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Bruno Moretti

Ai margini del dialetto. Varietà in sviluppo e varietà in via di riduzione in

una situazione di 'inizio di decadimento'

Osservatorio Linguistico della Svizzera Italiana Bellinzona

1999

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Il presente testo è stato accettato nel semestre invernale 1997-1998 dalla Facoltà di

Lettere dell'Università di Berna come lavoro di abilitazione

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Indice Introduzione............................................................................................................ 1 1. Il calo della dialettofonia e le varietà marginali ................................................... 10

1.1. Il dialetto come varietà ‘in via di decadimento’ ...................................... 10 1.2. Le varietà dei parlanti evanescenti........................................................ 24

1.2.1. Parlare dialetto: tra competenza e identità .............................. 25 1.2.2. Il ruolo dell'italiano ................................................................... 26 1.2.3. Fenomeni di asimmetria .......................................................... 29 1.2.4. La 'morfologia interlinguistica' e la costruzione lessicale nel dialetto lingua seconda ................................................................ 36 1.2.5. Il ruolo del francese come lingua d'appoggio........................... 48

1.3. Il riassestamento della diglossia............................................................ 51 2. Aspetti quantitativi della situazione ticinese da ieri a oggi .................................. 56 3. Varietà di non nativi........................................................................................... 82

3.1. Osservazioni relative alla metodologia d'indagine................................. 83 3.2. I parlanti evanescenti ............................................................................ 87

3.2.1. Quali sono i parlanti nativi che la lingua sta perdendo............. 87 3.2.2. Riattivare la competenza nel discorso ..................................... 93 3.2.3. I tre sottogruppi di parlanti evanescenti ................................... 95 3.2.5. Caratteristiche morfosintattiche delle varietà dei PE................ 99

3.2.5.1.L'uso dei pronomi clitici soggetto ................................ 99 3.2.5.2. Il caso di a .................................................................. 126 3.2.5.3. Le forme dei clitici soggetto........................................ 153 3.2.5.4. La terza persona plurale: clitici vs. marche sul verbo....................................................................................... 162 3.2.5.5. Il caso di ga obliquo nei PE........................................ 163 3.2.5.6. Morfologia verbale...................................................... 165 3.2.5.7. Morfologia nominale................................................... 175 3.2.5.8. La negazione.............................................................. 188 3.2.5.9. Le preposizioni di e da ............................................... 191 3.2.5.10. La costruzione della frase relativa............................ 193

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3.2.6. Tra lessico e fonologia: alla ricerca dei modi di dirlo in dialetto............................................................................................... 199

3.2.6.1. I PE1 .......................................................................... 200 3.2.6.2. I PE2 .......................................................................... 217 3.2.6.3. I PE3 .......................................................................... 221 3.2.6.4. Conclusione sulle principali corrispondenze fonologiche tra italiano e dialetto............................................. 236

3.3. Gli 'ex-PE'.............................................................................................. 239 3.4. I non italofoni......................................................................................... 246

3.4.1. Non italofoni competenti .......................................................... 246 3.4.2. Non italofoni con uso solo passivo del dialetto ........................ 249

3.4.2.1. Elementi lessicali e regole produttive ......................... 255 3.4.2.2. Morfosintassi .............................................................. 262 3.4.2.3. La comprensione........................................................ 265

3.5. Le 'interlingue improbabili' ..................................................................... 267 3.6. I bambini parlanti evanescenti............................................................... 274

3.6.1. Il polo vicino al dialetto: i codici 'totalmente separati' e le zone di transizione............................................................................. 274 3.6.2. Il polo dell'italiano: la ricerca di segnali di dialettalità ............... 281

4. Il dialetto come lingua materna.......................................................................... 287 4.1. Il dialetto rivolto ai bambini nativi........................................................... 287 4.2. La spiegazione del fenomeno ............................................................... 296

4.2.1. Il baby talk ............................................................................... 296 4.2.2. Gli antedecenti chiarificativi ..................................................... 300

4.2.2.1.Il ruolo dei diminutivi.................................................... 305 4.2.2.2. L'italiano nelle narrazioni dialettali.............................. 311

4.2.3. Antecedenti espressivi............................................................. 317 4.2.3.1. L'espressività dell'italiano e dello 'pseudo-italiano' .................................................................................... 317 4.2.3.2. Gli eufemismi ............................................................. 320

4.2.4. Il ruolo delle aspettative riguardo al comportamento dei bambini .............................................................................................. 324

4.2.4.1. L'italiano come lingua dei giochi................................. 327 4.2.5. Il BT come varietà periferica .................................................... 328 4.2.6. I paralleli .................................................................................. 330

4.2.6.1. L'universalità del BT................................................... 330

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4.2.6.2. L'universalità dei tratti del BT ..................................... 335 4.2.6.3. BT mistilingui in altre società...................................... 337

4.2.7. La 'facilità' della commutazione di codice nelle famiglie bilingui ............................................................................................... 338

4.3. Gli sviluppi del fenomeno ...................................................................... 343 4.3.1. I mutamenti intervenuti nei comportamenti degli adulti ............ 343 4.3.2. Le conseguenze sulle varietà dialettali dei bambini ................. 349 4.3.3. Un tratto innovativo autonomo nelle varietà dialettali dei bambini nativi..................................................................................... 356

5. Conclusioni. Mutamenti, relazioni tra sistemi, apprendimento e variazione ............................................................................................................... 360

5.1. Le varietà usate con i bambini............................................................... 361 5.2. I parlanti evanescenti ............................................................................ 365 5.3. Le altre varietà ...................................................................................... 366

BIBLIOGRAFIA....................................................................................................... 369

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Introduzione Al di là della cosiddetta 'crisi della dialettologia', i dialetti italiani continuano a costituire una miniera di fatti linguistici ben lungi dall'essere esaurita da parte della ricerca. Ma anche se un giorno la descrizione dovesse aver raggiunto valori soddisfacenti rimarrebbero comunque aperte nuove vie e prospettive per la dialettologia italiana, secondo il percorso che ha già caratterizzato tipicamente lo studio delle lingue standard: dai fatti centrali più appariscenti, ai fatti più marginali, meno importanti statisticamente ma senz'altro altrettanto importanti nel mostrare le 'frontiere del possibile' nei fatti linguistici. Persino una eventuale 'morte' dei dialetti', con l'impossibilità di raccogliere dati su varietà complete di nativi, aprirebbe al dialettologo la possibilità di entrare nel campo altamente significativo dello studio del decadimento e della morte di lingue. O, sul lato più sociolinguistico (ma le implicazioni linguistiche strette non sono da sottovalutare), occorrerebbe parlare degli aspetti 'macrolinguistici' dei dialetti e del loro eventuale contributo ad una teoria della diglossia e delle cosiddette varietà Low1. Questo lavoro vuole in parte anticipare questi scenari e si occupa quindi di fenomeni marginali, trasponendo metodi e interessi di studio tipici della linguistica delle lingue standard al dialetto. In ciò ci sostiene la fiducia che il postulato dell'equivalenza di tutte le lingue, del quale la linguistica si è fatta una bandiera

1 Nel concetto fergusoniano di diglossia (che vuole cogliere situazioni particolari di compresenza di due varietà di lingua utilizzate in modo complementare) si distingue tra varietà 'alte' (High) e varietà 'basse' (Low). La situazione che qui osserviamo non coincide con quella tipica considerata da Ferguson (1959) ma sulla base dell'allargamento che è stato fatto del concetto originale potremmo comunque distinguere tra un ruolo 'alto' dell'italiano e un ruolo 'basso' del dialetto. Nella situazione italiana attuale una definizione del 'dialetto' non può prescindere da una considerazione globale del repertorio, sia per quanto riguarda gli aspetti di relazioni strutturali che per quanto riguarda gli aspetti di 'coscienza' dei parlanti. Grassi, nel suo tentativo di individuare i fondamenti di una teoria del dialetto arriva alla conclusione che: "... nell'applicare un qualsivoglia metodo descrittivo alla realtà fenomenologica sottoposta ad esame, il dialettologo non deve mai dimenticare che, al di là delle scelte dei tipi di testo e al di là dei comportamenti pragmatici del parlante, restano da cogliere le ragioni del suo aderire alla tradizione o del suo distinguersi da essa, ragioni che coincidono con la concezione stessa che egli ha del suo dialetto." (1995, 24).

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(manifestando però essa stessa interessi differenti per 'tipi di lingue' differenti), debba essere applicato agli studi linguistici stessi e che quindi il metodo con il quale si indagano le lingue standard debba essere esteso anche ai dialetti. L'allargamento della varietà degli oggetti studiati non può che essere uno degli scopi fondamentali di una ricerca seria sui fatti linguistici. La prospettiva che adotteremo sarà quella di osservare i fenomeni attualmente in corso in Ticino attraverso le 'varietà marginali', cioè attraverso quelle varietà che non coincidono con l'uso prototipico di una lingua da parte di parlanti nativi con altri parlanti nativi in situazioni di comunicazione informale faccia a faccia. Proprio la specificità di queste varietà, infatti, permette di evidenziare aspetti interessanti in quanto rivelatori di tendenze e di potenziali risiedenti, ma non sempre attivati, nei sistemi linguistici e nei sistemi culturali degli utenti. La ricerca che presentiamo è iniziata sulla base dello stimolo fornito dall'osservazione di un comportamento linguistico particolare nei genitori dialettofoni con i propri figli. Si è infatti notato che genitori e altri adulti che si dichiarano decisi a trasmettere ai bambini il dialetto come lingua materna, si rivolgono a questi ultimi inserendo nel normale discorso dialettale parole in italiano (senza accorgersene ed in contrasto con le loro intenzioni dichiarate). A partire da questo fatto si è estesa l'indagine ad altre varietà marginali di dialetto, come sono tipicamente le varietà dei bambini e le varietà di apprendimento del dialetto da parte degli stranieri. A queste varietà, col procedere dell'indagine, si è aggiunta (fino a prendere quasi il sopravvento sul resto dell'indagine) anche l'osservazione del tipo di dialetto, normalmente solo potenziale o passivo, che potrebbero usare quelle persone che pur capendo questa lingua e pur essendo vissuti per anni a contatto con essa non ne fanno normalmente uso potendo e preferendo esprimersi in italiano. Le tematiche generali che vengono toccate sono quindi essenzialmente quelle della convivenza nella stessa società (e, in gradi differenti, negli stessi parlanti) di italiano e dialetto, e delle ovvie conseguenze conseguenze di ciò in termini di distribuzione ed equilibri funzionali delle lingue. Data l'attuale situazione linguistica in Ticino, con una tendenza al regresso del dialetto, questo nostro lavoro va a confluire nel grande filone di ricerche sul mutamento, la sostituzione e la scomparsa di lingue. Esso deve essere considerato come un contributo a questa tematica, elaborato alla luce peculiare del rapporto lingua-dialetto e incentrato principalmente sul problema della trasmissione generazionale della lingua e della competenza di quelli che un tempo sarebbero stati, per volontà o, soprattutto, per

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necessità, parlanti nativi dialettofoni, ma che al giorno d'oggi si sono indirizzati esclusivamente verso l'italofonia (è in questo senso che possiamo parlare di una situazione di 'inizio di decadimento', con il dialetto che sta perdendo potenziali parlanti nativi). In breve, questo lavoro, iniziato come uno studio su un fenomeno di mutamento in un registro della lingua (la varietà rivolta ai bambini), si è allargato ad altre varietà interessanti anche da un punto di vista 'diagnostico'. Osservato nelle varietà qui considerate, il mutamento di rapporti tra i codici in gioco, ha infatti a sua volta alcune importanti conseguenze sia sulla realtà sociolinguistica ticinese che sulle strutture dialettali stesse. Innanzitutto, come abbiamo già visto, i bambini si trovano di fronte nella famiglia (anche dialettofona) ad un parte importante di input misto, a differenza di quanto avveniva ancora pochi anni fa quando l'italiano appariva, nei primi anni della socializzazione, in posizioni relativamente marginali. Questo mutamento modifica ovviamente il rapporto che i piccoli apprendenti stessi hanno con l'italiano. Per quanto riguarda i non nativi, essi si trovano di fronte ad un crollo della chiara preferenza, esistente in precedenza, per il dialetto, e la loro preferenza per l'italiano, sostenuta in molti dall'apprendimento guidato e dal prestigio di questa lingua, viene assecondata dal comportamento degli indigeni nelle loro interazioni con gli stranieri. Il dialetto come lingua seconda, o come componente spesso importante dell'italiano lingua seconda in Ticino, perde notevolmente di preminenza e passa a lingua per nativi o per immigrati particolarmente motivati all'integrazione (in luoghi non urbani e con alta densità relativa di nativi). E' in questo senso che le varietà che qui vengono esaminate costituiscono contemporaneamente dei fenomeni linguistici in espansione (nell'ampliamento delle competenze individuali) e dei fenomeni di riduzione (nella perdita sociale di usi, strutture e parlanti da parte del dialetto). La parte centrale di questo lavoro si concentra su un 'fenomeno che non esiste': il dialetto parlato dalle persone che (di solito) non parlano dialetto (che denomineremo 'parlanti evanescenti'). Ci sono due buoni motivi per occuparsi dei 'parlanti che non parlano'. Il primo di essi riguarda la ricaduta sulla situazione reale della competenza di queste persone. Esse infatti sono presenti nelle reti comunicative e, grazie alla loro competenza passiva del dialetto, possono permettere l'uso di questo codice anche in presenza di persone che lo capiscono solamente ma non lo parlano. In ultima analisi il dialetto può così essere rinforzato o mantenuto nei suoi domini attraverso la presenza di queste persone. Inoltre il

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dialetto dei parlanti evanescenti può essere utile per inquadrare meglio le varietà dei nativi che fanno da input e le eventuali 'zone deboli' di queste varietà. Il secondo motivo riguarda l'essenza stessa degli studi linguistici. E' indubbiamente molto importante nel campo dialettologico recuperare il più possibile delle varietà dialettali del passato, perché esse ci danno informazioni importanti su altre strutture, su fenomeni che a prima vista magari non crederemmo possibili, e ci danno informazioni anche sulle varietà odierne che ne sono derivate storicamente. Ma è, a nostro parere, altrettanto importante raccogliere tutte le manifestazioni del 'possibile linguistico', perché anch'esse ci danno l'ampiezza del potenziale delle strutture linguistiche, nel rispetto del principio che 'il parlante non gioca a dadi' e quindi ben poco dei suoi prodotti è casuale nell'ottica del potenziale di riferimento2. In questo modo l'interesse della linguistica viene spostato dall'attuale al potenziale, definendo come oggetto di studio non ciò che effettivamente si ritrova nel comportamento quotidiano dei parlanti prototipici ma ciò che il sistema linguistico (inteso appunto come un insieme di possibilità) può produrre nel suo rapporto con gli utenti. La necessità di questo allargamento è prima di tutto motivata dal fatto che i prodotti attuali del sistema potrebbero essi stessi essere limitati in modo accidentale, precludendoci quindi la possibilità di osservare fenomeni disponibili in potenza nel sistema, ma che non si sono prodotti nel corso della storia osservabile3. Uno degli obiettivi più interessanti che la linguistica si può perciò

2 E spesso possono anche esserci interessanti intrecci e incontri tra fenomeni storici e fenomeni di ricreazione individuale (senza ovviamente presupporre una simmetria completa tra questi processi). Anche i fenomeni legati al contatto, e quindi non primariamente motivati del sistema obiettivo, devono sottostare in gradi più o meno forti alle restrizioni di quest’ultimo e quindi ci danno informazione sul potenziale del sistema.

3 In modo simile, Bernard Comrie (1981, 50) definisce il concetto di ‘tendenze universali’ (un sottotipo particolare di ‘universali linguistici’ che conoscono eccezioni, cioè che a rigori non sarebbero veri e propri universali) come: "deviazioni statisticamente significative da modelli di distribuzione casuale". Una estensione ‘ambiziosa’ di questa definizione implica che un universale, affinché venga riconosciuto come tale, deve andare oltre la soddisfazione della condizione della presenza in tutte le lingue note, sia perché il tratto in questione potrebbe essere assente in lingue non note, sia perché questa presenza categorica potrebbe essere accidentale. Le costanti più interessanti sarebbero allora non solo quelle significative da un punto statistico ma quelle significative da un punto di vista del rapporto tra i sistemi linguistici e la facoltà umana del linguaggio.

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proporre è quello di arrivare a capire che cosa è possibile e che cosa non è possibile nei fatti linguistici. Non mi sarebbe stato possibile affrontare questi argomenti se non avessi avuto a disposizione anni di lavoro di dialettologi e linguisti (ticinesi e non) che nelle loro pubblicazioni hanno descritto e analizzato puntualmente i fenomeni che qui ci interessano. Mai come in questo caso mi è stato chiaro il concetto di 'opere di riferimento' e perciò a queste persone va tutta la mia gratitudine. L'altro mio grande debito è con coloro che hanno accettato di essere intervistati o di 'diventare parte del mio materiale', e che perciò qui ringrazio. Il mio lavoro è inoltre stato possibile grazie ad una borsa di studio biennale al 50% accordatami, attraverso la sua Commissione Culturale, dalla Divisione della Cultura del Canton Ticino. Alcuni amici hanno fatto sì che il presente lavoro non si 'riducesse' nel corso di quello che avrebbe dovuto essere il suo 'sviluppo'. Per motivi anche molto differenti tra loro ringrazio Gaetano Berruto, Pier Giorgio Conti, Andrea Müller, Walter Breitenmoser, e Chiara Antonini. Nei momenti di difficoltà Dario Petrini mi è stato di notevole aiuto, sia con la sua competenza dialettologica che con la sua amicizia. I professori Ricarda Liver e Rudolf Engler del Seminario di romanistica dell'università di Berna mi hanno accolto molto gentilmente come abilitando presso la loro università, ed il professor Engler si è generosamente messo a disposizione come relatore principale della mia tesi. La mia testardaggine ed i miei limiti hanno impedito a questi amici di rendere migliore il presente lavoro.

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Presentazione dei materiali impiegati I materiali su cui si basa questo lavoro sono stati raccolti o tramite l'osservazione partecipante o tramite interviste mirate nelle quali venivano sottoposti diversi compiti ai soggetti. La prima metodologia è stata utilizzata soprattutto nell'osservazione delle interazioni tra genitori e bambini dialettofoni, per definire sia il comportamento dei primi con i secondi, che le varietà dei secondi in generale. Il tipo di comportamento qui osservato ci sembrava intuitivamente difficilmente rilevabile in situazioni di autovalutazione e richieste dirette. In verità invece i soggetti hanno manifestato gli stessi comportamenti anche in una serie di rilevamenti 'artificiali' mediante elicitazioni esplicite. Ciò mostra la 'solidità' dei comportamenti osservati. Il metodo dell'intervista è stato invece utilizzato piuttosto nello studio delle varietà di non nativi. Una prima parte dell'intervista era costituita da una conversazione, quanto più possibile in dialetto, sulla biografia linguistica dei soggetti o su altre esperienze pertinenti con essa (come per es. sugli atteggiamenti generali verso i ticinesi, gli italiani, verso il dialetto, ecc.). Alle persone veniva detto che si trattava di una ricerca su come avessero imparato il dialetto, su che rapporti avessero con esso, ecc. (mettendo cioè in primo piano il lato sociolinguistico in modo di togliere un po' di attenzione dal lato più linguistico). La seconda parte era invece costituita da una narrazione elicitata mediante vignette4 e la terza parte era formata da una serie di frasi di elicitazione in italiano che gli intervistati dovevano tradurre. L'impiegabilità di questo tipo di metodologia con parlanti come i nostri viene discussa nel paragrafo 3.1. In totale abbiamo considerato un campione di 150 parlanti localizzati geograficamente soprattutto nel Bellinzonese (soprattutto zona urbana) e nella corona urbana luganese (la zona più rappresentata è quella della Capriasca). Queste due zone ci sono sembrate particolarmente significative sia per la diffusione

4 Ci siamo serviti delle vignette usate da Bamberg (1987), che permettono di elicitare una narrazione abbastanza lunga. Le frasi da tradurre riproducevano invece in buona parte quelle utilizzate da Berruto (1993a) nella sua indagine sul foreigner talk italiano nella Svizzera tedesca. La decisione di usare queste stesse frasi è stata motivata all'inizio dall'intento di comparare il foreigner talk dialettale con quello italiano, e dalla volontà di poter confrontare direttamente i fenomeni di lingua seconda con quelli di foreigner talk. Dato l'interesse dei dati emersi, la metodologia è stata estesa a quasi tutti i parlanti intervistati, allargando il numero delle frasi di elicitazione in modo da poter osservare fenomeni più particolari del dialetto.

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in esse ancora forte della dialettalità (rispetto per es. a Lugano città), sia per la relativa densità demografica (rispetto per es. a villaggi di valle). Il materiale complessivo è costituito da circa 70 ore di registrazioni spontanee (cioè senza consapevolezza da parte dei soggetti di essere osservati) e da 145 interviste con bambini e adulti, ticinesi e non. A ciò si aggiungono l'esperienza personale dell'autore come membro della comunità osservata. In particolare i materiali di intervista si suddividono nel seguente modo. La base delle nostre osservazione riguardo a quelli che definiamo 'parlanti evanescenti' sono 42 interviste a vari livelli di competenza. I non italofoni (anch'essi suddivisi sui vari livelli) sono 24. I bambini non dialettofoni intervistati sono 34, i dialettofoni 25. Venti adulti nativi si sono messi a disposizione per l'osservazione esplicita dei tratti del foreigner talk e del baby talk, e per altri fenomeni dialettali. I materiali spontanei sono costituiti da 30 ore di interazione di adulti con bambini e da 40 ore di interazioni di bambini con adulti o con altri bambini.

Le frasi di elicitazione

1. Andrò a fare un viaggio

2. A Natale sono stato a casa

3. Quando eravate ragazzi, giocavate a calcio?

4. Se metti due franchi nella macchinetta, esce un pacchetto di sigarette.

5. Se non piovesse, andrei a fare una passeggiata.

6. Lei è tua sorella?

7. In questo scompartimento non si può fumare.

8. Vieni con me!

9. Non glielo ho dato.

10. Me ne ha parlato ieri.

11. Queste arance sono buonissime. Ne vuoi una?

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12. La casa di Giovanni, nella quale abbiamo passato il fine settimana, è più grande

della nostra.

13. Cosa stai facendo?

14. Le dispiacerebbe spostarsi?

15. Mi ha detto al telefono che l'aveva vista.

16. Apri la porta e accendi la luce!

17. C'è molta gente che ha paura dei gatti neri.

18. Non ho visto l'uomo di cui stai parlando.

19. Deve aver piovuto molto, perché le strade sono ancora piene di pozzanghere.

20. Bisogna premere il pulsante di sinistra e non quello di destra.

21. E' stato il postino a portarmele.

22. Ci hanno dato una mela.

23. Adesso viene.

24. Giovanni viene.

25. Ho visto lui.

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1.Il calo della dialettofonia e le varietà marginali

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1. Il calo della dialettofonia e le varietà marginali

1.1. Il dialetto come varietà ‘in via di decadimento’ Da anni si parla della morte dei dialetti ma sempre più ci si accorge che i dialetti sembrano duri a morire. Negli ultimi tempi anche i linguisti sono diventati più prudenti su questo argomento. Berruto (1994, 24-25) conclude una rassegna relativa a questo cambiamento di mentalità con l'affermazione che: "Tutto sommato, la questione della futura morte dei dialetti è, almeno nelle opinioni dei linguisti, ancora aperta e controversa". Anche Radtke (1995, 44) esaminando la discendenza dell'idea della scomparsa dei dialetti dalla assunzione nella linguistica dei concetti della biologia arriva alla conclusione che "... rimane un unico difetto: quello della sopravvivenza dei dialetti fino ad oggi, il che conferma l'errore nel pronosticare il futuro dei dialetti." Il processo in cui sono inseriti i dialetti è un processo lento e continuo, che si muove al confine tra il semplice mutamento linguistico ed il decadimento e la scomparsa di lingua. All'interno di questo processo, proprio per la continuità che lo caratterizza, diventa molto difficile cogliere momenti particolari, e si rivelano perciò particolarmente significative le accelerazioni che si possono verificare nel mutamento5. Da un punto di vista demografico, anche nel Canton Ticino, come in genere nel resto dell'italofonia, la dialettofonia ha subito negli ultimi decenni un calo. Il mutamento della società, l'industrializzazione, la più alta scolarizzazione, ecc.6,

5 Secondo Dressler (1988) la velocità del processo è una delle caratteristiche, o forse l'unica caratteristica fondamentale, che distingue tra il processo che porta alla morte di lingue ed il semplice mutamento linguistico.

6 Giustamente Dressler (1988) segnala l'impossibilità di trovare una causa unica per i fenomeni di decadimento linguistico, dato che le cause sono sempre in interazioni complesse tra loro.

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hanno contribuito alla diffusione dell'italiano a scapito del dialetto7. Ma mentre studi svolti nei decenni scorsi dimostravano come la Svizzera italiana rimanesse una delle zone a più alta dialettofonia, la situazione attuale si presenta in modo molto differente proprio per una flessione molto forte del dialetto in un tempo molto breve. Negli ultimi anni8 sono stati eseguiti due rilevamenti quantitativi su larga scala di notevole interesse per la comprensione e descrizione della situazione linguistica ticinese. Si tratta del censimento federale 1990 (i cui dati relativi al Ticino e più in generale all'italiano in Svizzera, sono discussi in Bianconi 1995) e del censimento della popolazione scolastica 1993 (analizzato in Bianconi 1994). Per definire le dimensioni del mutamento avvenuto negli ultimi anni basta far riferimento ad un dato centrale emerso dal censimento scolastico che segnala come nel censimento del 1978 gli allievi che dichiavano di parlare anche dialetto in casa (cioè coloro che hanno dato come risposta 'dialetto' o 'italiano e dialetto') costituivano il 64,4% della popolazione scolastica. Nel 1993 questa cifra (che considera le risposte 'dialetto', 'italiano e dialetto', 'italiano/dialetto e altre lingue' e 'dialetto e altre lingue') è scesa al 38,8%. Nello spazio di quindici anni abbiamo quindi avuto, tra i giovani, un calo della dialettofonia, non esclusiva, in famiglia di 25,6 punti. Se consideriamo il comportamento con gli amici il calo è ancora più forte e va da una percentuale di dialettofonia del 63,8% nel 1978 (data dalla somma delle risposte 'dialetto' o 'italiano e dialetto') a un 25,5% del 1993 (che è costituito dalla somma di coloro che hanno indicato di parlare 'dialetto', o 'italiano e dialetto', o 'dialetto e altre lingue'). Perciò l'uso del dialetto fuori di casa è passato da una percentuale simile a quello in casa a valori decisamente inferiori, ciò che può essere interpretato come un segnale della

7 Parliamo per semplicità di 'dialetto ticinese' (nonostante le differenze strutturali anche forti all'interno dei dialetti ticinesi) dato che ciò che qui ci interessa è la contrapposizione sociolinguistica forte con l'italiano, piuttosto che le differenze geografiche tra i vari dialetti, le differenze diafasiche o diacroniche o diagenerazionali all'interno del diasistema unicamente dialettale, o altri tipi di variazione intradialettale.

8 La storia della lingua italiana in Ticino ricalca quella della maggior parte delle regioni italofone fino al sorgere di una identità di differenziazione rispetto all'Italia. Le linee di svolgimento sono presentate da Bianconi (1989), che sostiene anche l'esistenza di una situazione di diglossia e bilinguismo sociale già a partire dal Quattrocento (si noti però che Bianconi parla di bilinguismo anche per quelle situazioni di competenza unicamente passiva, appoggiandosi in questo a Varvaro 1984).

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tendenza del dialetto a restringere in parte il suo ruolo a quello di lingua di famiglia e della comunicazione intergenerazionale (come è tipico in molte situazioni di decadimento linguistico). Mentre in famiglia l'italofonia esclusiva è aumentata dal 34,3% del 1978 al 49,3% del 1993, nello stesso periodo, con gli amici, essa è quasi raddoppiata, passando dal 36% al 68,6%. Sempre con gli amici, la dialettofonia esclusiva è passata dal 29% al 6%, con un calo pure del comportamento bilingue italiano-dialetto, che è passato dal 34,8% al 19,3%. In famiglia il comportamento bilingue è rimasto quasi stabile (dal 19,9% al 19,3%) ma il dialetto esclusivo è calato dal 44,5% al 16,9%. Un calo di questo tipo, su un lasso di tempo di 15 anni si può senz'altro definire notevole, e rappresenta quindi un momento di accelerazione del mutamento. Sulla base della forza di questo calo riteniamo che sia possibile parlare di una situazione di 'inizio di decadimento', intendendo questo termine in un'accezione particolare secondo la quale esso caratterizza una fase in cui le motivazioni che sostenevano la forte diffusione di una lingua perdono rapidamente di potenza a favore di un'altra lingua compresente nella società. Ciò può aprire la strada o ad una sostituzione di lingua o ad un nuovo assestamento del dialetto su posizioni più fortemente subordinate. Questa fase non deve necessariamente portare alla scomparsa del dialetto nel giro di pochi decenni (cfr. su questo punto il cap. 2), ma costituisce comunque un importante passo in avanti nel riassestamento dei rapporti gerarchici tra le lingue in gioco. Una lingua in perdita di vitalità subisce tre tipi differenti e fondamentali di perdite. Innanzitutto essa perde contesti d'uso, cioè non viene più utilizzata in tutti gli ambiti in cui la si ritrovava (o che addirittura 'dominava') negli anni precedenti. In secondo luogo essa perde parlanti in quanto avviene una rottura nella trasmissione della lingua, sia generazionale che verso gli immigrati (i genitori adottano un'altra lingua con i figli e gli immigrati possono integrarsi nella comunità d'arrivo usando non la lingua tradizionale della quotidianità ma un'altro codice, di solito con una norma esplicita maggiormente codificata9). Infine, come conseguenza di questi due fatti, la lingua perde strutture, riducendo notevolmente il proprio sistema o

9 Con la possibilità perciò di un maggior sostegno dell'apprendimento guidato, che non necessariamente deve essere mediato da un insegnante ma può anche essere costituito per es. dallo studio autonomo mediante manuali, vocabolari, ecc.

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'trasfigurandosi' più o meno radicalmente verso l'altra lingua in gioco10. In questi modi la lingua in decadimento perde i propri caratteri di autonomia e assume sempre più un ruolo parassitario rispetto all'altro codice. Per quanto riguarda la perdita di parlanti, abbiamo visto che per la prima volta nel canton Ticino ci troviamo di fronte in modo massiccio a soggetti che il dialetto non è riuscito a raggiungere, a potenziali veicoli della sua vitalità che sono andati persi. Per quanto riguarda i contesti più che ad un calo della dialettalità assistiamo ad un incremento della convivenza pacifica dei codici, con la possibilità sempre maggiore di utilizzare sia il dialetto che l'italiano, almeno nei contesti che erano tipicamente di dominio del dialetto. Per quanto riguarda le strutture non si può dire che negli ultimi anni ci sia stato un incremento rispetto ai fenomeni osservati in precedenza e che quindi si assista ad una riduzione forte delle strutture dialettali nei parlanti nativi. La situazione delle varietà native di dialetto in Ticino è ben illustrata da alcuni studi fondamentali, che presentano e discutono i mutamenti e le tendenze in corso. Accanto alle rassegne di Lurati11 , pensiamo in particolare allo studio di Dario Petrini (1988) sulle dinamiche di koinè, e all'analisi delle varietà presenti nel repertorio di una piccola comunità (Cevio-Linescio) svolta da Michele Moretti (1988)12. Nello studio di Petrini emerge chiaramente la prevalenza di tecniche di 'de-regionalizzazione' della propria varietà, che porta alla formazione di uno 'spazio di

10 Come fanno notare Dressler e Wodak (1977, 9) l'indebolimento delle strutture porta spesso a sua volta alla sensazione nei parlanti che la lingua sia "less worthy of being spoken" accelerando di conseguenza la perdita di ambiti d'uso e di parlanti. Questa perdita di fiducia, a rigore, dovrebbe quindi essere considerata un quarta categoria di tipe di perdita, in cui rientrerebbe anche la convinzione che si può sviluppare nei parlanti che la lingua in questione sia oramai destinata alla scomparsa (ciò che può condizionare per es. la trasmissione ai figli).

11 Si vedano per esempio Lurati 1976 e 1988, che fanno il punto su due situazioni oramai differenti.

12 Informazioni molto interessanti anche in termini di dinamiche innovative sono contenute pure in Lurà (1987), nonostante a prima vista questo lavoro sembri essere unicamente una grammatica, a base contrastiva, del dialetto del Mendrisiotto.

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koinè'13 piuttosto che ad una vera e propria koinè unica (come creduto impropriamente da molti autori). L'italianizzazione gioca un ruolo minore, decisamente secondario rispetto a queste prime tecniche, e anche l'importanza della diffusione di una varietà sovraregionale a partire dai centri urbani (l'altro grande filone 'genetico' sostenuto più volte) viene notevolmente ridimensionata dall'autore. In definitiva la koinè è quindi non una varietà vera e propria ma piuttosto un fenomeno dinamico, una serie di processi di adattamento reciproco che si fondano primariamente sull'eliminazione, da parte dei parlanti, dei fenomeni sentiti come più marcatamente micro-regionali. Non si tratta primariamente di una varietà che viene appresa così com'è o che viene diffusa dalla comunità, ma piuttosto di un fenomeno 'poligenetico' che viene costantemente ricreato dagli utenti. Per quanto riguarda le dinamiche interne ad un'unica comunità, l'analisi delle varietà dialettali ritrovabili nei differenti gruppi sociali (primariamente generazionali) di Cevio e Linescio (Valle Maggia) porta alla luce una rottura del continuum dialettale. Michele Moretti individua due varietà dialettali principali: una varietà arcaica-locale, definita varietà A, ed una varietà caratteristica primariamente delle giovani generazioni, definita varietà B. La rottura del continuum dialettale di cui abbiamo parlato nasce dalla frequente impossibilità di ricollegare geneticamente i tratti peculiari (innovativi) della varietà B a quelli dell'altra varietà dialettale. Anzi, il collegamento è più diretto ed immediato tra B e la varietà di italiano regionale, e quindi i tratti di B sarebbero derivati dall'italiano, con l'applicazione di 'segnali di fonologia' dialettale. Per questo motivo essi non si possono considerare come il risultato di evoluzioni dirette da A, e quindi A e B appartengono a due spazi di variazione differenti, dove B, a differenza di A, si caratterizza per una relazione di continuità con l'italiano. La schematizzazione proposta da M. Moretti (1988, 230) è perciò la seguente:

A + B----------------------Italiano

13 Sul tema generale delle koinai, accanto alle fonti citate da Petrini, cfr. anche il più recente numero speciale dedicato all'argomento dall'"International Journal of the Sociology of Language", intitolato appunto Koines and Koineization (v. Siegel 1993).

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Questo quadro richiama fortemente quanto osservato da Glauco Sanga (1985) per i dialetti lombardi, in cui la forte convergenza sull'italiano14 porterebbe da un lato ad un processo di avvicinamento progressivo delle basi lessicali, con una riduzione delle differenze più forti tra italiano e dialetto, e dall'altro lato all'elaborazione di procedimenti semplici di passaggio da una lingua all'altra (che Sanga chiama "regole di corrispondenza")15. Anche nella situazione analizzata da M. Moretti, come già nelle osservazioni di Petrini, appaiono comunque tratti innovativi che non sono immediatamente ricollegabili all'italiano. Contrariamente a quanto spesso si tende a supporre, l'autore mostra infatti come talvolta la varietà conservativa possa presentare, per coincidenze storiche indipendenti, esiti più vicini all'italiano della varietà innovativa. Così, sul piano della fonologia, continua a persistere una chiara intenzione di identità della lingua, che distingue bene il discorso intenzionalmente dialettale da quello italiano, mentre sul piano lessicale si assiste ad un avvicinamento tra le lingue, che riduce gli sforzi di memorizzazione per gli apprendenti (oramai bilingui). Per quanto riguarda la situazione qualitativa quindi, il dialetto dei parlanti nativi in Ticino sta attraversando una fase dinamica, caratterizzata da processi di de-

14 Giustamente Berruto (1989b) fa notare che a rigori non sarebbe possibile in casi come questo parlare di 'convergenza' data la monodirezionalità del fenomeno (l'assunzione di strutture non è reciproca, poiché l'italiano non si adatta allo stesso modo al dialetto). Si potrebbe forse parlare di 'prestiti massicci', ma i prestiti riguardano primariamente fenomeni lessicali, mentre qui abbiamo anche fenomeni di influssi morfosintattici. Forse l'espressione che meglio inquadra il fenomeno è quella, parzialmente paradossale, di 'convergenza monolaterale'. Dato però che il termine semplice di 'convergenza' è oramai entrato nell'uso e si è generalmente d'accordo sul modo in cui esso vada interpretato continueremo ad usarlo anche noi.

15 Cfr. Sanga (1985, 26): "La costituzione di regole di corrispondenza si basa sul confronto analogico tra L[ingua] E[gemone] e L[ingua] S[ubalterna], e sulla riconoscibilità e analizzabilità delle forme, che evoluzioni troppo divergenti renderebbero impossibili. Pertanto si ha il blocco di sviluppi fonetici apportatori di disordine, e il ripristino di fasi pregresse (Trumper 1977)." Altrove (p. 10) Sanga parla di "una rete di parallelismi morfo-fonologici che permette il passaggio automatico da una lingua all'altra attraverso regole di commutazione fonologica." Si ottiene così quella che più recentemente Radtke (1995, 45) ha definito una "dialettalità di compromesso". Il tema dell'italianizzazione dei dialetti ha una lunga tradizione nella storia della linguistica italiana; un approccio all'argomento può partire dalla bella rassegna di Grassi (1993) e dalle fonti che vi vengono citate.

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regionalizzazione e di assunzione di valori sociolinguistici e strutture essenzialmente lessicali da parte dell'italiano16. I fenomeni mostrati da queste varietà, pur nella loro innovatività, non sono dunque avvicinabili ai fenomeni delle tipiche situazioni di decadimento linguistico, ma sono semplici comportamenti di 'adattamento' alla diffusione sovraregionale del dialetto, ai mutamenti che avvengono nella cultura che si serve di questo codice, e al contatto linguistico con l'italiano (che spesso fa da mediatore verso le innovazioni culturali). Le caratteristiche delle varietà innovative continuano perciò ad essere quelle di tipiche varietà di parlanti nativi. Se, come abbiamo appena visto, le varietà native manifestano una buona vitalità, caratteri di riduzione forte delle strutture e di 'logorio linguistico' appaiono invece non appena ci si concentri sui parlanti persi del dialetto. E per la prima volta notiamo in questi soggetti fenomeni importanti concernenti non solo il lessico, che è notoriamente il livello più superficiale della lingua, con un valore diagnostico meno interessante, ma anche la morfosintassi. Queste caratteristiche formano senz'altro un corrispondente qualitativo del grande calo quantitativo osservato, che ha fatto sì che si ritrovino oggi, in proporzioni quantitativamente importanti, persone che nei decenni precedenti sarebbero senz'altro stati parlanti nativi del dialetto e che oggi usano questa lingua in modo solo passivo. Abbiamo denominato queste persone 'parlanti evanescenti' (d'ora innanzi abbreviato in PE), perché esse scompaiono dalla competenza della lingua in modo poco appariscente, fino ad un certo punto continuano ad esserne utenti almeno potenziali, e possono 'riapparire' come utenti attivi. L'etichetta vuole quindi cogliere il fatto che questi parlanti rappresentano una categoria di 'potenziali utenti' che svaniscono, di dialettofoni persi, con una competenza non evidente in superficie. Se ci spostiamo dal piano individuale a quello sociale o generazionale, potremmo definire i PE anche (con un'espressione brutta ma efficace) come i 'primi ultimi parlanti', cioè i primi rappresentanti della perdita di lingua attraverso il tempo e le età (dunque in modo socialmente significativo). Le strutture linguistiche dialettali che si possono elicitare da alcuni di questi soggetti ricordano i fenomeni discussi nei classici studi sul decadimento linguistico per i cosiddetti semi-speakers (Dorian

16 Petrini (1988) mostra in modo interessante come taluni di questi esiti de-regionalizzanti coincidano con tendenze di regolarizzazione.

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1981, 198617), quei parlanti cioè che non riescono più a gestire in modo completo la varietà nativa dei propri genitori18. I semi-speakers costituiscono l'ultimo gradino della competenza prima della scomparsa della lingua, ed i soggetti che analizzeremo nel capitolo seguente potrebbero darci indicazioni su come sarà la competenza degli eventuali semi-speakers ticinesi. I nostri 'parlanti evanescenti' ci avvicinano quindi ai tipici parlanti ritrovabili nelle situazioni di forte decadimento linguistico, anche se confrontando queste ultime situazioni alla nostra ritroviamo notevoli differenze che è necessario precisare. Una differenza fondamentale tra i semi-speakers veri e propri e i PE consiste nel fatto che questi ultimi più che essere gli ultimi parlanti si potrebbero definire, con un'orribile etichetta, i 'primi ultimi parlanti', cioè il primo frutto di una perdita sociale massiccia da parte della lingua. Non l'ultima generazione, ma la prima generazione ad essere più italofona che dialettofona, la prima generazione che mostra segnali di forte perdita di vitalità della lingua. Si tratta di persone cresciute in un contesto in cui il dialetto gioca ancora un ruolo importante pur se non più indispensabile (sia da un punto di vista comunicativo che identitario). Non si tratta degli ultimi parlanti, ma di una specie di 'prova generale' degli ultimi parlanti. Se un tempo una parte importante di questi parlanti evanescenti sarebbe stata riconquistata dal dialetto dopo la socializzazione primaria o al momento dell'entrata nel mondo del lavoro (con un effetto tipicamente legato ai contatti intergenerazionali), è al giorno d'oggi poco probabile che ciò avvenga in una forma quantitativamente importante, anche perché, come vedremo, la competenza dialettale di alcuni di loro è oramai parecchio distante dalla competenza nativa. Riprendendendo un'etichetta utilizzata in un altro

17 Nancy Dorian, alla quale va il merito di aver aperto lo studio sistematico di queste situazioni, si è occupata in particolare di un dialetto del gaelico scozzese (più precisamente nella zona dell'East Sutherland).

18 Più di preciso Dorian (1981, 107) caratterizza i semi-speakers come quei parlanti che non hanno avuto un'esposizione sufficiente alla lingua in questione. Perciò essi la parlano in modo meno fluente (e più lento) dei parlanti nativi, con caratteristiche grammaticali e fonologiche che deviano dalle varietà di questi ultimi, e servondosi di una quantità maggiore di prestiti dalla lingua dominante. Un altro punto interessante delle varietà dei semi-speakers è che in esse si ritroverebbero in quantità intensificata fenomeni di mutamento presenti anche nelle varietà dei nativi (questo confermerebbe il parere già visto in precedenza che una differenza fondamentale tra mutamento e morte di lingue concerne la velocità con la quale i processi avvengono nel secondo caso).

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contesto per definire un certo tipo di presenza del tedesco in Ticino (cfr. Bianconi - Moretti 1994) potremmo dire che il dialetto si configura in modo importante nella presenza di queste persone nella società come un 'sistema latente', un sistema presente ma non visibile nella sua dimensione effettiva, attivabile ma spesso non attivato. E' dunque molto poco probabile che questi parlanti tornino a trasmettere il dialetto come lingua materna ai propri figli. Un'altra grande differenza rispetto ai veri e propri semi-speakers riguarda la vicinanza, da un punto di vista strutturale, tra italiano e dialetto, che fa sì che la lingua materna dei parlanti evanescenti, l'italiano appunto, metta questi ultimi nella condizione di istituire collegamenti con il dialetto che possono essere sfruttati sia per la comprensione che per la produzione che, ancora, per la costituzione e memorizzazione del loro sistema dialettale. Se vogliamo considerare il dialetto come una lingua seconda per queste persone, dobbiamo tener conto del fatto che si tratta di un tipo particolare di lingua seconda fortemente impararentata con la lingua materna. Questa vicinanza strutturale, già forte per la comune discendenza dei codici in gioco, è inoltre stata rafforzata dal processo di avvicinamento del dialetto dei nativi all'italiano. In questo senso la nostra situazione ricorda un tipo particolare di 'scomparsa' di lingua, che avviene lentamente, con il confluire della lingua in sparizione nelle strutture della lingua che la domina. Si tratta di quel tipo particolare di decadimento linguistico che Jean Aitchison (1991) ha definito language suicide19, in cui cioè la lingua 'bassa' si avvicina progressivamente a quella 'alta' fino ad esservi inclusa. Il language suicide sarebbe il modo tipico in cui, in situazione di compresenza di due lingue strutturalmente molto vicine e simili (come appunto una lingua standard ed un

19 Negli studi sull'argomento esiste un altro uso dell'espressione language suicide. E' quello di Denison (1977), che propone di utilizzare l'espressione per le situazioni di morte di lingua con lo scopo di mettere l'accento sul fatto che spesso sono i genitori che non trasmettono la lingua ai figli a decidere di 'suicidare' la propria lingua.

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dialetto, o una lingua 'tetto' ed un creolo), una delle due lingue scompare20. Un bell'esempio di un creolo in questa situazione è quello del Gullah studiato dalla Jones-Jackson (1984), la quale tra l'altro osserva (p. 352):

"Though the two are completely opposite extremes of a process, both reduction and elaboration are equally fatal to the integrity of the languages involved. The term decreolization is precise in suggesting the general direction which a creole language takes in its elaboration to accomodate to the standard language, but the term death is more precise for describing the end result of features absorbed by that elaboration process."

I segnali tipici di questa situazione si ritrovano anche nel nostro caso, ma la relazione italiano-dialetto si colloca in una posizione intermedia tra quella della vera e propria morte di lingua e quella della decreolizzazione. Per quanto riguarda il confronto con altre situazioni di contatto italiano-dialetto, osservate da questo punto di vista, possiamo poi notare che, a differenza del quadro identificato da Stehl (1995) per la Puglia, dove sarebbero fondamentali due generazioni in particolare:

"... quelle due generazioni in cui i genitori hanno acquisito per prima lingua il dialetto e per seconda lingua l'italiano e che convivono con i loro figli che hanno acquisito per prima lingua l'italiano e per seconda lingua il dialetto." (p. 59),

nel nostro caso l'apprendimento del dialetto è nella maggior parte dei casi solo passivo e si crea così una frattura nell'uso effettivo del dialetto e nella continuità della trasmissione generazionale. La costrizione all'uso del dialetto che Stehl (1995, 57) definisce "difettivo" (individuato come "corrispondente alla seconda lingua della seconda generazione di parlanti") è relativamente bassa, e nel nostro caso esso non va identificato, a differenza di quanto secondo Stehl si può fare nel Meridione,

20 Un altro tipo di morte di lingua in parte simile è rappresentato da lingue che scompaiono attraverso una loro radicale trasformazione in un'altra lingua (una categorizzazione ampia dei vari tipi possibili di morte di lingue si ritrova in Campbell e Muntzel 1989). McMahon (1994, 285) fa notare come quelle che normalmente consideriamo le tipiche 'lingue morte', il greco antico e il latino, siano in verità casi di "metamorfosi", dato che queste lingue si sono trasformate nelle lingue che discendono da loro (il discorso si riferisce ovviamente unicamente all'uso come lingue materne). Nel caso del language suicide, rispetto ai casi di metamorfosi, l'azione di una lingua 'tetto' è fondamentale.

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con termini come "dialetto moderno" (che indica per noi invece principalmente le varietà innovative di parlanti nativi veri e propri)21. I parlanti evanescenti sono quindi italofoni ticinesi o residenti in Ticino che non hanno mai parlato dialetto prima della nostra intervista, o che quando l'hanno fatto si sono limitati ad alcune brevissime interazione stereotipiche. I motivi per cui queste persone sono 'sfuggite' al dialetto possono essere differenti nelle matrici individuali (si va dalla proibizione forte da parte dei genitori22 alla scelta autonoma di non parlare dialetto o alla origine non ticinese di almeno uno dei genitori), ma vi è una comune matrice sociale che è da un lato quella della perdita di 'obbligatorietà' sociale del dialetto, e dall'altro lato quella della forte diffusione a tutt'oggi dello stesso negli usi quotidiani. Dunque, non parlare dialetto oggi è sempre più possibile, ma non avere contatto almeno passivo con lo stesso continua ad essere relativamente difficile. Le competenze dei PE presentano una notevole variazione. Si va dal parlante, che pur dichiarando di non aver mai parlato dialetto prima dell'intervista, sfodera una varietà quasi da nativo, tradita unicamente da alcune incertezze, o talvolta dall'uso di arcaismi23 e salti di stile, fino al parlante che fa molta fatica a costruire durante il discorso i suoi strumenti di espressione. Vi è però un tratto in

21 Nel nostro caso, per i parlanti nativi, non si tratta quindi di un 'dialetto imperfettamente acquisito', quanto di una nuova norma dialettale che risente di varie forze innovative come per es. l'influsso dell'italiano.

22 Il fatto che la decisione di usare l'italiano sia stata vissuta talvolta in modo non pacifico dai figli è ben illustrato da una parlante che racconta come il padre le proibisse di parlare dialetto e come le violazioni della regola fossero severamente sanzionate (con un'espressione perfetta sia da un punto di vista della correttezza linguistica che dell'espressività la parlante spiega quale fosse la reazione del padre alle violazioni: e gió na sc-giafa se parlavi mia italian, traducibile letteralmente con "e giù uno schiaffo se non parlavo italiano").

23 E' interessante notare che da un lato la scarsa dimestichezza con il dialetto comporta una gestione problematica della variazione (con salti di registro o uso appunto di varianti diacronicamente in disuso nei nativi) e dall'altro lato la ricerca da parte di questi parlanti di 'distanziamento' dall'italiano tende a favorire proprio soluzioni sentite come più tipicamente dialettali. Per esempio nella storia che gli intervistati dovevano raccontare compariva ad un certo punto un rapace notturno; mentre i parlanti nativi vi facevano riferimento definendolo una civèta (o forme italianizzate simili), è solo in alcuni parlanti evanescenti che compare la forma sciguéta.

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genere comune a tutti ed è quello di una buona competenza passiva; questi parlanti possono cioè capire praticamente tutto ciò che viene loro detto in dialetto (nel contesto). I due parametri fondamentali di differenze rispetto alle tipiche situazioni di decadimento linguistico identificati in precedenza (la vitalità ancora forte del dialetto nella società e la vicinanza strutturale delle lingue in gioco) sono responsabili di un fenomeno che non può non stupire chi abbia esperienza di raccolta di materiali di lingue non materne. Il fenomeno sorprendente è quello di trovarsi di fronte persone che dichiarano di parlare una lingua non materna per la prima volta24 e che lo fanno spesso in un modo più che soddisfacente, talvolta quasi da parlanti nativi. Le varietà dei PE, elicitate artificialmente costringendoli a parlare dialetto in vari tipi di situazioni nel corso delle nostre interviste, sono il risultato di lunghi anni di apprendimento passivo, finalizzato cioè solo alla comprensione, spesso a partire dalla prima infanzia se non addirittura dalla nascita (al punto che per alcuni di loro si può parlare di una 'lingua materna passiva'). Ciò che possiamo raccogliere è perciò il risultato della trasformazione della competenza passiva in competenza attiva, come dimostra il fatto che spesso queste persone dispongono delle conoscenze necessarie, le sanno recuperare o ricostruire quando si tratta di capire il dialetto, ma hanno difficoltà a metterle in opera nei compiti di produzione attiva. Il lavoro che i PE devono affrontare nel corso dell'intervista è quello di passare da un tipo di sfruttamento finalizzato alla comprensione delle loro conoscenze ad un tipo finalizzato alla produzione. In questo senso la differenza principale tra competenza attiva e passiva viene ad essere quella tra due tipi differenti di produttività, legati non tanto a tipi di conoscenze differenti (anche se su questo argomento la ricerca ne sa ancora troppo poco), quanto proprio a modalità differenti di sfruttamento produttivo di queste conoscenze. Riguardo alle differenze

24 A scanso di equivoci è bene precisare che queste affermazioni dei soggetti di non aver mai parlato dialetto non vanno prese come tentativi di marcare la propria distanza da questa lingua o come il risultato di atteggiamenti negativi verso lo stesso. Le caratteristiche della situazione ticinese e le circostanze specifiche delle nostre interviste ci permettono di escludere decisamente questa interpretazione e di sostenere la realisticità (e la relativa libertà da condizionamenti ideologici) dell'affermazione di molti dei nostri soggetti di parlare dialetto per la prima volta nel corso dell'intervista. Per i livelli più bassi di competenza, poi, sono le varietà stesse a denunciare la scarsa dimestichezza con l'uso attivo del dialetto.

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nei processi si pensi per es. solo al ruolo del contesto nella comprensione dei messaggi o al procedere alla processazione degli stessi partendo prioritariamente dalla forma (come nella comprensione) invece che dal contenuto (come nella produzione). Proprio riguardo a queste particolarità che caratterizzano i processi di 'attivazione della competenza' dei PE, vale la pena di notare che nelle situazioni di decadimento linguistico e di morte di lingue non si ritrova un unico tipo di parlanti negli ultimi stadi. Se il concetto della Dorian di semi-speakers è senz'altro il più noto e diffuso, la stessa autrice individua un altro tipo di soggetti, caratterizzati da una competenza ancora più bassa e soprattutto da un uso essenzialmente passivo del gaelico. Questi parlanti vengono denominati near-passive bilinguals25:

"At the lower end of speaker skill, semi-speakers are distinguished from near-passive bilinguals by their ability to manipulate words in sentences. Near-passive bilinguals often know a good many words or phrases, but cannot build sentences with them or alter them productively. Semi-speakers can, although the resultant sentences may be morphologically or syntactically askew to a greater or lesser extent." (Dorian 1981, 107)

25 Distinzioni simili (pur con accezioni non sempre del tutto coincidenti con quella della Dorian), fondate su dislivelli di competenza tra gli utenti terminali di una lingua sono state proposte anche in altri lavori con interessi paralleli. Per es. Elmendorf (1981; che si occupa di lingue indiane native della California, e in particolare di Wappo e Yuki, due lingue oramai rappresentate entrambe da un unico parlante) utilizza il termine di last speakers, per far riferimento alle persone che sono, o sono state un tempo, fluenti in quella che era precedentemente la lingua materna della loro comunità, distinguendoli dai cosiddetti remembers di Knab (1980), cioè quelle persone in grado unicamente di richiamare una certa quantità di elementi lessicali di una lingua che un tempo hanno sentito (in modo intenso) senza mai apprenderla completamente. Lo stesso Elmendorf considera la possibilità che i last speakers possano essere anche former speakers, cioè parlanti che manifestano una abilità molto limitata in un sistema linguistico che una volta hanno posseduto con un buon grado di fluenza. La 'scala' probabilmente più completa di 'parlanti terminali' (intendendo questa etichetta come un sovraorodinato) è però quella utilizzata da Campbell e Muntzel (1989, 181), che distinguono tra: "... S for 'strong' or '(nearly) fully competent'; I for 'imperfect', i.e. for reasonably fluent so called 'semi-speakers'; W 'weak semi-speakers' with more restricted speaking competence [...]; and R for so-called 'remembers' who know only few words or isolated phrases ...". Per situazioni di emigrazione, Berruto - Moretti - Schmid (1988) hanno utilizzato l'etichetta di 'ex-nativi', per far riferimento al livello di competenza di quelle persone che nel corso dell'emigrazione hanno sostituito la lingua del luogo a quella di origine come lingua meglio posseduta.

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Dato l'uso essenzialmente passivo che di solito i PE fanno del dialetto ci si potrebbe chiedere se essi non rappresentino dei casi del livello più basso di competenza (come i near-passive bilinguals). Ma anche se alcuni dei parlanti meno competenti che abbiamo potuto osservare si abbassano quasi ai livelli di questi ultimi, si deve dire che il livello medio è senz'altro piuttosto quello vicino e talvolta superiore ai semi-speakers della Dorian26. Questa particolarità va, come abbiamo già detto, senza alcun dubbio attribuita ai caratteri della situazione sociolinguistica (con una vitalità ancora buona del dialetto) e delle lingue in gioco (con un affidamento, autorizzato dalla similarità strutturale, all'italiano alla costruzione della competenza e dei prodotti dialettali), tant'è vero che arriveremo anche ad osservare varietà che senz'altro si possono comparare ai near-passive bilinguals della Dorian (o ai rememberes di Elmendorf), ma solo quando ci occuperemo degli utenti solo passivi del dialetto che non abbiano l'italiano come lingua materna (in questo senso si deve quindi dire che l'italiano rinforza il dialetto). Un'ulteriore precisazione che deve esser fatta riguardo al confronto tra le situazioni di decadimento linguistico ed i nostri PE concerne l'interpretazione che si deve dare dei prodotti di questi ultimi non come fenomeni di perdita di lingua ma unicamente come fenomeni di apprendimento di lingue seconde. Si tratta cioè di stabilire fino a che punto le varietà dei PE siano da considerare come conseguenze di una perdita di lingua e fino a che punto esse rappresentino invece dei casi di 'apprendimento imperfetto'. Anche nel nostro caso, come praticamente in tutte le situazioni di decadimento linguistico, abbiamo a che fare con processi di entrambi i tipi. Innanzitutto, se consideriamo il fenomeno da un punto di vista sociale, osservando che questi parlanti sarebbero un tempo stati parlanti nativi, possiamo al di là di ogni dubbio parlare di perdita di lingua. Se invece con quest'ultimo termine vogliamo mettere fortemente l'accento su un fenomeno individuale, per cui un parlante presenta ad un certo momento una competenza inferiore a quella che aveva in precedenza, ci troviamo di fronte piuttosto ad un processo di apprendimento linguistico (in cui, possiamo dire, lo stadio che stiamo osservando è lo stadio più

26 In questo senso i nostri PE si distribuiscono soprattutto sui primi tre gradini della categoria di parlanti terminali proposta da Campbell e Muntzel vista in precedenza.

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avanzato raggiunto da ogni individuo). Questo fenomeno però costituisce la norma anche in molte altre situazioni studiate come esempi di decadimento, dove spesso i semi-speakers o soggetti simili non hanno mai raggiunto la piena competenza (e le loro varietà si caratterizzano quindi come una problematica a cavallo tra la perdita e l'apprendimento di lingua). L'unico confine rigido che si potrebbe porre a questo punto per distinguere tra fenomeni di apprendimento individuale difettivo (sia in sviluppo che fossilizzato) e fenomeni di perdita di lingua vera e propria è un confine che ricalca la linea della distinzione tra lingua materna e lingua seconda (secondo il quale si potrebbe parlare di perdita unicamente quando una lingua un tempo materna subisce un processo di 'logorio linguistico' nel parlante). Ma, innanzitutto, un confine di questo tipo non ha senso in quanto esclude come abbiamo visto varietà finora considerate tipiche delle situazioni di decadimento, e secondariamente nemmeno questo confine è delineabile in modo categorico, dato che la distinzione tra lingua materna e lingua seconda si rivela essa stessa continua e basata su quantità differenti di realizzazione di diversi parametri27. Sulla base di queste osservazioni e del fatto che la perdita sociale di parlanti subita dal dialetto è consistente (ciò che ha tra l'altro, in un modo che non è da sottovalutare, come conseguenza la perdita anche di input potenziale per questi parlanti e della costrizione a parlare dialetto), riteniamo possibile e utile interpretare le varietà dei PE anche in termini di decadimento linguistico, pur tenendo nel contempo presente, come importante campo di appoggio al nostro studio, la ricerca sull'apprendimento delle lingue seconde, che ci deve aiutare a capire meglio i processi in gioco nell’individuo (e nel gruppo di individui che presenta le stesse caratteristiche)28.

27 Alcuni elenchi parametrici sono per es. ritrovabili in Klein (1984, 43 ss.), Sharwood Smith (1994, 46 ss.); una discussione incentrata sul concetto, ovviamente imparentato, di parlante nativo si ritrova in Berruto - Moretti - Schmid (1988).

28 E' suggestiva l'ipotesi che i parlanti evanescenti siano da considerare alla stregua di un 'anello mancante' tra le varietà degli ultimi parlanti di una lingua morente, i 'semi-speakers' e gli apprendenti di una normale lingua seconda. Se con i primi essi hanno in comune il ridotto interesse per la lingua che un tempo sarebbe stata la loro varietà nativa, con i secondi hanno in comune un input potenziale ancora abbastanza forte. In più essi presentano anche fenomeni generali di mutamento linguistico, cioè quei tratti di trasformazione del dialetto, che in loro hanno di solito matrice apprendimentale mentre nei nativi hanno matrice variazionistica.

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1.2. Le varietà dei parlanti evanescenti Per quanto riguarda le caratteristiche linguistiche dei PE su tutte emerge ovviamente il forte ruolo assunto dall'italiano come 'lingua di base' per la costruzione della dialettalità. E' chiaro che le tre componenti concomitanti della similarità linguistica tra italiano e dialetto, della migliore conoscenza dell'italiano da parte dei nostri parlanti, e del processo in corso, peraltro già da lunga data, di avvicinamento parziale del dialetto all'italiano concorrono ad amplificare questa componente. Ma accanto a questi fenomeni si ritrovano anche sviluppi autonomi, non direttamente riconducibili all'italiano ma piuttosto a caratteristiche intrinseche del rapporto tra il dialetto ed i suoi utenti. Si nota così la buona conservazione o la ricostituzione di strutture che caratterizzano fortemente il dialetto rispetto all'italiano. Alcuni settori, come quello dei pronomi soggetto (uno dei settori fondamentali della differenzazione tra queste due lingue) o della collocazione post-verbale della negazione, tanto per fare solo due esempi, appaiono molto presto anche in parlanti poco competenti. Se calcoliamo che i nostri soggetti non sono mai stati veri parlanti nativi del dialetto si può senz'altro parafrasare per la nostra situazione l’interessante osservazione fatta da Dorian (1981) per il gaelico e sostenere che: "il dialetto morirà con i suoi stivali morfologici"29. Questa affermazione coglie un tratto fondamentale delle lingue morenti (o meglio riguardo ad un tipo importante e centrale di lingue morenti), e cioè la conservazione di un nucleo morfologico 'autonomo'. La 'forza morfologica' delle varietà dei PE, nei punti in cui essa non sia derivabile dall'italiano, discende senz'altro dal fatto che per molti di questi parlanti il contatto con il dialetto è stato precoce e intenso, ciò che ha permesso l'apprendimento di alcune delle sue strutture più importanti senza dover ricorrere ai forti procedimenti di semplificazione che si possono ritrovare nelle situazione di vero e proprio apprendimento di lingue seconde.

29 La traduzione letterale perde ovviamente il valore idiomatico della corrispondente locuzione inglese.

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1.2.1. Parlare dialetto: tra competenza e identità Parlare dialetto per queste persone vuol dire soprattutto trovare un compromesso tra lo sfruttamento dell'italiano nel parlare dialetto (ciò che permette di espandere notevolmente il loro potenziale al di là di quello che esso potrebbe essere se italiano e dialetto non presentassero una notevole similarità) e marcare i loro enunciati come dialettali, ovvero distanziarli dall'italiano in modo che siano riconosciuti come differenti da esso. Da un lato abbiamo quindi una lingua, l'italiano, che facilita l'apprendimento, la memorizzazione, e il recupero di ciò che essi sanno del dialetto, e che inoltre può venir impiegato nella costruzione di 'ipotesi di dialetto' (sulla base di linee più o meno regolari di corrispondenza tra italiano e dialetto). Dall'altro lato però è necessario anche distanziarsi da questa lingua così utile. Il parlante deve quindi costruire una identità linguistica differente, cioè trovare varianti alternative di forma a parità di contenuto referenziale. Abbiamo perciò a che fare con due tipi di problemi ben noti ad altri settori di studi. Il primo problema (quello della 'costruzione del dialetto per scopi comunicativi') è un problema centrale degli studi sull'apprendimento delle lingue seconde e tocca aspetti più psicolinguistici. Il secondo problema invece è tipicamente sociolinguistico: si tratta di marcare formalmente la differenza tra varietà aventi valori non referenziali differenti. Si noti che tematiche sociolinguistiche giocano un ruolo importante anche nelle teorie sull’apprendimento di lingue seconde; si pensi per es. solo al problema degli atteggiamenti, della motivazione o, in modo più interessante per il nostro campo attuale, della variazione nelle interlingue. E anche negli studi sociolinguistici, quello che è probabilmente il concetto centrale dell’intera problematica sociolinguistica, il concetto di variazione (e soprattutto il concetto di variazione sub-categorica, cioè misurabile non in termini di assenza o presenza assoluta di una variante ma di percentuali regolari e sistematiche di presenza), richiede di esaminare anche fattori tipicamente psicolinguistici come la capacità di gestione delle varianti sociolinguistiche stesse, che potrebbero essere tra le cause della fluttuazione subcategorica. In questo senso i dialetti sono un tipo di L2 molto speciale (dove le differenze tra le lingue in gioco sono ridotte), e nel contempo costituiscono un fenomeno di

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variazione altrettanto speciale (in cui non sono in gioco varietà di uno stesso sistema, ma sistemi differenti pur se caratterizzati da forte similarità).

1.2.2. Il ruolo dell'italiano Dopo varie fasi di dominanze differenti, o dei processi autonomi di 'creazione' delle interlingue o dei processi di influsso della lingua materna sulla L2, si è attualmente d'accordo che entrambi i processi giochino un certo ruolo nell'apprendimento di una seconda lingua. L'influsso interlinguistico non è limitato alla lingua materna ma può provenire anche da altre lingue seconde note all'apprendente, denominate 'lingue d'appoggio' (d'ora innanzi Lap; sul ruolo di quest'ultime cfr. Berruto - Moretti - Schmid 1988, v. anche Ringbom 1987). In genere, si può assumere che quanto maggiore sia la similarità strutturale tra le lingue in gioco, tanto più gli apprendenti mostreranno la tendenza a servirsi delle lingue già note per la costruzione della L2. Un interessante tentativo di sistematizzazione del ruolo della similarità nell'apprendimento delle lingue seconde è stato fatto in particolare da Schmid (1994). Secondo questo autore, l'apprendimento di una lingua seconda imparentata con la L1 (o con la Lap30) si fonderebbe su tre strategie fondamentali: una strategia di 'congruenza', che consiste nel presupporre la similarità tra elementi della L2 e delle LN, una strategia di differenza, che, presupponendo la differenza strutturale tra L2 e le LN, spinge alla ricerca di soluzioni autonome basate unicamente sul rapporto tra apprendente ed input, ed infine, una strategia di corrispondenza, che consiste nell'individuazioni di relazioni locali di traducibilità tra elementi della L2 e quelli delle LN (l'apprendente elabora quindi delle corrispondenze dirette tra elementi delle due lingue, che gli permettono di produrre elementi non noti della L2

30 Per evitare di ricordare continuamente sia il ruolo della L1 che quello delle Lap, faremo d'ora innanzi riferimento ad entrambe le categorie usando il termine di 'lingue note' (LN). E' ovvio che questo sovraordinato eredita, nella funzione specifica che qui ci interessa, la caratteristica fondamentale delle L1 e delle Lap nel processo di apprendimento di L2, che è quella di un presupposto almeno minimo di utilizzabilità, fondato sulla percezione di una certa similarità strutturale.

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sulla base delle LN)31. Quest'ultima strategia rivela per noi un interesse particolare in quanto essa era già stata utilizzata, come abbiamo visto in precedenza, tra gli altri da Sanga (1985) proprio per un contesto di mutamento nel dialetto su pressione dell'italiano32. Nel caso qui in esame l'italiano è chiaramente lingua d'appoggio per i non italofoni e L1 per gli italofoni, ed il suo influsso costituisce un elemento importante per la comprensione del nostro dialetto come L2 (soprattutto a livello lessicale e meno al livello morfosintattico, dove si ha una maggiore autonomia). La similarità linguistica dei codici in gioco e la distribuzione sociolinguistica dei loro usi rendono quindi l'apprendimento del dialetto un caso speciale di apprendimento di lingua seconda, in cui è incrementata la situazione di continuità tra italiano e dialetto (con la formazione di un continuum post-dialettale). L'italiano assume in questa situazione un ruolo ambiguo. Da un lato infatti esso è chiaramente un ausilio all'apprendimento e alla utilizzazione del dialetto, ma dall'altro lato può anche giocare un ruolo di lingua 'pseudo-obiettivo' (pseudo-target), che fa da punto di riferimento e di verifica per le ipotesi interlinguistiche

31 Tra le tre strategie è possibile tracciare un confine forte che raggruppa congruenza e corrispondenza separandole dalla differenza. Il grado di similarità delle lingue in gioco spingerebbe più verso l'uno o l'altro polo. Congruenza e corrispondenza hanno una matrice simile, tanto che la congruenza potrebbe essere considerata come il risultato di una 'corrispondenza completa' (o di relazioni di 'corrispondenza zero', cioè senza mutamenti delle forme; ma va poi esaminato fino a che punto il postulato di uguaglianza da parte del parlante sia reale o se esso non sia un uso ‘discorsivo’). D'altro canto lo statuto della 'differenza' è per ora ancora dubbio in quanto questa ‘strategia’ presuppone che l'apprendente eviti il possibile prodotto derivato dalle LN a favore di suoi prodotti autonomi o appresi dal contatto con l'input. Quindi mentre le prime due possono essere considerate vere e proprie strategie apprendimentali e comunicative, quest'ultima è per ora piuttosto una 'etichetta' (e non una strategia) applicata a strategie eterogenee aventi in comune la non appartenenza nè al gruppo della 'congruenza' né a quello della 'corrispondenza'. L'individuare veri e propri motivi e strategie di 'evitamento' di forme non della lingua obiettivo potrebbe dare uno statuto differente a questa strategia.

32 La coscienza del concetto di 'corrispondenza' nei rapporti tra lingue ha sempre giocato un ruolo particolare. Per es. già il concetto di 'prestito adattato' (ripreso in modo approfondito in studi sulla fonologia dei prestiti, come per es. Dressler 1973, ma importante per es. anche nella cosiddetta 'fonologia lessicale', dove spesso le lingue indagate sono caratterizzate da una forte presenza di prestiti o di diversi 'strati lessicali') tocca in parte importante questi fenomeni di percezione delle 'differenze regolari' tra le lingue.

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costruite dall'apprendente. Il giudizio su che cosa sia possibile in dialetto passa quindi anche attraverso ciò che è possibile in italiano, e questa relazione introduce una circolarità che ha come effetto l'allontanamento del dialetto dei non nativi da quello dei nativi. L'uso dell'italiano con questa funzione di 'filtro' dei prodotti da parte dell'apprendente riproduce, in una forma estremizzata, il rapporto tra italiano e dialetto che è alla base del processo di italianizzazione dei dialetti. In particolare esso ricorda il tipo di relazione tra i due codici che si ritrova soprattutto nelle varietà di dialetto tendenti a gradi alti di formalità, in cui quindi il 'sistema semiologico' italiano fa da modello a quello dialettale. E' qui che abbiamo una delle più grandi similarità con le situazioni di continua post-creoli33 (che sono altresì considerabili come una delle possibilità estreme del grande gruppo delle situazioni di 'lingua con dialetti'34). D'altro canto la forte variazione dialettale, complessificata da gradi maggiori o minori di avvicinamento all'italiano fa sì che la lingua obiettivo che i parlanti vogliono apprendere non sia del tutto ben definita e che la costituzione di un vero e proprio filtro dialettale sia resa più difficile e quindi caratterizzata anch'essa da alta variabilità. Valdman (1989, 20), muovendosi proprio in un contesto di decreolizzazione dà il nome di 'target language zero' alla totalità delle varianti disponibili della Lob. Esse pongono problemi di selezione dell'obiettivo adeguato all'apprendente. Nel nostro caso avremo quindi un insieme di varianti alle quali il

33 Sono quelle situazioni in cui una lingua creola (nata da una situazione di presenza di più lingue con scarso accesso dei parlanti ad un'altra lingua che fornisce la maggior parte del lessico), entra in contatto in modo sempre più forte con la lingua lessificatrice, dando così luogo ad un processo di avvicinamento progressivo a quest'ultima, fino ad una riduzione totale o quasi totale delle differenze.

34 Anche se, come nel nostro caso, si tratta di una 'dialettizzazione a posteriori', in cui una lingua autonoma (cioè geneticamente autonoma rispetto all'italiano) viene avvicinata sempre più dagli utenti ad un altro sistema che assume una posizione sovraordinata.

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parlante può far riferimento ma dove la scelta tra le varie alternative presenta notevoli difficoltà35.

1.2.3. Fenomeni di asimmetria La ricerca sull'apprendimento di altri dialetti (ovviamente non come lingue materne36) è purtroppo, per ora, molto poco sviluppata37, e ci si muove ancora attorno alla discussione di ipotesi su come questo processo avvenga. Chambers (1995, 247), per esempio, discute la possibilità che chi impara un altro dialetto, di solito, più che imparare le regole del nuovo dialetto, lavori eliminando le regole del proprio38. Ma nel nostro caso la tendenza, piuttosto che quella di eliminare le proprie peculiarità (un procedimento che ha invece una grande importanza nelle varietà di koinè indagate da Petrini 1988), sembra invece essere quella, specialmente in fasi molto iniziali, di adottare le peculiarità principali della L2, che siano in grado di segnalare particolarmente bene la 'dialettalità' dei propri enunciati. Più che un livellamento tra varietà equivalenti si ha quindi una dialettizzazione del proprio italiano (cioè un fenomeno più simile al vero e proprio apprendimento di L2,

35 Questo non vuol dire che l'apprendente non sia in grado e non cerchi di costruirsi ipotesi di variazione, istituendo correlazioni ipotetiche tre le varianti ed i parametri extralinguistici; semplicemente si tratta di un lavoro supplementare al quale l'apprendente è sottoposto e che non sempre viene risolto felicemente. Per osservazioni su questa capacità di apprendenti di gestire la variazione tra lingua e dialetto in situazioni italofone cfr. Vedovelli (1994) e Felici - Giarè - Villarini (1994). Osservazioni interessanti relative alla sistematizzazione della variabilità nell'input si hanno in Eisenstein (1984).

36 Purtroppo anche lo studio dei dialetti come L1 è ancora molto poco frequentato. Oltre che un approccio sociolinguistico, in questi casi sarebbero interessanti osservazioni su strutture specifiche particolari, differenti da quelle dell’italiano (pensiamo per es. all’acquisizione dei pronomi clitici nelle varietà settentrionali),

37 Se si fa astrazione dalla ricerca sull'apprendimento della lingue standard da parte di parlanti dialettofoni. Essa però va per molti aspetti nella direzione inversa di quanto qui ci interessa e questa differenza è molto significativa.

38 Si noti che il senso di 'dialetto' a cui fa riferimento Chambers è ovviamente quello anglosassone. Il suo lavoro si occupa perciò piuttosto di 'pronunce regionali' che non di 'dialetti' nel nostro senso.

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specialmente di una L2 imparentata con la L1). Una osservazione che si può spesso fare è che però questi passaggi non funzionano altrettanto bene nelle due direzioni. Ciò introduce un effetto di non equivalenza o asimmetria tra i codici in gioco (contrapposta alla simmetria e quasi equivalenza delle varietà in gioco nelle tipiche situazioni di livellamento, cfr. anche Siegel 1993). In questo modo l'apprendimento di una delle due varietà in questione da parte dei parlanti dell'altra sarebbe più difficile che non il contrario (per questo concetto di 'asimmetria' e la sua eventuale generalizzabilità nei rapporti di diglossia cfr. Hausmann 197839). In asimmetrie di questo tipo giocano un ruolo importante due grandi tipi differenti di fenomeni, relativi rispettivamente a componenti sociali e a componenti strutturali. Per esempio nella traduzione italiana del manuale di Chambers e Trudgill (1988, 16-17) si ritrova la seguente osservazione (non applicabile in questi termini alla situazione ticinese):

"Può anche accadere che l'intelligibilità sia favorita dal senso di inferiorità sociale, e viceversa. In Italia gran parte di coloro che parlano prevalentemente dialetto affermano di capire senza grandi difficoltà l'italiano, mentre chi parla esclusivamente italiano dice spesso di non capire il dialetto."

Questo tipo di asimmetria è un fenomeno che attende indagini più accurate. Nel caso specifico citato qui sopra andrebbe per esempio considerato il fatto che chi parla dialetto ha perlomeno in parte avuto un minimo di istruzione scolastica in italiano, guarda la televisione o ascolta la radio, ha contatti con le giovani generazioni più italofone, ecc. Ma un ruolo importante è senz'altro giocato dagli atteggiamenti, relativi per es. al prestigio differente di italiano e dialetto, che potrebbero addirittura essere responsabili di 'dichiarazioni irrealistiche' da parte dei soggetti. Romaine (1994, 14) ha recentemente insistito sul fatto che:

39 Hausmann si appoggia anche agli studi di Kazazis (1968, 1976) sulla diglossia greca, in cui la forma della varietà alta è più vicina sia alla forma etimologica che alla presumibile forma profonda, mentre la forma della varietà bassa richiede processi fonologici ulteriori non prevedibili a partire dalle forme della varietà alta.

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"Studies of mutual intelligibility are not really about linguistic relationships between varieties, but about social relationships since it is people and not the varieties who understand or do not understand one another."40

Accanto a questo tipo di asimmetria a sfondo extralinguistico ne esiste però indubbiamente un tipo strutturale, che è responsabile del fatto che il passaggio da una lingua ad un'altra sia più prevedibile o più naturale in un senso che non nell'altro. Si pensi per esempio al cosiddetto fenomeno della marcatezza differenziale delle lingue (cfr. Eckman 1977), che fa sì che certe strutture di una lingua, nel confronto interlinguistico, siano favorite rispetto alle corrispondenti strutture dell'altra lingua41. Ma anche rapporti storici tra le lingue possono costruire direzioni privilegiate di asimmetria; si pensi qui al fatto che i dialetti hanno in genere spinto più avanti le loro innovazioni rispetto alla lingua italiana, e quindi a volte è possibile ricostruire partendo dal dialetto la forma italiana ma non è possibile il passaggio inverso (dato che la direzione dell'innovazione non è sempre prevedibile, mentre lo stadio rappresentato dalla forma italiana è 'contenuto' per così dire nella storia della forma dialettale, essendo più vicino alla 'forma di base storica'). Oppure, ancora per quanto riguarda la prevedibilità, vedremo che in genere 'regole aggiuntive', che richiedono cioè l'aggiunta di materiale fonologico ad un termine italiano per ottenere un corrispondente dialettale creano problemi agli italofoni che provano a parlare dialetto, mentre si rivelano molto più semplici le corrispondenze che richiedono la 'sottrazione' di materiale fonologico e portano ad un risultato prevedibile. Infine si pensi anche all'importanza dei contatti tra le lingue e agli influssi reciproci tra di esse. Per esempio, lo sviluppo storico delle varietà dialettali innovative presenta anch'esso una certa direzionalità relativa. Nel discutere un interessante testo dialettale alla luce dei fenomeni di koinè che esso presenta, Petrini osserva che:

40 Curiosamente questa osservazione ricorda in modo notevole quella di Hudson (1980, 36): "Mutual intelligibility is not really a relation between varieties, but between people, since it is they, and not the varieties, that understand one another."

41 In effetti l'ipotesi di Eckman ci dice che non ci sarebbe equivalenza bidirezionale nel transfer, dato che la marcatezza crea dislivelli tra le lingue che rendono più semplice il passaggio in una direzione e più difficile quello nell'altra (relativamente a singole strutture).

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" ... il nostro airolese riesce effettivamente a parlare come il suo interlocutore del Luganese, mentre è escluso che il luganese sia in grado di esprimersi nel dialetto di Airolo." (1988, 37)

Anche Michele Moretti (1988) osserva un'asimmetria nelle relazioni tra le varietà A (arcaica) e B (innovativa) di Cevio-Linescio: coloro che posseggono A sanno usare anche B ma non viceversa. In una parte di questo fenomeno gioca senz'altro un ruolo importante il contatto con l'italiano, dato che il processo che ha fatto sì che il dialetto, durante la lunga convivenza con l'italiano, sia passato da una situazione di 'autonomia' sociolinguistica ad una di 'eteronomia'42, ha avuto ripercussioni anche sulle strutture dialettali, che hanno così perso parte della loro autonomia rispetto all'italiano con notevoli influenze sulla relazione di asimmetria tra le lingue. Una parte degli esiti innovativi può perciò essere derivata dall'interazione della propria varietà locale con l'italiano (con la varietà innovativa come soluzione risultante da regolarità di interazione tra le due). D'altra parte Petrini (1988) ha ben messo in luce come i fenomeni di koinè (in Ticino), e quindi buona parte dei fenomeni innovativi nelle varietà dei nativi, nelle loro caratteristiche qualitative siano parzialmente slegati dall'italiano e risultino piuttosto dall'adattamento (de-regionalizzante) della propria varietà micro-regionale. In questo senso le varietà di koinè sono quindi 'varietà derivate', risultanti dalla selezione tra un insieme più ampio di regole dialettali locali, e perciò, in quanto

42 Si parla di varietà linguistiche 'autonome' vs. 'eteronome' volendo fornire delle etichette più precise, in certi contesti, di quelle di 'lingua' e 'dialetto'; cfr. per es. Romaine (1994, 15): "Thus, we can say, for instance, that the Dutch dialects are dependent on or 'heteronymous' with respect to standard Dutch, German dialects to standard German, etc. This means that because speakers of German watch German TV, are taught standard German in school, read in standard German, etc., they look at standard German as a reference point. There will be more linguistic similarities between the varieties of German and Dutch spoken close to the border between those two countries than there will be between standar German and standard Dutch. Nevertheless, a standard language serves to create a feeling of unity among the speakers who take it as a reference point, particularly those who speak varieties far removed from one another geographically." Uno dei vantaggi di questa distinzione è quello di far prevalere il criterio dei rapporti in sincronia su quello storico, per cui, per esempio, un sistema linguistico può diventare eteronomo (un 'dialetto') anche non essendolo stato storicamente, con quindi un processo di 'dialettizzazione' a posteriori.

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riducono il potenziale e si configurano in parte come una versione 'ristretta' di quest'ultimo, ne risulta una nuova componente di asimmetria43. Infine, occorre notare che l'asimmetria linguistica è relativa e riguarda singoli sottosistemi o addirittura singoli elementi, per cui essa non è assolutamente monodirezionale ma piuttosto tendenziale o statistica. Così anche nella nostra situazione si possono avere settori in cui il passaggio nella direzione inversa non è per niente meno prevedibile o più complesso (oppure dove le motivazioni extralinguistiche che sostengono il passaggio nella direzione inversa sono molto forti), e quindi in cui non si ritrovano influssi della lingua materna o della lingua d'appoggio. In conclusione, possiamo dire che i fenomeni di asimmetria sono legati a cause sociali (ragioni per capire, impare e parlare le singole lingue e atteggiamenti verso le lingue o le comunità che le usano), a fenomeni linguistici generali (selezioni a livelli di marcatezza e naturalezza differenti), e a fenomeni linguistici a base storica (relazioni tra le lingue). Se l'asimmetria rappresenta una delle conseguenze che i rapporti tra le lingue possono assumere nel parlante o nella comunità, ci sono altre manifestazioni del fenomeno che possono essere sfruttate dal parlante stesso nella sua costruzione di ipotesi di dialetto. Dobbiamo per esempio considerare il problema di decidere quali siano i possibili elementi dialettali tra tutti quelli messi potenzialmente a disposizione partendo dall'italiano. Il problema che si pone al parlante è quello di 'restringere le regole di dialettizzazione' in modo da avvicinarle maggiormente ai prodotti dei nativi (la situazione è simile a quella della 'asimmetria' in quanto l'insieme delle ipotesi di dialetto del non nativo è più ampio di quello degli effettivi elementi dialettali, ed esso quindi va ristretto secondo linee difficili da cogliere per il non nativo). Questi fenomeni ci ricordano un problema ben noto all'interno degli studi sull'acquisizione della lingua materna, il cosiddetto problema della 'mancanza

43 Il carattere della koinè dialettale ticinese che esce dalla indagine di Petrini piuttosto che quello di una varietà innovativa principalmente in direzione dell’italiano è quello di una varietà principalmente dialettale incentrata fortemente sulla regolarizzazione interna e sulla selezione di alcuni tratti regionali (storicamente dialettali) a scapito di altri. In questo senso è una varietà tipicamente di nativi, dove i fenomeni di contatto con l’italiano non sono quelli prioritari.

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di evidenza negativa'44, che però nel nostro caso si presenta sotto una nuova ottica: "quali sono gli elementi sui quali i nostri parlanti fondano il loro giudizio di maggiore o minore dialettalità senza che nessuno gli abbia mai detto che una certa parola non si ritrova in dialetto?" E' probabile che su questo punto giochi un certo ruolo la lingua italiana attraverso un processo di ricerca di distanziamento dalla stessa da parte del parlante. Questo ruolo della lingua italiana può fondarsi su 'suggerimenti operativi', come per es. quello che quanto più un elemento è normale in italiano tanto meno esso costuisce un segnale di dialettalità. Oppure, in una versione più complessa, potrebbe addirittura essere la variazione interna all'italiano a suggerire i dialettismi possibili, sulla base del principio che gli elementi diastraticamente e diafasicamente più bassi dell'italiano sono quelli che più si avvicinano al dialetto (con una applicazione delle strutture sociolinguistiche dell'italiano alle regole di dialettalità). In questo modo si forma un altro 'filtro' di selezione di ciò che è dialettizzabile, con una preferenza per quegli elementi dell'italiano aventi valore più informale-parlato, un valore sentito come più appropriato per il dialetto. Simmetrico a questo problema è quello, imparentato con il fenomeno della commutazione di codice, relativo al modo in cui i parlanti decidono che una certa parola italiana non sia dialettizzabile mediante regole di corrispondenza ma vada utilizzata nella forma italiana (nonostante siano potenzialmente rintracciabili in essa corrispondenze facili). Anche in questi casi è probabile che il giudizio sia fondato in modo importante su valutazioni di tipo sociolinguistico. Un altro punto correlato con il problema della 'asimmetria e che attende ulteriori indagini riguarda la cosiddetta 'mutua comprensibilità', cioè la capacità di utenti di lingue o varietà diversi di capire ciò che l'altro dice. E' molto frequente in questi casi la non completa simmetria delle direzioni di 'comprensibilità', con una maggiore facilità da parte di un parlante a capire l'altro che non viceversa. Non abbiamo qui la possibilità di approfondire questa tematica, ma vale la pena di

44 Il problema della 'mancanza di evidenza negativa' è costituito dal fatto che il bambino riescirebbe a precisare le regole della propria lingua, escludendo le sovrageneralizzazioni che non compaiono nelle varietà degli adulti, senza aver avuto prove esplicite della non grammaticalità di queste costruzioni. Per una rassegna sul problema cfr. per es. Bowermann (1988). Sokolov e Snow (1994) dal canto loro propongono di ridimensionare il problema, riducendo sia il ruolo delle sovrageneralizzazioni dei bambini, sia la non disponibilità effettiva di 'evidenza negativa'.

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osservare velocemente due possibili modelli esplicativi elaborati per la situazione scandinava, presentati da Elert (1988, 1390-1)45:

"Bannert suggests that a model for the perception of a partially similar language must contain an additional component in which the incoming signal is corrected for the deviations from the listener's own language. Another approach to the problem is ranking features according to their importance for the understanding of partially similar words (Elert 1981, 87). For instance, it is plausible that for the recognition of a cognate word in another language identity of consonants is more important than that of vowels, identity of stressed vowels more than that of unstressed ones, and identity of initial consonants more than that of medial or final ones. Further a phonetic difference involving few distinctive features disturbs understanding less than one involving several distinctive features. In a sentence identity or close similarity of the semantical words or the stem part of a word is judged as being more important to understanding that that of grammatical words (particles) or suffixes. Finally, lexical identity is more important that identity in syntactical structure, e.g. in word order."

Lo studio del contatto tra dialetti, come un caso particolare di contatto tra lingue, si presenta quindi come altamente interessante non solo per la comprensione della comunicazione 'interdialettale', ma anche per una teoria del funzionamento della comprensione in generale. Ancora riguardo alla situazione di parlanti di lingue nordiche che imparino un'altra lingua nordica (per es. per migrazioni interne alla Scandinavia), Elert (1988, 1391) afferma pure che:

"Their accent is regarded as a kind of dialectal variation. Language mixing is permissible only in speech, not in writing".

Riteniamo che questa osservazione valga in parte anche per il Ticino, con la constatazione che l'inserzione di italiano sta anch'essa diventando sempre più una 'dialectal variation', e con quindi un incremento degli enunciati mistilingui e delle commutazioni di codice e con un'accettazione sempre più forte dell'italiano. Diventa così sempre più possibile inserire l'italiano nel discorso dialettale senza che

45 E che toccano, in fondo, anche l'ipotesi che competenza attiva e competenza passiva si fondino su due tipi differenti di processi.

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nell'interlocutore nasca il sospetto che non si stia più parlando dialetto. Anche in questo senso si può dire che il confine tra le lingue si è attenuato.

1.2.4. La 'morfologia interlinguistica' e la costruzione lessicale nel dialetto lingua seconda Se volessimo caratterizzare ironicamente i parlanti evanescenti meno competenti, e nel contempo esemplificare alcuni dei procedimenti fondamentali alla base delle loro produzioni, li potremmo definire i dialecciofoni. Perché dialecciofoni? Semplicemente perché la denominazione pseudo-dialettale del dialetto usata da alcuni di loro è proprio quella di dialécc46. A questa soluzione essi arrivano cercando di costituire una parola dialettale che non hanno a disposizione sul momento. Il loro procedimento è quello di partire da una forma di base italiana e trasformarla in una corrispondente forma dialettale secondo le regolarità e le analogie che a loro parere collegano questi due codici. Partendo da dialetto cercano quindi una possibilità simile di corrispondenza, come

46 Per favorire la leggibilità del testo abbiamo adottato un sistema di trascrizione il più possibile vicino alla grafia italiana, utilizzando, qualora fosse necessario, aggiunte esplicative nell'alfabeto fonetico internazionale (IPA). Questa scelta è legata anche al fatto che le caratteristiche principale delle varietà che ci interessano non si collocano al livello fonologico ma a quello morfosintattico e lessicale. Rispetto alla grafia normale italiana, per i nostri materiali, era però necessario segnalare la palatalizzazione di /s/ preconsonantica (un processo che per es. Lurà 1987 non deve segnalare perché automatico nella varietà da lui indagata), e la velarizzazione o meno di /n/ in finale di parola. Abbiamo adottato come soluzione, coerentemente con la proposta di Sanga (1977), il simbolo sc- per [∫Errore. L'origine riferimento non è stata trovata.Errore. L'origine riferimento non è stata trovata.] preconsonantica, e per motivi grafici abbiamo invece preferito usare nn, contrapposto a n, per distinguere [n] da [ŋErrore. L'origine riferimento non è stata trovata.Errore. L'origine riferimento non è stata trovata.] alla fine delle parole (come in Lurà 1987). Altre particolarità adottate sono le seguenti: -cc in finale di parola corrisponde a [t∫Errore. L'origine riferimento non è stata trovata.], sempre in fine di parola e davanti a vocale palatale ch corrisponde a [k] e allo stesso modo gh corrisponde a [g] (per migliorare la leggibilità abbiamo usato gh pure in posizione finale, anche se da un punto di vista fonetico sarebbe stato più appropriato in questi casi usare ch). -ss- interna o finale indica la consonante sorda. L'apertura delle vocali mediane toniche è segnalata dall'accento (acuto se sono chiuse, grave se aperte) ë indica la vocale indistinta. i e u sono da intendere come semivocali quando formano un dittongo con un'altra vocale e non sono accentate.

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per es. quella che collega l'it. tetto al dial. técc47. Applicando la corrispondenza alla base di partenza si ottiene, da dial-etto, dial-écc. Il procedimento, da un punto di vista processuale è in fondo simile a quello impiegato dalla 'morfologia interna' di una singola lingua (intesa come l'analisi della forma delle parole), dove, ad un mutamento regolare di forma corrisponde un mutamento regolare di valore. Per un gioco di ipotesi, data questa coincidenza tra morfologia intralinguistica e quella che possiamo definire 'morfologia interlinguistica', e data la supposizione che gli esseri umani posseggano una predisposizione innata per l'apprendimento della morfologia, possiamo allora a questo punto accettare che posseggano, tramite lo stesso dispositivo, anche doti innate per l'apprendimento di 'lingue a confronto'. Fenomeni apparentemente differenti, come, nell’ordine, la variazione intralinguistica, il contatto lingua-dialetto, l’apprendimento di lingue seconde con forti similarità strutturali, e l’apprendimento di lingue seconde ‘diverse’, mostrano così dei punti di continuità e di similarità (continuità e similarità che si ha anche con la capacità di gestire una morfologia intralinguistica). Si noti che molto spesso queste regole si collocano ad un livello inconscio, e spesso i parlanti negano di usarle, probabilmente perché non se ne rendono conto. Inoltre, questi procedimenti hanno funzionato per molto tempo principalmente nella direzione dal dialetto all'italiano, permettendo al dialettofono di formarsi delle ipotesi di italiano. Allo stesso tempo parole nuove dell'italiano potevano essere prese e trasformate in parole dialettali. Nel modo che abbiamo descritto sopra, l'italiano può così venir ad essere inglobato nel potenziale variazionale della L2 ed il confine tra le lingue, dal punto di vista dell'apprendente, si fa ancora più debole. Ci si può allora chiedere se, con la trasformazione di fenomeni interlinguistici in fenomeni di variazione intralinguistica, anche il concetto di 'confine dei sistemi' non debba essere relativizzato e quali siano allora le relazioni tra i vari elementi in gioco nella competenza dialettale dei nostri parlanti. In effetti vedremo che in molti casi italiano e dialetto, per gli apprendenti, tendono ad attingere allo stesso serbatoio lessicale, caratterizzato da un grande

47 Nel possibile input di questi parlanti la corrispondenza non è categorica, così per es. letto in molti nativi dà lètt, e in altri dà lécc. Anche se vi è variabilità nella corrispondenza sembra comunque che i PE colgano come primaria la soluzione più lontana dall'italiano e la generalizzino incrementandone la produttività.

