsetskhladze - F. De Angelis (a cura di), The Archaeology of Greek Colonisation: Essays dedicated to Sir John Boardman, Oxford 1994, pp. 47-59; (con G.L. Huxley), ‘An astronomical graffito from Pithekoussai’, in PP 51, 1996, pp. 221-224; ‘Drinking and eating in Euboean Pithekoussai’, in M. Bats - B. d’Agostino (a cura di), Euboica. L’Eubea e la presenza euboica in Calcidica e in Occidente. Atti del Convegno Internazionale di Napoli 13-16 novembre 1996, Napoli 1998, pp. 303-310; ‘Some unusual Geometric scenes from Euboean Pithekoussai’, in I. Berlingò et al. (a cura di), Damarato. Studi di antichità classica offerti a Paola Pelagatti, Milano 2000, pp. 92-98.

12 ‘Euboean Geometric imports from the acropolis of Pithe-koussai’, in BSA 90, 1995, pp. 251-267.

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Nicolas Coldstream e l’Italia 19

(dobbiamo credere) autore-volmente, che « Coldstream has written a book for his contemporaries [cioè per gli ultra-settantenni], and we still lack a truly up-to-date synthesis of the early Iron Age of Greece»13. Ma anche la più “avanzata” o “antropo-logica” esegesi non può esi-mersi né dall’identificazione (e classificazione) dei pochi frustuli estratti faticosamente dalla terra né dalla corretta lettura dei loro contesti. Que-sti sono i due grandi pilastri che in quarant’anni Nicolas Coldstream ha dato a tutto il mondo greco; in Italia, sostengono gli innumerevoli discorsi spuntati nella scia del “trade before the flag” dei secoli IX e VIII.

Mi piace finire questo breve saluto con la trascrizione di un paio di frasi riguardanti la “Thapsos class” scritte da una giovane (credo) relatrice alla riunione ateniese dedicata alla memoria del nostro amato Maestro pochi giorni dopo la sua morte: «New questions are posed, and similarities with, as well as differences from, examples of this ware deriving from Ithaka and the Achaean colonies in Southern Italy are presented. The aim of the paper is not to solve but to set up new questions

13 J. Whitley, in CR 55, 2005, p. 196.14 ‘The Thapsos Class reconsidered: the case of Achaea’:

abstract della relazione presentata da Anastasia Gadolou al

Fig. 1. Nicolas Coldstream (a destra) con Giorgio Buchner e David Ridgway nel giardino della casa di Coldstream a Londra.

on this specific ware»14. Mi pare che queste “nuove domande” costituiscono un risultato emblematico dell’insegnamento di Nicolas Coldstream in tutti i campi che ha fatto suoi. Grazie al suo esempio, non saranno le ultime del loro genere, né in Italia né altrove: ma da adesso in poi dobbiamo affron-tarle da soli.

‘Symposium on Greek Geometric pottery in memory of the late Professor Nicolas Coldstream’ (British School at Athens, 29 marzo 2008).

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A tutti è ben noto il passo che Tucidide compone come riferito ai tempi precedenti alla colonizzazione storica greca della Sicilia: «Abitarono anche i Fe-nici tutto intorno alla Sicilia, dopo aver occupato i promontori sul mare e le isolette adiacenti per favorire il loro commercio coi Siculi. Ma poiché i Greci arrivarono dal mare in gran numero, abban-donata la maggior parte del loro territorio, riunitisi in più stretti confini abitarono Mozia e Solunto e Panormo» (6, 2, 6).

Lo storico ci tratteggia un “paesaggio” riportato ad un periodo che possiamo intendere come alto-arcaico, funzionale esplicitamente al commercio che si ritiene attività predominante presso i Fenici, quasi opposto, a quanto si legge fra le sue righe, ad un diverso “paesaggio” della colonizzazione greca della stessa isola. Anche una diversa fonte accosta fra loro gli stanziamenti fenici “in Sicilia e nelle isole vicine”, riconoscendone la causa nella fortuna che i Fenici incontrarono, a quanto si tramanda, con il commercio dell’argento iberico1.

E, infatti, «la scelta del luogo di fondazione dipen-de dai motivi più vari e dalla concomitanza di più cause, le quali andrebbero analizzate singolarmente, quando sono note, e non riportate a schemi teorici che spesso sono formulati sulla base della storia successiva della città»2.

Si tenterà, qui di seguito, sulla scorta delle diverse evidenze disponibili di analizzare questa controver-sa, per gli storici moderni, informazione che Tucidi-de ci tramanda, tentando un esame focalizzato sulle menzioni di isole e sulle loro funzioni all’interno

delle navigazioni ed agli stanziamenti del periodo alto-arcaico.

Prima della guerra di Troia, secondo Tucidide «pirati erano soprattutto gli isolani, che erano Cari e Fenici: costoro infatti abitavano il maggior numero delle isole» dell’Egeo, finché la flotta di Minosse non riuscì a bonificarne le basi, colonizzando quegli stessi siti (Thuc. 1, 8, 1-2)3.

Altre fonti letterarie documentano di stanzia-menti, o almeno presenze, attribuiti a Fenici anche nelle isole dell’Egeo, riportandoli a tempi mitici.

Ne possiamo ricostruire l’elenco, che sembra disegnarci i punti di appoggio di una rete con più funzioni: anche se è da ritenere che la documenta-zione in nostro possesso sia lacunosa rispetto alla realtà antica.

Il sito più orientale fra quelli testimoniati, e quindi quello verisimilmente più vicino alla terra d’origine dei Fenici, risulta essere Ialysos, sull’isola di Rodi4.

Verso Occidente Thera, Melos, Oliaros e Kythera si dispongono ad appoggiare la navigazione. Anche Delo, secondo una menzione di Euripide, ha cono-sciuto presenza fenicia.

All’estremo nord del mare Egeo, dell’isola di Thasos attesta Erodoto, dopo una personale autop-sia, che vi si trovava «un tempio di Eracle, eretto dai Fenici che navigando alla ricerca di Europa fondarono Taso; e questi avvenimenti risalgono a cinque generazioni di uomini prima della nascita di Eracle figlio di Anfitrione in Grecia» (Hdt. 2, 44, 4).

Ma l’interesse dei Fenici nei confronti dell’isola,

TUCIDIDE E LE ISOLE, TRA FENICI E GRECI

Pier Giovanni Guzzo

1 Diod. Sic. 5, 35, 4-5.2 F. Cordano 1986, p. 110.3 Cfr. S. Mazzarino, Fra Oriente e Occidente. Ricerche di

storia greca arcaica, Firenze 1947, pp. 256-269 per la critica

della ricerca moderna sulla “talassocrazia” fenicia.4 In generale: G. Bunnens 1979, con tutte le fonti letterarie

e la bibl. prec.

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Pier Giovanni Guzzo22

e della prospiciente costa tracia, si diresse verso obiettivi più concreti: le miniere d’oro, delle quali testimonia lo stesso Erodoto, riconoscendo come «le più mirabili… quelle le scoprirono i Fenici i quali insieme a Taso colonizzarono quest’isola che ha ancora il nome che ebbe da questo Taso figlio di Fenicio» (Hdt. 6, 47, 1).

Anche altri siti insulari, oltre a Thasos, sono ricordati per la fondazione di un tempio ad opera di Fenici: a Kythera quello in onore di Afrodite; a Ialysos quello in onore di Poseidone (Diod. Sic. 5, 58, 2-3). Le divinità dedicatarie, come l’Eracle di Thasos, non paiono essere casuali.

La sicura lacunosità delle fonti letterarie a dispo-sizione ci deve impedire di giungere alla temeraria conclusione che i tre santuari avrebbero potuto co-stituire i tre nodi principali della rete insulare fenicia attraverso l’Egeo. Della quale si sarebbe tentati di proporre Ialysos come cerniera di distribuzione sia verso ovest, con termine a Kythera, sia verso nord, con termine a Thasos.

Le fonti letterarie ricordano varie attività svolte dai Fenici in queste isole in quei tempi mitici. Si hanno stanziamenti a Thera (chiamata in precedenza Kal-liste) (Hdt. 4, 147), costituiti da Cadmo «in cerca di Europa» con a capo Membliare figlio di Pecilo, che raggiunsero la durata di otto generazioni prima che lo spartano Tera, figlio di Antesione, figlio di Tisameno, figlio di Tersandro, figlio di Polinice, vi ponesse la propria colonia5. Ancora stanziamenti, con la già ricordata fondazione del tempio di Eracle collegabile a quello posto allo stesso Eroe a Tiro6, e sfruttamento delle miniere d’oro: in raddoppio con analoghe attività sulla prospiciente costa tracia7.

Per Ialysos, le informazioni si riducono ad attività cultuali: oltre al già ricordato santuario di Poseidone, Cadmo offre ad Athena Lindia un calderone di bron-zo iscritto con lettere fenicie8. Ma che si sia trattato di uno stanziamento vero e proprio si potrebbe ricavare dall’essere ricordato come i Fenici ne scacciarono i precedenti abitanti autoctoni, per poi subire lo stesso trattamento ad opera dei Cari9. E dalla memoria di una piccola città fortificata, di nome Achaia10.

Melos11 e Oliaros12 sembrano non permettere

osservazioni al riguardo: anche se della seconda si tramanda un’origine sidonia.

Anche per Kythera la notizia ripetuta da Erodoto (1, 105) e da Pausania (1, 14, 7) ci riporta solo al tempio di Afrodite Urania, eretto da Fenici prove-nienti da Ascalona.

Questo insieme di tradizioni, rese labili come già avvertito sia dal riferimento a tempi mitici sia dallo loro (per noi) stringatezza, di sicuro lacunoso ci autorizza solamente a ritenere la banale conclusione che il mare Egeo fu solcato da naviganti provenien-ti dalla costa orientale in direzione ovest e nord, avanzando da isola in isola, e frequentando porti in terraferma, come sembra indichino i numerosi toponimi Phoinikous (cfr. appendice 2), attestati dalla costa d’Asia Minore alla Sicilia.

Tuttavia, sembra possibile proporre che una tale utilizzazione delle isole possa essere vista come distinta in due principali funzioni: peraltro non sempre alternative fra loro. Da un lato si possono proporre stanziamenti finalizzati allo sfruttamento di risorse materiali, come le miniere d’oro a Thasos, o commerciali, come la possibilità di scambi con il Peloponneso a Kythera; dall’altro la funzione di appoggio alla navigazione, come per le restanti località. E, come si è visto, lì dove le condizioni lo permettevano, come a Thera, si è costituito uno stanziamento di lunga durata.

Altrettanto sembra potersi dire per Ialysos.Un tale sistema di organizzazione insulare della

navigazione e degli stanziamenti sia di supporto sia di sfruttamento delle risorse naturali locali, si documenta anche per la presenza ellenica nello stesso Egeo.

La differenza tra il sistema fenicio, per come sembra legittimo se ne possa dire, e quello greco consiste nella diversità dei rispettivi capisaldi in terraferma: tralasciando, ovviamente, quella di rispettiva origine.

Per i Fenici si può ricordare un solo caposaldo in terraferma: quello, mitico, di Cadmo e Telefassa in Tracia (cfr. supra): ma è da ricordare la integrazione di Frazer al testo tràdito, intesa a ritenere che anche questa informazione vada riferita all’isola e non

5 Cordano 1986, p. 22.6 Oltre che Hdt. 2, 44, 4 cfr. Paus. 5, 25, 12.7 Cfr. ps. Apollodoro, Bibliotheca 3, 1, 1: Bunnens 1979, p.

232.8 Diod. Sic. 5, 58, 2-3.

9 Conone, in Photios, Bibliotheca 186, 47: Bunnens 1979, p. 187.

10 Athen. 8, 61, 360 d-361 c: Bunnens 1979, p. 129.11 Festo, s. v. ‘Melos’.12 Steph. Byz. s. v. ‘Oliaros’.

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Tucidide e le isole, tra Fenici e Greci 23

alla terraferma13. Mentre numerosi, non secondari e di alta antichità sono gli stanziamenti greci sulla costa, peraltro non tutta “fenicia”, di Asia Minore: tali da divenire pienamente storici, come invece non accade per quelli fenici, dei quali rimasero solamente le memorie tramandate dagli eruditi, se non per Ialysos. Potremmo aggiungere: non a caso, considerandone la localizzazione geografica. Anche Tucidide, nel ricordare la purificazione di Delo ad opera degli Ateniesi nel 426 a.C., nello stesso passo sopra citato a proposito della presenza dei Fenici nel-le isole dell’Egeo, menziona specificatamente solo i Cari, in quanto documentati «dalla foggia delle armi sepolte insieme al morto e dal modo in cui ancor oggi li seppelliscono», deposti in «più della metà» delle tombe purificate (1, 8, 1), tacendo di simile documentazione per i Fenici, che, pure, avrebbero dovuto, per coerenza interna alla propria esposizio-ne, essere stati i titolari dell’altra parte di tombe14.

Ma sulla costa, ora siriana, libanese ed israeliana, possiamo ricordare con certezza solamente Al-Mina come luogo d’attracco stabile di navigatori greci: ma non di stanziamento politico ed istituzionale15. Così che pare potersi intravedere un parallelismo, tra Greci e Fenici, sulle due opposte coste: ambedue con ridottissime possibilità di stazioni fisse, anche se permeabili a commerci e a contatti.

Sembra, inoltre, configurarsi un ulteriore schema: riferito alla differente opportunità di insediamen-to che offrono le coste di terraferma rispetto alle isole, le quali ultime andranno opportunamente differenziate fra quelle “grandi”, cioè con effettiva e variata possibilità di accogliere e mantenere nel tempo stanziamenti fissi come ad esempio quelli della Sicilia, e quelle “piccole”, che tali possibilità invece presentano in maniera ridotta, comunque sufficiente ma con evidente accentuazione della propria “insularità”. È chiaro che “grandezza” e “piccolezza” sono da intendersi come requisiti re-lativi e non assoluti: ad esempio, in rapporto anche al numero di coloro che intendono insediarvisi.

Se le note caratteristiche tecnologiche della navigazione antica rendono inutile proporre

motivazioni alla necessità di utilizzare punti di appoggio, quindi insulari, nelle rotte trans-egee, la disponibilità di sfruttamento produttivo, sia com-merciale sia d’altra categoria, che presentavano le opposte terreferme sono altrettanto evidenti. Così come la cautela, a dir poco, che le rispettive società applicavano a coloro che giungevano dal mare: sia pure per scopi reciprocamente utili. Da ciò si svi-luppano le forme e le ritualità di mediazione e di controllo, quasi di filtro di sicurezza, fra stanziati e sopravvenienti: dal “dono” alla sacralizzazione dello scambio, come nei casi dei templi a Kythera e a Thasos, fino alla regolamentazione di speciali statuti per alcuni determinati siti portuali, che gran parte di noi moderni identifica come “empori”16.

Di quanto schematizzato si evidenziano i tratti essenziali componenti nel settore orientale del Mediterraneo: le sponde opposte del quale hanno ospitato, fin da una remota antichità, società sem-pre più istituzionalmente organizzate, in grado di regolamentare i rapporti fra autoctoni e stranieri, e di far osservare quanto stabilito.

Di ciò è rappresentazione la guerra che Minosse portò sistematicamente ai pirati Cari e Fenici, ri-costruita da Tucidide (1, 8, 1-2), con l’esito finale di raggiungere un “ordine” sia alla navigazione sia al commercio in Egeo. “Ordine”, ovviamente, che si risolse in vantaggio per i più potenti: e che conobbe eccezioni.

La composizione del quadro che si è tentato di tratteggiare per l’Egeo è differente da quella che si può tentare di ricostruire per il settore occidentale del Mediterraneo. La differenza, in prima istanza, non riguarda i modi dell’approccio e degli stanzia-menti più antichi da parte dei navigatori provenien-ti da est, quanto la strutturazione istituzionale delle diverse popolazioni autoctone, per quanto essa sia ricostruibile da parte nostra.

Fenici e Greci si contendono, nella visione dei moderni, il primato temporale nelle rotte di navi-gazione verso Occidente. Ma per configurarsi una tal tenzone, i moderni sono costretti a ricorrere al

13 Bunnens 1979, p. 233.14 Cfr., per analogia, quanto evidenziato come principale dif-

ferenza tra “Fenici” e Greci in Sicilia da Mazzarino 1947, p. 273.15 Cfr. la classica esposizione dell’evidenza offerta da J.

Boardman, Les Grecs outre-mer. Colonisation et commerce archaïques, Naples 1995 (traduzione da London 1980), pp. 45-69; v. anche, più sommariamente: M. Gras, La Méditerranée

archaïque, Paris 1995, p. 141. Da ultimo: H.G. Niemeyer, ‘Phoenician or Greek: is there a reasonable way out of the Al Mina debate?’, in Ancient West and East 3, 1, 2004, pp. 38-50.

16 L’emporion, a cura di A. Bresson - P. Rouillard, Paris 1993; M.H. Hansen, ‘Emporion. A Study of the Use and meaning of the Term in the Archaic and Classical Periods’, in Tsetskhladze, 2006, pp. 143-168.

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Pier Giovanni Guzzo24

postulato della continuità delle navigazioni greche verso Occidente fin dall’epoca micenea per giungere a quella storica, sia pure alto-arcaica. Un postulato del genere, a quanto si ritiene essere documentato dai ritrovamenti archeologici ad oggi noti, rimane tale: né trova fondamento dimostrativo in altro ge-nere di documentazione a noi pervenuta, se non in passi letterari antichi chiaramente propagandistici anche sul livello mitologico e cultuale.

Ciò non significa negare che si siano avuti, entro il corso del II millennio, rapporti fra Occidente, in particolare Sicilia ed Italia meridionale ma anche la Sardegna e non solo, e penisola greca e, forse, anche coste dell’Asia Minore. Ma i modi di tali rapporti sfuggono ampiamente, in specie nell’aspetto che riguarda gli stanziamenti dei na-vigatori “micenei” nelle terre occidentali e la loro continuità attraverso i “secoli bui”.

Al contrario, a cominciare dal passo di Tuci-dide già sopra ricordato (6, 2, 6)17, sembra che gli Antichi riconoscessero ai Fenici non solo una precedenza cronologica, ma anche una più estesa frequentazione, a scopi commerciali, riconoscibile e riconosciuta dai Greci sopravvenienti con scopi, invece, stanziali e, come è stato di recente proposto, almeno in parte pianificati ex ante18. Ricostruzione che pare essere parallela alle vicende tramandate a proposito del mar Egeo.

Il “modello” insulare di stanziamento e commer-cio che Tucidide attribuisce ai Fenici della Sicilia potrebbe essere rafforzato da quanto è detto nella c. d. profezia di Ezechiele, risalente al primo quar-to del VI secolo19. Il condizionale è d’obbligo, in quanto il testo ebraico, nel descrivere il crollo che

gli stanziamenti transmarini di Tiro subiscono a seguito della conquista, da parte degli Assiri, della loro madrepatria, utilizza un vocabolo che i mo-derni traduttori rendono sia come “isola” sia come “costa”20. L’alternanza, per noi, del significato del vocabolo usato è particolarmente frustrante per il tentativo di documentare il nostro argomento: ma non sembra che una delle due traduzioni vanti argomenti più convincenti dell’altra. Qui sarà suf-ficiente ricordare quella profezia: e l’incertezza per noi del suo significato, che quindi non esclude la possibilità che Ezechiele ricordasse esplicitamente le “isole” come punti fermi ed importanti per la presenza produttiva transmarina di Tiro.

Da un punto di vista archeologico, che Dunbabin privilegiava per motivare il suo scetticismo nei con-fronti di Tucidide, non sembra di possedere ad oggi documentazioni di supporto, escluse ovviamente Mozia e Palermo, ma non certo con ritrovamenti da ritenere più antichi di quelli che si sono effettuati in colonie greche. Ma occorrerà ricordare che è da soli circa vent’anni che si è venuti a conoscenza di un’ab-bondante presenza di ceramica fenicia a Zancle, entro la fine dell’VIII secolo21. Questo sito e la cronologia da assegnare ai reperti finora noti non rientrano, a stretto rigore, nel “modello” tucidideo: ma non se ne potrà negare il ruolo cruciale nella navigazione e, quindi, nel commercio intermediterraneo.

Gli studiosi specialisti di storia e di archeologia fenicia (e punica) difendono la testimonianza di Tucidide, leggendola, sulla scia del Pareti, in chiave “modernista”22, oppure anche ipotizzando che sia-no le caratteristiche geomorfologiche di alcuni siti sufficienti a sostanziare la fonte storica23.

17 Mazzarino 1947, pp. 317-319; Dunbabin 1948, pp. 20-22 è del tutto scettico nei confronti di Tucidide, in specie a causa della mancanza di documentazione archeologica di supporto; Bérard 1963, p. 80 è, invece, possibilista, se non favorevole. A proposito della documentazione epigrafica fenicia, e in particolare delle due iscrizioni da Nora, utilizzate di frequente come prova di una prio-rità cronologica fenicia occorre osservare che esse sono databili tra l’ultimo quarto del IX secolo e la seconda metà dell’VIII secolo a.C.: M.G. Amadasi Guzzo - P.G. Guzzo 1986, pp. 59-71: in particolare p. 66, e quindi non particolarmente risolutive della questione. Da ultimo, a favore di una priorità cronologica fenicia: A.J. Nijboer, ‘The Iron Age in the Mediterranean: a chronological mess or “trade before flag”’, Part II, in Ancient West and East 4, 2, 2005, pp. 255-277 (in specie p. 271); H.G. Niemeyer, ‘The Phoenicians in the Mediterranean. Between expansion and colo-nisation: a non-greek model of overseas settlement and presence’, in Tsetskhladze 2006, pp. 143-168.

18 F. Cordano, ‘A project of Greek Colonisation from Sicily to

Etruria?’, in ASAtene 84, 1, 2006 (2008), pp. 465-480.19 Bunnens 1979, pp. 83-90.20 Così anche Mazzarino 1947, p. 348 nota 318.21 G.M. Bacci, ‘Zancle: un aggiornamento’, in Euboica.

L’Eubea e la presenza euboica in Calcidica e in Occidente, Atti convegno Napoli 1996, a cura di M. Bats - B. d’Agostino, Napoli 1998, pp. 387-392: in particolare pp. 387-388 fig. 2 a-f.

22 S. Moscati, ‘Fenici e Cartaginesi in Sicilia’, in Kokalos 18-19, 1972-1973, pp. 23-31, spec. pp. 23-25; da leggersi con le avvertenze avanzate da E. Lepore, ‘Otto anni di studi di storia sulla Sicilia antica’ e conclusioni del Congresso, ibid. pp. 120-145, spec. pp. 131-133. Cfr. anche V. Tusa, ‘La problematica archeologica relativa alla penetrazione fenicio-punica e alla storia della civiltà punica in Sicilia’, in Storia della Sicilia 1, Napoli 1979, pp. 145-161, spec. pp. 146-147.

23 S.F. Bondì, ‘Penetrazione fenicio-punica e storia della civiltà punica in Sicilia. La problematica storica’, in Storia della Sicilia 1, Napoli 1979, pp. 163-225, spec. pp. 165-169.

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Tucidide e le isole, tra Fenici e Greci 25

Lo sviluppo e l’approfondimento delle ricerche archeologiche, è da supporre, porteranno nuove evidenze di confronto utili, più che alla lettura di quel testo, alla sua interpretazione.

Anche perché, e qui siamo in materia non conte-stata, è ben noto che i Greci di epoca storica, nella loro frequentazione dell’Occidente mediterraneo, si stanziano su isole: basterà ricordare Ischia ed Ampurias (cfr. Appendice 1).

Un’isola, inoltre, è utilizzata come “avamposto” per un successivo stanziamento su terraferma: così accade per l’isola di Platea, dalla quale i Terei si spostarono ad Aziris e, infine, a Cirene24.

Talché, a pari condizioni di tecnologia di naviga-zione ed in analoghe situazioni in rapporto con le popolazioni indigene di terraferma, sarà verisimile (non sempre anche documentato) che Greci e Fenici abbiano adottato uno stesso modello di compor-tamento. Privilegiando e sfruttando la maggiore sicurezza che un’isola, o un’isolata estremità di pro-montorio, offriva a chi era straniero in terra altrui25.

Non sarà quindi un caso che la maggior parte nota dei toponimi con suffisso –oussa siano propri di isole26. Si è dibattuto sulla pertinenza linguistica di tale suffisso, all’interno delle parlate greco-orientali: né sembra che gli studiosi abbiano raggiunto un con-senso fra loro, o che qualcuno di essi abbia proposto un motivo convincente per la propria ipotesi di attri-buzione27. Così che si ritiene più giustificato ritenere esser stati quei toponimi attribuiti da navigatori greci, quasi sicuramente di origine greco-orientale, anche per il rimando a denominazioni di siti, altrettanto terminanti in –oussa, sia del litorale di Asia Minore sia di isole poste nel settore orientale del mare Egeo.

Circa il livello cronologico nel quale proporre

di situare tali definizioni toponomastiche sembra legittimo ritenerlo proprio dell’alto arcaismo, quan-do si svolsero le prime navigazioni di epoca storica rivolte alla conoscenza del settore occidentale del Mediterraneo28. La proposta si motiva non tanto per il toponimo di Pitecusa, quanto piuttosto per essere stata tutta una serie di tali toponimi sostituita da altri, diversamente composti, da ritenersi, con ogni evidenza, cronologicamente più recenti29 (cfr. appendice 2).

La definizione in cronologia assoluta di tale fase della navigazione alto-arcaica nel settore occiden-tale del Mediterraneo non sembra né attualmente precisabile né tale da considerarsi univoca. La prima difficoltà è diretta conseguenza della lacunosità della documentazione archeologica e, parallelamente, di quella letteraria antica. La seconda si riferisce alla contemporanea presenza in quei mari di naviganti sia “fenici” sia greci: così da farci ricostruire una fluida situazione di comuni presenze, forse non sempre conflittuali30, come si può anche ricavare dal topo-nimo Oinussa che distinse la “fenicia” Cartagine31.

Si può anche supporre che si siano verificate, da parte di più navigatori diversi fra loro, ripetute “scoperte” di uno stesso luogo, a causa di ridotta circolazione di conoscenza fra i due circuiti oppu-re anche per motivi di auto-propaganda32, come sembra potersi interpretare il vanto di Kolaios samio per essere giunto per primo all’emporio iberico “akeraton” di re Argantonio33. Ne deriva, quindi, che la definizione di ambiti rispettiva-mente considerati pertinenti, in maniera se non esclusiva almeno predominante, ad insediamenti, o a commerci, “fenici” ed altri a Greci si è andata stabilizzando e definendo nel corso del tempo, così

24 Hdt. 4, 156-158: Cordano 1986, pp. 24-25.25 A.J. Graham, Collected Papers on Greek Colonization, Leiden

2001, p. 19: “The choice of an island seems to suggest they (scil.: i Greci) had security in mind”; Niemeyer 2006, p. 156.

26 Cfr. Appendice 2.27 Cfr. da ultimo P. Rouillard 1991, p. 96 con bibl. prec.28 G. Pugliese Carratelli, Greci d’Asia in Occidente tra il

secolo VII e il VI (già in: PdP 21, 1966, pp. 155-165), in Id., Scritti sul mondo antico, Napoli 1976, pp. 312-313 riferisce il suffisso alla lingua asiano-anatolica entro la fine del II millennio a.C., per il tramite dell’attività marinara dei Rodii micenei: ibid., pp. 252-253.

29 Cfr. Cordano 2006 (2008), p. 466: a proposito di Siracusa, con riferimento quindi ad un periodo non di poco anteriore all’ultima generazione dell’VIII secolo.

30 A. Mele, Il commercio greco arcaico: prexis ed emporie, Naples 1979, in specie pp. 87-91.

31 Cfr. Jacob 1985, p. 265.32 Cfr. Rouillard 1991, p. 92 che riporta le diverse fonti gre-

che che attribuiscono la “scoperta” dell’Iberia ai Samii (Hdt. 4, 152), ai Focei (Hdt. 1, 163), ai Rodii (Strab. 14, 2, 10), ai Fenici (Strab. 3, 13-14) rispettivamente.

33 Pugliese Carratelli 1976, p. 311 intende akeraton come «immune da una mistione di indigeni e stranieri stabilmente residenti». La “mistione”, tuttavia, può essere intesa anche fra stranieri di diversa etnia fra loro; oppure al semplice fatto del primo arrivo di stranieri che si “mescolano”, sia pure tempora-neamente, con gli Indigeni; oppure ancora al primo arrivo di navigatori in un sito a loro finora ignoto: così Rouillard 1991, p. 92. Alla priorità, almeno fra i Greci, di Kolaios nel giungere a Tartesso sembra contrario Paus. 6, 19, 1 ss. quando riporta del tiranno dei Sicioni Myron, vincitore con il carro all’Olim-piade trentatreesima (= 648 a.C.), che dedicò bronzo tartessio: Pugliese Carratelli, ibid., data al 638 a.C. il viaggio di Kolaios.

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Pier Giovanni Guzzo26

come anche si può ricavare da quanto Tucidide ricostruisce nel più volte già ricordato passo a proposito della Sicilia34.

Anche la toponimia sembra apporti un contri-buto a questa ipotesi interpretativa: grazie alla già ricordata presenza di una serie di toponimi con

suffisso –oussa, indiscutibilmente ellenici, sulle coste meridionali dell’Iberia, ed anche al di là delle Colonne d’Ercole si deduce che Greci frequentasse-ro quelle estreme regioni occidentali. E, per quanto riguarda la presenza, economicamente rilevante e non occasionale, di “Fenici” in ambito ritenuto di

34 Thuc. 6, 2, 6; cfr. anche Guzzo Amadasi-Guzzo 1986. Dion 1977, p. 136 indica la fine del VII secolo come inizio del divieto di navigazione ai Greci da parte dei Cartaginesi nelle aree ritenute di propria pertinenza: cfr. anche Mazza-rino 1947, passim, per analisi storica di tale periodo crono-

logico. R. Fletcher, ‘Sidonians, Tyrians and Greeks in the Mediterranean: the evidence from egyptianising amulets’, in Ancient West and East 3, 1, 2004, pp. 51-77 propone una cooperazione greco-fenicia per il commercio di amuleti fino al VII secolo.

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Tucidide e le isole, tra Fenici e Greci 27

pertinenza ellenica l’attestata denominazione di Megalia35 dell’isoletta, corrispondente all’attuale Castel dell’Ovo a Napoli, nota ai Greci come Me-garide, può essere ascritto ad una serie di toponimi, tipo Macalla, derivanti dalla radice semitico-occi-

dentale mkr-, con significato di “mercato”, attestata anche, e non è forse un caso sulla costa ionica tra Sibari e Crotone36 e su quella meridionale della Sicilia37: lì dove i fondatori di Gela furono messi a mal partito da un pirata fenicio38, così come, più

35 Stat., Silvae 2, 2, 80; F. Cassola, ‘Problemi di storia ne-apolitana’, in ‘Atti Taranto’ 1985, pp. 37-81: pp. 40-45. RE XV, 1 (1931) c. 142 lo ritiene di origine greca, ma avverte che la quantità pone difficoltà a tale assegnazione.

36 Cfr. Guzzo c. s.37 M. Gras, ‘La Sicile, l’Afrique et les e\mpoéria’, in Damarato.

Studi di antichità offerti a Paola Pelagatti, a cura di I. Berlingò et alii, Milano 2000, pp. 130-134: p. 131.

38 Berard 1963, p. 79 e cfr. Dunbabin 1948, p. 327 e nota 3 il quale, pur molto scettico sulla presenza fenicia in Sicilia, non può non ricordare appunto Makara (cfr. nota precedente).

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Pier Giovanni Guzzo28

recentemente, Dionisio da Focea (Hdt. 6, 11-12; 6, 17) correva le acque iberiche a danno delle navi e dei commerci fenici.

Agli accenni fin qui proposti sulla progressiva definizione di ambiti di pertinenza rispettivamente greca e “fenicia” e sulla comunque continua per-meabilità tra di essi oltre che alla comunanza del “modello” insulare di stanziamento, si possono aggiungere due ulteriori considerazioni.

La prima si riferisce alla documentata esistenza di colonie sicuramente di origine greca su isole. In particolare è stata di recente analizzata la fon-dazione rodia di Emporion, posta originariamente su un’isola non distante dalla terraferma, in epoca pienamente storica39. Ciò si assume a dimostrazio-ne della preferenza, per quanto ovvia, a stanziarsi su un’isola in regioni lontane dai centri di prove-nienza dei nuovi venuti ed in territorio infido, o ancora non ben conosciuto, gli abitanti del quale non siano stati ancora convinti del tornaconto di un commercio con stranieri tanto da richiedere, o da imporre, una separazione fisica tra il proprio territorio e la sede degli stranieri40.

Assimilabili, sia pure a minore scala dimensio-nale, sono le situazioni note di documentazioni prevalentemente archeologiche pertinenti a cul-tura “fenicia”, dall’isoletta di Rachgoun, posta alla foce del fiume Tafna nel Mediterraneo, a quella di Mogador, sulla costa atlantica del Marocco41. E, ancora, le colonie greche nel mare Adriatico su isole che i rispettivi toponimi con suffisso –oussa sembrerebbero indicare essere state conosciute da Greci in epoca precedente, se è nel reale l’ipotesi sopra proposta, a quella nota per i rispettivi stanzia-menti; oppure, ancora, l’avamposto tereo sull’isola di Platea, al quale si è più sopra accennato.

La seconda considerazione è, invece, di natura letteraria. Tramanda Erodoto42 che «nel gran lago Tritonide… c’è un’isola che ha nome Fla. Si dice che quest’isola dovessero colonizzarla gli Spartani in seguito ad un oracolo». Ma lo stesso Erodoto riporta

una diversa versione: che vede Giasone giungere, a causa del vento di borea, dal capo Malea al lago Tritonide prima di intraprendere la sua navigazione alla ricerca del vello d’oro. Dall’attuale capo Bon a tutto l’arco del golfo di Gabes, alla estremità orientale del quale si trova il “lago Tritonide”, si estendeva la serie degli emporia, ricordati fin da epoca arcaica43. Le notizie riportate da Erodoto si possono considerare come una duplicazione, in ottica greca, della prima occupazione “fenicia” di Taso: che viene fatta risalire ad epoca mitica44.

E, se non a questo stesso livello, ugualmente è di alta risalenza cronologica il quadro che si ricava, a proposito del nostro argomento, sia dall’Iliade sia dall’Odissea: le isole egee, ma anche la Sicilia, sono luoghi di mercato nei quali si incontrano Greci e “Fenici”45.

Per tutto quanto sopra, sembrerebbe potersi le-gittimamente dedurre i tratti fondamentali di un “modello” che Tucidide ha applicato alla propria ri-costruzione delle antichissime vicende della Sicilia. “Modello” composto da un intreccio di elementi reali, come i sicuri, e di ampia escursione crono-logica, stanziamenti sia greci sia “fenici” su isole, e di altri mitici o epici come quelli della presenza di “Fenici” in Sicilia secondo Omero e della maggiore antichità delle navigazioni “piratesche” fenicie46. E, forse, da un parallelismo tra vicende colonizzatrici proprio in Sicilia: sulla base di quanto egli narra di «Archia, degli Eraclidi, [che] giunto da Corinto fondò Siracusa, dopo aver scacciato i Siculi dall’isola che, ora non più cinta dal mare, racchiude la città interna»47. Il sopraggiungere di nuovi venuti, i Gre-ci, comporta l’espulsione dei precedenti insediati, fossero questi indigeni oppure anch’essi al loro tempo sopravvenuti, i “Fenici”.

Nel confronto tra una situazione precedente, tra come può essere descritto un passato del qua-le non sempre l’informazione è sicura48 e quella contemporanea, della quale Tucidide si sforza di presentare la versione che a lui appare quella meglio

39 Rouillard 1991, pp. 244-281 con bibl. prec.; carta 15 a pp. 278-279; A.J. Dominguez, ‘Greeks in the Iberian Peninsula’, in Tsetskhladze 2006, pp. 429-505: p. 444 fig. 8.

40 Rouillard 1991, pp. 246-247; Mele 1979, p. 73 ritiene invece che la localizzazione insulare sia stata imposta dagli Iberi.

41 M. Tarradell, Historia de Marruecos. Marruecos punico, Tetuan 1960, pp. 55-57 e 185-195 rispettivamente.

42 Hdt., 4, 178-179: cfr. Gras 2000, p. 132.43 Gras 2000, p. 132 con bibl. prec.44 Difende la realtà della presenza fenicia a Taso Graham

2001, pp. 166-226.45 Mele 1979, pp. 72, 87-88 con fonti.46 Thuc. 1, 8, 1. Mazzarino 1947, pp. 121 e 270 pone non

più in là della fine del VII secolo il termine cronologico più recente della diffusa presenza fenicia nell’Egeo.

47 Thuc. 6, 3, 2.48 Thuc. 1, 20-21. Nel caso della Sicilia Tucidide non dispo-

neva di informazioni derivanti da “scavi archeologici”, come invece aveva per Delo (cfr. infra nota 54).

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Tucidide e le isole, tra Fenici e Greci 29

documentata49, lo storico non può non ricorrere ad argomenti, non documentati ma necessari, per riempire quelle lacune che risaltano come tali al suo scrupolo di completezza.

Così è esplicita la dichiarazione “di metodo” sul come presenterà, ricostruendoli, i discorsi pronun-ciati durante la guerra50: «io mi terrò il più possibile vicino al pensiero generale»51. Tucidide, quindi, si costruisce un “modello”, economico in quanto sia adattabile a diverse situazioni sia razionale52 (= il “pensiero generale”), che, per quanto composto da elementi che ritiene accertati, ne accoglie di necessità tuttavia altri non documentati, anche se «il più possibile vicini al pensiero generale»: ne deriva, necessariamente, una parziale soggettività53.

E, per la Sicilia, è da supporre che la ricostruzione presentata nei capitoli della a\rcaiologòa di madre-patria a proposito delle vicende insulari nell’Egeo gli sia sembrata costituisse il “modello” più congruo ed accertato. Tanto più che la documentazione dell’al-ternarsi di presenze anelleniche nelle isole di quel mare gli appare solida ed incontrovertibile, perché la conoscenza, materiale e certificata, ad essa relativa si è appalesata in fase cronologica contemporanea alla sua personale esperienza54. Le vicende passate della Sicilia, invece, sono costituite da un susseguirsi di popoli antichissimi ed anche mitici, come i Ciclopi e i Lestrigoni55, fino a giungere ai Siculi e ai Sicani, per i quali non ricorre ad eponimi mitici56. Che questi popoli siano documentati ancora nella sua contemporaneità57 e che si siano avute progressive sostituzioni di nuovi venuti a precedenti abitatori (v. supra) sono elementi, riteniamo, che Tucidide ha utilizzato per legittimare la ricostruzione offerta degli, invece, incerti periodi più antichi: proprio come la prova materiale delle sepolture di Rheneia ha convalidato la sua più antica “storia” (ricostruita!) dell’Egeo.

La soggettività di Tucidide nel proporre la sua versione della storia antica sembra essere compo-sta, per quanto in particolare riguarda il nostro

argomento, dalla risalenza cronologica (e quindi storica) che egli attribuisce alle navigazioni ed alle flotte, come iniziali strumenti di commercio, di conquista, di progressione nell’incivilimento58: da qui, anche, la sottolineatura che egli compie del ruolo da attribuire alle isole, pur se lontane dall’Egeo, come utili, se non necessari, punti di appoggio alle navigazioni stesse. Ad un Ateniese che riflette sul tramonto dell’“impero” pericleo59 si può perdonare sia la mancanza di aver svolto, o riportato, ricerche archeologiche nei diversi siti siciliani per documentare la propria ricostruzione del passato, sia una tale preferenza verso quell’Egeo, ponte da sempre attraversato tra Grecia ed Asia nei due sensi, che batte contro le rive di Atene.

Appendice 1

Stanziamenti greci su isole “piccole”

G.R. Tsetskhladze, ‘Revisiting ancient Greek Colonisation’, in Tsetskhladze 2006, pp. xxxiii-lxxxiii: pp. lxvii-lxxiii, con aggiunte.

Alalia: colonia focea/massaliota.

Berezan: colonia di Mileto.

Celadussae60.

Elaphussa61.

Emporion: colonia di Focea.

Fla: progettata colonia spartana.

Issa: colonia di Siracusa.

Kerkyra: colonia di Eretria, poi di Corinto.

Kerkyra Melaina: colonia di Cnido.

Leros: colonia di Mileto.

Leuka: colonia di Corinto.

Lipara: colonia di Cnido.

49 Thuc. 1, 22.50 Thuc. 1, 22, 1.51 J. de Romilly, L’invention de l’histoire politique chez

Thucydide, Paris 2005, p. 35.52 Romilly 1956, p. 242; Romilly 2005, p. 36: «un schéma

clair, commandant la plus grande série possible d’événements».53 Romilly 1953, pp. LVI-LVII; Romilly 1956, p. 260; pp.

296-298.54 Thuc. 1, 8, 1: “purificazione” di Rheneia nel 426 a.C.55 R. Sammartano, Origines gentium Siciliane. Ellanico, An-

tioco, Tucidide, Roma 1998, pp. 216-224.56 Sammartano 1998, p. 211; p. 235.57 Thuc. 6, 2, 4-5.58 Cfr. Romilly 1953, p. LVII; Romilly 2005, p. 36.59 J. de Romilly, Thucydide et l’impérialisme athénien. La pensée

de l’historien et la genèse de l’œuvre, Paris 1947; Romilly 1956, pp. 261-264; pp. 276-278.

60 Braccesi 1979, passim le ritiene colonie di origine greca.61 Cfr. nota precedente.

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Pier Giovanni Guzzo30

Melitussa (cfr. appendice 2, s. v.)62.

Phanagoria: colonia di Teos.

Pharos: colonia di Paros e Siracusa.

Pithecusa: colonia di Calcide ed Eretria.

Platea: avamposto della colonia terea di Cirene.

Prokonnesos: colonia di Mileto.

Samotracia: colonia di Samo.

Siracusa (Ortigia): colonia di Corinto.

Thasos: colonia di Paros.

Appendice 2

Toponimi con suffisso –oussa tramandati dalle fonti letterarie antiche

Aethousa (isola di Linosa63): Plin., N.H. 3, 92.

Aigoussa (isole Egadi: Favignana): Steph. Byz., s. v. ‘Aigoussa’.Garcia Bellido 1940, p. 119; Dion 1977, p. 27.

Aigussai (isole Egadi): Polyb. 1, 44, 2.Garcia Bellido 1940, p. 119; Pugliese Carratelli 1976, p. 253 nota 17; Dion 1977, p. 27; Pugliese Carratelli 1983, p. 89.

Anthemoussa (antico nome di Samo): Strab. 14, 1, 15; Steph. Byz., s. v. ‘Samos’.

Arginussai (isole Ayanos, a sud di Lesbo): Thuc. 8, 101; Strab. 13, 1, 68.Besnier 1914, p. 76; Garcia Bellido 1940, p. 119 nota 2; Pugliese Carratelli 1983, p. 92.

Brykous (città nell’isola di Carpato): ps. Scylax 99.Besnier 1914, p. 148; Pugliese Carratelli 1976, p. 253.

Celadussae (isole di Kornat sulla costa orientale adriatica): Plin., N.H. 3, 152.Beaumont 1936, p. 171 nota 94; Braccesi 1979, p. 67; D’Ercole 2002, pp. 12, 19

Donussa 1 (sulla costa sud del golfo di Corinto, tra Egira e Pellene): Paus. 7, 26, 13.Pugliese Carratelli 1983, p. 91.

Donussa 2 (Denusa, isola ad est di Nasso): Verg., Aen. 3, 125.Besnier 1914, pp. 274-275; Pugliese Carratelli 1983, p. 92.

Drymoussa (isola al largo di Clazomene): Thuc. 8, 31, 3.Garcia Bellido 1940, p. 119 nota 2; Pugliese Carratelli 1983, p. 92.

Dryousa (antico nome dell’isola di Samo): Steph. Byz., s. v. ‘Samos’.

Elaious (Eleunte, città nel Chersoneso tracio): Hdt. 9, 116.Besnier 1914, pp. 286-287.

Elaiussa 1, successivamente Sebaste, (isoletta, odierna Ayas, sulla costa della Cilicia): Strab. 12, 1, 4; 12, 2, 7.Besnier 1914, p. 287.

Elaiussa 2 (isoletta davanti a capo Astipaleo): Strab. 9, 1, 21.

Elaiussa 3 (isoletta nel golfo Saronico, tra Egina e Salamina): Plin., N.H. 4, 57.

Elaiussa 4 (isoletta di fronte a Rodi): Strab. 14, 2, 2.

Elaiussa 5 (isola all’imbocco del golfo Eleatico): Strab. 13, 1, 6-7.

Elaphussa (isola di Brac sulla costa orientale adriatica = Skrip): Steph. Byz. s. v. ‘Brettia’.Beaumont 1936, p. 171 nota 96; Braccesi 1979, p. 67; D’Ercole 2002, pp. 12, 19.

Eranusa (isola di fronte a capo Lacinio di Crotone): Plin., N.H. 3, 95-98.Vandermersch 1994, pp. 241-267: pp. 257-258.

Erikussa 1 (isole Eolie: Alicudi o Panarea): Strab. 6, 2, 11; Steph. Byz. s. v. ‘Erikousa’.Garcia Bellido 1940, p. 119; Pugliese Carratelli 1976, p. 253 nota 17; Dion 1977, p. 27; Pugliese Carratelli 1983, p. 89.

Erikussa 2 (isola a nord di Corfù): Plin., N.H. 4, 53; Ptol. 3, 14, 12.Pugliese Carratelli 1976, p. 253 nota 17.

Gonussa (nell’entroterra di Sicione64): Paus. 2, 4, 4; 5, 18, 7.Pugliese Carratelli 1983, p. 91.

Haliussa (isola all’estremità sud-est del golfo di Nauplion): Paus. 2, 34, 8.Pugliese Carratelli 1976, p. 253 nota 17; Pugliese Carratelli 1983, p. 91.

Ichnussa (Sardegna65): Plin., N.H. 7, 85; Steph. Byz., s. v. ‘Sardo’.Carpenter 1925, p. 17; Garcia Bellido 1940, p. 118; Pugliese Carratelli 1976, p. 253; Dion 1977, p. 27; Pugliese Carratelli 1983, p. 90.

Kalathoussa 1 (città alla foce del Guadiana, ad ovest di Huelva): Steph. Byz. s. v. ‘Kalathe’: presso le colonne d’Ercole, da Ecateo; Ephor., in Steph. Byz., la chiama Kalathoussa.Garcia Bellido 1940, p. 118; Pugliese Carratelli 1983, p. 90; Jacob 1985, p. 263.

Kalathoussa 2 (città del mar Nero): Steph. Byz., s. v. ‘Kalathe’.

Calathusa (isoletta del Chersoneso tracio): Plin., N.H. 4, 74.

Koloussa (città sulla costa della Paflagonia): ps. Skylax 90.

62 Cfr. nota precedente.63 Anche una figlia di Poseidone porta questo nome: Paus. 9,

20, 1.64 Il. 2, 573 ricorda una città di nome Gonoessa.

65 L. Breglia Pulci Doria, ‘La Sardegna arcaica tra tradizioni euboiche ed attiche’, in Nouvelle contribution à l’étude de la société et de la colonisation eubéennes, Naples 1981, pp. 61-95: pp. 65-66; 73.

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Tucidide e le isole, tra Fenici e Greci 31

M.H. Hansen - T.H. Nielsen (edd.), An Inventory of Archaic and Classical Poleis, Oxford 2004, p. 959, nota 721.

Kordylussa (Sporadi merid., isola tra Stampalia e Nisiros): Plin., N.H. 4, 133.Garcia Bellido 1940, p. 119, nota 2; Pugliese Carratelli 1976, p. 253; Pugliese Carratelli 1983, p. 92.

Kotynussa (isola presso El Porto de Santa Maria, a nord di Cadice66) Schulten 1955-1957, p. 264; Pugliese Carratelli 1983, p. 90.

Kromiusa (isola di Maiorca): Steph. Byz. s. v. ‘Kromiusa’, da Ecateo.Carpenter 1925, p. 17; Garcia Bellido 1940, p. 118; Schulten 1955-1957, p. 252; Pugliese Carratelli 1983, p. 90; Jacob 1985, p. 249: di incerta identificazione.

Lagousa (isoletta delle Cicladi, tra Folegandro e Sikinos): Strab. 10, 484.

Lagoussai (isolette nel bacino orientale dell’Egeo, di fronte alla Troade): Plin., N.H. 5, 138.Garcia Bellido 1940, p. 119 nota 2.

Lagusa (isola di fronte alla foce del fiume Glaukos, sulla costa della Caria): Plin., N.H. 5, 131.

Lopadoussa (isola di Lampedusa): Strab. 17, 3, 16.Garcia Bellido 1940, p. 119; Pugliese Carratelli 1976, p. 253 nota 17; Dion 1977, p. 27.

Marathoussa (isola al largo di Clazomene): Thuc. 8, 31, 3.

Marathusa (città dell’isola di Creta): Mela 2, 7.I. Olshausen, ‘Ueber phoenicische Ortsnamen ausserhalb des semitischen Sprachgebiets’, in RheinMus n. F. 8, 1853, pp. 321-340: p. 330.

Melitussa (incerta località della costa orientale adriatica67): Polyb. 13, 10, 9; Steph. Byz. s. vv. ‘Brettia’: Melitussa.Beaumont 1936, p. 171 nota 95; Braccesi 1979, p. 67; D’Ercole 2002, pp. 12, 19.

Meloessa (isola di fronte a capo Lacinio di Crotone): Plin., N.H. 3, 95-98.Vandermersch 1994, pp. 241-267: pp. 257-258.

Melousa (isola di Minorca): Steph. Byz. s. v. ‘Melousa’, da Ecateo.Carpenter 1925, p. 17; Garcia Bellido 1940, p. 119; Schulten 1955-1957, p. 252; Pugliese Carratelli 1983, p. 90.

Nagidousa (isola tra la Cilicia e la Pamfilia): Steph. Byz. s. v. ‘Nagidos’, da Ecateo.Besnier 1914, p. 510.

Oinussa 1 (Cartagine): Steph. Byz., s. v. ‘Karchedon’.Dion 1977, p. 27; Pugliese Carratelli 1983, p. 90; Jacob 1985, p. 265.

Oinussa 2 (terraferma presso Cartagena): Polyaen. 8, 16, 6; Liv. 21, 22, 5; 22, 20, 4 (= Onusa).Garcia Bellido 1940, p. 118; Pugliese Carratelli 1983, p. 90; Jacob 1985, p. 265.

Oinussai 1 (isolette a nord-est di Chio68): Hdt. 1, 165, 1; Thuc. 5, 55; Steph. Byz. s. v. ‘Oinoussai’, da Ecateo.Garcia Bellido 1940, p. 119 nota 2; Pugliese Carratelli 1983, p. 92.

Oinussai 2 (isolette Sapienza e Schiza a sud del promontorio della Messenia, a sud di Pilo): Plin., N.H. 4, 12, 55; Paus. 4, 34, 12.Pugliese Carratelli 1976, p. 253 nota 17; Pugliese Carratelli 1983, p. 91.

Oloessa (nome mitico di Rodi): Plin., N.H. 5, 36, 132.Pugliese Carratelli 1976, p. 253 nota 17.

Ophiussa 1 (nome mitico di Rodi): Strab. 14, 2, 7; Plin., N.H. 5, 36, 132-133; Steph. Byz., s. v. ‘Rodos’.Pugliese Carratelli 1976, p. 253 nota 17; Dion 1977, p. 27.

Ophiussa 2 (alla foce del fiume Tyras, a nord del delta del Da-nubio): Strab. 7, 3, 16; Steph. Byz., s. v. ‘Tyras’.Pugliese Carratelli 1983, p. 9269.

Ophiussa 3 (isola di Formentera): Strab. 3, 5, 1.Besnier 1914, p. 549; Carpenter 1925, p. 17; Garcia Bellido 1940, p. 118; Schulten 1955-1957, p. 250; Dion 1977, p. 27 nota 22; Pugliese Carratelli 1983, p. 90.

Ophiussa 4 (la costa del golfo di Guascogna): Avien., Ora 148.Festus Avienus, Ora maritima, ed. A. Berthelot, Paris 1934, p. 65; Garcia Bellido 1940, p. 118.

Ophiussa 5 (isola di Kythnos = Thermia nelle Cicladi): Steph. Byz., s. v. ‘Kythnos’.

Ophiussa 6 (isola nei pressi di Cizico): Steph. Byz., s. v. ‘Besbikos’.Besnier 1914, p. 549.

Ophiussa 7 (altro nome dell’isola di Tenos): Steph. Byz., s. v. ‘Tenos’.

Ophiussa 8 (l’intera Libia70): Steph. Byz., s. v. ‘Libye’.

Ophiusses, Akra (Portogallo, capo Roca, a nord della foce del Tago): Avien., Ora 172.Carpenter 1925, p. 33; Garcia Bellido 1940, p. 118; Schulten 1955-1957, p. 240; Pugliese Carratelli 1983, p. 90.

Phakoussa (villaggio sul ramo più orientale del delta del Nilo): Steph. Byz. s. v. ‘Phakoussa’, da Strab. 16, 1, 26Besnier 1914, p. 591.

Phakussai (isola tra Nasso e Amorgo, a nord-est di Schoinussa): Steph. Byz. s. v. ‘Phakoussa’, da Ecateo, che le chiama Phakussai e Phakussais. Pugliese Carratelli 1976, p. 253 nota 17; Pugliese Carratelli 1983, p. 92.

66 Ma cfr. Plin., N.H. 4, 22, 120: il testo dice “Potimusa”; la correzione è accettata dai moderni: cfr. Bunnens 1979, p. 209.

67 Cfr. Melite = isola di Mljet-Meleda: Beaumont 1936, p. 188; Braccesi 1971, p. 81.

68 Mele 1979, p. 98 nota 57: sono utilizzate dai Focei come empori; Gras 1995, p. 140.

69 Identificate con le isolette di Erdek nel mar di Marmara.70 N. Berti, ‘Scrittori greci e latini di “Libykà”: la conoscenza

dell’Africa settentrionale dal V al I secolo a.C.’, in AA. VV., Geografia e storiografia nel mondo classico, a cura di M. Sordi, Milano 1988, pp. 145-165: p. 154 considera la denominazione come epiteto poetico.

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Pier Giovanni Guzzo32

Pharmakussa (isola tra Lero e Patmo, nel golfo di Iaso): Steph. Byz., s. v. ‘Pharmakoussai’.Garcia Bellido 1940, p. 119 nota 2; Pugliese Carratelli 1976, p. 253; Pugliese Carratelli 1983, p. 92.

Pharmakoussai (due isolette nei pressi di Salamina, nella mag-giore era la tomba di Circe): Strab. 9, 1, 13; Steph. Byz., s. v. ‘Pharmakoussai’.

Phaseloussai (due isolotti libici, vicini alla foce del fiume Sirios): Steph. Byz. s. v. ‘Phaseloussai’, da Ecateo.Garcia Bellido 1948, p. 71.

Phoinikous 1 (città sulla costa merid. di Creta, nei pressi di Sfakià): Strab. 10, 4, 3; Steph. Byz., s. v. ‘Phoinikous’.Pugliese Carratelli 1983, p. 91.

Phoinikous 2 (isola della Licia): Steph. Byz., s. v. ‘Phoinikus’.

Phoinikous 3 (porto delle Messenia): Paus. 4, 34, 12.

Phoinikous 4 (porto nell’isola di Cythera): Xenophon., Hell. 4, 8, 7.

Phoinikous 5 (città nei pressi di Erythrai): Thuc. 8, 34.

Phoinikous 6 (città e fiume della Sicilia, presso capo Pachino) Ptol. 3, 4, 4; Steph. Byz., s. vv. ‘Akragantes’; ‘Phoinikous’.Bérard 1963, p. 81; E. Manni, Geografia fisica e politica della Sicilia antica, Roma 1981, p. 60.

Phoinikussa (isola di Lipari71)Besnier 1914, p. 603; Garcia Bellido 1940, p. 119; Pugliese Car-ratelli 1976, p. 253 nota 17; Dion 1977, p. 27; Pugliese Carratelli 1983, p. 89.

Phoinikoussai 1 (due isole nel golfo libico, presso Cartagine): Steph. Byz. s. v. ‘Phoinikoussai’, da Ecateo.

Phoinikoussai 2 (città fenicia in Siria): Steph. Byz. s. v. ‘Phoi-nikoussai’, da Ecateo.

Pitecoussai: Diod. Sic. 20, 58.M. Gras, ‘Pithécusses, de l’étymologie à l’histoire’, in AION ArchStAnt n. s. 1, 1994, pp. 127-131: p. 129 la identifica nella regione tunisina di Tabarka.

Pithekoussai (isola di Ischia): Strab. 1, 3, 19; Steph. Byz., s. v. ‘Arima’.Garcia Bellido 1940, p. 119; Pugliese Carratelli 1976, p. 253, nota 17; Dion 1977, p. 27; Pugliese Carratelli 1983, p. 89.

Pityousa (precedente nome della città di Phaselis): Strab. 11, 2, 14; Steph. Byz., s. v. ‘Phaselis’.

Pityus 1 (distretto nel territorio di Parium): Strab. 13, 1, 15.

Pityus 2 (o| Meégav: all’estremità nord-ovest del Mar Nero): Strab. 11, 2, 14.Besnier 1914, p. 612.

Pityussa 1 (nome dell’isola di Salamina): Strab. 9, 1, 9.

Pityussa 2 (nome dell’isola di Chio): Strab. 13, 1, 18.

Pityussa 3 (antico nome di Lampsaco): Strab. 13, 1, 1872.

Pityussa 4 (isola sulla costa della Cilicia, odierna Dana adasi): Stadiasmus maris magni 187.

Pityussa 5 (isola di Spèzzia, alla bocca del golfo di Nauplion): Plin., N.H. 4, 56; Paus. 2, 34, 8.Besnier 1914, p. 612; Pugliese Carratelli 1976, p. 253 nota 17; Pugliese Carratelli 1983, p. 91.

Pityussai (isole di Ibiza e Formentera, arcipelago delle Pitiuse): Diod. Sic. 5, 16; Strab. 3, 5, 1; Plin., N.H. 3 [76]; Avien., Ora 470.Besnier 1914, p. 612; Carpenter 1925, p. 17; Garcia Bellido 1940, p. 118; Schulten 1955-1957, p. 256; Dion 1977, p. 27; Pugliese Carratelli 1983, p. 90.

Pityusses, Akra (a sud-ovest di Malaga, capo Sacratif oppure capo Sabinal): Avien., Ora 435.Garcia Bellido 1940, p. 118; Schulten 1955-1957, p. 234; Pu-gliese Carratelli 1983, p. 90.

Poieessa 1 (nella parte sud dell’isola di Keos = Zea): Strab. 10, 486; Plin., N.H. 4, 12, 62; Steph. Byz., s. v. ‘Poieessa’.Pugliese Carratelli 1983, p. 91.

Poieessa 2 (antico nome dell’isola di Rodi): Plin., N.H. 5, 36, 132.

Polypodousa (isola di fronte a Cnido): Steph. Byz., s. v. ‘Po-lypodousa’.Garcia Bellido 1940, p. 119, nota 2.

Rhodanousia (odierna Arles): ps. Scymn., 206 ss.; Steph. Byz., s. v. ‘Rhodanousia’.Morel 1966, p. 38673.

Rhodoussa v. Schinoussa.

Schinoussa (isola tra Nasso e Ios, a sud-ovest di Phakussa): Steph. Byz., s. v. ‘Schinoussa’.Pugliese Carratelli 1976, p. 253, nota 17; Pugliese Carratelli 1983, p. 92.

Seirenussai (isolette a sud di punta della Campanella): Strab. 1, 2, 13; Ptol. 5, 1, 69; Steph. Byz., s. v. ‘Seirenousai’.Besnier 1914, p. 707; Garcia Bellido 1940, p. 119; Pugliese Carratelli 1976, p. 253, nota 17; Pugliese Carratelli 1983, p. 89.

Seutlussa (Plin., N.H. 8, 43, 4) v. Teutlussa.

Sidoussa (città della Ionia presso Erythrai): Thuc. 8, 24, 2; Steph. Byz. s. v. ‘Sidoussa’, da Ecateo.

Syrakousai (Siracusa, oppure solo Ortigia?74): Steph. Byz. s. v. ‘Syrakousai’, da Ecateo.Besnier 1914, pp. 729-730; Garcia Bellido 1940, p. 119; Dion 1977, p. 27; Pugliese Carratelli 1983, p. 89.

71 Garcia Bellido 1940, p. 119 e Bérard 1963, p. 109 = Fili-cudi: Strab. 6, 2, 11; Plin., N.H. 3, 14, 7.

72 Oppure di Mileto: cfr. Steph. Byz. s. v. ‘Miletos’.73 P.J. Properzio, Rhodian colonization in Iberia: The colony

Rhode and the townlet Rhodos’, in Antipolis 1, 1975, pp. 82-96.

74 P. Poccetti, ‘Aspetti linguistici e toponomastici della storia marittima dell’Italia antica’, in La Magna Grecia e il mare. Studi di storia marittima, a cura di F. Prontera, Magna Grecia 10, Taranto 1996, pp. 37-73: p. 72, nota 194.

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Tucidide e le isole, tra Fenici e Greci 33

Skotoussa (città della Tessaglia): Strab. 9, 5, 20; Steph. Byz., s. v. ‘Skotoussa’.

Teichiussa (città sulla costa a sud di Mileto): Thuc. 8, 26, 3; 28, 1; Steph. Byz., s. v. ‘Teichioessa’. Garcia Bellido 1940, p. 119 nota 2; Pugliese Carratelli 1976, p. 253, nota 17; Pugliese Carratelli 1983, p. 92.

Teutlussa (oppure: Seutlussa, isola di Seskli, nel golfo a sud di Smirne): Thuc. 8, 42, 4; Steph. Byz., s. v. ‘Teutlussa’.Garcia Bellido 1940, p. 119, nota 2; Pugliese Carratelli 1976, p. 253; Pugliese Carratelli 1983, p. 9275.

Theganussa (isoletta ad est di Oinussai 2, a sud del promontorio Akritas): Plin., N.H., 4, 56; Paus. 4, 34, 12.Pugliese Carratelli 1976, p. 253 nota 17; Pugliese Carratelli 1983, p. 91.

Thelpousa (città dell’Arcadia): Paus. 8, 24, 4. Besnier 1914, p. 758.

Thyssanousa (città della costa sud della Caria nella penisola di Cnido): Plin., N.H. 5, 104; Mela 1, 84.Pugliese Carratelli 1976, p. 253.

Ydroessa (altro nome dell’isola di Tenos): Steph. Byz., s. v. ‘Tenos’.

Mi risultano tre ulteriori toponimi in –oussa nella letteratura moderna: per i quali non sono stato in grado di identificare la fonte antica:

Anthemoussa Garcia Bellido 1940, p. 119; Pugliese Carratelli 1976, p. 253, nota 17 la posizionano lungo la costa della Campania.

Aphidussa Pugliese Carratelli 1976, p. 253; Pugliese Carratelli 1983, p. 92: isola del mare Egeo ad ovest di Stampalia, forse una delle isole chiamate Ophiussa, q. v. supra.

Pelagosa Colonna 1998, p. 374, nota 55 riporta il toponimo italiano alla classe, per quanto non menzionato in L. Braccesi, ‘La più antica navigazione greca in Adriatico’, in StClassOr 18, 1969, pp. 129-147, spec. pp. 144-146 e in Braccesi 1979. Cfr. anche J.-P. Morel, ‘L’expansion phocéenne en Occident: dix années de recherches (1966-1975)’, in BCH 99, 1975, pp. 853-896, spec. pp. 857-858.

Abbreviazioni supplementari:

Amadasi Guzzo-Guzzo 1986

= M.G. Amadasi Guzzo - P.G. Guzzo, ‘Di Nora, di Eracle gaditano e della più antica navigazione fenicia’, in Los fenicios en la peninsula iberica, a cura di G. Del Olmo Lete - M.E. Aubet, Sabadell 1986, pp. 59-71.

Beaumont 1936 = R.L. Beaumont, ‘Greek Influence in the Adriatic Sea before the fourth Century B.C.’, in JHS 56, 1936, pp. 159-204.

Bérard 1963 = J. Bérard, La Magna Grecia. Storia delle colonie greche dell’Italia meridio-nale, Torino 1963.

Besnier 1914 = H. Besnier, Lexique de géographie ancienne, Paris 1914.

Braccesi 1979 = L. Braccesi, Grecità adriatica. Un capitolo della colonizzazione greca in Occidente, 2a ediz. Bologna 1979.

Bunnens 1979 = G. Bunnens, L’expansion phénicienne en Méditerranée. Essai d’interprétation fondé sur une analyse des traditions littéraires, Bruxelles-Rome 1979.

Carpenter 1925 = R. Carpenter, The Greeks in Spain, London 1925.

Colonna 1998 = G. Colonna, ‘Pelagosa, Diomede e le rotte dell’Adriatico’, in ArchClass 50, 1998, pp. 363-378.

Cordano 1986 = F. Cordano, Antiche fondazioni greche. Sicilia e Italia meridionale, Palermo 1986.

D’Ercole 2002 = M.C. D’Ercole, Importuosa Ita-liae litora. Paysage et échanges dans l’Adriatique méridionale archaïque, Naples 2002.

Dion 1977 = R. Dion, Aspects politiques de la géographie antique, Paris 1977.

Dunbabin 1948 = T.J. Dunbabin, The Western Greeks, Oxford 1948.

Garcia Bellido 1940 = A. Garcia y Bellido, ‘Las primeras navigaciones griegas a Iberia (s. IX-VIII a. de J.C.)’, in AEA 14, 1940, pp. 97-127.

Garcia Bellido 1948 = A. Garcia y Bellido, Hispania Graeca 1, Barcelona 1948, pp. 46-78.

Mazzarino 1947 = S. Mazzarino, Fra Oriente e Occi-dente. Ricerche di storia greca arcaica, Firenze 1947.

Morel 1966 = J.-P. Morel, ‘Les Phocéens en Occi-dent: certitudes et hypothèses’, in PdP 21, 1966, pp. 378-420.

Jacob 1985 = P. Jacob, ‘Notes sur la toponymie grecque de la côte méditerranéenne de l’Espagne’, in Ktema 10, 1985, pp. 247-271.

Pugliese Carratelli1967

= G. Pugliese Carratelli, ‘Il mondo mediterraneo e le origini di Napoli’, in Storia di Napoli 1, Napoli 1967, pp. 99-137.

75 Garcia Bellido 1940, p. 120 e nota 1 discute ed analizza toponimi con suffisso –ssos, a cominciare da Tartessos, con-siderandoli originari dall’Asia Minore nei pressi di Rodi: ma l’argomento non appare congruo.

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Pier Giovanni Guzzo34

Pugliese Carratelli 1976

= G. Pugliese Carratelli, Scritti sul mondo antico, Napoli 1976 (= ‘Per la storia delle relazioni micenee con l’Italia’, in PdP 13, 1958, pp. 205-220), pp. 243-261.

Pugliese Carratelli 1981

= G. Pugliese Carratelli, ‘Introduzio-ne’, in E. Atzeni et alii, Ichnussa. La Sardegna dalle origini all’età classica, Milano 1981, pp. xiii-xvi.

Pugliese Carratelli 1983

= G. Pugliese Carratelli, ‘Storia civile’, in AA. VV., Megale Hellas. Storia e civiltà della Magna Grecia, Milano 1983, pp. 5-102.

Romilly 1953 = J. de Romilly, Thucydide. La guerre du Péloponnese. Livre I, Paris 1953.

Romilly 1956 = J. de Romilly, Histoire et raison chez Thucydide, Paris 1956.

Romilly 2005 = J. de Romilly, L’invention de l’histoire politique chez Thucydide, Paris 2005.

Rouilllard 1991 = P. Rouilllard, Les Grecs et la pénin-sule ibérique du VIIIe au IVe siècle avant Jésus-Christ, Paris 1991.

Schulten 1955-1957 = A. Schulten, Iberische Landeskunde. Geographie des antiken Spanien 1-2, Strasbourg 1955-1957.

Tsetskhladze 2006 = G. Tsetskhladze (a cura di), Greek Colonisation. An Account of Greek Colonies and other Settlements overseas 1, Mnemosyne suppl. 193, Leiden-Boston 2006.

Vandermersch 1994 = C. Vandermersch, ‘Les îles de Cro-tone. Légende ou réalité de la navi-gation grecque sur le littoral ionique du Bruttium?’, in PdP 49, 1994, pp. 241-267.

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1. La plastica protogeometrica greca e la statuetta di Ialysos

Nel 1969 il rinvenimento del celebre centauro fittile, datato attorno al 900 a.C., negli scavi della necropoli di Lefkandì riportava all’attenzione della critica le questioni relative alle forme di discontinuità e di continuità nella plastica del Dark Age, rispetto a quella della fine dell’Età del Bronzo1. La tecnica adottata con il corpo cavo realizzato al tornio, frutto del lavoro di un vasaio, rivelava la continuità artigia-nale rispetto alla plastica al tornio minoico-micenea. Questa continuità era già testimoniata in un altro ambito geografico, nei santuari cretesi quali quello di Haghia Triada, da un gruppo di tori ed animali fantastici, assegnabili al passaggio tra la fine dell’Età del Bronzo e gli inizi dell’Età del Ferro2. Si segnalava ugualmente un piccolo gruppo di statuette più re-centi, deposte in tombe datate a partire dalla fine del periodo protogeometrico che rappresentano animali dal caratteristico corpo reso al tornio: una di cervo ed una di cavallo provvista di ruote dalle necropoli

ateniesi3, un’altra di cavallo anch’essa con ruote dalla necropoli di Lefkandì ugualmente di fabbrica attica4, un’altra di cavallo da Skyros5.

La presenza nella statuetta di Lefkandì della ferita rappresentata sul ginocchio sinistro induceva ad avanzare l’ipotesi che l’immagine rappresentasse il centauro Chirone, secondo una tradizione colpito da una freccia scagliata da Herakles6: sarebbe così testimoniata una precoce circolazione del mito e dei privilegiati rapporti dell’Eubea con il mondo della Tessaglia, mitica patria dei centauri. In un mo-mento, quale quello del Dark Age, in cui le statuette iniziavano ad essere deposte nelle tombe, il centauro poneva interessanti problemi su una sua possibile funzione rituale/simbolica: il rinvenimento della testa nella tomba 1 di Toumba e del corpo e delle gambe nella tomba 3 della stessa necropoli rifletteva evidentemente una divisione/decapitazione rituale e suggeriva un qualche legame tra i due defunti. A tal proposito assai suggestiva appare l’ipotesi avanzata da A. Lebessi che i due defunti fossero legati da un rapporto di paideia, tra un educatore ed un giovane,

UNA STATUETTA FITTILE DEL GEOMETRICO ANTICO DA IALYSOS*

Matteo D’Acunto

* Un ringraziamento particolare va all’Eforo del Dodecanne-so, dr.ssa Melina Philimonos, e alle ispettrici di zona dr.sse Eleni Pharmakidhou e T. Marketou, per la loro costante disponibilità nelle nostre campagne di lavoro al Museo di Rodi. Ringrazio il prof. Bruno d’Agostino, primo interprete del contesto ialisio di epoca geometrica e compagno delle campagne rodie.

1 Desborough-Nicholls-Popham 1970. Sul centauro di Lefandì v. da ultima B. Eder, ‘Der Kentaur von Lefkandi’, in Zeit der Helden, pp. 185-189. Per un quadro di sintesi della plastica proto-geometrica concepito all’epoca del rinvenimento v. Nicholls 1970.

2 D’Agata 1999, pp. 64-86, tavv. 38-43; N. Kourou - A. Karetsou, ‘To ieroé tou Ermoué Kranaòou sthn Patsoé Amaròou’, in L. Rocchetti (a cura di), Sybrita. La valle di Amari fra Bronzo e Ferro, Roma 1994, pp. 81-165; N. Kourou - A. Karetsou, ‘Terracotta Wheelmade Bull Figurines from Central Crete: Types, Fabrics, Technique and Tradition’, in R. Laffineur - Ph.P. Betancourt (a cura di), TEXNH. Craftsmen, Craftswomen and Craftsmanship in The Aegean Bronze Age (“Proceedings of the 6th

International Aegean Conference, Philadelphia 1996”), Aegaeum 16, Liège 1997, pp. 107-116.

3 Cervo: Kerameikos IV, p. 40, tav. 26; Guggisberg 1996, n. 221, p. 72, tav. 15.9; Lemos 2002, p. 98, tav. 98.3. Cavallo da una tomba di bambino, Odòs Amphiktyonos: O. Alexandri, in ArchDelt 22, 1967, B1, Chr., p. 49, tav. 70a.

4 Guggisberg 1996, n. 289, p. 93, tav. 22.1; Lefkandi III, tav. 126a.5 A. Kalogeropoulou, ‘Deògmata a\gnwéstou e\rgasthròou sthè

Skuéro tou 7ou p.c. ai.’, in ASAtene 61, n.s. 45, 1983, pp. 137-152, spec. 151, fig. 12; Guggisberg 1996, n. 292, p. 95, tav. 22.3.

6 Secondo Apollod., Bibliotheca II, 5, 4. La ferita è stata segnalata da W.D. Heilmeyer (cfr. P. Auberson - K. Schefold, Führer durch Eretria, Bern 1972, p. 158). Per l’identificazione con Chirone cfr. Lebessi 1996, p. 149; sulla tradizione v. M. Gisler-Huwiler, ‘Cheiron’ s.v., in LIMC vol. III, parte 1, Zürich-München 1986, n. 1, pp. 237-238 e 247 (identificazione non certa). F. Caruso suggerisce con prudenza l’identificazione alternativa con il centauro Typhon (Caruso 2004).

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36 Matteo D’Acunto

rapporto metaforicamente espresso sul piano mitico nel legame Chirone-Achille7. Tuttavia, come è stato osservato, la tomba contenente la testa del centauro potrebbe essere, in base al corredo, una sepoltura femminile, il che renderebbe problematica l’ipotesi della studiosa greca8.

A Lefkandì il centauro non rappresenta un’opera isolata, ma si inserisce in una produzione più estesa e continuata nel tempo (forse destinata in futuro a coprire l’intero arco del Protogeometrico). Ciò è dimostrato dal rinvenimento di altre statuette fittili9: una, interpretata in via ipotetica da I. Le-mos come un altro centauro, è stata rinvenuta in un contesto domestico probabilmente più antico (Protogeometrico Antico o Medio)10; un’altra, tro-vata di recente, di cui si conserva la testa (ancora una volta di un centauro, secondo la scavatrice), è davvero sorprendente per la qualità plastica e per il trattamento dei particolari modellati e dipinti11.

Di un’attenta riconsiderazione è stata oggetto anche la piccola plastica antropomorfa cretese di epoca protogeometrica, soprattutto in bronzo: questa dimostra di non conoscere soluzione di con-tinuità nel Dark Age e, al tempo stesso, testimonia significative trasformazioni volumetriche e stilisti-che (oltre che ovviamente iconografiche), rispetto a quella della Tarda Età del Bronzo. La pubblica-zione dell’importante corpus di statuette in bronzo rinvenute a Symi Viannou è stata l’occasione per A. Lebessi per proporre una più precisa scansione cronologica e definizione dei tratti caratterizzanti la plastica protogeometrica cretese: secondo la stu-diosa, alcune assonanze stilistiche tra la plastica di Creta ed il centauro di Lefkandì testimonierebbero un apporto cretese nella prima plastica euboica12.

Recentemente, è merito di N. Kourou quello di aver tracciato un convincente quadro di sintesi delle statuette in terracotta realizzate al tornio in Grecia nella Prima Età del Ferro: in particolare,

la studiosa ha evidenziato il possibile ruolo attivo svolto da Cipro nella trasmissione del tipo della figura femminile col corpo cilindrico cavo dal pe-riodo miceneo alla sua ripresa nell’Egeo nel corso del periodo geometrico13.

La statuetta fittile di Ialysos dei primi decenni del IX sec. a.C., che qui si presenta per la prima volta in forma analitica, offre spunti di riflessione e di integrazione di questo quadro su diversi aspetti: in primo luogo, sulla conservazione e trasmissione nell’Egeo del tipo femminile a corpo campanifor-me nel corso del Dark Age; poi, sulla definizione degli ambiti geografici di influenza relativi alle tre produzioni plastiche meglio conosciute, quella cipriota, quella cretese e quella euboica; infine, sul valore simbolico che può assumere la deposizione della statuetta nella tomba.

2. La statuetta ed il suo contesto di rinvenimento

La statuetta di Ialysos è attualmente in esposizione nel Museo Archeologico di Rodi con il numero di inventario 11961 (figg. 1-2). Essa faceva parte del corredo della tomba n. 470 deposta sul piccolo pla-teau collinare di Platsa Daphniou, lungo le pendici del Monte Philerimos, l’acropoli di Ialysos14. La tomba è stata messa in luce nel 1927, nell’ambito degli scavi estensivi condotti sotto la direzione di Giulio Jacopi nella necropoli ialisia, durante il periodo di occupazione italiana di Rodi. I risultati furono da lui celermente pubblicati nel III volume della serie Clara Rhodos. Una nuova pubblicazione della necropoli protogeometrica e geometrica è in corso di preparazione da parte di chi vi scrive, nell’ambito del progetto di edizione generale della necropoli ialisia da parte dell’Università “L’Orien-tale di Napoli”, diretto da Bruno d’Agostino15.

La Tomba 470 (CXLI) di Platsa Daphniou è una deposizione ad enchytrismòs di infante inumato in

7 Lebessi 1996, pp. 149-150.8 Cfr. Caruso 2004, p. 396. Secondo Lebessi 1996, p. 149,

potrebbe essere invece un individuo giovane. La Tomba 1 di Toumba, oltre alla testa di centauro, conteneva quattro vasi, due braccialetti, due fibule in bronzo, due orecchini in oro e numerosi vaghi di una collana: questi ultimi oggetti potrebbero essere degli indicatori di genere femminile (per il contenuto della tomba v. Lefkandi I, pp. 168-169, tavv. 157, 167 e 216). Il corpo del centauro è stato trovato sopra alle lastre di copertura della vicina Tomba 3 di Toumba; essa conteneva cinque vasi, una conchiglia, una figurina fittile di animale, due lamine in oro sagomate ed una harpe (Lefkandi I, pp. 169-170, tavv. 157, 201b,d, 168-170, 217). Questa potrebbe essere una sepoltura maschile.

9 Per le altre non menzionate qui di seguito rimando a Lemos 2002, pp. 97-101, con la relativa bibliografia.

10 Lemos 2006.11 Irene Lemos ha mostrato il pezzo in occasione della sua

conferenza tenuta il 2 ottobre del 2008 a Napoli, presso L’Uni-versità “L’Orientale” di Napoli.

12 Lebessi 1996; Lebessi 2002, pp. 57-74, tavv. 10-13.13 Kourou 1997, pp. 81-99; Kourou 2002; Kourou 2008,

pp. 22-24.14 Jacopi 1929, pp. 146-147 e 149, fig. 142. Per la topografia

della necropoli di Ialysos v. Laurenzi 1936, pp. 8-10, fig. 1.15 Per uno studio complessivo dell’ideologia funeraria di Rodi

in epoca protogeometrica e geometrica v. d’Agostino 2006.

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37Una statuetta fittile del Geometrico Antico da Ialysos

Fig. 1. Rodi, Museo Archeologico inv. 11961: statuetta fittile da Ialysos, T. 470 Platsa Daphniou (disegno dr.ssa Nadia Sergio).

un pithos, secondo il rituale riservato in epoca ge-ometrica ed arcaica a Rodi ai non adulti16. Fanno parte del corredo, deposto all’esterno del pithos, due fiasche del pellegrino, un askòs ornitomorfo, un cratere di cui si conserva il piedistallo a tromba e un amphoriskos miniaturistico trigemino17. Il corredo può essere assegnato alla fase del Geometrico Antico (900-850 a.C.), che nella tradizione locale riflette più che una vera e propria prima fase del Geometrico un attardamento del Protogeometrico18. Questa fase è dominata, infatti, dalle forme vascolari attestate nel Tardo Protogeometrico (ad esempio, il tipo dell’an-fora nel vaso trigemino). Ricorrono, inoltre, ancora i partiti decorativi caratteristici del Protogeometrico del Dodecanneso: soprattutto i motivi a triangoli e a clessidre campiti a reticolo; mentre sono meno frequenti, rispetto agli stili protogeometrici di altre

regioni del mondo greco, i cerchi e i semicerchi concentrici (questi ultimi sono presenti nel nostro corredo sul solo piede di cratere).

Un partito decorativo più complesso compare sul corpo della statuetta, formando al di sopra della fascia dipinta in basso una sorta di decorazione della veste nel lato anteriore: in alto tra i seni è presente un pannello rettangolare campito a reticolo, in basso una fascia con al centro due motivi a clessidra campita a reticolo ed ai lati due motivi a cerchi concentrici con fila di puntini nella fascia esterna e puntino centrale (nel disegno alla fig. 1 il motivo a cerchi concentrici del lato destro è in gran parte ricostruito per analogia con quello conservato sul lato sinistro). Quest’ultimo motivo trova confronti nella decorazione incisa su un aryballos deposto in una tomba del Medio Geo-metrico di Vati nei pressi di Lindos19.

16 Cfr. Laurenzi 1936, pp. 10-19; Ch.W. Gates, Burials at Ialysos and Kameiros (Rhodes) in the mid Archaic Period, ca. 625-525 B.C., PhD Diss. University of Pennsylvania, Ann Arbor 1979, pp. 260-264; d’Agostino 2006. Il Giornale di scavo, custodito presso l’Archivio dell’Ephoreia del Dodecanneso a Rodi, non fornisce dati più precisi circa l’età del defunto. Il pithos era lungo ca. 80 cm.

17 Jacopi 1929, pp. 146-147 e 149: fiasche del pellegrino inv. 11962 e 11963 (fig. 142 in basso); askòs ornitomorfo inv. 11965

(fig. 142 in alto a destra); cratere inv. 11965b (non riprodotto nella foto alla fig. 142); vaso trigemino inv. 11964 (fig. 142 in alto a sinistra: del terzo amphoriskos si conserva solo l’attacco in corrispondenza dell’ansa).

18 Coldstream 2008, pp. 264-266: Coldstream 2003, p. 46, che data la tomba all’ “early ninth” century. Sul Protogeometrico del Dodecanneso v. anche Lemos 2002, pp. 22-23 et passim.

19 I. Papachristodoulou, ‘Gewmetrikaé eu|rhémata stoé Baéti Roédou’, in ASAtene 56, n.s. 45, 1983, pp. 9-17, Tomba 1, fig. 4

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38 Matteo D’Acunto

Fig. 2. Rodi, Museo Archeologico inv. 11961: statuetta fittile da Ialysos, T. 470 Platsa Daphniou (foto dell’Autore).

In tale quadro di conservatorismo della seconda fase rispetto alla prima, un possibile criterio per tentare di determinare la cronologia di un corredo

rodio se ancora al Tardo Protogeometrico ovvero piuttosto al Geometrico Antico è rappresentato dal maggiore o minore rigore nella resa dei motivi

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39Una statuetta fittile del Geometrico Antico da Ialysos

protogeometrici e dal fatto che le linee dei semi-cerchi rispettino o meno i limiti imposti dalla linea orizzontale sui cui si appoggiano20. In generale, i motivi decorativi dei vasi della tomba 470 conser-vano un certo rigore geometrico e, ad esempio, nel cratere le linee dei semicerchi non debordano, così come negli altri pezzi i triangoli campiti rispettano spesso (non sempre) i loro limiti21. Dunque, pur nell’attribuzione del nostro corredo alla seconda fase, quella del Geometrico Antico, come sugge-risce N. Coldstream22, esso non sembra scendere cronologicamente troppo, ma una sua datazione attorno al primo quarto del IX sec. a.C. appare come la meglio sostenibile.

La statuetta è alta 15 cm. e presenta un diametro di base di 9 cm. Rappresenta una figura femminile con corpo a campana a profilo teso sensibilmente svasato verso il basso. Su di esso sono rappresentati a rilievo i seni, interamente dipinti, ed applicate le due braccia aperte ad arco in posizione orizzontale. Esse sono poco sviluppate in lunghezza e presentano delle mani in proporzione grandi e dal contorno generico. Nelle mani sono distinte le cinque dita grazie a delle incisioni più lunghe sul lato interno. Le spalle, le braccia e le mani sono interamente ver-niciate. La parte posteriore del corpo è risparmiata ad eccezione della fascia dipinta in basso. Il collo è allungato e rastremato verso l’alto. Su di esso sono rappresentate due fasce, di cui quella inferiore è più larga: forse rappresentava una collana. La testa è in asse col collo. Il volto presenta nella visione fron-tale un contorno triangolare appuntito al mento, dominato dagli occhi, dal naso e dalle orecchie. Il volto e la parte superiore del cranio sono verniciati con l’eccezione di alcuni particolari risparmiati. Gli occhi sono dei grandi dischi circolari che occupano una depressione approssimativamente circolare: essi sono resi a risparmio con la pupilla dipinta nella forma di un puntino. Il grande naso è di forma rettangolare larga, svasato in basso, con la rappre-sentazione delle narici incise. Le orecchie sono rese a rilievo ed assumono un andamento curvo verso l’alto. La bocca è rappresentata grazie ad un’incisio-ne orizzontale. Il profilo del volto è dominato dalla protuberanza del naso e dalla sporgenza a punta

del mento, rispetto alla bocca rientrante. Il cranio è appiattito e la fronte è assente. Immediatamente al di sopra del naso, degli occhi e delle orecchie è rappresentato un diadema: questo è reso grazie ad una fascia risparmiata su cui è rappresentata una fila di cerchielli impressi, al centro dei quali è un puntino sovradipinto. Sul lato posteriore sono rappresentati i due margini del diadema distanziati; questi sono uniti, evidentemente trattenuti, da una fascia dipinta in bruno: è probabile che si inten-desse rappresentare un diadema con decorazione impressa a cerchielli, probabilmente in metallo, i cui lembi erano trattenuti sul lato posteriore da un nastro (in stoffa o in pelle). Da questo nastro sul lato posteriore ricadono i capelli (evidentemente trattenuti dal nastro) nella forma di linee verticali dipinte che scendono dal cranio e che terminano su una serie di linee orizzontali.

Dal punto di vista tecnico, la veste, il collo e la testa sono modellati al tornio, originariamente in un corpo unico in argilla cruda. La parte campani-forme è cava internamente. Su questo corpo unico originario la testa è stata ritoccata, in parte a mano, in parte grazie ad uno strumento a punta e ad una piccola spatola (di cui si riconosce la traccia in più punti). Su di essa sono stati sovrapplicati i dischi degli occhi, mentre i cerchielli del diadema sono stati impressi con un unico piccolo punzone. Al corpo sono stati applicati i seni e le braccia model-late a mano, le cui mani sono state ritoccate con l’incisione delle dita grazie ad uno stilo sottile. Un foro passante nel collo, che mette in collegamento la parte interna cava con la sommità del cranio, è fun-zionale a far defluire liberamente i gas al momento della cottura, secondo la consuetudine tecnica ben documentata per il corpo delle statuette di animali e centauri della Tarda Età del Bronzo e della Prima Età del Ferro, nella coroplastica attica, cretese ed euboica23. Dopo che la statuetta era stata modellata e dipinta in tutte le sue parti, essa poteva essere messa infine nella fornace per la cottura.

L’artigiano dimostra, dunque, una piena padro-nanza tecnica nel campo della plastica di tradizione vascolare e delle capacità nella rappresentazione dettagliata e coerente dei particolari del volto:

(fila posteriore, aryballos a destra del cratere di maggiori dimen-sioni); sulla tomba cfr. Coldstream 2003, pp. 380-381.

20 Cfr. in tal senso Coldstream 2008, pp. 266-267.21 Uno stile protogeometrico molto corrotto è documentato,

invece, nei vasi delle due tombe scavate di recente a Ialysos, in contrada Tsimoiroi: E. Pharmakidhi, ‘Apoé ta nekrotafeòa

thv arcaòav Ialusoué: duéo gewmetrikeév tafeév sthn Kremasthé Roédou’, in Stampolidis-Iannikourì 2004, pp. 165-175, discus-sione 175-176.

22 Coldstream 2003, p. 46; Coldstream 2008, pp. 265-267.23 Cfr. Desborough-Nicholls-Popham 1970; Nicholls 1970;

D’Agata1999; Lemos 2002, pp. 97-100.

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40 Matteo D’Acunto

l’opera è, per così dire, in grado di rivaleggiare con le più impegnative statuette fittili più o meno coeve realizzate in Eubea, a Creta ed in Attica, se non per le dimensioni (più ridotte24) almeno per il dettaglio nella resa del volto.

La statuetta potrebbe essere di fabbrica ialisia (o quanto meno rodia), come suggerirebbe la presenza del motivo a clessidra, caratteristico della tradizione protogeometrica locale e del Dodecanneso. Inoltre, la statuetta presenta un’argilla (di colore rosa) che sembra essere, ad un’analisi autoptica, analoga ad un tipo ricorrente nei vasi del Tardo Protogeome-trico-Geometrico Antico locali25. La vernice bruna è applicata su un’ingubbiatura bianca, anch’essa attestata in diversi vasi ialisii dello stesso periodo26.

3. Per una proposta di inquadramento tipologi-co e stilistico: le affinità con Cipro e con Creta

Come è stato da lungo tempo riconosciuto da parte

della critica, le figure femminili fittili di epoca geo-metrica che presentano il corpo cilindrico o tronco-conico realizzato al tornio affondano le proprie radici nella tecnica al tornio e nell’iconografia della figura femminile della plastica egea della Tarda Età del Bronzo27. Più in particolare, è stato osservato che le statuette geometriche rappresentano una ripresa non della plastica tardo-minoica di Creta, ma piuttosto di quella tardo-micenea, sviluppata nel continente e nelle isole dell’Egeo28. Infatti, le statuette geome-triche ed alto-arcaiche, come l’esemplare di Ialysos, presentano il corpo cilindrico o tronco-conico dal profilo continuo dalla base fino al torso. Questo è il

tipo sviluppato nella plastica micenea: esemplificative sono le statue del Temple Complex di Micene29. Mentre le figure cretesi fittili tardo e subminoiche hanno il torso distinto e sensibilmente rientrante rispetto alla gonna cilindrica: come nelle statue del santuario di Karphì oppure in quelle di recente rinvenute nel tempio di Kephala Vasilikìs del Tardo Minoico IIIC-Subminoico30.

Per quanto concerne Rodi, è detta provenire dall’isola una statua femminile micenea a Monaco: essa ha il corpo a profilo continuo, cilindrico nella parte inferiore; ha i seni a rilievo ed il tipico gesto della dea con le braccia alzate31. Nella produzione rodio-micenea si segnalano alcuni vasi decorati con figure plastiche32. Ma è assai poco probabile che esista una continuità tra questa plastica fittile rodia di epoca micenea e la nostra statuetta: ciò anche in ragione del fatto che, al momento, di Rodi tra la fine del Tardo Elladico III C ed il Tardo Protogeometrico non è giunta a noi alcuna traccia di documentazione archeologica33. È verosimile invece che la forma a campana della nostra statuetta sia il frutto di un nuovo apporto, di una influenza esterna, forse riconducibile a Cipro.

In effetti, come osserva N. Kourou, per la figura femminile a corpo cilindrico e a braccia alzate, dopo gli esemplari della Tarda Età del Bronzo, si riscontra in linea generale un gap cronologico fino alla ricomparsa del tipo nell’avanzato periodo geometrico: in particolare, a Samos, a Lindos, a Lemnos, a Creta34. In tale periodo di vuoto l’unica regione a presentare una continuità è Cipro, dove il tipo è documentato anche nel corso delle fasi Cipro

24 Ad esempio: la sola testa di Kalò Choriò a Creta di epoca protogeometrica è alta 27 cm. (Rethimiotakis 1998, n. 69, p. 29, tav. 74a-g); il centauro di Lefkandì è alto 36 cm.; il cervo del Kerameikos è alto 26,6 cm. (Kerameikos IV, p. 40, tav. 26).

25 Munsell: 7.5 YR 8/4.26 Cfr. ad esempio in questo corredo l’askòs inv. 11965 (v.

supra nota 17) e gli skyphoi della T. 43 Marmaro anch’essa del Geometrico Antico (Laurenzi 1936, pp. 161-163, fig. 149, inv. 15536-15537a-e).

27 Cfr. ad esempio, Rizza 1968, pp. 217-218; Nicholls 1970; Kourou 2002.

28 Cfr. Kourou 2002, spec. pp. 16 e 24-25.29 Cfr. Lord W. Taylour, The Mycenaeans, London 19832, pp.

50-53, figg. 25 e 29-31; A.D. Moore - W.D. Taylor, The Temple Complex. Well Built Mycenae, the Helleno-British Excavations within the Citadel at Mycenae, 1959-1969, Oxford 1999, pp. 50-62, tavv. 12-22.

30 Su cui cfr. St. Alexiou, ‘H minwikhé qeaè meq’ u|ywmeénwn ceir n’, in KretChron 12, 1958, pp. 179-299 (Karphì: tav. ST’); Rethimiotakis 1998, passim (Karphì: tavv. 59-63); B. Rutkowski, ‘The Temple at Karphi’, in SMEA 26, 1987, pp. 257-279, figg.

8-9. Su Kephala Vasilikìs: Th. Eliopoulos, ‘A Preliminary Report on the Discovery of a Temple Complex of the Dark Ages at Kephala Vasilikis’, in Karagheorghis-Stampolidis 1998, pp. 301-313, spec. 307-309, figg. 12-13.

31 Nicholls 1970, p. 7 e 27, nota 61, tav. 2b.32 Cfr. E. Karantzali, ‘A new Mycenaean Pictorial Rhyton

from Rhodes’, in Karagheorghis-Stampolidis 1998, pp. 87-103, discussione 103-104, spec. 95, fig. 8a-b.

33 Cfr. V.R. d’A. Desborough, Protogeometric Pottery, Oxford 1952, pp. 225-233; d’Agostino 2006, p. 57.

34 Kourou 2002, pp. 21-33, con la relativa bibliografia. Per Creta cfr. un gruppo di brocche antropomorfe a braccia alzate: J.N. Coldstream - H.W. Catling (a cura di), Knossos North Ce-metery. Early Greek Tombs, T. 106, n. 20, vol. 1 p. 147, vol. 4 tav. 146; D. Levi, Arkades. Una città cretese all’alba della civiltà ellenica, ASAtene 10-12, 1927-1929, T. R, n. 191, p. 245, fig. 291; Stampolidis-Karetsou 1998, n. 209, p. 192. In preceden-za, in epoca protogeometrica un kernos da Kourtes presenta una figurina fittile con le braccia alzate (Stampolidis-Karetsou 1998, n. 207, p. 190).

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41Una statuetta fittile del Geometrico Antico da Ialysos

Geometrico I-III. Pertanto, la studiosa ipotizza in maniera convincente che proprio Cipro, dopo aver mutuato il tipo dall’Egeo nel XII sec. a.C., abbia svolto a sua volta un ruolo attivo nella continua-zione e nella trasmissione di questo tipo allo stesso Egeo nel corso del periodo geometrico35.

Tale quadro sembra essere avvalorato ed integrato dall’esemplare di Ialysos, peraltro già considerato dalla studiosa greca36: si tratta al momento dell’uni-ca statuetta femminile con corpo campaniforme ad essere datata con precisione nel suddetto periodo di generale gap, anche se non rappresenta stricto sensu il tipo a braccia alzate.

L’apparizione a Cipro del tipo miceneo a braccia alzate e lunga veste campaniforme tra la fine del XII e l’XI sec. a.C. è illustrata in questo primo momento da due statuette assai simili da Limassol, fig. 3 (una terza è leggermente differente)37. Il loro corpo pre-senta i seni rilevati. Rispetto alla nostra statuetta la parte inferiore della veste è cilindrica, ma soprattutto la differenza è data in questa, come in altre statuette cipriote, dalla terminazione della veste in basso a disco estroflesso. Il volto è caratterizzato dal grande naso e dagli occhi circolari. Una delle due statuette cipriote raggiunge i 24 cm. di altezza, il che dimostra che si tratta sin da questo momento di una produzio-ne specializzata non di tipo corrente (così come è la plastica fittile protogeometrica nell’Egeo). A Cipro è documentabile una continuità del tipo femminile col corpo cilindrico e con le braccia alzate nel corso dei secoli seguenti (fasi Cipro Geometrico I-III)38. Tale continuità è ben illustrata da alcuni pezzi di notevole qualità, quale la statuetta della Collezione Pieridis, nella quale è stata osservata una eco ancora più forte dei modelli cretesi-micenei39. Per quanto concerne quest’ultima statuetta, nel dettaglio della resa del volto e del corpo non si può riconoscere un confronto molto stretto con l’esemplare di Ialysos; ma alcuni elementi di assonanza potrebbero essere le mani generiche con le dita parallele (qui dipinte), la terminazione appuntita del mento, gli occhi cir-colari (qui appena rilevati e dipinti), la presenza del

diadema (che ricorre con frequenza nelle statuette cipriote), il collo allungato.

Nella stessa Rodi il tipo femminile a corpo cilin-drico o campaniforme è documentato tra i votivi fittili dell’acropoli di Lindos, in una serie di esem-plari che non possiamo datare con precisione, ma che verosimilmente si riferiscono ad un momento dell’avanzato periodo geometrico (in effetti, gli ex-voto degli strati arcaici sembrano iniziare attorno

35 Cfr. anche Kourou 1997, p. 85.36 Kourou 2002, pp. 31-32.37 Karagheorghis 1993, nn.GA(i)1-2, pp. 58-59, fig. 51,

tav. 27.1-2; Kourou 1997, fig. 5; Karagheorghis 2002, pp. 137-138, figg. 297 (qui fig. 3)-298; Kourou 2002, pp. 18-19, fig. 3; la terza è riprodotta assieme alle altre due in Kourou 2008, p. 24.

38 Karagheorghis 1993, nn. GA(i)8-9, p. 60, tav. 27.7-8 (Cipro Geometrico I); nn. LGA(iv)1-14, pp. 82-86, tavv.

Fig. 3. Limassol, Museo Distrettuale inv. 580/8: statuetta fittile dal santuario di Limassol-Kommissariato (da Kara-gheorghis 2002).

26-27 (Cipro Geometrico II-III).39 Karagheorghis 1993, n. LGA(iv)12, p. 84, tav. 37.6 (Cipro

Geometrico II-III); Kourou 1997, p. 85, fig. 6. È assegnabile al VII-VI sec. a.C. una bella statuetta dal santuario di Afrodite a Palaepaphos al British Museum: J. Karagheorghis, ‘The Goddess of Cyprus between the Orient and the Occident’, in Stampolidis-Karagheorghis 2003, pp. 353-361, discussione 361-362, spec. 357-358, fig. 3.

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42 Matteo D’Acunto

alla metà dell’VIII sec. a.C., mentre solo pochi frammenti ceramici sono assegnabili alla fase Tar-do Protogeometrico-Geometrico Antico40). Una statuetta femminile di Lindos ha la parte inferiore svasata e le braccia distese lungo i fianchi; presenta diversi particolari dipinti, tra cui una serie di trattini verticali sul collo, che potrebbero raffigurare una collana (secondo la tradizione micenea)41. Un’altra statuetta lindia, assegnabile con certezza al Tardo Geometrico per i motivi dipinti, ha le braccia por-tate in avanti come quella di Ialysos42. Mentre altre statuette del santuario riproducono ancora il tipo a braccia alzate di tradizione micenea43.

Tra le più antiche figurine fittili della stipe di Lindos si segnalano alcune delle quali si conserva la sola testa (di cui purtroppo disponiamo del solo

disegno). Esse rivelano delle affinità con la nostra statuetta: per il naso grande e sporgente, i grandi occhi a disco sovrapplicati, il mento stretto a punta, la forma delle orecchie, il collo allungato44. Ciò suggerisce di riconoscere delle tendenze stilistiche comuni che si affermano nella plastica rodia nel corso del periodo geometrico.

Nella resa dei volumi e dei particolari della testa della nostra statuetta si segnalano in particolare i confronti, oltre che nel panorama locale (come detto, con opere probabilmente successive), in particolare con la plastica fittile ed in bronzo di Creta, assegna-bile al Protogeometrico o alla fase subminoica im-mediatamente precedente45. Significative somiglianze possono essere riconosciute in particolare con una statuetta fittile di animale fantastico (cosiddetta “sfin-ge”) dal Piazzale dei Sacelli di Haghia Triada (questa a corpo pieno), fig. 446. Elementi di somiglianza sono il mento appuntito, il naso sporgente, i grandi occhi circolari a disco su cui la pupilla è indicata (ma qui ad incisione), l’assenza della fronte, il diadema legato posteriormente, su cui è rappresentata una fila di puntini, i capelli resi a linee dipinte verticali, il collo allungato. Meno stringenti sono i confronti con un’altra statuetta dello stesso tipo di Haghia Triada, che presenta tuttavia la stessa concezione del volto dai tratti marcati: grande naso ed occhi a disco forati47. In mancanza di dati stratigrafici, le statuette in questione possono essere datate esclusivamente con criteri stilistici e in base alla decorazione dipinta. A.L. D’Agata propone di assegnarle al passaggio tra il Tardo Minoico IIIC ed il Subminoico. Mi sembra di poter rilevare che le somiglianze nella resa del volto con le statuette in bronzo assegnate da A. Lebessi al Protogeoemetrico portino a suggerirne con grande prudenza una datazione nel corso del periodo sub-minoico-protogeometrico (pur nella consapevolezza di quanto le osservazioni stilistiche possano risultare non del tutto affidabili nello stabilire la cronologia)48.

Nell’ambito della grande plastica fittile cretese

40 Questi ultimi sono i pezzi Lindos I, nn. 821-843, coll. 233-239, tav. 33.821, 825, 830, 831.

41 Lindos I, n. 1877, col. 465, tav. 82.42 Lindos I, n. 1860, coll. 459-460, tav. 80.43 Lindos I, nn. 1879-1880, col. 466, tav. 83.44 Cfr. specialmente Lindos I, nn. 1887 e 1888, coll. 467-468,

tav. 83; ed anche nn. 1885-1887b, col. 467, tav. 83.45 Per un’ipotesi di determinazione cronologica della plastica

cretese faccio riferimento allo studio della Lebessi (2002, pp. 57-74): la classificazione della maggior parte dei pezzi alle varie fasi del periodo protogeometrico è stabilita esclusivamente su base stilistica, in mancanza di stratigrafie chiuse. Ciò rende

ovviamente tale classificazione del tutto ipotetica. Punto di riferimento di questa classificazione è la statuetta in bronzo rinvenuta nel santuario di Kommòs in uno strato del Protogeo-metrico: M. Koutroumbaki Shaw, ‘A Bronze Figurine of a Man from the Sanctuary at Kommos, Crete’, in Ei\lapònh. Toémov timhtikoèv giaè toèn Kaqhghthè Nikoélao Plaétwna, Hiraklion 1987, pp. 371-382; J. Shaw - M. Shaw (a cura di), Kommos IV. The Greek Sanctuary, Princeton 2000, n. AB79, pp. 152, 170-171 e 187, tavv. 3.14 e 3.27; Lebessi 2002, p. 12, fig. 5.

46 D’Agata 1999, n. C2.16, pp. 71 e 82, tavv. 44 e 53.47 D’Agata 1999, n. C15, pp. 71 e 81, tav. 44.48 Cfr. Lebessi 2002, pp. 57-74, tavv. 10-13.

Fig. 4. Hiraklion, Museo Archeologico: statuetta fittile di essere mostruoso da Haghia Triada, Piazzale dei Sacelli (da D’Agata 1999).

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43Una statuetta fittile del Geometrico Antico da Ialysos

di tradizione vascolare la testa di Kalò Choriò, che A. Lebessi assegna al Protogeometrico, offre utili elementi di confronto (pur con alcune diffe-renze): per gli occhi tondi, il naso pronunciato, la forma triangolare del contorno del volto, il cranio appiattito (ma con la fronte più sviluppata), la corona da cui si dipartono posteriormente i capelli rappresentati da ciocche parallele49. La testa di Kalò Choriò rappresenta la continuità (pur con elementi di differenza) rispetto alla tradizione delle statue fittili di dea a braccia alzate tardo e sub-minoiche.

Parallelamente alla plastica fittile, si segnalano i confronti per la forma della testa e per i tratti mar-cati del volto con alcune statuette cretesi in bronzo,

49 Rethimiotakis 1998, p. 29, tav. 74; Lebessi 2002, pp. 65-66, fig. 33.

50 V. Lebessi 2002, pp. 57-74, tavv. 10-13.51 Lebessi 2002, pp. 73-74, fig. 43.

52 Lebessi 2002, n. 12, pp. 17 e 63-70, tav. 12.53 Morricone 1978, Tomba VII, Zona Fadil, n. 4, pp. 351-

352, figg. 766-767; Higgins 1967, p. 20, tav. 6A.

classificate dalla Lebessi nel Protogeometrico50: in particolare, con la statuetta di “autoflagellatore” del British Museum forse da Kalamafka51 e con una statuetta femminile di Symi Viannou (che tuttavia ha gli occhi forati, evidentemente per l’aggiunta di inserti)52. Queste statuette protogeometriche (sia le femminili che le maschili che tengono le armi) hanno le braccia portate in avanti, come nella sta-tuetta di Ialysos.

Per completare il quadro dei confronti è impor-tante sottolineare i rapporti con la vicina Kos, che dimostra di sviluppare ugualmente una precoce plastica fittile nell’ambito della tradizione vascolare. In particolare, tra i diversi askoì ornitomorfi deposti nelle tombe protogeometriche e delle prime fasi del Geometrico nella necropoli di Kos si segnala un esemplare. Esso presenta una terminazione anteriore a corpo umano, i cui genitali maschili individuano la figura come un centauro: il pezzo è ascrivibile in base ai vasi del corredo ed ai suoi motivi decorativi al Geometrico Antico53; dunque, è appena più recente del centauro di Lefkandì. Il volto è assai generico, ma vi ritroviamo i due grandi occhi a disco sovrap-plicati ed il naso prominente. Ma in questa statuetta il cranio è più sviluppato ed arrotondato in alto e le orecchie sono rese con curve sensibilmente aggettan-ti. Quanto al tipo femminile a corpo campaniforme,

Fig. 5. Kos, Museo Archeologico: statuetta fittile dalla necropoli del Serraglio (da Morricone 1978).

Fig. 6. Eretria, Museo Archeologico: centauro da Lefkandì (da Desborough - Nicholls - Popham 1970).

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44 Matteo D’Acunto

esso è documentato nella stessa necropoli di Kos in due esemplari più recenti datati attorno alla metà dell’VIII sec., caratterizzati ancora dal collo allun-gato, dal naso e dagli occhi prominenti (fig. 5)54.

Se invece proviamo ad istituire un confronto tra la statuetta di Ialysos e la plastica euboica, non pos-siamo che rilevare una sostanziale distanza dell’una rispetto all’altra. Come possibili elementi di generica assonanza potremmo solo richiamare nel centauro di Lefkandì il contorno del volto triangolare nella parte inferiore (fig. 6), gli occhi circolari (che tuttavia sono cavi per l’aggiunta di inserti probabilmente in altro materiale) oppure la resa delle mani con le dita incise ad andamento parallelo55. Le differenze sono invece macroscopiche: nel centauro il cranio è arrotondato ed ampiamente sviluppato in alto; la massa dei capelli è distinta a leggero rilievo ed incisione, e vi è indicata una sola ciocca ad incisione sul lato posteriore; gli occhi ed il naso sono più piccoli e non invadono completamente la testa, lasciando interamente libere le guance; le orecchie sono più grandi (ma almeno in questo caso ciò può dipendere dalla natura mo-struosa del centauro) e hanno una forma differente; il collo è più corto. Queste differenze appaiono evidenti anche nel confronto tra la statuetta ialisia ed il “centauro” di Lefkandì rinvenuto di recente, per il quale la valutazione si fonda sulla eccezionale qualità plastica e dei dettagli dipinti56. Tale distanza è l’evidente segno di un’assenza di influenza della plastica protogeometrica euboica nella concezione della nostra statuetta.

Mi sembra, peraltro, che alcune delle differenze appena enucleate siano estensibili al confronto tra la plastica protogeometrica cretese e quella euboica. A mio avviso, l’ipotetica influenza dell’una sull’altra va notevolmente ridimensionata.In sintesi, nella statuetta di Ialysos, oltre ad una probabile comunanza con la vicina isola di Kos, si può suggerire di riconoscere due possibili apporti geografici distinti:– nell’adozione della figura femminile al tornio a cor-

po campaniforme può aver giocato un ruolo Cipro, isola nella quale il tipo continua ad essere riprodotto in maniera continuativa nei secoli a cavallo tra la fine del II e gli inizi del I millennio a.C.;

– nella concezione della volumetria e dei particolari del volto si ravvisa una conoscenza della plastica protogeometrica cretese, la quale presenta una continuità nel corso del Dark Age sia nella tradi-zione fittile vascolare che in quella bronzistica.Si tratta, ovviamente, di due componenti non al-

ternative, ma che possono aver inciso insieme, in una forma più o meno significativa l’una rispetto all’altra. Esse risultano essere rielaborate probabilmente da un artigiano della stessa Ialysos, comunità che è sin da un momento assai antico particolarmente aperta ai traffici commerciali e pronta all’adozione di stimoli da quelle regioni con cui stabilisce questi contatti.

A tal proposito, senza poter scendere nel dettaglio, va ricordato che un rapporto privilegiato tra Rodi e Cipro resterà una costante nella storia dell’isola del Dodecanneso fino al VII sec. a.C.57. Tale rapporto incide nella ceramica rodia sin dalla fase del Tardo Protogeometrico-Geometrico Antico: per l’ado-zione significativa di forme di tradizione cipriota, quali l’askòs ornitomorfo e la fiasca del pellegrino, peraltro ambedue presenti nel corredo della tomba in questione58; e contemporaneamente per una pre-ferenza per i motivi a triangoli e a losanghe campiti a reticolo ugualmente molto diffusi nella ceramica cipriota, rispetto ai cerchi e semicerchi concentrici preferiti dalla tradizione egea59. Testimonianza evi-dente dell’esistenza di precoci rapporti tra Ialysos e Cipro è la deposizione in una tomba coeva alla 470, la T. 43 Marmaro, di due lekythoi a barilotto cipriote in White Painted Ware, che sono tra le più antiche attestazioni di importazioni cipriote nell’Egeo della Prima Età del Ferro60.

Quanto ai legami tra Creta e Rodi, si tratta di due realtà geografiche e commerciali a stretto contatto sin da una fase molto antica della Prima Età del Ferro. I rapporti tra le due isole, almeno da certi punti di vista

54 Rispettivamente: Morricone 1978, T. 14 Serraglio, n. 101, p. 133, figg. 214-215 (cfr. Higgins 1967, p. 20, tav. 6e), qui fig. 10; e Morricone 1978, T. V Zona Fadil, n. 2, pp. 347-348, figg. 757-760.

55 Per delle fotografie di dettaglio del centauro v. Desborough-Nicholls-Popham 1970, tavv. 8-10.

56 V. supra nota 11.57 Mi limito qui a richiamare i contributi più recenti: J.N.

Coldstream, ‘Crete and the Dodecanese: Alternative Appro-aches to the Greek World during the Geometric Period’, in Karagheorghis-Stampolidis 1998, pp. 255-262, discussione

262-263; N.Ch. Stampolidis, ‘Eisagwghé B} Meérouv’, in Stampolidis-Karetsou 1998, pp. 102-134; N. Kourou, ‘Rho-des: The Phoenician Issue Revisited. Phoenicians at Vroulia?’, in Stampolidis-Karagheorghis 2003, pp. 249-260, discussione 260-262.

58 Sulla fiasca del pellegrino nel Protogeometrico - Geometrico Antico v. Lemos 2002, pp. 79-80; Coldstream 2008, p. 264. Sull’askòs ornitomorfo v. V.R. d’A. Desborough, ‘Bird Vases’, in KretChron 24, 1972, pp. 245-277; Lemos 2002, pp. 82-83.

59 Cfr. Lemos 2002, pp. 22-23.60 Museo Archeologico di Rodi, inv. 15538a-b: Laurenzi

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45Una statuetta fittile del Geometrico Antico da Ialysos

di koinè, sono illustrati da elementi di comunanza nel repertorio vascolare ed in quello delle armi in ferro61.