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fondo comune ('convertibile', cioè adattabile alle condizioni soprattutto fonologiche delle due lingue) e da due microsistemi specifici. Si verifica quindi in parte l'immagine prospettata da Sanga (1985), di una convergenza quasi totale arrestata unicamente dal mantenimento di poche parole di differenziazione (le cosiddette 'parole bandiera') e da regole fonologiche differenti. I sistemi degli apprendenti possono essere considerati come in larga parte 'integrati' (con il dialetto 'parassitario' rispetto all'italiano) e le differenze che si ritrovano si basano o sulla differenziazione fonologica regolare o sulla differenziazione lessicale altamente irregolare48. Abbiamo così a che fare con un livello di lingua intermedio, che mediante variazioni fonologiche regolari (di solito prive di significato) veicola variazioni di significato intenzionali per il parlante e regolari (come di solito fa la morfologia). I valori veicolati da questo tipo di variazione non sono però quelli tipici della morfologia, ma sono quelli tipici della variazione sociolinguistica, in quanto riguardano l'identificazione della varietà che si sta parlando. E' in virtù di queste somiglianze da un punto di vista strategico (cioè di tecniche di espressione) che parliamo di 'morfologia interlinguistica' a proposito delle regole di corrispondenza che permettono di transitare dall'italiano al dialetto49. La similarità maggiore della nostra 'morfologia interlinguistica', sia da un punto di vista processuale che funzionale, si ha senz'altro con il livello della morfologia derivazionale. Se si è d'accordo con vari studiosi (v. per es. Dressler 1985, 329) nel sostenere che le funzioni di quest'ultima consistono soprattutto nell’incrementare il grado di analiticità delle parole (con tutti i vantaggi che ciò comporta, sia in termini di recuperabilità che di processabilità) e nel permettere di formare 'neologismi', allora dobbiamo essere d'accordo nel sostenere che queste due funzioni sono soddisfatte nel caso di lingue seconde anche dalle relazioni di

48 La distinzione tra questi due ultimi processi richiama ovviamente la distinzione, classica nella linguistica storica, tra due tipi fondamentali di fenomeni, con la contrapposizione di 'mutamenti regolari' a 'mutamenti analogici'.

49 La differenza maggiore tra alternanze morfologiche e variazione sociolinguistica consiste (oltre che naturalmente nelle differenze di tipi di significato veicolati) nella minore definibilità dei valori del secondo tipo (ciò che a sua volta può essere una delle cause della subcategoricità della loro espressione). Ma quando siano in gioco alternanze di intere lingue, come quelle che stiamo osservando, la difficoltà di definizione si riduce (almeno fino a quando il confine rimane chiaro, ciò che non è sempre il caso, per singoli elementi, nel contatto tra italiano e dialetto).

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corrispondenza che i parlanti istituiscono con la lingua materna o con lingue d'appoggio. Le corrispondenze sono in questo caso lo strumento di messa in relazione di varianti di una lingua con varianti di un'altra lingua, come se appartenessero a due varietà di una stessa lingua. Per questi motivi adotteremo nella nostra trattazione una parte della terminologia morfologica anche per fenomeni interlinguistici, parlando per esempio di 'basi lessicali' (intendendo la parola alla quale vengono applicati i processi di corrispondenza) e di suppletivismi (per quei casi in cui le basi lessicali di due corrispondenti italiano-dialetto siano differenti, come, per usare un caso centrale nei nostri materiali, nella contrapposizione tra l'italiano solo e il dialettale dumà), o, ancora, parlando di 'conversioni' o 'formazioni zero', per quei casi in cui gli esiti delle due lingue (e/o dell'interlingua) concidono. Ma i paralleli con la morfologia vanno ancora più in là. Essi riguardano per es. gradi differenti di produttività delle corrispondenze, e gradi differenti di trasparenza dei collegamenti. Accanto a ciò, è di chiara ispirazione morfologica anche la nostra visione di questi fenomeni di variazione sociolinguistica come un processo modulare che comprende almeno due componenti: da un lato regole usate in modo produttivo dal parlante e dall'altro lato regole lessicali (che attivano parole già modificate; come tipicamente avviene con le cosiddette 'eccezioni'). Le seconde avrebbero, come abbiamo già accennato, anche una funzione di 'filtro', cioè di selezione e giudizio sui prodotti delle prime. La modularità opera qui in modo che conoscenze lessicali (fondate sulla attivazione di un certo lessema) possono co-attivare certe operazioni fonologiche piuttosto di altre, e le attivazioni fonologiche selezionano a loro volta tra le alternative lessicali. Il risultato che otteniamo è quindi il prodotto di una processazione contemporanea 'dall'alto in basso' (top-down; con ricerca nel lessico) e dal 'basso verso l'alto' (bottom-up; con applicazione alle basi lessicali di partenza di regole fonologiche), coerentemente con quanto sostenuto da lavori psicolinguistici sul recupero lessicale e sulla produzione linguistica50. In questo modo la parola che viene ad essere prodotta è il risultato di una serie di restrizioni poste sull'insieme di potenziali candidati di partenza attraverso i 'suggerimenti' sia

50 Pensiamo in particolare al modello proposto da Dell e O'Sheaghdha (1993). Questa visione dell'interlingua dialettale sarà particolarmente importante nella discussione della costruzione del lessico da parte dei parlanti evanescenti, soprattutto nei casi in cui appaiono fenomeni che si devono considerare di 'memorizzazione imprecisa'.

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lessicali-semantici (olistici o suddivisi in relazioni di unità informative51), sia di raggruppamenti fondati sulla somiglianza fonologica, con il prevalere, di volta in volta, più di un tipo di processo sull'altro52. Ciò che nel nostro caso è fondamentale è l'evidenza di come un modello di questo tipo non possa ovviamente fermarsi categoricamente ai confini di sistemi linguistici differenti, ma presupponga invece dei raggruppamenti di similarità che vanno al di là del singolo sistema. Se si concentra l'attenzione sulla processazione, il concetto fondamentale, piuttosto che quello strutturale dei sistemi separati, diventa quello dell'attivazione (cfr. de Boot - Schreuder 1993). Si possono dunque avere dislivelli di attivazione o di attivabilità che rendono la distanza tra due elementi di uno stesso sistema, in questi termini, maggiore di quella tra due elementi di sistemi differenti. La 'componenzialità interlinguistica' o meno delle lingue seconde (cioè l'eventuale ordinamento stratale di strutture della L2 su quelle della L1) è una problematica in fondo ben nota dagli inizi delle ricerche sul contatto linguistico, anche se negli ultimi tempi essa ha subito un calo di attenzione dovuto in parte alla maggiore concentrazione sull'autonomia delle interlingue e in parte alla difficoltà di verifica del modello. Le categorie weinreichiane del bilinguismo 'composito',

51 Su questa problematica cfr. per es. de Bot - Schreuder (1987) per le valenze nel bilinguismo, e per i sistemi monolingui si vedano Levelt (1989) ed i saggi in Levelt (1991).

52 Il problema delle conoscenze lessicali e quindi in ultima analisi delle dimensioni e di che cosa faccia parte del lessico, è per quanto qui ci riguarda più un problema di 'attivabilità' o 'recuperabilità' delle conoscenze che non di possesso o meno delle stesse. Recentemente alcuni autori (cfr. per es. Derwing 1990) sulla base di materiali psicolinguistici hanno fatto notare come argomenti spesso chiamati in scena per sostenere un'ipotesi di limitatezza delle capacità umane di memorizzazione lessicale non abbiano corrispondenza nella realtà. Vedremo per esempio che ipotesi di parole dialettali possono essere immediatamente autocorrette dai parlanti, come se il tentativo di forma avesse permesso di raggiungere una forma realmente già posseduta olisticamente. D'altro canto, alcuni prodotti 'strani' degli apprendenti non sono spiegabili in termini di procedure regolari di formazione ('regole' appunto) e rimandano piuttosto a casi di memorizzazione imprecisa o a difficoltà di accesso. In verità, non è detto che il principio dell'economia di un modello abbia un fondo nella realtà, dato che la realtà potrebbe anche essere molto poco economica e elegante, essere cioè costituita da una serie di 'incidenti evolutivi' senza l'intervento di un principio di 'riorganizzazione' (economica e elegante), oppure essa potrebbe essere attenta piuttosto ad altre pressioni, come per es. quella della ridondanza, piuttosto che al risparmio nell'immagazzinamento.

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'coordinato', e 'subordinato'53 dopo il notevole successo iniziale54 non compaiono quasi più negli studi sul bilinguismo, nonostante continui a sussistere un'importante evidenza empirica relativa a modi differenti di processazione bilingue55. Più di recente, partendo dall'affermazione di Weinreich che "il bilinguismo di una persona o di un gruppo non deve necessariamente essere tutto del tipo A o tutto del tipo B, poiché possono essere compositi alcuni segni delle due lingue e altri no" (pp. 16-7 della traduzione italiana di Weinreich 195356), De Groot (1993) ha sostenuto che "the lexical memories of individual bilinguals may contain a mixture of different representational forms." (p. 46). L'autrice ha analizzato una serie di parametri che potrebbero essere responsabili del tipo di immagazzinamento, come per es. il grado di concretezza della parola, la similarità formale tra i significanti delle differenti lingue57, la frequenza, la peculiarità culturale del significato, la storia apprendimentale, ecc. Sempre secondo la De Groot, sarebbe fondamentale il grado di similarità dei significati, con una tendenza maggiore alla composizionalità quanto più vi sia coincidenza semantica. A livello di memorizzazione, quindi, parole simili appartenenti a lingue differenti potrebbero essere più strettamente collegate di

53 Secondo la definizione di Weinreich (1953) i 'segni compositi' sono quelli in cui per le due lingue si ha un unico significato e due significanti, i 'segni coordinati' sono quelli in cui si hanno due significati e due significanti, e infine i 'segni subordinati' sono quelli in cui "i referenti dei segni della lingua che viene appresa possono allora non essere vere e proprie 'cose', ma segni 'equivalenti' della lingua già nota" (cit. dall'edizione italiana, p. 17).

54 In parte attraverso la mediazione di Ervin e Osgood (1954).

55 Che ha portato, anche in anni recenti, al riemergere dei concetti sotto altre denominazioni, come per es. in Vaid (1988), che parla di interdependence vs. independence hypothesis o in Durgunoglu e Roediger (1987), che parlano di single-code vs. dual-code hypothesis.

56 Si noti in margine che questa concezione è perfettamente coerente con il fatto che Weinreich abbia sempre parlato di tipi di 'segni' e non di tipi di individui o di sistemi.

57 In particolare parole 'co-discendenti' (parliamo di 'parole co-discendenti' per tradurre l'inglese cognate words, che fa riferimento a parole di lingue differenti caratterizzate tra loro da una certa similarità di forma e di significato) concrete sarebbero più facilmente memorizzate in forma composita, mentre parole astratte e 'non co-discendenti' avrebbero più facilmente un immagazzinamento coordinato. Invece parole che si trovano in una fase precoce di acquisizione avrebbero più facilmente forma subordinata.

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quanto non siano parole non simili appartenenti allo stesso sistema linguistico58. La distinzione tra le forme delle due lingue verrebbe allora fatta nella fase iniziale della produzione linguistica, nel modulo che Levelt (1989) chiama "il concettualizzatore"59. Il problema della composizionalità non costituisce unicamente un punto centrale dell'apprendimento di lingue seconde e del contatto linguistico in genere ma anche della teoria morfologica (intralinguistica). In questo caso si tratta del problema dell'applicazione effettiva delle regole morfologiche nella produzione lessicale60. Osservazioni fatte in questo ambito possono aiutarci a stabilire, nel nostro caso, in che grado le regole di convergenza intervengano e fino a che punto esse giochino un ruolo reale nella produzione di parole dialettali o pseudo-dialettali a partire da basi italiane. Innanzitutto è ovvio che nel caso che i prodotti linguistici forniti dai nostri soggetti siano differenti da quelli della lingua obiettivo si debba supporre l'azione di una corrispondenza che ha portato produttivamente a questo risultato. Nei nostri materiali, come vedremo, i casi di questo tipo sono parecchi e la loro quantità e frequenza è sufficiente per sostenere l'ipotesi di un ruolo fondamentale delle corrispondenze, che si configurano così come vere e proprie 'regole' del sistema interlinguistico dei nostri parlanti. I problemi di identificazione univoca emergono però per esempio quando i prodotti degli apprendenti sono uguali a quelli della lingua obiettivo. Questa coincidenza ci nega la possibilità di attribuire chiaramente un ruolo primario alle corrispondenze, anche se è possibile che in una parte importante di casi si tratti di 'neologismi' coincidenti con i prodotti della lingua obiettivo; il parlante non avrebbe conosciuto la soluzione della lingua obiettivo arrivando comunque allo stesso

58 In effetti De Groot e Nas (1991) propongono una concezione secondo la quale parole di due differenti lingue, equivalenti per significato e simili per significante, appartengono allo stesso nodo concettuale nella memoria (con quindi una rappresentazione composita).

59 Il 'concettualizzatore' elabora l'intenzione comunicativa e pianifica il contenuto e la forma del messaggio. Esso ha anche il compito di monitorare l'output dando luogo infine al messaggio preverbale che viene passato al componente successivo, chiamato "formulatore". Il monitor ha in seguito la possibilità di verificare anche gli output di fasi successive della produzione.

60 E riprendendo un'osservazione di Marslen-Wilson et al. (1994), Bertinetto (1995, 10) fa notare che: "A word may be morphologically complex from the linguistic (diachronical) point of view, while being synchronically accessed as a monomorphemic entity."

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risultato del dialetto attraverso regole di corrispondenza che modificano una base italiana. Al di là però dei fenomeni neologistici (coincidenti o meno) ci si può ancora chiedere quale sia il ruolo delle corrispondenze negli altri casi, per quei casi in cui la parola non venga prodotta dal parlante per la prima volta. L'interesse di questa problematica è ovviamente interessante per la definizione sia dello statuto delle corrispondenze (come vere e proprie regole o no) sia, di conseguenza, del sistema dialettale dei parlanti. A seconda delle risposte, i gradi di integrazione dei sistemi, o meglio di parassitarietà del dialetto, variano. Se la composizionalità gioca un forte ruolo dovremo allora assumere che i prodotti dialettali degli apprendenti siano costruiti sistematicamente sulle forme di base italiane. Le regole di corrispondenza assumono così una posizione da regole 'post-lessicali' (fonologiche o allomorfiche61) che si applicano addirittura a forme flesse italiane. Vedremo infatti in seguito che anche nel campo della morfologia flessionale dialettale ci possiamo trovare di fronte a prodotti che sono chiaramente costruiti a partire da forme flesse italiane. La presenza di chiari segnali di costituzione ‘in diretta’ della morfologia dialettale su forme flesse italiane, mostra la forza notevole delle regole di corrispondenza nella costruzione del prodotto dialettale e la conseguente perdita di autonomia del sistema dialettale. Nella visione più forte, il sistema dialettale presenterebbe allora un forte nucleo costituito dal lessico e dalla morfologia italiani alle quali si sovrappone un insieme di regole post-lessicali di corrispondenza. In generale, ci sembra però di poter assumere una posizione di compromesso, coerente con quanto osservato in precedenza sulla capacità di memorizzazione e sulla bidirezionalità dei processi di produzione. In effetti è sostenibile, continuando il nostro parallelo tra morfologia e corrispondenze, una versione ridotta dell'ipotesi di Aronoff (1976) che l'applicazione delle regole morfologiche abbia come conseguenza la memorizzazione delle parole prodotte62. Mentre però per Aronoff ciò portava ad una non necessità di utilizzare due volte la stessa regola per lo stesso prodotto (secondo il suo concetto di once only rules),

61 Consideriamo qui come aventi statuto fonologico quelle regole che mettono in corrispondenza fenomeni unicamente fonologici, mentre hanno statuto allomorfico quelle che mettono in corrispondenza interi morfemi (anche se nel nostro caso si tratta ovviamente di forme morfologiche di sistemi differenti).

62 Ovviamente Aronoff parla di regole morfologiche di un unico sistema linguistico.

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crediamo che, specialmente nel caso di varietà di apprendimento, nonostante la parola possa essere presente nel lessico, le regole giochino comunque un certo ruolo nella ricostituzione della parola stessa63. Questo ruolo però sarebbe differente da caso a caso, a seconda di una serie di parametri proposti come fondamentali da differenti autori64. La proposta più 'completa' in questo senso è quella fatta recentemente da Pier Marco Bertinetto (1995), che considera come discrimine il peso combinato di quattro fattori: la frequenza, la regolarità, la trasparenza e la produttività. I valori di trasparenza (o, al livello opposto, di opacità) dipendono dall'analizzabilità sia della forma che del contenuto di una parola; se il confine tra i morfemi è facilmente individuabile e il valore complessivo è prevedibile sulla base dei valori dei morfemi che formano la parola avremo una forte trasparenza. Al calare di questi valori aumenta invece l'opacità della parola. La regolarità, che come fa notare Bertinetto tende spesso ad essere inglobata nella trasparenza, riguarda invece la costanza nell'applicazione di una regola morfologica. Una formazione può essere regolare anche se vi è bassa trasparenza sia da punto di vista del contenuto65 che dal punto di vista dell'espressione66. Allo stesso modo una parola o un procedimento morfologico può essere molto frequente senza necessariamente essere trasparente o regolare. E per finire una parola può essere regolare, trasparente e frequente senza essere produttiva. Questo ultimo parametro, quello della produttività, è senz'altro il più complesso (anche perché il concetto è uno dei più polisemici e ambigui della linguistica67). Dato che Bertinetto non lo definisce, dobbiamo supporre che egli lo

63 Anche la categoricità del concetto di once only rules di Aronoff è stata contestata da più parti.

64 Oltre alle discussioni sulla composizionalità vera e propria, come per es. in Bybee (1985; dove l'autrice sostiene che il criterio per la memorizzazione di una parola non sarebbe più il suo carattere idiosincratico ma la sua frequenza) si trovano spunti interessanti anche in altri campi di discussione, per più versi collegati a questo, come per es. quello relativo all'astrattezza delle regole (cfr. per es. Bauer 1988, p. 120, che propone che "only productive processes should be handled by rules").

65 L'esempio di Bertinetto per questo caso è emerge > emergency.

66 Bertinetto esemplifica con serene > serenity.

67 Cfr. la rassegna e la discussione di Rainer (1989).

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intenda come relativo unicamente alla possibilità di una certa regola di essere impiegata per formare neologismi in un preciso momento sincronico (altri sensi possibili rendono più difficile la distinzione rispetto agli altri parametri, come per es. la frequenza)68. In coincidenza con la proposta di Bertinetto possiamo comunque supporre che quanto più una corrispondenza sia frequente, regolare, trasparente e produttiva, tanto più essa sia applicata 'realmente' (ed anche più di una volta) come regola nella costituzione di elementi lessicali dialettali a partire dall'italiano. Ma d'altro canto, con la ben nota relazione indessicale segnalata soprattutto dalla 'morfologia naturale'69, tanto più una parola, intesa come prodotto intero sarà frequente e peculiare nella sua identificazione, tanto più essa costituirà un elemento lessicale dialettale autonomo, nella cui produzione non neologistica le regole di corrispondenza giocheranno un ruolo insignificante. Se la relazione sia dal punto di vista del contenuto che dell'espressione tra un elemento a ed un elemento b (sia nella stessa lingua, che, possiamo aggiungere, tra lingue differenti) sarà molto trasparente, regolare, frequente e produttiva, allora potremo con maggior probabilità parlare di una 'regola' vera a propria e pensare ad una composizionalità relativamente alta del prodotto (con quindi un ruolo fondamentale della regola rispetto alla memorizzazione non analizzata). Al decrescere di questi parametri il ruolo della relazione diminuisce di importanza ed entrano in scena tipi di algoritmi differenti, fondati maggiormente sull'analogia (come

68 Il criterio è più problematico se prendiamo come punto di riferimento il parlante (ciò che è ancora più facile, se non obbligatorio, fare nel caso di interlingue), dove nel concetto di parola 'nuova per il parlante' la produttività diventa condizione unica e sufficiente (oltre che non ambigua) per la composizionalità (fermo restando, ovviamente, che la produttività è relativa alla singola regola morfologica, mentre la composizionalità è relativa alla parola e quindi non si ha circolarità completa). Proprio in questa sua relazione con la composizionalità sta, a nostro parere, il problema stesso della nozione di produttività: se una parola è prodotta in modo composizionale, allora essa equivale ad un neologismo per il parlante e il suo uso singolo innalza la frequenza d'impiego della regola e con ciò il suo valore di produttività. Si crea quindi una parziale circolarità tra i due concetti. Il problema invece non si pone se si definisce il 'neologismo' in termini sociali, cioè come relativo all'intera comunità (al lessico della comunità) e non a quello del parlante (ma, come abbiamo detto, quando ci si occupi di parlanti non nativi, ciò non è sempre autorizzato).

69 Cfr. per es. Dressler (1985, cap. 10). Si pensi anche ai principi 'di generalità lessicale' e 'di rilevanza' proposti dalla Bybee (1985).

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per esempio i cosiddetti 'schemi'; v. Bybee e Slobin 1982 e Bybee e Moder 1983). Si costituisce così una gradazione progressiva che va da regole a analogie a fenomeni di memorizzazione lessicale non analizzata. La considerazione pluri-parametrica di Bertinetto rivela a nostro parere un altro aspetto fondamentale della questione, e cioè che la questione della composizionalità o meno non sia una questione di tutto o niente quanto piuttosto una questione di gradi, in cui abbiamo vari livelli di composizionalità, così come abbiamo vari livelli di intervento dei prodotti non analizzati, con la dinamica che abbiamo discusso in precedenza di costituzione contemporanea dei prodotti dal basso verso l'alto (ciò che richiede un'alta composizionalità) e dall'alto verso il basso. Per quanto riguarda l'autonomia dei sistemi e la collocazione teorica delle corrispondenze in relazione ai sistemi in gioco (italiano e dialetto), le varietà di interlingue dialettali che fanno un uso più importante delle regole di corrispondenza sono conseguentemente oramai da considerare come 'varietà di italiano', dove le corrispondenze stesse non sono più strategie di trasformazione da un sistema all'altro, ma costituiscono piuttosto il modulo fonologico (e allomorfico) di un sistema avente come base principale l'italiano (siccome le basi lessicali sono italiane). Esse non sono quindi più un 'modulo di transizione', un 'intersistema' minimo ad hoc per risolvere problemi comunicativi e staccato parzialmente sia dal sistema dialettale che, soprattutto dal sistema italiano, ma sono quanto rimane del sistema dialettale. Che gli apprendenti abbiano ricostruito per conto proprio questa loro 'morfologia interlinguistica' è evidente, ma facendo ciò non hanno fatto altro che impossessarsi di una parte del dispositivo neologistico sviluppato dal dialetto nei decenni di contatto con l'italiano. Se è vero che l'innovazione nelle varietà native viene quasi esclusivamente dall'italiano e si adatta alle strutture dialettali, allora il dialetto aveva già da tempo abbandonato una parte importante della funzione neologistica del suo modulo derivazionale, specializzandolo nella forma di dispositivo di adattamento dei prestiti. In effetti, i nostri parlanti non fanno altro che raccogliere e intensificare l'uso di questo potenziale (fino a sovrapporlo in alcuni casi addirittura alla morfologia flessionale del dialetto). Se non fosse per il permanere dei principali tratti morfosintattici, che discuteremo tra poco, il dialetto, con il ruolo centrale delle regole post-lessicali di adattamento, non diventerebbe niente altro che, detto in modo semplicistico, una 'pronuncia dell'italiano'.

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Il sistema interlinguistico risulta così composto dagli elementi dell'italiano utilizzabili per la produzione di elementi dialettali (le 'basi lessicali') e dalle regole dialettali (usate sia come regole autonome del dialetto che come strumenti di 'dialettizzazione', cioè regole di corrispondenza) oltreché dagli elementi lessicali noti del dialetto (le forme suppletive). Questo sistema risente, oltre che delle pressioni interne, anche del confronto con la L1, che fa sì che si possano creare in esso 'zone deboli', perché non sostenute da una corrispondenza nella L1 (o rispettivamente ‘forti’ qualora siano sostenute dalla L1). Accanto alla naturalezza generale e alla naturalezza relativa al singolo sistema dobbiamo quindi presupporre anche una naturalezza relativa al confronto della lingua obiettivo con la L1 o le altre LN, fondata su basi di corrispondenza70. In questo modo lo studio delle relazioni tra varietà di lingua e lo studio dell'apprendimento di lingue simili strutturalmente si concentra su una serie di fenomeni che potrebbero essere considerati intermedi tra lo studio della morfologia intralinguistica (intesa, come abbiamo detto, come variazione regolare di forma che rimanda, iconicamente, a variazioni regolari di contenuto) e la competenza sociolinguistica (intesa come capacità di gestione di variazioni di forma in funzione di differenti valori sociolinguistici).

70 Secondo Wurzel (1987), accanto ad una naturalezza generale, dovuta al rapporto tra l'utente ed i segni linguistici (che genera preferenze come per es. quella per segni trasparenti caratterizzati da biunivocità), si deve considerare anche una 'naturalezza di sistema' relativa al rapporto dei singoli segni con le preferenze dettate dal sistema linguistico a cui appartengono. Nel nostro caso occorre in più considerare un livello di naturalezza relativo ad un sistema 'interlinguistico', in base al quale, accanto alle zone deboli (generali) del sistema si hanno quindi 'zone deboli a confronto', relative alle strutture delle lingue meglio possedute. Inoltre, il confronto con soluzioni 'particolarmente soddisfacenti' della L1 o Lap (maggiore espressività, maggiore naturalezza, semplicità, ecc.) porta alla 'creazione' o percezione di zone deboli che altrimenti non sarebbero necessariamente sentite come tali dai parlanti nativi. Si tratta quindi di un vero e proprio criterio di 'naturalezza relativa' (dipendente dai sistemi linguistici che si usano abitualmente e che si sono automatizzati) che si affianca alla 'naturalezza generale' (dovuta al rapporto degli esseri umani con le lingue).

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Un'indagine sul funzionamento della competenze dialettali dei non nativi71 può, per questi motivi, fornire un contributo importante allo studio generale sulla variazione, permettendo di approfondire la relazione tra il fattore processuale e la variazione72. Se una parte importante della variazione ha la sua origine nel problema degli utenti di gestire le varianti in competizione, studi su varietà come queste possono permettere di indagare maggiormente proprio questi aspetti73.

1.2.5. Il ruolo del francese come lingua d'appoggio Abbiamo visto che una parte importante della competenza dei PE riguarda le cosiddette regole di corrispondenza, che istituiscono correlazioni regolari tra forme del dialetto e forme dell'italiano. Abbiamo anche visto che uno dei compiti dei nostri parlanti è quello di marcare i loro prodotti come dialettali, distanziandoli dall'italiano. Nei parlanti evanescenti, in modo sempre più importante al diminuire della competenza dialettale, incontriamo l'uso del francese per la costruzione di ipotesi di dialetto. E' innanzitutto importante precisare che nessuna di queste persone è di lingua materna francese o ha un rapporto privilegiato con questa lingua che non sia quello di averla imparata a scuola come lingua seconda. Nel nostro caso quindi il francese è lingua d'appoggio nella costruzione del dialetto dei parlanti evanescenti.

71 E intendiamo qui per non nativi sia i non italofoni, che, soprattutto, gli italofoni non dialettofoni, che a nostro parere, costituiscono il gruppo più interessante per lo studio di questo aspetto della variazione nel loro fornire dei continua dialettali di solito non osservabili nella realtà.

72 Si veda per es. il modello di Kroch (1978), che mette in correlazione i fenomeni variazionali con gradi differenti di naturalezza delle varianti. Spunti interessanti in questo senso si hanno anche nei tentativi di Dressler e collaboratori (cfr. per es. Dressler - Moosmüller - Wodak 1989) di correlare tipi di varietà a tipi preferenziali di fenomeni fonologici. Osservazioni critiche sul ruolo della naturalezza nella variazione a scapito delle componenti apprendimentali si trovano invece in Labov (1989).

73 E' in una parte di questo senso fondamentale che lo studio delle lingue seconde (e in particolar modo delle lingue seconde vicine strutturalmente) e della variazione nelle lingue seconde possono fornire un contributo fondamentale alla sociolinguistica. Sulle relazioni in genere tra variazione nell'apprendimento di lingue seconde e variazione sociolinguistica cfr. Tarone (1988) e Moretti (1989).

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E' indubbio che per questi parlanti sussiste, per certi aspetti, una maggiore vicinanza tra francese e dialetto che non tra italiano e dialetto e quindi il francese tende ad infiltrarsi come soluzione, non voluta e non conscia, nella loro costruzione di ipotesi dialettali. Sia da un punto di vista fonologico che da un punto di vista sintattico le similarità sono in effetti talvolta assai forti ed i parlanti percepiscono, di solito in modo inconscio, queste similarità con il risultato di forme francesizzanti anche in parlanti competenti. D'altro canto queste persone hanno imparato a scuola il francese come prima lingua straniera, e quindi si può dire che di regola dispongono di una competenza attiva in questa lingua superiore a quella del dialetto. Che la competenza inconscia recuperi queste similarità è senz'altro interessante, ma ancora più interessanti sono le aperture che casi di questo genere ci aprono per lo studio delle modalità di memorizzazione e processazione delle conoscenze linguistiche. E' probabile che nella ricerca della possibile forma dialettale (o di una forma posseduta ma non facilmente recuperabile), i parlanti vengano attratti da una 'similarità del percorso di recupero' con il percorso che si segue nella ricerca di una forma francese. Essi cioè seguono caratteristiche 'tipologiche' (principalmente formali) assai vaghe, che fino ad un certo punto del processo di recupero sono condivise da francese e dialetto. L'attivazione del percorso avrebbe poi come effetto il suggerimento 'dall'alto' della forma francese (caratterizzata anche da tratti differenti da quelli della forma dialettale), che di solito viene impiegata in un primo momento ma è subito identificata come non dialettale e quindi corretta o segnalata metalinguisticamente all'interlocutore. Il percorso di recupero potrebbe perciò seguire gradi di 'vaghezza' decrescenti e partire da percezioni tipologiche dei parlanti, per arrivare alla singole particolarità dei singoli sistemi. In questo senso la tipologia costituisce quindi uno schema di differenziazione, e di coerenza interna, tra le varie selezioni generali possibili. Il francese, rispetto al dialetto, deve inoltre avere per questi parlanti vantaggi importanti nel recupero delle conoscenze. Quindi, queste due caratteristiche, della similarità percepita, o, forse meglio, della coincidenza di percorsi di ricerca, e della maggiore recuperabilità di alcune strutture francesi, fanno sì che si ricorra a questa lingua come lingua d'appoggio. Accanto ad esse gioca un ruolo importante la distanza del francese dall'italiano, che fa sì che alcune delle differenze tra dialetto e francese (note ai parlanti) siano 'neutralizzate'. In questo senso alcuni dei processi di recupero o di costruzione 'dal basso' coincidono almeno nei punti di partenza per questi parlanti.

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Il concetto di 'similarità tra lingue' va perciò relativizzato alle lingue in gioco, perché non si ha solo un concetto generale di 'similarità', ma anche uno di 'differenza' relativa, che può incrementare la similarità relativa. Nel nostro caso abbiamo dunque una 'coincidenza psicotipologica' tra francese e ipotesi sulla differenza tra italiano e dialetto, dove il francese si configura come un nuovo tipo di lingua d'appoggio. Esso entra in scena attraverso ipotesi di dialetto ricavate da 'distanziamenti dall'italiano'. In questo modo otteniamo una nuova prospettiva sulle lingue d'appoggio, sul loro funzionamento e sui vari tipi di influsso che esse possono avere74. La lingua d'appoggio diventa fondamentalmente una lingua che si colloca ad un livello intermedio tra la lingua materna (più distante) e la L2, ciò che fa sì che a volte lingua d'appoggio e L2 sembrino costituire un 'blocco comune' contrapposto alle lingue più 'distanti'. Questo indipendentemente dal fatto che il ruolo delle lingue d'appoggio sia conscio o inconscio, voluto o accidentale (nel senso visto sopra, in cui il parlante, parte da ipotesi di distanziamento ed è attirato nell'orbita di un'altra lingua). La realisticità di questa 'relativizzazione della similarità' è sostenuta anche da casi di 'appoggio' in cui la similarità linguistica tra L2 e Lap viene ad essere molto ridotto se non insignificante o inferiore alla similarità L2-L1. Pensiamo per esempio al cosiddetto double trouble phenomenon, cioè al fenomeno di interazione delle altre lingue seconde conosciute con la nuova lingua in via di apprendimento, dove la similarità è pressoché nulla e dove l'unica coincidenza dei codici in gioco è quella di essere delle L2. E' a questo proposito interessante il caso di Steinberg (1993, 257), che riferisce come durante l'apprendimento del giapponese gli venissero sempre in mente strutture francesi (Steinberg è anglofono), e come poi trasferitosi per un certo periodo in Francia gli venissero continuamente espressioni giapponesi quando cercava di parlare francese. Non credo sia possibile ritrovare una osservazione più radicale sulla relatività della similarità linguistica nel ruolo delle lingue d'appoggio. Infine si deve notare che il fatto che i parlanti 'escludano' o correggano in un secondo tempo queste forme rappresenta un caso interessante di 'filtro metalinguistico per esclusione', dato che più che il riconoscimento della 'non dialettalità' del risultato conta il riconoscimento del suo appartenere al sistema

74 V. per es. anche il ruolo del latino nella costruzione di ipotesi di italiano in tedescofoni (cfr. Berruto, Moretti, Schmid 1988). Una prima discussione su tipi differenti di interventi delle lingue d'appoggio si ha in Moretti (1993).

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francese e quindi la non appartenenza al dialetto. Il filtro è quindi basato principalmente sull'altra lingua, più che provenire dal sistema dialettale stesso. Perciò i sistemi interagiscono sia nella produzione che nella valutazione della produzione. Quest'ultimo processo è particolarmente evidente in una delle nostre parlanti (che ad un certo punto dichiara persino a cunfùndi tremendamént cul francés), la quale però ha un contatto intenso con il francese avendo studiato nella Svizzera romanda e avendo il marito francofono. Ma al diminuire della competenza nei PE la presenza di questa lingua è evidente e maggiore anche in parlanti che l'abbiano unicamente imparata come prima lingua straniera a scuola e che non la usino frequentemente; come se nei soggetti meno competenti i suggerimenti dal francese incontrassero una resistenza minore da parte di corrispondenti suggerimenti dialettali 'sentiti ma difficilmente attivabili'. Per quanto riguarda la fonologia, il francese e i dialetti ticinesi, diversamente dall'italiano, sembrano essere considerati dai parlanti, detto in modo molto generico, delle lingue 'riducenti'75, che hanno spinto più avanti i processi di innovazione fonologica con un maggiore distanziamento dalle forme latine. Entrambe presentano inoltre vocali anteriori arrotondate ([ü] e [ö]), e queste caratteristiche in comune rendono dialetto e francese, per i nostri parlanti, più vicini tra loro di quanto non lo siano italiano e dialetto. Per la sintassi è senz'altro importante sia l'uso dei clitici soggetto, che le differenze per esempio nella posizione della negazione (due settori dove la vicinanza tra italiano e francese è comunque solo parziale). Per entrambi i casi ritroviamo nel grande gruppo dei parlanti evanescenti (quindi non solo nei PE1) forme ricavate dal francese. Sul ruolo del francese torneremo in modo più approfondito discutendo le particolarità fonologiche e lessicali dei PE3.

1.3. Il riassestamento della diglossia Abbiamo visto che una lingua in perdita di vitalità subisce tre tipi differenti di perdite: perde parlanti, perde strutture e perde contesti d'uso. In questi modi la lingua in decadimento perde i propri caratteri di autonomia e assume sempre più un

75 Questo concetto di 'riduzione' della forma fonologica (superficiale) verrà precisato più avanti. Come vedremo molti parlanti interpretano le forme dialettali come 'riduzioni' delle forme italiane, e buona parte delle loro regole sono quindi regole di 'abbreviazione' o di lenizione dell'italiano.

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ruolo parassitario rispetto all'altro codice. Riguardo alla discussione sul riassestamento dei domini, nella situazione ticinese è possibile sostenere che sia avvenuto il passaggio da un tipo di diglossia ad un altro76. In relazione alla situazione ticinese potremmo senz'altro dire che vi è stata nei decenni passati (quelli antecedenti agli anni Ottanta) una tendenza ad avere un chiaro punto di confine nella differenza tra parlato e scritto. Alcune usi del parlato hanno però ad un certo punto forzato questa barriera, tendendo a porre il confine in base al 'modo' piuttosto che in base al 'mezzo'. Si è così creata una nuova contrapposizione, ed una nuova barriera, fondata sul tipo di discorso e genericamente, perciò, sul grado di formalità. E' in questo senso che il sistema ha dovuto ritrovare un nuovo riassestamento, limitando l'uso di prestiti adattati nel dialetto a favore di commutazioni di codice e prestiti non adattati. Mentre in precedenza, per quanto riguarda specificamente l'uso parlato, l'equilibrio era basato in modo importante sull'interlocutore (parlare italiano voleva dire definire se stesso o

76 Che il concetto di diglossia abbia almeno due grandi accezioni è stato ricordato a più riprese (cfr. per es. Trumper 1977, Fasold 1984, Britto 1986, Berruto 1987b e 1989a; Sul concetto, o sui concetti, di diglossia un’ottima rassegna è costituita da Berruto 1995). Il primo dei sensi, quello originale di Ferguson (1959), prevedeva una compartimentazione stretta degli usi con la complementarizzazione delle varietà. Il secondo, quello che normalmente si attribuisce a Fishman (cfr. Britto 1986), copre semplicemente la compresenza di due varietà o lingue nello stesso repertorio. Alcuni autori hanno cercato di ovviare a questa ambiguità introducendo precisazioni concettuali e terminologiche. In particolare, Trumper (1977) distingue tra 'macro-' e 'micro-diglossia'. Nella prima, ma non nella seconda, vi sarebbe alternabilità delle varietà nel discorso (con quindi enunciati mistilingui) e si sarebbe creata nel corso del tempo una koinè intermedia tra la varietà alta o standard e quella bassa o microregionale, che è proprio responsabile dell'alternabilità. Nella micro-diglossia invece la compartimentazione è rigida, e la varietà bassa si limita agli usi più informali e quotidiani, ciò che la condanna tendenzialmente alla sparizione. Questi due criteri di contrapposizione (la presenza o meno di enunciati mistilingui e la presenza o meno di una varietà di koinè) riappaiono però in altre situazioni in forma disgiunta, se non addirittura in contrasto. Così per esempio, è classico negli studi sulla morte di lingue contrapporre situazioni in cui vi è una preferenza per i prestiti a situazioni in cui è preferita l'alternanza di codice (ovviamente per rispondere ai bisogni espressivi della lingua 'in crisi'). Le differenti tendenze potrebbero essere governate da fenomeni di tipologia sintattica, o, in modo più verosimile, dalla collocazione dei parlanti rispetto alle lingue in gioco.

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l'interlocutore come 'esterno', differente77, ) attualmente si è passati ad una maggiore attenzione all'argomento. Così, mentre prima era sanzionato negativamente il parlare italiano, ora è ridicolizzato un certo tipo di dialetto fortemente italianizzato che cerca però di camuffare, adattandoli, i suoi prestiti. L'italiano, dal canto suo, ha assunto un certo prestigio e ha ora un ruolo non conflittuale (eliminando il ruolo parzialmente antifunzionale nel quale era costretto il dialetto). Così facendo ci si è avvicinati (anche se l'avvicinamento non è ancora completo) a situazioni italiane che si possono considerare più 'avanzate', in termini di sviluppo del mutamento, della nostra, come per esempio quella della Lombardia. In questo senso l’uso, ora esplicito, dell’italiano nel dialetto è lo strumento che permette l’adattamento di quest’ultimo, dato che solo l’adattamento può permettere la sopravvivenza oltre il breve termine78. Si tratterà negli anni a venire di vedere in che modo queste strutture italiane non adattate vengano percepite dai dialettofoni, se cioè esse vengano intese come una 'debolezza' del dialetto (ciò che potrebbe portare alla diminuzione delle motivazioni a parlarlo) o se esse vengano sentite come integrate, quindi non più vere strutture italiane ma piuttosto strutture 'omofone', che rendono ancora più dinamico il dialetto. Nei capitoli che seguono ci dedicheremo dapprima ad una analisi approfondita della situazione quantitativa per passare in un secondo tempo alla discussione della particolarità delle nostre varietà marginali, concentrandoci prima sulle varietà di non nativi (sia italofoni che non) e poi su quelle dei nativi, osservando in particolare le modalità di trasmissione usate dagli adulti con i bambini. Queste varietà possono far da tramite tra quelle dei non nativi veri e propri (i non italofoni) e quelle dei 'neo-nativi' (i bambini che imparano il dialetto come lingua materna ai nostri giorni), perché in esse l'incontro del momento tipicamente

77 v. in proposito anche le osservazioni di Gal (1979) sul fatto che a Oberwart (una comunità austriaca di lingua ungherese ben nota all'interno degli studi sul cambiamento di lingua) nessuno userebbe l'ungherese standard nella situazione quotidiana perché sarebbe immediatemente censurato

78 Da più parti (v. per es. Berruto 1984 o Trumper-Maddalon 1982) si è fatto notare come proprio gli influssi dell'italiano contribuiscono all'adattamento e quindi alla rivitalizzazione del dialetto.

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apprendimentale dell'indebolimento del contatto con la lingua obiettivo con quello del sorgere di una forte italofonia potrebbe rivelare aspetti di eventuali tendenze del dialetto di domani, delle sue strategie di sopravvivenza e della sua futura funzionalità. Se il dialetto del futuro può quindi essere uno degli obiettivi, remoti e mai toccati direttamente, di questo lavoro, nei capitoli 3 e 4 sonderemo due possibilità indirette di restringere i 'limiti della variazione' dialettale, osservando sia le varietà di parlanti non tipicamente nativi sia gli

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sfrangiamenti che si notano nelle varietà di cui i nativi si servono per trasmettere il dialetto ai propri figli.

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2. Aspetti quantitativi della situazione ticinese

da ieri a oggi

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2. Aspetti quantitativi della situazione ticinese da ieri a oggi Abbiamo visto in precedenza che nel periodo che va dalla seconda metà degli anni Settanta all’inizio degli anni Novanta si è verificato un calo molto importante nella dialettofonia in Ticino. Per una migliore comprensione di questo mutamento quantitativo possiamo tener presente che i valori rilevati dal censimento scolastico del 1978 corrispondono all'incirca alla situazione descritta da Bianconi (1980)79 e da Lurati (1976). I valori del 1993 confermano invece quanto proposto da ricerche qualitative nell'ultimo decennio, e cioè una tendenza ad un forte incremento dell'uso dell'italiano a scapito del dialetto. In una rassegna sull'emergenza di questo mutamento nella letteratura sociolinguistica ticinese, Bianconi e Moretti (1994, 30) indicano quattro fenomeni tendenziali, che caratterizzebbero la situazione alla fine degli anni '80:

1. si parla in genere più italiano 2. si alterna italiano e dialetto nel discorso 3. l'italiano in parte si de-regionalizza 4. il dialetto mostra fenomeni di convergenza

Come abbiamo visto, i valori rilevati dal censimento scolastico sostengono senz'altro la prima affermazione e fanno altrettanto, pur se in modo più indiretto, come vedremo, per la seconda (sulle altre affermazioni, di tipo qualitativo, questi dati non hanno molto da dire). Ci troviamo quindi di fronte agli esiti di un momento di rapido e radicale mutamento, in cui la forte dialettalità rilevata nel 1975 (tanto forte da non avere che pochi paralleli nella situazione d'Italia) ha subito un calo notevole. Non ci si può non chiedere come ciò sia stato possibile, dato che il dialetto godeva alla metà degli anni Settanta di una grande vitalità, sia a livello di diffusione attraverso i parlanti, che attraverso i contesti, che attraverso gli argomenti, e, a prima vista, sembrava suggerire una stabilità relativa, rimandando soprattutto ad una forte volontà di mantenimento del dialetto e ad una capacità di quest'ultimo di relegare l'italiano all'uso scritto o di alta formalità o con ruolo pubblico (se non proprio da 'lingua rituale'), quindi nei contesti più tipicamente lontani dall'uso quotidiano-privato-

79 I rilevamenti dei materiali sono infatti stati eseguiti nel 1975.

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informale80. A questa ripartizione dei ruoli delle lingue corrispondeva una forte dialettofonia generale tra la popolazione. Sul campione totale degli intervistati di Bianconi (1980) l'81,3% dichiarava come lingua materna il dialetto, il 18,7% l'italiano. Riguardo ai fattori di forza del dialetto negli anni '70 va per esempio notato come, per quanto riguarda le scelte relative all'interlocutore, il punto massimo di uso dell'italiano fosse quello correlato a interlocutori svizzero tedeschi (con i quali veniva dichiarato l'uso esclusivo dell'italiano da parte del 77,7% dei membri del campione, l'uso di italiano e dialetto dal 15% e l'uso esclusivo del dialetto dal 7,3%; cfr. Bianconi 1980). E' interessante però la forte preferenza per il dialetto che veniva rivelata dal comportamento con un interlocutore sconosciuto (58,6% dichiarava di usare l'italiano, 19% italiano e dialetto, 22,4 dialetto):

"Il fatto di non conoscere l'interlocutore e il suo codice, ma di poter intravedere in lui per segnali esterni diversi lo straniero o il turista (situazione molto diffusa e frequente in Ticino) si traduce in livelli percentuali d'italofonia superiori a quelli in cui l'identità dell'interlocutore può essere ritenuta nota, ma inferiori a quelli in cui l'interlocutore è già individuato come straniero." (Bianconi 1980, 102)81

Quindi la non certezza di avere di fronte una persona che avesse come lingua materna un'altra lingua spingeva il parlante ticinese a provare la selezione

80 Cfr. Bianconi (1980, 71): "L'osservazione partecipante conferma infatti che la selezione del codice da parte dei parlanti ticinesi è determinata naturalmente anzitutto dal carattere di ufficialità della situazione comunicativa: in linea di massima l'italiano è parlato in tutte le interazioni con carattere formale e pubblico, nelle trasmissioni radiotelevisive, nei pubblici dibattiti, nella scuola, in chiesa ecc. ecc. Ma se viene a mancare il carattere pubblico, pur sussistendo quello formale, il codice scelto sarà molte volte il dialetto, se si verifica appunto la seconda condizione fondamentale: l'origine ticinese dell'interlocutore."

81 Cfr. ancora Petralli (1991, 318) che descrivendo il "dialettofono sbilanciato (con incerta competenza attiva dell'italiano)" lo identifica con "l'anziano operaio (contadino) abitante nelle valli", ma aggiunge in nota "Va però detto che l'anziano ticinese è in genere molto ben disposto a passare all'italiano quando la situazione lo richieda." L'autore continua con un'affermazione probabilmente troppo categorica se generalizzata all'intera situazione ticinese: "La lingua in cui i nonni ticinesi si rivolgono ai loro nipotini è oggi nella maggioranza dei casi l'italiano, rispecchiando così quella che è la scelta di vita della maggior parte dei genitori."

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del dialetto come codice fortemente preferito. Nell'attività lavorativa contatti con altre persone portavano a percentuali dell'uso rispettivo dei codici del 36,4% di sola italofonia, del 41,1% di uso di italiano e dialetto, e del 22,6% del solo dialetto. A militare (un contesto tipicamente elvetico se non addirittura spesso ticinese, e con quindi una percentuale presumibilmente bassa di non dialettofoni), nel campione dei quarantenni che avevano dichiarato l'italiano come lingua materna, solo il 4,3% dichiarava un uso esclusivo dell'italiano. Il 17,4% alternava dialetto e italiano, e ben il 78,3% usava solo il dialetto82. Il militare poteva essere considerato una zona di forte conservazione e 'ridiffusione' del dialetto83, ed un rivelatore chiaro delle preferenze dei ticinesi nei contesti in cui fosse assente l'elemento 'di disturbo' dei non ticinesi. Ma anche coloro che si dichiaravano di lingua materna italiana, secondo l'indagine di Bianconi, non potevano sfuggire alla competenza almeno passiva del dialetto, e addirittura l'84,3% di queste persone dichiarava di aver imparato in un secondo momento ad usare questa lingua in modo attivo:

"il 21,8% nella prima infanzia, il 52,1% nella fanciullezza (scuole elementari) e il 26,1% nell'adolescenza." (Bianconi 1980, 38)

Quindi, al momento delle indagini, il dialetto aveva, o aveva avuto (dato che in questo caso i dati si riferiscono a fenomeni avvenuti prima della raccolta dei dati), la forza di recuperare anche una grandissima parte di quelle persone che gli erano in un primo momento 'sfuggite'. Infine, come ultimo elemento, ma probabilmente il più importante e significativo della situazione di allora, il parametro dell'argomento non si rivelava, nel 1975, un fattore pertinente per la selezione dell'italiano.

"L'83,7% degli intervistati alla domanda del questionario: 'Parla in dialetto di politica, sport, meccanica, lavoro, confidenze personali, ecc.?' ha

82 E' curioso notare che le cifre relative a coloro che hanno dichiarato il dialetto come lingua materna vedono un uso leggermente maggiore del solo italiano (6,3%), ma un uso notevolmente minore della scelta bilingue italiano-dialetto (6,3%), accanto ad un 87,5% di sola dialettofonia. La scelta bilingue da parte degli italofoni andava allora qui interpretata allora come una soluzione di compromesso.

83 Vedremo più avanti come molti giovani dichiarino ancora oggi che l'esercito è il contesto di più forte dialettalità, in cui spesso anche gli italolofoni si vedono quasi costretti a parlare dialetto.

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risposto che usa senza problemi il dialetto per qualsiasi argomento. Molti hanno aggiunto considerazioni del tipo: 'Non dipende dagli argomenti, bensì dagli interlocutori'." (Bianconi 1980, 70)

Quindi in dialetto si poteva parlare, e si parlava, praticamente di tutto. L'italiano non poteva sfruttare la sua maggiore 'modernità' lessicale per costringere i parlanti all'alternanza di lingua e quindi ad un incremento del suo uso. Come conseguenza di ciò il dialetto faceva un forte uso di strumenti di integrazione dei neologismi italiani, mettendo così a disposizione dei suoi utenti praticamente lo stesso potenziale comunicativo (e 'adattativo'84) di qualunque altra lingua 'standard' o di grande diffusione e risolvendo internamente le motivazioni al cambiamento di lingua provocate dalle spinte extralinguistiche modernizzanti. Che poi la soluzione del dialetto fosse 'interna' (cioè basata unicamente sulle proprie strutture) solo in modo apparente dato che le innovazioni erano praticamente tutte mediate dall'italiano, è un problema, nel nostro caso (e a breve termine85), non rilevante, poiché ciò che contava per i parlanti di allora era l'evitare il più possibile ricorsi espliciti all'italiano, definendo invece il proprio discorso come dialettale. Questa caratteristica del dialetto, al di là degli altri tratti di forte conservazione, poteva addirittura essere interpretata come un segnale della capacità di espansione di questa lingua in domini che avrebbero potuto essere tipici dell'italiano, con un corrispondente guadagno di funzionalità e di 'territori sociolinguistici' (quali erano appunto i nuovi settori terminologici e tecnici), e conseguentemente con un adattamento del codice dialettale a nuovi compiti. Assieme al tentativo parziale di imporre il dialetto a interlocutori stranieri, anche questo fenomeno di conquista di nuovi argomenti mostrava chiaramente la resistenza del dialetto all'espansione dell'italiano tramite la 'nuova tradizione', i nuovi contenuti ed i nuovi interlocutori, e costituiva dunque un segnale di grande vitalità del dialetto da un lato, e di forte stigmatizzazione sociale dell'uso dell'italiano dall'altro lato.

84 Sul problema dell'adattatività anche in situazioni di conflitti di lingue, cfr. i saggi contenuti in Coulmas (1989).

85 Delle eventuali conseguenze a lungo termine, nel senso di un'apertura all'italianizzazione anche del lessico tradizionale dialettale, parleremo diffusamente più avanti.

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Accanto ai caratteri forti della dialettalità, che manifestavano la notevole solidità di questo codice, apparivano invero segnali o tendenze di indebolimento, con una loro importante coerenza a livello di correlazioni sociolinguistiche. Essi dovevano però fare i conti con la forte sanzione sociale sull'uso dell'italiano in contesti ritenuti tipici del dialetto, ciò che poteva far pensare che i comportamenti più italianeggianti non fossero suscettibili di essere assunti da una grande maggioranza (la quale appunto li condannava anche esplicitamente). Questa stigmatizzazione dell'italiano esplicitava chiaramente la forte volontà, da parte dei ticinesi, di 'difesa' del dialetto, strumento della propria identità, della propria tradizione (anche nella micro-dimensione famigliare), e codice nel quale gli utenti si sentivano completamente a proprio agio (quindi vera e propria lingua 'madre' nel senso affettivo-identitario del termine), a differenza di quanto avveniva loro con l'italiano. In questi termini è giustificato individuare la manifestazione principale del mutamento che è avvenuto dalla metà degli anni Settanta ad oggi proprio nell'indebolirsi notevole e generalizzato di questa stigmatizzazione sociale. Il cambiamento è quindi stato primariamente qualitativo più che quantitativo, anche se tra i due fattori vi è ovviamente un'interazione complessa e un effetto di 'con-causalità'. Va però notato che mentre la stigmatizzazione dell'italiano era caratterizzata da un forte grado di consapevolezza e intenzionalità esplicita da parte delle persone che la esercitavano, nel medesimo tempo, i mutamenti nelle correlazioni sociolinguistiche potevano anche agire in senso contrario spingendo gli stessi soggetti a comportamenti inconsci, contrari alle loro azioni stigmatizzanti. Un mutamento simile è ben colto, per la situazione italiana (e in particolare per quella del Veneto), da Mioni (1979, 107):

"Ora accade che a poco a poco l'italiano cominci a diventare socialmente accettabile in contesti in cui fino a poco tempo prima sarebbe stato ridicolo: ad esempio, molto spesso nel cambio di generazione un dialogo tra figli e genitori che sarebbe stato condotto in dialetto comincia ad essere conducibile anche in italiano, senza che questo implichi rapporti più formali e meno affettivi."86

86 Non posso trattenermi dall'attirare l'attenzione sull'espressione ora accade, usata da Mioni in questo passaggio, e così tipica di descrizioni di mutamenti sociolinguistici di questo genere nel suo presentare il fenomeno come improvviso e senza agenti.

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In Ticino, come abbiamo detto, avevamo quindi segnali di conflittualità della situazione linguistica con, da una parte, una tendenza alla iper-dialettalità e, dall'altra parte, una tendenza all'avvicinamento di certi gruppi sociali all'italiano87. Non si poteva per esempio non notare la differenziazione dei comportamenti attraverso le età, il genere88, il luogo di domicilio, o attraverso differenti gradi di istruzione dei soggetti. Per quanto riguarda l'età, si notava infatti un gradarsi importante delle competenze attraverso le quattro classi d'età considerate, con un passaggio da un 93,8% di dialettofonia (dialetto come lingua madre) per i sessantenni, attraverso l'83,6% per i quarantenni e il 76% per il ventenni, fino al 62,9% per i settenni, con quindi un calo quasi lineare attraverso il 'tempo apparente'89 (e con addirittura un incremento del calo nell'ultimo dislivello di età), pur manifestando ancora valori molto alti di dialettofonia anche per le generazioni più giovani. La differenziazione attraverso l'età appariva potenziata dalla combinazione con altri fattori, come per esempio la classe sociale, con un contrapporsi da un lato di una forte omogeneità, indipendente dal livello sociale nel gruppo dei sessantenni (93,4% di dialettofonia per la classe sociale inferiore, 94,7% per la classe sociale media, e 92,3% per la classe superiore), ad un'altissima variazione invece nel gruppo dei settenni (80,6% di dialettofonia nella classe sociale inferiore, 61,3% nella classe sociale media, e 10,3 nella classe sociale superiore). Inoltre, mentre nelle classi sociali inferiore e, in misura minore, media avevamo una differenziazione

87 Parallela, ma diametralmente opposta a quella di Mioni, è la seguente osservazione, relativa alla situazione ticinese degli anni '30, fatta da Keller (1932, p.728): "Certi ambienti dei ceti superiori cittadini cominciano a usare l'italiano anche in famiglia, alcuni per posa intellettualistica, presso un gruppo più piccolo invece come espressione di tendenze italofili."

88 Rifacendoci a quanto è giustamente divenuto abituale all'interno degli studi linguistici parleremo di differenze di genere e non di sesso, volendo così mettere l'accento sull'aspetto culturale piuttosto che su quello biologico della distinzione. Discutendo i dati di Bianconi (1980) utilizzeremo il primo termine anche laddove l'autore, in un periodo in cui la distinzione non era per niente diffusa, usava il secondo.

89 Per 'tempo apparente' si intende la considerazione delle differenze generazionali o di età come proiezioni diacroniche, secondo un postulato di costanza relativa per cui le persone tendono a mantenere costante il comportamento attraverso il tempo. Torneremo più avanti sulla distinzione tra 'tempo apparente' e il termine contrapposto di 'tempo reale' (in cui la diacronia è quella dello studio longitudinale, in uno spazio reale di tempo effettivamente trascorso), .

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limitata attraverso le età (rispettivamente dall'80,3% dei settenni al 93,4% dei sessantenni per la classe inferiore, e dal 61,3% dei settenni al 94,7% dei sessantenni per la classe media), nella classe superiore avevamo una variazione molto più importante, che andava dal 10,3% dei settenni al 92,3% dei sessantenni. Il dialetto, sulla base di questi dati, sembrava quindi sulla via di assumere chiare connotazioni diastratiche che non aveva per niente avuto nella generazione dei sessantenni e in misura minore nemmeno nelle altre generazioni. Anche la variabile del genere assumeva un nuovo valore distintivo nelle giovani generazioni. A sessantanni gli uomini dichiaravano il dialetto come lingua materna nella misura del 93,7%, le donne nella misura del 93,9%. A quarantanni si aveva ancora un equilibrio (82,4% per gli uomini, 85,1% per le donne), ma tra i ventenni iniziava l'allargamento della forbice (83,8% per i maschi, 69,7% per le femmine), che diveniva notevole tra i settenni (75% per i maschi, 52,9% per le femmine). Si notava infine la tendenza al cambiamento anche in relazione al luogo di domicilio. Bianconi (1980, 37) osservava che:

"Per i sessantenni il dialetto è la lingua materna comune, indipendentemente dalla variabile geografica (come già da quella sociale). In tutte le altre categorie d'età si constata la netta opposizione tra il Ticino rurale, dialettofono in massima parte (in R Sopr90 non si notano mutamenti sostanziali tra la situazione dei sessantenni e quella dei settenni; in R Sott invece la tendenza all'italofonia è evidente tra i bambini), e il Ticino urbano, in particolare sottocenerino, che tende sempre più vistosamente all'italofonia."

Anche il fenomeno del recupero del dialetto in un secondo momento (dopo una prima socializzazione in italiano) che abbiamo visto sopra possedere delle dimensioni notevoli al momento dell'indagine, mostrava già delle differenze in relazione all'età. Tra i bambini ticinesi settenni italofoni, infatti, il 29,3% dichiarava di capire bene il dialetto, il 46,7% dichiarava di capirlo abbastanza bene, e il 24% dichiarava di non capirlo (mentre tra gli adulti tutti dichiaravano di possedere almeno

90 Bianconi utilizza le sigle U Sott, U Sopr, R Sott e R Sopr per indicare rispettivamente le regioni urbane del Sottoceneri, le regioni urbane del Sopraceneri, le regioni rurali del Sottoceneri e le regioni rurali del Sopraceneri.

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la competenza passiva del dialetto, e l'84,3% ne dichiarava la competenza attiva). Giustamente, in nota, Bianconi concludeva che:

"Sembra tuttavia improbabile che il fenomeno [del forte recupero del dialetto] possa ripetersi in futuro nella stessa misura; infatti, i dati dell'inchiesta sui bambini mettono in evidenza comportamenti italofoni molto diffusi. Inoltre, soprattutto nei centri urbani, può essere determinante la presenza nelle classi scolastiche di numerosi coetanei italofoni, cioè i figli dei lavoratori immigrati italiani." (Bianconi 1980, 38 n. 15)91

Questa osservazione apre la strada alla considerazione di un altro fattore, quello del comportamento con gli immigrati italiani. La dialettofonia assoluta con amici italiani presentava cifre molto basse: per esempio, per l'età essa si collocava tra il 5,3% dei ventenni e il 15,2% dei sessantenni (il comportamento misto italiano-dialetto presentava valori rispettivi del 29,5% e del 29,3%), e per il domicilio tra il 4,1% di U Sott e il 16,5% di R Sopr (comportamenti misti rispettivi del 21% e del 36,3%; ciò che tra l'altro può prestarsi all'osservazione che l'uso nello stesso discorso dei due codici non fosse molto diffuso). Da un lato avevamo quindi la forte preferenza per il dialetto e dall'altro la rinuncia ad imporlo ai non ticinesi. Per finire con i segnali di indebolimento, possiamo ricordare che nel comportamento in famiglia erano rilevanti le differenze di comportamento con i genitori, col coniuge e coi figli, nei termini di un maggior uso dell'italiano al discendere della scala generazionale. Mentre, per esempio (cfr. Bianconi 1980, 78), tra i quarantenni92 la classe sociale inferiore manifestava una relativa stabilità tra comportamento coi genitori e col coniuge (rispettivamente 97,5% e 95,5% di dialettofonia esclusiva), appariva già in questa classe una flessione con i figli

91 E' senz'altro vero che il recupero non si può più ritrovare nelle stesse dimensioni, ma se ne continuano ad avere casi in numero rilevante. D'altra parte Bianconi (1979), commentando il censimento scolastico 1978, sosteneva l'ipotesi di un forte recupero del dialetto nell'adolescenza, e con l'entrata nel mondo del lavoro. Questa osservazione sembrerebbe essere confermata dai materiali più recenti di Bianconi e Gianocca (1994, 63-64): "questi dati confermano quindi implicitamente la tendenza al recupero del dialetto di parte dei giovani italofoni in famiglia nel posto di lavoro grazie ai comportamenti dialettofoni diffusi tra gli adulti e gli anziani. E rimandano assai lontano nel tempo l'eventualità di una scomparsa del dialetto nel repertorio comunitario ticinese."

92 Un gruppo di età interessante perché collocato circa a metà del campione e indicatore attuale delle scelte di lingua con la generazione seguente.

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(80,2% di dialettofonia esclusiva), che manifestava un avvicinamento alle linee di comportamento delle altre classi (per la classe media i valori di dialettofonia assoluta erano del 91,9% con i genitori, del 68,7% con il coniuge e del 42,3% con i figli; per la classe superiore rispettivamente del 73,8% con i genitori, del 35,7% con il coniuge, e del 2,6% con i figli). Nella situazione della metà degli anni Settanta si erano quindi introdotti elementi di incoerenza nel comportamento, ben rilevati da Bianconi:

"... i risultati delle autovalutazioni indicano una situazione linguistica instabile, in fase di trasformazione, il cui inizio può essere fatto coincidere con i mutamenti della realtà socioeconomica degli anni Cinquanta." (1980, 120-121)

Una situazione di questo tipo può rivelare notevoli problemi di stabilità ed il suo permanere apparentemente in modo stabile, può costituire il momento fondamentale di preparazione di un forte e rapido mutamento che un insieme di atteggiamenti particolari verso le lingue hanno il più a lungo possibile rimandato. La società ticinese analizzata da Bianconi (1980), orientata da un lato verso il passato, e dall'altro verso il futuro, costituisce un bell'esempio di 'diacronia nella sincronia', cioè di coesistenza in un dato momento temporale di resti del passato e di orientamenti verso il futuro, e non solo quindi per le differenti biografie delle varie generazioni. L'unico punto che rimaneva aperto poteva essere quello relativo alla capacità del dialetto di bloccare la situazione su questi valori mediante la forte stigmatizzazione che abbiamo visto agire sull'italiano e verso i comportamenti dei parlanti dei centri urbani. Al giorno d'oggi sappiamo che il potere di questa forza è diminuito notevolmente. Nel periodo che abbiamo appena visto si stavano perciò preparando i mutamenti che nel breve spazio dei quindici anni intercorsi tra i due rilevamenti scolastici hanno dato luogo alla forte caduta della dialettofonia, con un andamento dunque di mutamento non lineare ma piuttosto alternante fasi di relativa staticità con fasi di accelerazione conseguenti all'interagire improvviso dei tanti piccoli mutamenti che sono venuti preparandosi nel tempo. Allo stesso modo, Ruffino (1990, 192-193) interpreta i dati relativi alla situazione siciliana che sono emersi dalle recenti indagini dell'Osservatorio linguistico siciliano:

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"Qui si può forse solamente avanzare l'ipotesi che lo stato attuale rappresenti l'estremo punto d'equilibrio prima di un repentino e vistoso indebolimento della residua vitalità del siciliano. Ce lo può lasciar supporre il fatto che, nell'ambito del campione, i soggetti nati in periodo prebellico (quei soggetti, cioè, che tengono il siciliano) costituiscono il 36% del totale, e gli ultratrentacinquenni al momento dell'inchiesta addirittura il 60%: si tratta, come è facile arguire, dei nati prima del decennio 1950-59, periodo cruciale nel quale si determinano i grandi e ben noti sommovimenti economici e sociali, e che prelude a novità determinanti anche in campo linguistico, quali la diffusione della televisione e l'istituzione della scuola media dell'obbligo. E' d'altra parte altrettanto significativa la circostanza richiamata da Lo Piparo nella Introduzione [allo stesso volume; BM], e cioè che 'la differenza tra quanti parlano in italiano coi Genitori (15,7%) e quanti coi Bambini (70,8%) segnala una vera e propria rottura sociolinguistica: più di metà della popolazione adulta (il 65,1%) parla coi Bambini in italiano e coi Genitori in siciliano'. Non sembrerà perciò azzardato supporre che i medesimi rilevamenti effettuati un ventennio soltanto dopo i primi (ovverossia proprio all'inizio del secondo millennio), possano offrire un quadro ben diverso, un quadro cioè di assai più forte cedimento se non di vera e propria caduta verticale nell'uso del siciliano. Segnali anticipatori in tal senso vengono - come si è visto in questo stesso volume - dai dati riguardanti le tre maggiori realtà urbane dell'isola, con più forte e netta evidenza per Palermo che sembra dunque già indicare la direzione di marcia della Sicilia linguistica alle soglie del Duemila."

Si noti che il fenomeno sul quale si sofferma Ruffino è quello del forte mantenimento del siciliano accanto alla forte espansione dell'italiano, una situazione che costituisce forse uno stadio avanzato rispetto a quello rilevato dallo studio di Bianconi del 1980, dove invece si evidenziava maggiormente la complementarità delle lingue e la scarsa alternabilità delle stesse negli stessi contesti93.

93 Cfr. Bianconi (1980, 120): "Solo gli intervistati quarantenni e ventenni della categoria socioculturale superiore, domiciliati nei centri urbani, in particolare sottocenerini, dimostrano di possedere la consapevolezza di un uso diversificato, funzionale dei codici". L'affermazione esagera probabilmente la situazione, ma va presa come un segnale di una tendenza probabilistica.

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I forti mutamenti sociali ed economici che hanno caratterizzato la nostra regione a partire dagli anni Cinquanta94 portano, in questo caso, a mutamenti a livello di scelte di lingua. In Ticino però, in un primo momento, ciò non avviene, ed è in quest'ottica di grandi mutamenti collegati fortemente alla lingua italiana che si può parlare di una scelta 'anacronistica' del dialetto, come fa Bianconi. La preferenza dominante per il dialetto blocca i mutamenti che stanno 'al di sotto della superficie' e li trattiene fino al momento in cui le condizioni di base saranno tanto cambiate da farli apparire in modo massiccio. Per quanto riguarda le basi sulle quali si reggeva la preferenza per il dialetto, Bianconi (1980, 250-254) individuava quattro ragioni fondamentali:

1. "L'uso persistente e diffuso del dialetto nella Svizzera italiana può quindi essere spiegato come segno della persistenza dei valori di fondo, espressione dell'antico mondo contadino, e come affermazione della propria identità minacciata o del tutto smarrita." (p. 251) 2. "Questo primo dato importante dev'essere integrato con un altro fatto recente [...]. Intendo l'affermarsi e il diffondersi del nazionalismo (detto elvetismo) negli anni precedenti e durante la guerra come reazione al totalitarismo e imperialismo nazifascista. [...] La volontà di affermare e differenziare la propria identità si realizza anche sul piano del comportamento linguistico attraverso l'uso provocatorio del proprio dialetto, diverso dalla lingua del nemico potenziale. [...] Oggi in Ticino questo atteggiamento significa necesariamente chiusura anticulturale e antiitaliana ..." (ibidem) 3. "Due altre motivazioni possono essere facilmente individuate; la prima - attestata frequentemente nell'intervista a risposte aperte - è legata all'insicurezza profonda del parlante, soprattutto con grado d'istruzione inferiore, di fronte a un codice che ha il carattere dell'ufficialità e della formalità, imparato male e in modo insufficiente a scuola, usato raramente o eccezionalmente; nascono così i blocchi, il silenzio, la rinuncia a parlare italiano e la fuga rassicuratrice nel dialetto, lingua materna." (pp. 252-3) 4. "L'ultima motivazione ha invece una connotazione positiva (e non esclude le altre già elencate sopra); è d'ordine affettivo, è alimentata dalla consuetudine dialettofona con i familiari, gli amici d'infanzia, i compagni di

94 Cfr. per le vicende storiche e per quelle economiche rispettivamente Ceschi - Donati (1990), e Ratti et al. (1990).

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scuola e di lavoro; essa può coinvolgere, evidentemente, anche il sentimento d'appartenenza alla comunità sociale ticinese." (p. 253)

Mi sembra legittimo sostenere che la maggior parte di queste motivazioni si sia attenuata nello spazio di tempo che ha portato da queste osservazioni ai nostri giorni. In questo modo, nella nostra situazione, non avremmo tanto il problema di indagare le cause del mutamento (che sarebbero le cause classiche della 'modernizzazione' ecc., come si ritrovano per esempio negli studi classici sul language shift, primo tra tutti Gal 197995), ma piuttosto quello di indagare i fattori che hanno bloccato temporaneamente il mutamento e l'affievolirsi nel tempo della loro forza. L'identità 'tradizionale' del Ticino si è ancor più allontanata dalla realtà degli abitanti, che a loro volta ne hanno preso coscienza più esplicitamente. Anche l'atteggiamento anti-italiano sembra essersi in buona parte attenuato, e nelle giovani generazioni vi è addirittura stata un'assunzione di parecchi dei valori della corrispondente cultura giovanile italiana (cfr. per es. i pareri espressi da alcuni dei giovani intervistati da Bianconi e Patocchi 1990). Questo, non da ultimo, anche per il forte contatto che quelle che erano le generazioni giovani attorno al 1975 hanno avuto con coetanei italiani. In queste generazioni, come conseguenza della forte immigrazione italiana, i gruppi di pari hanno contenuto una forte percentuale di non dialettofoni, che non sempre, come abbiamo visto, si sono sottoposti al passaggio al dialetto. L'italiano è così diventato (almeno una) lingua del gruppo96, con tutto quello che questo fatto comporta, sia in termini di atteggiamenti verso la lingua, che in termini di consuetudine all'uso informale della stessa. Questo fenomeno ha così inciso anche sul terzo fattore citato da Bianconi, e cioè l'insicurezza linguistica del parlante. La quarta motivazione è anch'essa in parte ricollegata alle precedenti, ma il suo mutamento si incentra sulla possibilità di nascita di nuovi consuetudini, per esempio nei rapporti con i bambini in una lingua differente da quella dei rapporti con

95 Sull'impossibilità di individuare una causa unica e inequivocabile, cfr. il già ricordato Dressler (1988). Alla stessa conclusione arriva per es. anche Hindley (1990) nel suo studio socio-geografico sulla situazione del gaelico irlandese.

96 Con talvolta situazioni di alternanza di lingua a seconda degli interlocutori e comunicazioni 'dualinguali' (per usare il termine coniato da Lincoln 1979) in cui ognuno parlava la propria lingua materna.

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i genitori97. Inoltre la consuetudine, per essere mantenuta, richiede di solito una frequentazione costante ed è normale in casi di cambiamento di lingua che una interruzione della frequentazione possa dar luogo a mutamenti nella consuetudine. Pensiamo per esempio ad amici che si rincontrano dopo parecchi anni e si parlano in italiano invece che in dialetto98: ciò sarebbe stato molto più difficile se non ci fosse stata un'interruzione, perché la vecchia modalità di comportamento avrebbe dovuto essere modificata quasi in modo improvviso oppure mediante altri strumenti di 'transizione' come un'introduzione e un incremento progressivo della commutazione di codice. Il mutamento di preferenze generali nella scelta dei codici può dunque approfittare di queste interruzioni per inserirsi sulle vecchie preferenze, conservate invece al livello locale, e modificare il comportamento delle persone. Allo stesso modo, il mantenimento di una lingua microregionale è possibile unicamente quando la maggior parte dei contatti sia con persone della stessa regione. In questo senso, le dimensioni relativamente piccole della comunità ticinese e lo scarso influsso dei pochi centri urbani (peraltro non di dimensioni enormi e in genere soggetti a stereotipi stigmatizzanti che ne rendevano difficile l'assunzione a modello) hanno permesso al dialetto di bloccare, almeno temporaneamente, le dinamiche verificatesi invece in Italia (sulle quali cfr. in primo luogo De Mauro 1963, 68-88). Ma all'indebolirsi delle condizioni che si opponevano all'uso dell'italiano quest'ultima lingua è emersa in modo forte ed ha assunto il suo nuovo ruolo. Parlando con ticinesi, si ha a volte l'impressione che è come se alcuni di loro avessero deciso di aver resistito abbastanza, e di poter quindi cominciare a mollare a poco a poco la dialettofonia. E' senz'altro decisiva in questo comportamento la sensazione (magari percepita in modo negativo) che prima o dopo l'italiano si sarebbe comunque imposto. La 'resistenza' diventa quindi simbolica, in attesa che altri abbandonino la propria posizione. Anche in molti strenui difensori del dialetto si

97 Per la minore forza dei blocchi di resistenza al cambiamento linguistico nell'interazione con bambini piccoli, e per il possibile ruolo quindi di quest'ultimi come 'punto cardine del mutamento' si vedano le osservazioni nel capitolo 4.

98 Un caso autobiografico di questo tipo, relativo però alla situazione torinese, è stato per esempio raccontato ad un convegno zurighese da Corrado Grassi (com. pers.). Ma la biografia di parecchi ticinesi emigrati in altre zone del cantone o meglio ancora in altre zone della Svizzera contiene spesso fenomeni simili.

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ha l'impressione che essi stessi si giudichino comunque dei 'difensori di una causa persa', e che siano perciò pessimisti riguardo alla sopravvivenza del dialetto99. Qual è allora la situazione attuale? Accanto ai dati di forte calo rilevati dal censimento scolastico che abbiamo visto in apertura di questo paragrafo, si può allargare la visione all'intera popolazione sulla base dei dati del censimento federale 1990. Per quanto riguarda i comportamenti in famiglia100 Bianconi e Gianocca (1994, 48) concludono che:

"Il confronto, da ultimo con i dati di Lingua matrigna mette in evidenza il forte cambiamento dei comportamenti linguistici nel sottogruppo ticinese: in primo luogo la nettissima flessione dei comportamenti monolingui dialettofoni in famiglia, che toccano ormai meno di un terzo dei ticinesi rispetto ai 4/5 di nemmeno 20 anni or sono; dall'altro, è certamente importante l'aumento dei comportamenti bilingui italiano-dialetto rispetto ai dati di Lingua matrigna."101

99 Fino ad un certo punto gioca un ruolo in questa prospettiva una visione semplice della capacità linguistica delle persone per cui ci sarebbe una specie di 'principio di economia' che fa sì che sia meglio avere una lingua sola invece di due (per tutti gli stereotipi negativi che di solito vengono attaccati al bilinguismo). Qui ci potrebbe essere del lavoro da fare per la ricaduta sulla coscienza popolare delle conoscenze scientifiche relative al bilinguismo e al potenziale apprendimentale umano. D'altra parte alcuni di coloro che passano all'italiano con i propri figli dicono di farlo perché "oramai lo fanno tutti" e quindi si tolgono in questo modo la responsabilità addossandola agli altri.

100 Il censimento federale, per quanto riguardava la domanda relativa alla lingua principale (quella che una volta era la domanda relativa alla lingua materna), permetteva unicamente la selezione italiano (o eventualmente altre lingue), ma nelle due sottodomande relative al dominio 'in famiglia' e rispettivamente 'al lavoro o a scuola', era possibile indicare anche il dialetto. Per questo motivo i dati sul dialetto sono unicamente dati riferiti all'uso e non alla competenza o alle preferenze. Il confronto con la situazione precedente deve essere fatto tramite Bianconi (1980), dato che nei censimenti precedenti figurava un'unica domanda linguistica, relativa alla lingua materna, dove non era permesso indicare il dialetto.

101 Per quanto riguarda il comportamento in famiglia mentre nel 1990 il 30% degli italofoni svizzeri dichiara di usare il dialetto e il 26,8% dello stesso campione dichiara di usare sia l'italiano che il dialetto (per un totale quindi del 60,7% ottenuto aggiungendo anche lo 0,7% di chi ha dichiarato 'dialetto e altre lingue' e il 3,2% di chi ha dichiarato 'italiano, dialetto e altre lingue'), Bianconi (1980) rilevava un comportamento di dialettofonia totale con i genitori dell'82,8%, con il coniuge del 65,7% e con i figli del 76,5% (a cui andavano aggiunte le indicazioni 'italiano-dialetto' rispettivamente del 5,8%, 11,3% e 7,2%).

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Sia dai dati del censimento federale, che da quelli del censimento scolastico, inoltre, il dialetto appare 'centrifugato'102 nelle valli (oltre che nelle classi anziane di età), dove si possono ritrovare comportamenti simili a quelli di venti anni fa, ma si è in parte perso nelle altre regioni. Si ha quindi una forte differenziazione dei rapporti italiano-dialetto sul territorio ticinese, che appare bene nei suoi tipi estremi se confrontiamo per esempio la città di Lugano con il comune di Olivone nella valle di Blenio: secondo il censimento scolastico si va da un 1,8% di Lugano città (di dialettofonia esclusiva) ad un corrispondente 72,4% a Olivone. Se si considera anche la risposta mista, 'italiano-dialetto', arriviamo a 10,6% per Lugano città e a 80,3% per Olivone (con la differenza che si riduce di un po' per l'emergere del dialetto a Lugano in versione 'alternata'). D'altra parte si sono livellate le differenze di comportamento correlate al genere nella popolazione al di sotto dei vent'anni, come conseguenza probabilmente dell'esaurimento del potenziale di differenziazione del parametro del genere indipendentemente da altri parametri, come prima di tutti quello regionale (ci si muove oramai su valori attorno all'11% per il gruppo più giovane). La differenza per le età superiori continua ad esserci, e Bianconi e Gianocca (1984, 60) osservano che:

"Ci sembra plausibile leggere in diacronia questi dati e individuare nella fascia d'età dei ventenni-quarantenni d'oggi, con i maggiori scarti percentuali tra maschi e femmine, proprio quella parte della popolazione ticinese che nel campione di Lingua matrigna era risultata la protagonista del passaggio dal dialetto all'italiano nei comportamenti linguistici in famiglia, con una prevalenza dei comportamenti italofoni nelle femmine rispetto ai maschi."

Anche la variabile socio-professionale sembra aver perso parte del suo influsso sul comportamento in famiglia, e questo fenomeno non può che essere interpretato come un'accettazione maggiore dell'italiano attraverso le varie categorie. Almeno come resto della situazione precedente non ci si poteva non attendere il permanere di una differenziazione di comportamenti attraverso le classi d'età. Sulla popolazione totale il 30,7% delle persone al di sopra dei sessantanni

102 Secondo la felice espressione di Bianconi (1994).

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dichiarano l'uso esclusivo del dialetto; per le persone tra i 20 e i 59 anni103 abbiamo un tasso del 18,4%, tra i 5 e i 19 anni il 13,1% e per la classe tra 0 e 4 anni l'11,5% (cfr. Bianconi - Gianocca 1994, 52). I tassi di comportamento misto italiano-dialetto mostrano una variazione minore ma sono notevolmente aumentati rispetto alla metà degli anni Settanta e si muovono attualmente tra un minimo del 10,3% (per i più giovani) e un massimo del 22,2% (per i meno giovani). E' però interessante notare che i comportamenti complessivi attuali in termini di dialettofonia esclusiva presentano tassi più bassi dei comportamenti che il campione di Bianconi (1980, 75) dichiarava di avere con i figli. L'altro dato interessante riguardo ai comportamenti dichiarati con i figli è che mentre allora gli usi misti, italiano e dialetto, non erano quasi considerati (con i figli ci si muoveva tra l'8,8% e il 4% a seconda delle regioni) nei dati attuali essi hanno preso una dimensione ben più importante. Accanto ai valori quantitativi è quindi d'obbligo rilevare il mutamento importante a livello qualitativo dato dalla diffusione nel discorso, a partire in modo importante dagli anni Ottanta, dell'alternanza tra italiano e dialetto (cfr. anche Bianconi - Moretti 1994, 31-35). Questa possibilità di alternare i codici va interpretata, nel nostro caso, ancora una volta come un segnale di una nuova ripartizione dei domini d'uso da parte delle lingue in gioco, e d'altra parte come un segnale di una maggiore accettazione dell'italiano nel contesto quotidiano (con un cedimento della compartimentazione e una minore complementarità). Tracciato il quadro del passato recente e quello del presente ci si può chiedere quale sarà il quadro del futuro. Sono note la difficoltà e la forte incertezza legate alla formulazione di previsioni su fenomeni che coinvolgono il comportamento umano (cfr. Berruto 1994). Ed è quindi ovvio che ogni tentativo di questo tipo debba essere preso con molte riserve. Ciò che qui ci interessa non è tanto formulare previsioni attendibili quanto mostrare in una nuova luce, tramite alcune tecniche

103 La decisione di raggruppare tutte queste persone è stata senz'altro infelice, specialmente alla luce della specificità dei comportamenti dei quarantenni analizzati da Bianconi (1980). Se per esempio guardiamo i dati per l'italofonia esclusiva in famiglia notiamo una 'rottura' forte tra i gruppi più giovani (al di sotto dei vent'anni) e il gruppo dai vent'anni in su. Mentre tra 0 e 4 anni si ha una percentuale del 52% e tra 5 e 19 anni si ha una percentuale del 52,3%, per la classe d'età tra 20 e 59 si ha il 37,1% e oltre i sessant'anni si ha il 23,3%. La grande differenza tra i due gruppi intermedi sarà senz'altro dovuta anche alla fusione di uno spazio di comportamenti molto ampio nella categoria tra 20 e 59 anni.

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semplicissime, le dimensioni del mutamento avvenuto tra le date dei due censimenti scolastici104. Riprendendo un veloce tentativo di Berruto (1994) sulla situazione italiana105, possiamo provare a proiettare nel futuro il rapporto tra i valori del 1978 e quelli del 1993106. Consideriamo le cifre relative al comportamento in famiglia (quindi il contesto che dovrebbe essere di 'maggiore tenuta' del dialetto) e uniamo le risposte di dialettofonia esclusiva e di 'italiano e dialetto'107. In quindici anni abbiamo avuto un calo del 43,8% sulla cifra di partenza. Se la diminuzione dovesse continuare in questo modo (con un calo percentuale simile sulla cifra di partenza ogni quindici anni) nel 2008 dovremmo avere un tasso di dialettofonia in famiglia del 20,3%, nel 2023 dell'11,4%, nel 2038 del 6,4%, nel 2053 del 3,6%, nel 2068 del 2%, nel 2083 dell'1,1% e quindi potremmo praticamente considerare il dialetto come scomparso dalla competenza linguistica della popolazione scolastica. Se utilizzassimo l'altro metodo proposto da Berruto, cioè quello del calo lineare (che però, come dice l'autore, non è particolarmente realistico), arriveremmo ad una scomparsa del dialetto dalla popolazione scolastica ticinese addirittura attorno al 2010 (è evidente l'irrealisticità di questa previsione). Potrebbe sorgere il dubbio che la popolazione scolastica ed il suo calo non siano del tutto rappresentativi dell'andamento generale della comunità. A questo proposito si può notare che la comparazione dei dati di Bianconi (1980) con quelli

104 Che, ricordiamo, sono gli unici ad aver sondato su un campione comparabile con domande molto simili la diffusione del dialetto.

105 Nel suo lavoro Berruto propone anche alcuni possibili scenari futuri per i dialetti italo-romanzi, che sarebbero: 1. il mantenimento dei dialetti; 2. la trasfigurazione dei dialetti (con il loro convergere sempre più sull'italiano fino a diventarne quasi una vera e propria sotto-varietà e a perdere i propri caratteri strutturali autonomi); 3. la morte dei dialetti (della quale ci interessano qui i metodi di calcolo dei tempi di sparizione); 4. la crescente differenziazione regionale (con comportamenti e esiti differenti in differenti regioni; si tratta in fondo di un'ipotesi non in rapporto di complementarità con le altre, ma che può piuttosto includere le stesse portando a esiti differenziati); 5. una (improbabilissima) rinascita dei dialetti.

106 Seguendo il metodo di Berruto che calcolava il tempo di dimezzamento del numero di utenti del dialetto.

107 Tralascio qui le risposte 'italiano, dialetto e altre' e 'dialetto e altre' che assieme arrivano appena al 2,6% e che non figuravano nei dati del 1978. Abbiamo quindi un indice di dialettofonia del 64,4,% nel 1978 contrapposto ad un valore corrispondente del 36,2% nel 1993.

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del censimento federale 1990 riguardo al comportamento in famiglia108, mostra sì qualche differenza, ma non posticipa di molto lo scenario di scomparsa prospettato dal censimento scolastico. Le cifre del 1990 mostrano infatti un calo attorno al 31% della cifra di partenza (con quindi una diminuzione di quasi un terzo ogni quindici anni), ciò che porta a ipotizzare valori attorno all'1,3% di dialettofonia nel 2143. Se è vero che questo dati coinvolgono tutta la popolazione, e quindi anche le interazioni tra le differenti generazioni che possono portare ad un aumento del tasso di dialettalità tra i giovani e ad un eventuale recupero del dialetto, dall'altro lato la situazione del futuro sarà quella che vede l'attuale popolazione scolastica come elemento fondamentale di trasmissione della lingua alle generazioni seguenti, con la scomparsa dalla scena delle generazioni fortemente dialettofone. Mi sembra che queste cifre, pur nella loro semplicisticità e con l'ingenuità del metodo di proiezione seguito, mettano benissimo in mostra quanto il calo sia stato forte109. Questo effetto è ancor più rinforzato dal confronto con le previsioni elaborate da Berruto, con lo stesso metodo, per la situazione italiana. Secondo questo autore, che si è basato sulle cifre dei sondaggi fatti dall'Istituto Doxa e dall'ISTAT, il metodo della proiezione logaritmica porterebbe ad un margine di sopravvivenza dei dialetti che va dai 300 ai 350 anni. Rispetto alla situazione italiana che mostra, in questi sondaggi, una relativa stabilità, l'uso del dialetto in Ticino ha quindi subito un calo notevole. Per quando riguarda i dati Doxa, per esempio, nel 1974 il 51,3% degli intervistati dichiarava di parlare dialetto con tutti i membri della famiglia e il 23,7% di parlare con alcuni dialetto e con altri italiano, nel 1982 le cifre erano rispettivamente del 46,7% e del 23,9%, nel 1988 infine avevamo rispettivamente il 39,6% e il 26%. Il calo è quindi stato complessivamente dal 75% del 1974 al 65,6% del 1988: meno di 10 punti percentuali in confronto ai 28,2 punti del censimento scolastico e ai 26,3 punti del censimento federale 1990 confrontato a Bianconi (1980).

108 Per i dati del 1975 abbiamo considerato la media dei comportamenti 'dialetto' e 'italiano e dialetto' in famiglia con i genitori, con il coniuge e con i figli arrivando ad un valore dell'83,1%. Per il censimento federale 1990 abbiamo considerato le risposte, date dai soli svizzeri residenti in Ticino (come in Bianconi 1980), 'dialetto' e 'italiano e dialetto' relative alla domanda sul comportamento in famiglia (con un totale del 56,8%).

109 La loro significatività è proprio questa, piuttosto che quella di dare dei limiti temporali per la scomparsa dei dialetti.

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Sono ora disponibili anche i valori dell'ultima indagine Doxa (avviata nel 1991 e pubblicata nel 1992) e vale la pena di osservare che da questo ultimo rilevamento i dialetti in Italia sembrano uscire ancor più rafforzati nella loro 'intenzione di permanenza' nell'uso comunitario. Nel 1991 il 35,9% del campione ha dichiarato di parlare dialetto con tutti i membri della famiglia, e il 30,5% con alcuni in dialetto e con altri in italiano: la somma di questi valori dà una cifra addirittura leggermente superiore a quella del 1988 (66,4% vs. 65,6%). Raggruppando le indicazioni relative all'uso in casa e fuori casa di coloro che 'parlano soltanto in dialetto' (11,3%)110, coloro che 'parlano prevalentemente in dialetto' (24%), e coloro che 'parlano in pari misura dialetto e italiano' (26,1%), arriviamo ad una cifra di uso regolare del dialetto da parte del 61,4% del campione italiano. A questi andrebbero ancora aggiunti coloro che dichiarano di parlare 'prevalentemente italiano' e che corrispondono al 15,6% del campione, ciò che vorrebbe dire che il 77% degli italiani ha una qualche frequentazione del dialetto. Commentando questi dati Berruto (1993b, 156) osserva che:

"[essi] mostrano, in maniera devo dire per me piuttosto sorprendente, un arresto parziale della chiara tendenza all'abbandono del dialetto rilevabile nei sondaggi precedenti, e un aumento del comportamento bilingue (con un aumento del numero di intervistati che dicono di alternare nell'uso dialetto e italiano); [...] vi è più di un motivo per ritenere, dall'osservazione quotidiana, che il dialetto nei primi anni Novanta stia perdendo almeno in parte il valore negativo, di connotazione di collocazione sociale bassa e svantaggiata, di discriminazione di prestigio, e stia diventando assai più neutro, da questo punto di vista."

Per la situazione svizzera se consideriamo unicamente i parlanti di nazionalità svizzera111 ed il contesto più forte, cioè quello in famiglia, sommando i comportamenti che includano in qualche modo la dialettofonia arriviamo alla cifra massima del 60,7% (cfr. Bianconi - Gianocca 1994, 47). Questo non dice ancora niente sulla qualità della competenza dialettale dei ticinesi e degli italiani, ma manifesta una chiara intenzione identitaria, assai inattesa, in questi ultimi.

110 Per curiosità vale la pena di notare che gli italofoni esclusivi sono il 23% della popolazione.

111 La popolazione svizzera costituisce il 76,5% del campione totale.

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Con le riserve che si possono avere per i dati quantitativi che emergono da queste indagini, non si può non provare a confrontare la dialettofonia ticinese con quella di singole regioni italiane. L'indagine Doxa del 1991 riporta i seguenti valori percentuali per il 'calo della dialettofonia nella conversazione fuori casa': 1974 1991 differenza Nord-Ovest 34,8 12,99 -21,9 Nord-Est 55,2 37,7 -17,5 Centro 23,7 12,2 -11,5 Sud e Isole 52,2 29,1 -23.1 Ancora una volta si possono notare le dimensioni differenti del mutamento. Se calcoliamo infatti il calo annuale in punti percentuali, sullo spazio di 17 anni intercorso tra i due rilevamenti abbiamo rispettivamente un 1,3 per Nord-Ovest, 1,0 per Nord-Est, 0,7 per il Centro, e 1,4 per il Sud e le Isole. Il censimento scolastico ticinese ha registrato un calo in punti annuali dal 1978 al 1993 di 2,6 (relativo alla domanda 'con gli amici', mentre i dati italiani si riferiscono alla domanda 'fuori di casa'). Pur tenendo presente che si tratta della popolazione giovanile112 abbiamo comunque avuto tra i giovani ticinesi una caduta annuale della dialettofonia quasi doppia a quella del valore più forte della situazione italiana. Da questo punto di vista, la situazione più vicina è quella del Sud e delle Isole. Se invece vogliamo comparare lo stato attuale ticinese (e non il mutamento) con quello italiano possiamo servirci, con maggiore appropriatezza, dei dati del censimento federale 1990, che permettono di osservare il comportamento globale della popolazione, considerando le differenti generazioni compresenti al momento dell'indagine (evitando quindi il problema della incomparabilità causata dalla minore dialettofonia dei giovani). Concentrandoci ancora una volta unicamente sulla

112 Ma dato che entrambi i rilevamenti ticinesi si riferiscono alla popolazione scolastica e che ciò che ci interessa è il confronto relativo alla dimensione del mutamento (più che il confronto delle cifre sincroniche) siamo del parere che in questi termini il paragone sia praticabile.

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popolazione svizzera e sul suo comportamento in famiglia abbiamo i seguenti valori percentuali (Bianconi - Gianocca 1994, 47)113: it. dial. ital./dial. altre it./altre dial./altre it./dial./altre 32,3 30 26,8 0,9 6,1 0,7 3,2 L'italofonia esclusiva del Ticino (32,3%), si colloca a metà classifica, al di sotto del 37% della Liguria e al di sopra della Sardegna (31,6). Le punte estreme sono il 72,5 della Toscana e il 14,1 della Sicilia. La Lombardia è al secondo posto con il 47,5%, ciò che ben mostra pure il dislivello tra la Toscana114 e le altre regioni115. Se anche considerassimo il 6,1% in più, dato dal comportamento con 'italiano e altre lingue', avremmo un miglioramento di un'unica posizione, superando solo la Liguria. La dialettofonia esclusiva, con il suo valore del 30%, colloca il Ticino nella seconda metà della classifica, tra l'Emilia Romagna (31,2%) e la Liguria (24,7%), mentre le punte estreme sono date rispettivamente dalle Tre Venezie (63,6%) e

113 Per migliorare la confrontabilità non consideremo in un primo momento le cifre relative all'uso dell'italiano con altre lingue (6,7%), del dialetto con altre lingua (0,7%) e dell'italiano, dialetto e altre lingue (3,2). Dato che i dati Doxa si riferiscono all'italofonia 'esclusiva' e alla dialettofonia 'esclusiva' (oltre che a 'italiano e dialetto'), ci sembra possibile, in un confronto senza troppe pretese di scientificità come quello che stiamo facendo, operare in questo modo. Le cifre che tralasciamo, se considerate, migliorerebbero soprattutto la situazione dell'italiano rinforzando un trend che emergerà già sufficientemente dalla selezione che abbiamo operato. Per quanto riguarda il dialetto, come vedremo, il rapporto dell'uso di questa lingua in Ticino rispetto all'Italia non viene considerevolmente modificato, dato che la categoria 'dialetto e altre lingue' ha una percentuale dello 0,7%. Si potrebbero anche trasformare queste percentuali in relazione al campione ristretto che non presenta altre lingue (89,1% dell'intero campione, pari a 157.672 persone). Avremmo così valori rispettivi del 36,29% per l'italofonia esclusiva (il Ticino rimane allo stesso posto), del 33,63% per la dialettofonia esclusiva (passa al di sopra dell'Emilia Romagna), e del 30,08% per il comportamento italiano-dialetto (sale di quattro posizioni e si colloca al di sopra della Sicilia). Ciò non modifica di molto i dati complessivi e soprattutto il tipo di relazioni con le situazioni italiane.

114 Dove si ha peraltro il noto problema della distinzione tra dialetto e italiano regionale.

115 E' pure interessante che la Lombardia esca da questo sondaggio come una zona di forte italianità.

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dalla Toscana (5,8%). La Lombardia è al penultimo posto della classifica con il 17,6%. Per quanto riguarda il comportamento italiano-dialetto, che sembra star assumendo sempre più un'importanza particolare nella situazione sia italiana che ticinese, il 26,8% ticinese va inserito ancora una volta nella parte bassa della classifica, tra Marche e Umbria (27,1%) e Basilicata e Calabria (26,6%). Alla luce di questi dati possiamo senz'altro dire che la situazione ticinese si è avvicinata alla media italiana, con comportamenti simili, almeno secondo i sondaggi che abbiamo appena visto, soprattutto alle regioni che tendono a ripartire quasi in tre parti uguali (tra dialetto, italiano, e italiano e dialetto) le percentuali dei loro comportamenti, e con in Ticino già una leggera prevalenza dell'italiano in famiglia. Soprattutto si nota un netto allontanamento dalla forte dialettofonia 'pura' delle Tre Venezie e dalla bassa italofonia 'pura' della Sicilia. Qual è allora il futuro del dialetto in Ticino? Non pensiamo che vada presa sul serio la proiezione che abbiamo elaborato sopra. Essa, come abbiamo detto, ci serviva soprattutto per mostrare l'ampiezza del mutamento nel confronto con quanto avvenuto all'incirca nello stesso tempo in Italia. Ci sembra che invece si deliniino due scenari possibili nel nostro caso. Da un lato una stabilizzazione del dialetto all'incirca nella posizione attuale, assieme a molte altre regioni italiane, con una lenta perdita di parlanti, ma d'altra parte un continuo uso del dialetto stesso alternato con l'italiano e con un nuovo ruolo rispetto a quello del passato. L'altro scenario è quello di un ulteriore avvicinamento alla situazione della Lombardia, con la continuazione del forte calo della dialettofonia, ma, anche qui, con una tendenza ad un assestamento, pur su valori più bassi, che però dovrebbero essere 'difendibili' molto a lungo, perché caratterizzati da un nuovo equilibrio fondato su un ampio insieme di contesti condivisibili da italiano e dialetto, con un incremento della commutazione di codice:

"Se si bada contemporaneamente alla frequenza e alla normalità della commutazione di codice e dell'enunciazione mistilingue italiano/dialetto nella conversazione ordinaria degli italiani [...], vi sono ragioni a iosa per domandarsi se non si stia difatto già arrivando al momento di stabilità, di equilibrio e di ampia compatibilità tra italiano e dialetto, ciascuno ben consolidato nei suoi propri domini e con una possibilità di sovrapposizione funzionale nei domini per così dire di mezzo." (Berruto 1993b, 156)

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Un calcolo di proiezione sul solo tempo apparente del censimento scolastico 1990 (cioè confrontando le diverse classi di età) non segnala per ora grandi rallentamenti, ma probabilmente il mantenimento del dialetto (almeno come uso minimo sufficiente per farlo indicare nelle domande dei censimenti) per alcuni anni ancora non passerà solamente per la trasmissione generazionale unica, quanto piuttosto attraverso il suo uso al di fuori della famiglia, come strumento di interazione tra le generazioni. In questo momento di 'discontinuità' tra gruppi della popolazione, dato per esempio dalle situazioni lavorative con colleghi di età differenti, il dialetto può mantenere una sua funzionalità. Per gli aspetti qualitativi sarà allora importante la discussione delle varietà, per esempio, dei parlanti italofoni non dialettofoni che in qualche modo hanno comunque imparato il dialetto (almeno in forma passiva), notando come situazioni che incrementano la mobilità geografica, sociale e di diverse classi di età possono portare, paradossalmente rispetto a quello che ci si potrebbe attendere, ad un recupero del dialetto. Ciò dimostra in alcuni ambienti la presenza di una importante preferenza per il dialetto, che riesce così addirittura ad imporsi agli italofoni e ad essere accettato dagli stessi. E' difficile dire quali siano le ragioni che hanno portato al rallentamento del calo in Italia, ma sembra veramente che si sia creato una specie di 'nuovo equilibrio', di 'punto naturale' o di scarsa resistenza in cui le lingue convivono. Un punto oltre il quale o si ha un dissanguamento lento, dovuto alla perdita progressiva nei 'serbatoi di dialettalità' (come certe classi d'età, certe regioni, certi tipi di contatti e di professioni), oppure si deve attendere la costituzione di nuove cause extralinguistiche che possano portare ad una nuova accelerazione del mutamento. La situazione italiana ci potrebbe far pensare che probabilmente anche il Ticino sta raggiungendo un nuovo equilibrio relativo (che è però difficile dire quanto durerà), con un probabile rallentamento della forte caduta. Si possono quindi sottoscrivere le affermazioni, riducendone magari il grado di certezza, che concludono il capitolo sul dialetto di Bianconi e Gianocca (1994, 62):

"Queste constatazioni non devono tuttavia portare a conclusioni catastrofiche sulla morte del dialetto nel breve o medio periodo. Infatti, contro questa ipotesi stanno alcuni concreti dati di fatto: in primo luogo l'importanza dei comportamenti bilingui italiano-dialetto nella popolazione giovanile e soprattutto adulta anche nelle zone urbane e semiurbane del Cantone; in secondo luogo, il 'recupero' della dialettofonia presso i giovani in certi settori lavorativi, in particolare nel terziario e soprattutto nei servizi

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(l'amministrazione pubblica a tutti i livelli, il settore bancario, la radio e la televisione), dove la circolazione del dialetto presso gli adulti è ancora molto importante e in certi casi addirittura dominante116. Quindi da un lato si constata il ridimensionamento del ruolo comunicativo del dialetto nella società ticinese, conseguenza linguistica prima e necessaria delle sue profonde trasformazioni strutturali; ma dall'altro non si può non constatare una nuova, più equilibrata e aproblematica convivenza e ripartizione degli ambiti d'uso dell'italiano e del dialetto nella comunicazione in Ticino."

Probabilmente, quindi, il calo rappresenta la parte 'ripida' di una curva sigmoidale117 che rallenterà la sua accelerazione e si fermerà su livelli più vicini a quelli degli andamenti italiani118. Purtroppo, come abbiamo già detto, la scienza delle previsioni linguistiche non è ancora molto sviluppata e in più si trova di fronte ad un oggetto di complessità estrema. Si deve anche tener conto del fatto che il concetto di 'dialetto' dei futuri parlanti sarà probabilmente differente dal nostro. Potrebbe per esempio essere possibile che l'uso di alcune espressioni e strutture molto frequenti (probabilmente presenti nel repertorio di tutti gli italofoni residenti in Ticino), basti a dare agli utenti la sensazione dell'alternanza di lingua e quindi una minima motivazione al mantenimento (o, meglio, all'apprendimento) di una versione ridotta di dialetto. Diventa quindi fondamentale, da un lato osservare quale sia la competenza dei non dialettofoni e come eventualmente essa si costruisca progressivamente (dato oltretutto che verrà senz'altro un momento in cui gli utenti attivi non nativi del dialetto saranno superiori per numero ai parlanti nativi, e quindi le loro varietà potrebbero avere influsso sulla norma dialettale stessa e sulle strutture future del dialetto), e dall'altro lato come avvenga la trasmissione ai bambini nativi.

116 Si noti però che Bianconi e Gianocca a p. 64 osservano: "Possiamo infine constatare come il tasso più basso di dialettofonia e quello più elevato di italofonia tra i giovani si hanno nel terziario con appena il 2,3% dei giovani che dicono di usare il dialetto esclusivamente e il 65,2% di monolingui italofoni; complessivamente solo un quinto di questo sottogruppo afferma di usare il dialetto in una qualche forma."

117 Una curva tipica per i fenomeni di diffusione dei mutamenti linguistici.

118 In una situazione di 'equilibrio relativo', dovuto o alla 'felicità' dei nuovi rapporti instauratisi, o anche semplicemente alla maggiore lentezza del calo proporzionale tipica della terza fase delle curve sigmoidali.

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La rapidità del calo della dialettofonia ricorda per certi aspetti i fenomeni osservati da Nancy Dorian (1981) nel suo studio pionieristico sulla situazione del gaelico. Secondo la Dorian (1981, 51) è possibile che "a language which has been demographically stable for several centuries may experience a sudden 'tip', after which the demographic tide flows strongly in favour of some other language." Non possiamo dubitare dei dati statistici119, e si dovrà quindi vedere qual è il valore qualitativo della situazione linguistica. Se per esempio, ad un osservatore esterno la situazione ticinese continua a sembrare caratterizzata da una forte dialettofonia120, si può già notare che tra i giovani l'italiano gode di maggiore fortuna. Quello che faremo d'ora innanzi in questo lavoro è proprio occuparci di quelle zone di transizione che possono in parte celare la loro importanza ai dati quantitativi. Ci concentreremo quindi sui 'margini del dialetto', osservando le varietà della trasmissione nella prima socializzazione, la competenza 'riattivabile' o riattivata degli italofoni che vivono in Ticino, e, infine, il dialetto degli stranieri, che ben mostra

119 Anche se i dati quantitativi discussi in precedenza fossero significativi unicamente a livello di 'dichiarazioni soggettive' e non di comportamento reale, questa loro significatività è comunque fondamentale per la comprensione della situazione linguistica. Ciò che vogliamo con ciò dire è che il fatto che una persona dichiari di non essere dialettofona, mentre invece lo è, è almeno altrettanto significativo (anche se in modo differente) del fatto che una persona sia effettivamente non dialettofona (mentre se fosse nata in una generazione precedente lo sarebbe stata).

120 Curiose sono invece a volte le osservazioni dei ticinesi che si sono stabiliti al di fuori del Cantone, come per es. nel seguente frammento riportato da Oesch-Serra (1994, 157): "mi sembra che adesso il dialetto si va perdendo in Ticino, nettamente. Perché quando vado in Ticino non sento praticamente nessuno che parla dialetto ... nei giovani in città non c'è più nessuno che parla dialetto e questo mi dà un po' fastidio, non è più il Ticino che conoscevo io." Al di là della categoricità eccessiva di questa affermazione, gli emigrati sono probabilmente un indicatore potente del cambiamento di una situazione, a differenza degli abitanti stabili che percepiscono meno bene i mutamenti lenti.

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come questa varietà si sia trasformata nel corso del tempo da lingua principale121, con la quale in pratica gli stranieri non potevano non fare i conti e la conoscenza della quale era in loro spesso superiore a quella dell'italiano (tant'è vero che spesso il loro italiano era carico di elementi dialettali), a lingua di gruppi (o lingua di 'reti sociali' particolari), la cui conoscenza non è più necessaria tranne in quei casi in cui si voglia migliorare il proprio rapporto con i membri di gruppi dialettofoni122.

121 E' informativo per definire la vitalità o 'priorità' rispettiva di italiano e dialetto l'osservazione di quale sia la lingua di integrazione degli stranieri che attualmente mantengono anche la propria lingua. Restando sui nostri due prototipi di contrapposizione tra città sottocenerina e regione di montagna sopracenerina, si nota che mentre a Lugano città il 24,7% degli allievi del censimento scolastico indica di usare in famiglia 'italiano e altre l.' e lo 0% indica 'dialetto e altre l.', a Olivone abbiamo il 5,3 che indica 'it. e altre l.' e il 2,6 che indica 'dial. e altre l.'. I dati 'con gli amici' sono ancora più importanti in questo caso, e allora abbiamo a Lugano città per 'it. e altre' il 10,1% e per 'dial. e altre' lo 0,1%, mentre a Olivone abbiamo il 2,6% sia per 'it. e altre' che per 'dial. e altre'. Questi due ultimi dati mi sembrano confermare che anche nelle zone di più forte vitalità del dialetto, l'italiano è diventato o sta diventando la 'lingua del luogo', prima del dialetto. A Lugano in questa funzione il dialetto è invece praticamente scomparso.

122 Non è un caso, in questo senso, che l'indagine di Bianconi e Moretti (1994) sulle interlingue di stranieri adulti in Ticino non abbia praticamente rilevato tracce di dialettalità nei nuovi immigrati.

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3. Varietà di non nativi

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3. Varietà di non nativi Alla nostra intenzione di osservare varietà di dialetto come lingua seconda (cioè di non italofoni) si è contrapposta la difficoltà iniziale di trovare le persone disposte a farsi intervistare che fornissero una gamma il più ampia possibile di interlingue di parlanti non nativi. Infatti, mentre per le interlingue avanzate, grazie ad alcuni contatti intermedi e a conoscenze personali, il reperimento di informatori non è stato per nulla difficile, per quanto riguarda le varietà iniziali e intermedie, ci si è scontrati ancora una volta con gli effetti della presenza dell'italiano nel repertorio. Per questo motivo si è pensato di provocare artificialmente varietà di questo tipo obbligando le persone che avrebbero potuto essere dei 'dialettofoni acquisiti', ma che non lo sono perché non hanno mai o quasi parlato dialetto, ad essere intervistate in dialetto. La stessa metodologia è stata allora estesa anche ai parlanti nativi dell'italiano che abbiamo definito 'parlanti evanescenti'. Se finora abbiamo parlato soprattutto dei parlanti evanescenti veri e propri123, in questo capitolo incontreremo altri tipi di varietà marginali, che si differenziano dai PE o perché l'italiano non è la lingua materna dei loro utenti (osserveremo quindi anche le varietà di tedescofoni più o meno competenti), o perché gli utenti sono bambini e quindi ancora in una situazione di relativo sviluppo linguistico (si tratta dei cosiddetti 'bambini-PE'), o perché, ancora, a partire da una situazione tipica di PE alcune persone hanno sviluppato un uso attivo del dialetto, utilizzandolo però con caratteristiche particolari (si tratta di quelli che abbiamo denominato Ex-PE). Per finire, il ricorrere nelle varietà dei meno competenti di tratti molto particolari ci ha spinti all'analisi di quei fenomeni che abbiamo definito 'interlingue improbabili', che si staccano dai normali prodotti dialettali dei non nativi e la cui motivazione e interpretazione diventa ancora più difficile.

123 Considerato che in altri tempi questi sarebbero stati senz'altro dei parlanti nativi, essi potrebbero anche essere denominati 'parlanti sommersi'. Il termine di 'parlanti evanescenti', come abbiamo già detto, vuole però dare l'immagine dello sparire lento degli utenti, che attraversano, come vedremo, un periodo di 'evanescenza', cioè di loro 'presenza-assenza' in termini di competenza linguistica dialettale.

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3.1. Osservazioni relative alla metodologia d'indagine Abbiamo visto che la decisione di occuparci di varietà marginali è basata sulla convinzione che ciò possa contribuire alla comprensione dello stato delle lingue in contatto e dei rapporti sociolinguistici che le caratterizzano. Dal punto di vista della vitalità sociolinguistica del dialetto è per esempio più che rilevante la constatazione che questo codice al giorno d'oggi riesca molto raramente a raggiungere parlanti non nativi immigrati in Ticino (vedremo più avanti come i pochi casi ritrovabili siano di norma persone con atteggiamenti e motivazioni particolari). Mentre alcuni decenni fa la forte presenza del dialetto rendeva quasi necessario per gli immigrati il suo apprendimento, al giorno d'oggi il dialetto stesso gioca un ruolo marginale per chi arrivi in Ticino. Può quindi essere interessante scoprire fino a che punto il dialetto sia presente in queste persone in forma passiva, dato che in forma attiva esso ha assunto un ruolo trascurabile. A questo proposito, come vedremo meglio in seguito, alla possibilità di un controllo della competenza passiva con le metodologie classiche di valutatazione della competenza abbiamo preferito un controllo della 'competenza passiva attivata', cioè l'osservazione di che cosa i soggetti riescano ad esprimere effettivamente in dialetto. Dal punto di vista più strutturale-linguistico l'osservazione delle nostre varietà può essere considerata un 'esercizio di simulazione di variazione', cioè un esperimento che indaga strade, più o meno realistiche, di mutamento del dialetto. Ci si può per esempio chiedere, dato il ruolo particolare dell'italiano nell'apprendimento, se ci si trovi di fronte ad un dialetto ancor più italianizzato, che rappresenti in qualche modo il futuro di questa lingua. Oppure se i 'punti deboli' del sistema segnalati da queste varietà indichino le linee di cedimento anche nelle varietà dei futuri parlanti nativi. La metodologia adottata ha indubbiamente degli aspetti di artificiosità, ma, dato che qui ci troviamo di fronte in molti casi a parlanti che normalmente non parlano dialetto, essa è da considerare, se non proprio la migliore, almeno una possibilità accettabile e necessaria. L'artificiosità delle elicitazioni, d'altronde, è caratteristica di altri settori di studio linguistico in cui il rilevamento di materiali completamente spontanei è altamente problematico (pensiamo per esempio alla lunga tradizioni di studi sul foreigner talk). Come abbiamo già spiegato nell'introduzione, per ottenere una quantità sufficiente e sufficientemente variata di materiale le persone sono state dapprime intervistate in dialetto su vari aspetti della loro vita, sulla loro biografia linguistica,

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sugli atteggiamenti relativi al dialetto e su altri argomenti che sembravano in qualche modo interessarli. In un secondo momento è stato loro chiesto di tradurre alcune frasi italiane in dialetto. E per finire hanno dovuto raccontare una storia elicitata mediante vignette. Per il nostro caso, sono in particolare interessanti esperimenti di costruzione artificiale di pidgin, o, come sarebbe preferibile chiamarli, di 'pidginoidi', come quelli eseguiti da Master, Schumann e Sokolik (1989)124, sia per le similarità che per le differenze con i procedimenti e con i risultati della nostra analisi. La metodologia adottata da questi autori è consistita nel far memorizzare a degli studenti una lista di parole di una lingua a loro non nota. A quattro studenti è così stata sottoposta una lista in persiano, e ad altri otto studenti una lista in tedesco. I risultati di questo esperimento portano all'osservazione della messa in opera da parte dei soggetti di strategie effettivamente simili a quelle segnalate per le fasi iniziali dei pidgins. Così, per esempio, si assiste al ricrearsi dell'espressione della temporalità attraverso lo sviluppo di avverbi lessicali, e allo sfruttamento del contesto, secondo chiare linee universaleggianti e indipendenti dalle rispettive lingue materne125. Il fatto che i fenomeni che si ritrovano concidano in buona parte con i fenomeni noti per i contesti 'naturali' dimostra l'utilizzabilità di rilevamenti di questo tipo e l'accettabilità dei loro risultati. Rispetto alle nostre osservazioni, ed in particolare a quelle relative ai due gruppi che più si avvicinano ai soggetti di Master et al., i 'parlanti evanescenti' e soprattutto i parlanti non italofoni con uso solo passivo del dialetto, si hanno notevoli differenze. Innanzitutto, per quanto riguarda la costruzione del potenziale comunicativo, i nostri soggetti devono la loro competenza alla frequentazione, spesso per anni, del dialetto e non a tecniche di memorizzazione di un elenco lessicale (e ovviamente con motivazioni e intenzioni differenti). Secondariamente, per quanto riguarda i compiti di controllo, i soggetti di Master et al. godono di una

124 Master et al. (1989, p. 37) ricordano giustamente la proposta di ricerca sottoposta alla National Science Foundation da Bickerton e Givón, in cui gli autori progettavano la collocazione di sei coppie di adulti di lingue materne non mutualmente intelligibili su un'isola disabitata per un anno (dopo aver loro insegnato all'incirca 200 parole di inglese). L'esperimento, che avrebbe voluto così osservare la formazione di un pidgin a base inglese, non è stato autorizzato per motivi etici.

125 Altri fenomeni 'classici' che vengono ritrovati riguardano l'uso della reduplicazione, la non obbligatorietà dei pronomi soggetto (il cosiddetto pro-drop), la costruzione iconica e molto trasparente di nomi composti, ecc.

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maggiore 'libertà creativa', in quanto sono sganciati da ogni norma e ciò che conta è unicamente il successo comunicativo delle loro espressioni. D'altro lato però lo strumento è limitato alla lingua comune, mentre nel nostro caso gioca un ruolo importante l'italiano come 'seconda lingua condivisa' dagli interagenti (ed in verità è addirittura la 'prima lingua condivisa', nel senso che è quella meglio conosciuta dagli intervistati). Per quanto riguarda la 'libertà strategica' (esclusivamente 'intralinguistica' per i soggetti di Master et al., cioè limitata alla sola lingua comune, o anche 'interlinguistica' per i nostri soggetti, con il ricorso all'italiano), su di essa agisce anche la maggiore ampiezza di movimento che si ha in compiti come quelli degli autori americani o come nelle nostre interviste semi-guidate. I nostri compiti di traduzione, invece, pongono ai parlanti chiari confini entro i quali muoversi, limitandone fortemente la creatività, e quindi sottopongono i soggetti ad un compito chiaramente più impegnativo. Come vedremo in seguito, l'interazione tra potenziale comunicativo delle persone e la difficoltà o 'costrittività' del compito al quale sono sottoposti (la cui difficoltà è a sua volta definita dalla rigidità del compito richiesto e dall'ampiezza delle alternative utilizzabili) definisce il risultato che si ritrova. Tanto più il potenziale comunicativo sarà ristretto e il compito sarà 'costrittivo', quanto più il successo della comunicazione sarà in pericolo. D'altra parte però, potenziali comunicativi altrimenti soddisfacenti, posti di fronte a compiti molto costrittivi, possono anch'essi mettere in pericolo il passaggio dell'informazione. Il nostro test di traduzione si presenta, dal punto di vista di questa interazione tra potenziale e compito, in un modo molto particolare dato che esso è stato interpretato dalla maggior parte dei parlanti con una forte costrizione della creatività strategica e con quindi la messa in opera unicamente in misura molto limitata di procedimenti parafrastici in grado di portare il contenuto al livello della competenza disponibile. Ciò limita in buona parte il lavoro di 'nativizzazione' degli intervistati e porta a risultati che possiamo definire 'strani' in un senso particolare del termine. Metodologie come quella adottata da Master et al. e la nostra aprono il campo di indagine su quelli che potremmo chiamare i 'parlanti ipotetici', o 'varietà sperimentali', che, nella loro artificialità ricordano alcuni aspetti dell'elicitazione mediante test, ma d'altro lato sono caratterizzati da maggiori pressioni comunicative e quindi da una minore 'attenzione alla forma' e da un minore lavoro metalinguistico esplicito. Mentre in Moretti (1990) si è sostenuto che i test permetterebbero di osservare stadi futuri delle interlingue, cioè strutture che i parlanti in qualche modo hanno già interiorizzato ma che non usano nel discorso, le peculiarità qui osservate ci mostrano fenomeni di 'competenza riattivata' (nel senso che conoscenze passive

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vengono trasformate in usi attivi). Ma talvolta ci avviciniamo anche a casi come quelli di Master et al., che metterebbero in mostra fenomeni di 'competenza improvvisata', cioè di ricostruzione sulla base di spinte funzionali di strutture non ancora disponibili mediante gli elementi basilari posseduti. Altri studi ancora, come per es. quelli di Slobin et al. (1993) sui bambini che recuperano una lingua che avevano acquisito nella prima infanzia ma poi hanno perso, si potrebbero definire di 'competenza ricreata'126. Esperimenti quasi 'in laboratorio' di questo tipo ci consentono, proprio attraverso le condizioni particolari in cui essi avvengono, di allargare il campo dell'investigabile, permettendoci di osservare meglio quella che si potrebbe definire la 'variazione possibile' nei fatti linguistici e ricreando talvolta fenomeni che nelle lingue reali hanno necessitato di spazi temporali molto ampi per poter accadere (in contesti di 'necessità di continuità' maggiore, dovuta al 'peso della tradizione'). Nell'indagine dei 'limiti del possibile' ci si arriva a muovere in questo modo in una zona di confine, dove l'insieme dei fenomeni che appaiono manifesta le conseguenze di situazioni estreme e ci permetto quindi di osservare il quotidiano da una nuova angolazione.

126 Questi studi arrivano alla conclusione che la velocità dei bambini che 'riacquistano la L1' è senz'altro differente da quella di ogni L2. Altrettanto interessante per noi è l'osservazione di Slobin et al. (p. 195) che "comprehension and production might play quite different roles in the process of acquisition".

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3.2. I parlanti evanescenti

3.2.1. Quali sono i parlanti nativi che la lingua sta perdendo Quali sono le persone che vengono a costituire il gruppo che abbiamo definito dei parlanti evanescenti? Le caratteristiche comuni di partenza sono una competenza molto alta della lingua italiana, e l'essere cresciuti in Ticino o comunque viverci da molto tempo. Riguardo al dialetto il parametro fondamentale è il non parlarlo, se non al limite in poche occasioni nel corso della vita e in relazione a pochi compiti ben delimitati (come per es. in deboli tentativi fatti durante il servizio militare). L'elemento causale è costituito, come è tipico in questi casi, dalla mancata trasmissione del dialetto da parte dei genitori, o per decisione, o per non competenza di questi ultimi. In questo gruppo rientrano quindi tutte quelle persone alle quali il dialetto non sia stato trasmesso nella prima infanzia e che non abbiano dovuto o voluto recuperarlo nemmeno in gruppi di pari o in altre occasioni. Un tipo molto diffuso, e probabilmente centrale per i nostri interessi, è quello del figlio di dialettofoni al quale i genitori abbiano deciso di rivolgersi solo in italiano (ciò che non ha impedito che talvolta il dialetto riemergesse in situazioni particolari nelle interazioni con il bambino127). Accanto a questi ritroviamo figli di coppie miste in cui uno dei membri non sia dialettofono, e deve quindi la lingua di comunicazione

127 A livello di costruzione di stereotipi giravano, almeno già negli anni Sessanta, tra i dialettofoni veri e propri (quindi come strumento di stigmatizzazione) alcune storielle su genitori di questo tipo, come per es. quella della madre che in pasticceria chiede al bambino: "vuoi il cannoncino o la sfoglia?" e quando il bambino non sa decidersi sceglie lei una delle due e, seccata, la dà al bambino dicendo: "tè, maia" (maià, definito spesso come il nutrirsi degli animali, è giudicato volgare rispetto a mangià, e qui sta una parte fondamentale della pointe della barzelletta: la madre che voleva mostrarsi tanto fine parlando italiano si rivela non solo dialettofona, ma una 'dialettofona di registro volgare'). Un altro tipo di 'traditori' stereotipizzati in questo modo (specialmente fino all'inizio degli anni '70) sono gli emigranti ticinesi in America che ritornano al paese e, oltre ad informarsi se ci siano già i frigoriferi e la televisione, fingerebbero di aver dimenticato i segni più bassi della loro cultura d'origine. In una di queste storielle uno di questi personaggi si informa sul nome di una serie di oggetti del contadino, e visto un rastrello per terra chiede che cosa sia, ma mentre sta chiedendo mette il piede sul pettine e il rastrello gli sbatte con il manico in faccia, al che l'emigrante esclama "basc-tàrd d'un rasc-tèll", e il contadino con una comprensibile Schadenfreude risponde "allora lo sai cos'è".

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famigliare sia stata l'italiano. Infine il terzo grande tipo di parlante evanescente è costituito dai figli di non dialettofoni (sia italofoni, che non italofoni128), che pur non avendo contatto in famiglia con il dialetto l'hanno incontrato in maniera più o meno importante nel corso della loro vita. Infine si devono poi considerare le persone che abbiano loro stesse rifiutato il dialetto, adottando molto presto l'italiano come strumento di interazione con i genitori. Mentre non abbiamo potuto ritrovare casi di questo tipo in famiglie con entrambi i genitori dialettofoni, ne abbiamo potuto osservare altri in casi di coppie miste (intese qui in un senso ampio come quelle in cui uno dei due genitori non sia dialettofono). Di fronte alla disponibilità praticamente dall'inizio di italiano e dialetto, alcuni bambini (nella nostra indagine abbiamo osservazioni unicamente su bambine, e questo può non essere casuale, data la maggiore frequenza di osservazioni negative verso il dialetto, come per es.: "il dialetto è volgare", che si ritrovava già in parlanti femminili in Bianconi 1980) 'saltano' l'apprendimento del dialetto per passare unicamente all'italiano. Non abbiamo invece considerato in questo gruppo coloro che dopo una socializzazione primaria in dialetto siano passati definitivamente all'italiano, dato che le condizioni di apprendimento ne fanno piuttosto dei tipici parlanti nativi e le loro varietà, più che come fenomeno di 'apprendimento non tipicamente nativo' del dialetto andrebbero al limite viste sotto la luce del language attrition, o perdita di lingua, individuale129. Per i parlanti evanescenti ci deve innanzitutto esser stato un insieme di 'condizioni positive' che hanno permesso loro di costruire nel tempo la capacità di parlare dialetto (pur senza averlo mai fatto). Tra queste condizioni positive vi è senz'altro il fatto di aver vissuto abbastanza a lungo in Ticino (e normalmente esservi cresciute). Un secondo fattore è quello della lingua materna. L'italiano deve avere uno statuto alto nella gerarchia delle competenze linguistiche di queste persone e costituisce normalmente la loro lingua materna. Ciò ha permesso di

128 Pensiamo soprattutto agli immigrati (italiani e non) di seconda generazione. I figli di genitori ticinesi non dialettofoni rappresentano una realtà quantitativamente importante unicamente negli ultimissimi decenni.

129 Anche questo gruppo ed i fenomeni che lo caratterizzano attende nei prossimi anni di essere approfondito nelle sue (eventuali) particolarità linguistiche.

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sviluppare nel corso del tempo una notevole competenza passiva, la cui riattivazione e il cui funzionamento si fondano in modo importante sulla similarità linguistica tra italiano e dialetto. Tra le condizioni negative vi è il fatto di non essere stato oggetto di una educazione in dialetto. Essenzialmente, quindi, si tratta di coloro che, per volontà propria o per la volontà di chi ha fornito loro l'educazione primaria130, non sono venuti a far parte dei parlanti nativi del dialetto. Addirittura non dovrebbero nemmeno essere considerati dei parlanti del dialetto, dato che nella maggior parte dei casi non lo parlano mai, ma siccome ne hanno almeno la competenza passiva sono da considerare dei dialettofoni potenziali. All'interno degli studi sul bilinguismo, questi parlanti vengono inseriti in una categoria che è molto frequente incontrare nelle situazioni di language shift, e cioè quella del receptive bilingualism (cfr. per es. Harding e Riley 1986, 34131). Il 'bilinguismo ricettivo' costituisce uno sviluppo estremo del bilinguismo asimmetrico, in cui una lingua è posseduta in modo decisamente migliore dell'altra. Un'altra situazione in cui è possibile incontrare questa forma di bilinguismo è quella, anch'essa importante per la nostra situazione, in cui i genitori tra di loro parlano una lingua, ma con i figli ne parlano un'altra. Oppure, ancora, i casi in cui uno dei genitori non capisce la lingua che l'altro coniuge parla con i figli132. Una delle caratteristiche note negli studi sul bilinguismo ricettivo è proprio quella di osservare spesso una facilità da parte dei soggetti a recuperare in genere

130 Il fatto che la decisione di usare l'italiano sia stata vissuta talvolta in modo traumatico dai figli è ben illustrato da una parlante che racconta come il padre le proibisse di parlare dialetto e come le violazioni della regola fossero severamente sanzionate ("e gió na sc-giafa se parlavi mia italian"). D'altro canto abbiamo già visto che esistono anche i casi di figli che si siano rifiutati ad un certo punto di parlare dialetto con i genitori.

131 "Amongst the many variants of bilingualism, an important one is known as receptive bilingualism. This means that the individual concerned understands the language, but cannot, will not or does not speak it. It is important both because it is very common and because outsiders often regard it as a 'refusal to speak' and consequentely as a further demonstration that bilingualism does not work." (ibidem). Il concetto di receptive bilingualism è quindi proprio quello della competenza passiva di una delle due lingue e, secondo Harding e Riley, è il caso caratteristico delle situazioni di language shift e spesso delle situazioni di migrazione.

132 In questo caso, Harding e Riley (p. 36), postulano, a dire il vero in modo troppo categorico, la possibilità di una regola generale secondo la quale "where one of the parents does not understand one of the languages, attempts to maintain bilingualism in the family will fail."

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in un tempo relativamente ridotto la seconda lingua appena essi si trovino in un contesto che li costringe a farlo133. Nel nostro caso i contesti in cui il recupero o l'apprendimento avviene sono quelli tradizionalmente legati ad una maggiore dialettofonia, con però l'intervento di una componente apparentemente paradossale, e cioè quella del contatto sovraregionale. Infatti in contesti come tipicamente il servizio militare l'elemento scatenante della dialettofonia è la presenza di parlanti provenienti da regioni e ambienti sociali con una chiara preferenza per questa lingua. Quest'ultima viene così 'imposta' anche ai nostri parlanti, che altrimenti, per quanto riguarda la loro biografia, sottoscrivono spesso dichiarazioni come la seguente:

Finché avevo 15 anni nel mio emisfero famiglia-scuola avevo soltanto l'italiano, anche perché sono stato sempre in scuole grandi, in cui non c'era occasione di parlare dialetto

Ovviamente ad una scarsità così forte del contatto del dialetto corrisponderà di regola un livello di competenza assai basso nella loro produzione linguistica in dialetto134. La situazione che ricollega la maggiore dialettalità all'allargamento del raggio regionale è apparentemente paradossale perché all'allargarsi del contesto regionale ci si attenderebbe normalmente una tendenza più forte alla selezione della lingua sovra-regionale, cioè l'italiano. Ma questa possibilità è bloccata da un lato dalla tradizione linguistica di questi contesti (il servizio militare, per esempio, con il suo forte carattere 'elvetico' anche per l'assenza di non svizzeri), e dall'altro lato dalla forte preferenza dei dialettofoni per la loro lingua materna, che riescono così a

133 Cfr. per es. Leopold (1957-8), Arnberg (1987), Porsché (1983), Harding e Riley (1986). A questi studi, negli ultimi anni, si sono venute ad affiancare, le interessanti osservazioni, a cui abbiamo già fatto riferimento nel capitolo precedente, di Slobin et al. (1993) sul recupero da parte dei bambini di una lingua appresa in giovane età e poi persa.

134 La maggior parte delle persone che hanno avuto una biografia di questo tipo vanno a finire nella categoria che abbiamo definito dei 'PE3', mentre la categoria dei PE1 è per lo più costituita da giovani che siano per es. cresciuti in famiglie dialettofone in cui i genitori però parlavano unicamente italiano ai figli. Se Petralli (1991, 318) poteva precisare che "l'italofono 'monolingue' ticinese è tendenzialmente la giovane studentessa luganese appartenente al ceto alto", da parte nostra possiamo sostenere che, per quanto riguarda la competenza dialettale, questo ritratto coincide tendenzialmente con la categoria dei PE3.

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imporle anche agli altri. Altri contesti di 'dialettizzazione' che vengono spesso citati sono le società sportive, gli "esploratori" (boy scouts), il contesto lavorativo (dove più che la commistione regionale è fondamentale la commistione generazionale), e in alcuni casi l'emigrazione al di fuori del cantone, nei casi in cui questa sia legata, come nel servizio militare, a contatti con parlanti di regioni maggiormente dialettofone. Dal punto di vista dell'uso attivo però il dialetto in questi casi si limita per i nostri parlanti all'uso di alcune formule fisse, che danno un carattere di dialettalità alla situazione, ma che si inseriscono, con una presenza quantitativamente minima, sullo sfondo di un forte uso attivo dell'italiano e di una capacità 'passiva' di comprensione del dialetto usato dai dialettofoni:

Mi disévi dumà 'ciàpum n'altra bira, fémm un puu da casòtt', e basc-ta, l'eva tütt chì135

["io dicevo solo 'prendiamo un'altra birra, facciamo un po' di casino, e basta, era tutto qui"]136

L'apparente paradosso va quindi risolto con l'osservazione di una maggiore 'forza latente' del dialetto (almeno in questi contesti), che in condizioni di confidenza tra i partecipanti alla situazione riesce ancora ad imporsi sull'italiano come lingua preferenziale. Si dice talvolta che si può sentire una lingua per anni senza impararla137, ma questi parlanti evanescenti rappresentano invece un caso in parte opposto: essi hanno sentito per anni una lingua che capiscono e che saprebbero parlare senza mai averla utilizzata attivamente. Quali sono allora i settori della lingua che 'hanno sentito per anni senza impararli'? In buona parte sono i settori meno frequenti e motivati, come ci si poteva attendere. Ma ciò non riguarda per esempio il sistema

135 Anche questo parlante dichiara di parlare per la prima volta dialetto nel corso dell'intervista, Si noti tra l'altro l'evidente italianismo ciapum na bira, calcato su "prendiamo una birra".

136 Le traduzioni che proponiamo delle frasi dei parlanti evanescenti o di altri parlanti non tipicamente nativi hanno lo scopo primario di rendere comprensibile a non dialettofoni ciò che i parlanti vogliono dire. Abbiamo quindi cercato di rendere in italiano il senso di questi enunciati. Le traduzioni letterali o che vogliono rendere più espliciti valori particolari degli enunciati vengono proposte, qualora sia necessario, nel corso della discussione.

137 Si veda il caso di alcune situazioni di emigrazione: penso qui per es. a immigrati italiani nella Svizzera tedesca, che praticamente parlano unicamente italiano o il loro dialetto d'origine e capiscono pochissimo della lingua del luogo.

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dei pronomi clitici, che, pur essendo notoriamente difficile per i non nativi, costituisce una caratteristica importante di 'differenziazione' del dialetto dall'italiano (oltre ad avere una sua coerenza tipologica). Accanto quindi a concetti fondamentali negli studi sulle lingue non native, come i concetti di naturalezza, marcatezza o semplificazione, assumono una particolare importanza i fenomeni, più sociolinguistici, di 'identificazione' o di 'carattere peculiare' della L2 rispetto alla L1, intese come caratteristiche che hanno un valore importante nella differenziazione dei due codici. E' anche in questo senso che le varietà di questi parlanti non possono essere considerate delle tipiche varietà di L2 (anche se magari il dialetto è stato appreso in un secondo tempo rispetto all'italiano), in quanto in esse agiscono pure forze più tipiche della variazione sociolinguistica. E' difficile dire quale sia la percentuale dei vari gruppi di parlanti evanescenti che vivono in Ticino, ma possiamo pensare che tutti gli italofoni cresciuti in questa regione abbiano una buona competenza passiva del dialetto e che a seconda principalmente dell'età e del luogo di domicilio138, essi si distribuiscano nei tre gruppi di competenza che abbiamo qui delineato.

138 Accanto a queste variabili più sociali e controllabili sulla base dei dati quantitativi giocano un ruolo importante ovviamente anche variabili con componenti più individuali e quindi meno controllabili (come per es. l'atteggiamento verso il dialetto), che disturbano quindi la tipologizzazione qualitativa dei valori quantitativi.

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3.2.2. Riattivare la competenza nel discorso Se nel corso dell'intervista semi-guidata la competenza dei parlanti evanescenti sembra essere molto vicina a quella dei nativi, negli altri compiti comunicativi affiorano forti differenze rispetto a questi ultimi che obbligano a mettere l'accento sia sulla ristrettezza funzionale della competenza dei PE che sulle strategie alternative che vengono impiegate per mantenere la comunicazione ad un livello di fluenza molto alto. Può a questo punto essere interessante osservare che i parlanti stessi hanno di solito individuato tre strumenti di sostegno della loro competenza, e cioè, nell'ordine di importanza, l'utilizzazione di elementi contenuti nel turno dell'intervistatore (che potremmo definire, un po' impropriamente, come 'elementi di memorizzazione a breve termine'), l'impiego di formule e routines linguistiche dialettali ben conosciute e soprattutto di espressioni quotidiane di alta frequenza (quindi elementi peculiari memorizzati), e il ricorso all'italiano mediante procedimenti di correlazione con le strutture del dialetto e conseguenti trasformazioni. Queste tre strategie o 'strumenti procedurali' sono manifestate di solito con affermazioni come le seguenti.

Per me è facile perché tu mi parli in dialetto e allora io ripeto quello che dici tu. Ci sono quelle cose che tutti sanno, che sono tipicamente dialettali. Uso le frasi semplici e quotidiane, dove riproduco quanto ho già sentito, e quando devo costruire delle varianti mi trovo in difficoltà. Mah, se per esempio devo trovare una parola si sa che in dialetto è un po' differente, non ha la vocale finale per esempio, o ha sc- o ha u, e allora prendo la parola italiana e la adatto. E' quel tipo di strategia che a Lugano viene praticata moltissimo da gente che non sa parlare dialetto, quella gente che si trova a militare nella necessità di parlare dialetto, per cui si cerca di aggiungere elementi nelle parole che suonano dialetto.

I risultati di queste strategie sono esemplificati qui di seguito.

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a) ripresa di elementi forniti dall'intervistatore139: I: la tò mam l'è tedesc-ca [”tua mamma è tedesca”] R: la mè l'è tedesc-ca [”la mia è tedesca”] I: dala Germania [”della Germania”] R: dala Germania, dal s- süd [”della Germania, dal sud”]

b) uso di formule di routines (fornisco qui formule segnalatemi come tali dai parlanti stessi):

R: a vò sül sicür ["vado sul sicuro", cioè "non rischio"] R: gh'ò mia bisögn ["non ho bisogno"] R: parli dumà italian ["parlo solo italiano"] R: alóra? Cuma ném? Ném a béf un cafè? ["allora? Come andiamo?

Andiamo a bere un caffé?"]

c) trasformazioni dall'italiano mediante lo sfruttamento e la sovraestensione di corrispondenze (anche qui si tratta di casi segnalati dai parlanti stessi):

R: i recension [”le recensioni”] R: ma pias ul cuntàt cula gent ["mi piace il contatto con la gente"] R: io non so come si dice 'pozzanghera', dico 'na pozanghera', cioè cerco

di modificare l'intonazione del sostantivo e in più aggiungo un articolo che mi sembra plausibile

Queste tre strategie, indicate in questo modo dai parlanti stessi, si possono trasporre in un'ottica più generale come rispettivamente strategie puramente discorsive o del suggerimento lessicale immediato da parte dell'intervistatore, strategie di apprendimento autonomo di forme dialettale (memorizzate in forme scarsamente analizzate), e strategie di corrispondenza tra le forme italiane e

139 Indichiamo con I l'intervistatore e con R la risposta dell'intervistato.

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possibili forme dialettali (mediante regole di correlazione funzionanti in molti casi). Accanto a queste tre strategie non dobbiamo però dimenticare che i nostri soggetti non sono al primo contatto con la lingua obiettivo, ma hanno invece una storia alle spalle in questo senso. I parlanti non nativi di cui qui ci occupiamo hanno imparato il dialetto per capirlo (e capendolo) e non per produrlo (e producendolo). Il loro uso delle conoscenze nell'intervista implica quindi anche un mutamento nel comportamento relativo all'uso abituale delle conoscenze. Essi devono quindi trasformare la loro 'competenza passiva' in 'competenza attiva'. Quale sia esattamente la differenza tra questi due usi del linguaggio non è ancora stato definito con precisione, ma vi sono alcune chiare differenze legate per esempio all'intervento del contesto nella comprensione, con una funzione ausiliare importante (cfr. Klein 1984). A quanto ne sappiamo però potrebbe anche essere possibile che competenza attiva e passiva operino in modi differenti, dato che per esempio per la comprensione non è necessaria la decodifica completa degli elementi della frase (cfr. Aitchison 1987, cap. 9), e quindi avremmo a che fare soprattutto con tipi differenti di processi con schemi di produzione differenti. Abbiamo quindi a che fare, in quei parlanti che usano per la prima volta in modo attivo il dialetto, con 'esplicitazioni attive di competenza passiva', dove accanto alle conoscenze entrano palesemente in gioco anche fenomeni di difficoltà di messa in opera della competenza, come la mancanza di esercizio, ma forse anche la 'specializzazione differente' delle competenze dialettali. Se queste sono le loro difficoltà principali, le cause della loro velocità e facilità nel mettere in opera una competenza attiva soddisfacente andranno invece rintracciate essenzialmente in due altri fattori. Da un lato la similarità linguistica tra italiano e dialetto, che fa dell'italiano uno strumento molto potente di creazione strategica di dialettalità, e dall'altro lato la caratteristica, più o meno forte a seconda dei casi, di questi parlanti di essere 'bilingui ricettivi', quindi soggetti cresciuti a contatto (pur se unicamente passivo) con il dialetto140.

140 Quindi, nell'etichetta di 'bilingui recettivi' diamo la priorità alla componente dell'essere bilingue, della quale il fatto di essere unicamente 'ricettivi' deve essere considerata una sottospecificazione.

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3.2.3. I tre sottogruppi di parlanti evanescenti Dal punto di vista delle loro caratteristiche linguistiche i 'parlanti evanescenti' possono a loro volta essere suddividisi in tre sottogruppi. Questa suddivisione è ovviamente una generalizzazione, dato che la transizione dai livelli più bassi di competenza a quelli più alti è senz'altro continua. Ma, da un lato, questo quadro tripartito è chiaramente emerso dai nostri materiali, e, dall'altro lato, la tripartizione è ben correlabile a condizioni sociolinguistiche differenti di rapporto con il dialetto. Abbiamo quindi deciso di mantenere questa categorizzazione in virtù del suo ovvio vantaggio di mettere meglio a fuoco il rapporto tra fattori linguistici ed extralinguistici. Ovviamente si dovrà tener presente che parlando di tre gruppi stiamo tipizzando tre addensamenti di fenomeni emersi nei nostri materiali senza voler escludere la continuità tra gli stadi (né tantomeno l'esistenza di stadi intermedi) Il primo gruppo è quello dei 'quasi-nativi', che sanno utilizzare il dialetto in modo molto soddisfacente. Di solito si tratta di figli di dialettofoni, ai quali i genitori hanno deciso di parlare solo italiano. Il secondo è un gruppo intermedio, che presenta difficoltà maggiori, manifestate per esempio da un ricorso più importante all'italiano, ma che comunque se la cava, da un punto di vista comunicativo, molto bene. Il terzo gruppo è quello dei parlanti che hanno avuto un contatto più ridotto con il dialetto sia quantitativamente che qualitativamente (dato che nella maggior parte degli ambienti da loro frequentati il dialetto non è richiesto). Questi ultimi parlanti si caratterizzano, oltre che per un ricorso ancora maggiore all'italiano, per la presenza nel loro discorso di fenomeni particolari, assai distanti dalle soluzioni dialettali dei nativi o degli altri due gruppi. Non vi è comunque coincidenza perfetta tra caratteristiche sociologiche (comportamento in famiglia, origine dei genitori, ecc.) e caratteristiche linguistiche (maggiore o minore competenza). Così è per esempio possibile che un figlio di immigrati siciliani, arrivato in Ticino poco prima del suo decimo anno, parli all'età di trent'anni un dialetto ticinese praticamente perfetto (si tratta di un soggetto da noi effettivamente osservato e per il quale non è stato possibile rilevare fenomeni linguistici di differenziazione rispetto a nativi veri e propri). Per quanto riguarda ancora i tratti caratteristici dei vari tipi di parlanti, occorre notare che mentre nei parlanti avanzati permane il nucleo morfosintattico che differenzia in modo più fondamentale l'italiano dal dialetto, al calare della competenza anche questo nucleo si attenua e si delineano possibili (anche se non

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saranno probabilmente gli unici) 'percorsi di transizione' tra una lingua e l'altra. Borgato (1984, 155) poteva per esempio osservare la forte permanenza di alcuni tratti forti di differenziazione tra italiano e dialetto nel parlato di nativi a Padova:

"... mi occuperò delle frasi relative e di alcuni tipi di interrogative che mostrano un netto contrasto tra is [l'italiano standard] e il mio dialetto padovano, che è tutt'altro che rustico e che risente di forti contaminazioni di is. Questo ultimo fatto non solo non è da interpretare come in qualche misura invalidante l'analisi qui condotta, bensì al contrario la rafforza nella sua base empirica: evidentemente, se c'è nel mio dialetto contrasto con is, esso deve essere ricondotto a fattori così 'forti' di grammatica del padovano, tali che neppure un uso costante, anche se non voluto, di is, è riuscito a scalfirli." (evidenziazione nostra)

Nel nostro caso vedremo invece un possibile attenuarsi di queste 'barriere', con la creazione di zone intermedie coerenti con la tipologia dialettale per quanto riguarda il 'percorso di transizione' (o quella che potremmo chiamare la 'gerarchia di cedimento'), ma sfocianti in varietà oramai differenti tipologicamente dal dialetto. Quindi mentre tradizionalmente gli studi sull'italianizzazione dei dialetti hanno osservato soprattutto un mutamento nella sfera lessicale, nei nostri parlanti appaiono in modo forte pure tratti di semplificazione e di italianizzazione del dialetto anche a livello morfosintattico. In questa dinamica gioca un ruolo fondamentale l'aspetto da non nativi delle nostre varietà, i cui parlanti in parte sono, dovremmo dire, parlanti 'nativi passivi', del dialetto. Quindi se l'italianizzazione dei dialetti dei nativi veri e propri è soprattutto un fenomeno di mutamento (o 'adattamento') fine di parlanti nativi a causa di una nuova realtà (linguistica ed extra-linguistica), i fenomeni che qui vedremo inseriscono in questa dinamica tratti altrimenti tipici dell'apprendimento di lingue seconde, come importanti fenomeni di semplificazione e ristrutturazione a livello morfosintattico. Di fronte al crescere dei parlanti di questo tipo (documentato, almeno per la situazione ticinese, dai rilevamenti quantitativi discussi nel capitolo 1.) e al mutare parziale (di cui parleremo in seguito) delle varietà dei bambini dialettofoni e dei registri loro rivolti dagli adulti, ci si può chiedere se questi parlanti non ci aprano uno spiraglio su una eventuale realtà del futuro, in cui l'avvicinamento del dialetto all'italiano potrebbe divenire ben più massiccio e arrivare perciò a toccare anche il livello morfosintattico delle varietà native stesse.

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I 'parlanti evanescenti' del primo gruppo (quelli più competenti) presentano, rispetto ai nativi, alcune incertezze e maggiori esitazioni e pause nella produzione che ne diminuiscono la fluenza. Il loro uso dell'italiano nel dialetto avviene in genere in un modo che si avvicina molto (soprattutto qualitativamente, ma talvolta anche quantitativamente) a quello dei nativi veri e propri. Come questi, essi inseriscono infatti parole che, a rigore, dovrebbero essere adattate alle forme canoniche dialettali, ma che spesso non lo sono nemmeno da parte di dialettofoni nativi, e che non vengono sentite come parole non dialettali neanche da questi ultimi. Simili a queste forme, che oramai si possono considerare stabili nel dialetto si ritrovano anche parole italiane vere e proprie, sentite come tali, ma usate con un certo valore di citazione, come per l'impossibilità di dialettizzarle. Non si può non ripensare all'affermazione di Bianconi riguardante la trasformabilità di praticamente ogni parola italiana in una parola dialettale che caratterizzava il discorso, soprattutto tecnico, dei primi anni Settanta (cfr. qui il primo capitolo141). Come abbiamo visto la nuova norma dialettale ha ritracciato il confine tra ciò che è dialettizzabile e ciò che non lo è, e la sanzione attuale (espressa per esempio attraverso il ridicolo) tocca piuttosto certe dialettizzazioni che non l'inserzione di una parola italiana nel discorso dialettale. Per questo mutamento di mentalità, è sintomatica per esempio la seguente affermazione fatta da un attore dialettale della Radio e Televisione Svizzera di Lingua Italiana nel corso di un'intervista in dialetto142:

L'è na sc-toria che la cünta sü attravers ... in dialett sa pò mia dil ... il paradosso ... ["E' una storia che racconta attraverso ... in dialetto non si può dirlo ... il paradosso"]

L'inserto di commento (in dialett sa pò mia dil) che annuncia il passaggio all'italiano (il paradosso) contrasta con l'uso non infrequente della versione

141 Vale anche la pena di tornare a rileggere i testi alle pagine 62-65 di Bianconi (1980): credo di poter dire senza timore di essere smentito che al giorno d'oggi sia più difficile sentire cose come Quist isforz inüman i è mia costaa domà temp e danee ... Sul discorso generale dell'inserzione di strutture dialettali nel tessuto discorsivo italiano è stato molto importante il lavoro di Berruto (1971). Non occorre dimenticare che lo stesso lavoro di Bianconi segnalava già allora casi di parole non adattate, come per es. traforo.

142 Durante la trasmissione televisiva "Il quotidiano" del 26 dicembre 1995.

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dialettizzata della stessa parola da parte di ticinesi (l'è un paradoss), ma segnala l'opinione del parlante che sia da mantenere preferibilmente la versione italiana (espressa in modo forte: "in dialetto non lo si può dire")143. Usi di questo tipo, anche nei nostri parlanti, sono perciò caratterizzati da un valore metalinguistico più alto rispetto al resto del discorso e anche le restrizioni sull'utilizzabilità dell'italiano nel discorso dialettale sono senz'altro sospese; si tratta di fenomeni consci e con un particolare valore retorico, simile a quello che spesso ha l'inserzione in italiano di parole di altre lingue. In questo senso si deve dire che questi parlanti posseggono quindi una sensibilità sorprendente, che fa parte della loro competenza, come fa parte della competenza dei parlanti nativi, su 'che cosa sia dialettizzabile'. Questo discorso sull'utilizzabilità di parole italiane nel comportamento linguistico 'normale' dialettale di nativi verrà ancora ripreso in relazione ai fenomeni del parlare ai bambini. In particolare talvolta il blocco alla dialettalizzabilità della parole italiane può fondarsi forse anche sullo sviluppo di nuove preferenze fonologiche parametriche, come per es. una minore accettabilità di nessi consonantici finali (come per es. in deformànt, sorprendént, ma anche nel molto frequente sc-tampante o stampante), una lunghezza ottimale della parola con struttura accentuale soddisfacente, ecc., che bloccano così talvolta la dialettizzazione di parole nuove facendo preferire le forme italiane o, forse, forme dialettali fondate su una 'vocale d'appoggio' finale ripresa dall'italiano (questa seconda formulazione vuole cercare di cogliere il fatto che molti parlanti non sentono queste forme come italiane, ma le considerano comunque dialettali). Potrebbe anche darsi che da un blocco di tipo sociolinguistico, relativo cioè al sentire una parola come tipicamente italiana e quindi non dialettizzabile, si sviluppi un blocco fonologico (dapprima sensibile sociolinguisticamente, cioè relativo alle parole nuove, poi più liberalizzato), di nuove regole dialettali che impediscono queste strutture (questa tendenza, dall'altra parte, dovrà fare i conti, come 'contro-pressione', con la necessità di mantenere comunque un minimo di differenziazione rispetto all'italiano a livello di discorso, pena l'assorbimento totale del dialetto)144.

143 Lo stesso parlante non sembra però particolarmente disturbato dall’italianismo attravers.

144 Uno studio su questo fenomeno è ancora tutto da fare, ma la verifica dell'ipotesi che formulo qui in modo unicamente approssimativo mi sembra degna di considerazione da parte di studi futuri.

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3.2.5. Caratteristiche morfosintattiche delle varietà dei PE

3.2.5.1.L'uso dei pronomi clitici soggetto Tra i tratti che ci attendevamo potessero creare problemi ai nostri soggetti, vi era senz'altro una delle particolarità che maggiormente differenziano l'italiano (L1 vera e propria dei PE) e il dialetto. Ci riferiamo all'uso dei pronomi atoni soggetto, ai quali in ragione della loro importanza nella differenza tra italiano e dialetto dedicheremo qui molto spazio. I pronomi clitici costituiscono già di per sé un problema tipico nelle situazioni di apprendimento di lingue seconde (cfr. per es. Berretta 1986, o Véronique 1986). I clitici soggetto dialettali poi sono caratterizzati da una forte frequenza d'uso ma anche da un'alta variabilità di impiego, con regole categoriche di impiego e di non impiego accanto a regole variabili di 'cancellabilità' (e al tutto, per quanto riguarda le forme, si aggiunge la variazione regionale). Tutto questo, oltre a rendere più difficile l'individuazione delle forme corrette, incrementa anche la difficoltà di comprensione delle condizioni d'impiego dei clitici soggetto. Il sistema dei nativi, in buona parte coincidente per le varie regioni ticinesi, è stato descritto con interessi differenti da Spiess (1956), Lurà (1987) e, da ultimo in un'ottica generativista, da Vassere (1993). A mo' di esempio riporto qui la tabella proposta da quest'ultimo (per il dialetto di Lugano); le differenze regionali si manifestano soprattutto nella forma dei pronomi proclitici e nella presenza delle marche enclitiche (con per es. alla seconda persona l'alternanza tra te mangiat e te mangi)145. 1. sing. (a) mángi "mangio" 2. sing. ta mángiat "mangi" 3. sing. al/la mángia "mangia" 3. impers. sa mángia "si mangia" 1. pl. (a) mángium "mangiamo" 2. pl. (a) mángiuf "mangiate"

145 Questi fenomeni di variazione regionale verranno discussi man mano che appariranno nelle varietà dei PE.

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3. pl. i mángia "mangiano" La facoltatività (come è indicato dalle parentesi) riguarda le prime persone singolare e plurale e la seconda persona plurale. Vi sono però altri contesti in cui i clitici sono tralasciabili (cfr. Spiess 1956 e Lurà 1987). Lurà (op. cit., p. 155) cita i seguenti (citiamo anche alcuni degli esempi proposti dall'autore146):

"a) in espressioni impersonali bü ögna ná da i 'bisogna andare adagio' basta un atim 'basta un attimo' [...] sa fá dumá par rit 'si fa solo per ridere' b) in frasi con gh'è 'c'è', gh'eva 'c'era', ecc. gh'è rivaa nissün 'non è arrivato nessuno' gh'éva sü i sòlit facc 'c'erano su le solite facce' c) in frasi col soggetto posto dopo il verbo manca l Giuvann 'manca (il) Giovanni' giügan sémpru quii 'giuocano sempre quelli' d) in frasi relative col pronome in funzione di soggetto147

quéla dòna che riva tütt i dí 'quella donna che arriva tutti i giorni' l'è quéll che parla mò 'è quello che parla adesso' ..."

Nei dialetti che ci interessano la situazione è poi ulteriormente complicata dalla presenza di una forma omofona a con tre valori distinti e etimologicamente

146 Gli esempi mantengono le convenzioni grafiche adottate da Lurà.

147 Per mantenere fedelmente la citazione abbiamo reso questo criterio con le parole di Lurà (che riprende Spiess 1956, 51), ma più correttamente esso andrebbe riformulato come: "il soggetto clitico [...] è (tendenzialmente) evitato nelle [relative] restrittive" (la citazione è da Vassere 1993, 72). Giustamente Vassere (1993, 121, n. 45) osserva che: "... il discrimine per l'uso o la mancanza del clitico soggetto è qui decisamente la natura della frase relativa e non tanto la funzione sintattica del sintagma relativizzato (come è sostenuto in Lurà 1987, 155)". Questa particolare distinzione tra relative restrittive e non restrittive operata mediante la presenza o meno del clitico soggetto è stata colta, sulla base del padovano, da Borgato (1984).

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discendente da origini differenti, per la quale non sempre si può essere sicuri che i parlanti abbiano presente chiaramente le differenze. Tradizionalmente essa ha tre differenti valori, elencati da Lurà (op. cit., pp. 157-8), sulla scorta di Sganzini (VSI 1.3-13) nel modo seguente:

"Abbiamo: a) pronome personale soggettivo proclitico In questo caso a è etimologicamente un pronome di I pers. sing. (deriva infatti dalla stessa base di 'io': EGO) che in seguito, sfumata la sua carica semantica originaria, si è esteso anche alle prime due persone del plur. come pure alla III, sempre del plur., dove però si alterna con la corretta forma i: accanto a i müraduu i dupéran la molta si ha dunque pure i müraduu a duperan la molta 'i muratori adoperano la malta'. b) pronome impersonale Compare quando manca il normale pronome personale. I casi in cui ciò avviene sono in gran parte già noti, trattandosi degli stessi considerati nelle osservazioni di carattere generale alle suddivisioni a) - d) [si tratta dei contesti di cancellazione del pronome soggetto che abbiamo elencato sopra riprendendoli pure essi da Lurà; B.M.]; a questi si aggiunga quello in cui figurano delle frasi aventi un soggetto indeterminato: nissügn a ga na dava 'nessuno gliene dava' queidügn a déf vütám 'qualcuno deve aiutarmi' chi vör a pò vigní 'chi vuole può venire' [...] c) particella pronominale Essa può presentarsi, senza una particolare funzione morfologica, davanti alle usuali forme atone (proclitiche e enclitiche) dei pronomi personali di II sing. e III sing. e plur.: a ta lavurat tròpp 'lavori troppo' a sét matt o cò a 'sei matto (o cosa)?' ..."

Che questa zona grammaticale si presenti come una zona di altissima variabilità è ben dimostrato anche dalle analisi di Spiess, che in paesi vicinissimi tra loro nota grandi differenze nel comportamento (che non sempre sono linearizzabili e presentano dei 'salti' anche nella continuità geografica). Per non parlare poi della forte variazione interna al grande gruppo dei dialetti settentrionali (quindi non solo ticinesi). Talvolta la variazione è motivabile, per es. con il mantenimento delle

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marche di persona relative alla terza persona plurale che si correlano ad una minore presenza di clitici soggetto in contesti legati appunto a questa persona, ma in altri casi la variazione sembra seguire microdinamiche difficilmente definibili e magari talvolta ricollegabili anche ai singoli informatori che hanno fornito i testi. Nei nostri parlanti, come ci si poteva attendere, al decrescere della competenza aumenta il numero di casi di clitici soggetto cancellati. A titolo di esempio riportiamo qui di seguito il computo delle occorrenze in due parlanti per ognuna delle categorie di PE che abbiamo individuato. Come si vede nella tabella seguente, al di là di considerazioni pìù fini sulle condizioni di cancellazione (o, più realisticamente, di non inserimento), la gradazione di competenza è ben illustrata dalla frequenza di impiego di queste forme148:

PE1a: 8.3% (5 cancellazioni su 60 occorrenze obbligatorie) PE1b: 12.7% (8 su 63) PE2b: 21.7% (10 su 46) PE2a: 23.6% (13 su 55) PE3b: 51.2% (22 su 43)

148 Il valore di queste cifre è più indicativo che altro a causa di una serie di problemi che discuteremo in seguito, come per es. quello relativo all'interpretazione degli usi di a che si ritrova al posto di pronomi soggetto veri e propri. Si tratta di decidere se per il parlante si tratti di una variante di forma di un clitico soggetto oppure se si tratti del cosiddetto 'pronome impersonale', che occorre unicamente in assenza del pronome. In questo calcolo ci è sembrato più realistico optare per la seconda possibilità e interpretare quindi le occorrenze di a, in luogo di un pronome personale, come mancanza del pronome. Delle cosiddette 'occorrenze obbligatorie' non fanno parte ovviamente i casi in cui i soggetti hanno usato una possibilità effettiva della lingua obiettivo di tralasciare i pronomi soggetto e i casi in cui è obbligatorio farlo, ma anche in questo campo ci possono essere problemi interpretativi. Questi problemi non disturbano comunque la significatività della crescita delle cancellazioni mostrata dalle cifre qui esposte.

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PE3a: 67% (27 su 40)

Le cifre mostrano anche la relativa vicinanza dei PE1 e dei PE2 ai parlanti nativi149, contrapposta alla netta distanza dei PE3 dagli stessi. Ciò conferma l'impressione che si può avere a prima vista dei PE3 come caratterizzati da una maggiore devianza rispetto alla lingua obiettivo.

3.2.5.1.1. I clitici soggetto nei PE1 In genere i parlanti di questa categoria posseggono il sistema dei clitici soggetto con una competenza veramente simile a quella di nativi. Si ritrovano quindi pochi casi in cui il pronome che sarebbe obbligatorio non viene collocato e anche in questi casi si ha variabilità, ciò che fa pensare a problemi di esecuzione e nella costruzione del discorso. Il periodo seguente presenta per es. due differenti tipi di cancellazione con gradi differenti di sistematicità:

Ee l pinin e l can .. i vosa ala finesc-tra, .. e l can Ø gh'a sempro la tesc-ta denta n dal bocal, .. eh mi pensi che Ø cerca la rana. [”E il piccolo e il cane gridano alla finestra, .. e il cane ha sempre la testa nel boccale, ... eh io penso che cerchi la rana”]

Nel secondo caso (mi pensi che Ø cerca la rana) è possibile che il complementatore che, con la continuità del 'protagonista della storia', abbia fatto supporre la non necessità di ripresa esplicita nella subordinata (come nelle relative restrittive). Inoltre l'inserto è metalinguistico e si sovrappone quindi in modo quasi 'parentetico' alla continuità del soggetto nel paragrafo, dove il bambino e il cane sono i 'protagonisti'. Infine, questo caso potrebbe anche essere interpretato come sul confine di una commutazione di codice, dato che mentre la prima parte della frase è chiaramente dialettale la seconda parte, a partire da che, è omofona in italiano e dialetto (sarebbe proprio il clitico qui a fare la differenza). Mentre l'alternanza con l'italiano porta ad oscillazioni nell'obbligatorietà dei clitici soggetto in

149 Rappresentati qui dai valori delle occorrenze obbligatorie.

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questi parlanti, la subordinazione non influisce invece categoricamente su questo fenomeno. Una spiegazione correlata all'italiano è invece del tutto esclusa nel primo esempio (e l can Ø gh'a sempro la tesc-ta denta n'dal bocal), dove la collocazione è interamente in 'territorio dialettale', e dove si presenta inoltre una fenomenologia che gode già di una certa sistematicità nella cancellazione anche in questa categoria di parlanti. In questi parlanti, in cui la presenza del clitico soggetto è molto vicina al comportamento dei nativi, la cancellazione dei pronomi dipende spesso dall'occorrenza simultanea di più condizioni che facilitano il fenomeno. Le cause singole sono quelle che vedremo meglio in relazione alle categorie meno competenti di parlanti, ma con la differenza che per i PE1 una sola condizione spesso non basta150. Nella frase appena vista, per esempio, appaiono il 'conflitto' con "avere" accompagnato dal suo avverbio, e la collocazione in una frase coordinata con lo stesso soggetto, che costituiscono alcune delle più precoci e forti di scomparsa del clitico soggetto. Si veda anche il caso seguente, di un'altra PE1:

e dopu .. visc-t che l mè fradèl l'è magiur, al nava già a sc-cöla, e Ø gh'avüd divers difficoltà a parlà italian .. alora i a decidüü da parlà italian cum mi ["e dopo ... visto che mio fratello è maggiore, andava già a scuola, e ha avuto parecchie difficoltà a parlare italiano ... allora hanno deciso di parlare italiano con me"]

E' come se nei PE l'avverbio di "avere" sembrasse aver già colmato la posizione del soggetto, fungendo come una specie di 'marca di soggetto impersonale' in contesti in cui il vero soggetto ha un grado di agentività bassa (come nel caso del cane la cui testa 'è trattenuta nel vaso', o del fratello che

150 Già nello studio di Spiess (1956) sul comportamento di parlanti nativi talvolta le condizioni si presentavano assieme rendendo difficile la loro valutazione in isolamento. Potrebbe anche darsi che questa sia una delle vie di 'trasmissione' della cancellazione del clitico soggetto, con nuovi contesti che appaiono assieme a contesti tipici di cancellazione e vengono così reinterpretati come a loro volta tipici contesti di cancellazione. Si avrebbe così una specie di 'contagio' progressivo per influsso sintagmatico che assume di volta in volta valenza paradigmatica.

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'incontra difficoltà a scuola')151. Nelle varietà native (cfr. Spiess 1956, 51) il contesto con il verbo "essere" più avverbio non richiede soggetto e anche questo fatto può aver contribuito ad un'interpretazione particolare dello stesso avverbio con "avere". Inoltre, in questo caso specifico, la frase è preceduta dalla congiunzione e, che è anch'essa responsabile di una parte importante di casi di cancellazione del pronome soggetto obbligatorio nelle categorie di parlanti meno competenti, ma che da sola non riesce mai ad ottenere questo effetto con i PE1. Infine, da un punto di vista discorsivo, ancora una volta abbiamo a che fare con un inserto 'laterale' nel discorso, che enuncia un elemento di 'sfondo' nella narrazione (con il tipico carattere aspettuale della 'continuità'). Quindi una predicazione con un ruolo marginale nell'avanzamento dell'azione (costituisce, come tipicamente fanno tutti gli elementi di 'sfondo', piuttosto una preparazione delle azioni vere e proprie), che è prodotta con una velocità di elocuzione superiore a quella degli altri enunciati e con un volume di voce leggermente inferiore, come appunto un'informazione che è utile che sia data, ma che non riveste la stessa importanza di altre informazioni che spingono in avanti in modo più importante la narrazione. In queste condizioni di contrasto, cioè tra elementi 'centrali' o di primo piano e importanti per la narrazione e elementi di sfondo, corre una delle linee di tendenza che si possono individuare come responsabili della cancellazione dei pronomi facoltativi. Nel contesto della raccolta dei materiali spesso il compito di raccontare costituisce un evento linguistico ambiguo, in cui l'intervistatore chiede all'intervistato di raccontargli una storia che lui conosce già (e che in fondo l'intervistato non ha nessun interesse a raccontare). E' normale in situazioni di questo tipo che si possa osservare un gioco di ruoli centrato sulla doppia figura dell'intervistatore come destinatario della narrazione e come osservatore della competenza linguistica o narrativa del soggetto e che quindi questi due ruoli vengano fissati in due differenti interazioni: una in dialetto (l'interazione 'fittizia' di narrazione) e una in italiano (l'interazione normale tra le due persone). I compiti che tendono più verso il polo metalinguistico (chiedere una parola, esprimere la propria incapacità di dire qualcosa, ecc.) vengono quindi sbrigati in italiano, e gli altri in dialetto. Anche per

151 Da questo punto di vista gli avverbi costituiscono una categoria veramente speciale. Si pensi per es. al fatto che nelle lingue non a soggetto nullo una delle poche condizioni in cui si può avere l'ordine Verbo-Soggetto si ha quando un avverbio si trova nella posizione sintagmatica del soggetto (vi vedano esempi classici come: "Here comes the sun"; cfr. per es. Cook 1990, 74).

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questo motivo lo sfondo, come parte meno importante della narrazione, può allontanarsi più facilmente dal dialetto. L'alta variabilità dei comportamenti ci spinge quindi ad indicare più fattori potenzialmente responsabili delle cancellazioni, senza che i materiali dei PE1 permettano di individuare univocamente spiegazioni categoriche. Un terzo contesto sintattico (accanto ad "avere" con avverbio, e alla coordinazione tramite e) in cui talvolta il pronome soggetto obbligatorio non è realizzato è quello in cui si ritrova un pronome riflessivo, come in:

... e l mónta sü na sü na ròcia, quaicòss, e Ø sa pògia ["e sale su una su una roccia, qualcosa, e si appoggia"]

In questi casi potrebbe aver agito l'estensione della cancellabilità del soggetto con pronomi impersonali (come in sa fá dumà par rit "si fa solo per ridere", l'esempio è di Lurà 1987, 155; su questa condizione confronta Spiess 1956, 29 ss.152), con un effetto dovuto all'omofonia del riflessivo e dell'impersonale che ha attivato la condizione di cancellazione. Ma già di per sé, in fondo, il riflessivo, da un punto di vista referenziale, rimanda al soggetto.. Inoltre influisce probabilmente anche la difficoltà che specialmente parlanti meno competenti sembrano avere con nessi di clitici (o di clitico e avverbio, come nei casi di "avere" appena visti), che fa spesso sì che il nesso sia semplificato con la cancellazione del clitico soggetto altrimenti obbligatorio. In questo caso specifico, infine, avrà pure giocato un certo

152 Spiess accomuna spesso nella trattazione riflessivi veri e propri e impersonali, per es. nel passaggio seguente l'elemento chiarificativo della traduzione in tedesco (man macht) fa capire che si tratta di un pronome impersonale e non riflessivo: "Bei der Konstruktion si fa = man macht. Es ist klar, dass bei dieser Konstruktion das sa nicht mehr als Reflexivpronomen, sondern als eigentliches Subjektpronomen empfunden wird. Die Setzung einer weiteren SP erübrigt sich so ohne weiteres." (1956, 29). Riguardo ai dialetti veneti e friulani (ma l'osservazione è chiaramente trasponibile al nostro caso), Benincà e Vanelli (1984, 184) osservano più precisamente che "il si impersonale si comporta, almeno per molti aspetti, come un vero soggetto clitico, occupa la posizione di soggetto prima dei clitici oggetto e dativo, e non ammette il cambiamento di ausiliare."

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ruolo la congiunzione e, che collega questa proposizione alla precedente (in condizioni di continuità del soggetto)153. Un ulteriore tipo di cancellazione di pronomi che si ritrova in questi parlanti non riguarda direttamente i clitici soggetto ma le marche di altri casi. I nessi di clitici rendono talvolta difficile interpretare le intenzioni dei parlanti e quindi l'analisi delle forme. La difficoltà di interpretazione è più forte quando manca (o non è percepibile per una fusione forte, e non concessa dalla norma, con altri elementi) nella frase un riferimento all'oggetto, che il contesto tenderebbe a far attendere:

Domanda: e l to pà al l'ha mai imparaa? [”e tuo padre non l’ha mai imparato (il dialetto)?”] Risposta: lü al parla .. multu ben [”lui parla .. molto bene”] A pensi ch'al def imparà perchéé ... (si sta ancora parlando del dialetto). [”Penso che deve imparare perchéé ...”]

Specialmente nel secondo caso ci si attenderebbe un riferimento esplicito al "dialetto" e quindi una formulazione come A pensi che l la def imparà (o senza risalita del clitico: a pensi ch'al def imparall). Se interpretiamo, come riteniamo giusto fare in entrambi i casi, al unicamente come soggetto, ciò che manca è dunque un pronome che marchi l'oggetto. La difficoltà che i parlanti hanno con questo tipo specifico di nesso di clitici è senz'altro da ricercare anche nella particolarità del dialetto di adottare per l'oggetto in questi casi una forma omofona con quella del femminile (cfr. anche Lurà 1987, 159-60). I nostri PE producono invece 'in modo regolare' i pronomi soggetto e oggetto (nelle forme appropriate negli altri casi) e risolvono il contrasto fonetico o con una forte fusione o con una cancellazione ed un affidamento per la disambiguazione al contesto. La soluzione adottata dal sistema della lingua obiettivo è peraltro assai 'innaturale', sia perché richiede alternanze di forme morfologiche basate su fenomeni fonologici (e quindi allomorfia), sia perché l'allomorfo la appartiene normalmente (o è omofono) ad un'altra categoria che è in contrasto morfologico diretto con il valore (maschile vs.

153 Questa condizione della cancellazione con riflessivi potrebbe anche essere diffusa in alcune varietà dialettali native, come fa pensare per es. la seguente frase citata da Sganzini nella sua trattazione del proclitico soggetto al (VSI, I.68-69): al povar omm 's era spavantaa tant, ca nu l'era plü bun d'indär evant, "il pover'uomo si era spaventato tanto che non era più capace di andare innanzi" (Stria 99.32). Si tratta di un testo della Val Bregaglia.

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femminile) col quale esso viene impiegato in questi contesti. Per i non nativi meno competenti non è inoltre da trascurare l'ipotesi che forme come al la con soggetti maschili possano incrementare la difficoltà di distinzione, più che tra le marche di genere (dove ancora una volta si può contare sul sussidio dell'italiano per una precoce individuazione dell'uso e del valore di la), tra al, come pronome soggetto, e a come pronome impersonale, con la conseguente l'attribuzione della l di al al pronome che segue (la). E' interessante che la soluzione di cancellazione di uno dei due pronomi atoni non riguardi nei PE1 il pronome soggetto, a differenza di quanto fanno PE meno competenti, che coerentemente con le strutture dell'italiano (dove il soggetto viene marcato principalmente con modifiche morfologiche del verbo), cancellano invece proprio il pronome soggetto lasciando l'oggetto. Vedremo in seguito che nella marcatura del genere questi parlanti fanno un forte affidamento alla forma piuttosto che al contenuto, e dato questo presupposto è allora prevedibile che affiorino problemi con i nessi di clitici, dove il dialetto ricorre al pronome oggetto femminile anche per il maschile. Ma nessi di clitici, e di clitici con avverbi, possono anche rendere problematiche zone del sistema che altrimenti i parlanti possiedono in modo soddisfacente e provocare semplificazioni o nell'espressione dei vari clitici o nell'uso o meno dell'avverbio, e, nel contempo, come nei due seguenti casi, portare pure alla scomparsa del clitico soggetto:

Al m'ha dii al telefón che l'avera la gh'era visc-ta [”mi ha detto al telefono che l’aveva vista”] ma lü l'ha facilitàa a imparall [”ma lui ha facilità ad impararlo”]

Nel primo caso154 l'espressione corretta sarebbe che al l'aveva visc-ta (oppure: che al l'era visc-ta, o altre varianti), nel secondo caso dovremmo avere ma lü al gh’a facilità. I due esempi sono interessanti perché mostrano anche l'incertezza, altrimenti non rivelata, tra la forma ausiliare e la forma 'libera' di avere. Nel primo esempio questo tipo di incertezza non riguarda la prima formulazione del verbo, ma la seconda, gh'era, con l'avverbio che dovrebbe comparire solo con il

154 La formulazione doppia l'avera la ghera è ovviamente un'autocorrezione della parlante alla ricerca della forma corretta.

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verbo pieno. Nel secondo esempio abbiamo invece la forma dell'ausiliare con un uso non ausiliare di avere155. Specialmente nel primo caso è evidente come questo parlante abbia difficoltà a individuare la forma corretta dei clitici. Però nonostante queste incertezze, legate alle condizioni appena viste (e in particolare al co-occorrere di più condizioni facilitanti la caduta dei clitici soggetto), si può dire che i PE1 gestiscono molto bene l'obbligatorietà dei clitici soggetto.

3.2.5.1.2. I clitici soggetto nei PE2 Com'era logico attendersi il fenomeno si presenta nel secondo gruppo di PE in una forma quantitativamente più ampia e qualitativamente ancora più forte. E' caratteristico dei PE2 soprattutto il fatto che le loro cancellazioni coincidono in buona parte con quelle dei PE1 con una differenza soprattutto quantitativa, ma con incrementi anche di differenze qualitative. Così per esempio le cancellazioni in co-occorrenza con riflessivi diventano quasi categoriche ed anche i problemi di nessi di clitici (o di clitico e avverbio) crescono in modo rilevante. Appaiono pure nuove condizioni, che però talvolta sono difficili da definire e sono forse da considerare piuttosto come problemi di esecuzione o di gestione del sistema o casi di 'transizione' da una lingua all'altra156, come nei due seguenti esempi:

però purtroppo eeh .. Ø fica la tesc-ta denta denta l vetro ... e l casca dala finestra e l vetru Ø saa sa romp157

155 Questo problema della distinzione tra l'uso ausiliare e non di avere, che in questi parlanti compare unicamente in contesti complessi di questo tipo, si rivela importante per le possibili tendenze del dialetto, come si vedrà meglio in seguito, dato che compare anche nelle varietà di bambini dialettofoni.

156 Fino ad un certo punto queste problematiche sono chiaramente interrelate. Per la difficoltà di interpretare correttamente questi comportamenti e per l'incidenza che tendono ad avervi fenomeni discorsivi si tenga presente che abbiamo a che fare con varietà altamente dinamiche, dove la capacità di produzione attiva viene spesso 'costruita' durante le enunciazioni sulla base di una frequentazione pluriennale solo passiva del dialetto.

157 Per questo primo esempio vale anche la pena di notare l'assenza del clitico con il riflessivo. Nei PE2, come abbiamo detto, questo fenomeno tende alla categoricità (per altri es. si vedano casi come ul fiöö eh Ø sa n'incorg, Ø sa vestiss cun cun i so sc-tivai).

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[”però purtroppo eeh .. ficca la testa dentro il vaso ... e casca dalla finestra e il vetro si rompe”] l'è inseguii dala civeta ... Ø va sü per par d'un sass e l cuntinua a ciamà sc-ta rana ["è inseguito dalla civetta ... sale su un sasso e continua a chiamare questa rana"]

Il primo caso potrebbe essere motivato dalla continuità referenziale del soggetto, con però che come e ridurrebbe allora l'obbligatorietà della ripresa esplicita (con un allargamento delle condizioni di cancellabilità dalla coordinazione addirittura alle avversative), ma nella frase immediatamente seguente (e l casca dala finestra) la congiunzione e non attiva questa condizione. E' probabile, piuttosto, che il verbo, originariamente non dialettale, fica possa aver attivato un comportamento sintattico dell'italiano più che del dialetto. Si vedano altri esempi come l cervo chee .. che l'aprezza mia .. chee che Ø getta ul fiöö gió da na sc-carpada, seguito dal can, dove getta è decisamente italiano, così come poco dopo seguito; oppure gh'è ul gufo chee .. che Ø insegue ul fiöö (con il coincidere anche con il c'è presentativo italiano); oppure, ancora, ul va su su na rocia ... e Ø urla. Urla e Ø s'apogia a n- a di ram, dove manca il soggetto due volte con urla (che in dialetto andrebbe tradotto con vosa cioè "grida", ma il senso qui è quello di "chiamare" ed è curioso che il parlante usi una soluzione lessicale semplificativa anche quando usa la parola italiana) e una volta con il riflessivo dialettale (il primo urla segue oltretutto la congiunzione e, che sappiamo essere un'altra delle condizioni che rendono cancellabili i pronomi soggetto nei parlanti non nativi). Il secondo caso è simile, se la mancanza del pronome va attribuita all'omofonia italiano-dialetto di va. Un'altra possibile linea esplicativa per questo esempio potrebbe però essere quella della 'continuità del soggetto', che rende perciò non necessaria l'esplicitazione dello stesso mediante il clitico (ma si noti che qui il clitico soggetto figura nella proposizione immediatamente seguente). Un problema notevole per l'uso dell'omofonia italiano-dialetto come strumento esplicativo è quello di definire fino a che punto 'l'effetto di italianità' dato da queste frasi sia una causa dell'assenza del clitico o, inversamente, se non sia proprio l'assenza del clitico a far pensare ad un ruolo dell'italiano. In quest'ultimo caso lo 'strumento esplicativo' si rivelerebbe un effetto 'a posteriori' su chi cerca di interpretare. Detto in modo più semplice il problema è quello di definire se manca il

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clitico perché l'italiano ha avuto un certo ruolo nella pianificazione o se la frase suona 'italiana' perché manca il clitico. Tra le nuove condizioni che emergono e che permettono una interpretazione non ambigua, una delle più chiare riguarda la cancellazione (non ancora cateogorica) in relative non restrittive, che estende la cancellazione tipica delle restrittive ed ha come conseguenza la neutralizzazione di una distinzione che in dialetto, ma non in italiano158, viene marcata in modo differenziale mediante la presenza o assenza del clitico soggetto.

la sc-paventa l fiöö, che Ø borla gió dal alber ["spaventa il bambino, che cade dall'albero"]

In questi parlanti inizia ad emergere anche una sensibilità, ancora non molto marcata, alla presenza o meno di un'altra potenziale esplicitazione del soggetto, sotto forma di un sintagma nominale in posizione appunto di soggetto o di un'altra forma pronominale.

disem che, che chi da Lügan in general Ø parlava dialett perché perché i eva a militar, ma gli altri insoma [...], chi da Belinzona dala Leventina i parlava dialett [”diciamo che, che quelli di Lugano in generale parlavano dialetto perché erano a militare, ma gli altri insomma, quelli di Bellinzona della Leventina parlavano dialetto”]

Nel primo caso chii da Lügan, come soggetto, riduce la necessità (per questo parlante) di avere anche un clitico che marchi la stessa funzione. In questi casi in cui il soggetto clitico viene cancellato si può dire che esso viene sentito come un pronome soggetto vero e proprio e non come una marca flessionale sul verbo; infatti quest'ultima non dovrebbe essere sensibille alla presenza di marche 'libere' del soggetto nella frase. La continuazione dell'enunciato, con questa volta la presenza del clitico (i parlava dialètt), mostra d'altra parte come la cancellazione, a questo livello, sia piuttosto un'eccezione che non la regola. Volendo generalizzare le condizioni notiamo che il clitico tende a mancare in frasi subordinate e coordinate in cui non sia problematico individuare il soggetto (o

158 Se si trascura la possibilità dello scritto di marcare la distinzione con l'uso o meno della virgola tra principale e subordinata.

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perché è lo stesso soggetto della frase precedente o perché è la testa della frase relativa). Per tutti questi casi possiamo dunque presupporre che i parlanti adottino un principio di continuità e di co-referenza che rende non necessaria la marca di soggetto (come in italiano). In altri casi il pronome manca quando il soggetto sia già esplicitato nella stessa frase, come abbiamo appena visto nell'esempio precedente. In questo senso si può concludere che l'interpretazione che i nostri PE2 danno dei clitici soggetto si allontana dall'obbligatorietà degli stessi nelle varietà native a favore di una loro visione più trasparentemente motivata, come pronomi che esplicitano il soggetto quando lo stesso non sia facilmente individuabile (ma necessario e presente nelle relazioni attanziali). Accanto a questi fenomeni godono invece di buona vitalità quelle occorrenze dei pronomi clitici che sono legate a topicalizzazioni dei soggetti o a contesti contrastivi, con la necessità, come in italiano, di ripresa del soggetto ('allontanato', per così dire, dalla sua posizione non marcata) sul verbo. A questa fenomenologia si può aggiungere anche il fatto che frasi con il soggetto alla terza persona plurale potrebbero essere influenzate anche dalla possibilità di non usare il clitico (in alcune varietà regionali ticinesi159) quando la forma verbale stessa veicoli già inconfondibilmente la marca di accordo (pensiamo a forme come cantan "cantano", ecc.). I nostri soggetti potrebbero aver estratto da ciò una regola di facoltatività del clitico per questa persona in cui viene già sentita una marcatura flessionale sul verbo. Occorre però tener presente che in nessun caso possiamo dire, in base al nostro materiale, di trovarci di fronte a regole categoriche, e ognuna delle regolarità da noi individuate presenta delle eccezioni. Anche nei PE2 i casi di cancellazioni del pronome soggetto in compresenza con altri pronomi non sono rari, come negli esempi seguenti:

i è i corni da n cerbiatto da n cervo ... che l tö sü pala tesc-ta ["sono le corna di un cerbiatto di un cervo ... che lo prende sulla testa"]

159 Cfr. Spiess (1956, 52). Per la reintroduzione di questo tratto nel Mendrisiotto v. Spiess (1974, 358). Una discussione più approfondita sulla possibilità di generalizzazione di questo tratto attraverso la "lingua letteraria" si trova in Petrini (1988, 219). I materiali analizzati da questo autore possono far supporre in parlanti con forte contatto con l'italiano una presenza maggiore della forma con -n.

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Ul m'ha dii dii al telefun che l'avea veduu vedüda ["Mi ha detto al telefono che l'aveva vista"] al fiöö la ciama ["il bambino la chiama"]

Nella prima frase abbiamo a che fare con una relativa non restrittiva e la forma pronominale l è da intendersi come avente valore di oggetto ("il bambino"). Si tratta ancora di un caso di allargamento delle condizioni delle relative restrittive ad altri contesti, ma la mancanza del pronome soggetto può anche essere stata facilitata dalla difficoltà di gestire sintagmaticamente soggetto e oggetto. Anche nei due esempi che seguono abbiamo la scomparsa del pronome soggetto quando lo stesso dovrebbe trovarsi accanto all'oggetto, con un esito che ricalca la struttura dell'italiano160. Occorre precisare che in entrambi i casi non sono percepibili resti di fusione dei due pronomi che si dovrebbero ritrovare e l'effetto fonico per il nativo che ascolta è quello della mancanza del pronome soggetto161. La difficoltà di questi casi è probabilmente ad un tempo sintattica (di gestione delle posizioni pronominali, diverse da quelle dell'italiano) e fonologica (di adattamento di suoni susseguenti problematici). Da un punto di vista informativo il clitico che permette per esempio l'identificazione dell'oggetto deve essere considerato, nei casi in cui viene utilizzato, più importante di quello che marca il soggetto ed è quindi sul primo che si concentra l'attenzione (con l'influsso probabilmente anche dell'italiano, in cui il pronome marca una posizione particolare degli oggetti). Considerata la competenza principalmente passiva di queste persone, nella comprensione del messaggio il clitico soggetto ha quindi un ruolo di maggiore ridondanza (specialmente nei casi in cui è già 'presente' in altri modi, o con un sintagma nominale, o con fenomeni di coerenza testuale). Inoltre la strategia di sfavorire il clitico soggetto coincide con il comportamento dell'italiano, dove il soggetto è marcato dall'accordo verbale ed i clitici si rivolgono agli altri attanti.

160 Si veda anche la coincidenza con la struttura italiana in ma l ha dii ier / me l'ha detto ieri, senza il pronome soggetto al.

161 Purtroppo, anche in questo caso, non è possibile analizzare la sequenza endofonica dei parlanti, ma anche se lo si potesse fare e vi si ritrovassero tracce pur minime di entrambi i pronomi sarebbe comunque interessante l'assenza degli stessi in superficie.

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La motivazione fondata sulla differenza strutturale con l'italiano non va senz'altro trascurata, specialmente in casi come ma l'ha dii ier ("me l'ha detto ieri", per al ma l'ha dii ier), ma crediamo che una componente fondamentale sia da cercare in modo più generale in una parziale reinterpretazione dei clitici soggetto secondo le linee sopra delineate. Ancora per la terza persona plurale gli apprendenti possono, e talvolta lo fanno, risolvere il conflitto di pronomi affidando la marcatura del soggetto alle forme verbali. Così mentre di solito la terza persona plurale ha un clitico soggetto e una forma variabile che alterna, negli stessi parlanti, differenti uscite verbali come per es. i apreza mia, o i cerca la rana vs. i capissan, la presenza del pronome oggetto dà esito a forme come la seguente, che va letta come "lo inseguono il cane" (quindi una dislocazione a destra):

i api i aprezza mia [...] e l'inseguan ul can [”le api non apprezzano e lo inseguono il cane”]

Ma, nonostante la sua vicinanza all'italiano, la possibilità di usare una forma verbale di 3. pers. plur. sentita come marcata flessionalmente rispetto alle altre persone non è presa sistematicamente in considerazione così come non sembra essere sistematica (o non facilmente motivabile) l'alternanza tra forme verbali di terza plurale in -a o in -an; v. infatti:

Föra dala ca' i cerca la rana, la ciama [”Fuori dalla casa cercano la rana, la chiamano”],

dove avrà giocato un certo ruolo anche la sequenza paratattica che segue la prima parte della frase.