4. La questione dell’identificazione iconografica e della funzione della statuetta

Il contesto di deposizione della statuetta è quello della tomba di un infante, di cui non abbiamo alcuna indicazione relativa all’età. Ma, come ha dimostrato B. d’Agostino, nelle necropoli rodie di epoca pro-togeometrica e geometrica fino all’incirca alla metà dell’VIII sec. a.C. viene praticata una selezione molto ristretta degli aventi diritto alla sepoltura formale62, diritto da cui sembrano essere esclusi i neonati e i bambini di pochi anni. È probabile, dunque, che il defunto della tomba 470 fosse un bambino con un certo numero di anni ovvero un adolescente.

Nessun indizio preciso ci consente di stabilire se si tratti di una tomba maschile o di una femminile. Lo stesso d’Agostino ha dimostrato che a Rodi fino alla metà dell’VIII sec. le tombe maschili presentano in genere un corredo di oggetti numericamente contenuto, tutto volto a sottolineare la figura del guerriero-“principe” attraverso le armi. Al con-trario, alla figura femminile è affidata la funzione di esaltare l’opulenza dell’oikos, attraverso corredi che presentano un significativo numero di vasi, di oggetti preziosi e di importazioni. Ma questa chiara polarizzazione nell’identificazione del genere non è ugualmente evidente per le tombe di non adulti. Se dovessimo dare credito al sesso della statuetta, potremmo forse immaginare che si tratti di una defunta, il che sarebbe anche coerente con il corredo che presenta un discreto numero di vasi: cinque più la statuetta. Ma è evidente come queste argomen-tazioni siano del tutto non affidabili, in quanto fondate su un campione non significativo di tombe di infanti dello stesso periodo. Questa impossibilità di stabilire il genere del defunto rende ancora più incerta la questione relativa all’identificazione ico-nografica della statuetta e alla sua funzione.

In epoca protogeometrica, come detto, è docu-mentata in alcune regioni del mondo greco la pra-tica di deporre nelle tombe statuette antropomorfe (Attica e Rodi), di mostri (il centauro a Lefkandì e a Kos) e di animali (Attica ed Eubea). Nella vicina Kos una statuetta di uccello è deposta in una tomba del Tardo Protogeometrico di bambino63. Questa potrebbe offrire un confronto per il nostro caso, ma si può osservare che questa statuetta poteva essere vista come non troppo diversa dagli askoì ornitomorfi deposti in un certo numero di tombe del Dodecanneso e di altre regioni del mondo greco.

Per le statuette di cavalli su ruote mobili, già citate, si è avanzata anche l’ipotesi che si trattasse di giocat-toli, che potevano fare parte del corredo di oggetti in possesso del bambino64. In effetti, la tomba ateniese che conteneva una di queste statuette era quella di un bambino65. Invece, l’altro contesto è rappresentato da una tomba della necropoli di Toumba a Lefkan-dì: la statuetta d’importazione attica di cavallo con ruote ha sulla groppa due anfore; si tratta di una tomba femminile del Sub Protogeometrico I con un corredo che presenta un certo numero di vasi e di oggetti di ornamento personale (di un’adulta? di un’adolescente?)66. Dunque, l’ipotesi per così dire “minimalista” che si tratti di giocattoli non è affatto necessaria: i cavalli potrebbero evocare lo status symbol delle aristocrazie alto-arcaiche.

Così come resta da approfondire, attraverso un’ana-lisi dei contesti, la funzione di un gruppo relativa-mente cospicuo di statuette femminili in Handmade Ware, definite convenzionalmente come “bambole” (“dolls”, “Puppen”)67. Esse sono deposte in tombe per lo più dell’Attica, ma anche di Lefkandì del Tardo Protogeometrico, al più tardi Geometrico Antico. Caratteristico è il corpo campaniforme, su cui sono rappresentati i seni ed una variegata decorazione incisa. In maniera generica sono rappresentate le braccia aperte nella forma di moncherini e la testa su cui sono incisi gli occhi. Hanno i piedi realizzati a parte e forati in alto per il fissaggio.

1936, pp. 162-163, fig. 149 (in seconda fila il secondo ed il quarto vaso), che considera erroneamente i due vasi come imi-tazioni rodie. Sono opportunamente considerate importazioni da N. Coldstream, ‘On Chronology: The CG II Mystery and its Sequel’, in M. Iacovou - M. Michaelidis (a cura di), Cyprus. The Historicity of the Geometric Horizon (Atti Coll. Nicosia 1998), Nicosia 1999, pp. 109-118, spec. 111.

61 Per una discussione di questi aspetti rimando al volume sulla necropoli di Ialysos che ho in corso di preparazione.

62 d’Agostino 2006.

63 Morricone 1978, T. 21 Serraglio, pp. 163-165, n. 4, fig. 295.64 Cfr. Lemos 2002, p. 100.65 Statuetta di cavallo della tomba di Odòs Amphiktyonos

citata supra in nota 3.66 Lefkandi III, tav. 14, 58, 126a.67 Su cui v. K. Reber, Untersuchungen zur Handgemachten

Keramik Griechenlands in der submykenischen, protogeometrischen und der geometrischen Zeit, SIMA Pocket Book 105, Jonsered 1991, pp. 128-131; Lemos 2002, p. 95 con i relativi riferimenti bibliografici ai contesti di rinvenimento.

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46 Matteo D’Acunto

È la nostra statuetta una “bambola”, possesso di una bambina di Ialysos e deposta poi nel suo corre-do tombale? L’ipotesi “minimalista” non può essere del tutto esclusa, ma essa appare poco convincente alla luce di una serie di osservazioni.

In particolare, la figura di Ialysos porta un diadema, che è probabilmente concepito come la rappresen-tazione di una lamina in metallo prezioso decorata a cerchielli e trattenuta sul lato posteriore da un nastro di tessuto o di pelle. Il riferimento è ad una tipologia di Goldbänder usati come diademi, di cui è ben documentata soprattutto la serie attica di epoca geometrica68. Nelle necropoli di Rodi il diadema è deposto in un certo numero di sepolture di rango elevato, evidentemente inteso come segno di status del defunto. A titolo esemplificativo ricordo tre casi: i due diademi decorati a motivi geometrici con i fori alle estremità per il fissaggio della cinghia, deposti nella Tomba 82 presso il tempio A di Camiro (ca. metà dell’VIII sec. a.C.), sepoltura di un personaggio maschile di altissimo rango69; il diadema in oro rin-venuto vicino al cranio, assieme ad una ricca parure, di una tomba femminile scavata di recente a Ialysos dal Servizio Archeologico Greco, datata attorno all’800 a.C.70; ed i diversi diademi in oro, assieme ad elementi di ricche parures, presenti nella tomba Z di Exochì di epoca tardo-geometrica (nella quale sono probabilmente mescolate più sepolture femminili)71. Allora, il diadema della statuetta di Ialysos può desi-gnare una figura di rango della famiglia del defunto? Si tratta, ad esempio, di una rappresentazione della madre che accompagna il defunto/defunta nella tomba ovvero nell’Aldilà? Questa può essere una chiave di lettura.

Tuttavia, nel passaggio dall’oggetto reale del dia-dema al segno nella costruzione dell’immagine della statuetta, il diadema almeno in alcuni casi senza dub-bio è identificativo di una divinità o di una figura per così dire “demonica”. Cercando di non allontanarsi

troppo dal punto di vista cronologico nel proporre confronti, si possono richiamare a tal proposito i diademi delle statue fittili precedentemente citate di Karphì e di Kephala Vasilikìs a Creta: essi sono provvisti di simboli evidentemente collegati alle fun-zioni ed alle iconografie delle divinità in questione72. Così come nella più antica plastica fittile di Olimpia il diadema è considerato come tipico della figura femminile divina: Hera73. Ma il diadema è riferito anche a figure ibride, per così dire demoniche, come gli animali fantastici del santuario di Haghia Triada74. Del resto, alcune delle figurine deposte nelle tombe del Dark Age possono avere avuto un valore specifi-catamente funerario ed aver rappresentato divinità o demoni collegati con la morte. Ciò potrebbe essere suggerito dal fatto che ben due statuette di centauri (tra le più antiche vere e proprie rappresentazioni del mostro) sono deposte quasi nello stesso momento in due contesti tombali: a Lefkandì e, come detto, a Kos75. È in questo caso il centauro inteso come un demone della morte, in quanto figura metà umana e metà ferina, dunque figura liminare, di passaggio? Tale è stata la prima ipotesi interpretativa del caso di Lefkandì avanzata da P. Themelis: che si trattasse di un rituale ctonio di decapitazione di un demone della morte76. Se questa fosse la chiave di lettura, la nostra immagine potrebbe rappresentare una divinità (o un demone) collegato con la morte: Persefone/Kore? È un’altra possibilità, senza alcun indizio preciso. Né alcuna indicazione può venire dal gesto delle braccia aperte della nostra statuetta che non può essere considerato come esclusivo di una divinità, visto che diventa ricorrente in epoca protogeometrica ed è riferito anche ai guerrieri con le armi77. Nella statuetta di Ialysos la fascia larga sul collo può essere intesa come una collana: ma qui è una semplice fascia piena che non ha quella stessa caratterizzazione a perle ed a pendaglio che troviamo nelle statue di divinità micenee e che è ripresa nelle

68 D. Ohly, Griechische Goldbleche des 8. Jahrhunderts v. Chr., Berlin 1953.

69 G. Jacopi, Esplorazione archeologica di Camiro II, ClRh VI-VII, Rodi 1932-33, T. LXXXII, pp. 193-201, spec. n. 7, pp. 199-201, fig. 239; d’Agostino 2006, p. 61.

70 A. Grigoriadhou - A. Iannikourì - T. Marketou, ‘Kauéseiv nekrwén apoé thn Ialusoé’, in N.Ch. Stampolidis (a cura di), Kauéseiv sthn Epoché tou Calkoué kai thn Prwéi=mh Epoché tou Sidhérou (Atti Coll. Rodi 1999), Aqhénai 2001, pp. 373-401, spec. 391-395, n. 7, fig. 42; d’Agostino 2006, p. 60.

71 K.F. Johansen, Exochi. Ein frührhodisches Gräberfeld, 1958, pp. 66-85, spec. 76-77 e 80-84, figg. 181-191.

72 Su cui v. supra nota 30.

73 Cfr. W.D. Heilmeyer, Frühe Olympische Tonfiguren, Ol-Forsch VII, Berlin 1972, pp. 77-78, tav. 35.

74 D’Agata 1999, nn. C2.9, C2.16, C2.24 e C2.28, pp. 79-84, tavv. 40, 44, 47-48, 51, 53.

75 V. supra nota 53.76 P. Themelis, in Lefkandi I, pp. 215-216 (ma lo stesso studioso

dimostra scetticismo verso questa ipotesi in Caruso 2004, p. 401). Cfr. poi Ch. Faraone, ‘Binding and Burying the Forces of Evil: The defensive Use of “Vodoo Dolls” in ancient Greece’, in Classical Antiquity 10/2, 1991, pp. 165-205, spec. 195-196, che analizza la statuetta nel contesto del problema delle “vodoo dolls”.

77 Cfr. le statuette cretesi: Lebessi 2002, pp. 57-74, tavv. 10-12; D’Agata 1999, alcune delle statuine del Gruppo D2, tavv. 82-87.

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47Una statuetta fittile del Geometrico Antico da Ialysos

divinità a braccia alzate di epoca alto-arcaica ed ar-caica, come quelle di Cipro e di Lemnos78. Ma qui vale forse la pena di fare un ultimo richiamo ad un contesto geograficamente vicino, la tomba 14 della necropoli del Serraglio a Kos, anche se più recente (all’incirca della metà dell’VIII sec.). Questa straor-dinaria deposizione di bambino (un maschio?) in sarcofago è accompagnata da un corredo di ben 106 vasi. Esso comprendeva anche la già citata statuetta femminile fittile (fig. 5), la quale presenta una col-lana dipinta con fila di perle e pendaglio centrale79. È questo un attributo della divinità?

Insomma, qual era la funzione della statuetta di Ialysos? L’immagine della madre che accompagna il defunto? L’immagine di una divinità collegata con la morte? Sono due tra le diverse opzioni, nell’am-bito delle quali non è possibile scegliere.

Certo, noi non siamo in grado di fornire una spiegazione fondata al mistero della divisione del centauro di Lefkandì tra le due tombe della necropoli di Toumba. Ma almeno questo caso ci insegna come la spiegazione “minimalista”, delle “bambole”, non deve essere considerata come la lectio facilior da preferire. Alcune di queste statuette eccezionali deposte nelle tombe della Grecia del Dark Age potevano assumere degli specifici signifi-cati simbolici ed essere utilizzate in rituali collegati con la sfera dell’individuo e del momento della sua morte: significati e rituali che per noi sono andati irrimediabilmente perduti.

Appendice

E. Mangani ha ripubblicato di recente una statuetta femminile fittile a corpo campaniforme di epoca geometrica, rinvenuta in una tomba di Camiro, il cui corredo è custodito presso il Museo Nazionale Preistorico Etnografico di Roma: ‘Mate-riali micenei, geometrici e orientalizzanti di Rodi’, Bullettino di Paletnologia Italiana (Roma) 96, n.s. 14, 2005-2007, pp. 203-310, spec. 212-220, n. 6, figg. 10.6 e 11.1. La tomba era stata scavata da G.G. Porro nel 1913 nel declivio a nord dell’acropoli di

Camiro (G.G. Porro, ‘Ricognizione archeologica di Camiros’, in BdA 1915, fasc. 10°, pp. 283-300, spec. 288-289 e 294, fig. 7). Si trattava di una tomba a fossa di bambina, che conteneva, oltre alla statuetta femminile, un’altra di “volatile” (purtrop-po andata perduta), due black skyphoi, due lekythoi di tipo cipriota ma certamente di fabbrica rodia, una coppa biansata, e dei vaghi di collana in pasta vitrea, alcuni a corpo di volatile: questi ultimi sono gli indicatori del genere probabilmente femminile del defunto. Il corredo va datato al passaggio tra la fine del Medio Geometrico II ed il Tardo Geo-metrico I, soprattutto sulla base della presenza dei black skyphoi, tipo che ricorre nei contesti funerari di Ialysos e di Camiro per l’appunto in questo momento cronologico: in termini di cronologia assoluta la tomba si data all’incirca tra la metà ed il terzo quarto dell’VIII sec. a.C. Si tratta, dunque, di una statuetta nettamente più recente rispetto a quella di Ialysos, ma che, assieme alle statuette di Lindos, riflette la continuità del tipo campaniforme di tradizione vascolare nella plastica rodia nel corso dell’VIII sec. a.C. Rispetto all’esemplare ialisio, si segnalano come elementi di confronto nella statuet-ta di Camiro per l’appunto la forma tronco-conica a profilo continuo del corpo, l’analoga posizione delle braccia aperte, la presenza dei seni rilevati, il collo allungato, ma nell’esemplare camirio la resa del volto è più semplificata ed è caratterizzata da orecchie più sporgenti e da un profilo diverso col naso più prominente.

Inoltre, la statuetta di Camiro probabilmente presentava le gambe realizzate a parte e mobili, andate perdute (come nelle cosiddette “bambole” in Handmade Ware). La loro originaria presenza è indiziata dai fori ricavati nella parte inferiore della veste, attraverso i quali sarebbe stato fatto passare il filo che le teneva.

Sul piano delle possibili valenze simboliche della statuetta di Camiro, si segnalano due analogie con la statuetta ialisia: in primo luogo, il fatto che ambedue rappresentino una figura femminile e siano deposte all’interno di una tomba di bambino, di cui nel caso di Camiro è possibile stabilire il genere, probabilmen-te femminile. Così come è interessante segnalare il parallelo tra la tomba ialisia e quella di Camiro per la contestuale deposizione di una statuetta femminile e di una di volatile (che poteva essere un askòs, come quello ornitomorfo della tomba di Platsa Daphniou).78 Su cui cfr. supra nota 34; Kourou 2002, p. 27, figg. 8a-c.

79 Morricone 1978, p. 133, n. 101, figg. 214-215.

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In the heart of the Ionian Cyclades, the ancient necropolis at Tsikalario located on a bleak, rocky plateau, commanding a rich olive trees plain of central Naxos (fig. 1), in the area of Tragaia, near the modern village of Tsikalario (fig. 2), is one of the most impressive cemeteries of the Geometric period in Greek lands.

At this site there is a complex of about twenty – five tumuli out of which seventeen, as well as other types of burials and buildings were investigated in three seasons of excavation between 1963 and 1966 (fig. 3)1. The tumuli, some as large as 9 to 12 m. in diameter, were made of a stone kerb (the stones were huge rock upright slabs) approximating to a perfect circle and in one case to an ellipse (figs. 4-5). Most of them had one or more cremation pyres inside, usually on flat ground, but also some others had large and smaller rectangular cist graves (fig. 5), that unfortunately had been found robbed; judg-ing however from their dimensions they did not probably contained the ashes or bones of cremated persons. The offerings were distributed between the cremations themselves, other deposits inside, and further burnt deposits outside, some of which contain animal bones. The offerings include plen-tiful coarse ware and vessels with linear geometric decoration painted and in five cases incised, clay figurines, three of women and three of birds (figs. 9, 11), fifty – six small conico – pyramidal clay spindle whorls, iron swords and daggers, a bronze arched fibula of East Greek type, a bronze spectacle fibula, a silver ring, three gold bracelets of twisted wire (fig. 8), a small figured diadem with animal scenes of thin sheet gold and a lot of fresh fruits

for the most figs and grapes (fig. 10). Outside a rectangular area given over to offerings, was a small cist grave (figs. 12-13) for a child, with traces of a pyre and burnt bones.

Apart from the tumuli graves, many other com-plexes of constructions have come to light as well as a big peribolos (= enclosure), whose stone kerb was not made of the usual rock upright slabs, common for all the other tumuli = periboloi. This peribolos, up to 9,40 m. across (figs. 3, 4 right, 6), was built with a low wall of small stone slabs in two rows, as it was common for the constructions in the Archaic period. No cremation pyra has been found inside but only traces of burial ceremonies and remains of ceremonial pyres.

Another very interesting peculiarity of this cemetery is that there was a kind of “road web” (figs. 3, 14) in the whole area of the valley, with two pathways conducting the visitors among the tumuli – graves to find their own burial construc-tion. The main path from low, from the plain, up to the plateau, at the South, ended in the cemetery entrance where a huge “menhir” was erected as “sema” – marker of the grave area (figs. 3, 7). The “menhir”, 3,20 m. high, was a rocky huge upright slab, laid in front of a big peribolos – which was not for burial use because it was full of thrown stones; the “menhir” then was perhaps an early form of a Hermes stele, put there at the end of the path from low up to the plateau where the path was divided in two others among the tumuli – graves (fig. 3). Therefore the “menhir” was erected in a crossroad in order to protect the passengers, who, as they went away from the necropolis area, used probably

THE TUMULUS NECROPOLIS AT TSIKALARIO ON NAXOS

Photini Zaphiropoulou*

* Dr. Ph. Ephor Emer. of Antiquities.1 Doumas 1963, pp. 279-280. Papadopoulou-Zaphiropoulou

1965, pp. 515-522; 1966, pp. 391-395. See also 1983a, pp. 1-4. 2001a, pp. 285-292; 2001b, pp. 7-11.

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to throw stones behind them to prevent the evil. As far as I know that is a quite rare or a unique archaeological document for such a ceremonial practice and especially from a so early period.

There is also another “puzzling feature”2: the frequency of large closed vessels lying outside the tumuli, close to the stone kerb, having a slab on the base and another on the mouth containing nothing but sand, which was not from the area, but transported from somewhere else (figs. 15-16). The hypothesis that these large vases, protected by slabs as if they were ash urns or as if they contained infant inhumations the bones of which have been decom-posed, must be under consideration; in an infant cist grave of this cemetery the bones of the dead child have been found with the grave offerings as well as at Paros, in the geometric and archaic cemetery3, where the bones of infant inhumations in big vessels have been found, almost intact, inside with the offerings.

According to the grave goods the cemetery at Tsikalario was mainly used during the MG period4, but it seems, that it continued into the 6th cent. B.C. as a place of veneration probably of the ances-tors; the peribolos of the Archaic period (fig. 6) is a

2 Coldstream 2003, p. 92.3 Zaphiropoulou 2002, pp. 283-284 and n. 16-20; Zaphi-

ropoulou 2003, p. 8 and n. 15. 4 Coldstream 2003, p. 92; Charalambidou in this AION. 5 Coldstream 2003, p. 92.

characteristic document of this kind of veneration activities as well as the complexes of constructions outside the tumuli areas, which don’t belong to a settlement5, small or big, but they must be linked to funerary cult and especially to the cult of the dead and of family ancestors6. It is also to be noticed that this cemetery belongs to a feudal “aristocracy” that dominated in the whole Naxian land and practiced its cult ceremonies not far away from there, in the plain near Tragaia, at the area of Sangri, in the sanc-tuary at the site Gyroulas, that later was dedicated to the goddess Demeter7.

The last problem that is to be considered is the burial type of the tumuli in the South Greek lands. Well represented in other regions of the North Greek world in the Bronze and Iron Ages, such as in Mac-edonia, Thessaly and Epirus8 their appearance in the Naxian inland is perhaps due to experiences received during some warlike expeditions that these feudal warriors have realized alone or with their allies, the Euboeans, into the Northern Greece.The weapons among the grave offerings, the shape of the kantha-ros type with discoid handle terminals common in Macedonia adapted by local ceramists in the inland of Naxos9, the imported Cypriot vase, all these are elements supporting the hypothesis above, of a war-like population adapting some impressive, unknown to them art types as well as ways of cultural life or of burial practices and at the same time developing commercial connections with some wealthy cities as i.e. with Cyprus. At the same period too, the in-habitants of the coastal Naxos, as far as we can judge from the ceramic evidence, have made connections farther north with the Thessalians and closer ones with the Euboeans, with whom they have taken part to the colonization of a new city, in the far Ouest, Naxos in Sicily.

In conclusion, this strange cemetery at the Naxian highland contains some unique burial complexes that open new horizons for the investigation of the cult practices of the remote so called “Dark Age”, changing much of our knowledge about the extreme diversity of early burial customs in the maritime Cycladic world.

Fig. 1. Map of the island of Naxos (A.G. Vlachopoulos [ed.], Archaeology: Aegean Islands, Athens 2006, 272).

6 Cfr. Charalambidou in this AION, p. 61. 7 Cfr. Lambrinoudakis, Gruben, Korres, Simantoni-Bournia

et. al. 2001. 8 Snodgrass 1971, pp. 154-155, 160-163, 172-173, 257-261. 9 Charalambidou in this AION, pp. 63, 68.

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51The tumulus necropolis at Tsikalario on Naxos

Fig. 2. General view of the plateau with the necropolis from south.

Fig. 3. Plan of the tumulus cemetery at Tsikalario.

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Fig. 4. Tumulus 6 and Peribolos 9.

Fig. 5. Tumulus 10.

Fig. 6. Peribolos 9.

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53The tumulus necropolis at Tsikalario on Naxos

Fig. 11. Clay figurine.

Fig. 7. The “menhir”.

Fig. 9. Clay figurines of birds.

Fig. 8. Gold bracelets of twisted wire.

Fig. 10. Burned fruit offerings.

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Fig. 14. Detail of the “road web”.

Figs. 15-16. Vessels outside tumuli.

Figs. 12-13. Funerary enclosure 11 with a child cist-grave.

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55The tumulus necropolis at Tsikalario on Naxos

Bibliography:

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= Ph. Zaphiropoulou, La céramique “mélienne”, Délos XLI, Paris 2003.

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The ancient cemetery of Tsikalario is located at the site of Alonakia near the modern village of Tsikalario, in the area known as Tragaia in central Naxos. Its location is breathtaking: the landscape is rocky and isolated, a place which seems to stand between earth and sky, appropriate for an impos-ing necropolis2. The study of the material from the necropolis of Tsikalario was recently entrusted to me; my research began in 2008. The brief outline presented in this article should therefore be con-sidered only a preliminary report that brings some discussion points to the table and gives an overview of some of the methods which will be applied to the study of the ceramic material. This research aims to add new evidence to what we know about Naxian pottery and archaeology regarding questions such as the characteristics of production and circulation of the ceramics from workshops in the interior of Naxos compared with those from workshops in Chora (Naxos Town), the main settlement and harbour of Naxos, the use of artifacts in funerary contexts, the relationship between wheelmade and handmade pottery, and the nature of Naxian con-tacts with other parts of the Greek world.

The pottery from the cemetery includes a va-riety of wheelmade and handmade vessels. At Tsikalario, the relationship between wheelmade

and handmade pottery, which are present in an approximately half-and-half ratio, becomes read-ily apparent for the first time in a burial context on Naxos3. The large number of handmade vessels from Tsikalario, which served various purposes in the context of the cemetery, may also be a result of the site’s more remote location, perhaps indicating a workshop in the island’s hinterland, likely close to Tsikalario cemetery in the vicinity of Tragaia. Typical examples of handmade pottery production, usually embellished with incised and/or stamped decorative motifs in combinations of patterns that often indicate workshops different from those that produced the handmade pottery of Tsikalario, are also known from the South and North Cemeteries (including Plithos) in Chora4.

The possibility that a workshop existed near the cemetery of Tsikalario is strengthened by initial macroscopic observations of technical features of the Tsikalario vessels. Kourou has asserted that the Middle Geometric (MG) wheelmade painted pot-tery from Tsikalario has a provincial character which differs from the Naxian vessels from Chora not only in style, but also in fabric, as the local clay used in the vessels from Tsikalario looks very crumbly and gritty. In contrast, the fabric of the MG vases from Chora is fine and hard-fired, with a very distinctive

THE POTTERY FROM THE EARLY IRON AGE NECROPOLIS OF TSIKALARIO ON NAXOS: PRELIMINARY OBSERVATIONS1

Xenia Charalambidou

1 My warmest thanks to professor B. D’Agostino for invit-ing me to contribute to this issue of AION. I want to express my gratitude to dr. Ph. Zaphiropoulou (Ephor Emerita of Antiquities, Greek Archaeological Service) for entrusting the unpublished ceramic material from the cemetery of Tsikalario (Naxos) to me for study and final publication. I also wish to thank profs. E. Simantoni-Bournia and N. Kourou for their advice on Naxian pottery. Any errors that remain are purely my own. My sincere thanks go to the J.F. Costopoulos Foundation for supporting this research at its very beginning. In the figures, all the drawings are by the author.

2 For the excavations at Tsikalario, see Zaphiropoulou in this issue of AION.

3 Though scholars have recognized the close coexistence of handmade and wheelmade pottery in other parts of the Greek world such as Macedonia, the Naxian evidence, which comes from a secure stratigraphical context, is still little known. For the relationship between handmade and wheelmade pottery in Late Bronze and Early Iron Age northern Greece, see Kiriatzi et al. 1997, 361-368; Papadopoulos 2005, especially 416-418.

4 Kourou 1984, 108; 1999, 82-84; Zaphiropoulou 2001, 295, fig. 39; 2004, 414, fig. 3.

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black shiny glaze, sometimes applied on top of a relatively thick layer of very pale slip5. Though these remarks hold true, it should be observed that the fine wheelmade vessels from Tsikalario have suffered considerable damage, likely in part because of soil

conditions and the envi-ronment within the pyres. In addition, there is some evidence that slip was also applied to at least a few of the vessels from Tsikalario, but the vessel surfaces are so badly worn that only faint traces of the slip remain. The picture therefore appears to be far more complex than formerly supposed, so that further archaeometric analy-sis of samples from both Tsikalario and Chora will be necessary to obtain more detailed information6.

The majority of the mate-rial from the funerary struc-tures at Tsikalario belongs to the MG period, particularly the MGII period, although certain offerings, for instance a flat pyxis in the vicinity of the cist grave by funerary enclosure n. 11 (see Zaphi-ropoulou figs. 12-13), which will be discussed below, can probably be dated to the MGI period. The main period of the cemetery’s use seems to be the MG period, but sporadic burials still con-tinued in the necropolis area as late as the Archaic period and even later, as indicated for example by a pointed amphora (fig. 1a) with its

mouth overlapped by a pithos fragment decorated with incised crosses and stamped small circles (fig. 1b)7. More scanty post-MGII material was also found in the interior (perhaps originating in the upper layers) and in the vicinity of some funerary

5 Kourou 1984, 108. For details of the techniques used to produce pottery from the South Cemetery of Naxos Town, see Kourou, 1999, 85-114.

6 Moreover, there are vessels from Tsikalario which include golden and silver mica; this can probably be explained by the geology of Naxos, in particular the formations of metamorphic rocks (schist and gneiss) containing both golden and silver mica

that occur in the vicinity of the site (I thank Dr E. Kiriatzi, director of the Fitch Research Laboratory at the British School of Athens, for this information). Golden and silver mica is also visible on vessels from Chora.

7 An inscribed stone plaque was also found in front of the amphora (Papadopoulou-Zaphiropoulou 1966, 395. See also Coldstream 2003, 92). Regarding the Archaic pithos fragment

a b

a b

Fig. 1. a) Late archaic - Early Classical pointed amphora; b) Fragment of an Archaic pithos.

Fig. 2. a) Middle-Geometric tripod kalathos-shaped vessel; b) Archaic relief stand.

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59The pottery from the Early Iron Age necropolis of Tsikalario on Naxos

structures, as well as in the buildings in areas A, B, and C (see Zaphiropoulou fig. 3). This material, among which are fragments of large plain pithoi and at least one relief vessel, probably a stand, found in one of the rooms of the area B complex (fig. 2 b)8, raises many questions about its function. Determining the role that these vessels played is integral to understanding the activities that took place after most of the funerary structures had been constructed. One possible interpretation, although we should stress that at this early stage of research we cannot draw any conclusions, is that at least some of these vessels were used for cult purposes, including honouring the cemetery’s dead. Most of these vessels seem to be of Naxian manufacture. Tomb cult and ancestor cult have a long tradition on Naxos, a tradition that continued for a very long period, as has been observed in Chora, at Grotta and in the area known as Metropolis9. The buildings in areas A, B and C have been linked by several scholars to funerary and chthonian cults; others believe that the complex of rooms in area B represents a settlement10.

Let us now turn to a brief survey of the shapes of vessels found in the context of the funerary structures of Tsikalario, mainly MG in date, with some remarks on the most distinctive shapes. At this point, I make no distinction between ash urns and grave goods generally; an effort to do so will be attempted in the near future, although it will be severely hindered by the fact that human bone remains from the cremations at Tsikalario rarely survive. The majority of the material found in the cemetery is ceramic. For this reason, pottery can provide us with the solidest evidence about both production patterns and social and economic con-ditions in the interior of Naxos.

The wheelmade pottery from Tsikalario shows a significant Atticizing flavour, a feature already re-marked in the ceramic material from the burials of Chora11. Signs of local taste in wheelmade pottery can also be observed, however, in addition to the production of handmade pottery. The wheelmade pottery from Tsikalario often finds parallels, both in shape and in decoration, in the wheelmade ves-sels from Chora; furthermore, the Tsikalario group

(fig. 1b), Simantoni-Bournia has pointed out that incised X’s with stamped small circles already have a long history on Naxos going back to the MG period. The most typical example is in fact from Tsikalario, a handmade tripod kalathos-shaped vessel, probably of MGII date, found in funerary structure n. 5 (B) (fig. 2a) (Simantoni-Bournia 1998, 487-516, and especially 493-494; for the first publication of this vessel, see Doumas 1963, 280, pl. 325b). From the last quarter of the 7th and during the 6th century B.C., however, vessels with variations of this motif seem to be produced mainly in Attica and in the Cyclades on islands like Kea, Kythnos, Siphnos, Paros, and Amorgos; in the current state of our knowledge, the limited number of such vessels from Naxos has not favoured the possibility of local manufacture (Simantoni-Bournia 1998, 504).

8 Papadopoulou-Zaphiropoulou 1966, 395. 9 Lambrinoudakis 1988, 235-246; Antonaccio 1995, 201-

202, 246, 250; Mazarakis Ainian 1997, 188-189; Morris 2000, 246-249. Ancestral cult is also known at other sites in the Cyclades, e.g. at Xobourgo on Tenos (Kourou 2008, 74).

10 Cultic identification of buildings in areas A, B, and C: Zaphiropoulou 1983a, 2; 2001a, 292; See also Zaphiropoulou in this AION. Themelis 1975, 24-25, 40-42; 1976, 240-241; Lauter 1985, 170-176; Mazarakis Ainian 1997, 191-193, 330. Area B complex identified as a settlement: Drerup 1969, 51; Kourou 1988, 32; Coldstream 2003, 92. This problem will be discussed more fully in another paper.

11 Kourou 1999, especially 90-95; Coldstream 2003, 90-92; 2008, 165-171.

a b c d

Fig. 3. a-b) MG flat pyxis with lid; c-d) MG small mastoid jug.

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includes shapes that until now were unknown at Naxos Town and thus increase our knowledge of the Naxian repertoire. Among the wheelmade closed shapes from Tsikalario, two types of pyxides have been found, globular and flat, the latter (fig. 3a-b)12 an Atticizing type not previously known in the Cyclades13. Uncovered together with several other offerings in the vicinity of the cist grave by enclosure n. 11 (see Zaphiropoulou fig. 13), this flat pyxis finds close parallels in Attic flat MGI pyxides14 and may be dated to the last quarter of the 9th century B.C., which would make it one of the earliest vases among these offerings and the ceramic material found until now in Tsikalario as a whole, although the conservatism of Naxian potters should be taken into account when constructing a

12 Papadopoulou-Zaphiropoulou 1965, 522, pl. 656c. 13 Coldstream 2008,169, 468. 14 Coldstream 2003, 92; 2008, 17, pl. 3f-h. 15 Examples of Naxian potters’ conservatism: Zaphiropoulou

1983b, 132; Kourou 1999, 92-95. 16 Some small handmade vessels were also found in and

around the same cist grave; two will be discussed below.

chronology15. Amphoras of the belly-handled and neck-handled types are also represented, many of them fragmentary, as well as a tripod pithos showing a shape analogous to handmade tripod vessels. The medium-sized closed shapes that occur at Tsikalario are represented by amphoriskoi, trefoil oinochoai, trefoil lekythoi and jugs with horizontal rim, while some closed vessels of small dimensions have been found mainly in the cist grave by enclosure n. 11 discussed below (an example is the small jug with mastoid projections in fig. 3c-d)16.

As regards open wheelmade vessels, four bowls have been discovered (in pairs), while cups as well as skyphoi (e.g. fig. 5a-b) were a very common form of offering, represented in two types, deep and shal-low. Only a few mastoid cups have been found; one

Fig. 4. Tsikalario, funerary structure n. 6 (lowest level) (Papadopoulou-Zaphiropoulou 1965, 516).

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61The pottery from the Early Iron Age necropolis of Tsikalario on Naxos

17 MGII mastoid cup: Papadopoulou-Zaphiropoulou 1965, 517, pl. 650b. Parallels for this shape of cup in the South Cem-etery of Chora on Naxos: Kourou 1999, 60-62. The decoration of the cup – two pairs of hatched meander hooks – appears on Cycladic drinking vessels such as cups and skyphoi and seems to derive from a typical Attic MGII design: Coldstream 2008, 170. For the significance of mastoid vessels in graves, see Kourou 1999, 176. Among the grave goods inside the central cremation pyre of funerary structure n. 6, a few iron weapons were found: Papadopoulou-Zaphiropoulou 1965, 515.

18 High-handled kantharos with discoid terminals: Papa-dopoulou-Zaphiropoulou 1965, 521, pl. 655b; Coldstream 2003, 92; 2008, 468.

19 Vergina: Andronikos 1952, 241-252; 1953, 146, fig. 7; 1969, 202-204; Petsas 1961-62, 218-288, pl. 102-103, 119, 150-153; Carington-Smith 1991, 339-340; Trakosopoulou-Salakidou 2004, 271. Pydna: Karliabas, Besios and Triantafyl-lou 2004, 344, fig. 9. Kastanas: Hochstetter 1984, 99, Taf. 240,1; Carington-Smith 1991, 339. Sites in the Chalkidike:

of them, datable to the MGII period (fig. 5c-d), was in funerary structure n. 6 (fig. 4), inside an elaborate handmade amphora (fig. 5e-f ) located just above the central cremation pyre, which seems to be connected with a male burial17. Kantharoi are well represented at Tsikalario, showing varia-tions in shape. Among these vessels, one kantharos that has high handles with discoid terminals (fig. 6a-b), found inside the cist grave by enclosure n. 11 and dated to MGII, is a type never before seen on Naxos; although its clay does look local, the vessel shows probable northern Greek influences18. Kantharoi with discoid terminals were popular at Vergina but are also known at other places in the larger region like Pydna and Kastanas, as well as in the Chalkidike, especially at Koukos Sykias, Torone, Aï-Yianni Nikites, and Olynthus on the Sithonia peninsula19. This type of northern Greek kantharos with discoid terminals is thought to have been in use for a long time, down to the Archaic or perhaps even the Early Classical period20. The handmade version of this type of kantharos was by far the more popular, whereas the wheelmade version appears more rarely in Macedonia21. Some variations in form may indicate a local origin for the Tsikalario kantharos. For example, the shape of the terminals is almost flower-like, slightly dif-ferent from those found at Vergina; high-handled kantharoi with discoid terminals are known only in northern Greece, however, and it is therefore probable that the inspiration for the form of the Tsikalario vessel indeed came from there. Schach-ermeyr impulsively called this kantharos and some other vases from Tsikalario “Makedonisches”22.

The cist grave by enclosure n. 11 (see Zaphirop-oulou figs. 12-13) where this kantharos was found would seem to have been of a child because some of the other vases in it were of small dimensions (e.g. fig. 3c-d)23. This interment can be considered a wealthy burial, for in addition to rare vases such as the kantharos and a two-handled flask of Cypriot type24 it contained fifty-six spindle whorls, a round bead of green glass, a bronze fibula of “East Greek” type (according to Zaphiropoulou), fragments of a bronze ornament which the excavator identified as a spectacle fibula, a bird-shaped clay object with a suspension loop, two smaller bird figurines, and three clay figurines of women. Some offerings in the vicinity of this cist grave may also be connected with the same burial (among them another bird figurine)25. The quantity and quality of these grave goods are at least as suggestive of the family’s status as of the deceased’s own identity26.

The handmade pottery constitutes almost the half of the ceramic material from Tsikalario. The current study is the first time that such a high proportion of handmade wares is being examined in the context of a Naxian cemetery. The repertoire of shapes gives a good picture of the local craftsmanship. Many handmade vessels show high standards of artisanal production, while there is also a group of a few small handmade burnished vessels. Papadopoulos’ observation about the handmade pottery from Tor-one – «Handmade vessels deposited in tombs served specialized, prestigious, and ideological needs as much as any wheelmade and painted pottery» – could just as easily be applied to the handmade vessels, most plain, some highly ornamented, that

Carington-Smith 1991, 336, fig. 3 (type 2), 339-340; Trako-sopoulou-Salakidou 2004, 271, fig. 10; 2006/07, 48, pl. 3:1; Papadopoulos 2005, 473.

20 Carington-Smith 1991, 342. 21 Papadopoulos 2005, 455. 22 Schachermeyer 1980, 331, Taf. 65d. 23 For this cist grave: Papadopoulou-Zaphiropoulou 1965,

520-522; Zaphiropoulou 2001a, 291, figs. 13-14. 24 Papadopoulou-Zaphiropoulou 1965, 521, pl. 656d;

Zaphiropoulou in Ploes, 258, n. 137; Zaphiropoulou 2004, 414, fig. 5.

25 Papadopoulou-Zaphiropoulou 1965, 520-522. See also Zaphiropoulou in this AION (figs. 9, 11). Clay bird figurines are also known from a burial in the South Cemetery of Chora: Kourou 1999, 69-81. For bird figurines in burial contexts see also Xagorari 1996, 54.

26 McHugh 1999, 24: «a child is too young to have achieved so-cial identities that would find recognition by wealthy grave goods, so these social identities must have been ascribed at birth.» .

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62 Xenia Charalambidou

were found not only inside the Tsikalario funerary structures but also in their vicinity27. A compara-tive study of this handmade ware together with the wheelmade pottery found in the same contexts will provide evidence that can help us date them and understand their function.

Many handmade jugs from Tsikalario that can be dated to the MG period have a horizontal rim, short neck, and wide, spherical body with a flat or convex base (e.g. fig. 6e-f )28. Another category of handmade jugs comprises a small number of items: the small burnished jugs, including one with a line of incised lozenges on the handle (fig. 5i-l)29. Dif-ferent types of handmade amphoras can be distin-guished: one of them is a narrow-bodied amphora found among the offerings placed just above the central cremation pyre of funerary structure n. 6, which was, as already noted, most probably a male interment (fig. 5e-f ). Its handles were embellished with horn-like terminals, while on the spine of the handle is a row of inverted V’s. Inside it was the MGII mastoid cup that dates the amphora, as stated above. This vessel was manufactured with great care, perhaps because it was intended for the main cremation burial in the tumulus. In addition to wheelmade amphoriskoi, handmade amphoriskoi were also produced, significant examples of the expertise of the local workshop. Two amphoriskoi were found, one inside the child burial by enclosure n. 11 and the other among the offerings in the vicinity of the same grave (see Zaphiropoulou figs. 12-13). Both of them have spherical bodies and necks terminating in the same type of out-turned rim on which the lid was placed. Both lids have survived. One of them (fig. 6 c-d), adorned with a horse figure, looks like a local adaptation of the lids with handles in the shape of horses found mainly on Attic pyxides of the MGII period30.

Handmade pithoi come in different types. Sim-ple undecorated pithoi (e.g. fig. 5g-h) occur in different sizes and were clearly popular with cem-etery users. They were found in several locations: a) inside the burials; b) among offerings located outside the cist graves of one funerary structure;

and c) among vases around the outside of another funerary structure. At least some of them may have been used as ash-urns.

The most impressive handmade vessels from Tsikalario, mainly MGII in date, are undoubtedly those which bear incised or, more rarely, a combi-nation of incised and stamped decoration, usually handmade tripod vases. Naxos has a great tradition of producing handmade pithoi with incised and/or stamped decoration, and several workshops seem to have existed in the neighbourhood of Chora and in the island’s interior. The finds from Tsikalario offer additional information about the production and distribution of the workshops which produced such vessels31. We can distinguish a few different styles of decoration among these large decorated handmade vases. A few pithoi from Tsikalario share the same incised patterns, for example concentric triangles together with vertical zones of herringbone pattern that decorate part of the body surface as well as the tripod legs, so they are probably products of the same workshop, or even the same potter (fig. 6g-h and 6i-l)32. At Chora, handmade pithoi frequently show different styles: for instance incised decoration which features hatched meander patterns and zig-zags, or pithoi embellished mainly with varying combinations of stamped small circles33. Some other pithoi from Chora, however, show similarities of decoration with the vessels from Tsikalario. In addition to the tripod kalathos-shaped vessel from Tsikalario (fig. 2a) whose similarities to a tripod pithos from Chora have been discussed by Kourou, there are handmade pithoi from Naxos Town on which con-centric triangles or vertical zones in a herringbone pattern also appear – although usually combined with motifs different from those of Tsikalario – indicating a greater number of shared decorative features than previously recognized34.

The material from Tsikalario offers a limited range of imports as a sign of contacts with other places such as Attica, Paros, and the eastern Mediterra-nean35. The small number of imports found in the cemeteries of Naxos, rural Tsikalario among them,

27 Papadopoulos 2005, 464. 28 Cfr. the form of Attic handmade jugs: Reber 1991, 30. 29 Papadopoulou-Zaphiropoulou 1965, 517, pl. 650a. Burnished

small-sized handmade vessels in tombs: Kourou 1999, 109-111. 30 This lid (Papadopoulou-Zaphiropoulou 1965, 522, fig. 19)

seems to fit the handmade amphoriskos of fig. 6 c-d.

31 See also Kourou 1999, 111-114. 32 Papadopoulou-Zaphiropoulou 1965, 522, pl. 651, c-d. 33 E.g. Kourou 1999, 111-114. 34 Kourou 1999, 113-114. Pithos from Plithos: Zaphiropoulou

2001a, 295, fig. 39. 35 For the two-handled flask of Cypriot type, see n. 24.

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63The pottery from the Early Iron Age necropolis of Tsikalario on Naxos

Fig. 5. Tsikalario, funerary structure n. 6. Characteristic MG finds from the central cremation pyre: the skyphos a-b was found deep within the cremation pyre, the rest of the offerings (c-l) just above the pyre.

a b

c d

e

g h

f i

l

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64 Xenia Charalambidou

may indicate the self-sufficient character of the local inhabitants36.

Some preliminary observations, based on an initial quantitative estimate, are summarized as follows37: the most common wheelmade vessels are amphorae and jugs, together with cups and skyphoi; shallow cups are more numerous than deep cups, while deep skyphoi are more abundant than shallow ones. Apropos of the handmade ves-sels from Tsikalario, the most common shape is plainly the jug, followed by the amphora and the pithos. Plain, unadorned pithoi are more common than decorated tripod pithoi; the latter may be regarded as more lavish offerings. Many of these vessel shapes as well as many of the vessel types also appear in the published material from the South Cemetery of Chora, which is more limited because the exact origin of most of the offerings from the graves is unknown. Fifty-seven vases from the South Cemetery have been identified, fifty-five wheelmade and two handmade; study of this material has achieved a partial reconstruc-tion of the burial units38. Limitations exist also in the case of Tsikalario, since some of the material comes from funerary structures that had already been robbed, which reduces our ability to reach an overall assessment of the burial contexts in the Tsikalario necropolis. Publication of the North Cemetery material will furthermore help to clarify the relationships between the ceramics from Chora and those from Tsikalario39.

Who were the people who built the funerary structures of Tsikalario, which include many tumulus-like constructions, used them, and placed

their offerings there? This distinctive quasi-tumu-lus burial type has not been previously recorded in Naxos, though it shares some features with Iron Age tumuli found in other regions of the Greek world such as Macedonia40. Cremations, however, common in the cemetery of Tsikalario, were also performed in the cemeteries of Chora as a funer-ary practice parallel with inhumation41. The use of tumulus-like structures for the Tsikalario burials is not necessarily an indicator of a different ethnic group in Tragaia (Macedonians?) but rather the Naxians’ adoption of funerary elements acquired through their contacts with other regions of the Greek world during the Early Iron Age42. Ceramic evidence can contribute to this discussion, for most of the ceramic material from Tsikalario finds closer parallels in the ceramics from the burials of Chora. Certain vases which could indicate influ-ence from northern Greece – the high-handled kantharos with the discoid terminals, for instance – seem to be locally produced, suggesting that there is less of this quasi-northern material than originally thought. The possibility that the frag-ments of bronze found in the burial by enclosure n. 11 (see Zaphiropoulou figs. 12-13) might belong to a spectacle fibula should also be taken into account, but this evidence may be insufficient to support the hypothesis of a Macedonian com-munity at Tsikalario when the majority of the ceramic evidence still points to the existence of a Naxian workshop. Other imported items show that rural Tsikalario also had contacts with the eastern Mediterranean, to judge from the presence of a two-handled flask of Cypriot type, which, as

36 See Kourou 1994, 266. 37 For the present, the MNI (=Minimum Number of Individu-

als) quantification method has been used. Although it has more frequently been applied to material from settlements and cult deposits, it was chosen as a preliminary tool because it ensures that the fragmentary material from Tsikalario will also be taken into account. The MNI system counts the minimum number of vessels restored from fragments as well as the complete vases. The material from the necropolis was counted first to obtain the number of complete vessels; the number of rims and body sherds from the fragmentary material was then added. The quantifica-tion was limited to complete vases, fragments of rims, and body fragments and did not extend to bottoms and handles, although bottoms and handles are also categorized into types, since it is very difficult to avoid recounting items that have already been counted according to their rims when counting handles and bottoms. Counting body fragments from vessels which cannot belong to the rims already quantified proved to be very useful in many cases: for instance, it helped in estimating the number of

post-MGII pithoi found in fragments at Tsikalario. This experi-mental application uses the MNI system’s rules; where it differs is in the proportion of complete vessels to fragmentary ones, which, as said before, is much higher in comparison with set-tlement material. This quantification was made after restoration and conservation of vessels and fragments had been completed at the Naxos (Chora) Museum. According to my initial MNI estimate more than 200 vases have been found up to now in the necropolis of Tsikalario, although further recalculation of the number of recovered vessels will be required as research proceeds. For methodological details, see Arcelin et al. 1998.

38 Kourou 1999, 7. 39 The Plithos cemetery, representing part of the North

Cemetery of Chora, will shortly be published by Photini Za-phiropoulou and Karl Reber.

40 Cfr. Zaphiropoulou in this AION. 41 Snodgrass 1971, 156; Kourou 1999, 161-167. 42 Cfr. Zaphiropoulou in this AION. For Naxian contacts see

also Snodgrass 1971, 125; Kourou 1984, 111; 1994, 263-330.

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65The pottery from the Early Iron Age necropolis of Tsikalario on Naxos

Fig. 6. a-b) MG high-handled kantharos; c-d) MG amphoriskos with lid; e-f ) MG jug; g-h) MG tripod pithos; i-l) MG tripod pithos.

a

c

g

e

f i l

hd

b

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66 Xenia Charalambidou

mentioned above, was actually found in the same cist grave as the kantharos with discoid terminals43.

The question of why a community would choose to adopt burial practices that seem unique within its own regional context also arises in other areas of the Greek world, as for example in Thessaly, where the Halos tumuli present a unique pyre-cairn tumulus combination44. In the case of Halos, the evidence supporting a local origin for the occupants of the unique tumuli there comes from the site itself: in addition to metal artefacts, most of the pottery dis-covered in the pyres has been recognized as belonging to the local repertoire45. As Georganas points out in the case of the Halos tumuli, «the people from Halos choose mortuary differentiation in order to create a new social reality, namely a new identity; an identity which does not necessarily have to do with a distinctive ethnic group struggling to promote its different ethnic background, but with a community trying to promote its individuality by detaching itself from both past and contemporary traditions»46. As with Halos, it would be rather daring, if not indeed reckless, in the present state of the evidence to deduce the existence of a distinctive ethnic group trying to promote a different ethnic tradition at Tsikalario. Addressing the issue of ethnicity is always difficult; as Hall has argued, it cannot be conducted according to just one type of evidence but must extend across all possible classes of evidence47. For the present, we can observe that certain elements in the mortuary habits of the community at Tsikalario signal an effort to set it apart from Chora48. The plateau on which Tsikalario cemetery was situated commands the rich-est valley in the interior (as Zaphiropoulou observes in this AION). The people who constructed these funerary structures and placed their offerings – at least at the beginning – may have been the leading families of a community, who were trying to assert their ownership of the valley by establishing an

impressive landmark that legitimated their claim to the place.

From which model or models the inhabitants of Tsikalario drew their inspiration is difficult to discern. One reason may be that they had no inten-tion of imitating it/them directly; rather, they may have preferred to adapt it/them more closely to their own world-view. For instance, the high popularity of the kantharos type with discoid handle terminals in Macedonia, especially at Vergina49, may indicate that vessels from northern Greece could have served as models for the kantharos from Tsikalario, whose somewhat different shape and technical features suggest it may have been locally made. As well, an important distinction can be made between Vergina and Tsikalario in the matter of burial practices, for cremation is far rarer at Vergina than inhumation in pit graves50.

After the main period of the use of the funerary structures, which was the MG period, vessels of dif-ferent categories were also being deposited, some of them offered in the course of activities which may be understood as rituals for the dead. This long period of cemetery use is strongly indicative of the site’s im-portance; some post-MG offerings, which go down at least into the Archaic period, may be interpreted as probable acts of veneration of the dead, who were regarded as the ancestors of the people living around Tragaia, and perhaps as a means of articulating the community’s territorial claims.

List of the pottery

Fig. 1a. Late archaic - Early Classical pointed amphora (inv. 3921). Wheel-made, plain. H. 0,39 m., Diam. (rim) 0,145 m., diam. (knob-like foot) 0,042 m.

Fig. 1b. Fragment of an Archaic pithos (inv. 3922). Wheelmade, incised and stamped decoration. Max. h. 0,265 m., max. w. 0,242 m., h. (decorative band) 0,055 m.

Fig. 2a. Middle-Geometric tripod kalathos-shaped vessel (inv. 5081). Handmade, incised and stamped decoration, Max. pres. h. 0,26 m., max. pres. d. (body) 0,32 m.

Fig. 2b. Archaic relief stand (inv. 4000). Wheel-made, stamped decoration, Max. pres. h. 0,20 m., max. pres. d. (body). ca. 0,244 m.

Fig. 3a-b. MG flat pyxis with lid (inv. 3881). Wheelmade, painted decoration. Pyxis: Max. h. 0,056 m., d. (rim) 0,136 m., max. d. (body) ca. 0,155 m., d. (base) 0,103 m., lid: max. pres. h. 0,072 m., d. (rim) 0,13 m.

43 Papadopoulou-Zaphiropoulou 1965, 521 and pl. 656d. 44 Halos burial tumuli: Georganas 2002, 289-298, with bib-

liography; Malakasioti and Mousioni 2004, 359-363. 45 Georganas 2002, 294-295. 46 Georganas 2002, 295. 47 Hall 1995, 10. 48 The diversity of Cycladic island funerary practices is also

stressed in Papadopoulos and Smithson 2002, 183. 49 For Vergina tumuli kantharoi, see n. 19 above.50 Andronikos 1969, 163-166; Snodgrass 1971, 161; Geor-

ganas 2002, 293.

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67The pottery from the Early Iron Age necropolis of Tsikalario on Naxos

Fig. 3c-d. MG small mastoid jug (inv. 3878). Wheelmade, painted decoration. H. 0,07m, d. (rim) ca. 0,031 m., max. d. (body) 0,053 m., est. d. (base) ca. 0,04 m.

Fig. 5a-b. MG skyphos (inv. 3830). Wheelmade, surface degra-ded. H. 0,105 m., max. d. (rim) 0,15 m., max. d. (body) 0,17 m., d. (base) 0,071m.

Fig. 5c-d. MG mastoid cup (inv. 3826). Wheelmade, painted decoration. H. 0,083 m., max. d. (rim) 0,117 m., max. d. (body) 0,133 m., d. (base) 0,063 m.

Fig. 5e-f. MG amphora with horn-like terminals (inv. 3825). Handmade, incised decoration on the handle. H. 0,43 m., d. (rim) 0,205 m., max. d. (body) ca. 0,293 m., d. (base) 0,10 m.

Fig. 5g-h. MG pithos (inv. 3827). Handmade, plain. H. 0,485 m., d. (rim) 0,251 m., max. d. (body) ca. 0,35 m., d. (base) 0,134 m.

Fig. 5i-l. MG small jug (inv. 3829). Handmade, burnished, incised decoration on the handle. H. 0,137 m., d. (rim) 0,07 m., max. d. (body) 0,087 m., d. (base) 0,052 m.

Fig. 6a-b. MG high-handled kantharos with discoid terminals (inv. 3876). Wheelmade, black-glazed. H. 0,123 m., max. d. (rim) 0,115 m., max. d. (body) ca. 0,135 m., d. (base) 0,065 m.

Fig. 6c-d. MG amphoriskos with lid adorned with a horse figure (inv. 3790). Handmade, plain. Amphoriskos: Max. pres. h. 0,046 m., d. (rim) 0,074 m., lid: max. h. 0,029 m., est. d. (rim) ca. 0,07 m.

Fig.6 e-f. MG jug (inv. 3841). Handmade, plain. H. 0,313 m., max. d. (rim) 0,205 m., max. d. (body) ca. 0,305 m.

Fig. 6g-h. MG tripod pithos (inv. 3857). Handmade, incised decoration. H. 0,48 m., est. d. (rim) 0,205 m., max. d. (body) ca. 0,295 m.

Fig. 6 i-l. MG tripod pithos (inv. 3839). Handmade, incised decoration. H. 0,645m, max. d. (rim) ca. 0,29 m., max. d. (body) 0,445 m.

Abbreviations

D. = DiameterEst. = EstimatedH. = HeightMax. = MaximumPres. = PreservedW. = Width

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69The pottery from the Early Iron Age necropolis of Tsikalario on Naxos

Themelis 1975 = P.G. Themelis, ‘Zagoraé. Poéliv hé nekroépoliv;’, in AE 1975, pp. 230-266.

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Xagorari 1996 = M. Xagorari, Untersuchungen zu früh-griechischen Grabsitten: Figürliche plasti-sche Beigaben aus geschlossenen Grabfunden Attikas und Euböas des 10. bis 7. Jhs. v. Chr., Mainz 1996.

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Zaphiropoulou 1983b

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Zaphiropoulou 2001a

= Ph. Zaphiropoulou, ‘Kauéseiv stiv gewmetrikeév Kuklaédev. Oi periptwéseiv thv Naéxou kai thv Paérou’, in Kauseis, pp. 285-299.

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Zaphiropoulou 2004

= Ph. Zaphiropoulou, ‘Oi Kuklaédev sthn Prwéimh Epoché tou Sidhérou wév thn Uésterh Arcai=khé Epoché’, in Aigaio, pp. 413-420.

Abbreviations (journals)

AEMQ = To Arcaiologikoé Eérgo sth Makedonòa kai Qraékh.

OJA = Oxford Journal of Archaeology.

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Patria di Odisseo naturalmente collegata all’epos omerico e da sempre oggetto di studio da parte di storici e filologi, Itaca rappresentò, come Troia, una meta di indagine privilegiata per coloro i quali, a partire dall’inizio del XIX secolo, si misero sulle tracce del passato “omerico” della Grecia. Così, ancor prima che Schliemann si ponesse alla ricerca dei resti della cittadella di Troia, l’altro principale polo di interesse di antiquari e viaggiatori fu rap-presentato dalla ricerca della “reggia” del figlio di Laerte. Dopo circa due secoli dalle prime esplora-zioni sull’isola, tuttavia, non si può affermare che le sue vicende di popolamento siano state oggetto di una interpretazione univoca né, soprattutto, che se ne possano ricostruire agilmente (nelle forme, modalità e finalità) le fasi risalenti alla Media e Tar-da Età del Bronzo, di recente riportate alla ribalta dalla notizia del rinvenimento di una “iscrizione” in Lineare (A o B)1 da Haghios Athanasios.

Il primo a prestare interesse per l’isola fu W. Gell2, che tra il 1800 ed il 1803 ne esplorò tutte le vestigia che potessero trovare un corrispondente con i siti descritti dal poeta di Chio, segnalando per la prima volta le mura “ciclopiche” di Pelikata. L’ubicazione in questo sito del “palazzo” di Ulisse fu sostenuta da Leake3, che intraprese sull’isola una serie di scavi sistematici nel 1806, cui seguirono quelli di J. Lee4 e

Philippe de Bosset5 tra il 1810 ed 1813 e del capita-no Guitera6 tra il 1811 ed il 1814. Nel 1864 l’isola fu la prima “meta omerica” di H. Schliemann, che vi ritornò nel 1868 e 1878, dopo gli scavi condotti a Troia e Micene7. Questi scavò alcune trincee ad Aetos, Dexia, Pelikata e Haghios Athanasios senza riuscire a rinvenire, tuttavia, niente di “omerico”, ma accogliendo l’ipotesi, sostenuta in quegli anni da Gell, che la “reggia” di Odisseo fosse ubicata nella porzione meridionale dell’isola (Aetos). Tuttavia, la “resistenza” da parte dei siti qui ubicati (oltre a quest’ultimo, anche di Vathy) a fornire indizi suf-ficientemente chiari a favore dell’identificazione di luoghi che si pretendeva “omerici”, determinò, tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo, il concen-trarsi delle ricerche maggiormente sulla porzione settentrionale dell’isola, dove, oltre a Leake, anche il geografo J. Partsch8 riteneva che più probabilmente si potessero trovare i resti della città “omerica”.

In questa temperie e nell’ambito di una campagna estensiva nel nord e nel sud dell’isola, tra il 1903 ed 1904 W. Vollgraff9 (finanziato, come Dörpfeld, da A.E.H. Goekoop) portò alla luce i primi esemplari di ceramica micenea dalla “grotta delle Ninfe” a Polis, cui si accompagnò il rinvenimento dei primi frammenti risalenti all’Antico Bronzo a Pelikata. Ciononostante, non avendo tali siti itacensi rispettato

SULLE PRESUNTE “ISCRIZIONI” IN LINEARE A E B DA ITACA

Matilde Civitillo

1 Kontorli Papadopoulou-Papadopoulos-Owens 2005, pp. 183-186.

2 W. Gell, Geography and Antiquities of Ithaca, London 1807. Si ricordano, tra i primi viaggiatori che descrissero le antichità dell’isola, W.A. Goodison, A Historical and Topographical Es-say upon the Islands of Corfu, Leucadia, Cephalonia, Ithaca and Zante, London 1822; T.C. Kendrick, The Ionian Islands, Lon-don 1822; C.C.E. Schreiber, Ithaca, Leipzig 1829.

3 W.M. Leake, Travels in Northern Greece, vol. 3, London 1835.4 J. Lee, ‘Antiquarian Researches in the Ionian Islands’, in

Archaeologia 33, 1849, pp. 36-54, tavv. II-III.5 P. De Bosset, Essai sur médailles antiques des îles de Céphalonie

et d’Itaque, London 1815. Per i suoi scavi ad Aetos, condotti tra il 1810 e il 1813, cfr. D. Knöpfler, ‘La provenance des vases mycéniens de Neuchâtel’, in MusHelv 27, 1970, pp. 107 ss.

6 A. Guitera, ‘Notice sur les fouilles faites dans l’île d’Ithaque, au pied de la montagne, sous le château d’Ulysses et autres lieux’, in Bulletin des sciences historiques VII, Paris 1827, pp. 389-391. Cfr. V. Bérard, Ithaque et la Grèce des Achéens, Paris 1927, p. 205.

7 Schliemann 1869; idem, Ilios: the City and Country of the Trojans, London 1880, pp. 45-49.

8 J. Partsch, Kefallenia und Ithaca, Gotha 1980.9 W. Vollgraff, ‘Fouilles d’Ithaque’, in BSA 29, 1905, p. 151,

fig. 14.

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72 Matilde Civitillo

le aspettative degli studiosi in termini di complessità di cultura materiale ascrivibile alla Tarda Età del Bronzo e all’Età del Ferro, l’interesse di questi ulti-mi si rivolse alle altre isole dell’arcipelago, tentando una diversa localizzazione della Itaca descritta da Omero, cui seguì una lunga teoria10 di proposte di identificazione caratterizzate da diversi gradi di verosimiglianza, accompagnate da riflessioni più o meno influenzate dalla descrizione omerica dell’isola nonché da interpretazioni più o meno affrettate del materiale archeologico che veniva progressivamente alla luce. Così, dagli scavi condotti a Lefkada a partire dal 1901, Dörpfeld11 trasse la convinzione che l’Itaca omerica fosse da identificare con quest’isola, mentre E.H. Goekoop12 la identificò con Cefalonia alla luce delle necropoli (Mazarakata, Riza e Kokkolata-Kangelisses) scavate da P. Kavvadias nel 190813.

A partire dagli anni ’20 del Novecento l’interesse su Itaca fu poi riportato da Sylvia Benton14, che vi condusse una serie di esplorazioni il cui frutto (in termini di materiale raccolto) fu parzialmente perduto a causa del terremoto del 1953. Intanto, la Scuola Archeologica Inglese di Atene, nella convin-zione della sua identificazione con l’Itaca omerica15, vi aveva intrapreso una serie di campagne di scavo sistematiche (finanziate da Lord Rennell16) sotto la direzione di W.A. Heurtley, portando alla luce,

tra il 1930 ed il 1935, pressoché tutto ciò che si conosce a tutt’oggi sul popolamento dell’isola nel Bronzo Tardo e nell’antica Età del Ferro. I risultati più importanti furono raggiunti a Pelikata da Heurt-ley, nonché ad Aetos e Polis dalla Benton la quale, insieme alla H. Waterhouse, scavò anche a Stavros e Tris Langadas17. Nell’ultimo quarantennio l’isola è stata nuovamente teatro di una serie di sondaggi e di scavi, prima nell’ambito del The Odyssey Project, diretto da S. Symeonoglou18 a partire dal 1984, e poi nel contesto di un più ampio progetto relativo alla ricostruzione della storia del popolamento dell’isola dal periodo preistorico a quello moderno, intra-preso in collaborazione dalla Scuola Archeologica Inglese di Atene e dalla 6th EPKA di Patras (sotto la direzione di C. Morgan e A. Sotiriou)19. Inoltre, è stata oggetto di una serie di sondaggi e scavi su piccola scala condotti dall’Università di Ioannina a partire dal 1994, sotto la direzione di T. Papado-poulos e L. Kontorli-Papadopoulou fino al 1996 e di quest’ultima dal 1997 ad oggi. Questi ultimi, ponendosi in continuità con le campagne svolte 60 anni prima, si sono concentrati sulla porzione set-tentrionale dell’isola, riesaminando i siti già scavati dagli inglesi (in particolare, dal 1994 al 2007 sono stati svolti scavi e sondaggi a Tris Langadas, Haghios Athanasios/“Scuola di Omero”, Stavros e Pelikata),

10 Il dibattito sul tema è ancora aperto: per la recente proposta di identificazione della Itaca omerica con Paliki, la penisola occidentale di Cefalonia, per la quale una serie di prospezioni ed analisi geologiche sembrerebbe indicare la natura di isola in antico, cfr. R. Bittlestone, Odysseus Unbound, Cambridge 2005. Per una ubicazione analoga dell’Itaca omerica, cfr. anche G. Volterras, Kritiki Meleti peri Omerikis Ithakis, Athina 1903 e G. Le Noan, A la recherche d’Ithaque: essai sur la localisation de la patrie d’Ulysse, Quincey-sous-Senart 2001.

11 W. Dörpfeld, Alt-Ithaka: Ein Beitrag zur Homer-Frage, Studien und Ausgrabungen aus der insel Leukas-Ithaka, München, 1927; idem, Sechster Brief auf Leukas-Ithaka: die Ergebnisse der Ausgrabungen von 1910, Athina 1911.

12 E.H. Goekoop, Ithaque, la Grande, Athens, 1908.13 P. Kavvadias, in Proistoriki Archaiologia, Athina 1914.

Sulle tombe di Mazarakata, cfr. anche H. Holland, Travels in the Ionian Isles, Albania, Thessaly, Macedonia during the years 1812 and 1813, London 1815; Wolters in AM 10, 1894, p. 486. Dal 1912 gli scavi furono condotti da Kyparissis; cfr. N. Kuparòsshv, ‘Kefalleniakaé’, in AD 5 (1919), pp. 83-122.

14 S. Benton, ‘Antiquities from Ithaki’, in BSA 29, 1928, pp. 27-28.

15 Tra i contibuti recenti a supporto di questa tesi si ricordano W.B. Stanford - J.V. Luce, The quest for Odysseus, London 1974 e J.V. Luce, Celebrating Homer’s landscapes: Troy and Ithaca revisited, New Haven 1998.

16 Lord Rennel of Rodd, Homer’s Ithaca: A Vindication of Tradition, London 1927; idem, ‘The Ithaca of the Odyssey’, in

BSA 33, 1932-33, p. 15.17 Cfr., per i risultati degli scavi condotti della Scuola Ar-

cheologica Inglese, H.L. Lorimer - W.A. Heurtley, ‘Excavations at Ithaca I’, in BSA 33, 1932-33, pp. 22-65; W. A. Heurtley, ‘Excavations in Ithaca II’, in BSA 35, 1934-1935, pp. 2-44; S. Benton, ‘Excavations in Ithaca III. The Cave at Polis, I’ in BSA 35, 1934-35, pp. 45-73; S. Benton, ‘Excavations in Ithaca III. The cave at Polis, II’ in BSA 39, 1938-39, pp. 1-51; W.A. Heurtley, ‘Excavations in Ithaka 1930-1935 [Ithaka IV]’, in BSA 40, 1939-40, pp. 1-13; M. Robertson - W.A. Heurtley, ‘Excava-tions in Ithaca, V: The Geometric and Later Finds from Aetos’, in BSA 43, 1948, pp. 9-124; S. Benton, ‘Second thoughts on “Mycenaean” pottery in Ithaca’, in BSA 44, 1949, pp. 307-312; H. Waterhouse, ‘Excavations at Stavros, Ithaca, in 1937’, in BSA 47, 1952, pp. 227-242; S. Benton, ‘Further excavations at Aetos’, in BSA 48, 1953, pp. 255-361; S. Benton - H. Water-house, ‘Excavations in Ithaka: Tris Langadas’, in BSA 68, 1973, pp. 1-25. In aggiunta, per gli scavi effettuati tra 1929 e 1933, si veda Y. Béquignon, in BCH 53, 1929, p. 505; 54, 1930, pp. 487-492; 55, 1931, pp. 479-481; 57, 1933, pp. 270-272. Per più recenti bilanci complessivi, cfr. H. Waterhouse, ‘From Ithaca to Odyssey’, in BSA 91, 1996, pp. 301-317, Souyoudzoglou Haywood 1999 e Steinhart-Wirbelauer 2002.

18 S. Symeonoglou, ‘Anaskafh Ijakhv’, in Prakt 1984, pp. 109-121, tavv. 97-101; 1985, pp. 201-215, tavv. 102-107; 1986, pp. 234-240, tavv. 99-104; 1990, pp. 271-278, tavv. 177-180.

19 Per una panoramica introduttiva si veda Morgan 2007, pp. 71-86.

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73Sulle presunte “iscrizioni” in Lineare A e B da Itaca

senza peraltro portare alla luce resti architettonici sicuramente databili al Bronzo Tardo20.

Nell’ambito della diatriba tuttora in corso sull’iden-tificazione più corretta della Itaca omerica, nonché sulla ricerca della “reggia di Odisseo” nella porzione settentrionale o meridionale dell’isola, rivestirebbe di sicuro un’enorme importanza il rinvenimento di iscrizioni nelle Lineari (A e B) in uso nell’Egeo del II millennio, nonché di evidenze cospicue sicuramente databili alla fine del Bronzo Tardo, che potessero testimoniare il passato “miceneo” dell’isola. A partire dal rammarico di Schliemann, che a proposito dei suoi sondaggi sull’isola dichiarò che avrebbe dato cinque anni della sua vita per trovare un’iscrizione21, il miraggio di una tale scoperta si è ripetuto, fino a questo momento, due volte, risultando tuttavia fru-strato da una più attenta analisi dei presunti materiali iscritti. Tale esame non ne ha confermato l’attribu-zione ai segnari A o B, giudicando i rinvenimenti in questione privi di qualsiasi interesse per l’epigrafia propriamente detta ed escludendoli irrimediabil-mente dal novero dei materiali iscritti con questi sillabari, esaminati nei periodici resoconti sui nuovi rinvenimenti e sulla distribuzione delle iscrizioni egee22. In particolare, l’interpretazione di due ostra-ka provenienti da Pelikata come iscritti in Lineare A si è rivelata da subito priva di ogni fondamento,

così come si trova ad essere altamente sospetto il possibile “segno” della Lineare A (o B) individuato su un frammento d’argilla di interpretazione incerta (immediatamente definito “tavoletta”) proveniente da un monumento circolare indagato recentemente ad Haghios Athanasios. Tuttavia, poiché in alcune pubblicazioni anche recenti si è data come acquisita l’attestazione (almeno) della Lineare A sull’isola, sembra opportuno, in questa sede, ripercorrere bre-vemente le vicende interpretative delle millantate “iscrizioni” itacensi.

Le “iscrizioni” in Lineare A di Pelikata

Del primo annuncio della scoperta di frammenti iscritti provenienti da Itaca fu protagonista Paul Faure23, che in una nota del 1989 comunicò en-tusiasticamente l’individuazione, tra il materiale risalente all’AE rinvenuto da Heurtley a Pelikata, di due iscrizioni in Lineare A (fig. 1) basandosi sulla loro pubblicazione da parte dell’archeologo inglese24.

Nell’ipotesi di Faure, le iscrizioni ricorrerebbero incise su due ostraka, uno “iscritto” su due facce (n. 80) e l’altro su una sola (n. 81), descritti dal loro scopritore come «incised or inscribed»25 e commen-tati come segue: «80. Frammento recante l’incisione grossolana di una nave (?) e di quelle che sembrano

20 http://www.friendsofhomer.gr/Excavations/Excavations.html; Kontorli Papadopoulou 2001, pp. 317-330; Kontorli Papadopoulou-Papadopoulos 2001, pp. 65-75; Kontorli Papa-dopoulou 2002, pp. 147-151. Per i risultati delle recenti cam-pagne di survey condotte sull’isola, cfr. J. Whitley, ‘Archaeology in Greece 2002-2003’, in AR 49, 2002-2003, pp. 42-44; 50, 2003-2004, pp. 38-39; 51, 2004-2005, pp. 39-40.

21 apud L. Godart, L’invenzione della scrittura, Torino 1992, p. 12.22 Cfr. Olivier 1999, pp. 213-435; Idem, ‘Rapport 1996-

2000 sur les textes en écriture hiéroglyphique crétoise, en

linéaire A et en linéaire B’, in T. Palaima et alii (a cura di), ‘Proceedings of the XI Mycenologicum Colloquium, Austin, 7-13 may 2000’, in corso di pubblicazione; Del Freo 2007, pp. 199-222.

23 Faure 1989, p. 2288.24 Heurtley 1934-1935, tav. 7, figg. 80 e 81. Il primo riferi-

mento ai due frammenti ricorre in Béquignon 1930, p. 488: «Il faut signaler aussi deux tessons qui portent des dessins: l’un représente avec plus ou moins de maladresse, un bateau».

25 Heurtley 1934-1935, p. 24.

Fig. 1. Ostraka incisi da Pelikata. Da Heurtley 1934-1935, tav. 7, figg. 80 e 81.

80a 80b 81

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74 Matilde Civitillo

lettere o numeri al di sopra; sull’altra faccia, marchi graffiti sommariamente. 81. Frammento con lettere (?) incise; sotto, incerti marchi in una cornice».

Immediatamente, quindi, la natura stessa delle in-cisioni appariva molto dubbiosa (come si evince dalla punteggiatura adoperata da Heurtley e dal ricorso al termine “marchi”), né si tentava alcun confronto con un sistema scrittorio altrimenti conosciuto, evidentemente per il contesto archeologico donde provenivano i frammenti, ovvero dall’area I del sito che, in base alla ceramica in essa rinvenuta, è databile all’AE II-III (in termini di datazione assoluta26, ca. 2450/2350-2200/2150-2220/2150-2050/2000). Infatti, prima di affrontare l’analisi delle incisioni presenti sui frammenti ceramici e gli elementi che ne ostano una interpretazione come segni di scrit-tura, è evidente che il primo problema che si pone nella loro attribuzione al segnario della Lineare A sta nelle conseguenze inaccettabili che avrebbe sul piano cronologico. La lineare A fu in uso a Creta dal MM II (se non dal MM IA27) al TM IB (in termini di datazione assoluta, ca. 1950/1900-1750/1720-1680-1600/1580), con un possibile prolungamento nel TM II (1600/1580-1520/1480). Al di fuori dell’isola, questa scrittura è attestata, nelle Cicladi, a Kea nel MM III e nel TM IB, a Melos nel TM I e a Thera nel TM IA; è conosciuta a Citera (su un peso d’argilla) nel MM IIIB-TM IA ed ha guadagnato la Laconia (Haghios Stephanos, ove è attestata su una

placchetta di scisto di datazione incerta)28 e, sulla costa sud-occidentale dell’Anatolia, Mileto (vergata su frammenti di pithoi fabbricati in loco datati al TM IB o alla transizione TM IB/II)29. Di conseguenza, quella individuata da Faure sarebbe la prima iscrizio-ne conosciuta del Mediterraneo preistorico, a fronte di un panorama coevo totalmente illetterato30 e in assenza di traccia alcuna di un’organizzazione socio-politica ed amministrativa della comunità insediatasi a Pelikata che potesse giustificare il ricorso ad un sistema scrittorio di qualsivoglia natura. Queste osservazioni, dunque, eliminano a priori non solo la possibilità che i frammenti in questione possano essere stati importati o introdotti nell’AE II-III da Creta o da cretesi presenti sul sito31 ma anche, natu-ralmente, che possano essere il risultato dell’uso in loco del segnario cretese.

Tuttavia, l’attribuzione al segnario A dei due ostraka era data come certa, fino a qualche anno fa, dalla Kontorli32 (sebbene la abbia poi esclusa risolutamente nell’edizione del nuovo potenziale frammento “iscrit-to”33), mentre risulta ancora accolta dubbiosamente dalla Souyoudzoglou-Haywood34. Quest’ultima, d’altra parte, ponendosi il problema cronologico, non esclude che i frammenti in questione possano essere interpretati come elementi intrusivi, alla luce del fatto che il contesto archeologico dell’area I, dalla quale provengono, risulta profondamente disturbato. Tuttavia, un più sicuro tentativo di datazione dei

26 S.W. Manning, The Absolute Chronology of the Aegean Early Bronze Age: Archaeology, Radiocarbon and History, Sheffield 1993.

27 Tale più antica attestazione dipende dalla controversa in-terpretazione dei sigilli di Archanes come iscritti in georglifico minoico o in Lineare A; cfr. L. Godart, ‘L’ecriture d’Arkhanes: hiéroglyphique ou Linéaire A?’, in P.P. Betancourt - V. Karage-orghis - R. Laffineur - W.-D. Niemeier (a cura di), Meletemata: Studies in Aegean Archaeology Presented to Malcolm H. Wiener as He Enters His 65th Year (Aegaeum 20), Liège-Austin 1999, vol. I pp. 299-302.

28 F. Vandenabeele, ‘La chronologie des documents en linéaire A’, in BCH 109, 1985, pp. 3-20. Cfr. Gorila V, pp. 83-113, (Concordance générale).

29 W.-D. Niemeier - J. Zurbach, ‘A Linear A inscription from Miletus (MIL Zb 1)’, in Kadmos 35, 1996, pp. 87-99. Si esclu-dono dalla discussione le controverse rondelle di Samotracia (Del Freo 2007, pp. 208-209), l’ostrakon di Tel Haror (A. Karnava, ‘The Tel Haror Inscription and Crete: A Further Link’, in R. Laf-fineur, E. Greco (a cura di), Emporia, Aegeans in the Central and Eastern Mediterranean, ‘Proceedings of the 10th International Ae-gean Conference/10e Rencontre égéenne internationale, Athens, Italian School of Archaeology, 14-18 April 2004’ (Aegaeum 25), Liège and Austin 2005, vol II., pp. 837-844), considerato da Olivier (1999, p. 430) un «graffito minoizzante». Sono esclusi, infine, i segni altamente ipotetici (probabilmente marchi di

vasaio) presenti su ostraka rinvenuti a Iasos e Rodi (Acrosciro/Kalopetra): M. Benzi ‘Anatolia and the Eastern Aegaean at the time of the Troyan War’, in F. Montanari (a cura di), Omero Tremila anni dopo, Roma 2002, p. 369, nota 110.

30 A questa fase cronologica risalgono i primi espedienti amministrativi (non scrittori) costituiti da cretule sigillate con sigilli recanti motivi per lo più geometrici nel Peloponneso: a Lerna (“Casa delle tegole”, AE II-III), Haghios Dimitrios (AE II) e Asine (AE II). Cfr. J. Renard, Le Péloponnèse au Bronze Ancien (Aegaeum 13), Liège 1995, pp. 287-295. Inoltre, alcuni sigilli ed impressioni (anche in questo caso, svincolati da una codifica scrittoria) in qualche modo precorritori del sistema amministrativo centralizzato proprio del perido protopalaziale ricorrono in alcuni siti cretesi: cfr. M. Perna, ‘Il sistema am-ministrativo minoico nella Creta prepalaziale’, in V. La Rosa - D. Palermo - L. Vagnetti (a cura di), Epi ponton plazomenoi, “Simposio italiano di Studi Egei dedicato a Luigi Bernabò Brea e Giovanni Pugliese Carratelli. Roma, 18-20 febbraio 1998”, Roma 1999, pp. 63-68.

31 Come vorrebbe Tsakos 2005, p. 36.32 http://www.friendsofhomer.gr/Excavations/Excavations.

html, sub ‘aérqro apoé thn istoselòda tou Dhémou Iqaékhv’.33 Kontorli Papadopoulou-Papadopoulos-Owens 2005, p.

184, nota 7.34 Souyoudzoglou Haywood 1999, p. 99.

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75Sulle presunte “iscrizioni” in Lineare A e B da Itaca

due ostraka in esame appare sostanzialmente irrile-vante, poiché la loro analisi epigrafica dimostra non solo che non sono iscritti in Lineare A, ma che non recano alcuna iscrizione se non segni grafici (graffiti o marchi), con una qualche valenza (decorativa, simbolica) che ci sfugge, ma sicuramente sprovvisti di un valore “scrittorio”35 desumibile per confronto con altri sistemi noti adoperati nel II millennio.

Del tutto incurante di questi insuperabili problemi, Faure istituisce, in maniera evidentemente forzata, una comparazione tra quelli che definisce “segni” presenti sui frammenti incisi ed il sillabario della Li-neare A, attraverso una evidente manipolazione degli stessi, alcuni dei quali, per essere letti “correttamente” (ovvero, per trovare un pur generico confronto col sillabario minoico), si pretende dover essere “ruotati”, evidenziando un procedimento ermeneutico in cui il livello interpretativo sembra precedere l’analisi autoptica dei “segni” incisi (fig. 2).

Così, anche la “normalizzazione” dei segni al fine di trovare necessariamente un confronto col segnario A, nonché la scelta dei graffiti che possano o meno avere lo statuto di “segni di scrittura”, sembra a priori condizionata dal tentativo di “lettura” degli stessi, non tenendo conto non solo del contesto di rinvenimento dei frammenti e delle conseguenze impensabili sul piano culturale di una loro interpre-tazione come iscritti, ma neppure delle caratteristiche peculiari (in termini di formattazione e finalità) delle iscrizioni in Lineare A. I “segni” che Faure identifica sui frammenti dovrebbero corrispondere, in base alla interpretazione che ne fornisce, a 16 sillabogrammi, la maggior parte dei quali comuni ai sillabari A e B36: sulla faccia a del fr. 80, al di sopra dell’incisione di una nave («navire») si susseguirebbero AB 55, AB 13, B 12 (non attestato in lineare A), AB 37, AB 08, AB 57, AB 30, cui seguirebbero AB 08, AB 57, AB 73 (fr. 80b); sul fr. 81, poi, comparirebbero i sillabogrammi AB 27, AB 08, AB 37, AB 73, AB 10, AB 01, AB 06, AB 77, AB 27. Infine, entrambi i frammenti recherebbero anche ideogrammi e cifre. Sebbene tale confronto tra i graffiti presenti sugli ostraka con

i segni succitati sia almeno improbabile, lo studioso prosegue la sua “decifrazione” proponendone anche una lettura, partendo dal presupposto (non condivi-sibile se non per pochissimi segni) di poter leggere sistematicamente i presunti segni della (indecifrata) Lineare A con i valori sillabici dei segni omomorfi attestati in Lineare B. Di conseguenza, la “lettura” proposta per il fr. 80a è la seguente: nu(pina), me soti[, laddove l’integrazione risulta evidentemente preconcetta ed implica l’impiego di espedienti or-tografici del tutto estranei alla Lineare A (il “segno” nu, sebbene posto in sequenza con altri, sarebbe una abbreviazione del termine ricostruito). Infine, come già accennato, nell’economia dell’“iscrizione” identi-ficata, quei graffiti che ricorrono nella parte inferiore dell’ostrakon non sono considerati (non è chiaro in base a quale presupposto) segni di scrittura. La fac-cia b del frammento, poi, recherebbe la successione di una serie di “ideogrammi” il cui ductus sarebbe ancora più aberrante e privo di qualsiasi confronto con la lineare A rispetto a quello dei “sillabogrammi” della faccia a. Vi comparirebbero l’ideogramma del cervo, del «montone con la sua casa (arco di cerchio che collega due animali)» (!), del cavallo e, a destra, del maiale «nel suo recinto», «ciascuno di essi ac-compagnato da una cifra (punti o barre)», del tutto indistinguibili sul frammento.

Oltre alla mancata corrispondenza nel ductus tra queste incisioni e gli ideogrammi della Lineare A, sul frammento in questione si presupporrebbe un loro impiego mai attestato in alcuna iscrizione redatta a mezzo di questo sillabario e assolutamente inaccet-tabile alla luce della natura e dell’uso dei segni di quest’ultimo, laddove si ipotizza una manipolazione (decisamente non propriamente scrittoria) di tali “segni” che avrebbe previsto l’aggiunta di incisioni indicanti «recinti» o analoghi alloggiamenti per gli animali. Al di sotto, infine, comparirebbe una sequenza di “sillabogrammi” che Faure “legge”

«io offro»37. L’“iscrizione”, quindi, com-prenderebbe sillabogrammi, ideogrammi e cifre, dimostrando così una spiccata finalità ammini-

35 Per “segno di scrittura” si intende un elemento stabile di un insieme finito e numerabile di segni suscettibili di collegarsi ad altri in un sistema di opposizioni, in cui a elementi grafici si associno significati distinti ed esplicitabili linguisticamente dalla comunità (cfr. G.R. Cardona, Antropologia della scrittura, Torino 1991, p. 27). Si veda, inoltre, la definizione di “scrittura” fornita in L. Godart - J.-P. Olivier, Corpus Hiéroghlyphicarum Inscriptionum Cretae (Études Crétoises 31), Paris 1996, p. 12: «Une écriture – même dans ses formes les plus rudimentales –

est une technique intellectuelle utilisant un support matériel afin de transmettre, dans l’espace et dans le temps, un message bien précis et univoque».

36 Si confrontino le tavole dei segnari Lineare A e B rispet-tivamente in Gorila V, tavv. XXII-XXVIII e J. Chadwick - L. Godart - J.-P. Olivier - A. Sacconi - I.A. Sakellarakis, Corpus of Mycenaean Inscriptions from Knossos, vol. IV (Incunabula Graeca 88), Pisa-Roma 1998, pp. 293-294.

37 Faure 1989.

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Fig. 2. Faure 1989, p. 2288.

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strativa e sarebbe, nel caso del fr. 80a, costituita da segni di scrittura vergati al di sopra dell’incisione di una nave (la cui identificazione è tutt’altro che evidente), laddove sulla faccia b ricorrerebbero solo gli ideogrammi e le cifre. Di conseguenza, l’“unità testuale” ipotizzata da Faure nella lettura delle due facce imporrebbe che l’“iscrizione”, incisa prima della cottura del vaso, richiedesse la possibilità di poter “leggere”, alternativamente, il fondo e la base del vaso che egli ipotizza essere stato “dedicato”.

Come già accennato, il primo ostrakon (n. 80) comprenderebbe, nello stesso “atto scrittorio”, raffigurazioni con valore decorativo e segni iscrit-ti38. Tale compresenza tra piano scrittorio e piano visivo (ovvero tra diverse forme di modellizzazione e decodificazione del messaggio veicolato) non ricorre mai sui documenti inscritti in Lineare A o B, mentre è presupposta dalle interpretazioni finora fornite delle “iscrizioni” itacensi. Inoltre, nelle iscrizioni in Lineare A di carattere non am-ministrativo (ovvero, vergate su supporti diversi rispetto a tavolette o altri documenti d’archivio) non ricorrono mai ideogrammi e cifre, il che crea un insolubile cortocircuito tra il supporto delle presunte iscrizioni itacensi (frammenti di vaso) e il contesto non amministrativo delle iscrizioni in Lineare A ricorrenti su questa tipologia di materiali attestate a Creta, nelle Cicladi e a Mileto39.

L’“iscrizione” presente sulla faccia a del fr. 80, dunque, conterrebbe una dedica ad una ninfa40 che avrebbe salvato il dedicante. Oltre alla quantomeno dubbia interpretazione dei graffiti come segni di scrittura e all’impossibilità del confronto con i segni della Lineare A, ciò che suscita una perplessità anche maggiore nella teoria di Faure è che del presunto “testo” in Lineare

A (che nota una lingua sconosciuta ma certamente anellenica parlata a Creta nel II millennio) si fornisca una lettura da un punto di vista linguistico greco. Lo stesso procedimento si trova applicato al frammento 81, anch’esso recante una “iscrizione dedicatoria”, a volte citata41 come “iscrizione di Aredatis”. Anche in questo frammento l’“iscrizione” sarebbe composta di sillabogrammi, scritti nella parte superiore, e ideogram-mi, compresi in una cornice (il che non trova alcun confronto con l’usuale layout delle iscrizioni in Lineare A). I graffiti interpretati come “sillabogrammi” trovereb-bero una quantomeno forzata corrispondenza con AB 27, AB 08, AB 37, AB 73, AB 10, AB 01, AB 06, AB 77 e AB 27, molti dei quali corrisponderebbero a glifi, anche in questo caso, interpolati pregiudizialmente. La “lettura” sarebbe la seguente: ]re-da-ti-mi u-a-na-ka-na re(ija) te, donde l’interpretazione: «io A]redatis, dono alla sovrana (u-a-na-ka), la dea (te) Rhea (re- ja): 100 (?) cervi, 10 (?) montoni, 3 maiali», la cui totale arbitrarie-tà non dovrebbe avere bisogno di alcun commento. Tuttavia, si fa notare ancora una volta l’insostenibile lettura dal punto di vista del greco miceneo, laddove si ipotizza addirittura una “variante ortografica” del termine wa-na-ka, a"nax (qui scritto u-a-na-ka), e la notazione con una sorta di “sigla” del termine per “dea”. Infine, non è necessario sottolineare l’insosteni-bile anacronismo che comporterebbe l’attestazione del teonimo Rhea nella Itaca del Bronzo Antico, donde è derivata l’interpretazione dell’“iscrizione” come pro-dotto di un retroterra “pelasgico”42, ovvero relativo a coloro i quali, in Omero e nelle fonti storiografiche e letterarie, vengono indicati come gli antichi abitanti della Grecia pre-ellenica, proiettando meccanicamente tale indistinto ed altamente controverso “sostrato” sulla cultura della fine del III-inizio II millennio.

38 Tale interazione tra piano scrittorio (linguistico) e piano visivo (puramente grafico) ricorre, nelle scritture egee del II millennio, esclusivamente sulle iscrizioni geroglifiche su sigil-lo, laddove l’alta iconicità del sillabario, unita al particolare supporto, consentiva un uso della scrittura difforme, almeno per questo tipo di composizione, rispetto alla redazione di documenti amministrativi, con usi oscillanti di ideogrammi o sillabogrammi con funzione iconografica o glifi con valore puramente evocativo, simbolico o decorativo, certamente privi di un valore propriamente “scrittorio” (ovvero non suscettibili di poter essere letti foneticamente). L’unico caso in cui una situazione analoga si presenta su un documento in Lineare B è il sasso di Kafkania (Godart 2002, pp. 213-240) dove, sulla faccia B, compare una doppia ascia (la cui valenza non è quella di segno di scrittura ma di simbolo, al quale si è applicata la definizione «graffito») tra due sillabogrammi. Non trattandosi di un documento amministrativo, tuttavia, nell’esecuzione del sasso sono state verosimilmente coinvolte modalità esecutive

simili a quelle illustrate per i sigilli. In questo caso, il graffito (che si riconduce perfettamente all’iconografia cultuale minoi-ca) partecipa dello stesso atto scrittorio del sasso e può essere motivatamente collegato all’iscrizione sillabica (ricorrente, in questo caso, in un contesto probabilmente santuariale).

39 Cfr. Gorila IV, pp. VII-VIII, dove sono elencati tutti i documenti non amministrativi redatti in Lineare A ed i loro supporti: iscrizioni su vasi di pietra, iscrizioni incise su vasi d’argilla, iscrizioni dipinte su vasi d’argilla, iscrizioni su supporti architettonici in stucco, iscrizioni su supporti architettonici in pietra, iscrizioni su supporti metallici, iscrizioni su supporti vari.

40 Si potrebbe ipotizzare che Faure fosse stato in qualche misura influenzato, nell’individuazione di questo nome – il ricostruito nu(pina) –, dalle attestazioni del termine NUMFAIS su alcuni frammenti provenienti dalla grotta della baia di Polis (la “grotta delle Ninfe”, appunto): cfr. Béquignon 1930, p. 490.

41 Tzakos 2005, pp. 35-36, nota 16.42 Tzakos 2005, pp. 29-35.

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Quanto al loro contesto archeologico, gli ostraka in oggetto provengono dall’area I di Pelikata, che ha immediatamente rappresentato uno dei principali candidati ad ospitare il “palazzo” di Odisseo, oltre che per l’evidenza fornita ai primi viaggiatori dal muro di fortificazione “ciclopico” individuato da Gell, anche per il fatto che già nel 1905 Vollgraff vi rinvenne frammenti di ceramica micenea43. A corroborare tale ipotesi, inoltre, nell’ambito delle logiche insediamen-tali del nord dell’isola, contribuisce la sua ubicazione strategica su uno sperone roccioso del monte Exogi donde è possibile controllare tutti e tre i porti della porzione settentrionale dell’isola, posto all’incrocio tra le strade provenienti dalle baie di Afales, Frikes e Polis, nonché servito da una sorgente. Le indagini archeologiche qui effettuate hanno dimostrato che Pelikata è l’unico sito dell’arcipelago in cui si possa accertare la presenza di un insediamento risalente all’AE, con una estensione stimata di circa 20.000 m2. La sua più cospicua evidenza di popolamento è databile tra l’Antico Elladico II (fase alla quale si attribuisce l’inizio dell’attività sul sito) e III (cui data il periodo di più intensa occupazione)44, sebbene la mancanza di una successione stratigrafica sicura non permetta di fornire una sequenza interpretativa della ceramica locale del tutto affidabile. Tale indicazione cronologica dedotta dalle produzioni utilitaristiche non è tuttavia accompagnata da una riflessione architettonica, poiché sul sito non è stata rinvenuta alcuna struttura. L’unica evidenza è rappresentata da un livello AE II-III («clay layer») nell’area IV, proba-bilmente il più antico del sito45, che sembra non esse-re disturbato, mentre non è ancora possibile elaborare ipotesi sulle fondazioni di una casa absidata, citata dalla Kontorli, rinvenuta in seguito all’apertura, nel 1994, di due trincee in località Sobola e caratteriz-zata da due fasi costruttive, datate all’AE II e III46. Quanto al già citato muro “ciclopico” (i cui blocchi di costruzione furono trovati associati a ceramica invariabilmente datata all’AE dagli inglesi47), di

esso sono stati rinvenuti segmenti in differenti aree della porzione orientale, settentrionale e occidentale della collina da Heurtley, nonché un accesso monu-mentale, a occidente, da Papadopoulos48, che ne ha scoperto altre sezioni a occidente. A questa nuova porzione, a differenza delle altre, sarebbe associata non solo ceramica preistorica ma anche più tarda, rinvenuta nelle immediate vicinanze, che ne rende incerta la datazione e non fornisce elementi sicuri per poter risolvere definitivamente la questione del suo periodo di costruzione. La Souyoudzoglou49 sotto-linea che, se il muro risalisse al Bonzo Antico, l’in-sediamento di Pelikata potrebbe trovare una chiave di lettura nel contesto del trend verso la costruzione di insediamenti di grandi proporzioni riscontrabile nell’Egeo di questo periodo e, nello specifico, negli insediamenti protourbani delle Cicladi. Tuttavia, sulla difficoltà di assegnargli una datazione certa aveva da subito attirato l’attenzione Heurtley50, che concludeva se ne può ipotizzare la costruzione sia nell’Antico Elladico che nel Tardo Elladico (che ne rappresenterebbe il terminus ante quem, poiché la successiva evidenza abitativa risale al periodo vene-ziano), poiché la ceramica AE non fornirebbe una indicazione dirimente a causa di un certo conserva-torismo mostrato dalle produzioni itacensi, in cui le innovazioni sono state assunte con una certa lentezza. La continuità abitativa sul sito fino al Tardo Elladico non è d’altra parte verificabile in tutte le aree scavate; evidenza relativa a questa fase proviene, infatti, solo dalle aree VI e IV. La prima ha fornito, oltre ad una sepoltura in pithos databile all’AE II-III, ceramica mesoelladica (90 frammenti di ceramica minia grigia e di ceramica correlata distribuiti tra questa e l’area IV) e 60 frammenti databili al TE III, 39 dei quali pertinenti prevalentemente a basi o steli di kylikes o krateriskoi (associati a “masse” di frammenti AE e a 20 frammenti di ceramica minia). Questi ultimi, in pessimo stato di conservazione, furono rinvenuti all’interno di un livello di riempimento, superiore al

43 Heurtley 1934-1935, p. 1, nota 2.44 Per una panoramica, cfr. Souyoudzoglou Haywood 1999,

pp. 93-108, 131-143.45 Heurtley 1934-1935, pp. 13-14.46 Kontorli Papadopoulou-Papadopoulos 2001, p. 66. Se

tale evidenza fosse confermata, potrebbe essere avvicinata alle costruzioni absidate (buildings 3, 4 e 8) rinvenute sulle pen-dici del monte Amali a Lefkada, confrontate (Souyoudzoglou Haywood 1999, pp. 19-20) con analoghe strutture abitative caratterizzate da murature curvilinee diffuse nell’Egeo della fase AE, nelle Cicladi (Pyrgos e Paroikia a Paros), a Tsoungiza e

Korakou nella Corinzia, a Strefi nell’Elide, o da piante absidate come quelle attestate in Eubea (Manika), Argolide (Tirinto), Laconia (Koufovouno) e Beozia (Tebe), nonché con le case absidate di Olimpia-Altis e Olimpia-New Museum, pertinenti allo stesso orizzonte cronologico.

47 Heurtley 1934-35, p. 3, tav. 3.48 Del muro sono stati portati alla luce altri segmenti tra il

1994 ed il 1995: Kontorli Papadopoulou-Papadopoulos 2001, p. 66; Souyoudzoglou Haywood 1999, p. 10.

49 Souyoudzoglou Haywood 1999, pp. 132-134.50 Heurtley 1934-35, p. 9.

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«clay layer» dell’AE, disturbato dalla costruzione di una casa moderna sulla sommità della collina, in cui Heurtely propone di individuare i resti del crollo di una struttura abitativa “micenea”51.

In questo quadro, il contesto archeologico donde provengono gli ostraka oggetto delle speculazioni di Faure, l’area I, non sembra fornire dati certi che ne consentano una più accurata interpretazione. A loro proposito Heurtley scrive: «devo ammettere di non poter fare nulla di questi frammenti. Sembrano essere Antico Elladici e sebbene siano stati rinvenuti in un contesto di riempimento non stratificato, non c’era niente che non fosse Antico Elladico in associazione con essi. Né sono stati rinvenuti in superficie, tro-vandosi il fr. 80 a 5 ed il fr. 81 a 9 m. al di sotto di essa. Non penso che siano falsi moderni e non resta che pensare che le incisioni siano state eseguite nel periodo al quale risalgono i frammenti»52. Gli ostraka in questione rientrano nella classe della coarseware53, che costituisce la ceramica più rappresentata sul sito, le cui forme più attestate sono ciotole e coppe con anse verticali, semi-circolari o con manici orizzontali, in alcuni casi perforati o cornuti, la cui decorazione, tranne che nei due esaminati e pochissimi altri fram-menti recanti incisioni lineari54, consiste in cordoni applicati. Come si accennava, l’area I di Pelikata ha rivelato un contesto fortemente disturbato, in cui si combinano possibili resti di abitazioni e di sepolture dispersi su un’area di circa 60 m2. Nell’angolo nord occidentale di questo settore è stato rinvenuto un li-vello di pietre poggianti sul suolo vergine, interpreta-te da Heurtley55 come resti del crollo di una struttura abitativa per il rinvenimento, tra di esse, di utensili domestici. Nella stessa porzione l’archeologo indi-viduò almeno tre sepolture in pithos, comprendenti solo alcune parti degli scheletri (probabilmente di giovani individui56), in associazione con denti e ossa di animali, che ipotizzò essere state intra-murarie. La porzione occidentale dell’area risultava invece com-posta prevalentemente di un riempimento di terra che conteneva pietre, frammenti di pithoi, vasi, ossa umane ed animali, denti etc., chiaramente i resti delle sepolture in pithoi rinvenute nella porzione succitata che, nell’ipotesi di Heurtley, sarebbero state ubicate

originariamente nella parte orientale del sito, ad un livello più alto, e solo successivamente slittate verso quella occidentale. Intorno all’area in cui furono trovate, vennero alla luce i resti sparsi di possibili elementi di corredi funerari, quali ceramica fine, due ornamenti in oro, pesi da telaio di argilla e di osso, frammenti di figurine di tori di argilla, due lame e una punta di freccia di ossidiana (probabilmente melia), una lama di bronzo, un pestello per cosmetici di pietra e un “sigillo” di terracotta di identificazione ipotetica con inciso un fiore con cinque petali ed un cerchio nel mezzo57. Nella porzione orientale dell’area I fu, infine, scavata anche una fossa stratifica-ta di un metro di profondità (contenente frammenti di pithoi e vasi, ossa e due frammenti di un cranio e, al di sopra, ulteriori frammenti ceramici nonché una zanna di cinghiale, una lama e resti lignei carbonizzati in prossimità di pithoi frammentari) che Heurtley interpretò come bothros domestico trasformato, in un secondo momento, in focolare.

L’osservazione delle forme ceramiche, come già ac-cennato, data l’inizio di attività in quest’area I all’AE II, con una occupazione perdurante nell’AE III. Tali evidenze, singolarmente disturbate, sono state ipoteticamente interpretate dalla Souyoudzoglou58 come i resti di un tumulo funerario andato distrutto, per il quale la studiosa invoca un confronto con la necropoli risalente all’AE II di “R-Graves” a Steno (Lefkada)59, sebbene quest’ultima non sembri essere stata tanto contigua all’insediamento come nel caso di Pelikata. Quanto alle sepolture in pithos intramu-rarie, sebbene queste siano attestate, in regioni della Grecia occidentale, a Platygiali (Akarnania), Kirrha (Focide) e Olimpia-Atis (Elide), la studiosa propone di individuarne un prototipo anatolico, poiché tale pratica non era diffusa a Creta né nelle Cicladi in un livello cronologico così antico. Allo stesso modo, confronti con l’Anatolia costiera, le Cicladi, Creta ed il Continente greco sono stati proposti per dare ragione dei diversi elementi culturali rintracciabili in alcuni tratti della cultura materiale delle isole ioniche dell’AE II nel loro complesso, inserendole nello “spirito internazionale” caratteristico di questa fase60. Per tornare ad un tentativo di interpretazione

51 Heurtley 1939-40, pp. 9-10.52 Heurtley 1934-35, p. 29, nota 4.53 Souyoudzoglou Haywood 1999, p. 99.54 Heurtley 1934-35, p. 24, tav. 7, figg. 79a-b.55 Heurtley 1934-35, pp. 6-8.56 Souyoudzoglou Haywood 1999, p. 97.

57 Heurtley 1934-35, p. 36, nota 155.58 Souyoudzoglou Haywood 1999, p. 97.59 Cfr. Souyoudzoglou Haywood 1999, pp. 21-25.60 Per una carrellata sulle singole ipotesi interpretative, che

ricostruiscono una popolazione mista o l’arrivo di immigrati, cfr. Souyoudzoglou Haywood 1999, pp. 133-134.

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dei frammenti incisi analizzati e alla loro “ipotesi minoica”, la trasmissione di una influenza cretese individuabile nella ceramica AE e nel diadema d’oro di Pelikata (oltre ad un certo numero di influenze rintracciabili nei corredi della necropoli di Steno a Lefkada) si ritiene attribuibile all’in-tensificarsi di uno strutturato network di scambi oltremarini (tuttavia, del tutto ipotetico per questa fase cronologica), dove la fondazione di Kastri a Citera avrebbe favorito una trasmissione di elementi anche cretesi (oltre a quelli cicladici) verso la porzione occidentale del Continente greco e le isole ioniche. Tuttavia, anche se un legame, pur indiretto, con la Creta minoica fosse accertato, l’interpretazione dei frammenti incisi non ne risul-terebbe modificata in alcun modo.

In conclusione, il contesto archeologico for-temente disturbato (in cui spesso i frammenti dell’AE sono mescolati con quelli del Medio e del Tardo Elladico), la tipologia ceramica (coarseware AE che tuttavia continua ad essere prodotta anche dopo questa fase) e la mancanza dell’indicazione del luogo preciso all’interno dell’area I donde furono rinvenuti i frammenti (ove sono state ipo-teticamente identificate sia strutture domestiche che resti di corredi funerari), uniti all’assenza di confronti, non permettono di formulare alcuna ipotesi alternativa sugli ostraka nn. 80 e 81, che l’analisi epigrafica ha dimostrato non recare alcuna iscrizione in Lineare A.

Il “segno” di Haghios Athanasios

La recente ipotesi di identificazione di un altro segno delle lineari egee (A o B non è dato chiarirlo) si basa sull’evidenza offerta da un frammento d’ar-gilla di interpretazione molto dubbia identificato tra i rinvenimenti effettuati a partire dal 1995 dalla

missione archeologica dell’Università di Ioannina presso un monumento circolare identificato dagli archeologi come tholos. Tale struttura è pertinente all’insediamento di Haghios Athanasios/“Scuola di Omero”, situato sulla collina della Melanidros lungo le pendici del monte Exogi a 1 chilometro a nord-est di Pelikata. Sebbene gli stessi editori del frammento61 rilevino, a ragione, che non si possa definire l’oggetto in questione come recan-te una iscrizione, dato che questa definizione si attribuisce solo a sequenze di un minimo di due segni62, ritengono di poter tuttavia individuare un confronto tra un “segno” graffito sull’oggetto ed un sillabogramma della lineare A (attestato anche in B), interpretando in via ipotetica il frammento itacense come “tavoletta” frammentaria, preservata in pessimo stato di conservazione, lunga ca. 10-11 cm., alta ca. 6-7 cm. e spessa 2 cm. (fig. 3).

Il frammento si presenta quasi completamente ricoperto da incisioni di difficile interpretazione, tranne che per i graffiti più profondamente incisi di una nave e di quello che sembra essere una sorta di tridente nella porzione destra dell’oggetto immediatamente prima della frattura. Solo per quest’ultimo “graffito” (essendo il primo privo di confronti) gli autori ipotizzano la natura di segno di scrittura e, in assenza di possibili confronti con

61 Kontorli Papadopoulou-Papadopoulos-Owens 2005, p. 184.62 J.-P. Olivier, ‘Les sceaux avec des signes hiéroglyphiques.

Que lire? Une question de définition’, in W.-D. Niemeier (a

cura di), Studien zur minoischen und helladischen Glyptik (CMS Beiheft 1), 1981, p. 108.

Fig. 3. Presunta “tavoletta” da Haghios Athanasios, da Kontorli Papadopoulou-Papa-dopoulos-Owens 2005, p. 185, fig. 1.

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il repertorio di mason’s o potter’s marks diffuse nell’Egeo o con il segnario geroglifico minoico, lo identificano con il sillabogramma AB 09, uno dei pochi ad essere concordemente letto sia in Li-neare A che B con il valore sillabico se. Per trovare un confronto paleografico a sostegno della loro ipotesi, gli autori conducono una ricognizione delle attestazioni del segno nelle due lineari (in cui ricorre in combinazione con altri segni), dalla quale quest’ultimo risulta attestato in tutti i centri che hanno fornito documentazione di archivio minoica e/o micenea63.

Un confronto più preciso tra l’ipotizzata atte-stazione itacense e quelle ricorrenti sui documenti cretesi e continentali viene individuato nella ricor-renza del segno su due rondelle iscritte in Lineare A provenienti da Haghia Triada (datate al TM IB), dove sembra essere usato come abbreviazione64. Tuttavia, l’individuazione di tale confronto (che sembrerebbe voler essere adoperato per confortare l’interpretazione del monumento donde proviene l’oggetto “iscritto” come tholos, i cui più vicini confronti sarebbero individuabili con le tombe della Messarà, infra), non è suscettibile di confermare in alcun modo la natura di “segno” per l’incisione itacense né di chiarire la funzione del frammento d’argilla su cui ricorre. Oltre all’osservazione teorica che l’attestazione di un segno grafico più o meno simile nel tracciato ad un segno delle lineari A e B

(per di più molto poco diagnostico), isolatamente e senza contesto, non è sufficiente per formulare alcuna ipotesi né per interpretarlo come “segno di scrittura”, il termine di paragone individuato è costituito dall’attestazione del segno AB09 su due documenti amministrativi non avvicinabili in alcun modo al frammento itacense; nello specifico, come accennato, si tratta di due rondelle, la cui funzione ed uso nel quadro delle procedure burocratico-amministrative messe in atto nella Creta neopa-laziale richiede una notazione molto concisa della transazione economica annotatavi, comprendente (nello specifico) su una faccia un gruppo di tre sillabogrammi e, sull’altra, il segno in questione. Anche se il confronto si basasse esclusivamente sul ductus del segno, d’altra parte, non si potrebbe non ritenerlo molto tenue.

L’interpretazione del frammento da parte di L. Kontorli-Papadopoulou65, oltre ad accogliere l’ipotesi che vi sia iscritto un segno di scrittura, ne comprende anche una lettura delle incisioni graffite che lo accompagnano che risulta tuttavia difficilmente verificabile dall’analisi del frammen-to, nonché foriera di implicazioni storico-culturali difficilmente sostenibili.

Avvalendosi di riprese fotografiche ritoccate in modo da mostrare in maniera dettagliata le inci-sioni presenti sul frammento, la studiosa sostiene la possibilità di distinguere nettamente due “livelli”

63 In Lineare A il segno è attestato circa 60 volte negli archivi di Haghia Triada, Zakros, Khania, Arkhanes, Prassa, Phaistos, Knossos, Papoura e Gournia (cfr. Gorila V, pp. 165-166). In Linerare B, AB09 è attestato molto frequentemente sulle ta-

volette di Cnosso e Pilo, così come a Micene e Tebe, ma non sugli scarsi rinvenimenti da Khania e Tirinto.

64 Cfr. HT Wc 3004b e 3005 in Gorila II, p. 73.65 www.friendsofhomer.gr/Excavations/Excavations.html.

Fig. 5. Disegno del frammento da Kontorli-Papadopoulou et alii 2005, p. 186, fig. 2.

Fig. 4. Dettaglio delle incisioni graffite sul frammento di Haghios Athanasios da www.friendsofhomer.gr/Excava-tions/Excavations.html, fig. 30.

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sovrapposti nell’esecuzione del graffito (parzialmente individuabili nel disegno pubblicato in Kadmos) di cui si riporta di seguito la descrizione, senza, peraltro, riuscire a trovarne un riscontro sempre puntuale nella riproduzione fotografica e grafica disponibile. Sul “livello” inferiore la studiosa distingue la raffigura-zione di un uomo seduto e legato all’albero di una nave (al centro), di una donna dal volto di uccello (?) legata ad una corda nell’angolo superiore destro e, vicino a quest’ultima, di una figura umana in piedi, con un ginocchio appoggiato su uno sgabello, le cui caratteristiche (le orecchie, le dita e i piedi) sembrano alla Kontorli proprie di un suino e la conducono all’accostamento di questa figura “metamorfica” con l’episodio omerico in cui si descrive la trasformazione dei compagni di Odisseo in maiali ad opera di Circe (Od. 10.275-285). Sulla sinistra sarebbero raffigurati i tentacoli di un polipo che si appoggia alla nave, uno dei quali sembra alla studiosa assumere, alle estremi-tà, l’aspetto della testa di un cane e tenere avvinta una testa di donna; anche in questo caso giunge puntuale il confronto con un’altra figura omerica, ovvero Scilla (Od. 12.85-95). Già in questo primo livello dell’incisione ricorrerebbe il graffito interpretato come sillabogramma se, per l’attestazione del quale viene fornita una spiegazione che sembra rispon-dere alla domanda che veniva posta alla fine della pubblicazione del frammento66, ovvero se il “segno” individuato potesse aver avuto un particolare valore per Itaca. La studiosa, quindi, ipotizza che il silla-bogramma in questione rappresenti, sul frammento, l’abbreviazione di seirhéna, con un ennesimo, chiaro riferimento all’epos omerico. Tale interpretazione sembrerebbe confermata dalla lettura del secondo livello delle incisioni presenti sul frammento d’argilla, in cui il presunto “sillabogramma” si ripeterebbe. Scilla sarebbe scomparsa, ma la nave avrebbe assunto maggiori dimensioni così come l’uomo (identificato con Odisseo) legato al suo albero e sarebbe stata provvista di remi ed equipaggio. Concludendo, la Kontorli si chiede se tale lettura (invero molto diffi-cile da sostenere) non possa tradire, sul frammento itacense, la narrazione per immagini di alcune delle imprese di Odisseo narrate nell’Odissea. Tale ipotesi, congiunta all’interpretazione del graffito a forma di

tridente con un segno della Lineare B (sebbene non specificato, sembra che sia verso questa scrittura che ora la studiosa si orienti, data la sua “lettura” da un punto di vista linguistico greco), ovvero di una scrittura attestata a Creta e sul Continente greco in un arco di tempo compreso tra il XIV ed il XIII secolo67 (o in un periodo ancora precedente, se si attribuisse il “segno” al sillabario A), implica quanto meno la circolazione di nuclei mitici riguardanti le imprese del re itacense nel suo nostos dopo la guerra di Troia in un periodo risalente al Bronzo Tardo (o addirittura Medio).

In realtà, se piuttosto vaga appare l’interpreta-zione delle incisioni presenti sul frammento in questione, ancora più difficile sembra essere la de-finizione di quest’ultimo come “tavoletta”, che ne implica l’interpretazione come documento d’archi-vio (essendo la vocazione di questo tipo di supporto esclusivamente amministrativa) nonché l’esistenza, ad Haghios Athanasios, di un centro palatino di matrice minoica o micenea che adoperasse in loco gli strumenti dell’amministrazione propri di quelle società, poiché una tavoletta della tipologia e con le finalità di quelle egee non può essere certo stata importata. Una interpretazione del frammento in questione come tale non sembra resistere (oltre che ad una serie di osservazioni condotte più avanti) neppure al confronto istituito tra questo ed un gruppo di ulteriori frammenti (nello specifico, tre) “riscoperti” da Owens all’Ashmolean Museum di Oxford ed interpretati come pertinenti a tavolette mal conservate provenienti da Cnosso, recanti segni iscritti in Lineare B68. Per stessa ammissione del loro editore, la maggior parte dei frammenti sarebbe anepigrafe, tranne due (inglobati con un terzo col quale sarebbero stati cotti al momento della distruzione del palazzo) che presenterebbero l’iscrizione di due segni (uno su ciascun frammento) di identificazione impossibile o altamente contro-versa. Recentemente, tuttavia, anche questi ultimi sono stati eliminati dal computo dei documenti iscritti in Lineare B in occasione dell’ultimo rap-porto sulle nuove attestazioni di scritture cretesi, laddove M. Del Freo69 sottolinea come sia impos-sibile essere sicuri che tali frammenti, in pessimo

66 Kontorli Papadopoulou-Papadopoulos-Owens 2005, p. 185.67 Le tavolette in Lineare B provengono da uno strato di di-

struzione del TM IIB (1520/1480-1425/1390, Room of Chariot Tablets) e del TM IIIA1 (1425/1390-1390/1370) nel caso di Cnosso; ad un livello del TE IIIB1 (1340/1330-1270/1250)

nel caso di Khania e del TE III B2 (1270/1250-1190/1180) per gli archivi continentali.

68 Owens 1998-999, pp. 155-158.69 Del Freo 2007, p. 222.

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stato di conservazione e ipoteticamente scartati o eliminati prima di un loro utilizzo, abbiano mai recato una iscrizione. Di conseguenza, la stessa decisione di assegnare loro una numerazione in quanto iscrizioni (secondo la proposta di Owens, KN X 9948, X 9949 e Xf 9950) viene considerata arbitraria, escludendo risolutamente dalla discussio-ne l’unico confronto con un gruppo di documenti iscritti con finalità amministrative invocato dalla Kontorli, Papadopoulos e Owens per il presunto frammento iscritto di Itaca70. Inoltre, l’ipotesi di Owens sui frammenti di Oxford si basava anche su alcuni particolari relativi all’esecuzione e all’aspetto di questi ultimi (tra i quali anche alcune impronte digitali chiaramente distinguibili, la forma, il fatto che fossero stati cotti accidentalmente) che, se anche potrebbero indicare che questi fossero stati pertinenti a tavolette preparate ma mai iscritte, ri-sultano del tutto estranei al frammento di Haghios Athanasios.

Nel rapporto sul suo rinvenimento, la Kontorli rileva che questa “tavoletta” (come le altre ritro-vate, infra), diversamente da quanto accade per i documenti analoghi rinvenuti presso gli archivi e depositi minoici e micenei (vergati su argilla cruda e cotti casualmente dagli incendi che seguirono la distruzione di palazzi e cittadelle), è stata cotta intenzionalmente. Di conseguenza, l’“iscrizione” che recherebbe sarebbe stata vergata prima della cottura con una finalità precisa (quella di poter restituire il suo significato a chiunque l’avesse letta in qualunque momento), caratteristica di iscrizioni monumentali ma profondamente diversa da quella che ha presieduto alla redazione, in Lineare A e B, di documenti contabili destinati a durare un tempo limitato fino a che, si può presumere, non fossero stati eliminati o ricopiati su materiale deperibile. Una serie di altre caratteristiche del frammento inciso, inoltre, ne scoraggia profondamente una interpretazione come “tavoletta”. Infatti, diver-samente dai documenti amministrativi iscritti in Lineare A o B, il frammento itacense è letteralmente cosparso di graffiti ed incisioni con valore evidente-mente decorativo, simbolico o evocativo, che non

accompagnano mai le iscrizioni egee di carattere amministrativo (come già notato a proposito del fr. 80a di Pelikata); anche nel caso in cui si volesse ipotizzare che il frammento in questione non fosse pertinente ad una tavoletta ma fosse parte di un manufatto iscritto con finalità non amministrative, bisognerebbe tenere presente che l’irruzione di una rappresentazione iconografica così articolata non è una caratteristica ricorrente in alcuna iscrizione prodotta nell’Egeo del II millennio. Di conseguen-za, queste osservazioni spingono a concludere che, per le sue caratteristiche, il frammento di Haghios Athanasios non abbia nulla che ne permetta una comparazione verosimile con nessun tipo di ma-nufatto iscritto nelle Lineari egee, né con finalità amministrative né non amministrative.

Quanto al contesto di rinvenimento e alla datazio-ne dell’oggetto, in base allo stato attuale della docu-mentazione archeologica non se ne potrà avanzare alcuna ipotesi certa. Infatti, il frammento oggetto di analisi proviene da un monumento circolare di grandi dimensioni (8x5 m.) messo in rapporto con l’acropoli di Haghios Athanasios, noto agli abitanti della zona dalla fine del secolo scorso e in cui il grado di disturbo del contesto è già evidente nella segna-lazione del suo uso come lavatoio del paese (almeno nella porzione settentrionale)71. La sua esplorazione è stata intrapresa dalla Kontorli nel 1995 tra grandi difficoltà, al di sotto del livello di crollo della struttura superiore periodicamente allagato dalla pioggia. Dal-le esplorazioni condotte finora, oltre ad averne indi-viduato un ingresso a gradini sul lato orientale ed un segmento di peribolo che lo circonda a sud e a est, la studiosa ha potuto condurre alcune osservazioni sulla tecnica di costruzione del monumento, costruito con pietre non lavorate e connesse senza alcun legante, non intonacate e a facciavista interna solo nella metà inferiore. In base a queste osservazioni preliminari, la Kontorli ne propone una interpretazione come tomba a tholos, individuandone un confronto con le tombe della Messarà e, nello specifico, con quella di Haghia Kyriaki72. L’indicazione di un parallelo immediato con altre tipologie di architettura fune-raria cretese o continentale (come le tombe circolari

70 Kontorli Papadopoulou-Papadopoulos-Owens 2005, p. 184, nota 8.

71 Kontorli Papadopoulou 2001, pp. 317-330; Kontorli Papadopoulou-Papadopoulos 2001, pp. 71-72.

72 D. Blackman - K. Branigan, ‘The excavation of an early minoan tholos tomb at Ayia Kyriaki, Ayiofarango, southern

Crete’ in BSA 77, 1982, pp. 1-57, tavv. 1-2. Si presume che il confronto individuato sia limitato alla tipologia e alla pianta della tholos cretese, la quale è databile, grazie ai rinvenimenti di una notevole quantità di ceramica diagnostica, all’AM I, con successive fasi costruttive nell’AM II e MM I, ovvero ad un periodo precedente all’introduzione della Lineare A.

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messeniche, ad esempio) non sembra tuttavia pos-sibile in questo stadio della ricerca né incoraggiata dai numerosissimi problemi cronologici e stratigrafici presentati dal monumento.

Infatti, il lavoro di rimozione della maggior parte dello strato di crollo superiore ha rivelato la natura profondamente disturbata del riempimento del monumento, privo di alcuna stratificazione indivi-duabile. Tra i rinvenimenti, infatti, viene enumerata ceramica di periodo classico ed ellenistico, frammenti di idoli d’argilla e di coppe, mattoni, monete, lamine metalliche, fibule di bronzo, ami e ossa di animali73, che inducono ad usare anche molta cautela nell’iden-tificazione della vocazione (o delle diverse vocazioni nel tempo) della costruzione. Congiuntamente a quanto sopra elencato, è venuto alla luce quello che la Kontorli definisce un «megaélov arijmoév» di ta-volette di argilla e ossa di bos primigenius, al di sotto delle quali sono stati rinvenuti due bucrani interi74. Proprio questi ultimi sembrano confermarla verso l’interpretazione dell’edificio come monumento fu-nerario, in base all’esistenza di confronti disponibili sul rinvenimento in tombe, sia cretesi che conti-nentali, di bucrani75. I manufatti interpretati come tavolette, plasmate in argilla marrone chiaro, sono stati rinvenuti in pessimo stato di conservazione: la dimensione dei loro frammenti sembra variare da 4 a 5 cm. di lunghezza e da 0,5 a 2 cm. di spessore, e di pochissimi sarebbero individuabili le estremità. Per la maggior parte provengono dall’esterno del mo-numento circolare, lontani dall’area allagata, mentre altri furono trovati al suo interno; tra questi ultimi ricorre la “tavoletta” pubblicata, rinvenuta al centro della costruzione ad una profondità di 0,50 m. dalla superficie e vicino ad un bucranio. Se, per una serie di deduzioni in negativo, non è possibile definire il segno graffito di Haghios Athanasios una iscrizione e se non si può interpretare il manufatto che lo reca come tavoletta, sarebbe evidentemente di importanza

fondamentale per fornire maggiori elementi per una sua interpretazione alternativa (come parte di un grosso vaso o del suo orlo) la pubblicazione delle altre “tavolette”, attualmente in corso di studio, che gli editori sostengono poter recare altri “segni” incisi. Tuttavia, se questa ipotesi si basasse esclusivamente sul confronto tra i materiali di Haghios Athanasios con i già citati frammenti cnossi dell’Ashmolean Museum, la loro natura di “tavolette” non potrebbe trovarvi sostegno.

Tra i manufatti provenienti dal riempimento del monumento sono citati76 anche frammenti di idoli di argilla nei quali si riconosce una matrice minoica, comparati con tre figurine cretesi per la postura delle braccia. Infatti, sebbene di datazione diver-se (due sono protopalaziali ed una postpalaziale, ovvero relativa al periodo “miceneo” dell’isola)77, le statuette minoiche in questione presentano un braccio sull’addome e l’altro sulla spalla, rientrando in una tipologia stilistica che fa di tali manufatti il precedente delle statuette micenee a phi. Tuttavia, fino ad una pubblicazione completa degli esemplari itacensi, non se ne potrà trarre alcuna informazione circa la composizione e la cronologia del materiale proveniente dalla cosiddetta tholos.

Quest’ultima è ubicata più in basso e più ad oriente, giù da un sentiero campestre, rispetto alla cisterna ipogeica di Haghios Athanasios, che è l’unico monumento che abbia fornito traccia di materiali risalenti al TE III. Il sito, infatti, ha fornito, seppure labili, alcune tracce di adozione in loco di ceramica micenea, il che ne ha favorito una più approfondita indagine alla ricerca della fase “micenea” del popolamento dell’isola, connessa all’ipotesi che la città “omerica” fosse ubicata al nord di Itaca. Il sito è noto col nome popolare di “scuola di Omero” da una torre di avvistamento della fine del quarto secolo78, dove le prime esplorazioni archeologiche furono intraprese da Schliemann,

73 Kontorli Papadopoulou-Papadopoulos 2001, p. 72; http://www.friendsofhomer.gr/Excavations/Excavations.html.

74 Kontorli Papadopoulou-Papadopoulos-Owens 2005, p. 184.75 In particolare, la studiosa istituisce un confronto con la

tholos A di Archanes-Fourni, donde proviene il cranio di un toro (oltre che parti di un cavallo), che è databile ad un periodo compreso tra TM IIIA1 e TM IIIB, ovvero al periodo miceneo dell’isola. Cfr. E. Sapouna-Sakellaraki, ‘Archanès à l’époque mycénienne’, in BCH 114, 1990, pp. 78-80.

76 Kontorli Papadopoulou-Papadopoulos-Owens 2005, p. 183; ww.friendsofhomer.gr/Excavations/Excavations.html.

77 Cfr. G. Rethemiotakis, Minoan clay Idols, Archaeological

Society of Athens 218, 2001, in cui i confronti con gli “idoli” itacensi sono individuati in MH 15146 da Gortina (risalente al periodo protopalaziale), p. 4, fig. 5, p. 6, fig. 9 e MH 21809 da Kalou Pediados (ascrivibile al periodo post-palaziale), p. 13, fig. 18.

78 Schliemann 1869, p. 48: «In der Nähe dieser beiden Quel-len... befindet sich ein Gebäude ohne Dach... welches die Tra-dition als die Schule Homers bezeichnet». La tradizione locale preferiva ricondurre il nome alla conformazione della roccia sottostante, quale appare nell’acquerello di W. Gell (1807); cfr. Steinhart-Wirbelauer 2002, p. 61, fig. 15a. Oggi il paesaggio appare completamente stravolto dagli scavi degli ultimi decenni.

79 Souyoudzoglou Haywood 1999, p. 95.

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Vollgraff e Kyparisses79. Anche questo sito fu in-dagato a partire dal 1930, come già accennato, da C.R. Wason e da S. Benton80 per conto della Scuola Archeologica Inglese di Atene, che ne rivelarono le fasi di principale occupazione risalenti ai periodi romano ed ellenistico81, sebbene fosse poi tralasciato nelle successive campagne di scavo per il minimo interesse che aveva dimostrato. Costoro identifica-rono la succitata cisterna sotterranea (in un primo momento erroneamente interpretata come tholos), che restituì le basi di due kylikes e di una coppa micenee82 del TE III, sebbene la Souyoudzoglou sottolinei che la Benton, nel suo inedito studio su Itaca83, segnalasse la base di una sola kylix. In aggiunta, un altro numero esiguo di frammenti tardo-elladici fu rinvenuto nel 1963 al di sotto della camera84. La tecnica di costruzione di quest’ultima, reindagata di recente dall’Università di Ioannina, è stata genericamente paragonata dalla Kontorli85 a quella delle cisterne ipogeiche di Micene, Tirinto e Haghia Irini a Kea, nonché alla fonte-cisterna di Beycesultan. Tali confronti, uniti ai rinvenimenti ceramici di cui sopra, conducono la studiosa a data-re il monumento al TE III e a definirlo mukhnai=khév krhénhv, senza che questa ipotesi, formulata solo sulla base di un procedimento descrittivo e di un numero esiguo di frammenti ceramici, sia suffragata da più perspicui rinvenimenti necessari per una sua conferma.

Sebbene, nello stato attuale della ricerca, non ci siano elementi sicuri per attribuire la costruzione circolare di Haghios Athanasios al Tardo Elladico, si ritiene che il sito (profondamente disturbato dall’occupazione ellenistica e romana) rientri, per le evidenze ceramiche provenienti dalla cisterna, nel principale sistema insediamentale della porzione settentrionale dell’isola dove, a partire da Heurtley, è stato più volte identificato l’“insediamento mice-neo” di Itaca. Dopo una generale recessione rispetto alla fase del Bronzo Antico rintracciabile, in tutte le isole dell’arcipelago, nella generale contrazione del numero e dell’estensione di siti nel Bronzo Medio,

quando lo stesso insediamento di Pelikata sembra aver avuto una minore incidenza sul nord di Itaca (a giudicare dalla quantità di materiale ascrivibile al ME, molto ridotta rispetto a quello AE), al passag-gio tra questa fase e l’inizio del Bronzo Tardo sembra poter essere attribuita una rinnovata partecipazione, da parte delle isole ioniche, ai network commerciali egei, con una loro conseguente “micenizzazione”86. I gradi, la natura e l’incidenza di quest’ultima, tutta-via, non sono delineabili con sicurezza, a causa della sua pressoché totale limitazione alle produzioni utilitaristiche. Infatti, le evidenze architettoniche risalenti al Bronzo Tardo sono pertinenti a strutture isolate, delle quali le più significative sembrano essere quelle individuate sul sito di Tris Langadas (aree TL, L e T), ubicato al di sopra della baia di Polis, la cui continuità d’uso col periodo precedente è resa dubbia dal fatto che la ceramica mesoelladica ha continuato ad essere prodotta fino al TE II. Le prime indagini condotte sul sito portarono alla luce, in due settori, segmenti di muri che furono attribuiti ad una struttura ove fu rinvenuta ceramica datata al TE IIIA1-IIIB87, ulteriori frammenti della quale (congiunti a ceramica di periodo storico e ad altri segmenti di murature) sono stati rinvenuti in occasione delle indagini svolte sul sito a partire dal 199588. Le testimonianze architettoniche cui si accennava sono rappresentate, nell’area L, da tre segmenti sovrapposti di muri pertinenti ad una struttura caratterizzata da estremità curve (come quelle individuate di recente a Pelikata, supra) di carattere indigeno, che dimostrano l’adozione di una tipologia di pianta da lungo tempo scompar-sa dai principali centri di cultura micenea che, congiuntamente al ritardo nell’introduzione della ceramica stilisticamente attribuibile ad un prototipo miceneo sulle isole dell’arcipelago, ne indica un cer-to ritardo culturale89. Tuttavia, le suddette evidenze hanno condotto ad individuare a Tris Langadas un possibile “insediamento miceneo” che rientrerebbe in un sistema insediamentale facente capo a Pelikata donde, dall’area VI, proviene la già citata ceramica

80 Heurtley 1939-40, pp. 2, 10, tav. 6.1.81 Morgan 2007, pp. 81-83. 82 Heurtley 1934-1935, pp. 33 (119d), 34 (126b); Heurtley

1939-40, pp. 2, 10, tav. 6.1.83 S. Benton, A Guide Book to Ithaka, 1963.84 R. Hope Simpson, O.T.P.K. Dickinson, A Gazetteer of

Aegean Civilisation, vol. I, The Mainland and Islands, Göteborg 1979, p. 186.

85 Kontorli Papadopoulou 2001, pp. 317-330; http://www.

friendsofhomer.gr/Excavations/Excavations.html.86 Souyoudzoglou Haywood 1999, pp. 134-142.87 S. Benton - H. Waterhouse, ‘Excavations in Ithaka: Tris

Langadas’, in BSA 68, 1973, pp. 1-24.88 Kontorli Papadopoulou-Papadopoulos 2001, p. 68; Sou-

youdzoglou Haywood 1999, pp. 93-94.89 Per una analisi aggiornata delle strutture architettoniche

rinvenute a Tris Langadas, cfr. Souyoudzoglou Haywood 1999, pp. 102-103.

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micenea tra quelli che Heutrley riteneva i resti del crollo di una struttura abitativa “micenea” pro-fondamente disturbati. Ubicato a breve distanza, anche Stavros dimostra tracce di una occupazione risalente al Bronzo Tardo (TE III A2-B), laddove la presenza di ceramica micenea rinvenuta dagli inglesi («few LM III sherds») è stata ultimamente confermata dalle esplorazioni archeologiche intra-prese a partire dal 1994 dall’Università di Ioannina che, oltre a portare alla luce due porte pertinenti ad una costruzione rettangolare già individuata da Heurtley (interpretata «perhaps Mycenaean»), ha rin-venuto altri frammenti di kylikes micenee90. Infine, ricordiamo che la grotta di Polis (la cui designazione toponimica non sarebbe casuale)91, prospiciente al mare e situata all’estremità occidentale della baia, naturale accesso dal mare alla porzione settentriona-le dell’isola per chi proviene da occidente, aveva già restituito, nel 1905, i primi frammenti di ceramica micenea dell’isola92.

Sebbene quindi le evidenze di un’occupazione della porzione settentrionale dell’isola nel Bronzo Tardo siano diffuse nei principali siti qui indivi-duati, tuttavia lo stato attuale delle conoscenze non permette di individuarvi con certezza l’esistenza di un grosso centro o di suggerire la presenza di un “palazzo”, laddove l’isola sembra essere stata caratterizzata da piccoli insediamenti e fattorie con vocazione agricola, ubicati nelle aree di massimo potenziale produttivo. Gli stessi processi di acqui-sizione di alcuni tratti di cultura materiale micenea risultano ancora in larga misura ipotetici. Non è infatti definibile con chiarezza se il processo di micenizzazione delle isole ioniche sia da imputare all’adozione di alcuni tratti culturali tipici della tradizione micenea (come sembrerebbero indicare le tholoi del TE IIIA2-B/C di Zacinto e Cefalonia) ipoteticamente introdotti dall’élite (come proposto dalla Souyoudzoglou), o ad una limitata presenza stanziale di gruppi di Micenei all’interno di “teste di ponte” fissate per fini commerciali. Le fasi di prin-cipale acquisizione di tratti micenizzanti sembrano aver coinciso con il TE IIIA1 ed il TE IIIA2-B/C, quando la ceramica micenea raggiunge un buono

standard qualitativo e le tombe a camera e a tholos emulano i modelli peloponnesiaci, probabilmente stimolate proprio dalle regioni della Grecia occi-dentale, dove è attestato un grande incremento nel numero dei siti in Messenia e un’espansione degli insediamenti esistenti in Elide e in Achaia. Ad Itaca, tuttavia, la diffusione di tratti culturali micenei è stata costantemente accompagnata dal perdurare di elementi di cultura materiale tipica-mente indigeni – quali le strutture abitative con le estremità curvilinee o la grande quantità di ceramica fatta a mano prodotta secondo le tradizioni locali impiegata contemporaneamente a quella micenea –, da rielaborazioni locali di elementi importati o da acquisizioni tardive di essi. Il quadro che se ne può dunque trarre, alla luce delle evidenze finora note, sembra indicare che, dal momento della loro acquisizione, i tratti di cultura materiale micenea si siano sviluppati in seno alle comunità indigene con le caratteristiche di una «cultura periferica»93. I mo-tivi della loro acquisizione potranno essere attribuiti alla posizione geografica delle isole ioniche, lungo una (piuttosto ipotetica per questa fase cronologica) rotta commerciale di collegamento tra la Grecia e l’Occidente94. Tuttavia, l’evidenza archeologica for-nita da Itaca e dalle altre isole dell’arcipelago mostra una situazione profondamente diversa rispetto a quella testimoniata dalle vere e proprie “gateway communities” minoiche e micenee del Dodecane-so (a Rodi) e della costa occidentale dell’Anatolia (prima fra tutte, Mileto) laddove, ad Itaca, non è attestata nessuna evidenza positiva per l’adozione del patrimonio tecnologico e/o simbolico minoico e/o miceneo che indicherebbe l’importazione di una cultura allogena a vasto raggio (chiare struttu-re architettoniche, evidenze dello svolgimento in situ di pratiche religiose, sistema di pesi e misure, affreschi etc.), ma solo l’importazione/imitazione di produzioni utilitaristiche (che potrebbe essere avvenuta anche indirettamente) o l’imitazione di alcune tipologie funerarie, probabilmente per la autolegittimazione della élite locale.

È evidente, di conseguenza, che la “presenza” minoica e micenea sul sito, invocata per giustificare

90 Heurtley 1939-40, p. 3 tav. 3; cfr. Souyoudzoglou Haywood 1999, p. 93; Kontorli Papadopoulou 2001, pp. 317-330; Kontorli Papadopoulou-Papadopoulos 2001, pp. 65-66.

91 Heurtley 1939-40, p. 12.92 Cfr. nota 9.93 Souyoudzoglou Haywood 1999, pp. 140-142.

94 Th. Papadopoulos - L. Kontorli Papadopoulou, ‘Minoan Relations with West Greece and the Ionian Islands in the Late Bronze Age’, in ‘Proceedings of the 8th Cretological Congress, Heraklion, September 1996’, Heraklion 2000, Volume A2, pp. 519-530.

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87Sulle presunte “iscrizioni” in Lineare A e B da Itaca

il rinvenimento di una “tavoletta” recante un segno della Lineare A o B, non è abbastanza strutturata da supportare tale ipotesi. Le vie attraverso le quali si trasmette l’acquisizione di un sistema di scrittura sono molto diverse rispetto a quelle attraverso le quali si trasferiscono le produzioni utilitaristiche. L’importazione di un sistema scrittorio implica l’esistenza di una struttura sociale, politica e am-ministrativa non solo centralizzata ma, nel caso in esame, tipicamente minoica o micenea, la cui ef-fettiva attestazione necessita di essere rappresentata da clusters molto più complessi di cultura materiale. D’altra parte, le tracce della penetrazione dei sistemi amministrativi egei sono spesso poco evidenti (se non del tutto assenti) anche in quei contesti dove una presenza stanziale strutturata di gruppi di Mi-noici o Micenei è archeologicamente comprovata. Quanto alla lineare A95 (escludendo l’attestazione di documenti – amministrativi e non – redatti con questo sistema scrittorio nelle profondamente minoizzate Cicladi e a Citera), il suo uso attivo è attestato solo sui già citati frammenti di pithoi (e non su tavolette!) provenienti dall’insediamen-to di Mileto96, ovvero in un contesto abitativo enormemente più strutturato, in riferimento ad una presenza stanziale di Minoici, di quello che si

possa intravedere non solo nelle isole ioniche, ma anche in altre “teste di ponte” o empori dove una tale presenza può essere ammessa con maggiore probabilità, ad esempio a Iasos o a Rodi. Quanto alla Lineare B, al di fuori del Continente e di Creta possono essere solo menzionati97 un peso di pietra ed un frammento di kylix iscritti da Iolkos98, un sasso recante una iscrizione dedicatoria da Kafkania (Olimpia)99, un sigillo in avorio dalla necropoli del Medeon (Focide)100 ed un sigillo in ambra da Bernstorf (Bayern)101. In nessuno di questi casi si tratta di documenti amministrativi (la cui presen-za, ripetiamo, è giustificabile solo nel contesto di un archivio/deposito palaziale), e tutti rientrano perfettamente negli standard tipologici e stilistici delle iscrizioni nelle Lineari A e B, cosa che non si può dire nel caso delle millantate iscrizioni itacensi.

Le considerazioni condotte, dunque, portano a concludere che i frammenti d’argilla incisi, oggetto della presente nota, non possono in alcun modo contribuire al dibattito tuttora in corso sull’identifi-cazione della Itaca omerica e sull’ubicazione, sul suo territorio, del “palazzo” di Odisseo, né fornire nuovi elementi che favoriscano la discussione sui tempi, le modalità e le forme della partecipazione dell’isola al più vasto orizzonte culturale egeo del II millennio.

95 Non si considerano qui collegate alla diffusione di pratiche scrittorie né quali indicatori di presenze stanziali allogene le mason’s marks segnalate da Kontorli Papadopoulou-Papadopoulos-Owens 2005 (p. 183 e nota 4) in Messenia. Inoltre, al di là del dibattito circa la natura del sillabario attestato sul già citato sasso di Kaf-kania (Godart 2002, pp. 213-240), se ne ritiene più verosimile l’appartenenza al segnario B, diversamente da quanto sostenuto in G. Owens, ‘Linear A in the Aegean: The Further Travels of the Minoan Script. A Study of the 30+ extra-Cretan Minoan Inscrip-tions’, in P.P. Betancourt - V. Karageorghis - R. Laffineur - W.-D. Niemeier (a cura di), Meletemata: Studies in Aegean Archaeology Presented to Malcolm H. Wiener as He Enters His 65th Year (Aegaeum 20), Liège-Austin 1999, vol. II, pp. 585-587.

96 Cfr. nota 29.97 I due segni molto controversi vergati su due ostraka milesi

sono stati interpretati più correttamente come marchi di vasaio; cfr. W.-D. Niemeier, ‘The Mycenaeans in Western Anatolia and the Problem of the Provenance of the Sea Peoples’, in S.

Gitin - A. Mazar - E. Stern (a cura di), Mediterranean Peoples in Transition: Thirteenth to Early Tenth Centuries B.C.E., ‘Pro-ceedings of the International Symposium in Jerusalem, April 3-7 1995’, Jerusalem 1998, p. 37, figg. 13-14.

98 V. Adrimi-Sismani, ‘Mukhnai=khé Iwlkoév’, in AAA 32-34, 1999-2001, p. 84, fig. 5, p. 93, fig. 17; L. Godart - V. Adrimi-Sismani, ‘Les inscriptions en linéaire B de Dimini/Iolkos et leur contexte archéologique’, in ASAtene 83 (2005), 2006, pp. 47-70.

99 Cfr. nota 38.100 Olivier 1999, p. 343; il sigillo è stato rinvenuto in una

tomba del TE IIIC, ma si ritiene, per motivi stilistici, essere stato eseguito in un periodo non successivo al TE IIIA1/TE IIIB e poi «ereditato».

101 R. Gebhard - K.H. Rieder, ‘Zwei bronzezeitliche Bernsteinobjekte mit Bild- und Schriftzeichen aus Bernstorf (Lkr. Freising)’, in Germania 80 (2002), pp. 115-132. Il sigillo è datato al 1360 ca. (p. 132).

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88 Matilde Civitillo

Abbreviazioni supplementari:

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= M. Steinhart - E. Wirbelauer, Aus der Heimat des Odysseus. Reisende, Grabungen und Funde auf Ithaka und Kephallenia bis zum ausgehenden 19 Jahrhundert, Mainz 2002.

Tzakos 2005 = Ch.I. Tzakos, Ithaca and Homer. The Truth, Athens 2005.

Scioglimento delle abbreviazioni speciali:

AE = Antico ElladicoME = Medio ElladicoTE = Tardo ElladicoAM = Antico MinoicoMM = Medio MinoicoTM = Tardo Minoico

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The archaeological record of the Sibaritide pro-vides ample evidence for external indigenous con-tacts and foreign frequentation of the area prior to the foundation of ancient Sybaris (720-710 B.C.) in the form of imported objects found in indigenous religious, mortuary and settlement contexts. The nature of these contacts has, however, remained unclear and research on the topic has so far only produced a range of plausible scenarios. Explana-tions for the presence of imported goods range from pre-colonial Greek activity to Phoenician commerce as well as indigenous trade routes reaching outside the Sibaritide3.

Research following the excavations of the Gron-ingen Institute of Archaeology on the acropolis of the Timpone della Motta at Francavilla Marittima (fig. 1), approximately 12 km. north of the later Achaean apoikia of Sybaris, between 1992 and 2004 has produced some fundamental clarification of the specific nature of both indigenous contact to areas outside of the Sibaritide and the foreign pres-ence in the 8th century B.C. The results allow for the identification of contacts between indigenous communities of the Sibaritide and the Salento area. The primary evidence for this is the identification of fragments of around 80 Salentine matt-painted vessels in the sanctuary on the acropolis. Although circulation over long distances of individual matt-painted vessels is not an unknown phenomenon in

Italy, the amount of Messapian pottery (fig. 2e-g) found on the Timpone della Motta is remarkable and suggests actual import of indigenous pottery from the Salento area rather than the occasional gift exchanges among individual members of an indigenous elite. The Middle Geometric II-Late Geometric Corinthian pottery, which is also found in the sanctuary (fig. 2a-d), may very well have arrived through this route, since Geometric Corinthian pottery is especially frequent in the Salento area4.

Foreign Euboean presence in the Sibaritide can now also be deduced from new ceramic evidence, which is the focus of the present article. On the basis of this pottery we will on the following pages argue that Euboean immigrants most likely resided in the Sibaritide during the early Iron Age, where they managed a pottery workshop at the foot of the Timpone della Motta that produced a wide range of highly Euboeanizing vessels.

At some point in time during the second quarter of the 8th century B.C. a number of Euboean pot-ters arrived at the indigenous Oinotrian settlement at Timpone della Motta. Here they set up a work-shop, which operated at least until the beginning of the early Proto-Corinthian period, in close con-nection to an already existing indigenous pottery workshop and started a production of a group of highly Euboeanizing wheel-turned pottery, which

AN EARLY EUBOEAN POTTERY WORKSHOP IN THE SIBARITIDE1

Jan K. Jacobsen – SØren Handberg – Gloria P. Mittica2

1 This article is part of the research project “Euboean frequenta-tion and social interaction along the Ionian South Italian coast”. The project is generously financed by the Carlsberg Founda-tion, Copenhagen, Denmark. Preliminary material studies was made possible through research grants from the Ny Carlsberg Foundation and the Elisabeth Munksgaard Foundation, Co-penhagen, Denmark.

2 [email protected] Associated researcher, Gron-ingen Institute of Archaeology; Søren Handberg, klash@hum.

au.dk /[email protected], PhD researcher, the Danish National Research Foundation’s Centre for Black Sea Studies, University of Aarhus, Denmark (www.pontos.dk); [email protected] Specializzanda Scuola di Specializzazione in Archeologia Classica “Dinu Adamesteanu”, Lecce.

3 Jacobsen 2007, 24-32, with further ref.4 Jacobsen 2007; Jacobsen - Handberg 2009, Introduction. For

the distribution of Corinthian Geometric pottery in the Salento area cf. D’Andria 1994.

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90 Jan K. Jacobsen – Søren Handberg – Gloria P. Mittica

we have previously named Oinotrian-Euboean5. Here it is important to stress that the term only refers to the geographical location of the production, which does not imply an indigenous stylistic component.

This kerameikos was situ-ated on a low plateau to the south of the Timpone della Motta ca. 300 m. from the northern edge of the Raganello river bed. The re-mains of at least two kilns are visible on the site and several sporadic kiln fragments have been found across the area, which at the present state of our knowledge appears to cover an area of approximately 100 m2. Traces of a contemporary indigenous settlement have been excavated on plateau I of the Timpone della Motta, the western extend of which is less than 200 m. east of the kerameikos area. On the other side of the Timpone della Motta roughly 400 m. to the northeast of the inhabited plateau I is the Macchi-abate necropolis.

The repertoire of the Oinotrian-Euboean produc-

tion, which at the moment amount to approxi-mately 210 individual vessels, consists mostly of Greek type skyphoi and indigenous type scodelle but during the second half of the century the pro-duction expanded to include larger craters, lekanai, kalathiskoi, oinochoai, amphorai and bi-conical jars decorated with typical Euboean motifs (fig. 3). Most of the Oinotrian-Euboean pottery was found during the excavations in the sanctuary on the uppermost plateau of the Timpone della Motta 280 m. above sea level. The largest proportion has been identified in contexts related to the sacred buildings Vb and Vc, which were in use in the period between ca. 800 and 660/650 B.C.6. The 2008 excavations, however, revealed examples of the Oinotrian-Euboean pottery some distance to the east of the area of the 1992-2004 excavations, which shows that the group was not exclusively used in the sacred buildings Vb and Vc but broadly used in sanctuary. The typological

development of the Oinotrian-Euboean pottery, based on stratigraphic sequences observed dur-ing the excavations as well as stylistic comparison with Italo-Geometric pottery from Pontecagnano and Ischia as well as Greek Geometric pottery, has already been defined7.

At the time of the arrival of the Euboean potters the indigenous potters were producing handmade matt-painted pottery of the “undulating band style” particular to the area of the Sibaritide. It seems quite certain that matt-painted pottery was produced at the Timpone della Motta, not only due to the peculiarity of the “undulating band style” and later the “cratis/fringe style”, both of which are limited to the area, but also due to the fact that a larger misfired fragment of a late Geometric matt-painted vessel has been found. Surface finds collected in the kerameikos (fig. 4c) consist exclusively of material datable to the 8th century B.C. Apart from frag-ments of Oinotrian-Euboean skyphoi and scodelle the area has also yielded fragments of matt-painted vessels, larger impasto fragments and well as numer-ous fragments of dolia. Whereas the newly arrived Euboean potters continued the tradition from their homeland and made use of the turntable the indigenous potters continued to produce the matt-painted pottery in the coiling technique. However, recent archaeometric analyses have shown that the handmade matt-painted and the wheel-turned Oinotrian-Euboean pottery were produced from

5 Jacobsen-Mittica-Handberg, 2008. 6 A preliminary excavation report is summarized in

Kleibrink 2006.7 Jacobsen 2007, 40-52; Jacobsen-Mittica-Handberg 2008,

Fig. 1. Francavilla Marittima - Map of the archaeological site.

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91An early Euboean pottery workshop in the Sibaritide

Fig. 2a-g. Corinthian LG sherds: a) proto-kotyle (LGI); b) cup Aetos 666 type (LGI); c) kyathos; d) globular pyxis, e-g). Messapian mat-painted vessels (closed shapes).

a

e f g

b c d

similar clay. Whether or not the different work-shops extracted clay from exactly the same clay beds remains uncertain, but suitable clay beds have been found on the banks of the nearby Raganello river. The turntable was not the only technological innovation that the Euboean potters brought with them. Analyses have emphasized differences in the compactness of the fabric of the handmade matt-painted and the Oinotrian-Euboean pottery, with the Oinotrian-Euboean fabric being more compct than the matt-painted fabric. The interpretation of this difference in compactness is still unclear but it may account for either a difference in the treat-ment of the clay or different firing temperatures. The kiln fragments found in the kerameikos are of a common Greek type with perforated floor. Similar kiln fragments were found incorporated into the Cerchio Reale tumulus at the Macchiabate necropolis during the excavations in the 1960s8. At the time of the excavations the excavator Paola Zancani Montuoro supposed that a kerameikos had existed in the area of the necropolis. Since the Cerchio Reale tumulus is contemporary with the

kerameikos Zancani Montuoro’s supposition seems unlikely. The Cerchio Reale tumulus was, as all the tumuli at the Macchiabate, constructed with the use of river stones collected from the Raganello river. The kiln fragments incorporated into the tumulus were therefore presumably collected together with the river stones and then subsequently incorporated into the tumulus construction. The topographical location of the kerameikos on the southern side of the Timpone della Motta as well as the fact that kilns are still preserved in situ suggest that the kiln fragments from the Macchiabate could come from another early kerameikos also situated close to the Raganello, but further to the east and closer to the Macchiabate necropolis.

The historical outline presented above is of course not unique in the western Mediterranean. A similar situation involving expatriated Greek potters has al-ready been observed at several sites in e.g. Campania and Etruria and most prominently at Pithekoussai on Ischia. Already from the earliest period of the existence of the settlement Pithekoussai housed Greek pottery workshops, which produced close

8 Zancani Montuoro 1979.

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92 Jan K. Jacobsen – Søren Handberg – Gloria P. Mittica

copies of imported vessels, such as drinking cups, which in terms of style have proven difficult to dis-tinguish from actual imports. Imitations of drink-ing vessels such as the Aetos 666 kotylai, Thapsos cups and early Proto-Corinthian kotylai as well as pouring vessels such as oinochoai and lekythoi occur regularly in the Pithekoussan graves, and in the last quarter of the 8th century B.C. Corinthian potters, who had immigrated from Corinth, added to the ceramic output by producing high quality aryballoi, produced in a local clay, which exhibit a craftsmanship and stylistic repertoire that could easily compete with that of Corinth itself9.

At the same time other workshops produced large craters in a decorative style closely linked to the Cesnola Painter and applying familiar Euboean motifs such as the “tree of life” and “horses at a manger”. Other Ischian craters were decorated with a more mundane geometric pattern derived from an Euboean/Cycladic origin. One such crater with a complex geometric decoration and a Greek dipinto from grave 168 in Pithekoussai provides a valuable comparandum for a similarly decorated crater found in the sanctuary on the Timpone della Motta, which also carries a dipinto in Greek letters (fig. 4a-b)10. During the second half of the 8th and the early part of the 7th centuries B.C. workshops in Etruria, some of which probably housed dislocated Greek potters from Ischia, produced a range of Italo-Geometric vessels consisting of Greek shapes decorated in an Euboean/Boeotian and sometimes Corinthian in-spired style with the crater as the preferred shape11.

This phenomenon is, however, not confined to Campania and Etruria alone and Laurence Mercuri has in a recent publication convincingly argued for the presence of foreign potters at Canale-Ianchina, who were involved in the production of Euboean inspired cups and craters decorated with birds12.

The Oinotrian-Euboean group from the Tim-pone della Motta also includes a number of vessels, which are stylistically very close to the Euboean late Geometric figure decorated pottery, which strongly indicate the hands of Euboean painters. This is best exemplified by the find of a fragmented stand probably pertaining to a crater (fig. 4e). The stand is decorated with a frieze bordered by horizontal

straight and wavy lines above and below. The frieze contains three grazing horses standing over triangles with a box on top. The drawing is consistent and the composition well balanced, which suggest that the painter was comfortable with this motif. The style is closely related to that of the Cesnola Painter and in particular the Cesnolan inspired production at Pithekoussai where the “triangles with a box” was also used. Apart from these two places the motif does not occur in the western Mediterranean. Some recently published fragments from the area of the Apollon Daphnéphoros sanctuary in Eretria with the exact same motif suggest, however, that the stand from the Timpone della Motta was directly inspired from the Eretrian model and not an adaption of the Cesnola style13. As at Pithekoussai numerous vessels can be attributed to the group among these a frag-ment of a second stand depicting the hind quarters of a horse and a vertical crosshatched separating bar. A newly excavated fragment found in 2008 with a representation of a bird can probably also be at-tributed to this group (fig. 4d). Most interestingly a fragment, which also comes from a stand, has been found in the area of the kerameikos.

Traditionally the identification of the works of Greek potters in Italo-Geometric pottery, as ex-emplified above, has relied foremost on a stylistic qualitative comparison, which focuses on the degree of correspondence between Italo-Geometric and genuine Euboean pottery. Italo-Geometric vessels with a more generic similarity with Greek pottery are normally regarded as the works of indigenous potters copying Greek prototypes. Already as early as 1932 Alan Blakeway published a qualitative grouping system, in which he sought to distinguish between Greek and indigenous pottery on the basis of style and shape14.

In the case of the Oinotrian-Euboean group a range of technical observations enforce the iden-tification of Greek craftsmanship. This is first and foremost evident in the use of the fast turning potter’s wheel and the multiple brush. Two other important features, the application of a shiny glaze on the exterior and interior of the vessels and the bi-chrome black and white decoration, reflect a Greek technological tradition. While the involvement of

9 Neeft 1987, 59-65 with further ref.10 Buchner-Ridgway 1993, tav. 67-70.11 On Italo-Geometric pottery cf. Blakeway 1932-33, Åker-

ström 1943, Canciani 1987.

12 Mercuri 2004, 122 ff.13 Huber 2003, pl. 71, H93-H98.14 Blakeway 1932-33, 192.

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93An early Euboean pottery workshop in the Sibaritide

Fig. 3. Vessels in Oinotrian-Euboean style: a) skyphos; b) lekane; e, i) crater; c, d, f, g, h) closed shapes.

a

b

e

f

h i

c

d

g

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94 Jan K. Jacobsen – Søren Handberg – Gloria P. Mittica

Fig. 4. Vessels in Oinotrian-Euboean style: a-b) crater; c) skyphos; d) large vessel; e) stand from a crater in the style of the Cesnola Painter.

a

b

c

d

e

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95An early Euboean pottery workshop in the Sibaritide

Greek potters appears obvious indigenous individu-als are unattested. According to Blakeway’s criteria, vessels which exhibit a less developed technique and style, can be attributed to indigenous potters attempting to achieve products that would appear Greek. Such vessels, which for instance are unevenly thrown and/or decorated in an insecure style, are indeed found among the Oinotrian-Euboean pot-tery, but the existence of an indigenous typological, technological and stylistic fine ware tradition, which is clearly distinct from the Greek tradition, strongly suggests that we refrain from using such qualitative criteria on the Oinotrian-Euboean pottery.

A comparison of the Oinotrian-Euboean and the matt-painted pottery clearly reveals that there were no fundamental technologic or stylistic transmis-sion between the two workshops, which strongly indicates that they were ethnically clearly distinct. Indigenous matt-painted pottery was manufactured by hand, first by modelling clay rings and then by polishing the surface of the vessel, a technique that continued throughout the 8th century B.C. The Oinotrian-Euboean vessels on the other hand are always wheel-thrown. A strict typological division between the two groups is evident. Matt-painted potters relied exclusively on indigenous shapes such as askoi, scodelle and bi-conic jars, which only underwent minor typological developments in the course of the 8th century B.C. In contrast, the Oinotrian-Euboean potters produced typical Greek shapes, of which especially the skyphoi followed the rapid typological development of the Geometric skyphos in Greece itself. Two indigenous shapes, the bi-conical jar and the scodella are, however, found among the Oinotrian-Euboean production, but these vessels should not be viewed as indigenous adoption of Oinotrian-Euboean style, but rather as the result of Greeks producing vessels destined for indigenous consumers. This phenomenon is obviously paralleled in the production of Italo-Geometric bi-conic urns in Etruria for indigenous recipients15.

Such a concept of “marketing and targeting” was not unfamiliar to Euboean potters who had already produced plates with geometric decoration for a Phoenician market, which John Boardman describes

as «a clear case of production to satisfy a particular market in Cyprus which had taken note of Euboean sub-Protogeometric decoration and fancied it enough to use it»16. When looking at the stylistic concepts and primary motifs the difference between Oinotrian-Euboean and matt-painted pottery is even more pronounced. The decorative schemes and repertoire of motifs on the indigenous matt-painted pottery was completely neglected by the Euboean potters, who decorated their vessels with strictly geometric decoration of distinct Euboean/Cycladic origin. The indigenous potters also remained largely immune to the Oinotrian-Euboean style and only occasionally adopted single Greek motifs like the lozenge, which they incorporated into otherwise traditional indigenous decorative systems.

The material evidence presented above justifies the location of an Euboean workshop at the Timpone della Motta already sometime before the middle of the 8th century B.C. The clear differences in the productions of Oinotrian-Euboean and indigenous matt-painted pottery presented here is, in our opin-ion, sufficient evidence for favouring the application of a conceptual rather than a qualitative division in the assessment of the involvement of Greek and indigenous craftsmen.

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15 E.g. Szilágyi 2005, 45, fig. 8.16 Boardman 2004, 150.

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1. Questo contributo è dedicato alla presentazio-ne di un eccezionale scarabeo rinvenuto durante l’esplorazione archeologica preliminare del nuovo tracciato della SP 25 Fuorni-Giffoni Valla Piana, nel tratto interessato dal progetto del termovaloriz-zatore di Salerno in loc. Cupa di Siglia1.

Il tracciato viario incide le pendici orientali del colle di Monte Vetrano che domina l’accesso occi-dentale della piana costiera dell’Agro Picentino, in una formidabile posizione strategica: a nord-ovest guarda, infatti, il corridoio pedemontano solcato dal torrente Fuorni, che conduce a Fratte e alla Valle dell’Irno; sul versante orientale rivolto verso il corso del Picentino, controlla il percorso che risale la media valle del fiume, verso S. Maria a Vico e Giffoni Valle Piana: una via obbligata, non a caso ancora documentata in età medievale.

Nel corso delle II fase della I Età del Ferro il col-le accoglie un insediamento molto articolato che perdura fino all’inizio del VII sec. a.C.: l’abitato, collocato in altura, sembra interessare i rilievi del Castello, del Tuoppolo e del Tuoppolo delle Donne in cui si articola il colle, mentre le pendici sono circondate dalle necropoli, di cui sono stati esplorati

estesi segmenti in loc. Porte di Ferro a nord-ovest, Fontanelle a sud e Cupa di Siglia a est.

Un ulteriore nucleo di tombe è segnalato più a sud in loc. Ostaglio ed è stato connesso ad un avamposto ubicato sul colle di Castel Vernieri che chiude sulla riva destra lo sbocco nella piana del torrente Fuorni2 (fig. 1).

È opportuno inquadrare il rinvenimento dello scarabeo all’interno del più ampio contesto del sito di Monte Vetrano, delineando i caratteri salienti della cultura materiale.

Sia a Boscarello-Cupa di Siglia che nelle località sopra citate, le sepolture sono organizzate per lotti, divisi tra loro da fasce di rispetto, libere. In que-sto ultimo caso, la fascia di risparmio è rimarcata anche da uno stretto limite in ciottoli. All’interno di tali ripartizioni si riconosce una pianificazione per nuclei familiari, articolati intorno a tombe emergenti. Sono stati individuati almeno tre lotti e indagate oltre cento sepolture, che presentano differenti tipologie sepolcrali: a fossa terragna, di forma rettangolare con angoli smussati, rivestita da ciottoli fluviali eterogenei (prevalentemente calcarei, subordinatamente tufacei o arenacei), con

UNO SCARABEO DEL LYRE-PLAYER GROUP DA MONTE VETRANO (SALERNO)

Luca Cerchiai – Maria Luisa Nava

1 Lo scavo è stato eseguito dal Dipartimento di Beni Culturali dell’Università di Salerno, sotto l’alta sorveglianza scientifica della Soprintendenza archeologica, nell’ambito di una con-venzione stipulata con il Commissario delegato-Sindaco di Salerno. L’esplorazione è stata programmata alla luce dei risul-tati conseguiti attraverso la valutazione preliminare di impatto archeologico nel quadro di un’efficace e proficua collaborazione istituzionale. Il coordinamento del cantiere è stato affidato al dott. A. Rossi; il restauro e la riproduzione fotografica dello sca-rabeo sono stati eseguiti nei laboratori del Museo Archeologico Nazionale dell’Agro Picentino, ad opera, rispettivamente, di R. Basso e S. Stompanato.

2 G. Tocco Sciarelli, ‘Attività della Soprintendenza di Salerno, Avellino e Benevento’, in Magna Grecia e Oriente mediterraneo

prima dell’età ellenistica, ‘Atti XXXIX Convegno di studi sulla Magna Grecia (Taranto 1999)’, Taranto 2000, pp. 665-666; Cinquantaquattro 2001, pp. 95-97; M.A. Iannelli, ‘Salerno - Montevetrano. La necropoli di Fontanelle’ e L. Giliberto, ‘La tomba n. 29 in loc. Fontanelle’, in Le principesse vestite di bronzo (Catalogo mostra, Eboli 2004), Roma 2004, rispettivamente pp. 33-40 e 41-46. Lo scavo della necropoli in loc. Boscarello-Cupa di Siglia è stato condotto dalla Soprintendenza Archeologica di Salerno e Avellino, a seguito di esplorazioni preventive per la costruzione del metanodotto di alimentazione alla futura Centrale Termoelettrica di Salerno: cfr. M.L. Nava, ‘L’attività archeologica nelle province di Salerno e Avellino nel 2008’, in Cuma, ‘Atti XLVIII Convegno di studi sulla Magna Grecia, Taranto 2008’, in corso di stampa.

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ornamentali. Le defunte sono sepolte con i tipici abiti, chiu-si da fibule di varia tipologia e decorati a motivi geometrici formati da anelli e borchiette di bronzo.

In genere la parure perso-nale comprende orecchini in bronzo o in argento con vago d’ambra, collane in ambra, bracciali in bronzo, pendagli in bronzo e in argento con scarabei incastonati. Il brac-ciale più frequentemente attestato è quello omerale in lamina di bronzo, rinvenuto anche in più esemplari, larga-mente diffuso in area etrusca, laziale e campana. Si segna-lano, inoltre, i pendenti zo-omorfi in bronzo, tipici della cultura di Oliveto-Cairano.

L’attività della filatura e tessitura è testimoniata dalla diffusa presenza di fusaio-le e rocchetti d’impasto. Il corredo vascolare, oltre al vasellame canonico, mostra la presenza dello scodellone carenato su alto piede con anse plastiche cosiddette a cavallino, tipico dei corredi emergenti del vicino centro di Pontecagnano.

Nelle tombe maschili le armi, associate talvolta a utensili in ferro, contraddistinguono il defunto e il relativo rango sociale. L’aspetto guerriero è caratteriz-zato dalla presenza della spada in ferro con fodero in bronzo, che ancora una volta fornisce una puntuale analogia con la vicina Pontecagnano.

È presente anche lo strumentario da fuoco, atte-stato soprattutto da fasci di spiedi in ferro. Gli or-namenti personali risultano essenziali e si limitano per lo più alla grande fibula in bronzo, da parata, posta sul petto.

In generale il corredo vascolare risulta disposto prevalentemente ai piedi del defunto e presenta vasellame ceramico caratterizzato da forme e mo-tivi decorativi tipici di Pontecagnano. Subordinato risulta in questo caso l’apporto della cultura di

Fig. 1: Il Colle di Monte Vetrano: 1) loc. Porte di Ferro; 2) loc. Fontanelle; 3) scavi metanodotto; 4) scavi delocalizzazione SP 25 (pianta Amedeo Rossi, rielaborata da Cinquantaquattro 2001).

la copertura costituita da un tumulo di ciottoli di analoga natura; a cassa con lastroni di travertino sbozzati grossolanamente; a enchytrismos nel caso di sepolture di bambini.

Le sepolture a fossa costituiscono la tipologia più comune. Sono collocate ad una profondità variabile a seconda dello status del defunto. Sono state indi-viduate anche due sepolture a cassa (tombe 59-60) e tre ad enchytrismos (tombe 15, 18 e 40).

Nella maggior parte dei casi si tratta di sepoltu-re ad inumazione, ma talvolta per le deposizioni emergenti è attestata la pratica dell’incinerazione: l’orizzonte cronologico di riferimento è l’Orienta-lizzante Antico (fine VIII-inizi VII sec. a.C.).

I corredi femminili di maggior rilievo si carat-terizzano per la presenza di complesse parures

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Monte Vetrano. La tomba 74 (foto Sopr. Archeol. Salerno). Fig. 2. La tomba al momento dello scavo. Fig. 3. Il servizio dei vasi di bronzo con la situla tipo Kurd, la cista, il vaso biconico e l’incensiere. Fig. 4. Il servizio dei vasi di bronzo e la navicella nuragica. Fig. 5. La navicella nuragica. Fig. 6. L’incensiere di bronzo. Fig. 7. La conocchia.

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Oliveto-Cairano. Significativa è la presenza, nei corredi di maggior prestigio, di vasellame in bronzo sia di produzione che d’imitazione etrusca.

Eccezionale risulta il corredo della tomba 74, del terzo quarto dell’VIII sec., collocata in posizione centrale rispetto alle sepolture individuate in uno dei lotti (fig. 2). Si tratta di una tomba a fossa ad incinerazione, in cui il ruolo di spicco della defun-ta è sottolineato sia dal rituale funerario che dagli elementi del corredo. Di particolare interesse è la qualità e la quantità del corredo bronzeo, costitui-

to da sei forme tra cui una cista, un’anfora biconica e una situla di tipo Kurd3 (figg. 3-4).

Esse sono legate alle varie fasi del rituale funebre: il banchetto, l’incinerazione, la raccolta e conserva-zione nell’urna biconica delle ceneri. Precisi risultano i confronti con esemplari dell’Etruria meridionale.

Di grande rilevanza appare la presenza di una na-vicella in bronzo, di fattura nuragica4 (figg. 4-5), che accentua la diversità e l’importanza del ruolo sociale rivestito da questa defunta all’interno della propria comunità, sottolineata altresì dal rinvenimento,

3 L’associazione dell’anfora biconica con la situla di tipo Kurd ricorre nelle T. 4461 di Pontecagnano: L. Cerchiai, ‘Una tomba principesca dell’Orientalizzante antico a Pontecagnano’, in StEtr LIII, 1985, pp. 27-42; Idem, ‘La situle de type Kurd découverte dans la tombe 4461 de Pontecagnano’, in Les princes celtes et la Méditerranée, Paris 1998 pp. 103-08.

4 Per quanto attiene alla tipologia del nostro reperto, può osservarsi come, tra l’altro, presenti stringenti analogie con la navicella proveniente da Is Argiolas, Bultei. Si tratta del terzo, ed inserito nel contesto più antico, esemplare di navicella nuragica rinvenuto nell’Italia peninsulare: i due reperti precedentemente noti provengono l’uno dal cd. Tesoro di Hera di Crotone (datato al VI sec. a.C.) e l’altro dall’area di Porto (Ostia). Non è forse fuor di luogo osservare a questo proposito come i ritrovamenti sopra

citati possano divenire indicatori per una revisione cronologica delle testimonianze sarde, per le quali, a questo punto, sembrereb-be non potersi escludere una dilatazione diacronica che potrebbe estendersi oltre i termini sino ad ora indicati del Bronzo Finale, ed abbracciare anche periodi ben recenziori. Si avverte, dunque, la necessità di un ripensamento, almeno del termine post quem per la classe delle navicelle nauragiche, sulla base sia di una verifica approfondita dei contesti di provenienza, sia di una più puntuale analisi tipologica, che potrebbe portare all’identificazione anche di un’evoluzione diacronica dei tipi. Sulla questione cfr. F. Lo Schiavo, ‘Ancora sulle navicelle nuragiche’, in B. Adembri (a cura di), AEIMNHESTOS. Miscellanea di studi per Mauro Cristofani, Firenze 2005, pp. 192-209; A. Depalmas, Le navicelle in bronzo della Sardegna nuragica, Cagliari 2005.

Fig. 8a-d. Monte Vetrano, scarabeo (foto Sopr. Archeol. Salerno).

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lungo il lato destro della tomba, di un incensiere in bronzo (fig. 6) e di una conocchia che trova precisi confronti in una tomba di Capua5 (fig. 7).

Tutto ciò avvalora l’interpretazione che ci si possa trovare di fronte ad un personaggio di altissimo ceto sociale che rivestiva funzioni e cariche particolari, con tutta probabilità anche di tipo cultuale e religioso.

Di rilevante interesse è anche la sequenza strati-grafica sottostante la paleosuperficie utilizzata dalla necropoli. L’analisi geoarcheologia ha portato al riconoscimento di un “ash fall” di età protostorica, sovrimposto ad una colmata eluviale e riferibile a fasi erosionali particolarmente accentuate della I Età del Bronzo. I depositi eluviali protostorici sigillano una paleosuperficie di frequentazione riferibile al Neolitico medio-finale.

I dati della cultura materiale forniscono, dunque, per Monte Vetrano l’immagine di una comunità mi-sta, cui Pontecagnano consente di insediarsi in fun-zione di controllo ai margini del proprio territorio.

Il gruppo di Monte Vetrano è marcato dalla presen-za di componenti culturali esterne rispetto al centro villanoviano: evidenti sono soprattutto i rapporti con i gruppi di facies Oliveto Citra-Cairano stanziati nel retroterra collinare dei Monti Picentini, a S. Maria a Vico, Montecorvino Rovella (località Castel Ne-bulano e Madonna delle Grazie), Olevano sul Tu-sciano; ma nella necropoli sono documentate anche ceramiche prodotte a Capua e nella Valle del Sarno.

Nello stesso tempo il gruppo di Monte Vetrano rivela un’eccezionale propensione alle dinamiche di scambio, evidentemente in rapporto alla funzione di controllo del corso del Picentino: emblematico è, a tale proposito, è l’indicatore costituito dalla sopra ricordata barchetta nuragica in bronzo, che apre nuove prospettive di ricerca.

2. Lo scarabeo (fig. 8) è stato rinvenuto fuori contesto in un settore dello scavo sconvolto da scassi agricoli che hanno gravemente compromesso la conservazione delle sepolture dell’Età del Ferro e dell’Orientalizzante

Insieme si sono recuperati materiali ancora inqua-drabili nel periodo finale della II fase della Età del

Ferro (Fase II B di Pontecagnano)6, che consentono, se non altro a livello di ipotesi, di datare lo scarabeo nel III quarto dell’VIII sec a.C.

Lungh. 2; largh. 1,5; h. max. 0,9; sull’asse mag-giore, fori per l’inserzione del pendente: diam. 0, 25 e 0,3. Pietra grigia con venatura bianca.Dello scarabeo è resa accuratamente la testa, in cui sono distinti a incisione il clipeo a ventaglio e i grandi occhi a losanga. Sul corpo bombato una linea perimetrale incisa, interrotta in corri-spondenza dell’estremità posteriore, delinea lo sviluppo del protorace e l’ampiezza delle elitre che, però, sul dorso non risultano distinte. Manca l’indicazione delle zampe. Sotto la base di ap-poggio dell’animale è ricavata nello spessore una modanatura concava in cui, lungo l’asse maggiore, sono praticati i fori per l’inserzione del pendente.Sulla faccia inferiore piatta una complessa scena figurata è iscritta all’interno di un ovale inciso a linea semplice. Le figure presentano silhouettes incise e le testa incavate con un punzone. Scena di danza con sette personaggi e tre uccelli intorno ad un’anfora montata su un alto sostegno. Da sinistra a destra: 1) danzatore restrospiciente, con il corpo rivolto a sinistra; il braccio destro è di-steso lungo il corpo; le gambe sono flesse, in atto di saltare. 2) danzatore rivolto a destra, con le braccia ripiegate all’indietro: quello destro si sovrappone al busto della figura 1); di quello sinistro è reso solo l’avambraccio, con un’incisione, praticata dal basso verso l’alto, che parte dal bacino; le gambe, flesse, poggiano a terra. 3) figura maschile rivolta a destra, con le gambe flesse, poggianti a terra: con la mano destra, sollevata e aperta, impugna una lunga canna ricurva da cui succhia all’interno di un’anfora; il braccio sinistro è disteso, con la mano aperta appoggiata al ginocchio. 4) figura femmi-nile di piccole dimensioni, vestita di lunga gonna stretta alla vita e di una sorta di mantella: rivolta verso sinistra, solleva la testa e le braccia verso la figura 3). Al centro della scena: 5) grande anfora inserita su un sostegno con gambe connesse da

5 Tomba 386: W. Johannowsky, Materiali di età arcaica dalla Campania, Napoli 1983, pp. 100-01, tavv. IX e 2b.

6 I materiali sono costituiti da ornamenti in bronzo distribuiti in distinte unità stratigrafiche: una fibula ad arco serpeggiante “a gomito” con ardiglione bifido (Pontecagnano II. 1, 32Eb1a), una a drago con molla e ardiglione bifido (Pontecagnano II. 1, 32F1b), due esemplari a sanguisuga piena (Pontecagnano II. 1, 32C9), una

fibula ad arco rivestito di vaghi d’ambra con staffa simmetrica (Pontecagnano II. 1, 32C7), un’armilla (Pontecagnano II. 1, 37A1). Sulla sequenza dell’Età del Ferro di Pontecagnano cfr., da ultimo, S. De Natale, ‘La tabella di seriazione’, in G. Bailo Modesti e P. Gastaldi (a cura di), Prima di Pithecusa. I più antichi materiali greci del Golfo di Salerno (Catalogo della mostra, Pontecagnano 1999), Napoli 1999, pp. 76-83.

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una doppia traversa orizzontale; l’anfora presenta un labbro a tesa, collo distinto, corpo affusolato che termina con un puntale piriforme e due anse impostate sotto il punto di massima espansione. A destra dell’anfora: 6) flautista con le gambe a sinistra e testa e busto inclinato rivolti in direzione opposta: suona uno strumento, probabilmente, a due canne, in equilibrio sulla gamba sinistra mentre solleva l’altra a squadra. Sotto le sue gam-be: 7) figura femminile di profilo a destra, vestita di lunga tunica e seduta su un basso cuscino: essa sembra rivolgersi verso il sesso del flautista di cui sostiene la gamba alzata con la mano sinistra mentre solleva l’altra, aperta, all’altezza del volto. 8) suonatore di lira stante di profilo a sinistra: egli impugna lo strumento musicale davanti alla testa, sollevandolo con il braccio sinistro in primo piano. Della lira sono distinti la profonda cassa armonica, i bracci e la traversa orizzontale da cui sono tese quattro corde. Tra i suonatori di flauto e lira: 9) basso elemento vegetale con estremità cuspidata e rami sottili che spuntano dall’esile fusto. Ai lati dell’anfora: 10-12) tre uccelli con alte zampe e coda allungata: essi sono posati sulla canna ricurva della figura 3), su un’ansa dell’anfora 5) e sulla gamba sollevata della figura 6).

3. Lo scarabeo può essere inserito nel Lyre-Player Group, all’interno di un gruppo ristretto di esempla-ri di eccezionale fattura per lo stile e la complessità delle rappresentazioni figurate7.

Il confronto si fonda innanzitutto sulla resa della morfologia dell’animale: nella testa sono distinti i particolari del clipeo e degli occhi a losanga che contraddistinguono un gruppo di quattro scarabei attribuiti da J. Boardman ad una stessa mano: tra

essi, uno rinvenuto a Tarquinia e conservato presso la Bibliothèque Nationale di Parigi, reca sulla faccia inferiore una complessa composizione su tre registri che, stando al disegno, appare stilisticamente vicina all’esemplare di Monte Vetrano per quanto attiene la resa delle silhouettes e delle teste dei personaggi8.

Un confronto ancora più stringente è istituibile con uno scarabeo rinvenuto nell’Area Sacrificale Nord a Eretria, recentemente ripubblicato da S. Huber, anch’esso caratterizzato dagli stilemi del clipeo e degli occhi a losanga: sotto la base è incisa una scena di processione verso una figura in trono, cui partecipano un suonatore di lira, uno di tam-burello inginocchiato e un flautista9.

J. Boardman ha accostato l’esemplare di Eretria ad uno scarabeo della collezione Seyrig: in questo caso nella processione si aggiungono alla schiera dei musici un uccello posato su una delle canne del doppio flauto e, soprattutto, una figura femminile che reca sulla testa un’anfora da cui emergono due cannucce, a delineare un consumo simile a quello raffigurato sul sigillo di Monte Vetrano10.

Il motivo di aspirare il liquido dall’anfora me-diante una lunga canna è attestato su due esemplari da Jalisos e Gerusalemme, dove il protagonista dell’azione è, però, costituito dal suonatore di lira seduto in trono11: diversa in essi è anche la resa dell’anfora, con il corpo ovoide campito da un motivo a croce, mentre nello scarabeo di Monte Ve-trano il contenitore, per il collo e il labbro distinti, la spalla ampia e l’impostazione delle anse sotto la carena al punto di massima espansione, richiama la forma dell’anfora “cananea”12: se il confronto è accettabile, esso può costituire un valido indizio della matrice levantina dell’incisore13.

Se i confronti fondati su specifici sintagmi con-

7 Sulla classe del Lyre-Player Group essenziali sono Porada 1956, Buchner-Boardman 1966, Boardman 1990. Ad essi si aggiungano Cristofani Martelli 1988 e Huber 2003, I, pp. 91-92. Una sintesi recentissima in T. Hodos, Local Response to Colonization in the Iron Age Mediterranean, London and New York 2006, pp. 67-70.

8 Boardman 1990, p. 6 n. 40, 41 (Etruria), 44 ter (Francavilla), 120 bis (Asia Minore). I disegni del dorso degli scarabei nn. 40-41 sono riportati in Buchner-Boardman 1966, figg. 31-32; la foto del dorso dello scarabeo 44 ter in Boardman 1990, fig. 7b.

9 Huber 2003, O 188: I, p. 91; II, p. 61, tavv. 49, 128.10 Boardman 1990, n. 167, p. 8, fig. 16; Dentzer 1982, p.

32 nota 118, pl. 5, fig. 27 (calco).11 Boardman 1990, pp. 8-9, nn. 87 A (= Cristofani Martelli

1988, p. 111, fig. 8b) e 163.12 A.G. Sagona, ‘Levantine storage jars of the 13th to 4th

century B.C.’, in OpAth XIV, 7, 1982, pp. 73-110: senza

pretendere il rigore di un disegno archeologico, il profilo dell’anfora sullo scarabeo potrebbe essere avvicinato ai tipi 2 e 3 della sua classificazione. Lo stesso tipo di anfora è attestato a Pitecusa e Cuma: G. Buchner - D. Ridgway, Pithekoussai I. La necropoli: tombe 1-723 scavate dal 1952 al 1961, MonAnt Serie Monografica IV (LV della Serie Generale), 1993, p. 734: (IX) grezza importata, di tipo fenicio, cui si aggiunga T. 483, n. 26, p. 487, tav. 144; N. Di Sandro, La anfore arcaiche dallo scarico Gosetti, Pithecusa, Cahiers du Centre Jean Bérard XII 1986, pp. 91-99; F. Zevi - F. Demma - E. Nuzzo - C. Rescigno - C. Valeri (a cura di), Museo archeologico dei Campi Flegrei. Catalogo generale. 1. Cuma, Napoli 2008, ‘Tomba a cremazione, senza ricettacolo (Gabrici XXXVI)’, p. 198 (L. Petacco).

13 Il luogo di produzione del Lyre-Player Group oscilla, come è noto, nel dibattito tra gli specialisti tra Rodi e la Siria setten-trionale: cfr. solo la messa a punto di Huber 2003, I, pp. 91-92.

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sentono di inquadrare il nostro esemplare nell’am-bito del Lyre-Player Group14, unico e problematico resta, nella sua costruzione complessa, lo schema compositivo della scena di danza, profondamente diversa dal motivo orientale della processione cultuale con musici attestato, ad es., sull’Anfora Hubbard o sulle coppe fenicio-cipriote15.

La danza si svolge in assenza della divinità e ruota intorno all’anfora a cui si abbevera il ballerino: il grande contenitore suscita l’ebbrezza alcolica dovuta al vino o, piuttosto, ad una bevanda fermentata come la birra che la lunga canna serve ad aspirare, filtrandola dalle impurità16.

In questa prospettiva si può ricordare come nella tradizione iconografica orientale un confronto significativo sia istituibile con la figura di Bes raf-figurato su scarabei mentre balla bevendo con la cannuccia17.

Ma ancora più strette appaiono le analogie con l’iconografia greca del komos18, cui rimandano la nudità delle figure maschili (compreso il suonatore di lira), la gestualità dei ballerini, il carattere acrobatico e, al tempo stesso, probabilmente osceno della per-formance del flautista che danza, rivolto all’indietro, in precario equilibrio su un solo piede, sollevando l’altra gamba sopra una donna accovacciata.

Ciò pone il problema dell’origine e delle eventuali

mediazioni dello schema iconografico attestato sullo scarabeo di Monte Vetrano in cui potrebbe ricono-scersi il prodotto di un artigiano orientale, eseguito in un ambiente aperto all’interazione con i Greci: infatti, se davvero può ipotizzarsi un’interferenza con il tema del komos, questa è filtrata attraverso le coordinate della tradizione levantina, come è assicurato dal tipo dell’anfora e, soprattutto, dalla tecnica di aspirare la bevanda con la cannuccia19.

Questo modo di bere continua a sussistere in Armenia ancora ai tempi di Ciro il Giovane20 e significativamente è connesso da Archiloco alla birra d’orzo (bryton) consumata da barbari come i Traci o i Frigi21.

Sul filo di questa ipotesi potrebbe nascere la tenta-zione di richiamare a confronto della scena incisa il sistema cerimoniale del Marzeah documentato dai testi22, di cui si è opportunamente valorizzata l’in-cidenza in Occidente sia in rapporto allo sviluppo del modello del simposio sdraiato sia in rapporto al consumo cerimoniale delle carni e del vino da parte delle aristocrazie etrusche23, ma si deve sot-tolineare come l’immagine dello scarabeo presenti una autonomia irriducibile rispetto alle pratiche descritte dalle fonti, anche se mette in scena una non dissimile esperienza di gestione controllata dell’ebbrezza.

14 Al repertorio iconografico del gruppo rimanda anche il tipo della veste femminile della figura 4), su cui Buchner-Boardman 1960, p. 44.

15 P. Dikaios, ‘An Iron Age painted amphora in the Cyprus Museum’, in BSA XXXVII, 1936-37, pp. 56-72; G. Markoe, Phoenician bronze and silver bowls from Cyprus and the Medi-terranean, Berkeley 1985, pp. 56-59. V. Karageorghis - J. Des Gagniers, La céramique chypriote de style figuré - Age du Fer (1050-500 Av. J.-C.), Roma 1974 pp. 8-9. Per una discussione del motivo del “banchetto rituale con musici” sul Lyre-Player Group cfr. Buchner-Boardman 1966, pp. 48-50.

16 Cfr. ad es. Cl. Simon, ‘Râpes, siphons ou philtres pour pailles: developpement égyptien d’un art de boire’, in Sesto congresso internazionale di Egittologia (Torino, 1991), Torino 1992, pp. 555-63; M.M. Homan, ‘Beer and Its Drinkers: An Ancient Near Eastern Love Story’, in Near Eastern Archaeology 67, 2, 2004, pp. 84-95; sul cerimoniale del bere insieme dallo stesso vaso cfr. anche M. Tonussi, ‘Vasi con beccucci multipli per banchetti “cerimoniali” in Mesopotamia e Anatolia nel III-II millennio a.C.’, in R. Bortolin e A. Pistellato, Alimentazione e banchetto. Forme e valori della commensalità dalla preistoria alla tarda antichità, Venezia 2007, pp. 31-44.

17 A. Grenfell, ‘Iconography of Bes and of Phoenician Bes-hand Scarabs’, in Proceedings of the Society of Biblical Archaeology 21, 1902, p. 32 figg. XXXVIII-IX; sul rapporto istituibile tra Bes e la figura del sileno cfr. G. Capriotti Vittozzi, ‘Il fanciullo, il nano e la scimmia: figure “grottesche” e religiosità popolare

fra Greci e Egizi’, in Polis 1, 2003, pp. 141-54.18 Cfr., ad es., il kantharos tardo-geometrico Atene, Mus.

Naz. 14447 in ThesCRA II, s.v. Dance, p. 303 n. 2. L’incidenza dell’iconografia greca potrebbe ulteriormente sostanziarsi nella raffigurazione della lira a quattro corde, secondo le indicazioni già di Porada 1956, p. 200 che sottolinea la rarità dell’attributo nel Lyre-Player Group.

19 Può essere interessante ricordare come un’allusione all’atmo-sfera gioiosa del komos e alle sue implicazioni erotiche ricorra in una coppa di Salamina di Cipro riedita da V. Karageorghis, ‘Erotica from Salamis’, in RvStFenici vol. XXI Suppl. 1994, pp. 6-13.

20 Anabasi IV, 5, 26-27.21 Archiloco, fr. 28 D, citato in Ath. X, 447 b all’interno di

un più ampio excursus sulla birra d’orzo. Sul testo molto con-troverso del frammento, che accosta probabilmente il consumo della bevanda ad un gioco erotico, cfr. la messa a punto di F. Bosi, Studi su Archiloco, Bari 1990², pp. 126-31. Il frammento di Archiloco è già valorizzato da Dentzer 1982, p. 22.

22 Sul marzeah cfr. solo l’ampia messa a punto di L. Miralles Maciá, Marzeah y thíasos. Una institución convivial en el Oriente Próximo Antiguo Y el Mediterraneo, Madrid 2007.

23 O. Murray, ‘Nestor’s Cup and the Origins of the Greek Symposion’, in B. d’Agostino - D. Ridgway (a cura di), Apoikia. Scritti in onore di G. Buchner, AION ArchStAnt N. S. 1, 1994, pp. 47-54; M. Menichetti, ‘Il vino dei principes nel mondo etrusco-laziale: note iconografiche’, in Ostraka 11, 1, 1992, pp. 75-99.

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Bene è, quindi, non sovrapporre i due livelli di evidenza e valorizzare piuttosto la specificità di una costruzione iconografica di cui spetta agli specialisti approfondire la pertinenza.

In conclusione, i dati ricavabili dalla presenza di due eccezionali reperti allogeni rispetto alla cultura locale, provenienti da ambiti geograficamente così differenti, ma entrambi rilevanti nel quadro cultu-rale, l’area sarda per la barchetta nuragica e il Vicino Oriente per lo scarabeo, potrebbero costituire indizi importanti per una rilettura dei rapporti detenuti dalle genti indigene di Monte Vetrano con le popo-lazioni coeve, portando altresì ad una rivalutazione della funzione assunta dal gruppo locale all’interno del sistema di mediazione degli scambi commerciali e culturali in area tirrenica.

In questa prospettiva si pone la necessità di ap-profondire il rapporto che intercorre tra Monte Vetrano e il centro principale di Pontecagnano, con particolare riguardo al suo sistema di approdi.

Sulla base dei dati finora disponibili, la frequen-tazione di Monte Vetrano, dopo il Neolitico e l’Età del Bronzo, riprende nella II Fase della I Età del Ferro, quando si è esaurito l’insediamento perilagu-nare del Pagliarone, cui P. Gastaldi ha giustamente connesso le correnti di mobilità e di traffico segna-late dalle importazioni dalla Sicilia, dalla Calabria e, significativamente, dalla Sardegna, ancora databili nella Fase Ib della sequenza locale24.

Abbreviazioni Bibliografiche:

Boardman 1990 = J. Boardman, ‘The Lyre-Player Group of Seals. An Encore’, in AA 1990, 1, pp. 1-17.

Buchner-Boardman 1960

= G. Buchner - J. Boardman, ‘Seals from Ischia and the Lyre-Player Group’, in JdI 81, 1966, pp. 1-62.

Cinquantaquattro 2001

= T. Cinquantaquattro, Pontecagnano. II.6. L’Agro Picentino e la necropoli di località Casella, AION ArchStAnt Quad. 13, Napoli 2001.

Cristofani Martelli 1988

= M. Cristofani Martelli, ‘La stipe votive di Jalisos: un primo bilancio’, in S. Dietz and I. Papachristodoulou (edd.), Archaeology in the Dodecannese, Copenhagen 1988, pp. 104-20.

Dentzer 1982 = J.M. Dentzer, Le motif du banquet couché dans le Proche-Orient et le monde grec du VIIe au IVe siècle av. J.C., Rome, 1982.

Huber 2003 = S. Huber, Eretria XIV. Fouilles et recherches. L’Aire sacrificielle au nord du sanctuaire d’Apollon Daphnéphoros. Un rituel des époques géométrique et archaïque, Gollion 2003.

Pontecagnano II. 1 = B. d’Agostino - P. Gastaldi (a cura di), Pontecagnano II. La necropoli del Picentino. 1. Le tombe della I Età del Ferro, AION ArchStAnt Quad. 5, Napoli 1988.

Porada 1956 = E. Porada, ‘A Lyre Player from Tar-sus and his relations’, in S.S. Weinberg (ed.), The Aegean and the Near East. Study presented to Hetty Goldman, Locust Valley 1956, pp. 185-211.

24 P. Gastaldi, Pontecagnano II. 4. La necropoli del Pagliarone, AION ArchStAnt Quad. 10, 1998. Per un inquadramento delle importazioni sarde cfr. Eadem, ‘Struttura sociale e rapporti di scambio nel IX sec. a Pontecagnano’ e F. Lo Schiavo ‘Bronzi nuragici nelle tombe della Prima età del Ferro a Pontecagnano’, in La presenza etrusca nella Campania meridionale, ‘Atti giornate di studio, Salerno-Pontecagnano 1990’, Firenze 1994, rispet-tivamente pp. 49-59 e 61-82. Sulle dinamiche di occupazione della zona lagunare cfr. Cinquantaquattro 2001 e G. Bonifacio, ‘Il porto di Pontecagnano’, in AION ArchStAnt N. S. 11-12, 2004-05, pp. 235-44.

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Pochi sono i sigilli del Gruppo del Suonatore di Lira che giungono in Etruria e nell’agro falisco: Gior-gio Buchner e John Boardman nel loro fondamentale studio sul Gruppo1, che si è poi arricchito di ulteriori contributi2, ne ricordano appena cinque esemplari, pochissimi rispetto al nucleo di circa una novantina di esemplari, il maggiore in assoluto, rinvenuto anch’esso in Occidente, quello di Pithekoussai3.

Di essi, quasi sempre rinvenuti in scavi ottocente-

schi, quattro provengono dall’Etruria propria – Tar-quinia, Montalcino, Vetulonia, più uno di generica provenienza etrusca – e uno dall’agro falisco4.

Problematica resta invece, a mio parere, l’appar-tenenza al Gruppo del sigillo in ambra, conservato a Monaco5, dove è pervenuto insieme ad altri oggetti acquistati sul mercato antiquario come provenienti dall’Etruria, proposta da J. Boar-dman6, e su cui torneremo per le significative im-

I SIGILLI DEL GRUPPO DEL SUONATORE DI LIRA IN ETRURIA E NELL’AGRO FALISCO

Maria Antonietta Rizzo

1 Boardman-Buchner 1966, con revisione e aggiornamento in Boardman 1990.

2 Sulla classe restano fondamentali gli studi di Porada 1956, pp. 185-211; J. Boardman, Greek Gems and Finger Rings, London 1970, pp. 110 s.; Pithekoussai I, passim; P. Zazoff, Handbuch der Archäologie. Die antiken Gemmen, München 1983, pp. 59, 61 s., 64, fig. 24i, tav. 11, 3, 5-7; cui sono da aggiungere Martelli 1988, pp. 110-112 e aggiornamenti a nota 70; altri aggiornamenti in Martelli 1995, pp. 11 s. e nota 10; Boardman 1994, pp. 95-100.Ulteriori importanti contributi allo studio della classe in: I.J. Winter, ‘Homer’s Phoenicians’, in The Age of Homer. A tribute to Emily Townsend Vermeule (edd. J.B. Carter - S.P. Morris), Au-stin 1995, p. 267, nota 39; C. Morgan, ‘Figurative Iconography from Corinth, Ithaka and Pithekoussai: Aetos 666 reconsidered’, in BSA 96, 2001, p. 208 e nota 70; T. Hodos, Local Responses to Colonization in the Iron Age Mediterranean, London-New York 2006, pp. 67-70. Utili carte di distribuzione in O.H. Frey, ‘Zur Seefahrt im Mittelmeer während der Früheisenzeit (10.bis 8. Jahrhundert v. Chr.)’, in Zur geschichtlichen Bedeutung des frühen Seefahrt, Kolloquien zur allgemeinen und vergleichenden Archäologie 2, München 1982, p. 26, fig. 3; H.G. Niemeyer, ‘Die Phönizier und die Mittelmeerwelt im Zeitalter Homers’, in JRGZ 31, 1984, p. 28, fig. 21; Boardman 1990, p. 11, fig. 20; Martelli 1995, tav. I, 2; R. Osborne, Greece in the Making 1200-479 BC, London-New York 1996, p. 107, fig. 28; J. Bouzek, Greece, Anatolia and Europe. Cultural Interrelations during the Early Iron Age (St. Med. Arch. CXXII), Jonsered 1997, p. 175,

fig. 183; Huber 1998, p. 116, fig. 7; A. Hermary, ‘Votive Offer-ings in the Sanctuaries of Cyprus, Rhodes and Crete during the Late Geometric and Archaic Periods’, in V. Karageorghis - Ch. Stampolidis (edd.), Eastern Mediterranean: Cyprus-Dodecanese-Crete 16th-6th Centuries B.C., Proceedings of the International Symposium held at Rhethymnon, May 1997, Athens 1998, p. 271, fig. 8; Huber 2003, tav. 139. Una bibliografia completa, con aggiornamenti fino al 2008, è riportata in Rizzo 2007.

3 Per i sigilli pithekoussani si è fatto sempre riferimento alla numerazione di Boardman-Buchner 1966. Si tenga presente che ogniqualvolta, nel corso di questo lavoro, sono citate le tombe da cui i sigilli provengono si segue per esse la nuova numerazione usata in Pithekoussai I. A parte i 35 esemplari provenienti dagli scavi eseguiti nella necropoli di San Montano fino al 1961, e i tre degli scavi del 1965, di cui uno dall’acropoli (nn. 1, 19, 32) pubblicati in Boardman-Buchner 1966, nn. 1-38, e ripre-sentati nella pubblicazione definitiva Pithekoussai I (tranne i nn. 1, 19, 32) restano ancora inediti un’altra cinquantina di esemplari provenienti dagli scavi effettuati dopo il 1961 sia nella necropoli che sull’acropoli, di cui pochi accenni sono in Boardman-Buchner 1966, p. 62. Un esemplare di quest’ultimo gruppo di sigilli, dalla tomba 943, con leone gradiente con capro sul dorso e uccello davanti, riportabile ad una variante del tipo Boardman-Buchner 1966, nn. 95, 140, è stato pubblicato in Buchner 1982, p. 276, fig. 1 (= Boardman 1990, p. 14).

4 Boardman-Buchner 1966, nn. 40-43bis5 Boardman 1990, n. 40bis.6 Boardman 1990, pp. 2 ss., n. 40bis, figg. 1-2.

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106 Maria Antonietta Rizzo

plicazioni suggerite, anche se in modo prudente, dallo studioso.

Di recente inoltre è stata proposta l’appartenenza al Gruppo di un altro esemplare, purtroppo ade-spota, conservato nel museo di Tarquinia7.

A questi pochi sigilli provenienti dall’Etruria 8 si affianca ora un nuovo esemplare proveniente da Cerveteri, dalla tomba 345 della zona del Laghetto nella necropoli della Banditaccia9, particolarmente interessante perché rinvenuto in contesto intatto, ben databile all’inizio dell’ultimo quarto dell’VIII secolo.

Questo sigillo va dunque ad aggiungersi agli altri soli due esemplari di cui si conoscono i contesti (quelli della tomba 17/XXVI della necropoli di Montarano a Falerii e quello della fossa presso il tumulo di Castelvecchio a Vetulonia), contesti passati per lo più inosservati, e che varrà la pena in questa sede di riconsiderare, in quanto permettono di dare un ulteriore contributo al problema della individuazione dei circuiti commerciali attraverso i quali questi oggetti esotici sono arrivati in Occi-dente dalle lontane zone di produzione.

Comincerei quindi con l’illustrare innanzi tutto questi tre contesti nei quali sono stati rinvenuti i sigilli per concludere poi con alcune osservazioni sugli altri sigilli, adespoti, rinvenuti in Etruria.

La tomba 345, scavata dalla Fondazione Lerici negli anni ’60, fa parte di un importante nucleo di tombe a fossa dell’età del Ferro rinvenute in località Laghetto (almeno 170)10, non lontano dall’area

in corso di studio da parte di L. D’Erme) ha restituito 220 fosse e 231 pozzetti. Una prima, preliminare, ma al momento unica, suddivisione in fasi, basata sulle tipologie tombali, è stata fornita da Linington1980, pp. 14-19, con planimetria a fig. 14, dove però non c’è indicazione della numerazione delle tombe. Secondo un costume diffuso fino agli anni ’70, i corredi delle tombe scavate dalla Fondazione Lerici in località Laghetto, sono stati assegnati in gran numero come quota parte alla Fondazione Lerici, che li ha poi lasciati al Museo Civico di Milano, e ai principi Ruspoli, proprietari dei terre-ni. La quota parte rimasta alla Soprintendenza è in corso di revisione, in vista della pubblicazione definitiva, da parte di Rita Cosentino e della scrivente.

Fig. 1. Cerveteri, necropoli della Banditaccia, zona del Laghetto, tomba 345 (scala 1:20). 1) fibule in bronzo; 2) kyathos; 3) fuseruola; 4) fibula con arco rivestito di dischi di ambra; 5) coppa; 6) sigillo del Gruppo del Suonatore di Lira; 7) cerchi in bronzo; 8) anello in bronzo; 9) anforetta; 10) kyathos su piede.

7 Giovanelli 2008.8 Ricordati peraltro in una vasta bibliografia: Boardman-

Buchner 1966, pp. 25-26, nn. 40-43 bis, figg. 30-33; Mag-giani 1973, p. 92; Hölbl 1979, I, pp. 222 s.; II, pp. 94 s., 126, 140, 194 s., 200, nn. 445, 525, 559, 852-855,936, tav. 147, 2-9; Rathje 1979, pp. 170-179; Baglione 1986, p. 139, nota 63; Boardman 1990, pp. 2 ss., figg. 1-2; Martelli 1991, p. 1050; D. Ridgway, in Der Orient und Etrurien, pp. 223 ss.; M. Martelli - F. Gilotta, ‘Le arti minori’, in Etruschi 2000, pp. 455-456; Principi etruschi, pp. 124-125, nn. 68-69; p. 158, n. 106; Giovanelli 2008.

9 Taccuino Zapicchi-Lerici 8, p. 32.10 Le tombe dell’età del Ferro dello scavo Laghetto Lerici

sono 170 fosse e 23 pozzetti, un nucleo molto consistente, se si pensa che la grande necropoli del Sorbo, l’unica integral-mente pubblicata (I. Pohl, The Iron Age Necropolis of Sorbo at Cerveteri, Stockholm 1972) tra le necropoli ceretane di questa epoca (tra le quali deve essere compresa anche quella di Cava della Pozzolana, purtroppo praticamente inedita anche se

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107I sigilli del Gruppo del Suonatore di lira in Etruria e nell’agro falisco

a b

Fig. 3. Cerveteri, Laghetto tomba 345. Fibule.

Fig. 2. Sigillo del Gruppo del Suonatore di Lira (scala 3:1).

scavata dalla scrivente nel 1999, area che ha restituito altre decine di tombe inquadrabili nello stesso arco crono-logico11.

La tomba, rinvenuta intatta, è a fossa, lunga m. 2,90, larga m. 1,3812, profonda m. 0,90 (fig. 1); si inserisce nel tipo G del I periodo della classifi-cazione proposta da Linington per le tombe della necropoli del Laghetto, tipo attestato da sole cinque tombe, e caratterizzato da fosse di dimensioni piuttosto grandi e profonde, dalle pareti scavate rozzamente, inclinate e con il fondo un po’ incavato, e con un riempimento di soli frammenti di tufo e terra, ma senza pietre, soluzio-ne che si distingue nettamente dalle modalità di riempimento usate per tutte le altre tombe a fossa del Laghet-to; il Linington ipotizza che questo tipo di tomba dovesse essere compreso entro tumuli circolari, che potevano ospitare una, o con più probabilità, due o più fosse13.

La tomba 345 ospitava una sepoltura femminile,

il cui corredo comprende oggetti di ornamento personale e vasellame di impasto, di tipologie ben attestate a Cerveteri.

Eccezionale risulta invece la presenza del sigillo del Gruppo del Suonatore di Lira (fig. 2)14, in cui

11 In corso di studio da parte della scrivente. Quattro tra le più importanti, la 2004, 2138, 2199 e la 2257, con materiale di importazione greca e cipriota (coppa a semicerchi penduli, coppe del TG euboico, askos cipriota), sono già state rese note: M.A. Rizzo, ‘Ceramica geometrica greca e di tipo greco da Cer-veteri’, in Atti incontro di studio Oriente e Occidente: metodi e discipline a confronto. Riflessioni sulla cronologia dell’età del Ferro italiana, Roma 30-31 ottobre 2003, Mediterranea. Quaderni

annuali dell’Istituto di studi sulle civiltà italiche e del Mediterra-neo antico del Consiglio Nazionale delle Ricerche, I, Pisa-Roma 2005, pp. 333-378. Ivi è stata anche pubblicata la tomba 568 del Laghetto scavi Lerici, che ha restituito una coppa del TG Corinzio del tipo Aetos 666.

12 Le dimensioni si riferiscono alla sommità della fossa.13 Linington 1980, pp. 15-1614 Inv. 111320. Alt. 2; largh. 1,6; in serpentina nera.

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è rappresentato un suonatore di lira di fronte ad un grande uccello dalle enormi ali sollevate, decorato nell’esergo con tratteggio verticale. Rientra nel tipo Bordman-Buchner 1966, n. 7, anche se l’iconogra-fia è attestata in diverse varianti; compositivamente,

gli esemplari più vicini al nostro sono quello rin-venuto nella tomba 574 di Pithekoussai15, e quello venuto in luce di recente nel santuario di Dioniso ad Iria a Naxos16, anche se il corpo dell’uccello è reso sul sigillo di Cerveteri con una maggiore attenzione

15 Boardman-Buchner 1966, p. 7, n. 7, figg. 11, 12. Pi-thekoussai I, p. 568, n. 3, tavv. CLXXVI, 169, tomba del TG I, di un bambino di circa 8 anni, in cui è stato rinvenuto un secondo sigillo (Boardman-Buchner 1966, p. 5, n. 4) con una

figura alata con un’unica grande ala, che tocca un disco alato stilizzato, e con una palmetta come riempitivo.

16 Rizzo 2007, Appendice, n. 7. Simantoni-Bournia 1998, p. 66, tav. 10, 2.

Fig. 4. Cerveteri, Laghetto tomba 345. Oggetti di ornamento personale (scala 1:2).

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109I sigilli del Gruppo del Suonatore di lira in Etruria e nell’agro falisco

ai dettagli del corpo, ottenuti con una doppia serie di linee ad intaglio. Altri esemplari riportabili alla stessa iconografia, sempre con il suonatore di lira, ma con alcune varianti soprattutto nella forma e nella posizione dell’uccello, sono stati rinvenuti nel-la tomba 433 di Pithekoussai17, nel Peloponneso18, a Lindos19; lo stesso soggetto ritorna su un sigillo conservato ad Oxford20, in uno comparso sul mer-cato antiquario svizzero21, in uno dalla tomba 634 di Pithekoussai22: in essi l’uccello è di dimensioni più piccole e con il corpo senza partizioni interne; una variante nuova, con suonatore di doppio flauto, invece che di lira, è comparsa sul mercato antiquario svizzero23.

La stessa composizione ma con una generica figura maschile al posto del suonatore di lira, di fronte ad un enorme uccello senza ala spiegata, ma sempre con partizioni interne del corpo ac-curatamente realizzate, è attestata in due sigilli delle tombe 549 e 684 di Pithekoussai24, in uno da Creta25, in uno già nella collezione Dawkins26 e in uno a Parigi27.

Un’ultima variante prevede l’uccello posto su una roccia o una palmetta, come ad esempio nei sigilli della tomba 524 di Pithekoussai28 e da Tell Basher29,

entrambi con piccoli uccelli senza partizioni interne del corpo, e del Capo Sunio30 dove troviamo invece una resa del corpo dell’uccello del tutto simile a quella del nostro sigillo ceretano.

Il motivo, che non sembra avere un particolare significato 31, può assumerlo nei soli casi in cui la figura umana è inginocchiata di fronte al grande uccello, quasi in adorazione, in una scena eviden-temente di culto, ad esempio nei sigilli da Lindos32 e da Itaca, Aetos33.

Passiamo ora ad esaminare nel dettaglio il cor-redo: gli oggetti di ornamento personale presenti insieme al sigillo nella tomba ceretana compren-dono un fermatrecce in argento (fig. 4.f )34, di tipo 47m Osteria dell’Osa35; una piccolissima fibula ad arco ingrossato in argento (fig. 4.d)36, riportabile al tipo 38ll di Osteria dell’Osa37; due grandi fibule di bronzo a navicella (fig. 3)38 di tipo 38dd, e decorazione i 28, di Osteria dell’Osa39, di un tipo ampiamente diffuso in altre tombe femminili della necropoli del Laghetto, sia dagli scavi Lerici, sia dai recenti scavi del 199940, e am-pliamente attestata anche a Veio, Tarquinia e nel Lazio (Osteria dell’Osa, Pratica di Mare, Riserva del Truglio)41; una fibula, frammentaria, ad arco

17 Tomba 433: Boardman-Buchner 1966, p. 7, n. 8, fig. 11. Pithekoussai I, p. 447, n. 10, tavv. CLXII, 134, tomba del TG I, di adolescente.

18 Boardman-Buchner 1966, n. 45.19 Boardman-Buchner 1966, n. 89; Porada 1956, n. 9.20 Boardman-Buchner 1966, n. 137; Porada 1956, n. 7.21 Rizzo 2007, Appendice n. 23. Ancient Art of the Mediterra-

nean World & Ancient Coins 1991, n. 52.22 Tomba 634: Boardman-Buchner 1966, p. 9, n. 9, figg.

11, 68. Pithekoussai I, p. 617, n. 2, tavv. CLXXX, 179, tomba del TG I, di bambino di circa otto anni. L’uccello è senza ala spiegata ed è aggiunta una stella come riempitivo.

23 Rizzo 2007, Appendice n. 13. Frank Sternberg AG, Zürich, Auktion XXV, 25-26 November 1991, 94, n. 680 tav. D. Ac-quistato dal Museum of Art and Tecnology dell’University of Missouri-Columbia, inv. 92.2: S. Langdon (ed.), From Pasture to Polis. Art in Age of Homer, Columbia-London 1993, pp. 191 s., n. 75.

24 Tomba 549: Boardman-Buchner 1966, p. 10, n. 12, figg. 11, 67. Pithekoussai I, p. 546, n. 3, tavv. CLXXIII, 163, tom-ba del TG I, di bambino di circa otto anni, in cui sono stati rinvenuti altri due sigilli del Gruppo, uno con capro, uccello e palmetta, l’altro con due uccelli affrontati ai lati di un albero e disco solare stilizzato (Boardman-Buchner 1966, nn. 17, 26, figg. 17, 24). Tomba 684: Boardman-Buchner 1966, p. 10, n. 13, fig. 17. Pithekoussai I, p. 663, n. 5, tavv. CLXXXVI, 189, tomba del TG II a enchytrismos.

25 Boardman-Buchner 1966, n. 71; Porada 1956, n. 16.26 Boardman-Buchner 1966, n. 156, fig. 62.27 Boardman-Buchner 1966, n. 152, fig. 59.

28 Boardman-Buchner 1966, p. 10, n. 11, figg. 11, 15. Pi-thekoussai I, p. 523, n. 2, tavv. CLXVIII, 156, tomba del TG I o II, ad enchytrismos.

29 Boardman-Buchner 1966, n. 123; Porada 1956, n. 45. Nella Porada (1956) la provenienza è generica, “Syrian Coast” a p. 211, ma è specificata a p. 191.

30 Boardman-Buchner 1966, n. 56.31 Boardman-Buchner 1966, p. 50.32 Boardman-Buchner 1966, n. 91; Porada 1956, n. 13.33 Boardman-Buchner 1966, n. 51.34 Inv. 111321. Diam. 1,6. Del tipo a spirale semplice.35 Osteria dell’Osa, p. 390, tav. 40 (in varie tombe di IV

periodo), forma attestata anche a Roma (Esquilino tomba 18: Early Rome 1966, fig. 71, 23) e Tarquinia (Selciatello di Sopra tomba 93: Hencken 1968, fig. 149c).

36 Inv. 111324 b. Lungh. 1,2. Piena, e senza alcuna deco-razione.

37 Osteria dell’Osa, p. 368, tav. 37 (IV periodo); cfr. Osteria dell’Osa, tomba 562, 9, 11, 13; Castel di Decima tomba 108: NSc 1975, fig. 47, 32.

38 Inv. 111318. Lungh. 9. Priva di parte dell’ago e della staffa. Inv. 111319. Lungh. 9,1. Priva di parte dell’ago e della staffa. Cave e riempite di una sostanza refrattaria, decorate con fascette parallele entro cui corrono motivi a spina di pesce.

39 Osteria dell’Osa, pp. 365-366, tavv. 35, 37. 40 Scavi Lerici Laghetto, dalle tombe 219, 223, 234, 247,

266, 268, 341, 367, 374, 410, 472. Scavi Rizzo 1999 Laghetto, dalle tombe 2217, 2177, 2288, 2180, 2189, 2150, 2158, 2161.

41 A Veio nella fase II C (Toms 1986, fig. 31, tipo I.33); Tar-quinia, tomba 57 Poggio dell’Impiccato, tomba del Guerriero,

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110 Maria Antonietta Rizzo

rivestita di dischi di ambra (fig. 4.b)42, avvicinabile al tipo 39h di Osteria dell’Osa43, di un tipo diffuso sempre in corredi di una certa importanza sia in Etruria che nel Lazio; un anello in bronzo (fig. 4.c)44 confrontabile con il tipo Guidi 116 varietà D45; cinque cerchi in bronzo, di diverse dimen-sioni (fig. 4.g)46, frequentemente attestati proprio

nelle tombe ceretane47; un vago in pasta vitrea che rientra nel ben noto tipo ad “occhi”48 (fig. 4.e), tipo limitato in genere a corredi caratterizzati da segni di prestigio e/o di ruolo sia in Etruria che nel Lazio (Osteria dell’Osa tipo 89j-l)49.

Sono presenti anche una fuseruola d’impasto sfe-rica con costolature verticali (fig.4.a) di tipo Guidi

tomba 9 di Poggio Gallinaro (Hencken 1968, figg. 163 i-k, 185 e-f, 350 h-i). Osteria dell’Osa, varie tombe (Osteria dell’Osa, p. 366); Riserva del Truglio, tombe 3, 28, 30 (Gierow 1966, fig. 92, 17; Gierow 1964, figg. 120, 13; 125, 21), Pratica di Mare, tomba 62 (Civiltà del Lazio primitivo, cat. 100, tav. 78); momento avanzato del III periodo-periodo IVa.

42 Inv. 111323. Largh. max. 2,8; largh. min. 1,2. Restano solo quattro dischi forati di ambra di rivestimento.

43 Osteria dell’Osa, pp. 370 ss., tav. 38. Dato lo stato di conservazione non è possibile istituire confronti precisi, ma sembra riportabile ai tipi diffusi nel IV periodo laziale (39 h-i)

44 Inv. 111324a. Diam. 3,2. Semplice, a sezione circolare.

45 Guidi 1993, p. 52, fig. 23,11, (fase II A-II C).46 Inv. 111322a: diam. 16; inv. 111322b: diam. 14,8;

inv. 111322 c: diam. 12,6; inv. 111322d: diam. 11,2; inv. 111322e: diam. 10,4, ne resta meno della metà. Del tipo semplice a sezione circolare.

47 Laghetto, scavi Lerici: 219, 223, 234, 247, 268, 341, 367, 374, 410, 472. Laghetto scavi Rizzo 1999: tombe 2288, 2296, 2180, 2189, 2150, 2203, 2209.

48 Inv. 111326. Diam. 1,2. Decorato a cerchi blu alternati a fasce chiare.

49 Osteria dell’Osa, p. 428 ss., tav. 46.

Fig. 5. Cerveteri, Laghetto tomba 345. Vasellame di impasto (scala 1:2).

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111I sigilli del Gruppo del Suonatore di lira in Etruria e nell’agro falisco

3 varietà B e Osteria dell’Osa tipo 33a50 e quattro vasi di impasto bruno, un’anforetta con il corpo co-stolato (fig. 5.a)51 di una forma pressoché esclusiva di Cerveteri, ampiamente attestata proprio nella necropoli del Laghetto52, e che si ritrova in pochi esemplari anche a Veio, in tombe di fase II B-III A, sia nella necropoli della Vaccareccia che in quella di Casale del Fosso53; un kyathos di piccole dimensioni (fig. 5.d)54 confrontabile con il tipo Guidi 37 varietà B55, diffuso anche in altri corredi ceretani, soprat-tutto nel Laghetto56; un kyathos su alto piede (fig. 5.c)57, di forma rara, che fonde insieme elementi tratti dalle coppe su alto piede e dai kyathoi apodi, e con decorazione a semicerchi e costolature58; e infi-ne una grande coppa (fig. 5.b)59, di forma piuttosto infrequente almeno nella variante senza anse e con piede troncoconico, attestata in due sole tombe del Laghetto Lerici60, e arricchita da una decorazione a solcature parallele sull’orlo, secondo una moda attestata a Falerii e a Veio su coppe (in genere però con anse a bastoncello o a rocchetto) appartenenti a corredi di fase II C-III A61.

La tomba presenta dunque un tipo di corredo analogo a quelli di altre tombe a fossa femminili del Laghetto, purtroppo non ancora pubblicate, dove ritornano spesso associati gli stessi oggetti, un’anforetta e un kyathos (ad es. nelle tombe Lerici 410, 605), e particolari tipi di ornamento personale deposti in numerosi esemplari – ad es. le grandi fibule a navicella riccamente decorate e le parures di cerchi di medie e grandi dimensioni (presenti insieme nelle tombe Lerici 219, 223, 234, 247, 268, 341, 367, 374, 410, 472, e in quelle scavo Rizzo 2288, 2180, 2189, 2150, 2161 mentre presentano le sole

identiche fibule la tomba 222, e i soli cerchi le tombe 282, 353, 377, 379, 625, 666 scavo Lerici) – oltre che prodotti esotici: mentre unica è la presenza del sigillo del Suonatore di Lira, frequenti sono invece gli scarabei, tutti in faïence, spesso montati in pendagli girevoli ellittici (tombe Lerici 223, 247, 367, 374, 376, con ben 10 esemplari, 378, 519; tombe scavo Rizzo 2217, 2247, 2196, 2158, 2161), i vaghi in pasta vitrea, anche del tipo Vogelperlen (tomba 605 scavi Lerici e tomba 2161 scavi Rizzo 1999).

La tomba è dunque databile, in base alla tipologia e alle associazioni dei materiali tra la fine del terzo e l’inizio dell’ultimo quarto dell’VIII sec. a.C.

Accanto a questo nuovo contesto mi è sembrato

utile esaminare, alla luce anche di nuovi studi che hanno riguardato l’agro falisco, il corredo, solo in minima parte noto, di una sepoltura anch’essa fem-minile, la 17/XXVI della necropoli di Montarano a Falerii, particolarmente ricca, in cui è presente il ben noto sigillo del Gruppo del Suonatore di Lira con rappresentazione di figura umana con doppia testa (fig. 7), e nella quale la ricorrenza di altri im-portanti materiali, finora tenuti in scarsa o nulla considerazione, quali scarabei, figurine in faïence, e soprattutto Vogelperlen, bulle d’oro lavorate a sbalzo, ed anche fibule configurate, si rivela molto significativa.

La tomba 17/XXVI della necropoli di Montara-no fa parte della più antica necropoli fra quelle ri-feribili all’abitato di Falerii Veteres forse da mettere in relazione all’insediamento primario localizzato sull’altura di Vignale. Sono state scavate 110 tom-be di cui 30 ad incinerazione e 80 ad inumazione62

50 Inv. 111325. Alt. 2,2; diam. 2,2. Può rientrare nel tipo Guidi 3 varietà B: Guidi 1993, p. 20, fig. 2, 2. Cfr. ad es. anche Quattro Fontanili tomba Z 11-12: NSc 1967, p. 213, n. 6, fig. 75, femminile, e tomba AA 5-6: NSc 1967, p. 223, n. 1, fig. 82.

Osteria dell’Osa, p. 311, con confronti.51 Inv. 111327. Alt. 9,3; diam. 10,4. Corpo globulare schiac-

ciato, con parete troncoconica nella parte inferiore, costolato, collo cilindrico, anse a nastro.

52 Tombe 266, 410, 419, 605, 646; della stessa forma ma con l’aggiunta di elementi a semicerchio rilevato al centro nelle tombe 389, 411.

53 Per la necropoli di Vaccareccia, tomba XV: Palm 1952, p. 69, n. 12; attestata in due esemplari dalla necropoli di Casale del Fosso, tombe 1072, di fase III A, e 912. Ringrazio Luciana Drago per avermi segnalato gli esemplari inediti di Casale del Fosso.

54 Inv. 111328; alt. con ansa 6; senza ansa 3,2; diam. orlo 5,8. Vasca troncoconica carenata, orlo verticale leggermente inclinato; ansa a nastro bifora con orecchie, decorata con solchi impressi orizzontali.

55 Guidi 1993, p. 30, fig. 22, 1, diffuso tra fase II A e II C.56 In particolare le tombe 343, 394, 410, 453, 605.57 Inv. 111329. Alt. con ansa 12,5; diam. orlo 8,8. Ricom-

posto da frammenti. Vasca troncoconica, carenata e con orlo verticale, decorata sulla spalla con cordonature e semicerchi multipli a rilievo; all’attacco della spalla con l’orlo decorazione a cordicella; ansa a nastro bifora a orecchie, decorata con triangolo multiplo a cordicella sull’orecchia e linee impresse orizzontali all’interno. Piede a tromba.

58 Stessa forma e decorazione della vasca in esemplari, però apodi, dalle tombe 504 e 548.

59 Inv. 111330. Alt. 8,2; diam. orlo 18,8.60 Le tombe 419 e 517.61 La forma è attestata, in una variante con orlo più alto e

vasca più rigida, a Narce (ad es. necropoli de “I Tufi”, tomba IX/11: Baglione-De Lucia Brolli 1990, fig. 10).

62 La tomba scavata nel 1890 è pervenuta al Museo di Villa Giulia attraverso l’acquisto Feroldi il 4-7-1891. Cozza-Pasqui 1981, p. 21. Per la necropoli di Montarano nord/nord-est, (da

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112 Maria Antonietta Rizzo

Fig. 6. Falerii, necropoli di Montarano, tomba 17/XXVI. Planimetria (da Cozza-Pasqui 1981, fig. a p. 46).

(fig. 6). Le tormentate vicende attraverso le quali i corredi ci sono pervenuti sono state ricordate nei lavori di revisione ed elaborazione critica dei dati disponibili avviata in anni recenti per tutte le necropoli falische da Paola Baglione e da Anna

Maria De Lucia Brolli, ed anche questa tomba, illustrata in parte nel volume di Cozza-Pasqui63, è stata oggetto di alcune precisazioni a margine alle carte di distribuzione elaborate dalle due studiose e relative alle classi di materiali presenti nelle necropoli falische64.

La tomba, a fossa (m. 3,15x1,25x2,20 di profon-dità) con loculo, è caratterizzata dall’uso di sarcofago di tufo, qui con coperchio testudinato (fig. 6), di un tipo ampiamente diffuso nelle necropoli falische, sia nella necropoli di Montarano65, non lontano dalla nostra, sia, più frequentemente, a Narce, nelle necropoli de “I Tufi”, della Petrina, di Pizzo Piede e di Monte Li Santi66.

In generale le tombe delle necropoli falische trovano confronti, sia tipologici, sia nella com-posizione dei corredi, con quelle delle fasi veienti e delle fasi III e IV A della finitima area laziale. Soprattutto per quel che riguarda il momento finale del villanoviano e le prime fasi dell’Orien-talizzante l’area falisca esprime una cultura di stampo prettamente veiente, ricca di addentellati con la realtà etrusco-meridionale e di spunti più autenticamente locali che le conferiscono un certo carattere di originalità.

Un aspetto del rapporto privilegiato con il terri-torio veiente è costituito proprio dal modello della tomba a fossa con loculo, di un tipo che risulta diffuso a Veio a partire dal terzo quarto dell’VIII secolo (nelle necropoli dei Quattro Fontanili, di Casale del Fosso e in misura minore anche di Grotta Gramiccia67), e ampiamente attestato, oltre che a

qui in poi sempre indicata semplicemente con Montarano): Cozza-Pasqui 1981, pp. 21-87 e tav. II.

63 Cozza-Pasqui 1981, pp. 46-49; alcuni materiali della tomba sono stati presentati a confronto di quelli di Narce, in MAL IV, passim, e tavv. VII, IX, X, XII.

64 Una breve descrizione della tomba con datazione agli inizi del VII secolo in Baglione 1986, p. 139, nota 63; Baglione-De Lucia Brolli 1997, p. 158 nota 29 e passim; per la planimetria e la tipologia della tomba, p. 167, fig. 15; per le carte di di-stribuzione delle tipologie di materiali, si vedano: p. 168, fig. 16, per l’anfora e patera di bronzo (?), attualmente disperse; p. 169, fig. 17 (per olla di impasto rosso, ma manca il riferimento all’holmos e all’anforetta, di sicuro appartenenti al corredo come si evince dalla pianta in Cozza-Pasqui 1981, fig. a p. 46, e nella tav. VII di MAL IV); p. 170, fig. 18 (per rocchetti e conocchia); p. 165, fig. 14, per cinturone a losanga, fibulette rivestite in oro, fibule ad arco rivestito di ambra, ornamenti in metalli preziosi, vaghi di ambra, scarabei e figurine in faïence. Per tutte le necropoli falische, oltre gli articoli sopra citati si vedano anche: Baglione-De Lucia Brolli 1990; Baglione-De Lucia Brolli 1995.

65 Tre tombe femminili, poste nelle immediate vicinanze della

tomba qui considerata, 28/XXVIII, 15/XXVII, 2/XX.66 Uso, questo del sarcofago, quasi sempre testudinato, attestato

a Narce in due tombe maschili (tombe 13 e 14) ed una femminile della necropoli “I Tufi”; in nove tombe femminili, tutte con loculo tranne due, la 34 e la 30/XXV, (tombe 3/XXI; 10; 14/XXVI; 15/XXII; 16/XXIV: MAL IV, c. 411, rif. a fig. 54; 30/XXV; 34: MAL IV, c. 135, fig. 52; 36/XXVII: MAL IV, c. 136, fig. 54, 37), tutte con sarcofago testudinato meno la 3/XXI; in due tombe maschili, la 1 e la 12, di cui la prima con loculo; in otto, tutte con loculo, di cui non è possibile determinare il sesso del sepolto, (tombe 2, 6, 13, 18/XXIII, 26, 28, 31, 33/XXXIII) tutte della necropoli della Petrina A e tutte con sarcofago testudinato meno la 2 e la 26; in una tomba, la 1, a camera con tre sarcofagi della Petrina C; in una tomba femminile con loculo, la 23, del quinto sepolcreto a sud di Pizzo Piede; in una tomba femminile con loculo (tomba 18/XXXII: MAL IV, c. 139, fig. 56) e in cinque in cui non si può determinare il sesso del defunto (tombe 1, 12, 13, 14, 15, di cui la 14 con loculo), tutte con sarcofago testudinato meno la 1, della necropoli di Monte Lo Greco; in una con sepoltura il cui sesso non è determinato (tomba 4) della necropoli di Monte Li Santi. Per tutte le tombe citate: MAL IV, cc. 399 ss.