3.2.5.1.3. I clitici soggetto nei PE3 Come abbiamo detto questi parlanti sono i meno competenti tra i parlanti evanescenti. Prima di passare alla discussione delle loro caratteristiche linguistiche vale la pena di notare che essi ci permettono anche interessanti osservazioni sul rapporto tra competenza attiva e competenza passiva, mostrando in alcuni casi un notevole dislivello tra la varietà che utilizzano nelle fasi iniziali dell'intervista e

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quanto fanno nelle fasi finali. Il caso forse più evidente riguarda, in un soggetto, l'assenza categorica all'inizio dell'intervista dei pronomi soggetto. Nel corso della narrazione questo comportamento si trasforma fino a mostrare una presenza dei clitici soggetto che rispetta le stesse regole qualitative dei soggetti delle categorie più competenti. Non mi sono noti altri casi di osservazioni di uno 'sviluppo' altrettanto rapido della competenza attiva, a riprova della particolarità della situazione indagata e della forza del dialetto almeno come varietà di uso passivo. Fenomeni come questo permettono di sostenere la specializzazione nelle lingue seconde di due tipi differenti (e separabili) di processi, che qualora non sia necessario non istituiscono forti relazioni tra loro. In particolare il caso qui in questione va probabilmente interpretato come una conseguenza della difficoltà iniziale di utilizzare i clitici soggetto (un problema che fino a quel momento al parlante non si era posto, dato che nella comprensione essi giocano senz'altro un ruolo secondario), cioè del 'controllo' della competenza, che si sviluppa in un secondo tempo con l'uso, e, potremmo dire, con 'l'allenamento' all'uso. Vale la pena di riportare i brani iniziali e finali della narrazione della storiella, dove la crescita nell'uso dei clitici soggetto è ben visibile.

Dénta n vasc .. gh'è na rana ... l'è nòcc. L bambino va a dormí ... La matina, al bambino, al risveglio tröva pü la rana che l'è naia via. Anche l can guàrdaa guàrdaa meravigliato. L fiöö e l can cèrcaa in gir per la sc-tanza guardano .. i guardan dapertüt. Il can, mentre guardava fö dala finesc-tra, è borlaa giò e l'ha rott l vasc che véva che aveva infilato sulla tesc-ta. E l bambino, l fiöö, l'aiuta e l can ringrazia. [...] L fiöö e l can i borlan dent na pozza. Il can al sal süla tesc-ta dal fiöö perché l vöö mia bagnass. L fiöö al ga dis da fà silenzio e l va a a riva perché l'ha sentii un rumore, un verso. Sa nasc-cund dré a un trónch e

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ecco che dadré a gh'è la so rana con i ranocchi e la sciura rana162. Al ciapa sü un ranocch e al turna a ca'. E tücc i è cuntent inscí.163

Non in tutti i PE3 si assiste però ad un simile trattamento dei clitici. Ma in tutti i parlanti assume ancora maggiore importanza, rispetto alle categorie dei PE1 e PE2, il fenomeno del loro non uso. Ad esso si affianca in questa categoria di parlanti in modo massiccio la difficoltà di distinzione tra a e al, che porta a frequenti scambi tra le forme senza che sia individuabile una corrispondente differenza di valore (a questo fenomeno saranno dedicati alcuni paragrafi in seguito). Innanzitutto, il dato che appare in modo più massiccio in questa categoria di parlanti, e che giustifica in parte importante la loro separazione dalle altre categorie precedenti è, accanto al notevole incremento quantitativo delle condizioni già viste (come cancellazioni con i riflessivi, con altri pronomi, con la coordinazione e la subordinazione164), la massiccia assenza di clitici soggetto in presenza di un soggetto nominale. Mentre questo comportamento è strano per la situazione ticinese, esso coincide invece con quanto si osserva nelle varietà native di altre zone dialettali. Così, per esempio, elencando le condizioni di cancellazione dei clitici soggetto nel dialetto padovano, Paola Benincà osserva tra l'altro:

162 In margine può essere interessante notare che la maggior parte dei parlanti (nonostante il genere femminile) ha presupposto che la rana protagonista della storia fosse di sesso maschile, come si capisce dal fatto che lo fanno incontrare con la rana femmina.

163 "Dentro a un vaso ... c'è una rana ... è notte. Il bambino va a dormire ... Alla mattina, il bambino, al risveglio non trova più la rana, che è andata via. Anche il cane guarda meravigliato. Il bambino e il cane cercano in giro per la stanza, guardano .. guardano dappertutto. Il cane, mentre guardava fuori dalla finestra, è caduto e ha rotto il vaso che aveva infilato sulla testa. E il bambino, il bambino, l'aiuta e il cane ringrazia. [...] Il bambino e il cane cadono in una pozza. Il cane sale sulla testa del bambino perché non vuole bagnarsi. Il bambino gli dice di fare silenzio e va a riva perché ha sentito un rumore, un verso. Si nasconde dietro a un tronco e ecco che dietro c'è la sua rana con i ranocchi e la signora rana. Prende un ranocchio e torna a casa, E tutti sono contenti così."

164 Si vedano qui alcuni esempi: gh'è molta gent che l'ha paüra (il parlante reinterpreta l'avverbio come un pronome e sostituisce 'gh’a' con l'ha); al fiöö l'aiüta e l can ringrazia (dove abbiamo sia il pronome oggetto che la compresenza di un SN); al dev sc-capaa perché l gufo l minacia; al trova un gross cervo, che l ciapa e l porta via. L ciapa sü per i corni e l porta via correndo lungo il bosco.

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"... la 3. pers. sg. e pl. ha il clitico obbligatorio quando manca un soggetto nominale o pronominale: però, se nella posizione del soggetto c'è una traccia del movimento di wh ([...]: frase relativa, interrogativa, soggetto topicalizzato o frase scissa) o se il soggetto è posposto [...], questo impedisce la comparsa del clitico soggetto, mentre la presenza di un soggetto nominale o pronominale rende facoltativo il clitico soggetto." (1983, 27)

Si può quindi pensare che si tratti di una 'zona instabile' del sistema dei clitici soggetto. Nei PE3 questo comportamento è notevolmente intensificato rispetto a quanto osservato per i PE2 ma rimane comunque non categorico, anche se la situazione non coincide del tutto con quella descritta sopra da Benincà in quanto la norma, per il nostro gruppo di parlanti, tende piuttosto verso la cancellazione mentre è l'inserzione del clitico a costituire eccezione.

l bambino, l fiöö, Ø va a dormii; nel fratempo l can Ø inziga i vesc-p ["il bambino, il bambino va a dormire; nel frattempo il cane provoca le api"]

Un'altra condizione, legata all'avvicinamento all'italiano di queste varietà, riguarda la sostituzione della sesta persona del verbo "essere" con una forma derivata dall'italiano che, tranne in un unico caso (i son dré a cercà la rana) non compare mai assieme al clitico.

i sc-trade son ammò pien da pozangher ["le stade sono ancora piene di pozzanghere"] sul lavor i püssée son fruntalier, da Vares, da Cóm ["sul lavoro la maggior parte sono frontalieri, di Varese, di Como"]

Questo fenomeno mostra da un lato come i clitici soggetto costituiscano una chiara marca di confine tra italiano e dialetto e come essi siano sistematicamente evitati con quelle forme verbali che non sono sentite come dialettali nonostante i tentativi superficiali di adattamento fonologico. D'altro canto, la distanza tra le varianti adottate dai due codici in gioco e la violazione da parte della variante dialettale della mancata distinzione, marcata direttamente sul verbo, tra 3. e 6. persona rendono poco percettibile o poco 'accettabile' (al filtro di analisi dell'input) per i parlanti la forma dialettale. Il clitico è chiaramente sentito come 'staccato' dal verbo e quindi non sufficiente per marcare la differenza morfologica tra singolare e plurale. Perciò una motivazione

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fondamentale del ricorso alla forma di base italiana sarà da indicare nella ricerca di una migliore differenziazione, a livello formale, tra i valori delle due persone. Un comportamento a parte mostra invece il verbo "essere" alla terza persona singolare (l'è), dove, anche nei parlanti meno competenti, la presenza del clitico è molto forte. Il clitico qui sembra quindi essersi agglutinato in modo stabile alla forma verbale e costituisce uno dei chiari segnali di distanziamento tra italiano e dialetto. Una parte dei casi in cui il pronome dovrebbe esserci e non si ritrova possono essere considerati casi di confine nell'enunciazione tra dialetto e italiano165 (e l'assenza è quindi da attribuire all'influsso di questa seconda lingua), ma, accanto a questi casi di confine, nei parlanti meno competenti, si nota la perdita del clitico in frasi in cui non vi sia un soggetto prototipico, come per es. in:

è interessant da ascoltà quand la gent la parla dialètt [”è interessante ascoltare quando la gente parla dialetto”] però è impegnatif cumprendere l dialécc [”però è impegnativo capire il dialetto”166]

E' evidente qui la motivazione forte del clitico come marca del soggetto che appare (preferibilmente) in contesti di chiara individuabilità di un agente (possibilmente umano) responsabile intenzionale di un'azione. Una delle conseguenze è che presenze scarsamente motivate del clitico portano alla sua cancellazione, a scapito della tendenza alla regolarizzazione che spingerebbe ad inserirlo in ogni contesto (come una specie di soggetto obbligatorio). Anche in questo settore 'forte' (per i parlanti nativi) della terza persona del verbo "essere" i parlanti meno competenti cercano quindi una motivazione per la presenza del clitico a scapito della sua categoricità.

3.2.5.1.4. Generalizzazioni sulle cancellazioni dei clitici soggetto

165 Manca in modo più sistematico in una parlante delle meno competetenti che cerca di marcare, nei suoi giudizi espliciti, un certo distacco con il dialetto. In questo senso questa parlante ricorda gli 'ex-parlanti evanescenti' di cui parleremo in seguito, nelle varietà dei quali la mancanza del clitico con è è uno dei tratti caratterizzanti.

166 Ci si può chiedere se il cumprendere del parlante non sia un francesismo.

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L'alta variabilità di comportamento e la presenza contemporanea, spesso, di più condizioni rendono difficile la valutazione del comportamento generale dei PE in relazione a questo settore fondamentale delle strutture dialettali. Ciò che riteniamo però fondamentale è l'emergenza di una serie di contesti di 'cancellabilità' che differenziano, al calare della competenza, queste varietà da quelle native. Se consideriamo per esempio la cancellazione nelle proposizioni coordinate con e (con continuità del soggetto), notiamo che questa condizione, non presente nelle varietà native, era già stata incontrata anche da Spiess (1956). Ma ciò che è interessante osservare è che la ricerca di Spiess identificava questa condizione di cancellazione come una delle differenze principali tra i testi di Bonvesin da la Riva e il campione di parlato contemporaneo di ticinesi, e lo stesso vale per altri casi, come si può vedere dal passaggio seguente:

"Man sieht, der grösste Teil der Unterschiede zwischen dem Gebrauch Bonvesins und jenem unserer drei Sprecher erklärt sich dadurch, dass z.T. gewisse Satzkonstruktionen Bonvesins heute nicht mehr gebräuchlich sind, z.T. andere Satzkonstruktionen heute neu entstanden sind, die Bonvesin nicht kannte. Die einzigen wirklichen Unterschiede reduzieren sich auf drei, nämlich auf die Sätze, die ein Substantivsubjekt enthalten, auf jene, die mit e mit dem gleichsubjektigen vorangehenden Satz verbunden sind, und auf die Reihe gleichsubjektiger und gleich konstruierter Sätze. Diese drei Fälle wurden im 13. Jh. normalerweise ohne, von unsern drei Sprechern aber durchgehend mit SP konstruiert. Da gerade in diesen drei Typen und vor allem im ersten die Setzung des SP recht eigentlich überflüssig ist und auch in den übrigen modernen Sprachen und Dialekten nur vereinzelt vorkommt, können wir die Verwendung des SP in diesen Fällen als typisch für den heutigen lombardischen Sprachgebrauch betrachten." (Spiess 1956, 30)

Quindi, da questo punto di vista, i nostri PE più competenti manifestano una 'ricreazione' che ricorda con direzione inversa le linee diacroniche di sviluppo ben messe in luce da Spiess. Il primo dei casi elencati nel passaggio appena citato (quello della cancellazione con soggetti nominali) non si ritrova nella categoria dei nostri PE1, ma, come abbiamo visto, 'riappare' nei gruppi di PE meno competenti. Davanti a questi fatti non si può non essere colpiti da questa 'diacronia' presente nella competenza delle persone, e non si può non pensare all'azione e alla forza di principi simili che stanno dietro a tutte queste situazioni di 'mutamento linguistico' e

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che fanno sì che si ricreino le stesse condizioni. Ciò è ancora più sorprendente se si pensa che secondo l'analisi di Spiess "ist auch um 1600 die Verwendung des SP nicht wesentlich von der heutigen verschieden" (1956, 119). Mentre la grammatica dialettale dei nativi ha nel corso dei secoli eliminato alcune condizioni di cancellabilità, i parlanti di cui ci stiamo occupando riattivano queste condizioni167. Le stesse condizioni che hanno caratterizzato lo sviluppo diacronico si rivelano dunque fondamentali nelle interlingue dei parlanti evanescenti fino al momento in cui i soggetti hanno appreso le regole specifiche alla base del comportamento dei parlanti nativi. Oltre alle tre sopra citate, anche la categoria della cancellazione davanti a un pronome oggetto si ritrova già in Bonvesin (cfr. Spiess p. 10), in contesti come per es.:

Ella me tol per forza le mee possession me fa desnor, me caza con grand turbation,

ma questa casistica è disturbata, secondo Spiess, dal fatto che nella maggior parte dei casi si ha una frase precedente che esplicita già lo stesso soggetto. Delle cinque frasi di Bonvesin che non contengono il clitico soggetto, tre hanno lo stesso soggetto della frase precedente. La quarta presenta, secondo Spiess, un caso di continuità del 'soggetto logico', nonostante l'inserzione di un altro soggetto grammaticale:

Ella no sta contenta sover la soa rason De mi, quent k'eo me sia, no i fi compassion Me fa trop grand iniuria, trop grand offension.

L'autore arriva perciò a formulare la seguente regola:

167 Non meno interessante è la continuazione del testo sopra citato di Spiess (ibidem): "Verfolgen wir die Setzungsarten des SP zeitlich weiter zurück erkennen wir, dass für die Setzung ebenso wie für die Nichtsetzung eine ganz allmähliche Entwicklung vom Mittelalter bis zur Gegenwart führt, die nirgends durch schroffe Gegensätze unterbrochen wird. Von den typisch lombardischen Setzungsarten des SP können wir so die Setzung in Sätzen mit Substantivsubjekt bis ins 13. Jh. zu Bonvesin, die Verwendung von nachgestellten SP als Endungsersatz bis ins 14 Jh. zur bergamaskischen Passion, die Verwendung des unbetonten a als blosser Auftakt oder Stützvokal mit Sichereit für die 5. Person bis ins 15 Jh. zurückverfolgen."

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"Vor der Gruppe Objektpronomen + Verb wird normalerweise das SP gesetzt. Es kann weggelassen werden, wenn das Subjekt des Satzes gleich und seine Handlung gleich oder ähnlich ist, wie jene des vorhergehenden Satzes, wenn der Satz in einer Reihe von Sätzen mit gleichem logischem Subjekt steht, oder wenn er reflexiv konstruiert ist." (ibidem)

Nel quinto caso di frase senza clitico soggetto si tratta di un riflessivo (un'altra delle condizioni frequenti nei nostri parlanti), in cui, secondo Spiess:

"das Objektpronomen zugleich auch das Subjekt angibt."

Questi paralleli tra le nostre interlingue e gli stadi diacronicamente antecedenti delle varietà dialettali mostrati da Spiess ricevono una nuova e ancora più interessante interpretazione attraverso l'importante ricostruzione fatta da Laura Vanelli (1987) dello sviluppo dei clitici soggetto nei dialetti italiani settentrionali. Il fenomeno in quest'ottica più interessante delle nostre interlingue, è proprio quello che più fortemente caratterizza i PE3 (ma che inizia ad apparire anche nei PE2), e cioè la cancellazione dei clitici soggetto quando nella frase si ritrovi un sintagma nominale avente già la funzione di soggetto. Nei termini discussi dalla Vanelli (e nel quadro di riferimento generativista alla quale l'autrice si rifà) questo fenomeno rimanda ad una stessa funzione sintattica dei pronomi clitici e dei sintagmi nominali, che occuperebbero entrambi la posizione di soggetto. La presenza di sintagmi nominali soggetto renderebbe allora impossibile (oltre che non necessaria) la presenza dei pronomi clitici, dato che la posizione è già occupata. Ciò vorrebbe dire che i pronomi clitici non occupano (a differenza di quanto farebbero nei dialetti moderni, cfr. Rizzi 1982, Burzio 1986, Bracco - Brandi - Cordin 1985)168 la posizione della flessione ma quella del

168 L'ipotesi generativista che i clitici soggetto siano realizzazioni fonetiche della flessione non è al di sopra di ogni sospetto. Il problema principale (cfr. Berruto 1990a, 19) è quello della non obbligatorietà del clitico con tutte le persone. D'altra parte però questo fenomeno presenta uno scoglio arduo per qualunque interpretazione dei clitici e va quindi probabilmente risolto al di fuori di una interpretazione di base dei clitici stessi. Forse lo si potrebbe considerare una variazione 'periferica' che modifica in parte la realizzazione delle opzioni centrali, con come effetto superficiale la costituzione di un sistema con fenomeni 'intermedi' (per molti aspetti superficiali, i dialetti settentrionali presentano senz'altro un comportamento 'intermedio').

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soggetto. Se estendiamo al nostro caso la posizione della Vanelli relativa ai dialetti settentrionali cinquecenteschi, dobbiamo quindi pensare ad un ruolo dei clitici come marche di soggetto in lingue a soggetto non nullo. Tra i tratti caratteristici dei dialetti rinascimentali ritroviamo infatti tre fenomeni che sono stati modificati nei dialetti moderni:

"1) la presenza o meno del clitico soggetto in una frase con soggetto lessicale; 2) la presenza o meno del clitico soggetto in una frase coordinata con lo stesso soggetto della frase precedente; 3) l'ordine relativo di clitico soggetto e negazione." (Vanelli 1987, 188)169

Secondo questa autrice allo stadio rinascimentale di lingua (tendenzialmente) a soggetto non nullo si arriverebbe a partire da uno stadio medievale (a soggetto nullo) in cui il soggetto è non obbligatorio quando si trova in posizione postverbale170. Un importante mutamento avvenuto nel passaggio dalla fase medievale a quella rinascimentale è proprio quello della scomparsa della possibilità di anteporre nelle frasi principali altri complementi al verbo, ciò che ha come conseguenza la scomparsa della possibilità di cancellare i pronomi soggetto post-verbali. L'impossibilità di cancellare tali pronomi avrebbe appunto fatto dei dialetti

169 Il terzo fenomeno non è pertinente in genere nel caso di cui qui ci occupiamo in quanto abbiamo nei nostri dialetti solo la negazione postverbale. In alcuni PE3 però appaiono forme di negazione preverbale (ovviamente con la forma non, derivata dall'italiano, ma talvolta anche no, sentita come possibile negazione dialettale), ed in questi casi manca il clitico soggetto (cfr. per es. non capissa l dialett, "non capisce il dialetto", o anche loro l dialécc in casa no l parlan mai, "anche loro il dialetto in casa non lo parlano mai"). Nella maggior parte di questi casi è però compresente un soggetto nominale o un pronome tonico oppure ci sono altre condizioni che rendono difficile valutare la causa dell'assenza del clitico. Altrimenti l'assenza del clitico potrebbe essere interpretata come un segnale del fatto che esso non si colloca sotto il nodo della flessione.

170 "La condizione che permette l'omissione del pronome soggetto è la sua posizione postverbale; e la presenza di un soggetto postverbale è legata a una costruzione particolare che si trova solo nelle frasi principali (solo raramente e in modo marcato si trova anche nelle subordinate), la costruzione tipica delle lingue romanze antiche in generale, per cui si può tematizzare senza restrizioni un costituente diverso dal soggetto ..." (Vanelli 1987, 182-3). V. ancora pp. 183-4: "... si deve ammettere che quando ci troviamo di fronte a frasi con verbo iniziale, il pronome soggetto sia omesso da una posizione a destra del verbo. In altre parole la struttura di questo tipo di frasi è la stessa delle frasi interrogative dirette che presentano il verbo iniziale e il soggetto in posizione postverbale."

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settentrionali delle lingue a soggetto non nullo, con i pronomi stessi che continuano ad occupare la posizione del soggetto. Questo ruolo dei pronomi fa sì che i dialetti cinquecenteschi presentino sia caratteristiche di lingue a soggetto non nullo che di lingue a soggetto nullo. Tipiche infatti di quest'ultime sono la presenza possibile di una serie incompleta di clitici soggetto, con, per le persone per cui manca il clitico, un comportamento da lingua a soggetto nullo, e, ancora, la mancanza di restrizioni sulla possibilità di avere la posposizione libera del soggetto, possibile anche con soggetti definiti e con verbi non inaccusativi (ciò che presuppone allora che il pronome occupi la posizione della flessione). Questi fenomeni indicano quindi per questa fase diacronica una situazione molto difficile da interpretare da un punto di vista teorico, con le stesse forme che a volte occuperebbero la posizione del soggetto a volte quella della flessione171. Data la situazione precedente e quella seguente è sensato sottoscrivere la soluzione proposta dalla Vanelli:

"Credo che l'unico modo di interpretare questi dati contraddittori sia di partire dal dato di fatto che la fase dialettale che abbiamo documentato è comunque una fase temporalmente intermedia tra una fase precedente in cui i pronomi soggetto erano nella posizione del SN soggetto (oltre ad essere liberi) e una fase successiva in cui essi finiscono nella flessione. Sotto un altro aspetto, siamo in un momento intermedio tra una fase in cui la lingua aveva un soggetto pronominale obbligatorio (se preverbale) e quindi con proprietà di lingua a soggetto non nullo e una fase, quella moderna, in cui queste varietà mostrano proprietà coerenti di lingua a soggetto nullo." (1987, 204)

Se interpretiamo fase intermedia non in termini diacronici ma di stadi di interlingua possiamo estendere questa interpretazione anche ai nostri PE3 (e in

171 Da un punto di vista impressionistico dobbiamo ammettere di non essere del tutto convinti della necessità di concepire unicamente queste due possibilità (per ognuna delle quali esistono obiezioni possibili) e, all'interno della prima, di dover contrapporre unicamente l'alternativa tra 'soggetto nullo' e 'soggetto non nullo', senza la possibilità di 'tipi intermedi'. Ma né siamo in grado di fornire proposte alternative, né di escludere che questi fenomeni 'intermedi' siano unicamente 'di superficie'. Si tratta quindi di uno di quei casi in le impressioni soggettive (sulla realisticità) devono lasciare il posto ad una teoria 'elegante'; finché le impressioni non sono in grado di proporre un modello altrettanto soddisfacente esse devono passare in secondo piano.

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modo meno importante pure ai PE2172). Anche nel nostro caso possiamo pensare che i soggetti che qui ci interessano si muovano tra due stadi contrapposti, con da una parte la forte frequenza nell'input dei clitici soggetto che favorisce una loro interpretazione come marche flessionali obbligatorie (e orienta quindi verso un'interpretazione dei dialetti come lingue a soggetto nullo), dall'altro lato una interpretazione 'pronominale' dei clitici stessi, come soggetti obbligatori che spinge al comportamento opposto (da lingua a soggetto non nullo). In questa dinamica l'italiano gioca probabilmente un certo ruolo sostenendo l'interpretazione pronominale dei clitici173, ma non si può pensare che esso abbia un ruolo fondamentale come 'stadio di partenza' (dato che marche clitiche 'flessionali' appaiono pressoché dall'inizio), come invece avevano i dialetti medievali per la formazione della fase rinascimentale. Lo stadio 'intermedio' nel quale si muovono i nostri parlanti mediani sarebbe quello di una ricerca di motivazione per la presenza dei clitici soggetto, che fa sì che gli stessi appaiano come rinforzo della segnalazione del soggetto quando secondo i parlanti esso non è sufficientemente marcato formalmente (per es. dalla presenza di un sintagma nominale o dalla relazione di continuità anaforica con una frase antecedente). I clitici tendono dunque, negli stadi iniziali, ad essere usati in base ad una 'condizione di necessità' (per i parlanti vi è un soggetto chiaro ma esso non è sufficientemente marcato in superficie) e ad una 'condizione di cancellabilità' (il soggetto è già sufficientemente rappresentato nella struttura superficiale della frase): quindi secondo una 'reinterpretazione pragmatica' di lingua a soggetto non nullo. Accanto a queste condizioni l'uso del clitico soggetto è disturbato dalla presenza accanto al verbo di un altro pronome che marca un attante non soggetto.

172 Per i PE1, nonostante anche loro presentino talvolta casi che potrebbero rimandare ad una interpretazione da soggetto nullo, la frequenza dei comportamenti 'corretti' fa sì che se non proprio corrispondenti al modello astratto i loro prodotti debbano almeno essere definiti praticamente da nativi.

173 Dall'altro lato, per quanto riguarda ancora l'influsso di modelli di altre lingue, non è escluso che il francese, o alcune delle sue strutture (che abbiamo visto giocare un ruolo particolare come lingua d'appoggio), sostengano parallelamente l'impostazione del parametro sul polo del soggetto non nullo.

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Nei termini di Bossong (1979) e dei suoi cinque tipi174 avremmo qui un passaggio dal tipo del francese (il tipo III di Bossong: in cui non si fa distinzione tra il primo attante e gli altri, e in cui gli attanti sono marcati mediante clitici sul verbo se i nominali sono assenti) al tipo del 'français avancé' (il tipo IIIA di Bossong: in cui a differenza del caso precedente tutti gli attanti sono marcati con clitici indipendentemente dalla presenza o meno dei nominali). Non a caso Laura Vanelli, a sostegno della sua ipotesi di una tendenza al passaggio da marche pronominali a marche flessionali, cita il caso del français avancé come esemplificazione della realizzazione di questa tendenza. La differenza dei tipi III e IIIA rispetto al tipo dell'italiano (il tipo IIA, definito 'roman avancé' da Bossong) consiste nella particolarità di quest'ultimo di continuare a mantenere la distinzione tra il primo e gli altri attanti. In questo quadro, e a sostegno di questa ipotesi, diventa per noi importante il fenomeno della cancellazione del clitico soggetto in compresenza di pronomi che marcano gli altri attanti, dato che il fenomeno può essere interpretato come un segnale dell'indebolimento della distinzione tra primo e altri attanti, quindi ancora una volta come un'indicazione del sistema III come 'sistema di partenza'. La diacronia e lo sviluppo apprendimentale avrebbero così mostrato un interessante parallelo con la riattivazione di uno stesso ciclo di grammaticalizzazione che va in direzione di marche flessionali. Ci si può allora chiedere se il ciclo, sulla base delle nostre osservazioni, non si presti ad una 'proiezione diacronica', nel senso di interpretare il sistema dei PE3 come il sistema del futuro. A questo proposito è chiaro che un riavvicinamento futuro dei dialetti al comportamento a soggetto non nullo dipende da cause extralinguistiche come per es. l'indebolimento della norma sociolinguistica dialettale (della quale i pronomi clitici costituiscono senz'altro un punto centrale nella differenziazione rispetto all'italiano) e quindi dipende in ultima analisi dal futuro dei parlanti 'nativi' e della norma175. Riteniamo poco probabile un avvicinamento delle varietà native alle condizioni dei PE3, dato che il dialetto dovrebbe essersi così

174 Che interpretiamo qui non nei termini delle singole lingue come modelli, ma piuttosto proprio nel senso di tipi come generalizzazioni, costrutti astratti, che i parlanti riescono a formare sulla base dell'input incontrato e ai quali le lingue effettive si avvicinano più o meno, magari senza mai coincidere del tutto con il costrutto astratto.

175 E dall'eventuale ruolo di parlanti 'post-nativi', cioè persone che abbiano appreso il dialetto come lingua non principale, in situazione di una norma indebolita, e che però fungano da input per nuovi apprendenti.

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tanto indebolito, da un punto di vista di identità sociolinguistica, da aver perso in buona parte la necessità stessa di esistere176. Dato che ci occupiamo di fenomeni di apprendimento, in cui quindi è in gioco uno sviluppo teleologico definito verso una lingua obiettivo177 non possiamo nemmeno portare grandi argomenti a sostegno dell'ipotesi formulata dalla Vanelli di "una tendenza evolutiva, indipendentemente dai nostri dialetti, che porta una lingua che ha sviluppato dei pronomi che sono clitici nel componente fonologico a spostare questi clitici sotto la flessione, facendo così diventare le lingue a soggetto nullo." (p. 204). Ciò che qui abbiamo visto è la 'tendenza a transitare' da un stadio all'altro (con certe costanti nell'ordine), dove l'evoluzione di competenza mostra un passaggio dal pronome alla flessione (su spinta della lingua obiettivo, quindi non del tutto interpretabile nel senso di uno sviluppo autonomo). La facilità con cui parlanti che abbiano usato solo passivamente la lingua gestiscono da nativi il sistema dei clitici soggetto non può non far pensare ad una 'facilità di transizione' anche nella direzione simile a quella seguita, secondo la Vanelli, dai dialetti italiani settentrionali178.

3.2.5.2. Il caso di a Prima di discutere il comportamento dei nostri soggetti in relazione a questa forma riteniamo doveroso soffermarci sulla sua caratterizzazione. Come abbiamo visto, alla 1., 4. e 5. persona si può avere a (facoltativo), tradizionalmente

176 In un quadro drammatico di questo tipo riteniamo più probabile che esso esista piuttosto come discorso mistilingue, con poche inserzioni di parole dialettali e con fenomeni soprattutto lessicali più che morfosintattici

177 Definita come punto di arrivo teorico, anche se non come percorso si avvicinamento.

178 Un'altra interessante pista da indagare potrebbe essere quella della microvariazione regionale, con un intreccio, con eventuali relazioni implicazionali nelle fase degli 'sviluppi', tra variazione geografica e diacronia (facendo purtroppo le dovute riserve per il ritardo con cui arriviamo a lavorare su questi argomenti e sulle oramai irrimediabili perdite sopravvenute che ci impediranno forse di approfondire punti anche teoricamente interessanti). Spiess segnalava per esempio che "Personico ist der einzige Ort im Tessin, wo in Sätzen mit Substanktivsubjekt noch durchgehend kein SP gesetzt wird." E poco sotto: "...Personico, Ort, der ganz allgemein eine ausserordentlich hohe Zahl von Sätzen ohne SP aufweist." (1956, 33)

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considerato un pronome soggetto. Sappiamo che esistono però due altri tipi differenti di a: si tratta dapprima di un pronome impersonale, che appare nei contesti in cui non si ha il pronome soggetto, e di una cosiddetta 'particella pronominale', che appare assieme a pronomi atoni della 2., 3., e 6. persona. Con buone motivazioni Paola Benincà (1983) ha sostenuto per il padovano (ed il discorso è trasponibile ai dialetti ticinesi) che neanche il primo tipo di a sia un vero pronome soggetto. E' nostra opinione che, nonostante le differenze etimologiche e le differenti condizioni di impiego, i tre differenti tipi di a abbiamo almeno una parte di valore comune e che quindi possano essere discussi assieme. In particolare ci sembra centrale la differenza tra il cosiddetto pronome impersonale ed il pronome soggetto vero e proprio di terza persona singolare al (o altre varianti regionali). L'argomentazione di un valore comune è sostenuta anche da osservazioni fatte sui parlanti nativi; così per esempio Lurà (1987, 157, n. 13) osserva in modo plausibile (ci interessa in particolare il passaggio che abbiamo qui evidenziato):

"Sono consapevole della contraddizione, tuttavia forse più apparente che reale, data dall'inserimento di una forma impersonale in un capitolo dedicato ai pronomi personali. D'altronde la funzione e il valore di questa forma la legano inscindibilmente alle altre qui considerate, rendendo necessaria una trattazione unitaria (si consideri anche che per il dialettofono comune non v'è nessuna differenza fra questo a e gli altri due). Un analogo ragionamento vale per la particella pronominale omofona ..."179

Vassere (1993, 22), riprendendo un'osservazione di Stefanini (1969)180, avanza in modo ipotetico una possibilità simile, sostenendo un 'allargamento' del terzo valore di a (quello di particella pronominale) anche ai contesti in cui si

179 A prima vista questa osservazione sembra sostenibile, ma ovviamente sarebbero necessari approfondimenti ulteriori per verificare quale sia esattamente lo statuto di a presso i parlanti nativi. Per curiosità ho provato a chiedere ad alcuni parlanti nativi quale fosse il valore o il ruolo di questa a, e solo pochissimi (3 su 16) l'hanno definita, senza troppa sicurezza, un pronome, indipendentemente dal fatto che si trattasse del pronome di prima persona singolare, del pronome impersonale o della particella pronominale.

180 "Naturalmente dove e' è usato in senso proprio (come soggetto), le due funzioni (la primaria e la secondaria) si assommano e sono esercitate ad un tempo" (Stefanini 1969, 26, cit. in Vassere 1993, 45, n. 22).

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penserebbe, a rigore, di aver a che fare con il pronome soggetto a (quindi con valore flessionale, nell'ottica adottata da questo autore):

"Questo a proclitico, che non è riferibile a nessuna delle due funzioni viste in precedenza, non ha valore di distinzione morfologica, essendo quest'ultima affidata di regola alla flessione verbale o al pronome personale che può (e in certi casi deve) cooccorrere in posizione intermedia tra a e il verbo. Si può osservare che a può occorrere insieme (davanti) ai clitici soggetto di 2. singolare, di 3. singolare e plurale, e non è escluso a priori un suo utilizzo anche con le altre persone. Data la facoltatività del clitico soggetto in queste situazioni, è possibile pensare che espressioni come a pòdi 'posso', a végnum 'veniamo', a mángiuf 'mangiate', siano formate dall'unione di questa terza funzione della particella in questione con il verbo senza clitico soggetto."

Queste osservazioni sono probabilmente vicine alla percezione effettiva da parte dei parlanti nativi181, e non sono escluse nemmeno dalla trattazione di Sganzini (VSI I.9-13), che pur chiarendo l'origine etimologica differente sottolinea spesso il comune valore 'rafforzativo'. Una delle difficoltà principali che abbiamo potuto osservare nei PE è quella di tenere separati a ed i pronomi veri e propri, primo tra tutti al (o le altre forme corrispondenti di terza persona singolare). Un'incertezza sulla forma da usare si ritrova, come vedremo tra poco, per esempio nei parlanti nativi in relazione ai verbi meteorologici, con una possibile alternanza (ed un'incapacità di valutare metalinguisticamente il comportamento corretto) tra a e al. A ciò si sovrappongono, complicando il tutto, probabili valenze regionali: così per esempio mentre Lurà (1987, 158), nella sua descrizione del dialetto del Mendrisiotto, afferma che "con i verbi che esprimono un'indicazione meteorologica ci si serve del pronome

181 Cfr. ancora Vassere (1993, 20): "Va notato che la stessa facoltatività di a di fronte all'obbligatorietà delle altre forme non è che una manifestazione del fatto che a questa particolare forma pronominale viene affidata unicamente la funzione di segnalare la posizione soggettiva preverbale, essendo i tratti di flessione affidati alle desinenze verbali. [...] In conclusione, per quanto riguarda questa prima funzione sintattica di a, si può sottolineare il fatto che il sistema pronominale soggetto del dialetto luganese possiede un pronome clitico facoltativo che funziona unicamente come segnaposto soggettivo preverbale e che quindi in alcuni casi, questo sistema separa l'indicazione soggettiva preverbale da quella dei tratti di flessione, funzioni che sono altrimenti raggruppate in una forma clitica unica. In generale il clitico soggetto preverbale non è quindi obbligatorio a meno che non rechi tratti distintivi di flessione (persona e numero, oltre al genere nel caso della 3. singolare)."

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personale maschile di III sing.", Vassere (1993, 21), che si occupa del dialetto di Lugano, presenta casi in cui l'alternanza è libera, come nell'esempio (15) "(A/Al) Fiòca" ("nevica")182. Ancora più sorprendenti sono però per il dialettofono moderno alcune affermazioni di Sganzini che si ritrovano nelle voci dedicate ad a (pronome impersonale) ed al pronome personale al nel "Vocabolario dei dialetti della Svizzera italiana"183:

"La stessa cosa avviene nel Ticino e nel Moesano, dove [...] il pron. pers. ha la possibilità di sostituirsi pressoché dappertutto e in ogni caso all'impers. a (e, i): quand ch'al piöf i mufiss tutt, quando piove ammuffisce ogni cosa (Lopagno, fraz. Treggia); al sarà adèss on quindas ann e passa, saranno ora quindici anni e più (Melide, Pocobelli, Tilipp 43); el cápita pö che in agost e in setembru el ghe se vòlta, capita poi che in agosto e in settembre il vino gli si volta (S. Antonio, Keller, SopraC 61.301); ..." (VSI I.69; evidenziazione nostra) "... è da notare la possibilità pressoché in ogni caso e in ogni regione di sostituirgli [al pronome impersonale, BM] il pron. pers. (al, u) se appena al soggetto si voglia dare maggior risalto. In talune regioni (alta e media Leventina, Calanca) il pron. pers. ha ormai totalmente o quasi eliminato l'impersonale. Questo sembra in grado [...] di opporre nelle proposizioni subordinate maggior resistenza che non nelle principali." (VSI, 1.9; evidenziazione nostra)

Queste osservazioni accennano chiaramente ad una tendenza innovativa, attiva al momento della raccolta dei materiali a cui fa riferimento Sganzini, alla sostituzione dell'impersonale con il pronome personale, con la possibile conseguenza di una scomparsa dell'impersonale e della perdita della distinzione tra contesti che non permettono l'uso del pronome e quelli che invece lo richiedono. Il

182 Anche nel cremonese, brillantemente studiato da Rossini (1975, 147) sono possibili entrambe le soluzioni.

183 Esse sono sorprendenti anche in relazione ai lavori dei dialettologi che si sono occupati a fondo dei pronomi soggetto. Si confronti per es. Spiess (1956, 105), a proposito di a: "Es tritt überall dort auf, wo das SP der 3. Person nach unseren Nichtsetzungsregeln ebensogut weggelassen werden könnte, nämlich beim Ausdruck si fa, bei unpersönlichen Ausdrücken, beim Verb esserci, in Relativsätzen, in denen das Relativpronomen Subjekt ist, und in Sätzen mit invertiertem Substantivsubjekt ...".

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passaggio sarebbe avvenuto, secondo questo autore, attraverso l'uso del pronome personale come strumento di rafforzamento della 'soggettività' (v. sopra: "se appena al soggetto si voglia dare maggior risalto"). Questa tendenza (possibile "in ogni caso e in ogni regione") avrebbe però subito un rallentamento con un assestamento più sicuro della complementarità (almeno in alcuni contesti184) di a e al185. Abbiamo detto che queste affermazioni suonano in parte sorprendenti, ma esse ricevono un certo sostegno dal fatto che un altro contesto in cui ci si potrebbe attendere il pronome impersonale (per la difficoltà di individuare chi occupa la posizione di soggetto) presenta invece in molte varietà che non si possono ritenere le più innovative il pronome soggetto: questo contesto è proprio quello dei verbi meteorologici, per i quali l'innovazione si sarebbe stabilita assai presto. L'interpretazione generale del fenomeno segnalato da Sganzini è molto problematica ed è senz'altro degna di essere approfondita in un'altra sede (che abbia interessi differenti da quelli che motivano questo lavoro). Prima di tutto occorrerà iniziare identificando le fonti a disposizione di questo autore, ma non è da escludere che ne possano uscire nuove informazioni interessanti sullo sviluppo dei pronomi clitici soggetto nelle varietà native. Per quanto ci riguarda, la tendenza di mutamento segnalata da Sganzini incrementa il quadro di 'dinamicità' dei rapporti tra pronome impersonale e pronomi soggetto e ci mostra come il confine tra i due sia in parte mobile o 'vago', conformemente alla difficoltà che si ritrova nei parlanti nativi ad esprimere giudizi chiari186. Tornando al tentativo di definire il valore di a, non si possono non sottoscrivere le parole di Renzi (1983, 227), secondo il quale esso è "difficile da descrivere", nonostante (o forse proprio per questo) sia "facile da intuire". Anche l'elenco dei tentativi di definizione riportato da Vassere (1993, 23) va da

184 E sulla quale sono concordi tutti gli studi moderni sia di impostazione teorica che descrittiva.

185 Fino ad un certo punto potrebbe trattarsi anche di un avvicinamento all'italiano (che non usa il pronome soggetto in certi contesti, come per es. con i verbi meterologici) o di un fenomeno di koinè con varietà di prestigio che bloccano un'evoluzione naturale avviatasi dapprima in dialetti di montagna.

186 Pure l'osservazione di Sganzini di una migliore conservazione del pronome impersonale nelle frasi subordinate è potenzialmente molto importante nel quadro di una valutazione del sistema dei pronomi soggetto e del pronome impersonale.

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concettualizzazioni come "non ha nessun altra funzione al di fuori di quella di introdurre la proposizione seguente" (Lurà 1987, 157-8), a "consiste nell'annunciare (o nel segnare) l'ingresso del sintagma verbale con tutte le sue voci" (Stefanini 1969, 26), fino a "[ha la] funzione semantica di segnalare la presenza di una topicalizzazione" (Brandi - Cordin 1981, 37). Di fronte al sistema dei pronomi clitici soggetto nelle varietà considerate ci si pongono dunque due problemi fondamentali: da un lato quello relativo alla 'cancellabilità' del pronome, che concerne quindi le condizioni che non richiedono la presenza del pronome soggetto, e dall'altro lato, per i casi in cui non ci sia il pronome soggetto, abbiamo il problema relativo alle condizioni che governano l'alternanza di ø e a. Possiamo sintetizzare questi due problemi nelle seguenti domande:

1. in quali contesti il pronome soggetto vero e proprio, che sarebbe obbligatorio, viene tralasciato (cioè qual è il valore rispettivo di al e di Ø187)? 2. qual è, poi, il valore di a?

Questi due problemi si scindono perciò nella discussione di una serie di opposizioni:

1. al vs. Ø 2. al vs. a188

3. Ø vs. a

Si tratta insomma di definire i singoli valori; che tutte e tre le opposizioni siano pertinenti si vede dal fatto che esistono contesti in cui si ritrovano solo due di queste possibilità, ma non la terza.

187 Parliamo di al concentrandoci così sui casi più interessanti, quelli di 3. persona singolare, il cui trattamento è estendibile alle altre forme obbligatorie

188 L'opposizione è ovviamente tra il pronome personale di terza persona singolare (che va ritenuto non marcato per il genere, in opposizione a la, che nei nostri materiali è molto meno frequente) ed il pronome impersonale, dato che le altre funzioni di a non sono in opposizione diretta con al. Crediamo però che il valore di a, pronome impersonale, che emerge da questo contrasto sia in parte estendibile anche alle altre funzioni.

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Iniziamo dal primo contrasto perché ci sembra quello che permette un punto di partenza più significativo. Esistono contesti dove è prescritto il non uso del pronome e nei quali quindi esso non si ritrova. Per il nostro punto di vista questi contesti sono relativamente poco interessanti, dato che manca una contrapposizione diretta dei rispettivi valori e si deve parlare di distribuzione complementare. Ma ci sono anche contesti 'quasi uguali' in cui è proprio l'opposizione tra il valore del pronome rispetto alla sua assenza ad essere significativo, e dove quindi abbiamo una possibilità di individuazione dei rispettivi valori. Uno di questi contesti è quello della frase relativa. A seconda del fatto che ci sia il pronome o meno si ottiene tendenzialmente un'altra lettura. La differenza di lettura, come ha giustamente osservato Borgato (1984, ancora una volta per il padovano, ma v. già Rossini 1975, 146, sul cremonese), distingue tra frasi relative restrittive e non restrittive. La relativa senza marca pronominale ha valore restrittivo (potremmo anche chiamarlo 'identificativo', ponendo di più l'attenzione sulla sua funzione), invece se c'è il pronome la relativa ha valore non restrittivo (o 'predicativo'). E' pure molto importante notare che non è possibile, o è comunque molto marcato, avere a in questo contesto (mentre di norma a 'pronome impersonale' può comparire in tutti i contesti in cui non c'è il clitico soggetto). In questo caso quindi il pronome ha l'effetto di 'autonomizzare' la subordinata, staccandola, a livello di discorso, dalla funzione secondaria finalizzata all'identificazione del nome che fa da testa, per inserire invece una nuova predicazione (pur secondaria rispetto alla linea principale del discorso, ma non puramente identificativa). Alcuni parlanti nativi, ai quali abbiamo sottoposto delle frasi di elicitazione allo scopo di meglio comprendere in che modo essi organizzino il micro-sistema qui osservato hanno reagito alla frase di elicitazione in italiano è partito assieme al ragazzo che giocava al pallone fornendo una versione dialettale senza pronome soggetto (l'è partii insema al fiöö che giügava al balon). Alla frase "ieri ho visto un ragazzo che giocava al pallone come un dio" molti hanno però proposto una soluzione dialettale con pronome soggetto (u visc-t un fiöö che l giügava al balon cume n dio). Alla domanda se fosse più corretto dire u visc-t un fiöö che giügava al balon oppure u visc-t un fiöö che l giügava al balon i soggetti non hanno saputo

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rispondere in modo sicuro189. Con il c'è presentativo invece prevale la risposta senza pronome soggetto: gh'è un fiöö che giüga al balon. Le prime due frasi in effetti sono entrambe grammaticali ed hanno valori differenti: la lettura della prima è incentrata sulla 'identificazione' del ragazzo (sul ragazzo stesso come referente, quindi, sulla sua 'specificazione'), la seconda è invece incentrata sul fatto che giochi. L'interesse comunicativo della frase si concentra di più sulla predicazione della subordinata (il 'fatto particolare' di cui si parla). Tant'è vero che se si intensifica quest'ultima componente il pronome diventa categorico. La distinzione tra queste due interpretazioni coincide con quella tra frasi relative restrittive (finalizzate alla restrizione dei 'possibili identificati') e frasi non restrittive (finalizzate alla predicazione aggiuntiva). Dal punto di vista del dinamismo comunicativo, nel primo tipo di frase il SN e la relativa costituiscono un'unica unità informativa, nel secondo tipo abbiamo invece un tema ed un rema. Detto in altri termini, il pronome soggetto 'stacca' la frase relativa dal SN e ne fa un contributo rematico. Nel primo caso abbiamo invece un'informazione 'fusa', unica, tant'è vero che nelle strutture con c'è presentativo190 questa componente è ancora più accentuata. Questa distinzione tra presentazione 'unica' o 'eventiva' di un fatto e presentazione 'predicativa' non può non richiamare alla mente la distinzione introdotta da Franz Brentano (e ripresa in anni più recenti in modo importante soprattutto da Sasse 1987) tra enunciati 'tetici' ed enunciati 'categorici'. I primi sono quegli enunciati in cui i fatti sono presentati come un tutto unico, senza una scissione in una base della predicazione ed una predicazione, i secondi invece hanno una struttura bipartita: prima si enuncia la base della predicazione e poi se

189 Una risposta tipica è stata per esempio che la prima frase sembra non essere finita, sembra che debba ancora venire qualcosa. Questa opinione potrebbe essere attribuita al fatto che la predicazione della relativa è debole a livello discorsivo e quindi ci si attende qualcosa che continui il discorso e che si collochi ad un livello superiore della subordinata. Per dirla con Simone (1990), qualcosa che 'chiuda lo stand by' aperto dalla relativa.

190 Come per es. in a gh'è un gat che giüga ala bala.

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ne predica qualcosa191. Come abbiamo visto, nel nostro caso, l'uso del pronome ha l'effetto di dare maggiore peso alla frase relativa, che assume così una propria autonomia e espone una predicazione relativa al ragazzo. Nella relativa restrittiva invece, quella senza clitico soggetto, la relativa viene utilizzata non per predicare qualcosa del ragazzo ma per facilitare la sua identificazione. Non si tratta dunque di una predicazione autonoma a livello discorsivo. L'uso del pronome è quindi collegato ad una presentazione categorica dei fatti mentre il suo non uso rimanda ad un presentazione tetica (e l'assenza del pronome si ritrova anche tipicamente in contesti in cui quello che sarebbe il soggetto grammaticale ha caratteristiche molto poco prototipiche, come per es. in espressioni impersonali o in frasi con il soggetto posposto). Se, sulla base di questa osservazione, torniamo a considerare le situazioni in cui è normale non usare il pronome soggetto, notiamo immediatamente che esse fanno tipicamente parte di quelle categorie di enunciati per le quali è frequente una presentazione tetica. In tutti questi casi i fatti vengono presentati come un tutto unico, come un accadimento, e non viene fornita una struttura bipolare predicativa. Come giustamente fa notare Sasse (p. 565) uno degli strumenti tipici di espressione della teticità è quello di 'rimuovere' la dicotomia 'base-predicazione', e rimuovere la dicotomia può voler dire tipicamente rimuovere le caratteristiche che permettono di identificare il tipico soggetto (diminuirne quindi la marcatura come soggetto), per esempio ponendolo in una posizione non prototipica, come appunto la posizione posposta. Abbiamo infatti in questi casi frasi con soggetti impersonali, con soggetti posposti, espressioni indeterminate, espressioni presentative, ecc. Ma uno strumento tipico per diminuire la 'presenza' del soggetto può anche essere quello di cancellare la marca clitica che riprende il soggetto sul verbo, proprio come succede nel caso della contrapposizione di relative restrittive a non restrittive (che non a caso vengono anche dette 'predicative'). In questo modo, e specialmente se interpretiamo i clitici soggetto come marche flessionali, si verifica un'altra

191 Sasse discute anche la relazione tra gli enunciati 'tutti nuovi' (che sono spesso stati chiamati in scena nella discussione dell'uso delle nostre forme) e gli enunciati tetici. Vedremo in seguito la relazione tra questi due differenti punti di vista. La relazione tra clitici come il nostro a e la contrapposizione 'tetico-categorico' è stata chiamata in causa per la prima volta dal Vattuone (1975) e Browne e Vattuone (1975) per il genovese (si noti però che le funzioni e la distribuzione del clitico genovese u non coincidono del tutto con quelli del nostro a, tant'è vero che per questi autori il clitico genovese ha valore di marca tetica).

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caratteristica tipica delle strutture tetiche e cioè il "lack of agreement between suject and predicate" (di cui parla Sasse 1987, 560). Queste strutture non ammettono l'uso del pronome, perché, per le loro caratteristiche, esse tendono di solito a rifiutare una lettura categorica. La costanza di queste cancellazioni è quindi dovuta al non essere 'casi di transizione' (tra il tetico e il categorico), per i quali siano possibili più rappresentazioni. Si tratta invece di enunciati tetici prototipici, così come una frase come Al Giuan al mangia la minesc-tra sarà un enunciato categorico prototipico, che non può essere reso tetico mediante la semplice cancellazione del pronome. Il pronome soggetto al è obbligatorio anche se abbiamo a che fare con un soggetto topicalizzato (come per esempio in una dislocazione a sinistra), con un soggetto quindi che tende a separarsi dal resto dell'enunciato e a scindere in modo ancora più forte la frase. In questo modo viene incrementata la 'bipartizione' della frase, e le due parti costituenti assumono maggiore autonomia. Sulla base delle osservazioni di Chafe, Sasse ha fatto notare come per l'inglese la bipartizione, tipica delle strutture categoriche, possa essere operata pure mediante un doppio innalzamento intonativo, mentre enunciati con un unico picco tendono più verso il polo della teticità. Se in questo modo abbiamo colto una linea di opposizione tra a e al (tramite i due tipi di frasi relative) e l'abbiamo estesa all'opposizione tra al e ø (in virtù del fatto che nei contesti tipici di cancellazione possono apparire sia a che ø, e quindi entrambi, in opposizione ad al, devono avere almeno una parte di valore comune), ci rimane ora da affrontare il compito più problematico, cioè quello di individuare l'eventuale differenza di valore tra a e ø. La trattazione della Benincà (1983), che afferma che a ha la funzione di "dare la frase come tutta nuova" (p. 28), non ci aiuta in quanto discute unicamente la presenza di a ma non l'alternanza tra a e ø. Anche Browne e Vattuone (1975) discutono solo il contrasto tra pronomi soggetto e pronome impersonale. Abbiamo però visto che si ha comunque la sensazione che una differenza ci sia, anche se pure Vassere (1993, 28) propone unicamente una coppia di frasi in cui il criterio della maggiore novità dovrebbe far preferire la a, ma aggiunge che: "A rimane comunque facoltativo". Se ritorniamo alle nostre frasi relative possiamo iniziare questa discussione dalla considerazione che a non è di regola utilizzato nella relativa restrittiva, dove si ha il solo ø. Ci sono d'altra parte contesti in cui ø non è di norma utilizzato ma si alternano i soli a e al. Uno di questi casi, a cui abbiamo già accennato, è quello dei

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verbi meteorologici. Mentre, come sappiamo, nella varietà nativa bellinzonese o in quella del Mendrisiotto descritta da Lurà (1987) viene indicata unicamente la possibilità del pronome soggetto di terza persona, in Vassere (1993), ma anche in altri parlanti di origine luganese e in alcuni dei nostri PE, appare l'alternativa possibile con a. Alcuni parlanti nativi (16 adulti) del Bellinzonese (dove la soluzione con i verbi meteorologici dovrebbe essere quella con il clitico soggetto di terza persona) dei quali ho verificato il comportamento192 hanno manifestato incertezze ma anche alcune interessanti tendenze all'interno di queste incertezze. Per esempio la frase semplice piove è stata tradotta con il pronome di terza persona come al piöf. Ma in più della metà degli intervistati una frase leggermente più complessa, come piove ancora, ha provocato una tendenza maggiore verso a, dando quindi a piöf ammò. Anche il modo di dire X piöf che Dio la manda (nel senso di "piove molto forte"193) è stata completata con a (A piöf che Dio la manda). L'interpretazione che possiamo provare a dare di questa tendenza è che al decrescere della priorità informativa del predicato, a scapito di altri componenti dell'enunciato, il predicato stesso venga 'alleggerito' e l'aspettativa dell'ascoltatore vada a caricarsi maggiormente su ciò che segue. Nel caso di a piöf ammò, per esempio, il fatto che "continui a piovere" diventa più importante del fatto che piova. Nel caso di A piöf che Dio la manda è primaria la quantità della pioggia, non il fatto stesso che piova. In questo senso, in enunciati meteorologici, la mancanza del pronome soggetto sembra ridurre l'autonomia del predicato, a favore di ciò che segue. Agli stessi parlanti è stato chiesto se sentissero una differenza tra al piöf e a piöf e la risposta più frequente e chiara è stata che il primo è più "di sorpresa", mentre il secondo sembra essere più normale, "come se fosse già chiaro che

192 La metodologia impiegata è stata quella di chiedere dapprima di tradurre frasi italiane e di inserire la forma da loro ritenuta corretta in buchi lasciati in frasi di elicitazione in dialetto. In seguito si è discusso con queste persone sulle loro selezioni e scelte. L'effetto suscitato specialmente da questa seconda parte dell'elicitazione è stato quello di avere a che fare con una zona del sistema altamente instabile e metalinguisticamente 'poco nota', in cui le incertezze dei parlanti si fondano sulla loro mancanza di criteri espliciti (ma in parte anche impliciti) di discriminazione. Il comportamento è quello tipico di fronte a strutture a fondamento pragmatico, con la nota caratteristica dell'indeterminatezza, cioè della relativa 'apertura' delle interpretazioni.

193 Letteralmente "piove che Dio la manda (la pioggia)", con una probabile allusione al diluvio universale.

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dovesse iniziare a piovere ma non si sapeva quando". Anche in questo caso possiamo dunque dire che il pronome spinge maggiormente verso una lettura categorica, mentre a privilegia una lettura tetica, con un valore aspettuale non perfettivo e, in termini informativi, piuttosto di 'sfondo' che non di 'primo piano'. L'uso senza né a né al non è del tutto escluso (piöf ammò), anche se suona, per i nostri parlanti, ellittico, come "qualcosa che si dice in fretta". Esso appare nel contesto particolare del modo di dire: piöf piöf la galina la fa l'öv [”piove, piove, la gallina fa l’uovo”], dove, a parte le costrizioni metriche, l'effetto è quello proprio della 'iteratività' e quindi della scarsa 'dinamicità' dell'azione (e qui il valore di 'sfondo' è ancora più evidente). Alla luce di queste osservazioni possiamo perciò dire che a seconda dei contesti costruiti si hanno esiti differenti e che la differenza tra i vari contesti può essere interpretata come una differenza tra soluzioni tetiche vs. categoriche, con una tendenza, nei contesti meno 'fusi', con più picchi informativi, a selezionare la variante non soggettuale a. Vassere (p. 24-25) presenta un altro contesto in cui se non proprio l'alternabilità dei due tipi di pronomi si ha almeno un blocco pragmatico (una 'non preferenza') per l'uso di al:

a teléfuna al Giuan ?al teléfuna al Giuan

Il secondo caso spinge verso una lettura con 'allontanamento' del SN dalla frase, e perciò decisamente 'categorica'.

tüt i sir a teléfuna al Giuan ["tutte le sere telefona Giovanni"]

Si tratta di un caso 'non predicativo', che tende alla fusione, e quindi tende al tetico: l'interessante è l'evento del telefonare di Giovanni, che viene veicolato come un 'accadimento'. L'azione è presentata nella sua globalità (e qui abbiamo, rispetto ai pronomi soggetto, effettivamente l'impressione di un effetto di 'tutto nuovo'). La 'ripetitività' dell'azione, la sua abitualità, tende ad abbassare il grado di agentività del soggetto. La forma con il pronome ha un altro effetto:

tüt i sir al teléfuna al Giuan

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In questo caso l'attenzione si concentra su Giovanni, ciò che è interessante per il parlante è il fatto che sia Giovanni a telefonare tutte le sere (cioè qualcosa di relativo al tema "Giovanni" e nel corso della frase si ha una crescita informativa dall'azione di telefonare rispetto alla specificazione di chi sia a farlo). Più la frase presenta un evento che va sullo sfondo più diventa possibile avere una forma senza marche clitiche, come nell'esempio seguente:

?teléfuna al Giuan e l ma fa: t'é sentüü dal Lüis ..., ["telefona Giovanni e mi fa: hai sentito di Luigi ..."]

che è chiaramente tetico e costituisce lo 'sfondo' per quello che segue. In questo modo abbiamo quindi individuato una correlazione, fondamentale per la selezione delle forme clitiche, tra il tipo di azione e il modo in cui l'azione stessa viene presentata. Più un'azione tende verso i parametri prototipici della transitività (nel senso di Hopper e Thompson 1980194) più il soggetto guadagna autonomia. Invece quanto più un'azione assume caratteristiche vicine alla intransitività, tanto più l'attenzione si incentra sul suo accadimento come un tutto globale ed il soggetto perde autonomia. Se per esempio è in gioco la scelta di chi debba telefonare, la preferenza va decisamente verso la forma con il clitico soggetto:

al teléfuna al Giuan a dumandàgh se ném ["... per chiedere se andiamo"]

194 Hopper e Thompson (1980, 252) definiscono in termini prototipici la distinzione tra transitivo e intransitivo elencando una serie di 'dimensioni' che sarebbero responsabili dei gradi differenti di transitività dei singoli enunciati e della vicinanza ad uno dei due poli prototipici piuttosto che all'altro. I parametri riguardano il numero di participanti all'azione, se l'azione sia dinamica o meno, se l'aspettualità sia telica o atelica, se l'azione sia puntuale o non puntuale, se sia voluta da parte dell'Agente o meno, se vi siano effetti evidenti sull'Oggetto, se il modo sia reale o irreale, se l'espressione si a affermativa o negativa, se A sia fortemente agentivo, e infine se O sia ben individuato.

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Questa frase ha valore quasi contrastivo: chi che telefuna? E' più vicina a al Giuan al telefuna a dumandagh s'el riva195 ["Giovanni telefona per chiedergli se arriva"], che a a telefuna al Giuan. Sulla base di questi esempi crediamo di poter dire che le tre alternative siano allora ordinabili su una scala di teticità crescente, che va nell'ordine da al (versione categorica) a a a Ø. Questo ordine sarebbe allora fondamentale per la presenza e il valore (attuali) di questo 'strano' a nei dialetti di cui qui ci stiamo occupando196: si tratterebbe, rispetto a Ø, di una marca di 'de-teticizzazione' per contesti in cui si vuole evitare una lettura completamente tetica che altrimenti sarebbe inevitabile. Esso si sviluppa quindi come uno 'pseudo-pronome'197 che ha lo scopo di realizzare accanto al verbo uno dei valori tipici dei pronomi e cioè quello non di marca morfologica ma di 'tematicità', scindendo parzialmente in una doppia struttura la frase altrimenti tetica e ricostituendo in essa due picchi di informatività (similmente a quanto avviene negli enunciati categorici). A questo punto è evidente anche il collegamento con spiegazioni fonologiche della presenza di queste particelle198. Si precisa meglio anche il valore di "semplice elemento rafforzatore" che Sganzini (VSI, I.13) attribuiva alla particella pronominale. L'aggiunta pronominale (o 'pseudo-pronominale'), inserisce una segmentazione informativa parziale rispetto a quella unica che la frase avrebbe se non ci fosse il pronome, e trasforma così una struttura tetica in (quasi-) categorica. In questo modo abbiamo una gradazione di predicatività, con il gradino intermedio di a che serve a segmentare almeno minimamente la proposizione, e che agisce sulla funzione fondamentale della distinzione tra mezzi di espressione tetica vs. categorica permettendo in strutture tetiche di contrapporre una maggiore 'fusione'

195 Non si può qui avere la forma senza clitico soggetto vero e proprio (*al Giuan a teléfuna a dumandagh s'el riva) perché abbiamo una chiara struttura base-predicazione.

196 Che hanno, ricordiamolo, la particolarità di permettere una doppia opposizione: del pronome soggetto vero e proprio vs. Ø e a, e dall'altra parte di Ø vs. a.

197 E le varie particelle che si ritrovano in questa posizione hanno anche effettivamente origine etimologica da pronomi.

198 Cfr. per es. Spiess (1956, 105), che si appoggia alla spiegazione di Thurneysen (1892) fondata su necessità ritmiche della frase : "[Das unbetonte SP a] ... scheint auch in diesen Fällen je nachdem die Funktion eines Auftakt- oder eines Stützvokals auszuüben."

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della rappresentazione ad una maggiore 'autonomizzazione dei componenti'. Il predicato che sarebbe altrimenti 'fuso' assieme ad altri elementi della frase riprende così maggiore autonomia (questo spiega anche la tendenza osservabile ad un maggiore uso di a in frasi lunghe, o dove alla principale si agganciano subordinate). Si noti pure che secondo Sasse concetti come tema-rema non sarebbero pertinenti davanti alla distinzione 'tetico-categorico', ma come giustamente nota Valentini (1992, 47):

"Naturalmente, ciò non significa che le categorie della struttura informativa non abbiano niente a che fare con la distinzione tra enunciato tetico e categorico; è ad esempio molto improbabile che un enunciato tetico abbia un soggetto pronominale, poiché quest'ultimo ha generalmente valore tematico nella frase."

Considerato che il clitico soggetto è uno strumento di tematizzazione, la sua mancanza è un segnale di de-tematizzazione (di riduzione del soggetto, ciò che spinge gli enunciati più verso il polo tetico). La presenza di a, d'altro canto, attenua in parte la teticità, autonomizzando (quasi come il pronome) un po' di più il predicato. Anche la presenza facoltativa di quello che è stato considerato un vero pronome soggetto (cioè a di 1. singolare, 1. e 2. plurale, ma con alta facoltatività) soggiacerebbe alla stessa funzionalità, come marca di 'tematizzazione'. Si veda per es. la frase seguente prodotta da una delle nostre PE1 (ma che potrebbe benissimo essere di un parlante nativo):

ma Ø parli in prèsa perché a parli in prèsa

dove la prima proposizione è chiaramente di sfondo, mentre la seconda è quella centrale da un punto di vista informativo, che puntualizza tramite la ripetizione, e che per questa sua centralità informativa viene marcata da a. La traduzione italiana dovrebbe senz'altro essere parlo in fretta perché parlo in fretta, e non parlo in fretta perché IO parlo in fretta (con un valore quasi contrastivo): a quindi non ha un valore di intensificazione del riferimento al parlante. Una traduzione ancora più esplicitativa dovrebbe essere parlo in fretta semplicemente perché parlo in fretta, dove l'avverbio esprime lessicalmente quello che la ripetizione veicola per implicatura nel caso della

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nostra parlante199. A in questo caso è uno strumento per dare forma a questa implicatura mediante il valore tipico di questa forma di segnale di topicalizzazione. Un altro esempio si ha in:

ee .. quan che Ø senti parlá l dialett, a senti eh .. di altri parol .. ee .. adess che Ø devi parlá dialett .. natüralment a parli l dialett da Lügan [”ee .. quando sento parlare dialetto, sento eh .. delle altre parole .. ee .. adosso che devo parlare dialetto .. naturalmente parlo il dialetto di Lugano”],

dove a assume ancora, nella gerarchia informativa del parlante, un valore da 'focalizzatore'. Questi casi non hanno niente a che fare con l'uso contrastivo delle marche pronominali, che è invece di solito veicolato dai pronomi tonici, come per esempio nel seguente passaggio:

l'eva na roba normala ... al parlava dialett mi Ø parlavi italian, lü l parlava italian cun mi, mi Ø parlavi sempru italian ["era una cosa normale ... lui parlava dialetto io parlavo italiano, lui parlava italiano con me, io parlavo sempre italiano"]

E' evidente il contrasto tra "lui" (il padre) ed "io" la parlante, dove il riferimento è espresso principalmente tramite pronomi tonici. Per la terza persona ("il padre"), in un caso il tonico è correttamente affiancato dal clitico obbligatorio (lü l parlava), e nell'altro caso (al parlava dialett) l'espressione è affidata unicamente al pronome atono, mentre sarebbe stato più normale, per un parlante nativo, porre anche in questo caso a contrasto i due pronomi tonici del "lui" e dell'"io", ma probabilmente qui la parlante sta enunciando una 'condizione di partenza', normale, e non sta ancora ponendo in contrasto il comportamento del padre con il suo (il contrasto va piuttosto nella direzione inversa). In questo modo si precisano meglio anche le condizioni che portano alla presenza dei pronomi soggetto veri e propri, che, come abbiamo notato esaminando il parallelo tra lo sviluppo diacronico e lo sviluppo apprendimentale,

199 Mediante un 'calcolo' del tipo: "interpreta la costanza (ostensiva) di forma come un segnale di incremento, nella seconda occorrenza, di un valore 'naturale'". Qui per l'insistenza sulla continuità tra il fenomeno ("parlo in fretta") e la spiegazione ("parlo in fretta") potremmo parafrasare la ripetizione come "non c'è nessun motivo differente o speciale".

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tendono a privilegiare i contesti prototipici della transitività (nel senso ripreso da Hopper e Thompson 1980), e tendono invece a scomparire prima in condizioni di minore transitività, come per es. nelle frasi subordinate a bassa autonomia, nei contesti riflessivi, con il soggetto posposto, ecc. All'interno di questo quadro di riferimento la coincidenza degli sviluppi perde perciò la sua apparente casualità, e tra gli stadi 'tendenziali' di lingua a soggetto nullo e di lingua a soggetto obbligatorio entrano in scena momenti intermedi in cui i comportamenti sono sensibili ai gradi differenti di transitività. Da un punto di vista sintattico ci sembra corretta l'interpretazione della Benincà che colloca a nella posizione degli elementi topicalizzati (il cosiddetto nodo TOP), ma per quanto riguarda la differenza tra a e Ø, non possiamo utilizzare il criterio proposto da questa autrice della 'frase tutta nuova', dato che sia le frasi con a che quelle senza sono, nel nostro dialetto, entrambe tutte nuove, e inoltre possiamo avere a indipendemente dalla novità, come si vede negli esempi seguenti:

A: Cusa te n pénsi? [”Che cosa ne pensi?”] B: A pénsi che l'è na bóna idea. [”Penso che sia una buona idea”] A: Cusa te n pénsi? B: Pènsi che l'è na bóna idea.200

Piuttosto, come abbiamo già detto, nel nostro caso l'uso di a configura la frase in un altro modo, presentando un picco tematico che si stacca maggiormente dal resto, rematico, della frase (e da qui nasce un effetto di enfasi come quello notato da Benincà 1983). Abbiamo inoltre sostenuto che questa funzione è comune a pronomi e pseudo pronomi, nel senso che entrambi, lungo questa dimensione si oppongono alla loro assenza. Tra di loro, pronomi e pseudo pronomi si distinguono invece per il carattere 'soggettuale' dei primi ma non dei secondi (con la posizione strana del 'pronome soggetto' a, che a sua volta si colloca ad un livello intermedio rispetto al pronome impersonale e alla particella pronominale). Questi ultimi, infatti, si ritrovano in contesti in cui manca un soggetto prototipico.

200 Abbiamo già ricordato come anche gli esempi di Vassere (1993, 28), con i quali l'autore cerca di proporre una situazione in cui sarebbe preferita la forma con a rispetto a quella senza in base al criterio della novità vengono risolti con l'affermazione che: "Solo la seconda situazione si caratterizzerebbe per la novità della risposta. A rimane comunque facoltativo".

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A da eventuale marca di soggetto si sarebbe trasformato, attraverso il tipico valore tematico dei pronomi, in una marca di topicalizzazione. Ma in certi contesti non è escluso che mantenga, per i parlanti, un certo valore pronominale piuttosto che pragmatico. Infatti in contesti metalinguistici, come per esempio quando si richiede la traduzione di una forma verbale italiana, esso appare sistematicamente assieme al verbo, come tipicamente nello scambio seguente:

A: come si dice in dialetto 'chiedo'? B: a dumandi201

E questo non solo per il cosiddetto pronome personale, ma anche per il pronome impersonale:

A: come diresti 'c'è un buco nell'albero'? B: a gh'è un böcc nal'alber

Nel primo caso, quello del pronome di prima persona, questo fatto ci può far pensare ad un ruolo 'flessionale' o da 'soggetto obbligatorio' del clitico, ciò che avrebbe come conseguenza una rivalutazione della facoltatività dei clitici con un'attribuzione della stessa piuttosto a fenomeni di ellissi nel discorso. In breve le forme senza a sarebbero delle versioni 'veloci' e derivate della forma completa (con a) che continua ad essere la forma di citazione, nonostante in contesti particolari sia possibile la cancellazione di a. Anche in questo modo, comunque, a si configura, coerentemente con l'analisi che ne abbiamo fornito sopra, come una forma intermedia tra l'assenza di clitico soggetto e la presenza dello stesso. Nel quadro qui delineato vale la pena di riprendere velocemente le affermazioni sopra citate di Sganzini relative alla tendenza alla scomparsa del pronome impersonale. Innanzitutto vanno riconsiderate due osservazioni importanti contenute nei passaggi citati:

1) il pronome impersonale si conserva meglio nelle frasi subordinate; 2) il pronome soggetto è utilizzato quando si voglia dare maggior risalto al soggetto.

201 In questi contesti metalinguistici, a compare sempre anche se si aggiunge il pronome tonico (mi a dumandi).

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La seconda affermazione è coerente con quanto appena visto, in quanto conferma la scala proposta 'pronome personale - a - mancanza di clitico' e mostra la debolezza di a come vero e proprio pronome. Per quanto riguarda la prima affermazione, le proposizioni subordinate, come prevalentemente elementi dello sfondo, tendono ad una struttura tetica. Discutendo lo sviluppo dei pronomi clitici soggetto avevamo visto che i contesti di frasi subordinate e coordinate con la congiunzione e rappresentavano tipicamente una delle situazioni di possibile cancellazione del clitico soggetto. In esse la presenza del pronome è meno motivata ed è perciò più difficile per quest'ultimo sostituirsi ad a. L'assenza, nel contesto della coordinazione (che in questo caso va interpretato, per la sua maggiore autonomia, come più forte della subordinazione202), assumeva una rilevanza particolare nell'interpretazione della Vanelli dei dialetti rinascimentali come lingue a soggetto non nullo (accanto alla mancanza in contesti in cui, nella stessa frase, il soggetto era già marcato da un sintagma nominale). E' allora legittimo pensare che a giochi un certo ruolo nella transizione attraverso fasi sintattiche differenti dei dialetti settentrionali? Nelle varietà native da noi discusse questo clitico assume una posizione particolare di 'transizione' tra enunciati tetici ed enunciati categorici (scindendo maggiormente l'informazione rispetto all'assenza di marche clitiche), ma apre probabilmente d'altra parte la strada alla obbligatorietà di un clitico, che a sua volta (attraverso effetti di intensificazione tramite l'alternanza con il clitico soggetto vero e proprio) apre la strada alla presenza obbligatoria di una marca di soggetto. Ciò indicherebbe una tendenza in atto verso un comportamento da lingua a soggetto non nullo, con la distinzione tra enunciati tetici e categorici affidata primariamente all'intonazione o ad altri mezzi (che concedono per es. l'inversione del soggetto senza violare la regola che non permette il verbo in prima posizione203), come avviene tipicamente in altre lingue a soggetto non nullo come l'inglese o il tedesco. Ma queste sono unicamente ipotesi che per essere prese sul serio richiedono una valutazione più ampia di tutto il quadro presente nelle varietà sulle quali le argomentazioni di Sganzini si basavano.

202 Secondo una scala di implicazione dei contesti di cancellazione possibile, che prevede un ordine del tipo 'subordinazione > coordinazione > frasi autonome'.

203 Cfr. Sasse (1987, 530-1).

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3.2.5.2.1. a nei PE1 Un dato sicuro che possiamo innanzitutto presentare è che nei PE, anche in quelli con gli stadi di interlingua meno avanzati, a non manifesta nessun segnale di scomparsa. Essa si ritrova praticamente fin dall'inizio, ma la problematicità dell'individuazione della forma corretta dei pronomi nell'input, spesso a causa di nessi di clitici con fenomeni di riduzione e fusione, porta all'incertezza sul contrasto tra a (con la sua polivalenza e soprattutto la difficoltà di definizione del suo valore204) e al (che oltretutto a sua volta conosce più varianti regionali usate spesso simultaneamente, come vedremo in seguito, dai nostri intervistati). Nelle varietà meno competenti abbiamo contesti di sovrapposizione e confusione tra pronomi personali e il pronome impersonale accanto a usi appropriati, forse di matrice lessicale, cioè appresi accanto alle singole forme verbali e mantenuti per il vago valore di maggiore espressività che viene colto. Nei PE1 il comportamento è grandissima parte coincidente con quello dei parlanti nativi ed a viene quindi utilizzato con le funzioni sopra delineate, tranne in pochissimi casi in cui esso si sostituisce al pronome soggetto che sarebbe obbligatorio:

al fiöö a guarda dent in dal alber205

["il bambino guarda dentro nell'albero"]

L'unica costante che riusciamo a trovare a questi casi, tre in tutto che appaiono nella narrazione della storiella, è che essi occorrono in riferimento a momenti poco dinamici del racconto e preparano eventi più importanti (per es. in

204 Diventa a questo punto interessante vedere se il valore 'facile da intuire' (per riprendere le parole sopra citate di Renzi) renda facile l'uso di questa forma per parlanti evanescenti.

205 L'effetto di queste strutture sul parlante nativo è quello di trovarsi di fronte ad un 'accadimento' piuttosto che un'azione vera e propria, con una scarsa agentività del soggetto. Ma è difficile dire fino a che punto questa sia una proiezione interpretativa basata sulle regole della grammatica nativa e fino a che punto sia una regola sistematica dell'interlingua. Secondo il nostro modello interpretativo di a, comunque, questi due valori coinciderebbero.

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questo caso il bambino sta guardando nel tronco cavo dell'albero per vedere se vi sia la rana e dal buco uscirà un gufo che attacca il bambino). Possiamo quindi attribuirli ad una percezione di queste azioni come azioni di sfondo che vengono quindi veicolate con un basso grado di soggettualità. Vi è però una zona fortemente collegata con questa problematica che crea difficoltà anche a questi parlanti. Si tratta della forma di cortesia, dove abbiamo per tutti i nostri soggetti esiti come:

Al ga disc-piaseressa (da) sc-pusc-tass ["Le dispiacerebbe spostarsi?"]

In questo caso i nativi userebbero a. La scelta dei non nativi può avere due interpretazioni. Da un lato l'incremento di 'soggettualità' dovuto all'uso di al rispetto ad a incrementa l'effetto di cortesia, con la ricerca diretta di un allocutivo 'cortese', di terza persona, per rivolgersi all'interlocutore, al quale inoltre si chiede di intervenire come 'agente'. Un'altra possibile ipotesi è che al vada analizzato come a, pronome impersonale, più l pronome oggetto (cioè "a-questo a-lei dispiacerebbe", con un clitico oggetto come nelle dislocazioni a destra), che è teoricamente possibile ma non ci sembra qui appropriata. Essa entra in scena in modo importante nei casi di problemi con i nessi di clitici, che, come abbiamo visto, tendono talvolta a produrre forme di non facile interpretazione come al con un eventuale doppio valore di soggetto e oggetto (o meglio con un a 'pseudo soggetto' e una l di oggetto). Ma la fondamentale correttezza d'impiego del pronome soggetto al fa pensare che piuttosto che uno scambio a-al (con funzione di soggetto) qui si abbia a che fare con un solo clitico (con una parte fondamentale del problema dovuta all'omofonia di soggetto e oggetto, che presentano entrambi al al di fuori dei contesti di compresenza, dove invece al oggetto è sostituito da la). A volte poi abbiamo per i nostri parlanti anche esiti come il seguente, che costituiscono, rispetto alla norma nativa, piuttosto dei casi di 'inserzione superflua':

A gh'è multa gént che a gh’a pagüra di .. dii gatt negri ["C'è molta gente che ha paura dei .. dei gatti neri"]

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La soluzione dei nativi preferirebbe in questi casi l'assenza del clitico non colmata da a (A gh'è tanta206 gént che gh'a pagüra). L'uso del pronome impersonale è qui però probabilmente attirato lessicalmente dal verbo "avere" con l'avverbio, assieme al quale compare frequentemente207.

3.2.5.2.2.a nei PE2 Nei PE2 il quadro si complica soprattutto per l'aumentare dei casi di scambi tra a e al , che si sovrappongono ad un'opposizione principale, ben presente, tra da una parte il clitico soggetto e dall'altra parte la cancellazione dello stesso e la sua sostituzione con a (con quest'ultima che a sua volta scinde l'informazione complessiva in due parti). Per alcuni dei casi di scambio, diventa però più complesso sostenere l'interpretazione esplicativa in termini di tendenza a sostituire a nelle azioni di sfondo. Questa soluzione è per es. possibile per il primo dei seguenti casi (e per la maggior parte della nostra casistica), ma diventa problematica per il secondo esempio:

e l can anca a la cerca [la rana] [”e anche il cane cerca (la rana)”] e l can a fa casc-cà laa .. l'arnia di api [”e il cane fa cascare la .. l’arnia delle api”]

Nel primo enunciato il pronome richiesto ed obbligatorio è ovviamente quello di terza persona singolare, accordato col soggetto ("il cane"), e non a. Da un punto di vista fonetico, non ci sono dubbi che la sequenza sia a - l - a e che la l sia

206 Multa (per il più tradizionale tanta) non è una tipica forma da nativi dialettofoni, anche se gode di una fortissima vitalità nei PE. In alcuni casi, in discorsi complessi con forti influssi italiani (e senza commutazioni di lingua) può talvolta apparire nel discorso di nativi, grazie anche al sussidio della maggiore vitalità dell'uso avverbiale in contesti come per es. al lavora multu ben (che, impressionisticamente, definirei in espansione).

207 In un PE2, per lo stesso contesto, abbiamo invece l'uso del pronome personale: a gh'è na mügia da gent .. che la gh’a pagüra dii .. di gatt negar, dovuto forse alla pausa che precede il connettivo e fa sentire necessario il recupero del soggetto. Possiamo pensare solo a spiegazioni ad hoc di questo tipo in quanto il fenomeno non è sistematico (anzi, la tendenza in relative e pseudo-relative è piuttosto quella alla 'sovra-cancellazione').

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degeminata208. Una segmentazione del tipo al + a, con a marca dell'oggetto ci sembra molto poco probabile anche in parlanti molto poco competenti. Resta più probabile l'interpretazione adottata nella nostra trascrizione e cioè che il parlante pensi ad un contesto che richiede a (con la scomparsa quindi del vero pronome soggetto). Alcuni esempi di semplificazione di nessi di clitici con la scomparsa del pronome soggetto discussi in precedenza (come per es.: al fiöö la ciama) e l'ultimo esempio qui in discussione avrebbero perciò la stessa struttura, con la differenza che nel secondo caso alla caduta del pronome ha fatto seguito l'inserzione di a pronome impersonale209. Nel secondo esempio l'azione del far cadere l'arnia non è compiuta intenzionalmente dal bambino e perciò potremmo pensare ad un corrispondente tentativo da parte del narratore di marcare questo grado basso di intenzionalità riducendo la marca del soggetto (con la riduzione della ripresa soggettuale sul verbo). Il valore sarebbe piuttosto quello di un "succede X come conseguenza non intenzionale di un'azione di A". Ma, come abbiamo detto, la spiegazione diventa più fragile. Per il resto, comunque, la maggior parte dei casi ricalca le linee dei due esempi seguenti (dello stesso parlante), coerenti con il comportamento dei nativi:

Ø sa ved mia l can [”non si vede il cane”] vs. a sa ved che l'eva 'n cervo [”si vede che era un cervo”]

208 E cade quindi l'ipotesi di una soluzione che sarebbe legittima (v. per es. VSI 1.69) del tipo l la. Più probabile è un influsso indiretto dell'input, con la mancata percezione nei non nativi della marca del clitico soggetto, ridotta ad una sola consonante, oltretutto davanti ad una consonante identica.

209 Non sono del tutto in grado di escludere una forte tendenza a comportamenti simili di questo tipo da parte di giovani dialettofoni luganesi. In questo caso si dovrebbe pensare anche ad un eventuale ruolo di varietà di input fortemente innovative. Per esempio in Vassere (1993, 98), nella discussione relativa ad un altro tipo di fenomeno, si trova l'esempio l'u visc-t che la basava (con nella subordinata il solo oggetto) che l'autore presumibilmente considera perfettamente grammaticale, dal momento che non lo discute sotto questa prospettiva (d'altra parte potrebbe anche darsi che l'autore si sia adattato alla norma grafica di ridurre l la nello scritto al solo la; cfr. VSI I.69: "... si presenta frequentemente nella forma l la (di solito scritto la)...").

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Nel primo caso abbiamo a che fare con il valore letterale di "vedere", nel senso di "guardare e prender nota di qualcosa", nel secondo caso abbiamo un uso traslato, dove "vedere" ha il valore di "constatare". Ha un grado di maggiore ipoteticità, si sente la presenza del parlante che formula una ipotesi. Questo vuol anche dire che "vedere" di per sé costituisce già un picco informativo rilevante che si stacca dal resto, e quindi la struttura deve marcare le due unità informative. Allo stesso modo la prima frase, se avesse il pronome impersonale (a sa ved mia l can) favorirebbe una lettura fortemente concentrata sulla presupposizione che il parlante si attendeva di vedere il cane (quindi ancora una volta un elemento di 'soggettività' maggiore nell'enunciato).

3.2.5.2.3. Il caso di ul Avendo definito meglio il valore di a nei PE2 ci possiamo ora occupare di una peculiarità che si ritrova a partire da questa categoria di parlanti. Il fenomeno a nostro parere più interessante che appare nei PE2, e che riguarda anche il problema della variazione della forma dei pronomi clitici soggetto, è quello della creazione di un 'neo-pronome' ul, che non si ritrova nei PE1 e che compare in modo meno sistematico nei PE3. Questa forma ul ha, in queste interlingue, proprio un valore corrispondente a al, u, o el, ma mentre queste tre ultime forme si ritrovano nei vari dialetti della Svizzera italiana, ul, come pronome soggetto di terza persona singolare, non esiste nelle varietà native (cfr. VSI 1.68). Si tratta quindi di una creazione autonoma di parlanti non in contatto tra loro, che introduce un elemento nuovo nel sistema (almeno nei sistemi 'temporanei' dei PE). In particolare inoltre, in alcuni parlanti, ul sembra tendere ad un contrasto sistematico con u, come ben si vede dai seguenti esempi:

u risc-pond di api ["rispondono delle api"] u gh'è ul gufo che ... ["c'è il gufo che ..."] vs. ul fiöö ul cuntinua ["il bambino continua"] ul tröva ul gufo

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["trova il gufo"] ul fiöö ul casc-ca ["il bambino casca"]

Il primo esempio proposto presenta un soggetto post-verbale, il secondo è un caso di c'è 'presentativo' (sul terzo esempio del primo blocco, la cui interpretazione è meno immediata, torneremo in seguito). Il primo blocco presenta dunque casi in cui nelle varietà native non si ritrova il pronome soggetto e dove è facoltativo il pronome impersonale a. Il secondo blocco di esempi riguarda invece contesti tipici di presenza obbligatoria del pronome, ai quali qui viene fatto corrispondere ul. L'opposizione è quindi chiara: i parlanti hanno ricostruito analogicamente sul contrasto a vs. al un contrasto u vs. ul, dove u, che nelle varietà native avrebbe il valore di al viene reinterpretato con il valore di a, creando accanto a questa forma ul come corrispondente di al. Abbiamo così un incrocio tra u e al, con in più l'aggiunta che le forme con u sono sentite come più arcaiche, o più tipicamente 'dialettali', rispetto alle più frequenti forme con a (e al, che come pronome è più frequente, fornisce perciò una specie di struttura tipica del pronome di terza persona)210. Sul fenomeno può aver inciso anche la difficoltà già vista a segmentare nessi complessi di clitici, i quali assumono proprio la forma ul in contesti, molto frequenti, come u-l dis ("egli lo dice"), dove non è sempre facile sentire i valori specifici che portano il pronome oggetto in questa posizione. Non mancano a questo proposito nei nostri materiali usi ambigui, come il seguente:

Eeh, ul can ul .. ul cad no! dala finesc-tra ah! ul borla gió dala finesc-tra .. al fiöö ul veed .. e al fa un salt e l'è giü ["Eeh, il cane .. cade no! dalla finestra ah! cade dalla finestra .. il bambino lo vede ... e fa un salto ed è giù"]

L'interesse di questo esempio è nella seguenza di pronomi soggetto ul che continua fino alla frase al fiöö ul ved. Quest'ultimo pronome, per la struttura attanziale del verbo che richiede un paziente, o deve essere scomposto in u

210 Ci si può d'altro canto chiedere se per questi parlanti il 'vero' pronome soggetto non sia semplicemente l (con il sostegno dell'allomorfo l, che si ritrova qualora il clitico segua una parola terminante per vocale ed è quindi molto frequente), che comparirebbe spesso assieme alla 'vocale di topicalizzazione' a (o rispettivamente u).

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(Soggetto) - l (Oggetto)211, oppure deve essere considerato un caso di fusione tra ul soggetto e una variante l dell'oggetto, dove però da un punto di vista fonetico non ci è possibile sentire nessuna differenza tra la forma qui in discussione (che avrebbe il valore composto di Soggetto + Oggetto) e le occorrenze normali (solo Soggetto) di ul. Se vogliamo presupporre che ci sia effettivamente una marca di oggetto, dobbiamo concludere che la stessa non vada oltre le intenzioni del parlante. Il dialetto, come abbiamo visto nel capitolo precedente, risolve questo conflitto di pronomi esplicitando in modo differenziale l'Oggetto (mediante la forma omofona con il femminile la). La frase appena citata ci permette però anche un primo sguardo sull'enorme dimensione dei fenomeni della variazione. Si veda per esempio il fatto che la forma pronominale che segue il caso di ul appena discusso è al, come se il parlante avesse avvertito un'insicurezza nell'uso di ul e passasse ad una forma alternativa che gli sembra più sicura. L'instabilità di queste interlingue è ben messa in luce qui anche dall'incrocio di omofonie e varianti tra pronomi soggetto e articoli212. Si veda l'inizio di questo breve passaggio con l'articolo ul (ul can ul .. ul cad) e il passaggio all'articolo al proprio prima del pronome sul quale abbiamo appena incentrato la nostra attenzione (al fiöö ul veed), con poi un passaggio al pronome al. In una parlante di questa categoria si presentano alternanze tra u e ul, che però non sono altrettanto sistematiche di quelle appena viste e che non rimandano in modo altrettanto netto all'opposizione 'parallela' al/a. Accanto a usi appropriati di a (v. per es. a sa pò mia fümà, a gh'è düü ran213) e ad usi appropriati di al (per es. in al fiöö al borla gió), si ritrova la tendenza ad utilizzare u assieme a verbi riflessivi (per es. l fiöö u sa tegn a düü dü rami, ul fiöö u sa bagna) o prima del pronome oggetto la (per es. alora u la cerca in del sc-tival, che in modo interessante continua

211 Ipotesi contraddetta dal fatto che in questo parlante ul è invece il vero e proprio pronome soggetto di terza persona, con un chiaro contrasto con u.

212 Anche nell'istituzione di una analogia tra al e ul non è nemmeno del tutto da escludere l'influsso delle forme degli articoli, che, come vedremo in seguito, sembrano a volte presentare delle correlazioni sintagmatiche con quelle dei pronomi nonostante le funzioni chiaramente differenti. L'omofonia tra l'articolo al e il pronome al potrebbe aver suggerito un'omofonia parallela tra l'articolo ul (che esiste effettivamente) e lo 'pseudo-pronome' ul: come se i parlanti percepissero in qualche modo la coincidenza etimologica tra pronomi e articoli.

213 Al problema della marcatura del genere nei numerali sarà dedicato in seguito un paragrafo.

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con ... e l can anca ... a la cerca). Quest'ultimo contesto rivela perciò anch'esso una tendenza alla cancellazione del pronome soggetto (che abbiamo già visto essere tipica per i PE), forse sostenuta pure dall'apparire della sequenza u la nell'input dei nativi, con il valore effettivo di u come pronome soggetto. I casi qui discussi rappresentano una tendenza e non una regola categorica, dato che abbiamo anche usi appropriati di u (non valutabili come 'effetti secondari' della reinterpretazione delle regole, come per es. in anche ul can u giüga214). Questo mostra la forte variazione dovuta da un lato all'uso di forme concorrenti (con quindi i tipici effetti di una variazione geolinguistica nell'input che ricade su un parlante 'a norma debole'), e dall'altro lato dovuta alla compresenza di regole in competizione tra loro, alcune più vicine alle varietà native, altre frutto di elaborazioni autonome (con una variazione tipica di fasi apprendimentali di 'ristrutturazione'). La forza della variazione del secondo tipo è appena stata discussa, per il primo tipo basti sapere che uno degli esempi di uso di u con il riflessivo da parte dell'ultima parlante di cui ci siamo occupati continua nel seguente modo:

ul fiöö u sa bagna, però al sa fa nagott ["il bambino si bagna, però non si fa niente"]

Da un punto di vista teorico è interessante osservare che quest'ultima parlante rappresenterebbe quindi uno stadio di interlingua più vicino alla lingua obiettivo in quanto il 'neo-pronome' ul è meno sistematizzato, mentre nei parlanti precedenti la rianalisi è già spinta a stadi più avanzati e, per questo settore, la riorganizzazione in direzione (almeno formalmente) di allontanamento dalla lingua obiettivo è più radicale. Ma, data l'entrata in scena di questa pluridimensionalità dello sviluppo delle interlingue (con da un lato l'avvicinamento relativo alla lingua obiettivo, dall'altro lato la 'sistematizzazione autonoma' delle interlingue), diventa però difficile dire quale delle due varietà sia in generale più avanzata, dato che questa seconda parlante potrebbe benissimo trovarsi sia in uno stadio antecedente a quello degli altri PE2 (quindi in una fase in cui sta costruendo la sistematicità dell'opposizione u/ul) sia in uno stadio posteriore, in cui le occorrenze di ul che si

214 L'ipotesi che potrebbe nascere a questo punto che u e ul siano stati reinterpretati come pronome e marca di verbi intransitivi e rispettivamente di verbi transitivi è contraddetta da altri controesempi.

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ritrovano sono tracce di una maggiore sistematicità (autonoma) che è stata ricorretta in direzione della lingua obiettivo. Se si hanno almeno due possibili vettori di sviluppo, il concetto di anteriore-posteriore tra due stadi di interlingua non può essere fissato senza conoscere il percorso (o senza porre lo stadio in relazione ad un punto d'arrivo, attribuendo un'intenzione di questo tipo ai parlanti). Paradossalmente infatti una parlante che stia per iniziare un percorso di rianalisi (in direzione dello sviluppo di strutture autonome) deve essere considerata più avanzata (relativamente alla lingua obiettivo) di un'altra parlante che abbia già percorso la rianalisi e presenti quindi un'interlingua più avanzata in termini di sviluppo verso il vettore di allontanamento dalla lingua obiettivo (e che quindi verrebbe spontaneo considerare più avanzata da un punto di vista generale).

3.2.5.2.4. a nei PE3 Nei PE3 aumenta apparentemente la confusione tra al, a e Ø, diminuendo la prevedibilità degli esiti, come per esempio in:

L tüsan Ø salta anche lü giù ... e a ciapa l can dans les bras, e l can al leca la guancia dal tüsan215

["il bambino salta giù anche lui ... e prende il cane tra le braccia, e il cane lecca la guancia del bambino"],

dove abbiamo tutte e tre le possibilità, prima Ø, poi a, poi al, e dove diventa molto difficile trovare una sistematicità che distingua i tre usi. Nella prima frase abbiamo un SN, ma l'abbiamo anche nella terza frase e lì si trova il clitico soggetto. Nella seconda frase, dove di solito a questo livello manca il pronome soggetto abbiamo a che lo sostituisce. Un'altra sequenza interessante dello stesso genere è la seguente:

Il can Ø salta föra, a salta giò dala finesc-tra, ee .. e l vas Ø sa rompa ["il cane salta fuori, salta giù dalla finestra, ee ... e il vaso si rompe"]

dove si deve notare l'assenza totale di marche pronominali con il sintagma nominale ed il riflessivo, ma l'uso di a nel contesto in cui manca il sintagma nominale. Al di

215 Il sintagma preposizionale dans les bras è ovviamente francese e come tale l'abbiamo trascritto qui in grafia francese. Esso viene discusso nel paragrafo dedicato alle preposizioni.