67 Per Quattro Fontanili: Toms 1986, pp. 65-66; Guidi 1993,

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113I sigilli del Gruppo del Suonatore di lira in Etruria e nell’agro falisco

Falerii e Narce, come già ricordato sopra68, soprat-tutto tra la fine dell’VIII e la prima metà del VII sec. a.C., in altre località dell’agro falisco-capenate, quali Capena e Corchiano (anche se in numero più limitato)69 e in aree limitate del Latium Vetus (Crustumerium, Fidene)70.

Comunque la tomba 17/XXVI si pone, per la pre-senza di materiali importati, di oggetti di ornamento particolarmente ricchi (in oro, elettro, argento, bron-zo, ambra, faïence), e di vasellame in bronzo, come la più ricca delle tombe di Montarano discostandosi dallo standard presente nella necropoli.

Ben chiara è la disposizione del corredo nella pianta, se pur schematica, realizzata al momento dello scavo (fig. 6). Nel sarcofago insieme al corpo della defunta erano oggetti indicativi del rango so-ciale, relativi alle attività di tessitura, oltre a quelli di ornamento personale (fermatrecce, spilloni, collane, pendagli, sigilli e scarabei, bulle in oro, laminette, ben 14 fibule in oro, elettro e bronzo di varie tipologie).

Di particolare interesse si rivela la presenza del materiale importato: oltre il sigillo del Gruppo del Suonatore di Lira, due scarabei, due pendagli figurati in faïence, rappresentanti Bes, e un esem-plare di Vogelperle, unica tra tutte le tombe della necropoli di Montarano a presentare tutte queste categorie di oggetti insieme71.

Il sigillo del Gruppo del Suonatore di Lira (fig. 7), del tipo Boardman-Buchner 1966, n. 4372, è decorato con una figura umana con testa doppia e coda73, iconografia estremamente rara sui sigilli, che finora risulta attestata su un solo altro sigillo rinvenuto nella tomba 668 di Pithekoussai (fig. 8)74.

In entrambi i casi le figure toccano con le mani gli alberi che sono loro accanto, da interpretare dunque non come semplici motivi decorativi fitomorfi – di una tipologia del resto molto semplificata e ricor-rente in numerosi altri sigilli75 – ma come alberi sacri, spesse volte rappresentati, certo in forme più ricche ed elaborate76, con i quali i demoni sono in diretta, significativa connessione. L’esemplare di Pi-thekoussai si differenzia dal nostro per le dimensioni più slanciate della figura e per alcuni particolari, ad esempio per la mancanza dell’appendice a tri-dente tra le due teste, e per il diverso rendimento delle gambe, che sono rese con un semplice tratto verticale senza il piede, mentre nell’esemplare di Falerii le gambe terminano con un piede, sia pure molto stilizzato.

Credo che la differenza non assuma quel particolare significato sottolineato da Buchner e Boardman, la differenza cioè tra un demone, ispirato alla figura di Bes, con gambe umane, rispetto ad uno con zampe animali, dal momento che non si spiegherebbe allora

pp. 89, 91, 109, 110, 117-119. Per Casale del Fosso: Buranelli-Drago-Paolini 1997, p. 64 e bibl. ivi citata a nota 10, p. 77 per le attestazioni dell’ultimo quarto del VII secolo, tombe 816, 821, 1049, 819. Per Grotta Gramiccia: Berardinetti-Drago 1997, p. 52; inoltre G. Bartoloni - A. Berardinetti - L. Drago, ‘Veio tra IX e VI secolo a.C. Primi risultati sull'analisi comparata delle necropoli veienti’, in ArchCl 46, 1994, pp. 23-24. Per la necropoli di Vaccareccia: NSc 1889, pp. 154-158 (II tipo). Per Macchia della Comunità: NSc 1930, pp. 45-66 (tombe I, IV, VII). Per Casalaccio: NSc 1935, pp. 39, 68 (Tombe I-VIII). Si veda, per il tipo a Veio, Bartoloni-Berardinetti-De Santis-Drago 1997, pp. 92-96, in particolare p. 96.

68 Oltre alle tombe con loculo che avevano però l’uso del sarcofago in tufo, ricordate a note 65-66, molte altre sono le tombe dello stesso tipo ma con sarcofago ligneo, o senza.

Sulla tipologia si veda Baglione-De Lucia Brolli 1997, in particolare p. 150 e nota 21.

69 Capena, necropoli di San Martino: NSc 1905, pp. 301-361, tomba XVI. Necropoli di Monte Palombo, Monte Fiore e Monte Tufelli: F. Di Gennaro - S. Stoddart, ‘A review of evidence for prehistoric activity in part of South Etruria’, in PBSR 50, 1982, pp. 1-21 (siti 36-55). Corchiano: primo e secondo sepolcreto di Caprigliano, primo e secondo sepolcreto del Vallone: Cozza-Pasqui 1981, pp. 219-244 (Caprigliano), 245-281 (Vallone).

70 Per Crustumerium: Di Gennaro 1988, p. 113 ss.; F. Di Gennaro, ‘Le tombe a loculo di età orientalizzante a Crustu-

merium’, in Tusculum. Storia, archeologia e arte di Tusculum e del Tuscolano, Roma 2007, pp. 163-176; B. Belelli Marchesini, ‘Necropoli di Crustumerium: bilancio delle acquisizioni e prospettive’, in Alla ricerca dell’identità di Crustumerium. Atti giornata di studi, Roma 5 marzo 2008, Roma 2008, soprattutto p. 5 e nota 18, fig. 10; p. 9, fig. 14 (passaggio tra il II e il IV periodo). Per Fidene: F. Di Gennaro, ‘Fidene e le sue necropo-li’, in Roma. Memorie dal sottosuolo. Ritrovamenti archeologici 1980-2006, Roma 2007, pp. 230-231.

71 Si veda: Baglione-De Lucia Brolli 1997, fig. 14.72 Inv. 3121. Alt. 1,65; largh. 1,3. MAL IV, c. 379, fig. 175;

Montelius, II, tav. 309, 13; Boardman-Buchner 1966, p. 25, n. 43, figg. 30, 33; Hölbl 1979, II, pp. 94-95, n. 445, tav. 147, 4; Rathje 1979, p. 170, fig. X, b; Cozza-Pasqui 1981, p. 47, n. 5; Etruschi 2000, p. 553, n. 35.

73 Per il tipo, in particolare, Boardman-Buchner 1966, pp. 47-48.

74 Boardman-Buchner 1966, p. 6, n. 5, fig. 1, 8 (serpentina rossa); Pithekoussai I, tomba 668, p. 665; tav. CLXXXVII, 189, tomba del TG I, di bambina, forse di un anno (terzo quarto dell’VIII sec. a.C.); Hölbl 1979, II, p. 194, n. 852, tav. 147, 5.

75 Alberi stilizzati, a forma oblunga e trattini obliqui contrap-posti, sono ampiamente diffusi nei sigilli del Gruppo; si veda quanto detto a proposito in Rizzo 2007, p. 62, n. 16, e rifer.

76 Alberi sacri, di varie forme, molto elaborate, sono presenti in diversi sigilli: si veda quanto detto, sui vari tipi, in Rizzo 2007, pp. 45-46, n. 1, con rifer.

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Fig. 7. Falerii, necropoli di Montarano, tomba 17/XXVI. Sigillo del Gruppo del Suonatore di Lira (scala 3:1).

perché tutte le altre figure umane (suonatori di lira, e altri musici, pescatori, etc) presenti nei sigilli del Gruppo abbiano le gambe rese di regola con il solo tratto verticale, e senza piede. A mio parere si tratta solo di una insignificante variante di esecuzione. E mi sembra anche difficile accettare l’idea che mentre il creatore del sigillo di Falerii era «conscius of the fact that he was adapting a Bes figure» non lo era più l’esecutore del sigillo di Pithekoussai il quale avrebbe ricopiato il motivo «without fully understanding its origin and so adding more familiar features»77: la realizzazione di entrambi si deve, a mio parere, ad un unico atelier che attinge ad un repertorio standardiz-zato, caratterizzato da una indiscutibile uniformità di iconografie, pur con qualche minima differenza di esecuzione, e da uno stile duro ed essenziale nei tratti, tutti elementi che fanno supporre, insieme al numero decisamente esiguo di esemplari prodotti, un’unica officina operante in un ambito cronologico e geografico molto circoscritto.

L’iconografia del demone a due teste non rivela

cogenti paralleli con figure del Vicino Oriente, an-che se la postura e la taglia richiamano Bes, la nota divinità egiziana adottata nell’arte fenicia già nel II millennio in Siria. Il confronto più pertinente è con un demone forse ittita con un corpo umano e due teste leonine da Tell Halaf78.

Gli altri due sigilli presenti nella tomba sono uno in faïence e l’altro in steatite bianca; nel primo (fig. 9)79 è rappresentato per tre volte il simbolo del sole Rā (sole con urei e due dischi solari) e i segni men e neb; nel secondo (fig. 10)80, che conservava an-cora, come si evince dalle foto del corredo eseguite poco dopo lo scavo, la sua montatura in argento, all’incirca ellittica, con appiccagnolo cilindrico, di un tipo ampiamente utilizzato per sigilli in faïence fenici ed egiziani, molti dei quali rinvenuti anche in Italia81, è rappresentato un trofeo fitomorfo costituito da cerchio con bollo centrale da cui si dipartono quattro volute, due foglie lanceolate contrapposte con nervatura centrale e trattini obliqui, e due steli lineari terminanti a tromba.

77 Boardman-Buchner 1966, p. 58.78 Tell Halaf III, tav. 93a; H. Frankfort, The Art and Architec-

ture of Ancient Orient, New York 1954, p. 178.79 Inv. 3120. Alt. 1,5. MAL IV, c. 379, fig. 176, con la de-

scrizione e lettura di Schiaparelli; Hölbl 1979, II, p. 93, n. 443, tav. 70, 4; Cozza-Pasqui 1981, p. 47, n. 4.

80 Inv. 3119. Alt. 1,9. MAL IV, tav. IX, 49; Hölbl 1979, II, p. 94. n. 444, tav. 70, 3; Cozza-Pasqui 1981, p. 46, n. 3.

81 Lo stesso tipo di montatura è frequentemente attestato in Occidente (anche nelle località fenicie di Sardegna e Spagna, oltre Cartagine) per numerosi scarabei fenici o egiziani in steatite bianca o faïence, quasi sempre in contesti di fine VIII. Ad es. a Pithekoussai (uno scarabeo egiziano così montato proviene dalla già ricordata tomba 549: Pithekoussai I, n. 8, tav. CLX-

XIII, e appendice II, p. 793, che ha restituito anche gli altri tre sigilli del Gruppo del Suonatore di Lira con montature uguali, Boardman-Buchner 1966, nn. 12, 26 e Pithekoussai I, p. 547); altri pendagli, identici, usati per sigilli del gruppo del Suonatore di Lira sono attestati nella tomba 634 (Boardman-Buchner 1966, n. 9), nella tomba 668 (Boardman-Buchner 1966, n. 5, fig. 8); nella tomba 662 (Boardman-Buchner 1966, n. 14, fig. 18). Per l’Etruria, e solo a titolo esemplificativo, tali montature sono attestate a Veio (un esemplare nella tomba 2 della necro-poli dei Tre Fontanili: NSc 1954, pp. 2-3, fig. 3, con sigillo in ambra), a Velulonia (tre esemplari, dal Circolo dei Monili, due comprensivi di appiccagnolo, ed uno sporadico dagli scavi del 1905, senza appiccagnolo, tutti con scarabei in steatite bianca: von Bissing 1933, pp. 373-374, nn. 8, 9, 10, tav. XXIII; Hölbl

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115I sigilli del Gruppo del Suonatore di lira in Etruria e nell’agro falisco

Il motivo compare già su scarabei egiziani e della Palestina82, che possono aver costituito un modello di ispirazione anche per i sigilli del Gruppo del Suonatore di lira in cui il trofeo vegetale, di un tipo più o meno ricco ed elaborato, ritorna in tre sigilli

di Pithekoussai83, in almeno sette dalla Grecia84, in uno da Tarso85, in altri dal mercato antiquario86.

Altri scarabei in faïence, ma anche in steatite bianca, almeno dieci, sono presenti a Falerii e nel territorio falisco (Narce, Vetralla, Corchiano)87,

1979, II, pp. 331-333, nn. 335-337; tre dal Circolo del Monile d’argento, uno senza appiccagnolo: von Bissing 1933, pp. 374-375, nn. 11, 12a-b, 13, tav. XXII; Hölbl 1979, pp. 333-334, nn. 338-340); a Marsiliana d’Albegna, necropoli della Banditella (dalla tomba II, con sola montatura: von Bissing 1933, p. 376, n. 16, tav. XXIII; Hölbl 1979, II, pp. 109-110, n. 491, tav. 89, 1; dalla tomba XXIII, di cui uno con montatura intera, con scarabei in steatite bianca: von Bissing 1933, pp. 376-377, nn. 17-19, tav. XXIII; Hölbl 1979, II, pp. 110-111, nn. 492, 493, 496, tavv. 89, 2-3, 90, 1; dalla tomba XXXII: von Bissing 1933, p. 377, n. 20, tav. XXIII; Hölbl 1979, II, p. 111, n. 494, tav. 90, 2; dalla tomba XLVIII: von Bissing 1933, p. 377, n. 21, tav. XXIII; Hölbl 1979, II, pp. 113-114, n. 497; dalla tomba LVI, senza appiccagnolo: von Bissing 1933, p. 379, n. 23, tav. XXIII; Hölbl 1979, II, p. 111, n. 495, tav. 90, 4; dalla tomba LX: von Bissing 1933, p. 378, n. 22, tav. XXIII; Hölbl 1979, II, p. 114, n. 498, tav. 90, 3; a Bisenzio, due dalla tomba 3 delle Bucacce con scarabei in faïence: Galli 1912, p. 431, nn. 4B-4C, figg. 18-19, e sei conservati al Museo Archeologico di Firenze con scarabei in steatite bianca: von Bissing 1937, p. 420, nn. 53-58, tav. LVI; Hölbl 1979, II, pp. 103-105, nn. 475-480); anche in questi casi la maggior parte degli studiosi esclude una manifattura egiziana dei pendagli a favore di una manifattura fenicia. Si veda anche Principi etruschi, pp. 137-140, nn. 92-108 (dove sono illustrati vari esemplari, su citati, da Marsiliana e Vetulonia, oltre a quelli di Verucchio). Per l’esemplare dalla tomba del Guerriero della Polledrara a Vulci, con un sigillo egiziano, infra, nota 88. Per montature simili attestate per sigilli rinvenuti in altre zone del Mediterraneo: Rizzo 2007, pp. 60-62.

82 W.M.F. Petrie, Buttons and Design Scarabs illustrated by the Egyptian Collection in University College London, London 1925, tav. 8, pp. 151-156, 260-266.

83 Tomba 455 (Boardman-Buchner 1966, n. 34, figg. 26, 28

= Pithekoussai I, tomba 455, p. 460, n. 4, tavv. CLXIII, 136, del TG II). Per questo e l’esemplare della tomba seguente 631, si vedano anche Hölbl 1979, II, p. 195, nn. 854-855, tav. 147, 2-3 e forse Boardman 1975, p. 112, sub n. 212. Tomba 631 (Boardman-Buchner 1966 n. 35, figg. 28, 29 = Pithekoussai I, tomba 631, p. 614, n. 12, tav. CLXXXI, del TG II). Tomba 549 (sigillo non menzionato in Boardman-Buchner 1966, ma presente in Pithekoussai I, T. 549, n. 6, tomba del TG I, in cui sono stati trovati altri tre sigilli del Gruppo, quelli in Boardman-Buchner 1966, nn. 12, 17, 26) oltre che due egiziani (Pithekoussai I, p. 547, nn. 7-8).

84 Uno da Samos (Boardman-Buchner 1966, n. 87, fig. 41), uno da Itaca, Aetos (Boardman-Buchner 1966, n. 50), uno da Lindos, piuttosto rovinato (Porada 1956, n. 43; Boardman-Buchner 1966, n. 101); uno dalla Sacred Spring di Corinto (Boardman 1990, n. 59bis); uno da Naxos, dal santuario di Dioniso a Iria (Simantoni-Bournia 1998, p. 66, tav. 10, 1 = Rizzo 2007, Appendice, n. 6); due da Rodi, dal santuario di Atena a Jalysos (Rizzo 2007, pp. 63-64, nn. 18-19, figg. 68-72).

85 Boardman-Buchner 1966, n. 117.86 Due dal mercato antiquario svizzero (Ancient Art of the

Mediterranean World & Ancient Coins 1991, p. 22, n. 53; Rizzo 2007, Appendice, n. 24; e Boardman 1990, n. 186); uno da una collezione privata svizzera (Boardman 1990, n. 187); uno, già coll. Dawkins, venduto da Sotheby (Boardman-Buchner 1966, n. 159).

87 Sette scarabei, più un sigillo rotondo, provengono da Narce: uno dalla tomba 2/XLVI del secondo sepolcreto a sud di Pizzo Piede (MAL IV, c. 381, fig. 179; c. 468, n. 9; Hölbl 1979, II, p. 90, n. 430); due dalla tomba 22/LVII del quinto sepolcreto a sud di Pizzo Piede (MAL IV, c. 502, n. 9, figg. 177-178; Hölbl 1979, II, pp. 90-91, nn. 431-432); uno dalla tomba 23 del quinto sepolcreto a sud di Pizzo Piede (MAL IV,

Fig. 8 Fig. 9

Fig. 8. Pithekoussai, tomba 668. Sigillo del Gruppo del Suonatore di Lira (da Boardman-Buchner 1966, fig. 1, 5) (scala 3:1).Fig. 9. Falerii, necropoli di Montarano, tomba 17/XXVI. Scarabeo in faïence (scala 3:1).

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116 Maria Antonietta Rizzo

oltre che ampiamente attestati in Etruria: a Veio (una cinquantina), Cerveteri (una ventina, a cui sono da aggiungerne almeno sei dagli scavi del 1999 nell’area del Laghetto), Tarquinia (una quarantina), Vulci (almeno 25, a cui è da aggiungere almeno l’esemplare egiziano con montatura in argento dalla tomba del guerriero della Polledrara), Bisenzio (una

quindicina), Marsiliana (una decina), Vetulonia (una quindicina), Populonia (almeno due)88.

Nella tomba sono poi presenti due pendagli figurati in faïence, uno riproducente l’intera figura, l’altro solo la metà inferiore, di Bes (fig. 11)89. Si tratta di oggetti, in genere figurine di divinità, che risultano attestati peraltro in numerose altre tombe falische90.

Del resto le figurine in faïence, insieme a scarabei e scaraboidi, e ad aegyptiaca vari, prodotti in area rodia e levantina e ampiamente diffusi in una vasta area del Mediterraneo91, già presenti in Etruria nella

c. 503, n. 14; Hölbl 1979, II, p. 91, n. 433); uno dalla tomba 1 di Philadelphia (Dohan 1942, p. 59, n. 60, tav. XXXII; Hölbl 1979, II, p. 91, n. 434); due, rotondi, dalla tomba 18/XXXII della necropoli di Monte Lo Greco (MAL IV, c. 440, n. 11a, tav. IX, 51; Hölbl 1979, II, p. 92, nn. 435-436). Uno scarabeo, proveniente da Falerii, è conservato al Museo archeologico di Firenze: Hölbl 1979, II, p. 95, n. 446, tav. 70, 5. Un esemplare rispettivamente da Corchiano e Vetralla: menzionati in Hölbl 1979, II, p. 96, nn. 447-448.

88 Hölbl 1979, II, passim. Le tombe del Laghetto 1999, inedite, sono la 2217, 2247, 2196, 2158, 2161. Per la tomba del Guerriero della Polledrara, scavata nel 1976, A.M. Sgubini Moretti, in Scavo nello scavo, Viterbo 2004, pp. 150 ss., in particolare per lo scarabeo, pp. 155, 165 (XIX-XX dinastia).

89 Inv. 3115. Alt. mass. 2,4. MAL IV 1894, tav. IX, 53; Hölbl 1979, II, p. 93, n. 441, tav. 60, 5; Cozza-Pasqui 1981, p. 47, n. 6. Inv. 3116. Alt. mass. 2,2. Hölbl 1979, II, p. 93, n. 442, tav. 60, 4; Cozza-Pasqui 1981, p. 47, n. 7.

90 Necropoli di Monte Lo Greco tomba 18/XXXII, nove figurine, due di Bes: MAL IV, c. 379, 441, n. 11 c, tav. IX, 51, 53 (Bes); Hölbl 1979, II, pp. 84-85, nn. 394-395, tav. 60, 3; 61, 1; una di Ptah: MAL IV, c. 441, n. 11c; Hölbl 1979, II, p. 81, n. 379, sei di Pateco: Hölbl 1979, II, pp. 85-86, nn. 398-403, tavv. 50, 3; 48, 1. Necropoli della Petrina A, tomba 36/XXVII, due figurine di Sachmet: MAL IV, c. 379, 422, n. 2, tav. IX, 54; Hölbl 1979, II, pp. 81-82, nn. 380-381. Petrina A, tomba 15/XXII, una figurina di Sachmet (?): MAL IV, c. 410, n. 6d; Hölbl 1979, II, p. 82. n. 382. Tomba 16/XXIV: MAL IV, c. 412, n. 12: quattro “pendagli” di cui uno a forma di Bes. Tomba 17/XLIV del quinto sepolcreto a sud di Pizzo Piede, una figurina di Sachmet, una di Nefertem, una di Pateco:

MAL IV, c. 498, n. 4c; Hölbl 1979, II, p. 83. n. 383; p. 84, n. 393; p. 87, n. 404. Tomba 22/LVII del quinto sepolcreto a sud di Pizzo Piede, sette figurine di “divinità egizie”: MAL IV, c. 502, n. 10; Hölbl 1979, II, p. 89, nn. 415-421.Tomba 42 M a Philadelphia, cinque figurine di Sachmet ed una di Nefertem: Dohan 1942, p. 31, n. 23, tav. XVI, 23-24; Hölbl 1979, II, p. 83, nn. 384-389. Tomba 24 M di Philadelphia, una figurina di Bes e tre di Pateco: Dohan 1942, p. 34, n. 29u, tav. XVII, 29; p. 34, n. 30, tav. XVII, 30; Hölbl 1979, II, p. 83, n. 397; p. 89, nn. 412-414. Tomba 3/XLII del secondo sepolcreto a sud di Pizzo Piede, una figurina di Osiride, una di Iside, due di Nefertem, una di Bes, cinque di Pateco: MAL IV, c. 470, n. 6; Hölbl 1979, II, p. 80, n. 377, tav. 35, 2; p. 81, n. 378, tav. 35, 1; p. 83-84, nn. 390-391, tav. 45, 8; p. 83, n. 396, tav. 60, 1; pp. 87-88, nn. 405-409, tavv. 50, 1; 47, 1; 48, 2; 50, 2; 54, 6. Tomba 18/XXXIX del quinto sepolcreto a sud di Pizzo Piede, una figurina di Nefertem e una di Pateco: MAL IV, c. 498, n. 4c; Hölbl 1979, II, p. 84, n. 392; pp. 88-89, n. 410. Tomba 23 del quinto sepolcreto a sud di Pizzo Piede, una figurina di divinità egizia: MAL IV, c. 510, n. 10; Hölbl 1979, II, pp. 89-90, n. 422. Tomba 1 a sud del sepolcreto di Monte Li Santi, sette statuette di “divinità egizie”: MAL IV, c. 444, nn. 12, 13d; Hölbl 1979, II, p. 90, nn. 424-429. Montarano, tomba 15/XXVII, quattro statuette di Nefertem (tomba citata in MAL IV, c. 379 come XVIII, secondo la prima numerazione; c. 379, fig. 99q, una in tav. IX, 52) e con il n. XVIII citata ancora in Hölbl 1979, II, p. 92, nn. 437-440, tav. 44, 3; Cozza-Pasqui 1981, p. 44.

91 Per luoghi di produzione, aree di diffusione, circuiti di distribuzione, si vedano Martelli 1991, pp. 1055-1058, e nota 31 con vasta bibl., oltre che, per la penisola italiana, von Bissing 1933, 1937 e Hölbl 1979. In particolare per Pithekoussai: F. De

Fig. 10. Falerii, necropoli di Montarano, tomba 17/XXVI. Sigillo in steatite bianca (scala 3:1).

Fig. 11. Falerii, necropoli di Montarano, tomba 17/XXVI. Statuette di Bes in faïence.

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117I sigilli del Gruppo del Suonatore di lira in Etruria e nell’agro falisco

fase II B di Veio92, sono tra le più antiche importa-zioni dall’area orientale attestate in Etruria, anche se una diffusione così generalizzata, come quella riscontrabile nei corredi falisci, non è comune prima degli inizi del VII secolo.

Tra le figurine rappresentanti divinità egizie, così ben attestate in ambiente falisco ed etrusco, Bes, che pure ha importanti attestazioni in altri siti del Mediterraneo93, non è tra le più diffuse, rispetto ad esempio a quelle di Sachmet o di Nefertem: cin-que sono gli esemplari presenti nell’agro falisco94, quattro provengono da Veio95, uno da Tarquinia96,

quattro da Vetulonia97.Passiamo ora a esaminare gli altri oggetti di

ornamento personale, che contribuiscono con la loro ricchezza e varietà a connotare lo status della defunta, certamente appartenente ad un rango molto elevato (fig. 12): due fermatrecce in argento (fig. 13.b-c)98, di tipo 47g di Osteria dell’Osa99; una spirale o armilla in bronzo (fig. 13.a)100 del tipo 49a var. I Osteria dell’Osa101 e uno spillone o ago crinale di bronzo (fig. 15.a)102 di forma rara, forse più prossimo a tipi diffusi in età orientaliz-zante103; varie collane, una di ambra104 composta

Salvia, ‘Un ruolo apotropaico dello scarabeo egizio nel contesto culturale greco-arcaico di Pithekoussai (Ischia)’, in Hommages à Maarten J. Vermaresen, III, 1978 (a cura di M.B. De Boer - T.A. Edrige), pp. 1003-1061; F. De Salvia, ‘I reperti di tipo egizio’, in Pithekoussai I, pp. 761-811. Per Rodi, oltre che Martelli 1988 e 1991, G. Hölbl, ‘Typology of form and material in classifying small Aegyptiaca in the Mediterranean during archaic times: with special reference to faience found on Rhodian sites’, in Early Vitre-ous Materials, Symposion 2nd and 3rd November 1984 (a cura di M. Bibson - I.C. Frestone), British Museum Occasional Papers 56, London 1987, pp. 115-126; e, per la Grecia, N.J. Skon - Jedele, “Aigyptiaka”: a catalogue of Egyptian and Egyptianizing objects exca-vated from Greek archaeological sites, ca. 1100-525 B.C. (Phil. Diss. University of Pennsylvania 1994. UMI Dissertation Services, Ann Harbor), oltre che T.H.G. James, ‘The Egyptian-Type objects’, in Perachora. The Sanctuaries of Hera Akraia and Limenia, II, Oxford 1962, pp. 478-511. Inoltre: G. Hölbl, ‘Archaische Aegyptiaca aus Ephesos. Vorläufige Beobachtungen zu Neufunden aus dem Ar-temision’, in Die epigraphische und altertumskundliche Erforschung Kleinasiens: Hundert Jahre Kleinasiatische Kommission. Akten des Symposions vom 23. bis 25. Oktober 1990 (G. Dobesch - G. Rehrenbock edd.), 1993, pp. 227-253; F. Gorton, Egyptian and Egyptianizing scarabs. A typology of steatite, faience and paste scarabs from Punic and other Mediterranean sites, Oxford 1996; G. Hölbl, ‘Funde aus Milet, VIII: Die Aegyptiaca vom Aphroditetempel auf dem Zeytintepe’, in AA 1999, pp. 345-371; Huber 2003, pp. 96-100; G. Hölbl, ‘Ägyptisches Kulturgut in der griechischen Welt im frühen ersten Jahrtausend vor Christus (10.-6. Jh. V. Chr.), in Ägypten, Griechenland, Rom. Abwehr und Berührung, Tübingen 2005, pp. 114-121; G. Hölbl, ‘Ägyptisches Kulturgut im archaischen Artemision’, in Die Archälogie der ephesischen Artemis. Gestalt und Ritual eines Heiligtums (a cura di U. Muss), Wien 2008, pp. 209-221. Per Cipro vedi nota 93.

92 Es. Quattro Fontanili tomba EE7-8B, figurina di Mut: NSc 1967, p. 130, fig. 26; Hölbl 1979, II, p. 3, n. 1, tav. 32, 1. Tomba Ya, due figurine di Bes, ricordate qui a nota 95 e figurina di Nefertem: NSc 1970, p. 266, sub n. 98, fig. 52; Hölbl 1979, II, p. 5, n. 10, tav. 44, 1. Tomba BBd, due figurine di Pateco: NSc 1972, p. 270, nn. 3-4, fig. 48; Hölbl 1979, II, p. 8, nn. 22-23, tav. 48, 3. Tomba 2 a fossa della Vaccareccia, tre figurine di Sach-met e una di Nefertem: Palm 1952, p. 61, tav. XI, 8; Hölbl 1979, II, pp. 3-4, nn. 3-5, tav. 38, 1-3; p. 4, n. 9, tav. 44, 2. Tomba 6 a fossa della Vaccareccia, tre figurine di Pateco: Palm 1952, p. 63, tavv. XVI, 40; Hölbl 1979, II, pp. 6-7, nn. 16-18, tavv. 52, 1; 54, 5. Tomba 20 a fossa della Vaccareccia, una figurina di Sachmet, una di Nefertem e una di Pateco: Palm 1952, p. 71, tav. XXX, 24-25; Hölbl 1979, II, p. 4, nn. 6-7, 15, tavv. 36, 3;

43, 2; 49, 1. Tomba 24 a fossa della Vaccareccia, una figurina di Nefertem e due di Pateco: Palm 1952, p. 72, tav. XXXI, 6-7; Hölbl 1979, II, p. 4, n. 8, tav. 43, 1; p. 7, nn. 19-20. Tomba a fossa da Monte Michele, a Firenze, due figurine di Pateco: Hölbl 1979, II, p. 8, n. 24-25, tav. 54, 7-8. Necropoli di Casale del Fosso: oltre alle due figurine di Bes, dalle tombe a fossa 841 e 911, ricordate qui alla nota 95, una figurina di Pateco dalla tomba a fossa 912: Hölbl 1979, II, pp. 7-8, n. 21, tav. 48, 5.

93 Efeso, Erythre, Rodi (Kamiros, Jalysos, Lindos), Samos, Paros, Perachora, Argo, Egina, Eretria, Kition, Amatunte, Creta (Amnisos, Gortina), Al Mina: G. Clerc, in Fouilles de Kition II. Objets ègyptiens et egyptisant: scarabées, amulettes et figurines en pâte de verre et en faïence, vase plastique en faïence. Sites I et II, 1959-1975, Paris 1976, pp. 118, 127-130; G. Clerc, ‘Aegyp-tiaca’, in Études chypriotes XIII. La nécropole d’Amathonte. V. Tombes 110-385 (a cura di V. Karageorghis - O. Picard - Ch. Tytgat), Paris 1991, pp. 97-99.

94 Vedi nota 90.95 Hölbl 1979, II, pp. 5-6, nn. 11-14, tavv. 59, 5; 59, 2

(Quattro Fontanili, tomba Yq: NSc 1970, p. 266 ss., in cui sono presenti anche bulle in lamina d’oro), necropoli della Vaccareccia, Casale del Fosso tombe 841 e 911.

96 Hölbl 1979, II, p. 45, n. 221.97 Hölbl 1979, II, pp. 117-118, nn. 505-508, tavv. 55, a

colori VI, 1, 57, 56, 58.98 Inv. 3107. Diam. 3. In frammenti. A capi sovrapposti in

filo d’argento con un occhiello ad una estremità. MAL IV, tav. X, 28; Cozza-Pasqui 1981, p. 46, n. 1.

99 Osteria dell’Osa, p. 389, tav. 40. Lo stato di conservazione del nostro pezzo non consente un preciso inquadramento.

100 Inv. 3117. Alt. mass. 3,5; diam. 4. A capi sovrapposti in filo di bronzo.

101 Osteria dell’Osa, p. 393, tav. 40 (periodo IV). Presente an-che a Veio, es. tomba CD 11 (NSc 1976, p. 125, n. 10, fig. 30).

102 Inv. 3106. Alt. mass. 4,5; diam. testa 0,7. Privo della parte inferiore. Con testa sferica e fusto decorato con ingrossamenti.

103 Assimilabile, solo per la forma, non per il materiale, al tipo 44c di Osteria dell’Osa (Osteria dell’Osa, p. 380, tav. 39). La forma con capocchia sferica è attestata in oro e metalli preziosi su esemplari di piena età orientalizzante (es. esemplari con capocchia sferica e foglie a giorno, di tipologia greco-orientale dalla tomba Barberini: P. Jacobsthal, Greek Pins and their con-nections with Europe and Asia, Oxford 1956, p. 170 s.; Oro degli Etruschi, p. 258, n. 20; spillone dalla tomba del Littore: Oro degli Etruschi, p. 270, n. 58).

104 Inv. 3113. Mis. mass. 2,5x1. Composta da 15 elementi a losanga arrotondata e da quattro pendaglietti. MAL IV, tav.

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118 Maria Antonietta Rizzo

IX, 20 (uno dei pendagli); Cozza-Pasqui 1981, p. 46, n. 2e. 105 Osteria dell’Osa, p. 430, tav. 46 (II-IV periodo); attestate

a Cerveteri (necropoli del Sorbo e del Laghetto), Veio (Quattro Fontanili), nel Latium Vetus (Roma, Castel di Decima, tomba 132), in Italia meridionale (Cuma, San Marzano, Sala Consi-lina, Torre Galli) etc.

106 Inv. 3109. Diam. vaghi 0,3/0,4. Costituita da anellini schiacciati in pasta vitrea gialla, tranne due blu. MAL IV, tav. IX, 42; Cozza-Pasqui 1981, p. 46, n. 2b.

107 Guidi 1993, p. 70, fig. 25/9, 10, 11. 108 Es. tomba 8/XXXVII del V sepolcreto a sud di Pizzo Piede:

MAL IV, c. 379, c. 490, nn. 3-4; tomba 73/LII della necropoli di Monte Cerreto: MAL IV, c. 379, c. 511, n. 3, tav. IX, 43.

109 Nella necropoli del Laghetto sono presenti in quasi tutte le tombe femminili; l’uso perdura anche nelle tombe databili nell’Orientalizzante antico e Medio (ad es., nella necropoli del Sorbo, le tombe del tumulo Ramella-Giulimondi, e le tombe Giulimondi Elio e Pio, scavate in parte da R. Mengarelli).

110 Inv. 3108. Diam. vaghi in oro 0,5; diam. anellini in pasta vitrea 0,2. I tre castoni centrali in oro sono cilindrici e dovevano contenere delle pietre incastonate, perdute; in due incassi si conservano resti di una sostanza per il fissaggio. Cozza-Pasqui 1981, p. 46, n. a.

111 Inv. 3110a-m. a,m. Due vaghi in pasta vitrea bianca. Diam. 0,7/0,8. c,d,e,g,h. Cinque vaghi in pasta vitrea verdina. Diam. 1, 3/1, 5. i. Un vago in pasta vitrea gialla. Diam. 1,2. f. un vago in pasta vitrea verdina con solcature verticali. Diam. 2. MAL IV, tav. IX, 27; Cozza-Pasqui 1981, p. 46, n. 2c.

112 Osteria dell’Osa, p. 435, tav. 46.113 Inv. 3110. Diam. 1. Pasta vitrea blu con striature concen-

triche bianche e gialle.114 Guidi 1993, p. 74, fig. 25/27. Si confrontino: necropoli

di Quattro Fontanili, tombe CD11 (NSc 1976, p. 126, n. 21 a, fig. 39); EF 9-10 (ibidem, p. 130, n. 3, fig. 43); EF 11-12 (ibidem, p. 138, nn. 38f-h, fig. 47); B 15-16 (ibidem, p. 154, n. 25e-f, fig. 57); C 16 (ibidem, p. 161, nn. 33a-b, fig. 61); C 17-18 (ibidem, p. 167, nn. 14c-b, fig. 64); Zg (NSc 1972, p. 212,

n. 19, fig. 9); BBd: NSc 1972, p. 270, n. 13, fig. 48; CCia: NSc 1972, p. 272, n. 7, fig. 53; OP 3-4: NSc 1972, p. 295, n. 4, fig. 67; OP 4-5: NSc 1972, p. 299, n. 30, fig. 73 (con cinturone a losanga, n. 11, fig. 70; fibula con fili d’oro n. 8, fig. 72 e fibula con dischi d’ambra, n. 20, fig. 72); M 5: NSc 1972, p. 329, n. 10,3, fig. 93; CC DD 11: NSc 1967, p. 117, n. 5,2, fig. 17; DD 7-8: NSc 1967, p, 117, n. 3,1, fig. 17; DD 10-11B: NSc 1967, p. 126, n. 5,1, fig. 22; EE 7-8B: NSc 1967, p. 132, n. 19,13, fig. 26 e n. 6, fig. 29 (ricca tomba a fossa di bambina con borchiette d’oro e di bronzo lavorate a sbalzo, molte fibule a sanguisuga e con dischi d’ambra, una figurina di Mut: Hölbl 1979, II, p. 3, n. 1, tav. 32, 1; n. 18, fig. 26; armilla a spirale, vaghi a barilotto, vaghi fusiformi in ambra, n. 19, 12, fig. 26); tomba FF 7-8: NSc 1967, p. 156, n. 27,2, fig. 40; FF- 9-10: NSc 1967, p. 161, n. 13, fig. 47; tomba FF 11: NSc 1967, p. 162, n. 4, 2, fig. 47.

115 Inv. 3112. Mis. mass. 1x0,5. L’inventario ricorda tre di questi elementi, forse di collana, a cilindro bombato con decorazione a reticolo. MAL IV, tav. IX, 4 (due esemplari); Cozza-Pasqui 1981, p. 46, n. 2f.

116 Guidi 1993, p. 76, fig. 10/22. 117 Si confrontino gli esemplari dalle tombe G 8-9 (NSc 1975,

p. 106, n. 55, fig. 29); D8 (ibidem, p. 126, n. a, fig. 35); EE 7-8B: NSc 1967, p. 132, n. 19, 3, fig. 26.

118 Le già citate ricche tombe femminili 223, 376, 522 scavi Lerici e nella tomba 2161 scavi Rizzo.

119 Vetulonia: Falchi 1891, p. 70, tav. V, fig. 8 (Poggio La Guardia); tav. VIII, fig. 11 (circolo di Bes); tav. XV, fig. 25 (II circolo delle Pellicce).

120 Inv. 3110 b. Diam. 1. Il volatile è privo della testa.121 Pizzo Piede, tomba 23: MAL IV, c. 503, n. 9. Petrina A,

tomba 15/XXII: MAL IV, c. 410, n. 6c (così descritta “oca di vetro con filettature di smalto verde su ali e petto”).

122 Tomba D8: NSc 1975, p. 126, n. 5g, fig. 35; tomba II 7-8: NSc 1967, p. 260, n. 8, fig. 103.

123 Vetulonia: Falchi 1891, tav. V, fig. 6. Tarquinia, tomba 93 di Selciatello di Sopra: Hencken 1968, fig. 149 g.

da elementi a losanga arrotondata (tipo 89c Osteria dell’Osa) ampiamente diffusi nelle tombe dell’Etruria e dell’agro falisco105 e pendagli bitron-coconici con appiccagnolo; una con dischetti in pasta vitrea gialla e blu (fig. 12)106, dischetti del tipo Guidi 202107, presenti in molte altre tombe falische108, ampiamente diffusi a Veio già nelle fasi IIa-IIc, ma anche a Cerveteri tra la fine dell’VIII e il primo quarto del VII secolo109; una con penda-glio centrale con tre castoni in oro all’interno dei quali erano lenti in ambra o pasta vitrea, rimontata con dischetti sempre in pasta vitrea (fig. 12)110, diversi vaghi in pasta vitrea111, a melone (fig. 12), simile al tipo 89q di Osteria dell’Osa112, ad “oc-chi” bianchi e blu (fig. 12)113 del tipo Guidi 228, attestati a Veio dalla fase IIA alla IIC e oltre114, vaghi a barilotto con estremità svasata in sottile lamina d’argento, a volte con resti di decorazione (fig. 14.b)115, tipo Guidi 234116, presente a Veio

già nella fase II B117, attestato anche a Cerveteri in numerosi corredi della necropoli del Laghetto118, oltre che a Tarquinia e Vetulonia119, e, di partico-lare interesse, le Vogelperlen (fig. 14.a)120, presenti anch’esse, se pur molto raramente, nell’agro falisco (es. tre vaghi dalla tomba 23 del quinto sepolcreto a sud di Pizzo Piede e un esemplare dalla tomba 15/XXII della Petrina A121), ed attestate anche a Veio (Quattro fontanili, tomba D8, II 7-8, e Ca-sale del Fosso tomba 817)122, Cerveteri (Laghetto tombe 605 e 2161, inedite), Vetulonia (tomba 32 di Poggio la Guardia), Tarquinia e Satricum123, con redistribuzione secondaria a Bologna ed Este, le quali rientrano negli athyrmata per eccellenza e che conoscono una ampia diffusione in Oriente (Ci-pro, Anatolia centrale, Siria, Iran) e in Occidente (Eretria, Perachora, Cuma, Pontecagnano, Capua, S. Maria d’Anglona, Policoro), dovuta all’azione di agenti levantini afferenti all’enoikismos di Rodi, ove

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119I sigilli del Gruppo del Suonatore di lira in Etruria e nell’agro falisco

Fig. 12

Fig. 13

Fig. 15

Fig. 14

Fig. 16

Fig. 17

Fig. 18

a a

a

a b

a

b b

b

bba

c c

dc

Figg. 12-18. Falerii, necropoli di Montarano, tomba 17/XXVI: Fig. 12. Collane in ambra, oro, vaghi di collana di vario tipo, pendagli a bulla in lamina d’oro. Fig. 13. Spirale in bronzo (a) e fermatrecce in argento (b-c). Fig. 14.Vogelperle e vago a barilotto. Fig. 15. Ago crinale (a) e elemento di spillone (b). Figg. 16-18. Pendagli a bulla in lamina d’oro.

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120 Maria Antonietta Rizzo

non a caso si riscontra la massima concentrazione (84 esemplari solo dalla stipe del tempio di Atena a Kamiros)124.

Di particolare pregio e chiaro indizio della ric-chezza del corredo sono i quindici pendagli in lamina d’oro lavorata a sbalzo di forma circolare, spesso con appiccagnolo a cilindretto cavo, di varie dimensioni e decorazioni (figg. 12, 16-18)125, dal tipo più piccolo e semplice con cerchielli multipli a rilievo (fig. 16.a), anche bordati da una fila di punti (fig. 16.b), a quelli di maggiori dimensioni con rosetta circondata da petali (fig. 16.c), o con cerchielli multipli circondati da petali e da una o due file di punti (figg. 17-18).

La quantità delle attestazioni e l’estesa distribu-zione areale che comprende, oltre l’Etruria, l’agro falisco e il Latium Vetus, anche la Campania (Sala Consilina, San Marzano, Pontecagnano e Cuma)126 e l’area bolognese127, soprattutto a partire dalla metà circa dell’VIII secolo, evidenzia un costume diffuso

connesso ad una chiara funzione amuletica128.Gli esemplari da Veio Quattro Fontanili, del tipo

di minori e maggiori dimensioni e complessità di decorazione (tipi Guidi 150 e 232129) ricorrono in contesti di fasi II B1-II C; sono presenti anche nella ricca tomba femminile 1032 di Casale del Fosso130; a Narce sono attestati già in tombe di età villanoviana finale (ad es. tomba 18/XXXII della necropoli di Monte Lo Greco) e oltre131 e sempre in contesti della seconda metà dell’ VIII secolo sono presenti a Castel di Decima, tomba 110, e Bisenzio Olmo Bello, tomba 22132; persistono poi, oltre che a Tarquinia, Bisenzio, Vetulonia, anche a Palestri-na133, e in area falisca (es. Narce)134 in associazioni con materiale di età orientalizzante. Molti sono poi, come spesso accade per questi oggetti in materiale prezioso, gli esemplari adespoti135.

Questo tipo di pendaglio rivela particolari affinità e corrispondenze con gli esemplari rinvenuti in vari siti dell’isola di Rodi (Jalysos, Kamiros, Lindos,

124 Martelli 1988, p. 110 e nota 68; Martelli 1991, p. 1052, nota 13, fig. 2; Huber 1998, p. 129-132. Insieme ad altri tipi di perle, questo tipo di vago, è trattato da ultimo da B. Pulsinger, ‘Perlen aus dem Artemision. Mittler zwischen Mensch und Gottheit’, in Die Archälogie der ephesischen Artemis. Gestalt und Ritual eines Heiligtums (a cura di U. Muss), Wien 2008, pp. 83-93, soprattutto p. 86, fig. 35, e bibl. a p. 91.

125 Inv. 3111a-q. a,b. Due borchie con cerchi concentrici, una con fila di fila punti sul margine esterno (fig. 16). Diam. 1,2. MAL IV, tav. IX, 21; Cozza-Pasqui 1981, p. 46, n. 2d. c, n-q. Cinque borchie con appiccagnolo cilindrico (conservato solo in alcune) decorate con motivo a rosetta. Diam. 1,3/1,4. d. Una borchia decorata con al centro motivo a rosetta e intorno da una serie di petali disposti a corona. (fig. 16c). Diam. 2,5. e,f,i,l. Quattro borchie decorate con cerchi concentrici e serie di petali disposti a corona, e fila di punti (fig. 17). Tre conservano l’appic-cagnolo a cilindretto cavo, decorato con cerchielli concentrici. Diam. 2,3/2,5. MAL IV, tav. IX, 22; Cozza-Pasqui 1981, p. 46, n. 2d. m. Borchia decorata con cerchi concentrici e cerchielli (?) o petali. Diam. 2,8. Dato lo stato di conservazione non si può essere sicuri che sia decorata come le quattro precedenti. g,h. Due borchie di misure maggiori delle precedenti, ma molto lacunose e schiacciate; decorate con cerchi concentrici, fila di punti, motivi non ben leggibili (forse archetti ?) e due file di punti (fig. 18). Diam. 4.

126 F.W. von Hase, ‘Zur Problematik der frühesten Goldfunde in Mittelitalien’, in HambBeitrArch 5, 1975, pp. 99-181, in particolare p. 116 s., fig. 7, tav. 21, con bibl.; Gastaldi 1979, p. 27, r, con rif.

127 Bologna, tomba Benacci 984: R. Pincelli, ‘Le oreficerie delle tombe villanoviane di Bologna’, in AA.VV., Civiltà del Ferro, Bologna 1960, p. 373.

128 Oro degli Etruschi, p. 30. 129 Cfr. per i nostri esemplari 3111 a-b = Guidi tipo 150:

Guidi 1993, p. 60, fig. 14,8 (in bronzo e ricoperti in lamina d’oro) in contesti delle fasi II B2-II C: es. tomba EE 7-8 B:

NSc 1967, p. 131, n. 15, fig. 25. Tipo 232, di dimensioni maggiori e decorazione più complessa: Guidi 1993, p. 74, fig. 14/17-14/18 sempre diffusi nelle fasi II B2-II C: si veda ad es. tomba EE 7-8 B: NSc 1967, p. 131, n. 12, fig. 25. Vedi anche tombe Ya e KKLL18-19.

130 Buranelli-Drago-Paolini 1997, p. 72, fig. 17.131 Tomba 18/XXXII: MAL IV, c. 442, n. 25, rif. solo per

confronto a tav. IX, 5, a rosetta. Il tipo con semplici cerchi concentrici (Guidi tipo 150) è

presente nella tomba 2/XLVI del secondo sepolcreto a sud di Pizzo Piede (MAL IV, c. 468, n. 5); tomba 18/XXXII di Monte Lo Greco (MAL IV, c. 440, n. 9, cfr. IX, 1); tomba 2/XLVI a sud di Pizzo Piede (MAL IV, c. 468, n. 5; cfr. tav. IX, 1). Il tipo con rosetta: tomba 3/XXI Petrina A (MAL IV, c. 402, n. 4, cfr. tav. IX, 3); tomba 29 Petrina A (MAL IV, c. 417, n. 1, cfr. tav. IX, 3); tomba 34 Petrina A (MAL IV, c. 422; cfr. tav. IX, 3); tomba 18/XXXII di Monte Lo Greco (MAL IV, c. 442, n. 25, cfr. tav. IX, 3).

132 Castel di Decima tomba 110 (A. Bedini, ‘L’VIII secolo nel Lazio e l’inizio dell’Orientalizzante antico alla luce di recenti scoperte nella necropoli di Castel di Decima’, in PdP 32, 1977, p. 306) e Bisenzio Bucacce tomba 10 (Galli 1912, c. 449, fig. 36), oltre che nella tomba 2 dell’Olmo Bello (Oro degli Etruschi 1983, p. 251, n. 7) tutte del terzo quarto dell’VIII secolo; il tipo più complesso, della tomba 22 presenta disco solare e crescente lunare (dell’ultimo quarto dell’VIII sec. a.C).

133 Tarquinia: Hencken 1968, pp. 96, 161, 193, 241, 261, 262, 298, 309, 321, 360, 367, 506, 545. Per tutti gli altri siti ricordati si veda: Oro degli Etruschi, p. 30 e rif. ivi riportati.

134 Tombe di Narce Philadelphia 24 M (Dohan 1942, p. 34, tav. XVII) e Copenhagen 1 della prima metà del VII secolo.

135 Si vedano gli esemplari ricordati da M. Martelli, in Oro degli Etruschi, p. 34, nota 49. Altri, adespoti, datati tra il terzo e l’ultimo quarto dell’VIII sec. a.C. sono presenti, ad es., nella collezione Cini-Alliata: Etruscan Treasures from the Cini-Alliata Collection, Rome 2004, p. 75 s., n. 82.

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121I sigilli del Gruppo del Suonatore di lira in Etruria e nell’agro falisco

Exochi), in contesti del Geometrico Recente, della seconda metà quindi dell’VIII sec. a.C., e significa-tiva è la loro occorrenza in Occidente – e su questo torneremo – in contesti comprendenti altri mate-riali ampiamente attestati proprio in ambito rodio (sigilli del Gruppo del Suonatore di Lira, statuette in faïence, Vogelperlen, fibule configurate).

Le quindici placchette in lamina di bronzo deco-rate a sbalzo di forma quadrata o tagliate a “scala” (figg. 19-20)136 del tipo Guidi 151 variante A137 sono già presenti a Veio dalla fase II A, perdurano fino alla fine dell’VIII, e sono attestate in varie tombe di Narce138.

Molte e di varie tipologie le fibule tra cui una rivestita in filo d’oro (fig. 22.a)139, di un tipo cono-sciuto anche a Veio140, e ricorrente in ambito falisco

(presente in almeno altre sei tombe femminili pro-prio della necropoli di Montarano141); due ad arco rivestito di dischi di ambra e di osso (fig. 22.b-c)142 del tipo 39b di Osteria dell’Osa143, diffuse ampia-mente in contesti falisci (Falerii, Narce), etruschi (Veio, Quattro Fontanili e Vaccareccia, Cerveteri, Tarquinia, Bisenzio)144 e laziali (Castel di Decima, nella tomba principesca 101, oltre che nelle 93 e 153, oltre che a Palestrina, Tivoli, La Rustica, Lavinio)145; due di bronzo a navicella, di grandi dimensioni e decorate con motivi geometrici (fig. 21)146, di tipo 38dd di Osteria dell’Osa147, ampia-mente attestate anche a Cerveteri148 e nel Lazio149; una in elettro (fig. 23.a)150 e due di bronzo a navi-cella con inserzioni d’ambra (fig. 23.b-c)151 di tipo 38hh di Osteria dell’Osa152, diffuse ampiamente

136 Inv. 3122. Undici di forma quadrata. Mis. 2,5x3 la mag-giore e 1,7x1,7 la minore. Alcune lacunose. Con forellini agli angoli per l’applicazione. Decorate con rosetta centrale a punti e fila di punti lungo il bordo o con rosetta centrale da cui si dipartono bracci obliqui a punti. Quattro frammenti di lamina tagliati a scala. Mis. mass. 2x1,5. Tre frammentarie. Decorate a sbalzo con punti. Cozza-Pasqui 1981, pp. 47-48, nn. 22-24.

137 Attestato dalla fase II A alla II B2: Guidi 1993, p. 60, fig. 18,13. Per il tipo tagliato a scala, si cfr. tomba Quattro Fontanili C 17-18 (NSc 1976, p. 165, n. 8, fig. 64).Nella fase II B sono attestati a Veio anche esemplari di maggiori dimensioni e in oro: Guidi tipo 151 variante B (Guidi 1993, p. 60, fig. 10/9), ad es. dalla tomba Zg (NSc 1972, p. 209, n. 11, fig. 9), con loculo e coperchio in tufo; tomba EE 7-8 B: NSc 1967, p. 132, n. 26, fig. 25; tomba FF 7-8: NSc 1967, p. 156, n. 30, fig. 40.

138 Necropoli della Petrina A, tomba 3/XXI: MAL IV, c. 403, n. 7, una a tav. IX, 3 (24 esemplari e due a svastica); tomba 15/22: MAL IV, c. 410, n. 8, tav. IX, 9 (4 esemplari a zeta); tomba 30/XXV: MAL IV, c. 419, n. 15, tav. IX, 6).

139 Inv. 3095. Lungh. mass. 3,2. Priva di molla, ardiglione e staffa, tranne l’attacco. In bronzo rivestita in filo d’oro ritorto che converge al centro obliquamente da entrambe le parti. Cozza-Pasqui 1981, p. 47, n. 9.

140 Quattro Fontanili tomba EF 11-12: NSc 1976, p. 137, n. 22, fig. 47; tomba OP 4-5: NSc 1972, p. 295, n. 8, fig. 72, con cinturone, perle “ad occhi” e fibula a dischi d’ambra; tomba R 3-4: NSc 1972, p. 313, nn. 4-5, fig. 81.

141 Baglione-De Lucia Brolli 1997, p. 165, fig. 14, quasi sempre associate con fibule ad arco rivestito da dischi di ambra e osso: la 42 Milani F, la 34/25, la 37/XX, la 9/11, la 2/XXIX e la 18/XXX.

142 Inv. 3105, 3104. Lungh. mass. 5; 4,5. Prive di parte dell’ardiglione e della staffa. A sanguisuga con arco a semplice filo rivestito da un disco in osso e due di ambra. Molla a due giri, staffa allungata. Cozza-Pasqui 1981, p. 47, nn. 19-20.

143 Osteria dell’Osa, p. 371, tav. 38; cfr. anche tav. 35, ins. 1.144 Veio, Quattro Fontanili, tombe W 3 ed EE 7-8 B (NSc

1970, pp. 190-193, nn. 22-23; NSc 1967, p. 131 s., nn. 16-17, figg. 23, 25); tomba Ya e tomba G 8-9 (NSc 1970, pp. 262-265, figg. 48-51; ibidem, fig. 24, nn. 36-38); Vaccareccia tomba 24 di fase IIIA: Palm 1952, p. 72, n. 1, tav. XXXI;

per Bisenzio, tomba 2: Oro degli Etruschi, p. 251, n. 6 (terzo quarto dell’VIII).

145 Per Castel di Decima: NSc 1975, p. 376; Civiltà del Lazio primitivo, p. 288; F. Zevi, ‘Alcuni aspetti della necropoli di Castel di Decima’, in PdP 32, 1977, p. 260 (dove si dicono presenti in “una quindicina di tombe”). Per Palestrina: D.E. Strong, Catalogue of the Carved Amber in the Department of Greek and Roman Antiquities, London 1966, pp. 54, 56 s., n. 25, tav. 11. Per Tivoli, tomba 24 A: Civiltà del Lazio primi-tivo, p. 203, n. 10, tav. XXXVIII. Per La Rustica, tomba 11: ibidem, p. 159, nn. 27-28, tav. XXV. Per Lavinio, tomba 50: ibidem, p. 300, n. 3.

146 Inv. 3093a-b. Lungh. mass. 7. Prive di ardiglione e staffa. In bronzo fuso, cave, a sanguisuga, di grandi dimensioni, de-corate con motivi geometrici, al centro fasce a spina di pesce disposte due in senso orizzontale ed una in senso verticale ai lati di un quadrato con fasce a tratteggio e cerchiello al centro, seguono sopra e sotto la fascia centrale due fasce orizzontali con una fila di cerchielli; chiudono due zone decorate con fasce oblique convergenti a spina di pesce; nello spazio di risulta cer-chiello. Alle due estremità del dorso fascette verticali con spina di pesce. Molla a due giri. MAL IV, tav. X, 12; Cozza-Pasqui 1981, p. 47, n. 8.

147 Osteria dell’Osa, p. 365, tavv. 37, 35. 148 Dalle tombe 219, 223, 234, 247, 266, 268, 341, 367,

374, 410, 472 degli scavi Laghetto Lerici.149 Pratica di Mare, tomba 65 (Civiltà del Lazio primitivo,

p. 305, n. 5, tav. 78), associata con fibule a dischetti di ambra (ibidem pp. 353-354, nn. 12.10 e 13.8).

150 Inv. 3103. Lungh. mass. 1,5. priva dell’ardiglione, molla e staffa. Ad ampia losanga, con due bottoni laterali e sul dorso incasso per l’insersione di un dischetto di ambra. Cozza-Pasqui 1981, p. 47, n. 10.

151 Inv. 3096, 3097. Lungh. 7; lungh. mass. 4. La prima priva dell’ardiglione, la seconda dell’ardiglione e quasi tutta la staffa. In bronzo fuso, a losanga ampia, con due bottoni late-rali. La prima presenta sul dorso cinque incassi per l’insersione di dischetti di ambra (ne resta solo uno in posto); la seconda nove. Molla a due giri, staffa molto lunga. Cozza-Pasqui 1981, p. 47, nn. 11-12.

152 Osteria dell’Osa, p. 367, tav. 37; si cfr. anche ibidem tav. 35, ins 1, con cinque incassi.

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122 Maria Antonietta Rizzo

Fig. 19

Fig. 22

Fig. 23

b

b c

a

a

a

a

b

b

c

c

Fig. 20 Fig. 21

Figg. 19-23. Falerii, necropoli di Montarano, tomba 17/XXVI: Figg. 19-20. Laminette in bronzo. Fig. 21. Fibule in bronzo a navicella. Fig. 22. fibula rivestita in filo d’oro (a) e ad arco rivestito di dischi d’ambra e di osso (b-c). Fig. 23. Fibule in elettro (a) e in bronzo (b-c) a navicella con intarsi in ambra.

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123I sigilli del Gruppo del Suonatore di lira in Etruria e nell’agro falisco

anche nel territorio falisco (Narce)153, in Etruria e Lazio154; una di bronzo a losanga con anellino inserito nell’ardiglione (fig. 24.b)155 di tipo 99 di Guidi156, attestata nel periodo Veio II B2-II C; due di bronzo a navicella decorate con cordoncini orizzontali seghettati e bottoncini laterali (fig. 25.a-b)157 di tipo 38hh, senza inserti d’ambra, Osteria dell’Osa158; due di bronzo a sanguisuga con arco decorato con cordoncini rilevati (fig. 25.c-d)159 di tipo Osteria dell’Osa 38kk160, attestata nell’agro falisco, Veio e Lazio161; una di bronzo a drago (fig. 24.c)162 di tipo 42k Osteria dell’Osa163.

Di particolare interesse una fibula di bronzo ad arco configurato con volatili (fig. 24.a)164 di una varietà diffusamente documentata tra l’età del Fer-ro e il primo orientalizzante165, presente in pochi

esemplari nelle necropoli falische (due dalla tomba 16/XXIV della Petrina,)166, ma nota anche a Veio, forma Guidi 98, dove è presente anche nella ricche tombe femminili G 8-9, CD 10 e AABBb167, oltre che nella tomba 780 di Grotta Gramiccia168, e a Tarquinia169.

Di incerta destinazione due lastrine in osso de-corate con cerchielli ad intarsio, forse in ambra, e cerchielli multipli incisi (figg. 12, 26)170; l’ipotesi fatta dai primi editori che le attribuivano a chiusure di collane, con la funzione precisa di distanziare i diversi fili che le componevano, può trovare conferma nella posizione, accertata al momento dello scavo, di altri due esemplari, di dimensioni maggiori, rinvenuti nella ricca tomba femminile 18/XXXII del sepolcreto di Monte Lo Greco a

153 Narce, tomba 2/XLVI del secondo sepolcreto a sud di Pizzo Piede: MAL IV, c. 384, 468, n. 3, tav. X, 17; tomba 105 a Philadelphia: Dohan 1942, tav. 24, 28-29; tomba 16/X della necropoli de “I Tufi”: Baglione-De Lucia Brolli 1990, fig. 6/13.

154 Veio Quattro Fontanili, tombe FF GG10 e CC 4-5 (NSc 1965, fig. 90c, j; NSc 1970, fig. 22/16. Lazio, periodo IV: Osteria dell’Osa tombe 116 e 224 (Osteria dell’Osa, p. 367, tav. 37); Roma, tempio di Antonino e Faustina, tomba AA, con un solo inserto d’ambra e in forma miniaturizzata, come quella della nostra tomba, in elettro (fig. 23a) (Early Rome 1966, fig. 46, 18), Riserva del Truglio, tomba 29 (Gierow 1964, fig. 124, 28).

155 Inv. 3102. Lungh. 4; priva di parte dell’ardiglione. Anel-lino, diam. 0,8. In bronzo fuso, ad arco schiacciato a losanga con bottoni semplici laterali, decorata da incisioni profonde (linee verticali parallele e cerchi concentrici) sul dorso. Molla a due giri, staffa allungata. Cozza-Pasqui 1981, p. 47, n. 17.

156 Guidi 1993, p. 48, fig. 14/1.157 Inv. 3098, 3099. Lungh. 6; 5,4. La seconda priva di parte

della staffa. In bronzo fuso, a losanga allargata, con due bottoni laterali, decorate con doppio cordoncino orizzontale seghettato e gruppi di linee che si incrociano alle estremità. Molla a due giri; staffa molto lunga. Cozza-Pasqui 1981, p. 47, n. 13-14.

158 Osteria dell’Osa, p. 366, tav. 37. Frequenti in tombe di fine VIII dell’agro falisco: Baglione-De Lucia Brolli 1990, fig. 6, 13.

159 Inv. 3094a-b. Lungh. 7,2; 7; in una manca la punta dell’ardiglione. A sanguisuga, cava, con arco decorato da gruppi di cordoncini a rilievo e due triangoli alle estremità. Molla a due giri; staffa molto lunga. Cozza-Pasqui 1981, p. 47, n. 15.

160 Osteria dell’Osa, p. 368, tav. 37.161 Veio, Quattro Fontanili, tomba Xa a (NSc 1970, fig.

42, 7-8). Osteria dell’Osa, tombe 222, 233, 401, 534 (Osteria dell’Osa, p. 368, IV periodo). Castel di Decima tomba 68 bis (NSc 1975, fig. 141,1). Riserva del Truglio, tombe 29 e 30 (Civiltà del Lazio primitivo, cat. 17, tav. 10/14, 16-18; Gierow 1964, fig. 125, 10-13).

162 Inv. 3100. Lungh. mass. 8. Priva dell’estremità dell’ardi-glione e della staffa. Con coppie di tubicini. MAL IV, tav. X, 7; Cozza-Pasqui 1981, p. 47, n. 18.

163 Osteria dell’Osa, p. 378, tav. 39. Diffusa nei periodi III-IV laziali (DialArch 2, 1980, tav. 31, tipo 41A, fase IVA) a Osteria

dell’Osa tombe 228, 414i; Torrino tomba A: A. Bedini, ‘Tre corredi protostorici dal Torrino. Osservazioni sull’affermarsi e la funzione delle aristocrazie terriere nell’VIII sec. a.C. nel Lazio’, in ArchLaz 7, 1985, fig. 9, 1e, 13A.

164 Inv. 3101. Lungh. 3. Priva di parte della staffa e dell’ar-diglione. In bronzo fuso, con arco a sanguisuga decorato con due ocherelle stilizzate. Molla a due giri. Cozza-Pasqui 1981, p. 47, n. 16 (erroneamente si fa riferimento a MAL IV, tav. X, 8 che è invece di altro tipo, con protuberanze).

165 Per le fibule ad arco plastico a staffa corta e media: K. Kilian, ‘Das Kriegergrab von Tarquinia. Beigaben aus Metall und Holz’, in JdI 92, 1977. pp. 32, nn. 30-31, n. 3, 3 e 6, 4-5, 57-59 con rifer.; AA.VV., Proposta per una tipologia delle fibule di Este, Firenze 1976; Gastaldi 1979, p. 38, E6, figg. 8, 18; Guidi 1993, forma 98. Per esemplari più recenti: Oro degli Etruschi, p. 272 n. 66 con bibl.; F.W. von Hase,‘Die goldene Prunkfibel aus Vulci, Ponte Sodo’, in JbRGZM 31, 1984, p. 270 ss., figg. 14, 16 (alcuni esemplari falisci citati a p. 275, n. 21 A-D). Sui tipi di fibule con arco configurato, zoomorfo, si veda, da ultimo: M. Martelli, ‘Appunti per i rapporti Piceno - Grecia’, in I Greci nell’Adriatico nell’età dei kouroi, Urbino 2007, pp. 156, con amplia bibl. e rif.

166 Tomba 16/XXIV Petrina: MAL IV, cc. 366; 411, n. 4, tav. X, 8. Per la composizione del corredo vedi nota 232.

167 Guidi 1993, p. 48, fig. 18,4. Tomba G 8-9, di fase II C: NSc 1976, p. 104, n. 33, fig. 27 (due esemplari); nella tomba sono presenti numerosi vaghi di collana dei tipi presenti anche nella nostra tomba, in pasta vitrea, in oro, in ambra (22 vaghi tondi e 13 fusiformi) oltre che fibule a sanguisuga come la nostra 3094 a-b (fig. 25c-d): ibidem, fig. 30. Tomba CD 10: ibidem, p. 125, nn. 8-9, fig. 39.Tomba AABBb: NSc 1972, p. 263, nn. 13-14, fig. 46, femminile e con cinturone a losanga.

168 Berardinetti-Drago 1997, p. 52, fig. 22.169 Hencken 1968, fig. 171d (tomba M 5 fase II B, associata

con quattro scarabei in faïence); fig. 174i (tomba M 6 fase II B, associata con bulla in lamina d’oro e cinturone).

170 Inv. 3114. Lungh. 4,5; alt. 0,8. Di forma trapezoidale, decorate con cinque intarsi circolari, perduti (restano solo gli incassi) e da un motivo con cinque cerchielli, ripetuto quattro volte, e da due cerchielli alle estremità. MAL IV, tav. IX, 12 (un esemplare); Cozza-Pasqui 1981, p. 46, n. 2g.

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124 Maria Antonietta Rizzo

Fig. 24

Fig. 26Fig. 25

Fig. 28

Fig. 29Fig. 27

a a

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c

d

b

c

Figg. 24-29. Falerii, necropoli di Montarano, tomba 17/XXVI: Fig. 24. Fibula ad arco configurato (a), a losanga (b) con anellino inserito e fibula a drago (c), di bronzo. Fig. 25. Fibule a navicella e a sanguisuga, di bronzo. Fig. 26. Fermaglio di collana in osso. Fig. 27. Vasellame in impasto (da Cozza-Pasqui 1981, fig. a p. 49). Fig. 28. Olla di impasto rosso. Fig. 29. Holmos di impasto rosso.

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125I sigilli del Gruppo del Suonatore di lira in Etruria e nell’agro falisco

Narce171; altre due lastrine, di minori dimensioni, provengono dalla tomba 16/XXIV del sepolcreto della Petrina172 e due dalla tomba 23 del quinto se-polcreto a sud di Pizzo Piede173. Si tratta di oggetti, certamente pertinenti a sepolture femminili, non molto diffusi, ma sporadicamente attestati anche a Veio (uno dalla tomba PQ 4 di Quattro Fontanili, ed altri, di diversa forma, pertinenti alla ricca parure

di elementi in osso della tomba femminile 377 di Grotta Gramiccia)174.

Interessante poi la presenza di un cinturone di bronzo a losanga, riccamente decorato, di tipo villanoviano (fig. 30)175, riferibile al tipo di Veio Guidi 170, Toms 1986, tipo XVII, 1176, oggetto diffuso anche nell’agro falisco-capenate dove ne sono stati rinvenuti almeno altri sei esemplari (tre

171 Tomba 18/XXXII, a fossa con loculo e sarcofago testudina-to: MAL IV, c. 139, fig. 56 (con il posizionamento degli oggetti rinvenuti); una delle due lastrine (c. 441, n. 12) è riportata a tav. IX, 11. Per il corredo vedi nota 235.

172 Tomba 16/XXIV, a fossa con loculo e sarcofago testudi-nato: MAL IV cc. 441 ss. Le lastrine (c. 412, n. 13bis) sono raffigurate a tav. IX, 18. Per il corredo vedi nota 232.

173 Tomba 23: MAL IV, c. 503, n. 7 (il riferimento alla tav. IX, 12 è solo di confronto). Tomba a fossa con loculo e sarcofago testudinato. Per il corredo vedi nota 236.

174 Per Quattro Fontanili: NSc 1972, p. 309, n. 10, fig. 76 con cerchielli incisi (cm. 3,8x1,8). Per Grotta Gramiccia: Berardinetti-Drago 1997, p. 46, fig. 13, lastrine decorate con cerchielli multipli; per queste ultime si è pensato a oggetti per ornamento delle vesti o per la filatura: G. Bartoloni - F. Delpino, ‘Un tipo di orciolo a lamelle metalliche. Considerazioni sulla prima fase villanoviana’, in StEtr 43, 1975, p. 5, n. 4, nota 9, e passim.

175 Inv. 3123. Alt. mass. 14; lungh. 25,8. Piccole lacune. Del tipo a losanga, con un’estremità ripiegata ad uncino e l’altra a forma trapezoidale con i margini ripiegati in dentro e due fori

allineati al centro. Decorato a sbalzo e ad incisione; lungo tutto il bordo borchiette; quattro file verticali di borchiette suddividono la superficie in cinque settori: da sinistra, nel primo settore, grande cerchio inciso con bugna centrale a rilievo, con due fasce concentriche con zigzag continuo, semplice quello interno e multiplo quello esterno, a sinistra motivo a barra costituito da borchiette e quattro croci dalmatiche; a destra fila verticale di triangoli campiti a tratteggio; nel secondo settore tre cerchi multipli intersecantisi con borchia centrale a rilievo; nel terzo e quarto settore tre cerchi multipli disposti verticalmente e quat-tro croci dalmatiche, a sinistra fila verticale di triangoli riempiti a tratteggio; nel quinto settore grande cerchio inciso dello stesso tipo di quello descritto nel primo settore, tre croci dalmatiche e, a sinistra, fila verticale di triangoli campiti a tratteggio. MAL IV, tav. X, 31 (ma la decorazione è in gran parte illeggibile); Cozza-Pasqui 1981, p. 48, n. 25, e fig. a p. 48.

176 Guidi 1993, p. 64, fig. 21.1, che è attestato dalla fase II A (e forse già dalla fase I C) alla IIC. Toms 1986, p. 95, fig. 20:B. Per la tomba I 17, NSc 1976, p. 179, fig. 27. Cinturoni sono attestati nelle tombe OP 4-5, Z 11-12 e AA 12 A di fase II A, nelle tombe I 17 e EE 12 di fase IIA avanzata-IIB, in nove tombe

Fig. 30a-b. Falerii, necropoli di Montarano, tomba 17/XXVI: a-b) Cinturone a losanga in bronzo (disegno da Cozza-Pasqui 1981, fig. a p. 48.

a

b

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126 Maria Antonietta Rizzo

Fig. 31a-l. Falerii, necropoli di Montarano, tomba 17/XXVI: a) Conocchia; b) Rocchetti in impasto; c) Poculum di impa-sto rosso; d-e-h) Tazze di impasto rosso; f ) Coppa di impasto rosso; g) Coppa con decorazione white-on-red; i) Anfora di impasto rosso; l) Oinochoe di impasto rosso.

HH 11-12, II 9-10, EE 7-8B, GG 6-7 (dimenticati nella tabella a p. 116, ma ricordati a p. 119), Y a, FF GG 7-8, G 8-9, LL 18, F 7-8 di fase II C, e più tardi, nelle ricche tombe femminili Z 11-12 (NSc 1967, p. 213, n. 7, fig. 77), e TU bg (ibidem, p. 345, n. 6, fig. 100). È presente anche nella tomba femminile 780 di Grotta Gramiccia: Berardinetti-Drago 1997, p. 52, fig. 22 (dove è associato con una fibula ad arco decorato da volatili, come nella tomba qui presa in esame) e in due tombe di Casale del Fosso, la 973 e la ricchissima tomba femminile 1032 (Buranelli-Drago-Paolini 1997, p. 69, figg. 19-20 b).

177 Nella tomba 36/XXVII (anch’essa con loculo e sarcofago) un cinturone a losanga con «circoli concentrici intorno ai bot-toni intramezzati da zone bulinate a spina» (MAL IV, c. 371, c. 422, n. 7; il riferimento a tav. X, 31 è solo per confronto). Per la composizione del corredo vedi nota 234. Nella tomba 18/XXXII

della necropoli di Monte Lo Greco provengono due cinturoni (MAL IV, cc. 441-442, nn. 15, 18, il riferimento a tav. X, 31 è solo per confronto), decorati con “i soliti bottoni e graffiti a dente di lupo”. Per la composizione del corredo vedi nota 235. Non è chiaro dalle descrizioni a che tipo appartenga il cinturone della tomba 23 del quinto sepolcreto a sud di Pizzo Piede: MAL IV, c. 504, n. 23. Per la composizione del corredo vedi nota 236. Due cinturoni, ma del tipo a fascia rettangolare, provengono dalla tomba 14/XXVI, tomba a fossa sempre del tipo con loculo e sarcofago (MAL IV, c. 372, c. 408, n. 3), dove sono associati con fuso, forcelle e ornamenti di pregio (MAL IV, cc. 408 ss.) e dalla tomba 16/XXIV (MAL IV, c. 372, 412, n. 18, tav. X, 27); per la composizione del corredo di quest’ultima tomba, vedi nota 232.

178 Entrambe le tombe sono dello stesso tipo della nostra, con loculo e sarcofago testudinato. Dalla 15/XXVII proviene

da Narce, tombe 36/XXVII della Petrina A e 18/XXXII di Monte Lo Greco177; due dalla necropoli di Montarano, tombe 15/XXVII e 2/XXIX178, oltre che da Capena).

Dai circa ottanta esemplari di cinturoni conosciu-

ti si può dedurre che essi sono ben rappresentati nelle città dell’Etruria meridionale (Veio, Vulci, Tarquinia, meno a Cerveteri), mentre più rari sono nell’Etruria settentrionale (Populonia, Vetulonia, Massa Marittima e Volterra), e abbastanza attestati

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127I sigilli del Gruppo del Suonatore di lira in Etruria e nell’agro falisco

il cinturone a losanga (MAL IV, c. 372, fig. 99z; Cozza-Pasqui 1981, p. 44, n. 13) decorato su tre zone verticali: al centro tre bottoni rilevati con cerchi concentrici tra due fasce con mean-dri verticali tra gruppi o fila di sottili denti di lupo; ai lati altri tre cerchi uniti da tre fasce oblique ad un quarto cerchio; alle estremità, come nel nostro esemplare, motivi a rombi terminanti alle estremità con triangoli, riempiti di linee incise a bulino, e meandro a ruota. Per la composizione del corredo vedi nota 230. Nella tomba 2/XXIX (MAL IV c. 372, ancora indicata con il numero della prima numerazione della tomba, XXX; Cozza-Pasqui 1981, p. 26, n. 22) il cinturone a losanga era accompagnato da un ricco corredo, per il quale vedi nota 229.

179 Per Veio, vedi nota 176. Per Tarquinia il più antico cintu-rone appartiene alla tomba a cremazione “principesca” Arcatelle 14, della fase II A (passaggio tra II A1 e II A2: C.Iaia, Simbolismo funerario e ideologia alle origini di una civiltà urbana. Forme rituali nelle sepolture villanoviane a Tarquinia e Vulci, e nel loro entroterra, 1999, pp. 61-62, fig. 15:B); presenti nella tomba Arcatelle M6 (Hencken 1968, fig. 173a) ed M4 (Hencken 1968, figg. 169e) di fase II A2. Per Cerveteri, dove non sono frequentemente attestati, si veda ora l’esemplare della tomba LXX di Cava della Pozzolana (L. D’Erme, in Scavo nello scavo. Gli Etruschi non visti. Ricerche e “riscoperte” nei depositi dei musei archeologici dell’Etruria Meridionale, Viterbo 2004, pp. 121 ss., 126 s., II.c.11), per la quale è proposta una datazione nella fase avanzata II A. Gli esemplari rinvenuti nel Lazio sono ritenuti importati dall’Etruria e riferibili al II periodo laziale: da Anzio (Gierow 1966, p. 343, fig. 97.1), dalla tomba XLIII di Tivoli (Civiltà del Lazio primitivo, pp. 196 ss., tav. XXXVI a), da Roma, Quirinale e anfiteatro Castrense (L. Pigorini, in BPI 32, 1908, figg. D-E). Attestati a Bologna nella fase II A2 (S. Panichelli, ‘Sepolture bolognesi dell’VIII sec. a.C.’, in Mi-scellanea protostorica (a cura di G.L. Carancini), Roma 1990, p. 291, fig. 3:17); e ad Este nella fase II C (R. Peroni et alii, Studi sulla cronologia delle civiltà di Este e Golasecca, Firenze 1995, fig. 28, 8). Vedi anche nota seguente.

180 Ringrazio Adriano Maggiani, che ha messo a mia di-sposizione il suo lavoro sui cinturoni in corso di stampa ‘Un cinturone villanoviano da Volterra’, in cui il nostro esemplare di Montarano è stato inserito nel tipo 3, rappresentato dagli esemplari di Tarquinia (Hencken 1968, p. 183, fig. 169e), Po-pulonia tomba 1 del Poggio del Mulino (F. Fedeli, ‘Populonia. Poggio del Molino e del Telegrafo’, in G. Camporeale (a cura di), L’Etruria mineraria, Catalogo della Mostra, Milano 1985, p. 49, n. 18), Bologna tomba 543 Benacci (Montelius, tav. 74,1), Rieti, Poggio Bustone (L. Ponzi Bonomi, ‘Il cinturone di Poggio Bustone’, in AnnPerugia 22, 1984-85, pp. 79-87) e Fermo, necropoli tomba 31D/1956 (L. Drago Troccoli, ‘Rapporti tra

Fermo e le comunità tirreniche nella prima età del Ferro’, in I Piceni e l’italia medio-adriatica, Pisa-Roma 1999, fig. 43). Anche V. Olivieri, che ha in corso di stampa la sua tesi di dottorato sui cinturoni villanoviani, discussa presso l’Università di Roma La Sapienza, ha inserito il cinturone di Montarano nel suo Gruppo M, insieme agli esemplari di Tarquinia e Fermo. Per il motivo a croci dalmatiche, presente anche sul cinturone della tomba 15/XXVII di Montarano, si cfr. anche l’esemplare dalla tomba 137 di Selciatello di Sopra di fase II B (Hencken 1968, fig. 155).

181 Inv. 3124. Alt. 7; largh. mass. 7,2. Corpo cilindrico da cui si dipartono due branche cilindriche a semicerchio, con estremità piana espansa, con tre forellini. MAL IV, tav. XII, 8; Cozza-Pasqui 1981, p. 48, n. 26.

182 Tomba 15/XXVII, con conocchia a quattro branche, arricchita da intarsi d’ambra: Cozza-Pasqui 1981, p. 44, n. 14; MAL IV, cc. 221-222, 388, fig. 99n, tav. XII, 7; (dove però è riportata come tomba XVIII di Montarano, poiché si è fatto riferimento alla prima numerazione della tomba: concordanza in Cozza-Pasqui 1981, p. 323). Tomba 2/XXIX, con conocchia a due branche, con doppia terminazione per ciascuna di esse: Cozza-Pasqui 1981, p. 26, n. 23; MAL IV, c. 388, tav. XII, 9 (dove però è riportata come tomba XXX di Montarano, poi-ché si è fatto riferimento alla prima numerazione della tomba: concordanza in Cozza-Pasqui 1981, p. 323).

183 Attestate in tre tombe della necropoli della Petrina, la 36/XXVII, di un tipo elaborato, a sei braccia, con lungo stelo, per un totale di 72.5 cm (MAL IV, c. 389; c. 422, n. 8, tav. XII, 12; vedi per le associazioni nota 234); la 19/XX, con conocchia a quattro braccia (MAL IV, c. 388; c. 414, n. 1, tav. XII, 10) e la 14/XXVI, con conocchia a sei braccia a fascia (MAL IV, c. 389; c. 409, n. 11, tav. XII, 11); in quattro tombe del quinto sepolcreto a sud di Pizzo Piede, la 23, con conocchia a sei branche, simile a quella della tomba 14/XXVI della Petrina (MAL IV, c. 504, n. 28; il riferimento alla tav. XII, 11 è solo per confronto; vedi per il corredo nota 236); la 18/XXXIX, con conocchia a due branche (MAL IV, c. 388, tav. XII, 8, con attribuzione errata alla nostra tomba di Montarano; c. 498, n. 8, tav. XII, 8, associata con ornamenti preziosi, tripode e vaso di bronzo); la 15/XLIX, con conocchia a due branche (MAL IV, c. 494, n. 11, ma con errato riferimento alla tav. XII, 7) con fuso (c. 494, n. 12, ma con errato riferimento alla tav. XII, 13), coltello, ornamenti preziosi, vaso in bronzo e ben due holmoi; la 4 (con vaso di bronzo e ornamenti preziosi); in una tomba, la 7, della necropoli di Monte Lo Greco, a due branche (MAL IV, c. 436), con ornamenti preziosi. Per i tipi e la diffusione: Baglione-De Lucia Brolli 1997, pp. 156-157, figg. 8-9 (Petrina); p. 159, fig. 10 (Monte Lo Greco e Monte Li Santi) e p. 170, fig. 18 (Montarano).

184 Guidi 1993, p. 63, fig. 8/7, fase II B1; un esemplare di

nell’Etruria padana (Bologna e Verucchio) e nel Pi-ceno (Fermo), mentre isolati esemplari provengono da altre località del Lazio (Roma, Tivoli, Rieti)179.

Il corpo non molto articolato, la ricca decorazione a sbalzo e soprattutto la presenza di file di bugnette verticali alternate a quelle più grandi, secondo uno schema iconografico e compositivo non partico-larmente diffuso, sembrano accomunare il nostro cinturone ad altri rinvenuti a Tarquinia, a Fermo, Bologna, Populonia, Rieti (Poggio Bustone)180.

Questo oggetto risulta comunque l’elemento di

più antica cronologia, intorno alla metà dell’VIII secolo o poco dopo, presente nella tomba qui presa in esame.

Da quanto si può dedurre dalla pianta, la conoc-chia, del tipo a due branche (fig. 31.a)181, era posta lungo il fianco sinistro della defunta; l’oggetto, attestato sia nella necropoli di Montarano (due esemplari nelle tombe 15/XXVII e 2/XXIX, con corredi molto simili al nostro, come già rilevato)182, sia nelle altre necropoli falische (nove esemplari da Narce)183, sia nelle necropoli veienti dei Quattro

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128 Maria Antonietta Rizzo

Fontanili (Guidi tipo 169184), di Casale del Fosso185 e di Grotta Gramiccia186, oltre che in quella cere-tana del Laghetto187 e in quelle laziali di Osteria dell’Osa (tipo 51b188), di Castel di Decima (tomba 210)189 e di Satricum (tomba XII)190, posto spesso in alternanza al fuso, e talvolta accompagnato da rocchetti o da fuseruole, testimonia ancora una volta come la tessitura, alla quale si attribuiva per tradizione particolare importanza e dignità, concorra in questo momento a sottolineare l’alto status sociale della defunta191. Sempre all’interno del sarcofago sembrano essere stati rinvenuti i tre rocchetti d’impasto (fig. 31.b)192, due del tipo Guidi 2 a e uno del tipo del tipo 1c193.

Più in basso è posizionata, nella planimetria, la ruota in bronzo fuso con innesto (fig.15.b)194, perti-nente secondo la Bietti Sestieri ad un tipo di spillone (o ad utensile?) (Osteria dell’Osa tipo 44d)195, pre-sente in un solo altro corredo falisco196, raramente

attestato a Veio197 e presente in almeno due tombe della necropoli del Laghetto a Cerveteri198.

Nel loculo laterale, secondo un costume diffuso a Falerii, trovavano posto i vasi del corredo (fig. 27), tutti di impasto rosso lucido, tranne due coppe de-corate in white-on red, perfettamente identificabili nel disegno eseguito al momento dello scavo.

L’holmos (fig. 29)199 di piccole dimensioni, costi-tuito da base a campana, con cordoni orizzontali che suddividono la superficie in registri sovrap-posti, decorati con bugne e motivi a triangoli e cerchi realizzati a traforo, bulla centrale ornata da grosse bugne, e campana superiore liscia, può essere riportato al tipo IX A Benedettini200, atte-stato, anche nella variante a due bulle già a partire dall’ultimo quarto dell’VIII secolo201. L’holmos è presente spessissimo in tombe, in genere femminili, dell’agro falisco, e attestato sia in impasto rosso che bruno, sia in red-on-white che in white-on-red202, e

conocchia è presente nella tomba RSg di fase II B1: NSc 1972, p. 384, n. 10, fig. 126; un altro nella tomba G 8-9 di fase II C.

185 Tombe 934 e 952, citate in Buranelli-Drago-Paolini 1997, p. 69, e nota 37 (tipo a due branche).

186 Tomba 744: Berardinetti-Drago1997, p. 60, fig. 31 (del tipo a quattro branche).

187 Due esemplari dalla tomba 2156 del Laghetto scavi Rizzo 1999, del tipo a quattro branche.

188 Osteria dell’Osa, p. 396, tav. 41.189 A. Bedini - F. Cordano, ‘La formazione della città nel

Lazio. Periodo III (770-730-720 a.C.)’, in DialArch 2, 1980, p. 102, n. 56, tav. 20, del III periodo laziale.

190 Waarsenburg 1995, p. 353, n. 12.8, tav. 60.191 Osteria dell’Osa, p. 512 ss.; per Veio, Bartoloni-Berardi-

netti-De Santis-Drago 1997, pp. 96-100.192 Inv. 3125. Lungh 4; diam. 1,7. Inv. 3126. Lungh. 5:

diam. 2,5. Inv. 3127. Lungh. 5,5; diam. 3,4. Il 3126 ha estre-mità bombate; gli altri due piane. MAL IV, tav. XII, 18 (un rocchetto); Cozza-Pasqui 1981, p. 48, n. 28.

193 Tipo 2a: Guidi 1993, p. 20, fig. 21/4; tipo 1c: ibidem, p. 20 fig. 21/3, tutti attestati dalla fase II A alla II C.

194 Inv. 3118. Alt. 2,3; diam. 2,8. In bronzo fuso a forma di ruota e innesto cilindrico, cavo. MAL IV, tav. XII, 15; Cozza-Pasqui 1981, p. 48, n. 27.

195 Osteria dell’Osa, p. 380, tav. 39, attestato in tombe del II periodo (77, 429, 471, 529) e confrontato con un esemplare da Pontecagnano, a otto raggi, di fase IB: B. d’Agostino - P. Gastaldi, Pontecagnano II. La necropoli del Picentino. I. Le tombe della prima età del Ferro, Napoli 1988, tav. 21, tipo 33C.

196 Dalla tomba 2/XLVI del secondo sepolcreto a sud di Pizzo Piede: MAL IV, c.469, n. 17; cfr. tav. XII, 15.

197 Tomba FF 11: NSc 1967, p. 162, n. 7, fig. 47; tomba 377 di Grotta Gramiccia (Berardinetti-Drago 1997, p. 46, fig. 13).

198 Tombe 247 e 381 scavi Lerici.199 Inv. 3084. Alt. 19; diam. 13,5. MAL IV, tav. VII, 7.;

Cozza-Pasqui 1981, p. 48, n. 31, e fig. a p. 49.200 Benedettini 1997, pp. 36 ss, p. 62, fig. 12, IX A.201 In genere realizzati in impasto rosso: es. tomba 17/XXX

di Monte Lo Greco (MAL IV, c. 439, n. 27); tomba 29 della Petrina A (Firenze inv. 74236); tomba 19/XXXIV di Montarano (Cozza-Pasqui 1981, p. 53, n. 24).

202 Ad es. Narce, necropoli della Petrina, solo nelle tombe femminili, 29, 21/XXXI, 14/XXVI, 16/XXIV dove trova posto in genere nel loculo, in tutte associato con ornamenti preziosi (per le specifiche associazioni della tomba 16/XXIV vedi nota 232); nelle tombe maschili 6/XVIII, 4/XLVIII del terzo sepol-creto a sud di Pizzo Piede, nella prima associato con coltello, spiedi e ornamenti preziosi, nella seconda con lancia, spada, ornamenti preziosi e vasi di bronzo; nelle tombe maschili 12, 8/XXXVII, 9, 3 e femminili 15/XLIX e 11 del quinto sepolcreto a sud di Pizzo Piede, associati con lancia, ornamenti preziosi, e con spada e scalpello nella 12, e con spada, pugnale, elementi di carro e morsi, nella 8/XXXVII; nelle tombe maschili 1/XLV, 4/XXXVIII e femminili 2/XLVI del secondo sepolcreto a sud di Pizzo Piede, associato con lancia, elementi di carro, alari e vaso in bronzo (1/XLV), lancia, spada, elementi di carro, or-namenti di pregio, vaso e tripode in bronzo (4/XXXVIII); con forcella, elementi di carro, ornamenti preziosi, ambre figurate, vaso in metallo prezioso, vaso in bronzo (2/XLVI); nelle tombe femminili 17/XXX, 18/XXXII e 5 della necropoli di Monte Lo Greco, associato in tutte con ornamenti preziosi, e nella tomba 18/XXXII con due cinturoni; nelle tombe 8, maschile, e 3 ed 1 femminili della necropoli di Monte Li Santi, nella prima asso-ciato con lancia, rasoio e ornamenti preziosi, nella seconda con fuseruola, rocchetto, coltello, vaso bronzeo e ornamenti preziosi.

Esemplari in impasto rosso sono attestati in altre sei deposi-zioni della necropoli di Montarano (oltre la nostra, inspiegabil-mente non segnalata nella tabella di distribuzione di Baglione-De Lucia Brolli 1997, fig. 17, quattro tombe femminili e una maschile, 41/XXXIX, 40 Brizio-Bologna, 19/XXXIV, 6/XXXVI doppia) e, in almeno ventitre a Narce: in quattro tombe fem-minili del sepolcreto A della Petrina (29, 18/XXIII, 14/XXVI, 16/XXIV); in due tombe del sepolcreto C sempre della Petrina (una maschile, la 2/XLVII, e una femminile, la 1/XXVIII); in due tombe femminili della necropoli di Monte Lo Greco (la 17/XXX e la 5); in otto tombe della necropoli di Monte Li

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129I sigilli del Gruppo del Suonatore di lira in Etruria e nell’agro falisco

ricorre spesso anche in tombe laziali203. La presenza dell’holmos è particolarmente significativa nelle tombe con loculo laterale dell’area falisca: a Narce il 60% degli holmoi sono stati rinvenuti in tombe di questo tipo ed ancora maggiore (il 72%) è la loro frequenza a Faleri204.

La planimetria eseguita al momento dello scavo ci consente di identificare la posizione precisa dell’hol-mos rispetto alla defunta e la conseguente ripartizio-ne funzionale dei vasi di accompagno, potori e per mescere che formano un servizio standardizzato ed enucleato rispetto al resto del corredo, e a cui sono riservati spazi di pertinenza precisi.

Lo studio delle associazioni vascolari fatta per i corredi falisci e laziali di facies tardo-villanoviana e proto-orientalizzante e l’analisi dei fattori ideologici che si individuano nell’holmos evidenziano senza dubbio la sua appartenenza a servizi potori dedicati all’ostentazione e al consumo del vino205.

All’holmos si accompagnano infatti nella tomba

di Falerii un’olla, un poculum, sei coppe, un’anfora ed un’oinochoe. L’olla (fig. 28)206, in origine su piede, è di un tipo piuttosto comune nella necro-poli di Montarano, dove però si presenta più spesso apoda207. Il poculum (fig. 31.c)208 trova confronto soprattutto in esemplari ceretani già in tombe dell’età del Ferro, anche se il tipo va affermandosi in contesti soprattutto di età orientalizzante209. Delle tre coppe di impasto rosso, due (di cui una su piede) sono costolate (fig. 31.e,h)210, ed hanno i loro diretti referenti in quelle metalliche, ben at-testate del resto proprio nell’agro falisco211, mentre la terza, su piede e con anse ad anello (fig. 31.d)212, appartiene ad una forma piuttosto rara, attestata in un esemplare dalla tomba VI di Poggio Buco213.

Anche la coppa emisferica con orlo espanso de-corato a bugnette (fig. 31.f )214, che trova diretto confronto in pochissimi altri esemplari delle ne-cropoli falische215, imita nella decorazione modelli metallici, secondo un uso attestato anche in altre

Santi (due tombe femminili, la 1 e la 18 e una tomba maschile, la 8, più altre cinque tombe degli scavi Mengarelli: Baglione-De Lucia Brolli 1997, fig. 12, con qualche incongruenza tra le presenze degli holmoi a fig. 10 e quelle a fig. 12; risultano illeggibili inoltre i numeri delle tombe di quest’ultimo scavo a fig. 12e); in cinque tombe del quinto sepolcreto a sud di Pizzo Piede (tombe 8, maschile, 15, femminile, e 2, 14, 19 di sesso indeterminabile); in una tomba maschile, la 4, del secondo se-polcreto a sud di Pizzo Piede; per tutte le tombe citate di Pizzo Piede: Baglione-De Lucia Brolli 1997, fig. 13.

203 Es. tomba femminile XII del tumulo C di Satricum del periodo IV A: Waarsenburg 1995, p. 352, n. 12.1, tav. 60 (senza bulla, con la campana divisa in due settori con triangoli); un altro esemplare anche dalla tomba V, maschile: Waarsenburg 1995, p. 94, n. 5.1, tav. 17, della metà del VII secolo (più slanciato nella campana, con risega, bulle e due file di triangoli).

204 Si vedano i dati statistici forniti dalla Benedettini 1997, pp. 42 ss.

205 M. Gras, ‘Cantare, société étrusque et monde grec’, in Opus 3, 1984, p. 325 ss. e bibl. ivi riportata; A. Siegfried, ‘Ein Holmos mit Greifenprotomenlebes: zur Frage des Verhältnisses zwischen Calefattoi und Holmoi’, in Italian Iron Age Artifacts in the British Museum, London 1986, p. 250; A. Bedini, ‘L’in-sediamento di Laurentina Acqua Acetosa’, in Roma. Mille anni di civiltà, Verona 1992, p. 83; F. Sirano, ‘Il sostegno bronzeo della tomba 104 del fondo Artiaco di Cuma e il problema dell’origine dell’holmos’, in Studi sulla Campania preromana, Roma 1995, p. 32, e nota 145 con bibl. ivi riportata; Benedet-tini 1997, pp. 55 ss.

206 Inv. 3083. Alt. Mass. 11; diam. orlo 11,2; diam. mass. 14. Priva del piede. Corpo sferico compresso, breve collo con orlo espanso. Cozza-Pasqui 1981, p. 48, n. 30.; gli autori fanno l’ipotesi si trattasse di olla su alto piede, poi rotto: cfr. MAL IV, c. 247, fig. 108.

207 In altre tre tombe femminili, la 40 Brizio-Bologna, la

21 Milani E, la 6/XXXVI, in due maschili, la 5/XXXVIII e la seconda fossa della 6/XXXVI, e in una non determinata, la seconda fossa della 21 Milani E; in tre tombe risulta associata con l’holmos: Baglione-De Lucia Brolli 1997, fig. 17.

208 Inv. 3092. Alt. 13,5; diam. orlo 15,2; diam. mass. 18,5. Corpo troncoconico appena convesso, orlo concavo decorato con tre linee impresse. MAL IV, c. 259, fig. 123; Cozza-Pasqui 1981, p. 49, n. 39, e fig. a p. 49.

209 Laghetto, tomba 381.210 Inv. 3090. Alt. 10; diam. orlo 22; diam. mass. 26,2.

Superficie abrasa in più punti. Vasca troncoconica con co-stolature verticali, carena alla spalla, orlo rientrante decorato con due solcature, anse a rocchetto, di cui una forata, piede basso a tromba. Cozza-Pasqui 1981, p. 49, n. 38, e fig. a p. 49. Inv. 3091. Alt. 6,5; diam. orlo 15,6. Ricomposta da frammenti e con alcune scheggiature. Vasca troncoconica con costolature verticali, che proseguono fin sul collo, carena alla spalla, orlo verticale rientrante decorato con una solcatura, anse a rocchetto piene. MAL IV, tav. VII, 8.; Cozza-Pasqui 1981, p. 49, n. 37, e fig. a p. 49.

211 Ad es. tombe 36/XXVII e 4/XXXIV della necropoli della Petrina a Narce: MAL IV, c. 423, n. 13; 202, fig. 88; ibidem, c. 404, n. 10; c. 202, fig. 88.

212 Inv. 3089. Alt. 7; diam. orlo 13,7. Vasca emisferica, breve collo con orlo espanso, piccole anse verticali ad anello, piede troncoconico. MAL IV, tav. VII, 9; Cozza-Pasqui 1981, p. 49, n. 36, e fig. a p. 49.

213 Bartoloni 1972, p. 68, n. 11, fig. 32, tav. XXX d.214 Inv. 3087. Alt. 6; diam. orlo 13. Corpo emisferico, apoda,

con orlo espanso orizzontale decorato con bugnette due fori per la sospensione. Cozza-Pasqui 1981, pp. 48-49, n. 35, e fig. a p. 49.

215 Necropoli della Petrina A tomba 29 (MAL IV, c. 418, n. 17); necropoli di Montarano, tomba 2/XXIX (Cozza-Pasqui, p. 26, n. 29; cfr. tav. VIII, 14).

216 Tomba 2/XXIX, coppa su piede: Cozza-Pasqui 1981, p.

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130 Maria Antonietta Rizzo

forme presenti in corredi falisci216, oltre che laziali (Fidene, Crustumerium, Osteria dell’Osa)217, so-prattutto della prima metà del VII secolo.

L’anfora con collo cordonato (fig. 31.i)218 appar-tiene ad una forma alquanto rara, che deriva dalle brocchette con corpo emisferico schiacciato ed orlo con solchi orizzontali, con decorazione però dipin-ta, attestate soprattutto a Veio219, mentre l’oinochoe con lungo collo, già avvicinabile al tipo qutum (fig. 31.l)220, è nota nelle necropoli falische221, oltre che in numerose tombe di Cerveteri, dove risulta diffusa dall’età tardo villanoviana e per gran parte del VII secolo, città che ne fu il principale, se non l’unico, centro di produzione222, mentre non mancano presenze a Tarquinia223.

Le due coppe emisferiche, di un tipo diffuso anche in impasto rosso o bruno224, nel nostro caso decorate nella tecnica white-on-red con doppia fila

di triangoli riempiti a punti (fig. 31.g)225, rientrano nel tipo A della Micozzi, attestato da pochissimi esemplari e tutti dall’agro falisco: una con zig-zag sotto l’orlo e linee orizzontali dalla tomba XI di Narce a Chicago226 e due con “reticolato e cerchi concentrici” dalla tomba 50 della necropoli di Monte Lo Greco a Narce, attualmente disperse227.

Perduti risultano un “vaso di rame” e un lebete, forse del tipo ad orlo perlato, che potrebbero con-fermare una datazione tra la fine dell’VIII e l’inizio del VII secolo. Da notare la presenza anche di due spiedi in ferro con occhiello228.

La tomba, in base all’analisi del corredo, potrebbe trovare una sua collocazione cronologica tra la fine dell’VIII e l’inizio del VII secolo, insieme ad altre tombe della necropoli di Montarano (tomba 2/XXIX229, tomba 15/XXVII230) e delle necropoli di Narce (necropoli della Petrina A, tomba 15/XXII231,

26, n. 29. Tomba XIX, calice: Davidson 1972, p. 19, n. 8. Tomba 30/XXV, piattello su piede: MAL IV, c. 420, n. 30, cfr. con forma metallica rappresentata a tav. VIII, 10, pertinente alla tomba 36/XXVII della necropoli della Petrina A (MAL IV, c. 423, n. 16).

217 Di Gennaro 1988, p. 116, nota 23, ove sono ricordati anche i bacini falisci delle tombe 17/XXVI e 2/XXIX di Mon-tarano; Osteria dell’Osa forma 107 var. 1c (Osteria dell’Osa, tav. 32), su piede.

218 Inv. 3088. Alt. 13,5; diam. orlo 6,8; diam. mass. 12. Priva di parte di un’ansa. Corpo sferico schiacciato, decorato con cordonature verticali con decorazione a cordicella, collo cilin-drico con tre linee impresse, orlo espanso piano; anse a nastro pizzicate sul punto di massima espansione. MAL IV, tav. VII, 10; Cozza-Pasqui 1981, p. 49, n. 40, e fig. a p. 49.

219 Es. dalla ricca tomba di guerriero EE 10 B: NSc 1967, p. 138, n. 3, fig. 28. Nella necropoli di Montarano l’anfora è una forma molto poco attestata, nella tomba femminile 34/XXV e nella tomba 32/XVIII, in cui non è possibile distinguere il sesso del defunto, Baglione-De Lucia Brolli 1997, fig. 17.

220 Inv. 3085. Alt. 18, diam. mass. 12. Corpo sferico, assot-tigliato verso il fondo, alto collo con becco ad uccello, ansa a nastro. Cozza-Pasqui 1981, p. 48, n. 32, e fig. a p. 49.

221 Secondo sepolcreto a sud di Pizzo Piede, tomba 2/XLVI: MAL IV, c. 248, fig. 111, tav. VII, 13. Necropoli di Monta-rano, tomba 10/XXXI: Cozza-Pasqui 1981, p. 38, n. 40, fig. a p. 37, n. 4.

222 G. Colonna, ‘Nomi etruschi di vasi’, in ArchCl 25-26, 1973-74, p. 140, n. 3, tav. XXXV; Gli Etruschi di Cerveteri, Modena 1986, pp. 54, nn. 10-11 con cfr.; REE 1963, p. 206 s., n. 3, tav. XXXIV c; Musei Civici di Padova. Museo archeologico, raccolta etrusca, Padova 1987, p. 25, n. 2; M. Martelli, ‘Del Pittore di Amsterdam e di un episodio del nostos odissaico. Ricerche di ceramografia etrusca orientalizzante’, in Prospettiva 50, 1987, pp. 4 ss., in part. p. 11, fig. 26; A. Coen, Complessi tombali di Cerveteri con urne cinerarie tardo-orientalizzanti, Firenze 1991, p. 70 con bibl. e rif.

223 F. Buranelli, La necropoli villanoviana “Le Rose” di Tar-quinia, Roma 1983, pp. 67, n. 2, fig. 67, 2, 100, tipo n. 4

(tomba LIX).224 Ad esempio quattro esemplari dalla tomba a fossa con

loculo 22/XL della necropoli del Cavone di Monte Li Santi a Narce (MAL IV, c. 249, fig. 112; c. 462).

225 Inv. 3086b. Alt. 6; diam. orlo 9,3. Corpo emisferico, orlo rientrante, apoda; decorata con vernice bianca con due file di triangoli sovrapposti, con i vertici in alto e riempiti con punti, separate da una linea orizzontale. Inv. 3086 a. Alt. 6,5; diam. orlo 9,5. Corpo emisferico, orlo rientrante, apoda; decorata con vernice bianca con fila di rombi riempiti con punti, e compresa tra due linee orizzontali. Cozza-Pasqui 1981, p. 48, nn. 33-34, fig. a p. 49; Micozzi 1994, p. 290, nn. 68-69.

226 Micozzi 1994, n. 67.227 Micozzi 1994, nn. 70-71. Si possono confrontare anche

con esemplari italo-geometrici da Tarquinia: es. CVA Tarquinia III, p. 52, tav. 38, 10 (con triangoli sotto l’orlo).

228 I pezzi non sono reperibili. La loro esistenza è documentata in Cozza-Pasqui 1981, p. 48, n. 29. Lungh. 66. Cfr. MAL IV, tav. XII, 24.

229 Tomba femminile 2/XXIX (Cozza-Pasqui 1981, pp. 24-26) con numerose fibule con arco rivestito di dischi di ambra e di osso (n. 5) e a navicella con insersioni di bottoncini di ambra (nn. 7-8), un cinturone a losanga (n. 23), una conocchia (n. 23), e tra la ceramica, una coppa emisferica con bugnette, sull’orlo (n. 29; cfr. tav. VIII, 14).

230 Tomba femminile 15/XXVII (XVIII nella prima nu-merazione riportata in MAL IV, cc. 219-221, fig. 99, e così ancora in Hölbl 1979) (Cozza-Pasqui 1981, c. 44), con un ricco corredo comprendente, tra l’altro, una fibula d’oro (nn. 2-3), un’altra con arco rivestito in pasta vitrea (fig. 99t; cfr. tav. X, 19; Cozza-Pasqui, n. 9), vaghi del tipo ad occhi (n. 1a-b), quattro figurine di Nefertem in faïence (fig. 99q, una in tav. IX, 52; Hölbl 1979, II, p. 92, nn. 437-440), laminette in bronzo tagliate a svastica (fig. 99v; Cozza-Pasqui 1981, n. 11), un cinturone a losanga (fig. 99z; Cozza-Pasqui 1981, n. 13), una conocchia (fig. 99n, tav. XII, 7; Cozza-Pasqui 1981, n. 14), vasellame e sostegni in bronzo (fig. 99a-d).

231 Tomba femminile 15/XXII (MAL IV, cc. 409-410), con ricco corredo in cui si segnalano oggetti pertinenti ad orna-

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131I sigilli del Gruppo del Suonatore di lira in Etruria e nell’agro falisco

tomba 16/XXIV232, tomba 30/XXV233, tomba 36/XXVII234; necropoli di Monte Lo Greco, tomba 18/XXXII 235, tomba 23 del quinto sepolcreto a sud di Pizzo Piede236), con la stessa struttura architettonica, e che presentano analoghe tipologie e associazioni di materiali senza però raggiungere la ricchezza della nostra.

È interessante comunque notare che il sigillo del Gruppo del Suonatore di Lira compaia ancora una volta in una tomba femminile, di rango vista la ricchezza della sepoltura, accolto come un amuleto esotico (insieme agli altri due sigilli in faïence e con i pendagli di Bes), ed accompagnato, non casualmen-te, da altri oggetti di ornamento personale, come le bulle di lamina d’oro e le Vogelperlen, che conoscono una grande diffusione soprattutto a Rodi.

Importante, sebbene piuttosto problematico, an-che l’ultimo contesto dal quale proviene un sigillo del

Gruppo del Suonatore di Lira, quello di Vetulonia.Non lontano dal tumulo di Castelvecchio fu

individuata, a circa m. 8,60 a nord del limite del tamburo, una fossa (m. 4,40x5 circa) che risultava però ampiamente manomessa, anche se il sigillo, insieme a vasellame bronzeo e altri materiali cera-mici, oltre che a numerosi oggetti di ornamento personale, è stato rinvenuto su una banchina evidentemente sfuggita al saccheggio237. Al di là dell’interpretazione della fossa e della sua relazione con il tumulo – tenendo conto che al momento dello scavo non furono individuati resti di ossa e che non è stato possibile determinare se si trattasse di cremazioni o di inumazioni – resta comunque in-dubbio che i materiali rinvenuti nella loro posizione originaria su questa banchina sembrano pertinenti, in base alla tipologia degli ornamenti personali, ad una sepoltura femminile, di cui ancora una volta è evidenziato il ruolo della donna come tessitrice

mento personale, tra cui: spirali in bronzo (n. 1, tav. X, 30), fibule a navicella con intarsi in ambra (n. 3; cfr. tav. X, 15), cilindretti fusiformi e pendaglietti in ambra (nn. 5a, b) e una scimmietta (n. 5d; cfr. tav. IX, 21), vaghi ad occhi, anellini in faïence e una Vogelperle (nn. 6a-c), frammenti di statuina di Sachmet (?) in faïence (n. 6d; cfr. tav. IX, 54; Hölbl 1979, II, p. 82, n. 382), quattro lamine bronzee tagliate a scala (n. 8; una raffigurata a tav. IX, 9); presente anche l’holmos.

232 Tomba femminile 16/XXIV (MAL IV, cc. 411-412), del cui ricco corredo si segnalano: fibule con arco rivestito di dischi di ambra e osso (n. 3) e solo ambra (n. 2; cfr. tav. X, 16), due fibule ad arco configurato con volatili (n. 4, con errato riferimento a tav. X, 8), due fibule con arco ricoperto da filo d’oro ritorto (nn. 8-10), due scarabei in ambra, del tipo attestato a Vetulonia (n. 11a, tav. IX, 23), pendaglietti in ambra a mandorla (n. 11b-c, cfr. tav. IX, 20), pendaglietto ad ascia (n. 11d, tav. IX, 16) e a scimmietta seduta (n. 11e, cfr. tav. IX, 21), vaghi del tipo ad occhi (n. 12), quattro pendagli in faïence di cui uno di Bes (n. 12; cfr. tav. IX, 51, non compreso in Hölbl 1979), un cinturone a fascia (n. 18, tav. X, 27), lastrine pertinenti a fermagli di collana in avorio (n. 13bis, tav. IX, 18); presente un holmos.

233 Tomba femminile 30/XXV (MAL IV, cc. 419-420) da cui si segnalano: spirali in filo d’argento (n. 1; cfr. tav. X, 28), due fibule a sanguisuga riccamente decorate (nn. 6-7; cfr. tav. IX, 42), cinque fibule con dischi d’ambra (nn. 8-10; cfr. tav. X, 16), un pettine di bronzo di forma pentagonale (n. 13a, tav. IX, 55), laminette bronzee a svastica e quadrate con punti a sbalzo (nn. 14-15, tavv. IX, 7; IX, 6), un fuso (n. 17; cfr. tav. XII, 13), due spiedi (n. 18, tav. XII, 24), vasellame di bronzo, tra cui un sostegno (n. 19, tav. VIII, 3), un bacile ad orlo perlato (n. 21; cfr. tav. VIII, 14), e, tra le ceramiche, un piattello con orlo a bugnette (n. 30; cfr. tav. X,8), tre coppe emisferiche con decorazione a greca sotto l’orlo (n. 29; cfr. fig. 112).

234 Tomba femminile 36/XXVII (MAL IV, cc. 422-423), con ricco corredo di cui si segnalano: spirali in filo d’argento (n. 1; cfr. tav. X, 28), due grandi fibule in bronzo con decorazione incisa (n. 3; cfr. tav. X, 12), due figurine di Sachmet in faïence (n. 2, tav. IX, 54; Hölbl 1979, II, pp. 81-82, nn. 380-381), un

cinturone (n. 7; cfr. tav. X, 31), una conocchia (n. 8, tav. XII, 12), un cucchiaio in bronzo (n. 10, tav. XII, 22), una piastra in bronzo a croce (pettorale) (n. 9, tav. XII, 20), vasellame in bronzo (nn. 12-15, figg. 96, 95, 88; cfr. tav. VIII, 13).

235 Tomba femminile 18/XXXII (MAL IV, cc. 440-443), con corredo di grande ricchezza, tra cui si segnalano: elaborate fibule in ambra cui sono appese armille (n. 1, tav. X, 16), o pendagli bronzei trapezoidali (n. 2; cfr. IX, 59), catene di fibule infilate l’una nell’altra (n. 4, tavv. X, 20, 22), fibule con arco rivestito di filo d’oro ritorto (n. 7), pendagli a bulla in oro con cerchielli concentrici e a rosetta (n. 9; cfr. tav. IX, 1; n. 25, cfr. tav. IX, 3), pendaglietti in oro a figura umana (n. 26, tav. IX, 25), ambre, tra cui vaghi affusolati (n. 10; cfr. tav. IX, 20), una figurina nuda (n. 10; cfr. tav. IX, 22), un pendaglietto a scimmia (n. 10, tav. IX, 21), nove statuette in faïence, tra cui due di Bes, una di Ptah, sei di Pateco, più due sigilli rotondi (n. 11c, tav. IX, 51 e 53; Hölbl 1979, II, pp. 84-85, nn. 394-395, 379, 398-403; 435-436), fermagli di collana in avorio (n. 12, tav. IX, 11), ben due cinturoni a losanga (n. 13; cfr. tav. X, 31, e n. 28), un elemento di telaio (n. 15, fig. 180, tav. XII, 19), un fuso (n. 16, tav. XII, 13), un pettine in bronzo (n. 17; cfr. tav. IX, 55), vasellame bronzeo (nn. 29-30, fig. 97, tav. VIII, 2,4). È presente anche un holmos decorato in red-on-white (n. 30, tav. VII, 21).

236 Tomba femminile 23 (MAL IV, cc. 503-504): con due fibule ad arco configurato ad uccelli (n. 4; cfr. tav. X, 8), tre Vogelperlen (n. 9), una figurina in faïence (n. 10; Hölbl 1979, II, pp. 89-90, n. 422), due pendaglietti in ambra a forma di scimmia (nn. 11-12; cfr. tav. IX, 21), sei pendaglietti di ambra a fuso (n. 13), un pendaglio con dente di cinghiale (n. 22), uno scarabeo in faïence (n. 13; non riportato in Hölbl 1979), un cinturone di forma non determinabile (n. 23), una conocchia (n. 28; cfr. tav. XII, 11) oltre che vasellame in bronzo.

237 Camporeale 1966, pp. 28 ss.; alla banchina sono perti-nenti gli oggetti della lista D, pp. 34 ss., nn. 48-187; Martelli 1991, pp. 1057-1058 (con proposta di datazione a inizi VII); D. Ridgway, ‘Archaeology in Central Italy and Etruria 1962-1967’, in ArchRep 1967-68, p. 44.

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132 Maria Antonietta Rizzo

238 Camporeale 1966, p. 41, n. 166, fig. 30c; Boardman-Buchner 1966, p. 26, n. 43bis; Camporeale 1969, p. 100, tav. XXXIV, 8; Maggiani 1973, p. 92; Hölbl 1979, II, p. 126, n. 525; Principi etruschi, p. 158, n. 106; Giovanelli 2008.

239 Boardman-Buchner 1966, n. 23, fig. 21; Pithekoussai I, p. 622, n. 1, del TG I di bambino.

240 Boardman 1990, nn. 132ter, e 126bis, fig. 22.241 Boardman-Buchner 1966, n. 84, fig. 39.242 Boardman-Buchner 1966, n. 145.243 Boardman-Buchner 1966, n. 62; Porada 1956, fig. 41.244 Boardman-Buchner 1966, n. 73; Porada 1956, fig. 42.245 Boardman-Buchner 1966, n. 40.246 Boardman-Buchner 1966, p. 54; Hölbl 1979, I, pp.

222-223.247 Camporeale 1966, p. 41, nn. 162-164, fig. 32b-d, f-h;

Camporeale 1969, p. 99, tav. XXXIV, 10-12 (Nefertem), p. 99, tav. XXXIV, 9 (Pateco); Hölbl 1979, p. 117, nn. 502-504, tav. 41, 2-4; e pp. 118-119, n. 509, tav. 54, 1.

248 Vedi note 90, 92.249 Vedi nota 90.250 Camporeale 1966, p. 40, nn. 158-160, figg. 21b, 31, 6c

(in ambra); p. 41, n. 161, fig. 21c (ambra e pasta vitrea). Per il pendaglietto a forma di scimmia dal circolo dei Monili: D.

Massaro, ‘Le ambre di Vetulonia’, in StEtr 17, 1943, p. 42, n. 28, tav. IV, 23a-b; I. Falchi, in NSc 1885, p. 102, tav. VII, fig. 4. Per lo scaraboide: due dalla terza fossa del secondo circolo delle Pellicce (inv. 6969-6970) e uno dal circolo del Tridente (inv. 7321). Si cfr. anche l’esemplare, ma in ambra, dalla tomba 16/XXIV sel sepolcreto della Petrina A: MAL IV, c. 383, 412, n. 11 a, tav. IX, 23, in cui ricorre anche un pendaglietto a forma di scimmia (cfr. tav. IX, fig. 21).

251 Camporeale 1966, p. 37, nn. 68-72, fig. 22b.252 Camporeale 1966, p. 40, nn. 155-157, fig. 29e.253 Camporeale 1966, p. 40, n. 149, fig. 30a-b.254 Montelius, II, tav. 182,1 (circolo dei Monili); Falchi 1891,

p. 106 (Circolo di Bes); sugli spilloni di Vetulonia: G. Karo, ‘Le oreficerie di Vetulonia. Parte prima’, in Studi e materiali di archeologia e numismatica I, 1899-1901, pp. 266 ss.

255 Camporeale 1966, pp. 38-39, nn. 82-83, fig. 24a-b; nn. 84-85; nn. 86-106 (non illustrate). Per le fibule si è riportata la classificazione di Sundwall usata dall’editore della tomba.

256 Camporeale 1966, p. 39, nn. 107-108, fig. 25a; nn. 109-112; nn. 113-115, fig. 26a-b; nn. 116-119.

257 Camporeale 1966, p. 39, nn. 120-125, fig. 22a.258 Camporeale 1966, p. 39, nn. 126-127, fig. 25b-c; nn.

128-129, fig. 2a-b.

come attesta la presenza di una fuseruola e di ben 43 rocchetti.

Del corredo, in parte illustrato nella prima edi-zione della tomba, risultano far parte molti vasi in bronzo e oggetti di ornamento personale (fibule, fermatrecce, armille in oro, elettro e bronzo, colla-ne in ambra), anche importati (collane, pendagli, statuette in faïence e un sigillo del Gruppo del Suonatore di Lira).

Il sigillo del Suonatore di Lira (fig. 32)238 presenta un grande uccello dalle ali spiegate, un falcone, al di sopra del quale è un disco solare alato, mentre sulla sinistra è un motivo a stella; il motivo icono-grafico riporta al tipo Boardman-Buchner 1966, n. 23, presente su un sigillo della tomba 622 di Pithekoussai239, su due da Cipro, di cui uno da Haghia Irini240, su uno da Samos241, e su uno di pro-venienza sconosciuta, acquistato forse in Cilicia242, i quali sono però arricchiti di due palmette ai lati del disco solare; il sigillo dal santuario di Arthemis Orthia243 invece mantiene le due palmette, ma non il disco solare.

Varianti del tipo si hanno su un sigillo da Creta244, con due piccoli volatili che prendono il posto delle palmette sulle ali del falcone, e sul sigillo dall’Etru-ria alla Bibliothèque Nationale di Parigi245, con una più articolata scena, quasi disposta su due registri diversi, su cui torneremo a breve.

Si tratta comunque del ben noto motivo del falcone egiziano, secondo un’iconografia ampia-mente ripresa, così come tanti altri motivi egiziani,

nell’arte fenicia e del Vicino Oriente246.Tra gli oggetti di importazione rinvenuti nella

fossa, tre figurine in faïence di Nefertem e una di Pateco247 dei soliti tipi già sopra ricordati a propo-sito degli esemplari di Veio e dell’agro falisco248; da segnalare anche le collane con dischetti in pasta vitrea e ambra, variamente ricomposte dagli scava-tori, dei tipi già esaminati nella tomba 17/XXVI di Falerii249, cui sembrano pertinenti un pendaglietto a forma di scimmia in ambra e uno “scaraboide” in faïence decorato soltanto con semplici striature sul dorso, di un tipo piuttosto raro attestato in al-tre due tombe di Vetulonia e in una di Narce, (in quest’ultima in ambra)250.

Tra gli oggetti pertinenti all’ornamento personale sono presenti almeno tre armille a capi sovrapposti (fig. 36.b)251, tre fermatrecce in elettro252, uno spil-lone con capocchia circolare decorato a granulazio-ne in oro (fig. 33)253, che si colloca come uno degli oggetti più tardi del corredo, di una foggia attestata anche nel Circolo dei Monili e nel Circolo di Bes254 e moltissime fibule, per le quali preferisco mantene-re, non avendone potuto fare un esame autoptico, la classificazione proposta dal primo editore: ventidue fibule a sanguisuga di bronzo, di cui due di grandi e venti di medie e piccole dimensioni, e tre di elettro, di forma Sundwall G IIba255, tredici fibule ad arco ingrossato di forma Sundwall B IIab (fig. 36.c)256, sei fibule a sanguisuga di forma Sundwall F Iaa (fig. 36.a)257, quattro fibule a navicella di forma Sundwall F Ib (fig. 36.d, e, f, h)258, due fibule ad

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133I sigilli del Gruppo del Suonatore di lira in Etruria e nell’agro falisco

a b

c

d

f

h

g

e

Fig. 32 Fig. 33

Fig. 34 Fig. 35Fig. 36

Figg. 32-36. Vetulonia. Fossa di Castelvecchio: Fig. 32. Sigillo del Gruppo del Suonatore di Lira (scala 3:1). Fig. 33. Spil-lone in oro (da NSc 1966, p. 42, fig. 30). Fig. 34. Oinochoe di fabbrica fenicia (?) (da NSc 1966, p. 45, fig. 33). Fig. 35. Reggivasi in bronzo (da NSc 1966, p. 37, fig. 20). Fig. 36.a-b. Fibula ed armilla in bronzo (da NSc 1966, p. 38, fig. 22). Fig. 36.c-d-e. Fibule in bronzo (da NSc 1966, p. 40, fig. 25). Fig. 36.f-g-h. Fibule in bronzo e ad arco rivestito da dischi in ambra (NSc 1966, p. 41, figg. 27-28).

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259 Camporeale 1966, p. 39, nn. 130-131, fig. 28.260 Camporeale 1966, p. 37, n. 65, fig. 21a. Montelius, II,

tavv. 183,9; 190,1; 197,7; 198,11.261 Camporeale 1966, p. 38, n. 80, fig. 19e.262 Camporeale 1966, p. 35-35, nn. 48-53, figg. 16-17. Si cfr.

gli esemplari presentati in StEtr 23, 1954, p. 174 (variante A2).263 Camporeale 1966, pp. 36-37, nn. 54-61, fig. 18.264 Camporeale 1966, p. 37, n. 64, fig. 20. F. Messerschmiedt,

‘Die Kandelabern von Vetulonia’, in StEtr 5, 1931, p. 71 ss. (i reggivasi delle tavv. 5-6 sono tutti da Vetulonia), ma altri esemplari provengono da Marsiliana e Vulci. A Vulci, nella tomba del Carro, datata intorno al 680-670 a.C., è stato rin-venuto un reggivasi cui era appeso un aryballos rodio cretese (A.M. Sgubini Moretti, ‘La tomba del Carro di bronzo, Vulci’, in Etruschi 2000, p. 568-570, n. 42; M. Martelli, ‘La ceramica greco-orientale in Etruria’, in Les Céramiques de la Grèce de l’est et leur diffusion en Occident, Paris-Naples 1978, p. 153, n. 10).

265 Per Quattro Fontanili: Guidi 1993, pp. 87 e 117 ss.; per Grotta Gramiccia: Berardinetti-Drago 1997, p. 54. Per Osteria dell’Osa: Osteria dell’Osa, pp. 400 s.

266 Cfr. CVA Firenze 1, IV B k-l, tav. 14,3; 8-10; 12; 14-15; 23.267 Camporeale 1966, p. 41-42, nn. 168-169, figg. 34a, 35a;

nn. 170-175, fig. 34c, di cui una appesa al reggivasi. Si ricordano anche altri “frammenti di tazze”, nn. 176-181.

268 Camporeale 1966, p. 43, n. 186, fig. 37a; n. 187, fig. 37b;

Camporeale 1969, p. 112, tav. XLIII, 2.269 Camporeale 1966, p. 41, n. 167.270 M.W. Prausnitz, ‘Die Nekropolen von Akhziv und die

Entwicklung der Keramik vom 10. bis zum 7. Jahrhundert v. Chr. in Akhziv, Samaria und Ashdod’, in Phönizier im Westen, pp. 39 ss., in particolare oinochoe a bocca trilobata tipo 729 di Akhziv, p. 43, fig. 4b; M.W. Prausnitz, ‘Red-polished and Black-on-Red wares at Akhziv and Cyprus in the Early - Middle Iron Age’, in Praktika tou protou diethnous Kyprologikou Synedriou, Nicosia 1969, Nicosia 1972, pp. 151-156. Per esemplari dalle necropoli fenicie di Chaldaea e Joya, in Libano: S.V. Chapman, “A Catalogue of Iron Age Pottery from Cemeteries of Khirbet Silm, Joya, Qrayé and Qasmieh of South Lebanon”, in Berythus 21, 1972, p. 88, fig. 10, n. 171; R. Saidah, “Fouilles de Khaldé. Rapport préliminaire sur le premiere et dexième campagnes 1961-62”, in Bull. Mus. Beyrouth 19, 1966, p. 73, n. 41. Da confrontare con altri esemplari rinvenuti nella stipe dell’Athe-naion di Jalysos (inediti; ad es. inv. 5203).

271 Non giustificata appare una datazione alla fine del VII-inizi VI proposta dal primo editore (Camporeale 1966, p. 51), e già messa in discussione in Martelli 1991, p. 1038, nota 30.

272 Boardman-Buchner 1966, nn. 40, 41, 42; Boardman 1990, n. 40bis.

273 Rizzo 2007, nn. 11, 13, figg. 48-49, 53-55 e riferimenti a pp. 54-58.

arco rivestito di dischi di ambra di forma Sundwall F II b (fig. 36.g)259.

Da segnalare inoltre una triplice catenella con pendaglietti con ocherelle alle estremità260, una piastra circolare con decorazione ad archetti261 di incerta destinazione, e, tra il vasellame metallico anse di situle frammentarie di bronzo martellate262, alcuni vasi frammentari tra cui una coppa umbilicata emisferica263, un reggivasi con cinque coppie di ganci (fig. 35)264.

Oltre alla presenza di due spiedi integri, peraltro at-testati in contesti tombali spesso indipendentemente dal sesso e dall’età del defunto265, tra le ceramiche si segnalano due kantharoi266, sei kyathoi, una ciotola e una coppetta su piede267 di impasto buccheroide di tipi ben noti a Vetulonia e, più rari, un kantharos e una coppa di impasto con tracce di decorazione applicata268, tutti inquadrabili entro il primo quarto del VII secolo.

Ma di particolare interesse l’occorrenza di una pic-cola oinochoe trilobata (fig. 34)269, rinvenuta appesa al reggivasi, di una forma assolutamente estranea al repertorio ceramico etrusco di questo periodo, e che la documentazione fornita dall’editore, oltre che il tipo di vernice rossa con decorazione a linee nere sovraddipinte, mi porterebbe ad attribuire a fabbrica vicino orientale, probabilmente fenicia (cfr. Black-on-red III di VIII-VII sec. a.C.)270.

In ogni caso l’esame complessivo dei materiali

presentati consente una datazione intorno all’inizio del VII secolo o poco dopo271.

Ancora una volta da notare la ricorrenza in una deposizione femminile di un sigillo del Suonatore di Lira, accompagnato da oggetti di produzione rodia o levantina (pendagli in faïence, oinochoe di probabile fattura fenicia).

Pochi accenni sugli altri sigilli del Gruppo del Suonatore di Lira rinvenuti in Etruria, per i quali non si hanno notizie sui contesti di rinvenimento, o addirittura sui luoghi di provenienza272.

Interessante si rivela il sigillo, proveniente gene-ricamente dall’Etruria, conservato alla Bibliothèque Nationale di Parigi (fig. 37), che si distingue non solo per la sintassi, piuttosto innovativa, con il disporre su due registri sovrapposti due grandi figure, soluzione rarissima nei sigilli del Gruppo, ma anche per la notevole qualità della realizzazione.

Il registro superiore è occupato da un leone, con due piccoli cervidi (uno sulla groppa e uno tra le zam-pe posteriori) che afferra una preda umana, molto sti-lizzata, mentre il registro inferiore è occupato dal ben noto motivo del falcone ad ali spiegate. Per il falcone si rimanda a quanto detto a proposito dell’esemplare della fossa di Castelvecchio a Vetulonia.

Per quanto riguarda il primo registro, mentre in molti altri sigilli compare la figura del leone gra-diente273, rara è la scena del leone che attacca un

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135I sigilli del Gruppo del Suonatore di lira in Etruria e nell’agro falisco

274 Rizzo 2007, n. 10, figg. 45-47.275 Boardman 1990, n. 44ter, figg. 7-8. Già precedentemente

Boardman (J. Boardman The Greeks Overseas. Their early Co-lonies and Trade, II ed., London 1980, p. 277, nota 65), aveva definito “imaginary” la presenza di iscrizioni. Il sigillo è invece corredato da un’iscrizione fenicia con il nome del proprietario per P. Zancani Montuoro - M.G. Guzzo Amadasi, ‘Francavilla Marittima’, in AttiMGrecia 15-17, 1974-75, pp. 58-64, tavv. 22-23, e M.G. Guzzo Amadasi, ‘Note epigrafiche’, in VicOr 2, 1979, pp. 3 ss., tav. Ib; da un’iscrizione aramaica con la firma

dell’artefice per G. Garbini, in PdP 33, 1978, pp. 224-226.276 Rizzo 2007, nn. 10, 12.277 Buchner 1979, p. 278, fig. 1. 278 Ancient Art of the Mediterranean World & Ancient Coins

1991, p. 23, n. 63.279 Rizzo 2007, n. 7, figg. 37-39.280 Porada 1956, fig. 14; Boardman-Buchner 1966, n. 92.281 Porada 1956, fig. 15; Boardman-Buchner 1966, n. 135.282 Boardman-Buchner 1966, n. 52.283 Boardman-Buchner 1966, n. 158, fig. 64.

uomo, peraltro già abbattuto sotto le sue zampe; i tratti, pur di difficile lettura, ci orientano verso questa precisa iconografia che per ora è attestata solo da un altro esemplare della stipe di Jalysos274, dal momento che resta problematica la lettura del ben noto e discusso esemplare dalla tomba 69 della necropoli di Macchiabate a Francavilla Marittima, con leone gradiente, e in cui Boardman propone di vedere nei segni sotto e tra le zampe anteriori del leone una figura umana giacente e non resti di lettere, fenicie o aramaiche, come vorrebbero altri studiosi275.

Il tipo di leone con un capro o cervo sulla groppa ritorna su due esemplari di Jalysos276, oltre che su un sigillo dalla tomba 943 di Pithekoussai277.

Il motivo del leone che assale un uomo è co-munque ampiamente diffuso in iconografie vicino orientali, ed è anche attestato su scaraboidi e scara-

bei fenici e nord siriani: valga ad esempio un sigillo dal mercato antiquario svizzero278.

Passando ad un altro dei sigilli rinvenuti in Etru-ria, quello di Montalcino, presso Siena, conservato alla Bibliothèque Nationale di Parigi (fig. 38), esso presenta un pescatore che regge un enorme pesce, secondo un’ iconografia raramente attestata: è presente infatti in tre soli esemplari, uno da Jaly-sos279, uno da Lindos280 e uno dalle coste siriane281. Altrettanto rara è l’immagine del pesce, reso in modo analogo a quello dei sigilli sopra citati, che da solo occupa tutto il campo figurato, come in due esemplari uno da Itaca, Aetos282 e l’altro già nella collezione Dawkins283.

È probabile che l’immagine, come quella al-trettanto rara con la caccia, faccia riferimento ad imprese di abilità nel catturare animali, siano essi di terra che d’acqua.

Fig. 37

Fig. 38 Fig. 39

Fig. 37. Sigillo del Gruppo del Suonatore di Lira, dall’Etruria (da Boardman-Buchner 1966, fig. 30, n. 40). Parigi, Biblio-thèque Nationale (Scala 3:1).Fig. 38. Sigillo del Gruppo del Suonatore di Lira da Montalcino (da Boardman-Buchner 1966, fig. 30, n. 42). Parigi, Bi-bliothèque Nationale (Scala 3:1).Fig. 39. Sigillo del Gruppo del Suonatore di Lira da Tarquinia (da Boardman-Buchner 1966, fig. 40, n. 41). Parigi, Biblio-thèque Nationale (Scala 3:1).

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136 Maria Antonietta Rizzo

284 Boardman-Buchner 1966, n. 41.285 È il caso, ad esempio, del sigillo di Cuma (Boardman-

Buchner 1966, n. 39, fig. 30) in cui la decorazione, disposta su due registri, presenta in alto una teoria di tre cervi e in basso una fila di quattro uccellini sovrastati da un grande disco solare alato, o quello di alcuni sigilli con registri sovrapposti in cui si susseguono solo elementi geometrici, ad es., nel lato B del sigillo a prisma dalla Fenicia (Boardman-Buchner 1966, n. 139, fig. 51b), in un sigillo da Tarso (Buchner-Boardman 1966, n. 142, fig. 52), o in due da Jalysos (Rizzo 2007, nn. 21-22, figg. 76-81).

286 Rizzo 2007, n. 1, figg. 16, 20. 287 Boardman-Buchner 1966, n. 39 fig. 30.288 Boardman-Buchner 1966, n. 68.289 Porada 1956, n. 38; Boardman-Buchner 1966, n. 136.

290 Rizzo 2007, n. 14, figg. 56-58. 291 Porada 1956, n. 37; Boardman-Buchner 1966, n. 78.292 Porada 1956, n. 37a; Boardman-Buchner 1966, n. 129.293 Boardman-Buchner 1966, n. 24, fig. 21. Pithekoussai I,

tomba 284, n. 16, tav. CLI,110, con coda però a rettangolo; si tratta di una tomba del TG II, di due bambini di 12 e 5 anni.

294 Boardman-Buchner 1966, n. 107, fig. 42.295 Boardman 1990, n. 181.296 Porada 1956, fig. 5; Boardman-Buchner 1966, n. 125.297 Boardman-Buchner 1966, n. 114. 298 Boardman 1990, nn. 113bis, fig. 12; 113ter.299 Boardman 1990, nn. 113quarter; 113. 5.300 Rizzo 2007, nn. 5-6.301 Si vedano i confronti riportati in Boardman-Buchner

1966, p. 48, nota 45.

Ma il più interessante da un punto di vista iconografico è certamente il sigillo, purtroppo frammentario, proveniente da Tarquinia, anch’esso conservato alla Bibliothèque Nationale di Parigi284

con un programma figurativo disposto su tre re-gistri (fig. 39), caso unico per i sigilli del Gruppo, soprattutto trattandosi di scene figurate di un certo impegno, visto che nei pochi casi in cui questa sintassi decorativa è adottata si tratta di semplici animali o gruppi di animali o di motivi geometrici sovrapposti 285.

Nel primo registro sono raffigurati piccoli uccelli disposti in fila, nel secondo una scena di offerta o di banchetto, che vede un suonatore di lira seduto ed una suonatrice di tamburello ai lati di una tavola di offerte (o di un altare?), nel terzo due figure maschili inginocchiate ai lati di una figura femminile con le braccia alzate, certamente una divinità. Si tratta quindi di uno dei rari sigilli in cui compaiono scene, ben due, relative a banchetti sacri e manifestazioni di culto.

Il motivo del primo registro trova ampli confronti su altri sigilli del Gruppo in cui file di uccellini sono disposti come unico motivo decorativo, ad es. quattro uccelli nella faccia A del sigillo a prisma di Jalysos286, nei sigilli da Cuma287, con doppio registro, da Rhenea288 e dalle coste siriane289; tre uccelli su un altro sigillo da Jalysos290, nei sigilli di Chios, Kato Phanai 291 e di Cipro, Haghia Irini292, in un sigillo dalla tomba 284 di Pithekoussai293; nel sigillo a quattro facce da Carchemish294 oltre che in un sigillo ora a Malibu295.

Le scene presenti sugli altri due registri, sono, come già detto, estremamente rare e, certamente, relative a riti.

La scena con la tavola di offerte (o altare ?) ai lati della quale sono un suonatore di lira e una suona-

trice di tamburello trova precisi riscontri nel sigillo, con quest’unica scena disposta su tutta la superficie, da Cipro Haghia Irini296; la scena è da interpretare come un banchetto rituale cui partecipano musici, secondo un’iconografia piuttosto comune nell’arte del Vicino Oriente, che sui sigilli è rappresentata in maniera sintetica, quasi sempre con i soli musici che comunque bastano già a suggerirne l’ambien-tazione. Del resto anche i suonatori di lira seduti, che così spesso compaiono sui sigilli, anche in altre varianti compositive – ad es. di fronte ad una suo-natrice di tamburello, come in un sigillo di Tarso297 ed in uno da Gaziantepe (Aintab) in collezione privata olandese298; o di fronte a un grande pesce, o a una sfinge su sigilli sempre da Gaziantepe299, o con otre o con albero su due sigilli da Jalysos300 – trovano un diretto riferimento in analoghe figure (in rilievi, bronzetti, scaraboidi) di ambito siriano e levantino301.

Le scene più complesse relative a offerte e banchetti sacri compaiono solo su esemplari di eccezionale qualità, due dei quali provenien-

Fig. 40. Sigillo con scena di offerta già collezione Seyrig (da Boardman 1990, p. 8, fig. 16) (Scala 3:1).

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137I sigilli del Gruppo del Suonatore di lira in Etruria e nell’agro falisco

302 Huber 1998, p. 114, n. 1; Huber 2003, p. 91. Ritrovato negli scavi del 1900: K. Kourouniotis, in Praktikà, 1900 (1901), p. 54, ma non compreso in Boardman-Buchner 1966.

303 Boardman 1990, n. 62 quater, fig. 17; Huber 1998, 114-115, n. 2, fig. 2; Huber 2003, 61, n. 188, tav. 49, 128.

304 Boardman-Buchner 1966, n. 162, fig. 66.305 Boardman 1990, n. 167.306 J.M. Dentzer, Le motif du banquet couché dans le Proche-

Orient et le monde grec du VIIe au Ie siècle avant J.-C., Paris 1982, p. 32, n. 118, fig. 27.

307 Porada 1956, fig. 10; Boardman-Buchner 1966, n. 90.308 Boardman-Buchner 1966, n. 83.309 Boardman-Buchner 1966, n. 160; Porada 1956, fig. 11.310 Ancient Art of the Mediterranean World & Ancient Coins

1991, p. 22, n. 59; Rizzo 2007, Appendice n. 29.311 Giovanelli 2008, con un’immagine scarsamente leggibile.

Ringrazio Maria Cataldi, direttore del Museo di Tarquinia, per avermi dato la possibilità di un esame autoptico sul sigillo, che misura cm. 1,8 x 1,5; le foto sono di M. Benedetti.

ti da Eretria, uno dal santuario di Apollo302, l’altro dall’area sacrifi-cale a nord dello stesso santuario303; in entrambi, ma in modo speculare un sigillo rispetto all’altro, compaiono quattro per-sonaggi in processione, un suonatore di lira, una figura inginocchiata con tamburello, un suonatore di doppio flauto e un’of-ferente, che avanzano verso una figura seduta in trono, mentre su un altro sigillo acquistato a Smir-ne e già nella collezione Arndt304, compaiono solo tre figure in processione, un suonatore di lira, con un grande albero terminante a palmetta, secondo un’iconografia usata per gli alberi sacri, un suona-tore di doppio flauto e un altro personaggio, che si dirigono verso una figura seduta con un fiore (?): ma in tutti manca la grande tavola con le offerte.

Più problematica, almeno a giudicare dall’unico disegno conosciuto (fig. 40), vedrei l’appartenenza al Gruppo del Suonatore di Lira del sigillo, già nella collezione Seyrig, proposta, pur con una pre-cisazione, “confidently”, da Boardman305; in esso, che presenta in esergo una fila di ben dieci uccelli-ni, secondo una sintassi decorativa assolutamente estranea al Gruppo, la complessità della scena è ancora maggiore: ben sette figure si accalcano nel piccolo spazio, di cui cinque in processione verso la divinità seduta, ed una dietro il trono. Le cin-que figure sono, in sequenza, un suonatore di lira, uno di tamburello, uno di doppio flauto, quindi musici, un portatore di grande anfora, tenuta sul capo, e un portatore, con un particolare copri-capo conico, di un capro sollevato in alto per le zampe, quindi offerenti: sia la sintassi decorativa, sia la complessità della scena che l’iconografia dei

personaggi (soprattutto il portatore di animale) sia lo stile che l’esecuzione dell’intaglio mi sembrano assolutamente estranei al Gruppo del Suonatore di Lira, e sembrano invece aver rapporto con altri prodotti di area vicino-orientale, forse mesopota-mica306.

La scena presente sul terzo registro del sigillo di Tarquinia, con i due personaggi inginocchiati ai lati di una divinità femminile, non ha trovato finora diretti corrispettivi se non in due sigilli, uno da Lindos307 ed uno da Chios Emporio308, nei quali la divinità è sostituita però da un albero sacro o un altare sormontato da un disco solare alato, mentre nel sigillo di provenienza sconosciuta a Toronto, i due fedeli non sono più inginocchiati ma sono seduti309 ed in quello comparso sul mercato anti-quario svizzero310 sono in piedi.

Di particolare interesse invece il nuovo sigillo di recente pubblicato di cui si conosce solo una generica provenienza tarquiniese (fig. 41a-b)311, in cui sembra potersi riconoscere un’analoga scena di culto, con una figura femminile con lunga veste a campana, decorata con tratti verticali, e due devoti inginocchiati, tutti sormontati da un grande disco solare alato.

Senza dubbio il pezzo si differenzia da tutti gli

Fig. 41. Sigillo del Gruppo del Suonatore di Lira da Tarquinia. Tarquinia, Museo arche-ologico (Scala 3:1).

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138 Maria Antonietta Rizzo

312 Secondo i vecchi libri di entrata al museo tarquiniese, il pezzo (con il n. d’ingresso 2110) è stato acquistato insieme ad altri due scaraboidi in corniola dal sig. Nettuno Mantovani; non è possibile risalire all’anno di acquisto; è riportata anche una generica provenienza dalla Civita.

313 Giovanelli 2008, p. 75.

altri del Gruppo per lo stile delle figure (piuttosto fluide ma molto sommarie ed affrettate, realizzate con tratti disposti in modo confuso a suggerirne i contorni), per alcuni particolari iconografici dell’ab-bigliamento (veste “pieghettata”, disco solare alato lasciato incompleto), per la resa dell’intaglio poco preciso e spesso reso con un’inusuale sottilissima incisione, per la decorazione sul dorso (lineette oblique e minuscoli cerchielli disposti in fila, men-tre nei sigilli del Gruppo il dorso o è liscio o sono segnate le elitre): permangono, a mio parere, molti dubbi sull’appartenenza del sigillo al Gruppo del Suonatore di Lira.

Senza arrivare a mettere in dubbio l’autenticità dello scaraboide (che non è comunque in serpentina verde) potrebbe però sorgere qualche dubbio sulla realizzazione dell’incisione in età antica, oltre che per le motivazioni di carattere stilistico, iconogra-fico e tecnico, anche per le modalità con le quali il sigillo è pervenuto al museo tarquiniese312.

E anche l’ipotesi che possa trattarsi di una ma-nifattura locale – da proporre eventualmente solo per quest’ultimo sigillo, ma non per l’altro della Bibliothèque Nationale di Parigi, con analoga scena di adorazione, di cui si è discusso sopra, il quale risulta per esecuzione e particolari iconografici in perfetta sintonia con gli altri del Gruppo – è diffi-cile da accettare, così come non mi pare sostenibile l’idea, suggerita dall’editore, che i due sigilli siano addirittura stati eseguiti su commissione per un complesso sacro tarquiniese313.

Dovremmo dunque ammettere che nell’VIII secolo fossero già operanti in Etruria, o nell’Italia meridionale, maestri intagliatori orientali dei qua-li peraltro non ci sono al momento giunte altre significative testimonianze di attività? Oppure si tratterebbe di “imitazioni”di sigilli esotici da parte di maestranze locali alle quali si dovrebbe allora ragionevolmente attribuire una produzione più vasta che invece al momento vedremmo limitata ad una o due sole attestazioni (questo sigillo ed un altro di Monaco di cui parleremo tra poco), peraltro sicuramente poco riuscite?

Anche il sigillo di Monaco, in ambra, decorato

con un grifone dalle ampie ali e rivestito di “grem-biule”, con una sorta di palmetta sopra la testa (fig. 42), attribuito da Boardman al Gruppo del Suonatore di Lira314, giunto al museo attraverso il mercato antiquario, insieme ad un gruppo di metalli e oggetti in osso che si dicono provenienti dall’Etruria, risulta alquanto problematico.

Innanzi tutto fa riflettere il materiale in cui in sigillo è intagliato, l’ambra: sarebbe questo l’unico caso in cui questa sostanza verrebbe usata nella produzione dei sigilli del Gruppo, che assommano ormai a circa trecento pezzi; anche se una resina simile all’ambra è ricordata da Boardman essere pre-sente in Libano, non è plausibile il fatto che non ci siano giunte altre sicure testimonianze materiali del suo utilizzo315. In secondo luogo anche l’iconografia e lo stile non si addicono propriamente a quelli del Gruppo: la figura del grifone, che peraltro si ritrova su due soli sigilli, uno da Paros e uno da Cipro Ha-ghia Irini316, in questo caso sembra più ispirata alle iconografie del grifone usate dai sigilli propriamente fenici che non a quelle note per i sigilli del Gruppo del Suonatore di Lira; in terzo luogo la montatura di cui il sigillo è fornito, che è costituita sì da un anello ellittico con un tubicino per appiccagnolo, ma con un castone di altezza doppia che di fatto ingloba ed oblitera lo scaraboide, è di una tipologia assolutamente anomala per i sigilli.

Ancora una volta, tenendo conto di quanto os-servato, piuttosto che pensare ad una manifattura locale – che avrebbe poi creato in ambra questo unico pezzo imitando nello stile gli esemplari del Gruppo del Suonatore di Lira, e dal momento che le altre produzioni di scaraboidi e sigilli etruschi in ambra, realizzate in un certo numero di esemplari a Veio e Vetulonia e Narce presentano nella maggior parte dei casi decorazioni con semplici cerchielli o motivi lineari, anche se non manca qualche rara figurina umana o zoomorfa stilizzata ma ispirata a tutt’altra tradizione figurativa317 – non si potrebbe pensare forse, ad un’abile rielaborazione moderna?

È difficile, a mio parere, ipotizzare in un ambito cronologico così alto (l’VIII sec. a.C.) l’attività di intagliatori stranieri o di imitatori locali sulla

314 Boardman 1990, n. 40bis.315 Boardman 1990, p. 4, e nota 12.316 Boardman-Buchner 1966, nn. 69, 130.317 Boardman 1990, pp. 3-6, figg. 3 (da Veio), 4-5 (da Vetu-

lonia). Per Veio: NSc 1954, p. 3, figg. 2d, 3; NSc 1963, p. 221, fig. 94; NSc 1965, p. 130, fig. 52, dd 2-4. Per Vetulonia: StEtr

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139I sigilli del Gruppo del Suonatore di lira in Etruria e nell’agro falisco

base di due sigilli che presentano così importanti e significative anomalie, per materiale usato, per iconografie, per stile e per tecnica, rispetto agli altri esemplari del Gruppo.

Concludendo, i pochi esemplari del Gruppo del Suonatore di Lira che giungono nell’Italia centrale, alcuni di notevole importanza per le iconografie rare in essi presenti (mostro a due teste, scene di offerta o banchetti sacri: figg. 7, 39), sono da intendere come amuleti, slegati dalla loro originaria funzione sfragistica che, sola, ne giustificherebbe altre impli-cazioni di più complesso significato (dediche legate ad esigenze cultuali); ciò è attestato in modo chiaro dai contesti di rinvenimento, tombe nella quasi to-talità dei contesti accertati in Occidente; ed anche in Grecia, dove sono stati ritrovati in gran numero in santuari soprattutto in area rodia (Jalysos, Lindos e Kamiros) ed insulare (Eretria, Naxos, Despotikò, Paros, Chios e Delos), oltre che nei santuari di Delfi, Capo Sunio, Egina, Corinto e Sparta318, non sono interpretabili altro se non come offerte votive di particolare pregio, dedicate da fedeli così come altri amuleti e oggetti di ornamento personale, ma senza che ci sia alcun rapporto con la loro originaria funzione né tra il luogo di culto e le scene rappre-sentate sui sigilli.

Essi giungono in Etruria, almeno nei pochi casi in cui il contesto ci permette una serie di osserva-zioni più puntuali, insieme a tipi di oggetti che sono particolarmente attestati in alcune aree del Mediterraneo orientale, soprattutto a Rodi (oltre ai

sigilli stessi, figurine in faïence, Vogelperlen, pendagli a bulla in lamina d’oro, fibule ad arco configurato), isola da identificare ragionevolmente come il centro produttore della maggior parte di queste classi di materiale, eloquenti indicatori del flusso muovente dal bacino orientale dell’Egeo. E Rodi sembra con-figurarsi sempre più come uno dei vettori, forse il principale – pur non sottovalutando il ruolo certo importante che devono avere avuto gli Euboici almeno in alcune aree del Mediterraneo, e in ben precisi ambiti cronologici319 – del loro smistamen-to verso Occidente, dove dunque mercanti rodi,

1931, p. 55 s., tav. 2, 6; 2,5; 3,5; Hölbl 1979, II, tav. 148, 3, 6. Si tratta di un vero sigillo, con immanicatura a colonnina, nel caso dell’esemplare di Vetulonia con figura umana e due cervi (?): StEtr 5, 1931, p. 52 s, tav. 3b; Boardman 1990, fig. 4; problematico lo scaraboide edito in StEtr 5, 1931, pp. 50-52, fig. 3a; Boardman 1990, fig. 5, per il quale si è discussa l’attribuzione a fabbrica etrusca, greca o fenicia; i due ultimi sigilli sono stati ritenuti da von Bissing di manifattura etrusca ma copie di sigilli orientali (peraltro mai rinvenuti in Occiden-te). Per Narce: tomba 16/XXIV della necropoli della Petrina A (MAL IV, c. 412, n. 11a, tav. XII, 23).

318 Per ciò che riguarda Rodi, ai quindici esemplari del santuario di Atena a Lindos e ai tre del santuario dell’acropoli di Kamiros, già conosciuti, se ne aggiungono almeno 23 dal santuario di Athana a Jalysos (Rizzo 2007), portando a circa una cinquantina dunque gli esemplari rinvenuti nell’isola, che, per quanto riguarda il mondo greco, diventa il luogo in cui è attestato il maggior numero di sigilli del gruppo. L’altro nucleo particolarmente interessante, soprattutto per la pre-senza di elaborate iconografie, è quello di Eretria, di recente riesaminato dalla Huber, con due sigilli dal santuario di Apollo

Daphnephoros e quattro dall’area sacrificale a nord di esso (Boardman 1990, n. 62quater, e Rizzo 2007, Appendice, nn. 1-5). Interessanti anche le presenze attestate, sia pure in un numero di esemplari molto ridotto, in altri santuari greci: due sigilli provengono dai recenti scavi nel santuario di Dioniso a Iria a Naxos (Rizzo 2007, Appendice, nn. 6-7), e almeno uno dal santuario di Mandra a Despotikò, isoletta nei pressi di Antiparos (Rizzo 2007, Appendice, n. 8), tre dal Delion di Paros (Boardman-Buchner 1966, nn. 69-70 e Rizzo 2007, Appendice, n. 9), cinque dal santuario di Kato Phanai a Chios (Boardman-Buchner 1966, nn. 77-81) e uno da un deposito votivo di Emporio (Boardman-Buchner 1966, n. 83), quattro da Delos (Boardman-Buchner 1966, nn. 64-67) e, nella Gre-cia continentale, due da Delfi (Boardman-Buchner 1966, nn. 54-55), due dal santuario di Capo Sunio (Boardman-Buchner 1966, nn. 56-57), uno da Egina (Boardman-Buchner 1966, n. 58), uno dal santuario di Demetra e Kore (Boardman 1990, n. 59bis) ed uno dalla Sacred Spring di Corinto (Boardman 1990, n. 59ter), tre dal santuario di Artemis Orthia a Sparta (Boardman-Buchner 1966, nn. 60-62).

319 B. d’Agostino, ‘Relations between Campania, Sou-

Fig. 42. Sigillo in ambra con grifone (da Boardman 1990, p. 2, figg. 1.2). Monaco, Antikensammlungen.

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140 Maria Antonietta Rizzo

levantini in genere, e forse soprattutto Fenici – e penso soprattutto ai “Phoenicians of Jalysos” di Coldstream320 – hanno con ogni evidenza mono-polizzato i commerci di tali mercanzie.

Abbreviazioni:

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= Ancient Art of the Mediterranean World & Ancient Coins. Public Auktion Thursday/Donnerstag 11 April 1991, Numismatic and Ancient Art Gallery AG, Zürich 1991, pp. 21-23.

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320 J.N. Coldstream, ‘The Phoenicians of Jalysos’, in BICS 16, 1969, pp. 1-8; ma si tenga conto anche delle illuminanti e precorritrici tesi in Porada 1956, oltre che Martelli 1988, Martelli 1991.

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141I sigilli del Gruppo del Suonatore di lira in Etruria e nell’agro falisco

Boardman 1980 = J. Boardman, The Greeks Overseas. Their early Colonies and Trade, II ed., London 1980.

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Lo statuto dell’artigiano in Grecia sembra condi-zionato anche nel lungo periodo da una ambiguità strutturale che ne investe, da una parte, il ruolo sociale, dall’altra lo statuto metaforico e che, come ha dimostrato B. d’Agostino, è possibile riconoscere ed inquadrare al livello del paradigma mitico; tale ambiguità sembra superata solo dopo Solone, quan-do sulla ceramica diventeranno ricorrenti le firme degli artigiani, praticamente assenti nel periodo precedente1. Allo stesso tempo, la pubblicazione del libro di A. Snodgrass ha riaperto il dibattito sul ruolo degli artigiani nella diffusione dei valori e del patrimonio immaginario legati all’epica omerica, per altra via diffusi da aedi e cantori2.

In Etruria è, forse, possibile cogliere un’eco di questa ambiguità che, tuttavia, sembra qui ap-prodare a soluzioni diverse. Capacità scrittoria e

conoscenza dell’epos omerico caratterizzano, infatti, la realizzazione del celebre cratere di Aristonothos (fig. 1): il vaso, rinvenuto in una sepoltura cereta-na e databile intorno alla metà del VII sec. a.C.3, presenta un complesso programma decorativo sul quale si è soffermata l’attenzione degli studiosi, che si inserisce pienamente nel clima di relazioni instauratosi nel Mediterraneo all’indomani della prima colonizzazione greca. Su uno dei lati è raf-figurato uno scontro navale tra due imbarcazioni tipologicamente differenti, in cui sono state ricono-sciute una nave greca e una etrusca e che, piuttosto, prescindendo dalla controversa identificazione degli equipaggi (Greci/Etruschi; Etruschi/Siracusani), sembra alludere ai pericoli del mare sullo sfondo dei difficili equilibri realizzatisi nel Mediterraneo d’età coloniale.

IN ROTTA PER L’ETRURIA: ARISTONOTHOS, L’ARTIGIANO E LA METIS DI ULISSE*

Raffaella Bonaudo

* Il presente contributo sviluppa alcune suggestioni nate da uno studio presentato al XVII International Congress of Clas-sical Archaeology (AIAC Congress), Meetings Between Cultures in the Ancient Mediterranean - Incontri tra Culture nel Mondo Mediterraneo Antico, Roma, 22-26 Settembre 2008, in corso di pubblicazione on-line (Bonaudo c.s.). Desidero ringraziare il prof. M. Harari per le osservazioni mosse in quella sede e alle quali spero di poter qui rispondere almeno in parte. L’approfon-dimento che qui si presenta non sarebbe stato possibile senza le sollecitazioni, i suggerimenti e gli spunti che ha sottosposto alla mia attenzione L. Cerchiai, che, ormai da tempo, non si è ancora stancato di dedicarsi con affetto alla mia formazione. Particolarmente proficue sono state per me le chiacchierate con M. Menichetti e M. D’Acunto, che mi hanno generosamente messo a disposizione le loro specifiche competenze. Un ulti-mo grazie va a B. d’Agostino e a P. Gastaldi che, oltre ad aver

discusso con me di alcune problematiche, mi hanno permesso con estrema pazienza e affetto di pubblicare questo contributo.

1 d’Agostino 2001 con bibliografia relativa, in particolare F. Coarelli, Artisti e artigiani in Grecia, Roma 1980.

2 A. Snodgrass, Homer and the artists, Cambridge 1998 (già in parte anticipato in ‘Homer and the Greek Art’, in I. Morris - B. Powell (a cura di), A new companion to Homer, Leiden-New York-Köln 1997). Cfr. anche, rispetto al dibattito, B. d’Agostino, ‘Alba della città, albe delle immagini’ e A. Snodgrass, ‘Descriptive and Narrative Art at the Dawn of the Polis’, in E. Greco (a cura di), Alba della città, albe delle immagini? Da una suggestione di Bruno d’Agostino, Atene 2008, pp. 9-20 e 21-30.

3 Roma, Musei Capitolini, inv. 172 (già Coll. Castellani); Martelli 1987, pp. 263-265, L. Giuliani, Bild und Mythos. Geschichte der Bilderzählung in der griechischen Kunst, Mün-chen 2003, pp. 96-114, Dougherty 2003, Izzet 2004, tutti

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144 Raffaella Bonaudo

Sull’altro lato del vaso (fig. 2) è dipinto il celebre epi-sodio omerico dell’acceca-mento del Ciclope da parte di Odisseo: cinque uomini nudi e barbati, armati di spada a tracolla, spingono da sinistra un palo ad accecare Polifemo, seduto sulla destra e sbilanciato mentre con la mano prova ad allontanare la punta dal volto. L’ultimo dei guerrieri è rappresentato di spalle, puntellato alla grotta, forse per imprimere al palo un movimento rota-torio. Alle spalle del Ciclope si erge una rastrelliera per il formaggio sulla quale è so-vrapposta in orizzontale una coppa; tra i Greci e Polifemo e al di sopra della rastrelliera si sviluppa l’iscrizione con la firma dell’artigiano.

In un recente contributo ho provato a dimostrare come lo schema iconografico adottato sul cratere ceretano sottolinei la agriotes del Ci-clope non in quanto tale, ma inserendolo all’inter-no di un universo destrutturato che coinvolge le pratiche dell’ospitalità, in particolare in relazione al consumo del vino4. A differenza delle raffigu-razioni coeve dell’episodio5, mancano sul vaso di Aristonothos elementi che caratterizzino immedia-tamente Polifemo sotto il segno del mostruoso: il Ciclope non si distingue dagli assalitori né per la taglia maggiore né per la presenza di particolari somatici di natura ferina. E, tuttavia, fin da questo momento cronologico già la posizione potrebbe

con bibliografia e inquadramento dell’opera. Particolarmente significativo ed ancora valido B. Schweitzer, ‘Zum Krater des Aristonothos’, in RM 62, 1955, pp. 78-106, per l’analisi filologi-ca degli elementi decorativi e morfologici e per la ricostruzione della carriera dell’artigiano.

4 Bonaudo c.s. Il testo omerico insiste molto sull’assenza di themis per connotare la sauvagerie dei Ciclopi e, in particolare, Odisseo stesso si appella alla xeineion themis nel rivolgersi al suo improbabile ospite (Od. IX, 268). Sul problema dell’ospi-talità nel poema, G.A. Privitera, ‘L’alterno ritmo di morte e ospitalità nelle avventure di Odisseo’, in GIF, 43, 1991, pp.

3-19, Id., Il ritorno del guerriero. Lettura dell’Odissea, Torino 2005. In questo senso la descrizione dell’isola dei Ciclopi si pone in forte opposizione rispetto a quella dei Feaci, stabilitisi a Scheria proprio per fuggire i Ciclopi, come sottolineato tra gli altri in Dougherty 2003, pp. 43-47 e Mauduit 2006, pp. 116-129.

5 Anfora protoattica, Eleusis, Mus., LIMC s.v. Kyklopes 17 (= Odysseus 94); cratere protoargivo, Argos, Mus. C. 149, LIMC s.v. Odysseus 88.

6 In Od. IX, 372 si usa il verbo anaklinesthai.7 Bonaudo c.s. con bibliografia.

Fig. 1. Cratere di Aristonothos: scontro navale (Roma, Musei Capitolini, inv. 172) (da Martelli 1987).

costituire una marca iconografica significativa: Polifemo è, infatti, semisdraiato al suolo6 e solleva leggermente una gamba assumendo una posizione che nella tradizione arcaica diventa caratteristica dei satiri7, alludendo in maniera non equivoca allo stato d’ebbrezza, mentre i suoi ospiti stanno in piedi di fronte a lui. Ancor più significativa, in questo senso, sembra inoltre la posizione della coppa, che non è esibita verso gli ospiti, ma nascosta alle spalle del Ciclope, in posizione orizzontale e, quindi, non funzionale alla bevuta, ma quasi con-

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145In rotta per l’Etruria: Aristonothos, l’artigiano e la metis di Ulisse

e la relazione con le prati-che connesse all’ospitalità e all’offerta del vino acquista maggiore pregnanza se si va-lorizza, come recentemente suggerito, l’uso funzionale che il cratere riveste nel corso del simposio13. L’episodio di Polifemo si configura in que-sto senso come un ammo-nimento: il vino deve essere mescolato con l’acqua per evitare di incorrere nell’erro-re del Ciclope e soccombere.

L’osservazione permette di riconoscere una relazione

non casuale tra le differenti componenti del prodot-to vascolare che tenga conto allo stesso tempo del programma iconografico e della forma funzionale, offrendo la possibilità di inquadrare correttamen-te il contesto del consumo del vaso e di precisare l’universo culturale della committenza.

D’altra parte, se questo è vero, è necessario inter-rogarsi sulla possibilità che esista un apporto attivo dell’artigiano alla realizzazione dell’opera e alla crea-zione di un patrimonio immaginario condiviso con la committenza, esplicitato attraverso l’apposizione della firma sul vaso.

L’iscrizione rientra all’interno di un formulario canonico, che prevede il nome dell’artigiano seguito dal verbo poieo14, secondo un uso che in questo periodo allude probabilmente alla coincidenza del ceramista con il ceramografo15. Analogamente

8 Od. IX. 244-249.9 Od. IX. 296-297; 343 ss.10 Mauduit 2006, pp. 109-136.11 Od. II, 19; IX, 215, 494. L’interpretazione potrebbe assume-

re maggiore evidenza se messa in relazione con la raffigurazione dello stesso episodio sempre in Etruria sul pithos white-on-red, New York, Coll. Fleischman. Sul pithos il Ciclope indossa una veste a rete di tipo cerimoniale e siede su uno sgabello dalle gambe modanate, «con un totale stravolgimento della natura del personaggio…che può difficilmente essere casuale» (Micozzi 2005, p. 262). Ancora una volta, tuttavia, i particolari iconogra-fici svelano l’universo destrutturato rispetto alle pratiche ospitali in cui si muove Polifemo, che beve anche qui da solo, senza porgere la coppa e attingendo direttamente dall’anfora il vino non mescolato, cfr. Bonaudo c.s. Dubbi sull’autenticità del vaso sono stati avanzati ancor più in seguito all’esame condotto da F. Gaultier sulla pisside della stessa classe a Parigi con la nascita di Atena, in K. Geppert - F. Gaultier, ‘Zwei Pasticci und ihre Folgen. Die Bildmotive der Caeretaner Pyxiden D 150 und D 151 im Louvre’, in Der Orient und Etrurien. Zum Phänomen

des Orientalisierens im westlichen Mittelmeerraum, 10-6. Jh. v. Chr. ‘Akten des Kolloquiums, Tübingen 12-13. Juni 1997’, Pisa 2000, pp. 211-218. Non così per esempio Micozzi 2005, p. 256, con bibliografia precedente ed inquadramento del vaso all’interno della produzione white-on-red. Sugli aspetti legati alla rappresentazione di episodi omerici nella produzione etrusca orientalizzante, in relazione alle dinamiche coloniali nel bacino del Mediterraneo e alla tradizione omerica, Bonaudo c.s.

12 Così, per diversi motivi, in particolare Martelli 1987, p. 264; M. Torelli, ‘La religione’, in Rasenna, Milano 1986, pp. 171-172; M. Menichetti, Archeologia del potere. Re, immagini e miti a Roma e in Etruria in età arcaica, Milano 1994, pp. 50-51; Dougherty 2003; Izzet 2004.

13 Izzet 2004, pp. 203-207.14 Per l’uso di epoisen invece di epoiesen, Gallavotti 1980, pp.

1029-1031; Wachter 2001, pp. 29-30, con bibliografia.15 Jeffery 1961, pp. 58 ss.; d’Agostino 2003, con bibliografia.

Sulle firme degli artigiani etruschi in età arcaica, G. Colonna, ‘Firme arcaiche di artefici nell’Italia centrale’, in RM 82, 1975, pp. 181-192.

Fig. 2. Cratere di Aristonothos: l’accecamento di Polifemo (Roma, Musei Capitolini, inv. 172) (da Martelli 1987).

nessa in un nesso sintagmatico alla rastrelliera per il formaggio: Polifemo beve da solo, consumando puro sia il latte appena cagliato8 sia il vino offerto da Odisseo, associandoli entrambi ad un banchetto di carne umana9. Nell’immagine del cratere, dunque, l’atteggiamento del Ciclope contrasta con le norme dell’ospitalità: proprio la prossimità del mostro all’umano fa emergere in maniera più evidente la sua sauvagerie; l’orrore provocato dal suo compor-tamento è percepito con tanta maggiore evidenza in quanto si configura come una deviazione dalle norme che regolano la vita sociale10 ed è per que-sto motivo che Polifemo merita espressamente la definizione di agrios11.

L’incontro con l’altro assume, dunque, in rela-zione all’episodio raffigurato sul cratere un’impor-tanza straordinaria ed un valore paradigmatico12,

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146 Raffaella Bonaudo

alle altre iscrizioni coeve, la firma è posta a complemento della zona figurata, in una posizione di grande eviden-za ad «esibire a un tempo l’orgoglio dell’artigiano e la sua competenza scrittoria che, a un livello cronologico così antico, deve ritenersi tutt’altro che scontata»16, ancor più in presenza di un programma iconografico così strutturato e complesso come quello del cratere ceretano.

E, tuttavia, il nome stesso dell’artigiano sembra svelare alcune peculiarità che richiedono un esame approfondito ed un corretto inquadramento sia ri-spetto al contesto storico in cui il vaso si inserisce sia in relazione all’articolato programma rappresentato.

L’identificazione dell’artigiano come Aristono-thos è stata recentemente messa in dubbio da R. Wachter17, che, partendo dal presupposto che nell’omicron barrato vada riconosciuto un phi, ha avanzato la lettura Aristomphos, un nome non altrimenti attestato, che risulterebbe un composto di aristos con omphé, canto. La lettura proposta potrebbe essere particolarmente suggestiva, se se ne valorizzasse la relazione con l’immagine epica, ma non sembra necessaria. L’uso dell’omicron barrato al posto dell’omicron con la croce per il theta non è isolato18 e ricorre, per esempio e, forse, non a caso, nella coeva iscrizione cumana di Tataie19.

Le osservazioni proposte sembrano, dunque, con-fermare la lettura Aristonothos: il nome, ugualmente privo di ulteriori attestazioni20, si configura come un composto ossimorico di aristos con nothos, a significare con una buona dose di autoironia, “il migliore dei mezzo sangue”21.

Alcuni studiosi hanno provato ad interpretare il nome in chiave realistica come allusione alla con-dizione semiservile dell’artigiano22; recentemente

V. Izzet ha, invece, avanzato alcune proposte in-terpretative, in stretta connessione con l’immagine rappresentata. Secondo la studiosa il nome Aristo-nothos, collocato in posizione enfatica tra la schiera dei Greci e Polifemo, segnerebbe allo stesso tempo una cesura e una sorta di mediazione tra Odisseo (aristos) e il Ciclope (nothos); nello stesso modo in cui l’artigiano iscrive il nome Aristonothos per unire insieme due entità incompatibili, egli usa l’acceca-mento di Polifemo per mettere insieme due universi differenti di elementi ugualmente incompatibili: divino e mortale, civilizzato e barbaro23.

È possibile proporre una lettura differente che non prescinda dalla scena dipinta sul vaso. Aristo-nothos non rientra nella tipologia dei nomi parlanti, come quelli ex arte di Eugrammos, Eucheir e Diopos, che, giunti in Italia al seguito di Demarato, sono collocati dalla tradizione mitistorica nello stesso contesto cronologico24, o come quelli un po’ più recenti di Kleitias ed Ergotimos, che firmano il cratere François. Esaminando questo vaso, M. Torelli ha valorizzato la posizione della firma dei due artigiani, che si ripete due volte sulla superficie figurata, enfatizzando, nella complessa architettura, due momenti di lettura del programma, il punto di partenza e l’akmè del racconto mitico, finalizzato ad esaltare i legami e i valori della genealogia25. Allo stesso modo, ma con esiti differenti, Aristonothos fir-ma la scena dell’accecamento26, autoproclamandosi con un nome parlante che sottolinea il carattere

16 d’Agostino 2003.17 Wachter 2001, pp. 29-30.18 Jeffery 1961, pp. 136, 188; Gallavotti 1980, pp. 1013 ss.19 Gallavotti 1980, ibid. con bibliografia.20 Izzet 2004, pp. 196-197, con bibliografia.21 M. Torelli, Storia degli Etruschi, Roma - Bari, p.134.22 Per esempio, F.-H- Pairault-Massa, Iconologia e politica

nell’Italia antica, Milano 1992, p. 19.23 Izzet 2004, pp. 200-201.24 Sui nomina ex arte e sulle tradizioni relative alla inventio

artium in particolare in relazione alla coroplastica, M. Torelli, in Studi in onore di F. Magi (Nuovi Quaderni Ist. Arch, Perugia), Perugia 1979; Id., ‘Polis e “palazzo”. Architettura, ideologia

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25 M. Torelli, Le strategie di Kleitias. Composizione e programma figurativo del vaso François, Verona 2007,

26 Sull'importanza della posizione delle firme vascolari sulla ceramica attica figurata, per orientare ed enfatizzare la lettura

Fig. 3. Aryballos di bucchero dalla T. 1 di Volusia: iscrizione (da G. Colonna in REE 56, 1991) e proposta di lettura (da D.F. Maras, ‘Note sull’arrivo del nome di Ulisse in Etruria’, in StEtr 65-68, 2002).

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147In rotta per l’Etruria: Aristonothos, l’artigiano e la metis di Ulisse

eccellente di non avere genealogia. L’iscrizione sembra, in questo senso, istituire una relazione paradigmatica tra Aristonothos e Odisseo, che vince Polifemo in quanto Outis/Nessuno, in virtù di una metis che non scaturisce dal sangue.

Un’eco della percezione di Odisseo in Etruria come paradigma mitico dell’artigiano si può co-gliere se si accetta la lettura fornita da D.F. Maras dell’iscrizione incisa prima della cottura su un aryballos di bucchero da una tomba di Volusia, nel territorio veiente, databile alla fine del VII sec. a.C., in cui il vasaio si proclama discendente di Uthuzte, il nome etrusco di Odisseo (fig. 3)27. L’iscrizione si colloca nella posizione centrale di un fregio orna-mentale, di cui costituisce parte integrante, compo-sto di due elementi figurati di stile sub-geometrico lineare, una barca vista dall’alto e un cavallo.

È possibile chiedersi se non sia possa instaurare una relazione puntuale tra Odisseo e i due elementi figurati, che vada oltre l’allusione al celebre strata-gemma per prendere Troia e al nostos. Nei poemi

dell’immagine, F. Lissarrague, ‘Epiktetos egraphen: the writing on the cup’, in S. Goldhill, R. Osborne (a cura di), Art and text in Ancient Greek Culture, Oxford 1994, pp. 12-27.

27 D.F. Maras, ‘Note sull’arrivo del nome di Ulisse in Etruria’, in StEtr 65-68, 2002, pp. 237-249; l’iscrizione è stata pubblicata da G. Colonna in REE 56, 1991, n. 42.

28 N. Lubtchansky, Le cavalier Tyrrhénien. Répresentations equestre dans l’Italie archaïque, Rome 2005, pp. 14-16.

29 A. Schnapp-Gourbeillon, Lions, heros, masques. Les répre-sentations de l’animal chez Homère, Paris 1981, pp. 169-178.

30 Il. X, 355 ss. L’episodio è rappresentato raramente e, per l’età arcaica, solo sull’anfora calcidese Malibu, Getty Mus. 96.AE.1 (riprodotta in J.B. Carter, S.P. Morris, The ages of

Homer. A tribute to E.T. Vermeule, Austin 1998): Diomede è ritratto mentre sta per sgozzare Rhesos; in analoga attitudine Odisseo, che si distingue iconograficamente dal compagno solo per l’attributo della faretra, sta per trafiggere un altro dei Traci, mentre sulla base del registro sono dipinti i corpi degli altri undici compagni di Rhesos, tra i quali si muovono i cavalli. Particolarmente interessante per l’interpretazione dell’episodio qui seguita, oltre all’attributo dell’arco di Odisseo, il fregio di giovani cavalieri che corre sulla spalla del vaso.

31 Il. X, 480-481.32 Il. X, 498-501. È solo Diomede a pensare di impossessarsi

dei carri, ma viene dissuaso da Atena (503-514).33 Od. IV, 600 ss.

omerici non compare il cavallo montato: l’animale è, piuttosto, funzionale al tiro del carro da guerra28 e, tuttavia, ciò non impedisce che si riconoscano nel racconto epico animali dotati di particolari caratteristiche e che ad essi si attribuisca esplici-tamente il valore di agalma29. L’unica eccezione di cavallo montato è costituita dalla razzia dei cavalli di Rhesos compiuta da Odisseo e Diomede nel corso della scorreria notturna (fig. 4)30. Odisseo organizza l’assalto dividendosi i compiti con Dio-mede: a questo uccidere i Traci, a lui occuparsi dei cavalli31. Tuttavia, il suo comportamento tradisce apparentemente una scarsa familiarità dell’eroe con gli animali: sciolti i cavalli, li lega insieme con cinghie e li spinge fuori battendoli con l’arco, senza prendere la frusta dal carro32. L’inadeguatezza di Itaca all’allevamento dei cavalli è, del resto, ricor-data in un passo della Telemachia33, in cui, sempre all’interno del cerimoniale connesso allo scambio di doni, Telemaco rifiuta l’offerta dei cavalli da parte di Menelao, proprio a causa delle caratteristiche

Fig. 4. Anfora calcidese con l’uccisione di Rhesos (Malibu, Getty Mus. 96.AE.1) (da J.B. Carter, S.P. Morris, The ages of Homer. A tribute to E.T. Vermeule, Austin 1998).

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148 Raffaella Bonaudo

dell’isola: nessuna isola è buona per i carri o ricca di prati, Itaca meno di tutte. E, però, nel corso del suo exploit antieroico, Odisseo riesce a trafugare i cavalli in silenzio, li fa passare tra i cadaveri dei Traci senza farli imbizzarrire, li guida con destrezza, prima di partire al galoppo e istituisce in questo modo il paradigma mitico della tattica del cavaliere, fondata sul ricorso alla prudenza e alla metis che, unite alle capacità guerriere di Diomede, conducono a buon fine l’impresa34, ancor più perché messa sotto il segno di Atena, la divinità della quale M. Detienne ha valorizzato il ruolo nelle operazioni di doma dei cavalli, in particolar modo grazie all’invenzione del morso35.

La stessa perizia mostrata nella conduzione del cavallo lega Odisseo alla nave e ne fa l’eroe della plane. Rispetto alla navigazione si misura la distan-za che separa l’eroe, ma allo stesso tempo anche i Feaci e quanti non siano agrioi, dai Ciclopi. Il testo omerico insiste, infatti, sul fatto che uno dei caratteri specifici della loro sauvagerie derivi dal non conoscere la carpenteria nautica, nono-stante abitino un’isola dotata di ottimi approdi36. Rispetto alla doma del cavallo e all’uso della nave si concretizza lo scarto tra Odisseo e Polifemo: il primo, nonostante abiti un’isola non adatta all’al-levamento di questi animali, riesce grazie alla sua prudenza a governarli; l’altro rinuncia, invece, ad utilizzare il mezzo principale attraverso il quale è possibile incontrare gli uomini e i loro borghi. Ed è proprio in quanto uomo di mare, nel senso tecnico37, che Odisseo vince il Ciclope: non è, forse, un caso, infatti, che il palo adoperato per accecare Polifemo sia paragonato al trapano di un asse navale38 e che Polifemo, accecato e adirato, qualifichi Odisseo come oligos, outidanos, akikys39. Lontano dagli eroi iliadici, Odisseo si configura piuttosto come un eroe di tipo diverso, connesso alla metis, al mare, allo scambio, all’artigianato, richiamando in un certo senso la contraddizione e l’ambiguità di fondo che connota lo statuto dell’artigiano mitico per eccellenza che è Efesto,

34 L. Cerchiai, Recensione a N. Lubtchansky, Le cavalier Tyrrhénien. Répresentations equestre dans l’Italie archaïque, Rome 2005, in AIONArchStAnt, n.s. 11-12, 2004-2005, p. 364.

35 M. Detienne, ‘Il morso magico’, in M. Detienne, J.P. Ver-nant, Le astuzie dell’intelligenza nell’antica Grecia, Bari 1999, pp. 139-159.

36 Od. IX, 125 ss.37 Sul vocabolario connesso alla carpenteria per indicare anche

combattuto tra la sua sapienza e la deformità del suo corpo40.

Una conferma in questa direzione può venire se si prova ad attribuire un valore non semplicemente decorativo ai motivi secondari. Sotto le anse del cratere di Aristonothos è, infatti, dipinto un granchio (fig. 5): come ha dimostrato M. Detienne, l’anima-le, caratterizzato da un movimento obliquo e dalle estremità ricurve, che assumono le stesse caratteri-stiche e lo stesso nome delle tenaglie del fabbro, si configura come un doppio di Efesto41: l’immagine sembra in questo senso precisare la lettura della scena, enfatizzandone gli aspetti più propriamente legati ad un sapere e ad una metis di tipo artigianale, quale è quella di Odisseo nell’ideare lo stratagemma del palo per accecare il Ciclope.

Le osservazioni proposte permettono, forse, di recuperare, dunque, un ulteriore messaggio sotteso alla composizione del programma decorativo del cratere di Aristonothos e istituiscono una relazione

Fig. 5. Cratere di Aristonothos: particolare dell’ansa (da CVA Musei Capitolini II, Italia 39).

l’attività dell’aedo, F. Bertolini, ‘Odisseo aedo, Omero carpen-tiere: Odissea 17. 384-385’, in Lexis 2, 1988, pp. 145-164.

38 Od. IX, 383-388.39 Od. IX, 515.40 d’Agostino 2001, pp. 42-44.41 M. Detienne, ‘I piedi di Efesto’, in M. Detienne - J.P.

Vernant, Le astuzie dell’intelligenza nell’antica Grecia, Bari 1999, pp. 194-207.

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149In rotta per l’Etruria: Aristonothos, l’artigiano e la metis di Ulisse

non casuale tra i due lati del vaso. È evidente, tuttavia, che il messaggio formulato da Aristono-thos diventi pienamente comprensibile solo se si presuppone «il clima di straordinaria “apertura” verso lo straniero vigente a quell’epoca» a Cerve-teri e nelle altre città etrusche e latine42, favorito dai legami strettissimi con l’ambiente euboico coloniale43.

È in questo ambito marginale rispetto al mon-do greco che, grazie alla progressiva acquisizione dell’autocoscienza professionale, gli artigiani, af-francati dai legami di subordinazione dalle casate aristocratiche della madrepatria, potevano più facilmente apporre la firma sul proprio vaso, grazie alle circostanze socio-economiche favorevoli e al “feeling che in ambito euboico si era stabilito tra la scrittura e il vaso, sullo sfondo del simposio”44.

Abbreviazioni supplementari:

Bonaudo c.s. = R. Bonaudo, ‘Eroi in viaggio: Odisseo dalla Grecia in Etruria’, in Meetings Between Cultures in the Ancient Mediterranean - Incontri tra Culture nel Mondo Mediterraneo Antico, “Atti del XVII International Congress of Classical Archaeology (AIAC Congress), Roma, 22-26 Settembre 2008”, in corso di pub-blicazione on-line.

d’Agostino 2001 = B. d’Agostino, ‘Lo statuto mitico dell’artigiano nel mondo greco’, in AIONArchStAnt, n.s. 8, 2001, pp. 39-44.

d’Agostino 2003 = B. d’Agostino, ‘Scrittura ed artigia-ni sulla rotta per l’Occidente’, in S. Marchesini - P. Poccetti (a cura di), Linguistica e storia. Sprachwissenschaft ist Geschichte. Scritti in onore di Carlo De Simone, Pisa 2003, pp. 75-84.

Dougherty 2003 = C. Dougherty, ‘The Aristonothos Krater. Competing stories of conflict and collaboration’, in C. Dougherty e L. Kurke (a cura di), The cultures within ancient culture. Contact, con-flict, collaboration, Cambridge 2003, pp. 35-56.

Gallavotti 1980 = C. Gallavotti, ‘La firma di Aristo-nothos e alcuni problemi di fonetica greca’, in Philias Charin. Miscellanea di studi classici in onore di Eugenio Manni, Roma 1980, pp. 1011-1031

Izzet 2004 = V. Izzet, ‘Purloined letters: the Ari-stonothos inscrption and krater’, in K. Lomas (a cura di), Greek Identity in the Western Mediterranean. Papers in honour of B. Shefton, Leiden-Boston 2004, pp. 191-210.

Jeffery 1961 = L.H. Jeffery, The local scripts of Ar-chaic Greece, Oxford 1961.

Martelli 1987 = M. Martelli (a cura di), La ceramica degli Etruschi, Milano 1987.

Mauduit 2006 = C. Mauduit, La Sauvagerie dans la poésie grecque d’Homère à Eschyle, Paris 2006.

Micozzi 2005 = M. Micozzi, ‘White-on-red. Miti greci nell’Orientalizzante etrusco’, in B. Adembri (a cura di), AEIM-NESTOS. Miscellanea di studi per Mauro Cristofani, Firenze 2005, pp. 256-266.

Wachter 2001 = R. Wachter, Non-Attic Greek Vase Inscription, Oxford 2001.

42 G. Colonna, ‘La cultura orientalizzante in Etruria’, in G. Bartoloni et alii (a cura di), Principi etruschi tra Mediterraneo e Europa ‘Catalogo della mostra’, Bologna 2000, p. 61.

43 A questo stesso ambito territoriale riconduce i caratteri epigrafici dell’iscrizione Jeffery 1961, pp. 239 ss.

44 d’Agostino 2003.

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La tradizione iconografica di età arcaica relativa alle sirene è ancora piuttosto esigua: io stesso ho avuto modo di riconsiderarla a proposito dell’aryballos corinzio di Boston con Odisseo e le Sirene1.

In seguito, ho creduto di poter riconoscere una rappresentazione dello stesso mito nel celebre frammento di cratere da Pithecusae, firmato da ...inos (fig. 2)2. L’identificazione era suggerita dal motivo che si intravvede a sinistra della figura, presso il margine destro del frammento, al dilà di quella che potrebbe essere ancora parte della figura alata3: come dimostra il confronto con un vaso da Lefkandi4, esso rappresenta infatti l’aplustre di una nave. Nonostante la distanza cronologica, lo stesso schema, lo stesso modo di rappresentare la sirena, si ritrova nell’anfora ceretana (fig. 3) eponima

del Pittore della Sirena-Assurattasche, edita dalla Martelli5 e databile al 630 ca. a.C.

Si tratta dunque di uno schema iconografico elaborato in ambiente euboico utilizzando un motivo orientale, e da questo trasmesso al mondo etrusco e a Caere.

Probabilmente il dossier iconografico relativo alle sirene può essere arricchito di un’altra testimo-nianza. Si tratta di un frammento rinvenuto dalla compianta I. Vokotopoulou a Sani nella penisola Calcidica (fig. 1).

Il frammento, pertinente ad un vaso di forma chiusa6, ha una rappresentazione senza confron-ti: come riconosce la Vokotopoulou si tratta di tre figure alate che si tengono per mano. L’unica quasi interamente conservata è la figura centrale. Il

IL VALZER DELLE SIRENE

Bruno d’Agostino

1 B. d’Agostino, ‘Le Sirene, il Tuffatore e le Porte dell’Ade’, in AIONArchStAnt IV, 1982, pp. 43-50, ora in B. d’Agostino - L. Cerchiai, Il mare, la morte, l’amore, Roma 1999, pp. 53-60. Le immagini più antiche, riferibili al mito, sono soltanto due, e proveniengono da Naukratis e da Cnidos. In entrambe l’identificazione della scena è solo ipotetica.

2 Cfr. B. d’Agostino, ‘Scrittura e artigiani sulla rotta per l’Oc-cidente’, in S. Marchesini - P. Poccetti (a cura di), Linguistica e storia - Sprachwissenschaft ist Geschichte - Scritti in onore di Carlo De Simone, Pisa 2003, pp. 75-84. Per una buona riproduzione del frammento, cfr. P. Orlandini, in Megale Hellas, Milano 1983, pp. 332-3, fig. 282 (foto); G. Buchner, ‘Recent work at Pithekoussai (Ischia), 1965-71’, in Archaeological Reports 1970-71, p. 67 fig. 8 (disegno).

3 L’estremità dell’altr’ala, o forse della coda?, come negli uccelli rappresentati sulla pisside alla nota 33.

4 Lefkandi I, p. 267, tavv. 274 (918), 284 (11). 5 M. Martelli, ‘Del Pittore di Amsterdam e di un episodio del

nostos odissaico. Ricerche di ceramografia etrusca orientalizzante’, in Prospettiva 50, 1987, pp. 4-14, figg. 17-20, che suppone una derivazione diretta dagli “Assurattaschen”.

6 I. Vokotopoulou, }Arcaikoé ieroé sth Saénh Calkidikhév, in }Arcaiéa Makedoniéa, Peémpto diejneév sumpoésio,1989 toémov I, Qessalonòkh 1993, pp. 179-236: p. 209, fig. 13 (pp. 189 s.): fr. MQ 12697. L’articolo è stato ripubblicato in I. Vokotopoulou, }Hpeirwtikaé kai Makedonikaé Melethémata, Atene 2001, II, pp. 453-510, fig. a p. 483. Il frammento proviene, insieme ad altri, da uno scavo di emergenza in loc. Marina. Nel sito, frequentato dal tardo periodo tardo-protogeometrico, è localizzato un san-tuario all’aperto dedicato probabilmente ad Artemide, con un periodo di grande fioritura tra il VII ed il V sec. a.C.

Questo breve articolo era nato per il Convegno organizzato dalla Università Federico II in memoria di Stefania Adamo Muscettola, sempre vivissima nel ricordo e nel quotidiano rimpianto.

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152 Bruno d’Agostino

busto, eretto, è ricoperto da un corpetto aderente, con manica larga dalla quale esce un braccio sottile che si allarga in una mano schematica, a forma di pinna. Il corpo forma un angolo con il busto, ed è affusolato, ma si allarga all’estremità in uno scuro vestito scampanato, dal quale sporgono due esili gambe umane. La spalla sinistra, l’unica superstite, è sormontata da un’ala resa con singole piume ad uncino, che nella parte inferiore sono arricchite da una parziale campitura in nero. Il volto, reso con una semplice linea di contorno, ha una accon-ciatura di tipo dedalico: spessa e diritta sul capo, discende sulla spalla con una banda triangolare. L’occhio, frontale, ha il contorno arcuato e una grande pupilla nera, ed è accostato all’orecchio, sinuoso e allungato. Della figura a destra si conser-vano solo parte dell’ala e la mano, unita a quella della figura centrale. Della figura a sinistra, oltre all’ala, si conserva anche profilo: la fronte, bassa e arcuata, è ricoperta dai capelli, il naso è grosso e appuntito.

La Vokotopoulou data il vaso agli inizi del VI sec. a.C. e, sulla base di alcuni persuasivi confronti stilistici, lo attribuisce ad ambiente eolico7.

Unica e senza confronti rimane fino ad ora la rappresentazione. Secondo la Vokotopoulou, le tre figure femminile librate in volo nell’aria possono

identificarsi con le tre Gorgoni, che sarebbero rap-presentate prima del taglio della testa di Medusa. È evidente il riferimento alla celeberrima anfora di Eleusi8, e tuttavia tra le due scene le analogie sono di fatto inesistenti. Sull’anfora protoattica infatti, due delle tre gorgoni sono rappresentate in fuga verso destra, in un elegante passo di danza. La terza, che sembra fluttuare nell’aria, è proprio Medusa, ormai priva del capo; ma l’apparenza non deve trarci in inganno, infatti se la figura appare di prospetto, come librata nell’aria, ciò si deve solo all’effetto della prospettiva ribaltata; dobbiamo quindi imma-ginarla distesa al suolo, ormai priva di vita. Inoltre le tre sorelle sono aptere, a differenza delle figure del frammento di Sani. Quanto a queste, il rapporto tra il busto ed il corpo, incomprensibile in una figura umana, è quello abituale nella rappresentazione delle sirene, nelle quali il busto umano si innesta verticale su un corpo di uccello; la decorazione a rombi che ricopre il corpo potrebbe voler suggerire un piumaggio. L’originalità di questa rappresen-tazione sta piuttosto nell’aver voluto marcare la natura di questi strani esseri, attraverso l’aggiunta dei piedi umani.

Nonostante la mancanza di confronti, mi sembra difficile non riconoscere tre sirene nelle figure del vaso di Sani. Ma questa conclusione non è priva di

7 E. Walter-Karydi, Aeolische Kunst, AntK 7, Beiheft 1970, p. 3. tavv. 4, 6, 8. Ma cfr. anche, della stessa A., Samos VI. 139 nn. 1048 (da Nysiros) per la capigliatura e 1100 e 1001 (da Rodi)

per la resa delle ali. 8 Cfr. J. Boardman, Early Greek Vase Painting, London 1998,

fig. 209.

Fig. 1. Sani (Calcidica), frammento di vaso MQ 12697 con le Sirene (da I. Vokotopoulou, in Arcaòa Makedonòa).

Fig. 2. Ischia, Museo di Villa Arbusto – Frammento di cratere pitecusano con la firma del vasaio ....inos.

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153Il valzer delle Sirene

implicazioni. Infatti in tutta la tradizione più antica, da Omero a Esiodo, le Sirene sono sempre due; esse compaiono in numero di tre in Occidente, in una tradizione “che nel suo complesso risale tutta a Timeo”9. Essa doveva avere tuttavia precedenti molto più antichi: è infatti indiziata in Licofrone, nei versi in cui il poeta racconta per la prima volta la storia del loro suicidio (vv. 712 ss.), ed è ben noto di quale e quanta erudizione fosse portatore il poeta, che conosceva bene le tradizioni remote del mondo greco. Non è certo un caso se la più antica attestazione relativa al suicidio delle Sirene sembra debba riconoscersi sui frammenti di un vaso da Naukratis all’incirca coevo al vaso di Sani10. La presenza di tre sirene è documentata, intorno al 520 a.C., su una oinochoe attica a figure nere11.

La possibilità di far risalire agli inizi del VI sec. la tradizione antica relativa all’esistenza di tre sirene assume un particolare significato dal momento che il documento che la attesta proviene da un una delle città euboiche della Calcidica12. Ciò rende ancor più verisimile quanto è stato del resto già ipotizzato, circa l’apporto della colonizzazione euboica alla localizzazione di questi esseri mitici in Occidente13. Naturalmente sarebbe anche di gran-de interesse poter determinare con precisione il luogo dove è stato prodotto il vaso. L’attribuzione ad ambiente eolico, proposta dalla Vokotopoulou, darebbe una particolare coloritura al legame con ambienti coinvolti nel processo di colonizzazione, e nella diffusione del mito delle Sirene.

Fig. 3. Milano, Civiche Raccolte Archeologiche e Numismatiche, anfora da Cerveteri con nave e Sirena (da M. Martelli, in Prospettiva 50, 1987).

9 Sull’argomento, cfr. L. Breglia Pulci Doria, ‘Le Sirene, il canto, la morte, la polis’, in AIONArchStAnt IX, 1987, pp. 65-99: sui versi di Licofrone, p. 76; la citazione testuale è tratta da p. 87.

10 Cfr. O. Touchefeu-Meynier, Thèmes Odysséens dans l’art antique, Paris 1968, pp. 144 s., tav. XXIII. 1.

11 Cfr. O. Touchefeu-Meynier, Thèmes Odysséens dans l’art antique, Paris 1968, p. 148, tav. XXIII. 3-4.

12 Thu. IV. 109. 3 ricorda che la città fu fondata da Andros. Sul significato di queste tradizioni, cfr. A. Mele, ‘Calcidica e Calcidesi. Considerazioni sulla tradizione’, in M. Bats - B. d’Agostino (a cura di), Euboica, Napoli 1998 pp. 217 ss.

13 Cfr. L. Breglia Pulci Doria, ‘Le Sirene, il canto, la morte, la polis’, in AIONArchStAnt IX, 1987, pp. 88 ss.

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En 1998, à l’occasion d’un colloque dont les actes ne devaient finalement paraître que dix ans plus tard, j’avais, dans une communication consacrée aux premières korés cycladiques1, émis sur l’origine des représentations masculines dans la statuaire parienne une hypothèse que dès l’année suivante la découverte d’un document exceptionnel me pa-rut venir conforter: un torse de kouros inachevé, malheureusement acéphale et brisé au-dessus des genoux, mais dont l’arrachement du bras droit indiquait clairement que celui-ci était replié et ap-pliqué sur la poitrine, selon un schéma qui aurait pu sembler banal s’il ne s’était agi, précisément, d’un kouros. Bien que la publication, aussitôt préparée par les responsables du Musée de Paros, ait été quelque peu retardée2, elle n’en précéda pas moins celle de notre colloque (dont les lenteurs exceptionnelles nous laissèrent, comme on a vu, le temps de la réflexion), et il me fut possible de la citer en note3, mais sans entrer dans le détail d’une démonstration dont les prémisses seraient restées inaccessibles au lecteur tant que les actes du colloque d’Athènes n’étaient pas eux-mêmes publiés. Puisque c’est aujourd’hui chose faite, et que l’ensemble du dossier est désormais disponible, il m’a semblé qu’il n’était pas inutile d’y revenir, ne serait-ce que pour soumettre à l’épreuve d’une illustration précise une hypothèse qui me paraît, du moins dans l’état actuel de la documentation, n’avoir rien perdu de sa valeur.

Qu’on me permette d’abord de rappeler briè-vement les données du problème, tel que j’avais tenté de le poser dès 1998. Cherchant à mieux

comprendre, par une analyse systématique des trouvailles déliennes, les débuts de la statuaire féminine dans les Cyclades, j’avais été d’emblée frappé par une constatation: quelle que fût la date retenue pour la consécration de l’offrande naxienne de Nikandré4, son antériorité était considérable – un demi-siècle au moins – par rapport aux autres statues de marbre trouvées à l’Artémision de Délos, notamment A 4062, où l’on ne devait plus hésiter à reconnaître l’une des plus anciennes korés pa-riennes5. Cela signifiait qu’entre les environs de 630, date probable de la première, et la période 580/570, où l’on pouvait situer la seconde, il ne fallait pas espérer reconstruire une “évolution” continue du “type de la koré”: les deux ateliers semblaient au contraire s’être développés de manière tout à fait indépendante, les Pariens commençant à représen-ter la figure féminine à une époque où les Naxiens l’avaient depuis longtemps oubliée au profit du type masculin du kouros, dont ils devaient demeurer les maîtres incontestés jusque vers le milieu du VIe siècle. Ainsi les deux types majeurs de la statuaire archaïque, loin d’évoluer parallèlement, semblaient, au moins dans les Cyclades, s’être construits pour ainsi dire l’un contre l’autre, sans doute dans un contexte de concurrence entre les cultes faussement “jumeaux” d’Artémis et d’Apollon, en même temps que d’antagonisme entre les deux grandes cités insulaires. Comme la série des statues féminines pariennes, inaugurée vers 580 à l’Artémision de Délos par les trois korés A 3996, A 4062 et A 4070, puis illustrée notamment par les deux korés de Cyrène et la koré de Naoussa, se prolongeait

LE PREMIER KOUROS PARIEN

Francis Croissant

1 Croissant 2008.2 Kourayos-Détoratou, pp. 57-72.3 Croissant 2008, p. 326, note 76.

4 Croissant 2008, pp. 311-314.5 Croissant 2002. Croissant 2008, pp. 319-320.

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156 Francis Croissant

de manière continue et cohérente jusque dans la seconde moitié du siècle, alors qu’aucun kouros sûrement parien ne paraissait antérieur aux années 550/5406, il était assez clair que le type était resté jusque-là, au moins dans le sanctuaire d’Apollon, une exclusivité naxienne. Et l’on devait se deman-der si son apparition relativement tardive dans les ateliers pariens ne coïncidait pas simplement avec le retrait des Naxiens dont semble s’être accompagnée la mainmise de Pisistrate sur Délos.

Quoi qu’il en soit, le témoignage de la documen-tation délienne7 obligeait à admettre que le type du kouros ne s’était développé dans les ateliers pariens qu’environ une génération après celui de la koré. Et dans ces conditions l’on devait s’interroger sur le sens de la relation structurelle étroite, souvent relevée, qui unissait les deux séries. Non qu’elle fût en elle-même surprenante, puisqu’elle reflétait d’abord, et avec une évidence exceptionnelle, l’exis-tence d’une identité stylistique parienne; mais en raison de la manière dont elle avait été généralement interprétée. Car l’un des traits caractéristiques des torses pariens, le large développement des épaules, tirées vers l’arrière pour faire saillir les pectoraux, qui a été, en quelque sorte tout naturellement, défini comme “athlétique” à propos des kouroi, n’est pas moins accentué chez les korés, et cela dès le début de la série. On ne peut donc guère, même pour les torses masculins, se satisfaire ici d’une explication naturaliste, et il est clair qu’il s’agit plutôt d’un fait de structure, résultant d’un choix stylistique8, et dont il ne faudra pas s’étonner de constater la présence dès les origines. Ainsi les korés de Cyrène ne devaient sans doute nullement leur carrure épa-nouie, comme l’avait cru J.G. Pedley, à l’adaptation d’un “prototype masculin” antérieur9, dont on n’a d’ailleurs aucune trace, mais, compte tenu du déca-lage chronologique entre les deux séries, on pouvait même se demander si ce n’était pas l’inverse, et si la structure supposée “athlétique” des premiers kouroi pariens10 n’était pas en fait directement héritée des

statues féminines de la première moitié du siècle. Mais une telle hypothèse, qui remettait en cause

la conception, devenue traditionnelle depuis les deux grands recueils de G. Richter, selon laquelle le kouros et la koré formaient une sorte de “couple ty-pologique”11, risquait de se heurter au scepticisme, et restait à vrai dire difficile à démontrer à partir de la documentation existante. La découverte du kouros inachevé entré en 1999 au Musée de Paros sous le nº 1377 fut donc à cet égard une heureuse surprise, puisqu’il fournissait en sa faveur un argu-ment supplémentaire. Car le schéma exceptionnel adopté en l’occurrence par le sculpteur appelait de toute manière une explication, et c’était peut-être là qu’il fallait la chercher.

Comme l’ont souligné les auteurs de la publica-tion, ce schéma ne diffère du schéma habituel que sur un point: la position du bras droit replié sur la poitrine. Mais cela seul suffit à faire problème, car les parallèles sont rares. Ainsi Y. Kourayos et S. Détoratou ont-ils dû se contenter en la matière de deux statuettes en albâtre de Naucratis12, dont il faut bien dire que la parenté avec le kouros parien est purement iconographique. Même si l’on admet, comme il le font en adoptant la date, évidemment arbitraire, fournie par le classement anatomique de Richter (qui les classait dans son “Orchomenos-Thera Group”), que ces statuettes sont antérieures à notre kouros, on ne saurait guère de toute façon y chercher le modèle dont s’est inspiré le sculpteur. Tout au plus pourra-t-on dire que ce modèle, d’ori-gine phénicienne, et probablement transmis aux Grecs par la plastique chypriote dans le premier quart du VIe siècle, était celui qui leur avait déjà servi à élaborer, vers 580, un nouveau type de statue féminine13, dont les premières korés pariennes ne sont qu’un exemple parmi d’autres. Mais le fait est que ce schéma du bras replié sur la poitrine, qui n’était nullement spécialisé dans son milieu d’ori-gine14, avait été très vite, sans qu’on puisse savoir exactement pourquoi, exclusivement affecté par

6 Croissant 2008, p. 320-324.7 Si l’on ne tient pas compte des deux kouroi A 4045 et A 3997,

abusivement considérés par certains comme pariens: Croissant 2008, p. 324, et ci-après p. 162.

8 Ce qu’admet du reste implicitement J. Ducat, GDélos 2005, pp. 92-93: «Si les Naxiens aimaient surtout les courbes douces, les Pariens recherchaient les formes athlétiques».

9 Voir Croissant 2008, p. 323.10 Par ex. ceux de Cyrène (Kouroi 1970, 63b; Pedley 1971, pp.

41-42, pl. 8, 3-4; Pedley 1976, n. 30, p. 42), de l’Archégésion

de Délos (Délos A 3990: GDélos 2005, p. 93 fig. 11) ou de l’Asclépieion de Paros (Louvre MA 3101: Kouroi 1970, 116).

11 G. Richter présentait explicitement son second livre comme “a companion volume to my Kouroi” (Korai 1968, p. vii).

12 British Museum B441 et B 442: Kouroi 1970, 59 et 60.13 Qui avait au moins un précédent, la Dame d’Auxerre: sur

l’origine orientale du geste et ses premières adaptations crétoises, notamment à Gortyne, voir Martinez 2000, p. 22.

14 Voir par ex. Hermary 1989, 67, 68 646, 670.

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157Le premier kouros parien

Fig. 1. Paros A 249, buste de kouros: a) prof. dr.; b) face; c) dos (= Zaphiropoulou 2002, fig. 1, 2, 4). Fig. 2. Délos A 3997, buste de kouros: a) prof. dr.; b) face; c) dos (clichés EFA, Ph. Collet).Fig. 3. Délos A 4045, torse de kouros: a) prof. dr.; b) face; c) dos (clichés EFA, Ph. Collet).

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158 Francis Croissant

les Grecs aux représentations féminines (qu’on ait cherché ou non à l’expliciter par la présence d’une offrande tenue dans la main), alors que le schéma égyptien des deux bras tendus, aux poings fermés, appliqués contre les cuisses, s’imposait d’emblée dans la statuaire masculine15. Son utilisation pour un kouros vers le milieu du siècle dans un atelier parien n’en est que plus surprenante. Aussi les au-teurs de la publication se sont-ils efforcés de trouver d’autres exemples de cette anomalie. Mais ni le kou-ros de Copenhague, ni le kouros naxien de Grotta ne sauraient être considérés comme tels. Le premier, qui est effectivement l’un des plus beaux spécimens de la série parienne, ne doit pas être antérieur à la fin du VIe siècle16, et la position ouverte des épaules aussi bien que l’arrachement du bras droit sur le ventre au-dessus de la hanche excluent la restitution d’un schéma comparable à celui du torse 1377: il paraît abusif en tout cas d’interpréter la profonde cassure qui a emporté le pectoral gauche comme l’arrachement du bras replié17. Quant au kouros de Grotta, que V. Lambrinoudakis a interprété avec beaucoup de vraisemblance comme un coureur18, il répond à un projet tout différent, et n’a évidemment rien à faire dans ce dossier.

Il reste que le nouveau kouros, si l’on met à part le geste du bras droit, s’intègre sans difficulté dans la série déjà nombreuse, et exceptionnellement cohérente, des statues masculines pariennes19: Y. Kourayos et S. Détoratou le rapprochent fort justement du kouros de l’Asclépieion et du kouros de Cyrène20. On pourrait naturellement y ajou-ter plusieurs kouroi déliens, généralement datés comme les précédents du troisième quart du VIe siècle21. Mais l’importance particulière de celui-ci tient précisément à son lieu de découverte, à Paros même, comme la petite statue du Louvre, à laquelle il doit être, nous le verrons, sensiblement antérieur. Par sa seule existence il invite donc à s’interroger

concrètement sur les débuts de la statuaire mascu-line dans les ateliers pariens.

A Délos au moins nous avons vu que la situation paraissait assez claire: alors que les œuvres naxiennes abondent dans la première moitié du siècle, au-cun des kouroi sûrement attribuables à Paros ne semble antérieur à 550/540. Je sais bien que l’on s’est efforcé, à la suite de J. Ducat, de combler ce qui apparaissait comme une lacune fortuite en reconnaissant une origine parienne à deux kouroi incontestablement anciens, A 3997 et A 4045, et susceptibles à ce titre de constituer les “pendants” masculins des premières korés pariennes, A 3996, A 4070 et A 406222. Mais à ne considèrer que les documents, une première constatation s’impose: s’il y a bien entre ces deux œuvres des affinités précises (fig. 2-3), elles n’ont en revanche rien de commun ni avec nos kouroi pariens de la seconde moitié du siècle, ce qui pourrait à la rigueur s’expliquer par la chronologie, ni même, ce qui est franchement pa-radoxal si l’on veut qu’elles soient sorties du même atelier et à la même époque, avec les trois korés de l’Artémision. Or dans la mesure où la filiation directe, du point de vue structurel, entre celles-ci, notamment A 4062, qui est la plus complète, et les korés de la seconde moitié du siècle n’est plus à démontrer23, on ne voit pas pourquoi le type mas-culin, s’il remontait vraiment au premier quart du siècle, n’aurait pas suivi la même évolution.

Quant à la récente publication d’un petit buste masculin (fig. 1), trouvé cette fois à Paros24, mais en réalité, au moins pour le moment, très isolé sur le site, je ne crois pas, comme je l’ai déjà indiqué25, qu’elle ait vraiment modifié les données du pro-blème: Ph. Zaphiropoulou, qui le compte, «avec les kouroi de Délos A 4045 et A 3997, parmi les plus ancien kouroi conservés de l’école parienne»26, ne s’est pas expliquée sur la différence de structure, pourtant flagrante, entre la tête presque cubique

15 On comparera de ce point de vue les kouroi de Sounion (par ex. Kouroi 1970, 2) aux colosses égyptiens du Nouvel Empire (par ex. Woldering 1963, pl. p. 167).

16 Bien que G. Richter l’ait classé dans son «Melos Group» (Kou-roi 1970, 117, pp. 107-108), ni la structure accentuée du bassin, ni la chevelure ondulée, qui évoque les coiffures des personnages d’Oltos et d’Euphronios (Arias-Hirmer, pl. 104 et 111), ne sont évidemment guère imaginables au milieu du siècle.

17 Kouroi 1970, p. 107: «Large hole in front of thorax». Pedley 1976, n. 25, p. 40, pour qui la position du bras droit «suggest an innovative approach… to problems of posture and gesture», mais qui date néanmoins le kouros (avec le kouros du Louvre), de 550, ne mentionne d’ailleurs même pas ce détail.

18 Lambrinoudakis 1986, pp. 109-110, fig. 1.19 Kourayos-Détoratou 2004, p. 67 et note 62.20 Kourayos-Détoratou 2004, pp. 68-71.21 GDélos 2005, pp. 92-93.22 Voir GDélos 2005, p. 92, où leur origine parienne est toujours

affirmée, et en dernier lieu Croissant 2008, p. 324.23 Zaphiropoulos 1986, pp. 101-104. Croissant 2002, pp.

53-62. Croissant 2008, pp. 319-323.24 Musée de Paros, inv. A 249. Zaphiropoulou 2002, pp.

103-107.25 Croissant 2008, p. 324 note 68.26 Zaphiropoulou 2002, p. 107.

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159Le premier kouros parien

de A 24927 et celle de Délos A 3997, que sa forme extrêmement allongée rapproche évidemment des têtes naxiennes (fig. 1b, 2b). Si ce curieux document est bien une production locale, ce qui n’est après tout que probable28, on ne saurait donc raisonnablement, en tout cas pas plus que les deux kouroi déliens, le considérer comme un ancêtre direct du torse 1377. Et force est de supposer, en l’état actuel de la docu-mentation, que les sculpteurs pariens avaient élaboré un modèle original de figure féminine un bon quart de siècle avant de se soucier de lui donner un équi-valent masculin. Même s’il faut évidemment, sur un site dont l’exploration est en cours, et peut réserver bien des surprises, rester prudent, le fait est que les fouilles récentes de Despotiko, près d’Antiparos29, ont plutôt confirmé ce point de vue. Car si l’on y a trouvé des fragments de kouroi, ce qui n’a rien de surprenant dans un sanctuaire d’Apollon, ceux que l’on peut dater de la première moitié du VIe siècle n’étaient pas de production locale: la tête la mieux conservée, datée de 580 par le fouilleur, est même très certainement naxienne30.

Mais de ce que la création d’un type de kouros dans les ateliers pariens ait été une réponse directe aux occasions nouvelles qui s’offrirent à eux dans

le sanctuaire de Délos au moment du retrait, sans doute relativement progressif, des Naxiens, il ne s’ensuit pas nécessairement qu’elle ait eu lieu sur place, et c’est ce que vient opportunément nous rappeler la découverte à Paros de ce torse inachevé. Car il est au moins probable que la diffusion à Délos du nouveau type masculin s’était accompagnée à Paros même de recherches et d’expérimentations préalables, dont 1377 pourrait justement constituer le seul témoin conservé.

L’homogénéité frappante du groupe des kouroi déliens, dont les affinités directes avec le kouros de l’Asclépieion garantissait par ailleurs l’identité parienne, semble en fait avoir plus ou moins décou-ragé toute tentative de classement chronologique interne: l’ensemble délien a été globalement daté de “550/540”31, et le kouros du Louvre, bien qu’on lui ait parfois reconnu, à juste titre d’ailleurs, mais sans en tirer clairement les conséquences, des traits plus “évolués”32, y demeure plus ou moins implicitement inclus. Mais le résultat est un sys-tème relativement fermé, dont la forte cohérence stylistique a trop longtemps masqué la probable disparité chronologique33, et où il est significa-tif que Kourayos et Détoratou aient eu quelque

27 Qu’elle souligne d’ailleurs à juste titre, mais en ajoutant, ce qui étonnera davantage, qu’il s’agit d’un trait «caractéristique des kouroi pariens» (Zaphiropoulou 2002, pp. 105-106). Il suffit de tenter une comparaison précise avec la tête ronde, aux joues rebondies, du kouros du Louvre MA 3101 pour se convaincre qu’il s’agit ici de tout autre chose. Sur la structure des têtes pariennes, voir Croissant 2002, pp. 55 et 58 fig. 17-22.

28 Le marbre, “blanc à grain fin”, peut seulement “être considéré comme provenant des îles” (Zaphiropoulou 2002, p. 104 et 106). Mais en admettant qu’il s’agisse de marbre local, on ne pourra guère comprendre ce petit kouros que comme une tentative expérimentale, et plutôt maladroite, pour adapter un modèle emprunté à la petite plastique de terre cuite phénicienne ou phé-nicisante: la coiffure “néo-dédalique”, qui est sans parallèle exact dans la sculpture grecque (sauf peut-être, mais cela ne mène pas à grand-chose, la stèle béotienne de Dermys et Kittylos: Kouroi 1970, 11), comme la structure massive de la tête ne trouvent guère d’équivalents que parmi les figurines chypriotes (par ex. Fourrier 2007, pl. V et VII). Quant au rapprochement invoqué par Ph. Zaphiropoulou (Zaphiropoulou 2002, p. 105), il ne concerne en tout cas que la nappe de cheveux dorsale, et de toute façon ne parlerait pas en faveur d’une origine parienne, puisque le kouros d’Eleusis (Kouroi 1970, 87) dont la tête allongée est aussi diffé-rente que possible de celle d’A 249, a été généralement considéré comme naxien (voir notamment Pedley 1976, pp. 33-34, qui le rapprochait du kouros Berlin 1555).

29 Kourayos-Burns 2005, pp. 161-16530 Kourayos-Burns 2005, pp. 164-165, fig. 36.31 GDélos 2005, p. 92 (J. Ducat): «Ces œuvres ont été sculptées

vers 550-540 dans du marbre de Paros… Les kouroi de Délos donnent un bon exemple du style parien au milieu du VIe s.».

32 Notamment J. Ducat, qui jugeait la flexion du bras étonnante “avant 540”, mais considérait comme “normal” que sur ce point les sculpteurs pariens fussent “en avance” (Ducat 1971, p. 232). Pedley 1976, p. 40, tout en y relevant “an exploration of move-ment and space unknown in products of Naxian workmanship”, le datait tout de même de 550; Rolley 1994, p. 254-255, plus logiquement, proposait 540-530. Comparé à Paros 1377, comme au kouros de Cyrène et à Délos 3990, MA 3101 se distingue en effet des trois autres à la fois par des proportions plus trapues et une attitude plus souple. Et ces différences, notamment le profil sensiblement fléchi du bras, suffisent, au sein d’une série aussi visi-blement homogène, à poser un problème de chronologie relative: il est clair en tout cas que le kouros du Louvre ne doit pas être le plus ancien. Si hasardeux que soient les critères anatomiques sur lesquels se fonde la chronologie de Richter, l’un des aspects les moins contestables de son classement est en effet de mettre en évidence une libération progressive du mouvement. Ce n’est d’ailleurs pas un hasard si les parallèles que l’on peut trouver à ces bras légèrement fléchis et presque entièrement détachés du corps se trouvent dans son “Anavyssos-Ptoon 12 Group” (Kouroi 1970, pp. 113-125): de profil, le bras du kouros du Louvre est directement comparable à celui du kouros de Munich et du kouros de Kroisos, voire du kouros du Ptoion MN 12, dont les mains ne sont toutefois déjà plus reliées aux cuisses que par un tenon conventionnel.

33 De ce point de vue sa cohérence ne repose en fait que sur celle que l’on veut bien accorder au “Melos Group”, de G. Richter, où l’un des traits caractéristiques de la structure parienne – l’angle très fermé des aines – était arbitrairement utilisé comme un indice chronologique (Kouroi 1970, p. 91). Sur ce problème méthodo-logique, voir déjà Rolley 1978, p. 48. Toute cette chronologie des

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Fig. 4. Cyrène, koré I. Face. Fig. 5. Cyrène, torse de kouros. Face. Fig. 6. Cyrène, koré II. Face. Fig. 7. Cyrène, koré I. Dos. Fig. 8. Cyrène, torse de kouros. Dos. Fig. 9. Cyrène, koré II. Dos.

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161Le premier kouros parien

Fig. 10. Paros 1377, torse de kouros. Face. Fig. 11. Cyrène, torse de kouros. Prof. dr. Fig. 12. Paros 1377, prof. g. Fig. 13. Id., dos. Fig. 14. Cyrène, koré I. Prof. dr. Fig. 15. Cyrène, koré II. Prof. dr.

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difficulté à situer le nouveau kouros. Le premier parallèle invoqué – le kouros de Cyrène – est in-contestablement pertinent, et nous allons y revenir. Mais ni le rapprochement – illusoire, nous l’avons vu, du point de vue typologique – avec le torse de Copenhague34, ni la comparaison avec le kouros du Louvre, qui est très probablement plus récent, ne nous apprennent autre chose que ce que nous savions déjà, à savoir que 1377 est une création parienne. C’est aussi naturellement ce qui justifie le dernier rapprochement invoqué, avec le torse 1282, découvert en 1993 à Paros35 et daté par les fouilleurs de 520-510. Que celui-ci soit construit sur le même schéma que ses prédécesseurs du mi-lieu du siècle n’est pas douteux, mais je ne pense pas qu’il suffise pour autant de calculer la “moyenne” entre ces extrêmes pour assigner à 1377 une date plausible. “Vers 530”, date proposée par les deux savants grecs, on ne voit vraiment pas quelle place pourrait occuper dans l’évolution du type parien cet étrange kouros au bras replié sur la poitrine, selon une formule abandonnée, même dans la sta-tuaire féminine, depuis le second quart du siècle. Et c’est pourquoi il faut revenir sur la proximité directe, qu’ils ont justement soulignée, entre 1377 et le kouros de Cyrène.

Ce kouros, trouvé en 1966, et rapidement pu-blié36, n’a pas suscité le même intérêt que les deux korés qui furent découvertes avec lui, et dont N. Zaphiropoulos devait montrer vingt ans plus tard, dans un article fondamental, toute l’importance pour la définition et l’histoire du style parien à l’époque archaïque37. Le fait est pourtant que ces trois statues, bien qu’elles ne bénéficient toujours pas de l’illustration photographique qu’elles mé-riteraient38, portent ensemble un précieux témoi-gnage. Les korés, attribuées d’abord à un “atelier

de Chios”39 aux caractères assez mal définis, mais où il est significatif que Délos A 4062 leur ait été déjà associée, sont aujourd’hui très généralement reconnues comme les héritières directes de celle-ci, ce qui oblige à supposer la présence en Cyrénaïque, à partir des environs de 560, de sculpteurs pariens, dont la tradition se maintiendra d’ailleurs peut-être jusque dans le dernier quart du siècle40. Quant au kouros, s’il fut au contraire très tôt considéré comme parien41, c’est indépendamment des korés, qui ne figuraient pas à ses côtés dans la liste des attributions au “workshop of Paros” de J.G. Pedley. Qu’en publiant les trois statues, pourtant trouvées dans le même contexte, celui-ci ne se soit même pas posé la question d’une éventuelle relation sty-listique entre elles illustre bien toute la force de nos catégories modernes, et leur capacité à occulter la réalité concrète: il allait de soi, en quelque sorte, que le kouros ne fût confronté qu’à d’autres kouroi, de même que les korés ne pouvaient être comparées qu’à d’autres korés. Aussi, tandis que pour les deux korés les statues samiennes fournissaient les points de repères demandés42 – la koré I étant jugée plus proche de l’“Héra de Chéramyès”, la koré II de la Philippè du Groupe de Généléos –, le kouros devait-il chercher, assez laborieusement d’ailleurs, sa place dans le classement de G. Richter: proche à certains égards du “Tenea-Volomandra Group”, en même temps qu’il présentait des affinités avec le groupe “Anavyssos-Ptoon 12”43, il se retrouvait fi-nalement assigné au “Melos Group”, mais au début de celui-ci44. Le résultat était une chronologie éche-lonnée sur près d’un quart de siècle – la koré I vers 570, la koré II vers 560, le kouros vers 550 – dont il n’est pas besoin de souligner le caractère artificiel. Il suffit en effet de regarder les trois statues côte à côte pour sentir qu’il eût mieux valu les comparer entre

kouroi pariens serait en réalité à reprendre, en tenant compte du fait que la structure de référence reste la même tout au long de la série: on la retrouvera pratiquement inchangée, nous l’avons vu à propos du kouros de Copenhague, dans le dernier quart du VIe siècle, comme dans les premières années du Ve siècle avec le kouros d’Anaphi, plus connu sous le nom d’“Apollon Strangford” (British Museum D 475: Kouroi 1970, 159.), dont la filiation par rapport au kouros de l’Asclépiéion a été relevée depuis longtemps (Croissant 1983, pp. 122-123, pl. 37).

34 Ci-dessus n. 16.35 Kourayos-Détoratou 2004, pp. 70-71, fig. 16-18. Zaphiro-

poulou 2008, p. 55 (nº 2: torse A 1281; nº 3: base A 1282) et 60-61, fig. 2.

36 Pedley 1971, pp. 39-46, pl. 6-8.37 Zaphiropoulos 1986, pp. 97-100.

38 L’illustration des deux articles de J.G. Pedley est très com-plète, mais la reproduction en est techniquement médiocre, et la photographie des deux korés publiée par Cl. Rolley, qui est bien meilleure, souffre d’une prise de vue en contre-plongée, qui la rend peu utilisable (Rolley 1994, fig. 254).

39 Pedley 1982, pp. 183-191, pl. 22-25.40 Il est en effet difficile de ne pas rapprocher les deux korés trou-

vées dans le Sanctuaire (Korai 1968, 168 et 169) des korés déliennes de la fin du siècle (Korai 1968, 147-152; GDélos 2005, p. 94).

41 Pedley 1976, p. 42, note 30. 42 Pedley 1971, pp. 45-46.43 Pedley 1971, p. 41: «the rather stockier proportions and the

greater freedom of the contour line indicate affinity with Anavyssos-Ptoon 12 Group».

44 Pedley 1971, p. 42: «… a date early in the Melos Group».

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elles que de leur chercher des parallèles externes: car elles révèlent d’emblée une identité structurelle profonde, qui rend les contours de ces torses, de face et de dos comme de profil, quasiment superposables (figs. 4-9, 11, 14-15). Dans la mesure où l’opposi-tion iconographique ne favorisait évidemment pas ici l’assimilation formelle, il est clair, nous l’avons dit, que celle-ci correspond à un choix stylistique: Pedley, dans son premier commentaire des deux korés, soulignait d’ailleurs leur complète originalité par rapport aux œuvres déjà connues. Et l’explica-tion qu’il en donna par la suite, en tentant de les intégrer à sa reconstitution des débuts de l’“atelier de Chios”, reposait sur une intuition juste, dont nous allons voir qu’il suffit sans doute d’inverser la conclusion: constatant une relation structurelle, notamment dans le modelé du dos, entre ces pre-miers torses féminins, qui lui semblaient marquer, vers 580, en rupture avec la tradition dédalique, un “nouveau départ” dans l’histoire de la sculpture

grecque, et les torses masculins apparus dès la fin du VIIe siècle, il formulait en effet sans hésitation l’hypothèse d’une “dépendance” des premiers par rapport aux seconds45.

Pourtant, si l’on regarde sans a priori les trois statues de Cyrène, tout ce que l’on pourra constater est qu’elles sont construites sur un schéma commun: à vrai dire la forme particulière du torse, dont les contours s’inscrivent dans un système de courbes équilibrées que j’ai déjà eu l’occasion de décrire, à propos justement de la koré A 4062 de Délos46, crée entre le kouros et les korés une unité si visible qu’il paraît vain de chercher à opposer ici deux structures, respectivement masculine et féminine. La seule évi-dence, à ce stade, est celle d’une représentation idéale – et indifférenciée – du corps humain, dont chaque statue constitue une interprétation particulière, grâce à des éléments de différenciation – d’ordre anato-mique, gestuel, ou ornemental comme la coiffure ou le vêtement – qui fonctionnent comme des attributs

Fig. 16. Statues pariennes, essais de restitution: a) Cyrène, koré II; b) Paros 1377: c) Cyrène, kouros.a

bc

45 Pedley 1982, p. 191: «Dependance on kouroi may also be seen in the back wiews of of the korai of this group where the torsos

are perhaps modelled after a masculine prototype…».46 Croissant 2002, p. 54.

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164 Francis Croissant

secondaires. Il est donc aussi vain de se demander si ces bras aux muscles rebondis, ces épaules largement arrondies, tirées en arrière pour gonfler la poitrine, sont réellement “athlétiques” que de parler d’“em-bonpoint” à propos des statues samiennes47, ou de juger les kouroi attiques “maigres” ou “nerveux”48. Car il s’agit dans tout les cas de partis pris formels: ici les volumes “musculaires” des bras des épaules, des seins ou des pectoraux répondent aux longues courbes sinueuses qui enveloppent le torse, le bassin et les jambes et dont le vêtement, dans la “version” féminine, qui doit être en fait la “version originale”, garantit la continuité et l’équilibre visuels.

C’est dire qu’une chronologie relative interne est ici fort aléatoire: entre les deux korés, elle ne pour-rait se fonder que sur le décor du chitôn, en allant, d’une manière en réalité tout à fait arbitraire, du plus simple au plus complexe, ou sur l’arrangement de la chevelure dans le dos, qui établirait en revanche un lien direct entre la koré I et le kouros. La vérité est qu’aucun élément objectif ne nous permet, quoi qu’on en ait dit49, de mesurer précisément l’écart chronologique qui séparait peut-être ces trois sta-tues, ni même d’exclure absolument qu’elles soient contemporaines. Les quelques repères dont nous dis-posons pour une datation absolue doivent donc être utilisés avec la plus extrême prudence. Mais à l’inté-rieur de la série parienne, on peut s’accorder en tout cas à tenir Délos A 4062 pour plus ancienne que les korés de Cyrène, que l’on ne saurait par ailleurs non plus trop éloigner des statues samiennes de l’époque de Chéramyès. Quelle que soit la distance réelle entre les grandes korés “jumelles” et le “groupe de Géné-léos”50, on vient de voir toutefois qu’il était illusoire de tirer de tels rapprochements des dates précises: il y a en réalité beaucoup plus de points communs entre les trois statues de Cyrène que chacune d’elles n’en a avec l’un ou l’autre des documents samiens. Et le traitement des cheveux étant tout simplement

sans parallèle, sauf précisément chez les kouroi51, il ne reste guère à exploiter que le motif de la chute du chitôn sur les pieds nus, et il ne saurait guère fournir qu’un terminus post quem. La koré délienne pouvant être datée vers 570, et les statues de Samos dans la décennie 570/56052, il me semble donc que les années 560/550 constitueraient pour celles de Cyrène un cadre assez vraisemblable.