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sotto di questo disordine emergono però (anche se non in modo categorico) le solite tendenze di organizzazione. Come quelle relative ai contesti di cancellazione dei clitici soggetto e quelle relative all'opposizione tra a e al, la cui gestione è però probabilmente qui disturbata, oltre che dalla difficoltà generale di uso nel discorso, dal movimento costante per questi parlanti sul continuum tra italiano (che costituisce una importante base per la costruzione del discorso dialettale) e dialetto. Accanto a passaggi testuali come quelli appena citati abbiamo infatti esempi in cui l'uso dei clitici mostra chiari segnali di questa sistematicità secondo le linee di tendenza viste per i PE2 (con, tra l'altro, anche per i PE3 casi di 'creazione' di un'opposizione tra u e ul). Si nota così per es. una chiara tendenza a non usare il clitico soggetto al con soggetti posposti, cancellandolo semplicemente o sostituendolo con a, come nella frase seguente, in cui l'Oggetto (rappresentato da la) è la rana:

A la cerca, l fiöö e l can, da fö da la finesc-tra [”La cercano, il bambino e il cane, fuori della finestra”]

In genere si può quindi parlare di una opposizione di base tra, da un lato, il clitico soggetto al (o forme corrispondenti) e, dall'altro lato, la mancanza dello stesso (cioè Ø) e a, con quest'ultimo che si configura chiaramente, nell'uso dei nostri parlanti meno competenti, come 'non soggetto', mostrando quindi una comprensione fondamentale dei procedimenti alla base dell'uso o meno del pronome soggetto vero e proprio. Che i parlanti si bilancino nel corso dell'esecuzione tra la necessità di marcare il soggetto e l'accordo e quella di rispettare il valore discorsivo degli enunciati è ben mostrato dal caso seguente di un PE3, dove apparentemente abbiamo un problema di genere:

al vegn föra una marmotta ["esce una marmotta"]

Questo esempio, e altri due, molto simili, dello stesso parlante, vanno però a nostro parere interpretati non come dovuti alla mancata percezione o comprensione del valore femminile di la (che in altri casi è correttamente impiegato) quanto piuttosto come il risultato di una neutralizzazione della marca di genere su base sintattica. In breve, al, qui, viene impiegato con la stessa funzione di a (contemporaneamente come riduttore del pronome che è marca di accordo, e riduttore della teticità), cioè come una versione non marcata per l'accordo di la.

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Queste osservazioni confermano le ipotesi avanzate precedentemente in relazione all'uso dei clitici soggetto. I clitici tendono, negli stadi iniziali, ad essere usati in base ad una condizione di necessità (viene sentito un soggetto ma non è sufficientemente marcato) e ad una condizione di cancellabilità (il soggetto è già sufficientemente rappresentato, per es. dalla presenza di un sintagma nominale o dalla relazione di continuità anaforica con una frase antecedente). Il pronome impersonale a si sostituisce al pronome soggetto in quei casi in cui si vuole evitare una struttura completamente tetica ma in cui non si può d'altra parte avere l'accordo con il soggetto. Lo stadio 'intermedio' nel quale si muovono i nostri parlanti del secondo livello sarebbe quello di una ricerca di motivazione per la presenza dei clitici soggetto, che fa sì che gli stessi appaiano come rinforzo della segnalazione del soggetto quando secondo loro lo stesso non è sufficientemente marcato formalmente.

3.2.5.3. Le forme dei clitici soggetto

3.2.5.3.1. Variazione delle forme nei PE1 Anche per quanto riguarda la selezione delle forme appropriate da utilizzare i PE1 presentano delle incertezze. Alcune devianze sono senz'altro da interpretare come fenomeni primariamente di esecuzione, come per esempio gli scambi nella forma in base al numero illustrati qua di seguito (si tratta come al solito delle forme sottolineate):

ee l cervo l .. con i so corna .. l ciapa l fiöö l cur .. e l buta giü e l buta giü da'n buron lü e l can insema .. e l finiss dan- dentro un laghetto. ["e il cervo .. con le sue corna .. prende il bambino e corre .. e butta giù e butta già da un burrone lui e il cane assieme .. e finisce dentro a un laghetto"] L pinin al salta giò, pensi, dala finesc-tra, cun sü i sc-tivai, e .. ul can i è cuntent, e l leca l padron. ["e il piccolo salta giù, penso, dalla finestra, con su gli stivali, e .. il cane è contento e lecca il padrone"]

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A volte la forma del pronome corretto può essere disturbata dal 'richiamo' di una corrispondente forma italiana, dando luogo ad un esito 'ibrido', come per es. in:

i ciama sempro sc-ta rana e mentre gl'è nel bosc-ch il can l ved un nido. ["chiamano sempre questa rana e mentre sono nel bosco il cane vede un nido"]

Il caso è di per sé interessante perché sembra mostrare una ricostruzione progressiva del pronome di terza persona plurale. Una possibile interpretazione di questa forma si ricollega alla forte presenza di essere come terza persona singolare, l'è, che potrebbe aver fatto sì che questa sia, per la parlante in questione, la forma di base del verbo e quindi anche la forma del verbo con il clitico. La terza persona plurale viene perciò ricostruita cercando una marca che incrementi la forma rispetto al singolare (si noti che in altri casi, come all'inizio della frase, la parlante utilizza e possiede il pronome di terza persona plurale i). Si tratta quindi di un normale caso di ricerca di una forma più esplicitamente marcata in corrispondenza ad un aumento di marcatezza del valore. Il procedimento è allora quello della palatalizzazione di [l], che di per sé è corretto ma non viene portato avanti sufficientemente. Accanto a questi usi che si possono definire 'devianti' rispetto alla norma dei nativi si notano incertezze dovute alla compresenza di forme differenti (di origine geografica differente e spesso oramai riordinate in termini di maggiore o minore 'arcaicità', o rispettivamente 'modernità) per lo stesso valore. E' tipico per esempio anche in questi parlanti l'alternarsi alla seconda persona singolare, accanto al più frequente ta, di altre varianti come te o ti. Per una parlante, per esempio, abbiamo 13 casi di ta, accanto a 4 casi di te. Per un'altra i casi di ta sono 15, quelli di te 3 a cui si aggiungono 2 casi di ti (entrambe sono cresciute nel Luganese). E' interessante notare che a questo livello non abbiamo nessun caso della forma dialettale tu, che costituisce anch'essa una variante nativa (v. per es. tu disat, "dici"), ma che viene sentita come arcaico rispetto a forme più moderne come ta e te. In teoria avremmo potuto attenderci che tu assumesse il valore di variante innovativa per la sua maggiore vicinannza all'italiano, ma la sua caratterizzazione interna al diasistema dialettale blocca decisamente questa possibilità. Nel repertorio dei nativi dobbiamo quindi considerare che esistano (almeno a livello passivo) due forme perfettamente omofone nettamente separate: un tu dialettale (sentito come

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arcaico, e quindi in perdita di vitalità) e un tu decisamente italiano (non ancora accettabile nel dialetto dei nativi dove altre forme sono più vitali e dove il tu italiano costituirebbe una commistione di codici troppo forte). Questa situazione si trasmette anche alle varietà dei non nativi, dove sia il tu italiano che il tu dialettale sono 'coperti' dalle altre varianti. La variazione è forte anche per quanto riguarda la terza persona singolare, dove accanto al più frequente al si ritrovano anche el e u.

L pinin el cerca quaicòss per tera, e l can al tira i sc- sciamp davanti e al vusa dré aa a di vésc-p ["il piccolo cerca qualcosa per terra, e il cane tira le zampe davanti e sgrida delle api"]

In un paio di occorrenze, sempre per la stessa persona, abbiamo anche il.

il ma n'ha parlaa ier [”me ne ha parlato ieri”]

E' molto probabile che in questi specifici casi ci sia stato un influsso del pronome francese (si tratta della parlante con marito francofono) ma non è da escludere che il sia in qualche modo sostenuto anche da una sua 'maggiore italianità' rispetto ad al (si veda anche più avanti l'influsso reciproco di articoli e pronomi). Altrimenti, che la variazione nella forma del pronome clitico soggetto di terza persona singolare sia forte pure nei nativi è dimostrato sufficientemente da Petrini (1988, 195), anche per zone che dovrebbero essere relativamente omogenee e distanti da altre varianti regionali:

"Alcuni dati valmaggesi: Cl di Menzonio, nell'incisione di prova dell'Af, alterna in una stessa frase al fa gnanca pü cent abitant; e una volta ne faceva ... o n faseva quatrosent (Men.Mat.); V. di Bignasco, in Vicari (1985:55a), dice al m a töi dré, accanto al più frequente u in u comincia a capì (55a), u va dent (56a), ecc. Le due divergenze dalle norme locali stupiscono ancora di più se si tiene conto del fatto che la forma o, u è anche dell'area urbana locarnese (cfr. VSI 1.68).

Si ha comunque una notevole differenza quantitativa tra la variazione nei nativi e quella nei PE (specialmente in quelli meno competenti). Mentre nei nativi abbiamo di solito a che fare con due varianti, caratterizzabili rispettivamente come una più ed

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una meno innovativa (o una sovra-regionale ed una micro-regionale), con quindi un movimento sul continuum dell'innovatività, nei soggetti che qui ci interessano la variazione è molto più ampia ed è soprattutto caratterizzata dall'inserzione di più varianti micro-regionali. Ciò avviene secondo modalità che segnalano una parziale perdita del valore sociolinguistico e geolinguistico di queste forme e che perciò differenziano chiaramente i PE rispetto ai nativi. Al di là di un chiaro margine di variazione libera nei nativi, per la quale non è possibile definire delle condizioni regolari di selezione delle varianti, si ha spesso l'impressione che la forma innovativa compaia assieme a elementi lessicali innovativi e che quindi essa sia in pratica entrata nell'uso assieme alle nuove espressioni, mentre nei PE questo legame è decisamente meno forte e le associazioni sintagmatiche sono più accidentali in quanto riguardano piuttosto il contesto in cui un parlante ha sentito una certa espressione o il contesto a partire dal quale egli se ne è impossessato. In comune vi è quindi una certa tendenza a fissare la selezione del clitico sul verbo, ma la sistematicità nei PE è molto più bassa. Inoltre, a differenza di quanto avviene nei parlanti nativi, nei nostri soggetti la selezione è spesso correlata a fenomeni di 'armonizzazione fonologica' con altre parole funzionali occorrenti nell'immediato contesto, come soprattutto gli articoli, sui quali ci soffermeremo in seguito. Infine, nei parlanti meno competenti compaiono forme clitiche soggettuali che non si ritrovano nelle varietà native e che costituiscono quindi delle creazioni autonome. Ricordiamo qui, oltre al già discusso ul, anche il sia per la terza persona singolare che plurale. Per avere un veloce termine di paragone in questo campo abbiamo chiesto ad un parlante nativo trentenne (del Bellinzonese) di raccontare la stessa storiella sottoposta ai PE. Egli ha prodotto, per la terza persona singolare, 31 occorrenze di al e 6 casi di u.

3.2.5.3.2. Variazione delle forme nei PE2 Sempre per quanto riguarda l'incrocio tra fenomeni di variazione e di analisi delle forme si potrebbe essere a prima vista tentati di analizzare l'esempio seguente interpretando il come una forma composta da i soggetto di terza persona plurale e l oggetto di terza singolare.

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I api i apréza mia .. eh .. ul gèsc-to dal can .. ul trasc-lòch sì .. ee il .. vöö picà ul can ["le api non apprezzano .. eh .. il gesto del cane .. il trasloco sì .. ee vogliono pungere il cane"]

La soluzione è invece molto più semplice in quanto abbiamo chiaramente a che fare con un francesismo, come è anche reso ovvio dall'uso del verbo picà riferito alle api che vogliono pungere il cane (il legame con piquer, "pungere", è evidente; si deve notare pure una certa omofonia tra vöö e il francese veulent). Si può però affermare che al parlante non è esplicito il carattere interlinguistico della sua soluzione (che a prima vista potrebbe anche essere presa per una soluzione lessicale alternativa, con un legame di continuità tra "picchiare" e "pungere", per cui "pungere" è quasi un modo di "picchiare"), dato che quando gli chiedo di spiegarmi che cosa intenda, egli mi dice in italiano "nel senso di picchiare", con un'attrazione questa volta di forma e di significato tra l'italiano "picchiare" appunto e il dialettale "picà" (che vuol proprio dire "picchiare"; sostiene quindi di aver usato proprio la strategia lessicale discussa poco sopra). Che egli interpreti a posteriori una sua strategia interlinguistica inconscia come soluzione lessicale è confermato anche da un'altra sua osservazione esplicativa: l'è perché l'éva la cosa la più vicina a l'idea, dove curiosamente ritroviamo il bel la cosa la più vicina che può anch'esso essere sospettato di francesismo. L'unica altra occorrenza, subito corretta, di il per la terza persona, questa volta singolare, è anch'essa con un verbo omofono con il francese (ma anche con l'italiano e si noti la forma su, e non sü):

e l fiöö il ... ul va su su na ròcia [”e il bambino ... va su su una roccia”]

Questi casi mostrano bene la forte variazione nelle forme utilizzate per i clitici soggetto, sia per fenomeni apprendimentali (appoggio del francese, suggerimenti dell'italiano, difficoltà di analisi e individuazione delle forme, ecc.) sia per la forte variazione regionale nell'input. Le alternanze che si incontrano toccano principalmente216 la seconda persona singolare e in modo ancora più importante la

216 Se non consideriamo in questa sede le varianti Ø e a per la prima singolare, e la prima e la seconda plurale.

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terza persona singolare. Per quanto riguarda la terza persona plurale, in questi parlanti, se trascuriamo le cancellazioni di clitici (già discusse) non abbiamo praticamente variazioni. Iniziando dalla seconda persona singolare, si ha l'alternanza tra ta e talvolta ti. Ciò è relativamente normale per parlanti, provenienti dal Locarnese, dove ti è la forma caratteristica (al punto da costituire uno stereotipo di questa varietà217). Qui la presenza di ta sarebbe da motivare con contatti con parlanti di altre regioni (soprattutto Sottocenerini218), ma nel contempo potrebbe anche costituire forse un segnale di una maggiore forza di questa variante anche presso locarnesi aventi una norma dialettale 'debole'. Sempre per la seconda persona singolare sono poi particolari gli intrecci di varianti regionali che si ritrovano poi in espressioni come ti devat schiscià ..., dove accanto al pronome di origine locarnese troviamo una forma verbale, col pronome enclitico, non ritrovabile nel Locarnese. Ancora una volta ciò ci mostra la forte variabilità dell'input al quale questi parlanti sono sottoposti e la loro mancanza di competenza nell'operare selezioni o attribuire i corretti valori sociolinguistici alle differenti varianti. Per questa caratteristica, le loro varietà sembrano definirsi come delle koinè ben differenti da quelle studiate da Petrini (caratterizzate soprattutto da fenomeni di 'de-regionalizzazione immediata', cioè dall'eliminazione dei tratti regionali più marcati), e si definiscono per la commistione di varietà che vi si ritrovano. La commistione di tratti di origine regionale diversa è accelerata con la perdita della componente fondamentale dell'identità regionale del parlante nella variazione, che definisce invece i procedimenti tipici di koinè dei nativi. La mancanza di una norma forte in questi soggetti e l'intensa mobilità geografica che caratterizza oramai la situazione ticinese sembrano far spuntare uno scenario meno ordinato, del tipo più noto alla cosiddetta sociolinguistica urbana (che si occupa della concentrazione di un numero ampio di varietà in uno spazio geografico e sociale molto ristretto) che

217 Cfr. Petrini (1988, 193): "Anche presso il parlante comune ticinese è noto che un locarnese viene immediatamente identificato dall'uso del pronome atono ti, tratto che non abbandonerà tanto facilmente nemmeno parlando con dialettofoni di altre regioni (cfr. Spiess 1974:358)."

218 Per una delimitazione regionale delle varianti sulla base della Parabola raccolta da Keller cfr. Petrini (1988, 193 n. 1).

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non alla dialettologia classica, abituata a partire da varietà di nativi veri e propri ed a osservarne gli adattamenti. Per i parlanti di questa categoria di origine luganese è invece l'uso di ti che deve essere spiegato. Anche qui ovviamente la motivazione è legata a contatti con gente del Locarnese, ma il dato interessante è che ben difficilmente un parlante nativo di un'altra regione adotterebbe questa variante che, come abbiamo visto, è sentita come tipicamente locarnese (fino al caricaturale). Inoltre, e ciò mostra bene il modo in cui la variazione dialettale viene percepita da parlanti che hanno interessi prevalentemente di uso passivo del codice, uno dei nostri parlanti dice dapprima di non saper collocare regionalmente questa variante, e poi, dopo varie insistenze da parte dell'intervistatore, afferma "alla bruto cane direi di Locarno". Proprio la circoscrizione geografica di ti potrebbe rendere questa variante attraente per i nostri soggetti, in virtù dell'ipotetica associazione tra delimitazione geografica precisa e maggiore 'arcaicità' possibile di una forma (con un intreccio classico tra regionalità e distanza dalla norma sovraregionale-innovativa). Sappiamo che questa relazione non regge sempre, ma essa sembra essere uno dei principi utilizzati dai parlanti per selezionare, attribuendo loro valore sociolinguistico, le varianti dialettali. Un altro principio basilare usato come tendenza (quindi non in modo categorico) è ovviamente quello della distanza dall'italiano. Se da un lato possiamo presupporre un certo prestigio delle varianti innovative sovraregionali (e talvolta italianizzanti219), dall'altro lato è altrettanto evidente un 'prestigio coperto' (per usare il termine di Trudgill 1972) di forme sentite come più tipicamente dialettali, con quindi, collegato al loro uso, un effetto di 'distanziamento' dalla lingua che cerca di fare da 'tetto'. In genere, dunque, ti sembra a modo suo essere una forma 'forte' che in condizioni di debole percezione delle sue connotazioni regionali (in parte stigmatizzanti, al di fuori della regione d'impiego) può addirittura sovrapporsi alle altre varianti regionali (ta e te), probabilmente in virtù anche del suo coincidere con la forma tonica del pronome (tì). La zona di maggiore variazione è però quella della terza persona singolare, e in particolare del maschile (il femminile la è gestito correttamente e senza problemi

219 Che si debba essere prudenti con il far coincidere innovatività e italianizzazione nelle varietà di nativi è stato sufficientemente dimostrato da Michele Moretti (1988) e Petrini (1988). Non sono infatti rari i casi in cui la variante dialettale innovativa presenta una distanza formale maggiore dalla corrispondente forma dell'italiano di quanto non faccia una variante 'arcaica'.

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fondamentali dai parlanti220). Le forme che si ritrovano sono primariamente al, u, e ul (di quest'ultimo ci siamo occupati precedentemente). Accanto a queste e ai casi di il (sia singolare che plurale) che abbiamo già visto, abbiamo alcune occorrenze di el, per le quali è però incerto se vadano analizzate come composte dalla congiunzione e e dall'allomorfo pronominale l. Se si escludono le occorrenze interpretabili in questo modo ne rimangono poche altre in cui la presenza di un altro connettivo fa pensare piuttosto ad un vero clitico soggetto el, come nell'esempio seguente:

però el s'acórcc che i è mia düü rami [”però si accorge che non sono due rami”]

Dobbiamo perciò supporre che questi parlanti abbiano colto usi effettivi di el221 nei nativi e riutilizzino questa forma in alternanza con le altre varianti, sostenuti probabilmente in questo sia dalla diffusione di el in dialetti non ticinesi (incontrati magari occasionalmente tramite rappresentazioni teatrali o canzoni dialettali), sia dalla forte corrispondenza a livello della vocale tra el il pronome italiano egli.

3.2.5.3.3. Variazione delle forme nei PE3 Com'era logico attendersi ritroviamo, amplificati quantitativamente, anche in questo gruppo tutti i fenomeni osservati precedentemente, e perciò non ritorneremo sugli stessi. Ancora una volta però il quadro delle categorie precedenti mostra un incremento della distanza qualitativa e non solo quantitativa rispetto alla lingua obiettivo con l'apparire di una nuova casistica. La variazione si concentra anche in brevissimi spazi e l'effetto di casualità aumenta notevolmente, con la conseguenza che rispetto ai parlanti precedenti, per i quali era possibile individuare una 'forma

220 Abbiamo visto in precedenza che i pochi casi di scambio apparente tra la e al che si ritrovano nei parlanti meno competenti non vanno interpretati come 'mancate distinzioni di genere' (cioè come se non avessero capito la relazione biunivoca tra la forma la ed il genere femminile, nei pronomi clitici soggetto), ma come problemi di marcatura del soggetto.

221 Per la distribuzione geografica di el, v. la cartina in VSI I.68.

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privilegiata', usata più frequentemente, e forme più rare, per i PE3 ciò diventa più difficile. Il settore in cui appaiono nuovi fenomeni è soprattutto quello della terza persona plurale, alla quale vengono estese anche le forme del singolare. Si hanno quindi comportamenti come il seguente:

l fiöö e l can al borla denta in da n stagno [”il bambino e il cane cadono dentro ad uno stagno”],

che fanno pensare ad una gerarchia in cui il numero è meno importante della persona, o dove comunque vi è estendibilità delle forme di terza singolare alla terza plurale. Su questo fenomeno possono da un lato aver inciso il fatto che sia in corrispondenza di forme di terza persona singolare che di terza plurale si può avere a (anche se nel primo caso si tratta di un pronome impersonale che si sostituisce al clitico soggetto cancellato e nel secondo caso si tratta di una forma di pronome soggetto che si alterna, in alcune regioni, con il più frequente i). Dall'altro lato i PE3 possono aver ripreso le condizioni di marcatura del francese, dove i due rispettivi pronomi sono omofoni. La deviazione è comunque forte perché dai parlanti nativi al è sentito come biunivocamente legato al singolare. Anche il gode di una maggiore frequenza in questi parlanti (sia con valore di singolare che di plurale). E stranamente questa forma appare più frequentemente in contesti in cui si ha un passaggio all'italiano, come ci si attenderebbe logicamente se il fosse un pronome di quest'ultima lingua, ma dato che non è il caso dobbiamo pensare o ad un double trouble phenomenon che 'mette assieme' l'italiano ed il francese, oppure ad un influsso dell'omofonia dell'articolo italiano il che renderebbe quest'ultima forma più attivata o più probabile che non altre che non hanno corrispondenti omofoni in italiano. Per casi come questo, qualunque sia l'interpretazione che se ne dà si deve senz'altro parlare di vera e propria ibridazione, anche se di un tipo molto particolare. L'altra zona peculiare riguarda la correlazione con forme verbali chiaramente sentite come veicolanti una marca di accordo con il soggetto, in corrispondenza delle quali perciò può scomparire il clitico soggetto oppure lo stesso può essere sostituito da a (che però può anche apparire accanto ad i nella sua funzione di particella pronominale; l'uso di a in queste posizioni non è di tutte le varianti regionali).

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In conclusione, si assiste ad un forte incremento della variazione per la terza persona plurale, dove per es. si possono trovare le seguenti soluzioni (tutte quelle proposte qui sotto sono fornite da due soli parlanti):

l fiöö e l can a cuntinua le ricerche [”il bambino e il cane continuano le ricerche”] l fiöö e l can Ø guarda in gir [”il bambino e il cane guardano in giro”] l fiöö e l can Ø ciapan sü un ramétt [”il bambino e il cane raccolgono un rametto”] l fiöö e l can Ø cércaa in gir per la sc-tanza ... i guardan fö dala finesc-tra [”il b. e il c. cercano in giro per la stanza ... guardano fuori dalla finestra”] l can e l fiöö a trövan la rana [”il c. e il b. trovano la rana”] i mè amis ai parlan sempro italian [”i miei amici parlano sempre italiano”] Il cerca da tütt le part, il trovan un buco nela tera222

[”cercano da tutte le parti, trovano un buco nella terra”]

Che talvolta queste forme verbali siano mediate dall'italiano tramite regole di corrispondenza fonologica è chiaramente mostrato, per il verbo "essere", dall'occorrenza di son (che non si ritrova nei dialetti della Svizzera italiana), formato sull'it. sono, per il corrispondente dialettale che usa la stessa forma verbale del singolare affidando la distinzione al clitico soggetto (i è, o forme simili). Son non compare praticamente mai con il clitico.

3.2.5.4. La terza persona plurale: clitici vs. marche sul verbo

Un problema a cavallo tra la morfologia verbale e l'uso dei pronomi soggetto è quello delle marche morfologiche sulla terza persona plurale. Nei nostri parlanti ritroviamo infatti alternanze di forme come le seguenti: i sentan, i vedan, i pensa, e l'interessante i dorma. Per un esempio di alternanza in uno spazio breve si veda il passaggio seguente:

222 Nel primo caso di quest’ultimo esempio potremmo pensare ad una struttura complessa Sogg. + Ogg., ma per il secondo ciò non è più possibile.

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e i ved vedan un tronco, un alber quaicòss .. e i sentan quaicòss, prubabilment .. rumur o quaicòss .. i pensa che l'è la rana prubabilmént ... e i guardan dietro a stu tronco [...] e alora i decidan daa .. da riprenda [”e vedono un tronco, un albero qualcosa .. e sentono qualcosa, probablmente .. un rumore o qualcosa .. pensano che sia la rana probablmente e guardano dietro a questo tronco .... e allora decidono di riprendere”]

E' tipico di questo gruppo di parlanti che le soluzioni si alternino ma non è comunque possibile osservare una chiara tendenza a preferire le marche morfologiche sul verbo ai pronomi soggetto. Ciò va in ultima analisi interpretato come un segnale del persistere, anche ai livelli più bassi di competenza, di una forza dei pronomi proclitici come marche di persona a scapito della marcatura diretta sul verbo che riproduce le condizioni dell'italiano. Se il vantaggio di questa seconda soluzione è soprattutto la sua vicinanza all'italiano e l'evitamento dell'uso dei clitici, essa è però d'altra parte in contrasto con l'uso dei pronomi atoni con le altre persone (che non posseggono marche disambiguanti sul verbo) e soprattutto non permette più di mantenere l'identità con le forme verbali di terza persona singolare, che si configurano così come forme di base. Quindi, se da un lato abbiamo i vantaggi interlinguistici (il suggerimento dell'italiano), dall'altro lato abbiamo il ragionamento analogico interno al dialetto (con un procedimento tipico della costruzione di interlingue), che dà maggiori garanzie di successo. Una preferenza per le marche proclitiche potrebbe anche esser dovuta ad una loro maggiore libertà e percettibilità (in quanto occupano la posizione davanti al verbo tipica delle forme libere).223

La forte variazione vista sopra, con il problema della scelta di quale soluzione adottare, deve essere attribuita probabilmente a fenomeni di richiamo e di uso della competenza nel discorso, oltre che ovviamente di incertezza sociolinguistica, mentre è probabile che i parlanti posseggano varie alternative di forma per lo stesso valore, come si vede anche dal fatto che si possono ritrovare forme alternative per lo stesso verbo nello stesso testo.

223 Le forme pronominali enclitiche di seconda persona singolare e plurale godono di buona fortuna nelle varietà di PE, soprattutto in quelle di coloro che provengono da regioni in cui le stesse sono presenti nei parlanti nativi (v. per esempio: sì, ma ta l sentat che l'è tedesc-ca).

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3.2.5.5. Il caso di ga obliquo nei PE Passando ai pronomi non soggetto, che grazie anche alla similarità con l'italiano sono fondamentalmente corretti, si deve notare la generalizzazione per la prima persona plurale accusativa e dativa di ga, che manifesta quindi la forza di questa tendenza anche nelle varietà di non nativi (per questa tendenza in varietà native, cfr. Spiess 1976):

la me mam .. l'ha parlaa italian224, opür lée la ga parlava tedésc-ch e nüm a risc-pundévum in italian. [”la mia mamma ... parlava italiano, oppure le ci parlava tedesco e noi rispondevamo in italiano”]

La spiegazione proposta da Spiess in termini di pressione dell'italiano (con l'istituzione di una corrispondenza tra ga e l'italiano ci, che a partire dalla comune funzione locativa si estende anche a quella di pronome personale225) è modificata

224 E' esterno al discorso che qui stiamo svolgendo ma non possiamo evitare un veloce accenno all'uso di un perfetto (l'ha parlaa italian) in luogo dell'imperfetto. Dato che si tratta di una parlante bilingue (come spiega l'esempio stesso) non è da escludere che si tratti di una difficoltà legata al tedesco (e corretta nella continuazione della frase), oppure, e non del tutto alternativamente, che abbiano giocato un certo ruolo fenomeni di difficoltà di gestione nell'esecuzione con problemi di pianificazione.

225 L'identità di ga dialettale e ci italiano è ben manifestata anche da usi come ga provum che traduce l'italiano ci proviamo, ma che in questa collocazione non appare tradizionalmente in dialetto, dove si direbbe piuttosto a provum (cioè "proviamo").

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da Vassere a favore di una spiegazione prevalentemente interna al sistema dialettale226. Per i nostri parlanti, ma anche per i parlanti nativi, è possibile che l'italiano giochi un ruolo importante più che nel proporre principalmente una corrispondenza tra ga e ci, nell'aver bloccato l'uso di ma con valore di plurale, una soluzione che tra le varie ambiguità possibili (ed inevitabili, dato che tutte le varianti, per la loro disambiguazione, richiedono aggiunte esplicitative) è differente da quella del sistema italiano. L'italiano potrebbe dunque aver suggerito uno 'schema di marcatura' in cui l'omofonia tra prima persona singolare e prima plurale è sentita come molto 'innaturale', spingendo così alla ricerca di un'altra soluzione (si veda anche che il fenomeno è nato e si è diffuso con la crescente italofonia delle giovani generazioni). Davanti alla doppia possibilità ma/ga i nostri soggetti avrebbero quindi adottato quella che si discosta meno dall'italiano (oltre ad essere probabilmente quella di una buona parte dei coetanei nativi). Per il resto il sistema dei pronomi sia tonici che atoni è ben gestito da tutti i nostri parlanti, con solo fenomeni marginali come per esempio la tendenza a mantenere le relazioni isomorfiche evitando i processi di adattamento morfofonologico. Un caso molto frequente è per es. quello del partitivo na che non subisce i normali fenomeni di adattamento che lo portano di solito alla forma n (con esisti nei PE come in ta na vörat vüna, "ne vuoi una"). Accanto al basilare principio di isomorfismo applicato da questi parlanti, si ha così anche il vantaggio di mantenere una maggiore identità tra il dialettale na e l'italiano ne, con una migliore trasparenza della loro relazione.

226 Più precisamente, Vassere (1993, 40) afferma: "Che le motivazioni della scelta di ga per questa nuova funzione vadano ricercate nel sistema di opposizioni sintattico-semantiche collegate all'uso di ga in dialetto e ci (oltre che gli) in italiano è fatto scontato; sembrerebbe non acquisito il fatto che questo particolare tipo di esito sia da ricondurre semplicemente ad una confusione, nel particolare trasferimento operato dai parlanti bilingui, tra funzione locativa (di stato in luogo) e funzione di dativo di prima persona plurale." E a p. 42: "L'estensione di questo nuovo ga complesso anche all'accusativo andrà registrata come nient'altro che la tendenza generalizzata all'adeguamento delle forme nei due casi e, in altri termini, all'eliminazione dell'opposizione di caso in determinate persone del paradigma. L'evoluzione di questo settore del paradigma potrebbe in questo senso incrementare il ruolo della spiegazione interna al sistema e l'interferenza con l'italiano [...] non rappresenterebbe che un fattore forse nemmeno necessario a questo tipo di evoluzione."

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3.2.5.6. Morfologia verbale La morfologia verbale dei parlanti più competenti (intendiamo qui sia i PE1 che i PE2) denota pochissime zone di insicurezza e corrisponde fondamentalmente a quella dei nativi. I problemi sono ovviamente legati ai verbi irregolari (soprattutto nelle loro forme meno frequenti) e a fenomeni strani di tentativi di corrispondenza mancata (che appaiono comunque in modo non sistematico). Così per esempio un PE2 presenta difficoltà nella costruzione della seconda persona plurale dell'imperfetto indicativo di "giocare" nonostante nella stessa frase (si tratta della reazione alla richiesta di tradurre: "quando eravate ragazzi giocavate a calcio?") poco prima abbia prodotto correttamente la forma corrispondente per il verbo "essere":

quand vialtri a séruf fiöö .. giügàva a calcc [kalt].. giügàva sì ["quando voi eravate bambini .. giocavate a calcio .. giocavate sì"]

I percorsi che possono portare a questo strano esito sono parecchi ed è difficile dire quale sia quello più realistico in relazione a questo parlante. A nostro parere potrebbe esserci in gioco un suggerimento italiano (giocavate) che fornisce il punto di partenza, al quale, con un'operazione di corrispondenza fonologica si prova a togliere la vocale finale (ritraendo conseguentemente l'accento). Questa operazione sarebbe bloccata dall'esito che si ottiene, omofono con la forma dialettale della seconda persona singolare (giügavat), dalla quale si cerca allora una differenziazione cancellando la consonante finale. Un certo ruolo potrebbe averlo giocato anche un incrocio con l’uso di cortesia italiano della forma di terza singolare. Questi fattori esplicativi potrebbero aver agito non sequenzialmente ma in parallelo, rinforzandosi l'un l'altro e incrementando così la forza dell'esito in direzione di una specie di 'minimo comun denominatore'. Al di là di queste ipotesi, quello che conta di più a nostro parere è la non applicazione di un ragionamento esclusivamente morfologico interno alle regole dialettali che questo parlante pur conosce (e che forse è alla base della sua insicurezza sull’esito ottenuto). Sempre per l’imperfetto, è frequente nei PE2 ed anche nei PE1 la difficoltà con le forme del verbo "essere" (difficoltà attendibile, data la differenza delle basi). Per es. la seconda persona plurale viene costruita talvolta su una base ricavata

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probabilmente dalla terza persona singolare (lü l'era; che è anche più vicina alla base italiana) combinata con la marca di seconda persona plurale del presente indicativo (vuialtri a sii), arrivando così all'esito quan che erii. Oppure, in un altro caso, si ha l'esito saévruv, che mostra un incrocio tra forme come sévuf e séruf (ambedue presenti nei dialetti della Svizzera italiana227), con qualche problema relativo alla vocale della base. Infine, un'ultima possibilità (in una PE1) è quella dell'evitamento del problema con un'operazione di sostituzione alternativa dell'imperfetto con forme del presente: quan che see .. sii fiöö a giüghìì al balon. La forte variazione nelle soluzioni è da ricondurre probabilmente all'uso solo passivo che queste persone hanno finora fatto del dialetto. Questi brevi esempi, d'altra parte, mostrano i procedimenti che caratterizzano la produzione della morfologia verbale di parlanti competenti, con essenzialmente un contributo contemporaneo delle loro conoscenze 'intrasistemiche' dialettali e di un apparato intersistemico che suggerisce e verifica gli esiti sulla base dei suggerimenti provenienti dall'italiano e dalle regolarità che intercorrono tra le forme delle due lingue. 'L'irregolarità' che crea difficoltà è quindi di due tipi: o interna al paradigma dialettale (la cui incidenza tende ad essere relativa alla frequenza delle singole forme), o relativa al confronto interlinguistico, a causa di zone di divergenza tra le lingue in gioco con scarsa prevedibilità degli esiti nel passaggio da una lingua all'altra. Queste sono infatti le fonti di evidenza sulle quali i parlanti fondano le loro ipotesi dialettali e qualora si abbia 'irregolarità' nei due sensi (in forme poco frequenti, e quindi poco apprese dal contatto con l'input) si possono avere esiti peculiari nelle interlingue. Si noti, infine, che questi parlanti possono produrre anche forme complesse che non sono completamente ricavabili dall'italiano, come per es. quelle del condizionale (in una PE2 per es. si ritrova lü al vöraress, "lui vorrebbe") o del congiuntivo (in un'altro PE2 abbiamo s'el füdess resc-taa in ca' a parlaressi anca mì dialett, che si alterna a s'el fossa mia inscì facil a oseressi mia parlal, dove la seconda variante è più vicina all’italiano, pur se occorre anche in nativi, ma la prima è unicamente dialettale).

227 E l'alternanza tra [r] e [v] in questo contesto è talvolta compresente nello stesso discorso dello stesso parlante a breve distanza. Si veda l'es. riportato da Petrini (1988, 209) "di un sessantenne che parla un dialetto urbano sottocenerino di 'koiné'": "l'eva quell chi la tegniva da öcc püssee perchè i pensavan che l'era lüü l'incaricaa).

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Ancora una volta, per i PE3 il quadro muta notevolmente, dato che la loro morfologia si fonda essenzialmente su un minimo di morfologia verbale dialettale (che viene in grande parte sovraestesa, con forti neutralizzazioni rispetto alla lingua obiettivo) e su un forte uso di regole di corrispondenza (soprattutto fonologiche) che permettono di passare dalle forme italiane a quelle dialettali. Mentre per i parlanti più competenti l'italiano costituiva più che altro un sussidio alla memorizzazione e al recupero ed il suo uso si affiancava ad un buon dispositivo morfologico dialettale, si ha nei PE3 un procedimento che opera 'dall'interno' del dialetto ed un procedimento che opera 'dall'esterno' (costruendo soprattutto sull'italiano). Accanto a queste due tendenze vi sono infine le forme apprese correttamente dall'input, che di solito sono tra le più frequenti e usate e quindi facilmente percepibili e memorizzabili nel loro valore appropriato. Pensiamo per quest'ultimo caso per es. a al dis, "dice", al végn, "viene", ecc. Le difficoltà principali riguardano la marcatura delle persone, e principalmente della terza persona singolare, ma da lì si possono però allargare anche ad altre persone. Le corrispondenze operano ad un livello molto basso di processazione morfologica, e, come abbiamo già anticipato, operano soprattutto sul livello fonologico. Alcune forme verbali vengono costruite morfologicamente in italiano (a partire da basi italiane e con regole morfologiche italiane) e adattate fonologicamente al dialetto. Si tratta quindi di procedimenti che mettono in corrispondenza tra loro singoli fonemi piuttosto che morfemi e agiscono sulle forme italiane declinate. La regola di corrispondenza con cui si ha più a che fare qui è logicamente quella della vocale finale, che dà esiti tipicamente non dialettali per un parlante nativo, come per es. al prénd (dove il dialetto utilizza un'altra base e direbbe perciò al ciapa), i parl tücc dialètt, al sa vèsc-t228, o, per esempi della prima persona singolare (per la quale l'origine etimologica, attraverso un pronome enclitico, potrebbe far prevedere un uso precoce della forma), a parl più italian, a

228 El vien si basa sullo stesso procedimento e mostra come la forma dialettale sia costruita a partire dalla corrispondente forma italiana (egli viene) e non da una forma di base dialettale (che darebbe vegn). Il problema non riguarda dunque la cancellazione della vocale finale, che di per sé qui sarebbe appropriata, ma mostra comunque come questo procedimento venga applicato a basi (morfologizzate) italiane. Al di là dei possibili input dialettali di nativi questo contesto fa nascere anche il sospetto che el sia una versione 'intermedia' tra le altre forme più frequenti dei pronomi soggetto dialettali (pensiamo soprattutto ad al) e l'italiano egli), dove il dialetto fornisce lo schema sillabico e di parola e l'italiano lo riempie con il fonema vocalico.

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mett229, o, per la seconda plurale, eravat230. Il caso di truv (in al can truv nel sc-tess mument, o con valore di plurale i l truv mia) può essere stato sostenuto anche dal francese e si alterna, nella parlante che lo produce, con truva (per es. el sa truva ...). A volte i PE3 decidono di non adattare fonologicamente il verbo utilizzando la forma italiana, come per es. in al cade. Sarebbe interessante capire il meccanismo che blocca così l'applicazione delle regole di corrispondenza fonologica. Presumibilmente vi è la percezione nel parlante dell'uso da parte del dialetto di un'altra base verbale (borlà giò) e quindi la forma italiana, proprio perché sentita come non dialettale, non si presta ad essere dialettizzata. L'applicazione delle regole di corrispondenza sarebbe allora controllata anche da due principi di 'dialettalizzabilità': da un lato le forme italiane (le forme di partenza) devono essere sentite come 'non suppletive', cioè come possibili basi dialettali; dall'altro lato, se manca questa precondizione è preferibile un esito chiaramente italiano ad un ibrido dialettale. I nostri parlanti preferiscono quindi forme di commutazione di codice alla produzione di esiti potenzialmente non esistenti in dialetto. Come abbiamo visto, una restrizione di questo tipo, legata soprattutto al ridicolo con cui vengono sanzionate le forme inesistenti o non possibili (in quanto 'bloccate' dall'esistenza di una forma suppletiva) è attiva anche tra i parlanti nativi e spinge nella direzione di un atteggiamento (generale) del tipo: "meglio non parlare che parlare male" (rimane però da capire perché si possano produrre forme come al prend, bloccando invece al cad). Ancora una volta quindi un filtro lessicale misto (italiano-dialetto), fondato su forme attivabili con gradi differenti, controllerebbe gli esiti costruiti dal basso, ma proprio la sua caratteristica di contenere forme possedute in gradi differenti, o attivabili in modi differenti (come per es. tipicamente in persone che abbiano

229 In casi come i parl per "parlano", di morfologia dialettale non rimarrebbe veramente molto se non fosse per la presenza del clitico soggetto. La tendenza a risolvere le ambiguità con un maggiore affidamento ai clitici (con quindi un effettivo distanziamento dalle strategie dell'italiano) è stata notata anche in un esperimento fatto con bambini da Vigliocco e Fava (1993).

230 Una matrice mista sarà quella che motiva la forma di seconda persona plurale dell'imperfetto sevat ("eravate"), da un lato si può pensare ad una neutralizzazione del numero con la trasposizione della forma della seconda persona singolare, dall'altro lato vi può essere una corrispondenza sentita tra -ate italiano e uno pseudo-dialettale -at (ricavato per cancellazione della vocale finale).

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esercitato unicamente la competenza passiva, solo attraverso un sussidio della forma fonologica), farebbe sì che non tutto viene bloccato e che una parte del blocco sia probabilistica. Spesso si partirebbe allora da una 'base' italiana che può evocare per vicinanza fonologica il corrispondente dialettale sul quale si costruisce la forma morfologica e fonologica dialettale, ma se il potenziale corrispondente dialettale viene bloccato dal suo non essere sentito come una parola possibile dialettale allora o si mantiene la parola italiana o si ricerca un'altra soluzione. Che una forma italiana, attivata per prima, possa condizionare la ricerca della parola dialettale e bloccare altre possibili alternative lessicali più adeguate (e conosciute al parlante che le usa altrove) si vede da esempi come il chiede qualcosa, dove la base ricavata da chiede non dà un esito dialettizzabile e quindi si utilizza direttamente la forma italiana. L'attivazione di chiedere è legata senz'altro al contesto italiano del resto della frase, con lo strano clitico pseudo-dialettale il che suona probabilmente più italiano (v. sopra per la discussione di il), ma proprio l'attivazione di chiedere blocca quella di domandare che darebbe un esito dialettale corretto (al dumànda). Per quanto riguarda la sovraestensione di regole dialettali, il fenomeno che emerge su tutti gli altri è il dominio di -a come tipica forma della terza persona. L'origine è probabilmente motivata in modi differenti che concorrono a creare lo stesso risultato. Si deve considerare sia la tendenza a generalizzare le forme dei verbi in -à (cantà, saltà, mangià, ecc.), sia il fatto che la vocale -a è quella più regolarmente conservata in finale di parola, sia il sostegno della forma di terza persona plurale con il morfema -an (i cantan, i saltan, i mangian, ecc.), che, in alcune varietà regionali, viene estesa anche a verbi non appartenenti alla prima coniugazione (v. per es. i disan, i credan) permettendo di reinterpretare diagrammaticamente come marca del plurale la sola -n. Ne risultano forme di interlingua come per es. al disa ("dice"), non capissa, ("non capisce"), el can se diverta a giugà ("il cane si diverte a giocare"), al perda l'equilibr ("perde l'equilibrio"), al conossa ("conosce"), el sa vesc-ta ("si veste"), ma anche i legia ("leggono"), i disa ("dicono"), ecc. La -a tende ad estendersi dalla terza persona singolare anche ad altre persone, come per es. alla seconda: cfr. apra la porta e azenda la lüüs. Questo sostiene l'ipotesi che -a sia la tipica vocale finale dialettale, che si ritrova quindi anche nei casi di difficoltà con il nesso consonantico finale. In apra, per es., avremmo un doppio passaggio con dapprima la cancellazione della vocale finale

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dalla forma italiana e poi la risoluzione del nesso problematico con l'appoggio della nuova vocale finale, secondo la trafila apri -> apr -> apra. Questi due passaggi mostrano il movimento dei parlanti tra due procedimenti strategici di costruzione delle forme dell'interlingue (o di ricostruzioni di conoscenze non direttamente attivabili): nel primo momento si procede dall'italiano con adattamenti fonologici e nel secondo momento si sovraestende un procedimento morfologico facilmente percepibile ad altri casi in cui lo stesso non vale. L'autonomia d'azione di questi procedimenti è mostrata dal fatto che talvolta l'uso del procedimento strategico inverso rispetto a quello che i parlanti utilizzano darebbe un esito effettivamente corretto. Per es. il parlante che produce al disa con la regola della caduta della vocale finale sarebbe arrivato correttamente a al dis, mentre chi dice al guard se avesse applicato la generalizzazione di -a di terza persona avrebbe correttamente prodotto al guarda. Il quadro qui presentato è reso ancora più complesso dall'alta variabilità di comportamento dei PE3, che possono alternare a breve distanza forme dovute a strategie differenti, come per es. al parl, al parla, e, sempre nello stesso parlante, nessuno l parle (forse un tentativo di 'ridurre' la -a dell'italiano ad una versione più debole o addirittura ad una vocale indistinta). In conclusione, il settore in cui i parlanti di questa categoria tendono ad allontanarsi maggiormente dalla lingua obiettivo è quello della marcatura delle persone del verbo, dove, a differenza di altre zone della morfologia verbale, l'istituzione di corrispondenze precise con l'italiano è più problematica. Una delle loro reazioni è quella di affidarsi alla corrispondenza fonologica, che sostiene la macroregola della mancanza di vocale finale in dialetto, tenuto conto dell'impossibilità di marcare le persone come in italiano e forse con il sussidio dei pronomi proclitici soggetto, che con la loro presenza rendono parzialmente superflua la marcatura dell'accordo sulla forma verbale (e specialmente alla terza persona singolare dove la loro presenza è più forte anche nelle interlingue). Dall'altro lato abbiamo detto che essi costruiscono secondo linee morfologiche interne. Ma se teniamo ora conto del fatto che la vocale finale -a nei dialetti ticinesi è l'unica vocale finale che si sia mantenuta sistematicamente, ci possiamo chiedere se tutto questo settore della morfologia dei PE3 non sia controllato principalmente dalle regole fonologiche di corrispondenza, dato che l'alternativa primaria di marcatura delle persone verbali (il settore della morfologia verbale in cui le due lingue in gioco si distinguono maggiormente) si pone tra l'assenza di vocale finale e la presenza di -a, con la tendenza di queste due alternative a sovrapporsi alle forme

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native. Da questo punto di vista quindi la morfologia verbale di queste interlingue tende ad essere primariamente italiana, con adattamenti alla forma fonologica dialettale fondati sulla probabilità di quale sia la vocale finale etimologica e con l'estensione di -a attraverso le coniugazioni e, in parte, attraverso le persone.

3.2.5.6.1. L'imperfetto di "avere" e "essere" A partire dalla categoria dei PE2 notiamo il riassestamento (comunque caratterizzato da variabilità) delle forme dell'imperfetto con l'era per la terza persona singolare del verbo "essere" ("era"), che si divide però il campo con gh'eva ("c'era"; con un processo che porta quindi c'è, c'era a specializzarsi anche a livello formale, con forme suppletive, distaccandosi in parte dal verbo essere). Sorprendentemente ciò porta ad un avvicinamento ad "avere" (non ausiliare), che per la stessa persona ha la forma al gh'eva ("aveva"; nei materiali figura, per un doppio esempio nella stessa frase,"a gh'evi l'impression che l giüdizi al gh'eva"). La forma prevalente per "avere" come ausiliare, alla stessa persona, è l'aveva. Questa tendenza segnala quindi un avvicinamento, almeno nel contesto molto particolare della terza persona singolare, di "esserci" e "averci", che si allontanano in questo modo da "essere" e "avere"231. Talvolta questo avvicinamento è risolto con l'adozione di aveva per "avere", che ridà così omogeneità alle forme di questo verbo (con rispettivamente l'aveva e al gh'aveva). Nei PE3 appaiono, accanto al mantenimento delle forme italiane, esiti più 'liberi' rispetto alla lingua obiettivo come per es. veva, costruito su aveva con un tentativo di dialettizzazione232. Talvolta il mantenimento della forma italiana risente comunque dei problemi tipici del dialetto. Per esempio nella frase una class che l'aveva tanti sc-vizer tedesc-ch (letteralmente "una classe che aveva tanti svizzeri tedeschi"), il valore è piuttosto quello di "essere", cioè "una classe dove c'erano tanti svizzeri tedeschi", con la difficoltà di distinguere "essere" e "avere" in dialetto che si

231 Sulle soluzioni di koinè in Ticino riguardo a questo settore del sistema cfr. Petrini (1988, 207-212).

232 Per un altro esempio di ricerca questa volta più staccata dall'italiano, che manifesta però la difficoltà di tener separate le forme di "avere" e "essere" (e nel contempo la difficoltà legata alla presenza dell'avverbio, di cui parleremo tra poco) v. il seguente enunciato: quan che gh'evo, evo, ero, evo lì ai córs.

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ripercuote sulle soluzioni italiane. Un caso simile è quello di a parte ch'eva più femmine che masch [mask], che può voler dire sia "che erano più femmine che maschi", sia "che aveva più femmine che maschi" (con come soggetto "il gruppo teatrale" di cui si sta parlando). In queste situazioni non è forse da escludere l'ipotesi di un influsso del francese, che è tra l'altro testimoniato da un paio di occorrenze di il y a, e di il y avait:

e l'è tütt cunténcc [kun’tent] perché el truv chee .. il y a son .. oddio son picolétt [”ed è tutto contento perché trova che ...c’è il suo .. oddio il suo piccoletto”]

L'oddio del parlante segnala la consapevolezza di aver usato un'espressione francese, ma son, che ha la stessa matrice, non viene corretto dopo questa parentesi metalinguistica. Può darsi che in altri casi il francese abbia fatto preferire, come più dialettali, forme di "avere" con questa funzione che in italiano e in dialetto è resa da forme di "essere". In generale la tendenza che predomina è quella di estendere le forme di "avere" anche ai contesti di "essere" (secondo un principio che sembra rendere il primo meno marcato come ausiliare), con il nascere di forme più esplicite, riprese dall'italiano, che distinguano "avere" dalle nuove forme di "essere".

3.2.5.6.2. "Avere" come ausiliare o come forma autonoma Di portata superiore al solo uso all'imperfetto è un altro fenomeno che emerge nei PE2, che si ritrova in modo importante nei PE3 e che discuteremo più approfonditamente in relazione alla varietà dei bambini nativi. Si tratta della tendenza a fissare l'avverbio su tutte le forme del verbo "avere", indipendentemente dal fatto che queste ultime abbiano un ruolo di ausiliare (dove l'avverbio non ci vorrebbe) o meno. Abbiamo così casi come il seguente:

la m'ha dii al telefon che la la gh'aveva visc-ta

La traduzione parola per parola dovrebbe essere all'incirca:

"(lei) mi ha detto al telefono che (lei) la c'aveva vista"

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La presenza di un pronome che rappresenta l'oggetto diretto esclude del tutto che si tratti di un ga obliquo sovraesteso all'oggetto diretto233 e quindi questo caso, come altri dello stesso tipo, va avvicinato ad uno dei fenomeni più forti che abbiamo potuto ritrovare nelle varietà dei bambini, e cioè la tendenza alla generalizzazione del verbo averci234. Già in una PE1 abbiamo la m'ha dii che l avera la gh'era visc-ta, dove l'incertezza sulla forma dell'imperfetto si incrocia con la difficoltà a staccare l'avverbio da "avere" in contesti di ausiliare. Quindi sia nei bambini nativi che nei PE (già nei PE1 come traccia, e nei PE3 in modo importante) c'è una forte tendenza ad usare la forma non ausiliare ("averci") anche per l'ausiliare, con esiti come al gh’o visc-t, aiutati probabilmente dall'omofonia che si può creare con frasi come a gh’o dai la machina ("gli ho dato la macchina"), dove però non abbiamo un avverbio ma un clitico235. Non è da escludere che i bambini si liberino di questo tratto nel corso dell'apprendimento (la registrazione più tarda che ne abbiamo è comunque in un bambino di dieci anni, dove figura molto frequentemente), ma d'altro canto si tratta di un importante segnale di ristrutturazione che emerge sia tra di essi che tra i nostri PE meno competenti, e che quindi ci mostra come alcuni dei fenomeni ritrovabili nelle varietà di questi ultimi potrebbero anche svilupparsi come linee di ristrutturazione nel dialetto di domani. La tendenza a fissare l'avverbio sul verbo si ritrova in misura molto meno forte anche con 'essere' (dove, nelle varietà native, se non c'è l'avverbio c'è un clitico soggetto), ma ci si può chiedere fino a che punto si tratti veramente della riduzione ad un'unica forma gh'è o se piuttosto non si abbia a che fare con un caso di 'sovraestensione' di c'è (gh'è, appunto) a valori esistenziali-locativi.

Al can a gh'è sul lécc [”il cane è sul letto”; lett. ”il cane c’è sul letto”]

233 Nei PE3, ma non nei bambini, l'avverbio sembra poter assumere talvolta la posizione dell'oggetto, come in a gh’o mia visc-t, per "non l'ho visto", ma questo è da ritenere un effetto secondario dato dalla mancanza del pronome oggetto.

234 Sulla tendenza corrispondente nel 'neo-standard' italiano cfr. Berruto (1987a, 76). Il fenomeno è ben noto nell'italiano popolare Cortelazzo (1972, 89).

235 L'ipotesi che si abbia un clitico 'oggetto' gh anche in casi come a l gh’o visc-t è ancora una volta esclusa dal fatto che abbiamo già, accanto al clitico soggetto a, il clitico oggetto l.

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Quest'ultima ipotesi è sostenuta dal fatto che occorrenze di questo tipo si ritrovano di solito in contesti 'presentativi', o di elencazioni descrittive di quello che si trova nelle vignette usate per l'elicitazione della storiella. Al di là delle varie possibilità, essi costituiscono comunque situazioni di scambi tra pronomi soggetto e avverbi.

3.2.5.6.3. Il participio Per quanto riguarda la forma dei participi in -ATU, che in tutti i parlanti presentano soluzioni variabili (si veda per es.: l gufo l'è rabiò, detto da una parlante che di solito ha participi in -aa o in -at), tendono a prevalere le forme in -aa, che sono in una relazione più facile con i corrispondenti italiani. Al calare della competenza aumentano però anche i participi formalmente ancora più vicini all'italiano come per es. mangiaat, e nei PE3 si ritrovano alcune generalizzazioni errate della corrispondenza tra l'italiano -ato e il dialettale -aa. Così si ha per esempio l'è naa per "è nato" (in luogo di l'è nassüü)236. La quasi omofonia tra infinito e participio può portare, nei parlanti meno competenti, a scambi tra le loro forme, come per es. nell'uso di nai per nà, e sc-tai per sc-tà (ero ben cuntento da nai là). La difficoltà nel distinguere deriva dal fatto che tipicamente nei verbi regolari della prima coniugazione la differenza risiede spesso unicamente nella lunghezza vocalica237 (per es. per "cantare" si ha cantà, e per "ha cantato" si ha l ha cantaa). Ma nà è irregolare ed ha nai al participio (lo stesso vale per sc-tà). La direzione dello scambio è probabilmente dovuta alla maggiore frequenza del participio (per es. nel passato prossimo). A volte la distanza tra la lingua obiettivo e l'interlingua è notevole e si assiste ad uno 'slegamento' parziale tra le due che porta ad esiti come il seguente (che cerca di tradurre la frase italiana "ci hanno dato una mela"):

236 Per forme come questa si potrebbero anche postulare costruzioni analogiche su forme regionali come u daa "ho dato" (che nel Mendrisiotto si alterna a u dai; cfr. Lurà 1987, 193).

237 In molti PE questa distinzione non viene percepita e quindi nemmeno realizzata, creando così una neutralizzazione.

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Mi dai una mela ... plurale non lo so ... ci ha daas una mela238

[”Ci hanno dato una mela”]

Vale la pena di notare che le realizzazioni dialettizzate di forme irregolari italiane che non coincidano con le soluzioni dialettali effettive sono rarissime, come se l'irregolarità dell'italiano potesse 'bloccare' la dialettalizzabilità di queste forme, favorendo piuttosto soluzioni regolari interne, che si fondano o su suggerimenti lessicali o su procedimenti regolari di formazione, come per es. in curüüt ("corso") e vedüüt ("visto"). Qui la minore irregolarità dei paradigmi verbali dialettali rispetto a quelli italiani facilita senz'altro i non nativi, facendogli preferire soluzioni in contrasto con l'italiano ma più regolari all'interno del sistema obiettivo.

3.2.5.7. Morfologia nominale

3.2.5.7.1. Gli articoli Anche in parlanti molto competenti si nota un'alta variabilità di alternative nelle forme degli articoli determinativi maschili singolari239. Si tratta di un fenomeno simile a quello già osservato per le forme dei pronomi clitici, e che, come quest'ultimo, ricorda nella sua matrice quanto vedremo in seguito avvenire per alcune zone del lessico. Le forme di articoli che si alternano sono, accanto al più frequente e diffuso al, il quasi altrettanto frequente ul (con il loro allomorfo l) e alcune occorrenze sporadiche della forma il di chiara ispirazione italiana. La ben nota tendenza, osservata per esempio nelle interlingue italiane, ad eliminare l'allomorfia si nota talvolta anche nei nostri parlanti (cfr. per es. ul om, invece di l om), ma la variazione tra le forme sopraindicate non va invece interpretata come un fenomeno di allomorfia quanto piuttosto come una variazione sociolinguistica che si ripercuote sulle interlingue e che fa muovere i soggetti tra le varie alternative possibili alla ricerca di quella più appropriata (quella sentita come più dialettale) o di quella più comoda da usare (per es. perché più vicina all'italiano). Non si tratta

238 La ragione di queste forme (dai e das) vanno probabilmente ricercate in un tentativo molto approssimativo di realizzare una soluzione 'ridotta' dell'italiano dato cercando di attenuare foneticamente la t diventata finale per la caduta della vocale.

239 Ancora una volta il settore, all'interno del sistema degli articoli, che più si distanzia dall'italiano.

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quindi di forme correlate tra loro la cui scelta è governata dalle tipiche condizioni che governano l'allomorfia, ma di fenomeni di variazione dovuti al movimento sul continuum, o sui continua, che caratterizzano queste varietà di apprendimento240. Infine come è tipico in interlingue poco avanzate, ma come è più strano qui data la vicinanza dei sistemi in gioco, si trovano casi di cancellazioni di articoli, a volte sostenuti dall'italiano, come in léé l'è tò sorèla? (di un PE2)241, ma a volte in chiaro contrasto anche con l'italiano, come nei PE3 che fanno riferimento al protagonista della storia.

e fiöö al sc-capa [”e il bambino scappa”] Tüsan grida denta a ün böcc di na talpa [”Il bambino grida dentro ad un buco di una talpa”] tüsan salta sü un sass e al grida ammò ala rana [”il bambino salta su un sasso e chiama ancora la rana”]

Si tratta di un fenomeno molto sorprendente che non sarebbe stato prevedibile a priori in virtù della somiglianza formale e funzionale tra il sistema italiano e quello dialettale242. Ci troviamo perciò di fronte ad un fenomeno semplificativo o di backsliding, che ci deve far riflettere sulle ragioni che lo motivano.

240 La compresenza di forme differenti è stata rilevata anche dall'indagine di Ceccarelli (1993, 134), che si è occupata del dialetto di immigrati della Svizzera italiana negli Stati Uniti: "... troviamo al accanto a ul, e al accanto a el." L'autrice non segnala usi di il. Petrini (1988, 196, n. 1), che rileva l'uso, autoctono, di il a Cavigliano, nota la compresenza frequente di forme innovative accanto a quelle tradizionali dei singoli luoghi.

241 Mentre per i dialettofoni nativi fino a qualche anno fa era normale riportare in italiano le condizioni del dialetto, questi ticinesi italofoni nativi hanno assimilato le regole dell'italiano 'standard' (e probabilmente anche il loro valore sociolinguistico di fronte alle scelte regionali stigmatizzate) e a loro volta le riportano in dialetto. Questo si ritrova nei nostri materiali a volte anche con nomi propri, con un iper-correttismo rispetto all'italiano regionale ticinese, che presenta nell'uso dell'articolo con il nome proprio uno dei tratti forti di differenziazione rispetto a molti italiani d'Italia.

242 Si veda anche quanto osservato da Schmid (1994) sull'italiano come L2 di spagnoli, dove accanto a forme 'ispanizzanti' si ritrovano pure cancellazioni, attribuite però da Schmid all'input e concentrate soprattutto in zone problematiche o divergenti del sistema.

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L'unica soluzione alla quale possiamo arrivare è che la difficoltà di comunicare il messaggio in una lingua poco padroneggiata spinge ad una concentrazione sulle parole piene, in modo simile allo stile telegrafico, anche quando le condizioni di partenza sono più che favorevoli e quando sussistono chiare evidenze del possesso del sistema degli articoli determinativi. Talvolta è possibile trovare una correlazione tra forma dell'articolo e forma del clitico, con un'attrazione che potrebbe vagamente ricordare se non proprio fenomeni di armonia vocalica (con la selezione coerente della stessa vocale) almeno un'interferenza tra articoli e pronomi nel richiamo della forma corretta, o, volendo presupporre la ricerca di coerenza sociolinguistica, una co-attivazione di zone delimitate del continuum che provoca una omogeneizzazione delle forme di articoli e clitici soggetto, in base al presupposto che, per es., una varietà che abbia come articolo ul abbia anche coerentemente ul come pronome soggetto, e che la co-selezione di queste forme dia un carattere maggiormente dialettale al discorso che non la co-selezione dell'articolo italiano il e dello pseudo-pronome clitico il.

al can al fa cadee al nicc da vesc-pa [”il cane fa cadere un ‘nido’ di vespe”] ul piculétt ul ciama la so rana [”il piccoletto chiama la sua rana”] el can el giüga cui api [”il cane gioca con le api”] il fiöö il dis al can de stà tranquil [”il bambino dice al cane di stare tranquillo”]

Accanto a queste co-occorrenze abbiamo però anche casi incrociati, in cui la forma dell'articolo non è omofona con quella del clitico soggetto. Ma la ventina di casi coerenti che abbiamo (togliendo le occorrenze, molto più numerose, di al articolo con al clitico, che rappresentano più della metà dei casi complessivi) delle due forme e la creazione del 'neo-pronome' ul (per il quale si può ipotizzare un influsso anche dell'articolo omofono) sono a nostro parere sufficienti per suggerire l'ipotesi di un'azione della forma già attivata (o dell'articolo o del clitico) sulla forma ancora da attivare, con da un lato quindi l'influsso di fenomeni formali sul richiamo (al di là dei confini categoriali) e dall'altro lato la tendenza alla costituzione di

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corrispondenze fonologiche 'vaghe' tra italiano e dialetto, che si slegano parzialmente dalle categorie grammaticali strette. Quindi un doppio richiamo basato sulla forma, sia interno dialettale che extralinguistico con l'influsso dell'italiano. La selezione progressiva ottiene così sufficienti conferme da permettere l'uso anche di forme mai sentite prima in dialetto. L'ipotesi di una correlazione tra l'articolo il e l'attivazione di condizioni più vicine al polo dell'italiano è sostenuta anche dal co-occorrere del primo con la mancanza del clitico soggetto, come in:

Il can salta sü süla bocia dal fiöö ["il cane salta su sulla testa del bambino"]

anche se, pure in questo caso, le condizioni sono molto lontane dalla categoricità; v. per es.:

il can al deva sc-capaa [”il cane deve scappare”]

Un fenomeno ancora più strano ma che deve avere la sua origine nella stessa matrice riguarda la coincidenza talvolta della cancellazione del clitico soggetto e dell'articolo (si vedano gli esempi citati in precedenza di cancellazione dell'articolo). In un settore molto vicino a quello dell'articolo dobbiamo notare in questi parlanti una tendenza alla sovrautilizzazione del partitivo (o del cosiddetto articolo indefinito plurale; per l'italiano cfr. Renzi 1988). Ciò è senz'altro da interpretare come un segnale di insicurezza linguistica, in virtù delle funzioni pragmatiche, qui di attenuazione, che questo strumento tende prioritariamente ad assumere (e che fa

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sì, tra l'altro, che esso venga impiegato in quantità molto più rilevante nel parlato che nello scritto; sempre per l'italiano cfr. Aeschlimann 1995243). Un sovrauso nel dialetto, e nelle nostre varietà, potrebbe perciò, in ultima analisi, essere collegato sia a problemi di insicurezza e a necessità di modalizzazione collegati alla situazione di intervista in cui i parlanti si trovano, sia a problemi di insicurezza relativi alla marcatura della definitezza, un settore in cui, come abbiamo visto non vi è sempre concordanza tra italiano e dialetto. L'insicurezza, così come le pressioni tipiche del parlato rispetto allo scritto spingerebbero allora ad una ristrutturazione del sistema, con un passaggio ad una maggiore attenzione alla specificità (l'essere noto al parlante) che non alla definitezza (l'essere noto all'ascoltatore), coerentemente con la gerarchia di sviluppo proposta per esempio da Bickerton (1981).

3.2.5.7.2. Il genere nei numerali Sempre a livello di morfologia del sintagma nominale e di accordo compare uno dei fenomeni più sorprendenti per l'orecchio del parlante nativo, e cioè la difficoltà, già nei PE1, a marcare correttamente il genere soprattutto sul numerale "due". A differenza dell'italiano il dialetto conosce l'accordo non solo per "uno", ma anche per "due" e per "tre". Mentre l'accordo per quest'ultimo valore è risolto dai PE in modo 'classico' con una neutralizzazione della distinzione e l'uso generalizzato

243 Rispetto a Aeschlimann (1995), che considera la funzione dell'articolo partitivo come soprattutto 'enfatica', riteniamo che essa possa essere anche attenuativa, o che addirittura l'articolo partitivo vada considerato più generalmente uno strumento di 'modalizzazione' che può variare nel valore a seconda dei contesti d'impiego. Riteniamo inoltre che questo uso 'pragmatico' discenda, coerentemente con l'ipotesi di Renzi (1988), da una tendenza a caratterizzare per maggiore valore semantico di specificità l'articolo partitivo rispetto a ø. Questa specificità rinforza la connessione tra il parlante ed il referente di cui si sta parlando e per questo fatto nasce un effetto di modulazione (dovuto alla maggiore presenza del parlante), che, qualora rinforzi il carattere di 'datità', può avere valore enfatico, ma se invece ha l'effetto principale di ridurre l'insieme dei referenti possibili a quegli unici rappresentanti ben noti al parlante, rappresenta allora una attenuazione della generalizzabilità dell'affermazione del parlante stesso e manifesta perciò il carattere 'più prudente' (evidenzialmente) della sua proposizione. La variazione pragmatica si fonda quindi sulla tendenza ben colta da Renzi a specializzare il contrasto tra dei e ø come un contrasto tra [-Definito, +Specifico] vs. [-Definito, -Specifico].

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della forma maschile anche per il femminile (v. per es. tri oman - tri donn, "tre uomini - tre donne"244), per "due" abbiamo casi come i seguenti, in cui la forma del femminile viene usata per referenti maschili (o 'non femminili', nel senso che ha valore di forma non marcata):

i dó i casc-ca (riferito al cane e al bambino) [”i due cascano”] e l can ul .. seguiss ... i dó (riferito al bambino e al cervo) ["e il cane segue i due"]

La necessità della marcatura del genere sui numerali in dialetto è probabilmente correlata ad usi pronominali di questi ultimi, dato che a differenza dell'italiano il genere non sarebbe altrimenti segnalato perché il dialetto conosce un unico articolo determinativo plurale sia per il femminile che per il maschile. Inoltre (spesso) il dialetto non marca per il genere, al plurale, neanche gli aggettivi (che sono invece marcati in italiano) e la marcatura è lasciata al nome. Posti esplicitamente davanti alla problematica dell'accordo del numerale i nostri intervistati (anche i più competenti) si sono mostrati stupiti e ignari del problema. Quando gli si è chiesto quale sia la differenza tra dó e düü di solito hanno risposto di non saperla. Un intervistato, davanti alla domanda se abbia mai pensato che una sia la forma maschile e l'altra quella femminile, ha risposto, con esitazione, che i dó l'è masc-chil e i düü l'è feminil245, ed alcuni dei nostri soggetti si comportano effettivamente in questo modo. I dati che abbiamo davanti mostrano quindi che la forma tradizionalmente femminile (i dó) viene reinterpretata come forma non marcata o rispettivamente come forma 'non femminile' (a seconda se essa sia estesa anche al femminile oppure se accanto ad essa si ritrovi una marca specifica per questo genere, come in chi dice per es. a gh'è düü ran). Una causa fondamentale di questi fenomeni, e il punto di partenza di tutto, è senz'altro il fatto che gli apprendenti non si aspettano di trovare una distinzione di genere applicata ad una categoria che in italiano ha un altro comportamento. Che cosa può essere però che porta a rovesciare la gerarchia di marcatezza normale in

244 Ancora una volta abbiamo un caso in cui l'omofonia con l'italiano viene ignorata a favore di una soluzione sentita come maggiormante dialettale.

245 Un'altra parlante risponde alla domanda dicendo: "düü donn e dó oman, düü l'è femminile".

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questi casi (quella dal maschile effettivo al femminile effettivo), usando la forma femminile come forma non marcata e mantendo quella maschile come forma marcata da usare con referenti femminili? Ci si potrebbe anche chiedere come sia possibile che questa ipotesi 'deviante' resista alle eventuali pressioni dell'input. Prima di tutto si deve tener presente che abbiamo a che fare con parlanti con un uso esclusivamente o principalmente passivo del dialetto, e secondariamente gli stessi, nel momento in cui si accorgono dell'esistenza di una marca differenziale per il genere, hanno probabilmente già fissato la loro gerarchia basilare di marcatezza o le loro conseguenti relazioni tra forme e significati. La fiducia in quest'ultima gerarchia e nell'analogia di partenza sembra essere tanto forte da collocarsi al di fuori degli influssi dell'input. Sul modo in genere in cui l'input incide sulle interlingue purtroppo la ricerca sulle lingue seconde sa ancora troppo poco. Nel nostro caso sarà però fondamentale l'osservazione che dobbiamo accontentarci di fare, basandoci sulle ricerche sullo sviluppo delle marche di genere in italiano L2, relativa alla forza soverchiante dell'attenzione alla forma rispetto al contenuto nella definizione del genere. Ciò comporta un conseguente 'disinteresse' parziale degli apprendenti anche per i segnali referenziali che potrebbero essere d'aiuto nell'identificazione del genere corretto. La fondamentale consapevolezza dell'arbitrarietà linguistica in un campo in cui l'appoggio referenziale è relativamente scarso246 porta dunque gli apprendenti ad un forte affidamento alla forma, con l'abbandono della verifica sui referenti (anche qualora ciò sia possibile). Inoltre nel nostro caso la convergenza del dialetto sull'italiano ha in buona parte ridotto nel corso del tempo le differenze di genere tra le due lingue247 e gli apprendenti possono affidarsi in modo importante alle selezioni dell'italiano per la determinazione del genere in dialetto. Le linee possibili di spiegazione del fenomeno che a prima vista si possono abbozzare sono parecchie. Partendo per esempio da una visione in termini di inversione di marcatezza, ci si può immaginare che ci siano contesti che riducono o

246 L'unico aiuto consiste nel cosiddetto genere naturale, cioè nella corrispondenza ipotetica tra sesso e genere, ma, ovviamente, non a tutti i referenti è attribuibile un sesso, né le lingue sono sempre coerenti nel rispettare il genere naturale.

247 Questo punto è un classico degli studi sull'italianizzazione dei dialetti, si pensi per es. alla riduzione di differenze relative al "fiore" (conservate ancora nella fiora che si è specializzata con il valore di "panna"), al "miele", o al "sale", per citare solo i più noti.

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neutralizzano il valore morfologico del numero in dó, come per es. un affidamento fondamentale alla forma nell'identificazione del genere (come si è osservato per es. per apprendenti l'italiano come lingua seconda; cfr. Giacalone Ramat 1993) con conseguentemente una perdita dei valori morfologici effettivi (per la fiducia nella forma che porta ad una 'sordità' in relazione ai valori). In questo caso la -o di dó potrebbe risentire dell'identità con la marca tipica del maschile in italiano (anche in dialetto esiste tradizionalmente una serie di parole maschili terminanti in -o, come per es. al ventro "lo stomaco", al gerlo "il gerlo", al cervo, al merlo, ecc.), e quindi essere usata come forma non marcata, in virtù dell'associazione normale nelle nostre lingue tra maschile e 'non marcato'. D'altro canto, e in modo più importante, occorre tener presente che nel corso della storia della lingua italiana il numerale "due" ha spesso effettivamente conosciuto una marcatura differenziale per il genere, ed in questi casi due è di solito stato reinterpretato come forma del femminile248. L'interesse di questa osservazione per il nostro caso risiede nella eventuale continuità della storia linguistica e quindi nell'indagine di quali possano essere le dinamiche che hanno riportato ai parlanti odierni questa differenziazione, ovvero in che modo e secondo quali processi questi fenomeni si sarebbero mantenuti nascosti attraverso la storia della lingua fino a riapparire appena si verifichino condizioni particolari che le 'attivino'. Generalizzando il problema (e le generalizzazioni sono sempre semplificative, ma spesso illustrano meglio il fascino del problema) ci si può chiedere quanto imparare una lingua comporti imparare anche la storia della lingua, o, invertendo la questione, quanto le strutture della lingua veicolino i 'germi' che le sono appartenuti nel corso del suo

248 Si tratta di un fenomeno per es. tipico nella cosiddetta 'lingua cancelleresca', Ma per valutare meglio l'estensione del fenomeno basta consultare Cortelazzo - Zolli (1980) alla voce DUE, da cui riportiamo il seguente passaggio, ripreso a sua volta dalla Storia di Migliorini: "Vi è una certa tendenza nei poeti a distinguere duo per il maschile e due per il femminile, secondo la regola latina e frequenti esempi del Petrarca [...]: è questa la regola seguita dall'Ariosto (non senza eccezioni, e con l'aggiunta che i plurali in -a per lo più vogliono dua: dua dita, dua corna) e dal Tasso. In prosa dua abbonda nei fiorentini (Machiavelli, Gelli, Guicciardini) e ad essi è rimproverato (cfr. Salviati, Avvertimento, I, II, 19); anche duoi è piuttosto del fiorentino parlato. La Crusca, abbandonando ogni distinzione di genere, racomanderà due in prosa e duo in verso, mentre nel Seicento due prevale decisamente (ma ancora si hanno esempi di dua, non raro nel Galilei, di duo, di doi)." Già nel Quattrocento due era impiegato non solo come forma del femminile ma anche "in pausa, uno anno o due" (Migliorini 1960, 289), quindi con già un valore parziale di forma non marcata.

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sviluppo249. E' probabile che questi 'germi' altro non siano che il riapparire degli stessi processi in situazioni simili. Gli apprendenti, di fronte al problema di trovare una corrispondente forma alla differenza di genere (che sanno esserci), possono unicamente affidarsi ad una lettura di due come contenente lo 'pseudo-morfema' finale -e (letto come marca del femminile plurale), e reinterpretano quindi il dialettale düü come corrispondente effettivo di due. Mentre l'uso di dò come forma non marcata non si ritrova nei bambini nativi dialettofoni, è invece possibile osservare in parecchi di questi bambini la sovrageneralizzazione di trii anche al femminile. La difficoltà nella gestione del genere, già a partire dalla difficoltà di analizzare correttamente questo valore nell'input è messa bene in mostra anche da altri esempi di mancata comprensione del valore morfologico corretto di alcuni morfemi. Più di un PE3 fa riferimento al bambino protagonista della storia chiamandolo tusànn (oppure tusàn, tüsàn, o tüsànn), un'espressione che non solo ha valore di femminile ma anche di plurale. Dato il carattere poco produttivo delle opposizioni coinvolte (tùsa - tusànn: "ragazza" - "ragazze"; tusànn - tusón: "ragazze" - "ragazzi") la parola deve esser stata appresa in modo non analizzato e generalizzata nella sua forma appresa, molto probabilmente attraverso un uso molto frequente nel mondo giovanile in espressioni scherzose némm tusànn o forza tusànn, dette tra maschi250, poi estese al contesto non marcato, quello appunto del maschile singolare. Espressioni di questo tipo mostrano bene quanto il mondo apprendimentale di queste persone sia stato distante da quello dei parlanti nativi, dove tósa o le sue forme diminutive sono ancora molto frequenti (anche perché si tratta spesso dell'unica espressione per "figlia", accanto al plurare non marcato per genere, ma coincidente col maschile fiöö "figli").

249 Per osservazioni interessanti in una direzione simile v. Labov (1989), che si serve di fenomeni analoghi per sostenere il carattere fondamentalmente apprendimentale della variazione linguistica e quindi la sua relativa indipendenza da fattori 'naturaleggianti'.

250 Parallele all'italiano andiamo ragazze o forza ragazze.

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3.2.5.7.3. La distinzione tra l'articolo indeterminativo, il pronome indefinito e il numerale

In dialetto non abbiamo omofonia tra l'articolo indeterminativo singolare e il pronome indefinito e il numerale (sia al maschile che al femminile). La forma per l'articolo è un/una, e quella del pronome e del numerale è vün/vüna. Si dice perciò n u visc-t vün, ma u visc-t un óm, e n u visc-ta vüna ma u visc-t una dòna. Per i parlanti meno competenti (a partire dai PE2) troviamo sistematicamente la neutralizzazione di questa distinzione a favore della forma dell'articolo indeterminativo (che è la forma più vicina all'italiano). Ma nella maggior parte dei casi la neutralizzazione non è completa, dato che mentre la forma per l'articolo, in questi parlanti, è un, quella per il pronome indefinito e il numerale è ün. Diranno così n u visc-t ün, o u fai al GS ün251, ecc. Anche per le ore dicono la üna, istituendo una corrispondenza u-ü che deve senz'altro essere sostenuta dalla forma dei nativi la vüna. Anche questo fenomeno si ritrova pure nei bambini nativi dialettofoni, che mostrano di solito però usi di vün in contesti di un. Come nel caso appena visto di trii che neutralizza la distinzione di genere, pure qui non possiamo parlare di una vera e propria 'italianizzazione', in quanto la soluzione adottata (quella sovrageneralizzata) è quella, a livello di forma, più lontana dall'italiano (si pensi a trii vs. trè e rispettivamente a vün vs. un)252. D'altro canto però, nel caso di trii. il risultato, non a livello di forma ma di struttura di opposizioni, viene a coincidere con quello dell'italiano (ed ha come effetto un impoverimento delle strutture dialettali), facendo sospettare almeno un sussidio di questa lingua nel sostenere la forte semplificazione del sistema dialettale. Il contributo dell'italiano è probabilmente fondamentale nel fornire lo schema di marcatura e nel costruire la struttura nella quale vanno inseriti gli elementi dialettali. Nel caso della neo-opposizione un-ün dei

251 GS è la sigla di Gioventù e Sport, l'organizzazione nazionale che si occupa dei corsi sportivi. Questa organizzazione fissa anche i programmi dei corsi e i requisiti che devono essere soddisfatti per l'ottenimento dei diplomi di istruttori (amatoriali). Il GS vün è il primo livello di istruttore.

252 In questo senso possiamo interpretare, dal punto di vista formale, questo comportamento dei bambini come una 'de-italianizzazione' del dialetto, fondata sull'eliminazione di una forma omofona dell'italiano, che segnala una ricerca di autonomia dei codici. Sennonché, a livello di struttura, l'eliminazione di uno dei due termini dell'opposizione, ci avvicina proprio più all'italiano che al dialetto.

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PE2 e dei PE3 invece il contrasto viene di solito mantenuto ma il fatto che in alcuni parlanti esso sia scomparso e che ün, a differenza di vün, sia più facilmente derivabile dall'italiano, fanno sospettare che anche qui si possa in futuro andare oltre il semplice problema di forma, semplificando la struttura sul modello dell'italiano. Nei bambini vi è sì la selezione della forma più tipicamente dialettale (vün) a scapito dell'altra, però vi è comunque una semplificazione della struttura con la riduzione di un'opposizione che non esiste in italiano. Visto che il fenomeno non si trova solo in persone primariamente italofone (i PE), ma anche in bambini nativi dialettofoni, il grande problema diventa quello di capire come sia possibile che questi bambini, che devono aver ricevuto una quantità (e qualità) di dialetto almeno corrispondente a quella dell'italiano fin dalla prima infanzia, possano comportarsi in un modo così fortemente innovativo su spinta dell'italiano (che dovrebbe aver un ruolo non dominante nella loro socializzazione primaria). Senz'altro è fondamentale il fatto che le nuove soluzioni sono semplificative, cioè riducono per i bambini la complessità del sistema, ma d'altra parte potrebbero aver giocato un certo ruolo anche coetanei, compagni di gioco, per i quali il dialetto non è la lingua materna primaria, ma che, o hanno imparato contemporaneamente entrambe le lingue o hanno imparato prima (o in modo prioritario) l'italiano. Se il fenomeno può nascere anche in parlanti nativi, è forse proprio il contatto con parlanti non propriamente nativi, con il suo effetto di indebolimento della norma, che permette allo stesso di assestarsi e di diventare 'normale'. Se in questi casi l'italiano ha veramente avuto un ruolo importante, allora diventa ancor più rilevante la prospettiva, realizzata in questi microsettori, di un dialetto innovativo che a livello di struttura coincide sempre più con l'italiano, ma che a livello di forma 'salva le apparenze' selezionando varianti distanti da questa lingua.

3.2.5.7.4. Diminutivi e numero Per finire con la morfologia del sintagma nominale dobbiamo segnalare anche la reinterpretazione (ritrovabile nei nostri materiali a partire dai PE2) della marca diminutiva del maschile plurale -itt come semplice diminutivo, con la perdita

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del valore di numero253. Essa è usata quindi sia al plurale che al singolare, mentre in alcune varietà dialettali ticinesi essa è addirittura passata, per analogia, a segnalare il plurale anche in termini non diminutivi, come cusin-cusitt, "cugino-cugini" (v. per es. Lurà 1987, 123). Possiamo perciò dire che, sull'evidente spinta dell'italiano, i nostri soggetti hanno chiuso il ciclo che tempo fa, per analogia sul plurale dei diminutivi in -ett, aveva portato questo suffisso ad assumere il valore di plurale anche per i diminutivi in -in (v. Contini 1937). Sul nostro fenomeno può senz'altro aver inciso la tendenza, rilevabile in parecchi parlanti nativi, a perdere questa distinzione riportando sia singolare che plurale a -in (cfr. Petrini 1988, 183), ciò che ha come conseguenza che anche nell'input il legame biunivoco con il valore di plurale perde di costanza. Ma, ancora una volta, la scelta dei nostri soggetti va piuttosto nella direzione inversa, selezionando la forma del plurale e utilizzandola anche per il singolare, non solo nei casi di singolare -in - plurale -itt, ma anche nei casi di singolare -ett - plurale -itt, come per es. in un pachitt. Inoltre è nota dagli studi sull'apprendimento del lessico delle lingue seconde l'importanza della maggiore pregnanza semantica e percettibilità dei valori derivazionali rispetto a quelli flessionali, con, qui, il prevalere del valore di diminutivo su quello di plurale. L'italiano sostiene questa opzione spingendo a riconoscere una corrispondenza tra il proprio diminutivo -etto in -itt, addirittura a scapito della quasi assoluta omofonia con -ett, ma forse proprio mirando ad ottenere un distanziamento formale maggiore per incrementare la dialettalità dei propri prodotti. L'inversione dell'ordine di marcatezza, che prevede che di solito sia il singolare a fornire la forma non marcata, può essere sostenuta oltre che da questi fattori anche da eventuali condizioni 'formative' delle ipotesi di analisi dell'input che hanno rovesciato i normali rapporti di marcatezza. In modo significativo una delle nostre parlanti presenta a breve distanza sia un'occorrenza con valore di plurale che un'occorrenza con valore di singolare della stessa parola:

e l fiöö l ved chee .. che i gh’a di picol ranitt .. di fiöö rana .. insema a lor. l'è content, al prend sü un picol ranitt ... [”e il bambino vede che ... che ci sono dei piccoli ranocchi ... dei ‘bambini rana’ ... insieme a loro. E’ contento, prende un piccolo ranocchio...”]

253 La scomparsa delle vocali finali (tranne -a) ha come conseguenza che il dialetto attuale può marcare sul nome il genere ma ha perso di norma le marche di numero. Questo compito tocca quindi principalmente all'articolo.

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E' possibile che in casi simili la forma prima o più frequentemente incontrata dal parlante sia quella del plurale, dalla quale viene ricavato in un secondo tempo il singolare. L'esito possibile ranìn suona molto poco accettabile in dialetto anche perché non rappresenta una buona corrispondenza con l'italiano, che ha ranocchio e non ranina. Che -itt plurale si trovi spesso con nomi di animali o con altri referenti rivestiti di affettività potrebbe poi aver provocato una parziale reinterpretazione del suffisso da parte dei PE, che viene così sentito come diminutivo particolarmente affettivo, in contrasto con -in che sarebbe un diminutivo un po' meno marcato per questo valore. Il procedimento può ancora una volta essere sostenuto dalla presenza nell'italiano di interfissi affettivi che vengono frequentemente utilizzati proprio, per esempio, con nomi di animali (si veda per es. cagnolino, pesciolino, ecc.; il riferimento d'obbligo è Dressler - Merlini Barbaresi 1995)254. L'interesse teorico di questo ciclo risiede nel suo mostrare due tipi di varietà differenti aventi due tipi differenti di rapporti con i loro utenti. Da un lato le varietà dialettali di parlanti nativi prevalentemente dialettofoni (al momento dalla reinterpretazione di -itt come diminutivo plurale), con le loro necessità di marcatura flessionale255 e la tendenza alla regolarizzazione del sistema. Dall'altro lato varietà in parziale perdita di vitalità in cui il valore derivazionale (più 'semantico' che 'morfologico') viene a prevalere. Si ha perciò una riduzione della marca ridondante del numero sul diminutivo (già presente sull'articolo) e la preferenza per la separazione dei valori derivazionali da quelli flessionali con lo scioglimento parziale della polivalenza di -itt (che da morfo portmanteau, cioè veicolante più informazioni morfologiche in modo non trasparente morfotatticamente, diventa unicamente un diminutivo256).

254 Tant'è vero che apprendenti l'italiano come L2 possono a loro volta cogliere questo procedimento formativo ed estenderlo a casi che non lo utilizzano in italiano. Una brasiliana che ha appreso l'italiano in modo spontaneo nella Svizzera tedesca parlava per esempio del gattolino, formato ovviamente su gatto.

255 Ricorrendo anche a procedimenti morfonologici complessi come quelli che risultano dalla metafonesi che collega il singolare -ett al plurale -itt, procedimenti più adatti appunto alla processazione dei parlanti nativi, che alla ricerca di naturalezza tipica degli apprendenti.

256 E, forse, addirittura un diminutivo specializzato sull'espressione di affettività, come abbiamo detto in precedenza.

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La difficoltà a gestire tecniche dialettali di segnalazione del plurale differenti dall'italiano (specialmente nei casi di perdita di trasparenza) è ben evidente anche nel settore dell'accordo dell'aggettivo, dove per esempio ritroviamo forme come picol usate sia al singolare che al plurale (in luogo di picoi257) secondo un procedimento che, caduta la vocale finale, considera persa la possibilità di distinguere il numero (mentre per il genere rimedia di solito la conservazione generalizzata di -a finale). Curiosamente quindi queste interlingue sembrerebbero stravolgere una generalizzazione spesso rilevata negli studi sull'apprendimento di una lingua seconda, e proposta più in generale anche da Greenberg (1963)258 come universale linguistico, secondo la quale il numero viene marcato prima del genere. In verità il nostro caso non rappresenta un controesempio accettabile in quanto le condizioni che portano a questo fenomeno sono piuttosto di tipo fonologico (riguardano cioè la modalità della marcatura, e la difficoltà a realizzarla) che di tipo morfologico (l'esistenza o meno, o l'anteriorità della categoria del numero). Il numero è infatti marcato sistematicamente sull'articolo259. L'effetto che qui abbiamo osservato nascerebbe quindi da una combinazione della difficoltà propria della tecnica di marcatura dialettale con dall'altro canto la tendenza a marcare meno sull'aggettivo, che non sul nome o sull'articolo260.

3.2.5.8. La negazione

257 Il fenomeno si nota anche nelle varietà di nativi.

258 Cfr. Greenberg (1963): "Se una lingua ha la categoria del genere, ha sempre la categoria del numero".

259 Anche se è indubbio che le tecniche dialettali di marcatura dello stesso sugli aggettivi e sui nomi sono più complesse rispetto all'italiano a causa dell'assenza di parte delle vocali finali (e di conseguenza sono particolarmente complesse per chi arriva al dialetto dall'italiano).

260 Nel rispetto del cosiddetto 'principio della distanza' osservato da Corbett (1991), che prevede una gerarchia di sviluppo del controllo dell'accordo secondo la linea che esplicita l'accordo prima da parte dell'articolo, poi dell'aggettivo attributivo, poi dell'aggettivo predicativo e del participio passato.

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Anche per la negazione abbiamo veri e propri problemi solo nei PE3261, mentre le due categorie più competenti utilizzano la negazione come un forte tratto di differenziazione tra italiano e dialetto (come facevano già in parte con i clitici, almeno a livello di forma se non proprio completamente di funzione, e con altri 'tratti bandiera'). Nei meno competenti invece ritroviamo non solo altre forme, ma anche collocazioni preverbali. Le altre forme possono essere chiaramente italiane, come tipicamente non, ma anche dovute a suggerimenti di altri dialetti combinati con tendenze semplificative dell'italiano. In quest'ultimo senso va senz'altro interpretata la forma no (per es. in no san parlà dialécc), sia pre- che post-verbale, che è probabilmente dovuta a contatti con dialetti (specialmente attraverso canzoni popolari, teatri dialettali, o altre fonti) in cui la si ritrova ma che forse viene anche generalizzata come forma 'centrale' di negazione (no è frequente anche in varietà semplificate di italiano e non possiamo escludere che il collegamento spesso istituito tra parlato o sub-standard e dialetto non giochi anche qui un certo ruolo). Altre soluzioni che si ritrovano sono minga e miga (sostenuti più di mia probabilmente anche dal mica italiano). E' comunque molto sorprendente che in persone che vivono in Ticino da anni appaiano come colte meglio e vengano utilizzate come tipicamente dialettali forme di altri dialetti lombardi piuttosto che di quelli ticinesi262. L'ultima forma di negazione che ritroviamo sporadicamente nei PE3 è il francese pas (cfr. e l borla .. non .. al borla pas giò .. non cade; a capissi qualcosa, sì qualcosa, ma non tutto, pas tücc, non tücc), che mostra ancora una volta l'importante ruolo di appoggio di questa lingua. Nel campo della negazione, da un punto di vista tipologico, il dialetto con la sua soluzione postverbale viene sentito come più vicino al francese che non all'italiano e quindi pas si insinua come proposta dialettale nell'esecuzione dei parlanti, anche se viene subito rigettato. E'

261 Su alcuni aspetti della negazione nelle varietà native è molto interessante Zeli (1968).

262 Un parlante che non utilizza la negazione con mia ci dice curiosamente che essa ha il valore dell'italiano mai e quindi frasi come al fò mia ("non lo faccio") vanno tradotte come "non lo faccio mai" (in dialetto si direbbe al fò mai). E' evidente il ragionamento basato sulla ricerca di collegamenti di forma, piuttosto che l'attenzione alla funzione. Chiaramente, in certi contesti come quello sopraccitato, il valore può essere ambiguo data la valenza negativa di "mai". D'altro canto miga e minga (oltre a essere meno vicine a mai; anche se non crediamo molto alla realisticità di uno scambio di questo tipo, che probabilmente è più un tentativo di 'spiegazione a posteriori') godono anche di una maggiore corposità fonica che le rende più percepibili.

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probabile che la posizione post-verbale venga molto presto sentita come tipica del dialetto e come uno degli elementi forti di differenziazione dall'italiano, ma l'elemento di negazione specifico del dialetto è poco trasparente e poco percepito, e perciò si riempie la posizione attivata con il primo elemento richiamabile in grado di occuparla, in questo caso quello francese. La cooccorrenza di non e pas nei due esempi sopraccitati mostra come il primo venga sentito come non dialettale, ma come ai parlanti la ricerca di distanziamento (o di un elemento specifico dialettale) non possa dare altro che il suggerimento francese. Per questi parlanti la soluzione dialettale, che sanno non essere né non né pas, sembra collocarsi nel mezzo tra italiano e francese. La difficoltà con la negazione postverbale si ripercuote anche sulla tendenza a costruire doppie negazioni (come in italiano). Anche parlanti che utilizzino correttamente mia ripresentano no o non quando vi siano altri elementi negativi postverbali (come per es. in non capissa nagott, o in l dialécc in casa no l parlan mai). Questi parlanti hanno correttamente identificato mia come negazione ed hanno capito che non può comparire in posizione preverbale, di conseguenza il loro problema è quello di trovare qualcosa da collocare davanti al verbo e l'unica possibilità a loro disposizione è fornita dall'italiano, dato che il dialetto (attualmente) non dispone di negazioni preverbali. Ancora una volta dobbiamo segnalare la distanza dell'italiano a cui fanno riferimento questi soggetti nella costruzione del loro dialetto rispetto all'italiano popolare o all'italiano regionale ticinese. Se in queste varietà di italiano la negazione semplice era una delle caratteristiche tipiche rispetto allo standard (e derivava spesso da comportamenti dialettali, oltre ad essere sostenuta da tendenze semplificative), nel nostro caso la direzione si è invertita ed è l'italiano (non popolare e non regional-popolare, almeno per questo tratto) a importare la doppia negazione nel dialetto. La negazione semplice è probabilmente diventata nell'italiano un tratto variabile (che ricompare talvolta nel parlato informale), ed in contesti di attenzione alla forma come quelli di cui qui ci stiamo occupando i parlanti partono dalla forma che sentono più appropriata. Perciò è quest'ultima ad essere trasposta al dialetto. Nel contatto italiano-dialetto che dà luogo al dialetto dei PE, oltre ad essere mutata la direzione di influsso (dall'italiano al dialetto, nel nostro caso, dal dialetto all'italiano, nel caso dell'italiano regionale/popolare), è quindi mutato il tipo di italiano che fà da riferimento (che partecipa cioè al contatto). Anche la variazione sociolinguistica interna all'italiano tende a ripercuotersi sul dialetto dei PE, proiettando sulle loro varietà valori che il dialetto di per sé non aveva (e importando spesso varianti che non erano disponibili).

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Accanto al prestito delle strutture linguistiche si sta qui assistendo al prestito delle strutture sociolinguistiche, con un adeguamento delle strutture dialettali su quelle italiane. Se spesso tra le alternative possibili i PE ritengono più dialettale quella che nella lingua italiana ha uno statuto più informale-colloquiale o diastraticamente più bassa, talvolta lo stesso meccanismo può portare alla tendenza inversa, e cioè all'adozione della variante 'alta' (e quindi al rigetto di una variante invece 'normale' nel dialetto), per evitare una variante 'stigmatizzata' nell'italiano. Possiamo perciò dire che in questo processo di costruzione del dialetto viene utilizzata l'intera gamma dell'italiano (che assume un ruolo da 'pseudo-obiettivo'). Questo meccanismo di proiezione dei valori sociolinguistici italiani sulle strutture dialettali sarà evidente anche nel caso delle frasi relative di cui parleremo tra poco. E' possibile che alcuni fenomeni di questo tipo, per la maggiore normatività dell'italiano, entrino prima o dopo anche nelle varietà dei nativi, producendo un'uniformazione delle varianti e delle valenze sociolinguistiche, che porta così ad una 'convergenza sociolinguistica'. Questo fenomeno è più vicino alla tipica situazione di variazione sociolinguistica (lingua e dialetti) che di apprendimento di lingue seconde, ed è in questo senso che lingua e dialetti fanno parte, fino ad un certo punto, dello stesso sistema costituendone alternative sociolinguisticamente altrettanto valide e motivate, a differenza delle interlingue.

3.2.5.9. Le preposizioni di e da Un classico degli studi sull'italiano regionale ticinese riguarda un potenziale punto critico identificabile anche mediante semplici strumenti contrastivi. Si tratta, nel campo delle preposizioni, del contrapporsi delle preposizioni italiane di e da (con le loro varianti articolate) all'unica forma dialettale da. E' stata segnalata più volte la difficoltà dei dialettofoni a distinguere i due valori italiani, con la conseguente

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uniformazione su da o con usi impropri di di263. Anche qui abbiamo casi sporadici di mantenimento di di nei PE2 che diventano quasi la norma nei PE3, cfr. per es.:

grida al nom dela rana [”gride il nome della rana”] l'è al böcc dela talpa ["è il buco della talpa"]

Mentre varianti dialettali possono fornire un certo sostegno alla preposizione de (it. "di"; v. nei nostri materiali, la coléga de lavór), che si rinforza nelle preposizioni articolate italiane dei, della, ecc., il mantenimento della forma di è sentito come fortemente italianizzante (v. per es. a cerchi di guardà) ed è quindi più raro. In certi parlanti tende così a formarsi una corrispondenza tra l'italiano di e lo 'pseudo-dialettale' de, mentre da si specializza sui valori della forma omofona italiana. Talvolta però, accanto a casi di mantenimento dell'opposizione italiana, si possono anche avere azioni ipercorrettive, che portano ad esiti in contrasto sia con l'italiano che con il dialetto:

dela furèsc-ta ghé végn föra un .. un cerv ["dalla foresta esce un cervo"]

Altri problemi emersi nel trattamento delle preposizioni riguardano il trattamento morfonologico delle forme articolate, con la tendenza a mantenere la trasparenza e, se possibile, la vicinanza con l'italiano264 (si vedano esempi come gh'è dei sc-tivaa, o nei corna). Una difficoltà notevole per i non nativi è data dalla forma delle preposizioni articolate formate su in, che suonano così in indal o nal,

263 Cito alcuni esempi da Bianconi (1980, 141): io dalla politica non capisco niente, conseguenza dal lago artificiale, quello che è capace da fare, il delta dalla Maggia, cosa che ci sia di vedere, non c'è niente di modificare, dell'altra parte ci sono le montagne. Il problema era già stato discusso da Seminario di Friburgo (1965, 1968), Lurati (1976), Berruto (1980).

264 Alcune preposizioni, come "sopra", tendono a mantenere la forma italiana a scapito di quella dialettale (sora / sura), anche in parole composte come per es. sopratütt.

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indun, indala/nala, ecc.265. Le soluzioni dei nostri soggetti mostrano una sorprendente tendenza ad estendere da ai contesti di in, con risultati come:

Dal vaso a gh'è una rana ["Nel vaso c'è una rana"]

In questi casi è evidente che la analisi dell'input fatta da queste persone sostiene questo esito, e forme come in dal, o nal vengono ricondotte a da. Ma la distanza e il conflitto tra ricerca attraverso la forma (che spinge a cercare qualcosa legato fonologicamente a dal) e ricerca attraverso il contenuto (con il contrasto semantico evidente tra da e in che tende a bloccare la semplice estensione della prima a contesti tipici per il secondo), può dare esiti molto particolari quando il parlante non sia disposto a ignorare le difficoltà semantiche. Possiamo così avere come soluzione uno dei casi più forti di ricorso al francese:

e a ciapa l can dans les bras ["e prende il cane tra le braccia"]

Una soluzione intermedia si ha in gh’a la tesc-ta dans l vas ["ha la testa nel vaso"], dove la vocale è chiaramente nasale, ma dove a differenza del caso precedente la preposizione non attiva immediatamente una commutazione di codice266. In quest'ultimo esempio è pure più evidente il legame, a livello di forma, tra i dialettali indal o nal e il francese dans.

265 Per l'origine di queste forme cfr. Lurà (1987, 101, n. 1) che contrariamente alla spiegazione classica dell'inserzione di una preposizione da o di una d di transizione ritiene che queste forme discendano da INTUS, con una successiva reinterpretazione che spinge a vedervi la preposizione da. La discussione di questa ipotesi fuoriesce dagli interessi del nostro lavoro; abbiamo comunque adottato la grafia proposta da Lurà.

266 Dobbiamo però precisare che se dans les bras ha una caratteristica tipica delle commutazioni di codice, e cioè il suo estendersi al di sopra dell'unità parola, esso d'altra parte non sembra avere un'altra componente prototipica, che è la volontà del parlante di passare esplicitamente ad un'altra lingua (o che la commutazione abbia un valore comunicativo particolare). Pensiamo piuttosto che dans abbia 'liberalizzato' le conoscenze francesi e le abbia co-attivate, ed esse si sono presentate in modo più vantaggioso di un ritorno all'italiano o al dialetto.

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3.2.5.10. La costruzione della frase relativa Come osserva Lurà (1987, 146) le differenze tra italiano e dialetto nel campo della frase relativa sono importanti, e sono dovute principalmente al fatto che:

"L'uso di che non si limita, come in it., ai soli complementi diretti ma si estende pure a quelli indiretti (mentre l'it. in tali situazioni si serve di 'cui' o 'quale, -i', preceduti da preposizione): quéla che canta l'è la mía surèla 'quella che canta è (la) mia sorella', la turta che t'è fai iér l'éva bóna 'la torta che hai fatto ieri era buona', pal pan ca mangi mi! 'per il pane che mangio io!, ul grott che ta disévi 'il grotto di cui ti dicevo', l'è quéll pòst che sa passa par ná a ... 'è quel posto per cui si passa per andare a...', l'è n sit che ga va mai nissügn 'è un luogo nel quale non ci va mai nessuno', ecc."267

Rispetto all'italiano possiamo quindi dire che il dialetto utilizza una strategia maggiormente analitica, attribuendo in modo fisso al complementatore che il ruolo di introdurre la subordinata, e lasciando l'assegnazione dei ruoli sintattici o alla capacità interpretativa del destinatario o ai vari pronomi che seguono il che. In verità, anche il grande sistema della lingua italiana dispone di più possibilità e nelle sue varietà tendenti al substandard (come l'italiano popolare e in modo meno forte l'italiano colloquiale-informale) si ritrovano soluzioni analitiche simili a quelle del dialetto268. Come avviene frequentemente in questi casi, anche in italiano, il polo analitico assume carattere substandard o comunque informale, mentre le varietà formali preferiscono adottare strutture sintetiche. La relativa formalità dei nostri materiali (legata al metodo di elicitazione e alla componente metalinguistica dei testi raccolti) potrebbe pure essa spingere verso il polo più sintetico, provocando l'adozione nel dialetto delle tecniche tipiche dell'italiano formale. Anche la sanzione frequente in italiano, in contesti di questo tipo, verso l'espressione mediante il solo che potrebbe provocare nei nostri soggetti una tendenza all'evitamento anche in dialetto di questa strategia sentita come 'scorretta' (ma essa è in verità l'unica disponibile), 'substandard', ecc. In questo caso i valori sociolinguistici dell'italiano si

267 Per gli ultimi due esempi Lurà ricorda che è possibile, come in italiano, anche l'uso di indua (che) 'dove'.

268 Berruto (1987a, 128 ss.) parla di un continuum della frase relativa, in cui i potenziali paradigmi di espressione della relatività si intrecciano attraverso gli usi rendendo difficile riconoscerne i confini.

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sarebbero trasmessi alle varianti (e 'neo-varianti') dialettali riassestando il paradigma sociolinguistico per influsso esterno, sulla base fondamentale di un presupposto di equivalenza di valore, anche sociolinguistico, a partire da un'equivalenza di forma. Ciò porta a identificare anche sociolinguisticamente il dialettale che con l'italiano che. Ci potremmo quindi attendere espressioni come il cüi, la qual, ecc., ed in effetti abbiamo alcune occorrenze di questo tipo, come in:

al can, la cüi tesc-ta l'è sempru dent al vas ... ["il cane, la cui testa è sempre dentro il vaso"]

Ma i casi di questo tipo sono rarissimi, anche perché i parlanti hanno la possibilità, e la preferiscono, di aggirare l'ostacolo evitando del tutto la frase relativa, per esempio mediante strutture paratattiche (e mediante l'uso della ripetizione come strumento coesivo). E' probabile inoltre che il grado di formalità dei nostri materiali non fosse sufficientemente alto da non permettere l'uso di queste strutture alternative e da costringere alla costruzione di strutture relative di alta formalità. L'esistenza di questi procedimenti è comunque segnalata per es. da Lurà, che ne parla proprio in relazione ad uno dei rari riferimenti che si ritrovano nella dialettologia ticinese ai 'dialettofoni di ritorno':

"La comparsa degli aberranti italianismi in cüi, da cüi, cun cüi (rilevata, in generale per il canton Ticino, anche da Bianconi, 1985: 94) è estremamente ridotta, trovandosi soltanto fra le generazioni più giovani, e anche qui per lo più unicamente in situazioni di mistilinguismo (dove si ha cioè la compresenza di dial. e it., per cui si possono avere facilmente delle interferenze), nonché fra individui di madrelingua it. approdati solo in un secondo tempo all'uso del dial. (i cosiddetti dialettofoni di ritorno)." cfr. Lurà (1987, 146)269

269 Anche la frequenza e le condizioni di impiego di queste strutture sono ancora tutte da verificare, ma mi sembra di poter dire che esse continuino, per intanto, ad essere sentite come assai marcate da parte dei nativi. Il loro 'terreno' preferito dovrebbe essere proprio quello dell'estensione del dialetto a discorsi di alta formalità, in cui però vi siano ancora certi blocchi al passaggio all'italiano in relazione agli argomenti. Mi è capitato di sentire usi di questo tipo in un dialettofono nativo attorno ai 35 anni che parlava di un film appena visto e che produceva in genere notevoli fenomeni di italianizzazione del dialetto. La motivazione di queste forme sarebbe quindi primariamente sociolinguistica più che di scarsa competenza del dialetto, e nascerebbe da un desiderio di innalzamento di registro.

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Quindi, dato il carattere delle nostre interlingue e dei materiali a nostra disposizione la quantità di frasi relative osservabili è notevolmente ridotta dalla possibilità di aggirare le costruzioni più complesse, producendo unicamente quelle strutture che si collocano ai gradi bassi della gerarchia di accessibilità proposta da Keenan e Comrie (1977) e che non presentano perciò grandi difficoltà (oltre ad essere in genere parallele in italiano e dialetto)270. Talvolta strutture che in italiano sarebbero più complesse vengono trasformate in strutture più semplici nella produzione dialettale. Così una PE3 che sta parlando della sua classe alle elementari, in cui c'erano molti svizzeri tedeschi, dice:

L'eva una class che l'aveva multi svizer tedesch

e in questo modo sta probabilmente rendendo la frase italiana "una classe in cui c'erano molti svizzeri tedeschi", con un uso di "avere" per "esserci" che ricorda anche il francese. Tra le frasi di elicitazioni che i nostri parlanti dovevano tradurre dall'italiano erano comunque inserite due strutture relative che li hanno costretti a tentativi di relativizzazione. Le due frasi erano rispettivamente:

La casa di Giovanni, dove abbiamo passato il fine settimane, è più grande della nostra e Non ho visto l'uomo di cui stai parlando

Per la prima frase di elicitazione abbiamo avuto tra i PE1 risposte come:

La ca' dal Giuan eh .. indua sem sc-tai al fin setimana a l'è püssée granda che la nosc-tra La ca' dal G- Giuan .. induva .. indua em passaa al fin dala setimana l'è più granda dala nossa

Per i PE2:

270 La 'gerarchia di accessibilità' di Keenan e Comrie coglie gradi differenti di difficoltà nella formazione della frase relativa a seconda del ruolo che la 'testa' della frase relativa (il nome che viene relativizzato) ricopre nella frase incassata. L'ordine di difficoltà crescente è il seguente: soggetto > oggetto diretto > oggetto non diretto > possessore. Si tratterebbe di un universale implicazionale, che prescrive che se una lingua può formare frasi relative con un ruolo più basso essa può fare la stessa cosa anche con ruoli più alti (per es. frasi relative aventi come testa l'oggetto non diretto implicano la possibilità di avere frasi relative con l'oggetto diretto).

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La ca' dal Giuan ... dov'em pasaa ul fin setimana La ca' dal Giuan in doga ... in dov'em passaa al fin semana

E per i PE3:

La casa de Giüvann, dov'em passaa al fin dala setimana ... La caa del Giovanni l'è, dove a gh'em passaa al fin setimana, l'è püü püssée grande che la nosc-tra La casa del Giuann ndu ch'abiam passaa l fin setimana, l'è pü granda d la nossa La ca' dal Giuan, du em passaa al uichènd l'è püssée granda dala nosc-tra, nostra, dala nossa

Le risposte mostrano ancora una volta una certa coerenza nei gruppi identificati. Mentre nei PE1 abbiamo l'uso della forma corretta (indua), nei PE2 abbiamo contenutisticamente la stessa soluzione ma con la forma italianizzata (dove; in dove del secondo esempio costituisce una soluzione mista ritrovabile anche in nativi). Queste scelte sono sistematiche nei due gruppi, ma la sistematicità cala notevolmente nei PE3 dove le due soluzioni si alternano. Da un lato abbiamo la forma ricavata dall'italiano e dall'altro lato la forma presumibilmente appresa in modo 'vago'. L'ultimo esempio di questa categoria si stacca dagli altri perché il parlante 'infila' una serie di varianti native che, se si considerasse unicamente questa frase, lo dovrebbero far considerare quasi un PE1. Ma il resto delle sue produzioni è invece coerente con il livello dei PE3 e la 'felicità' di questo esito particolare deve quindi essere considerata in buona parte casuale. Questa assenza di sistematicità è uno dei caratteri tipici dei PE3, che sulla base di conoscenze idiomatiche possono talvolta innalzarsi a livello di nativi, ma nei quali la mancanza di

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analisi dell'input può riportare, al mancare di conoscenze idiomatiche, a livelli ben più bassi.271

La seconda frase si è rivelata, come ci si poteva attendere, notevolmente più difficile. Alcuni PE1 hanno dato le seguenti risposte:

U mia visc-t ul óm ... (pausa lunga, chiede sottovoce: di cui?) che ta s'et dré a parlà U mia visc-t ul óm .... (10 sec.) da chii set drét dré a parlà

Per i PE2 abbiamo avuto strutture come:

U mia visc-t l'óm dal che ta parlat U mia visc-t l'óm ... che ta disevat

E per i PE3 elenchiamo i casi seguenti (ancora una volta forniamo più esempi per questa categoria perché è quella più interessante):

U mia visc-t l'óm chél che ti parla parlat A l'ho mia visc-t l'uomo ... di cui sta parlando U mia visc-t l'óm da chi ta parlat, da che ta parlat, boh! L'ha mia visc-t l'öma, de qui tü m'ava parlaa U mia visc-t l'óm che taa che t è dii

In questo caso i parlanti più avanzati si trovano di fronte a difficoltà simili a quelle degli altri. Ciò è dovuto sia alla complessità del compito sia, forse, al tentativo di rispettare il livello di formalità della frase italiana e la sua tecnica di relativizzazione (si noti anche che i PE1 sono gli unici a chiedere suggerimenti all'intervistatore e a pianificare a lungo la soluzione). Da un punto di vista delle tecniche di espressione dobbiamo aggiungere che una frase di questo tipo è in

271 Che in tutti i casi la soluzione sia stata basata sul "dove" (più semplice sia interlinguisticamente, che in senso assoluto), è da ricollegare ovviamente alla frase di elicitazione e ci si può chiedere quale sarebbe stato il risultato se la stessa fosse stata "la casa di Giovanni, in cui abbiamo passato ...". Non è da escludere che una parte dei parlanti avrebbe comunque adottato questa variante facilitandosi il compito. Si veda però l'esempio sopra citato L'eva una class che l'aveva multi svizer tedesch, dove la soluzione fondata su "dove" non viene presa in considerazione (l'intera struttura della frase è strana e quel l'aveva richiama fortemente un suggerimento del francese il y avait, che sarebbe ancora più plausibile se vi figurasse accanto una traduzione del francese où).

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genere molto rara in dialetto, dove si preferirebbe di solito veicolare l'informazione in modo differente. Le difficoltà della traduzione sono svariate e accanto alla relativizzazione esse riguardano per esempio il valore particolare di presente 'continuo' (espresso in italiano dal presente con il gerundio e in dialetto dalla perifrasi te s'è dré a ...). Una parte importante della difficoltà è data dal fatto che parlare richiede di e questo fatto complica la relativizzazione. In due degli esempi riportati sopra, il secondo PE2 e l'ultimo PE3, la soluzione strategica dei soggetti consiste proprio nell'aggirare la complessità della relativa sostituendo parlare con dire. In entrambi i casi gli esiti sono simili a quelli di parlanti nativi (nell'ultimo caso è tale la seconda versione: che t è dii). Dobbiamo poi ancora isolare due altri casi. Quello della parlante che possiamo considerare in assoluto come la più competente (è quella del primo esempio dei PE1), che produce anch'essa una soluzione da nativi con lo strumento più semplice (il semplice che accompagnato dal pronome soggetto, che dà però un effetto di notevole sotto-esplicitazione e di agrammaticalità per il non rispetto della valenza di "parlare"), e quello del primo esempio del blocco dei PE3, dove si tenta la frammentazione in due frasi indipendenti utilizzando un pronome dimostrativo (dovremmo tradurre questo esempio letteralmente come "non ho visto l'uomo, quello che (di cui) tu parli"). Negli altri casi però i parlanti evanescenti cercano in vari modi di riprodurre la connessione relativa in modo 'esplicito' come avviene in italiano. E tra questi esempi il dato più degno di nota è il fatto che non si ritrova nessuna italianizzazione diretta di di cui. Non abbiamo quindi di cüi, ma abbiamo accanto ad un caso di ripresa della forma italiana (dunque un caso di commutazione di codice: di cui, del secondo esempio dei PE3), tutta una serie di tentativi di avvicinamento tra cui e chi/che affiancato dalla preposizione. Possiamo perciò parlare di un'intenzione di allontanamento dal cui italiano, o attraverso la sua sostituzione con che (lo strumento tipico della relativa dialettale), o attraverso l'istituzione di una corrispondenza semantico-fonologica tra cui e un 'neo-dialettale' chi. La corrispondenza fonologica è sostenuta per es. dalla corrispondenza locale tra it. quello - dial. che. Il legame semantico si collegherebbe quindi con il pronome interrogativo chi e soprattutto con il pronome relativo assoluto chi (gh'è chi va vía incöö e chi va vía dumán, l'esempio è di Lurà 1987, 147). Ancora una volta possiamo individuare uno stadio intermedio nella forma de qui, che si

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ritrova in una frase, anche per altri aspetti, molto distante dal dialetto dei nativi (si tratta del penultimo esempio dei PE3)272.

3.2.6. Tra lessico e fonologia: alla ricerca dei modi di dirlo in dialetto Più che in ogni altro settore, nella ricerca lessicale è evidente l'azione di fenomeni di corrispondenza, che aiutano da un lato nel recupero delle parole note e possedute, e dall'altro lato possono addirittura diventare 'creativi' permettendo ai parlanti di formare espressioni non possedute a partire dai corrispondenti italiani. Dato questo ruolo delle corrispondenze e il fatto che esse riguardano soprattutto relazioni di fonemi abbiamo riunito nella trattazione che segue i due livelli fonologico e lessicale, considerando il primo principalmente come uno strumento correlato al secondo, cioè alla produzione di parole dialettali e al bisogno di marcare la differenza tra la lingua italiana ed il dialetto. Le soluzioni adottate dagli apprendenti per la produzione di elementi lessicali dialettali sono essenzialmente tre, definibili nei modi seguenti: abbiamo l'uso, più o meno legittimo273, di parole italiane o omofone con l'italiano, abbiamo l'uso di parole dialettali non trasparenti274 o apprese in modo non analizzato275; infine abbiamo lo sfruttamento di corrispondenze (che talvolta costituiscono delle vere e proprie regole). Se queste strategie riguardano il lato formale dei problemi lessicali, accanto

272 Osservazioni interessanti sulla relativizzazione nelle lingue in decadimento, che toccano però aspetti non direttamente rilevanti per la nostra indagine, si hanno in Hill (1989).

273 Per 'legittimo' intendiamo qui 'legittimato dalla comunità nativa dialettale'. Gli usi 'legittimi' sono quelli che si ritrovano anche nel parlato di nativi e/o che vengono percepiti come elementi dialettali nonostante l'origine o l'omofonia con l'italiano.

274 Intendiamo qui ovviamente trasparenza in termini interlinguistici, cioè come il collegamento di una parola della lingua a con la corrispondente parola della lingua b.

275 Nonostante la matrice possa essere la stessa, cioè l'apprendimento (relativamente) non analizzato per memorizzazione, per l'osservatore esterno questi due fenomeni presentano una notevole differenza. Nel primo caso, a differenza che nel secondo, si può essere sicuri che esse non siano, nel discorso dell'apprendente, il risultato dell'applicazione di corrispondenze. Per l'utente della lingua la differenza è un'altra, e più precisamente che le parole non trasparenti segnalano maggiormente e in modo univoco un'intenzione di dialettalità.

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ad esse ne abbiamo poi altre che risolvono i problemi dal punto di vista del significato (con semplificazioni, estensioni di senso, sostituzioni, ecc.). Ma il carattere delle lingue in gioco e soprattutto la loro similarità strutturale fanno sì che le prime tre strategie rivestano nella nostra analisi un interesse prevalente sugli altri aspetti della 'formazione delle parole' (come prima tra tutte la morfologia derivazionale vera e propria276, anche perché tra le due lingue vi è una forte coincidenza di risultati in quest'ultimo campo).

3.2.6.1. I PE1

3.2.6.1.1. Tratti decisamente non ricollegabili all'italiano In tutte le varietà da noi osservate si ritrovano chiari fenomeni di apprendimento lessicale autonomo di parole aventi un collegamento non trasparente con l'italiano. Questa categoria, in cui per il loro aspetto lessicale vanno inserite anche le forme dei clitici e della negazione, fornisce i punti di massimo distanziamento dall'italiano con quelle che si possono considerare come 'parole bandiera', espressioni cioè con valore di chiari segnali di dialettalità277. Si tratta di parole assai frequenti e con valori molto particolari, coerentemente con il principio che mette in collegamento la frequenza e la peculiarità del valore con

276 Mentre per 'morfologia derivazionale' intendiamo ovviamente il corrispondente modulo dialettale (quindi intralinguistico), per 'formazione delle parole' intendiamo qui tutte le strategie che portano alla costruzione di parole nel discorso dialettale (comprese quelle interlinguistiche).

277 Cfr. anche Sanga 1985, che, come abbiamo visto, sostiene un futuro dei dialetti fondato su, da un lato, lo sviluppo di regole di corrispondenza e l'avvicinamento delle basi lessicali, e dall'altro lato il mantenimento di 'parole bandiera' appunto. Queste forme, assieme alle differenze fonologiche più frequenti ed evidenti e per es. ai clitici e alla negazione, costituiscono quindi elementi fondamentali per la differenziazione, intesa come processo attivo da parte degli utenti, di italiano e dialetto. Nella relazione con l'italiano essi sono senz'altro tratti fortemente marcati, che, ipoteticamente, potrebbero anche essere 'sovrageneralizzati', come avviene talvolta in situazioni di contatto linguistico parzialmente simili alla nostra. Fenomeni di questo tipo sono discussi, con alcune esemplificazioni, da Campbell e Muntzel (1989, 189) sotto l'etichetta di "overgeneralization of marked features". Le autrici segnalano come sovrageneralizzazioni di questo tipo possano dar luogo ad innovazioni autonome nelle lingue, cioè indipendenti dall'influsso dei sistemi con cui le stesse si trovano in contatto e da considerare piuttosto come "internal acts of creation, in that they appear to stem from imperfect learning of the moribund language"(ibidem).

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la tendenza ad utilizzare strumenti di espressione particolari278 . Abbiamo per es. dumà ("solo, soltanto"), püssée ("più"), ammò ("ancora"), chinscì ("qui"), töö ("prendere"), nagota ("niente"), indua ("dove"), o perifrasi idiomatiche come l'è dré a + lnfinito (col valore della perifrasi aspettuale italiana stare + Gerundio279). A livelli di minor frequenza ritroviamo poi espressioni come na sgiafa, un sgiafon ("uno schiaffo, uno schiaffone", con il rispetto del genere originale dialettale nel primo), l'è cumè ("è come"), in prèssa ("in fretta"), vert ("aprire"), pizà ("accendere"), l'è setàa gió ("è seduto"), vosà ("gridare"), burlà gió ("cadere"), cor adré ("inseguire", lett. "correr dietro") o vusà adré ("sgridare"), dadré ("dietro"), cito ("zitto"), ecc.280 Una particolarità fondamentale di queste espressioni è la scarsa trasparenza, per gli utenti, della relazione a livello formale con i corrispondenti italiani, quindi un basso grado di analisi interlinguistica281. La frequenza e la peculiarità (o specificità semantica) di queste parole permette (e richiede) loro di mantenere un'identità propria e di non associarsi ai tipici fenomeni di convergenza monolaterale del dialetto sull'italiano. In questo senso i principi generali per la regolarizzazione dei rapporti morfologici all'interno di una lingua si rivelano validi anche interlinguisticamente. Ciò mostra ancora una volta come i rapporti di corrispondenza tra italiano e dialetto abbiano forti similarità con i rapporti morfologici interni alle singole lingue e come quindi le corrispondenze possano costituire una 'quasi-morfologia' che collega forme di base e forme di

278 Cfr. per es., all'interno della morfologia naturale, il polo che viene definito dell'indessicalità, in cui i valori più particolari e ben individuabili tendono a venir designati da espressioni con un basso grado di analiticità (v. Dressler 1985; osservazioni simili si ritrovano per es. anche in Bybee 1985), con quindi una relazione tra la peculiarità del contenuto e l'irregolarità della forma. La relazione tra suppletivismo e frequenza era già stata discussa da Osthoff (1899).

279 Che dà luogo nell'italiano popolare ticinese all'espressione oramai caricaturale esser dietro a + Infinito.

280 Si noti la forte frequenza di avverbi, che hanno una posizione intermedia tra le espressioni di alta produttività (come le parole funzionali vere e proprie) e le espressioni di minore produttività (parole piene vere e proprie, come verbi di bassa frequenza e la maggior parte dei nomi). Il dialetto, come tipica varietà parlata, fa un notevole uso di avverbiali per l'espressione analitica di valori che l'italiano (standard) esprime con strumenti sintetici.

281 E' ovvio che attraverso il tertium etimologico queste espressioni sarebbero spesso ricollegabili a altre espressioni in vigore in italiano, ma nei casi qui elencati gli utenti della lingua non sono consapevoli di questi collegamenti.

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superficie di sistemi diversi. All'interno di queste dinamiche, da un punto di vista processuale queste parole, come abbiamo già visto in precedenza, equivalgono a dei suppletivismi di un'unica lingua282, nel senso che, a differenza di molti altri elementi lessicali corrispondenti delle due lingue caratterizzati da legami trasparenti, esse rimandano a basi diverse. Nelle varietà dialettali ciò è ben esemplificato da contrapposizioni come ancora vs. ammò, niente vs. nagota, gridare vs. vosà, e molti altri ancora. A volte accanto a forme generalizzate e normali anche tra i nativi (come per es. avìcc "api") si ritrovano forme arcaiche che spesso i nativi stessi hanno sostituito con termini derivati dall'italiano. Pensiamo per esempio a sciguéta per "civetta", che oltre ad essere oramai poco usata per la scarsità dei referenti, compare attualmente di norma in una forma del tipo civèta o qualcosa del genere. La presenza di termini di questo tipo o anche di pseudo-arcaismi costruiti su regole di corrispondenza sentite come fortemente dialettali (come per es. cadreghèla per "piccola sedia") caratterizza dunque queste varietà rispetto a quelle dei nativi. Mentre l'uso di queste espressioni nei nativi soggiace a selezioni sociolinguistiche, dai nostri parlanti esse sono utilizzate (talvolta con sottolineature ironiche, come risatine, esitazioni, ecc.) per 'dialettizzare' maggiormente la loro varietà. Dato che la lingua obiettivo è anch'essa caratterizzata da forte variazione, che sposta l'indirizzarsi degli apprendenti da varianti più innovative a varianti più 'arcaiche', diventa difficile per i nostri soggetti individuare degli obiettivi verso i quali indirizzarsi. In queste dinamiche di solito queste forme particolari suppletive vengono utilizzate come strumenti di incremento della dialettalità del proprio discorso, mostrando come i PE abbiano individuate il loro carattere 'non quotidiano' o non innovativo.

3.2.6.1.2. Il polo dell'italiano Al polo opposto rispetto a queste 'tracce di forte dialettalità' abbiamo le espressioni che sono chiaramente derivate, in forma più o meno adattata,

282 Ma si noti tra l'altro che di frequente anche i suppletivismi intralinguistici hanno origine interlinguistica, come ben si vede per esempio nel noto caso di cavallo - ippico - equino. Molto spesso una delle ragioni dell'uso di parole di lingue differenti è di tipo sociolinguistico in quanto va ricercata nei differenti valori che vengono attribuiti ai sistemi linguistici in gioco.

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dall'italiano. All'interno di questa categoria è però necessario operare una forte distinzione tra, ad un estremo, i termini usati con la consapevolezza che si tratti di italiano, e quelli, all'altro estremo, che invece costituiscono delle ipotesi di dialetto o delle ipotesi di omofonia283. Nella prima categoria rientrano chiaramente le situazioni di cambiamento di codice motivato stilisticamente o da una parziale ridefinizione della situazione. Abbiamo quindi tipicamente i casi di inserzioni di 'commenti a lato' o inserti metalinguistici, come nel seguente caso:

e l'è dré a guardà ... mi sembra, na rana [”sta guardando ... mi sembra, una rana”]

dove il passaggio in italiano, enunciato a voce più bassa e con maggiore velocità di elocuzione, si rivolge all'intervistatore non come interlocutore al quale si sta raccontando in dialetto una storia ma proprio come intervistatore con interessi metalinguistici e col quale di solito si parla italiano. Quindi il commento si colloca su un altro piano, al di fuori dello scopo di fornire materiale dialettale. Ad un livello di minor distacco metalinguistico, ma comunque motivate stilisticamente, vanno poi considerate le alternanze dovute alla probabile reticenza dei parlanti alla trasformazione in forma dialettale. Si tratta quindi di espressioni sentite come tipicamente italiane e perciò, come nell'esempio dell'attore dialettale citato all'inizio di questo capitolo, non dialettizzabili, pena eventualmente il ridicolo. Pensiamo qui a casi di alternanza di lingua come:

ul can al ritorna in scena [”il cane ritorna in scena”]

In margine si può notare che il punto di vista della parlante è anche qui più quello di chi sta descrivendo le vignette fornite dall'intervistatore come strumento di elicitazione, che quello di chi stia narrando una storia. In questo senso, come nel caso precedente, l'espressione ritorna in scena ridefinisce in parte il contesto di interazione tra intervistato e intervistatore (al quale tra l'altro si deve narrare una storia che egli conosce probabilmente meglio degli intervistati, essendo stato lui stesso a fornirla). Questo carattere di finzione (o di 'sfrangiamento' dell'atto

283 Non ci vogliamo qui soffermare sulla problematica della distinzione tra prestito e code switching, all'interno della quale la definizione di criteri distintivi è notoriamente molto complessa (per una prima discussione del problema si veda per esempio Romaine 1989b).

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linguistico) avvicina situazioni come la nostra intervista alla situazione scolastica in cui l'insegnante pone domande agli allievi delle quali egli conosce già la risposta (le cosiddette domande di controllo, che se fossero vere e proprie domande violerebbero la condizione di sincerità dell'atto linguistico). Accanto a queste espressioni, ma in una posizione difficile da definire sul continuum, dobbiamo collocare quelle parole che si possono considerare come il frutto di una 'regola di conversione zero'. Si tratta di forme omofone con l'italiano ma che dai parlanti, anche nativi, vengono considerate interamente dialettali. Sempre seguendo un ordine di gradi di metalinguismo decrescente (manifestato anche dal decrescere della segnalazione dell'incertezza da parte dei parlanti) si può esemplificare (restando qui nel campo dei nomi di animali284) questa categoria con enunciati come i seguenti:

al trova .. a suu mia .. un castoro, un altro animal ["trova .. non so .. un castoro, un altro animale"] l'è un daino, quaicòss inscì ["è un daino, qualcosa così"] e l pinin l'è bórlat sü süla tèsc-ta dal cervo285

["e il bambino è caduto su sulla testa del cervo"]

In tutti e tre i casi le forme omofone fanno anche parte della norma dei nativi, e castoro in particolare, non solo mantiene la -o finale ma non rispetta nemmeno la regola della palatalizzazione di s preconsonantica. Queste sono le parole che

284 L'interesse di questo campo semantico è indagato nella parte di questo lavoro che si occupa del parlare ai bambini.

285 In quest'ultimo esempio non si può non notare l'innovazione borlat sü, costruita ovviamente su borlat gió, ma dove vi è contrasto tra il valore semantico di borlà ("cadere"), che fa riferimento a un moto verso il basso, e sü, che indica invece il moto contrario. In effetti, nella storia, il bambino cade dalle corna del cervo e finisce sulla testa dello stesso.

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entrano in versione omofona in dialetto come è successo per molte innovazioni lessicali che hanno portato con sé tratti fonologici innovativi286. Infine si potrebbe supporre un certo ruolo dell'italiano nella grande serie di parole aventi la base vicina o uguale a quella dei corrispondenti italiani, e dove quindi le forme superficiali sono collegate o collegabili da corrispondenze produttive, trasparenti, frequenti e regolari (con dunque un alto grado di predittività). Pensiamo a parole come adèss, rìgid, caséta, nuvità, ecc. Esse sono collegate nelle due lingue da più occorrenze di corrispondenza regolare e costituiscono la maggior parte delle espressioni che si ritrovano in questi parlanti, tanto che potrebbero far nascere il sospetto di aver a che fare con varietà fortemente italianizzate o derivate nella produzione, se non fosse che queste forme corrispondono alla norma dei nativi e si ritrovano già quindi a livello di input. Anche per questo motivo, come abbiamo visto, riteniamo più legittimo vedere queste varietà dialettali dei PE1 come caratterizzate da un forte grado di autonomia dall'italiano, e considerare perciò anche la maggior parte di queste forme, sempre per questi parlanti, come il prodotto di regole e di un lessico dialettali e non come il prodotto di processi costanti di corrispondenza. In questo senso le regole di corrispondenza possono avere, a questo livello, un doppio statuto. Da un lato esse sono senz'altro regole di creatività (con però un ruolo di once only rules: una volta applicate, il loro prodotto sarà immagazzinato con mezzi interni dialettali e non dovrà più esser prodotto per corrispondenza a meno che il suo grado di attivabilità non si riduca tanto da non permettere più il recupero) e d'altro lato esse sono strumenti di ausilio parallelo, che, sulla base della maggiore fluenza e controllo dell'italiano, aiutano il recupero degli elementi dialettali. Nella narrazione della storia, rispetto al resto dell'intervista, si nota in genere un incremento della componente italiana, che è probabilmente da interpretare anche nel senso dello stile narrativo di cui si parlerà in relazione alle varietà rivolte ai bambini. L'italiano costituisce una specie di 'inquadramento' delle storie con l'uso di connettivi come mentre e poi, che strutturano il tessuto narrativo (ed hanno inoltre una forte componente metacomunicativa). Ci si può allora chiedere se non si tratti di 'uscite' dal dialetto motivate dall'alto valore funzionale di questi elementi. Accanto

286 Gli esempi qui potrebbero essere innumerevoli; ci limitiamo a ricordare il caso della conservazione dell'occlusiva dentale sorda intervocalica perché citato anche nella Storia linguistica dell'Italia unita di De Mauro (che rimanda a Ghirlanda 1956 per esempi come barbatèla).

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all'uso enfatizzante dell'italiano tipico delle narrazioni dei dialettofoni avremmo allora in questi parlanti un uso 'metacomunicativo-strutturante' che esplicita maggiormente le relazioni tra i fatti e costituisce un passo avanti nell'italianizzazione rispetto ai nativi. Potremmo allora ipotizzare che il prossimo passo avanti nell'inserzione dell'italiano nelle narrazioni dei nativi sia proprio l'uso enfatico di connettivi italiani287, e questo fenomeno si ritrova proprio nei parlanti meno avanzati. Dall'uso enfatico dei connettivi italiani è possibile che si passi, attraverso una reinterpretazione, ad un uso come 'lingua di base', che appare quando l'attenzione sulla forma linguistica sia meno importante. A questo punto sarebbe l'italiano ad essere chiaramente la lingua non marcata delle interazioni, che appare in quei punti in cui sia possibile abbandonare il dialetto.

3.2.6.1.3. La variazione e la zona intermedia del continuum Questa è la zona dello sfruttamento delle corrispondenze, queste ultime però vengono applicate con una certa variabilità. E' quindi la zona delle 'basi italiane' trasformate in dialetto (con talvolta operazioni morfologiche dialettali autonome in un secondo tempo sulle nuove basi così ottenute), ma è anche la zona della variabilità 'interna al dialetto', dove parole che non necessariamente devono essere considerate come derivate da basi italiane tramite operazioni di corrispondenza (ma che invece possono essere, per economia o per produttività o per distanza, considerate autonomamente dialettali) presentano una notevole variazione nella loro forma. Questa variazione può coincidere a sua volta con movimenti sul continuum italiano-dialetto (per cui anche parole autonome dialettali possono essere riavvicinate all'italiano), oppure può presentare fenomeni di 'variazione regionale' o di koinè.

3.2.6.1.3.1. Alternanze di forma per uno stesso valore: variazione dialettale interna

287 Ricordiamo che nelle narrazioni a bambini i connettivi vengono già enfatizzati con intonazioni, sospensioni, innalzamenti del volume di emissione, ecc., in virtù del loro costituire i 'cardini' della narrazione e della costruzione della suspence. Casi di alternanze di questo tipo, avanzate rispetto alle nostre, sono segnalati per la situazione siciliana da Alfonzetti (1992).

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In questa categoria consideriamo le alternanze di forma per uno stesso valore. In fondo non abbiamo a che fare con una vera e propria categoria a sè ma piuttosto con la zona intermedia tra le due categorie precedenti (anch'esse toccate da fenomeni di variazione e alternanza). Si tratta di una zona di alta instabilità dove convivono due o più varianti, distinte da una maggiore o minore distanza dal comportamento dialettale dei nativi (ma talvolta presentanti variazione simile anche nel comportamento dei nativi). Il carattere fondamentale degli elementi di questa categoria, rispetto alla precedente, è comunque la portata relativamente ridotta della variazione formale, per cui i fenomeni definiti precedentemente come 'suppletivismi' ne sono esclusi. Ciò crea una contrapposizione con la categoria delle parole tipicamente dialettali. Dall'altro lato non vi è un un avvicinamento totale all'italiano, ma entrambi gli elementi in gioco sono dialettali e si crea quindi una distinzione anche con la categoria delle espressioni italiane. In verità quest'ultimo confine non è netto perché abbiamo visto che a volte parole provenienti dall'italiano vengono usate e sentite come dialettali e parole dialettali sono omofone con parole italiane (si veda in seguito il caso di perché). D'altro canto, in molti casi, ritroviamo le stesse zone di variazione segnalate da Petrini (1988) come caratteristiche del movimento tra varietà più locali e varietà di koinè. Rispetto a queste, nel nostro caso, si ha però un ruolo più rilevante dell'italiano, che fa talvolta pensare, per questi casi, ad una produzione 'bi-genetica' dall'italiano e dal dialetto (distinto quest'ultimo, a sua volta, in tratti arcaici o locali e tratti sovraregionali) e con un movimento sul continuum che viene istituito tra queste lingue288. La zona di variazione senz'altro più toccata è quella dello scambio tra [u] e [o], come per es. in sum/sóm, alura/alóra, normàl/nurmàl, burlaa/borlaa (e bürlaa), lavór/lavur, cuminciaa/cominciaa, dòpo/dòpu, vu/vò, probabilmént/prubabilmént (accanto per es. a profùnd in uno stesso parlante), o la terza persona singolare del presente indicativo di "avere" che compare sia come [u] che come [o] (es. u/o mai parlaa). Tra queste alternanze, che come si vede dagli esempi possono verificarsi all'interno della stessa parola, è difficile riconoscere delle regolarità ma nei casi di corrispondenza dialetto [u] - italiano [o] la tendenza sembra andare verso la soluzione con [u] quando questa costituisce l'unica possibilità di contrapporre la

288 Un'altra differenza rilevante riguarda probabilmente la quantità della variazione, maggiore nel nostro caso, ed il suo essere, sempre nel nostro caso, meno motivata.

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forma complessiva della parola dialettale a quella italiana. Così per es. in nuvità, scumpartimento, cusa, turna, tavula, ecc. (tra questi vale la pena di citare anche il 'quasi-neologismo' multa - per es. in multa gent - che non alterna mai con molta289). Ma questa è solo una tendenza che non manca di controesempi (come per es. in dopo/dopu), la quale però, se effettivamente in opera, può rivelare una 'ricerca di distanziamento' (pur minimo) dall'italiano. In breve, il comportamento dei parlanti fa supporre che la presenza di [o] renderebbe queste parole indesideratamente italiane, mentre [u] è sentito come un chiaro segnale di dialettalità. In altri casi la norma ha ormai accettato l'omofonia e la necessità di distanziamento non è più sentita (è appunto il caso di dopo e altri, come corsa accanto a cursa). La nota tendenza alla conservazione (e magari a fasi temporanee di complementarizzazione delle soluzioni) in espressioni caratterizzate da un grado maggiore di idiomaticità si nota comunque in alternanze come cumè vs. come (il primo è abituale anche nei parlanti che usano altrimenti, negli altri contesti, la seconda forma). Forse simile è la tendenza a trovare piuttosto [u] in forme verbali col clitico, e [o] in forme senza clitico (come in so mia a breve distanza da a su mia). In questo caso il clitico agirebbe da elemento di attrazione verso il polo dialettale. Quindi possiamo dire che la variante [u] (per [o]) è sentita dai nostri soggetti come una marca 'forte' della dialettalità, a volte addirittura più forte di /s/ + consonante o della caduta di vocale finale (anche se non sempre, come si vede per es. in lavor), ma che comunque il suo uso è variabile e soggiace a condizioni perlomeno difficili da definire. Un'alternanza difficile da motivare può occorrere anche in realizzazioni della stessa parola a brevissima distanza, come per esempio nell'enunciato seguente:

(al sa taca) al ram d'una pianta, l'eva mia al ram d'ona pianta ... ["si attacca al ramo di una pianta, non era il ramo di una pianta"]

Alternanze di questo tipo potrebbero guadagnare di sistematicità se la forma più vicina all'italiano rappresentasse sempre la prima occorrenza e quella più dialettale la seconda (come nell'esempio sopraccitato). Ciò sarebbe interpretabile come uno sdoppiamento in due tempi del recupero, con dapprima un aiuto

289 Parliamo di 'quasi-neologismo' perché ci è capitato di sentire questa espressione anche in discorsi di nativi, ma essa mantiene ancora un carattere di forte italianità e non è comune in dialetto.

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dell'italiano e poi un distanziamento dallo stesso. Ma la nostra casistica è troppo ristretta per l'osservazione di circostanze così specifiche, e, per quanto riguarda l'esempio sopraccitato andrebbe dapprima discusso lo statuto di attivazione (e il processo di recupero) dell'articolo indeterminativo, che ha una frequenza alta nei testi e quindi deve presumibilmente avere uno statuto differente da altre parti del discorso meno frequenti. E' comunque probabile che la prima occorrenza aumenti il grado di attivazione dell'elemento, permettendo così, in occasione della seconda occorrenza, un incremento di processazione o un intervento del 'filtro' o del monitor290. Riguardo ai parametri extralinguistici identificabili (sia personali, che contestuali, che testuali) questa variabile si deve perciò considerare, nei nostri parlanti, un fenomeno di variazione libera. Inoltre, [u] e [o] non sempre si contrappongono solo sul parametro italiano-dialetto, ma a volte l'opposizione è interna al solo repertorio dialettale, come per esempio in dumà/domà, indua/indoa, sempro/sempru (con l'aggiungersi anche in uno stesso parlante di sempre, forma sì italiana di origine, ma acclimatatasi anche nel dialetto di alcuni nativi). L'opposizione [o] / [u] (cfr. Petrini 1988, 69-71) è quindi particolarmente interessante perché raccoglie in sé più parametri di opposizione, come quello regionale, quello di koinè vs. tradizione, e infine quello di una maggiore vicinanza di [o] all'italiano. Nel Luganese la tendenza innovativa sembra proprio però essere la [u] e nasce dunque un interessante contrasto di innovatività da un lato interna al dialetto (nell'opposizione tratti arcaici vs. tratti innovativi) e dall'altro lato interlinguistica, lungo l'opposizione italiano-dialetto con [u] sentita come tipicamente dialettale, dunque non innovativa.

"Benché Keller non faccia mai esplicitamente menzione del fenomeno che ci interessa in relazione alla koinè, attribuiremmo le forme andrú, töiarú sü

290 Un controesempio nell'ordine d'uso (che tocca un'alternanza simile e cioè quella tra e e a), che andrebbe discusso nel quadro di questa ipotesi, si ha però in mia parché parlavi mia ben, perché parlavi trop in prèssa. L'alternanza parché/perché non è solo una tra dialetto e italiano, ma anche, e forse primariamente, una tra variante più locale-arcaica e variante sovraregionale (con quest'ultima quindi che viene a coincidere con quella italiana creando una frattura interna alle cosiddette varietà dialettali). Qui si potrebbe pensare che la parlante nel secondo caso fosse 'meno attenta alla forma'. Questo criterio dell'attenzione alla forma, se da un lato si propone come una spiegazione sovraordinata sia dei casi in cui è la prima occorrenza ad essere vicina all'italiano, sia dei casi opposti, dall'altro lato ha però proprio la caratteristica negativa di essere una 'non spiegazione', dato che ci lascia con il problema di andare oltre spiegando perché a volte sia maggiore e a volte minore l'attenzione alla forma.

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del suo giovane informatore di Gentilino (mentre la madre dello stesso usa andaró, in Keller 1937: 242 nn. 9, 10) a una tendenza che è oggi ancora in atto nel Luganese." (Petrini 1988, 70-71)

La soluzione prevalente statisticamente nei nostri parlanti di origine luganese è [u], coerentemente con la loro capacità di mantenersi in gran parte all'interno del dialetto, mentre non sembra proprio essere colto l'eventuale valore conservativo di [o], il quale invece per la sua coincidenza con l'italiano viene piuttosto sentito come 'innovativo'. Per parlanti del Bellinzonese vale l'affermazione di Petrini (1988, 88), relativa alle tendenze nei nativi, che il percorso di innovazione si sarebbe invertito:

"Abbiamo inoltre l'impressione che presso le piu giovani generazioni di Bellinzona [u] stia cedendo terreno in favore di [o] chiusa anche nei corrispondenti di it. -ore e di allora, ma non possiamo fornire alcuna prova registrata. Se si eccettua il Locarnese, poi, varrà l'osservazione che le [o] chiuse protoniche 'nella koinè ticinese si riducono per lo più a [u]' (DSI 1983: 15); cfr. anche quanto osserva Urech 1946: 23 n. 2 circa questa tendenza che egli riscontrava presso la giovane generazione della valle Calanca." (Petrini 1988, 88)

Anche un confronto tra i tre gruppi di PE riguardo a questo fenomeno non porta risultati significativi (tranne in un caso particolare di risistematizzazione che discuteremo in seguito) se non quello basato sul fatto che [u] è unicamente dialettale, mentre [o] può anche essere italiana (ma anche dialettale, come sappiamo!). Nei tre gruppi le due varianti si alternano con modalità qualitative e quantitative simili senza che sia possibile tracciare una linea di sviluppo apprendimentale291. La variazione tocca in questi parlanti tutti i livelli noti anche per i parlanti nativi e che non veicolano né problemi di comprensione né problemi di riduzione importante del carattere dialettale della varietà. Si hanno per esempio scambi tra [a] e [e], come in anca/anche292, per/par, nel/nal, o il già citato perché/parché.

291 Un migliore inquadramento di questo fenomeno nei parlanti evanescenti potrebbe essere possibile qualora si disponga di uno studio variazionistico sul parlato dei nativi. Date le caratteristiche di forte dinamicità del dialetto in Ticino attualmente, studi di questo tipo, su parecchi tratti, sono quanto mai urgenti e potenzialmente interessanti.

292 Anche e tutte le altre forme qui citate si ritrovano pure nel parlato di nativi.

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Interessanti sono poi alternanze come libar/libri293, o soluzioni plurime come dentar accanto a denta in alcuni parlanti e a dentro in altri, ciò che dà talvolta luogo a esiti strani come nei seguenti casi:

la tesc-ta l'è serada dentro [...] con la tesc-ta sempro dentra294

["la testa è chiusa dentro ..."] e l finiss dan- dentro un laghetto295

["e finisce dentro a un laghetto"]

Per finire, un bell'esempio di 'frase in movimento', dove appaiono sia fenomeni di commutazione di codice che soluzioni di variazione nella forma delle parole, è il seguente:

e mentre gl'è nel bosc-ch il can ved un nido daa .. avicc296

["e mentre sono nel bosco il cane vede un nido di api"]

3.2.6.1.3.2. Corrispondenze mancate Uno dei tratti che però differenziano fondamentalmente questi parlanti dai nativi riguarda la mancata realizzazione di possibili regole di corrispondenza, senza che per questo si arrivi necessariamente a parole omofone con l'italiano. Una delle

293 Anche nella stessa frase: "i libar che i è in recension, so mia l'Isabel Allende. Qui- chi libri lì."

294 Volendo fare un gioco d'ipotesi su dentra, unica occorrenza nel nostro materiale, dovremmo senz'altro considerare l'alternanza denta/dentro, che dà probabilmente luogo ad una forma ibrida, e il parallelismo fonologico sempro dentra che rinforza il mantenimento della r nel nesso tr. Il fatto che si tratti di un hapax rende il caso relativamente poco significativo per quanto riguarda l'esito specifico, esso è però molto significativo nel suo avvenire in una zona debole e di forte variazione del sistema. L'esempio ci mostra dunque l'incertezza del parlante ed il suo oscillare tra varie soluzioni legittime e altre tendenze di risoluzione online (disturbate dal contesto) con esiti autonomi.

295 In questo secondo esempio, è probabile un influsso di forme come e l finiss in da n lagh (v. la discussione sugli usi di di e da).

296 Abbiamo qui sottolineato le forme italiane o vicine all'italiano.

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regole più toccate è quella della palatalizzazione di /s/ davanti a consonante, con esiti come despiaseressa297, spiasaress, bastanza, stresant, ecc., fino alla frase

sa def schiscià ul butun da sci- da sinistra e mia da destra ["si deve schiacciare il pulsante di sinistra e non quello di destra"],

dove la falsa partenza (sci-, verosimilmente un'anticipazione della palatalizzazione sulla [s] iniziale di sinistra, che poi viene corretta e blocca forse anche la palatalizzazione corretta della /s/ + consonante seguente) fa pensare ad una certa autonomia della regole fonologiche (di corrispondenza), che sembrerebbero essere attivate parallelamente alla base lessicale italiana e applicate ad essa in un secondo tempo prima della produzione. A titolo di esemplificazione quantitativa possiamo segnalare che in due PE1 la pronuncia non palatale di /s/ occorre rispettivamente nel 13% e nel 23% dei casi possibili. La variazione è forte anche nelle altre categorie dei PE2 e PE3 (nei primi ci muoviamo tra il 12% e il 30%, nei secondi tra il 20% e il 43%), ciò che fa pensare che questa alternanza non sia controllata solo da fattori apprendimentali ma anche da altri fenomeni extralinguistici che neutralizzano in parte il suo valore di differenziazione rispetto all'italiano. In breve, questi casi di applicazione non completa della corrispondenza possono far pensare ad una produzione attraverso un processo interlinguistico, ma la loro selettività e il loro apparire in parole distanti dall'italiano (come per es. in schiscià) ci fanno piuttosto pensare ad un allentamento della rilevanza distintiva di regole come quella di /s/ + consonante, con l'assunzione da parte delle stesse di un carattere variabile invece che categorico (ad un livello di spiegazione più profondo si potrebbe pensare ad una difficoltà di gestione di questa regola oppure, in modo meno plausibile, ad una sua debole percettibilità). Altre corrispondenze, come quella tra la [u] dell'italiano e [ü] dialettale o quella della velarizzazione di /n/ finale sono rispettate in modo praticamente categorico a questo livello di competenza, e le uniche deviazioni verranno discusse più avanti come 'fenomeni di lapsus', privi quindi di fondamentale sistematicità.

3.2.6.1.3.3. Le corrispondenze 'riduttive'

297 Dis- sembre creare parecchi problemi e appare spesso come contesto privilegiato di non palatalizzazione; si confronti il capitolo sui parlanti non italofoni solo passivi.

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Nascono invece problemi in quei casi in cui la corrispondenza italiano-dialetto richiede piuttosto un'aggiunta di materiale fonologico che non una sua sottrazione (come tipicamente il caso per esempio nella regola della caduta della vocale finale). Accanto ai casi di suppletivismo (in cui vengono alternate basi differenti e difficilmente ricollegabili) avremmo quindi, nella gerarchia di distanza interlinguistica298, quei casi in cui la forma dialettale richiede appunto più materiale fonico (debolmente motivato299) di quella italiana e la prima è non prevedibile a partire dalla seconda (immaginando un'ipotetica linea italiano-dialetto parleremo di 'prevedibilità a sinistra'). A questa categoria segue poi quella delle regole di corrispondenza regolari, e infine quella delle forme omofone, uguali o accettabili, nelle due lingue. Nel primo caso, quello del suppletivismo, il passaggio da una lingua all'altra è ugualmente difficile, nel secondo, la 'prevedibilità a sinistra', abbiamo un'asimmetria che favorisce il dialetto (ovvero è più facile, più prevedibile, il passaggio dalla forma dialettale a quella italiana), nel terzo, la 'prevedibilità a destra', l'asimmetria va nella direzione inversa, e nel quarto caso le due direzioni sono ugualmente facili.

suppletivismo > prevedibilità a sinistra > preved. a destra > omofonia con l'it.

Il corrispondente dell'italiano così per esempio crea tipicamente problemi nella produzione del discorso. L'enunciato seguente mostra bene il procedimento di produzione, che sembra prima essere orientato da un principio generale secondo il quale il dialetto 'riduce' rispetto all'italiano:

l'è mia sì ri- ... inscì rigit ["non è così rigido"]

La costruzione della quale la parlante sembra tanto sicura da continuare con ri- (inizio di rigid) rivela un collegamento con così e l'ipotetica forma dialettale ricavata con caduta della sillaba atona (potrebbe esserci pure un influsso francese, ma, da un lato, il procedimento è coerente con altri casi in cui questo influsso è

298 Che effettivamente si può tradurre in una gerarchia di difficoltà di processazione con spinte sul polo della memorizzazione.

299 Se l'aggiunta è motivata semanticamente e trasparente morfologicamente il collegamento diventa di nuovo più facile e potenzialmente produttivo.

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escluso, e, secondariamente, nelle produzioni di questa parlante il ruolo del francese è pressoché irrilevante300). E' simile il caso di un'altra parola frequente, corrispondente all'italiano più, per la quale invece dell'esito corretto in questo contesto si ritrovano forme come le seguenti:

l'è un po' püü ... l'è piü granda dala nossa ["è un po' più grande della nostra"]

La soluzione dei nativi in questo caso sarebbe püssée, con, ancora una volta, l'aggiunta di materiale non più motivato. Il tutto è poi complicato dal fatto che il dialetto distingue tra due valori dell'italiano più, e cioè il püssée appena visto, contrapposto a pü o piü, che si usano come negazione unica postverbale con valore temporale (per es. in al l ha pü fai, "non l'ha più fatto"). E' chiaro che ci può essere stata confusione tra le forme, ma è significativo che sia stata preferita la forma 'riduttiva' e più prevedibile rispetto all'altra. Questa tendenza dei parlanti evanescenti va probabilmente ricollegata ad una loro generalizzazione psicotipologica riguardo alle differenze tra le due lingue. L'impressione che essi ricavano a prima vista dal confronto è che effettivamente il dialetto tenda ad essere 'riduttivo' rispetto all'italiano. Si può pensare che anche la sonorizzazione delle occlusive intervocaliche e parecchi altri fenomeni siano sentiti come attenuazioni e vengano quindi inclusi dai parlanti evanescenti in un trend generale di rapporti tra italiano e dialetto, dove il dialetto avrebbe anche un carattere maggiore di allegro speech e di attenuazione rispetto all'italiano301.

3.2.6.1.4. Lapsus e altri problemi di corrispondenza A volte si trovano forme devianti dalla norma dialettale non per la mancata applicazione di corrispondenza ma per una 'corrispondenza eccessiva', o per errori

300 Ma entrambe le lingue sembrano essere comunque sentite come 'lingue riducenti' rispetto all'italiano.

301 Su questo punto si deve tener conto della tendenza che si ritrova negli adulti che si rivolgono ai bambini e che per scopi chiarificativi usano parole italiane nel discorso dialettale, proprio con strategie simili a quelle dei procedimenti di lento speech (cfr. il capitolo sul baby talk dialettale).

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di applicazione. Questi casi vanno qui considerati, più che come difficoltà di restrizione delle regole, come dei lapsus. Nel caso seguente per esempio la sequenza di [u] può aver provocato un'incertezza, legata al problema generale della variazione:

ma pias ül cuntat cula gent ["mi piace il contatto con la gente"]

Sempre per la gestione di [ü] si veda anche:

l cur ... e l buta giü, e l buta giü da n buron ["corre e lo butta giù, e lo butta giù da un burrone"]

In situazioni speciali di esecuzione, quindi, la categorialità del passaggio a [ü], altrimenti costante in questi parlanti, viene violata. Non consideriamo questi casi come fenomeni di vera e propria variabilità (nonostante ricordino parecchi degli esempi visti in precedenza) perché si tratta di fenomeni isolati rispetto alla regolarità con cui di solito la forma dialettale è rispettata. Procedimenti di questo tipo fanno pensare che la produzione avvenga sulla base dell'attivazione di una serie di occorrenze possibili, che in un'ultima fase prima della produzione vengono sottoselezionate fino al rimanere di un'unica possibilità. In questi casi, presumibilmente per motivi di difficoltà di gestione della processazione, verrebbe a mancare l'operazione finale di selezione e ne risulta l'uso di uno degli esiti possibili. Questo potrebbe voler dire che il sistema di queste persone è organizzato (o viene attivato nella produzione) non in termini di singoli elementi discreti ma piuttosto in termini di 'categorie di elementi', o di 'macroelementi' che devono essere sottospecificati e che queste due operazioni di selezione (prima il macro-elemento, con le sue macro-opposizioni, e poi il micro-elemento) sono distinte e agiscono in fasi differenti, ma spesso (e forse è fondamentalmente così nella comprensione, con l'importante influsso dei processi dall'alto verso il basso) è sufficiente arrestarsi ad uno stadio primario senza portare fino in fondo il processo di discriminazione. Ciò spiegherebbe in parte anche i casi di forte variazione visti sopra, in quanto le differenti varianti sociolinguistiche verrebbero raggruppate in categorie più generali dove la selezione tra le varianti non è del tutto chiara (si ha quindi un livello di strutturazione del sistema con una forte percentuale di 'allofonia relativa', che viene poi disambiguata ad un livello inferiore). Fenomeni non ben definiti, come per esempio la percentuale di occorrenza, o l'associazione indessicale a parole

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specifiche, o fenomeni di 'armonizzazione' nel cotesto farebbero a lungo termine la differenza portando alla creazione di differenziazione sociolinguistica o linguistica. In altri casi difficoltà di gestione di una parte di frase possono portare a esiti strani in altre parti altrimenti di solito ben gestite e possedute. Pensiamo, nel passaggio specifico riportato qui sotto a titolo di esemplificazione della categoria, allo scambio di ausiliare con "avere" (s'ha) per "essere" (s'è) con l'interessante 'armonizzazione vocalica' prima di te e s'è, e poi di ta che probabilmente provoca s'ha.

sè che tè s'è che te s- oddio sè che ta s'ha dré a fà ["che cosa stai facendo"]

3.2.6.1.5. Soluzioni alternative e calchi Infine, per quanto riguarda più specificamente il livello lessicale, si notano alcune estensioni e usi impropri di lessemi dialettali. Questi fenomeni, tipici delle varietà di apprendimento, si ritrovano qui in quantità molto ridotta poiché la vicinanza delle lingue in gioco (dialetto e italiano) riduce di molto i vuoti lessicali sia a livello di facilitazione di apprendimento, che di recupero delle conoscenze, che, ancora, di produzione di 'ipotesi di dialettalità'. Si hanno comunque alcune semplificazioni, come per es. nel caso seguente:

al vusa dré a di vesc-p ["sgrida delle api"]

Vusà dré vuole sì dire "sgridare", ma sarebbe più appropriato usare un corrispondente di "abbaiare", dato che il soggetto di cui si riferisce l'azione è un cane (che abbaia alle api). Di fronte alla richiesta di fornire dei corrispondenti di "abbaiare", dopo molte esitazioni, la parlante produce bó- bóia. Le esitazioni possono rinforzare l'ipotesi della difficoltà di recupero e quindi dell'uso di vusà dré come soluzione lessicale semplificativa. Altri casi interessanti riguardano l'intreccio di più strategie lessicali con esiti particolari. Per esempio per "arrampicare su una roccia", dove il lessema "roccia" tende a selezionare sintagmaticamente "arrampicare", una parlante dice:

l sal süü naa .. l monta sü na sü na rocia

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["sale su una .. monta su una su una roccia"]

L'espressione salire su una roccia per arrampicare è normale e consueta in italiano, specialmente se la roccia non è particolarmente alta e il risultato assume quindi più valore del processo di salire302. Ciò che qui è interessante è la mancanza in dialetto di un corrispondente diretto, e sintetico, di "salire". Salii (infinito), o qui al saliss, sono sentiti come fortemente italiani e non appartengono alla tradizione dialettale neanche recente. Sal poi è forma scorretta, che ci rimanda anche al paragrafo precedente relativo alle difficoltà a passaggi dall'italiano al dialetto che richiedono l'aggiunta di materiale e ci mostra un bel caso di costruzione di forma verbale con la caduta della vocale finale invece che con procedimento morfologico autonomo del dialetto. Al monta è un'espressione anch'essa impropria e viene qui usata perché la parlante ha forti dubbi sull'accettabilità di al sal303. Come possibilità corrette i nativi userebbero o una forma più specifica per il tipo di movimento ("arrampicare") ulteriormente precisata dall'indicazione della direzione (quindi al rampìga sü), oppure la più generica delle possibilità per il moto, cioè il corrispondente di "andare", con l'aggiunta della specificazione analitica della direzione. Direbbero quindi probabilmente al va sü sü na rocia. L'espressione qui usata dalla parlante non nativa, crea però per il parlante nativo che la sente, al di là della stranezza di sal, un effetto secondario, forse ricercato dalla parlante sulla base della sua competenza dell'italiano, tra la forma generica al va sü e la forma più specifica al sal sü. Questo effetto, che o è trasferito dall'opposizione in italiano tra sale e va su o è ricavato da principi o tendenze linguistiche generali che fanno valutare in modo differente espressioni più specifiche o sintetiche, ha comunque come risultato il fatto che al va sü venga sentito come più colloquiale-informale e al sal come più 'fine', formale, preciso, ecc. L'origine dell'espressione potrebbe dunque essere anche un calco motivato sociolinguisticamente dall'italiano. Più che non usare il corrispondente di

302 E se lo svolgimento non richiede particolare perizia tecnica o soprattutto l'uso delle mani.

303 Si noti che in entrambe le occorrenze dell'esempio sü è preposizione e non avverbio. Se proprio fosse il caso un nativo userebbe piuttosto al saliss sü sü na rocia (cioè "sale su su una roccia"). Lo stesso discorso vale per al monta sü. L'avverbio mette l'accento sulla rilevanza del risultato ('l'essere in cima'), perciò le due espressioni (con o senza avverbio) non sono del tutto sinonime.

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"arrampicare" la parlante voleva allora probabilmente evitare l'effetto di stile basso dato dall'espressione analitica al va sü (che sarebbe senz'altro capace di produrre). Il caso è quindi interessante perché mostra un esempio di trasferimento di 'principi sociolinguistici' da una lingua all'altra. Ciò che è più formale in italiano viene interpretato come tale, e usato in questa funzione tramite prestito o calco, anche in dialetto. La semiologia dei rapporti tra italiano e dialetto e quella delle varianti italiane ristruttura allora anche la semiologia delle varianti (o neo-varianti) dialettali. Accanto ai noti fenomeni di influsso 'per contatto' tra varietà vicine che portano soprattutto elementi dialettali nell'italiano abbiamo dunque anche fenomeni di parallelismo tra le varietà alte di entrambe le lingue (e tra le varietà basse delle stesse)304. I fenomeni sono per ora ancora marginali ma potrebbero diventare più importanti in futuro, con le tecniche di formalità dell'italiano che influenzano la ricerca di una nuova formalità nel dialetto (anche perché il contatto con l'italiano a sua volta provoca questa nuova ricerca)305. E accanto al continuum apprendimentale italiano-dialetto (che fa tendere verso il polo dell'italiano per scarsa competenza del dialetto) abbiamo dunque un continuum sociolinguistico in cui la variazione verso l'italiano assume valore stilistico.

3.2.6.2. I PE2 Questi parlanti costituiscono più che altro una categoria di transizione tra i PE1 e i PE3 (che rappresentano i due chiari estremi della gamma di varietà che abbiamo potuto osservare). Ciò non toglie che esistono, anche al livello di cui qui ci stiamo occupando, criteri linguistici che rendono i membri di questa categoria individuabili e particolari. Innanzitutto, il primo effetto che si ha di fronte ai loro testi, rispetto a quelli della categoria precedente, è di una maggiore presenza dell'italiano, rivelata sia da

304 I fenomeni di varietà direttamente a contatto riguardano piuttosto l'influsso del dialetto sull'italiano, mentre gli influssi dell'italiano sul dialetto saranno piuttosto tra varietà 'discontinue'. Il dialetto ha poco bisogno di prendersi strumenti di informalità o di colloquialità dall'italiano.

305 Un settore classico in cui si potrebbero manifestare fenomeni di questo tipo è quello della frase relativa, dove la tensione tra espressione sintetica e espressione analitica si presta ad una interpretazione in termini di maggiore o minore formalità.

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parole non adattate (prestiti o commutazioni di codice) sia da gradi intermedi di adattamento e da fenomeni di adattamento errato. La gestione della variazione regionale diventa ancora più incerta e dà luogo talvolta a degli ibridi interdialettali. Sotto queste pressioni anche la morfologia presenta punti importanti di cedimento. Per quanto riguarda le soluzioni lessicali e lo sfruttamento delle corrispondenze, i PE2 mostrano una soglia di tolleranza superiore rispetto ai PE1 con una conseguente maggior presenza di prestiti non adattati che si muovono tra la categoria degli elementi tollerabili nel discorso dialettale fino a rappresentanti a pieno diritto della categoria del code switching, in un continuum che in questo modo si stabilisce tra italiano e dialetto e che riduce, nel discorso, la separazione normativa della due lingue. Si tratta di espressioni come in genere, vocaboli, ul solo, vess una mosca bianca, l'è un modo per distinguersi, l'è na cosa mista, però a fuu troppi errori, l'è in dala só camera, ecc. Anche qui abbiamo la solita forte presenza di connettivi italiani (talvolta adottati normalmente nel parlato dei nativi con la stessa funzione enfatica o di 'strutturazione' con un passaggio più esplicito ad un uso metalinguistico) o di altre parole funzionali e di alta frequenza, come mentre, difatti, solo, adesso, molto, ecc.306

3.2.6.2.1. Dialettismi non produttivi Tra quelli che abbiamo definito 'suppletivismi interlinguistici', cioè parole dialettali non ricostruibili a partire dal dialetto, si ritrovano nei nostri intervistati espressioni come bogià per "muoversi" (dove forse potrebbe esserci un aiuto del francese nella memorizzazione), ammò ("ancora"), la sc-carpada ("il pendio scosceso"), nagótt ("niente"), e altri ancora tra i quali è molto ben conosciuta l'espressione vert la porta e piza la lüüs, che traduce una delle frasi di elicitazione.

3.2.6.2.2. Corrispondenze variabili

306 Andrebbe controllata quantitativamente l'ipotesi che questi italianismi siano più frequenti nel parlato di nativi di genere femminile che maschile, il che segnalerebbe l'assunzione da parte loro di un valore sociolinguistico. Abbiamo potuto notare questa correlazione (anche) nei nostri materiali, che in questo senso sono però poco significativi e invitano piuttosto alla prudenza.

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Come al solito, sono però ancora più interessanti, nel loro incremento rispetto alla categoria precedente, i tentativi parziali o mancati di adattare al dialetto parole italiane. Oltre al noto fenomeno del sottoimpiego delle regole di corrispondenza, che dà luogo a esiti come fumà (dove viene violata una delle cosiddette regole forti della dialettalità), schiscià (altra regola forte della s davanti a consonante; un altro esempio di difficoltà di gestione di questa regola si ha in ul pulsant da sinistra e mia chel da desc-tra), o vetru, dove manca la sonorizzazione della consonante dentale307, o, ancora, in i ariva per i riva. Appaiono in modo importante a questo livello esiti devianti o per sovraimpiego di regole di corrispondenza, che i parlanti nativi non applicherebbero, come per es. in l'è sc-tran ("è strano"), o per creazioni che vanno già in una direzione autonoma. Queste ultime sono talvolta dovute a 'pseudo-regole' di corrispondenza, come quella che porta un parlante a trasformare it. cinquanta in dial. cincanta (e anche qui potrebbe esserci un influsso 'tipologico' francese, sostenuto però da una 'ipotesi di dialettalità', fondata sulla generalizzazione della riduzione di qu- italiano a ch- dialettale, come in chesc-to "questo") o it. albero in dial. albru. Si nota ancora la difficoltà con 'operazioni aggiuntive' del dialetto (che richiedono cioè l'aggiunta di materiale invece di procedimenti di sottrazione o lenizione), come nel caso paradigmatico dei vari tentativi di fornire un corrispondente di più, dove in luogo del dialettale püssée, si ritrovano forme ibride come per es. piü fino all'invariato più. In altri casi, questi prodotti devianti sono causati dall'uso da parte del dialetto di una base lessicale differente da quella adottata dall'italiano (si tratta quindi di veri e proprio 'suppletivismi interlinguistici' che gli apprendenti non colgono), come per es. in la mord (per la cagna, cioè "morde"), la éss (per la végn fö, la salta fö o qualcosa del genere a seconda dei contesti, con il valore di "esce"), ul cad (per u bòrla giò, cioè "cade"). Il dialetto diventa in questi casi sempre meno un fenomeno di varietà autonoma, imparata attraverso l'input, e diventa sempre più una varietà 'parassitaria' dell'italiano, fondata su basi lessicali italiane e strategie di corrispondenza o addirittura vaghe ipotesi di dialettalità. Al livello delle scelte alternative possibili (che abbiamo visto caratterizzare le varietà dei parlanti nativi e quelle dei PE1) si deve notare che uno solo dei nostri

307 Sulla vocale finale v. più avanti.

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soggetti ha ridistribuito [u] e [o] secondo una regola contestuale categorica: la vocale impiegata davanti a consonante nasale ([m] o [n]) è sempre [o], nel resto dei contesti compare sempre [u]. Il parlante ha molto probabilmente raccolto il modello fornito da alcune zone del Sottoceneri, in cui questa allofonia condizionata fa parte delle varietà native. Egli sceglie quindi una strada particolare, ma di alta sistematicità, tra le varie soluzioni teoricamente possibili al problema dell'alternanza [u]-[o]308. Altre soluzioni potrebbero per esempio consistere anche semplicemente nel lasciare le cose come stanno, o per esempio nell'appoggiarsi all'italiano, come mostrato per la varietà innovativa B di Cevio-Linescio da Michele Moretti (1988, 21):

"B presenta sempre, conformemente all'italiano, l'esito [ó]. In A compaiono invece i due allofoni liberi (spesso rappresentati da esiti intermedi), anche se l'esito [u] è da ritenersi senz'altro più arcaico." (corsivo nostro)

Oppure, ancora, si potrebbero attribuire valori differenti di 'tipica dialettalità' alle varianti, come abbiamo visto che fanno i PE1. Tra le forme lessicali particolari sempre dello stesso parlante aveva attirato la nostra attenzione la parola vetru, che viene utilizzata tre volte nel corso della narrazione della storiella (accanto ad un'occorrenza vetro, che compare nella terza posizione nel testo) per far riferimento al vaso in cui il cane infila la testa rimanendovi incastrato. L'interesse di questa forma era ovviamente dettato dalla stranezza del procedimento di 'de-italianizzazione', che trascurando la sonorizzazione della occlusiva dentale (come è previsto dal dialetto), puntava piuttosto sulla trasformazione della -o finale in -u. Alla luce di quanto osservato sopra in relazione alla regola di distribuzione di [u] e [o] dobbiamo ora supporre anche in questo caso un influsso di questa regola, che è allora tanto forte da far dimenticare al parlante, almeno temporaneamente, altre componenti della sua competenza dialettale. Gli altri PE2 (ma anche i parlanti delle altre categorie) non presentano invece questa soluzione, manifestando invece un comportamento caratterizzato da variazione libera (si vedano alcuni esempi, di natura anche differente, come confóndi, cul, cum mì, comincià, cuntinua, al bòrla, cunt, ecc.).

308 E' interessante che a raccogliere questo modello sia non uno dei parlanti più competenti, ma un PE2, e ciò solleva la domanda se la ragione di queste differenza vada esclusivamente ricercata in un'eventuale maggior influsso di input particolare e piuttosto in una sensibilità particolare del parlante per fenomeni di variazione contestuale di questo tipo.

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Per finire, tra le soluzioni lessicali di aggiramento delle difficoltà possiamo segnalare forme come i fiöö rana, per "i piccoli ranocchi", con un procedimento di composizione che fa assumere a fiöö un valore da prefissoide, mentre l'intera costruzione incrementa l'esplicitazione del contenuto, o ma l'ha dii ier come traduzione di me ne ha parlato ieri (con la sostituzione di "parlarmene", più complesso da un punto di vista sintattico, con "dirmelo"), o sentivi la radio (per "ascoltavo la radio"), o, ancora, l'uso di ciamà per vosà (cioè "chiamare" per "gridare").

3.2.6.3. I PE3 In quest'ultima parte discuteremo le caratteristiche che a questo livello contraddistinguono i PE3 rispetto ai gruppi visti in precedenza, concentrandoci in particolare sulle principali corrispondenze fonologiche. Questa categoria di parlanti è quella dei meno competenti, e nelle loro varietà ritroviamo quindi incrementati i tratti devianti delle categorie precedenti. A questi si aggiungono però anche nuovi fenomeni, che pongono talvolta, per quanto riguarda le espressioni lessicali, queste varietà a cavallo tra il dialetto e l'italiano, formando una vera e propria zona di transizione. Anche qui ritroviamo parole italiane non adattate e commutazioni di codice e ritroviamo pure parole dialettali chiaramente apprese in modo autonomo (e chiaramente non costruite tramite corrispondenza, ma memorizzate, con l'aiuto evidente della loro alta frequenza nell'input). Tra queste ultime appaiono, come negli altri gruppi, espressioni lessicali sentite come arcaiche o fortemente dialettali dai parlanti stessi, atte quindi a caratterizzare particolarmente la distanza del codice dialettale da quello italiano. Pensiamo per es. a espressioni come un ciüch ("un tronco") o la brüga ("il pendio scosceso"), dicendo le quali, quasi inevitabilmente, i parlanti ridacchiano. Ma il carattere di queste 'parole bandiera' è quanto mai episodico e poco sistematico. Se la morfologia è normalmente il criterio adottato per l'attribuzione di pseudo-ibridismi (nel senso che gli stessi vengono attribuiti alla lingua che fornisce le regole morfologiche), abbiamo visto che nel nostro caso diventa talvolta difficile decidere secondo questo criterio. Si veda per esempio a questo proposito la forma

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per la terza persona plurale del verbo "essere", che frequentemente è realizzata come son (es. son frontaliér, per il dialettale i è), dove il dialetto al massimo fornisce la fonologia, ma ha uno scarso ruolo nella specificazione morfologica309. Queste varietà si prestano perciò particolarmente bene a mostrare alcune delle possibili linee del confluire del dialetto nell'italiano310, tenendo conto che le caratteristiche principali di questi soggetti sono la forte italofonia e il diminuito contatto (ed interesse) per il dialetto. Rispetto ai parlanti delle categorie precedenti il loro contatto con l'input dialettale è ridotto (oggettivamente o soggettivamente, nel senso proprio di uno scarso interesse) e il fenomeno della convergenza linguistica (sotto forma di costruzione del dialetto a partire dall'italiano) si spinge ai livelli più forti. Le 'ipotesi di dialettalità' perdono sempre più contatto con la realtà, e il lavoro sulla 'tipologia vaga' cresce di importanza. A ciò corrisponde ovviamente anche una maggiore entrata in scena del francese, che, da un punto di vista attivo, è senz'altro meglio gestito da parte di questi parlanti di quanto lo sia il dialetto, e che spesso, accanto all'italiano, fornisce le basi lessicali o diventa un sostegno importante per l'elaborazione delle regole fonologiche. Si ritrovano così espressioni come set arancc (per "queste arance", dove il dimostrativo è innegabilmente di origine francese), o come in dal tru .. in dal böcc. Nella ricerca di diversità in un ambito di forte percettibilità, quello della negazione, appare pas (pas tücc), e per "più" incontriamo casi (in due parlanti differenti) di plü (per es. in plü pìcola). Ma in modo ben più interessante il francese fornisce anche (o contribuisce alle) ipotesi fonologiche di trasformazione dell'italiano in dialetto. Così per esempio l'italiano apri (imperativo di seconda pers.) diventa uvrissa dove soprattutto la [u] iniziale non può non far pensare a ouvre e la distanza (anche rispetto al dialettale vert) è notevole. Ancora una [u] francese può essere considerata quella che si ritrova, in molte occorrenze, in truva "trova" accanto a tröva (e addirittura con tre varianti in alcuni parlanti accanto anche a trova; lo stesso discorso vale anche per forme del verbo provare, come il pruv). In casi di questo tipo non si può escludere un richiamo lessicale francese che viene accettato come possibile base dialettale. Un influsso francese è presupponibile pure per cuminza (fr. il commence), dove il

309 Dal punto di vista delle 'intenzioni del parlante' è invece indubbio che in questo caso si abbia a che fare con una parola dialettale.

310 Linee, ripetiamolo, puramente potenziali, dato che non è detto che essi si realizzino veramente in queste modalità in termini diacronici nelle varietà dei nativi.

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problema di trasformare l'affricata palatale italiana in un corrispondente dialettale è sostenuto anche dalla corrispondenza della stessa affricata italiana con la fricativa di una lingua sentita dai parlanti come 'tipologicamente coincidente' (da un punto di vista fonologico) con il dialetto. Ciò porta ad ipotizzare come esito dialettale (forse intermedio tra italiano e francese) l'affricata dentale sorda, con la complicità della vocale finale mantenuta. Un caso simile si ha in desida ("decide", fr. il décide), dove ancora una volta la soluzione di 'attenuare' le affricate porta ad un esito dialettale particolare (v. anche tisinés "ticinese"). Sempre per le affricate l'ipotesi del legame con il francese è legittimamente almeno proponibile per forme come viasg- ("viaggio", [via]) per viacc ([viat]), e ancora una volta è possibile trovare nelle corrispondenze italiano-dialetto una tendenza che sostiene la credibilità del legame sotto forma di una preferenza nel dialetto per l'indebolimento delle consonanti venutesi a trovare in posizione finale. A regole di corrispondenza o pseudo-corrispondenza andranno poi attribuiti ancora altri esiti 'strani' come azénda "accendi" e zént "gente" (cfr. più avanti anche la discussione sulle cosiddette 'interlingue improbabili'). Un altro fenomeno riguarda la caratteristica comune di dialetto e francese di perdere le vocali finali, con le conseguenze che ciò viene ad avere per le consonanti e le vocali passate così in ultima posizione. Non è raro così ritrovare forti nasalizzazioni delle vocali seguite da n, come in el vien ("egli viene"), il cãn ("il cane"), fino alla caduta della consonante finale che carica ancora di più di nasalità la vocale passata in ultima posizione (v. anche tusãn "bambino", ma nella lingua obiettivo si ha solo tusann con il valore di "bambine"). Per "il cane" abbiamo in due differenti PE3 realizzazioni come cã (che si alternano con forme come can e cann). Anche per i verbi "venire" e "prendere" si hanno gli esiti al pren e vien. Per "postino" abbiamo in un'unica occorrenza puscten311. Infine un ultimo caso degno di nota è la corrispondenza tra -ore italiano e -ör 'pseudo-dialettale'312, come per es. in genitör e in casciadör.

311 La trasformazione di -in dialettale in un 'post-francese' en è tra l'altro un procedimento abbastanza diffuso di gergalizzazione giovanile dialettale. Non crediamo però che questo fatto abbia giocato qui un ruolo importante.

312 Questa corrispondenza è, o era, presente in dialetto in prestiti dal francese, come per es. tipicamente in futbalör ("calciatore"), o montör ("montatore elettricista").

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E' ovvio che molto spesso il francese è unicamente uno dei 'suggeritori' responsabili di queste forme, accanto a corrispondenze regolari che vengono sovraestese o generalizzate. Questo è per es. particolarmente evidente, oltre che in molti dei casi citati in precedenza, anche in parole come echilibr "equilibrio", dove il passaggio da qu ([kw]) a ch ([k]) è lo stesso che si ritrova regolarmente per es. in chesc-to, ma che in questo caso i nativi non farebbero313. In breve il ruolo del francese come lingua d'appoggio è quello che potremmo definire di 'suggeritore tipologico', posto che per i parlanti evanescenti le due lingue sembrano andare in direzioni simili rispetto all'italiano e quindi la 'tipologia fonologica generale' del dialetto (per questi parlanti) ed il francese contribuiscono cooperativamente a proporre ipotesi dialettali. Una tipologia, come struttura co-implicativa importante di un livello profondo della lingua (o di un gruppo di lingue), tende sempre ad essere una sovrageneralizzazione314, e quindi la precisione degli esiti rispetto alla lingua obiettivo diminuisce. In questo caso, oltrettutto, si tratta di una tipologizzazione a posteriori, cioè di una estrazione di caratteri generali da una lingua non materna, quindi non una vera tipologia nel senso delle effettive caratteristiche profonde della lingua stessa ma una 'psico-tipologia', cioè il risultato della percezione e della elaborazione di queste caratteristiche basilari da parte degli utenti della lingua. Accanto alla variazione normale, per queste varietà entra in scena in modo ancora più importante una variazione più legata al loro statuto apprendimentale e alla difficoltà di gestione della competenza attiva. Uno degli effetti tipici di ciò si

313 Sulla base di questi fenomeni ci si può chiedere se non sarebbe possibile innalzare il grado di prevedibilità dei risultati di un'analisi contrastiva combinando contemporaneamente più analisi contrastive delle differenti lingue in gioco (e quindi accanto alle lingue materne anche le varie lingue d'appoggio), con un'analisi constrastiva cumulativa (che da un ruolo preminente ai risultati convergenti). Al di là della meccanicità eccessiva del procedimento, che porterebbe comunque ad un grado relativamente basso di predittività (per i tipici difetti di qualunque analisi contrastiva, come primo tra tutti quello di presupporre a priori un vantaggio fondamentale per le varianti della L1, indipendentemente dai differenti valori di marcatezza o naturalezza), è indubbio che la gamma dei risultati possibili si allarghi ma nel contempo una parte maggiore dei risultati effettivi verrebbe a rientrare in essa (si tratta quindi di risultati che una semplice analisi contrastiva uno a uno, L1-L2, non avrebbe predetto).

314 Anche se una sovrageneralizzazione molto potente nel raggio d'azione non lessicale (o meglio al di là delle eccezioni motivate indessicalmente) della lingua.

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manifesta in un incremento importante della variabilità nelle corrispondenze. Accanto ai casi di alternanze possibili anche in dialetto, che costituiscono dunque casi di variazione endogena (anche se vi si ritrova una componente di relazione con l'italiano, come nel ben noto esempio dell'alternanza [u]-[o]), si nota un incremento della variazione anche per quei settori in cui il dialetto possiede soluzioni categoriche o quasi. Così [ü] si manifesta sì nel discorso di questi parlanti (per es. in brütt "brutto", pü "più", pülsànt "pulsante"315, paüra, vün "uno", lüüs "luce", tücc "tutti", vegnüt "venuto", ecc.) ma si alterna con una 'neo-variante' posteriore (come per es. in giugá "giocare", piovú "piovuto", butá "buttare", fumá "fumare", luus "luce", tutt "tutto", ecc.316). Inoltre [ü] compare anche in contesti in cui non sarebbe prevista, come per es. in disc-cürs "discorsi", Giüvann "Giovanni", ün "un" (art. indet.317), trüv "trova", ecc. Un caso ancora più forte in questa direzione è quello di al cüra "corre". Talvolta questa corrispondenza è realizzata in modo prioritario addirittura rispetto alla caduta della vocale finale, come per es. in misc-cüglio, o, in modo ancora più sorprendente, in düro "duro". In un caso [ü] viene poi messo in corrispondenza con il dittongo italiano au, arrivando all'esito püüra "paura". La produttività e stabilità di [ü] è sostenuta per le varietà anche innovative dei nativi da Petrini (1988, p. 73):

"La vocale chiusa anteriore procheila, sebbene sia assente dall'inventario fonetico della lingua 'tetto', non tende per nulla a essere sostituita con [u]. Anzi, per prendere degli esempi concreti, alcuni testi che Bianconi attribuisce alla 'koinè dialettale di tipo urbano sottocenerino', la più soggetta a influsso italianizzante, presentano una serie di parole di origine sicuramente italiana, prese di peso dalla lingua per un bisogno immediato, determinato dal tipo di testo e dall'argomento che vi si tratta; ebbene, questi termini attestano chiaramente la presenza di [ü] quale corrispondente della [u] italiana: così si hanno indiscütibilment, sitüazzión, ütilissim (testo A), rivolüzzionari, natüralment (testo B), inüman,

315 Questa parola è uno di quei casi in cui anche i nativi presentano variazione tra [ü] e [u], e questo per la sua discendenza italiana che rende possibile (o addirittura preferibile?) il non adattamento di [u].

316 Sul totale dei contesti previsti [ü] è comunque più diffusa della variante concorrente. In due PE3 le percentuali di distribuzione sono rispettivamente del 70% e del 62% per [ü] .

317 Qui è ovviamente possibile che sia confluito parzialmente il numerale vün.

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conclüsion, apertüra, i costitüaressan indübiament, svilüpp (testo C), discütt, preocüpát (testo D; Bianconi 1980: 62-65). A monte di questa situazione sta una notevole vitalità del suono dialettale, che si può verificare anche nella penetrazione di [ü] per contiguità geografica in quelle aree che sono state significativamente denominate 'isole' di [u] da U lunga."

Si tratta quindi certamente di un chiaro segnale di dialettalità, ma la competenza particolare dei nostri soggetti ne rende fortemente variabile l'uso. Il fatto che posizioni etimologicamente differenti subiscano lo stesso trattamento dimostra come la base di partenza sia di solito per i nostri parlanti la voce italiana318. Il discorso è in parte simile per [ö], dove abbiamo occorrenze corrette (tröva "trova", föra "fuori", sc-cöla "scuola", vöö "vuole", vöt "vuoi", növa "nuova", bisögna "bisogna"), accanto ad un numero minore di sovraestensioni (l'öma "l'uomo", pödi "posso", ecc.). Negli stessi parlanti si ritrovano talvolta, anche nelle stesse parole, sia [ö] che [o], come per es. tipicamente nelle voci del verbo "trovare", che può dare sia trövi che trovi "trovo" (o in "piovere", piovüü vs. piövüü "piovuto"), o come in sc-cora / sc-cöra, ma in questi casi si ha variazione regionale nelle varietà native (e la prima alternanza in particolare può occorrere anche in un unico discorso dialettale di un parlante nativo319). Abbiamo accennato alla presenza del rotacismo, che ci spinge nei casi specifici ad attribuire una maggiore importanza all'influsso dell'input (quindi all'apprendimento lessicale), ma anche qui abbiamo casi di alternanza per quanto riguarda [ò]-[ö] (come per es. in uno stesso parlante le varianti sc-cora e sc-cöra). Frequenti, e sempre corrette nei nostri materiali, sono le forme derivate di "nuovo", nöf, növa, ecc. Se per i primi due gruppi di parlanti (i PE1 e 2) si può supporre un ruolo 'neologistico' ancora relativamente basso delle corrispondenze, le quali avrebbero

318 Sarebbe interessante indagare con materiali mirati se la differente origine etimologica non provochi differenze di trattamento in termini subcategorici. Un problema della verifica di questa ipotesi risiede chiaramente nella difficoltà di escludere eventuali fenomeni di apprendimento lessicale di singoli items da parte delle persone osservate osservando unicamente i loro comportamenti produttivi dal punto di vista delle regole di corrispondenza.