C’est sans doute au cours de cette période que les sculpteurs pariens, afin de pouvoir faire face à la demande nouvelle qui leur était adressée dans le sanctuaire de Délos, durent commencer à réaliser des figures masculines, et la relation étroite, relevée par Kourayos et Détoratou, entre 1377 et le kouros de Cyrène est donc d’une importance cruciale. De face et de dos comme de profil (figs. 5, 8, 10-13), les deux torses s’avèrent quasiment identiques du point de vue structurel: les seules différences tiennent à vrai dire d’une part à l’état d’inachèvement de 1377 – qui épaissit sensiblement les volumes –, d’autre part, naturellement, au geste du bras droit replié sur la poitrine. Il est donc extrêmement tentant de supposer que le sculpteur n’avait pas été chercher très loin l’idée de cette posture atypique, sans précédent dans la statuaire masculine: soucieux de créer un type de kouros original, et qui fût proprement parien, il avait d’abord choisi d’adapter directement le modèle de figure féminine élaboré depuis une vingtaine d’an-nées déjà dans les ateliers de Paros, celui dont la koré de Délos A 4062 constitue la première reproduction connue, et sur lequel seront construites aussi bien les deux korés de Cyrène que la koré de Naoussa53. De fait, il suffit aujourd’hui d’inverser par symétrie le contour de la koré II de Cyrène54 pour obtenir du bras et de l’épaule disparus du kouros 1377 une restitution graphique tout à fait vraisemblable (fig. 16b). Entre celles de la koré II (fig. 16a) et du kou-ros de Cyrène (fig. 16c), dont le sculpteur, tout en conservant pour l’essentiel le même schéma, avait

47 Surtout quand on veut y voir une indication sur l’âge du modèle vivant: c’est ainsi par ex. que s’expliquerait la différence de proportions entre les grandes korés de Chéramyès et la koré au lièvre de Berlin (Kyrieleis 1995, p. 21).

48 Il suffit par ex. de comparer les kouroi pariens à des œuvres comme le kouros Milani ou le kouros de Munich (Kouroi 1970, 70 et 135) pour comprendre que cette tentation d’une description naturaliste est à la fois irrésistible et irrémédiablement décevante. Car même si les éléments anatomiques mis en valeur par chaque style sont sans doute à l’origine effectivement empruntés à des mo-dèles naturels différents, il est clair que leur exploitation plastique répond en fin de compte, dans chaque cas, à une logique structurelle beaucoup plus que naturelle.

49 Voir ci-dessus, note 41-43.50 Sur la fragilité de nos critères en la matière, voir Duplouy

2006, pp. 237-238.51 Comme le soulignait lui-même Pedley, sans se rendre

compte qu’il s’agissait essentiellement de kouroi pariens, et que par conséquent ce type de coiffure était d’abord un trait de style (Pedley 1982, p. 187).

52 Voir en dernier lieu Duplouy 2006, pp. 195-201.53 Délos A 4062: Croissant 2002, p. 59 fig. 23. Paros 802:

Zaphiropoulos 1986, pp. 94-96, pl. 36-37. Croissant 2008, p. 320, fig. 16-21.

54 De ce point de vue plus proche du kouros inachevé que la koré I, dont la main est placée un peu plus haut sur la poitrine.

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165Le premier kouros parien

choisi de l’intégrer à la typologie “égyptienne”, sans doute pour rivaliser plus directement avec les kouroi naxiens, qui illustraient brillamment celle-ci à Délos depuis un demi-siècle, cette image complétée55 du nouveau torse de Paros prend toute sa signification. Car elle permet d’en mieux comprendre le caractère expérimental, et montre comment la transformation progressive, au sein d’une même tradition stylistique et sans modification profonde de la structure de référence, d’un type à l’origine conçu pour réaliser des statues féminines drapées a pu aboutir à la genèse du kouros. Bien entendu il a dû s’agir d’un proces-sus relativement court, et la succession suggérée par ces trois images est d’ordre logique bien plus que chronologique. Car si notre hypothèse est exacte, le kouros de Cyrène doit être postérieur, même de peu, au torse de Paros, tandis que la koré II, qui nous a servi ici de référence, ne lui est pas elle-même néces-sairement antérieure, dans la mesure où le modèle qu’elle reproduit était de toute façon plus ancien. Les auteurs de la publication, à bon droit surpris qu’une œuvre aussi maîtrisée eût été brusquement abandon-née à un stade déjà fort avancé de son exécution, ne cachaient pas leur embarras, allant jusqu’à invoquer la possibilité d’une mort prématurée du sculpteur. Si l’on admet ce qui précède, il serait évidemment ten-tant de voir plutôt dans l’inachèvement de ce travail une sorte d’aveu de perplexité, et comme une ultime appréhension de l’artiste ou de son commanditaire devant un projet dont l’intransigeance identitaire56 avait pu les séduire, mais qui comportait évidemment un risque de marginalisation typologique, surtout au sein d’une série dont l’homogénéité s’était déjà bien affirmée, non seulement à Délos mais dans l’ensemble du monde grec. Et d’ailleurs, même si la très haute qualité de l’ébauche qui nous est parvenue peut nous faire regretter que ce projet n’ait pas abouti, il nous faut bien constater aujourd’hui qu’il était en effet sans avenir.

Abréviations bibliographiques:

Arias-Hirmer 1960 = P.E. Arias - M. Hirmer, Tausend Jahre Griechische Vasenkunst, München 1960.

Croissant 1983 = F. Croissant, Les protomés féminines archaïques. Recherches sur les repré-sentations du visage dans la plastique grecque de 550 à 480 av. J.-C. (BEFAR 250, Paris 1983).

Croissant 2002 = F. Croissant, ‘Observations sur la koré A 4062 de Délos’, in Arcaòa Ellhnikhé Gluptikhé. Afieérwma sth mnhémh tou gluépth Steéliou Triaénth. Mouseòo Mpenaékh,1º Paraérthma, Ajhéna 2002, pp. 51-62.

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Ducat 1971 = J. Ducat, Les kouroi du Ptoion. Le sanctuaire d’Apollon Ptoieus à l’époque archaïque (BEFAR 219, Paris 1971).

Duplouy 2006 = A. Duplouy, Le prestige des élites. Re-cherches sur les modes de reconnaissance sociale en Grèce entre les Xe et Ve siècles avant J.-C., Paris 2006.

Fourrier 2007 = S. Fourrier, La coroplastie chypriote ar-chaïque. Identités culturelles et politiques à l’époque des royaumes, Lyon 2007.

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Kourayos-Détoratou 2004

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Kouroi 1970 = G.M.A. Richter, Kouroi. Archaic Greek Youths, 3e ed., London 1970.

Kyrieleis 1995 = H. Kyrieleis, ‘Eine neue Kore des Cheramyes’, in AntPlast 24, 1995, pp. 7-36.

55 Le schéma des têtes est emprunté aux quelques documents pariens bien conservés à cet égard, notamment le sphinx de Délos A 583, le kouros de l’Asclépieion de Paros (Louvre MA 3101), et la tête Iolas (Rolley, in BCH 102, 1978, pp. 41-50). Voir Croissant 2002, p. 55 et 58 fig. 17-20.

56 Au sens où J. Ducat parlait de «style béotien intransigeant» (Ducat 1971, p. 209).

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166 Francis Croissant

Lambrinoudakis 1986 = W. Lambrinudakis, ‘Die Physio-gnomonie der spätarchaischen und frühklassischen naxischen Plastik’, in H. Kyrieleis (ed.), Archaische und klassische griechische Plastik (Mainz 1986), Bd I, pp. 107-116.

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Rolley 1994 = Cl. Rolley, La sculpture grecque, I, Paris 1994.

Zaphiropoulos 1986 = N.S. Zafeiroépoulov, ‘Arcai=kv keév koérev thv Paérou’, in H. Kyrieleis (ed.), Archaische und klassische griechische Plastik, Mainz 1986, Bd I, pp. 93-106.

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Zaphiropoulou 2008 = F.N. Zafeiropouélou, ‘H parianhé gluptikhé kai oi prwtoéporoi dhmiouérgoi thv’, in Y. Kourayos - F. Prost (éd.), La sculpture des Cyclades à l’époque archaïque (Actes du colloque inter-national organisé par l’Ephorie des Antiquités préhistoriques et classiques des Cyclades et l’Ecole française d’Athènes, 7-9 septembre 1998), BCH Suppl. 48, 2008, pp. 55-71.

Woldering 1963 = I. Woldering, Egypte. L’art des Pharaons, Paris 1963.

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Dans le mythe de Térée, Procnè et Philomèle, homme et femmes se rendent assurément coupables de bien des crimes: viol, mutilation, meurtre, can-nibalisme… et finissent tous métamorphosés en oiseau. Servons-nous, une fois de plus, de la trame qui nous est parvenue de la pièce de Sophocle pour en résumer l’intrigue1: Pandion, roi d’Athènes donne sa fille Procnè à marier au roi des Thraces, Térée. Ils s’en vont vivre dans ces lointaines contrées et y ont un fils, Itys. Se languissant de sa famille, Procnè demande à son mari d’aller chercher sa sœur Philomèle. Sur la route du retour, Térée viole Philomèle et lui coupe la langue pour qu’elle n’en dise rien. Philomèle réussit cependant à avertir sa sœur en tissant le récit de ses malheurs. Les deux sœurs se vengent: elles tuent Itys et le font manger à Térée; puis elles lui révèlent qu’il a mangé son fils. Térée se lance à leur poursuite pour les tuer et tout le monde est transformé en oiseau: Procnè en ros-signol (aèdôn), Philomèle en hirondelle (chélidôn) et Térée en huppe (épops).

Telle est la version la plus courante de ce mythe, que nous retrouvons ensuite résumée dans la Bi-bliothèque du Pseudo-Apollodore (III, 14, 8) ou développée par Ovide dans ses Métamorphoses (VI, 412 sq.), ce dernier texte étant assurément le plus

commenté par les philologues. Mais les variantes sont bien sûr nombreuses, que ce soit dans l’enchaî-nement des faits, le nom des personnages ou bien encore la localisation des événements. C’est ainsi que pour Thucydide (II, 29), Térée était en fait originaire de Daulis, en Phocide, alors occupée par les Thraces2, tandis que d’autres sources déplacent une partie ou la totalité des événements à Thèbes ou à Mégare3. La plus ancienne attestation littéraire, Odyssée, XIX, 518-523, s’éloigne ainsi sur bien des points de l’intrigue que la tragédie de Sophocle a rendu célèbre: «Vois la fille de Pandareus, la chanteuse verdière, Quand elle module un beau chant au retour du printemps, Toujours perchée au plus épais des bocages feuillus, Elle répand sur tous les tons ses roulades pressées, Pleurant sur son cher Itylos, ce fils du roi Zéthos, Qu’un jour avec le bronze elle avait tué par méprise (aphradia)4».

L’un des scholiastes de l’Odyssée explicite cette allusion: «Zèthos épouse Aèdon, fille de Pandareos, et il leur naît Itylos et Nèis. Aèdon tue son fils Itylos, une nuit, le prenant pour le fils d’Amphion, jalouse qu’elle est de la mère de celui-ci, parce qu’elle a six enfants, alors qu’elle-même n’en a que deux. Zeus la condamne à un châtiment et elle le prie de la

VIOLENCES ET TRANSGRESSIONS DANS LE MYTHE DE TÉRÉE

Ludi Chazalon – Jérôme Wilgaux

1 Cfr. fragments 581-595b Radt, et la reconstitution de la pièce proposée par Fitzpatrick 2001, ainsi que les remarques récentes de Jouanna 2007, 664-665.

2 «Les Athéniens voulaient obtenir l’alliance de Sitalkès, fils de Térès et roi de Thrace. Ce Térès, père de Sitalkès, avait fondé le puissant royaume des Odryses, qu’il avait étendu à la plus grande partie du reste de la Thrace. Cependant une grande région de la Thrace est aussi indépendante. Ce Térès n’a pas le moindre rapport avec Térée, qui avait épousé Procné, fille de Pandiôn, d’Athènes. Ces deux hommes n’étaient pas non plus de la même Thrace. L’un, Térée, habitait Daulis, ville de la contrée qu’on

appelle maintenant la Phôkide et qui était alors occupée par les Thraces, et c’est là que les femmes commirent sur Itys l’attentat (ergon) que l’on sait. Aussi bien les poètes, en parlant du rossignol, l’appellent-ils l’oiseau de Daulis. Il est vraisemblable du reste que Pandiôn maria sa fille à Térée, en raison de la proximité des deux pays; les deux princes pouvaient se porter réciproquement secours; tandis que plusieurs journées de route les séparaient des Odryses». Chez Apollodore (Bibliothèque, III, 14, 8 [193-195]), Daulis est le lieu de la métamorphose.

3 Cfr. Mihailov 1955.4 Trad. Frédéric Mugler, Actes Sud, 1995.

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168 Ludi Chazalon – Jérôme Wilgaux

transformer en oiseau; Zeus fait d’elle un rossignol; et elle se lamente toujours sur Itylos, comme le dit Phérécyde5».

D’une variante à l’autre, apparaissent des constantes, qui constituent les éléments les plus anciens et le plus souvent évoqués dans les sources littéraires6, la métamorphose en oiseau et la plainte désormais incessante de la mère meurtrière de son propre fils7.

Ce mythe a suscité ces dernières années de nombreux commentaires, un succès que nous ne démentirons pas8. L’étude que nous proposons,

constituée de deux parties, s’inscrit dans une démarche anthropologique et se fonde sur des sources différentes (images et textes), afin de faire apparaître une arti-culation dans la lecture du mythe.

Les questions qui nous ont occupés sont celles de l’enchaînement des crimes commis, tel qu’il peut être re-constitué au fil des variantes et des sources, de leur expli-cation et de leur hiérarchi-sation. L’enseignement qui peut être tiré des sources ico-nographiques et des sources littéraires est en effet de ce point de vue contrasté. Si, au début du Ve s. av. J.-C., une série de peintures sur vase met en scène le mythe et représente exclusivement les crimes commis par les prota-gonistes féminins, à partir de la seconde moitié de ce siècle, les sources littéraires attri-buent des crimes tout aussi

monstrueux au principal protagoniste masculin, Térée, et au fil du temps insistent de plus en plus clairement sur sa responsabilité. C’est ce contraste que nous voudrions tout d’abord montrer, avant d’en proposer une interprétation.

I - Les images du mythe: regards sur les femmes

Une toute petite série d’images attiques met en scène cette histoire en l’articulant autour de trois épisodes. La série ne comporte que sept ou huit représentations, si l’on écarte huit images habituel-

5 Scholie à Odyssée XIX, 518, citée par Biraud-Delbey 2006, 26, n. 4.

6 Voir par exemple les nombreuses références à la plainte du rossignol réunies par Léetoublon 2004, 88 sq.

7 Dans les Travaux et les Jours (v. 568), Hésiode évoque «Pan-dionis, l’hirondelle à la plainte sonore», et selon Élien, le corpus hésiodique mentionnait le banquet au cours duquel le père dé-vore son propre fils: «Hésiode dit que le rossignol est le seul des

oiseaux à se détourner du sommeil et à veiller toute la nuit; que l’hirondelle ne veille pas toute la nuit, et qu’elle a perdu la moitié du sommeil. Ils subissent ce châtiment à cause de l’expérience perpétrée en Thrace, lors de ce banquet criminel» (Élien, Histoires variées, XII, 20 = Hésiode, fr. 312, trad. Ph. Brunet, LGF, 1999).

8 Parmi les études les plus récentes, signalons Frontisi-Du-croux 2003; Léetoublon 2004; Monella 2005; Biraud-Delbey 2006. Pour la bibliographie, voir Chazalon 2003.

Fig. 1. Bâle HC 599 (coll. Cahn) - Coupe attique à figures rouges. Peintre de Magnon-court [von Bothmer]. Vers 500 av. J.-C.

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169Violences et transgressions dans le mythe de Térée

lement ajoutées à la liste suite à une lecture erronée ou abusive9. Ce nombre bien faible nous oblige à rappeler que les interprétations anthropologiques nécessitent normalement plus de données pour atteindre une analyse véritablement fiable. Mais, l’iconographie grecque nous pose souvent ce pro-blème: faut-il renoncer à toute interprétation face à un corpus moindre, voire face à un hapax? Tout en insistant sur le fait que l’on doit accueillir avec prudence les résultats de l’analyse, il me semble qu’il n’y a pas lieu de s’interdire l’étude, d’autant que les quelques vases retenus fonctionnent clairement sur des analogies, des références internes à la mise en image du mythe.

Les images qui nous intéressent s’avèrent être l’œuvre de quelques peintres de vases attiques dans les quarante premières années du Ve s. av. J.-C. Les textes présentant une narration de ce mythe étant nettement plus tardifs, on peut considérer qu’il s’agit là du premier «récit» articulé que nous connaissions. Or, et ce n’est pas là la moindre de ses originalités, la petite série assemblée présente trois moments différents du mythe. Malgré cette diversité, cette recherche de l’expression visuelle, les peintres mettent l’accent presque systématiquement sur la faute des femmes.

Le crime implacable de la mère, la complicité active de la sœur

Le meurtre nous est présenté dans toute son horreur sur une coupe fragmentaire du peintre de Magnoncourt (fig. 1)10. La scène apparaît dans le médaillon interne; elle se révèle en fin de boisson, mettant sous les yeux du buveur le meurtre de l’enfant par la mère. Ce dévoilement est d’autant mieux mis en scène que la coupe n’est pas décorée à l’extérieur; or, les représentations des salles de symposion nous le montrent souvent, les coupes sont suspendues au mur de telle sorte que l’on en voit les représentations externes. Ici la coupe est simplement vernie en noir à l’extérieur, neutre: rien n’annonce la cruelle “surprise”.

L’iconographie grecque ne manque pas de meurtres d’enfant particulièrement violents. Il suffit de rappeler le sort visuel qui est fait à Astya-

nax. Les textes n’en signalent rien, mais les images grecques de l’Ilioupersis reviennent abondamment sur le thème: l’enfant est massacré par Néoptolème. Pire, saisi par une jambe, il devient l’arme dont se sert Néoptolème pour tuer son grand-père à grands coups. Priam et Astyanax disparaissent dans un même crime, exterminés par le fils d’Achille. Une affaire d’hommes.

Le médaillon de la coupe de Bâle est autrement atroce: il s’agit avant tout d’un meurtre commis par des femmes. La scène a lieu dans un espace que rien ne qualifie, excepté un fourreau d’épée suspendu au mur, qui permet de dire l’intérieur d’une pièce. Des deux femmes, il reste surtout l’image de la meurtrière, l’autre femme étant presque entièrement perdue dans la lacune. On en devine assez pour constater que les deux femmes sont élégamment habillées d’un long chiton au tissu fin et transparent, à la mode de l’époque qui laisse entrevoir la silhouette du corps nu. La meurtrière est bien coiffée, une bandelette dans les cheveux, embellie par des boucles d’oreille. Ce n’est pas, loin de là, la première meurtrière montrée dans l’iconographie grecque; mais il semble que le peintre de Magnoncourt ait fait attention à la distinguer visuellement des femmes armées d’épée que l’on voit tuer Orphée: celles-là sont thraces, tatouées, bien différentes de Procnè l’Athénienne. De fait, les femmes armées d’épée ne sont pas si fréquentes. Clytemnestre est représentée avec une double hache. Andromaque, se défendant au cours de l’Ilioupersis, emploie le pilon, arme ironique et féminine blessant autant l’orgueil que le corps des guerriers grecs. Il existe quelques images montrant Médée tuant ses enfants avec une épée; mais c’est en étrangère, habillée comme telle, qu’elle est représentée. Quelques autres images introduisent l’image de femmes armées d’épée: elles sont alors en groupe, plusieurs d’entre elles avec une épée. Sur la coupe de Rome11, la tête décapitée, que l’une d’entre elles porte, fait penser à une scène concernant des ménades et Penthée. La représentation d’une belle femme, bien habillée et joliment parée brandissant une épée n’a rien de banal12; elle joue au contraire sur des contrastes savamment calculés.

9 Pour les arguments permettant de revoir la liste: Chazalon 2003, 136-148.

10 Coupe attique du peintre de Magnoncourt. Vers 500 av. J.-C. Bâle HC599. LIMC VII Procnè n. 3.

11 Coupe attique à figures rouges. Rome, Villa Giulia 2268.

LIMC VII, Pentheus, n. 44.12 Il existe quelques autres images, uniques. Sur une coupe

du cercle du peintre d’Euaion, vers 450 av. J.-C., la fille de Pélias tient l’épée; un chaudron se trouve derrière elle (Bâle, Antikenmuseum. LIMC I Alkandre 532). Sur une hydrie qui

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170 Ludi Chazalon – Jérôme Wilgaux

L’épée, une arme de tueurL’épée n’est pas une arme de femme. Aucune arme

n’a vocation à être utilisée par une femme. Il s’agit avant tout d’une arme appartenant à la panoplie du héros, au même titre que ses lances, son bouclier, ses cnémides et son casque. Mais l’épée signifie bien plus qu’une arme quelconque. Dans l’Iliade, les combats racontés se font à la lance; au chant VII, le duel entre Hector et Ajax (v. 245-275) est centré sur cette arme, puis chacun combat avec une pierre pour atteindre le bouclier de l’autre. La tombée de la nuit fait arrêter la bataille, juste au moment où ils se seraient “attaqués à l’épée”. Cette épée est bel et bien la dernière arme que l’on emploie, celle que l’on dégaîne pour tuer, pour achever l’ennemi. L’iconographie reflète cette interprétation. Pour montrer le duel, noble et valeureux, le peintre de vase préfère souvent représenter le moment du défi où chaque guerrier brandit sa lance et brave son adversaire sur un pied d’égalité13. Sans chercher à généraliser, on constatera que les images de deux guerriers se défiant à l’épée ne semblent pas avoir retenu l’attention. Lorsqu’elles existent, le contexte est bien différent, comme par exemple les scènes de la querelle des héros pour les armes d’Achille.

Ajax et Ulysse dégaînent leur épée14, qu’ils soient habillés en citoyen ou en hoplite, et sont retenus par leurs compagnons. L’emploi de cette arme apparaît comme inapproprié; ces épées ne seraient-elles pas empoignées pour suggérer, en plus de la ferme attitude des compagnons, que ce duel fraternel ne doit pas avoir lieu?

De fait, les images montrant un guerrier armé de son épée ne sont pas sans évoquer cette longue tradition visuelle de mise à mort d’un adversaire monstrueux. Les représentations d’amazonoma-chies sont très instructives de ce point de vue.

L’exemple d’une amphore du groupe de Toronto 305 (fig. 2)15 nous permettra d’appuyer cette inter-prétation. Sur une face, deux guerriers s’affrontent au-dessus d’un troisième tombé et sur l’autre face, Héraclès combat contre deux amazones. D’un côté, nous nous trouvons donc devant ce défi qui oppose deux guerriers habillés en hoplite, tous deux avec une lance, une épée dont on voit le fourreau, un bouclier rond, des cnémides et un casque corinthien. Même si l’armement diffère légèrement (un casque à cimier haut pour l’un, à cimier bas pour l’autre et une cuirasse pour celui de gauche), rien n’est proposé dans l’image pour distinguer les adversaires. Impos-

rappelle le peintre de la Nekya, vers 450-440 av. J.-C., une femme debout, de face, tient une épée; une femme (himation relevé sur la nuque) est allongée à ses pieds sur un matelas, un coussin sous la tête. La scène n’est pas identifiée; une erreur de lecture qualifiant la femme couchée de jeune garçon a fait croire à une représentation du mythe de Térée (LIMC VII, Prokne 8. Prague, Univ. Charles 60.31).

13 Voir par exemple la célèbre amphore du Louvre G1 du

peintre d’Andokidès. Denoyelle 1994, n. 41.14 Voir l’amphore du peintre de Munich 1410, duellistes en

hoplite, Munich 1411 (Schefold 1992, fig. 298) ou la coupe du peintre de Brygos, duellistes en “civil”, Londres E69 (Boardman 1975, fig. 247).

15 Amphore à col du groupe de Toronto. Naples 81110 (LIMC I, Amazones, n. 33).

Fig. 2. Naples, Musée National 81110 - Amphore à col attique à figures noires. Groupe de Toronto [Beazley]. Vers 520 av. J.-C.a b

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171Violences et transgressions dans le mythe de Térée

sible d’identifier le Grec ou le Troyen; impossible de comprendre qui est en train de gagner ou qui est venu secourir le guerrier tombé16. L’image est si fréquente qu’elle en est banale. Aucun des guerriers ne s’acharne sur le guerrier tombé pour l’achever, mais un nouveau défi est relevé.

L’autre face reprend la même structure visuelle pour représenter le combat tout en introduisant un déca-lage qui met en scène la perception bien différente que le spectateur grec a d’une amazonomachie. Les trois personnages sont presque dans la même posi-tion. Mais Héraclès, dans un élan plein de fougue, jambe levée, épée brandie, calme d’un geste l’Ama-zone qui arrive vers lui, tandis qu’il est occupé à tuer celle qui tombe. Le bras gauche tendu, main ouverte, il semble temporiser: il n’y a pas de défi valeureux possible avec une Amazone. «Paradoxe absolu pour un Athénien, elles représentent un véritable monde à l’envers du point de vue du citoyen hoplite qui se considère comme le rempart de la cité, et constituent une menace permanente pour le monde civilisé. Aussi en image sont-elles constamment combattues soit par le héros civilisateur Héraclès, soit par le héros athénien Thésée»17. Les Amazones représen-tées ici sont d’autant plus dangereuses qu’elles sont habillées en hoplite grec, avec hoplon, cuirasse, lance, épée; seul leur casque attique est inhabituel chez les hoplites grecs qui portent en général, sur les vases attiques à figures noires, un casque corinthien. Les Amazones sont ainsi rapprochées d’Athéna qui endosse toujours à cette époque un casque attique avec ou sans paragnathides, comme le souligne aussi Martin Bentz: «Le casque attique, forme mixte entre le casque ionien et le casque chalcidien, apparaît à l’époque archaïque et classique exclusivement dans la peinture; au VIe s. c’est le casque préféré pour Athéna et les Amazones»18. Equipées en hoplite mais portant le casque attique, les Amazones ne peuvent que choquer profondément; elles sont, visuellement aussi, rendues monstrueuses par ces usurpations de costume. Il n’y a donc aucune surprise à voir Héraclès, qui n’a rien d’un hoplite, se précipiter sur l’Amazone tombée pour l’exécuter d’un coup d’épée.

Si cette amphore révèle par un jeu de contre-

points particulièrement éclairant des systèmes de valeurs opposés, elle n’est pas unique en son genre: il est fréquent19 de voir utilisé ce schéma qui montre autre chose qu’une simple bataille et suggère l’anéantissement des Amazones. On constatera que c’est l’épée qui est presque systématiquement employée (dans la fourchette chronologique de la deuxième moitié du VIe s. et de la première moitié du Ve s. av. J.-C.). L’épée dégaînée est une façon de dire le massacre, d’insister sur la tuerie. Elle n’est pas montrée indifféremment dans l’image. Une autre arme peut certes lui être substituée, l’épée n’est pas indispensable à la compréhension de l’image; mais lorsqu’on la montre utilisée, l’épée suggère quelque chose d’inéluctable, la mort immédiate et non pas le combat, une forme d’extermination. Comment ne pas ajouter à cette analyse, la scène d’Achille plongeant son épée dans la gorge de Penthésilée sur la coupe de Munich20?

L’inversion des rôles sur la coupe du peintre de Magnoncourt n’en est que plus flagrante: ce n’est plus un homme qui tue une femme, un héros qui tue un monstre; c’est une femme qui brandit cette arme d’exécution contre un garçon, une arme dont on n’échappe pas et qui dit la défaite inéluctable de la victime. L’image, déjà immédiatement horrible pour le spectateur contemporain, s’en trouve lestée d’une cruauté plus intense.

Culpabilité des femmesCette représentation du crime des deux femmes,

la meurtrière à gauche, la sœur, à droite, tenant l’enfant qui se débat, met indéniablement l’accent sur la culpabilité des femmes. L’image évoque aussi l’atmosphère des images de l’Ilioupersis: la coupe d’Onésimos21 où Néoptolème assassine Priam suppliant en se servant d’un Astyanax désarticulé dans la mort; l’hydrie Vivenzio22 où le fils d’Achille brandit une épée très semblable à la machaira du sacrifice et achève le vieux Priam réfugié sur l’au-tel, son petit-fils ensanglanté sur les genoux. Les commentateurs23 ont souligné à quel point la scène insiste visuellement sur le rapprochement dans la

16 Ducrey 1987, 201-211.17 Lissarrague 1991, 247.18 Bentz 1998, 47.19 Voir par exemple LIMC I, Amazones nn. 2, 3, 6, 7, 8, 9,

16, 17, 26, 27, 28, 36, 37, 41, 44, 51, 62, 70, 77, 83.20 Coupe attique à figures rouges, peintre de Penthésilée, vers

460 av. J.-C. Munich 2688. Robertson 1992, 161.21 Coupe attique à figures rouges d’Onésimos. Vers 500-490

av. J.-C. Rome, Villa Giulia. Williams 1991.22 Hydrie attique à figures rouges du peintre de Kléophradès.

Naples 81669. Boardman 1975, fig. 135.23 Voir notamment Laurens 1985; Touchefeu 1983.

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mort de Priam et d’Astyanax, sur la violence de leur destin et l’extinction de leur lignée horriblement, grotesquement mise en scène. Ces images, bien connues au début du Ve s. av. J.-C., viennent à l’es-prit lorsqu’on voit cette autre extermination d’une lignée. La mère tue son fils avec l’aide de sa sœur et éteint sa descendance… dans le ventre du père. Encore une histoire de famille qui se termine mal.

Pas d’évocation du repas cannibale du père dans cette image (les lacunes ne laissent pas non plus beaucoup de place à une éventuelle allusion). Mais le peintre de Magnoncourt produit une autre image (fig. 3)24 sur le même thème qui propose peut-être cet aspect. La position de la mère et celle de l’enfant sont presque identiques. Elle brandit l’épée, agrippe l’enfant par les cheveux pour le maintenir et cherche sa gorge avec la pointe de l’arme. Comme sur l’autre image, l’enfant se débat, gesticule; ici il supplie très clairement, le bras droit tendu, main ouverte vers le menton de sa mère. Une seule femme dans cette image, la meurtrière, la mère, suggérée par une ins-cription, Aedonai, qui évoque immanquablement

Aèdon, le rossignol25. Le peintre de Magnoncourt n’est pas toujours dans l’approximation du texte: à deux reprises sur ces images, il nomme l’enfant récalcitrant, Itys. Deux autres inscriptions dans ce tondo de coupe: un banal kalos adressé à Panaitios (qui surprend toujours dans un contexte aussi hor-rible, mais qu’il faut sans aucun doute déconnecter du thème représenté) et un plus rare kale, inscrit dans la prédelle sous la scène de la femme meurtrière... pa-radoxe? À l’extérieur de la coupe, les scènes de satyres et ménades introduisent une atmosphère de violence autrement plus compréhensible dans le contexte.

La pièce dans laquelle s’accomplit le meurtre est davantage meublée que sur la première image du peintre. Autre analogie, un fourreau d’épée est sus-pendu au mur; mais on y voit aussi, sur la gauche, une lyre. L’enfant est plaqué contre une klinè re-couverte d’un matelas et d’un coussin plié en deux. Devant la klinè, le meuble représenté a une forme étrange, entre la simple trapéza (les deux lignes hori-zontales marquant le plateau) et le tabouret, du fait de ces pieds inhabituels pour une trapéza, en forme de pattes de lion très recourbées et resserrées26. La pièce peut être interprétée comme une chambre à coucher ou comme une salle de banquet du fait de la présence d’une trapéza.

Le peintre de Magnoncourt construit deux images très voisines et très violentes de la mise à mort d’un enfant par une femme. L’enfant est toujours nommé Itys. Dans l’une des images il est clairement pris entre deux femmes, tandis que sur l’autre, il est montré victime d’une seule femme; Aèdon est évoquée, mais la kliné et trapéza indi-quent un espace qui peut être celui d’une salle de banquet faisant allusion au futur repas cannibale. Ces éléments permettent d’interpréter ces scènes comme les premières représentations connues du mythe impliquant deux sœurs dans le crime d’Itys, celles qui seront appelées, vraisemblablement après la pièce de Sophocle27, Procnè et Philomèle.

Ces deux images d’une cruauté visuelle soutenue sont les seules à représenter le crime dans toute sa brutalité, la détermination impitoyable de la

24 Coupe attique à figures rouges du peintre de Magnoncourt. Munich 2638. LIMC VII Proknè, n. 2.

25 Voir Harrison 1887.26 Voir par exemple sur la coupe attique à figures rouges du

peintre du Mariage. Vers 470 av. J.-C. Compiègne, musée Vi-

venel, 1090. Cité des Image 1984, 91: le tabouret sur lequel la femme pose ses pieds présente à peu près la même forme; mais comme toujours, les “pattes de lion” rentrantes sont très resserrées, ce qui n’est pas le cas sur le vase du peintre de Magnoncourt.

27 Hourmouziades 1986.

Fig. 3. Münich, Antikenslg 2638.9191 - Coupe attique à figures rouges. Peintre de Magnoncourt [Beazley]. Vers 490 av. J.-C.

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mère et de la sœur, la gesticulation pathétique de l’enfant. Elles sont l’œuvre d’un seul peintre. Les autres images, tout aussi atroces, ne montrent pourtant pas la mise à mort: elles l’évoquent avec une efficacité glaçante.

Variations visuelles sur un meurtreQuelques années à peine après les trouvailles

visuelles du peintre de Magnoncourt, Makron pro-pose sa version iconographique du thème (fig. 4). Encore une fois, pour montrer le crime des deux femmes, c’est un tondo de coupe qui est choisi; quant aux réprésentations extérieures, elles sont à nouveau sur une thématique dionysiaque.

Les deux femmes sont côte à côte à l’intérieur d’un médaillon qui sert de ligne de sol. Lorsqu’il n’y a pas de prédelle sur laquelle faire reposer les pieds des per-sonnages, la tactique des peintres est alors de suivre un schéma dans lequel deux personnages représen-tés s’écartent légèrement vers le haut (suivant une construction en V) de façon à éviter un déséquilibre visuel28. Les deux femmes sont donc simplement debout, elles se regardent, instaurant un lien évident de complicité visuelle. Le meurtre n’est pas montré, il est en suspens comme le jeune garçon tenu par les bras. Makron procède par une série d’allusions visuelles qui font grand effet. L’épée est au cœur de cette image et au centre de l’action que le spectateur attend. Rarement le temps aura été si bien évoqué: tout fonctionne comme si le geste du meurtre, l’en-fant qui se débat, bref l’image créée par le peintre de Magnoncourt, était sur le point de s’accomplir. La coupe étant complète, les deux femmes sont enfin entièrement visibles. À droite, la sœur violée demandant vengeance; elle soulève Itys, docile, sans mouvement, confiant et innocent, paré d’une double bandelette en rehaut rouge. Tout dans cette image est à la limite: la femme est à la limite de la ménade avec ses cheveux dénoués et quelque peu ébouriffés (malgré une bandelette en rehaut rouge); son geste est à la limite du diasparagmos avec cette façon de tenir le gamin, bras largement écartés. Cette attitude évoque bien sûr celle des ménades qui arrachent les corps et qui tirent chacune sur un bras, comme par exemple

28 Voir par exemple la coupe du peintre de Penthésilée (Ferrare 9351) ou une autre de Makron (Berlin, Staat. Mus. F2290).

29 Couvercle de lékanis, non attribué, vers 430 av. J.-C. Paris, Louvre G445 (LIMC VII Pentheus 24). Voir aussi le psykter d’Euphronios Boston 10.221.

Fig. 4. Paris, Louvre G147 - Coupe attique à figures rouges. Makron [Beazley]. Vers 480 av. J.-C.

sur le couvercle de lékanis de Paris29. Tout suggère l’affolement de la femme, sa sauvagerie potentielle – qui sera endiguée par la furieuse détermination de sa sœur, que l’on sait prête à cuisiner Itys. Cette rapide allusion à la mania30 contraste avec l’enfant

30 Jenni March propose de reconnaître les filles de Minyas sacrifiant Hippasos à Dionysos. (March 2000). Cette interpré-tation ne justifie pas la présence de l’épée et surtout ne tient pas compte du lien manifeste qui existe entre cette coupe et celles du peintre de Magnoncourt établissant un jeu de variations significatif entre les différents schémas visuels.

a

b

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candide, qui ne se débat pas encore, qui ne supplie pas. Il regarde simplement vers sa mère. Celle-ci présente un aspect plus convenable, les cheveux coiffés et retenus par un bandeau; mais elle lève les mains dans un geste très ostentatoire. Le fait qu’elle ait les doigts très écartés et les mains retournées vers l’arrière n’est pas véritablement une observation pertinente pour comprendre son attitude. On retrouve ce geste sur l’envers de la coupe (fig. 4a) et même sur d’autres coupes de la même époque, comme sur la coupe du peintre de la Gigantomachie de Paris (Londres, BM E 70) où l’un des symposiastes et le petit pais renversent la main de la même façon: le geste est à la mode à cette époque, dans des contextes très différents qui ne permettent pas d’en saisir l’intention31. Sur la coupe de Makron, la mère a les deux mains levées: ce redoublement des bras levés attire l’attention du spectateur et donne envie de dire que Makron a cherché par ce biais à signaler que l’action de la mère était sur le point de s’accomplir. Bientôt elle va saisir son épée, bientôt son fils va gesticuler, prisonnier de sa tante, bientôt elle va le tuer. La violence de l’image réside entièrement dans le surgissement latent du crime des femmes et dans la confiance inappropriée qu’on (le fils) leur fait.

La révélation du repas cannibaleVers 470 av. J.-C., un peintre du groupe de Naples

3169 pourrait être l’inventeur (ou reprendre l’in-vention) d’une autre façon de dire le mythe (fig. 5). Il s’agit d’un cratère à colonnettes assez grand (42 cm. de haut)32: sur la face B, des jeunes hommes discutent tandis que sur la face A, bien en vue, se déroule un autre épisode du mythe. À gauche les deux femmes, nettement distinguées par leur chiton (tissus différents) et par leur coiffure s’enfuient vers la gauche en se retournant et en levant les bras écartés dans un geste que l’on interprète habituel-

lement comme de frayeur – ce qui semble justifié ici aussi. Dans la partie droite de l’image, Térée se lève précipitamment de la klinè en brandissant contre les femmes son épée (dans le fourreau). Alors que le dessin est particulièrement soigné, l’espace intérieur représenté est rempli d’anomalies qui viennent renforcer l’impression de déséquilibre. La colonne (avec chapiteau ionique) n’a pas d’ancrage dans le sol; la trapéza est difficile à définir: elle se détache mal de la klinè, – il faut envisager que Té-rée enjambe klinè et trapéza d’un même geste (un véritable bond) –, elle est recouverte de lanières qui font penser à ces tranches de viande que l’on voit souvent dans ce contexte, mais qui se présentent ici sous un aspect différent, avec des dimensions différentes entre elles. S’agirait-il des restes d’Itys? Quoi qu’il en soit, un repas a eu lieu dans cette salle de banquet, un repas cannibale: on voit la jambe de l’enfant dépasser du panier qui se trouve sous la trapéza. On peut se demander si le peintre n’a pas volontairement construit cet espace bancal pour créer un phénomène d’emboîtements multiples qui dirige le regard vers cette boîte d’où débordent les restes du fils.

Il ne s’agit pas de la corbeille à fond arrondi qui accompagne habituellement les symposiastes; mais d’une boîte rectangulaire, ornée de deux registres

31 Contrairement aux interprétations assez anachroniques où l’on veut reconnaître une femme qui cherche à se faire comprendre par le langage des signes. Cfr. Sparkes 1985, 31;

March 2000, 129-131.32 Rome, Villa Giulia 3579 maintenant, a Civita Castellana.

Merci a F. Boitani et M. De Lucia pour la nouvelle photo.

Fig. 5. Rome, Villa Giulia 3579 - Cratère à colonnettes attique à figures rouges. Groupe de Naples 3169 [Beazley]. Vers 470 av. J.-C.

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de lignes ondulées verticales qui évoquent imman-quablement des traces sanglantes. Cette corbeille révélant l’horreur du repas de Térée renvoie très clairement à l’univers des femmes par sa forme de boîte: ces boîtes sont en général représentées dans le gynécée ou dans le cadre du mariage33; elles contiennent le patrimoine de la femme, ordinaire-ment tissus et bijoux. Le peintre a choisi d’insister sur le rôle des femmes en montrant une boîte qui fait référence à leurs possessions, à ce dont elles sont responsables en tant que maîtresse de maison. Une telle boîte n’entre normalement pas dans l’espace de la salle de banquet …

Pire, cette boîte renvoie aussi au domaine de la mère. Certes, l’enfant est plus normalement couché dans un liknon34, même si cela est rarement représen-té. Mais on ne peut s’empêcher d’évoquer un autre enfant célèbre, dont l’iconographie se développe au début du Ve s. av. J.-C. et qui est si profondément lié à Procnè et Philomèle: il s’agit d’Erichthonios, leur grand-père... L’enfant Erichthonios est placé dans une corbeille par sa “mère” Athèna et les peintres de vases s’accordent pour présenter cette corbeille comme une boîte, comme par exemple sur la pélikè du peintre d’Erichthonios (fig. 6). C’est un enfant protégé par une mère prévenante que l’on voit installé dans cette boîte; une boîte dans laquelle Aglauros et Hersè ne peuvent s’empêcher de regarder... La boîte de Procnè au contraire semble révéler d’elle-même son horrible contenu.

Les deux sœurs sont représentées sur le cratère comme des victimes effrayées, sans défense (l’épée qui a servi à tuer n’est pas là pour les protéger) poursuivies par la colère de Térée. Elles ressemblent à ces nombreuses femmes que l’on voit pourchas-sées dans les scènes érotiques de l’époque35. Cette allure innocente est bien entendu contredite par la présence de leur boîte et de ce qu’elle révèle de la duplicité de la femme. On pourrait même ajouter que cette boîte dévoile quelque chose de leur chien-nerie, puisqu’elle se trouve à l’emplacement – sous la trapéza – où les chiens viennent manger les restes36: l’horreur du sort fait à Itys vient redoubler l’horreur du repas cannibale. L’image que construit le peintre fait fonctionner de redoutables symétries: symétrie

des femmes apeurées qui s’enfuient dans un même geste, symétrie des corps masculins, la jambe de Térée faisant pitoyablement écho à la jambe dépassante d’Itys. Ces femmes que l’on représente dans une forme d’innocence pudique (geste du voile, port du sakkos) sont accusées par le pire des signes, leur boîte d’où émerge la jambe bien identifiable de l’enfant et des restes informes évoquant le dépeçage indispen-sable à la cuisson des viandes.

L’image fait penser au texte d’Achille Tatius37 et à l’ekphrasis auquel se livre son personnage: «Je me tournai (j’étais, par hasard, devant l’atelier d’un peintre) et vis un tableau exposé, dont la signification symbolique était la même: il représentait le rapt de Philomèle et son viol par Térée, ainsi que l’histoire de la langue coupée. Le déroulement du drame était en-tièrement exposé sur la peinture: le voile brodé, Térée et le repas. […] Sur le reste du tableau, les femmes montraient à Térée, dans une corbeille (e\n kan§%), les restes de son repas, la tête d’un petit enfant et ses mains; et elles riaient, et, en même temps, avaient peur. Térée était représenté bondissant du lit, tirant son épée contre les deux femmes, la jambe portant contre la table, et celle-ci n’était ni dans sa position normale ni à terre: elle avait l’équilibre instable d’un

33 Lissarrague 1995.34 Voir la coupe du peintre de Brygos (Vatican) où l’on voit

l’enfant Hermès dans un liknon.35 Sourvinou-Inwood 1987.36 Voir par exemple l’hydrie attique du peintre d’Antimé-

nès. Berlin, Antikensammlung F1890 (Schefold 1992, fig. 223). Voir la figure du chien charognard: Mainoldi 1984, p. 104-109.

37 Achilles Tatius, Leucippé et Clitophon, Livre V, chap. 3-5 (trad. P. Grimal, Gallimard, 1958, p. 953-956).

Fig. 6. Pelikè attique à figures rouges. Peintre d’Erichthonios. Vers 440-430 av. J-C. Londres, British Museum E 372.

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objet sur le point de tomber». La description de cette partie du tableau pourrait sans difficulté être attribuée à la représentation du vase de Villa Giulia. Même si cette image est pour l’instant la seule de l’iconographie grecque qui nous soit parvenue, il semble que cette mise en scène de la révélation du repas cannibale ait eu un large succès dès la première moitié du Ve s. av. J.-C., puisqu’elle a manifestement été adoptée et s’est poursuivie dans le temps.

Mais on remarquera que l’autre partie du tableau, longuement évoquée dans la description d’Achilles Tatius, ne trouve pas d’antécédent aussi ancien: «Une servante se tenait debout, tenant le voile plié; Philo-mèle était à côté d’elle, le doigt tendu vers le voile, et montrait les images brodées; Procné hochait la tête devant ce qu’elle lui montrait et jetait des regards terribles, remplie de rage par ce qu’elle voyait. Ce qui était brodé, c’était le Thrace Térée en train de lutter avec Philomèle pour la contraindre à l’amour. La jeune femme avait les cheveux en désordre, la cein-ture dénouée, la tunique déchirée, sa poitrine était à moitié nue, sa main droite cherchait à atteindre les yeux de Térée, de la gauche, elle ramenait sur ses seins des lambeaux de sa tunique. Térée tenait Philomèle dans ses bras, attirant son corps contre le sien autant qu’il pouvait et sur le point de réaliser l’étreinte.

Telle était l’image que le peintre avait représentée, brodée sur le voile». Les crimes de Térée pourtant à l’origine du déroulement du mythe ne sont pas mis en image dans la première moitié du Ve s. av. J.-C. On ne connaît pas d’images de cette époque représentant Térée violant et mutilant Philomèle. Le texte d’Achilles Tatius nous montre que plus tard (à une époque que l’on ne peut préciser) l’image sera inventée.

Une autre allusion visuelle au repas de Térée pourrait être lue sur une coupe d’un peintre proche du peintre de Magnoncourt (fig. 7)38, vers 490 av. J.-C. Les faces externes ne sont pas figurées; seul le tondo présente un homme, visiblement perturbé (tête renversée en arrière, bouche ouverte) qui se lève précipitamment de sa klinè, une épée à la main. L’endroit est celui du banquet comme en témoigne la corbeille suspendue. Les arguments en faveur d’un Térée au sortir du repas cannibale sont faibles, mais rendus vraisemblables par confrontation avec l’image du cratère.

MétamorphoseLa métamorphose des protagonistes n’est pas

évoquée dans le tableau décrit dans le texte d’Achilles Tatius. Elle est simplement racontée au chapitre 5 pour répondre à la question «quelle est la légende représentée sur ce tableau?»; mais elle n’est pas mise en scène. Les peintres de vase se sont pourtant ingéniés à construire une image qui puisse rendre compte de la métamorphose des trois personnages. Ils choisissent une solution graphique inhabituelle pour montrer les femmes et l’homme transformés en oiseau. Les trois images que l’on connaît optent toutes pour cette formule: la métamorphose est signalée par un oiseau sur la tête de la personne. On comprend bien l’inten-tion: la juxtaposition des deux corps pour dire la métamorphose39. L’idée est d’autant plus claire que ce mode de représentation de la métamorphose est employé depuis longtemps pour les scènes où Thétis se transforme continuellement pour tenter d’échapper à l’étreinte de Pélée.

La première image connue (vers 490-480 av. J.-C.) est celle d’une petite amphore à figures noires du peintre de Diosphos (fig. 8) sur laquelle les femmes s’enfuient dans une course animée, poursuivies par

38 Coupe attique à figures rouges groupe de Thorvaldsen, proche du peintre de Magnoncourt et du premier Douris

(Florence, Museo Archeologico Etrusco 80565. ARV2 455).39 Frontisi-Ducroux 2003, 78-84.

Fig. 7. Florence, Musée Archéologique 80565 - Coupe at-tique à figures rouges. Proche du peintre de Magnoncourt [Beazley]. Vers 490 av. J.-C.

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Térée40. Les oiseaux, simplement posés sur leurs têtes restent calmes; mais les nombreuses inscrip-tions insérées dans l’image semblent répercuter le cri de Térée/la huppe qui les poursuit. Ces inscrip-tions bien lisibles ne forment pas des mots, mais des sons traduits en onomatopées, ucsu, ucsucsu, ucucsu, uucsu (avec, à cette époque, l’upsilon de phonétique u et non ü) qui rappellent indéniable-ment le cri de la huppe – le son “ou” répété deux ou trois fois – évoqué aussi, de façon onomatopéïque, tant par le nom grec de la huppe, epops, que par son nom latin, upupa. Sur la face A, l’inscription iuuiv placée devant le visage de la femme, suggère plutôt le nom d’Itys, cri de lamentation lancé par sa mère, tandis que le personnage de Térée est en-vironné par les inscriptions ucsu et ucsucsu41. Il est difficile de dire que l’oiseau est un rossignol... comment le reconnaître? On peut cependant re-lever que l’oiseau posé sur la tête de la deuxième femme sur la face B a des ailes différentes, même s’il n’a aucune des caractéristiques qui qualifient la seule représentation d’hirondelle que nous

connaissions, celle qui annonce le printemps sur une pélikè attique à figures rouges42. Sur le cratère à colonnettes d’Agrigente (fig. 9), la poursuite est tout aussi vive43; le gémissement des oiseaux est inaudible (non inscrit) mais l’agitation dont ils font preuve, ailes battantes sur la tête des femmes est explicite. La troisième image (fig. 10) est la seule, malheureusement fragmentaire, à présenter la mé-tamorphose de Térée, identifié, si besoin était, par une inscription, Ter[euv]. L’oiseau est immobile, placide; il ne ressemble en rien au rapace (épervier ou faucon) dont parle Eschyle44, mais évoque peut-être déjà la huppe si l’on considère que la petite aigrette qu’il a sur la tête est une réserve volontaire et n’est pas accidentellement créée par la ligne ré-servée du décor (ce qui est difficile à affirmer) – le bec court est cependant loin du bec très long et recourbé caractéristique des huppes.

Ce type de métamorphose par juxtaposition, d’autant plus rare qu’il est habituellement réservé à une divinité, permet de révéler sans entrave vi-suelle les corps des protagonistes. La série est d’une

40 Les deux faces du vase sont thématiquement liées; une femme est représentée deux fois. Voir pour ce type de procédé, Snodgrass 1987.

41 Merci à Michel Bats pour l’analyse des inscriptions. Deux formes de sigma dans ces inscriptions: un sigma à 3 branches (à la fin de iuuis) (type S3 d’Immerwhar), et un sigma à 2 branches (partout ailleurs, type S11 d’Immerwhar), qui se retrouvent dans les inscriptions de la première moitié du Ve (Late Archaic et Early Classical), le second toujours à l’intérieur d’un mot, le premier à l’intérieur ou en finale: ce peintre n’est

pas un analphabète, il connaît l’usage des lettres de l’alphabet et ses inscriptions ne sont pas à ranger dans la catégorie des fausses inscriptions.

42 Leningrad 615. Vers 510-500 av. J.-C. Rühfel 1984, 27, fig. 14.

43 Un troisième personnage à gauche s’enfuit. Le cratère étant très restauré à cet endroit, il est impossible de l’identifier: il ou elle porte un vêtement traversé par une double ligne verticale... qui pourrait aussi être une restauration.

44 Eschyle, Les Suppliantes, 57-62.

Fig. 8. Naples, Musée National 145468 - Amphore attique à figures noires. Peintre de Diosphos [Beazley]. Vers 490 av. J.-C.

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grande cohérence de ce point de vue. Les deux sœurs sont toujours distinguées l’une de l’autre, par leur vêtement, leur coiffure, leur geste ou encore, dans le cas de l’amphore du peintre de Diosphos, par les oiseaux différents posés sur leur tête. Quel que soit le thème représenté, meurtre ou poursuite, les femmes gardent une certaine maîtrise de leur corps: pas de tête renversée en arrière, pas de bouche grande ouverte, signes habituels d’un bouleverse-ment, tout au plus voit-on quelque agitation dans les scènes de poursuite. La rage, la violence de leur vengeance est assez froidement mise en scène. Leurs gestes restent somme toute mesurés, au point que deux peintres envisagent, sur les deux cratères de la série, de montrer une des femmes dans un geste de pudeur (voile ou himation relevé d’une main) caractéristique des nymphes alors que l’autre femme est ostensiblement coiffée du sakkos. Il y a peut-être ici la volonté de marquer la différence entre la sœur non mariée et l’épousée.

Toutes les représentations du mythe mettent l’accent sur le rôle néfaste des femmes, que ce soit le meurtre, le repas cannibale servi ou même la métamorphose: sur deux images, celle-ci concerne les femmes et uniquement les femmes. Elles sont visuellement punies par cette bestialisation alors que Térée est épargné. Or la transformation en oiseau n’engendre pas seulement la lamentation; elle évoque aussi les mœurs cannibales de ces animaux. Paradoxalement on constatera que la

métamorphose de Térée n’est représentée que très tard, vers 470-460 av. J.-C., sur la plus récente des images qui nous soit parvenue.

De fait, les crimes de Térée sont pratiquement absents du corpus iconographique. On ne le voit pas commettre le viol qui est à l’origine de toute l’histoire. La mutilation n’est pas représentée non plus; mais il est possible que ce soit un épisode inventé plus tard, peut-être par Sophocle45. Même lorsqu’il se rend involontairement coupable de can-nibalisme, l’image n’insiste pas, ne le bestialise pas. Contrairement aux images plus tardives (voir supra l’ekphrasis d’Achille Tatius) et aux textes postérieurs, Térée n’est pas montré comme un Thrace, ni même simplement un barbare. Quelle que soit l’image qui le représente, il est complètement hellénisé: pas la moindre allusion au costume thrace si bien connu à l’époque. Nous sommes loin du roi Lycurgue rendu fou par Dionysos et tuant son fils qu’il prend pour un cep de vigne. Sur une hydrie de Cracovie46, le Thrace est très clairement identifié comme tel: non seule-ment il porte les embades et la zeira, utilise comme arme une double hache, mais sa coiffure (cheveux filasses et barbe pointue) le caractérise aussi comme thrace et barbare...

Térée porte au contraire chiton court et hima-tion, quand il n’est pas montré dans une nudité héroïque avec un simple himation sur les épaules, voire avec le pétase du chasseur ou voyageur sur la tête (comme Thésée): il est entièrement grec. Certes, sur le cratère de Villa Giulia, sa barbe peut

Vers 450 av. J.-C. H.: 36 cm.; D.: 14 cm. Cracovie, Musée National, 1225. Frontisi-Ducroux 2003, p. 115.

a b

Fig. 9. Agrigente, MAN, coll. Pirandello - Cratère à colonnettes attique à figures rouges. Relié au peintre de Syracuse [LC]. Vers 470 av. J.-C.

45 Le vêtement tissé servant à raconter ce que Philomèle, muette, ne peut pas dire est mentionné par Sophocle: fr. 586 Radt.

46 Hydrie attique à figures rouges. Maniériste tardif (Beazley).

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179Violences et transgressions dans le mythe de Térée

être considérée comme un peu longue par rapport aux barbes grecques; certes, il porte un bracelet sur l’amphore du peintre de Diosphos (féminisation qui est plutôt le fait d’un barbare); mais il me semble qu’il serait exagéré de tirer de ces minces détails quelque conclusion.

Son attitude surtout est frappante dans les poursuites et métamorphoses. Sur l’amphore du peintre de Diosphos, il court à grandes enjambées, l’épée dans la main droite, vers le bas et brandis-sant devant lui le fourreau de l’épée dégaînée; sur le cratère relié au peintre de Syracuse, la posture est similaire (on voit le haut du fourreau dépasser derrière le sakkos de la première femme) et sur le fragment du groupe des Niobides, on voit que le bras droit est baissé et le gauche tendu en avant: tout indique que Térée prend la même position que sur les autres images. Or cette attitude sera popularisée par les Tyrannoctones de Critios et Nésiotès (le groupe est légèrement postérieur à l’amphore du peintre de Diosphos). Célèbre, le geste est souvent adopté dans l’iconographie des vases pour les poursuites... érotiques. Térée dont la violence n’est pas mise en scène se retrouve ainsi au cœur d’images à connotations érotiques bien déplacées – d’autant plus que sa métamorphose n’est envisagée qu’une seule fois.

L’analyse du corpus des images sur vases grecs montre une grande cohérence dans la façon de

considérer le mythe. Le fait que l’arc chronolo-gique concerné soit assez bref, une quarantaine d’années, renforce certainement cette cohérence. Tout se passe comme si le crime de l’homme n’avait pas eu lieu; on ne le mentionne pas. Malgré la diversité des scènes inventées pour présenter le mythe, seules les fautes des femmes sont montrées. Le crime de la mère avec la complicité de sa sœur est dénoncé avec force; l’extermination de la lignée dont elles se rendent coupables est ce qui retient l’attention des peintres de vases.

II - Les sources littéraires: le crime initial de Térée

La tragédie de Sophocle ne peut être datée avec certitude, chacun s’accordant cependant à la considérer comme antérieure à la comédie d’Aristophane, les Oiseaux, jouée en 414, et vrai-semblablement postérieure à 43147. Elle ne peut donc être que postérieure aux images que nous avons présentées, ces dernières s’échelonnant des années 500 aux années 460. Pour autant que nous puissions en juger, ces représentations semblent pourtant assez bien correspondre à l’intrigue choisie par l’auteur tragique, tout en se focalisant, comme nous l’avons montré, sur le crime commis par les deux femmes, Procnè et Philomèle: deux éléments essentiels s’y retrouvent en effet, le meurtre d’Itys par les deux femmes et le fait qu’il soit donné à manger à son père.

L’un des fragments préservés de la pièce hiérar-chise d’ailleurs les crimes commis, en reconnaissant le caractère insensé (anous) du comportement de Térée, mais en attribuant aux deux femmes une plus grande folie (anousterôs) encore: «Il était fou; mais bien plus folles encore ces femmes en leur vengeance atroce. Celui des mortels qui, blessé en sa colère, applique à son mal un remède pire n’est, pour ses maux, qu’un piètre médecin48».

Dans le même sens, la version donnée par Ho-mère, puis Phérécyde (cfr. supra) ne mentionne que le meurtre involontaire d’un fils par sa mère.

Il n’en reste pas moins que cette tragédie porte le nom du protagoniste masculin, et est la première source à indiquer le traitement que Térée inflige à

47 Cfr. Gernet 1935, Dobrov 1993, March 2000 et 2003.48 Frgt 589 (Stobée, XX, 32), trad. fr. J. Grosjean, Gallimard,

Fig. 10. Reggio Calabria 27202 - Hydrie attique à figures rouges. Groupe des Niobides [Beazley]. Vers 470-460 av. J.-C.

“Bibliothèque de la Pléiade”, 1967. Ces vers seraient prononcés par Apollon selon Fitzpatrick 2001, 100.

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180 Ludi Chazalon – Jérôme Wilgaux

la sœur de son épouse, l’enchaînement des crimes devenant dès lors canonique, les premiers crimes – le viol et la mutilation – revenant donc à Térée.

Quelle importance dès lors accorder à ces actes? Comment les interpréter? L’intrigue du mythe de Térée, nous l’avons vu, combine au moins deux des transgressions majeures, le meurtre d’un parent proche, en l’occurrence d’un fils par sa mère, et l’anthropophagie, Térée dévorant Itys à son insu. De quelle autre transgression ce meurtre et cet endocannibalisme sont-ils la réponse?

Le comportement de Térée peut être dénoncé de bien des points de vue, puisqu’il associe la trahison des relations d’hospitalité et de protection entre parents par alliance, le viol, l’adultère; chacun de ces motifs est une nouvelle source d’indignation, et par l’horreur de ses crimes, Térée brouille les distinctions habituelles49.

Comparons deux listes d’Hygin. Celui-ci dresse un bref inventaire des «femmes qui commirent des unions sacrilèges» (quae contra fas concubuerunt, Fab. 253):

«Jocaste avec son fils Œdipe. Pélopia, avec son père Thyeste. Harpalycé, avec son père Clyménus. Hippodamie, avec son père Œnomaus. Procris avec son père Erechthée; naquit ainsi Aglaurus. Nyctiméné, avec son père Epopeus roi de Lesbos. Ménéphron, avec sa fille Cylléné, en Arcadie, et avec sa mère Blias». (trad. J.-Y. Boriaud, CUF)

Les seules relations mentionnées sont donc les incestes entre consanguins de génération différente. Le récapitulatif de «ceux qui mangèrent leurs en-fants lors d’un banquet» (qui filios suos in epulis consumserunt, Fab. 246) ajoute par contre Térée à deux des noms déjà cités:

«Téreus fils de Mars, Itys, issu de Procné. Thyeste fils de Pélops, Tantalus et Plisthénès, issus d’Aéropé. Clyménus fils de Schœnée, son fils issu d’Harpalycé, sa fille». (trad. J.-Y. Boriaud, CUF)

Dans la mythologie grecque, les figures emblé-matiques du père dévorant son fils ont également commis l’inceste avec leur fille, et ces deux actes sont

souvent assimilés dans les études anthropologiques: le fait de dévorer son enfant est à l’alimentation ce qu’est l’inceste à l’égard de l’union sexuelle et matri-moniale50. La seule exception serait donc Térée, qui a violé la sœur de son épouse. Il est donc possible de considérer, étant donné la gravité des crimes imputables à Philomèle, que le mythe de Térée repose également sur la dénonciation d’un inceste, cette fois-ci non plus dans la proche consanguinité, mais dans l’affinité. Telle est du moins l’hypothèse proposée par Françoise Héritier, ce qui a suscité une controverse qu’il convient d’évoquer ici lon-guement.

Térée et l’inceste du «deuxième type»Rappelons qu’au point de départ de la réflexion

menée par cette anthropologue sur les prohibitions matrimoniales se trouvent les recherches menées au Burkina Faso, et consacrées plus particulièrement à la société samo. Dans cette société, l’explication des prohibitions en termes de groupes de parenté unilinéaires se révèle très insuffisante puisque ces prohibitions sont cognatiques et que les interdits dans l’affinité sont également très importants. Le champ de l’inceste lui-même se révèle plus vaste que le chercheur ne l’imaginait au début de sa recherche, et la définition traditionnelle, un rapport hétéro-sexuel entre deux individus consanguins ou affins, doit être modifiée pour englober notamment les relations homosexuelles et les relations entre deux parents par l’intermédiaire d’un tiers.

Dans un ouvrage publié en 1994, Les deux sœurs et leur mère, F. Héritier poursuit son étude des prohibitions matrimoniales ou sexuelles jusqu’alors négligées dans la littérature anthropologique, et élargit la définition traditionnelle de l’inceste en proposant d’y inclure ce qu’elle nomme l’inceste du “deuxième type”, défini comme la prohibition d’une relation sexuelle ou d’un mariage entre per-sonnes non consanguines, mais reliées entre elles par l’intermédiaire d’un de leurs consanguins. La prise en compte de ces interdits permet de compléter la théorie lévi-straussienne développée dans les Struc-tures élémentaires de la parenté51 par une “théorie des humeurs”, accordant toute son importance à la transmission ou au contact de substances physiques

49 Sur le thème de la bestialité de Térée, voir Scarpi 1982, 213-225.

50 Pour le monde grec, cfr. Moreau 1979. Voir également

Rundin 2004.51 Lévi-Strauss 1967. Cfr. Héritier 1979, 210.

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181Violences et transgressions dans le mythe de Térée

ou psychiques. De manière générale, l’inceste peut ainsi être appréhendé comme la mise en rapport de substances corporelles considérées comme iden-tiques: «L’existence d’un inceste du deuxième type nous conduit à concevoir la prohibition de l’inceste comme un problème de circulation de fluides d’un corps à un autre. Le critère fondamental de l’inceste, c’est la mise en contact d’humeurs identiques. Il met en jeu ce qu’il y a de plus fondamental dans les sociétés humaines: la façon dont elles construi-sent leurs catégories de l’identique et du différent. C’est en effet sur ces catégories qu’elles fondent leur classification des humeurs du corps et le système de prohibition/sollicitation qui régit leur circulation52».

En proposant une telle théorie, F. Héritier s’incrit clairement dans la continuité des travaux lévi-straussiens, fondateurs d’une anthropologie structurale au sein de laquelle l’étude des repré-sentations, de l’“efficacité symbolique”53, occupe une place primordiale. Son “matérialisme”54 af-fiché (c’est-à-dire l’intérêt porté aux corps et aux substance corporelles, à leurs transmissions, à leurs mélanges et à leurs mises en contact) et l’importance accordée aux conceptions de la procréation et de la transmission héréditaire témoignent cependant de l’originalité de sa démarche.

Dans Les deux sœurs et leur mère, F. Héritier revient à plusieurs reprises sur le monde grec, et s’intéresse aux interdits et transgressions (l’interdit athénien de la demi-sœur maternelle, Œdipe…)55 comme aux conceptions grecques, et plus particulièrement aris-totéliciennes, de la procréation56. Invitant ainsi les historiens à davantage confronter normes sociales, récits mythiques et théories philosophiques, ses travaux suscitèrent cependant une vive polémique en insistant sur l’étendue des interdits dans l’affinité en Grèce ancienne.

L’un des exemples retenus est celui du mythe de Térée, dans la version qu’en donne Ovide dans les

Métamorphoses (VI, 412 sq.). Françoise Héritier insiste sur le sentiment de culpabilité de Philomèle à l’égard de sa sœur, le viol commis par Térée se doublant d’un inceste; le mythe serait donc un témoignage du fait que l’union avec deux sœurs serait condamnable en Grèce ancienne57.

Autre chercheur du Laboratoire d’Anthropologie sociale fondé par Claude Lévi-Strauss, Laurent Barry reprend cette question dans un article intitulé «Hymen, Hyménée! Rhétoriques de l’inceste dans la tragédie grecque58», avant tout consacré au thème des Danaïdes. Il remarque qu’en Grèce ancienne, les sources les plus nombreuses et les plus expli-cites pouvant être interprétées en termes d’inceste du deuxième type concernent les relations avec «des affins directs des consanguins de générations consécutives, i.e. des conjoints (ou concubins) de nos ascendants (Phénix, Œdipe, Moschiôn) ou descendants (Phèdre, Kallias) directs59». Il poursuit sa réflexion en évoquant à son tour Térée: «Si, main-tenant, nous nous penchons sur les prohibitions touchant aux alliés de même génération, force est de constater que les sources pouvant être perçues comme défavorables à ces unions se font bien plus rares, et qu’elles ne concernent plus cette fois que le seul genre littéraire: c’est la légende de Térée qui abuse de sa belle-sœur, celle de Thyeste, toujours avec sa belle-sœur, la femme d’Atrée, et, éventuelle-ment, la mésaventure d’Héraclès que Thespis dupe en envoyant successivement au cours d’une même nuit ses cinquante filles partager sa couche là où le héros croit n’en connaître qu’une. (…) Pour nous résumer, si nous pouvons aisément admettre que certaines catégories d’interdits dans l’affinité (celle des alliés des ascendants et descendants directs) sont assez clairement réprouvées par la morale grecque et que ces prohibitions sont passibles d’une interprétation basée sur le concept d’inceste du deuxième type, cela ne semble pas être le cas pour

52 Héritier 1994, 11. 53 Lévi-Strauss 1949; cfr. Augé 1979; voir également Izard-

Smith 1979 et plus récemment, Philosophie 2008.54 Cfr. Héritier 1996, 23: «Je me considère comme matéria-

liste: je pars véritablement du biologique pour expliquer com-ment se sont mis en place aussi bien les institutions sociales que des systèmes de représentations et de pensée, mais en posant en pétition de principe que ce donné biologique universel, réduit à ses composantes essentielles, irréductibles, ne peut pas avoir une seule et unique traduction, et que toutes les combinaisons logiquement possibles, dans les deux sens du terme – mathé-matiques, pensables –, ont été explorées et réalisées par les

hommes en société»; et 1996, 234: «La matière première du symbolique est le corps, car il est le lieu premier d’observation des données sensibles».

55 Héritier 1994, 56-67. 56 Héritier 1994, 295-303. 57 Héritier 1994, 63. Françoise Héritier avance l’idée que

Philomèle croit alors sa sœur morte, mais que cela ne modifie en rien son sentiment. Une telle lecture des vers est cependant erronée, car à aucun moment Procnè n’est présentée comme défunte dans ce récit.

58 Barry 2005.59 Barry 2005, 307.

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les catégories des affins de même génération60». En conséquence, le drame des Danaïdes peut être interprété, selon sa propre hypothèse, non pas tant comme le refus d’un mariage entre parents, mais plutôt comme la dénonciation du mariage avec toutes les parentes, de l’hybris des Égyptiades, donc de «tous les hommes d’une famille à vouloir acca-parer toutes les femmes d’une autre61», à fusionner deux lignées pour n’en former qu’une seule62.

Si, pour Françoise Héritier comme pour Laurent Barry, l’interdit pesant sur l’inceste dit du «deu-xième type” peut donc être considéré comme l’une des caractéristiques majeures du système de parenté grec, son extension fait l’objet d’un débat.

Points de vue critiquesBernard Vernier et Jean-Baptiste Bonnard ont,

quant à eux, catégoriquement rejeté toute exis-tence d’un inceste du “deuxième type” en Grèce ancienne. Anthropologue spécialiste de la Grèce contemporaine, B. Vernier a publié de nombreux articles critiques à l’égard de l’approche préconisée par Fr. Héritier63 et défendu à son tour une théorie unitaire des prohibitions, avec l’idée que celles-ci sont «instaurées pour établir les conditions d’une bonne collaboration entre les membres de la famille et entre eux et les membres d’autres familles, et pour empêcher le déchaînement de la violence à l’inté-rieur et entre les familles. S’il y a un invariant en ce domaine, c’est bien l’idée, partout présente, selon laquelle la rivalité sexuelle entre proches parents est une source de grandes catastrophes64».

En ce qui concerne le monde grec, il reprit dans un article publié dans les Annales EHESS, les uns après les autres, les exemples donnés par F. Héritier pour critiquer la lecture qui en a été faite et enrichit sa démonstration de nombreux autres cas. La conclu-sion est sans appel: «L’inceste du deuxième type ne semble pas plus exister chez les Hittites qu’en Grèce antique ou dans la Bible65». Il n’en tire cependant pas la conclusion opposée que ces relations entre affins pourraient être favorisées: elles ne suscitent selon

lui qu’indifférence dans la société grecque; il n’est donc pas possible non plus d’inverser l’hypothèse en affirmant que le cumul de l’identique n’est pas interdit, mais recherché, il faut tout simplement dire que la question ne se pose pas en Grèce ancienne.

Commentant le mythe de Térée, toujours à partir de la version livrée par Ovide dans les Métamor-phoses, il rejette donc l’interprétation incestueuse pour passer en revue toutes les fautes commises par Térée, suffisantes en elles-mêmes pour expliquer la vengeance de Procnè: «Le texte d’Ovide énonce toutes les facettes du crime de Térée. Il a désobéi à son beau-père. Il est resté insensible à ses pleurs et à la grande tendresse qu’il avait pour sa fille. Il a été infidèle à sa femme. Il a violé une parente, sa belle-sœur, et lui a ravi son honneur. Il a fait enfin de deux sœurs des rivales ennemies en prenant sa belle-sœur comme concubine, violant ainsi toutes les lois du mariage. (…) Le texte parle bien de rivalité, mais à aucun moment d’inceste avec la sœur. Si les deux sœurs avaient été prises dans une relation homosexuelle et incestueuse, elles auraient dû éprouver l’une pour l’autre une horreur qui n’apparaît à aucun moment dans l’histoire. Mais pourquoi Procnè sert-elle son fils innocent à son mari? De même que Térée en violant Philomèle et en lui ôtant la langue (la parole) a en quelque sorte détruit un membre de la famille de Procnè, de même celle-ci, en tuant Itys, supprime un membre de la famille de Térée. L’enfant est ici perçu comme donné au père et s’ajoutant à sa famille. En le tuant, Procnè annule ainsi ce don qu’elle regrette rétros-pectivement66».

Jean-Baptiste Bonnard, dans un article publié dans la Revue historique67, se livre au même exercice que B. Vernier et se montre tout autant critique à l’égard des analyses proposées par Fr. Héritier pour le monde grec. Évoquant cette fois-ci, non plus Ovide mais les sources grecques d’époque classique, notamment Sophocle, il remarque qu’ «aucune loi en Grèce n’interdit à un veuf d’épouser la sœur de son épouse décédée» et que «ce qui est en cause

60 Barry 2005, 307-308.61 Barry 2005, 314.62 Barry 2005, 315; voir également Barry 2008, 221 (le mythe

de Térée est donné comme exemple de l’association entre inceste et endocannibalisme).

63 Voir notamment Vernier 1996a et Vernier 1999. Cfr. éga-lement Vernier 1996; Vernier 2004; Vernier 2006.

64 Vernier 2004, 105.65 Vernier 1996a, 195; cfr. également Vernier 1999, 63: «Je

pense avoir montré ailleurs qu’un réexamen attentif du dossier de la Grèce antique (mythologie et théâtre) fait apparaître que Françoise Héritier classe parfois comme inceste du deuxième type et interdites des relations qui ne le sont pas. Quand il y a réellement prohibition, elle s’explique dans une autre logique que celle qu’elle nous propose».

66 Vernier 1996a, 189. 67 Bonnard 2002.

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dans cette légende, c’est la violence de Térée. (…) C’est parce qu’il a violé (avec plusieurs récidives), séquestré et mutilé la jeune fille, que Térée sera l’objet de la vengeance des deux sœurs»68.

Les analyses de F. Héritier sont sans aucun doute trop rapides et souvent contestables dans le détail, mais elles soulèvent des questions qui sont loin d’être réglées, et qui divisent historiens et hellénistes depuis longtemps.

Dans son article de 1899, resté une référence essentielle sur l’inceste en Grèce ancienne, Gustave Glotz défendait l’idée qu’il n’existait dans le monde grec aucun interdit pour cause d’affinité69. Ludovic Beauchet était parvenu à la même conclusion70. Pour ces deux auteurs, l’affaire Kallias par exemple, la relation d’un homme avec la mère et la fille71, ne peut donc pas être considérée comme un inceste. De nombreux autres chercheurs, au cours de leurs travaux, présupposent pourtant le contraire72, dé-montrant ainsi l’absence de consensus chez les hel-lénistes. D’ailleurs, dans leur synthèse sur le mariage en Grèce du VIe s. av. J.-C. à l’époque d’Auguste, A.-M. Vérilhac et C. Vial reprennent la thèse de F. Héritier et notent que «les interdits de mariage en raison de la parenté par le sang sont étonnamment limités chez les Grecs (… et que…) cette définition très restrictive de l’inceste du premier type (union entre proches parents par le sang) est difficile à interpréter, et ce d’autant plus qu’elle va de pair avec une vive réprobation pour l’inceste du second type (union avec le partenaire sexuel d’un proche parent), seulement, il est vrai, lorsqu’il touche un ascendant ou un descendant»73. L’observation de ce paradoxe ne s’accompagne pas, malheureusement, d’un approfondissement de la question.

La controverse suscitée par la publication des Deux sœurs et leur mère porte sur deux points: l’existence d’interdits dans l’affinité en Grèce ancienne, et la pertinence de la «théorie des humeurs» pour rendre compte des interdits observés. Ce dernier point ne pourra retenir notre attention dans cet article, tant les sources sont minces. Il paraît clair cependant que

les substances biogénétiques – le sang, le sperme no-tamment – jouent un rôle important dans le monde grec, en tant que vecteurs et métaphores de la pa-renté74. Dès lors, l’horreur suscitée par une relation incestueuse peut jouer sur l’identité de substances des partenaires, voire déplacer dans l’affinité une proximité tout d’abord consanguine: c’est ainsi que dans Œdipe Roi de Sophocle, l’emploi à deux reprises (v. 260 et 460) du terme homosporos – “de même semence” – stigmatise les relations entrete-nues successivement par deux consanguins, Œdipe et son père, avec une même femme, Jocaste75. Mais de tels cas sont trop peu nombreux pour nourrir une réflexion approfondie dans le cadre de cet article.

Inceste et interdits dans l’affinité en Grèce ancienne

Reste donc la question de l’existence d’interdits dans l’affinité, et donc, de manière plus générale, de la définition de l’inceste en Grèce ancienne.

En l’absence de texte comparable au Lévitique (18, 6-25) ou bien encore aux Institutes de Gaius, la délimitation exacte des prohibitions sexuelles et matrimoniales entre parents en Grèce ancienne reste bien malaisée. Une même incertitude entoure les sanctions appliquées aux incestueux76.

Le vocabulaire grec antique ne possède pas de terme spécifique pour désigner les relations sexuelles ou matrimoniales illicites. La réprobation suscitée par de tels actes peut être indiquée par des péri-phrases précisant leur caractère illicite ou impie: il s’agit d’actes contraires à la loi, au nomos ou à la thémis (e.g. Euripide, Héraclès, 1316 et 1341; Xé-nophon, Cyropédie, 5.1.10), de mariages “impies” (gamos anosios, e.g. Aristophane, Grenouilles, 850; Sophocle, Œdipe à Colone, 945-6; Euripide, Electre, 600, 926-7; gamos asebês, e.g. Eschyle, Suppliantes, 10), et la mention de personnes légendaires, en quelque sorte héros éponymes des différentes relations prohibées, peut permettre à un auteur de stigmatiser une conduite, de manière générale ou particulière. Platon par exemple mentionne

68 Bonnard 2002, 86. 69 Glotz 1899, 455.70 Beauchet 1897, I, 176-177.71 Cfr. Andocide, Sur les mystères. 72 Voir par exemple Vérilhac-Vial 1998, 93; Cohen 1991, 227;

Dalmeyda 1930; Dauvillier 1960. La position de Broadbent 1968, 152-3 est plus nuancée.

73 Vérilhac-Vial 1998, 373-4. Dans cet ouvrage, le mythe de

Térée est évoqué p. 96, dans un paragraphe consacré aux incestes du deuxième type, mais n’est pas particulièrement commenté.

74 Cfr. Wilgaux 2006; Brulé 2007. 75 Wilgaux 2006, 343-4. 76 Sur l’inceste en Grèce ancienne, outre les références précé-

demment citées notes 69 et 70, voir Moreau 1979; Rudhardt 1982; Karabelias 1989; Mülke 1996.

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Thyeste, Œdipe et Macarée (Lois, 838c) pour illus-trer la prohibition des unions avec la fille (Pélopia, fille de Thyeste), la mère (Jocaste, mère d’Œdipe) et la sœur (Canacé, sœur de Macarée)77. De fait, les trois relations interdites qui sont constamment rappelées par les auteurs grecs d’époque classique et qui font l’objet de la réprobation la plus claire sont, pour un homme, la sœur (de même mère), la mère et la fille78.

Mais la reconnaissance et l’interprétation des interdits ne sont pas aisées, et ce pour plusieurs raisons.

Tout d’abord, les expressions qui les désignent, et notamment la plus fréquemment utilisée à l’époque classique – gamos anosios –, peuvent désigner tout mariage contraire aux lois divines, aux lois de la nature ou bien encore à la morale, même s’il n’est pas entre parents79.

Dans Electre (600, 926-927), Euripide emploie cette expression à propos du mariage de Clytem-nestre et d’Egisthe, cousin germain d’Agamemnon, qu’il a assassiné. Chez Denys d’Halicarnasse (An-tiquités romaines, IV, 30, 1), c’est le remariage de Lucius Tarquin avec la fille cadette de Tullius, qui suit de peu la mort de leurs précédents époux, le frère de Lucius Tarquin pour l’une, l’autre fille de Tullius pour l’autre, qui est ainsi stigmatisé. Toute relation à l’intérieur d’un sanctuaire ou avec une prêtresse astreinte à la virginité ou à l’abstinence peut également être considérée comme une union “impie”80.

Les qualificatifs d’hosios (“permis par la loi divine, sacré, pieux”) et d’anosios (“impie, sacrilège”), d’eusebes (“pieux, irréprochable”) et d’asebes (“im-pie, sacrilège”), peuvent ainsi s’appliquer en Grèce ancienne à une très grande variété de situations met-

tant en cause les hommes et les dieux, et indiquent de manière générale le respect ou la transgression de règles sociales et religieuses81. Un mariage, qua-lifié d’anosios ou d’asebès, et qui selon nos propres critères devrait être considéré comme “incestueux”, peut donc en fait être rejeté par les Grecs pour bien d’autres raisons que la parenté commune, de même que des actes peuvent être dénoncés comme contraires aux nomoi ou à la thémis pour des raisons très variables.

Il faut ensuite remarquer que les sources littéraires antiques témoignent clairement d’une stigmatisa-tion de plus en plus prononcée des unions entre proches, que ce soit entre affins ou entre consan-guins, au fur et à mesure que l’on avance dans le temps, les sources païennes ne se différenciant pas de ce point de vue des sources chrétiennes dans les premiers siècles de notre ère82: les jugements sont plus sévères, les prohibitions plus explicites. La condamnation d’une union à l’époque romaine, que la source soit grecque ou latine, n’indique donc pas pour autant que cette union était également réprouvée en Grèce à l’époque classique83.

Pour les deux raisons que nous venons d’évoquer, lorsque l’un des scholiastes des Grenouilles d’Aris-tophane, au vers 850, cite l’amour de Phèdre, et la tragédie d’Euripide, Hippolyte, comme exemple d’anosios gamos84, rien ne permet d’affirmer que pour Euripide lui-même l’amour d’une belle-mère pour son beau-fils était considéré comme inces-tueux.

Ces difficultés cependant ne sont pas propres aux hellénistes, et le droit français contemporain est d’ailleurs riche d’enseignements: si en effet une union entre très proches parents ne peut avoir de reconnaissance légale, du point de vue matrimonial comme du point de vue de la filiation, les relations

77 Sur l’exemplarité des histoires d’Œdipe et de Thyeste, voir Aristote, Poétique, 1543a7 sq., et Else 1957.

78 Voir notamment Euripide, Andromaque, 173-178; Platon, Lois, VIII, 838a-d; Platon, République, V, 9, 461b9-c6; Xéno-phon, Mémorables, IV, 4, 19-23; Xénophon, Cyropédie, V, 1, 10.

79 Voir les remarques de Patterson 1998, 154-157.80 Voir e.g. Pausanias VII, 18-21; Hygin, Fab., 185; Musée,

Héro et Léandre, 123-127.81 Sur ces notions, voir notamment Burkert 1985; Parker

1983; Adkins 1960; Moulinier 1950; Vernant 1982; Rudhardt 1992; Connor 1988.

82 Voir sur ce dernier point Moreau 2002.83 Voir par exemple la manière dont les sources d’époque

romaine évoquent les unions successives de Stratonice avec Séleucos puis son fils Antiochos, cfr. Plutarque, Démétrios 31

et 38; Appien, Syr. 59-62; Valère Maxime 5.7.1.84 Kaiè gaémouv a\nosiéouv leégei, diaè toè au\thèn e\rasqh%nai

meèn {Ippoluétou o£n o| Qhseuèv e\x {Ippoluéthv e"sce, mia%v tw%n }Amazoénwn, mhè dunhjei%san deè teleésai toèn e"rwta diaè thèn {Ippoluétou swfrosuénhn, a\gcoén+ crhésasjai. «Il mentionne également les “mariages sacrilèges”, du fait qu’elle-même (i.e. Phèdre) s’éprit d’Hippolyte, le fils que Thésée eut d’Hippolytè, l’une des Amazones, mais n’ayant pu assouvir sa passion à cause de la chasteté d’Hippolyte, elle se suicida en se pendant». Plus généralement, les diverses scholies d’Aristophane, Grenouilles, 850, développent l’expression anosios gamos en donnant les exemples des enfants d’Eole, de Phèdre et d’Hippolyte mais aussi de Pasiphaé et de son amour monstrueux pour un taureau, s’en tenant à des exemples crétois.

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185Violences et transgressions dans le mythe de Térée

sexuelles elles-mêmes ne sont pas sanctionnées tant qu’elles ne s’établissent pas entre deux personnes dont l’une a autorité sur l’autre et qu’elles ne sont pas contraintes. À lire le code pénal, un observateur extérieur pourrait donc croire que seule la relation sexuelle entre parents et enfants, et plus particu-lièrement entre un père et sa fille, est l’objet d’une réprobation forte, alors que les études anthropo-logiques démontrent à l’envi une perception bien plus diffuse de l’inceste, stigmatisant, avec une plus ou moins grande intensité, les unions entre frères et sœurs de même sang, mais aussi entre personnes vivant sous le même toit, quels que soient leurs liens de parenté et de consanguinité85.

Nous ne pouvons donc pas partir du principe que toute prohibition devrait nécessairement apparaître explicitement dans nos sources et être sanctionnée par le droit ou la coutume. Ainsi que nous l’apprend le Contre Théomnestos de Lysias, nous devons au contraire tenir compte du fait que certains mots ne pouvaient être prononcés ou écrits, du fait de la gravité de la faute qu’ils exprimaient86, et nous de-vons nous demander, à la suite de Diskin Clay87, si l’inceste n’était pas précisément en Grèce ancienne l’apporhêton, l’“indicible” par excellence?

Il n’est pas de plus possible d’opposer simple-ment le prohibé au permis: entre le formellement interdit et le préférable, les conceptions grecques passent par une suite de gradations fines et d’au-tant plus difficiles à interpréter qu’elles peuvent se révéler subjectives et qu’il est donc nécessaire de les contextualiser. Des rapports sexuels ou des mariages peuvent être désapprouvés sans être interdits, et des relations interdites ont pu être réalisées. L’important dès lors est d’étudier l’ensemble des transgressions présentes dans un récit, une intrigue, afin d’en démêler les liens, la manière dont elles se répondent et se hiérarchi-sent. Ainsi que le montre Howard S. Becker, il convient d’affirmer que «la déviance n’est pas une propriété simple, présente dans certains types de comportements et absente dans d’autres, mais le produit d’un processus qui implique la réponse des autres individus à ces conduites. (…) Bref, le caractère déviant, ou non, d’un acte donné dépend en partie de la nature de l’acte (c’est-à-dire de ce

qu’il transgresse ou non une norme) et en partie de ce que les autres en font88».

Retour à TéréeDe ce point de vue, l’intrigue du Térée de Sophocle

associe donc les violences subies par Philomèle à un meurtre entre parents et à l’anthropophagie, et accorde à ces trois crimes une même importance: ce sont les actes commis par Térée qui expliquent désormais la gravité de la vengeance mise en œuvre, sans bien sûr disculper les deux protagonistes fémi-nins. Quelle que soit la manière dont cette version du mythe s’est construite, quel qu’en soit l’auteur, cet enchaînement permet donc d’interpréter le viol de Philomèle comme une transgression majeure des normes grecques, et de l’assimiler à un inceste.

Dès le IVe s. av. J.-C., cette assimilation est bien plus explicite dans un passage de La Samienne.

Dans cette comédie de Ménandre, Déméas, un Athénien, est tombé amoureux d’une Samienne, Chrysis, et l’a prise pour maîtresse. Durant son absence, son fils adoptif, Moschion, a des relations secrètes avec la fille du voisin, et la met enceinte. À sa naissance, l’enfant est confié à Chrysis qui vient elle-même de perdre un enfant. Au retour de Déméas et de son voisin, Nikératos, les quiproquos se succèdent. Déméas croit que l’enfant est bien de Chrysis, et découvre que le père est son propre fils. Il considère que la responsabilité incombe à Chrysis et décide de la chasser. La scène suivante montre la réaction de Nikératos lorsqu’il apprend de la bouche de Déméas cette version de l’histoire (v. 485-520, trad. J.-M. Jacques, CUF):

«Moschion. Ce n’est pas bien grave, ce qui est arrivé, père, des milliers de gens l’ont déjà fait.

Déméas. O Zeus! Quelle insolence! -Alors je vais te poser la question devant tout le monde: de qui est-il cet enfant? Dis-le donc à Nikératos, si ça ne t’effraie pas!

Mo. Par Zeus, bien sûr, mais je suis effrayé de le lui dire, à lui? Ça va le fâcher!

Nikératos. Non, mais tu es le dernier des derniers! Je commence tout juste à soupçonner l’horrible chose qui s’est passée! (u|ponoei%n gaèr a!rcomai thèn tuéchn kaiè ta\seébhma toè gegonoèv moéliv poteé)

85 Voir par exemple Martial 1998, ainsi que Fine-Martial 2006.

86 Par ex. le terme patrophonos, “meurtrier de son père”.

87 Clay 1982. Sur la dikè kakègorias, voir Mélèze Modrze-jewski 1998.

88 Becker 1985, 37.

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186 Ludi Chazalon – Jérôme Wilgaux

Mo. Ca y est, je suis fichu!De. Tu vois ce que je veux dire Nikératos?Ni. Et comment! C’est épouvantable! Les amours

de Térée, d’Œdipe, de Thyeste et de tous les autres, pour autant qu’on en sache quelque chose ce n’est rien du tout à côté de ce que tu as fait (w" paéndeinon e"rgon: w! taè Threéwv leéch Oi\diépou te kaiè Queéstou kaiè taè tw%n a"llwn, o$sa gegonoq \h|mi%n e\st \ a\kou%sai, mikraè poihésav).

Mo. Moi?Ni. Tu as eu cette audace! Tu n’as pas reculé?

Déméas, il te faudrait le courage d’Amyntor pour l’aveugler.

De. (à Moschion) C’est ta faute, si à présent il sait tout.

Ni. Qui donc pourrais-tu respecter? De quoi n’es-tu pas capable? Et je te donnerais ma fille en mariage? Je préférerais encore – et là je touche du bois – avoir pour gendre Diomnestos89: au moins tout le monde me plaindrait.

De. Je voulais que ça reste entre nous.Ni. Ne sois pas un esclave, Déméas, si c’était mon

lit qu’il avait souillé, jamais ni lui ni sa complice n’auraient l’occasion de recommencer. Demain ma-tin, j’arriverais le premier au marché et je vendrais cette femme. Je déshériterais mon fils. Alors il n’y aurait pas un coiffeur vide, pas une promenade, mais tous seraient là installés dès l’aube à parler de moi, et à reconnaître que Nikératos est un homme, et qu’il a justement poursuivi un meurtre!

Mo. Quel meurtre!Ni. J’appelle meurtre tout ce qu’on fait quand

on se révolte!(…) Ni. J’enrage à sa vue; tu oses me regarder,

barbare? Pire qu’un Thrace90?».

La scène est comique, et Nikératos se ridiculise par l’excès de ses reproches (la relation sexuelle est assimilée à un meurtre). Il est clair cependant qu’une relation entre un fils et la maîtresse de son père est perçue comme criminelle. Le vocabulaire employé (a\seébhma, paéndeinon e"rgon, u|briézw, ai\scuénw), les allusions à Œdipe et Thyeste l’attes-tent, et le rapprochement effectué avec Térée, à deux reprises, est bien sûr suggestif: à la fin du IVe

siècle, les relations entre affins, du vivant du parte-naire qui avait créé la relation d’affinité, constituent des adultères considérés comme particulièrement “monstrueux”, dès lors assimilés à des incestes entre consanguins.

Si les seules relations de parenté prohibées expli-citement mentionnées dans les sources grecques des Ve et IVe siècles sont des relations de consanguinité, le mythe de Térée, tel qu’il est traité par les auteurs de cette période, constitue un bon exemple du fait qu’entre ces interdits, qui correspondent à ce que nous-mêmes appelons inceste, et des relations interdites par la loi pour des motifs autres que la proximité parentale, tel que l’adultère, apparaît une catégorie intermédiaire de relations qui font l’objet d’une désapprobation certaine et sont assimilées aux relations entre consanguins sans être tout à fait confondus avec celles-ci. Les adultères entre affins sont d’autant plus condamnables, “sacrilèges”, qu’ils se commettent entre parents. Le vocabulaire employé pour décrire et dénoncer ces relations, les allusions fréquentes à des héros incestueux, nous incitent à les considérer comme des “litotes” de l’in-ceste, pour reprendre l’expression de M. Delcourt91.

Il est dès lors frappant de constater que si les sources les plus anciennes, littéraires et iconogra-phiques, mettent avant tout en scène les crimes fé-minins, les sources postérieures à Sophocle insistent désormais sur l’union infâme réalisée par Térée et ne cessent de la dénoncer92. La manière dont Pausanias résume l’intrigue dans sa Périégèse est de ce point de vue éloquente: «On dit que Térée, qui était l’époux de Procné, déshonora Philomèle, agissant ainsi contre la loi des Grecs (kata nomon), et de plus il mutila la jeune fille et obligea les femmes à en tirer vengeance» (I, 5, 4, trad. M. Yon, Maspero, 1983).

Première occurrence dans nos sources de la bar-barie de Térée et du viol commis sur Philomèle, la tragédie de Sophocle attribue donc à cet acte une valeur symbolique d’une même portée que le meurtre d’un enfant par sa mère et l’anthropo-phagie, et déplace désormais sur Térée l’attention des commentateurs. En apportant une explication aux actes féminins, l’enchaînement des crimes,

89 Nous ne savons pas de qui il s’agit. 90 Nouvelle allusion à Térée bien sûr.91 Delcourt 1959, 64. Cfr. également Ghiron-Bistagne 1982;

Ghiron-Bistagne 1985.

92 Outre Ovide bien évidemment, citons par exemple Antholo-gie Palatine, 9.70.2, hou themitôn lecheôn, “la couche interdite”; Achille Tatius, Leucippé et Clitophon, V, 4, erôs paronomos, “amour illégitime”.

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187Violences et transgressions dans le mythe de Térée

réunissant les trois transgressions majeures du monde grec, souligne ainsi la gravité des faits im-putés à Térée, et dès lors, la tragédie de Sophocle peut être interprétée comme le témoignage d’une claire réprobation à l’égard des unions entre affins, du vivant du conjoint, réprobation de plus en plus sensible au cours des siècles suivants. Ce qui pour-rait n’être considéré que comme un moment parmi d’autres de l’élaboration du mythe nous paraît donc pouvoir être appréhendé, d’un point de vue anthro-pologique, comme une construction symbolique particulièrement révélatrice d’une évolution des mentalités et des normes sociales.

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Vernier 1996a = B. Vernier, ‘Théorie de l’inceste et construction d’objet. Françoise Héritier, la Grèce antique et les Hit-tites’, in Annales HSS 51/1, 1996, pp. 173-200.

Vernier 1999 = B. Vernier, ‘Du nouveau sur l’in-ceste? Pour une théorie unitaire’, in La Pensée 318, avril-juin 1999, pp. 53-80.

Vernier 2004 = B. Vernier, ‘La prohibition de l’in-ceste et l’Islam’, in Awal, 29, 2004, pp. 85-105.

Vernier 2006 = B. Vernier, ‘Du bon usage de la parenté construite avec les humeurs corporelles (sang et lait) et quelques autres moyens’, in European Journal of Turkish Studies, Thematic Issue n. 4, 2006, The Social Practices of Kinship. A Comparative Perspective, URL: http://www.ejts.Org/document623.html.

Wilgaux 2006 = J. Wilgaux, ‘Corps et parenté en Grèce ancienne’, in Penser et représen-ter le corps dans l’Antiquité, F. Prost et J. Wilgaux éds., PUR, 2006, pp. 333-347.

Williams 1991 = D. Williams, ‘Onesimos and the Getty Iliupersis’, in Greek Vases in the J. Paul Getty Museum. Malibu, 1991 (Occasional papers on antiquities, 7; The J. Paul Getty Museum, 5), pp. 41-64.

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1. Lo scavo dell’area occidentale

La ripresa del progetto Kyme1 ha offerto l’oppor-tunità di indagare un nuovo ampio settore che si ubica ad ovest della Porta Mediana, a 160 m. di distanza da questa e, fino a tempi molto recenti, occupato da un ippodromo clandestino2.

La determinazione del sito è stata motivata dalla esigenza di definire l’andamento delle fortificazioni settentrionali nel tratto più occidentale che, appros-simandosi alla linea di costa, doveva ricongiungersi con la cinta che in alto proteggeva l’acropoli. La consultazione preliminare della cartografia storica e delle fotografie aree aveva favorito la suggestione di un percorso viario e di un accesso di raccordo tra la porta documentata sull’acropoli, la città bassa ed il mare. Ad avvalorare l’ipotesi della presenza di una porta “marina” concorre, del resto, la documentazio-ne d’archivio che, sulla scorta delle indagini condotte dal Fiorelli cita espressamente l’esistenza di tre porte sul fronte nord delle mura di cui una …poco lungi dal mare…3. Come vedremo le evidenze rimesse in luce hanno vanificato tali suggestioni, rimandando a future indagini la ricerca della porta occidentale.

Per consentire una puntuale strategia di scavo è stato deciso di effettuare una campagna di perfora-zioni geoarcheologiche ubicate sulla prosecuzione delle fortificazioni esterne individuate presso la porta mediana4. I risultati sono stati molto soddi-sfacenti per quanto riguarda la verifica dello stato di conservazione delle strutture antiche: le mura di epoca ellenistica e tardo-arcaica intercettate dalle perforazioni, infatti, risultano conservate per circa 4 m. di altezza, corrispondenti a 9 filari di blocchi5. Accanto a tale dato positivo, però, è risultato subito evidente un elemento di preoccupazione che ha fortemente compromesso e condizionato lo svolgi-mento delle indagini, ed in particolare il recupero del contesto oggetto della presente relazione. Le rilevazioni geologiche, infatti, hanno verificato l’affiorare della falda freatica a quote estremamente superficiali, circa 1,9 m. dal piano campagna, con conseguente risalita delle acque di superficie in condizioni di clima umido sino alla quota di circa 1,5 m. slm rendendo necessario l’impianto di un sistema di well-points.

A seguito della rimozione delle manomissioni mo-derne e post antiche6 l’area è apparsa intensamente

IL MURO DI ARISTODEMO E LA CAVALLERIA ARCAICA

Aurora Lupia – Alfredo Carannante – Marianna Della Vecchia

1 Desidero esprimere i miei ringraziamenti al prof. B. d’Agostino che ha accompagnato e seguito sempre la mia formazione e che mi ha offerto la possibilità di collaborare alle ricerche sulle fortificazioni di Cuma.

La ripresa del progetto, con la direzione scientifica del prof. Bruno d’Agostino, ha avuto inizio nell’autunno del 2004 e si è protratta, con brevi soluzioni di continuità, fino al mese di aprile 2006. L’area di interesse misura 38,5 m. di lunghezza per 23,5 m. di larghezza.

2 I risultati scientifici delle indagini precedentemente con-dotte sono raccolti in Cuma 1, con bibliografia precedente. Una recente puntualizzazione sullo sviluppo delle fortificazioni settentrionali è stata offerta da B. d’Agostino, V. Malpede, ‘La città greca: mura e impianto urbano’, in Museo Archeologico Campi Flegrei 1, pp. 130-133.

3 Tali notizie sono state riportate da Adelia Pelosi, ‘Premessa per la ripresa delle indagine a Cuma’, in AIONArchStAnt 15, 1993, pp. 59-76, in particolare p. 62; Cuma 1, p. 18.

4 Le indagini geoarcheologiche sono state condotte dalla Tecno In s.p.a. con la direzione del dott. Lucio Amato e la collaborazione della dott.ssa Carmela Guastaferro.

5 Le mura tardo-arcaiche si conservano per 4,6 m. di altezza, con 2 filari in ortostati e 7 in assise piane; le mura ellenistiche per 3,81 m., con tutti i filari in assise piane.

6 Il settore di indagine è risultato fortemente compromesso da interventi moderni relativi all’allestimento di un ippodromo clandestino, con la conseguente ubicazione di una pista per le corse e, sul lato sud dell’area, l’installazione di ambienti di servizio con piano in cemento.

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193Il muro di Aristodemo e la cavalleria arcaica

occupata. Sul lato settentrionale è stato possibile individuare la prosecuzione delle fortificazioni nella loro complessa articolazione planimetrica, che nello sviluppo diacronico vede potenziare il sistema difensivo attraverso l’aggiunta di nuove cinte. Così come documentato presso la Porta Mediana7, le nuove fortificazioni serrano al loro interno quelle più antiche: mediante strutture in scaglie e briglie che si addossano alle cortine precedenti, gli archi-tetti greci hanno potuto garantire la coesione dei vari sistemi (fig. 1)8.

Elementi di novità rispetto a quanto sino ad ora noto del sistema difensivo della città bassa sono stati il riconoscimento di una più antica fase delle fortificazioni rinvenuta solo per un breve tratto e l’individuazione di una torre che si addossa alla cortina tardo-arcaica in epoca classica.

La nuova fortificazione (alto-arcaica), ascrivibile sulla base dei materiali rinvenuti tra la fine del VII e gli inizi del VI a.C., è inglobata all’interno dei due sistemi a doppia cortina e presenta fodere interne in grosse scaglie e terrapieno centrale. La disposizione dei blocchi riprende lo schema di messa in opera quadrata con cortine fortemente a scarpa, ma uti-lizza moduli dimensionali inferiori9. La medesima irregolarità si riscontra nelle fodere interne, qui realizzate con grosse scaglie che si incastrano tra loro andando a colmare gli interstizi tra i blocchi della cortina, solo appena sbozzati sulla faccia non a vista. L’ampiezza complessiva della fortificazione risulta di 2,63 m., larghezza misurata nel punto più elevato conservato, non essendo nota la quota d’imposta non è determinabile, purtroppo, l’am-piezza alla base.

7 Cuma 1, pp. 7-19 e pp. 23-52. 8 Le planimetrie sono state realizzate dallo studio Calcagno

e Associati, la sezione stratigrafica e le foto di scavo sono opera di chi scrive, i disegni dei materiali sono della dott.ssa Nadia Sergio che ha curato anche la rielaborazione della sezione; le

fotografie dei resti faunistici e l’elaborazione dei grafici sono di Alfredo Carannante e Marianna Della Vecchia.

9 I blocchi rilevabili mostrano valori compresi tra 0,32-0,28 m. di altezza, per 0,45-0,40 m. di spessore e 0,80-0,35 m. di lunghezza.

Fig. 2. Sezione stratigrafica nord-sud del comparto ellenistico (scala 1:50).

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194 Aurora Lupia – Alfredo Carannante – Marianna Della Vecchia

La torre a pianta rettangolare, con diaframma interno a croce10, fa invece parte di una sistema funzionale al sostegno di nuove e possenti macchine da guerra di cui si riconosce una seconda attestazio-ne 53 m. ad oriente. L’impianto delle torri appare realizzato almeno nella seconda metà del IV sec. a.C., come suggeriscono i pochi materiali rinvenuti in associazione con le strutture11.

In epoca ellenistica, infine, viene aggiunto l’ultimo raddoppiamento alle fortificazioni: lunghe briglie che si appoggiano alla cortina tardo-arcaica creano concamerazioni di circa 2,8 m. di lunghezza e 1,8-2,2 m. di larghezza, andando quasi ad annullare l’aggetto delle torri, comprese e nascoste all’interno del nuovo sistema.

In epoca tardo ellenistica si registra una trasforma-zione funzionale dell’area, che sebbene parziale, ha comportato notevoli modifiche alle strutture preesi-stenti. Il circuito interno delle mura viene in questo punto sostanzialmente annullato, a difesa della città restano solo le cortine esterne di epoca ellenistica. Sul versante interno, infatti, si realizza un edificio per manifestazioni sportive – uno stadio – il cui im-pianto prevede gradinate per il pubblico in blocchi di tufo (verosimilmente divelti dalle cortine interne) che si affacciano su un pista il cui tracciato non è stato rinvenuto poiché esterno all’area di indagine. A tale impianto, la cui realizzazione sembra porsi tra la fine delle guerre annibaliche e il 150 a.C., verrà aggiunto tra la seconda metà del II e gli inizi del I a.C. un Tribunal rilevato su doppio podio12.

L’edificio a partire dal II d.C. andrà in disuso, come comprovano l’impianto di una fornace e la discarica di potenti strati di accumulo sulle sue gradinate che vengono ora completamente obli-terate. In corrispondenza del Tribunal, in questo stesso periodo, si assiste ad una trasformazione dell’ambiente che viene destinato ad una nuova ed al momento non precisata funzione. L’assetto

planimetrico della struttura non subisce modifiche, se non all’esterno di essa: ai lati est ed ovest, in posi-zione simmetrica rispetto al vano, si realizzano due piccole vaschette in cui vengono raccolte le acque piovane, attraverso un sistema di troppo pieno le stesse venivano convogliate verso l’esterno tramite canalette, realizzate rilavorando i blocchi delle gradinate dei filari superiori.

A giudicare dai dati raccolti, sul fronte settentrio-nale esterno le fortificazioni restano ancora in uso, la loro decadenza sembra ascrivibile a partire dal periodo tardo antico, momento in cui sono tagliate le trincee di spoglio dei blocchi.

1A. Le indagini nel comparto ellenisticoLa necessità di puntualizzare la cronologia della

fase ellenistica delle fortificazioni ha portato alla decisione di svuotare dagli strati di emplekton una delle sue concamerazioni13. Le indagini si sono concentrate nel comparto aderente al muro peri-metrale est della torre di epoca classica. Lo scavo ha raggiunto la profondità massima di -1,65 m. slm (h. totale 3,30 m.), quota alla quale la risalita della falda freatica ha reso necessario arrestare le indagini, impedendo la rimozione esaustiva del contesto in esame (fig. 2).

La successione degli strati risulta caratterizzata da accumuli composti prevalentemente da grosse scaglie di tufo giallo oppure da taglime di tufo, risultanti dalla rifinitura in situ dei blocchi, alter-nati a strati con matrice prevalentemente limosa di colore grigio, questi ultimi verosimilmente asportati dall’area esterna alle mura.

I primi due strati della sequenza risultano composti da un getto di scaglie di tufo disposte in modo caotico; tra i materiali rinvenuti si regi-stra la presenza di frammenti ascrivibili ad epoca tardo-antica / altomedievale che fanno pensare ad un rimaneggiamento della stratigrafia nei suoi livelli

10 La torre nel suo sviluppo complessivo misura 6,4 m. di lunghezza per 4,6 m. di larghezza.

11 Tra i pochi elementi diagnostici frammenti di coppette a vernice nera di produzione attica e neapolitana riferibili alle specie Morel 2710 e 2780 e un piccolo frammento di coperchio di lekane a figure rosse della seconda metà del IV a.C.

12 Lo studio del monumento è curato dal dott. Marco Giglio nell’ambito di un Dottorato di Ricerca svolto presso L’Università agli Studi di Napoli “L’Orientale”; M. Giglio, ‘La scoperta dello stadio di Cuma e una iscrizione osca di magistrato’, in Museo Archeologico Campi Flegrei 1, p. 302. Notizia del ritrovamento è stata presentata al XLVIII Convegno della Magna Grecia,

Taranto 2008, i cui atti sono di prossima edizione.13 Tra i pochissimi elementi diagnostici recuperati, un orlo

di coppetta Morel serie 2424 ed un orlo di patera Morel specie 1520 databili agli inizi del III sec. a.C., un fondo di skyphos attribuibile alle serie della fine del IV inizi del III a.C. Con le medesime finalità di puntualizzazione cronologica un analogo intervento di scavo era stato condotto presso la porta mediana, dove era stato svuotato il secondo comparto ellenistico del brac-cio ovest della porta. Gli elementi diagnostici qui rinvenuti in maggiori attestazioni hanno consentito di porre la costruzione dell’ampliamento ellenistico nella prima metà del III sec. a.C., Cuma 1, pp. 49-52.

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195Il muro di Aristodemo e la cavalleria arcaica

più superficiali14. Seguono nella sequenza gli strati 32067 e 32068 che si caratterizzano per la drastica riduzione delle scaglie e la prevalenza del taglime di tufo. A partire dalla quota assoluta di 0,0m slm si riconosce un potente strato a matrice limo-sabbiosa di colore grigio, ben addensato, che ha restituito frequenti reperti ceramici e laterizi a alto indice di frammentarietà, ma anche ciottoli di fiume, frustuli carboniosi e reperti malacologici ed osteologici (32069). Le caratteristiche compositive dello strato ed i reperti in esso rinvenuti fanno pensare che il terreno sia stato asportato dal retrostante ambiente palustre. Povero di materiali risulta, invece, lo strato sottostante, composto nuovamente da un getto di scaglie e taglime di tufo giallo (32075).

L’ultimo strato rinvenuto che colma interamente il comparto (32076) si caratterizza per la matrice limosa di colore grigio; come lo strato 32069,

anch’esso restituisce frequenti frustuli carboniosi, litici arrotondati e frammenti ceramici prevalente-mente ad alto indice di frammentarietà. La forma-zione di tale strato è conseguenza di un’opera di livellamento dell’area interna alla concamerazione, dopo il taglio operato nella stratigrafia più antica per la posa delle strutture di fondazione15. Tra i materiali rinvenuti nello strato, di grande interesse risultano due punte di freccia piramidali in bronzo del cd. tipo “scita” a tre alette16 (fig. 3, nn. 1, 2) e gli abbondanti reperti faunistici in giacitura secon-daria riconducibili ad individui di Equus caballus, Bos taurus, Canis, Ovis vel Capra, Sus, specie che, come vedremo, si ritroveranno anche nei contesti sottostanti ed in significativa correlazione con essi17.

Con la rimozione dello strato 32076, alla quota di -0,58 m. slm, è stata individuata la fossa di fon-dazione delle strutture ellenistiche e, lungo il lato

14 Si tratta degli strati UUSS 32043, 32066; tra i materiali datanti un frammento di coperchio di ceramica da fuoco databile tra il II ed il IV d.C. e un frammento di parete dipinta a bande larghe.

15 In questo strato era la coppetta a vernice nera della serie Morel 2424 databili agli inizi del III sec. a.C.

16 Nell’ambito del tipo con tre alette, le punte sembrano riconducibili a due tipi distinti, il primo trova confronti pun-tuali nella tomba 207 di Buccino dell’ultimo terzo del VII a.C., Johannowsky 1985, fig. 207, n.19, con distribuzione e bibliografia precedente alle pp. 122-123; il secondo si riconosce nel tipo 3B,5 “three edged, barbed” riportato da Snodgrass la cui diffusione sembra attestarsi a partire dal VII secolo fino al periodo ellenistico, A.M. Snodgrass, Early Greek Armour

and Weapons, Edinburgh 1964, p. 153, fig. 10. Un esemplare analogo al secondo tipo attestato a Cuma e ritenuto di origine greca, è stato riconosciuto a Pontecagnano negli scavi condotti nell’area dell’abitato dalla missione danese, B. Tang (a cura di), Hellenistic and Roman Pontecagnano. The Danish Excavation in proprietà Avallone. 1986-1990, Naples 2007, cat. MM13, p. 144, 4, fig. 118.

17 Come sarà evidente dall’analisi del contesto nella sua interezza, la presenza dei resti, in realtà, appare imputabile ad una seconda manomissione, intervenuta in occasione della costruzione delle mura ellenistiche. Ad eccezione dei resti di Equus, naturalmente risulta difficile stabilire quali di essi siano effettivamente pertinenti al giacimento sottostante e quanti non siano invece da attribuire ad apporti successivi.

Fig. 3. I materiali datanti dai contesti esaminati (A. scala 1:1; B. scala 1:2 - Disegni di N. Sergio).

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196 Aurora Lupia – Alfredo Carannante – Marianna Della Vecchia

occidentale, la prima delle tre riseghe di fondazione della briglia ovest del comparto (32086). Il fondo del taglio non è stato toccato, il suo svuotamento, infatti, è stato interrotto a 1,15 m. di profondità (-1,68 m. slm) a causa delle citate difficoltà legate all’innalzamento della falda. I dati registrati con i sondaggi geoarcheologici consentono tuttavia di porre la quota d’imposta delle strutture ellenistiche a -2,28 m. slm, circa 0,6 m. più in basso. Occorre segnalare che la quota di spiccato delle mura elle-nistiche coincide con quella rilevata per la torre di epoca classica, i cui blocchi di fondazione si individuano all’incirca a -0,60 m. slm, sembra per-tanto che tra l’erezione della torre e la realizzazione dell’ampliamento delle mura in epoca ellenistica non si sia registrato alcun innalzamento del piano di frequentazione esterno.