319 Sull'alternanza [ó],[ò]-[ö] (e [é]) in varietà di nativi v. Petrini (1988, 94-101).

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più che altro una certa importanza nel recupero delle forme dialettali disponibili piuttosto che nella creazione o ricreazione di espressioni dialettali non disponibili (e la competenza di questi parlanti è quindi in buona parte 'autonoma', dialettale, e non derivata dall'italiano), per i PE3 questa funzione 'neologistica' assume maggiore importanza e le corrispondenze sono strumenti potenti di creazione di dialettalità. L'interesse di queste varietà consiste anche nel loro presentare una quantità importante di sovraestensioni delle corrispondenze, che ancora una volta fanno inequivocabilmente pensare ad un ruolo fondamentale dell'italiano nella costruzione del dialetto. All'interno delle corrispondenze che in qualche modo sono applicate vi sono comunque dislivelli di produttività notevoli. Abbiamo così un micro-nucleo di poche regole molto efficaci per la trasformazione dell'italiano in dialetto (anch'esse comunque caratterizzate da forte variabilità e dove spesso una delle varianti è marcata come dialettale e l'altra coincide con l'esito italiano, che a sua volta è tollerabile in dialetto). E dall'altro lato abbiamo 'salti nella corrispondenza' dovuti a forti influssi lessicali, che fanno sì che certe 'corrispondenze potenziali' si ritrovino con una certa frequenza ma che non possano essere considerate veramente produttive. Tra tutte, la corrispondenza più nota e rispettata è senz'altro quella che prevede la caduta, in una gran parte di contesti, delle vocali finali italiane diverse da a. Si tratta di uno dei segnali più facili di dialettalità, e questo per vari motivi come per esempio la posizione in fine di parola che rende il fenomeno facilmente processabile e altamente percepibile. Questa posizione è notoriamente di alta significatività, anche perché è frequentemente occupata da informazioni morfologiche320. La corrispondenza inoltre dà esiti altamente prevedibili321, dato che ad una serie di vocali italiane corrisponde unicamente l'esito zero in dialetto. La direzione dell'asimmetria è quindi quella tipica dei processi semplificativi.

320 Si ricordi anche l'operating principle di Slobin che nella sua più recente versione (1985, 1166) recita: "Pay attention to the last syllable of an extracted speech unit. Store it separately and also in relation to the unit with which it occurs."

321 Qualora si proceda nella direzione che va dall'italiano al dialetto; per la direzione inversa (asimmetrica, nel senso specificato in precedenza) si vedano i riassestamenti dei morfemi finali nell'italiano popolare (in casi come il carabiniero, ecc.), dove al mancato sostegno del dialetto corrisponde anche una difficoltà dovuta a marcature particolari dell'italiano.

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Si tratta pure della corrispondenza più nota a livello di conoscenze esplicite, come ben mostrano affermazioni come la seguente, non rare tra i nostri intervistati (in special modo tra i PE3):

se voglio formare una parola dialettale prendo la parola italiana e tolgo la vocale finale.322

Per quanto riguarda il punto di vista quantitativo, la realizzazione è quasi categorica presso i PE1 ed i PE2 (cioè la vocale finale manca in quasi tutti i casi in cui è presumibile che il parlante voglia marcare una parola come dialettale). Presso i PE3 abbiamo invece due fenomeni particolari. Innanzitutto si ha una chiara variabilità di realizzazione, e questo anche in casi inequivocabili in cui è indubbia l'intenzione di dialettizzare (rivelata dalla presenza di altri segnali di dialettalità nella stessa parola, come per es. in cumpurtamento, sum sc-tüfo, ecc.). In questi parlanti abbiamo circa tra un 10 e un 20% di casi di questo tipo sul corpus totale (composto da questi casi e dalle parole che mancano della vocale finale). In secondo luogo abbiamo casi di sovrapplicazioni, con l'estensione della caduta della vocale finale a contesti in cui l'output che ne risulta si differenzia proprio per questo tratto dai prodotti dei nativi (cfr. per es. di matrice differente la marmòtt per "la marmotta"323, il ranòkk per "il ranocchio", o al scénd per "scende" in luogo del dialettale al va gió324). Questo fenomeno è particolarmente evidente in quei casi in cui la corrispondenza fonologica che viene così istituita neutralizza una corrispondenza a livello morfologico, magari addirittura di alta produttività. E' qui evidente la 'parassitarietà' del dialetto di questi parlanti che si configura da questo lato come una semplice variazione fonologica (a carattere sociolinguistico) dell'italiano,

322 Mentre a livello implicito sono in genere rispettate le eccezioni e soprattutto lo statuto particolare di a (al punto che, come abbiamo visto, -a finale può addirittura essere sovrageneralizzata nella morfologia verbale), a livello esplicito si parla di solito genericamente di "vocali finali", senza aver ben presente le differenze di comportamento. Quando si fa notare che la a non cade gli intervistati reagiscono spesso facendo una prova, alla quale seguono immediatamente osservazioni come: "ah già, è vero!".

323 Come si può vedere da questo esempio non sono rari i casi in cui la cancellazione di vocale finale viene estesa anche ad a (v. ancora per es. la sc-tanz "la stanza").

324 Regolarizzando quindi anche un suppletivismo interlinguistico.

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trascurando le differenze morfosintattiche che fanno delle due lingue in gioco due sistemi decisamente differenti, separati, e soprattutto indipendenti. Per certi aspetti si potrebbe sostenere che si arriva in questo modo all'ibridismo, ma se preferiamo mantenere il termine di 'ibridazione' per commistioni tra il livello lessicale e quello morfologico (come si è fatto finora), si può in questi casi parlare di 'mimetismo', in quanto un sistema linguistico, pur mantenendo le sue strutture, assume un aspetto esterno che lo avvicina ad un altro sistema linguistico. In questo caso specifico è l'italiano che 'si traveste' da dialetto. La controparte dialettale di questo 'mimetismo' è quella che permette al dialetto un appoggio 'parassitario' sull'italiano, da cui media soprattutto le innovazioni. Ma anche il rispetto solo parziale delle corrispondenze colloca alcuni degli esiti di questi parlanti ad un livello intermedio tra italiano e dialetto rendendo difficile l'assegnazione precisa. Pensiamo, solo per fare un esempio, a casi come è cuntento, con l'unico tratto (variabile) della [o] passata ad [u]. La variabilità nell'alternanza delle realizzazioni (e la loro non completa ordinabilità in termini implicazionali) è una caratteristica fondamentale delle zone continue di transizione, dove l'effetto 'intermedio' nasce proprio dall'intersecarsi delle combinazioni. Per lo stesso contenuto abbiamo per es. in un altro parlante l'è contento, dove è il clitico a segnalare un deciso contributo della morfologia dialettale (ed un'altra variante ancora possibile e molto realistica potrebbe essere è cuntent, con un altro schema di combinazioni). Accanto alla caduta della vocale finale, vanno poi considerati gli effetti relativi a questo fenomeno sui foni che si vengono a trovare in posizione finale. L'effetto certamente più sistematico ed automatico è quello della de-sonorizzazione delle consonanti sonore. L'automaticità e la forte naturalezza di questo procedimento di neutralizzazione della distinzione di sonorità hanno come conseguenza una aproblematicità dell'applicazione dello stesso anche ai livelli più bassi di competenza. La scomparsa delle vocali finali ha anche altre conseguenze. Così [l] e [r] finali cadono dopo vocale tonica (saa "il sale", maa "male", ecc.), con però molte eccezioni e molte reintroduzioni (v. per es. la variante sal "il sale"). Altri casi ancora hanno un maggiore statuto lessicale (come per es. nosc-t "nostro") o riguardano corrispondenze di morfemi, come per es. nella formazione dei plurali in -l (v. caval-cavai "cavallo-cavalli", ma si veda d'altra parte il già citato picul per "piccoli") o come nella formazione degli infiniti (cantá, savé, durmí, ecc.). Al calare dei sostegni lessicali aumentano però le peculiarità.

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Come abbiamo detto una differenza fondamentale tra i parlanti evanescenti di livello alto e quelli di livello basso è che i primi presentano corrispondenze più precise, magari anche apprese lessicalmente ma coincidenti in questi casi con i prodotti dei nativi, mentre i secondi si affidano a regole di basso livello, come appunto quella della vocale finale anche nei casi in cui sono richiesti processi più complessi. Un caso differente è invece costituito da /n/ finale. Con la 'caduta' delle vocali finali si ha di solito nel dialetto dei nativi come conseguenza la velarizzazione di /n/ (tranne nei casi in cui essa marchi valori morfologici specifici, come per es. in donn "donne", plurale di dona, o in altri casi particolari). Mentre nei PE1 e PE2 questo passaggio ha anch'esso un andamento praticamente automatico (con la punta massima in una PE2 del 12% di realizzazione dentale), nei PE3 appare invece una tendenza al mantenimento della dentale, indipendentemente dal discriminante morfologico. Le percentuali di realizzazione dentale si muovono per i nostri soggetti di questa categoria tra il 23 e il 62% (su un totale delle occorrenze di /n/ in posizione finale che dovrebbe essere realizzata come velare). Per quanto riguarda la koinè dialettale, Petrini (1988, 164-5) segnala invece tracce di una tendenza inversa alla sovrageneralizzazione della velare:

"Andrebbe ora indagato se, accanto a fenomeni analogici del genere, non si venga oggi ad affiancare anche una corrispondenza fonetica tra forme italiane e dialettali, per la quale a [n] dentale italiana in queste posizioni si oppone unicamente [Errore. L'origine riferimento non è stata trovata.] dialettale, senza più tener conto dell'importanza morfologica della differenza tra l'uscita dentale e quella velare. Non ci sembra raro sentire, presso le fasce giovanili e cittadine luganesi, dei casi in cui non esiste un corrispondente maschile sul quale fondare l'analogia, come i persón "le persone" in luogo di i personn. Si ricorderà per finire che i toponimi Lamonn e Cumann, riferiti alle località del Luganese Lamone e Comano (in forme documentarie del passato Comanno) vengono oggi pronunciati Lamón e Cumán, stabilendo un rapporto con le forme scritte in lingua sul modello di, ad esempio, Bissone-Bissón, Lugano-Lügan ecc. [...] Il fatto che si stabilisca una corrispondenza tra [Errore. L'origine riferimento non è stata trovata.] dialettale e [n] dentale italiana in alcune pronunce delle giovani generazioni del Sottoceneri viene a confermare la vitalità di [Errore. L'origine riferimento non è stata trovata.] nei dialetti ticinesi, anche quando essi convergano sull'italiano."

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E' evidente come i procedimenti di koinè vadano in una direzione sì di riduzione parziale della complessità ma soprattutto verso una 'iper-dialettizzazione', ovvero verso l'ampliamento della diffusione dei 'segnali di dialettalità', a differenza di quanto avviene nel caso dei PE3 dove l'influsso italiano riduce l'importanza di questi stessi segnali (e talvolta possono essere ridotti quei tratti tradizionalmente dialettali che vengono sentiti come italiani). Se quindi per la koinè possiamo parlare di una ricerca di 'complementarizzazione' (regolare, come ha mostrato Sanga 1985) delle varietà (magari sotto la spinta dell'italiano, che non fornisce però i procedimenti diretti), per le nostre varietà abbiamo invece in questi casi a che fare con chiari fenomeni di 'italianizzazione', che riducono i segnali di dialettalità. A volte, in un numero comunque limitato di casi, è difficile dire se si abbia la semplice cancellazione della vocale finale oppure se siano in azione altre corrispondenze. Si veda per es. ranokki per "ranocchio", che potrebbe fondarsi anche sulla percezione di una corrispondenza di -io italiano con -i dialettale (come in dübi "dubbio"), oppure il caso di "silenzio"325, che dà esiti come silenz, con la caduta anche della semiconsonante finale, e silenzi, con la scomparsa di -o o l'equiparazione di -io finale italiano con -i finale dialettale. Abbiamo detto che un dato importante per stabilire l'azione effettiva e la produttività di una regola è l'osservazione della sua 'sovrageneralizzazione', cioè della sua estensione a contesti non previsti, innovativi. Nelle varietà dei nativi a cui qui facciamo riferimento la vocale finale è spesso conservata come vocale d'appoggio dopo nessi consonantici che finiscono con /r/, /n/, o /l/ (cfr. già Rohlfs 1966-69, § I.146) e mentre anche qui i primi due gruppi di PE si comportano praticamente come i nativi, i PE3 manifestano tracce di sovraproduttività, come per es. in mentr "mentre". Ci sono però due contesti in cui anche i più competenti sovrageneralizzano. Si tratta da un lato di alcuni di quei casi in cui anche i parlanti nativi possono conservare la vocale finale, come per es. in l'è sc-tran detto sia da una PE1 che da una PE2326. E dall'altro lato abbiamo questo fenomeno in situazioni

325 Che occorre in più parlanti perché verso la fine della storiella il bambino dice al cane di "fare silenzio".

326 Ma questo settore specifico sembra avere una certa instabilità anche per parlanti nativi, dai quali si può sentire dire sia sc-tran che sc-trano, sia salt che salto, o cervo accanto a cerf. Può darsi quindi che i nostri PE più competenti mostrino qui uno stadio avanzato di una competenza di futuri nativi, con l'intensificazione di incertezze insite già nel comportamento linguistico attuale.

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in cui il dialetto si serve di un'altra base lessicale rispetto all'italiano, come per es. in la ess "esce" (per la vegn fö), o al cad "cade" (per al borla gió) di un PE2. E' evidente qui come la cancellazione della vocale finale a partire da basi italiane goda di una chiara fortuna anche presso i più competenti, soprattutto come 'strumento neologistico', che rimedia alla non disponibilità della corretta base lessicale dialettale. In altri casi ancora è difficile dire se non sia il comportamento dei nativi (o di alcuni nativi) a fornire esiti che coincidono con l'italiano o se si tratti di prodotti autonomi degli apprendenti, come nel caso di sempre (conservato nella forma italiana, ma che si ritrova appunto anche in nativi) che si alterna in alcuni PE con sempru. Si può senz'altro sostenere che questi contesti incrementano l'imprevedibilità dell'esito dialettale e aumentano quindi la variabilità sia nei nativi che nei non nativi, alla ricerca di una nuova regolarizzazione. Per quanto riguarda la riduzione di sci,e ([ʃErrore. L'origine riferimento non è stata trovata.]) italiana a ss ([s]) dialettale (di cui abbiamo già visto un esempio in la éss sopra), nelle forme dei verbi appaiono parecchi rappresentanti dell'applicazione di questa corrispondenza, che, al di là dei problemi di marche morfologiche improprie, portano ad esiti corretti (almeno per quanto riguarda il passaggio sci,e > s). Abbiamo per es. capissa (per "egli capisce") in luogo di capiss, o, con lo stesso procedimento, finissa (per "egli finisce"), ma non abbiamo occorrenze della conservazione di sci,e in posizione finale dopo la scomparsa della vocale. Un altro 'strumento' fondamentale della dialettalità è quello della palatalizzazione di /s/ preconsonantica. Anche questo tratto, che "differenzia i dialetti parlanti sul suolo svizzero da quelli immediatamente oltre il confine con l'Italia" (Petrini 1988, 168, che rimanda a Spiess 1974) e che a volte si è addirittura esteso a zone in cui tradizionalmente non era presente (cfr. ancora Petrini 1988, 169)327, appare con alta frequenza nei nostri parlanti. Esso è probabilmente sentito come un segnale tipico di dialettalità ed è per questo usato frequentemente dai PE. Possiamo in generale supporre che proprio questa sua tipica efficacia distintiva sia

327 Secondo Petrini (ibidem) la generalizzazione di questo tratto sarebbe tipica della koinè e l'esito "si opporrebbe in tal caso contemporaneamente a quello della lingua, alla soluzione dei centri lombardi e alla soluzione locale di zone periferiche".

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alla base del suo successo sia nella koinè che nelle nostre varietà, facilitato in ciò anche dalla sua alta regolarità nella corrispondenza. D'altro canto però queste stesse caratteristiche di 'tratto bandiera' saranno responsabili del trattamento che la corrispondenza subisce in parlanti che vogliano ridurre la 'dialettalità' delle loro varietà eliminando (con un incremento della variabilità fino quasi all'esclusione) ciò che viene sentito come troppo forte o marcato sociolinguisticamente. Vedremo che un fenomeno di questo tipo si ha proprio in una categoria di parlanti, definiti 'ex-PE', che discuteremo in seguito. La forza del tratto (dovuta non da ultimo alla sua assenza in italiano negli stessi contesti) e il suo valore distintivo nullo rispetto a /s/ in posizione preconsonantica in entrambe le lingue ne fa quindi una marca efficace, che diventa conseguentemente passibile di differenze di comportamento a seconda dei differenti intenti sociolinguistici degli utenti. Nei PE meno competenti la variabilità della palatalizzazione di /s/ preconsonantica cresce di importanza. Ciò sarà dovuto presumibilmente sia alla difficoltà di gestione generale del discorso in dialetto, ma anche, in alcuni casi, ad una sua eventuale percezione come tratto facoltativo, con un parziale carattere 'arcaico' (quindi 'iper-dialettizzante') e perciò 'evitabile'328. La distinzione di sonorità è invece completamente dipendente dalla consonante che segue. Un PE3 dà un raggio d'azione improprio alla corrispondenza trattando forse il confine finale di parola alla stregua di una consonante che richiede la palatalizzazione di [s] finale. Nella sua narrazione abbiamo così due volte la parola vasc ed una volta vas, per "vaso". Sul fenomeno può aver inciso anche la percezione della tendenza del dialetto a modificare le consonanti passate in posizione finale. Anche in questo gruppo di parlanti ritroviamo la forte variazione tra le vocali [u] e [o]. Su questo fenomeno ci siamo già soffermati nella discussione delle caratteristiche specifiche dei PE1 e 2 e abbiamo visto che si tratta di una zona di altissima variabilità fondata di solito (ma in modo ben lontano dalla categoricità) sull'unico parametro individuabile della maggiore o minore distanza dall'italiano. Se questa alternanza, per la sua frequenza di occorrenza, costituisce uno dei fenomeni più forti di variabilità e di movimento sul continuum italiano-dialetto, altre

328 Per una quantificazione rimandiamo alle osservazioni contenute nel paragrafo dedicato ai PE1.

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alternanze appaiono, pur con minore frequenza, con all'incirca le stesse caratteristiche. Si tratta di strumenti potenziali di incremento della dialettalità che hanno valenza opzionale nelle varietà dei PE e vengono quindi utilizzati in modo fortemente variabile. Accanto ad un nucleo di 'regole forti' della dialettalità si viene così a creare una zona di 'transizione' di corrispondenze a bassissima obbligatorietà ma che appaiono comunque con una certa frequenza anche nelle varietà dei meno competenti. In questo modo, tra italiano e dialetto, si forma uno sfrangiamento delle due lingue dove le varianti più vicine all'italiano hanno carattere di non marcatezza e le varianti sentite come più tipicamente dialettali marcano le varietà con un incremento di dialettalità. Per alcune alternanze vocaliche (come tipicamente [i]/[e], o [e]/[a]) è possibile trovare delle occorrenze (o meglio delle varianti nella direzione di allontanamento dall'italiano), ma la loro frequenza è così bassa che ci è impossibile proporre delle quantificazioni. D'altra parte i fenomeni sono caratterizzati anche da una forte matrice lessicale, che propone per es. sira accanto a sera, al sa visc-tìss accanto a al sa vesc-tìss, ecc. Queste occorrenze ci suggeriscono che queste alternanze vanno considerate come quelle di [u] e [o], come varianti di potenziale dialettizzazione, che però non vengono controllate del tutto dai parlanti e quindi presentano una forte variazione. La componente lessicale gioca un ruolo fondamentale, mantenendo la variante più distante dall'italiano in alcune parole ma perdendola in altre di minore frequenza o pregnanza discorsiva. Così per es. la frequenza di parché è relativamente alta (si ritrova in circa la metà dei PE3, in modo indipendente dalla zona di domicilio) ma gli stessi parlanti che usano questa variante non applicano la corrispondenza sistematicamente a tutti i contesti possibili (si hanno così per es. solo due casi di albar per "albero"329 e un caso di camara per "camera")330.

329 E in entrambi i casi albar segue una prima occorrenza di forma differente a distanza di poche frasi. Nel primo caso si tratta di alber, nel secondo di albero. Questo potrebbe rinforzare l'ipotesi di un richiamo in due tempi, in cui la forma già disponibile (o più immediatamente disponibile) contribuisce al recupero di una forma anch'essa posseduta ma meno facilmente recuperabile.

330 Si noti che una stessa parola, all'interno di locuzioni differenti, può subire trattamenti differenti anche in parlanti nativi, cfr. per sera/sira le pagine 78-80 di Petrini (1988).

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La relazione tra il dittongo tonico italiano [uo] ed il corrispondente dialettale [ó] (in alcuni casi [u]) è invece in genere rispettata (o meglio non crea casi intermedi di sovraproduttività o di uso 'neologistico') e appare quindi o nella forma corretta oppure con il dittongo in parole chiaramente italiane. La strana costruzione öma per "uomo" sarà da imputare alla sovrageneralizzazione di un'altra corrispondenza tra [uo] e [ö] (come in föch) oltre che, in modo a mio parere più importante, ad una ricerca di distanziamento dall'italiano con la sovrageneralizzazione di [ö], sentita come tipico e forte tratto dialettale. Gli esiti corretti che si ritrovano vanno dunque considerati come fortemente lessicali, dato che occorrono in parole di frequenza relativamente alta. Così per es. per le forme corrette del verbo "potere" (come pò, podat, ecc.) o per i possessivi (tò "tuo", sò "suo"), oppure per bon/bun ed i suoi derivati. La stessa tendenza si potrebbe osservare per la corrispondenza tra ie italiano ed é dialettale, dove le soluzioni dei parlanti mostrano, ancora una volta, da un lato la matrice lessicale e dall'altro lato il tentativo di costruzione della dialettalità a partire dall'italiano. Ma in questi ultimi casi questa corrispondenza non si mostra produttiva. Un esempio paradigmatico a questo proposito è quello delle forme del verbo "venire", dove abbiamo frequentemente, alla terza persona singolare, l'intercambiarsi di vegn e vien. Come si vede, quest'ultima forma si fonda decisamente su una forma di base italiana, ma l'unica corrispondenza che vi viene applicata è quella della vocale finale. Tra le strategie di 'riduzione' che sembrano essere considerate tipiche del dialetto rispetto all'italiano abbiamo sia la caduta di vocali atone all'interno di parola, che porta i PE3 a formare esiti 'innovativi' come fiumiciatl ("fiumiciattolo"), o come sgont ("secondo"), sia la caduta della [a] iniziale, come per es. in al baia ("egli abbaia"). All'interno dei fenomeni consonantici ritroviamo invece una corrispondenza in particolare che mostra una certa produttività. Si tratta del collegamento tra i differenti esiti, nelle due lingue, della palatalizzazione del nesso latino CT in posizione intervocalica. Abbiamo visto che questa corrispondenza è tanto produttiva da toccare in modo sovrageneralizzato proprio il nome stesso del codice dialettale (che diventa dialécc). La corrispondenza dà quindi luogo ad esiti non esistenti in dialetto. Tra le altre sovraestensioni si ha per es. sufícc per l'italiano soffitto o nicc per "nido", fino ad arrivare ad allargamenti del raggio di azione ancora più forti, nel caso di cuntencc [kun’tent] per "contento", secondo una corrispondenza generale che richiederebbe di trasformare in cc ([tErrore. L'origine riferimento non è stata

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trovata.Errore. L'origine riferimento non è stata trovata.]) tutte le [t] finali (già pre-vocaliche). Un esito particolare che mostrerebbe l'istituzione di un collegamento tra [t] italiana finale (ovviamente dopo la caduta della vocale finale) e [tErrore. L'origine riferimento non è stata trovata.Errore. L'origine riferimento non è stata trovata.] dialettale si ha in parlanti dello stesso gruppo a scapito delle valenze morfologiche veicolate dall'opposizione tra [t] e [tErrore. L'origine riferimento non è stata trovata.Errore. L'origine riferimento non è stata trovata.] finali in questo caso in dialetto. Ancora una volta abbiamo dunque una prevalenza della corrispondenza fonologica sulla morfologia dialettale. Si tratta di alcune forme di tütt "tutto", realizzate come tücc, come per es. in tücc la famiglia "tutta la famiglia", dove la palatalizzazione che al plurale è provocata da [i] che segue la consonante viene estesa alle altre forme. La mancata analisi corretta dell'input e una corrispondenza errata cooperano così nella produzione di esiti devianti dalla lingua obiettivo. Lo stesso discorso di una forte componente lessicale si può fare anche per il trattamento dei corrispondenti delle affricate palatali italiane (come per es. in cüsina, panza, pas, giazz, cüsin, preson, ecc.331), per gli esiti dei nessi latini CL e GL (cfr. ciamá, ciapá, gianda, ecc.), per il trattamento della laterale velare (fiöö, taià, ecc.), e per altri ancora. La matrice lessicale diventa ancora più evidente qualora la voce che conserva la variante più tipicamente dialettale si configuri come una eccezione rispetto al resto dei contesti di applicazione potenziale della regola. Così abbiamo per es. panza (accanto a pancia), ma non abbiamo zenta (per il solo cinta), abbiamo brasc, ma non scima, e così via. Il fenomeno non è ovviamente nuovo nemmeno per le varietà dei nativi, ed anche lì la frequenza e la peculiarità di un elemento lessicale giocano un ruolo fondamentale. Ma nel caso dei nostri parlanti il confine è spinto ancora maggiormente verso il polo italiano del continuum. L'indebolimento delle consonanti sorde intervocaliche è in genere ben colto, ma la forma sonora si presenta talvolta in alternanza con la variante (italiana) sorda. Quest'ultimo fenomeno si verifica anche in parole in cui è chiara l'intenzione di dialettalità espressa attraverso altri tratti fonologici, come per es. in incasc-trata,

331 Alcuni esiti sono probabilmente entrati nel dialetto come prestiti (cfr. Lurà 1987) e quindi la prevedibilità di questa corrispondenza è relativamente bassa. Inoltre abbiamo visto come il francese sia probabilmente (co-)responsabile di alcuni esiti particolari, come per es. azenda per "accendi", cominza per "comincia", ecc.

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dove la palatalizzazione della s preconsonantica è in contrasto con il suffisso -ata (invece di -ada).

3.2.6.4. Conclusione sulle principali corrispondenze fonologiche tra italiano e dialetto

Di tutti i punti di differenziazione tra italiano e dialetto una parte di essi si presenta anche nell'input con il quale i nostri parlanti hanno contatto, permettendo così, almeno teoricamente, di costituire delle regolarità di corrispondenza. Una parte dei punti di differenziazione non è invece sistematica, si tratta di differenze che si possono definire lessicali in quanto i risultati dialettali non sono prevedibili a partire dalle forme italiane, oppure sono di frequenza molto bassa. In altri casi le corrispondenze hanno connotazioni arcaiche o microregionali e quindi compaiono nell'input in una percentuale marginale o comunque in concorrenza con varianti più vicine all'italiano o più frequenti. Abbiamo così una prima selezione nel potenziale di corrispondenze. Ma anche tra quanto rimane da questa selezione verranno estratte delle corrispondenze usate in modo privilegiato. Si forma così un gruppo di corrispondenze più importanti e rispettate in genere dai PE che costituiscono una specie di 'nucleo duro' dialettale (che tra l'altro si presenta come più resistente anche nei parlanti nativi). Siccome i nostri materiali provengono da regioni differenti del Cantone dobbiamo dire che, al di là del mantenimento della differenziazione regionale anche nelle varietà di koinè (ben evidenziata da Petrini 1988), emerge un nucleo centrale di tratti 'pan-ticinesi' che si delineano come le marche più forti della dialettalità e come le possibili direzioni di uniformazione (emergenti non in modo categorico ma variabile). Al loro interno ovviamente esistono varianti regionali, ma queste assumono spesso sul territorio un valore di quasi allofonia, e nei parlanti,

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anche nativi, esse si avvicinano talvolta allo statuto di varianti libere332. Un esempio di questo tipo è quello dell'alternanza di [u] e [o], che abbiamo già visto estesamente333. Inoltre, accanto a questi si ritrovano ovviamente occorrenze di altri tratti334, ma la forte variabilità con cui questi occorrono, e la loro presenza percentuale debole all'interno della variazione, fa di essi dei tratti a bassa sistematicità, quindi 'lessicali' (in modo simile, per questo verso, alle forme idiomatiche) perché legati all'apprendimento della parola dialettale in questa forma e non fondati su una regola dialettale (o di convergenza) produttiva. Essi dunque occorrono effettivamente ma nella sistematicità della lingua, possiamo dire, hanno uno statuto di 'eccezioni'. Il rotacismo per es. appare in modo importante in sc-cöra, o sc-cora ("scuola"), ma non in molti altri contesti in cui sarebbe possibile ritrovarlo se si trattasse effettivamente di una regola produttiva del sistema dialettale335. Che il funzionamento di queste corrispondenze sia più 'analogico' che non quello di vere e proprie regole lo si nota anche dal fatto che esse, quando presentano una produttività minima, sembrano essere incentrate su di un prototipo a partire dal quale sono eventualmente estese a parole che presentano forti similarità o

332 Oppure le corrispondenze possibili caratterizzano varietà ristrette regionalmente o sentite come arcaiche. Esse sfuggono dunque alla sistematicità delle varietà verso le quali si indirizzano gli apprendenti e compaiono nel complesso del diasistema dell'input con alta variabilità, ciò che ancora una volta ne riduce la produttività. Un altro criterio che le denuncia come corrispondenze da evitare può essere la loro maggior distanza dall'italiano. La conseguenza è che la loro assunzione è resa più difficile tranne quando i parlanti abbiano particolari intenti sociolinguistici. Questa loro bassa produttività, accanto alla forte particolarità sociolinguistica che li caratterizza, li avvicina a fenomeni lessicali.

333 Non ci si può che augurare che qualcuno si dedichi nei prossimi tempi all'indagine (anche quantitativa) della 'nuclearità' di questi tratti nel dialetto dei parlanti nativi con materiali più mirati dei nostri.

334 E si ritrovano in forma sporadica anche nei parlanti meno competenti.

335 Solo per dare un'idea delle dimensioni ridotte della 'dialettalità' effettiva dei PE, l'analisi contrastiva di Lurà (1987) individua circa 215 possibili corrispondenze tra italiano e dialetto, che sono però ridotte, nel nostro caso, dalle cause menzionate sopra (che rimandano essenzialmente ad una bassa produttività), all'incirca ad una trentina. Queste sono però anche le più produttive (in questo senso, quelle che collegano un numero più ampio di elementi lessicali dialettani con i corrispondenti italiani), e quindi mediante il loro uso il grado di dialettalità dei prodotti viene fortemente incrementato.

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connessioni con il prototipo. Così per esempio il rotacismo, che ha probabilmente come centro prototipico la parola sc-cora, viene talvolta esteso a parole molto simili, come tipicamente sc-cara ("scala"), ma non a casi più distanti, come per es. fir ("filo"). Per i non dialettofoni la capacità di usare in modo corretto le corrispondenze permette di trasformare l'italiano in una versione di dialetto, talvolta strana, ma di solito chiaramente al di là di una varietà rudimentale. Un dialetto indubbiamente italianizzato, ma chiaramente dialetto, conformemente alle intenzioni di chi se ne serve. Nessuna di queste corrispondenze note e usate appare in modo categorico, infatti per ognuna di esse sono alternate nei PE almeno due varianti (di solito quella più vicina all'italiano e quella qui indicata come 'dialettale', ma ovviamente le varianti possono essere di più quando il dialetto presenti già di per sé più alternative possibili)336. Le corrispondenze usate più frequentemente sembrano destinate a difendere efficacemente il dialetto da una maggiore italianizzazione almeno superficiale, o in forma categorica o in forma variabile, permettendo nel contempo il passaggio economico da un codice all'altro a seconda delle necessità.

336 In margine, possiamo ancora far notare come i tratti fonologici dialettali e gli elementi lessicali utilizzati da Bianconi (1980) per verificare la vitalità del dialetto attorno alla metà degli anni '70, siano in buona parte assenti dalla competenza dei parlanti evanescenti (e probabilmente in buona parte anche dei parlanti nativi delle giovani generazioni).

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3.3. Gli 'ex-PE' Se nei parlanti evanescenti che abbiamo visto finora (dai PE1 ai PE3) i fenomeni si differenziazione rispetto ai parlanti nativi si dovevano considerare alla stregua di fenomeni apprendimentali o di gestione delle conoscenze dialettali (sia per quanto riguarda le differenze categoriche che per i 'movimenti' sul continuum), in altre persone, che per la loro competenza e la loro consuetudine comunicativa in dialetto, non si possono più considerare dei veri PE, abbiamo fenomeni di differenziazione e di variazione interna che sono da considerare come motivati essenzialmente da funzioni stilistiche, nel senso che si tratta di vera e propria variazione sociolinguistica. Nella nostra ricerca sui PE siamo entrati in contatto con una parlante (che indicheremo con D) le cui condizioni di partenza coincidono perfettamente con quelle dei tipici membri di questa categoria. I genitori dialettofoni all'inizio degli anni '60 hanno deciso di educare la figlia in italiano, lingua tra l'altro gestita in modo molto insicuro dal padre, la cui competenza non va oltre un livello di italiano popolare piuttosto basso. Egli passa spesso al dialetto, apparentemente al minimo calare dell'autocontrollo o con valore emotivo, nella conversazione anche con stranieri. La scelta dei genitori è stata male accettata dal resto della famiglia che ha sempre parlato dialetto alla bambina, nonostante questa rispondesse, all'inizio, solo in italiano. Con il tempo la bambina ha adottato il dialetto con i parenti, ha iniziato ad inserirlo, con commutazioni di codice, in interazioni con i genitori (che per la maggior parte hanno comunque continuato ad avvenire in italiano) ed ha usato prevalentemente l'italiano con gli amici. Quest'ultima scelta è particolarmente importante perché l'intervistata dichiara di aver voluto parlare italiano anche con gli amici dialettofoni. Possiamo interpretare questa sua volontà come un chiaro segnale della preferenza personale per l'italiano. Dove le è possibile e dove per lei è più importante nei termini di una sua autodefinizione come persona autonoma la parlante sceglie decisamente l'italiano. In altri casi sembra piuttosto subire le preferenze dialettofone degli altri, anche perché in parte oramai fissate dalla convenzionalizzazione di anni di pratiche comunicative (come per esempio con i parenti).

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Questa configurazione di preferenza porta a conseguenze importanti sulla varietà dialettale di D. Mentre per quanto riguarda la fluenza e l'assenza di vuoti di competenza D è senz'altro da considerare una parlante nativa, la sua varietà presenta alcuni dei tratti di variazione che abbiamo visto essere tipici dei PE (anche, ma non solo, di quelli più avanzati). Così /n/ finale ha quasi categoricamente la pronuncia dentale (come per es. in pann, "pane", e in italiann "italiano"337), e si ha presenza categorica col diminutivo -in (cfr. motorinn "motorino", bagaiinn "bambino", tavolinn "tavolino", o piculinn "piccolino", che in verità in dialetto ha il valore di "piccoline"). Si ha alternanza in pininn e pinin ("piccolino", con ancora una volta neutralizzazione della distinzione di genere), riferiti entrambi al protagonista della storiella da raccontare nella nostra intervista. Su un potenziale di 26 occorrenze di /n/ finale ben 18 sono realizzate come dentali338, per pinin abbiamo in tutto 10 occorrenze di cui 6 dentali. La stessa variazione si ritrova per /s/ preconsonantica, per la quale abbiamo realizzazioni come scalìn ("gradino"), testa accanto a tesc-ta, stai accanto a sc-tai (part. pass. di "essere" e di "stare"), tedésch accanto a tedésc-ch, ecc. Su 56 occorrenze 29 hanno la pronuncia palatale. Un terzo tratto fonologico che presenta una forte variazione è quello di [ü], un tratto di solito importante per il carattere di dialettalità e che, come abbiamo visto, mostrava una tendenza molto forte alla conservazione nell'indagine di Petrini (1988) sui procedimenti di koineizzazione dei nativi. Tipica e forse interpretabile come un passaggio all'italiano, è la preposizione su le cui tre occorrenze nella narrazione si contrappongono ad una sola occorrenza di sü nell'intervista semi-guidata. Abbiamo inoltre un'occorrenza di fortuna, invece di fortüna, inserita in un intero passaggio dialettale (ciò che indebolisce fortemente l'ipotesi dello switch all'italiano):

ma al gh'a fortuna che'l finiss in un laghètt ["ma ha fortuna che finisce in un laghetto"]

337 In entrambi i casi si ha la neutralizzazione di coppie minime dato che pann potrebbe equivalere alla versione dialettizzata dell'italiano "panno" (sempre che non si adotti la variante dell'italiano anche in dialetto) e italiann vuol dire "italiane".

338 Escludendo ovviamente le occorrenze in cui la variante dentale è richiesta dalla lingua obiettivo, come per es. in donn "donne" o in casi condizionati constestualmente come cónn düü "con due".

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La variazione è più forte in casi in cui le parole siano, storicamente, di chiara origine italiana nel dialetto, come per es. in asolutament, situazion, naturalment, dove il tratto non è percepito come forte neanche da nativi, mentre il fenomeno è invece fortemente deviante per i casi citati nel paragrafo precedente. Si tratta in breve di tre tratti forti di 'tipica dialettalità' che cedono il passo senza che le varietà che li utilizzano siano sanzionate in modo negativo. Accanto a questi vi sono altri fenomeni che marcano la 'continuità' tra italiano e dialetto, come per es. la mancata sonorizzazione di consonanti occlusive (per es. in la palla "la palla" per la bala), il mantenimento della vocale finale italiana, ecc., che dando però esiti coincidenti con le parole italiane possono forse essere interpretati come alternanze di codice, senza presupporre l'autonomia dei singoli caratteri fonologici. L'origine dei tratti peculiari non va senz'altro ricercata primariamente in fenomeni di variazione regionale, come per es. pensando per la u ad un influsso delle cosiddette "isole di [u] lunga" (cioè le zone in cui non si ha [ü]; cfr. Petrini 1988, p. 73, Sganzini 1933, p. 63) o per /s/ preconsonantica ad un influsso di zone in cui la stessa non viene palatalizzata (cfr. ancora Petrini 1988, p. 168-169). D'altro canto, mentre nei testi fortemente italianizzati di Bianconi (1980, 62-65) il mantenimento di [ü] era praticamente categorico qui ci troviamo di fronte ad un forte incremento dell'italianizzazione che disturba talvolta il parlante nativo ma che sembra motivato e coerente con le scelte stilistiche della parlante. Ci si può chiedere se proprio tratti come [ü] non siano sentiti da questa persona come tipicamente dialettali e quindi abbiano assunto una connotazione negativa che la parlante vuole assolutamente allontanare da ogni sua varietà, e perciò anche dalla sua varietà dialettale. La connotazione negativa è ovviamente quella, presente anche nel sondaggio di Bianconi (1980) o in Bianconi - Patocchi (1990), del dialetto come varietà 'volgare', che qui viene dunque 'raffinata' mediante l'eliminazione dei suoi tratti sentiti come più forti. Sempre a livello fonologico abbiamo poi altri fenomeni di variazione meno forti nel loro grato di 'rottura della continuità' rispetto alla tradizione dialettale, ma che segnalano dei 'movimenti' tra italiano e dialetto. In modo particolare pensiamo ancora una volta all'oscillazione tra [u] e [o], con una chiara tendenza, nel 75% dei casi verso la seconda variante (su questa alternanza ci siamo soffermati in precedenza parlando dei PE veri e propri). Si vedano per esempio i già citati tavolinn, motorinn (che si alterna, nelle uniche due occorrenze ritrovabili, con moturinn), domà, som (per sum), ecc.

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Il caso di domà è particolarmente interessante e ci permette di passare qui dal livello fonologico a quello lessicale. Per questo specifico caso, accanto a questa forma abbiamo due occorrenze di solo, che intuitivamente e sulla base delle mie sensazioni di parlante nativo (base ovviamente labile, ma forse significativa in attesa di altri riscontri con giudizi di campioni più ampi di nativi) mi sembra di non dover interpretare come 'parola italiana', ma piuttosto come elemento della continuità italiano-dialetto che gode di una certa accettabilità (e di un certo uso) tra parlanti nativi, specialmente in contesti formali. Anche in questo caso quindi non si tratterebbe di commutazione di codice ma piuttosto di un 'termine accettabile', dunque un prestito in via di assestamento che segnala la continuità del collegamento tra italiano e dialetto (in parecchi settori) e la fluidificazione del confine tra i due codici. Le occorrenze sono:

u fai solo l'apprendisc-ta ["ho fatto solo l'apprendista"] linscì som resc-tada solo tri més ["lì sono rimasta solo tre mesi"]

Sempre all'interno della stessa linea di fenomeni è particolarmente interessante l'alternanza per la terza persona singolare del presente indicativo di "essere" di l'è accanto alla forma senza clitico è. Questa parlante ha un comportamento perfettamente da nativa nell'uso dei clitici soggetto, e abbiamo visto che l'è è uno di quei tratti dialettali tanto forti da comparire non solo nelle varietà molto iniziali ma addirittura da venir traposto nell'italiano L2 di persone che abbiano un forte contatto con il dialetto o con varietà molto regionali e popolari di italiano. Dati questi presupposti è quanto mai sorprendente il movimento sul continuum tra è e l'è, e la tolleranza che viene accordata alla forma senza clitico. Ancora una volta dobbiamo pensare ad un fenomeno di variazione stilistica (anche perché lo stesso fenomeno non si ritrova, o non nella stessa misura, in parlanti decisamente meno competenti; non si tratta dunque di un effetto apprendimentale), nel senso di una preferenza della parlante per forme italianizzate di dialetto. La costanza nella selezione della forma rende superflua la domanda se si tratti di commutazione di codice o meno. Questa costanza ed il fatto che si tratti di una sola parola (a bassa autonomia sintattica), spesso inserita in un contesto perfettamente dialettofono, deve far pensare piuttosto ad un fenomeno di variazione motivata dall'introduzione e stabilizzazione di un prestito. Anche se il fenomeno fosse nato come

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comportamento di commutazione oramai il suo statuto è differente. Qui si entra peraltro anche nella problematica di un tratto comune e differente tra commutazione di codice e prestiti (o convergenza totale), e cioè il loro non essere percepiti esplicitamente dagli interlocutori come violazioni delle strutture del sistema in cui si inseriscono: la commutazione di codice perché come cambiamento di lingua non tocca le strutture del sistema ospite, la convergenza perché una differenziazione preesistente ha perso di significatività e non è più emica (se non al limite al livello stilistico interno però alla lingua 'ospite'). Il primo procedimento è quindi 'chiaramente differente' (rispetto alla lingua ospite) e il secondo ha perso la sua distintività interlinguistica. Il fatto che nei parlanti evanescenti veri e propri questo tratto compaia solo nei soggetti molto poco competenti, quindi molto distanti per le loro caratteristiche linguistiche dalla competenza molto alta degli ex-PE conferma decisamente la nostra ipotesi che la preferenza per è a scapito della forma con il clitico sia diventata veramente una variabile linguistica (esprimente un certo distanziamento dal dialetto) e non abbia niente a che fare con problemi di acquisizione. Vedremo inoltre in seguito che uno dei dati più sorprendenti dell'osservazione delle varietà rivolte ai bambini è proprio l'apparire talvolta di questo stesso tratto (e, possiamo anticipare qui, di altri tratti caratteristici del discorso di questa parlante e di altri simili). Taluni di questi tratti saranno anche rilevati in enunciati di bambini primariamente dialettofoni come per esempio l'uso di solo in espressioni come ma solo sc-tasera. Lo studio di D mostra quindi una possibile 'tendenza di transizione' del dialetto, attraverso un rinforzo del continuum espresso tramite un incremento dell'accettabilità e un innalzamento della variazione quantitativa. Ciò crea una serie di nuovi 'ponticelli' di collegamento in punti precedentemente di frattura e differenziazione339. Forme che sembravano marcare confini netti e stabili (e quindi categorici) tra italiano e dialetto, e che perciò costituivano dei punti di rottura del continuum complessivo tra i sistemi (ed erano discontinui anche rispetto alla linea apprendimentale), passano ora da questo carattere distintivo basato sulla categoricità ad un'opposizione di tipo qualitativo. Ciò fa sì che le forme bivalenti,

339 Ci sono probabilmente altri tratti che hanno perso un valore discriminante qualitativo a favore di valenze maggiormente quantitative. Nei nostri materiali abbiamo per es. alcuni casi di de-sonorizzazione di consonanti sorde intervocaliche (v. per es. ma s'eri preparata, e di al fa na cadüta).

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ritrovabili cioè sia in dialetto che in italiano (ma ovviamente l'incremento avviene in varietà dialettali, mentre l'italiano sembra invece aumentare la sua selettività riducendo i tratti popolari sostenuti dal dialetto; cfr. Bianconi - Moretti 1994), siano aumentate e che la transizione diventi più fluida per il costellarsi di nuove varietà intermedie (o nuovi idioletti di transizione). Non esiste ancora, o almeno noi non siamo stati in grado di trovarla, una varietà nativa o 'quasi-nativa' con statuto intermedio o di attribuzione dubbia (per la quale cioè non si possa dire univocamente se si tratti di italiano o di dialetto), ma l'italianizzazione di alcune varietà dialettali può raggiungere livelli prima ritenuti impossibili, senza che per questo gli utenti abbiano dei dubbi sull'essere dialetto di queste varietà. Il risultato (e, in parte, la causa) del fenomeno è la ricerca da parte di D di una varietà di dialetto meno marcato nei tratti sentiti come negativi. Il dato interessante è che la contrapposizione dei codici italiano e dialetto (con i rispettivi valori sociolinguistici) viene reimpiegata in termini subcategoriali di contrapposizione di singoli tratti all'interno del dialetto. L'italiano (o, meglio, una parte delle sue strutture) diventa strumento di variazione del dialetto e si può quindi anche parlare di prestito (o più correttamente di 'appropriamento') non solo di strutture ma anche di valori sociolinguistici. L'italiano è il codice formale rispetto al dialetto, e strutture della prima lingua sono usate nella seconda per innalzare il valore di formalità di quest'ultima o per diminuirne l'informalità (o per allontanarne altri caratteri sentiti come negativi). Questa 'caduta' di una parte importante dell'autonomia dialettale è per ora possibile in parlanti con biografie particolari (alcuni di quelli che abbiamo definito 'ex-PE' appunto) ma non è da escludere che in un prossimo futuro il valore sociolinguistico di aumento di variazione e differenziazione di questo fenomeno prenda il sopravvento sulla componente, per ora ancora fondamentale, delle condizioni apprendimentali. Ci si può anche chiedere se il carattere potenziale di prestigio di queste varietà non ne possa fare un giorno degli 'input accettabili' o addirittura degli input autorevoli (cioè da imitare da parte di parlanti nativi), in un'ottica di restringimento del prestigio del dialetto in ambiti esterni alla famiglia, in contesti quindi oramai divenuti (o in via di divenire) 'post-dialettali' (nel senso che la varietà dialettale non è più in essi necessariamente la varietà preferita). Il futuro in relazione a questa problematica dipenderà in parte dal ruolo che avrà il dialetto nelle pratiche comunicative quotidiane e dalle valutazioni che i parlanti nativi e 'quasi-nativi' daranno di varietà come quella di D. Se l'italiano spingerà sempre più il dialetto nella posizione di libera alternanza (nei contesti

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ovviamente che erano di sola dialettofonia) e se i prodotti di parlanti come D verranno sentiti come 'input autorevole'340, è possibile che questo diventi il dialetto del futuro341. Y, un'altra parlante 'ex-PE' da noi intervistata (con una biografia linguistica simile a quella di D), presenta una varietà simile ma ad uno stadio meno avanzato, soprattutto in termini quantitativi, rispetto a D. Così per esempio solo il 40% delle /n/ finali ha la pronuncia dentale invece che velare. Si notano solo due casi di è per l'è, mentre dumà è categorico. Anche in questo caso le motivazioni delle alternanze vanno ricercate in opposizioni di valori sociolinguistici. La differenza tra le due parlanti a livello extralinguistico è molto difficile da definire (Y non fa per esempio accenni negativi alla competenza del padre) e forse va ricercata in una tipologia dei soggetti nei termini dei loro rapporti con il dialetto e nei termini dell'immagine che essi vogliono trasmettere agli interlocutori. Altri parlanti con configurazioni simili, cioè da potenziali parlanti evanescenti che abbiano recuperato il dialetto attivamente presentano anch'essi comportamenti simili, e alcuni di loro addirittura sono consapevoli di alcune di queste variazioni. In particolare due intervistati (una ragazza ed un ragazzo, non in contatto tra di loro) dichiarano di essersi accorti di variare a seconda dell'interlocutore, distinguendo in questo modo per es. tra il dialetto rivolto ai nonni e quello rivolto ai fratelli o ai coetanei. Il tratto che tipicamente viene indicato da queste persone come centrale per questa dimensione di variazione è la palatalizzazione di /s/ preconsonantica. Dato che questi parlanti sono capaci di alternare le differenti varianti a seconda delle situazioni, diventa chiaro che i fenomeni peculiari che caratterizzano le loro varietà rispetto a quelle dei nativi non sono considerabili come fenomeni

340 Sul concetto di 'autorevolezza' dell'input cfr. Moretti (1993).

341 E' difficile immaginarsi quali potrebbero essere i corrispettivi sociali di un mutamento di questo tipo, ma potremmo per esempio pensare ad un'adozione di questi tratti come varietà generazionale (più o meno permanente) da parte dei giovani. Oppure, forse in modo più probabile, ad una loro assunzione in una koinè non più caratterizzata solo o principalmente dal fenomeno dell'adattamento dei propri tratti regionali più marcati ma anche da una diffusione 'per apprendimento' (e non solo per 'convergenza casuale' dovuta al coincidere negli esiti di percorsi differenti di de-regionalizzazione). D'altronde la de-regionalizzazione deve orientarsi in qualche modo nella scelta delle alternative da adottare.

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apprendimentali (legati alla 'difficoltà' di percezione, gestione, ecc.) ma vanno indubbiamente trattati come fenomeni di variazione sociolinguistica. In conclusione, oltre al fenomeno della variazione motivata per il mantenimento dei tratti sentiti come 'meno dialettali', dobbiamo pure notare che, come effetto secondario, la 'soglia di dialettizzazione' si è abbassata e tratti che sarebbero stati poco accettati una volta tendono ora a non essere più stigmatizzati come 'non dialettali' ma fanno senza troppi problemi parte di questa 'varietà di compromesso'.

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3.4. I non italofoni

3.4.1. Non italofoni competenti

La forte dialettofonia ticinese non poteva non avere come effetto dei parlanti non italofoni che apprendono e usano il dialetto nella vita quotidiana. Ancora al giorno d'oggi è possibile incontrare casi di questo tipo, ma la casistica è decisamente cambiata. Infatti mentre un tempo per un non italofono che si trasferiva nella Svizzera italiana l'apprendimento del dialetto costituiva quasi un passo obbligato per una perfetta integrazione nella comunità ospite, oggi gli immigrati arrivati di recente che imparano il dialetto presentano in genere una delle tre seguenti caratteristiche. O abitano nelle zone periferiche dove si trova una dialettofonia ancora forte (pensiamo soprattutto alle valli), oppure hanno occupazioni in ambienti con la stessa caratteristica (pensiamo forse all'agricoltura, ma soprattutto a contesti dell'amministrazione federale come le ferrovie e il militare), oppure, ancora, rivelano un interesse particolare, e individuale, per il dialetto. Talvolta quest'ultima categoria coinvolge, oltre agli appassionati in genere delle lingue, svizzeri tedeschi che trasferiscono sulla relazione ticinese italiano-dialetto i valori della situazione svizzero tedesca con Schwyzertütsch e Hochdeutsch, e che quindi, sulla base di questa seconda relazione, preferiscono il dialetto all'italiano definendo il primo come una lingua più espressiva, affettiva, ecc.342

L'è un pecaa che i ticines i parla pü dialètt ai fiöö. I noni chì i ga parlava italian cula mè tosa343, al su mia perché, u duvüü digal mì da parlà dialètt cun lor e cun mì. Al dialètt l'è na lingua püssée bèla, l'italian cuma i l

342 In generale il nostro discorso sugli immigrati non italofoni va riferito principalmente a persone appartenenti agli altri gruppi linguistici elvetici. Tra gli immigrati non svizzeri, e in modo ancora più forte tra gli extra-europei, il dialetto è meno diffuso che tra gli svizzeri.

343 Ci si può chiedere se il comportamento dei nonni con la figlia di questa parlante non sia dovuto anche al genere della figlia stessa, secondo la regolarità secondo la quale con le figlie più che con i figli si tendeva a parlare italiano (e, nell'analisi di Bianconi, emergeva la stessa preferenza da parte delle figlie stesse, con una relazione difficile da ordinare direzionalmente tra causa e effetto). La stessa differenziazione è segnalata da un'altra tedescofona i cui figli sono cresciuti in Ticino. Essa dichiara infatti: "mi parli in dialett, óla fémina la ma riscpónd sempro in italian, invece 'l masc-cc [mat] al ma parla in dialett".

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parlava lur ma pareva na roba artificiala. Da nüm in dala Sc-vizera tedésc-ca nesun ga parla tedésc-ch buono ai fiöö. E la tosa la parla dumà dialètt cui nòni adèss ... si vede che anche lei piace dialetto, no?344

Non ci vogliamo qui soffermare a lungo su questo tipo di varietà, che richiederebbe uno studio a sé come L2 avente come lingua obiettivo un dialetto (e si presenta quindi, per certi versi, come un caso intermedio tra le varietà dei nostri PE e le tipiche varietà di apprendimento in situazioni che hanno come lingua obiettivo una lingua 'standard')345. Come abbiamo visto in precedenza alcuni di questi parlanti possono avere addirittura una competenza migliore in dialetto che in italiano. Nei nostri materiali si tratta di persone arrivate in Ticino più di venti anni fa, mentre tra le persone arrivate più di recente non abbiamo constatato casi simili346. In questi parlanti sono evidenti le interferenze dialettali nel loro italiano, come si vede per es. nei seguenti passaggi:

... ma s'incorgerà che non sono a mio agio a parlare italiano Un tempo andava anche una volta al mese a casa di anziani. Allora con quelle donnette lì vecchie non ... avevo meno vergogna e mi buttava ...

Mentre il primo caso mostra ancora un bell'esempio di interferenza (con il s'incorgerà indubbiamente calcato sul dialetto), la parlante del secondo esempio

344 La preferenza per il dialetto di questa parlante è rivelata autoreferenzialmente anche da quest'ultima breve inserzione in italiano (l'unica, assieme al buono della frase precedente), il cui carattere fortemente tedescheggiante contrasta con il livello molto avanzato del passaggio in dialetto che lo precede. Vale la pena di notare che uno dei tratti fonologici che contraddistinguono la caricatura dello svizzero tedesco che parla italiano è la palatalizzazione di /s/ preconsonantica (e si sa che le caricature hanno almeno una parte di verità). Lo stesso tratto facilita invece in questi parlanti l'avvicinamento alla fonologia dialettale.

345 Tra i materiali che abbiamo raccolto vi sono comunque anche parecchie interviste con parlanti di questo tipo, sulle quali ci ripromettiamo di ritornare in un prossimo lavoro.

346 Questo non vuol dire che non ne esistano, ma solo che i nostri materiali non ne registrano. Il fatto che siano più difficili da trovare è comunque coerente con una maggiore diffusione e accettazione dell'italiano. I parlanti dialettofoni arrivati più di recente (e che abbiamo potuto osservare) di solito presentano una competenza almeno uguale nell'italiano a quella che presentano nel dialetto.

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utilizza con alta frequenza la forma in -a della prima persona singolare dell'imperfetto indicativo, come in dialetto347. E' evidente che per queste persone la lingua seconda 'primaria' (cioè quella meglio conosciuta e più usata) è chiaramente il dialetto e l'italiano viene utilizzato più raramente (e in modo non preferenziale). Se si confrontano le varietà di parecchi parlanti evanescenti con il dialetto di alcuni di questi tedescofoni, ci si può facilmente rendere come quest'ultimi parlino il dialetto con una fluenza ed una competenza decisamente superiore a quella di alcuni ticinesi, che si possono considerare dei 'potenziali nativi mancati'. In genere però al giorno d'oggi è senz'altro più facile ritrovare immigrati (anche tedescofoni) che non parlano dialetto. Tra questi, l'affermazione che si riscontra più frequentemente è quella della 'non indispensabilità' del dialetto, che fa sì che l'apprendimento dello stesso si limiti più che altro ad una discreta competenza passiva. Ad un tipo estremo (ma statisticamente significativo) di queste persone, il cui 'dialetto ipotetico' (prodotto per la prima volta nel corso della nostra intervista) non è sostenuto da una buona competenza dell'italiano (che dovrebbe fare da lingua d'appoggio), è dedicato il paragrafo seguente. Tra i parlanti molto competenti, di cui abbiamo appena parlato velocemente, ed i parlanti di cui parleremo tra poco, si colloca una zona di interlingue differenziate tra loro da vari parametri, primi tra tutti la priorità della competenza dialettale rispetto a quella dell'italiano, e la qualità della competenza dell'italiano. Di fronte all'interazione tra questi due parametri l'influsso delle rispettive lingue materne degli immigrati passa in un relativo secondo piano348.

347 Un'eccezione a questa regolarità si ha nello stesso esempio. Tipicamente riguarda il verbo "avere", un verbo molto frequente che si contrappone alla forma in -a che si ritrova invece nei contesti più produttivi. L'ipotesi che -a nelle altre prime persone dell'imperfetto indicativo di questa parlante abbia una matrice autonoma, come in interlingue iniziali, basata sulla forma di terza persona generalizzata, è, almeno parzialmente, contraddetta dal livello di sviluppo assai avanzato dell'italiano della parlante.

348 Anche perché talvolta l'influsso della lingua materna nel dialetto può essere mediato attraverso il suo influsso nell'italiano (lingua d'appoggio), e quindi appare in modo indiretto.

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3.4.2. Non italofoni con uso solo passivo del dialetto Dato il mutamento nel tempo del ruolo del dialetto per gli stranieri non potevamo, nella nostra indagine sui 'margini del dialetto', non soffermarci almeno brevemente su quelle varietà, di solito esclusivamente potenziali, dei non italofoni che vivono da anni in Ticino senza aver mai messo in opera un uso attivo del dialetto. Siccome la loro competenza del dialetto si presenta per la maggior parte dei casi unicamente all'interno del processo di comprensione del dialetto che incontrano, definiremo d'ora innanzi queste persone come 'L2 solo passivi' (abbreviato L2pass). Nelle loro importanti dimensioni numeriche, queste persone rappresentano una novità, dovuta principalmente al ritiro del dialetto da domini tenuti in precedenza in modo saldo349, anche se stranieri con competenza solo passiva in Ticino se ne sono sempre avuti (almeno in questo secolo). La differenza consiste quindi in una minore pressione dell'ambiente soprattutto lavorativo e quotidiano che permette una completa integrazione anche in italiano. Il fatto che le persone possano interagire in italiano non vuole ancora dire che tutte le interazioni a cui esse partecipano avvengano esclusivamente in italiano. La preferenza di dialettofoni per il dialetto, la preferenza di non nativi per l'italiano (o la loro scarsa competenza del dialetto), e alcune condizioni interazionali facilitanti (come per es. la buona conoscenza reciproca dei partecipanti, la loro frequentazione abituale350), possono permettere interazioni in cui il primo interlocutore parli dialetto e l'altro gli risponda in italiano. A differenza dei 'parlanti evanescenti', i parlanti di cui qui ci occupiamo presentano un minore dislivello tra competenza attiva e passiva. Pur senza aver indagato con metodologie specifiche questo aspetto possiamo sostenere quest'ultima affermazione sulla base di una notevole evidenza fondata principalmente sui frequenti punti di incomprensione apparsi nel corso delle interviste (nelle quali l'intervistatore ha cercato di comunicare in un modo simile a quello che avrebbe utilizzato con altri parlanti nativi, anche se fenomeni di 'interview talk', cioè di adattamenti all'interlocutore meno competente, sono ovviamente

349 Basta confrontare i dati del Censimento federale 1990, per le correlazioni tra 'occupazione' e dialettalità, con i dati di Bianconi 1980.

350 Cfr. anche Collovà - Petrini (1982-83).

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presenti e d'altronde non del tutto eliminabili; ma a maggior ragione, adattamenti di questo tipo dovrebbero piuttosto facilitare la comprensione da parte dei non nativi)351. Per quanto riguarda l'uso attivo possiamo senz'altro dire che abbiamo a che fare con il livello più basso di competenza, appena al di sopra di un 'livello zero'. Data la non intenzione di queste persone di imparare o parlare il dialetto i fenomeni che di questa lingua appaiono sono da un lato quelli legati alla necessità di capire enunciati dialettali che vengono sentiti o che vengono rivolti loro, e dall'altro lato sono i tratti della lingua ai quali questi parlanti, quasi, non 'sono riusciti a sfuggire'. Si tratta quindi degli elementi più centrali e preminenti nelle strutture e negli usi del dialetto. Effettivamente, nella maggior parte di queste interviste, il risultato che abbiamo ottenuto è costituito da un telaio di discorso in italiano nel quale vengono inseriti alcuni elementi dialettali. Nonostante ciò, il materiale ricavato ci sembra significativo per più motivi. Innanzitutto il forte uso dell'italiano costituisce un dato importante, e non solo uno strumento di 'evitamento' parziale nel corso della nostra intervista. Infatti, allo stesso modo in cui gli intervistati ricorrono frequentemente a questa lingua nell'intervista, così è stato loro possibile fare nella vita quotidiana, dove l'italiano non è solo lo strumento di interazione con persone che si rivolgano a loro anch'esse in italiano, ma anche con quelle che si servono del dialetto. In questo senso abbiamo a che fare con una varietà bivalente, che entra in due tipi di discorsi differenti e potrebbe quindi, nell'ambito comunicativo, essere definita un 'doppio codice' basato su un'unica lingua: un italiano per italiani e un italiano per dialettofoni352. Nelle interviste abbiamo una realizzazione del loro 'dialetto con italiano' per dialettofoni, una varietà 'estrema', che non hanno mai utilizzato a

351 Questo tipo di evidenze ci sembra più importante per la comprensione della competenza passiva effettiva (intesa come capacità complessiva di comprendere un discorso) che non la verifica mediante liste di items dialettali, spesso arcaici, che controlla piuttosto la scomparsa, peraltro presente spesso anche nelle varietà dei giovani dialettofoni, di elementi lessicali arcaici.

352 Anche questi parlanti dichiarano di non aver mai parlato dialetto. D'altra parte non è da escludere da parte loro l'utilizzazione di alcuni, pochissimi, elementi lessicali dialettali parlando italiano in situazioni di 'dualinguismo'. Ricordiamo l'alta frequenza anche nelle interlingue italiane meno avanzate in Ticino di bon (con il valore di va bene, e di chiara origine dialettale anche se probabilmente assimilato completamente nel sistema dell'italiano regionale ticinese; cfr. Bianconi - Moretti 1994; su bon nell'italiano regionale ticinese cfr. Petralli 1991, p. 215).

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questo livello, e che solitamente non devono nemmeno utilizzare perché il guadagno che ne ricavano in termini interazionali generali (e quindi in termini di identità, avvicinamento all'interlocutore, ecc.) rispetto all'uso del solo italiano è praticamente nullo353. L'altro grande motivo per il quale gli esempi di varietà ottenuti sono da considerare realistici è, come abbiamo già osservato sopra, che essi nel loro lasciar emergere alcuni fenomeni ma non altri si propongono come un principio di ordinamento degli elementi dialettali per un parlante non nativo, e il discrimine tra ciò che appare nei testi di questi parlanti e ciò che manca è da considerare sistematico e significativo. L'uso dell'italiano è inoltre giustificato dal fatto che talvolta gli intervistati tendono a spostare l'accento dal compito metalinguistico (l'interesse per la loro varietà dialettale) a quello più informativo (scambio di informazioni riguardo alla loro biografia linguistica e su altri punti), con spesso un interesse principale più sul contenuto che vogliono veicolare che non sul modo in cui lo veicolano (tranne, come vedremo in seguito, nel caso delle frasi da tradurre, in cui sono costretti ad concentrarsi sul parlare in dialetto). Il tentativo di usare maggiormente il dialetto si concilierebbe male con l'abbassamento di fluenza e di informatività che provocherebbe. Uno dei risultati di tutto ciò è che la rassegna che segue sui tratti peculiari di queste interlingue non può per definizione essere esaustiva in quanto una buona

353 Sulle eventuali variazioni nell'italiano di non dialettofoni in relazione alla lingua scelta dall'interlocutore, e quindi su una potenziale differenza strutturale tra un 'italiano per dialetto' e un 'italiano per italiano' (a parità di gradi di formalità) può essere interessante, a livello più aneddotico, il ricordo di un informatore nativo relativo ad un suo amico (ticinese non dialettofono, ma figlio di padre dialettofono) che secondo i suoi amici aveva due varietà di italiano, una per le persone che gli parlavano in italiano e una per i dialettofoni (coi quali interagiva comunemente in italiano). In realtà la differenziazione si limitava probabilmente ad alcuni 'shibboleth' centrati su doppioni lessicali (non so quanto generalizzati dai suoi amici, ma la cosa sarebbe probabilmente degna di approfondimento). Lo stereotipo che caratterizzava in modo più forte queste due differenti varietà, nella caricatura che mi viene riferita, era la contrapposizione di una serie di termini italiani versus termini dialettali italianizzati, come per es. maglia di lana vs. gipponcino (dal dialettale gipunìn, che è appunto la maglietta di lana). In verità, probabilmente, le alternanze erano molto limitate e forse non erano del tutto distribuite sistematicamente in relazione alla varietà dell'interlocutore; resta comunque il fatto che parlanti nativi dialettofoni hanno 'sistematizzato' queste alternanze in una stereotipizzazione caricaturale.

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parte di quelle che potrebbero essere le soluzioni strategiche dei parlanti per i settori problematici della loro competenza non appaiono perché vi si sovrappone la soluzione di utilizzare l'italiano. Ciò che si può osservare deve essere considerato quella parte di competenza dialettale che gli intervistati posseggono già al punto da poter utilizzare in concorrenza con la soluzione di evitamento fondata sull'italiano. Non si tratta quindi di una vera e propria varietà di interlingua di dialetto, ma piuttosto di ciò che i parlanti hanno capito e riescono ad usare354 delle strutture dialettali. Abbiamo perciò a che fare con alcuni frammenti, 'emergenti', di interlingua dialettale. D'altra parte, la scarsità del dialetto di queste persone, fa sì che tutto quello che ritroviamo sia pertinente e che quindi la visuale non debba tener conto solo degli 'errori' come zone di rilevazione dei punti deboli dell'interlingua, ma che ogni apparizione del dialetto vada presa in considerazione. Questo ha come conseguenza una maggiore difficoltà a distinguere tra 'processi produttivi' di costruzione dell'interlingua e fenomeni di apprendimento lessicale non analizzato. In questo capitolo ci interesserà quindi soprattutto osservare il modo in cui questi parlanti 'esprimono dialettalità', e quali sono le regole (differenzianti) che conoscono e sanno mettere in opera. Rispetto ai non nativi che parlano effettivamente dialetto nella vita quotidiana, abbiamo nei L2pass una inversione dei ruoli delle lingue. Mentre nei primi, e in parte nei nativi, come abbiamo visto sulla base del nostro corpus di riferimento, l'italiano entra come lingua 'ausiliare', per quei casi in cui ai parlanti viene a mancare un'espressione, o per quei casi in cui la forma italiana sembra essere più appropriata o più efficace ad un qualche livello di quella dialettale, nei L2pass è il dialetto a comparire solo sporadicamente. Le varietà che qui stiamo esaminando sono quindi osservabili dal doppio punto di vista dello studio delle interlingue e da quello dello studio del code switching, in quanto è probabile che i due fenomeni siano intrecciati anche per quanto riguarda la correlazione tra 'maggiore utilizzabilità' sociolinguistica di elementi dialettali e loro 'maggiore apprendibilità' o utilizzabilità da un punto di vista processuale. Inoltre i fenomeni registrati sono a cavallo tra la commutazione di codice e le strutture di interlingua anche perché non è sempre facile dire se il ricorso

354 E che ritengono necessario usare.

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all'italiano corrisponda per es. ad un vuoto lessicale, o se riempia un vuoto momentaneo, o, ancora, se si tratti di un'inserzione funzionale nel discorso. Una differenza fondamentale del nostro caso rispetto alle situazioni di interlingua in cui gli interagenti non possano contare su una seconda lingua di comunicazione è, come abbiamo detto, che non abbiamo a che fare con una vera interlingua dialettale (con i classici fenomeni di forte semplificazione, cancellazioni di elementi, soluzioni strategiche, ecc.), ma piuttosto con frammenti, o accenni, ad una varietà di questo tipo. Diventa allora molto significativo l'esame di quali siano le strutture impiegate e quali siano le motivazioni che stanno dietro all'alternanza tra le due lingue in gioco. La lingua d'appoggio (l'italiano) diventa il tessuto fondamentale in cui vengono inseriti i 'frammenti fossilizzati' tipici delle interlingue iniziali e pre-iniziali. Questa possibilità di servirsi dell'italiano, oltre a costituire un indubbio aiuto nella costruzione (forse in modo fondamentale a livello di analisi dell'input, con la possibilità di avere una quantità importante di input comprensibile355) e nell'uso dell'interlingua, fornisce anche ai parlanti strumenti alternativi che permettono loro di evitare (o che li costringono a non usare) tecniche comunicative più rudimentali come per es. quelle che devono essere caratteristiche dei primi stadi di pidginizzazione o di fasi iniziali di apprendimento spontaneo di L2 in contesti di forte emarginazione. Per quanto riguarda i punti di alternanza possiamo osservare i seguenti fatti. Per i fenomeni dialettali: - abbiamo una serie di alternanze con un carattere quasi di tag-switching, cioè di

commutazioni che riguardano interiezioni, esclamazioni, inserzioni parentetiche, formule automatizzate di routine, ecc.

- abbiamo alternanze simili alle precedenti, nel senso che si fondano sulla

conoscenza di una parola dialettale, ma dove la stessa ha decisamente un peso semantico più importante di quello della categoria precedente (gli elementi di questa categoria e della precedente si possono definire di 'apprendimento lessicale' o 'per memorizzazione')

- abbiamo fenomeni in cui giocano un certo ruolo regole produttive di

collegamento tra italiano e dialetto (le strategie di 'corrispondenza'), che

355 Sul problema dell'input comprensibile, fondamentale ma non del tutto chiarito nella trattazione di Krashen, v. Ellis (1995).

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rendono (maggiormente) disponibile un elemento che altrimenti non lo sarebbe (a sufficienza). I risultati sono quindi la conseguenza della costruzione mediante una regola produttiva e non della semplice memorizzazione. L'elemento che viene inserito, e che provoca il cambiamento, non è, nel caso estremo, per niente disponibile come forma memorizzata, ma viene 'prodotto' unicamente mediante l'aiuto di regole interlinguistiche.

- abbiamo una percentuale molto ridotta di prodotti fondati su regole interne

dialettali. Per i fenomeni italiani: - abbiamo parole italiane che compaiono nella stessa forma (con regolarità più o

meno variabile) anche nel dialetto di nativi, e che per questo motivo possono essere definite 'neo-dialettali': l'identità delle forme può essere 'indipendente', cioè risultato di un coincidere indipendente appunto dell'evoluzione dialettale e di quella italiana, oppure può essere 'convergente', dovuta all'attrazione dell'italiano sul dialetto che ha portato all'adozione della forma italiana; potremmo definire questi usi 'dell'italiano' (intendendo anche le forme coincidenti) come usi 'tradizionali';

- abbiamo parole che non sono (quasi) mai usate in dialetto neanche dai nativi

dialettofoni, perché, nel caso tipico, sono sentite come ricollegate a sfere d'esperienza decisamente italofone (si tratta di una categoria simile alla precedente con la differenza che nel caso precedente i fenomeni vengono sentiti come dialettali, mentre in questo secondo caso i parlanti tendono piuttosto a considerarle dei prestiti o degli switch). Questa è la categoria legata alla 'sfera d'uso' e come la precedente non dà esito a fenomeni devianti rispetto alle varietà native;

- abbiamo passaggi all'italiano per la mancanza di strumenti dialettali appropriati

e sufficienti. Questa è la categoria che possiamo definire dell'uso 'strategico'; - infine, in alcuni casi, è difficile dire se questi parlanti abbiano effettivamente

intenzione di parlare dialetto, e se quindi le forme italiane che si ritrovano siano da considerare come la mancata percezione di una differenza di forma tra italiano e dialetto, oppure se si servano consapevolmente di forme italiane. Un caso che si può considerare paradigmatico per questa categoria è quello della forma dell'articolo determinativo maschile singolare, che viene realizzato, da alcuni intervistati categoricamente, come il. Ma al crescere della competenza la presenza di il, non più categorica, sarà senz'altro da attribuire piuttosto a

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fenomeni di esecuzione che di competenza, dato che non riteniamo possibile che i parlanti assegnino valori differenti alle due forme (e quindi l'uso di al dovrebbe garantire la sua individuazione come forma unica). E' la categoria della 'presunta similarità'.

I criteri di selezione in azione sono dunque da un lato quelli della sfera d'esperienza (con una distinzione tra domini lessicali tipicamente 'italiani' e domini tipicamente 'dialettali' e una forte zona di sovrapponibilità356) e della maggiore funzionalità, e dall'altro lato l'azione del criterio della disponibilità (o della maggiore disponibilità) di strutture di una lingua rispetto all'altra, e della 'non rilevanza' della forma, o meglio della alternabilità delle varianti. Rispetto ai parlanti nativi gioca ovviamente un ruolo maggiore il criterio della disponibilità, come conseguenza delle 'competenze ristrette' di questi parlanti. Abbiamo perciò da un lato la possibilità di utilizzare elementi dialettali, data dalla loro disponibilità, e dall'altro la necessità di farlo in relazione a certi contenuti o momenti dell'intervista. Dall'altra parte, e questo complica il quadro interpretativo, l'uso degli elementi noti è a sua volta variabile, e quindi il fatto che una parola dialettale compaia una volta non costituisce ancora una garanzia sufficiente per il fatto che essa compaia sempre in questa forma. Altre circostanze, più legate a fattori di esecuzione, come la concentrazione principale su un altro elemento della frase, o come il valore 'più o meno dialettale' che i parlanti danno al cotesto specifico possono creare variabilità nelle forme selezionate. Esempi tipici di alternanze nelle due direzioni possono esser dati dalle frasi seguenti: il fiöö prende la rana e se la pòrta a ca' soa; sanno il dialett e lo parlan al teléfon, con gli amici; a scöla parlano anche il l'italiano; ma mi dicono di parlaa mì il dialett.

356 Come abbiamo già visto nello schizzo tracciato all'inizio sulla situazione di distribuzione attuale delle lingue in Ticino, tre le novità degli ultimi anni devono essere considerate la maggiore utilizzabilità dell'italiano in domini precedentemente attribuiti prevalentemente al dialetto, e la minore utilizzabilità del dialetto (pur se in misura minore rispetto al caso precedente) in domini attribuiti all'italiano. Si è quindi avuto uno spostamento del confine, o meglio una frammentazione della frontiera tra gli usi delle due lingue in una serie di sottofrontiere, con l'ampliamento della zona di utilizzabilità di entrambe le lingue.

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3.4.2.1. Elementi lessicali e regole produttive Come abbiamo visto per i parlanti evanescenti, anche per i L2pass è presupponibile che il loro sistema 'dialettale' sia costituito da tre componenti: da un lato strutture e elementi lessicali italiani che costituiscono il 'telaio' del loro discorso o forniscono le basi lessicali alle quali applicare le corrispondenze che 'creano' elementi dialettali. In secondo luogo le corrispondenze stesse, che consideriamo in azione però unicamente quando sia possibile pensare proprio ad un procedimento di corrispondenza effettivamente messo in opera a partire da un termine italiano. Abbiamo elementi dialettali appresi, cioè non costruiti a partire dall'italiano, ma sentiti e imparati nella forma dialettale, e infine abbiamo alcune regole dialettali interne. In questo senso, vedremo in seguito, che a questo livello di competenza, le corrispondenze veramente produttive sono poche, ma ottengono comunque un effetto di dialettizzazione importante per la loro frequenza nella varietà obiettivo e l'effetto nelle interlingue sarebbe ancora più importante se gli apprendenti le applicassero in modo categorico ogni qual volta sarebbe possibile. Tra gli elementi lessicali che si possono considerare 'memorizzati' anche da questi parlanti meno competenti abbiamo tipicamente forme come ammò, püssee, fiöö, o sintagmi come a ca' soa, dove il collegamento con le corrispondenti forme italiane è tra l'altro poco trasparente. Ma pure queste parole e frammenti idiomatici non appaiono in modo categorico. Basta osservare per es. il caso della negazione, dove il dialettale postverbale mia si alterna con l'italiano preverbale non, e quest'ultimo talvolta ha la meglio in cotesti fortemente dialettofoni, come in ma non cun mì357. In altri casi si può pensare ad una cooperazione di memorizzazione e regole produttive, come per es. nel caso di dialètt, gént, cosc-trètt, ecc., che, come vedremo sono ricollegabili alle forme italiane mediante quelle che in questi parlanti sono le regolarità più frequenti e sistematiche. Il ruolo delle corrispondenze è poi particolarmente evidente in quei casi in cui l'applicazione delle stesse dà risultati differenti da quelli della lingua obiettivo, come nel caso, per es., di sa rampik sü üna roccia, o di non riesco, riesk mia, dove ben emerge la sovrageneralizzazione della

357 Questo esempio è interessante per mostrare la difficoltà di ritrovare una motivazione sicura alle scelte variazionistiche di questi parlanti: si pensi che di fronte a questa frase all'intervistatore scappa spontaneamente l'intervento correttivo mia cum mì, che l'intervistata ripete come mia cum me.

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caduta della vocale finale, senza tener conto degli influssi morfologici o fonologici che portano nella lingua obiettivo ad esiti diversi. Accanto ai fenomeni di memorizzazione di parole non analizzate si hanno quindi ancora una volta 'effetti di corrispondenza' dovuti al fatto che i parlanti hanno estratto delle regolarità che permettono di ricollegare il dialetto e l'italiano e che se ne servono, talvolta, in modo produttivo o addirittura 'neologistico'.

3.4.2.1.1. Cancellazione di vocale finale Per quanto riguarda le corrispondenze, come si nota subito di fronte a testi di questo tipo, il procedimento più applicato e regolare (anche se, come vedremo, non viene applicato sistematicamente ogni qual volta ciò sarebbe possibile358) è quello della cancellazione della vocale finale, che tra l'altro è anche quello che dà luogo a più sovrageneralizzazioni. La 'acriticità' con la quale il procedimento è generalizzato porta talvolta per esempio a semplificazioni delle marche di genere femminile, con la caduta di [a] finale (di solito invece mantenuta anche in questi parlanti). La conseguenza è la perdita di informazioni morfologiche in forme come cun tanta gent indigen (dove manca l'accordo dell'aggettivo; in questo esempio potrebbe aver giocato un certo ruolo anche un 'accordo a senso', per cui indigen viene sentito come un plurale non marcato per il genere, dato che si parla delle 'persone' con la quale la parlante interagisce359), o come mi sum cosc-trett (con valore di femminile). In questi casi ci si trova di fronte all'azione di 'regole' di corrispondenza che richiedono la caduta della vocale finale e non all'uso di forme apprese nella variante non marcata maschile, anteriori all'eventuale applicazione della cancellazione di

358 Questo è tra l'altro il motivo per cui è difficile stabilire una gerarchia dell'importanza delle regole per gli apprendenti sulla base di un rapporto type-token, dato che per poter fare un'operazione del genere occorrerebbe poter scindere in modo sicuro le parole che per i parlanti sono univocamente italiane da quelle altrettanto univocamente dialettali. Un criterio potrebbe essere quello di analizzare il rapporto in base all'applicazione di almeno un'altra regola di corrispondenza (considerando quindi unicamente le parole alle quali si siano applicate almeno due regole), ma questo calcolo ovviamente non è applicabile alla regola più frequente in quanto si perdono tutti i casi in cui la sua applicazione costituisce l'unico adattamento.

359 D'altra parte indigeno è proprio una di quelle parole che come 'sfera d'esperienza' non appartiene chiaramente al dialetto, come è anche dimostrato dal fatto che nella maggior parte dei casi essa è realizzata nella variante corrispondente alla forma italiana anche dai parlanti nativi.

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vocale finale. Questo vale in genere per queste perdite di distinzioni morfologiche, in cui il ruolo della sovra-applicazione della corrispondenza fonologica prevale decisamente su quello della semplificazione morfologica, come per es. in i altr rann ("le altre rane"). Un caso particolare di sovra-applicazione riguarda poi la cancellazione di vocale finale in quelle parole in cui i parlanti nativi tendono a non cancellarla più, come per es. in cerf (la forma cervo nel parlato normale di nativi ha un'alta frequenza ed è da ritenere 'normale'). Per quanto riguarda invece l'adattamento della consonante finale (divenuta tale per la cancellazione della vocale), si ha di solito un comportamento corretto per /n/, che passa da dentale a velare (v. per es. riünion), ma non possiamo dire di aver ritrovato dei casi in cui sia da escludere completamente l'apprendimento lessicale, dato che nella maggior parte degli items si ritrovano nella stessa parola altri procedimenti di adattamento (come nell'es. di riünion citato qua sopra, ma anche in discüssion), oppure si tratta di parole come italian, o ben, che si possono ritenere di alta frequenza o pregnanza nel discorso. La velarizzazione è correttamente non applicata in casi come il già visto rann ("le rane"), o come indigenn, o trent'ann, e questo è un fenomeno sorprendente che colloca questi parlanti ad un livello più avanzato dei PE3 e che ci potrebbe forse far sospettare un eventuale rapporto particolare (con implicazioni sociolinguistiche) di questi ultimi con questo fenomeno fonologico (come nel caso degli ex-PE). Ma la forte incidenza dell'apprendimento lessicale negli 'L2pass' può essere alla base di questo risultato strano che si rivelerebbe così puramente accidentale360. Un altro settore sul quale ci si deve soffermare per quanto riguarda gli adattamenti conseguenti alla caduta di vocale finale è quello delle forme del participio, che talvolta si possono supporre risultare, se non da un fenomeno di apprendimento lessicale (che non è mai del tutto da escludere), dall'applicazione di una regola che sostituisce l'intero morfema finale del participio (con un bell'esempio di fenomeno di morfologia interlinguistica). Come nel caso, applicato correttamente, dei participi in -ato, dove troviamo disperaat, ma anche parlaa, afrontaa (v. anche capii). A volte invece le forme sembrano piuttosto il risultato proprio di una regola

360 Un caso invece dove la forma dialettale è da attribuire in modo sicuro all'applicazione della corrispondenza generalizzata è quello di cagnolìn, dove sia la caduta della vocale finale è 'corretta', e /n/ viene pronunciata in modo velare, ma soprattutto la parola non esiste in dialetto o è comunque molto rara (ammesso che in qualche forma di input nativo particolare sia ritrovabile).

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semplice di cancellazione di vocale finale (come in approfonditt, dove la lunghezza dell'ultima vocale è decisamente inferiore a quella che si ritrova nei nativi). Infine, un ultimo punto in cui occorre considerare l'azione della strategia di cui qui ci stiamo occupando riguarda alcune forme verbali, e più precisamente la costruzione di forme della terza persona plurale del presente indicativo a partire dalle corrispondenti forme italiane (per le altre forme e persone v. più avanti). I prodotti più frequenti sono infatti del tipo guàrdan, camìnan, càntan (sulle cui particolarità morfologiche si veda la discussione in relazione ai 'parlanti evanescenti'), accanto a forme come leggon ma anche légian (nello stesso parlante, con l'alternanza di una forma ricavata dall'italiano e di una forma dialettale appresa), e riünìsson. Piuttosto da ricondurre ad un influsso della categoria più frequente dei verbi in -are (v. cantan) è il caso di cadan (in il fiöö e il cagnolin cadan in acqua, dove il contesto è chiaramente quello dell'indicativo).

3.4.2.1.2. [sc-] + consonante per [s] + consonante Accanto alla corrispondenza sopra discussa, ai primi posti per frequenza e trasparenza, troviamo quella della palatalizzazione della s preconsonantica (come per es. in abasc-tanza, sc-cöla). La sua applicazione è però già meno categorica della precedente ed ha soprattutto in tre parlanti di questa categoria (non in contatto tra loro) una eccezione sistematica che è data dalla sequenza dis- (non sempre con valore percepibile di prefisso; v. per es. discüssion, disperaat; è differente invece il comportamento con disc-tant). Le ragioni di questa eccezione sono difficili da individuare in modo univoco, ma saranno probabilmente collegate, più che al sentire dis- come un prefisso 'italiano' o alla posizione non iniziale di /s/ (v. sopra anche abasc-tanza361), piuttosto al far parte solitamente di un morfema aggiunto alla base ed al suo cadere proprio sul confine di morfema, con le ovvie conseguenze di annullamento dell'allomorfia. Il mantenimento della forma italiana coinciderebbe quindi con un migliore mantenimento del confine morfotattico (quando vi sia veramente) e della relativa autonomia del prefisso (mentre invece il prefisso s- con il suo minore corpo fonico e soprattutto senza autonomia sillabica tende più facilmente a perdere autonomia e a fondersi con la base). In un secondo tempo la situazione potrebbe essersi estesa dai prefissi ai non prefissi.

361 Casi come questo eliminano un'altra possibile spiegazione, di tipo solo fonetico, cioè che il confine di sillaba 'stacchi' /s/ dalla consonante che segue, bloccandone la palatalizzazione.

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Sulla relativa fortuna di questa corrispondenza nei nostri parlanti può inoltre senz'altro inciso il fatto che, all'interno di questa categoria, abbiamo unicamente tedescofoni, con un possibile influsso della loro lingua materna. Si potrebbe infatti trattare di un fenomeno di ipercorrettismo alla tendenza dei tedescofoni a palatalizzare la s preconsonantica in italiano, con un conseguente blocco della 'regola di ritorno' in dialetto per casi sentiti come più italiani. D'altro canto, come già per la vocale finale, è notevole il peso fonologico differenziale delle due strutture a confronto (dato dall'assenza di sc-C nel sistema italiano in questi contesti, e dalla sistematicità della corrispondenza di realizzazione in dialetto che lo rendono fortemente percettibile e distintivo). Questa facilità di percezione ben si presta al rilevamento della differenza ed alla sua generalizzazione come carattere tipico del dialetto. Una possibilità esplicativa più complessa di questa eccezione potrebbe rimandare a cicli differenti di applicazione delle regole con dis- che costituisce una 'zona lessicale' di resistenza al fenomeno del passaggio di [s]+C a [sc-]+C (quindi un 'resto di diffusione lessicale'). Si tratterebbe perciò di una regola lessicale e per questo motivo essa non funzionerebbe in modo automatico come le regole postlessicali responsabili di solito della trasformazione in [sc-]+C362. Le corrispondenze che seguono sono già da collocare al limite della produttività in questi parlanti, ed il ruolo dell'influsso di forme lessicali apprese è da considerare ancora maggiore363.

362 Dato che le regole post-lessicali non tengono conto delle informazioni lessicali della parola e si applicano 'regolarmente'.

363 La nostra intenzione di produrre una quantificazione della produttività di queste corrispondenze si è scontrata con un problema non facile da risolvere; essa dipende infatti strettamente dal poter giudicare quali sono le parole che il parlante intende come dialettali. Il fatto che per esempio in uno stesso parlante si possano ritrovare parole come fusion o discüssione rendere difficile individuare una gerarchia di applicazione delle corrispondenze, impedendo di cogliere dei 'confini di sicura dialettalità' vs. 'italianità' (a ciò si aggiunge poi il problema della eventuale produzione non analizzata di un elemento lessicale, che non può a rigore essere computata come applicazione di una corrispondenza). Se il parlante non intende una parola come dialettale non è allora nemmeno appropriato computare la mancata applicazione in essa di una potenziale corrispondenza. D'alto canto riteniamo che questi casi si staccano così fortemente da quelli che si ritrovano normalmente nei parlanti nativi da presentarsi come più interessanti da un punto di vista qualitativo che quantitativo. Ogni singolo caso di questo tipo si presenta cioè come una piccola variante autonoma delle varietà dei singoli parlanti.

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3.4.2.1.3. [ü] per [u] Si hanno realizzazioni di [ü] in parole come tütt, tücc, riünion, ecc., e se ne ha una iperapplicazione in sü üna roccia, dove avrà contribuito sia la solidarietà sintagmatica con la preposizione, sia l'influsso del numerale vün. Un altro uso si ritrova per es. in discüssion, dove si potrebbe sostenere una 'priorità di applicazione' di questa regola rispetto a quella della sc-C, se non avessimo visto che la mancata applicazione di quest'ultima regola, nel contesto con dis-, è legata ad una particolare restrizione.

3.4.2.1.4. [ö] per [o] Lo stesso discorso fatto per il caso precedente vale anche per questa corrispondenza, dove il ruolo giocato dalla memorizzazione di singole parole è ancora più forte. Si vedano per es. parole molto frequenti, come sc-cöla o fiöö. Un caso particolare è dato da vöi, in mi disi mai che mii .. che ho mia vöi, che è da interpretare come un tentativo di creare il sostantivo a partire dalle forme singolari del presente indicativo del verbo, e dove quindi si parte ancora una volta da un suggerimento lessicale.

3.4.2.1.5. Le altre regole meno produttive L'ultimo caso per il quale è possibile pensare ad una certa produttività è quello di [s] per [c], come in mi disi, ma pias. L'attribuzione di produttività di questa corrispondenza è motivata soprattutto dall'occorrenza talvolta di 'autocorrezioni' che arrivano all'esito corretto attraverso una costruzione progressiva che parte da forme italiane o più vicine all'italiano, come, nel caso più frequente di è vicino, è visin. Casi come chiaf per ciaf mostrano invece come corrispondenze altrimenti potenzialmente importanti tra italiano e dialetto non vengano colte o applicate.

3.4.2.1.6. Le regole di variazione interna Abbiamo definito 'regole allofoniche' quelle regole la cui occorrenza sembra essere non sistematica, o fondarsi su valori di difficile indagine. Pensiamo a contesti in cui si può ritrovare sia [a] che [e], come tipicamente in per/par (per molti nativi queste due forme sono ordinabili in termini diacronici o regionali), che si ritrova anche in parlanti molto poco competenti, forse come un tentativo di incrementare il grado di dialettalità.

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Ma più tipica della precedente, e ancora meno percepita ed emicizzata, è l'alternanza di [u] e [o], che può dar luogo a esiti diversi addirittura in posizioni diverse della stessa occorrenza della stessa parola, come in cundizion (nella stessa parlante a poca distanza si ritrova condiziun), o al telefun con gli amici, cum me, som cosctrett, approfonditt, concentraziòn, ecc. Per la vicinanza con l'italiano ci sembra sensato pensare ad una scelta di default costituita dalle forme con [o] alle quali si affiancano le forme con [u], dovute a nostro parere in questi parlanti, più che all'applicazione di una regola 'di dialettizzazione', all'influsso di suggerimenti lessicali. Tra le varianti allofoniche dobbiamo poi contare anche le forme italiane dell'articolo determinativo maschile singolare (il), che si ritrovano in alcuni parlanti in forma categorica. In questo caso 'l'allomorfia' dei vari articoli sarà legata più che alla vicinanza fonetica dei fonemi coinvolti alla non rilevanza della differenza per la non ambiguità dei contesti e la mancanza quindi di opposizioni significative.

3.4.2.1.7. Le regole 'potenziali' Accanto a tutte le esemplificazioni sopracitate in cui, in qualche modo, si può ancora supporre un certo concorso di rapporti di corrispondenza, vi sono poi altri casi in cui le corrispondenze per i parlanti sono da considerare esclusivamente potenziali, cioè sono presenti come possibili materiali di estrazioni di regole, che però non si presentano oltre un insieme molto ridotto di occorrenze lessicali specifiche. Ci limitiamo a segnalare forme come tücc per "tutti", vöia e fiöö per "voglia" e "figlio". L'interesse di questi casi, più che nel mostrare fenomeni di apprendimento di tipo lessicale, è nell'evidenziare la presenza di un 'potenziale di corrispondenza', cioè la presenza nei parlanti di una lista di elementi lessicali dai quali sarebbe stato possibile estrarre ulteriori regole di corrispondenza (in fondo facili perché abbastanza regolari e molto frequenti) da utilizzare nel discorso. Parlanti come questi hanno probabilmente conoscenze superiori a quelle che qui emergono. Essi nel tempo della loro permanenza in Ticino hanno sentito e memorizzato un corpus lessicale dialettale, senza sviluppare la capacità di analizzare le entrate lessicali e senza sviluppare un modulo produttivo di estrazione e applicazione di regole di corrispondenza. Queste 'estrazioni mancate di regole' rimandano probabilmente al differente procedimento operativo che caratterizza l'uso solo passivo di una lingua (dove le differenze vengono sì sentite ma dove conta soprattutto il ruolo del

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contesto e degli altri elementi della frase per la comprensione) rispetto all'uso attivo (dove la singola regola è per così dire sola di fronte al compito di produrre un elemento dialettale). Si può , sulla base di questi casi, allora supporre che la comprensione sia un processo maggiormente 'lessicale' che non la produzione, e che quindi solo le regole veramente produttive ed evidenti raggiungano uno stadio di attivazione. La materia che, almeno teoricamente, i parlanti avrebbero a disposizione per l'estrazione di una quantità maggiore di conoscenze attivabili non viene così sfruttata.