La fossa di fondazione ellenistica risulta riempita con gettate progressive di scaglie (32077, 32084, 32094) intercalate da uno strato di taglime di tufo (32085). Presso l’angolo costituito dalla briglia 32012 ed il muro tardo-arcaico 32001, tra gli strati 32077 e 32085, si interpone una concentrazione di scaglie e reperti osteologici pertinenti ad animali di grossa taglia, immersi in scarsa matrice di colore scuro (32082). Da tale US proviene un frammento di antefissa nimbata con decorazione in bianco e rosso, verosimilmente pertinente ad un esemplare recuperato nel deposito di resti faunistici 32140, tagliato dalla fossa di fondazione; appare pertanto lecito ritenere che almeno una parte dei reperti oste-ologici siano in giacitura secondaria ed in origine pertinenti al medesimo contesto.

Al centro della concamerazione si distingueva nettamente lo strato aderente alla cortina esterna di epoca tardo-arcaica, inciso dallo scavo delle fosse di fondazione ellenistiche (32078). L’accumulo, la cui formazione sembra imputabile a fenomeni naturali, sembra essersi formato per sedimentazione progres-

siva; nella sezione dello strato sono visibili, infatti, laminazioni millimetriche costituite da intercala-zioni di livelli sabbiosi e livelli limosi. La matrice risulta molto ben addensata e di colore grigio scuro e restituisce frustuli carboniosi frequenti, reperti malacologici molto frammentati, litici arrotondati e frequenti frammenti ceramici a alto indice di frammentarietà. Tra i materiali diagnostici pochi frammenti di coppette a vernice nera consentono di porre lo strato genericamente alla fine del IV secolo a.C.18 (fig. 3, nn. 3-4). Rimosso lo strato naturale 32078 è stato distinto un secondo strato di forma-zione naturale la cui matrice risulta francamente sabbiosa, a granulometria medio-grossolana e di colore grigio. Anche in questo caso sono presenti materiali a vernice nera ascrivibili alla fine IV sec. a.C. (32104)19 (fig. 3, nn. 5-7). A meridione, lungo i blocchi della cortina esterna tardo-arcaica, corre un modesto avallamento riempito da uno strato a matrice limo-sabbiosa e dalla composizione ete-rogenea (32103). Esso si è formato a seguito del percolare, lungo la parete obliqua della cortina, delle acque piovane che hanno disturbato e rimescolato i sedimenti naturali qui depositati. Coperto dalla US 32104 e disturbato dalla US 32103, è un ulteriore strato di formazione naturale (32108). La tessitura della matrice risulta ben addensata, il colore bruno e la granulometria molto sottile; restituisce frequenti frustuli carboniosi con filamenti nerastri nel corpo dello strato, imputabili a tracce di materia organica decomposta. Lo strato restituisce vari frammenti di ossa animali a basso indice di frammentarietà e reperti ceramici non spiccatamente diagnostici20.

Vista nella sua complessità la sequenza di strati di formazione naturale sembra costituire un contesto omogeneo, anteriore alla realizzazione delle fortifi-cazioni ellenistiche e verosimilmente coevo alla fase di frequentazione documentata dalla costruzione della torre a pianta rettangolare.

18 Oltre a frammenti più antichi, tra cui un frammento di antefissa nimbata a palmetta diritta della metà del VI a.C., già nota a Cuma in varie aree, serie Rescigno C2105, pp. 204-208; Cuma 2, fig. A, TTA 507, p. 206; J.P. Brun - P. Munzi, ‘Il san-tuario periurbano settentrionale’, in Museo Archeologico Campi Flegrei 1, pp. 137-156, in particolare p. 143, sono stati trovati vari frammenti a vernice nera, tra cui una coppetta del tipo monoansato specie Morel 6210 (fig. 3, n. 3) ed una coppetta forse pertinente alla specie Morel 2980 (fig. 3, n. 4).

19 Tra i materiali è presente un coperchietto solo vagamente assimilabile alla serie Morel 9121 per la configurazione della calotta ma non per il pomello, la serie si riferisce ad esemplari

da Volterra datati tra fine IV e III sec. a.C., Montagna Pasqui-nucci, ‘La ceramica a vernice nera dal Museo Guarnacci di Volterra’, in MEFRA, 84, 1972, 2, pp. 269-498, fig. 4, n. 172 (fig. 3, n. 5); accanto a questo 4 coppette ad orlo rientrante le cui dimensioni rendono purtroppo difficile un corretto riferimento tipologico, una di esse sembra riferibile al tipo Agorà XII, n. 832 della seconda metà del IV a.C. (fig. 3, n. 6), un altro esemplare rimanderebbe invece alla specie Morel 2780, probabilmente alle serie databili a partire dalla fine del IV a.C. (fig. 3, n. 7).

20 Tra i frammenti, pareti di vernice nera genericamente riferibili alle produzioni del IV sec. a.C.

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197Il muro di Aristodemo e la cavalleria arcaica

La formazione della sequenza sembra imputabile ad un progressivo apporto di depositi limo-sabbiosi che hanno inglobato i materiali che nel corso del tempo si erano depositati nell’area esterna alle mura anche per effetto della costruzione della torre. La puntualizzazione cronologica degli strati, nonché l’osservazione che la loro quota di rinvenimento risulta coincidente con quella delle riseghe di fon-dazione dei muri perimetrali della torre, infatti, sembra avvalorare la messa in fase degli strati con la struttura: seconda metà / fine del IV secolo a.C.

L’asportazione dello strato 32108 (a partire dalla quota di -1,27m. slm) ha riportato alla luce nuovi strati di formazione naturale in cui giacevano rile-vanti concentrazioni di resti faunistici. La prima di queste si compone di un modesto insieme di parti animali che non conservano più l’originaria connes-sione anatomica (32136). Tra le specie riconosciute compaiono: Bos taurus, Canis, ed Equus caballus. La concentrazione si riconosce in prossimità del margine del cavo di fondazione della briglia ellenistica ed è da questo tagliato; essa si conserva solo per una mo-desta fascia di circa 0,40 m. di lunghezza e 0,20 m. di larghezza. I resti poggiano su un deposito limoso di modesto spessore di origine naturale (US 32137) costituito da terreno cineritico a granulometria limosa, di colore grigio con matrice addensata ed omogenea. Il margine di definizione con lo strato soprastante (32108) è diffuso, netto con quello infe-riore. Lo strato si estende su tutta la zona risparmiata dalle fosse di fondazione delle strutture ellenistiche, mentre a sud aderisce alla faccia a vista esterna della cortina tardo-arcaica (32001). L’interfaccia superiore è in lieve pendenza verso nord, lo spessore è modesto. Ai non numerosi reperti scheletrici rinvenuti nello strato è stato attribuito il numero di US 32138, gli individui riconosciuti appartengono alle specie Ovis vel Capra, Sus, Canis, Equus caballus, quest’ultima in particolare è presente con un elevato numero di attestazioni. I materiali ceramici associati registrano, invece, una forte riduzione non offrendo agganci cronologici certi.

Coperto dallo strato 32137, alla quota di -1,46 m., si riconosce su tutta l’area risparmiata dai cavi di fondazione uno strato di spessore assai modesto con margini di definizione netti, caratterizzato da

una matrice cineritica a granulometria limosa e da un colore nero (32139); sul lato meridionale, non interessato dai cavi di fondazione, tale strato aderisce alla faccia a vista della cortina esterna di epoca tardo-arcaica. La colorazione nerastra del limo risulta caratteristica di un ambiente riducente a scarsa energia e indica una fase di deposizione di sedimenti sottili ricchi di sostanza organica in un contesto che viene sommerso per effetto della de-posizione dei sedimenti limosi soprastanti (32137).

Sigillato dallo strato 32139 si rinviene un interes-sante deposito di resti faunistici emergenti alla quota assoluta di -1,44 / -1,54 m. slm (32140)21 (fig. 4). Su tre lati il contesto è compromesso dalle fosse di fondazione di epoca ellenistica; a sud si appoggia alla cortina esterna di epoca tardo-arcaica. Le parti scheletriche risultano deposte in un insieme molto concentrato, spesso sovrapposte tra loro. Si ricono-scono resti di individui adulti di Equus caballus e di Canis. Di quest’ultimo si conservano numerose parti riconducibili a varie porzioni anatomiche lun-go il limite est del contesto, tagliato dalla fossa di fondazione della briglia 32012, in sovrapposizione ad alcuni resti di Equus caballus.

In molti casi le ossa conservano connessione ana-tomica. Lungo il limite nord del contesto, ancora in connessione, sono i resti di vertebre cervicali di un cavallo il cui capo è stato tagliato dalla fossa di fon-dazione della briglia est, 32011, mentre la porzione distale degli arti posteriori è tagliata dalla fossa per la briglia ovest, 32012. Alcuni resti appaiono in conti-guità, ma privi di connessione, altri ancora occupano posizioni non naturali, indizio di manomissioni suc-cessive. Il deposito non è stato rimosso integralmente a causa dell’improvviso innalzarsi della falda freatica che ha reso impossibile la prosecuzione dello scavo. Restano dunque imprecisati l’entità complessiva dei reperti faunistici ed il loro piano di deposizione; pochi elementi suggeriscono invece la pertinenza cronologica del contesto. Accanto ai resti sono stati recuperati, infatti, un frammento di antefissa nimbata, forse del tipo a palmetta rovescia22, cui ap-partiene anche il piccolo frammento recuperato nel riempimento della fossa di fondazione della briglia ellenistica (US 32082) ed un frammento di grosso bacino con ansa orizzontale all’orlo e decorazione

21 Con il numero 32140 si è indicato l’insieme dei resti sche-letrici, con il numero 32142 la pulizia dello strato ed i materiali archeologici associati ai resti.

22 Dell’esemplare si conserva solo parte del nimbo e del ton-dino con decorazione bicroma in bianco e rosso.

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198 Aurora Lupia – Alfredo Carannante – Marianna Della Vecchia

sub-geometrica23 (fig. 3, n. 8). Le manomissioni di epoca classica ed ellenistica rendono indeterminabile l’estensione del contesto, lo scavo dell’emplekton della torre adiacente, infatti, non ha raggiunto le quote toccate in questo settore24.

Seppure limitato nella sua estensione il giaci-mento è risultato di grande interesse, per la natura dei resti faunistici, per la loro stessa coerenza, ma soprattutto per le tracce antropiche in essi rico-nosciute che ne suggeriscono un’interpretazione fortemente suggestiva.

A. Lupia

2. Analisi archeozoologiche sui resti faunistici dal comparto ellenistico

I reperti faunistici prove-nienti dalle unità stratigrafi-che 32076 e 32136-40, per la loro particolare abbondanza e concentrazione, sono stati oggetto di analisi archeozo-ologiche.

Le analisi sono state volte alla determinazione tassono-mica dei resti, al calcolo del numero minimo degli indi-vidui, alla determinazione della taglia e dell’età di morte degli stessi e allo studio tafo-nomico delle tracce al fine di ricostruire il significato dei contesti.

L’insieme è costituito da 453 reperti riconducibili a ossa e denti di mammiferi di media e grande taglia.

In particolare, l’unità stra-tigrafica 32076 che costitu-isce il più profondo livello dell’emplekton di epoca el-

lenistica ha restituito 30 resti di Equus (due denti e frammenti di 19 coste, di 5 vertebre cervicali e toraciche, di un ischio, di un’ulna, di una tibia e di un femore). Cinque resti presentano tracce di scarnificazione e tre di rosicchiamento da parte di mammiferi di medie dimensioni. Altre tracce an-tropiche presenti non sono riconducibili a processi di macellazione. Il femore appare tagliato di netto all’altezza dell’epifisi distale e quasi troncato; singole incisure profonde prodotte da fendenti o da colpi di punta sono presenti su due vertebre e sull’epifisi prossimale della tibia.

23 La produzione con impasti convenzionalmente definiti “chiaro-sabbiosi” si inquadra tra il VI ed il IV sec. a.C., tipica di area etrusco-laziale, è ampiamente attestata anche in Campania, A. Scordia, ‘Ceramica d’impasto sabbioso’, in P. Pensabene - S. Falzone (a cura di), L’area sud-occidentale del Palatino tra l’età protostorica e il IV secolo a.C.: scavi e materiali della struttura ipogea sotto la cella del Tempio della Vittoria, Roma 2001, pp. 219-222; a Roma il bacino con decorazione dipinta è presente a partire dagli inizi del VI a.C. e costituisce una forma diffusa soprattutto

nel corso del V per giungere, con esemplari spesso non decorati, fino al IV sec. a.C. L’esemplare cumano rimanda in particolare ad un tipo noto a Caere e ritenuto vicino agli esemplari corinzi con orlo a collare di fine VI-V sec. a.C., tipo N 10 a.1. presente a Caere con un solo esemplare, G. Nardi, ‘Bacini e sostegni’, in M. Cristofani (a cura di), Caere 3.2. Lo scarico arcaico della Vigna Parrocchiale, Roma 1991, pp. 381-382, figg. 551, 579.

24 Tale scavo è stato infatti sospeso per ragioni di sicurezza alla profondità di -1 m.

Fig. 4. Il deposito di reperti faunistici al momento del rinvenimento, US 32140.

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199Il muro di Aristodemo e la cavalleria arcaica

Alcune ossa sono caratterizzate da una colorazio-ne biancastra e da una fessurazione delle superfici riconducibili a fenomeni di ossidazione.

Due premolari e un frammento di mascellare di un bovino adulto sono stati pure rinvenuti nell’US 32076 insieme ai resti equini, a cinque resti di almeno due ovicaprini (due denti, una vertebra e frammenti di radio e femore rosicchiati), agli undici resti di almeno due suini (diversi denti, frammenti di mascellare e mandibolare e una scapola). Lo stes-so strato conteneva pure quattro resti (una falange, un metacarpale, una tibia e una vertebra) di almeno un cane adulto.

Le US 32136, 32137 e 32138, che rappresentano una sequenza di apporti progressivi nell’ambito di un unico evento naturale che ha interessato l’area antistante le mura nel corso della seconda metà-fine del IV sec. a.C., contenevano 37 resti di cavallo: tre frammenti cranici e uno di mandibolare con alcuni denti, 12 vertebre (5 cervicali, 3 toraciche, 4 lombari), una costa, frammenti di 4 omeri, di un radio, di un’ulna, di due metacarpali, di 5 coxali, di 3 astragali e di tre metatarsali. Tracce di disarticola-zione e scarnificazione sono presenti su almeno tre vertebre, due degli omeri, su un’ulna, su un coxale e su un astragalo. Tre resti presentano anche gnaw mark. Nelle stesse US sono stati rinvenuti 33 resti di cane: 5 denti e un frammento di occipitale, 13 vertebre (8 toraciche, 3 lombari, 2 caudali), uno sternale, una costa, un sacro, una tibia, una fibula, un metatarsale e 3 falangi. Una delle vertebre di cane presenta tracce di rosicchiamento da parte di un altro carnivoro di medie dimensioni.

Due metatarsali destri di bovino e uno di ca-provino insieme a un epistrofeo e una vertebra cervicale troncata di netto di un giovane suino completano l’insieme faunistico delle US 32136, 32137 e 32138.

Una decina di reperti presentano un annerimento del tessuto osseo spugnoso e delle superfici esterne. Tale colorazione è riconducibile alla permanenza di tali ossa in ambiente riducente piuttosto che a tracce di combustione.

Un altro strato ricco di reperti archeozoologici è rappresentato dalla US 32140, deposito pertinente alla fase tardo-arcaica. In esso sono stati rinvenuti 235 resti di cavallo: 8 frammenti di ossa craniali, tre di mandibolare con diversi denti, un atlante e tre epistrofei, 47 altre vertebre (8 cervicali, 23 toraciche, 16 lombari), 3 frammenti di sacro, 74

frammenti di coste, 6 porzioni di scapole, 5 di ome-ri, 4 radi, 2 ulne, 5 metacarpali, 4 coxali, 5 porzioni di femori e 7 di tibie, 3 calcanei e15 falangi oltre a diverse ossa carpali e tarsali.

52 resti mostrano tracce di scarnificazione e/o disarticolazione antropica e 29 tracce di rosicchia-mento da parte di carnivori di medie dimensioni.

Altre tracce perimortali presenti sui resti equini della US 32140 non sono riconducibili a processi di macellazione o al rovistamento alimentare. Due vertebre toraciche, un osso zigomatico e una costa presentano un foro profondo; una tibia destra pre-senta diverse tracce di fendenti; dall’epifisi distale di un femore destro è stata staccata una scheggia ossea da un colpo inferto di punta mentre un fe-more sinistro presenta uno sfondamento della parte mediana per un fendente.

Nell’US 32140 sono stati pure rinvenuti due zigomatici di caprovino e 78 resti di cane: un epistrofeo, 22 vertebre (5 cervicali, 10 toraciche, 7 lombari), 3 sternali, 39 frammenti di coste, un coxale, 5 metacarpali e 7 falangi.

Osservando la distribuzione e l’orientamento degli elementi anatomici nella US 32140, si notano alcuni resti ancora in connessione anatomica (tra tutti un insieme di vertebre cervicali di cavallo), altri che presentano una contiguità ma non una connessione (come un insieme di metatarso, prima e seconda falange di cavallo e l’insieme delle vertebre di cane) e altri ancora che risultano dislocati rispetto alle altre ossa circostanti (ad esempio una scapola in prossimità di un sacro di cavallo).

La sovrapposizione di elementi anatomici corri-spondenti di individui diversi e la presenza dello scheletro di cane tra le ossa di cavallo sembra sugge-rire un accumulo degli individui o di loro porzioni.

L’insieme dei dati, sebbene ancora poco rielabo-rato, sembra indicare un intervento di dislocazione sui resti lasciati esposti o un accumulo non ordinato di intere porzioni anatomiche solo parzialmente de-composte. Un maggior ordine sembra riscontrabile nella disposizione delle ossa del cane.

L’insieme dei dati archeozoologici ricavati dall’analisi dalle differenti US mostra una costante presenza nelle varie unità dei resti di cavallo segnati da tracce di disarticolazione e scarnificazione e da gnaw mark, nonché da tracce di fendenti e colpi di punta non associabili a processi di macellazione. Tali dati, insieme alla costante presenza dei resti di cane, suggeriscono la provenienza comune dei

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200 Aurora Lupia – Alfredo Carannante – Marianna Della Vecchia

resti faunistici da un unico deposito originario, quello ancora riconoscibile nella US 32140, più volte rimaneggiato e autorizza a trattare i reperti provenienti dalle varie unità stratigrafiche come insieme unitario. Il differente stato di conservazione e la differente colorazione dei reperti rinvenuti negli strati inferiori rispetto a quelli degli strati superiori è riconducibile a processi secondari.

2A. Determinazione tassonomica e calcolo del numero minimo

L’insieme faunistico analizzato è composto dai resti archeozoologici di cinque taxa di mammiferi: Equus, Canis, Bos, Ovis/Capra e Sus. Mancano completamente resti di altri vertebrati e resti ma-lacologici. I reperti appaiono in un buono stato di conservazione attribuibile alle caratteristiche del sedimento inglobante, un fango umido, e all’ambiente riducente che ha limitato i processi di ossidazione delle ossa.

Tra i reperti, scarsissimi sono i resti di Bos taurus (5 reperti, rappresentanti l’1% dell’insieme). Due por-zioni distali dei metatarsali destri di bovino adulto (che indicano un numero minimo di 2 individui) e alcuni frammenti cranici tra cui una porzione di mascellare sinistro con alcuni molari. Mancano altri resti degli arti posteriori o altre porzioni scheletriche. Nessun reperto appare combusto.

Scarsi sono pure i resti di ovicaprini (8 reperti, rappresentanti il 2% dell’insieme). La presenza di un dente premolare deciduo e di un terzo molare indica che gli individui sono almeno due, di cui uno giovane ed uno adulto. Sono riconoscibili tracce di macellazione ma nessuna traccia di combustione.

Anche per quanto riguarda i resti di suino (13 reperti, rappresentanti il 3% dell’insieme) è possi-bile identificare almeno due individui, uno giovane ed uno adulto, di cui ci sono giunte solo porzioni dello scheletro assiale: vertebre, denti e frammenti cranici. Manca qualsiasi resto di scheletro appen-dicolare (arti).

Maggiormente rappresentato è il taxon Canis, con 116 reperti costituenti il 26% dell’insieme faunistico. I resti sono riconducibili ad almeno due individui (due tibie destre), di cui un giovane e un adulto. Nessun resto presenta tracce di macellazio-ne o di combustione ma sono riconoscibili alcune tracce di rosicchiamento da parte di carnivori di medie dimensioni.

La presenza di un femore intero ha permesso di

ricostruire l’altezza al garrese di almeno uno dei cani: 59 cm.

La gran parte dei reperti (304, corrispondente al 68% dell’insieme) è rappresentata tuttavia da resti scheletrici di equidi riconoscibili, mediante analisi della struttura dentaria, come esemplari di Equus caballus, escludendo la presenza di asino (fig. 5). Il calcolo del Numero Minimo fornisce un dato di almeno cinque individui.

In base all’analisi dello stato di fusione delle epifisi delle ossa lunghe è possibile affermare che almeno quattro dei cavalli erano adulti e di età superiore ai 18-24 mesi e che almeno due di questi avevano superato i 3-3,5 anni di età. Dei cinque cavalli, un individuo presenta forti patologie ossee: fusione di una prima ed una seconda falange ed escrescenze sul corpo di alcune vertebre cervicali, toraciche e lom-bari (fig. 6). Tali dati paleopatologici indicano forme artritiche avanzate legate ad una intensa attività nel trasporto di carichi pesanti. Gli altri quattro cavalli erano, invece, in ottime condizioni fisiche e dotati di una muscolatura possente, come è possibile leggere dalle impronte muscolari sulle ossa.

Lo studio osteometrico delle sole ossa lunghe in-tere rinvenute (due tibie ed un terzo metatarsale) ha permesso di calcolare l’altezza al garrese di almeno uno dei cavalli: circa 139 cm.

2B. Tracce antropicheSulle ossa compaiono diversi cut marks. Tracce di

disarticolazione e scarnificazione sono leggibili sui resti di bovini, suini e ovicaprini. Nessun resto di cane presenta invece tracce antropiche.

Più complesso è il discorso per quanto riguarda i resti di cavallo. 70 di essi, su 304, presentano differenti cut mark: 23 reperti con tracce riferibili

Fig. 5. Percentuali del numero dei resti per taxa.

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201Il muro di Aristodemo e la cavalleria arcaica

ad azioni di scarnificazione, otto con tracce di disarticolazione e 39 con entrambe. Le tracce di scarnificazione sono particolarmente abbondanti e si rinvengono su tutte le parti anatomiche: dalle ossa craniche alle ossa carpali e tarsali, dal sacro alle mandibole. Mancano completamente invece tracce di combustione e di depezzamento. Tali dati indicano che le carcasse furono smembrate al fine di rimuovere le fasce muscolari.

Alcune tracce antropiche non sono, tuttavia, rife-ribili a processi di macellazione. Segni di colpi inferti con singoli fendenti sono presenti su sei resti: tre fe-mori, due tibie, una vertebra cervicale (fig. 7) ed una toracica. In uno dei due femori il fendente causò lo sfondamento della parte mesiale (fig. 8) fino alla cavità midollare. Un altro femore presenta, invece, la traccia di un profondo colpo di punta all’altezza del ginocchio (fig. 9) che causò il distacco di una scheggia d’osso. Un

terzo femore fu troncato di netto nella parte distale da un fendente. Altri tipi di tracce antropiche leggibili sulle ossa sono fori di notevole profondità in relazione al loro diametro non assimilabili a quelli creati dalla pressione dei canini di carnivori. Tali fori sono stati individuati su un frammento di osso zigomatico, su due vertebre toraciche (di cui uno a sezione quadran-golare, fig. 10) e su una costa e sono la traccia lasciata dalla penetrazione di punte acuminate di dimensioni compatibili con punte di freccia.

2C. Gnaw marksAltri segni non trascurabili sono i diffusi gnaw

mark, segni di rosicchiamento, riconoscibili su 34 resti di cavalli, cani e caprovini. Diverse ossa di cavallo – alcune vertebre, tra cui un atlante, e le estremità di un femore, di un omero, di una falange e di un ileo – appaiono rosicchiate fino al tessuto

Fig. 6. Prima e seconda falange di Equus caballus fuse per patologia artritica (US 32140).Fig. 7. Vertebra cervicale di Equus caballus in veduta ventrale con tracce di fendente e tracce di rosicchiamento (US 32140).Fig. 8. Femore sinistro di Equus caballus con sfondamento della parte mesiale dovuta a un colpo fendente (US 32140).Fig. 9. Femore destro di Equus caballus con traccia di un colpo di punta nella porzione distale (US 32140).Fig. 10. Vertebra toracica di Equus caballus con foro a sezione quadrangolare sul corpo vertebrale causato da una punta di freccia (US 32140).

7 8

69

10

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202 Aurora Lupia – Alfredo Carannante – Marianna Della Vecchia

spugnoso da carnivori di medie dimensioni; non compaiono, invece, tracce di rosicchiamento opera-to da roditori. Alcune impronte di denti premolari impresse nelle vertebre permettono di identificare gli scavenger come canidi. Gli gnaw mark sono associati sui resti equini alle tracce di macellazione e ciò indica che l’azione di sciacallaggio avvenne sulle ossa già scarnificate.

2D. Stato di conservazioneConsiderando lo stato di conservazione, l’insieme

faunistico presenta due caratteri distinti.I resti archeozoologici provenienti dagli strati

inferiori (US 32136-32140) dell’area scavata appaiono in ottime condizioni e non presentano alcuna traccia di fessurazione per disseccamento. La maggior parte di essi appare di colore bruno-giallo ocraceo mentre alcuni presentano la superficie di color nero. Un femore e un omero, pur presentando l’osso compatto color giallo ocra, sono caratterizzati da un tessuto spugnoso completamente nero. Tali dati sono riconducibili alla permanenza delle ossa nel sedimento fangoso riducente semianossico piut-tosto che all’esposizione a tracce di combustione.

I resti archeozoologici provenienti dagli strati su-periori dell’area scavata (in particolare US 32076) appaiono in buone condizioni di conservazione, ma mostrano fessurazioni da disseccamento secondario e sono caratterizzati da un colore bianco-grigiastro.

È da escludere qualsiasi esposizione al fuoco dei resti; la colorazione dei reperti è attribuibile esclu-sivamente alle condizioni tafonomiche.

A. Carannante - M. Della Vecchia

Conclusioni

Le analisi archeozoologiche effettuate sui resti provenienti dalle unità stratigrafiche 32076, 32136-32138 e 32140 mostrano una costanza nelle specie presenti, nelle tracce antropiche ed in quelle di rovistamento alimentare che indica con chiarezza la provenienza dei reperti faunistici da un unico depo-sito iniziale. L’articolazione del deposito faunistico in più strati distinti richiede dunque una spiegazione che suggerisca la possibile ricostruzione degli eventi.

Il contesto 32140, aderente alla cortina tardo-arcaica, è successivo alla costruzione della stessa, datata tra la fine del VI e gli inizi del V sec. a.C.25, come dimostrato dai pochi materiali rinvenuti in associazione, ma soprattutto dalla sequenza stra-tigrafica riconosciuta. La frequente contiguità e talvolta la connessione degli elementi anatomici provenienti da tale strato indica la giacitura prima-ria dei resti archeozoologici.

L’accumulo dei sedimenti limosi di colore nera-stro (32139) al di sopra del giacimento faunistico è rapportabile ad una successiva fase di decan-tazione di fanghi in ambiente riducente. Ad un momento successivo si ascrivono i resti rinvenuti nelle US 32136, 32137 e 32138, ritrovati senza alcun ordine e privi di contiguità e connessione tra gli elementi anatomici. Le caratteristiche de-posizionali di tali unità indicano una giacitura secondaria, conseguente ad un rimaneggiamento del deposito originario. I materiali faunistici rima-neggiati furono successivamente ricoperti da una sequenza di sedimenti a granulometria variabile (US 32108, 32104, 32078) che hanno restituito reperti databili nell’ambito della seconda metà-fine del IV secolo a.C.; è sempre in questo periodo che si pone la costruzione della torre a pianta rettangolare attigua al contesto considerato. La stessa realizzazione dei cavi di fondazione dei muri perimetrali della torre può quindi spiegare la ma-nomissione di una parte dell’originario accumulo di ossa e la sua rideposizione nei livelli soprastanti.

L’insieme dei depositi finora descritti risulta ulteriormente disturbato dall’ampliamento delle mura di epoca ellenistica. Le fosse di fondazione delle briglie e della cortina, infatti, tagliano su tre lati i contesti in esame. In particolare, il ritrova-mento, lungo il limite nord dello strato 32140, delle vertebre cervicali ancora in connessione di un cavallo il cui capo è stato tagliato dalla fossa di fondazione della briglia est, evidenzia come il deposito sia stato tranciato dallo scavo per le strutture ellenistiche. Dal riempimento della fossa di fondazione della briglia ovest, peraltro, pro-viene un piccolo frammento di antefissa nimbata che, seppure privo di contiguità, è certamente riconducibile all’esemplare rinvenuto nello strato 3214026. La porzione dei materiali archeozoologici

25 Sulla datazione di tale fase si rimanda a Cuma 1, pp. 9-11. Cuma 2, pp. 8-10, p. 153.

26 Si tratta del piccolo frammento di nimbo riconosciuto nello strato 32082 di cui si è detto in precedenza.

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203Il muro di Aristodemo e la cavalleria arcaica

asportata dal contesto US 32140 e dagli strati ad esso sovrapposti (US 32136-32139) a seguito dello scavo delle fosse di fondazione fu pertanto ricol-locata nella concamerazione ellenistica andando a costituire il primo strato dell’emplekton: l’US 32076. La comune origine dei resti faunistici da un unico accumulo più volte rimaneggiato legit-tima una lettura unitaria dei dati archeozoologici.

I resti di bovini, suini e ovicaprini con le loro tracce di macellazione sono riconducibili ad un normale consumo alimentare di tali specie. La maggiore incidenza di tali resti negli strati 32076 e 32136-32138, potrebbe peraltro indicare un’origi-ne diversa ed al momento non supportata dai dati raccolti27; dal deposito originario 32140 proven-gono, infatti, solo due frammenti riconducibili a caprovini, accanto a ben 235 resti di equini e 78 frammenti di cane tutti pertinenti ad uno stesso esemplare.

L’analisi dei resti di cavallo offre un quadro la cui interpretazione si rivela ben più complessa. Nella

presentazione dei risultati raggiunti, naturalmente, va tenuta in debita considera-zione la parzialità del conte-sto esaminato; estendendo lo scavo nelle aree attigue non si può escludere che il giacimento faunistico risulti più articolato nelle sue com-ponenti tassonomiche.

Le tracce antropiche, non correlabili ai processi di macellazione sulle ossa equi-ne, sono tutte perimortali e indicano che gli animali subirono ferite profondissi-me immediatamente prima della morte. Tali ferite furo-no inferte mirando ad aree precise del corpo dei cavalli, soprattutto la parte alta degli arti posteriori, la parte bassa del collo e la testa (fig. 11).

Le tracce di fendenti, che arrivano in un caso a sfondare e in un altro a tron-care i femori, sono da attribuire a violenti colpi di taglio inferti con lame, mentre un colpo di punta di una lama sembra essere la causa del distacco di una scheggia ossea sulla parte distale anteriore di un terzo femore. I profondi fori presenti sulle vertebre, su una costa e sull’osso zigomatico sono, invece, riferibili alla penetrazione di punte acumi-nate rapportabili per dimensioni e forma a frecce. È qui il caso di ricordare il rinvenimento delle due punte di freccia in bronzo recuperate nello strato 32076, contenente peraltro anche molti resti di equini in giacitura secondaria28. Naturalmente lo stato dell’evidenza non consente di associare le armi alle ferite, ma è probabile che frecce di questo tipo siano state usate nel corso dell’evento traumatico che ha portato alla morte degli animali. La tipologia delle frecce rimanda a quella impiegate dagli arcieri sciti e che, attraverso questi, ha influenzato anche l’armamento greco di epoca arcaica29.

L’insieme dei dati analizzati permette di affermare

27 In questo caso la tentazione di associare i reperti ai resti di un sacrificio, forse connesso all’erezione delle fortificazioni, appare molto forte, ma la frammentarietà dei dati priva la loro lettura della necessaria garanzia di univocità.

28 Come illustrato in precedenza la formazione di tale strato è imputabile allo scavo delle fosse di fondazione ellenistiche ed alla rideposizione all’interno del comparto del terreno rimosso.

29 A.M. Snodgrass, Armi ed armature dei greci, Roma 1991,

Fig. 11. Distribuzione delle tracce antropiche non correlabili a processi di macellazione sulle diverse porzioni anatomiche di Equus caballus.

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204 Aurora Lupia – Alfredo Carannante – Marianna Della Vecchia

che almeno alcuni dei cavalli furono coinvolti in una dura battaglia. Il concentrarsi delle ferite sulla parte alta degli arti posteriori sembra ben corrispondere all’altezza di colpi inferti da fanti. La morte dei cavalli è sopravvenuta dopo breve tempo a causa delle ferite riportate o per abbattimento, come dimostrato dalla mancanza di tracce di ricostruzione del tessuto osseo che caratterizza le ferite perimortali.

L’elevata percentuale di tracce di macellazione attesta, tuttavia, che le carcasse dei cavalli furono sfruttate a scopo alimentare. La maggior parte di tali tracce sono riferibili ad azioni di scarnificazione piuttosto che alla disarticolazione; tale dato suggeri-sce un’attenta rimozione delle fasce muscolari dalla testa alle zampe con una scarsa cura, tuttavia, delle comuni pratiche di macellazione. Sulle ossa equine manca, infatti, qualsiasi traccia di depezzamento: nessun resto presenta tracce della suddivisione in porzioni tipica della macellazione antica che preve-deva il taglio delle coste in prossimità delle vertebre, il taglio trasversale delle vertebre e il distacco degli arti nel punto di articolazione allo scheletro assiale.

Tali dati, in un contesto culturale per il quale il consumo di carne equina non è attestato e nel quale le pratiche di macellazione seguono in genere rego-le stabilite, sembrano suggerire una macellazione atipica, fatta da persone non specializzate e forse in maniera frettolosa. Un’azione volta al procacciamento di carne sicuramente estranea alle regole del tempo e probabilmente legata a situazioni di crisi riconduci-bili a periodi attraversati da importanti eventi bellici.

La presenza di gnaw mark attesta l’abbandono delle carcasse scarnificate all’attività di rovista-mento alimentare da parte di carnivori di medie dimensioni. Tale attività di sciacallaggio può ben spiegare la dislocazione delle singole ossa equine come pure delle porzioni di carcassa con le ossa ancora in connessione anatomica.

La presenza dei resti di cani nel deposito è enig-matica. A differenza degli altri resti archeozoologici, le ossa di questo taxon non presentano tracce di ferite inferte, né di macellazione, si può dunque escludere un loro utilizzo a fini alimentari. L’assenza

di tracce di combustione permette di escludere anche un coinvolgimento in pratiche rituali. I cani presenti nel deposito potrebbero essere i responsa-bili del rovistamento alimentare riconosciuto sui resti degli altri mammiferi, sebbene la carcassa di almeno uno dei cani fu tuttavia anch’essa oggetto di sciacallaggio.

A. Carannante - A. Lupia

Commento L’attento recupero e la tempestiva analisi del

giacimento faunistico qui presentato si devono alla determinazione e all’impegno della dr.ssa A. Lupia, che prontamente ne ha intuita l’importanza, sollecitando la mia attenzione e la collaborazione del dr. Carannante.

Il contesto che emerge dal loro studio è estrema-mente suggestivo: esso giaceva all’esterno della cor-tina tardo-arcaica, deposto sul piano di campagna coevo alla costruzione di quella cortina.

Come ho avuto modo di ricordare in varie circostanze, la situazione ambientale ricostruibi-le all’esterno della porta mediana, di fronte alle mura settentrionali della città, corrisponde con lo scenario descritto dalla fonte di Dionigi di Alicar-nasso a proposito della battaglia di Cuma del 524 a.C.30. L’esercito degli assalitori viene costretto in una angusta fascia di terreno paludoso, stretto tra la laguna e le mura; il loro numero esorbitante, carratteristica essenziale di una armata “barbarica”, si rivela un’arma a doppio taglio, che impedisce ai cavalieri di compiere liberamente le loro evoluzioni; è così che i difensori, assai meno numerosi, riescono ad imporre la loro vittoria. Si tratta di un topos, ricorrente in situazioni del genere, nelle quali la metis, la pronoia del greco si scontra con la hybris, la mancanza di misura del barbaro. Ma, nel caso di Cuma, la figura retorica era suggerita da una perfetta conoscenza dei luoghi, che spesso emerge nel racconto di Dionigi ed è merito della sua fonte.

pp. 110-113. Per la distribuzione in Italia meridionale di tali frecce, Johannowsky 1985, pp. 122-123, con bibliografia pre-cedente, l’autore sottolinea come la presenza di tali manufatti ricorra, oltre che in sepolture di guerrieri, anche nei santuari come prede consacrate.

30 D.H. VII, 3.4.1-3. Sulla battaglia del 524 a.C., e il ruolo della cavalleria cumana, cfr. Lubtchansky 2005, pp. 130 ss. Sullo

scenario storico cfr. da ultimo A. Mele, ‘Cuma tra VI e V secolo’, in ‘Atti XXVI Convegno di Studi Etruschi e Italici’ su Gli Etru-schi e la Campania settentrionale, novembre 2007, c.s., e la sua relazione ‘Cuma in Opicia tra Greci e Romani’ in occasione del XLVIII Convegno di Studi della Magna Grecia su Cuma svoltosi a Taranto nell’autunno del 2008 che, grazie alla generosià dell’A., ho potuto leggere prima della pubblicazione.

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205Il muro di Aristodemo e la cavalleria arcaica

Si tratta dunque di un “paesaggio storico”, ca-pace di evocare con le sue stesse caratteristiche, l’ambientazione e le dinamiche di eventi antichi. I cavalli da noi rinvenuti sono caduti in uno scontro di cavalleria avvenuto al tempo di Aristodemo. Lo dimostra la loro statura possente, il tipo delle ferite che ne hanno determinato la morte. Sicuramente non si tratta però della battaglia del 524 a.C., in cui Aristodemo, poco più che giovinetto31, si impone come il più valoroso dei giovani cavalieri cumani: scenario di quella battaglia furono le mura del pe-riodo arcaico, successivamente inglobate da quelle fatte costruire dal tiranno.

Indipendentemente da quanto emergeva dalla serrata analisi delle fonti sul mondo euboico e le fondazioni euboiche della Magna Grecia, ed in par-ticolare sul circostanziato racconto delle vicende di Aristodemo e della battaglia di Cuma, si perpetuava un serrato dibattito tra gli storici moderni, che ri-proponeva due questioni di fondo: se nella Grecia arcaica esisteva una vera e propria cavalleria, com-posta cioè di guerrieri che combattono a cavallo; se questo genere di cavalleria avesse effettivamente in età arcaica l’importanza decisiva che le attribuiscono le fonti storiche di età ellenistica e romana.

Per comprendere l’importanza di questi dati, oc-corre ricordare brevemente i termini del problema32. Il dibattito rimonta agli inizi del ’900, quando W. Helbig sostenne che non esisteva in Italia una vera e propria cavalleria prima del IV sec. a.C.: prima di quell’epoca, i cavalieri erano in realtà opliti a cavallo. Il dibattito, che aveva una importanza determinante per la ricostruzione della storia sociale e politica di Roma arcaica, oppose A. Alföldi e A. Momigliano in una serrata polemica durata circa vent’anni a partire dalla metà del secolo. La tradizione tramandata da Dionigi a proposito della battaglia di Cuma è l’unica fonte relativa alla cavalleria campana e alla sua impor-tanza decisiva in uno scenario di battaglia riferibile al periodo arcaico. Ancora in anni recenti questa tradizione, da alcuni studiosi33, veniva giudicata

anacronistica, sostenendo che, all’epoca, la guerra di tipo oplitico doveva essere dominante. L’operazione aveva implicazioni di vasta portata, dal momento che l’esame della tradizione letteraria relativa alle città dell’Eubea mostra come la pratica equestre fosse un elemento importante nella strutturazione sociale e nella stessa paideia aristocratica; questo legame appare particolarmente evidente dall’esame delle fonti relative alla società cumana del tempo di Aristodemo34. Raramente capita che l’evidenza archeologica possa avere una rilevanza decisiva in problemi storici di questa portata: dai dati che sono stati presentati è possibile ricavare – una volta per tutte – una risposta affermativa ai quesiti che sono stati al centro del dibattito storico, confermando in modo impressionante la descrizione di una battaglia simile a quella tramandata da Dionigi di Alicarnas-so, dalla quale prese le mosse la carriera del tiranno Aristodemo.

B. d’Agostino

Abbreviazioni supplementari:

Agorà XII = B.A. Sparkes - L. Talcott, Black and plain pottery of VIth, Vth, IVth century B.C. (The Athenian Agorà XII), Prin-ceton 1970.

Cuma 1 = B. d’Agostino - F. Fratta - V. Malpe-de, Cuma. Le fortificazioni 1. Lo scavo 1994-2000, Napoli 2005.

Cuma 2 = M. Cuozzo - B. d’Agostino - L. Del Verme, Cuma. Le fortificazioni 2. I materiali dai terrapieni arcaici, Napoli 2006.

Johannowsky 1985 = W. Johannowsky, ‘Corredo tombale da Buccino con punta di freccia «scitica»’, in AIONArchStAnt VII, 1985, pp. 115-123.

Lubtchansky 2005 = N. Lubtchansky, Le cavalier tyrrhé-nien - Représentations équestres dans l’Italie archaïque, Rome 2005, pp. 130 ss.

Morel 1981 = J.P. Morel, Céramique campanienne, les formes, Rome 1981.

Museo Archeologico Campi Flegrei 1

= F. Zevi et alii (a cura di), Museo Ar-cheologico dei Campi Flegrei. Catalogo generale. 1. Cuma, Napoli 2008.

Rescigno 1998 = C. Rescigno, Tetti campani, Roma 1998.

31 La definizione di antipais indica una classe d’età tra i 16 e i 18 anni.

32 Lubtchansky 2005, pp. 1 ss.33 K.-W. Welwei, ‘Die Machtergreifung des Aristodemos von

Kyme’, in Talanta 3, 1971, pp. 44-55.34 A. Mele, ‘Aristodemo, Cuma e il Lazio’, in M. Cristofani

(a cura di), Etruria e Lazio arcaico, Roma 1987, pp. 155-177; Lubtchansky 2005, pp. 23 ss., e ora le relazioni di A. Mele citate supra alla nota 30.

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1. Una ninfa rara

«Si tributa onore a una statua in bronzo di Eco, che riesci a vedere – penso – mentre porta la mano alle labbra»1. È l’unica trattazione iconografica antica che si soffermi positivamente, almeno un istante, sull’immagine della ninfa. Qualche secolo dopo, infatti, Ausonio sottolineava l’inutilità dello sforzo degli artisti di dare un volto – e un corpo, aggiungerei – a una dea, a cui fa dire: «dipingi il suono, se vuoi dipingere qualcosa che assomigli a me»2. In effetti è difficile conferire una forma a un personaggio, la cui unica caratteristica distintiva ha a che fare con la voce. Secondo il gesto indicato da Filostrato, infatti, la si vedeva su un quadro nel triclinio 49 dealla “Domus dei Dioscuri”3, ma an-che, alcuni secoli prima, su un’hydria a figure rosse in compagnia di Artemide4. Sono queste pressoché le uniche rappresentazioni sicure di questa ninfa, altrimenti inferita esclusivamente sulla base della presenza di Narciso5.

Il fatto potrebbe stupire, in considerazione anche dell’alta frequenza del tema di Narciso, che a Pom-pei, per esempio, si qualifica come il soggetto in assoluto più attestato6. Affacciarsi sull’incontro tra Narciso ed Eco appare, oggi come allora, affacciarsi su un quadro terribilmente sbilanciato: da un lato un’inesauribile sequenza di studi, un moltiplicarsi progressivo di prospettive, dall’altro paradossalmen-te, considerando che è il lato di Eco, troviamo il silenzio. Ridare ad Eco la sua parola è il tentativo di questo breve studio.

2. Uno specchio da fuggire

Narciso non è solo. Non per lo stuolo di giovani innamorati, maschi e femmine, che nelle versioni note si muovono come una massa indistinta sullo sfondo7. Nemmeno per le migliaia di occhi che nei secoli hanno fissato, interrogandosi variamente, il suo specchiarsi immobile, vero cuore pulsante di una “macchina simbolica”, un dispositivo generato-

LA VOCE, IL CORPO. CERCANDO ECO

Gian Luca Grassigli

1 Philostr., Im. II, p. 34.2 Aus., Epigr. 11, p. 8; cfr. Kay 2001, pp. 94-97.3 Pompei, VI, pp. 6-7; PPM IV, pp. 952 s.4 Berlin, Staat. Mus. 3238; vd. Bazant-Simon 1986, nota 2,

p. 682. 5 Tale riconoscimento, per quanto probabile, non assume

valore di certezza, dal momento che la versione ovidiana non è l’unica tradizione esistente del racconto di Narciso (Barchiesi 2007, p. 180). Fa eccezione un mosaico di Antiochia (“House of the Buffet Supper”), in cui la ninfa, non peculiarmente caratterizzata dal punto di vista iconografico, viene segnalata dall’iscrizione (Levi 1947, pp. 136 s., fig. 23c); per la tratta-zione dell’immagine di Eco vd. Bazant-Simon 1986, che ne individuano la funzione come doppio di un personaggio che

soffre, più sulla base della tradizione letteraria, tuttavia, (cfr. in questo senso Bonadeo 2002), che su quella iconografica, poiché il suo riconoscimento risulta in generale ipotetico, per quanto probabile.

6 Colpo 2006, che ha peraltro il merito di mettere in evidenza l’autonomia di una riflessione formale sul tema sostanzialmente romana; per le rappresentazioni di Narciso in tutto il mondo romano vd. Rafn 1992. La bibliografia sulla figura di Narciso è pressoché sterminata; rimando ai Recenti Barchiesi 2007, pp. 175 ss. e a Colpo-Grassigli-Minotti 2007.

7 «multi illum iuvenes, multae cupiere puellae», Ov., Met. III 353; ma anche Conone in Fozio, Bibl. 186.134b.28-135a.4 presenta un Narciso che ha in spregio Eros e il gran numero di amanti che lo avvicina.

«Just as Oedipus has to be male, Echo has to be female»

Spivack 2004, 26.

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re di isotopie narrative suscettibili di render conto dei numerosi piani di lettura e di interpretazione ai quali è stato sottoposto, dall’antichità fino a oggi»8. Narciso non è solo, prima di tutto, perché avvolto nella trama dei riflessi di Eco.

Eco, piuttosto, è sola. Lo è nell’immagine ter-ribile che lascia di lei Ovidio, dopo il rifiuto di Narciso: «ma il disprezzo la scaccia a celarsi nei boschi. Dentro alle fronde / ripara il rossore del volto e da allora abita grotte deserte» e nella sua fine orribile:

«Di lei non rimane che voce e ossa: / la voce non cambia, le ossa si fingono sasso, a quanto si narra»9.

Eco, dunque, è così sola che in antico «nulloque in monte videtur» e anche oggi, per quanti occhi di studiosi abbiano scrutato Narciso, vergando pagine importanti, praticamente nessuno ancora la vede: «not only do I notice a singular absence of in-dependent attention to the narrativization of Echo […], but also an ignoring of the frame»10. Basta, da sola, la forza d’attrazione del protagonista della vicenda a spiegare questa scarsità d’attenzione? È sufficiente pensare al suo carattere maschile, nemmeno così nettamente definito, per altro, per spiegare il suo potere di oscuramento della presenza di Eco, se, come è vero, solo la critica femminista ha puntato un’attenzione autonoma e specifica su di lei?11

Viene in mente il passo di un libro luminoso e struggente, in cui si narra la scoperta dell’eco da parte di una bambina: «Chi risponde al suo appel-lo dal fondo del bosco? [...] Vorrebbe saperlo. Ma allora bisognerebbe attraversare il villaggio, passare in mezzo alle case vuote e poi cercare i sentieri che scalano il pendio». Alla fine della giornata, tuttavia, dopo tanta strada percorsa, «ci si volta verso la valle e si chiama per l’ultima volta. La voce risponde ancora; proviene ormai dall’altro versante dell’oriz-

zonte dove s’intravede il villaggio lasciato al mattino e, giù in fondo, la casa con la finestra che sovrasta l’aiuola di ghiaia, con l’unico albero che spinge fino al balcone di pietra i rami nudi e, dietro le imposte aperte, il volto immaginario del bambino che grida e che non crescerà»12.

Il lungo viaggio all’inseguimento di Eco riporta, dunque, al punto di partenza, dentro la nostra casa, in fondo al nostro essere. Eco, rimandando la nostra voce, rinvia a noi stessi. Non si tratta, non ancora, di guardare in uno stagno placido un’immagine che lusinga e che coglie le nostre forme, gettando le reti di una fascinazione dolce, languida e silen-ziosa. Riflessi da Eco, cogliamo piuttosto il grido della nostra voce, che ritorna sola e inascoltata, l’iterazione infinita della parola, la nostra parola, il cui ripercuotersi invano scarnifica, devasta il corpo:«la magrezza le secca la pelle, svaporano tutti gli umori»13. Eco, dunque, sembra proprio uno spec-chio da fuggire.

3. Un incontro

Inventando Eco, Ovidio inventa Narciso. È attraverso la narrazione di questo incontro che il poeta costruisce quella “macchina simbolica”, che ha goduto di tanta fortuna nella cultura europea. Poco importa, infatti, che esista una tradizione legata al nucleo tematico degli effetti dannosi di un bel giovane che si specchia14, così come non risultano decisive le precedenti versioni intorno a una ninfa di nome Eco. Narciso ed Eco, infatti, per come li conosciamo noi, ossia per il posto da loro occupato nella cultura antica e poi in quella dell’Europa, cominciano ad esistere nel momento in cui Ovidio li fa incontrare15. Questi nomi, prima di questo incontro, erano altro da loro.

Non è, dunque, mettendosi sulle sparute tracce

8 E. Pellizer in Bettini-Pellizer 2003, p. 149.9 Ov., Met. 3, pp. 393-394 e 398-399 (trad. L. Koch).10 Spivack 1993, p. 23.11 Spivack 1993; vd. anche Raval 2003.12 Forest 2005, p. 23.13 Ov., Met. 3, pp. 397-398 (trad. L. Koch).14 La versione più antica è quella di Conone, in Fozio, Bibl.

186.134b.28-135a.4; prelude al nucleo tematico legato a Narciso anche il racconto del bellissimo Eutelida, un giovane che ammirando insistentemente il proprio corpo riflesso, finì col gettarsi il malocchio, come racconta Plut., Quaest. Conv., p. 681 a-c, riportando i versi di Euforione. La bibliografia su Narciso, ovviamente, è vastissima, rimando per la questione del Narciso pre-ovidiano a Pellizer 2003, pp. 45 ss., con bibl. prec.

15 Le posizioni sulla possibilità dell’esistenza dell’incontro tra Eco e Narciso prima di Ovidio, di cui non si è comunque ancora trovata traccia, sono divergenti e misurate tra chi ritiene imprudente escluderla e chi al contrario ritiene imprudente presupporla. Per il primo caso vd. Hutchinson 2006, p. 81, per quanto poi riconosca, ed è il fatto importante, un contributo decisivo dell’invenzione di Ovidio nell’elaborazione dell’epi-sodio stesso («The episode demonstrates Ovid’s inventiveness and his massive scale, but also his ability to compress meaning into the pithiest of language», p. 83); per il secondo caso vd. Barchiesi 2007, pp. 180 s. («l’altra grande innovazione di Ovi-dio, accanto a quella di Narciso “autoconsapevole” è lo spazio concesso all’intreccio con la leggenda di Eco»). Per la questione vd. anche Bonadeo 2003, nota 57, p. 92.

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di Narciso nella poesia ellenistica, che si può fare luce sull’invenzione ovidiana16, ma ragionando su Eco e sul suo incontro con il giovane cacciatore, pensato in latino e scritto in latino, perché, ed è uno dei tanti paradossi di questa straordinaria narrazione, «senza il linguaggio, il Narciso ovidia-no non esisterebbe»17. Questo è vero non solo per lo straordinario artificio linguistico messo in atto da Ovidio18, ma anche perché il suo incontro con Eco vive nel linguaggio. Mentre, infatti, la seconda tappa del percorso di Narciso, ossia l’apparizione del suo doppio riflesso, è inscritta prima di tutto nella dimensione visiva, il rapporto con Eco nega in gran parte del suo sviluppo tale facoltà, per dispiegarsi e risolversi sostanzialmente nella parola.

Se, dunque, non vi è dubbio, che esistano nuclei tematici e figure, che attraversano la tradizione greca, sviluppati intorno sia alla figura di un gio-vane che si specchia, chiamato o meno Narciso, e alle conseguenze del suo specchiarsi, sia a una ninfa bellissima capace di imitare ogni suono, ciò che manca nella letteratura ellenistica è la loro relazione e ciò che presumibilmente continuerà a mancare, nonostante il dispiegarsi a ventaglio delle ricerche, è l’incontro, tutto latino, dei due personaggi. Solo nel momento in cui Ovidio li farà incontrare, Eco e Narciso hanno cominciato a vivere.

4. Prima di Ovidio: (re)inventando Eco

Il rigore razionalista di Lucrezio biasima tutti coloro che erano pronti a scambiare l’eco per la voce degli spiriti19. Ovidio, invece, attribuendo un’identità vivente a questo fenomeno e soprat-tutto assegnando ad esso un corpo, e un corpo femminile, fa agire i suoi aspetti inquietanti e misteriosi, che da sempre lo caratterizzano agli occhi degli uomini. Infatti, nei riflessi di questa

voce, ovvero nei riflessi della propria voce, Narciso si smarrisce.

Prima di Ovidio, tuttavia, Eco non aveva mai smarrito nessuno; o forse Pan, ma non irretendolo in una rete di rimandi sonori, bensì semplicemen-te sconvolgendolo con la propria bellezza. Alcuni raccontano, infatti, che Eco non fosse una ninfa, bensì la figlia di una ninfa, da cui avesse ereditato un aspetto mirabile. Educata dalle Muse, acquistò un’abilità sublime nella danza, nel canto, nel suono degli strumenti musicali, che unita alla sua grande bellezza, ne accrebbe il potere di seduzione. Ma Eco, come si addice a una fanciulla, fuggiva gli amori, decisa a conservare la propria purezza. Vedendola e ascoltandola, tuttavia, Pan si inebriò del deside-rio di lei, crescendo progressivamente la passione folle di fronte alla sincera e reiterata ritrosia della fanciulla. Così, accecato dall’odio per l’ennesimo rifiuto, le scatenò contro la violenza del suo seguito di pastori e caprai, che la dilaniarono, spargendo le sue membra in regioni lontane, quasi prefigurando la corsa in ogni direzione della sua voce. Ma la Terra, per amore delle Ninfe, ricoprì i suoi resti, dando a Eco una giusta sepoltura e per volontà delle Muse concesse alla sua voce di risuonare ancora, capace come un tempo di imitare qualunque altro suono. Per questo, ogni volta che Pan modula il suo flauto, udendo un suono analogo, si lancia in furibonde corse per valli e boschi, alla ricerca di colei che, nascosta, ne imita la musica20. Un’altra versione, in verità poco attestata e tarda, suggerisce che Eco abbia ceduto alla seduzione di Pan21.

Nell’Epitaffio di Adone, invece, troviamo un’Eco diversa, che soccorre Afrodite nella condivisione del dolore senza speranza per la morte dell’amato, amplificandone il lamento22. E, dal momento che la poesia rimanda poesia, nell’Epitaffio di Bione, autore di quello appena citato per la morte di Adone, accorre anche Eco, a piangere il grande

16 Anche la più recente analisi intorno alla presenza di Narciso nel papiro P. Oxy. 4711 (Hutchinson 2006), sia pur importante, «non aggiunge informazioni nuove sul piano della tradizione mitologica» (Barchiesi 2007, p. 176).

17 Bettini 1993, p. 113, che insiste sul ruolo essenziale della grammatica nell’invenzione dell’episodio.

18 Cfr. da ultimo Barchiesi 2007, pp. 181 ss.; ma in generale tutti i commentatori insistono su questi aspetti.

19 Lucr., d.r.n. IV 568-581 (580-583): «Haec loca capripedes Satyros Nymphasque tenere / finitimi fingunt et Faunos esse loqu-untur / quorum noctivago strepitu ludoque iocanti / adfirmant vulgo taciturna silentia rumpi».

20 La fonte principale che contiene il racconto nella sua interezza Long., III, 23; Eco fugge Pan anche in Mosch. 6, pp. 1-3 e Nonn., Dion. II pp. 119-148. Usa in senso comico Eco, invece, Aristoph, Tesmoph, 1056, ss., in esplicita polemica con Euripide, nella cui Andromeda Eco verosimilmente giocava un ruolo di rilievo. Per un’analisi dettagliata delle fonti su Eco vd. ora Bonadeo 2003, pp. 78-93; J. Bazant - E. Simon 1986, p. 680; sempre utile RE, s.v. Echo.

21 AP 16, 154, 1; 233, 1. Un’analisi in Bonadeo 2003, pp. 88-93.

22 Bio, Adon. epitaph. I, pp. 37 ss.; per questa attitudine di Eco anche in contesti letterari successivi vd. Bonadeo 2002.

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23 Mosco, Epitaffio di Bione.24 «È il prodotto di un’operazione squisitamente letteraria

[…], scaturito dall’intento di fornire a una manifestazione della natura, curiosa, ma fondamentalmente nota, un doppio mitologico che ne sussumesse le caratteristiche e, tramite la sua storia o la sua azione, potesse riassumerne e rappresentarne i meccanismi di produzione», Bonadeo 2003, pp. 80 s.

25 Bonadeo 2002.26 Barchiesi 2007, p. 181.27 Uso ancora la traduzione di L. Koch.28 Barchiesi 2007, p. 185.29 Ov., Met. III, p. 369; «ingeminat voces auditaque verba

reportat».

poeta scomparso, ma, non potendo più imitarne la voce, resta muta, viene inaspettatamente ridotta al silenzio23.

In generale, come si può vedere, nella tradizione precedente l’invenzione di Ovidio, abbiamo a che fare con una figura che è più personificazione, e quindi aition24, che personaggio vero e proprio, dal momento che non instaura nessuna vera relazione con l’altro. Appare, in generale, o strumento di en-fasi e dilatazione del lamento funebre25 ovvero nelle forme generiche di una ninfa, o meglio della figlia di una ninfa, oggetto delle insidie erotiche di Pan, da cui, in quanto fanciulla, fugge ostinatamente. In generale, dunque, questa figura si muove in un con-testo erotico, non solo per la sua bellezza e per il tema del desiderio di Pan, ma anche perché di norma il lamento funebre a cui dà voce si sviluppa per la morte di un amante. Di tale contesto erotico, tuttavia, Eco è protagonista passiva, non venendo mai implicata in un rapporto d’amore: oggetto di desiderio, Eco prima di Ovidio non è capace di desiderare.

5. Un corpo per Eco

Ad Ovidio questa Eco non basta. Non è possibile raccontare una storia d’amore, soprattutto se si tratta della prima attestazione «dell’amore come fenome-no umano, quindi potenzialmente “normale”»26, nell’opera che va scrivendo, con una figura che solamente scappa, che nega se stessa. Nelle mani del poeta confluiscono i vari rivoli della tradizione che diviene, tuttavia, materia fresca da plasmare.

Nel dare una figura viva al fenomeno fisico della riflessione sonora, accettandone dalla tradizione la natura femminile, ma assegnandole autono-mamente una formidabile propensione amorosa, Ovidio stabilisce anche un nuovo e diverso carattere strutturale di questo personaggio, che costituisce anche il senso profondo del suo essere drammatico. Da un lato, infatti, secondo la tradizione, destina Eco a vivere esclusivamente nel riflesso, ciò che la lega indissolubilmente a Narciso, ma insieme, asse-gnando per primo ad essa la capacità di desiderare,

le conferisce la spinta ad uscire dalla dinamica del riflesso, creando una tensione drammatica tutta interna al personaggio, che costituirà anche il motivo guida dell’episodio. Ma per connotare Eco come personaggio capace di desiderare, Ovidio deve riscattarne dalla tradizione il corpo: in questa nuova storia Eco non ha un corpo solo per Pan, ma possiede un corpo prima di tutto per se stessa.

6. La ninfa fatta di voce

Ma ecco che bara, il poeta, o gioca abilmente con il lettore, confondendo tradizione e innovazione, nel momento in cui introduce a sorpresa Eco come vo-calis nymphe, “la ninfa fatta di voce”27. Il suo ingresso è inaspettato. Ovidio, infatti, sta ancora parlando di Narciso, mostrandolo intento alla caccia, dopo aver fatto cenno al suo “orgoglio durissimo”, che gli fa respingere ogni profferta amorosa ugualmente di giovani e di fanciulle. Quand’ecco che, nascosta nel bosco, lo scorge Eco, la “ninfa fatta di voce”. Nel momento in cui appare, tuttavia, Eco non solo ha ancora un corpo, ma un corpo che funziona da protagonista attivo di tutta la vicenda; in questo senso il poeta finge, o semplicemente mischia le carte, non svelando ancora la novità dirompente della sua Eco. Enunciando l’esistenza della ninfa nella sfera della vocalità, infatti, il poeta si richiama esplicitamente alla tradizione esistente, tenendo ancora nascosta in questa maniera la dimensione della corporeità, che la ninfa, invece, vive pienamente.

Al verso successivo Ovidio riafferma il concetto e la “ninfa fatta di voce”, viene nominata, diventan-do “resonabilis Echo”, quindi colei che rimanda la voce. Appare dunque costretta a quel prefisso re-, da cui «sarà perseguitata nel racconto»28, che è da un lato l’indice della sua esistenza nella vocalità e dall’altro il segno costante e ineludibile della sua costrizione a riflettere. Eco, infatti, non parla mai per prima, ma in presenza di qualcuno che parli, ne ripropone la voce: «riduplica i suoni, rimanda le parole che ascolta»29. Mentre fissa la caratteristica strutturale di Eco, configurandone di conseguen-

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za l’aspetto principale, Ovidio introduce anche il nucleo del racconto di Narciso, compreso nel mondo assolutamente circoscritto dello specchiarsi, del rapporto definitivo con un’immagine, visiva o sonora, restituita e moltiplicata. Nello stesso tem-po, tuttavia, definendo per entrambi i protagonisti lo stretto limite della sfera d’esistenza vincolata al riflesso, mette in evidenza il diverso modo di agire. Il resonabilis, infatti, mostra il carattere attivo di Eco, la qualifica come generatrice di riflessi, mentre Narciso si porrà inesorabilmente come spettatore o, se si vuole, fruitore del riflesso.

Eco, tuttavia, non è così da sempre, e anche in questo Ovidio si mostra uno straordinario ma-nipolatore della tradizione. Un tempo, anzi, era dotata di grande facilità di parola, al punto da essere solita a intrattenere Giunone mentre Giove, irrimediabilmente fedifrago, si dilettava con una qualche ninfa30. È, dunque, nella sfera erotica che Eco usava la sua fresca e sapiente loquacità, anche se non a proprio vantaggio, bensì per consentire le scorrerie amorose del supremo tra gli dei. Venne però il giorno in cui Giunone scoprì il sotterfugio. Così, gonfia d’ira, decise di punire Eco proprio nello strumento usato per il ripetuto inganno, to-gliendole la possibilità di adoperare liberamente la parola e condannandola a rimandare quella altrui. Ma proprio allora, nel momento in cui era divenuta prigioniera nel cerchio chiuso del riflesso sonoro, Eco avrebbe voluto la creatività della sua parola, ne avrebbe avuto bisogno finalmente per se stessa. Eco, infatti, aveva incontrato Narciso.

7. Il desiderio di Eco

Lo vede mentre vaga, solo, per una campagna solitaria. Lo vede e se ne innamora, anzi, dice più forte Ovidio, «vidit et incaluit», lo vide e si infiam-mò di lui31. La ninfa, fino a poco prima così brava a parlare, ora è costretta a tacere, può solo seguirlo di nascosto, per stargli vicino, ma più lo segue e più arde di passione.

Dopo pochi versi, dunque, il corpo di Eco diventa protagonista; ma non in senso tradizionale, quale oggetto di desiderio, bensì come soggetto poten-temente attivo:

«La scalda, inseguendolo, un fuoco sempre più prossimo: / al modo che in cima alle torce divampa, / se appena lo sfiora la fiamma, lo zolfo impaziente. / Ah, quante voglie le vengono di accostarlo con dolci parole, / di volgergli tenere suppliche! La sua natura è ribelle, / non le permette di aprire un discorso…»32.

In questi versi appare l’assoluta crudeltà e la raffi-natezza insieme della punizione inflitta da Giunone: nel momento in cui Eco è divenuta consapevole del proprio corpo, si trova privata della voce, che risulta uno strumento indispensabile per attingere pienamente alla corporeità. La privazione dell’au-tonomia della parola, dunque, si rivela come una forma di inibizione della sessualità di Eco33.

Occorre ricordare, a questo punto, la “simmetria incompiuta”, tracciata tra Eco stessa e il personaggio che introduce la storia di Narciso, ossia Tiresia. Anche quest’ultimo, infatti, è stato punito da Giunone, e sempre per questioni legate alla sfera sessuale, dal momento che aveva sostenuto durante una disputa tra Giove e Giunone, appunto, che le donne godono di una parte maggiore di piacere rispetto agli uomini34. Indispettita, la dea lo privò della vista, ma Giove per bilanciare in qualche modo tale menomazione, lo dotò del dono della profezia. La storia, dunque, procede parallelamente a quella di Eco fino al momento del risarcimento, al quale evidentemente la ninfa, che pure aveva sempre sostenuto Giove, non pare avere diritto35.

In ogni caso, nei pochi versi sopra citati appare il cambiamento radicale a cui Ovidio ha sottoposto Eco. Da fanciulla o ninfa concentrata sulla conser-vazione della proprio verginità, Eco diviene una donna che desidera e che, come tale, è capace di assumere l’iniziativa. Il desiderio della ninfa, infatti, diviene il vero motore dell’episodio, a cui Narciso corrisponde in particolare nel suo già evidente bisogno di definirsi in quanto riflesso.

Mentre la donna, o la ninfa, osserva in segreto la vita di Narciso nel bosco, vive un cambiamento profondo rispetto alla tradizione. L’amore che cresce in lei, il desiderio che brucia, le fa abbandonare l’ob-bligo della consueta ritrosia femminile di fronte al rapporto erotico, ossia infrange il codice del corretto atteggiamento della donna nella retorica amorosa,

30 Ov., Met., III, pp. 356-369.31 Ov., Met. III, p. 371.32 Ov., Met. III, pp. 371-377, (trad. L. Koch).

33 Raval 2003, pp. 211 ss.34 Ov., Met. III, pp. 316-348.35 Spivack 1993, p. 00.

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per assumere un paradigma comportamentale tut-to legato all’identità maschile: anziché fuggire per pudicizia e timore l’occasione dell’incontro sessuale, Eco assume i modi virili dell’aggressione, diventa ella stessa cacciatrice.

Si delinea così un tema che scorre sotterranea-mente lungo tutto l’episodio, e che non sempre è stato colto, o almeno adeguatamente approfondito, quale quello dell’inversione di genere, ossia dell’at-titudine dei due personaggi a rifiutare le regole del corretto comportamento, che identità sessuale ed età imporrebbero loro, secondo l’ottica delle società antiche, per assumerne altre di segno opposto o diverso: nel racconto ovidiano, infatti, è Narciso, il maschio, a sedurre ed Eco, la femmina, a diventare l’innamorato che insegue36.

8. Un incontro riflesso

Nel momento in cui la ninfa vorrebbe prendere l’iniziativa nei confronti del giovane è sprovvista del suo più efficace strumento tradizionale, ossia la parola. Vorrebbe, ma non può. Può solo aspettare che sia il giovane stesso a parlare, per ri-fletterne a proprio vantaggio la voce. Qui Ovidio inizia un abilissimo e sempre più intenso gioco di corrispon-denze tra Narciso, che parla, e questa voce che gli rimanda, ma con un senso e un intento diverso, le sue parole.

Fin dal primo momento, dunque, l’incontro è scandito nel riflesso. Un riflesso sonoro naturalmen-te, che vede da un lato Eco rimandare l’immagine vocale di Narciso e dall’altro il giovane, che cerca di decifrare il riflesso di se stesso, in un’attitudine che è prodromo dello sviluppo successivo della sua vicenda. Ma soprattutto un riflesso imperfetto, per-ché Eco interviene nell’unico limitato spazio che le è concesso. Ella, infatti, non si limita a rimandare il suono di Narciso, ma intervenendo per quello che può sulla sonorità da rinviare, introduce un nuovo significato nelle parole di Narciso, che culmina nel «coeamus», uniamoci, ossia facciamo l’amore,

replicato a «huc coeamus», riuniamoci, ovvero ve-diamoci, pronunciato da Narciso37. Così facendo Eco cerca di uscire dalla propria condizione di realtà speculare, di superare il limite assoluto impostole dalla punizione di Giunone, e quindi di trasformare in dialogo ciò che dialogo non potrebbe essere. Di fronte a un riflesso imperfetto, in quanto deviato dalla ninfa, Narciso si perde, perché le parole che gli ritornano, in quanto (ri)flesse da Eco, non sono più solo sue, appaiono le stesse senza esserlo. È il primo grande fraintendimento in questa dimensione del riflesso, di cui vive l’incontro.

«Accade così che il ragazzo, diviso dal gruppo fidato dei suoi compagni, / domandi: “C’è forse qualcu-no?” e “Qualcuno” Eco risponda. / Stupito, lui lascia vagare lo sguardo da tutte le parti, / gridando a gran voce: “Su, vieni!”, e la ninfa richiama al suo chiamare. / Si gira: di nuovo non viene nessuno. “Perché mi fuggi?” / domanda, e riceve le stesse parole che ha detto appena. / Ma insiste, e l’inganna lo scambio di voci riverberato: / “Riuniamoci” dice, e non c’è frase al mondo / che lei sarebbe più lieta di rendergli. “Uniamoci”, Eco / risponde. Esaltata lei stessa da quello che ha detto, / sbuca dal bosco, smaniosa di stringergli al collo le braccia»38.

In questo primo incontro, dunque, Ovidio mette in scena la ricerca da parte della ninfa di un riflesso imperfetto. Se per Narciso le parole ritornano ugua-li, è la sua stessa voce che risuona, per Eco si tratta di un tentativo disperato di esistere, non riflessa, come Narciso, e nemmeno come un passivo riflet-tere, bensì come un riflesso imperfetto, unico modo concessole per affermare la propria individualità. Per Eco la dimensione circoscritta del riflesso è una prigionia: essere specchio non le basta.

Eco, dunque, appare vittima del riflesso, non semplicemente perché vi è costretta, ma perché, in maniera opposta da Narciso, non trova in esso alcuna soddisfazione. L’affermazione di Eco, la proclamazione della propria individualità reclama

36 Pellizer 2003, pp. 55 e 155 ss., che si richiama al modello del “cacciatore nero”, così come in Vidal-Naquet 1981, e già mirabilmente enucleato in Vidal-Naquet 1968. Resta, in ogni caso, ancora da definire il valore e i modi di applicazione di questo modello, concepito per la grecità classica, nell’ambito della cultura romana, per di più primo imperiale. Per questa lettura di Narciso vd. anche Frontisi-Ducroux 1998, pp. 175 ss.; sull’esistenza di paradigmi comportamentali rigidamente

canonizzati in relazione a identità di genere esiste ormai una bibliografia assai vasta, ricordo perciò alcuni tra gli interventi di carattere generale: Pellizer 1982, Zeitlin 1996.

37 Una vasta letteratura è dedicata specificamente a questo dialogo sviluppato con abilità straordinaria da Ovidio; per tutti rimando al recente Barchiesi 2007, pp. 188 ss.

38 Ov., Met. III, pp. 379-389. Ho usato qui la traduzione bella ed efficace di L. Koch.

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213La voce, il corpo. Cercando Eco

un incontro, invoca la presenza dell’altro. Eco si ribella, cercando di trasformare invano il proprio ribattere i suoni altrui in un rispondere, di poter incontrare il giovane virando segretamente le sue stesse parole. Crede, così, che il significato che assegna ai suoi discorsi rilanciati possa giungere a Narciso, mentre per il giovane si tratta semplice-mente di un ritorno sonoro dei propri. Non c’è spazio per questo incontro. Eco cerca di parlare, ma è costretta a deformare un riflesso, mentre Narciso, che parla, vuole dialogare solo con la propria immagine sonora. Se Eco è condannata a specchiare, Narciso aspira già a rapportarsi in maniera esclusiva col proprio doppio scaturito dal riflesso. Non c’è spazio per l’altro nel mondo univoco della riflessione39.

9. L’apparizione del corpo

Allora Eco si libera, cerca di oltrepassare il confine impostole dalla punizione di Giunone. Mentre le loro voci risuonano ancora nel silenzio, così iden-tiche e così profondamente differenti, intrecciate da un’identità e insieme da un fraintendimento irrisolvibile, all’improvviso irrompe dal bosco, dove fino ad allora era rimasta nascosta, cercando di ab-bracciare l’amato. «Egressaque silva», dice Ovidio, a sottolineare proprio lo sbucare, il venire fuori di qualcosa che prima, almeno per Narciso, non c’era. In questo unico gesto, in questo subitaneo apparire sulla scena Eco infrange insieme sia lo spazio rigorosamente delimitato del riflesso, in cui era costretta a vivere, sia il paradigma del compor-tamento femminile in amore.

I due aspetti, in verità, appaiono fortemente con-nessi. Anziché porsi dinanzi allo specchio, infatti, come ogni donna dovrebbe fare per definire e curare se stessa, Eco agisce come specchio, è specchio, ri-mandando l’immagine altrui, sia pure ‘solo’ sonora; anziché arretrare dinanzi alla bramosia possessiva del desiderio maschile, ella se ne fa carico e avanza con l’intento di possedere l’amato. L’inversione nel paradigma comportamentale di Eco mette in luce una corrispondente inversione operata da Narciso, che, pur maschio, fugge e lancia la sua maledizione, definitiva – e tutta femminile – alla ninfa: «Morirei, piuttosto che cedermi a te»40.

L’irrompere di Eco trasporta la situazione dalla

condizione aerea e impalpabile del riflesso a quella drammaticamente concreta e carnale della realtà dialogica, nella quale Narciso è destinato a perdersi. Ma il dialogo passa per la messa in gioco del corpo di Eco. Ella, che aveva fuggito le lusinghe di Pan, che aveva chiuso il proprio corpo alle richieste di un dio, ora lo agisce, lo pone disperatamente al centro dell’incontro con Narciso, ma così facendo incontra il disprezzo, il rifiuto di sé. Eco, scopre che ciò che per lei era una prigionia, lo spazio cir-coscritto del riflesso, per il giovane cacciatore è la condizione di vita irrinunciabile, il suo margine di sicurezza. Insieme la ninfa scopre che il riflesso, col suo carattere obliquo, solo in apparenza fedele alla realtà, ma di fatto capace di declinare la realtà stessa in una surrealtà a sé stante, è l’unica dimensione in cui Narciso aveva potuto incontrarla, riconoscendo in lei se stesso.

La scelta di Eco di superare il suo ruolo di spec-chio, di uscire dalla dimensione, conseguenza della punizione divina, di esistere semplicemente come doppio perfetto di Narciso, e quindi il suo tentativo di virare verso un fine suo proprio le parole del giovane, dissolvono la dimensione del riflesso, mediante l’inserzione forzosa e impossibile dell’altro, espressa attraverso la messa in gioco del proprio corpo. Nel momento in cui, colei che aveva agito come pura onda sonora, semplice riflesso della voce di Narciso, irrompe dal bosco come realtà, il giovane, privato del suo doppio vocale, rimasto solo, non può che fuggire. Scegliendo la direzione contraria a tante figure letterarie, ossia uscendo dallo specchio, riacquistando il corpo negato, Eco sgretola l’esistenza del doppio, mettendo quindi in fuga Narciso, che, invece, nello specchio di lì a poco entrerà.

10. Una questione di immagine: il corpo di Eco

L’apparizione del corpo di Eco ha messo in fuga Narciso. Lo vediamo scappare, irritato da quella maledizione fulminante, più adatta alle ritrosie di una vergine, che al necessario ardore di un giovane cacciatore: «Morirei, piuttosto che cedermi a te». Eppure Eco è una ninfa, una donna bellissima. Perché, allora, tutto questo disprezzo da parte di Narciso? Cosa c’è di sbagliato ai suoi occhi nel corpo di Eco?

39 Pellizer 1984. 40 Ov., Met. III, p. 391.

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214 Gian Luca Grassigli

Il corpo di Eco. Il corpo, bellissimo, di una donna. Eppure, agli occhi dei maschi, la bellezza assoluta

ed espressa del corpo femminile, può apparire in-quietante. Pan, l’abbiamo visto, fu così divorato dal desiderio di lei, che preferì dilaniarla, piuttosto che guardarla senza poterla possedere. Narciso, invece, la scaccia, esprimendole tutto il suo disprezzo.

Si tratta, non v’è dubbio, di una questione legata alla visione di quel corpo di donna. La reazione di Narciso è certamente legata alla sfera visiva, che per la prima volta nel rapporto con Eco entra in gioco. Ma è anche, ancora una volta, una questione di parole: la dimensione sonora, del resto, è quella entro cui si muove tutta questa storia.

Si tratta di parole scritte e pronunciate in latino. Non dobbiamo dimenticare, infatti, che l’incontro di Narciso e di Eco non è una storia della grecità: sono greci i luoghi, i nomi, i protagonisti, il tempo. Ma è una storia inventata in latino e raccontata in latino. Nella lingua di Ovidio, e dei suoi lettori, Echo è un nome. Un nome esotico, come mostra quella insolita h al centro della parola, che sa dei posti incantati del mito, dei paesaggi sacri e misteriosi della Grecia. Ma è soltanto un nome. Un nome che non indica il fenomeno fisico della rifrazione sonora, che pure esiste, di cui pure gli eruditi latini hanno scritto, ma che descrive sola-mente quella ninfa bellissima celata tra gli alberi o nascosta tra le rocce a ripetere le nostre parole. Eco è, dunque, una persona, un personaggio, non un fenomeno fisico.

Quando Orazio, aprendo un carme dedicato alla celebrazione della storia di Roma e all’esaltazione di Augusto, si rivolge alla Musa Clio, chiedendole quale nome l’eco disseminerà per l’ecumene, deve usare la formula “imago vocis”, per indicare il fe-nomeno della ripetizione del suono41. Alla stessa maniera è “imago vocis”, l’eco che rimbomba tra nude rocce in un paesaggio descritto da Virgilio42. Anche Lucrezio nel suo serissimo e amaro trattato, che indaga la vera natura della realtà, nel mo-mento in cui deve disfarsi delle ridicole opinioni di chi crede che dietro alla riflessione sonora vi sia l’opera di creature misteriose, chiama l’eco “imagine verbi”43.

Ma è lo stesso Ovidio che ci svela la via, proprio

mentre narra dell’incontro tra Eco e Narciso. Nel momento in cui, infatti, descrive l’eco, l’inganno del suono ripetuto che prende Narciso, non usa il nome del suo personaggio, bensì la consueta for-mula “imago vocis”44.

L’eco, dunque, per i latini è prima di tutto im-magine, figura, parvenza, sia pure sonora45. L’atti-tudine della ninfa, dunque, contiene in sé l’idea di impalpabilità. Il suo nome greco dà corpo a ciò che è vincolato a essere immagine, figura di qualcosa di altro da sé. “Vocalis nymphe”, la ninfa fatta di voce, la definisce Ovidio, come abbiamo visto, proprio all’inizio del racconto, quando in realtà nella sto-ria ella ha ancora ben saldo il suo corpo fiorente di bellezza. Ma è un epiteto, il segno di un nome che manca in latino, e che evoca la costrizione ad esistere come specchio, come riflesso impalpabile, come corporeità negata.

Uscendo dal segreto del bosco, dunque, Eco viene meno al suo destino, al significato stesso della sua natura: cessa di esistere come figura, come imma-gine sonora in cui Narciso ritrova se stesso, nel tentativo ultimo e disperato di incontrare Narciso, abbandonando il carattere fluido e mutevole del suo essere, per affermare un’immagine unica, definitiva, corporea, che corrispondesse soltanto a lei. Ma il corpo di Eco poteva esistere solo in quanto celato, affinché la ninfa agisse da specchio, si proponesse liberamente quale “immagine sonora” delle voci altrui.

Una volta esibito e affermato come tale, infatti, il suo corpo inizia a dissolversi:«ma le resta invischiato l’amore e cresce, sopra il dolore del rifiuto. / L’insonnia e gli affanni consu-mano il fragile corpo, / la magrezza le secca la pelle, svaporano tutti gli umori. / Di lei non rimane che voce ed ossa:»46.

Se la consunzione, che la divora fino a consumarla completamente, assume, dunque, nel racconto il topos della pena d’amore, la causa profonda del dissolvimento del suo corpo è da riconoscersi nel tentativo di uscire dal suo destino di specchio. Solo a questo punto, infatti, diventa effettivamente “vo-calis nymphe”, e non all’inizio del racconto, come pure la presenta Ovidio. Adesso, infatti, che ha perduto la concretezza della sua presenza corporea,

41 Hor., carm., I, pp. 12, 4; vd. a proposito della formula “imago vocis”, Scivoletto 1985, p. 165.

42 Verg., geor, IV, p. 50.43 Lucr., d.r.n., IV, p. 570 s.

44 Ov., Met., III, p. 385; cfr. Barchiesi 2007, pp. 180 s.45 Sull’identità tra riflesso sonoro e riflesso ottico, Arist., de

anim. II, p. 8 (419b).46 Ov., Met. III, pp. 394-398, (trad. L. Koch).

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215La voce, il corpo. Cercando Eco

«è il suono ciò che vive in lei»47, ed ella ha superato, ma nella direzione contraria al suo desiderio, la discrasia tra il suo nome e il suo bisogno di esistere. Solo a questo punto si svela la finezza e la crudeltà della pena inflittale da Giunone: la negazione della parola, ossia il farsi specchio delle parole altrui, implica la negazione del corpo e quindi l’impossi-bilità di amare.

Il prezzo che la ninfa deve pagare per esistere è la rinuncia alla corporeità, in quanto asserzione di individualità: solo celando il proprio corpo può funzionare come specchio perfetto, può farsi sor-gente di immagine altrui.

Mettendo in gioco il suo corpo, dunque, in un ultimo tentativo di incontro con il giovane caccia-tore, la ninfa distrugge lo specchio sonoro in cui Narciso aveva cominciato a riflettersi e col quale stava intrecciando il suo dialogo senza risposte, come di lì a poco avrebbe fatto con la sua immagine comparsa sul velo dell’acqua. Narciso inorridisce all’inganno: cacciatore di riflessi, aveva scoperto che dietro all’immagine esisteva altro da sé.

11. La parola di Eco

Eravamo partiti dalla minima quantità di atte-stazioni figurate di Eco, collegandola alla difficoltà di conferire una forma a una ninfa che ha a che fare sostanzialmente con la voce, ma siamo arrivati all’idea più complessa, non senza implicazioni me-taforiche, della negazione della sua corporeità. Una negazione che, in un certo senso, è stata ereditata anche dalla critica moderna, che ha ignorato nella sostanza un’analisi autonoma della figura di Eco, vista pressoché esclusivamente in funzione della definizione della figura di Narciso.

È stato merito di un approccio femminista l’enfasi sulla mancanza di un’analisi specifica della figura di Eco, ma la prospettiva da cui condurre l’analisi deve delinearsi senza dubbio sullo sfondo di un orizzonte più ampio. In ogni caso, se di Narciso si è fatto un paradigma di comportamento o di una certa attitudine psicologica, la dramma-ticità dilaniante di Eco è stata sostanzialmente trascurata.

Come abbiamo visto all’inizio, non solo Eco

rimanda all’inutilità e alla solitudine della nostra voce, che ritorna a noi senza risposta, ma dopo la strada faticosa percorsa per coglierne l’origine giungiamo, ci ricorda il racconto citato in apertu-ra, alla nostra casa, al cuore del nostro essere, dove «dietro le imposte aperte», e quindi al di là di un confine reale e impalpabile, come il velo d’acqua su cui pendeva il desiderio di Narciso, scorgiamo «il volto immaginario del bambino che grida e che non crescerà». È il volto di Narciso, quindi, il tragitto a cui Eco ci conduce, ma quel grido disperato, che segna l’impossibilità di crescere, che stigmatizza la dura prigione di un confine invali-cabile, è pronunciato da un volto che ha le nostre sembianze. Eco, quindi, racconta di una doppia sconfitta, scandita dal perdersi della nostra parola rifiutata e insieme dal rischio della sua immobile contemplazione, che nega spazio a parole fuori di noi, come accadde a Narciso.

Per questo Eco non poteva essere che donna, perché solo il femminile conosce, impressa a fuo-co, la sorte crudele dell’esclusione e, bruciando, getta luce sulla morte simbolica di chi, chiudendo ad ogni altro da sé, si consuma.

Solo un poeta, non certo il mesto tentativo di razionalizzazione di un archeologo, poteva rispon-dere alla figura dilaniante plasmata da Ovidio; ecco allora il grido di Pedro Salinas alla donna amata, «Cristal. ¡Espejo, nunca!»48: che era stato anche il sogno impossibile di Eco.

Abbreviazioni supplementari:

Barchiesi 2007 = in A. Barchiesi - G. Rosati (edd.), Ovidio, Metamorfosi, volume II, libri III-IV, Milano.

Bazant-Simon 1986 = J. Bazant - E. Simon, s.v. ‘Echo’, LIMC III, pp. 680-683.

Bettini 1992 = M. Bettini, Il ritratto dell’amante, Torino 1992.

Bonadeo 2002 = A. Bonadeo 2002, ‘Il pianto di Eco. Riflessioni sulla presenza dell’eco in alcune trasposizioni letterarie del planctus’, in QUCC 71, 2, 2002, pp.133-145.

47 Ov., Met. III, p. 401, «sonus est qui vivit in illa».48 Trovo la poesia in M. Rosso (ed.), ‘I poeti del Ventisette’,

Venezia 2008, p. 74.

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216 Gian Luca Grassigli

Bonadeo 2003 = A. Bonadeo, Mito e natura allo specchio. L’eco nel pensiero greco e latino, Pisa 2003.

Colpo 2006 = I. Colpo, ‘…Quod non alter et alter eras. Dinamiche figurative nel reper-torio di Narciso in area vesuviana’, in Antenor 5, 2006, pp. 57-91.

Colpo-Grassigli-Minotti 2007

= I. Colpo - G.L. Grassigli - F. Minotti, ‘Le ragioni di una scelta. Discutendo attorno alle immagini di Narciso a Pompei’, in Eidola, 4, 2007, pp. 73-118.

Forest 2005 = Ph. Forest, Tutti i bambini tranne uno, Padova 2005 (trad. it. di L’enfant éternel, Paris 1997).

Frontisi-Ducroux 1998 = F. Frontisi-Ducroux - J.-P. Vernant, Ulisse e lo specchio. Il femminile e la rappresentazione di sé nella Grecia antica, Roma 1998 (trad. it. di Dans l’oeil du miroir, Paris 1997).

Hutchinson 2006 = G.O. Hutchinson, ‘The Metamor-phosis of Metamorphosis: P. Oxy. 4711 and Ovid’, in ZPE 155, 2006, pp. 71-84.

Kay 2001 = N.M. Kay, Ausonius. Epigrams, London 2001.

Levi 1947 = D. Levi, Antioch Mosaic Pavements, London 1947.

Pellizer 1982 = E. Pellizer, Favole d’identità. Favole di Paura. Storie di caccia e altri rac-conti della Grecia antica, Roma s.d. (ma 1982).

Pellizer 2003 = E. Pellizer, in M. Bettini - E. Pellizer, Il mito di Narciso. Immagini e racconti dalla Grecia a oggi, Torino 2003.

Rafn 1992 = B. Rafn, s.v. ‘Narkissos’, in LIMC, VI, pp. 703-711.

Spivack 1993 = G.C. Spivack, ‘Echo’, in New Literary History, 24, 1993, pp. 17-43.

Raval 2003 = S. Raval, ‘Stealing the Language: Echo in Metamorphoses 3’, in P. Thibodeau - H. Haskell (ed.), Be-ing there together. Essays in honor of Michael C.J. Putnam, Afton (Minn.) 2003, pp. 209 ss.

Scivoletto 1985 = N. Scivoletto, s.v. ‘Eco’, in EV, II, Roma1985, pp. 165-166.

Vidal-Naquet 1968 = P. Vidal-Naquet, ‘Le chasseur noir et l’origine de l’éphébie athénienne’, in Annales E.S.C., 23, 1968, 947-964.

Vidal-Naquet 1981 = P. Vidal-Naquet, Le chasseur noir. Formes de pensée et formes de la societé dans le mond grec, Paris 1981.

Zeitlin 1996 = F. Zeitlin, Playing the Other. Gender and Society in Classical Greek Litera-ture, Chicago1996.

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RASSEGNE E RECENSIONI

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219Rassegne e recensioni

The Frustrations of Hemelrijk* Short note on J.M. Hemelrijk’s review of: Raf-faella Bonaudo La culla di Hermes. Iconografia e immaginario delle hydriai ceretane, Rome 2004 in BABesch (82, 1, 2007, pp. 277-80).

J.M. Hemelrijk has written an extremely negative review of Bonaudo’s book.

As this criticism comes from the author of the most systematic work on the hydriai of Caere1 this would be of great concern, if it were not for the fact that the review is undermined by regrettable prejudices and serious methodological errors, and proves to be a very unfortunate mistake.

Let us examine his methodology: the rules of the game allow a piece of work to be criticised when one does not agree with the formulation of the argument or the results, in order to offer a dialectic contribution and not just taking the opportunity to rant. Reasons need to be given for the disagreement and the arguments that lead to different results must be stated clearly, so that readers can also form their own opinions.

There is no trace of this basic principle in the review: it is a priori censorship and the only criteria for validating H.’s statements are the scholar’s own convictions (expressions aimed at reassuring us – such as «we may expect», «to my mind», «I am afraid», «I think» – are scattered throughout the text).

As a result there is nothing to be done except to return to the origins of H.’s thought, which are for-tunately clarified at the end of the review: «In short, in the course of the last fifty years, an ominous feeling has taken possession of me whispering: ‘to understand Greek vase paintings one should not be too learned’». This praise of ignorance is only seemingly coarse; it instead betrays the sceptical prejudice of a man of the world (me whispering) who is convinced of his own cultural superiority and who is not open to any kind of debate. In this specific case, I am not talking about dialogue with Italian scholars – who are simply a waste of time2 – but H. is not even

open to engage with the people of the past and, in particular, with the iconographic sources, which can be enjoyed only through the ‘rational’ parameters of on’s own education.

This then is the original sin of Bonaudo’s book: having attempted to apply «the sharpest (or most ag-gressive) – H. suggests, hidden in brackets – methods of iconography».

But this becomes a deadly sin when the attempt is applied to the Etruscans who will remain forever barbarians and so are simply not to be compared to the Greeks: «So does Bonaudo: since the Etruscans of Caere were, she says, almost wholly Greek, the Caeretan hydriae may, she believes, be regarded as an Etruscan class of pottery. This is very misleading…, for the hydriae…are genuinely ‘East Greek’».

This quote clearly reflects H’s method: based on crudely discrediting the opinion of others, he at-tributes to his ‘opponents’ statements they never made. For example, this is the case of H.’s bizarre conclusion, which he attributes to Bonaudo, that «the Etruscans of Caere were almost wholly Greek».

However, a more significant methodological error is the unquestioning faith H. places in ‘common sens’ as an exegetic device which, as always, creates more problems than it can resolve. What does it mean for H. the fact that the Caere hydriai are «genuinely East Greek»? Probably he means – but as usual reviews are vague – that the rich iconographic repertoire depend-ed exclusively on the ethnic origins of the craftsmen and bore no relation to the Etruscan clients?

So how can we explain what scholars have long since pointed to with regard to East-Greek Painters in Etruria: that only on their arrival in the West do they start narrating “by images”, creating a complex universe of mythological themes, a universe that is not documented in the production of their home country3?

Once again it is impossible to find an illuminating solution in this review, but instead it can be found in Caeretan Hydriae, where the hypothesis is put forward that the vases were produced for use by the Greek merchants at Pyrgi4.

* Text translated by Christian Biggi.1 Hemelrijk 1984.2 One must be resigned to the fact that H. does not like Italians

(above all if Italian intellectuals), and he expresses his views in the following way in ‘Four New Campana Dinoi, a New Painter, Old Questions’, in BABesch 82, 2, 2007, p. 389 note 127: «I may perhaps say that, personally, I do at not all appreciate the Italian habit of writing in Italian, compelling me to spend much time in trying to understand florid intellectual Italian prose».

3 M. Martelli, ‘Un askos del Museo di Tarquinia e il problema delle presenze nord-ioniche in Etruria’, in Prospettiva 27, 1981,

pp. 10-11: «Tutti questi pittori che operano in Etruria rappresentano, nell’ambito stesso della ceramografia nord-ionica, una componente particolarmente dotata e colta... A differenza dei loro connazionali (…) i ceramografi installatisi in Etruria soddisfano, dunque, una committenza aristocratica già avvezza alla cultura figurativa vei-colata dalle anfore tirreniche».

4 Hemerlijk 1984, pp. 160, 193. For an opposing opinion, see J.R. Jannot, ‘Les hydries de Caeré ou le problème d’une culture mixte: à propos d’un livre récent’, in RA 1986, 2, pp. 371-376: there would have been time to change idea.

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220 Rassegne e recensioni

Obviously this way everything comes together with a disarming simplicity and perhaps, con-tinuing along these lines, we could suppose (as hypothesising costs nothing) that the provenance of vases from the chamber tombs of the Caere necropoleis, and not from Pyrgi, is a result of suc-cessive exchange mechanisms or could even be attributed to the Greek origins of the dead (thus returning to the Etruscans of Caere…almost wholly Greek): Bonaudo was indeed wrong to neglect such a weighty hypothesis in her book.

H.’s approach does not provide a solution: the iconography of the hydriai does not depend on the rules of a meaningful programme, or, if such a programme existed, it would in any case irremedi-ably exclude the Etruscans who are branded by their ethnic inferiority. The hypothesis of an «Etruscan influence» on the production of Greek craftsmen living in Etruria is, according to H., inadmissible for reasons of cultural inferiority.

To follow this line of reasoning would mean that there is no longer any reason to look for a significant relationship between the iconographic themes within the corpus or between images on the same vase; there would be no reason to think about the specificity of the figures or the choice of gesture. In a system where each element is deprived of meaning or the possibility of exploring ancient thinking – with its specific categories of thought and values – through images so as to understand (what?), it is sufficient simply not to study («one should not be too learned»).

So let us look at the results that such a refined critical approach leads to.

H.’s prevalent exegetic device can be defined as ‘satisfied banalization’: the episodes represented on the hydriai express a joyful universe shared by us-ers and artisans full of «layful wit». This is the case with the Busiris scene (Bonaudo’s explanation is «far-fetched and humourless»)5, and with the rearing horses represented on the reverse of the hydriai, that the painters «depicted with pleasure» and which «they [the painters] could be certain – would please their customers, Etruscan or Greek».

In this use of images rooted in a climate of joyful-ness, it is useless to expect that H. would explain the (not at all obvious) cultural logic, subject to shared aesthetic codes (naturally East Greek) between Greeks and Barbarians. Evidently there is a natural

tendency common to all people of taste: besides Herakles «is a model of courage and heroism for all ancient human kind» and it is always a pleasure to see him on a vase.

In the face of such certainties H.’s errors and misinterpretations become less important, but it is only fair to mention at least some of them.

For example, the hurried judgement with which the Scholar deals with the sacrifice scene with oxen depicted on the Copenhagen National Museum 13567 hydria (Bonaudo, cat. 15), is exemplary, which he defines as «an ordinary scene such as there are many».

What a shame that in 1979 J.-L. Durand, in La Cuisine du sacrifie en pays grec (one can ignore the Italian, but surely not the French…) underlined the extraordinary character of this vessel «Ce vase invite à se demander quel rapport de sens entretiennent des images sur même support: on peut voir ici combinées scènes de chasse sur une face, de sacrifice sur l’autre».

In particular Durand emphasised how the scene of sacrifice contained a very unusual display of the instruments connected with the slaughter of the vic-tim – the axe, the skyphos that served as a sphageion and in particular, the machaira – «Il ne peut en tout cas s’agir de porter en procession l’instrument de l’égor-gement qui doit rester invisible, mais plutôt de mettre en place le instruments de la mort sanglant…C’est le moment où la violence est exactement sur le point de répondre à la douceur dans le rapport homme/bête»6.

All mere trifles according to H., since what counts is to be able to scorn the possibility of there being any significance of the animal sacrifice theme in the hydriai repertoire, with the theme’s values that were culturally and politically fundamental for the archaic Caere aristocracy.

On the issue of the rearing horses depicted on the back of the hydriai, H. delivers a pitiful performance by criticising Bonaudo’s hypothesis of creating a relationship between the group of animals and the rape of Europe, which are associ-ated (who knows why the craftsman did so) on the Villa Giulia 50643 hydria (Bonaudo, cat. 13). The Scholar writes with incomparable refinement that: «clearly she [Bonaudo] does not realize that the horses are big stallions!» and so cannot be linked to the theme of the kore’s erotic apprenticeship (as far as can be supposed, since once again H. limits himself

5 With regard to the Busiris episode see J.L. Durand, ‘Héros cru ou hôte cuit: histoire quasi cannibale d’Héraklès chez Busiris’, in F. Lissarrague - F. Thelamon (eds), Image et céramique grecque (Actes Colloque Rouen, nov. 1982), Rouen 1983, p. 167:

«Positivement il [Héraklès] fait exploser avant son instauration le sacrifice aux chairs humaines; négativement il révèle ce que tout sacrifice comporte en soi: tuer pour manger».

6 Durand 1979a, pp. 177-78.

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to an exclamation mark). But this is not the issue in question, since Bonaudo (p. 39 ff.) discusses the group of rearing horses in the wider context of equestrian iconography in the hydriai corpus. She does not look at the nature of the stallions that so attracts H.’s attention, but their opposition to the animals being ridden and/or being yoked to the cart due to the absence of the bit.

This hypothesis is completely correct on an icono-graphic level, although we can disagree about the consequences, but it is necessary to respond to it if we want to express a worthwhile opinion: unlike H., who for reasons of negligence does not use the method of demonstration.

The myth of banalization is an irresistible attrac-tion for H. The satyrs grape-picking in the presence of Dionysus on the Villa Giulia hydria (Bonaudo, cat. 9) «is nothing more than a festive chorus of satyrs…a very common theme indeed». It is obvi-ously only chance that the theme of the vine recurs contemporaneously in Caere on the exceptional vase known as the Ricci Hydria, in a sequence that places the god, the plant and the sacrifice together, which has no parallel even in the Greek sphere7.

And what can we say about the brilliant manner in which H. quickly dismisses the association be-tween the god of wine and the panther: why upset the notion of metis (who was Detienne after all?) when the feline is «Dionysus’ special pet, as indispen-sable to him as his beard! [it is useless to repeat that the exclamation mark is H.’s]»?

The pointed remark about Dionysus’ beard speaks volumes about the seriousness of the whole, but the climax comes when analysing the scene of the blind-ing of Polyphemus depicted on a Villa Giulia hydria (Bonaudo, cat. 20). Woe betide should we associate it to «the risk of drinking wine» since the cyclops «is drinking, ‘though’ he is being blinded»: evidently, ac-cording to H, the pleasure of seeing images removed any ability the vessels’ owners had to think.

Only in one case does H. venture into an exegetic attempt: when, in the famous scene of the theft of the oxen depicted on the Louvre E702 hydria (Bonaudo, cat. 3), he proposes the identification of the veiled figure next to the small Hermes as Apollo and not Maia.

According to H. this character «undoubtedly

represents Apollo» and Bonaudo is mistaken «not to have noticed that her interpretation differs from the accepted one».

Apart from the fact that when Bonaudo privileges the identification of Maia she accepts a hypothesis put forward by N. Ploutine in his first edition of the vase8, on what basis does H. identify the veiled figure as Apollo? On the fact that «he is mourning for the loss of the cattle and therefore has pulled the cloak over his head, as if mourning the death of his dear ones».

As can be seen it is a heterodox hypothesis, to say the least, with Apollo lamenting the disappearance of the oxen as if they were his own relatives. It is difficult to make this compatible with the tone of the mythical episode as it is celebrated, for example, in the Hymn to Hermes. Here there is no tragedy but instead the celebration of Maia’s young son’s metis, the related introduction of livestock rearing and a meat diet, Apollo’s indulgent wrath pacified by the gift of the tortoise shell lyre: exactly the humorous atmosphere – mentioned earlier by H. and, now, rapidly forgotten – that can be found in the scene depicted on the Caere hydria, if we accept the interpretation proposed by Bonaudo.

In putting forward his hypothesis H. should, for methodological reasons, have supported it with iconographic evidence, citing examples in which Apollo goes into mourning over the theft of the herd. He should have applied the philological method (which is also hard work: one should be learned) adopted by Bonaudo (pp. 60-61) when she proposes the identification of the trolley on which Hermes’ cradle is placed as the trapeza of sacrifice: whether her hypothesis is correct or not, it is sub-stantiated by the iconographic detail, never before considered, of the crossbar that joins the furniture legs, never seen before in the case of beds.

It is not surprising that such a detail is not dis-cussed by H. for whom the object is undeniably a pram: «a baby-mattress put on the top of the trolley, serving as a baby-bed». We could continue, but it is not worth it: H. has committed a ‘frustration foul’ as football slang puts it, because of what G. Colonna, with his usual incisiveness, has written in the preface to Bonaudo’s book (p. 8) in relation to Caeretan Hydriae: this study is not «un tentati-vo, del tutto superfluo di aggiornare un buon libro

7 With regards to the Hydria Ricci see Durand 1979b; A.-F. Laurens, ‘Pour une “systhématique” iconografique: lecture du vase Ricci de la Villa Giulia’, in Iconographie classique et iden-tités régionales (=BCH 14, 1986), pp. 45-56; L. Cerchiai, ‘Il programma figurativo dell’Hydria Ricci’, in AK 38, 1995, 2,

pp. 81-91: obviously according to H., cited in footnote 2, this work which is fruit of an «imaginative hyper-interpretation», and as it is in Italian it can be «wholly ignored».

8 CVA Louvre 9 (France 14), III F a, p. 9, tavv. 8, 3-4; 10, 1-7.

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apparso solo vent’anni fa. È invece un tentativo di andare oltre quel libro e di affrontare quel che in esso manca, ossia una lettura approfondita e integrale del ricco immaginario presente sulle idrie».

It might be difficult to admit, but that is the way it is.

Luca Cerchiai

Additional abbreviations:

Durand 1979a = J.-L. Durand, ‘Du rituel comme instrumental’, in M. Detienne and J.-P. Vernant (eds), La cuisine de sacrifice en pays grec, Paris 1979, pp. 167-81.

Durand 1979b = J.-L. Durand, ‘Bêtes grecques. Propositions pour une topologique des corps à manger’, in M. Detienne et J.-P. Vernant (eds), La cuisine de sacrifice en pays grec, Paris 1979, pp. 133-65.

Hemerlijk 1984 = J.M. Hemelrijk, Caeretan Hydriae, Mainz am Rhein 1984.

mancano: nel primo caso, questi si apprezzano soprattutto nelle parti di sapore più “antiquario” (condizione femminile; il mondo della politica, etc.) e nelle sintesi dedicate ad aspetti particolari della archeologia pompeiana (forme dell’abitare a Pompei e Ercolano; aspetti dell’artigianato artisti-co delle città vesuviane, etc.); anche nel secondo, i meriti sono soprattutto concentrati nelle schede dedicate alla storia degli studi delle città vesuviane, nella parti dedicate alla vita nella città e nell’eccel-lente apparato iconografico.

Ciò che delude profondamente è invece la parte “pensata” di entrambi i libri, quella cioè che do-vrebbe fare il punto con quanto realmente oggi si conosce delle città vesuviane, sia attraverso la stesura di articoli appositamente dedicati all’argomento (Dobbins-Foss), sia con il supporto di una serie di esemplificazioni anche di carattere ricostruttivo ricorrendo, secondo una “moda” sempre più diffusa, ad accattivanti – ma talvolta imprecisi – acquerelli (Berry). In entrambi i casi, infatti, dopo aver riper-corso le principali tappe della ricerca sullo sviluppo urbano e monumentale della città, i risultati sinte-tizzati o divulgati sono fermi al 2003. Si dirà: motivi editoriali hanno impedito di aggiungere ulteriori dati, anche se alcuni autori hanno sentito la neces-sità di inserire qualche riferimento bibliografico più recente di quella data (tra questi: C. Chiaramonte, R. Tybout, J.-A. Dickmann, A. Wallace-Hadrill); ma le esigenze editoriali non possono rappresentare una giustificazione, specie se i risultati delle più recenti ricerche sono già stati pubblicati. Chi scrive, insieme a Maria Paola Guidobaldi, ha redatto nel 2006 una semplice guida agli scavi di Pompei ed Ercolano nella quale è stato inserito e discusso tutto ciò che era stato acquisito fino a quel momento grazie all’esecuzione di scavi stratigrafici, in modo tale che, anche a costo di qualche imprecisione, il lettore fosse messo al corrente di un percorso di ricerca e di un dibattito scientifico divenuti molto intensi negli ultimi anni. Nel caso del libro curato da Dobbins-Foss, inoltre, il desiderio di riunire in maniera quasi compulsiva quante più voci possibili ha ingenerato inconvenienti anche buffi, come quello di proporre per la stessa abitazione pompe-iana (la Casa del Chirurgo) ben quattro differenti cronologie: una molto alta (J.-P. Adam, «one of th earliest houses in the town», p. 99, didascalia alla fig. 8,1); una medio-alta (K. Peterse, «fourth century BC», p. 383); una medio-bassa (C. Chiaramonte, «third century BC», p. 146) e, infine, una molto bassa (R. Jones, «no earlier than 200 BC», p. 392);

L’ombelico dell’archeologo. Breve nota su J. Dobbin - P. Foss, The World of Pompeii, London-New York 2007, J. Berry, The complete Pompeii, London 2007 e M. Beard, Pompeii. The Life of a Roman Town, London 2008.

Questa non vuole essere una recensione a due libri su Pompei di diverso tenore, ma accomunati dagli stessi pregi e, soprattutto dagli stessi difetti, usciti quasi contemporaneamente nel corso del 2007; vuole essere solo una segnalazione ai lettori, sperando che gli inconvenienti notati nella lettura di entrambi i testi siano scongiurati per il futuro.

Il primo libro consiste in una serie di articoli redatti da qualificati studiosi e vorrebbe porsi come una sorta di enciclopedia pompeiana del III millennio; il secondo, scritto da un solo autore, è un testo di alta divulgazione che intende offrire una panoramica su tutti i principali aspetti della storia, dell’archeologia e della vita di Pompei e degli altri centri vesuviani. Come si accennava, i pregi non

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naturalmente, in questo caso, la responsabilità non è dei singoli autori, che espongono le loro convin-zioni sulla base di un’esperienza di studio maturata con tempi e modi diversi, ma dei curatori, incapaci di saper organizzare il testo, facendo dialogare fra loro gli estensori dei singoli contributi nel caso di così evidenti discordanze. Ma come si diceva, grave è stato soprattutto il fatto di aver considerato come definitivi i dati conosciuti direttamente dagli autori all’epoca dei loro lavori pompeiani, tralasciando tutto ciò che è stato fatto successivamente; talvolta, tale manchevolezza raggiunge quasi punte di in-volontario ridicolo, come nel caso (Dobbins-Foss) della pubblicazione di tutte le piante di Pompei (beninteso, in un apposito, modernissimo CD!) in cui compare ancora la Porta di Capua, che ormai da anni sappiamo non essere mai esistita grazie ai risultati conseguiti dai colleghi giapponesi (acqui-sizione tra l’altro non sfuggita a C. Chiaramonte Trerè, che ad essi fa riferimento nel suo contributo (p. 143), evidentemente non letto con attenzione dai curatori). Imperdonabile sul piano scientifico è invece constatare che John Dobbins ha scritto un lungo articolo sull’organizzazione monumentale del Foro di Pompei prescindendo completamente da ogni riferimento all’articolo di Filippo Coarelli sullo stesso argomento pubblicato ormai da quattro anni e accennando solo in una nota alla importan-tissima (ri)scoperta della dedica di Lucio Mummio all’interno del Santuario di Apollo (p. 181, nota 84), che è sottovalutazione tanto più grave perché compiuta da chi, nonostante gli anni dedicati allo studio dell’area sacra, a quella dedica non aveva mai fatto cenno e non aveva mai avvertito la necessità di cercarla fra i basamenti visibili all’interno del peribolo. Così come è altrettanto imperdonabile che sia il libro di Dobbins-Foss che quello di Berry considerino le uniche acquisizioni per la ricostru-zione della più antica fase di Pompei le proprie e quelle delle unità di ricerca che hanno operato nel sito durante la loro attività, in un periodo grosso modo coincidente con gli anni 1995-2001. Tutta-via, dopo quella data altre equipes hanno lavorato a Pompei, anche in aree di un certo interesse sia per la topografia storica della città che per i suoi monumenti (Tempio di Venere, area dell’Altstadt, Regiones V, VI, VII e IX, necropoli di Porta Noce-ra), proponendo tutta una serie di acquisizioni che meritavano almeno di essere riassunte e discusse; e questa mancanza è ancora più grave dal momento che queste unità di ricerca hanno pubblicato i loro risultati: non basta, come fa J. Berry, citare il volu-

me Nuove Ricerche ad Ercolano e Pompei, uscito nel 2005 (a proposito, sono stati da poco pubblicati gli atti del secondo Convegno Internazionale, lo segna-lo a chi volesse scrivere un instant book su Pompei), se poi dei contenuti in esso presenti non si tiene il minimo conto. Con buona pace degli autori di entrambi i libri, la ricerca nelle città vesuviane non si è fermata dopo il termine delle loro indagini; se ne avessero tenuto conto, avrebbero evitato di dare come acquisite alcune conclusioni, che, basate su letture rivelatesi assolutamente parziali e in gran parte distorte, hanno mostrato presto una certa inconsistenza.

Desidero terminare queste poche considerazioni sui libri di J.J. Dobbins e di J. Berry con una piccola preghiera rivolta ai colleghi che giungono sempre più numerosi a Pompei per contribuire alla cono-scenza di questo straordinario sito archeologico: continuate a leggere ciò che viene pubblicato anche dopo il termine dei vostri lavori e discutetene anche serratamente i risultati, perché questo è di beneficio a ogni tipo di scienza, anche alla nostra che è per sua natura imperfetta; diversamente si corre il rischio di contemplare solo il proprio ombelico.

Infine, una nota sul recentissimo libro di M. Beard, che potrebbe essere anche tradotto a breve in italiano e dunque attirare l’attenzione di un pubblico sempre assetato di saggistica non propria-mente specialistica. Abituati ad alcune intelligenti “provocazioni intellettuali” dell’Autrice, si pensava a qualcosa di diverso da un insieme un po’ disorga-nico di considerazioni molto soggettive sulla città vesuviana. D’altra parte non poteva essere altrimen-ti, scorrendo le poche pagine di una bibliografia che sembra rispondere al tipico criterio selettivo dell’acquisto compulsivo al supermercato, con cita-zioni di testi quasi tutti in inglese e poco assimilati da una lettura frettolosa. Dunque, un libro di non si sentiva la necessità, fatto solo per aumentare il numero dei presunti saggi di alta divulgazione su Pompei pubblicati negli ultimi anni da studiosi che evidentemente vantano come una medaglia una incursione tra gli studi pompeianistici.

Fabrizio Pesando

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quarto paragrafo, invece, tratta problemi connessi alla stratigrafia ed alla datazione della tomba 168, il contesto della “coppa di Nestore”2. Il quinto paragrafo esamina la cultura materiale e la com-posizione dei corredi. Il quarto capitolo, dedicato alle controverse questioni riguardanti la cronologia assoluta, costituisce la reale conclusione del volume. Seguono due utili appendici costituite da tabelle riepilogative dei contesti considerati e delle loro articolazioni cronologiche, rituali e sociali. Chiu-dono il volume le tavole fuori testo (tavv. 1-11) che illustrano la rassegna tipologica e tre pieghevoli de-dicati al matrix dei gruppi sepolcrali ed alla tabella di seriazione (tavv. 12-14).

Il campione sottoposto ad analisi comprende tutte le tombe edite in Pithekoussai I relative al periodo compreso tra TGI e MC: particolare attenzione è dedicata alle fasi più antiche della necropoli (TGI-MPC). Il numero complessivo dei contesti stratigrafici sui quali l’A. ha operato è di 618 unità, includendo nel campione anche la tomba 944 edita in altra sede3.

La presente nota si propone di discutere prin-cipalmente gli aspetti metodologici del lavoro soffermandosi su alcuni nodi problematici che, in tale prospettiva, saranno trattati separatamente.

Stratigrafia e matrix della necropoliDal punto di vista metodologico, il principale

punto di forza del lavoro è la valorizzazione della stratigrafia orizzontale e verticale della necropoli: si tratta di un aspetto troppo spesso trascurato o sottovalutato dalle edizioni di scavo e dai manuali di tecnica archeologica4.

Sotto questo aspetto, il sepolcreto di S. Montano rappresenta un caso emblematico, come hanno avuto modo di sottolineare in più occasioni gli editori ed altri studiosi. Esso testimonia in modo esemplare, infatti, come l’esame stratigrafico delle necropoli costituisca un campo di indagine che offre potenzialità di grande portata per l’analisi e l’inter-pretazione, non soltanto per quanto concerne le questioni connesse alla cronologia relativa e assoluta ma, sopratutto, per la comprensione delle ideologie della comunità di riferimento e per la ricerca delle

4 Per la valorizzazione della stratigrafia delle necropoli, cfr., per esempio, A.M. Bietti Sestieri, Protostoria. Teoria e pratica, Roma 1996, pp. 74-75 con bibliografia precedente; M. Cuozzo - A. d’Andrea, ‘Proposta di periodizzazione del repertorio locale di Pontecagnano tra la fine del VII e la metà del V sec. a.C., alla luce della stratigrafia delle necropoli’, in AIONArchStAnt, XIII, 1991, pp. 47-114; C. Tronchetti, Metodo e strategie dello scavo archeologico, Roma 2004.

V. Nizzo, Ritorno ad Ischia Dalla stratigrafia della necropoli di Pithekoussai alla tipologia dei mate-riali, Napoli 2007 (Collection du Centre Jean Bérard), pp. 230, 39 figure nel testo, 14 tavole fuori testo inclusi tre dépliants pieghevoli.

Il volume propone una rilettura della monumen-tale edizione della necropoli di S. Montano ad opera di G. Buchner e D. Ridgway (1993), con la finalità di ricostruire, attraverso una sistematica analisi stratigrafica e tipologica, la sequenza delle sepolture e di affrontare alcune delle controverse questioni connesse con la cronologia relativa ed assoluta delle fasi più antiche dell’insediamento greco.

Si tratta di una impresa indubbiamente ardua, che ha il merito di ricondurre l’attenzione su alcu-ne delle problematiche più complesse poste dalla necropoli di Pithecusae e, soprattutto, di trattare, a partire da un’opera che costituisce uno dei capisaldi per l’archeologia del Mediterraneo e per la storia della colonizzazione greca in occidente, la que-stione della cronologia della fase avanzata dell’Età del Ferro, argomento spinoso che, come è noto, è stato al centro del dibattito archeologico degli ultimi anni. Da tale punto di vista, il testo si pone in diretta continuità con il contributo presentato dall’A. con G. Bartoloni nell’ambito del recente convegno Oriente e Occidente 20051.

Il volume è articolato in quattro capitoli e corre-dato da due appendici.

Il primo capitolo, dedicato alla stratigrafia della necropoli, illustra e discute le modalità di struttu-razione del sepolcreto presentando, in conclusione, il diagramma stratigrafico dei gruppi funerari (tavv. 12-13 fuori testo); il secondo, riservato alla meto-dologia della classificazione tipologica, costituisce la necessaria premessa teorica al quinto capitolo contenente la tipologia dei materiali ed alla tabella di seriazione presentata nella tav. 14 fuori testo. Il terzo capitolo, che affronta l’analisi della sequenza della necropoli, è suddiviso in cinque paragrafi corredati da 38 figure incluse nel testo: i primi tre paragrafi sono destinati rispettivamente alla com-posizione demografica (par. 1-2), all’analisi dei riti funebri e della struttura delle tombe (par. 3); il

1 Pithekoussai I; Bartoloni-Nizzo 2005, pp. 409-436; per una visione di sintesi sulle opposte teorie cronologiche che si sono affrontate nell’ambito del convegno, cfr. B. d’Agostino, ‘Conclusioni’, in Oriente e Occidente, 2005, pp. 661-663.

2 Pithekoussai I, pp. 212-223 ed Appendice I; Ridgway 1984, pp. 71-74.

3 G. Buchner - D. Ridgway, ‘Pithekoussai 944’, in AIONArch-StAnt, 5, 1984, pp. 1-9.

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modalità di rappresentazione demografica e sociale. A partire da queste premesse, dati di notevole

interesse emergono dalla redazione del matrix della sequenza dei gruppi funerari identificati sul terreno – il primo per la necropoli di Pithecusae, ad eccezione di un tentativo parziale da parte di Neeft5 – e della tabella di seriazione dei contesti che, con il supporto delle tavole di riepilogo presentate in appendice, hanno il pregio di sintetizzare, in una griglia cro-nologica strutturata, le informazioni rilevanti ai fini della comprensione dell’andamento della necropoli.

Come è noto una delle caratteristiche principali dell’organizzazione cimiteriale di S. Montano è la rigorosa regolamentazione cui dimostra di obbedire la distribuzione delle sepolture che appare program-mata e definita fin dal momento dell’impianto del sepolcreto6. Lo spazio funerario si presenta segmen-tato in appezzamenti, in base alla concentrazione sincronica e diacronica delle sepolture sovrapposte e “agglutinate” – secondo l’espressione di G. Buchner – in sequenze stratigrafiche complesse. L’individua-zione di queste aree di sepoltura elitarie dotate di una peculiare organizzazione planimetrica, che sottolinea il legame esistente tra le sepolture in esse contenute ed appare anteporre l’aspetto della concentrazione areale all’interno dello stesso lotto all’integrità delle singole deposizioni, ha indotto ad avanzare l’ipotesi che tale frazionamento del tessuto sepolcrale sia da attribuire ad una celebrazione del vincolo di parentela ed a riconoscere nei nuclei funerari dei veri e propri family plots, secondo la definizione degli editori7. I lotti, che spesso uniscono in sequenza tombe divise da brevi scarti cronologici, sono caratterizzati da una pianificazione che, in diversi casi, persiste nel lungo periodo ed hanno permesso di stabilire precise cor-relazioni tra un ampio nucleo di sepolture comprese soprattutto nell’arco cronologico TGI-TGII/MPC. Il diagramma stratigrafico proposto dall’A. acquista particolare rilievo poiché l’individuazione del mecca-nismo dei family plots da parte di Buchner non è mai stata seguita da una sistematica ricostruzione delle sequenze dei singoli gruppi sepolcrali: la stratigrafia dei lotti, pertanto, può essere oggi dedotta soltanto dalle indicazioni dei rapporti fisici tra le tombe menzionati da Buchner e Ridgway nell’edizione della necropoli. Da tale circostanza deriva anche un margine di arbitrarietà nell’interpretazione del dato archeologico, come sembrano dimostrare alcune

differenze nelle ricostruzioni delle sequenze degli appezzamenti proposte da autori diversi8.

Tramite la ricomposizione dei dati stratigrafici menzionati in Pithekoussai I, l’A. ha potuto ri-conoscere 52 “gruppi”, metà dei quali localizzati nel settore A del sepolcreto, gli altri in quello B, composti da un minimo di due fino ad un massi-mo 82 contesti, per un totale di 532 tombe legate da relazioni “fisiche” (p. 15). Tra tutti si distingue il gruppo A01, il lotto del quale fa parte la tomba 168 che, per l’entità delle sovrapposizioni dirette rappresenta un nodo essenziale per la ricostruzione della sequenza della necropoli tra TGI e TGII (9 tumuli; 11 sovrapposizioni dirette, p. 16 e nota 35).

Su queste basi l’A. ha proceduto alla redazione del matrix dei gruppi funerari strutturando le ra-mificazioni stratigrafiche all’interno di una griglia cronologica relativa strettamente connessa alla sequenza tipologica della cultura materiale locale. La sequenza è ancorata ai punti di saldatura costi-tuiti dalla ceramica d’importazione, soprattutto di fabbrica corinzia, e da alcuni contesti di carattere eccezionale, come la tomba 325, contenente il noto “scarabeo di Bocchoris”9, che hanno consentito di proporre, a conclusione del lavoro, una convincente periodizzazione della necropoli.

Più opinabile, la considerazione della quota e della posizione reciproca delle tombe sul livello del mare come ulteriore criterio di correlazione trasversale per stabilire la posizione relativa di tombe appartenenti a gruppi diversi o poste su rami diversi del medesi-mo gruppo, qualora ciò non sia stato possibile sulla sola base stratigrafica e sull’analisi delle associazioni. L’“insospettata affidabilità” di tali osservazioni, per l’A. è da porre in relazione con il progressivo innal-zamento del terreno dovuto al dilavamento delle colline circostanti10. Tuttavia, si tratta di un principio di carattere meccanicistico, la cui validità, come linea di tendenza, andrebbe valutata caso per caso.

In questa fase del lavoro, nell’intento di valoriz-zare le complesse articolazioni della sequenza, che travalicano i limiti di una ordinaria suddivisione per fasi, l’A. ha introdotto la nozione di “livello” (p. 16), basato sulla considerazione complementare dell’entità delle sovrapposizioni stratigrafiche dirette e della variabilità della cultura materiale all’interno di ciascuna fase. Il concetto di “livello”costituisce sicuramente uno strumento interessante ed utile a

5 Neeft 1987, pp. 302 ss.6 Cfr. in particolare, Buchner 1975; Ridgway 1984, pp. 63-70;

d’Agostino 1985, p. 56; Neeft 1987, pp. 302-308; Cerchiai 1999; Bartoloni-Nizzo 2005, p. 409.

7 Buchner 1975, pp. 70 ss.; Ridgway 1984, p. 68; Pithekoussai I.

8 Neeft 1987, pp. 302 ss.; Cerchiai 1999.9 Pithekoussai I, pp. 378-382 ed Appendice II; Ridgway

1984, p. 82.10 Bartoloni-Nizzo 2005, pp. 413-414.

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porre in risalto la vasta gamma di informazioni desu-mibile dalla stratigrafia delle necropoli ma può anche esporre al rischio di cadere in rigidi automatismi, se si attribuisce a tali articolazioni un immediato valore cronologico.

La complementare valutazione dei diversi fattori analizzati (stratigrafia, tipologia dei materiali, rituale, quote) ha condotto ad articolare il matrix dei gruppi funerari in 31 “livelli” numerati in ordine progressivo dal più antico al più recente, dal 10 al 40. Il livello più antico della sequenza è il n. 10: ad esso sono stati attribuiti soltanto quattro contesti, in parte composti da reperti sporadici (447; 571bis; 611; 574bis) che segnalano, per l’A., tramite l’occorrenza di materiali di tipo “indigeno” e di tipo greco, un momento di oc-cupazione “non regolare” della necropoli, d’altronde, già individuato a suo tempo da Buchner e Ridgway. Si tratta di quella fase di transizione tra MGII e TGI cui risalgono i noti frammenti ceramici provenienti dallo Scarico Gosetti11.

Tipologia e seriazionePer quanto riguarda la tipologia dei materiali, la

formalizzazione dei dati si basa sull’elaborazione di una sorta di “formula” tipologica accompagnata da una “scheda” corrispondente, con lo scopo di riassumere, oltre agli aspetti strettamente connessi alla tipologia, anche fattori legati alle fabbriche e all’area di produzione, alla cronologia relativa ed alla distribuzione in base al rito e al sesso (pp. 14-15).

Tra le novità introdotte dall’A., va segnalata la scelta di includere nella tipologia, oltre a tutti i ma-teriali provenienti dai 618 contesti tombali, anche i reperti citati dagli editori nelle schede introduttive delle tombe ma non inseriti nel catalogo e la mag-gioranza dei materiali sporadici trattati nella parte finale (p. 13)12. Una delle esigenze primarie è stata considerata la costituzione di una struttura “aperta” secondo il “modello” proposto nelle tipologie di Pontecagnano13, in modo da consentire una futura implementazione.

Tuttavia il sistema delle “formule” tipologiche, che nel corso dell’analisi ha avuto sicuramente il pregio

di sintetizzare i dati emersi dalla lettura stratigrafica e tipologica della necropoli, risulta poco trasparente e di difficile comprensione per il lettore. Allo scopo di rendere più agevole la lettura dei dati presentati, sarebbe stato sicuramente preferibile improntare le schede tipologiche ad una maggiore trasparenza, limitando la procedura formulare alle tabelle ed ai grafici, opportunamente corredati da ampie didascalie esplicative.

L’esito del lavoro di classificazione tipologica ha condotto all’elaborazione di una tabella di seriazione (tav. 14 fuori testo) costruita in stretta correlazione con la griglia stratigrafica evidenziata dal matrix della necropoli. Il diagramma stratigrafico e la seriazione sembrano confermare, in larga misura, la sequenza locale fornita da Buchner e Ridgway in accordo con il quadro cronologico proposto da Coldstream nel 1968 per la Grecia. Indicatore privilegiato e “fossile guida” per la cronologia relativa delle fasi più antiche del sepolcreto è considerata l’oinochoe di produzione locale nelle sue trasformazioni morfologiche e de-corative (p. 23). L’oinochoe rappresenta infatti una costante nei corredi delle prime fasi della necropoli, in quanto componente basilare del rituale funerario, e costituisce un punto di riferimento prezioso soprat-tutto per la sequenza del TGI e per il passaggio al TGII, poichè è uno dei pochi elementi della sequenza pithecusana più antica la cui evoluzione possa essere seguita ininterrottamente. A partire dalle osservazioni già avanzate da Buchner e Ridgway, l’A. ribadisce con il supporto della stratigrafia e della seriazione, il valore cronologico di alcuni aspetti tipologici e delle loro variazioni: oltre alla morfologia del corpo – globulare negli esemplari più antichi, tendente all’ovoide nei tipi successivi – sono valorizzate sia la conformazione dell’ansa, per la quale è ribadita la recenziorità del tipo a nastro rispetto a quello a bastoncello, sia l’assetto della decorazione del collo, dove la disposizione continua è senza dubbio po-steriore a quella riservata alla parte frontale. Meno comprensibile risulta la priorità cronologica che l’A. attribuisce all’oinochoe locale rispetto alle principali ceramiche “datanti” del TGI, cioè le kotylai “Aetos

11 Per la fase più antica della necropoli, cfr. Ridgway 1984; Pithekoussai I. Sul materiale di tipo indigeno che rimanda ad un orizzonte cronologico anteriore all’inizio del TGI, ed in particolare per la fibula della tomba 547bis, cfr. Bartoloni-Nizzo 2005, pp. 415 ss. Sui materiali greci più antichi dello Scarico Gosetti (MGII/TGI), cfr. Coldstream 1995, pp. 251-252; Ridgway 2000; Ridgway 2004a; Ridgway 2004b e nota 14. Per quanto riguarda la numerazione dei livelli del matrix, l’A. ha scelto di lasciare liberi i primi numeri per permettere un eventuale ampliamento.

12 Le convenzioni adottate per la formalizzazione dei materiali fanno riferimento ai dizionari terminologici dell’ICCD: G. Bartoloni et alii (a cura di), Materiali dell’età del Bronzo finale e della prima età del Ferro, Dizionari terminologici 1, Firenze 1980; F. Parise Badoni (a cura di), Ceramiche d’impasto dell’età orientalizzante in Italia. Dizionario terminologico, Nuova serie 1, Roma 2000.

13 In particolare, B. d’Agostino - P. Gastaldi, Pontecagnano II. La necropoli del Picentino 1. Le tombe della Prima età del Ferro, (AION ArchStAnt, Quad. 5), Napoli 1988.

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227Rassegne e recensioni

666” e gli skyphoi del tipo “Thapsos con pannello”. Questa osservazione, proposta nel contributo del 2005 e riaffermata nel volume attraverso la scansione stratigrafico-cronologica, risulta ridimensionata, in primo luogo, da considerazioni interne all’evidenza analizzata: se, infatti, i corredi contenenti le cerami-che “datanti” caratterizzano i “livelli” dal 14 al 16, tuttavia non si può non considerare l’alta incidenza delle kotylai e degli skyphoi appartenenti ai medesimi tipi attestati tra i materiali sporadici, in quantità su-periore alle ceramiche in contesto (p. 84; nota 170). Occorre ricordare, inoltre, che, rispetto all’estensione complessiva della necropoli, verificata dai successivi sondaggi, la parte edita risulta limitata ad un’area corrispondente al 5/10% ca., localizzata in una zona periferica che non comprende, verosimilmente, il versante più antico dell’occupazione funeraria, come gli editori hanno più volte dichiarato14.

Analisi demografico-sociale e metodologie statistiche

Un discorso a parte è necessario per l’analisi demografico-sociale e le metodologie statistiche.

Si tratta della parte meno condivisibile del lavoro di Nizzo dal punto di vista teorico e metodologico. Per quanto riguarda l’uso della statistica diversi problemi avrebbero potuto essere evitati attraver-so l’apporto di un adeguato lavoro di équipe, che avrebbe facilitato l’accesso a metodologie più duttili offerte dalla tecnologia odierna.

Suscita serie perplessità la terminologia impiegata: gli esiti di oltre 30 anni di dibattito nel campo della “archeologia della morte” impongono, ad esempio, l’adozione della distinzione tra sesso biologico e ge-nere per le attribuzioni culturalmente determinate, ma soprattutto sarebbe auspicabile che fosse ormai espunto dal vocabolario di una archeologia sociale che voglia confrontarsi con le discipline antropolo-giche e storiche il termine razza (“matrimoni inter-razziali”, p. 29; «Tali circostanze sembrerebbero ef-

fettivamente avvalorare l’ipotesi della pertinenza alla razza indigena …», p. 31; ecc.) al quale è impossibile attribuire una valenza “neutra” per le implicazioni storiche e culturali di cui è portatore15.

Aspetti non meno problematici presenta l’analisi statistica, illustrata dai grafici presentati nelle figure 1-38. In primo luogo si sente la mancanza di un paragrafo introduttivo diretto ad esplicitare i criteri delle scelte metodologiche e delle convenzioni adot-tate. Notevoli perplessità desta, per esempio, l’aver relegato nelle note (in particolare, nota 66) una serie di riflessioni sulle scelte operate nell’elaborazione statistica, che comportano una presentazione non uniforme dei dati ed accorpamenti dei “livelli” scaturiti dal matrix. Sarebbe stato utile, inoltre, qui come altrove, un uso più ampio ed esplicativo delle didascalie delle figure, che avrebbe consentito una più agevole e rapida lettura dei risultati delle analisi statistiche, dei diagrammi e delle tavole tipologiche.

Discutibile appare anche la scelta delle tecniche adottate per il trattamento dei dati. Come è noto, l’adozione di metodologie statistiche per l’analisi dei contesti funerari è stata oggetto di molteplici contro-versie di tipo teorico e metodologico: in particolare tra gli anni ’80 e ’90 diverse voci dell’archeologia europea hanno criticato gli approcci matematico-statistici derivati dalla “New” e “Processual Archeo-logy”, basati sul presupposto teorico dell’esistenza di un rapporto diretto tra società e costume funerario ed utilizzati, secondo una logica puramente quanti-tativa, per “misurare” oggettivamente la ricchezza dei corredi o l’energy expenditure. Tuttavia, più di recente, diversi studiosi sono giunti ad una rivalutazione dell’adozione delle metodologie statistiche multiva-riate tradizionalmente impiegate per il trattamento dei dati funerari (cluster analysis, analisi fattoriale, analisi della “variabilità funeraria”), a patto che esse siano utilizzate con le dovute cautele ed in maniera qualitativa e oppositiva, come base di analisi e non come sostituto dell’interpretazione16. L’autore sceglie

14 Bartoloni-Nizzo 2005, pp. 414-424, a proposito di Cold-stream 1968, pp. 302 ss.; Pithekoussai I; D. Ridgway, ‘Seals, sca-rabs and people in Pithekoussai I’, in AA. VV., Periplous. Papers on classical art and archaeology presented to Sir John Boardman, London 2000, pp. 235-243; Ridgway 2000; Ridgway 2004b.

15 Sulla distinzione tra sesso biologico e genere, si veda, per una prospettiva di sintesi, M. Diaz Andreu, ‘Identità di genere e archeologia’, in N. Terrenato (a cura di), Archeologia teorica, Firenze 2000, pp. 361-388; Cuozzo 2007. Nell’ambito della ampia letteratura sui problemi connessi all’identità etnica ed alla dimensione storica e antropologica delle nozioni di razza e cultura, si veda, per esempio, B. Trigger, Storia del pensiero archeologico, Firenze 1996 (trad. it.); I. Hodder-R. Preucel (eds.), Contemporary archaeology in theory, Oxford 1996; J.

Hall, Ethnic identity in Greek antiquity, Cambridge 1997; U. Fabietti, L’identità etnica, Roma 1999; J.L. Amselle, Branche-ments. Anthropologie de l’universalité des cultures, Paris 2000; M. Augé - J.P. Colleyn, L’antropologia del mondo contemporaneo, Milano 2006 (trad. it); Cuozzo 2007.

16 Per la critica all’uso interpretativo delle tecniche statistiche cfr.; d’Agostino 1985; Cuozzo 1994; per una recente rivalu-tazione della statistica come base di analisi per lo studio delle necropoli, si veda, ad esempio, F. McHugh, Theoretical and quantitative approaches to the study of funerary practices, BAR-IS, Oxford 1999; M. Parker Pearson, The archaeology of death and burial, Phoenix Mill, 1999; A. D’Andrea - F. Niccolucci (a cura di), Archeologia computazionale, Firenze 2000.

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228 Rassegne e recensioni

di non confrontarsi con questo tipo di riflessione metodologica. Nel caso della necropoli di Pithecusae sarebbe stato interessante per esempio procedere ad un esame della “variabilità funeraria”, la cui utilità nel caso della necropoli pithecusana è stata ribadita da vari autori17, mentre l’impiego di un sistema GIS avrebbe reso più agevole “interrogare” contempora-neamente l’evidenza stratigrafica, i dati demografici e sociali, la tipologia dei materiali. Al contrario, l’A. ha optato per una serie di analisi tematiche e per l’utilizzo di statistiche elementari, di tipo descrittivo, illustrate tramite istogrammi di frequenza o grafici a “torta”, con il risultato di valorizzare soltanto alcuni aspetti e non sempre in maniera significativa o cor-retta da un punto di vista statistico.

Per quanto riguarda, ad esempio, le osservazio-ni sull’andamento demografico (fig. 1) i risultati appaiono fortemente condizionati, dalla scelta di procedere secondo i livelli del matrix o attraverso il loro “accorpamento” (TGI-MPCI; TPC: coppie di livelli; MPCII: tre livelli; C, da livelli singoli a tre livelli) e, pertanto dalla disomogeneità degli inter-valli di tempo considerati. Non significative da un punto di vista statistico appaiono, inoltre, le analisi relative alle percentuali del rapporto tra classi d’età-rito/cronologia (figg. 2, 4-5) e soprattutto quelle relative alla ratio tra individui di genere maschile e femminile, sia a causa dell’alta incidenza della ca-tegoria “N. Id” (non identificato; fig. 2), sia per la costante unificazione con la categoria problematica degli “adolescenti” (figg. 6a-c).

Aspetti interessanti emergono dai risultati della verifi-ca della rappresentatività demografica della necropoli18, per quanto riguarda la ratio adulti/non adulti che con-ferma il quadro già noto con percentuali adeguate alle società agricole preindustriali: sarebbe stato utile indaga-re ulteriormente il significato dell’apparente decremento nel numero delle deposizioni in corrispondenza dei livelli cronologici 15-16, 27-28, 31-33, tutti corrispon-denti a momenti di passaggio (figg. 4-5). Al contrario poco convincenti risultano, le osservazioni a proposito dell’eventuale assenza di deposizioni femminili nei livelli più antichi della necropoli, data l’esiguità delle analisi antropologiche disponibili e la rilevante percentuale dei contesti non determinati (pp. 28-29-30).

Per quanto riguarda le osservazioni sui diversi rituali utilizzati, la struttura delle tombe, la com-posizione dei corredi, le conclusioni dell’A. non

sembrano introdurre particolari novità rispetto al quadro noto.

Più efficaci appaiono le analisi riguardanti la distri-buzione delle classi ceramiche (figg. 21 ss.), soprat-tutto quelle condotte facendo riferimento al numero “reale” degli esemplari (figg. 23, 29 ss.) poiché il dato percentuale, in presenza di un campione non sempre consistente, può risultare fuorviante. Qualche annota-zione interessante si riscontra nella distribuzione delle importazioni di provenienza corinzia, che affiancano, soprattutto a partire dal TGII, la preponderante pro-duzione locale. In particolare, l’A. ribadisce il “signi-ficato sociale dello sfoggio di questa classe nelle prime fasi di vita della necropoli” (p. 37), poiché essa risulta di esclusivo (TGI) o prevalente (TGII) appannaggio delle cremazioni ed in questo ambito, degli individui di genere maschile. Sarebbe stato interessante proseguire la ricerca, considerando anche la distribuzione areale delle importazioni corinzie, che sembra privilegiare soprattutto alcuni lotti funerari, in primo luogo il gruppo A01, come ha dimostrato una recente analisi19.

L’esame della composizione dei corredi conferma l’assenza di “servizi” distinti per genere o classe d’età ma qualche linea di tendenza, che merita una futura valutazione, sembra emergere per alcune categorie morfologiche: per esempio, la distribuzione degli ary-balloi appare privilegiare il genere maschile, sia nelle tombe a cremazione che nelle inumazioni (p. 38). Un simile comportamento “orientato” degli aryballoi, è stato notato nell’Orientalizzante di Pontecagnano20.

Un ambito che avrebbe meritato un approfondimen-to è l’incidenza di “indicatori archeologici anomali” nel quadro della complessa problematica relativa al rapporto tra componente greca ed elemento “indigeno” (note 42 e soprattutto 156). L’A. infatti ripropone una attribuzione delle tombe ad inumazione con struttura semplice ed assenza di corredo o con “corredo molto povero”, alla componente indigena (p. 31). Al contra-rio, sarebbe stato opportuno discutere nel dettaglio tutti quei casi, nei quali la possibilità di una eventuale incidenza del fattore “etnico”, sia pure connessa a fenomeni di marginalità topografica, non sembra pre-vedere la negazione della persona sociale del defunto, che conserva il diritto alla sepoltura formale spesso con l’accompagnamento di corredi di un certo impegno; ne risulta un quadro composito che è stato oggetto di riflessione in anni recenti da parte di B. d’Agostino e L. Cerchiai. Avrebbe meritato, ad esempio, una attenta

17 d’Agostino 1994; d’Agostino 1999; Cerchiai 1999.18 Sulla questione della rappresentatività demografica e sociale

delle necropoli, cfr. I. Morris, Burial and ancient society. The rise of the Greek city state, Cambridge 1987.

19 L. Cerchiai, ‘Stili e tendenze del commercio corinzio nel

basso Tirreno’, in Corinto e l’Occidente: metodi e discipline a confronto, ‘Atti del XXXIV convegno di studi sulla Magna Grecia (Taranto 1994)’, Napoli 1995, pp. 607-622.

20 Cuozzo 1994, p. 279-280.

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229Rassegne e recensioni

valutazione il significato “non solamente recessivo at-tribuibile alle strategie di rappresentazione alternative al rituale della cremazione” attuate attraverso la cultura materiale e la scelta di una pratica peculiare come la de-posizione rannicchiata che potrebbero svelare l’azione di ideologie alternative a quella dominante21.

La cronologiaIl volume ripropone, con qualche approfondi-

mento, le tesi cronologiche esposte nel contributo edito con G. Bartoloni negli atti del convegno Oriente e Occidente 2005, che l’A. richiama più volte ad integrazione delle argomentazioni sulla cronologia assoluta presentate nel testo22.

Obiettivo esplicito è la dimostrazione di come i risultati stratigrafico-tipologici emersi dal lavoro, forniscano «… una indipendente conferma alle linee essenziali del quadro cronologico tradizionale proposto da Coldstream, nel 1968, per la sequenza greca» (p. 834). Come già nell’articolo del 2005, il lavoro di Nizzo pertanto intende, in primo luogo, contrapporsi alle recenti revisioni delle cronologie tradizionalmente in uso per la fase avanzata della prima età del ferro e l’Orientalizzante.

La questione, come è noto, ha origine dai risultati di una serie di campagne di analisi dendrocronolo-giche e radiometriche che hanno condotto, prima in sede europea e più di recente anche in Italia, ad opera di un gruppo di studiosi di ambito protostori-co, ad una nuova impostazione dell’inquadramento cronologico in uso per l’età del Bronzo e del Ferro, con datazioni che rialzano di quasi un secolo (da un secolo a 60 anni ca.) la cronologia tradizionale. Una posizione opposta, diretta a rimarcare le incongruen-ze che l’adozione delle date suggerite dalle analisi scientifiche, ancora parziali e incomplete per quanto riguarda l’Italia, comporterebbero nell’ambito del sistema basato sui sincronismi tra le cronologie relative dell’Età del Ferro e dell’Orientalizzante, le date provenienti dalle fonti storiche e le cronologie

greche e vicino-orientali, è sostenuta da un secondo gruppo di studiosi23. Un terzo orientamento è iden-tificato dagli studi che hanno promosso un tentativo di adattare i risultati dei dati dendrocronologici e radiometrici agli schemi di periodizzazione della protostoria italiana, con esiti non univoci.

A partire da tali premesse, il volume riprende ed argomenta le conclusioni cronologiche avanzate nell’articolo del 2005 (tav. 38) con l’ausilio di una tabella dei parallelismi che evidenzia la trama di corrispondenze tra la periodizzazione pithecusana, corredata dalla scansione in “livelli”, e le principali sequenze locali della penisola (Osteria dell’Osa, Veio e Pontecagnano; fig. 39)24.

Le datazioni proposte nel volume risultano an-corate a due referenti fondamentali: da un lato la sequenza fornita dal diagramma stratigrafico in accordo con tutti gli elementi che permettono una saldatura con la cronologia assoluta, dall’altro, una ipotesi circa l’attività di una bottega e/o di un artigiano “delle oinochoai tardo-geometriche”. In questa ottica, l’A. riafferma, in primo luogo, il te-minus post-quem ineludibile costituito dalla tomba 325 con lo “scarabeo di Bocchoris”, che, nell’ordito della sequenza relativa, si colloca in corrispondenza del livello 24 del TGII. In secondo luogo è ribadi-to il ruolo di protagonista attribuito all’oinochoe di fabbrica locale nella sua evoluzione tipologica. La sostanziale uniformità formale, decorativa e dimensionale degli esemplari riferibili al periodo più antico, infatti, ha portato ad ipotizzare che tale produzione possa essere ricondotta ad un’unica bottega o addirittura ad un singolo artigiano attivo ininterrottamente per un periodo di circa 25/30 anni da collocare tra l’inizio del TGI (transizione tra il livello 10 e il livello 12 del matrix) fino al livello 20 del TGII (p. 84).

Su queste basi l’A. propone come inizio dell’oc-cupazione regolare della necropoli una data non anteriore al 745-740 a.C. (p. 84). Tale fase sarebbe

21 d’Agostino 1994; d’Agostino 1999; Cerchiai 1999, so-prattutto p. 669.

22 Bartoloni-Nizzo 2005.23 B. d’Agostino, Conclusioni’ in Oriente e Occidente 2005,

p. 662. Per le diverse posizioni a confronto si vedano, oltre a Bartoloni-Nizzo in particolare, i contributi di M. Botto, B. d’Agostino, R.C. De Marinis, N. Kourou, A. Njboer, R. Peroni-A. Vanzetti e gli interventi di A.M. Bietti Sestieri in Oriente e Occidente 2005. Il bilancio più aggiornato è quello di F. Delpino, ‘Misurare il tempo, valutare le misure del tempo. Il dibattito sulla cronologia dell’età del Ferro italiana’, in Anne Lehoërff (a cura di), Construire le temps. Histoire et méthodes des chronologies et calendriers des derniers millénaires avant notre ère en Europe occidentale. Actes XXX colloque international de

Halma-Ipel. UMR 8164 (CNRS. Lille 3. MCC), 7-9 décembre 2006, Lille. Glux-en-Glenne 2008 (=Bibracte 16), 2009. pp. 293-298. Una posizione “intermedia” è proposta da M. Bettelli, Roma. La città prima della città: i tempi di una nascita, Roma 1997 e da M. Pacciarelli in Oriente e Occidente 2005, pp. 81-90.

24 Bartoloni-Nizzo 2005, tabella p. 423. In particolare, sono evidenziate le corrispondenze tra il TGI di Pithecusae e la fase IIIB laziale, segnalando una leggera anteriorità dei contesti laziali più antichi rispetto alle prime tombe di Pithecusae ed un parallelismo con le fasi IIB-IIC di Veio-Quattro Fontanili e con la parte iniziale e centrale del IIB di Pontecagnano. Per quanto riguarda il TGII di Pithecusae, esso sembra complessivamente coincidere con la fase IVA1 laziale, e con l’Orientalizzante Antico di Veio e di Pontecagnano.

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230 Rassegne e recensioni

stata preceduta da un periodo di occupazione non regolare documentata dai rinvenimenti considerati nel livello 10 del matrix, riferibile al passaggio tra MG e TGI. Per quanto riguarda la transizione dal TGI al TGII, nel volume è riaffermato il termine cronologico del 720 a.C. sostenuto dal Coldstream mentre per il passaggio dal TGII/PCA al MPC, in luogo del 690 a.C. del Coldstream, l’A. opta per una data intorno al 680 a.C. già suggerita da Neeft nel suo lavoro sugli aryballoi protocorinzi25.

Mentre ampiamente convincenti risultano le basi stratigrafiche e crono-tipologiche per la riafferma-zione dell’inizio del TGII, qualche dubbio destano sia la data iniziale del TGI (745/740 a.C.) sia la pre-ferenza del 680 a.C. per la transizione al MPC. In primo luogo, nonostante le interessanti osservazioni proposte nel volume a partire dall’individuazione dei “livelli” stratigrafici, ci si chiede se sia davvero possibi-le o consigliabile tentare di raggiungere un dettaglio analitico che permetta di connettere direttamente tali livelli alla durata complessiva delle singole fasi e, dunque, di giungere una approssimazione inferiore al decennio per la prima occupazione della necropoli o per l’articolazione interna del TGI-TGII. In secondo luogo, per quanto riguarda il TGII, è proprio tra la fine dell’VIII e gli inizi del VII sec. a.C. che l’evi-denza fornita dal matrix diventa più labile a causa di una generalizzata contrazione nel numero delle deposizioni, in concomitanza di quel fenomeno di abbandono e parziale spopolamento già riconosciuto da tempo non soltanto nella necropoli ma anche nei principali settori dell’abitato. Tale contrazione sarebbe da connettere, secondo vari autori, all’azio-ne di più cause complementari, quali lotte interne, la progressiva affermazione politico-economica di Cuma, eventi naturali26. Sul versante della cronologia assoluta, va notato, infine, che, nonostante le critiche avanzate a riguardo, sembra “resistere” ancora per il passaggio TGII-MPC, il supporto esterno fornito dal noto sincronismo costituito dalla sequenza di Tarso, ed in particolare, dalla presenza dell’aryballos

di transizione dal globulare all’ovoide in uno strato precedente la distruzione di Sennacherib del 696 a.C. Questi elementi sembrano consigliare una linea di prudenza indicando piuttosto una conferma, anche in questo caso, delle date proposte a suo tempo da Coldstream e dagli editori, cioè il 750 per la prima fase della necropoli ed il 690 per l’inizio del MPC27.

In conclusione va sottolineato che, nel quadro con-troverso emerso negli ultimi anni dal dibattito sulla cronologia dell’Età del Ferro, il lavoro di V. Nizzo ar-reca un contributo significativo alla valorizzazione del patrimonio ideologico e materiale della necropoli di una “apoikia di tipo particolare”28 quale è Pithecusae, le cui potenzialità per la comprensione delle dinami-che storiche, culturali e cronologiche di un momento cruciale per il mondo tirrenico e mediterraneo, sono ancora ben lungi dal potersi considerare esaurite.

M.A. Cuozzo

Abbreviazioni supplementari:

Bartoloni-Nizzo 2005 = G. Bartoloni- V. Nizzo, ‘Lazio proto-storico e mondo greco: considerazioni sulla cronologia relativa e assoluta della terza fase laziale’, in Oriente e Occidente 2005, pp. 409-436.

Buchner 1975 = G. Buchner, ‘Nuovi aspetti e problemi posti dagli scavi di Pithecusa con par-ticolari considerazioni sulle oreficerie di stile orientalizzante antico’, in Con-tribution à l’étude de la société et de la colonisation eubéennes, Cahiers du Centre Jean Bérard II, Napoli 1975, pp. 59-86.

Cerchiai 1999 = L. Cerchiai, ‘I vivi e i morti. I casi di Pitecusa e Poseidonia’, in Confini e frontiera nella grecità d’occidente, ‘Atti del XXXVII Convegno di Studi sulla Magna Grecia’, (Taranto 1997), Napoli 1999, pp. 657-679.

Coldstream 1968 = J.N. Coldstream, Greek geometric pottery, London1968

Coldstream 1995 = J.N. Coldstream, ‘Euboean geo-metric imports from the acropolis of Pithekoussai’, in BSA, 90, 1995, pp. 251-267.

Cuozzo 1994 = M. Cuozzo, ‘Patterns of organisation and funerary customs in the cemetery of Ponte cagnano (Salerno), during the orientalising period’, in Journal of European Archaeology, 2.2, 1994, pp. 263-298.

25 Neeft 1987.26 Pithekoussai I. Ridgway 1984, pp. 44-49; pp. 105-106. Sulle

cause di tale fenomeno, cfr. per esempio, d’Agostino 1994, in particolare, pp. 19-20 e nota 4 con bibliografia precedente; cfr. anche S. De Caro - C. Gialanella, ‘Novità pitecusane. L’inse-diamento di Punta Chiarito a Forio d’Ischia’, in M. Bats - B. d’Agostino (a cura di), Euboica. L’Eubea e la presenza euboica in Calcidica e in Occidente, ‘Atti del Convegno Internazionale (Napoli 1996)’, Napoli 1998, pp. 337-353.

27 Cfr. di recente, le osservazioni di B. d’Agostino in Oriente e Occidente 2005, pp. 437-440, in particolare pp. 238 s.

28 d’Agostino 1994.

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231Rassegne e recensioni

Cuozzo 2007 = M. Cuozzo, ‘Ancient Campania. Cultural interaction, political borders and geographical boundaries’, in G. Bradley - E. Isayev - C. Riva (eds.), An-cient Italy. Regions without boundaries, Exeter 2007, pp. 224-258.

d’Agostino 1985 = B. d’Agostino, ‘Società dei vivi, comunità dei morti: un rapporto difficile’, in DialArch, III S., 3, 1985, pp. 47-58.

d’Agostino 1994 = B. d’Agostino, ‘Pitecusa. Una apoikia di tipo particolare’, in. B. d’Agostino - D. Ridgway (cura di), Apoikia. Scritti in onore di Giorgio Buchner, in AIONArchStAnt, N. S. 1, 1994, pp. 19-36.

d’Agostino 1999 = B. d’Agostino, ‘Pitecusa e Cuma tra greci e indigeni’, in La colonisation grecque en Méditerranée occidentale, ‘Atti Convegno Napoli 1995’, Roma 1999, pp. 51-63.

Neeft 1987 = C.W. Neeft, Protocorinthian subgeome-tric aryballoi, Amsterdam 1987.

Oriente e Occidente 2005

= G. Bartoloni - F. Delpino (a cura di), Oriente e Occidente: metodi e discipline a confronto. Riflessioni sulla cronolo-gia dell’Età del Ferro in Italia, ‘Atti dell’incontro di studi (Roma 2003)’, Roma 2005.

Pithekoussai I = G. Buchner - D. Ridgway, ‘Pi-thekoussai I. La necropoli: tombe 1-723 scavate dal 1952 al 1961’, in MonAnt, LV. Serie monografica IV, Roma 1993.

Ridgway 1984 = D. Ridgway, L’alba della Magna Grecia, Milano 1984.

Ridgway 2000 = D. Ridgway, ‘The first western Greeks revisited’, in D. Ridgway et alii (eds.), Ancient Italy in its Mediter-ranean setting (Studies in honour of Ellen Macnamara), London 2000, pp. 179-192.

Ridgway 2004a = D. Ridgway, ‘Reflections on the early Euboens and their partners in the Centrale Mediterranean’ in A. Mazarakis-Ainian (a cura di), Oropos 2004, pp. 141-152.

Ridgway 2004b = D. Ridgway, ‘Euboeans and others along the Tyrrhenian seabord in the 8th century B.C.’, in K. Lomas (ed.), Greek identity in the western Mediterra-nean, Leiden-Boston MA, pp. 15-33.

B. d’Agostino, F. Fratta, V. Malpede, Cuma. Le for-tificazioni. 1. Lo scavo 1994-2002, AIONArchStAnt Quad. 15, Naples 2005 (avec appendice de A. d’An-drea), 268 p., 140 fig. noir et blanc et 4 pl. couleur dans le texte, 1 volume de 15 plans HT en dépliants.

Trois ans seulement après le volume Cuma. Nuove forme di intervento per lo studio del sito antico (Naples 2002), qui présentait un bilan complet de nos connaissances sur les fortifications de Cumes, l’équipe de l’Orientale nous propose avec une célérité remarquable le résultat des travaux menés essentiel-lement sur l’enceinte nord, autour de la “porte Mé-diane” et de la “porte Orientale”, et accessoirement sur l’enceinte sud entre 1994 et 2002.

Le volume est accompagné d’un fascicule de planches avec de nombreux dépliants souvent utiles (pl. 1, plan général de Cumes, et d’une façon générale plans d’ensemble des fouilles), quelquefois incom-modes. Par exemple, les dépliants 2 ou 5 regroupent plusieurs illustrations qui auraient pu figurer ailleurs à d’autres formats. La mise en plan des coupes et élévations de la pl. 5 auraient été plus lisibles sur la pl. 3, au 1/100 (dépliant à 4 feuillets) que sur la pl. 4 au 1/50 (grand dépliant très incommode à 12 feuillets). Sur la pl. 5, on complique encore la lecture en appelant fig. A la coupe II’ du plan, et fig. L la coupe AA’.

L’introduction (p. 7-18), due à Br. d’Agostino, rassemble les principaux résultats de la recherche et fait donc office de conclusion. Je la commenterai en même temps que chacun des chapitres qui suivent. Le système de périodisation envisagé comprend 10 grandes périodes, dont 5 pour l’antiquité pré-by-zantine. La période archaïque (I) prévoit une phase Ia VIIIe-VIIe s., non attestée dans les fouilles 1994-2002, mais il s’agit d’une sage précaution comme on le verra plus loin.

Chacune des trois parties est organisée de la même manière. Une description synthétique de la fouille, déclinée par périodes, accompagnée de nombreuses photographies en noir et blanc de très bonne qualité (auxquelles il faut ajouter quelques fig. en couleurs numérotées de A à H, pas très faciles à trouver) et de planches de profils ou de photos des céramiques importantes pour la datation, est suivie d’un cor-pus analytique des faits archéologiques (le système d’enregistrement est inspiré du système Syslat). On aurait souhaité l’intégration dans le texte de quelques dessins (plans et coupes) même schématiques qui auraient clarifié le discours sans que l’on soit obligé d’avoir recours aux dépliants mentionnés supra.

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pensent que, entre la porte et un grand collecteur, le parement externe de la phase Ic (2 assises en panneresses, 2 assises en carreaux) est superposé à trois assises conservées de la phase Ib (2 assises en panneresses, 1 en carreaux). Dans cette phase, les orthostates sont irrégulièrement disposés en bou-tisse de façon à lier le parement au contre-parement en éclats de tuf. Les cotes semblent beaucoup plus hautes à l’ouest qu’à l’est de la porte.

Le collecteur qui passe en oblique sous les fonda-tions de la muraille dans la phase Ic pose de nom-breux problèmes. C’est une canalisation double, dont on n’a pas les dimensions exactes: la couverture était large de 4 m. et le canal avait au moins 1 m. de profondeur, ce qui, compte tenu des murs latéraux et du mur central, devait laisser un specus de 2,50 m2. Vers le sud, quelques blocs laissent penser que le collecteur intra-muros était orthogonal à la muraille. Il n’est pas banal de faire passer une canalisation de cette ampleur sous le rempart à proximité d’une porte; encore moins de la faire passer en oblique. Généralement, les exutoires sont pratiqués sous le sol de la voie, dans la porte, pour ne pas affaiblir la muraille, et pour pouvoir accéder plus facilement à la canalisation; et si l’on doit passer sous la muraille, on le fera plutôt à angle droit. Je me demande si nous n’avons pas là la trace, comme dans la porte nord de Glanum, d’un déplacement du passage. La première porte, relative à la phase Ia (non attestée ici, mais dont l’existence est certaine), pouvait cor-respondre au tracé du collecteur (cfr. également la porte Sacrée du Dipylon à Athènes). Ce serait alors, comme à Mégara Hyblaea, une porte oblique. Lors de la reconstruction de l’enceinte (dès la phase Ib? à coup sûr dans la phase Ic), la porte serait déplacée vers l’est, devenant orthogonale au rempart (ce qui facilite l’accès à la ville), mais la canalisation conserve son tracé primitif.

A la phase Ic appartiendrait également un fossé imposant (largeur au moins 10 m., prof. 7 m.) sans doute franchi par un pont au niveau de la porte. Les fouilleurs envisagent plutôt une rampe, mais je ne vois pas ce qui permet d’exclure un pont avec des piles de pierre et un tablier de bois. Cette muraille (attri-buée à d’Aristodème) est rapprochée par Br. d’Agos-tino de la “muraille-digue” fouillée par Cavallari et Orsi autour de la porte ouest de Mégara Hyblaea. L’auteur n’a pu prendre en compte les conclusions du volume Mégara Hyblaea 5, paru fin 2004, et a fortiori des travaux de 2006 sur la porte ouest. On ne croit plus guère aujourd’hui à la “muraille-digue”, il s’agit simplement d’un agger, d’abord à simple

Le chantier qui a donné le plus d’informations sur la muraille est celui de la porte Médiane.

Phase I (période archaïque)On s’arrêtera surtout sur la première période

(phases Ib et Ic) de la porte Médiane. De cette phase sont conservés dans la partie est du secteur le parement externe, en pierre de taille avec fruit, le mur latéral est de la porte et le départ du pare-ment interne (ép. du rempart 4,90 m.). A l’arrière de chaque parement se trouvent des contre-pare-ments en pierres plates (“scaglie”) 21032 et 21034, caractéristiques des remparts archaïques de Cumes. Le remplissage (les auteurs adoptent le terme d’emplecton, et même au pluriel emplecta, tout en reconnaissant son inadéquation) a été très remanié aux époques ultérieures et ne peut servir à la data-tion du rempart. Seules les couches inférieures (US 21089/21090: cotes entre 3,50 m. et 2,49 m. sur le niveau de la mer), datables au second quart du VIe s., seraient relatives à la première fortification archaïque (phase Ib). Les fouilleurs envisagent aussi une hypothèse alternative: que les contre-parements soient liés au remaniement tardif du rempart. Il me semblerait plus simple que les niveaux inférieurs de la stratigraphie (pl. 5, D, US 22090 et empier-rement 21099) soient les vestiges d’un premier rempart antérieur à la période Ib. Une telle hypo-thèse s’accorderait avec ma conviction personnelle que les colonies anciennes comme Cumes étaient dotées de grandes enceintes urbaines dès le VIIe s. au moins. Elle serait d’autant plus séduisante que Br. d’Agostino a présenté depuis, lors du congrès de Tarente de septembre 2008, les résultats (en cours de publication) de la fouille d’un nouveau secteur plus à l’ouest, dans lequel a été mise en évidence une nouvelle phase du rempart archaïque, datée vers 600. Il est regrettable que les conditions du chantier n’aient pas permis d’explorer davantage l’espace de la rue pomériale intra-muros, seul moyen de com-prendre les rapports des diverses phases de l’agger avec les niveaux de circulation et d’habitat intra-muros et de répondre à la question, cruciale, de la date du premier rempart de Cumes. Cette phase Ib est rapprochée par Br. d’Agostino du rempart est de Sélinonte, à peu près contemporain.

Durant la phase Ic (fin du VIe s.), le rempart est doublé vers l’extérieur et vers l’intérieur pour atteindre une épaisseur de 7,30 m. La technique de construction est à peu près la même que dans la phase précédente, les deux premières assises en panneresses, les suivantes en carreaux. Les fouilleurs

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Par la suite, l’enceinte continue de fonctionner, comme limite entre ville et nécropole, jusqu’au VIe

s. de notre ère.Ce volume est extrêmement important pour

l’histoire des fortifications de Cumes et de sa topo-graphie. On sait à présent que la ville avait atteint son extension maximale en tout cas dès la fin du VIe s., sans doute dès la première moitié du VIe s. si l’on en croit le résultat des fouilles sur l’enceinte nord, peut-être même dès les premiers temps de la colonie (tombes du fonds Artiaco dès la fin du VIIIe s.), ce qui serait bien en accord avec les résultats des recherches récentes sur l’urbanisme grec en Occident (Mégara Hyblaea, Sélinonte). L’existence de murs internes, qui avait fait croire d’abord à plusieurs phases dans l’extension de la cité, doit s’expliquer par des murs de terrassement ou de téménos.

En dépit de quelques critiques essentiellement formelles, il s’agit d’une très belle publication, très détaillée, qui permet au lecteur attentif de relire les stratigraphies et de les critiquer s’il y a lieu. La céra-mique des terre-pleins archaïques est présentée dans le vol. 2 (infra). On attend la suite avec beaucoup d’impatience.

Henri Tréziny, CNRS, Centre Camille Jullian, Aix-en-Provence.

M. Cuozzo, B. d’Agostino, L. Del Verme, Cuma. Le fortificazioni. 2. I materiali dai terrapieni arcaici. AIONArchStAnt Quad. 15, Naples 2006, 258 p., 76 fig. et 28 pl. en noir et blanc, 4 pl. en couleurs.

Malgré son titre, le volume est consacré essentielle-ment au mobilier céramique, incluant instrumentum et terres cuites architectoniques; seule l’étude des scarabées concerne une autre matière. On ignore l’existence éventuelle de monnaies ou d’objets en os ou en métal.

Après une brève, mais très utile, introduction destinée à rappeler le contexte archéologique stra-tigraphique des trouvailles (avec renvois au volume précédent) dans les remblais correspondant aux constructions archaïque (vers 560) et tardo-archaïque (vers 510/500) du rempart, un appendice (p. 12-13) présente “la classificazione delle argille”, qui, en réalité, ne concerne que deux classes de céramique locale (“argilla grezza” et “argilla depurata”) et est reprise assez inutilement pour “l’argilla grezza” seule, p. 58-59.

parement, puis à double parement, dont l’épaisseur est la conséquence de la technique de construction à agger, progressivement renforcé.

Phase II. Période classiqueAu dernier quart du Ve s. sont bâtis en avant de

la porte (jusque là simple passage axial) deux bras (construits selon la technique des caissons, rare avant le IVe s.) qui constituent de fait une avant-cour dont le seul parallèle serait celui de la porte principale de Stratos (que Winter date cependant au début de l’époque hellénistique). Les autres parallèles cités relèvent du principe, assez différent, de la “porte à tenailles”, si bien que le dispositif de Cumes apparaît plutôt isolé, et devrait peut-être être mis davantage en rapport avec le fossé défensif et le pont mentionnés supra. Noter la présence de signes lapidaires visibles sur photographie mais non précisément décrits. L’avant-cour est décalée vers l’ouest par rapport à l’axe probable de la porte.

Phase III. Période hellénistiqueDans la première moitié du IIIe s. (phase IIIa),

le rempart est renforcé à l’extérieur (mais aussi à l’intérieur à l’est de la porte) par un nouveau mur à contreforts (en assises plates) appuyé sur le parement du mur archaïque, selon un principe de construction bien connu dans les murs de Naples. Après le début du IIe s. (phase IIIb), l’extrémité nord de l’avant-cour est fermée pour constituer une classique porte à chambre, avec passage double. Dans la première moitié du Ier s. (phase IIIc), le fossé est comblé et sur son emplacement s’établit une rue pomériale externe; l’enceinte subit quelques remaniements en opus re-ticulatum. Entre le milieu du Ier s. av. J.-C. et la fin du Ier s. de n. è., l’enceinte est restaurée, puis le fossé est comblé, la porte prend un aspect monumental, et la voie est dallée.

On insistera moins sur le chantier de la porte Orientale, où ont été également mises au jour les trois phases principales de l’enceinte (Ib, Ic, IIIa). Le rempart méridional a été étudié à la suite d’ef-fondrements. La phase de la première moitié du VIe s. n’apparaît pas. Dans la partie qui s’appuie sur les première pentes du Monte Grillo, le mur archaïque tardif comportait peut-être simplement une courtine extérieure adossée au relief naturel, sans courtine intérieure. A l’époque classique, le système défensif est renforcé par un bastion, puis doublé à l’époque hellénistique comme dans les secteurs nord étudiés précédemment.

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La présentation s’articule ensuite en deux parties consacrées respectivement aux différentes classes de mobilier et aux catalogues d’inventaire, individu par individu, des pièces retenues en fonction de leur pertinence, pour chacune des phases des terre-pleins du rempart, archaïque (présentation par US non remaniées) et tardo-archaïque (globalement).

La première partie est divisée en quatre chapitres, sans titre ni introduction. Autant le chapitre III est clairement consacré aux amphores et le chapitre IV aux mobiliers céramiques autres que la vaisselle (lampes, instrumentum, terres cuites architecto-niques) à côté des scarabées, autant les chapitres I et II proposent des regroupements qui ne sont pas im-médiatement compréhensibles. J’ai cru comprendre que les diverses classes analysées suivaient l’ordre chronologique de leur date d’apparition en chrono-logie absolue et que la coupure entre le chapitre I et le chapitre II recouvrait celle entre les phases archaïque et tardo-archaïque du rempart (mais, par exemple, dans le chapitre II, la “ceramica in argilla grezza” et la “ceramica in argilla depurata” sont présentes dans les deux phases). Il est vrai que ce choix de présentation par catégorie céramique pouvait s’imposer, dans la mesure où les couches, mises en place au moment de la construction des deux phases du rempart et ayant livré le mobilier présenté, sont des remblais à forte proportion de matériel résiduel – matériel d’habitat de la deuxième moitié du VIIe s. ou d’une nécropole du Premier Âge du fer, selon les auteurs –, et que certaines parties ont été fortement remaniées à l’époque romaine. Ce mode de présentation nous prive cependant d’une vision de comparaison facile entre les deux périodes de construction du rempart, ainsi déconnectées au niveau des céramiques, qu’un tableau récapitulatif aurait pu atténuer et, en tout cas, mieux qualifier. On aurait aimé, aussi, savoir si les couches US 21100, 21101 du secteur 10 (qualifié en-core parfois de secteur 8, par exemple p. 133 ou 138, bien que la note 10, p. 8, signale le changement de numérotation par rapport au volume I) sur lesquelles est édifié le rempart daté vers 560 contenaient ou non du mobilier contemporain et antérieur et si elles reposaient ou non sur un substrat vierge. L’existence d’une phase plus ancienne du rempart (fin VIIe-début VIe s.), révélée au cours du Congrès de Tarente 2008 à partir d’un autre secteur de fouille, donne à cette question toute son importance.

Chaque classe de céramique est analysée très effi-cacement et utilement dans son intégralité en une série d’études comprenant un tableau quantitatif par forme représentée, une description des caracté-

ristiques techniques et une analyse des différentes formes, accompagnée d’un bilan comparatif pre-nant en compte l’apport des trouvailles cumaines par rapport à divers sites campaniens et italiques. Deux classes locales (“ceramica in argilla grezza” et “ceramica in argilla depurata acroma”) ont fait, en outre, l’objet d’une nouvelle typologie fondée sur les caractéristiques morphologiques des vases. Il faut souligner tout l’intérêt que représentent, pour le chercheur, ces diverses monographies dans la connaissance de classes de céramique à diffusion “in-ternationale” et régionale. Pour ma part, en fonction de mes compétences et de mes centres d’intérêt, je me permettrai de signaler faits notables, interrogations et remarques de détail.

Particulièrement suggestive est l’étude (Marias-sunta Cuozzo), parmi les céramiques fines les plus anciennes (fin VIIe-milieu VIe s.), des céramiques protocorinthiennes (100 individus), italo-géo-métriques (207 individus) et corinthiennes (40 individus) qui pose le problème, toujours ambigu, des productions d’importation et d’imitation, mais surtout de la distinction entre des productions pi-thécussaines (largement présentes, semble-t-il, en fonction des comparaisons avec les vases de l’habitat et de la nécropole de Pithécusses) et des productions cumaines, malgré de nouvelles analyses archéomé-triques. Une distinction apparaît, en tout cas, claire-ment, au niveau des formes fonctionnelles de vases majoritaires, entre céramiques protocorinthiennes/corinthiennes (vases à boire: skyphoi, kotyles et canthares) et italo-géométriques (vaisselle de table: écuelles, plats et lékanès).

À cheval sur les deux périodes des remblais du rempart, on trouve, dans les céramiques fines, le buc-chero étrusque (Laura del Verme) et les céramiques de type grec-oriental (Amelia Tubelli). Le bucchero sottile du VIIe s., originaire d’Étrurie méridionale, est peu représenté (5 individus?, 66 fragments). En revanche, le bucchero de transition et pesante est bien présent (115 individus) et, en presque totalité, de production campanienne, dans les formes de coupes, en opposition nette, par exemple, avec les importations étrusques méridionales de Gaule ou de Sardaigne où dominent largement les canthares. Par ailleurs, les coupes ioniennes sont représentées dans presque toutes les variantes (A2, B1, B2, B3), à l’exception de la forme A1. Les plus nombreuses sont de loin les coupes B2 (198 individus), recueillies pour la plupart dans les remblais du terre-plein tardo-archaïque; ce fait associé aux deux seuls individus du terre-plein archaïque est un signe, parmi d’autres,

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que ce dernier est constitué, comme le relève B. d’Agostino (p. 133), au tout début de la production de ces vases, vers 580/560. S’il n’est plus contestable d’abaisser la fourchette chronologique des coupes B2, il paraît nécessaire de faire de même pour toutes les autres variantes par rapport à la chronologie trop resserrée de Vallet-Villard. Un autre fait notable est la confirmation d’une production coloniale occiden-tale de ces coupes dites ioniennes, à Cumes comme en plusieurs autres centres, non seulement pour les coupes B2, mais aussi pour les coupes A2 et B3. Mais, d’importation grecque orientale claire, il faut signaler deux fragments de calice de Chios et un d’une vrai-semblable œnochoè du style des Chèvres sauvages.

Les céramiques fines incluent, aussi, les produc-tions attiques figurées et à vernis noir (Margherita Nigro). Tous les fragments de céramique figurée proviennent du terre-plein tardo-archaïque, sont à figures noires et appartiennent à la deuxième moitié du VIe s., d’où leur absence du terre-plein archaïque dont ils confirment la datation avant 550. A côté de quelques fragments d’amphore ou de lécythe, les vestiges appartiennent tous à des formes de vases à boire (coupes à lèvre et coupes à bandes). C’est le cas, également, des vases à vernis noir (1555 fragments pour 102 individus) dont une partie, minoritaire (?), semble de production locale. Bizarrement, ces céramiques à vernis noir ne figurent pas dans le ca-talogue, mais les renvois aux planches se trouvent en note au fil de leur présentation dans le texte. Sur le sujet, M. Nigro ouvre opportunément des comparai-sons avec d’autres sites de Campanie, mais de façon trop générique, qui ne permet pas de comprendre réellement les ressemblances et les différences avec le faciès de Cumes.

Venons-en aux céramiques communes. Les auteurs ont distingué entre des céramiques in argilla grezza, associées par la chronologie et le répertoire à des céramiques in argilla depurata acroma (Margherita Nigro), et des céramiques in argilla depurata a de-corazione lineare (Mariassunta Cuozzo), présentes seulement à partir de la deuxième moitié du VIe s., dans le remblai tardo-archaïque. Les récipients des deux premières catégories trouvent leur place dans une typologie nouvelle, ouverte, simple et efficace, même si le répertoire des vases en argile “épurée” ne recoupe qu’en partie celui des vases en argile “gros-sière”, puisqu’il ne comporte, évidemment, aucun récipient de cuisson. Le lien n’étant plus fait, sauf exception, avec les divers groupes de pâte définis précédemment, faut-il en conclure que les formes sont façonnées indifféremment dans tous les groupes

possibles? L’auteur estime ne pas disposer de données quantitatives suffisantes (390 individus in argilla grezza pour le terre-plein tardo-archaïque) pour une présentation fonctionnelle du faciès. Comme elle signale, cependant, les récipients qui présentent des traces de passage au feu, il est possible de noter que la forme de base du récipient de cuisson est l’olla à fond plat, alors que la chytra n’est représentée que par 3 individus (+ 1 d’importation) et la lopas par un seul. Dans le contexte de Cumes grecque, une telle caractéristique apparaît plus “campanienne” que “grecque”, bien attestée à Pithécusses, Capoue ou Pontecagnano, alors que c’est la chytra à fond bombé qui prédomine encore à cette époque à Velia, comme à Athènes ou Corinthe; il est donc important de savoir si, comme le dit l’auteur (p. 74), les chytrai de Cumes peuvent être à “fondo piano o convesso”. A ce compte, si l’absence de la caccabè du répertoire local ou des importations apparaît logique, alors qu’elle est devenue courante à Athènes dès le dernier quart du VIe s., la présence d’une lopas est assez remarquable à cette date, comme le note M. Nigro, puisqu’elle n’est attestée par ailleurs que dans l’épave de la Pointe Lequin 1A et à Velia. Signalons que toutes trois sont à vasque arrondie, comme toutes les lopades jusqu’à la fin du Ve s., et que le profil caréné restitué, fig. 24c, 140.X.10, comme modèle, est donc anachronique, car il apparaît seulement au IVe s. Je crois aussi que les formes 130, définies comme des coupes-couvercles, doivent être considé-rées strictement comme des coupes/bols: la vaisselle grecque est déjà une vaisselle spécialisée et rarement hybride. Comme les formes de récipients destinés à la table sont quasiment absents des céramiques fines et des céramiques communes en argile grossière, il revient à la catégorie des céramiques en argile épu-rée achrome ou à bandes de fournir l’essentiel des cruches, pichets, œnochoès et olpès, mais aussi des écuelles (notamment mono-ansées, très diffusées dans le monde grec, particulièrement ionien) et des lékanès, probables plats de service.

Un gros chapitre (Sveva Savelli) est, à juste titre, consacré aux amphores de transport dans la mesure où presque toutes les catégories connues en Méditer-ranée occidentale sont présentes à Cumes. L’auteur connaît bien les problèmes qui les concernent et les débats qu’elles ont suscités. En ce qui concerne les chronologies, la fouille du rempart de Cumes ne peut que fournir deux termini post quos pour l’apparition de telle ou telle catégorie. En fait, seules les amphores SOS sont présentes dans le terre-plein archaïque et absentes du terre-plein tardo-archaïque. Les

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amphores les mieux représentées sont dans l’ordre décroissant les amphores corinthiennes A, les am-phores gréco-occidentales, les amphores in ogiva di tipo fenicio-occidentale a fondo piano, les amphores à la brosse et les amphores étrusques. Parmi les amphores à la brosse, un fragment d’amphore de production non-attique, retrouvé dans le terre-plein archaïque et jusqu’ici uniquement attesté dans la deuxième moitié du VIe s., permet d’en remonter la datation. Pour les amphores corinthiennes A, S. Savelli se réfère à l’étude en cours, par J.-Chr. Sou-risseau, de la nécropole de Rifriscolaro à Camarine, qui situe sans difficulté les exemplaires cumains entre le milieu du VIIe le début du VIe s., dont certains en position résiduelle dans le remblai du terre-plein tardo-archaïque. Au sein des amphores gréco-occidentales, on distingue maintenant deux catégories, définies par J.-Chr. Sourisseau (1997) et confirmées par plusieurs analyses archéométriques (Abbas, inédit; Gassner/Sauer 2003), entre des amphores dites “corinthiennes B de type ancien”, de production sybarite et d’autres ateliers calabrais, et des amphores dites “ionio-massaliètes”, d’ateliers divers, pratiquement de toutes les cités grecques de Méditerranée occidentale, de Marseille à la Calabre. A Cumes, S. Savelli a identifié, dans le remblai du terre-plein tardo-archaïque, des fragments des deux types d’amphores “corinthiennes B de type ancien” et une série de fragments de type “ionio-massaliète” d’origine locrienne. Pour les amphores étrusques, elle reconnaît à Cumes les types 3A (dont un fond provenant du terre-plein archaïque), 3C et 4 de la typologie de M. Py. En distinguant amphores in ogiva di tipo fenicio-occidentale a fondo piano et amphores étrusques, S. Savelli aborde par une discussion serrée, mais prudente, un débat typologique et chronolo-gique important, qui intéresse aussi la Gaule méri-dionale. Dans ces amphores in ogiva di tipo fenicio-occidentale a fondo piano, retrouvées toutes (sauf une) dans le remblai du terre-plein tardo-archaïque, elle a raison de globaliser les types 1/2 et 5 de M. Py (si-gnalons à ce propos que, dans la figure 38, les profils représentés ne sont pas ceux de la typologie de M. Py, mais un doublon de la typologie de M. Gras EMA 1-2); pour M. Py, le type 5 représentait, d’ailleurs, une évolution récente, de la deuxième moitié du VIe s. (amphores de l’épave de Bon-Porté), du type 1/2. S. Savelli donne la préférence à la filiation qui mène de l’amphore à ogive phénicienne du début du VIIIe s. à l’amphore à fond plat (type Py 1/2/Gras EMA) en milieu étrusque et étrusco-campanien en passant par les amphores ischitaines de type Buchner A et B

bien datées dans la nécropole à partir du troisième quart du VIIIe et au VIIe s., vraisemblables prototypes aussi des amphores phéniciennes occidentales (types Bartoloni B3, fin VIIIe-milieu VIIe s., et C1, deu-xième moitié VIIe-début VIe s.). Reste, en fonction de la date de transmission du modèle, la difficulté à distinguer, tout particulièrement pour Cumes, entre productions ischitaines et productions étrusques de Campanie sur la seule base de l’observation visuelle. Il faudra attendre des analyses archéométriques (programme en cours avec l’Université Federico II de Naples) pour en décider plus sûrement.

La seconde partie du volume est occupée par les catalogues d’inventaire des fragments retenus comme identifiables ou significatifs, 157 pour le terre-plein archaïque, 516 pour pour le terre-plein tardo-archaïque, éventuellement accompagnés de photos et illustrés, si nécessaire, par un profil dans les 28 planches regroupées à la fin du volume. Chaque notice est très détaillée (trop? d’où des répétitions), mais on ne s’en plaindra pas. En outre, quatre pages en couleurs présentent quelques fragments de céra-mique et de terres cuites architectoniques, et surtout des bords d’amphores qui paraissent plutôt superflus après les remarques de S. Savelli sur les difficultés à se fier aux observations de couleur.

On voit donc toute la richesse et l’ampleur de ce volume qui sert à la fois d’argumentaire pour la datation des deux états du rempart, présentés dans le volume I et de tableau analytique pour la connais-sance du faciès de consommation des productions céramiques à Cumes au VIe s. av. J.-C. Comme je l’ai déjà dit, je pense qu’un tableau récapitulatif aurait été le bienvenu de même qu’une synthèse sur l’évolution du faciès, même si les artisans de ce beau travail ont estimé que la base de données l’interdisait du fait de l’importance des remaniements et de l’insuffisance quantitative des échantillons.

Michel Bats, CNRS, UMR5140,Montpellier/Lattes

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Peinture et couleur dans le monde grec antique, Actes de Colloque, Musée du Louvre (10 et 27 mars 2004) sous la direction de S. Descamps-Lequime, Musée du Louvre, Paris 2007.

Il volume si compone di quattordici relazioni pre-sentate nell’omonimo convegno tenutosi nel 2004 al Museo del Louvre, e sottolinea già nel titolo il punto di vista privilegiato e specifico con il quale ci si è pro-posti di esaminare la pittura antica: il problema del colore. Partendo dall’ingente patrimonio pittorico recentemente recuperato nelle tombe principesche macedoni e dalla fortunata possibilità che esso offre di un esame autoptico e di un giudizio complessivo, tec-nico e stilistico, oltre che di un solido inquadramento cronologico, nel Colloquio si affronta l’esame di questi importantissimi documenti, per altro già ampiamente editi e commentati, attraverso un unificante filtro critico e concettuale: l’esperienza del colore di cui essi sono testimonianza, come conoscenza tecnica e insieme come fattore emozionale, capace di rivelare inaspettati saperi artigianali specifici -chimici e fisici- e insieme la consapevole funzionalizzazione di questi accorgimenti tecnici ad elementi espressivi.

Si tratta di un punto di vista che obbliga ad allargare lo sguardo dai documenti più strettamente pittorici a tutte le “superfici colorate”, architettoniche e sculto-ree, di marmo o di terracotta e permette di verificare l’importanza che il mondo antico accordava al colore, recuperando, almeno intellettualmente, l’esperienza di accesa policromia riservata nell’antichità all’occhio, policromia ora in gran parte perduta e documentabile solo attraverso macrofotografie, fotografie a luce ra-dente, a infrarossi e a inflorescenza di ultravioletti. (B. Bourgeois - Ph. Jockey, Le marbre, l’or et la couleur. Nouveaux regards sur la polychromie de la sculpture hellénistique de Délos, pp. 163-92; V. Jeammet - C. Knecht - S. Pagés Camagna, La couleur sur les terres cuites héllenistiques: les figurines de Tanagra et Myrina dans la collection du Musée du Louvre, pp. 193-204).

La colorazione artificiale investe in antico anche i pavimenti a mosaico, applicata sia agli interstizi tra le tessere, per eliminare la parcellizzazione del disegno e restituirne l’unità pittorica, sia sulle tessere stesse, per realizzare sfumature di colori di difficile reperibilità tra le pietre: tutto sempre funzionale ad una accen-tuazione di vivacità cromatica, quella stessa inseguita dalla pittura (A.M. Guimier-Sorbets, De la peinture à la mosaique: problème de couleurs et de techniques à l’époque héllenistique, pp. 205 -218).

Lo specifico sguardo complessivo alla policromia, proprio perché è stato possibile tecnicamente indivi-

duare le materie prime messe in opera, stabilendone le provenienze vegetali o minerali e le proprietà chimiche e fisiche, e recuperando in qualche modo persino il gesto tecnico che ha presieduto alla loro applicazione, ha evidenziato subito la omogeneità e l’interdipenden-za dei saperi tecnici, una vera koinè pittorica estesa a tutto ciò che col colore ha attinenza: componenti chi-miche dei pigmenti e dei leganti, mescola preventiva o sovrapposizione delle materie coloranti per captare effetti di luce, preparazione delle superfici.

Questo documentato incrocio di esperienze si rivela inoltre funzionale alla ricerca degli stessi effetti, negli affreschi, nelle figurine in terracotta, nel marmo e nel mosaico e si presta ad interessantissime e inedite osser-vazioni, pur lasciando irrisolto il dubbio se le diverse capacità si assommavano in uno stesso artigiano o se esistevano specializzazioni tecniche specifiche.

La individuazione e il recupero del trionfante co-lorismo delle superfici antiche, oggetto anche recen-temente di approfondite indagini (cfr. bibliografia nell’articolo di B. Bourgeois) non è una scoperta odierna: si pensi, per l’architettura, ai colorati “envois” del Grand Prix de Rome e, per la scultura, alle tracce di colore evidenti sui marmi della fossa dei Persiani sull’Acropoli, rinvenuti nel 1885-86; ciononostante è indubbio che la policromia del mondo antico continua a rimanere tuttora una esperienza astratta e prevalen-temente intellettuale, faticosamente recuperabile nel nostro immaginario educato da secoli al falsificante candore di statue e architetture: si tratta infatti di un dato che obbliga a rivoluzionare un secolare sistema di valori che sono alla base dei giudizi estetici sul mondo antico, soprattutto greco e che, evidenziando in questa produzione una inedita aspirazione al realismo, obbli-ga ad attribuire alla Grecia “una alterità che finora le abbiamo disconosciuto” (B. Bourgeois, p. 190).

È altrettanto evidente tuttavia che la accettazione di questa realtà è il solo modo per recuperare con-cretamente e nella sua interezza la “cultura visuale” degli antichi e comprenderne a fondo il rapporto con la realtà, dato che la cultura visiva si adegua alla conoscenza del reale e le immagini, oltre che forma del comunicare, sono anche una forma del conoscere.

Alla definizione di questa cultura visuale, piuttosto che ad una semplice illustrazione della pittura in sé, sembrano funzionalizzati positivamente i vari inter-venti del Colloquio, che affrontano il problema da diversificate angolazioni.

Le ricerche si giovano in maniera innovativa di una rilettura delle fonti filosofiche contemporanee, soprattutto delle riflessioni di Aristotele sulla perce-zione dei fenomeni sensibili. L’individuazione di una

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Gli esami dei pigmenti impiegati e le tecniche variate della loro applicazione rivelano conoscenze precise e ben assimilate delle proprietà fisiche dei materiali, dei loro comportamenti e della loro possibilità di interagire con altri materiali, tanto che alcuni fenomeni come la trasformazione in nero del rosso cinabro, presente nelle metope della Tomba dell’altalena da Cirene al Louvre, in Macedonia non è mai documentata e denuncia l’in-sufficiente livello tecnico dell’artigiano libico. L’uso di colori sovrapposti si rivela funzionale ad effetti estetici ricercati e consapevoli: il blu steso sul nero rende più morbido e quindi meno impenetrabile il colore di fondo; il blu sul grigio realizza quelle vibrazioni ottiche che rompono la bidimensionalità uniforme grazie alla differente tessitura dei due strati; la porpora, molto preziosa e costosa, può essere sostituita, con effetti simili, da lacche vegetali che per altro presentano una maggiore durabilità, altro accorgimento che il pittore antico dimostra di perseguire.

Al contrario è individuabile nelle pitture macedoni una notevole povertà nella stesura degli strati di pre-parazione: nelle architetture il colore veniva dato diret-tamente sulla pietra grigia; nelle pitture vere e proprie, non sono mai documentati i cinque strati che, molto più tardi, Vitruvio suggerirà come necessari per otte-nere un affresco durevole. Si aggiunga che la constatata presenza di polvere di marmo nell’impasto dell’ultimo strato di queste pitture denuncerebbe la assenza, nei documenti esaminati, della tecnica dell’affresco sosti-tuita anche nella pittura murale, dalla tecnica della tempera con sovradipinture a secco. Si tratta di una osservazione importante, anche se tuttora in discussio-ne, che confermerebbe tecnicamente l’ipotesi, già da tempo sostenuta nella letteratura archeologica, che la esperienza pittorica del mondo greco sia intimamente legata e dipendente dalla pittura di cavalletto

Tutti questi approfondimenti tecnici, oltre ad arric-chire le nostre conoscenze, forniscono utili protocolli di riferimento per identificare le stesse tecniche, quan-do si presentano in altri ambiti geografici, testimonian-za inoppugnabile di influenze e contatti culturali. Essi forniscono inoltre validi suggerimenti per intervenire correttamente nel restauro delle stesse opere.

Alla definizione della complessità della esperienza del colore nella antichità contribuiscono quindi la conoscenza dei fenomeni della visione, l’analisi del-le materie coloranti, e l’interesse per i testi antichi consacrati alla storia delle scienze e delle tecniche. La lettura incrociata di testi letterari, filosofici e tecnici si apre a significati nuovi e a più sottili consapevo-lezze nel confronto con i ritrovamenti archeologici, rivelando una ricchezza di conoscenze e una varietà

compresente varietà di tecniche in uso nelle pitture di recente rinvenimento è infatti la concreta spia di una conoscenza elaborata della percezione soggettiva dei colori, proprio nel senso sottolineato da Aristotele, il quale inoltre,cercando di rendere conto di questa percezione, ci descrive, rivelandoceli, i modi in cui operavano gli atelier di pittura che procedevano per “giustapposizione, sovrapposizione e melange”: sono appunto queste alcune delle tecniche operative che riscontriamo nei monumenti macedoni. (A. Rouveret, La couleur retrouvée. Découvertes de Macédoine et textes antiques, pp. 69-80).

All’interno di una discussione tra realtà e percezione della realtà si situano anche le soluzioni sperimentate nella pittura per suggerire la terza dimensione e l’in-serimento delle figure nello spazio (H. Brekoulaki, Suggestion de la troisième dimension et traitement de la perspective dans la peinture ancienne de la Macédoine, pp. 81-94).

Ponendosi paradossalmente nell’ottica delle fonti filosofiche contemporanee – Platone e Aristotele so-prattutto – con la loro insistenza sulla inesattezza delle rappresentazioni figurate, volutamente modificate e deformate in funzione di una illusoria e ingannevole evocazione della realtà, è possibile individuare e isolare queste “deformazioni” e inesattezze nelle pitture mace-doni; ma questo permette di cogliere concretamente il modo di procedere creativo e innovativo dell’artigiano antico che con l’uso dei colori ma anche di scorci audaci tende a raggiungere un effetto di volume o di spazialità pur senza applicare nessuna regola di prospettiva geometrica e senza mai abbandonare un policentrismo di natura empirica.

Le incongruità e il disaccordo di linee nella scena del ratto della Tomba di Persefone, ad Aigai, la negligenza dei dettagli e le approssimazioni del disegno che l’oc-chio moderno coglie sulla base di un altro codice di riferimento, non tolgono nulla alla forza espressiva che questi dipinti riescono a raggiungere; anzi la perdita di correttezza del particolare è compensata dalla ricercata espressione di movimento e ritmo dell’insieme o dalla forza espressiva capace di rendere la psicologia. Tutto si integra in un sistema particolare di rappresentazio-ne e percezione della realtà, in cui la linea e il colore rispondono a funzioni multiple.

Precisazioni altrettanto interessanti derivano dalle ricerche centrate specificamente sulla natura dei colori e sul modo di usarli (H. Brecoulaki, Splendeur ou durabilité. Peintures et couleurs sur les tombeaux macédoniens, pp. 95-120; A. Rouveret - Ph. Walter, Couleur et matières dans les peintures hellénistiques du Musée du Louvre, pp. 121-132).

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modo di stendere e usare il colore, promuovendo tutti questi espedienti tecnici a strumento significativo di selettive comunicazioni emozionali.

La composizione aperta e molto dinamica dello schema del “ratto” si giova di un uso energico e teso della linea, incisa con molti pentimenti nello strato umido e utilizzata come mezzo espressivo principale per creare volumi e spazi, per annullare il valore tetto-nico del fondo e restituire l’impressione dello scorcio. Coerentemente l’uso parco del colore accompagna e sottolinea l’esasperazione del movimento in funzione drammatica, perché la nuova iconografia, che da questo momento sarà anche prevalente, affida alla drammaticità del rapimento la rappresentazione della angoscia del distacco dalla vita.

Sullo schienale del trono di marmo della Tomba di Euridice invece, dove Hades e Persefone compaiono in uno schema iconograficamente tradizionale, immobili su di una quadriga, la linea di contorno non ha nessuna funzione creativa e determinante, anzi la composizione simmetrica, equilibrata e frontale della coppia che appare inquadrata nella divaricazione dei cavalli della quadriga, sembra l’esatto contrario dell’esasperato movimento presente nella pittura della Tomba di Persefone: evocazione divina e auspicio di benevola accoglienza agli inferi, essa ignora completamente lo strappo della morte. Nessuna differenza presentano al contrario le due pitture nella stesura dei colori ottenuti con la sovrapposizione di sfumature per modellare i volumi e per definire i dettagli.

Questa cosciente selezione dei motivi, la loro sa-piente impaginazione e il diverso inserimento spaziale sembrano rivelare la fondamentale consapevolezza che è la struttura formale più che la scelta tematica a qualificare il messaggio e insieme documenta una compresente ricchezza di linguaggi espressivi.

Altre più complesse soluzioni nella rappresentazione dello spazio figurativo sono visibili sul grande fregio di paesaggio, con cacce, dipinto al di sopra del fregio dorico della cd. Tomba di Filippo II a Verghina, solo di poco più recente delle precedenti (Ch. Saatsoglou-Paliadeli, La peinture de la Chasse de Vergina, pp. 47-56). La mancanza di schizzo preparatorio denuncia che la composizione è stata studiata nell’atelier e trasposta mediante cartoni sulla superficie umida, sulla quale tuttavia sono visibili solo i tratti incisi delle punte delle lance oltre ai contorni di qualche figura. Alcune osservazioni tecniche, come la mancata identificazione di “giornate” di lavoro e la evidente sovrapposizione di successivi strati di colore a secco, confermano che non siamo in presenza di un affresco, come già notato in tutti gli altri documenti macedoni. Completamente

di applicazioni che le fonti letterarie note, con le loro lacune, non avevano lasciato capire completamente, nella sottigliezza dei loro meccanismi. La letteratura artistica aveva coniato infatti termini adeguati a defi-nire alcuni accorgimenti tecnici, come fusione ottica, linea funzionale, gradazione e impasto dei colori, colori riflessi, cangiantismo (tonos, lumen, splendor, harmoghè, ecc.), parole che erano giunte fino a noi conservando la astrattezza di fenomeni senza riscontro concreto: con i nuovi trovamenti siamo ammessi a una visione diretta delle realtà sottese a queste definizioni; al reale salto di qualità nelle nostre conoscenze si aggiunge inoltre la consapevolezza che non siamo in presenza di fenomeni distesi nel tempo ma tutti compresenti in quel periodo di straordinaria fioritura culturale che è la seconda metà del IV sec. a.C.

Il ventaglio di pitture macedoni che costituisce la base documentaria di tutti i nuovi approfondimenti, è presentato, nelle relazioni sui singoli monumenti, con finezza di osservazioni e ricchezza di documentazione. Le pitture sono tutte pertinenti a monumenti funerari al più alto livello di committenza, e garantiscono che le più avanzate acquisizioni tecniche nella resa dello spazio, con l’aiuto del colore e della conoscenza degli effetti di luce, che troveranno il loro sviluppo fino all’età augustea, sono presenti nell’età di Alessandro Magno.

Nelle tombe di Mieza (K. Rhomiopoulou, Tombeaux macédoniens: l’exemple des sépultures à décor peint de Miéza, pp. 15-26) i contrasti cromatici sono funzio-nalizzati alla evidenza plastica degli elementi vegetali; il colore viola degli abiti nelle figure è un effetto cercato e raggiunto mediante la sovrapposizione del blu egi-ziano sul rosa; l’applicazione di un sottostrato grigio al bianco del fondo diminuisce consapevolmente il contrasto cromatico per realizzare in qualche modo uno sfumato effetto atmosferico.

Nella necropoli di Aigai due rappresentazioni dello stesso mito di Hades e Persefone (A. Kottaridi, L’épiphanie des dieux des Enfers dans la nécropole royale d’Aigai, pp. 27-46) sono realizzate con tali profonde differenze iconografiche e stilistiche da far dubitare della loro coerenza cronologica, se altri dati non la confermassero con certezza. Nella Tomba di Persefone, infatti,il mito è raffigurato nella inedita e drammatica iconografia del ratto mentre, sulla spalliera del trono di marmo rinvenuto nella Tomba di Euridice, nella stessa necropoli reale, esso è presente nella immobile iconografia della epifania delle divinità. La diversità dei due dipinti non si realizza solo nello schema iconogra-fico, ma anche e soprattutto nella tecnica esecutiva, nell’inserimento prospettico delle figure e persino nel

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assente inoltre è in questa pittura l’elemento dise-gnativo grafico, e il senso di profondità spaziale in cui le figure si muovono è ottenuto mediante un uso sapiente e funzionale della modulazione del colore e della dimensione variata delle figure: un espediente che suggerisce una realtà ambientale, più che un paesaggio, nella quale la rappresentazione vive e che unifica i diversi episodi.

In particolare questa pittura, con i suoi discussi riferimenti ad episodi reali e altamente simbolici, si distingue dalle raffigurazioni mitologiche inserendosi in un contesto storico con valenze dinastiche. Senza entrare nella discussione sulla identificazione dei personaggi raffigurati, tra i quali,come è noto, vi è Alessandro giovinetto, va comunque segnalata l’ipo-tesi qui espressa che, accomunando questo dipinto a quello che ha fornito il modello al celebre mosaico pompeiano della “Battaglia di Alessandro”, attribuisce entrambi ad Apelle o più precisamente ad Aristeides II, figlio di Nicomacho e autore, secondo le fonti, di una caccia e di una battaglia. Ambedue i dipinti sarebbero stati commissionati al pittore non da Cassandro ma da Alessandro III.

Il colore è ormai usato con assoluta padronanza delle sue infinite possibilità espressive nel fregio dipinto all’ esterno della straordinaria tomba rinvenuta ad H. Athanassios, ad ovest di Salonicco, datata all’ultimo quarto del IV sec. a.C. (M. Tsimbidou-Avloniti, Les peintures funéraires d’Hagios Athanassios, pp. 57-68). La policromia molto accesa investe anche gli elementi architettonici, palmette e acroteri, mentre nel fregio, inedita e innovativa narrazione di un simposio mace-done nella villa di un hetairos reale, la composizione centralizzata, con la convergenza di due gruppi di partecipanti verso il banchetto centrale, accentua la illusione di profondità spaziale che le diverse dimen-sioni delle figure sottolineano; inoltre fingendo che la cerimonia si svolga nel buio illuminato dalle fiaccole, si promuove il colore nero-blu del fondo su cui si staglia il corteo a realistica rappresentazione della notte.

Le novità che le pitture macedoni documentano per-mettono di riprendere in esame la produzione pittorica di età ellenistica di altri ambiti geografici per verificare, se esistono, le influenze tecniche o tematiche e il lavoro di citazioni e rimandi. La omogeneità delle conoscenze tecniche individua infatti aree di omogeneità culturale anche se la varietà delle scelte iconografiche documenta la autonoma capacità dei vari ambiti storici di funzio-nalizzare la tecnica a discorsi autonomi e originali.

Due importanti monumenti rispettivamente di ambito etrusco e magno greco sono oggetto di riesame nel Colloquio.

Il restauro a cui è stato recentemente sottoposto il sarcofago delle Amazzoni da Tarquinia ha chiarito le caratteristiche tecniche delle pitture eseguite sulle pareti di alabastro non gessoso. (A. Bottini, Le cycle pictural du “sarcophage des Amazones” de Tarquinia: un premier regard, pp. 133-148). I tre strati di pre-parazione di bianco di piombo, i colori mescolati delle figurazioni applicati mediante leganti organici, il colore astratto del fondo, nero sui lati brevi, rosa sui lati lunghi, risultato dalla fusione del rosso cinabro col bianco di piombo della preparazione, sono tutti dati che avvicinano tecnicamente questa opera alle produzioni pittoriche macedoni, rivelando un bagaglio di conoscenze tecniche comuni a tutto il bacino del Mediterraneo, frutto della rapida circolazione di saperi e conquiste tecniche tipica del mondo ellenistico.

È altrettanto evidente invece che l’iconografia del sarcofago, dipendente da un modello trasferito con uno schizzo inciso sulla preparazione e ripreso col pennello, nel ritmo dei gruppi di combattenti che si contrappongono e nella distribuzione dei soggetti della figurazione, è profondamente innovatrice rispetto a schemi di tradizione ellenica e nello stesso tempo fissa i nuovi schemi iconografici che saranno ripresi dal lin-guaggio figurativo occidentale (ipogeo Palmieri, cista di Vulci). Le decorazioni della panoplia, che trovano paralleli nelle armi rinvenute in Apulia, la anomala presenza delle quadrighe, la raffigurazione di una Amazzone seminuda, denunciano che la rielaborazione del tema è avvenuta in ambito tarantino o in un centro magno greco, sia pure con una interazione di elementi diversi. Si tratta, come sempre, di appropriazione attiva delle conquiste tecniche e di ridefinizione autonoma dell’universo di esperienze e di modelli che le figura-zioni evocano e alle quali fanno riferimento.

Uguale conoscenza tecnica ma profonda originalità di scelte decorative si trova nella straordinaria tomba dipinta di Napoli, nota dall’ottocento ma recuperata solo di recente a importante testimonianza dello specifico ellenismo napoletano (V. Valerio, Obser-vations sur le décor peint de la tombe C du complexe monumental des Cristallini, Naples, pp. 149-162). Coerente è la conoscenza approfondita dell’uso del colore funzionale anche al risalto plastico degli oggetti che si fingono appesi al muro e sui quali, come sulla patera aurea istoriata, si riesce a evocare, col solo uso dello sfumato, una decorazione à repoussé. Sulle pareti di tufo preventivamente ricoperte da successivi strati di spessore variabile di bianco (calcite e caolinite), le figurazioni sono state trasferite con l’aiuto di incisioni preparatorie, a “mezzo fresco” con la sovradipintura a secco dei particolari. Le articolazioni architettoniche

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sono evidenziate da colori contrastanti mentre un ine-dito fregio su fondo blu-nero, sottolinea, nella stanza superiore, l’incontro delle pareti con la copertura a doppio spiovente. Frutto di autonome scelte e senza confronti è la sequenza ripetuta dei moduli di cui si compone il fregio che alternano grifi retrospicienti affrontati a un fiore e testine variamente atteggiate, di faccia e di profilo, il tutto reso con rapide pennellate, direttamente, senza linea di contorno. Tipicamente magno greca è la valenza funeraria della testa di Me-dusa che qui appare in una inedita versione, come testa scolpita a rilievo e dipinta, inserita nella parete di fondo e con l’egida completata in pittura sulla stessa parete di fondo.

Il volume, arricchito da una splendida documen-tazione fotografica, si presenta come la più completa disanima delle problematiche della pittura antica, la più aggiornata, nella pluralità dei percorsi critici che scandiscono i molti aspetti di questa produzione, e ne rivelano l’aspetto di operazione concettuale oltre che oggetto di progressive conoscenze tecniche. Lo sguardo incrociato che questa raccolta di saggi tra loro strettamente connessi proietta sulla pittura antica non porta solo a stimolanti risultati conoscitivi, ma ci apre ad una conoscenza profonda e originale dell’atteggia-mento mentale del periodo preso in esame.

Ida Baldassarre

fa parte a pieno titolo di quel nutrito gruppo di residenze che esponenti dell’aristocrazia omayyade costruiscono ai margini fra steppa desertica e aree a maggior densità abitativa. Definite di volta in volta come “castelli del deserto” o come luoghi di svago e di ritiro per la classe dominante, esse ricoprivano con ogni probabilità un ruolo di controllo nello sfruttamento di vaste estensioni agricole, benefi-cianti di raffinati sistemi di irrigazione ereditati dalla grande proprietà terriera pre-islamica.

I siti maggiori, vale a dire i veri e propri “castelli”, come Qa r Kharana nella steppa giordana (circa 710 d.C.), Qa r al- ayr al-Sharqī a nord-est di Palmira, Qa r al- allābat a nord-est di ‘Amman e Qa r al- ayr al-Gharbī, sulla direttrice fra Da-masco e Palmira (gli ultimi tre esempi tutti datati entro la prima metà del sec. VIII), sono connotati da una dignità architettonica tale da aver portato Richard Ettinghausen e Oleg Grabar ad affermare senza mezzi termini come: «The Umayyad period is unusual in the Middle Ages for the astonishing wealth of its secular art, and especially architecture» e – relativamente alla dislocazione di tali complessi – che: «Most of what we know of Umayyad secular architecture come from this unique socio-economic setting and not from large cities of the empire» (The Art and Architecture of Islam 650-1250, New Haven-London 19942, p. 45).

Le risorse idriche e la loro efficiente irreggimen-tazione fecero sì che gli impianti termali assolves-sero una funzione sostanziale nell’ambito di tali insediamenti, funzione che trascende il semplice perseguimento del benessere per assumere conno-tati di rappresentanza e richiedere quindi adeguate dimensioni e apparato decorativo: il caso più spetta-colare – sempre nel secondo quarto dell’VIII secolo – è forse quello del bagno di Khirbat al-Mafjar, in attuale territorio israeliano, con la sua ricchissima decorazione musiva pavimentale di gusto geome-trizzante e i suoi stucchi parietali.

A Qu ayr ‘Amra è la decorazione parietale dipinta a caratterizzare fortemente gli ambienti di un or-ganismo dall’aspetto esterno altrimenti abbastanza modesto. Il repertorio iconografico di questo ciclo di pitture – il più esteso di epoca omayyade a essere giunto fino a oggi – è quanto mai vario e possiede con ogni evidenza più modelli di riferimento. An-tecedenti ellenistici sono infatti ben riconoscibili nelle personificazioni della Poesia e della Storia accompagnate da iscrizioni in greco o nelle scene marine; tratti più originali presiedono invece alla raffigurazione dello zodiaco nella cupola del calida-

C. Vibert-Guigue, Ghazi Bisheh, Les peintures de Qusayr ‘Amra. Un bain omeyyade dans la bâdiya jordanienne [Jordanian Archaeology, vol. I; Institut Français du Proche-Orient - Department of Anti-quities of Jordan], Beyrouth 2007, pp. I-IX; 1-226, tavv. 1-150; ISBN 978-2-35159-049-2.

Il palazzo-bagno di Qu ayr ‘Amra (secondo quar-to dell’VIII sec.), edificio fra i più significativi del periodo omayyade (661-750 d.C.), sorge nell’odier-no deserto giordano, 85 km. a est della capitale ‘Amman. Il complesso è costituito da tre organismi architettonici distinti realizzati in blocchi di calcare: una “sala di udienza”, un impianto termale (con tepidarium e calidarium) e un serbatoio.

Nonostante le dimensioni relativamente ridotte e la semplicità dell’articolazione, Qu ayr ‘Amra

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rium; una diretta influenza iranica si può scorgere poi alla base della scena dei sei sovrani nella navata ovest della “sala di udienza”. A queste caratteristi-che distintive di un’arte ancora in fase formativa si unisce il riflesso del gusto personale del commit-tente per la varietas: ed ecco avvicendarsi scene di caccia, di bagno, figure di lottatori, arcieri, atleti, acrobati, quadri di vita pastorale e di costruzione di edifici (molto probabilmente l’edificio che si vede innalzare è proprio la residenza di Qu ayr ‘Amra); il tutto è descritto con grande vivacità accompagnata da non poche ingenuità formali.

La derivazione delle iconografie e i tratti distintivi della committenza di Qu ayr ‘Amra sono stati da tempo al centro dell’attenzione dei numerosi studi dedicati al suo ciclo pittorico, fin dall’epoca della sua riscoperta (1898) per merito di Alois Musil. Diverso è il discorso riguardante la documentazione grafica che, a motivo del precario stato di conser-vazione delle superfici dipinte e della patina nera dovuta a più cause (agenti atmosferici, uso degli ambienti come rifugio per le popolazioni nomadi etc.), è rimasta fino agli anni ’70 del XX secolo più o meno esclusivamente basata sui disegni a colori che il pittore viennese Alphons L. Mielich eseguì nel 1901 in collaborazione con la missione Musil. I disegni di Mielich, eseguiti all’indomani di una ripulitura empirica delle pitture effettuata dall’equipe di Musil, rivestono a tutt’oggi notevole importanza quale testimonianza dello stato delle pitture all’inizio del ’900.

Negli anni 1971-74 una collaborazione fra Gior-dania e Spagna dette luogo a una prima campagna di restauro delle pitture, coordinata da Martín Almagro. L’intervento di risanamento fu accom-pagnato dall’applicazione di un fissativo e dalla ridipintura di alcune aree, la cui estensione, malau-guratamente, non venne documentata. Parte di tali riprese fu tuttavia eliminata nel 1996, nel corso di una seconda campagna di restauro, caratterizzata da minore invasività e coordinata da Antonio Almagro. Entrambe le missioni ebbero tuttavia il merito in-discutibile di produrre il rilievo architettonico del monumento e una documentazione fotografica a colori delle pitture.

È solo nel 1989, con un progetto ideato dall’Ins-titut Français du Proche-Orient in collaborazione con il Department of Antiquities of Jordan, che si giunge a eseguire un rilievo della decorazione in scala 1:1, volto a offrire una restituzione quanto più possibilmente “filologica” dello stato delle su-perfici. Accanto al rilievo, ultimato nel 2005, si è

proceduto ad analizzare le cause di deterioramento nonché a tentare di ricostruire lo spettro cromatico originario. A ciò si affianca la costruzione di un interessante repertorio dei graffiti presenti sulle pareti (finora inediti).

Il dossier in tal modo raccolto dà vita a un cor-poso album di documentazione grafica, con testo introduttivo ridotto al minimo indispensabile. Nella “Introduction” a firma di Gazi Bisheh (pp. 3-23; in francese, con trad. in inglese e in arabo) si ha tuttavia modo di tracciare il quadro storico del monumento e della committenza della sua decorazione. Segue una sezione curata da Claude Vibert-Guigue e intitolata “La documentation archéologique” (pp. 25-34): qui viene descritto il successivo avvicendarsi degli interventi conservativi dalla fine del XIX secolo a oggi con particolare attenzione ai metodi di restauro impiegati, per finire con l’illustrazione delle linee guida del progetto franco-giordano.

Il catalogo delle pitture (pp. 35-46) fornisce un elenco completo delle singole scene, suddivise per ambienti di pertinenza, a cominciare dalla sala delle udienze e dalla cosiddetta “alcova del trono”, per poi passare agli annessi est e ovest e alle terme vere e proprie (tepidarium e calidarium). Ciascuna voce del catalogo è corredata da una breve scheda identificativa e descrittiva. Il catalogo si chiude con una “note épigraphique et paléographique” (p. 46) relativa all’iscrizione dipinta sul muro meridionale dell’alcova del trono.

La sezione conclusiva del testo (pp. 47-50) contie-ne l’introduzione alle tavole, le convenzioni grafiche e le abbreviazioni delle referenze bibliografiche riportate nelle didascalie.

Il nucleo del volume è invece formato da 150 tavole – in bianco e nero e a colori – suddivise fra rilievi architettonici, apparato fotografico, rilievi dello stato attuale delle superfici dipinte e disegni ri-costruttivi del supposto aspetto originario del ciclo.

Nessun dubbio sussiste sul fondamentale appor-to del volume quale strumento di presentazione del monumento e della sua decorazione interna. Nondimeno si avverte ora la necessità – accanto a un album di siffatte proporzioni – di un apparato testuale di carattere scientifico che tenga conto e faccia il punto sulla nutrita bibliografia precedente e che possa presentare con maggiore agio di siste-matizzazione i dati scaturiti dal rilievo.

Alessandro Taddei Università di Roma “La Sapienza”

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RIASSUNTI

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Riassunti 244

P.-Ch. Malamud, Entendre et voir avec Jean-Pierre Vernant

This paper presents a few remarks on the way Jean-Pierre Vernant perceives and analyses the relation between seeing and hearing in Ancient Greece. As a contrast to Greece, where the im-portance of seeing is overwhelming, in Ancient India, speech as voice and sound is the way the Absolute manifests itself and although the poets are described as «seers», what they «see» is made of sound and speech as sound is the subject matter of systematic speculations, myths and explanations of the ritual.

D. Ridgway, Nicolas Coldstream e l'Italia This obituary essay notes the lasting contributon

made by Nicolas Coldstream (30 March 1927 – 21 March 2008) to the understanding of the pre-Classical Greek world. The archaeological record of Italy and Sicily played a crucial role in his two major works (Greek Geometric Pottery, 1968; 20082; Geometric Greece 900-700 B.C., 1977; 20032), and in many papers devoted to the material from individual sites. His œuvre is disin-guished throughout by an extraordinary capacity to extract history as well as chronology from the archaeological record – and nowhere more so than at Giorgio Buchner’s Pithekoussai, where he was a frequent and welcome visitor.

P.G. Guzzo, Tucidide e le isole, tra Fenici e GreciThe ancient sailor technology by Phoenicians and

Greeks used the islands, so frequent in the Mediter-ranean Sea, as landing-places during the navigation. Evidence of this use is found in the  literary sources as well  as in the place names. Among the last ones those with the suffix -oussa are studied, and it is made a list  of them. Moreover, the islands were used as safe places to have relations with mainland population, of which they didn’t trust. The analysis about this subject confutes what has been trans-mitted by Thucydides (6,2,6) about the previous presence in Sicily of  Phoenicians compared to the Greek  presence. The reconstruction made by the Historian has been compared with other passages of his own text, which suggest the interpretation here proposed.

M. D’acunto, Una statuetta fittile del Geometrico Antico da Ialysos

This paper deals with the clay female figurine which was found in the tomb 470 in the plot Platsa Daphniou at Ialysos (Rhodes). This figurine dates back as early as 900-875 BC. Its wheel-made body and the head with pronounced features may show influences from the Dark Age plastic productions of Cyprus and Crete. The function of this statuette and its identification are not clear. It is unlikely that the figurine was a doll. Some iconographic details, as the diadem, and its com-parison with other statuettes buried in the Dark Age tombs suggest two alternative interpretations: the statuette could represent a rank figure, as the mother, or otherwise a death goddess or demon, as Persephone / Kore.

PH. Zaphiropoulou, The tumulus necropolis at Tsikalario on Naxos

In the Cyclades archipelago of the Aegean Sea a most impressive tumulus necropolis of the Geomet-ric period has come into light on a rocky plateau of central Naxos.

At this site there is a complex of about twenty-five tumuli out of which seventeen were investigated. The tumuli, some as large as 9-12m in diameter, were made of a stone kerb (the stones were huge rock upright slabs) approximating to a perfect cir-cle; most of them had one or more cremation pyres inside but also some others had large and smaller rectangular cist graves. The offerings include coarse ware, painted vessels and many small objects. Also there was a kind of “road web” among the tumuli and a huge “menhir”, a rocky huge upright slab 3,20m high, erected at the main entrance of the cemetery as a marker of the grave area.

This cemetery was used during the MG period but it seems that it continued into the 6th century B.C., as a place of veneration of the ancestors who belonged to a feudal “aristocracy”.

X. Charalambidou, The pottery from the early Iron Age necropolis of Tsikalario on Naxos

Pottery from the imposing necropolis of Tsika-lario in central Naxos is the main focus of this study, which aims to offer new information about the nature of production and circulation of ceramics from workshops in inland Naxos compared with

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those from workshops in Chora (Naxos Town), the use of artifacts and the relationship between wheelmade and handmade pottery in funerary contexts, and the nature of contacts that this cem-etery’s users had with other regions of the Greek world. Comprehensive examination of the ceramic material gives an overview of the complexities of the evidence, contributing to the identification of various shapes and types of local material, an as-sessment of the degree to which it was influenced by production from other regions, and an estimate of the quantity of imported ware. Such findings will shed light on the identity of the people who built, buried, and made offerings at the funerary structures of Tsikalario.

M. Civitillo, Sulle presunte “iscrizioni” in lineare A e B da Itaca

In debating the still open question of Homer's Ithaca proper identification, the finding of any Linear A and/or B inscriptions would be of capi-tal importance in reconstructing the way and the extent the Island took part in the wider Aegean cultural landscape of the II millennium B.C.

The issue of findings with Linear A or B in-scriptions has been recently brought forth since a highly suspect ‘sign’ has been identified by L. Kontorli-Papadopoulou, Th. Papadopoulos and G. Owens on a ‘tablet’ discovered in the so-called water-logged ‘tholos tomb’ of Aghios Athanasios/School of Homer. The site is not far from Pelikata, where Paul Faure, in 1989, enthusiastically an-nounced the discovery (based on W.A. Heurtely’s excavations) of two ostaka inscribed in Linear A, which actually have shown to be unrecognizable as any of the second millennium writing systems we already know. Moreover, the examination of the recent ‘inscribed’ object from Aghios Athanasios has allowed to conclude that it should be expunged from the corpus of Minoan or Mycenaean inscrip-tions. As a result, these alleged ‘inscribed’ objects don’t seem to be able to advance the ongoing debate on Homer’s Ithaca proper identification.

J.K. Jacobsen - S. Handberg - G.P. Mittica, An early Euboean pottery workshop in the Sibaritide

Euboean presence in the 8th century B.C. in Italy is foremost recognized in Sicily, Campania and southern Etruria. Research on recently excavated

material from the sanctuary on the Timpone della Motta close to present day Francavilla Marittima, CS, however, shows that Euboeans were also well acquainted with the south Italian Ionian coast. Genuine Euboean imported ceramics and the recent identification of a local pottery workshop, which specialized in highly Euboeanizing vessels, provide the material evidence for a Greek presence in Francavilla Marittima before the middle of the 8th century B.C. This article outlines the archaeological evidence for possible Greek influence on indigenous religious rites on the Timpone della Motta during the 8th century B.C.

L. Cerchiai - M.L. Nava, Uno scarabeo del Lyre-Player Group da Monte Vetrano (Salerno)

The study aims to give a preliminary report on archaeological discoveries at the site of Monte Ve-trano, at the right bank of the Picentino River, near the main Villanovan settlement of Pontecagnano (Salerno).

It offers an outline of the topographical organiza-tion and material culture of the necropolis, dating between EIA2 (Pontecagnano Phase II B) and the beginning of Orientalizing period (second half of the 8th century B.C. - first years of the 7th).

A detailed analysis is also dedicated to a seal of the Lyre-Player Group, decorated with an exceptional scene of dance, comparable to the iconography of the Greek komos.

M.A. Rizzo, I sigilli del Gruppo del Suonatore di Lira in Etruria e nell'Agro Falisco

The very limited corpus of the Lyre-Player Group seals from Etruria and the Faliscan ager (5 pieces) gains one more specimen from the grave 345 of the Banditaccia necropolis in the area of Laghetto at Cerveteri and representing a lyre player in front of a big bird. The seal was found with a female burial which the objects of personal adornment and the vases date between the end of the third and the beginning of the last quarter of the 8th century.

We also reconsider the contexts of two seals from the same group, the grave 17/XXVI from Mon-tarano at Falerii (containing a seal with a double headed monstrous creature) and the trench from Castelvecchio at Vetulonia (containing the seal with a hawk and a winged solar disk). Both con-texts are dated between the end of the 8th and the

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beginning of the 7th century and belong to female burials of high status as it is revealed by the objects of personal adornment (belt, golden, electrum and bronze fibulae, jewellery, weaving tools).

The recurring presence in the contexts containing Lyre Player seals of several objects (repoussé gold leaf bullae, faïence scarabs and figurines, Vogelperlen, fibulae with birds) which are especially attested in some areas of the Eastern Mediterranean, particu-larly on Rhodes, seems to identify the island as the producing center of most of these types of objects and probably also their main carrier toward West.

Very interesting are also the other seals from the group coming from Etruria (figg. 37-39), with images representing articulated cult scenes or rare depictions of lions or fishermen. To them we can add two more examples from the antiquarian market (Figs. 40, 42), and a new specimen from Tarquinia (Fig. 41), whose belonging to the Group is, however, highly questionable on the base of their material, iconography and style.

R. Bonaudo, In rotta per l'Etruria: Aristonothos, l'artigiano e la metis di Ulisse

The study examines the status of the craftsman in Etruria during the Recent Orientalizanting, moving from the famous crater of Aristonothos, with the blinding of Polyphemus, an Homeric epic theme, associated at the same time to the signature of the vase-painter. The analysis of the iconographical scheme emphasizes the agriotes of the Cyclops world, especially related to his un-structured drinking wine behaviour, stating the context of the krater consumption and the cultural universe of the client. On this way, the study tries to examine the active role of the artisan for the creation of an imaginary shared with the client and expressed through the signing. The analysis of the name of the craftsman, which is not in the type of the nomina ex arte, establishes a paradigmatic relationship between Aristonothos and Odysseus, who wins Polyphemus as Outis, None, using a metis that doesn’t come from the blood but seems to be related to a specific knowledge and craftsman-ship. Far from the heroes of the Iliad, Odysseus appears as a different type of hero, connected with the metis, the sea, the trade, the craft, recalling the contradiction and ambiguity characteristic of

the mythical artisan Hephaestus. The connection seems emphasized on the Aristonothos krater by the presence under the handles of a crab, the animal which represents the double of the god, as shown by M. Detienne.

B. d’Agostino, Il valzer delle SireneIn 1989, reporting on an archaic sanctuary found

recently in Sani of Halkidiki, I. Vokotopoulou presented a sherd of a figured vase showing three winged beings with female head, torso and legs and bird body, holding each other by hands.

Moving from the famous protoattic amphora of Eleusis, She interpreted the figures as the Gorgons. Comparing this image with other archaic ones, the A. instead proposes to identify them with the Sirens. If this proposal may be shared, the image appears as the oldest document of an already known ‘Western’ tradition fixing in three the number of the Sirens, against the consolidated one, according to which the Sirens are always two.

F. Croissant, Le premier kouros parien

In his earlier research on the beginnings of Cycladic female statuary, the author points out that three Parian korai – the first known – were offered in the Delian Artemision at around 570 B.C. However, no Parian kouroi are known be-fore 550/540 B.C. This male statuary must have been created in the workshops of Paros to satisfy a new demand, after the Naxian sculptors retired from Delos. Doesn’t this type represent a direct descendant of the female type created in the 2nd quarter of the century? Published in 2004, an unfinished kouros torso discovered in Paros seems to support this theory. He shows the same structure recognised in Parian kouroi, excepting one unusual feature: the right arm is folded up and applied to the chest, similar but symmetrical to that seen on Parian korai, especially the korai from Cyrene. Comparing this unfinished kouros with the korai from Cyrene and the kouros which were discovered in the same place shows their similar structure and indicates that they were made at around the same time. Thus, the Parian torso must be interpreted as one of the earliest attempts, quite isolated, to adapt the female type to a new male figure.

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L. Chazalon - J. Wilgaux, Violences et transgressions dans le mythe de Térée

Only few Attic vases certainly display the myth of Tereus and its variants, but these images, dating from the first half of the fifth century B.C., focus exclusively on crimes committed by the female protagonists and stigmatize in no way the character of Tereus.

Actually, his role in the sequence of the crime is increasingly highlighted by literary sources from the second half of the fifth century (the Sophocles tragedy delivers what becames the canonical ver-sion of the myth), and the declaration against the rape committed by Tereus becomes more and more virulent. Setting upon the rape of the wife’s sister a symbolic value comparing with the murder of relatives (murder of Itys) and with the anthropophagy, literary sources reveal its trans-gressive nature, equating it to an incest, in this way testifying the changing of the attitudes and of the social norms.

A. Lupia - A. Carannante - M. Della Vecchia, Il muro di Aristodemo e la cavalleria arcaica

The renewal of Kyme project provided an op-portunity to explore a new area, about 160 m in the west of Porta Mediana, used recently as illegal racetrack, discovering a new tract of the northern city walls.

The excavation, confirming the builiding history already known, brought to light a new and oldest phase of the fortifications, few remains of which have been recognized at Porta Mediana too. In the second half of the fourth century B.C. rectangular towers were added to the late-archaic wall. The

latest strenghtening of the city wall dates from the Hellenistic age.

A stratigraphical test inside the Hellenistic walls exposed a layered deposit with a large amount of archaeozoologycal finds. The set of sample fauna, in primary (late sixth-early fifth century B.C.) and secondary (from classical to III B.C.) deposition, consists mainly of the remains of Equus caballus (about 68% of the total, with five individuals at least) and Canis familiaris with sporadic presence of cattle, swine and caprovines. The remains of horses have no trace produced by slaughtering process, but slash wounds from downward sabre cuts, strokes with point, and piercing by arrows on different anatomical parts.

The data, refering to a fight occurred at the end of the sixth century, recall the scenery of the Battle of Cuma dating to the 524 B.C., as described by Dionysius of Halicarnassus, concluding the debate about the cavalry in Italy during the Archaic period.

G.L. Grassigli, La voce, il corpo. Cercando EcoEcho’s silence is reflected in the silence of the

archaeological literature about Echo. Does it ex-ist an Echo’s point of view in her meeting with Narcissus?

This paper deals with Echo’s attitude and behav-iour in the relationship with Narcissus’ acts and presence. Underlining her behavioural strategy, knowingly swaying between female and male pat-terns, it is pointed out the central role of her beau-tiful and female body. Concealing and unveiling her body, Echo builds up her identity, but, at the end, she can exist only by the denial of her body. Moreover, is Echo a metaphor of our words?

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Finito di stampare nel mese di dicembre 2009dalle Edizioni Luì

Via G. Galilei, 38 - Chiusi (Siena)nello stabilimento Friulstampa, Majano

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