3.4.2.2. Morfosintassi Per quanto riguarda la struttura del sintagma verbale, emergono in modo evidente da un lato la frequentissima mancanza dei pronomi clitici soggetto, e dall'altro lato l'uso in alcuni casi delle marche di persona, accanto ad altre soluzioni fondate sulla derivazione dalla forma italiana. Appare in modo netto il morfema -i della prima persona singolare in casi in cui si può presumere un apprendimento maggiormente lessicale, come per es. nel frequente mi disi. La frequenza nell'input sembra in genere il criterio fondamentale per la presenza o meno di una forma corretta. In altri casi il ruolo della costruzione autonoma dei parlanti è presumibilmente maggiore: si veda per es. mi abiti, usato ma poco frequente nel dialetto di nativi (dove prevale la forma corrispondente a stare) che la stessa parlante corregge poco sotto in mi abit- sctai. Quest'ultima forma, che costituisce un tentativo di costruire la forma dell'imperfetto, è deviante rispetto alla lingua obiettivo, ma mostra la comprensione della marca di persona e rimanda indiscutibilmente ad un lavoro morfologico della parlante364. Un'altra interessante sovraestensione del morfema -i è quello che lo porta ad essere utilizzato anche come marca di terza persona plurale in certi contesti, come per es. in (i figli) preferisco- i preferissi (parlare) in Schwyzertütsch. In questo modo si tratterebbe di una sovraestensione della prima persona ad altre persone, secondo un percorso relativamente strano, ma qui forse sostenuto dall'omofonia con il clitico soggetto di terza plurale. Questa soluzione appare in alternativa alla variante più diffusa per questa persona che è quella della semplice derivazione dalla forma italiana con l'applicazione della caduta della vocale finale (pàrlan, guàrdan, ecc.).

364 Per forme come in l'ho imparai che nel contesto ha il valore di un passato prossimo si deve probabilmente pensare ad un'analogia con forme 'forti' come l'ho fai ("l'ho fatto").

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Alcuni esiti che si affiancano a questi fanno però pensare che la regola fonologica si sia sviluppata in una regola di corrispondenza di morfemi, che dà talvolta esiti regolarizzanti per la sovraestensione di -an come marca di questa persona. Si ritrovano così forme come càdan per "cadono". I contesti in cui invece tende ad apparire la soluzione con la -i sono quelli con il suffisso -isc, come appunto nell'esempio sopraccitato. L'influsso di questa distinzione potrebbe pure aver giocato un certo ruolo in alcune forme 'strane' (anche per queste interlingue) come riesk ("riesco"). Forse si può pensare ad un influsso del tentativo di costruire sostituendo alla vocale finale il morfema -i, bloccato però dalla presumibile scarsa plausibilità per il parlante dell'esito rieski (e quindi si potrebbere presumere l'azione di un filtro che lavori non solo con il confronto con i dati in memoria ma anche con un procedimento euristico, basato su criteri generali di esito possibile o meno), ciò che ha come conseguenza la formulazione di una soluzione 'intermedia', non definitiva, strategicamente sufficiente per la comunicazione in corso. Per quanto riguarda la terza persona singolare la soluzione è facilitata in genere dall'omonimia con le forme italiane (canta, mangia, ecc.) o da collegamenti 'facili' nelle forme che si ritrovano (v. per es. rid). Anche per i fenomeni morfologici ci troviamo quindi di fronte all'interazione tra fenomeni lessicali (come per es. in mì disi, ma pias, ecc.) e fenomeni di costruzione derivata sulla base della corrispondenza con l'italiano, ma accanto a queste due strategie emerge una certa 'autonomia' morfologica, pur se 'strana' e ricostruita dall'apprendente, del dialetto. Collegata in modo importante alla tematica sopra discussa delle marche morfologiche di persona, vi è la problematica dei pronomi atoni che accompagnano in dialetto le forme verbali. Il fenomeno più evidente è senz'altro costituito dalla scarsissima utilizzazione, a questo livello di interlingua, dei pronomi clitici soggetto. La struttura del sintagma verbale viene quindi a coincidere in modo maggiore con quella dell'italiano (v. per es. il fiöö dòrm, il can è visìn agl'api, il fiöö sa sc-véglia, il fiöö dis, ecc.). A questa soluzione tende però in genere a sfuggire, pur non in modo categorico ma comunque con una costanza più che significativa attraverso tutti i parlanti considerati, il caso particolare di essere (es. il dialett l'era imposibil per mì, ma l'è un cervo), per il quale si può pensare ad una parziale fusione del clitico con il verbo. Il fattore della fusione è per esempio importante anche nell'apprendimento dell'italiano come lingua seconda, dove si manifesta la tendenza a sovraestendere l'uso del clitico. La stessa tendenza è notoriamente presente anche in gruppi di

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parlanti nativi, si pensi ai fenomeni dell'italiano popolare, o alle segnalazioni che di questa tendenza vengono fatte nelle rassegne sull'italiano 'neo-standard' o 'dell'uso medio'. La seconda condizione che incrementa l'uso del clitico è l'assenza (o talvolta la posizione post-verbale) di un soggetto esplicito per terze persone, sia sotto forma di nominale pieno che sotto forma di pronome tonico. In questi casi viene utilizzato i per il plurale, come nella lingua obiettivo (v. i preferissi in Schw., se i cantan), ma lo stesso pronome viene talvolta esteso pure alle forme singolari (i vegn föra un pachètt, con un caso di soggetto non assente ma posposto ed un verbo 'eventivo'365). La sovraestensione mostra il riconoscimento primario del valore di persona rispetto a quello di numero. La selezione di i può forse essere sostenuta da una analogia fonologica che i parlanti istituiscono con la forma del pronome di terza persona singolare francese usato anche con valore impersonale. Il ritrovare i come clitico soggetto di terza plurale nella lingua obiettivo sosterrebbe per i parlanti l'ipotesi che questo i sia una specie di marca impersonale, un 'segnaposto pronominale', che accompagna il verbo più che una marca di soggetto. Su questo argomento i nostri materiali sono troppo ristretti e non possiamo quindi pronunciarci in modo più deciso, ma ci sembra che l'ipotesi di uno stadio molto iniziale in cui i clitici soggetto delle terze persone vengono reinterpretati come 'segnaposto impersonali' sia degna di verifiche ulteriori. I pronomi tonici si rivelano invece meno problematici anche per la loro centralità comunicativa, a partire dal mì di prima persona, che ricorre con alta frequenza (e come vedremo è uno dei segnali più forti di dialettalità anche nei bambini non dialettofoni). Anche per i riflessivi è chiara e aproblematica l'occorrenza della terza persona sa.

3.4.2.3. La comprensione Accanto alle caratteristiche peculiari della competenza attiva, o 'attivata', di questi parlanti, di cui finora abbiamo parlato, vi sono talvolta chiari problemi di comunicazione, dovuti alla difficoltà degli intervistati di capire che cosa venga loro richiesto. Ci limitiamo a questo proposito a presentare qui di seguito due casi paradigmatici, in cui l'ambiguità è presumibilmente legata, più che alla mancanza di

365 Dobbiamo far notare che le occorrenze di questo tipo di ritrovano tutte nei test di traduzione, sulle cui particolarità rispetto alle interlingue 'normali' ci soffermeremo in seguito.

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un legame di ciò che viene detto con il contesto, alla difficoltà di decodificare informazioni veicolate morfologicamente dall'intervistatore, e manifesta quindi un chiaro legame con la problematica appena discussa delle marche pronominali atone.

I: Ee i cambia mai dal dialett al'italian, quando ti te ga risc-pundi in italian? ["E non cambiano mai dal dialetto all'italiano, quando tu gli rispondi in italiano?"]

A: Io? I: I v'ha mai risc-pundüü in italian? ["Non vi hanno mai risposto in

italiano?"] A: cul mè om o cui mè fiöö? ["Con mio marito o con i miei figlio?"]

E' evidente come l'equivoco nasca dalla difficoltà di individuare il soggetto delle domande, e come l'intervistata, nonostante la continuità con il discorso immediatamente precedente, in cui appunto si stava parlando del comportamento linguistico dei suoi figli, abbia difficoltà a identificare le marche di persona (clitico più forma del verbo; nel secondo esempio vi è persino una marca di oggetto indiretto), o addirittura sia tratta in inganno da sue generalizzazioni devianti riguardo al valore di queste marche, che fanno sì che essa le interpreti con un valore di seconda persona singolare invece che di terza plurale. Ad un livello contestuale più ampio la parlante potrebbe però anche esser stata ingannata dalla preminenza per lei di un 'argomento' più ampio e generale per il corso dell'intervista, e cioè l'interesse dell'intervistatore per il suo comportamento linguistico. Ma questo vorrebbe comunque dire che il processo di comprensione, in questo caso, avviene in un modo molto approssimativo, con un influsso molto forte di aspettative proiettate 'dall'alto' e con uno scarso contributo della forma linguistica. Per quanto riguarda più in generale il confronto dei prodotti dei parlanti L2pass con altre varietà, si deve notare che se questi soggetti sono chiaramente differenti dai 'parlanti evanescenti', sia per maggiore debolezza della competenza passiva che soprattutto di quella attiva, dall'altro lato il loro non uso attivo del dialetto rende le varietà qui ottenute pure differenti da varietà fossilizzate a livelli molto iniziali. Mentre nelle varietà fossilizzate si assiste ad una esercitazione del recupero e della produzione, che a parità di mezzi porta ad una maggiore fluenza, in

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queste persone, che possono rimediare ai problemi di fluenza con il ricorso all'italiano, le varietà dialettali sono caratterizzate da una bassissima fluenza.

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3.5. Le 'interlingue improbabili' In alcuni dei gruppi di parlanti finora osservati (e specialmente nei L2pass) si ritrovano fenomeni 'strani', fortemente devianti dal normale comportamento degli apprendenti e spesso particolarmente difficili da motivare. Per questa ragione abbiamo deciso di raccogliere sotto un'unica etichetta questi fenomeni come se fossero parte di un'unico gruppo di varietà che denomineremo 'interlingue improbabili'. Oltre che nei L2pass strutture molto simili a queste sono state rilevate anche per i bambini italofoni aventi una competenza solo passiva del dialetto e per alcuni PE3. I fenomeni si caratterizzano per un notevole incremento del grado di ipoteticità delle costruzioni, che perdono così parzialmente il contatto con la realtà della lingua obiettivo. Per parlanti di questi livelli di competenza molto bassa soprattutto le frasi da tradurre si presentano chiaramente come un compito troppo difficile. Le strutture richieste sono al di sopra delle capacità dei soggetti e neanche la possibilità di riflettere a lungo, modifica di molto la situazione. La 'rigidità' del compito inibisce quindi in buona parte la possibilità di aggirare strategicamente le differenze e costringe i parlanti a formulare ipotesi molto più distanti dalla loro verifica sull'input. Questo compito mostra pure bene quanto il compito della traduzione sia per così dire 'intermedio' tra la comprensione e l'utilizzazione attiva effettiva. Come nella comprensione non si ha stress produttivo, si ha maggior tempo di riflessione e soprattutto si ha la possibilità di un maggiore impiego di strumenti di analisi e di costruzione, in breve è maggiormente possibile 'calcolare' in tempo lento, con procedimenti forse più simili a quelli in gioco nella comprensione. Ma a differenza di quanto avviene proprio nella comprensione manca l'aiuto del contesto e la possibilità del richiamo passivo dalla memoria. Uno degli effetti di questo collocarsi del compito al di sopra delle capacità degli intervistati è mostrato dal grado di 'caoticità' di alcune risposte ai compiti. Al di là delle proprie capacità di costruire strutture dialettali, le forme che questi parlanti producono diventano ancora più imprevedibili, meno 'sistematiche' (almeno per chi le deve spiegare) e fondate su costruzioni multifattoriali che utilizzano contemporaneamente strategie differenti che, di solito, sono in azione separatamente e danno esito a forme di interlingua più sistematiche. Il 'grado di sistematicità' diminuisce e aumentano conseguentemente i fenomeni che non si

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possono spiegare con quello che sappiamo sui fattori costanti o regolari delle lingue, delle interlingue in generale, e di queste interlingue in particolare. Talvolta, per salvare il presupposto di sistematicità (delle interlingue) viene la tentazione di attribuire questi esiti al campo della parole, ciò che mette bene in mostra la forte correlazione teoretica tra 'esplicabilità' e 'sistematicità'366. Se le interlingue talvolta tendono a ripercorrere alcune delle linee del mutamento linguistico che caratterizzano la storia della lingua obiettivo, davanti a questi frammenti di interlingua nasce spontanea l'impressione di una concentrazione nella sincronia di uno spazio enorme di diacronia. Essi, con il loro mantenere solo alcune tracce fondamentali della lingua obiettivo, ricordano infatti i tentativi di ricostruzione di protoforme molto distanti nel tempo, con cioè un salto di forme intermedie intervenute nello spazio di molti secoli. La differenza fondamentale è che nel nostro caso il tutto avviene in sincronia relativa, cioè nella mente dei singoli parlanti. Qui i secoli si sono ridotti a pochi momenti (quelli del recupero e della progettazione) senza che a questa 'condensazione temporale' corrisponda una riduzione della debolezza del collegamento tra le forme ottenute e le ipotesi di partenza. Ciò nondimeno l'effetto su chi deve provare a giustificare la trafila di queste forme è, come abbiamo detto, molto simile a quello di chi voglia ricostruire protoforme molto distanti nel tempo. Si può sostenere che gli apprendenti non inventano niente che non sia potenzialmente contenuto nelle varietà di input (così come i mutamenti linguistici sono almeno in parte contenuti negli stadi antecedenti), ma in questi casi la distanza tra il punto di partenza e il punto di arrivo è così forte che il 'percorso di potenzialità' diventa difficile da ricostruire. Se Raffaele Simone (1988) ha parlato di 'contesti turbati' per quelle situazioni di uso della lingua che provocano un incremento del grado di naturalezza delle varietà linguistiche stesse, nel nostro caso dovremmo dire di trovarci di fronte ad un contesto 'iperturbato' o ad un contesto 'caotico' appunto, dove la capacità di ridiscendere su un livello di maggiore naturalezza è anch'essa bloccata da forze che provocano esigenze non soddisfacibili con maggiore naturalezza e anzi richiedenti

366 Una possibilità simile è quella proposta da Corder (1967) di distinguere tra mistakes e errors, dove i primi sarebbero simili ai lapsus e unici nella loro occorrenza (e chi li fa è in grado di riconoscerli e correggerli), mentre i secondi sarebbero sistematici. Ovviamente uno dei punti fondamentali su cui insisteva giustamente Corder è che gli 'errori' (nel suo senso di errors) sono tali solo in riferimento ad una norma esterna, mentre all'interno dell'interlingua sono appunto sistematici.

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un certo grado di 'innaturalezza' rispetto all'interlingua disponibile. Questa contrapposizione ricorda, esagerandolo però notevolmente, un altro continuum che in uno dei suoi estremi può provocare risultati parzialmente strani rispetto al grado di naturalezza dell'interlingua, e cioè il continuum avente ai suoi estremi rispettivamente la ricerca di fluenza e la ricerca di 'correttezza' (un es. di influssi di obiettivi differenti in questi termini sulle varietà di apprendimento è delineato in Bianconi - Moretti 1994). In questi casi ci si allontana almeno parzialmente dalla 'logica normale' della costruzione e produzione di interlingue e ci si comincia a muovere all'interno di un altro tipo di logica, più 'strana' e difficile da spiegare nei termini delle sue dinamiche generali. Allo stesso modo come alcuni lapsus non sono unicamente investigabili tramite dei procedimenti generali dell'uso della lingua (ma rivelano a volte per es. influssi del profondo psicologico sull'uso linguistico), così in questi tipi di enunciati abbiamo a che fare con 'spiegazioni di altro tipo'. Dobbiamo infine chiarire un altro punto fondamentale. Definendo queste varietà come 'interlingue improbabili' abbiamo inteso dire che i soggetti presentano risultati 'strani' rispetto allo sviluppo normale delle interlingue. Questi risultati vanno però comunque presi sul serio per due buoni motivi. Dapprima perché essi mostrano i limiti dell'interlingua che i parlanti riescono a gestire. Secondariamente perché essi mostrano le strategie che gli stessi parlanti sono in grado di mettere in atto in una situazione estrema. E' pure importante mettere l'accento sul fatto che il risultato non è falsato dal metodo di elicitazione (che è, come sappiamo, quello della traduzione). Non possiamo infatti dire che si tratti di un risultato 'falso' (nel senso che è irreale o che costituisce un artefatto), ma dobbiamo parlare di un risultato 'differente', collegato logicamente ai risultati ottenuti con altri metodi. In secondo luogo il fatto che si traduca dall'italiano non dà esito ad una varietà maggiormente italianizzata, come ci si potrebbe attendere per influsso delle frasi elicitanti, ma piuttosto ad una varietà che tenta di rispondere a compiti comunicativi di un livello superiore a quello che i parlanti sono al momento in grado di gestire, e che rappresenta le ipotesi attuali di una competenza superiore posseduta in un modo ancora molto instabile367. Il compito della traduzione ha quindi per noi un valore positivo e interessante in quanto, se da un lato non mostra un aumento inequivocabile dei fenomeni di

367 Che la competenza apprendimentale sia variabile e comprenda più livelli di sviluppo è una nozione oramai acquisita. Come siano fatti i livelli di ipotesi 'in costituzione' verso le varietà più avanzate è però un campo di indagine ancora tutto da approfondire.

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italianizzazione, dall'altro lato costringe i parlanti di questo livello ad abbandonare strategie di evitamento o di eccessiva semplificazione, obbligandoli ad un lavoro di costruzione ipotetica. Essi sono costretti ad usare, ad azzardare, mezzi che non hanno completamente a disposizione, ed il risultato è quello per certi aspetti di una 'interlingua impazzita', che segue cioè 'attrattori strani' più che regolarizzazioni, ed è perciò ancora più imprevedibile nei suoi esiti di quanto lo sia una normale interlingua. Per altri aspetti potremmo poi pensare che i fenomeni che si osservano siano legati anche alla competenza principalmente passiva (presentandone forse una rappresentazione attivata). Quest'ultima ipotesi è sostenuta dal fatto che molte delle forme che qui si osservano costituiscono dei 'riconoscimenti minimi', cioè macro-differenziazioni che nella comprensione di un testo, con l'aiuto del contesto, potrebbero facilmente essere disambiguate368. Si veda per es. l'espressione i gatt nééra per i gatt négar (dove la parlante ha percepito gestalticamente le vocali e le usa in contrasto con la morfologia), aprè (risultato forse della contaminazione di aprire con la e tonica di vèrd, oppure risultato della ricerca di un effetto di troncamento, come se si fosse avuta la scomparsa della sillaba finale). Un altro tratto di questo tipo riguarda la sottospecificazione dei ruoli sintattici, che nel contesto possono comunque essere ricostruiti (v. l'om chi sc-ta parlandë, per "l'uomo di cui stai parlando"), la confusione tra le forme pronominali (ti vegn föra un pachètt da sigarètt), o semplificazioni nella morfologia verbale (gliene parlaa ier, per "glie ne ho parlato ieri, gliene parlai ieri")). Ci si deve chiedere se anche i francesismi che si ritrovano (soprattutto nei parlanti meno avanzati) non siano la conseguenza di un 'allentamento della sistematicità', con una perdita temporanea dei confini tra le lingue sulla base di principi molto generali. Come abbiamo detto in precedenza, più che per sistemi qui si operebbe allora per 'tipi', e soprattutto tramite 'tipologie soggettive' relative a che cosa sia probabile in una certa lingua (o gruppo di lingue) come tratto differenziante rispetto ad un'altra lingua (o gruppo di lingue). Questa è presumibilmente la risposta normale ad un allentamento della competenza in corrispondenza alla restrizione del compito linguistico.

368 In questi termini si dovrebbe pensare di affiancare al concetto di 'coppia minima', che è la contrapposizione di parole che permette di identificare le minime unità fonologiche del sistema, il concetto di 'contrapposizione minima', che individua il margine di sicurezza minimo perché un discorso non diventi ambiguo e perché un elemento nel contesto sia identificabile.

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Come abbiamo detto, fenomeni simili si hanno anche nei PE di livello più basso, dove la distanza tra i mezzi a disposizione ed il compito richiesto (tipicamente nelle frasi di elicitazione) porta alla ricerca di una 'approssimazione al dialetto', come nella frase seguente: l'ha mia visc-t l'oma de quii tu m'ava parlaa per "non ho visto l'uomo di cui mi hai parlato". Le tecniche impiegate sono di natura differente, come per es. la ricostruzione di un pronome relativo basato sull'italiano con un tentativo di fonologizzazione dialettale, oppure l'attribuzione di un vocale finale 'strana' a "uomo", probabilmente proprio per 'fare la differenza' rispetto all'italiano, oppure ancora il tentativo di costruire il passato prossimo con una forma di "avere" (invece del dialettale "essere") ma con, nella seconda parte della frase, un tentativo di distanziamento anche dalla forma italiana hai ed un avvicinamento all'imperfetto (ava), probabilmente basato sulla sensazione della necessità di allungare la vocale [a] e con l'inserzione di una [v] di transizione. Altri casi che si muovono quindi sul confine delle 'interlingue improbabili', quindi meno distanti dai fenomeni delle normali interlingue, si hanno per es. in gent che diventa zent, paüra che diventa püüra, trovo che è tradotto in dialetto come truvo, o provo tradotto come pruv. Anche una formazione come bisügna premere premèm (per "si deve premere") va in questa direzione. La [ü] può essere considerata un incremento esagerato del processo [o] > [ö] (o un 'falso suggerimento' della forma regionale büsögna), e premèm, chiaramente basato sulla forma italiana che lo precede, è probabilmente il risultato del conflitto di due tipi differenti di problemi: quello della marca morfologica dell'infinito, che interagisce a sua volta con la caduta della vocale finale, e quello dell'accentazione della parola, che richiede l'accentazione sull'ultima sillaba (anche per la caduta della vocale finale), come nella forma 'neo-dialettale' prém. La presenza della -m finale, è difficilmente ricollegabile alla marca di prima persona plurale e sembra essere più che altro una selezione casuale di appoggio per la vocale tonica (è poco probabile l'influsso del morfema della prima persona plurale). Il caso di vetra per l'italiano vetro ricorda quello sopra visto di gatt neera. Abbiamo uno schema consonantico, più stabile (dato rispettivamente da n_(g)(_)r_ e da v_t(_)r_), in cui vanno inserite le alternative vocaliche che portano all'esito italiano nero e agli esiti dialettali negar o negr{o;u}, oppure, per "vetro", all'italiano vetro o ai dialettali védar o védr{o;u}. In entrambi i casi potremmo alternativamente pensare ad un processo di cancellazione di vocale finale con reintroduzione dell'unica vocale sentita come possibile, [a] appunto, per sostenere la consonante o rispettivamente il nesso consonantico venutisi a trovare in posizione finale e, nel

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secondo caso, ridurre in qualche modo contemporaneamente la neutralizzazione della marcatura morfologica. L''irrealisticità' dei risultati di questo tipo di elicitazione diminuisce però notevolmente al crescere della competenza degli intervistati, per cui la differenza, nelle interlingue avanzate, tra dati di test di traduzione e i dati del parlato semi-libero non è più così grande e si ha piuttosto un valore di normale variazione in termini di registri differenti della lingua369 che non una vera e propria differenza in gradi di realisticità. In conclusione, abbiamo a che fare con fenomeni di 'improbabilità' perché le regole che collegano queste forme alla lingua obiettivo sono molto deboli o multiple (come un mutamento linguistico che non sia ricollegabile alla forma di partenza se non presupponendo fenomeno di 'percezione gestaltica molto vaga' o l'azione simultanea di un grande numero di regole che rendono totalmente opaco il collegamento), e quindi la distanza tra la forma di interlingua e quella dell'input è notevole. Può darsi che entrino qui in gioco componenti che di solito hanno un ruolo relativamente secondario, come per es., e prima di tutti, un certo grado di conoscenza memorizzata non completa, vaga, ma comunque recuperabile in qualche forma quando sia necessario e inevitabile, oppure una forte sovrageneralizzazione delle corrispondenze. La ricerca sulle lingue seconde ha oramai inconfutabilmente dimostrato che 'gli apprendenti non giocano a dadi', che cioè le loro interlingue sono sistematiche, ma nel nostro caso la componente della sistematicità relativa, rispetto al sistema della lingua obiettivo, è notevolmente 'spostata', perché ciò che è sistematizzato costituisce unicamente una parte delle strutture della lingua obiettivo. Da un punto di vista teorico, relativo al 'lavoro' del linguista, questa osservazione porta ad ipotizzare l'esistenza, accanto alla sistematicità interna ('essenziale'), di una sistematicità relativa (di secondo grado, in quanto 'sovraimposta' al prodotto finito da un osservatore esterno), fondata sul rapporto comunicativo con la lingua obiettivo (e quindi con la 'comprensibilità' di quello che viene detto), ma soprattutto, in ultima analisi, fondata sulla esplicabilità della genesi dei prodotti.

369 Come è normale anche in varietà di apprendimento. Per una prima rassegna sui fenomeni di variazione nelle interlingue cfr. per es. Tarone (1988).

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In parte, la 'rottura del contatto' con l'input va affiancata a quanto avviene nelle situazioni catastrofiche. Nel nostro caso, fatte le dovute riserve, la caoticità che osserviamo è da attribuire alle restrizioni che il compito particolare impone ai parlanti, impedendo loro di adottare strategie elementari di costruzione (e di 'soluzione nel discorso'). Nel caso più noto in linguistica di varietà 'post-catastrofiche', quello dei pidgin, la caoticità nasce dal fortissimo mistilinguismo e dalla 'rottura' del contatto con l'input, ma è anche il frutto di un processo su tempi più lunghi (anche se notevolmente più brevi rispetto ai normali processi di mutamento linguistico). Nel nostro caso il compito comunicativo crea una catastrofe così forte che i parlanti perdono in parte l'ordine di costruzione dell'interlingua370 (v. anche le osservazioni di Masters et al.). Ciò che ne risulta, in breve, è la materia di cui sono fatte le 'rianalisi' (quelle, per esempio, in cui si usa una forma senza averne del tutto capito il valore effettivo per i nativi), nel senso che diventa difficile ricollegare i tratti dell'interlingua alla lingua obiettivo. Pur se il fenomeno rimane ristretto ad alcuni elementi 'lessicali' dove il risultato è una relativa indipendenza dal target, e, ipoteticamente, la costituzione di una nuova sistematicità.

370 In altri termini potremmo anche dire che la 'velocità relativa' di mutamento dell'interlingua è altissima, dato che in poco tempo, nel parlante, avvengono fenomeni che altrimenti, nella comunità, richiedono tempi molto lunghi.

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3.6. I bambini parlanti evanescenti Nel corso dell'indagine sui parlanti evanescenti ci è venuto spontaneo chiederci quali siano le varietà di dialetto che presentano bambini principalmente italofoni tra i cinque ed i sette anni (un'età in cui le competenze di base sono già relativamente sviluppate), cioè bambini che costituiranno i probabili parlanti evanescenti del futuro. Occorre innanzitutto dire che la variazione relativa ai loro comportamenti linguistici, a seconda delle biografie linguistiche e di altri fattori meno facilmente definibili, è notevole ed ai livelli più alti il confine tra parlanti evanescenti e parlanti nativi non è sempre netto. Come avevamo già osservato riguardo agli adulti, alcuni parlanti evanescenti possono avvicinarsi notevolmente a competenze da nativi. Nei bambini invece abbiamo 'fenomeni di evanescenza' anche in soggetti dai quali, a rigore, ci si attenderebbe comportamenti da veri nativi (per es. in bambini che rifiutano il dialetto preferendo usare l'italiano - lingua degli amici - anche con i genitori, nonostante questi ultimi siano entrambi dialettofoni e dichiarino di parlare dialetto ai propri figli). In questo senso possiamo dire che il confine tra 'natività' ed 'evanescenza' viene affievolito non solo dal basso (per la competenza talvolta alta dei non nativi), ma anche dall'alto (per difficoltà di gestione del codice in 'presunti nativi, o, soprattutto, per difficoltà di impiego creativo del codice in contesti ormai conquistati dall'italiano). E' peraltro presumibile che parte di queste difficoltà possano scomparire con il progredire dello sviluppo linguistico, anche se esse probabilmente rappresentano comunque delle novità rispetto alle generazioni precedenti. Da un punto di vista linguistico, nella maggior parte di questi bambini ritroviamo i caratteri tipici e già visti dei parlanti evanescenti (e questo è il motivo per cui non ci soffermiamo più a lungo su questi casi), o nei casi meno competenti, dei parlanti non nativi solo passivi. Emergono comunque fenomeni interessanti soprattutto agli estremi di questo continuum di variazione. Per questo motivo ci soffermeremo dapprima su alcune particolarità di varietà vicine a quelle dei nativi, per poi passare alle varietà del polo estremo, usate da parlanti in pratica esclusivamente italofoni (con quindi contatti unicamente passivi con il dialetto).

3.6.1. Il polo vicino al dialetto: i codici 'totalmente separati' e le zone di transizione

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Prima di parlare dei veri e propri 'bambini parlanti evanescenti' vogliamo però soffermarci velocemente su loro coetanei che, pur ricevendo anche un input dialettale, parlano soprattutto italiano con i genitori e con gli amici. Un caso interessante in questo senso, anche perché non isolato, è rappresentato da R (di sei anni), con il quale i genitori parlano sia italiano che dialetto ma che con gli amici parla solo italiano. R, nel corso dell'intervista parla un dialetto praticamente da parlante nativo. Il problema centrale di questo bambino, almeno nel modo in cui lui stesso lo verbalizza, è quello della difficoltà di distinguere effettivamente, al livello metalinguistico, le lingue. Così, a più riprese, nel corso dell'intervista R si lamenta delle sue difficoltà facendo affermazioni come le seguenti:

A capissi mia cusa l'è la diferenza tra l'italian e l dialètt ["Non capisco cos'è la differenza tra italiano e dialetto"] A capissi mia, a senti mia la diferenza, cusa gh'è da divers ["Non capisco, non sento la differenza, cosa c'è di diverso"]

Dall'altro lato però R usa le lingue in modo pressoché categorico, evitando le commistioni e gli enunciati mistilingui371. Per esempio la narrazione della storia avviene esclusivamente in italiano, cambiando lingua istantaneamente nel momento del passaggio dalla 'cornice' di conversazione semi-spontanea all'inizio del racconto372. Anche le forme fonologiche sono in genere coerenti con il tipo di lingua che R sta parlando e non presentano shiftings verso l'altro codice. Gli unici casi in cui ciò avviene sono quelli in cui lo si costringe a violare le sue regole di appropriatezza, quando cioè lo si obbliga per esempio a parlare dialetto in situazioni in cui gli verrebbe normale l'italiano.

371 L'unico caso di base dialettale (forse) trasformata in italiano che abbiamo riscontrato è nell'enunciato: "esce .. un .. animaletto .. che .. gli cagna .. il .. naso". Da un lato il 'nuovo' verbo cagnare (per "mordere", su cagnaa) è diffuso nell'italiano popolare molto basso di bambini, e dall'altro lato il passaggio è inserito in uno di quei momenti in cui il bambino sta parlando molto lentamente nel tentativo di usare il dialetto nella narrazione.

372 Altri momenti in cui parla italiano sono per esempio quelli in cui riferisce l'indirizzo dei genitori, la sua età, o quando parla della scuola.

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Siccome il nostro interesse era primariamente rivolto alla sua varietà dialettale, si è provato fermamente a costringerlo a raccontare la storia del bambino e la rana in dialetto. Dopo alcune interruzioni, dopo le quali costantemente il bambino riparte in italiano, finalmente egli cerca di avvicinarsi al dialetto. Il primo passo in questa direzione è quello di iniziare a parlare italiano molto lentamente, spezzettando le frasi, come se cercasse un punto ideale per passare al dialetto o come se ci fosse un conflitto tra la sua capacità narrativa e la competenza linguistica373:

ee .. dopo .. il ... bambino .. si .. sveglia

ma questo tentativo è ancora interrotto dall'esclamazione ga la fò mia ("non ce la faccio"). Dopo altre insistenze intraprende un nuovo tentativo, che consiste questa volta soprattutto nella dialettizzazione delle denominazioni dei protagonisti della storia (per es. partendo dalla base italiana bambino):

e .. poi .. il .. bambin [bam’bi].. trova .. un .. buco .. e ... trova un , .. il .. can .. trova .. un .. alveare

La chiusura di questi tentativi è ancora una volta una esclamazione preoccupata del bambino che chiede:

l'ultim che ho parlaa l'era dialètt?374

Nella competenza di questo bambino sembra quindi esserci una chiara separazione (fondata su regole contestuali-funzionali chiare) dei due codici, che gli rende difficile l'uso di uno dei due nel contesto in cui è per lui appropriato l'altro. D'altro canto però questa chiara separazione sembra essere ad un livello di consapevolezza assai basso, dato che il bambino non è in grado esplicitamente di

373 L'effetto sull'ascoltatore di questa forma di enunciazione è quello di ricordare il modo di parlare di qualcuno che stia dettando un testo.

374 Non ci soffermiamo qui sulle peculiarità formali della prima parte dell'enunciato, che equivale ovviamente a "l'ultima cosa che ho detto" oppure "l'ultima cosa di cui ho parlato". Questo uso transitivo particolare di "parlare" può essere indotto dall''oggetto sottinteso' lingua.

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individuare il codice che ha appena utilizzato (come è mostrato dall'ultima sua affermazione qui riportata). Può essere interessante chiedersi come abbia reagito al compito di traduzione. In questo caso la soluzione ricorda quella adottata alla fine della narrazione, nel senso che il bambino inserisce alcune, poche, parole dialettali (o 'dialettizzate') in strutture italiane, come ben dimostrano gli esempi che seguono:

In chesto scompartimento non si può fumà queste arance son buonissim, ne vuoi una apri la porta e accendi la lüce

Il fatto che molti casi siano devianti rispetto alla norma dialettale mostra come il bambino non abbia ancora dimestichezza con un apparato di corrispondenze ben funzionante, e nonostante la difficoltà a distinguere formalmente le lingue, le lingue stesse sono quindi nettamente separate e gli risulta molto difficile attivare il dialetto in contesti che automaticamente richiamano l'italiano. Ci sembra di poter dire quindi che qui abbiamo a che fare una chiara compartimentazione delle lingue, simile a quella che negli studi sul bilinguismo verrebbe attribuita tipicamente ai segni coordinati375. In questo senso il caso va considerato come un esempio di bilinguismo, che, paradossalmente, non tiene conto delle similarità linguistiche dei codici in gioco (che dovrebbero facilitare i collegamenti; ma forse proprio questa similiarità blocca l'accesso all'altra lingua). Se nel caso del francese come lingua d'appoggio nei parlanti evanescenti adulti abbiamo visto come la similarità riconosciuta costituisca un valore relativo per l'impiego come lingua d'appoggio (tant'è che, come ricordava Steinberg, il giapponese può influenzare l'uso del francese da parte di un anglofono), in quest'ultimo caso la netta separazione funzionale e il mancato riconoscimento delle

375 O, a livello sociolinguistico, secondo la terminologia di Trumper (1977) abbiamo a che fare con un fenomeno che sarebbe tipico delle situazioni di 'microdiglossia', con la conseguente difficoltà a transitare da una varietà all'altra dovuta ad una compartimentazione funzionale forte dei codici.

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differenze (e delle similarità) impedisce non solo operazioni di corrispondenza o di 'sintesi' ma anche di traduzione in genere e di impiego nei contesti non abituali376. Difficoltà con il dialetto come codice della narrazione simili a quelle di R sono confermate, a vari livelli, da altri bambini. Per esempio uno di questi, L, pur riuscendo a raccontare la storia in dialetto377 si trova di fronte al problema di trasporre al passato remoto (il tipico tempo della narrazione in italiano) le forme verbali dialettali (tra le quali manca il passato remoto, il cui ruolo è assunto dal passato prossimo). La soluzione che questo bambino propone è quella di usare direttamente le forme verbali italiane, come ben mostrano i seguenti brani:

ma de nòtt la rana la uscì dala tazzina [”ma di notte la rana uscì dalla tazzina”] e l bambin guardò nei sc-tivai se gh'eva la rana [”e il bambino guardo negli stivali se c’era la rana”] e l bambin vide l can a passaa giò dala finesc-tra [”e il bambino vide il cane cadere dalla finestra”] e pö vide un alveare. L bambin scavò sottoterra [”e poi vide un alvera. Il bambino scavò sottoterra”] ma a la fin fin l'alveare cadde e tüte i api i arrivarono adoss, e l bambin s'arrampicò sull'albero

376 Per quanto riguarda un eventuale effetto dovuto al tipo di input le informazioni che abbiamo non ci avrebbero portato ad attenderci un risultato del genere. Abbiamo visto che i genitori parlano al bambino sia italiano che dialetto, ma non siamo riusciti a sapere se lo facciano compartimentando in modo forte gli usi. A priori potremmo attenderci che fenomeni come quelli del tipico BT che vedremo nel capitolo seguente non si siano verificati nel corso della sua socializzazione, e che le due lingue fossero piuttosto collegate fortemente ad ambienti chiaramente separati (ciò che avrebbe portato effettivamente ad una situazione di ‘microdiglossia individuale’ del bambino).

377 L è figlio di genitori dialettofoni che parlano dialetto tra di loro e con il bambino stesso, ma egli preferisce parlare solo dialetto. Nel corso dell'intervista la sua competenza dialettale si rivela comunque molto sviluppata, mostrando più che problemi strutturali, problemi dovuti alla difficoltà di trasporre condizioni di appropriatezza dell'italiano ai suoi strumenti dialettali, come tipicamente nel caso specifico che qui discutiamo.

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[”ma alla fin fine l’alveare cadde e tutte le api arrivarono addosso, e il bambino s’arrampicò sull’albero”]

A volte le forme verbali italiane servono probabilmente da 'attrattori' per la forma italiana di altre parole (come si vede sopra per es. per scavò sottoterra o per s'arrampicò sull'albero378), ma in altri casi va notata la possibilità di ritrovare il pronome clitico soggetto dialettale accanto ad una forma indiscutibilmente solo italiana (come per es. in i arrivarono), ciò che fa pensare ad una notevole fluidità dei confini tra le lingue379 a partire da una struttura essenzialmente dialettale. Difficoltà simili si hanno con forme che si basano sul gerundio italiano e per le quali il dialetto utilizza altre soluzioni perifrastiche. Gli stessi bambini qui discussi presentano forme come il bambin la stava caminant380 per l'eva dré a caminaa, o l'uom di cui stai parlant (dove la difficoltà della traduzione risiede in modo importante anche nell'espressione del nesso relativo), oppure, per finire, come in cosa stu fascendo381 per cosa te s'è dré a fà.

378 Allo stesso modo come l'omofonia dialetto-italiano può favorire il passaggio da una lingua all'altra, come in cun quel vas nel co' che s'era rotto tutto.

379 Nel caso del clitico ci si muove al limite della restrizione del morfema libero proposta dalla Poplack (1981), secondo la quale nella commutazione di codice la salvaguardia della struttura delle lingue in gioco sarebbe proprio garantita dal fatto che le alternanze non avvengono tra confini di morfemi liberi. D'altra parte i clitici dimostrano ancora una volta, anche in questo caso, il proprio statuto particolare.

380 La forma la per il pronome clitico con referenti maschili si ritrova talvolta nei nostri materiali (in più di un bambino, v. per un altro esempio adess Giovann la vegn) e va probabilmente ricollegata ad una risistemazione in termini di taglia sillabica ottimale (CV) del pronome dialettale al. La vocale 'suggerita' da quest'ultimo sarebbe allora più forte dell'eventuale conflitto omonimico con la potenziale interpretazione femminile che la suggerisce. Si tratterebbe di una prevalenza del suggerimento formale sulla regolarità della vocale finale femminile. Il compito apprendimentale è reso più difficile in questo campo dalla soluzione in nessi di clitici con la per l'oggetto diretto sia maschile che femminile (come in l'om al la ciapa al can).

381 La particolarità di quest'ultima forma (con l'italiano stai dialettizzato in stu) mostra bene il possibile grado di autonomia delle soluzioni di questi bambini.

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La difficoltà creata dal problema di avere forme dialettali che rispondano al bisogno funzionale di strutturare la narrazione mediante il passato remoto382 introduce insicurezza anche in altre forme verbali, creando soprattutto un'interazione tra forme (e funzioni) del passato remoto italiano e del passato prossimo (e del participio) dialettale. Così il bambino può produrre enunciazioni come le seguenti:

ma ch'el tabói d'un can l'ha mess il vas nel cò [”ma quel cane d’un cane ha messo il vaso sulla testa”] e l can intant u sc-capò [”e il cane intanto scappò”] e sa mis dietro un cerbiatto [”e si mise dietro un cerbiatto”]

Nel primo caso la forma del participio mess è costruita sull'italiano messo a scapito della forma, più regolare, dialettale mettü [met'ty]. Nel secondo, il bambino usa la forma del passato remoto italiano che in questo caso è anche una delle possibili varianti dialettali per il participio383. Infine, nel terzo esempio, mis è ancora costruito sull'italiano ma partendo dal passato remoto. Come si vede, l'abitudine ad avere in italiano un tempo verbale sentito come tipicamente narrativo (anche per il suo scarso uso nella realtà quotidiana dell'italiano settentrionale) crea difficoltà al bambino, causando nella competenza di quest'ultimo delle lacune che in verità non esisterebbero dato che abbiamo già detto

382 In modo simile, Youssef (1996) nota in bambini di Trinidad e Tobago l'emergere del morfema -ed (proveniente dall'inglese standard) nei contesti narrativi (usato talvolta in modo sovraesteso, come per es. nella forma comed per came).

383 La difficoltà dovuta alla mancanza del passato remoto è frequente in questi bambini ed è altrettanto diffusa l'attrazione dell'omofonia parziale tra participio passato dialettale e passato remoto italiano (v. per es. e rivò un'aquila, dove la variante del participio dialettale rivò viene associata ad un passato remoto 'neo-dialettale' ricavato dall'italiano arrivò). E' pure probabile che la scarsa presenza fonica degli ausiliari in dialetto (in un contesto in cui ci si attende un passato remoto corrispondente) abbia sostenuto questa reinterpretazione da parte dei bambini.

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che negli altri compiti comunicativi i risultati sono molto vicini a quelli di nativi384. Che la narrazione costituisca un uso molto particolare e specifico del linguaggio385, con propri indici di genere (che talvolta possono essere tra i primi a mettere in difficoltà anche i nativi) è dimostrato tra l'altro anche dal fatto che spesso i segnali di articolazione si ritrovano in forma italiana. Tra i bambini non è per esempio raro che al dialettale pö, usato nella conversazione informale, si sostituisca l'italiano poi proprio nella narrazione (come per es. in il can al va sotacqua. Poi gh'eva un tronc, lo scavalcarono ...). Il fenomeno qui discusso alla luce dei comportamenti di L e R è relativamente diffuso nei nostri materiali di bambini386, tanto da assumere una chiara rilevanza sociale e da far pensare a future difficoltà del dialetto nelle narrrazioni. Se accostiamo poi questo fenomeno (che porta all'italianizzazione delle forme verbali per esigenze di marca di genere testuale, di strutturazione del testo e per problemi di morfologie a contatto) a quanto osserveremo nelle narrazioni rivolte da adulti nativi a bambini nativi (dove i sostantivi centrali per la narrazione appaiono in forma italianizzata) notiamo come il dialetto sia 'attaccato' da due direzioni differenti da due tipi di parlanti differenti. Nei non nativi problemi di morfologia e di genere testuale portano alla italianizzazione dei verbi, nei nativi problemi di 'forma di base' portano alla italianizzazione dei nomi. All'avvicinarsi dei due tipi di parlanti la 'fetta dialettale' delle narrazioni rischia di ridursi ad un parassitismo fondamentale

384 In margine possiamo segnalare che l'altro tratto che forse più segnala il bambino L come 'non completamente nativo' riguarda la forma dell'articolo determinativo maschile. Mentre di solito quest'ultimo compare nell'allomorfo, perfettamente nativo, l (come in l can), nella sua forma 'lenta' esso si ritrova come il (per es. il cerbiatt corse). In questo modo le forme dell'italiano vengono a configurarsi come forme 'lente', o come potenziali basi, dei corrispondenti dialettali.

385 Sul quale tra l'altro hanno attirato l'attenzione sia autori che si siano occupati di obsolescenza linguistica (come per es. Kulick 1990 o Tsitsipis 1989) sia coloro che si sono occupati dell'apprendimento di lingue seconde (pensiamo per es. a Klein 1984, ma gli esempi sono numerosi) sia, infine, approcci sociolinguistici alla variazione stilistica (basti qui citare Labov 1972).

386 Per es. dalla narrazione di un'altra bambina (S1) possiamo riportare esempi come salì su n sass a cercar la rana ... cadde da n cervo ... ecc. La differenza tra L e altri bambini è che i secondi spesso risolvono i problemi della narrazione passando al presente (e avvicinandosi anche più ad un comportamento testuale di tipo descrittivo che non narrativo) e ricadono nell'esigenza del passato remoto nei contesti più coinvolgenti della narrazione. E' comunque evidente che per tutti il tipico tempo del foreground narrativo è il passato remoto.

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sull'italiano, con perdita di un ulteriore potenziale di variazione stilistica (esclusivamente) intralinguistica.

3.6.2. Il polo dell'italiano: la ricerca di segnali di dialettalità I piccoli parlanti evanescenti di cui ora ci occuperemo hanno in comune con R (il bambino di cui abbiamo parlato in precedenza con difficoltà a distinguere le lingue e a transitare dall'una all'altra) una chiara caratteristica, e cioè la distanza del dialetto dall'italiano. In questo senso si potrebbe dire che essi presentano poco più della metà della competenza globale di R (quella italiana più scarse 'nozioni' di dialetto, con il quale comunque hanno avuto un certo contatto nella loro vita) manifestando la stessa difficoltà a ricollegare le due lingue387. Ciò che differenzia i casi estremi di questi bambini è appunto un forte distacco dalla realtà dialettale per la ricerca di marche di 'pseudo-dialetto'. Nei casi estremi essi si basano su una 'tipologia vaga', fondata più sul distanziamento dall'italiano e su corrispondenze (autonome) debolmente collegate alla realtà, che sul riferimento effettivo al punto d'arrivo desiderato (cioè il dialetto). Tra i caratteri che definiscono 'l'idea di dialetto' di questi bambini ritroviamo quindi chiari segnali della percezione di alcune differenze fondamentali, linguistiche o sociolinguistiche, tra italiano e dialetto. Nel campo sociolinguistico per esempio non è raro trovare che sostantivi italiani vengano tradotti con la versione diminutivale dialettale388. Così per esempio il pacchetto diventa al pachetìn, Giovanni diventa al Giuanin, ciò probabilmente in funzione della relazione generale per cui il dialetto è sentito come varietà più affettiva389. D'altro canto il diminutivo può essere utilizzato come uno strumento di 'allontanamento' dalla forma italiana usata nell'elicitazione.

387 Questo non ha ovviamente a che fare con difficoltà, legate all'età e allo sviluppo linguistico in generale, a cogliere regolarità di corrispondenza. Per esempio nella situazione per certi aspetti simile della Svizzera tedesca si possono notare molto presto forme di 'pseudo-Hochdeutsch' costruite a partire dallo Schwyzertütsch. Vedremo in seguito come, a livello potenziale questa capacità sia disponibile anche nei nostri bambini, che però non sono abituati a metterla all'opera ovvero non sono abituati a 'transitare' da una lingua all'altra.

388 Si tratta ovviamente di un fenomeno di bambini non ai livelli più bassi di competenza.

389 Indipendentemente dai fenomeni di BT che osserveremo in seguito.

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Nel campo delle strutture, accanto ai segnali fonologici più o meno evidenti, come primo tra tutti la scomparsa della vocale finale (con gli esiti già visti per gli altri parlanti non nativi, anche a livello della morfologia verbale), la lenizione di consonanti, e altre corrispondenze (tra tutte una delle più diffuse ricollega, spesso impropriamente, [u] italiano a [ü] dialettale, con talvolta esiti impropri, come in tü formato sull'italiano tu, esiti mancati per la mancata applicazione della corrispondenza, come in tutt per tütt, o esiti corretti ma in parole altrimenti italiane,come in piovüto). Un altro segnale sorprendente di dialettalità che appare con una certa frequenza, e in certi bambini con categoricità, riguarda l'uso incrementato del pronome tonico soggetto. Le ragioni di questo fenomeno sono senz'altro plurime, e vanno ricercate nella tendenza comune nelle interlingue ad usare più pronomi tonici e nella percezione, forse, da parte di questi bambini, di una sensibilità maggiore del dialetto all'esplicitazione del soggetto (anche se di solito ciò avviene tramite pronomi atoni). A nostro parere però su ragioni di questo tipo prevale un'altra motivazione, e cioè la percezione del valore importante di 'marca di dialettalità' delle forme dei pronomi tonici. Essi, proprio per il loro essere salienti e ben percepibili (anche da parte degli apprendenti) e per la loro differenza formale rispetto alle corrispondenti marche italiane, si prestano particolarmente bene a caratterizzare come dialettali frasi altrimenti quasi solo italiane, ed il loro uso si rivela un potente strumento di distanziamento. Questo fenomeno appare chiaramente negli esempi seguenti, prodotti da una bambina di sette anni che presenta altrimenti pochissime tracce dialettali.

Mì andrò a fare un viaggio [”(Io) andrò a fare un viaggio”] A Natal mì sono stata a cà [”A Natale (io) sono stata a casa”] Tì cosa tai facendo? [”(Tu) cosa stai facendo?”] Tì apri la porta e azendi la lu- lus [”(Tu) apri la porta”]

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Mì non ho visto quel omo390

[”(Io) non ho visto quell’uomo”] ecc.

Il caso di massimo distanziamento dal dialetto (o di minima motivazione delle soluzioni impiegate) si ritrova nel caso di quei bambini, esclusivamente italofoni (anche se talvolta con un genitore dialettofono), che mentre non riescono a parlare dialetto né nella conversazione spontanea né nella narrazione nella storia, cercano a tutti i costi di farlo, con ammirevole impegno, nel compito di traduzione della frasi. Gli esiti si muovono tra accenni di corrispondenze percepite, fenomeni di tipologia vaga, e suggerimenti lessicali imprecisi. La difficoltà che talvolta si ha ad interpretare i processi che portano ad alcuni di questi esiti ricollega questi prodotti a quelle che abbiamo definito come 'interlingue improbabili'. Lb, per esempio, una bambina di sei anni, produce frasi che si fondano sulla cancellazione sistematica della vocale finale (come in a Natal son stat a cas, o in cand eravàt ragàzz giocavàt al calcc [kalt], dove solo nella prima parola, per quando, ritroviamo pure un'altra strategia). Come al solito, ciò ha conseguenze sulle informazioni morfologiche veicolate dalla vocale finale. In questa parlante il fenomeno non riguarda solo i verbi (come per es. in se mètt per "se metti"), ma addirittura anche la forma femminile dell'articolo indeterminativo, che diventa omofona con il maschile (cfr. per es. un pasegiàt, "una passeggiata"), estendendo la strategia di cancellazione anche ad [a] finale391.

390 Inserisco qui alcune veloci osservazioni sugli altri tratti interessanti presenti in questi esempi. Accanto alla cancellazione di vocali finale (Natal, lus), abbiamo infatti pseudo corrispondenze del tipo [uo] > [o] (omo), [tʃ]Errore. L'origine riferimento non è stata trovata.Errore. L'origine riferimento non è stata trovata. > {s, ts} (in lus e azendi, in lus, tra l'altro, abbiamo anche una mancata corrispondenza con [ü]). Ma il caso più 'intrigante' è senz'altro quel tai (sic) del terzo esempio, formato sull'italiano stai. Non mi è possibile spiegarlo in altro modo se non come una conseguenza della 'tipologia popolare' che vede il dialetto come lingua riducente rispetto all'italiano: la bambina avrebbe qui cercato di ridurre il corpo fonico della parola nell'unico punto in cui le sembrava possibile (seguendo oltretutto quel procedimento di riduzione dei nessi consonantici che si ritrova talvolta in varietà di semplificazione voluta).

391 La regola secondo la quale [a] finale viene conservata conosce parecchie altre eccezioni, per es. in cos sta fascendo ("cosa stai facendo?"), o in ün mel, "una mela". Alla stessa dinamica va senz'altro attribuita anche la forma tü per "tua" (con in più il probabile sostegno della corrispondenza tra lui e lü). La cancellazione della vocale anche in dittonghi non tocca solo [a] finale, come per es. si vede in andrè per "andrei".

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Lb tende a portare avanti la riduzione della fine di parola semplificando anche i nessi consonantici392, come per es. in chès "questo" (che davanti a parola iniziante per vocale rimane però chèst, v. chèst arancc), vis per "visto", grann per "grande"393. Ma la parlante non si ferma a questo livello arrivando a volte a cancellare più di una sillaba alla fine della parola come per es. nella frase m'ha det al telèf che l'avè vis, dove accanto al già citato vis ritroviamo anche l'avè per l'aveva e soprattutto telèf per "telefono". Altri esempi dello stesso tipo sono bonìss per "buonissimi", possàngh per "pozzanghere", dè per "deve", fino ai bellissimi sinì e dè rispettivamente per "sinistra" e "destra"394. La riduzione dei nessi consonantici, percepita come un carattere differenziante il dialetto dall'italiano, si ritrova anche all'interno di parola, nonostante nell'input non vi sia nulla che possa sostenere esplicitamente questa generalizzazione. Così abbiamo abbiamo per esempio forme come andò per "andrò", o stat per "strade"395. Per finire vale la pena di segnalare che la bambina apre sistematicamente quasi tutte le [e] toniche allontanandosi in questo modo spesso dalla sua pronuncia nell'italiano regionale. Basti come esempio la seguente frase: sè mètt un pachètt nèla machinèta èsc un pachètt da segarètt, dove almeno il sè iniziale e èsc presentano un grado differente di apertura delle corrispondenti parole italiane della

392 Accanto a casi in cui ciò non avviene, come in apr, "apri", che mantiene la finale forse perché altrimenti non sarebbe più sufficientemente comprensibile

393 In particolare /n/ finale si velarizza normalmente anche nel parlato di Lb, come rivelano esempi come postin, o esempi in cui la bambina è, ancora una volta, 'andata oltre' il dialetto, come in polsan per "pulsante"

394 Parlando di "sinistra" e "destra" non possiamo non accennare al fatto che la bambina manifesta talvolta (pur se con bassissima categoricità) di aver colto la corrispondenza tra [s] preconsonantica italiana e [ʃErrore. L'origine riferimento non è stata trovata.] dialettale, come si vede per es. in sposc-tàss. Un'altra corrispondenza chiaramente percepita (ma anch'essa applicata incostantemente e talvolta incongruentemente) è, come si vedeva già in alcuni degli esempi riportati, quella tra [u] italiana e [ü] dialettale.

395 Mentre in questa parlante abbiamo solo cancellazioni di [r] post-consonantica (tranne nel sopraccitato tai facendo), in altri bambini si ritrova anche la scomparsa di [s] preconsonantica.

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stessa parlante396. A questa serie di [èErrore. L'origine riferimento non è stata trovata.] si aggiunge anche il passaggio, improprio, di [i] ad [e] in segarètt. Da un punto di vista generale, possiamo dire che questa bambina sembra impegnata, più che a sfruttare le singole corrispondenze, a dare olisticamente (quindi con alta variabilità locale nelle singole corrispondenze) un'immagine di dialettalità alle sue traduzioni, cercando di trasporre l'intera frase in una sua immagine 'spontanea' di dialetto e non di tradurre parola per parola o fonema per fonema. L'occasionalità di questi prodotti è tale da non causare nemmeno problemi di omonimia tra per esempio il dè con valore di "deve" e quello con valore di "destra". La produzione di queste forme avviene a breve raggio tenendo conto più del contesto frasale (tra l'altro fortemente disambiguante) che dei rapporti paradigmatici397.

396 Anche la preposizione italiana di viene spesso trasformata nella dialettale dè. Questa forte preferenza per [è] si ritrova anche in contesti caratterizzati dalla maggiore presenza di altre vocali, ciò che esclude la possibilità, che potrebbe nascere, che nella frase sopraccitata entrino in gioco fenomeni di armonizzazione vocalica.

397 Non abbiamo quindi a che fare con un vero e proprio sistema stabile, ma abbiamo senz'altro comunque che fare con una sistematicità dei processi che portano a questi risultati.

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4. Il dialetto come lingua materna

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4. Il dialetto come lingua materna

4.1. Il dialetto rivolto ai bambini nativi Nella prima parte del nostro lavoro ci siamo occupati della trasmissione della lingua a parlanti definibili in un senso ampio come 'non nativi'. In questa seconda sezione ci occuperemo invece di alcuni fenomeni particolari della trasmissione a nativi veri e propri. Il confine tra questi due gruppi di varietà sta essenzialmente nella priorità o meno del dialetto nell'educazione primaria rispetto all'italiano o ad altre lingue. Ci interesseremo quindi del dialetto che viene trasmesso ai bambini che si vogliono rendere dialettofoni. Dato il mutamento avvenuto nei rapporti tra le lingue in gioco diventa particolarmente interessante concentrare l'attenzione sul modo in cui e sulla qualità con la quale il dialetto viene tramandato attraverso le generazioni, specialmente nelle fasi iniziali della socializzazione398. Proprio in questo campo del parlare a bambini, nella situazione ticinese si verifica un comportamento importante per le dinamiche di interazione di lingue che qui ci interessano. Si osserva infatti l'emergere di un 'nuovo' fenomeno nel dialetto rivolto dagli adulti ticinesi ai bambini. Si tratta dell'inserzione di parole italiane fatta da persone che dichiarano esplicitamente di voler educare i propri figli in dialetto e che dichiarano con altrettanta sicurezza la propria volontà di trasmettere il dialetto ritenendo quest'ultima una lingua degna di essere salvaguardata ed utilizzata in Ticino. Questi genitori quindi, volendo insegnare ai propri figli il dialetto, inseriscono proprio parole italiane nel discorso dialettale. Il fenomeno osservato contrasta quindi con le dichiarazioni di intenti dei parlanti e mostra una tendenza delle lingue quasi a risistemarsi al di là della volontà degli utenti, facendo presupporre il delinearsi di un nuovo quadro di rapporti italiano-dialetto del quale gli utenti non erano esplicitamente consapevoli pur comportandosi in modo conforme a quest'ultimo.

398 Questo capitolo riprende alcune delle osservazioni contenute in Moretti (1990a) e le espande aggiornandole sulla base dei nuovi fenomeni attualmente ritrovabili e indagando più a fondo le dinamiche alla base degli stessi.

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Mentre il cambiare lingua con gli stranieri per migliorare la comprensione ha una lunga ed assestata tradizione che rende non necessario un apposito registro dialettale semplificato (il cosiddetto foreigner talk, abbreviato d'ora innnanzi in FT), parlando con i bambini la differenza è fondamentale, dato che questi ultimi sono, stanno diventando, o si vuole che diventino parlanti nativi del dialetto. Con questi bambini quindi non si sta utilizzando la loro lingua materna o quella che si vorrebbe che fosse la loro lingua materna. A lungo termine il problema che si pone è quello di come si riverbereranno questi comportamenti sulle relazioni tra le varietà che fanno parte del repertorio linguistico ticinese. Quali saranno le conseguenze di questa 'parassitarietà' parziale del dialetto rispetto all'italiano; una parassitarietà che, si noti bene, non tocca le zone tipiche di dominio o di espansione dell'italiano (come quelle legate allo scritto o all'alta formalità) ma proprio uno dei settori che ci si attenderebbero essere più conservativi. La decisione di risolvere i problemi di comprensione utilizzando l'italiano ha dunque come conseguenza il cambiamento di lingua materna399? I fenomeni che qui discutiamo si ritrovano in famiglie ticinesi non in contatto tra loro e possono essere considerati come uno dei punti possibili di un continuum sul quale interagiscono italiano e dialetto. Gli adulti osservati sono tutti dialettofoni ticinesi e una parte di loro utilizza molto raramente l'italiano, potendo, e in parte dovendo, parlare dialetto sia a casa che sul lavoro. Alcuni di questi parlano un vero e proprio italiano popolare poco fluente e con fenomeni di interferenza e semplificazione. Gli adulti appartengono a due differenti generazioni, che possiamo definire rispettivamente come la generazione dei nonni e quella dei genitori, anche se non tutti i caregivers a cui qui ci riferiamo sono effettivamente in questi rapporti di parentela con i bambini. Abbiamo inoltre una sola rappresentante della generazione dei bisnonni, che non presenta gli stessi fenomeni degli altri: comunica esclusivamente in dialetto e con una quantità maggiore di fenomeni di

399 Ovviamente rappresenta il caso opposto il cambiamento motivato dalla scelta di promuovere a lingua materna la varietà H. Si veda a questo proposito quanto già diceva Ferguson (1959, 239): "It seems unlikely that any change toward full utilization of H could take place without a radical change in this pattern of acquisition [in cui cioè H è acquisita a scuola]. For example, those Arabs who ardently desire to have L replaced by H for all functions can hardly expect this to happen if they are unwilling to speak H to their children."

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espressività400 (uso di diminutivi, di parole tradizionali tipiche del dialetto rivolto a bambini401, ecc.). Per quanto riguarda la relazione di questo comportamento con l'età dei bambini le nostre osservazioni si riferiscono a bambini fino agli undici anni402. Alle prime osservazioni, svolte alla fine degli anni Ottanta, abbiamo potuto affiancare nuove indagini, svolte attorno alla metà degli anni Novanta, che ci permettono anche di dare una dimensione 'micro-diacronica' del fenomeno e delle sue tendenze. Come abbiamo detto il tratto più appariscente delle interazioni dialettali con bambini qui osservate è che vi si ritrovano, e in una misura altrimenti non presente nelle varietà dialettali degli stessi parlanti (anzi, nella maggior parte dei casi non si tratta di una questione di 'misura' ma di 'categorialità', cioè di assenza vs presenza), fenomeni di utilizzazione di parole italiane in luogo dei corrispondenti del dialetto. Si può dunque dire che nei materiali raccolti il registro tipico rivolto ai bambini si caratterizza (rispetto alle altre varietà di dialetto degli stessi parlanti) proprio per la forte presenza di elementi lessicali italiani, come nello scambio seguente, che faceva parte dei materiali raccolti alla fine degli anni Ottanta (dove N è la nonna, P il padre e B il bambino; in genere le sigle sono intuitive, per cui Z è zio, ecc.):

(il bambino ha in mano un pezzo di pane e chiede il permesso di mangiarlo) B: pòdi? N: al sò mia .. dumandigh al papà ... te n’è già mangiò due tii ... mi diseréssa da nò N (al padre): u n’a già mangiò düü P: dòpu te mangi ammó a disc-naa? B: (non risponde) P: dòpu la nonna la fa al riso apòsc-ta per al Daniele e'l Daniele al mangia mia

400 La prima di queste differenze è senz'altro da attribuire alla differenza generazionale, la seconda è invece più un tratto da ricollegare alla personalità della 'bisnonna' in questione.

401 Come per es. i pipì per "i pulcini", i cocò per "le galline", ecc. Voci tradizionali di questo tipo sono registrate del Vocabolario dei dialetti della Svizzera italiana.

402 L'età in cui più sono osservabili in genere fenomeni di adattamento al piccolo interlocutore (il cosiddetto baby talk) è quella che va da circa un anno fino a quattro.

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N: sü nini .. che ta fò un bón risotto403

o come nei frammenti seguenti:

métal sü che l fa la musica vèrs a la luce vèrs a la luce ga ném adòss al muro te végni ala stalla i è tücc vöid ... ciapa chel'altro campanello dèss la mamma la riva l'è bello l'albero te fai tanta nana stanotte404

La parola che appare in forma italiana gioca solitamente un ruolo centrale, da un punto di vista informativo, nella frase. E' quella sulla quale il parlante vuole attirare l'attenzione (si veda anche che non di rado si tratta di un costituente dislocato). E' inoltre molto frequente l'uso di forme italiane in contesti di 'prima menzione', quando cioè una certa parola viene citata per la prima volta, come per es. nel seguente frammento, in cui il bambino chiede allo zio il nome di oggetti che sono rappresentati in un libro illustrato.

(il bambino sta guardando un libro con uno zio e indica delle figure) Z: chel lì l'è l tamburo .... chel lì l'è m bimbo cula slitta ... l'è m bimbo a cavallo .... un folletto ... un altro folletto ... un fiore ... un topolino B: cusa fa?405

Z: al sóna al tamburo406

403 "B: posso?/ N: non so + chiedi al papà ++ ne hai già mangiati due ++ io direi di no / N (al padre): ne ha già mangiati due / P: dopo mangi ancora a pranzo? / B: (non risponde) / P: dopo la nonna fa il riso apposta per Daniele e Daniele non mangia / N: su nini + che ti faccio un buon risotto".

404 "Mettilo su che fa musica"; "verso la luce, verso la luce"; "andiamo addosso al muro"; vieni alla stalla"; "sono tutti vuoti ... prendi l'altro campanello"; "adesso la mamma arriva"; "è bello l'albero"; "hai fatto tanta nanna stanotte".

405 Non possiamo non segnalare la mancanza del clitico soggetto in questo enunciato del bambino, che ha qui chiaramente la valenza di un fenomeno evolutivo.

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Questa situazione è particolarmente evidente anche in quei casi in cui il bambino elicita una serie di nomi (non necessariamente nuovi, con un comportamento notoriamente simile al farsi raccontare più volte la stessa storia), come nell'esempio seguente, dove l'intenzione 'didattica' è evidente.

(il bambino ha delle automobiline e le mette accanto al nonno) N: tii + che colore l'è chéscto? B: belùuu! N: no + l'è rosso B: ossoo + e chéto? N: giallo B: e chéto? N: verde B: e chéto? N: ammó rosso407

Si tratta in questi casi quindi del ricorso ad una sorta di 'forma di citazione'. Inoltre è di solito la norma che ci si rivolga ai bambini in questo modo quando si hanno verso di loro atteggiamenti benevoli, mentre quando li si sgrida o si hanno comunque atteggiamenti negativi vengono usate unicamente forme dialettali. Ovvero, se viene a mancare l'intenzione di espressione di affettività non si ritrovano forme italiane, come ben mostra la contrapposizione dei due enunciati seguenti:

te vè sül cavallo? (con forte intonazione interrogativa e con atteggiamento molto benevolo) ["vai sul cavallo?"] vs adèss mét via l cavall ["adesso metti via il cavallo"]

Il fatto che l'italiano sia qui la lingua usata per esprimere affettività può risultare strano alla luce dell'interpretazione che si è soliti dare dei rapporti tra lingua

406 "Z: quello lì è il tamburo .... quello lì è un bimbo con la slitta ... è un bimbo a cavallo .... un folletto ... un altro folletto ... un fiore ... un topolino / B: che cosa fa? / Z: suona il tamburo".

407 "N: Che colore è questo? / B: Blu! / N: no .. è rosso / B: rosso .. e questo? / N: giallo / B: e questo / N: verde / B: e questo? / N: ancora rosso."

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e dialetto nei termini di 'varietà formale/tecnica' e rispettivamente 'varietà affettiva/emotiva'. Ma occorre precisare che non si tratta di un valore dell'italiano in sé (che a livello di valori di 'affettività', almeno nei parlanti considerati, è ancora distante dallo scalzare il dialetto dal suo ruolo dominante) ma dell'alternanza (che si oppone all'uso normale), quindi dell'uso di parole italiane in dialetto (e il codice di base rimane il dialetto). Sempre a livello lessicale abbiamo anche la presenza di un tratto caratteristico e tipico dei vari 'lessici familiari'. Si tratta della tendenza a mantenere nella famiglia (di solito con valore ludico, ma talvolta sostituendole quasi completamente al corrispondente termine della lingua) alcune parole del bambino, originate da 'storpiature' di parole della lingua. Questi termini diventano dei veri segnali di gruppo e talvolta sopravvivono anche all'infanzia. Dal nostro punto di vista si deve notare come tali forme presenti nel materiale analizzato siano da ricondurre ad una base italiana. Così ad es. il caso di cucucàco per cioccolato, dove è evidente come la forma di partenza sia quella dell'italiano e non il dialettale ciculàtt, o gabètti per spaghetti, la cui origine è più ambigua, ma il raddoppiamento consonantico farebbe anche in questo caso pensare ad un input in italiano, o taratóre per trattore con una tipica riduzione del gruppo consonantico [tr] (anche in questo caso la forma di base è indubbiamente dell'italiano). Per quanto riguarda poi quali forme vengano espresse in italiano è necessario segnalare che, ovviamente, la maggior parte della forme italiane hanno un buon grado di isomorfismo con le corrispondenti dialettali delle varietà degli adulti, con la riserva però che al giorno d'oggi il lessico dei due sistemi è già notevolmente simile, come risultato di un processo progressivo di avvicinamento408. Tra i miei esempi posso citare forme 'conservate' in prima menzione come rasc-tèl "rastrello", cazzù = "mestolo"; ma anche alternanze tipo purscelìn e maialino409. Ho

408 Così per esempio nel nostro registro è molto più frequente l'italiano (giügà al) calcio che non i tradizionali (giügà al) fotbàl o (giügà al) balón. I bambini tra di loro parlano stabilmente di calcio, ma gli adulti non usano questa espressione quando fanno riferimento al calcio giocato da adulti, come per es. in partite viste alla televisione. Osservando la lingua dei bambini tra di loro non va dimenticato che molto spesso i giochi di finzione (ma talvolta anche giochi non di finzione o momenti speciali di questi giochi, come per es. la fissazione delle regole) sono in italiano, quindi l'italiano si intrufola in queste varietà anche attraverso questo canale.

409 Non a caso un diminutivo.

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un unico caso di menzione bilingue, quando il bambino indica un oggetto e chiede che cosa sia, il nonno risponde l'è'n bufèt, un soffietto410. Spesso sono all'opera più fattori e non è facile dire se la conservazione sia da attribuire a problemi di forma divergente (e se effettivamente a questo livello avvenga una 'eliminazione delle forme forti', cioè delle forme dialettali che non rispettano le regole di conversione italiano-dialetto più produttive e che costituiscono quindi delle specie di suppletivismi diasistematici411), o se non abbia altre motivazioni, come ad es. il fatto che la forma dialettale soddisfi già i criteri richiesti a tipiche forme rivolte ai bambini. A questo proposito può per esempio essere interessante osservare che nell'inchiesta di Bianconi (1980) il corrispondente dialettale di ombelico (bombonìgh) è l'unico degli elementi lessicali testati a non presentare differenze di comportamento nelle differenti generazioni considerate (ma le presenterebbe senz'altro oggi). Forse anche in questo specifico caso è rilevante il carattere di 'suppletivismo' (che, inteso come scarsa trasparenza delle regole di conversione che collegano la forma italiana e quella dialettale, ha come conseguenza una 'distanza' per i parlanti della forma italiana). Dato però l'argomento di cui ci stiamo occupando non possiamo fare a meno di rilevare che questa parola si riferisce ad una parte del corpo (i nomi delle parti del corpo sono uno dei settori lessicali tipici delle varietà speciali rivolte ai bambini e spesso hanno

410 La ripetizione bilingue costituisce una delle matrici più note del code switching (cfr. Gumperz 1982, cap. 4), anche nella situazione dialettale italo-romanza (v. Alfonzetti 1992). In questo caso viene trasmessa la parola italiana, quella dialettale e la loro relazione di corrispondenza, al di là di quelle che possono essere le motivazioni effettive del parlante, come per esempio, come è tipico, un intento di esplicitazione e chiarificazione legato all'incertezza relativa alla comprensibilità del termine dialettale. Ma dato che qui il bambino non conosce nessuna delle due parole ci sembra interessante la scelta del nonno di trasmettergli non solo la parola dialettale ma anche quella italiana e questa scelta può essere motivata dalla volontà, o dalla sensazione della necessità, che il bambino conosca anche (o forse principalmente) quest'ultima. Si noti infine che tra le due parole abbiamo una relazione di 'suppletivismo' nei termini discussi in precedenza, ciò che rende difficile la derivazione dell'una dall'altra.

411 In effetti, un parlante intervistato sulle motivazioni di questi cambiamenti ci dice che : "... si tratta di espressioni che il bambino altrimenti non capirebbe o non conosce...". Questa ipotesi è però contraddetta dal fatto che la maggior parte delle parole italiane hanno corrispondenti 'facili' in dialetto.

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una lunga tradizione di conservazione alle spalle412), e che probabilmente già la sua forma dialettale è dovuta a, o sentita come, una deformazione tipica per i bambini. Allo stesso modo, di solito, sono mantenuti alcuni termini classici e altamente tradizionali, che costituiscono veri e propri 'indici di varietà' (e appartengono senz'altro agli stereotipi delle varietà rivolte ai bambini)413, mentre la variante italiana può essere impiegata in genere per tutti gli altri settori, anche quelli considerati tradizionali, come per esempio i nomi di animali o di giochi e giocattoli del bambino. Così: cusa i fà i cani, invece di i can, o te cerchi la palla, per la bala, ecc.; per le parti del corpo invece il dialetto tende a resistere meglio, con alcune eccezioni nei nostri materiali: guarda che te sa schisci al ditino (che forse è però favorito dal fatto che la creazione di un diminutivo affettivo di dito sarebbe in collisione omonica con il dialetto didìn, che è "il mignolo"), e damm ben al piedino, per pescìn. Come abbiamo detto, allora, la scelta della lingua dipende da più fattori non sempre individuabili e isolabili, anche se c'è una chiara tendenza a introdurre le parole nuove in italiano e a utilizzarle in questa forma in relazione a condizioni situazionali particolari (maggiore espressione di affettività, bisogno di essere chiari, ecc.). Ci si può chiedere se questo fatto non possa essere inteso come una dimostrazione del fatto che gli adulti non hanno intenzione effettivamente di parlare italiano ma utilizzano, nel loro discorso intenzionalmente dialettale, delle varienti lessicali sentite come particolari 'forme di citazione dialettali'. Questa interpretazione potrebbe segnalare un allentamento dei confini strutturali tra i sistemi senza comunque intaccare i confini 'identitari', come è dimostrato sia dal fatto che gli adulti dichiarano di parlare unicamente dialetto con i figli, sia dal fatto che non si accorgono di 'cambiare lingua'. Una versione forte di questa ipotesi affermerebbe che i parlanti effettivamente non cambiano lingua perché si stanno servendo, nella loro percezione del repertorio, di varianti particolari di parole dialettali e non di parole italiane. Un esempio che può spiegare questo spostamento dei confini tra le lingue con l'instaurarsi di nuovi rapporti è quello di un un ingegnere agronomo ticinese che

412 Ferguson (1978, 212) fa notare l'alto grado di conservatività diacronica di alcune espressioni lessicali usate con i bambini, che continuano spesso la tradizione latina.

413 Anche se molti di loro presentano una forma molto simile all'italiano, con solo leggere variazioni ritrovabili anche nell'italiano regionale, come in caca, papa, nana (ma v. anche nini, nome affettivo per i bambini), ecc.

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nel corso di un'intervista televisiva interamente in dialetto afferma: "al contadino al dév vèss bón da fà da tütt". Qui contadino può essere chiaramente interpretato come un'alternante dialettale (rispetto al più tradizionale paesàn e simili) sentita come più appropriata nel tipo di discorso tecnico-formale che il parlante sta facendo. In questo esempio appaiono quindi due potenziali componenti importanti dell'italianizzazione del dialetto: da un lato l'eliminazione di termini dialettali distanti dall'italiano, dall'altro lato l'influsso della situazione in cui il discorso è prodotto, con sia la scelta del termine italiano come strumento di adattamento su un livello più formale del dialetto, sia la preferenza per contadino rispetto a paesàn perché il secondo viene ritenuto meno comprensibile per il pubblico al quale l'ingegnere si sta rivolgendo. In questo secondo caso è legittimo sostenere che contadino non sia utilizzato come parola italiana ma come parola neo-dialettale sovraregionale. D'altra parte l'adattamento del 'prestito' (con la caduta della vocale finale) viene bloccato dal fenomeno che abbiamo già discusso che può far sentire come 'ridicoli' adattamenti che assumerebbero un carattere di 'dialettalità forzata'. I fenomeni qui osservati indicano che il dialetto ha perso in parte la sua possibilità (o la sua volontà) di 'produrre variazione' con i propri mezzi originari, ciò che potrebbe essere interpretato come un indirizzo verso il monostilismo. Ma nel contempo, l'uso dell'italiano allarga la variabilità del dialetto. Questi fenomeni segnalano allora piuttosto un tentativo di riassestamento dei rapporti tra le lingue e soprattutto di una notevole plasticità del dialetto che riuscirebbe addirittura ad assorbire prestiti non adattati dall'italiano senza perdere il suo carattere di codice distintivo e ristabilendo così un equilibrio di pesi e contrappesi sociolinguistici con l'italiano che potrebbero mantenere la situazione stabile ancora per molto tempo. Questo fenomeno dell'uso dell'italiano in enunciati dialettali rivolti a bambini è relativamente nuovo. Per quanto è possibile stabilire con indagini retrospettive, esso dovrebbe aver iniziato a diffondersi massicciamente nella popolazione ticinese tra la fine degli anni Settanta e l'inizio degli anni Ottanta. E' importante tener presente che di solito i parlanti stessi spesso non sono consapevoli di questo comportamento. Esso è però così sistematico e così frequente, che lo si deve praticamente ritenere 'normale', cioè 'non marcato' e atteso nei contesti in cui si verifica. La sua scarsa marcatezza sociolinguistica è rivelata anche dal fatto che quando lo si fa notare ai parlanti, essi ne prendono coscienza accorgendosi spontaneamente di farlo abitualmente sia loro stessi che altre persone. Essi hanno quindi la capacità di rianalizzare il loro comportamento

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passato alla luce della nuova consapevolezza e di ritrovare i fenomeni che fino a quel momento non avevano notato. Ancora oggi a parecchi anni di distanza dalla diffusione del fenomeno l'effetto continua ad essere in buona parte 'non conscio'. In termini di marcatezza dell'uso dell'italiano in relazioni informali, questo fenomeno rivela senz'altro un affievolimento della relazione conflittuale e della distanza tra dialetto e italiano.

4.2. La spiegazione del fenomeno Se si vogliono spiegare le cause e le modalità secondo le quali questo fenomeno si è sviluppato si deve prendere in considerazione tutta una serie di fattori che mostrano qualche correlazione con lo stesso e costruire quella che Duranti (1992, 23) chiama una 'spirale ermeneutica'414.

4.2.1. Il baby talk Se si analizza la nostra situazione ci si rende subito conto che il comportamento 'misto' che ci interessa deve essere considerato come un caso di

414 Duranti fa riferimento in particolare alla metodologia antropologica di Clifford Geertz e al concetto di thick description di quest'ultimo (cfr. Geertz 1973). Durante il tentativo di spiegazione del fenomeno che qui ci interessa ci hanno affascinato le belle parole di Duranti (1992, 23-4): "Interpretare una cultura è come lavorare a un gigantesco cruciverba le cui regole cambiano col passare delle stagioni. Una volta trovata la parola mancante al centro di una parte che sembrava completa, ci si accorge che è proprio quella parola a rimettere in discussione quanto fatto in precedenza."

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varietà di baby talk (d'ora innanzi abbreviato in BT415). Le ragioni del comportamento vanno perciò ricercate nelle motivazioni funzionali tipiche di questo registro. E' stato più volte segnalato l'uso, in parecchie comunità, di un registro particolare rivolto ai bambini, che viene di solito chiamato dai linguisti baby talk , o in italiano 'linguaggio bambinesco'. Il BT, va detto subito dato che le varie

415 Esistono etichette alternative per designare i registri rivolti ai bambini la cui sinonimia è solo parziale con la denominazione di baby talk che qui preferiamo (altre denominazioni spesso utilizzate sono per es. motherese, oppure caregiver speech). Sulla scia di Snow (1985) è negli ultimi tempi divenuta più frequente la denominazione di child directed speech (CDS), che chiarifica innanzitutto che si tratta di parlato a bambini e non di bambini, e abbraccia una gamma piû ampia di fenomeni, concentrandosi piuttosto sulla problematica degli effetti dell'input e su fenomeni di acquisizione della sintassi (quindi settori relativamente esterni alla discussione sulle tipiche varietà definite BT). La nostra preferenza per la denominazione di BT vuole segnalare la relazione più intensa dei nostri fenomeni con le specifiche varietà rituali che si solito di raccolgono sotto questa etichetta. Molte informazioni sul BT si trovano in Snow-Ferguson 1977 e in Savoia 1984; per una rapida rassegna v. Calleri 1987 (un interessante approccio alla comunicazione tra genitori e bambini da un punto di vista più generale si ha in Stafford e Bayer 1993). Il BT tocca livelli differenti della lingua producendovi adattamenti tipici rispetto al linguaggio normale degli adulti (cfr. Ferguson 1977). Abbiamo così fenomeno prosodici (come per es. l'uso di un tono più alto, di intonazioni esagerate, di una velocità di elocuzione più lenta), fenomeni fonologici (come la cancellazione di consonanti difficili come per es. [r], la semplificazione di nessi consonantici, la tendenza ad una struttura sillabica tipica Consonante-Vocale, la reduplicazione delle sillabe come in papa, mamma, cacca, o l'uso di suoni speciali altrimenti non presenti nella lingua in questione), fenomeni sintattici (per es. frasi brevi, ripetizioni, cancellazione di copula e articoli che porta allo stile telegrafico, più paratassi), fenomeni morfologici (forte diminutivizzazione dei sostantivi, cancellazione di marche flessionali, ecc.), fenomeni lessicali (come l'uso di espressioni particolari per alcune tipiche sfere semantiche come quella del corpo umano, della parentela, dei nomi di animali, del cibo e dei giochi, talvolta il mantenimento di espressioni peculiari del bambino stesso, ecc.), e per finire anche fenomeni discorsivi (come il classico 'scivolamento' nel riferimento alle persone - si parla del bambino, in sua presenza, in terza persona; anche l'adulto parla di sé usando la terza persona; si usa un 'noi' inclusivo per azioni unicamente riferite al bambino - si sostituiscono i pronomi con nominali pieni, ecc.). Questi processi non appaiono solo nel parlato rivolto a bambini, ma anche in altre varietà aventi caratteristiche funzionali simili, come per es. nel parlato rivolto ad animali domestici, a piante, a persone anziane o malate, o, in modo ancora più evidente, tra innamorati.

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denominazioni potrebbero trarre in inganno, non è il modo in cui parlano i bambini416, ma è invece la varietà particolare usata dagli adulti con i bambini417. Ferguson (1977) interpreta le caratteristiche linguistiche del BT come motivate da tre tendenze funzionali principali: la semplificazione (quella tendenza che nei casi estremi porta a conseguenze come un lessico molto ridotto e la restrizione della morfologia a pochissimi rudimenti418), la chiarificazione (che, in breve, si può definire come un aumento di ridondanza) e l'espressività (la caratteristica più peculiare del BT ed anche la forza responsabile di tutti i procedimenti di espressione dell'affettività tipici di questa varietà). In generale quindi, come fa notare Brown (1977), si parla in questo modo ai bambini per due motivi fondamentali. In primo luogo il bambino non possiede ancora una competenza completa dal punto di vista linguistico e perciò si pensa che sia necessario o utile semplificare e chiarificare ciò che gli si dice. In secondo luogo la figura del bambino attira l'affeto di questi adulti e conseguentemente si cerca di esprimere anche linguisticamente questa affettività419. Mi sembra che in questi termini nei casi che stiamo discutendo la motivazione principale del cambiamento di codice (uso questo termine con un valore che vuole essere neutro ed evitare l'associazione con il valore specialistico e ristretto di 'commutazione di codice', traduzione normale di code switching, che in

416 Anche se sullo sfondo sono talvolta osservabili componenti di imitazione del modo in cui parlano i bambini, esse rimangono però in genere indubbiamente secondarie.

417 Per indicare genericamente gli adulti (genitori e altri) che si occupano dei bambini seguiremo la tradizione anglofona e parleremo di caregivers.

418 Sul concetto di semplificazione v. Berruto (1990c).

419 Brown (1977) identifica una componente AFF (abbreviazione di 'affettività), che assieme alla componente COMM (per 'comunicazione'), costituita dall'unione di spinte chiarificative e semplificative, formerebbe il vero e proprio BT. Secondo Brown l'uso 'secondario' del BT (tra innamorati, con animali, ecc.) sarebbe un'estensione non dell'intero BT ma solo di questa componente AFF. A questo riguardo, nei nostri materiali, abbiamo anche casi di usi di alternanti italiane con cani e gatti. Di una ulteriore funzione possibile, quella di facilitare l'apprendimento della lingua ai bambini, parleremo in seguito.

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questo caso sarebbe inappropriato420) sia senz'altro da ricercare in un intento chiarificativo. L'uso di parole italiane corrisponde quindi all'intenzione di 'rendere chiaro' ciò che si sta dicendo, di utilizzare una forma che sia più facilmente percepibile e interpretabile421. E' ovvio che questo valore non è da ricercare in una maggiore probabilità che il bambino conosca l'italiano (anche se è indubbio che il valore dell'italiano come lingua sovraregionale deve aver notevolmente influenzato i rapporti con il dialetto), quanto in una tradizione di rapporti tra le lingue che rende questo comportamento appropriato per questi scopi. Come è allora possibile che l'italiano assuma questo ruolo? Certamente la sua posizione di 'lingua della scuola'422 lo fa sentire più adatto per contesti in cui si vuole spiegare qualcosa o si vogliono trasmettere in genere delle conoscenze, ma il nostro fenomeno ha conosciuto degli 'antecedenti' che gli hanno preparato la strada. L'esame dei fatti linguistici antecedenti al fenomeno dell'inserire parole italiane nel discorso dialettale rivolto ai bambini ci porta infatti alla conclusione che quest'ultimo fenomeno, pur essendo di natura recente e assai improvvisa nella sua apparizione, sia da ricollegare a filoni differenti di fatti che hanno caratterizzato, da un lato a lungo termine e dall'altro a breve termine, la storia dei rapporti tra italiano e dialetto. Per far riferimento a questi fenomeni parleremo appunto di 'antecedenti'.

420 Su concetti come commutazione di codice, alternanza di codice, enunciati mistilingui, ecc., cfr. Berruto (1990b). I casi che qui stiamo discutendo si collocherebbero, all'interno dello schema di Berruto, tra gli enunciati mistilingui e le citazioni. Nei nostri materiali si ritrovano enunciati come finiss al latte, che mostrano bene come nei casi di cui ci stiamo occupando non sia raro che due membri dello stesso sintagma, in questo caso l'articolo e il nome, provengano da due lingue differenti. Ciò conferma l'ipotesi che più che di commutazione di codice si tratti di 'forme di citazione', in cui solo la forma del nome deve essere italianizzata.

421 Si confronti per es. (per una fonte differente dalle nostre) il seguente passaggio raccolto da Oesch-Serra (1994, 159), in una famiglia di ticinesi emigrati nella Svizzera tedesca: "La nostra idea era che io parlavo dialetto alla bambina e lui italiano ... ma mi accorgo che parliamo più italiano anche se ci son dei giorni che parlo più dialetto e altri più italiano però quando vediamo un libro o parliamo degli animali mi sembra più chiaro se glielo dico in italiano [...] alla fine però parlerà anche lei un italiano orrendo misto dialetto perché ogni tanto le parliamo dialetto e ogni tanto italiano."

422 Ed anche come 'lingua dello scritto', che si presta notoriamente più facilmente ad usi metalinguistici. Basti solo pensare alla quantità di vocabolari e grammatiche italiani ai quali il dialetto, in proporzione, ha molto poco da contrapporre.

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Gli antedenti si possono categorizzare secondo varie prospettive. Per esempio, lungo la dimensione diacronica, potremmo distinguere tra 'antecedenti lenti' e 'antecedenti rapidi', dove i primi sono quei fenomeni di uso dell'italiano nel dialetto diffusi già da molto tempo (o sono addirittura ritrovabili in modo relativamente stabile nella storia della diglossia ticinese); i secondi hanno costituito negli ultimi decenni un'accelerazione di un tipo particolare di rapporti tra le lingue in conseguenza delle stesse cause che hanno portato al nostro fenomeno, e a loro volta sono stati possibili cause o coadiuvanti dell'entrata dell'italiano nel BT. Antecedenti lenti e rapidi spesso coincidono ed i secondi costituiscono semplicemente una rappresentazione fortemente incrementata quantitativamente e qualitativamente dei secondi. Una differenza fondamentale tra i due è però costituita dal fatto che l'apparizione dei secondi coincide con l'aumento dell'italianizzazione dei dialetti e con la comparsa di varietà regionali fortemente italianizzate, in cui il collegamento con le forme di base originali è oramai notevolmente indebolito e quello con l'italiano è fondamentale. Si tratta delle varietà, che, come ha giustamente mostrato Michele Moretti (1988), si sono parzialmente staccate dal continuum con i dialetti tradizionali per costituire nuovi continua con l'italiano. Gli antecedenti si possono distinguere anche secondo varie modalità funzionali. Nei paragrafi che seguono seguiremo questa classificazione distinguendo tra antecedenti 'chiarificativi', intendendo cioè quelli che hanno contribuito a far assumere all'italiano il ruolo di lingua 'più chiara', e antecedenti 'espressivi', quelli che hanno anticipato il nostro fenomeno presentando la lingua italiana con un ruolo affettivo423. Accanto agli antecedenti, diventa poi interessante la considerazione dei 'paralleli', cioè dei fenomeni simili al nostro apparsi in altre culture in modo indipendente, ciò che fa supporre che al presentarsi di circostanza sociolinguistiche simili emergano fatti simili. Quest'ultima prospettiva, che verrà toccata più avanti, si presta quindi ad osservazioni se non proprio in termini di 'universalità' del fenomeno almeno in termini di generalizzabilità dello stesso.

423 Negli antecedenti si possono quindi anche ricercare le tracce della genesi dell'uso dell'italiano nel parlare a bambini, dato che essi, da un lato, mostrano l'insorgere delle circostanze che permettono l'uso dell'italiano nel dialetto, e dall'altro lato con la loro presenza modificano ulteriormente o certificano le circostanze stesse.

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4.2.2. Gli antedecenti chiarificativi Esiste in Ticino una lunga tradizione, nella relazione tra italiano e dialetto, che può sostenere la credenza che l'italiano sia più facilmente comprensibile. Per esempio, quando adulti dialettofoni devono comunicare in condizioni di forte disturbo del canale (una situazione in cui tipicamente emergono strategie chiarificative) non è raro che ciò avvenga in italiano, come dimostra anche la citazione seguente, tratta da Collovà e Petrini (1981-82, 278):

"Per quanto riguarda i rapporti fra macellaio e cassiera in negozio osserviamo come l'indicazione del prezzo (che può avvenire in dialetto, in italiano oppure sotto forma di un enunciato mistilingue) risulti, nei casi di affollamento rumoroso, spesso in italiano, anche quando il cliente è riconosciuto come dialettofono (così come lo è la cassiera, destinataria principale del messaggio del macellaio)."

L'italiano viene quindi sentito come miglior garante della riuscita della comunicazione, proprio come forma più chiara. Come se vi fosse un'opposizione (ed in effetti i parlanti la istituiscono) in termini di 'lento' vs. 'allegro'424, per cui l'italiano viene ormai associato ad una pronuncia accurata, meno 'oscurata' da fenomeni di allegro, e inoltre con forme più corpose (tipiche del nostro BT sono per es. le reintroduzioni delle consonanti doppie e delle vocali finali)425. Questo secondo parametro sul quale dialetto e italiano sono venuti a trovarsi in opposizione diretta realizza poi un effetto tipico dei comportamenti chiarificativi, che, riprendendo le parole di Ferguson (1977, 212), fanno sì che le "sentences [are] pronounced more slowly and articulated more carefully" (con i classici procedimenti di foregrounding o di 'fortizione'426). Per il nostro caso è interessante notare che l'associazione tra standard e foregrounding tende a manifestarsi con una certa regolarità, forse anche perché lo standard è meno 'disturbato' dai fenomeni di lenizione tipici del parlato informale.

424 Su questi termini cfr. per es. Hyman (1981). Un caso per noi interessante è l'applicazione che ne viene fatta al bretone da Dressler (1972).

425 Un uso di forme 'lente' è di solito tipico nel parlato rivolto ai bambini (cfr. Dressler 1985)

426 Cfr. Stampe (1969), Dressler (1985).

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Le parole italiane hanno valenze simili a quella delle 'forme di citazione' (con un alto valore di 'menzione' accanto a quello di 'uso'), abbiamo cioè a che fare con ricorsi ad una forma lessicale che permetta di riconoscere più facilmente il valore che si intende comunicare. Si tratta quindi delle 'forme centrali', quelle che meglio rappresentano il valore lessicale contrapponendosi alle altre forme 'disturbate' da modifiche motivate morfonologicamente, e tra quest'ultime sembrano essere collocate dai parlanti anche le forme dialettali. A differenza però delle normali forme di citazione, nel nostro caso non vengono veicolati solo i valori lessicali ma anche quelli morfologici (marcati). Se la forma di citazione è di solito una forma 'metalinguistica' che rappresenta un intero paradigma (per es. in italiano l'infinito per i verbi, o la forma del maschile singolare per i nomi), qui abbiamo a che fare con qualcosa di intermedio tra forma di citazione e forma di base, dato che si tratta di una forma di citazione delle singole forme del paradigma, senza che si tratti sempre 'geneticamente' di una vera forma di base (senza cioè necessariamente un processo 'a priori' di derivazione). Parleremo perciò, in relazione a questi fenomeni nelle varietà indirizzate a bambini di 'forme di base a posteriori', intendendo con ciò cogliere un punto intermedio sul possibile continuum che va dalle forme di citazione vere e proprie (metalinguistiche e valide per tutto il paradigma) alle forme di base vere e proprie (fondamentali nei processi morfologici del parlante e, almeno la prima volta, 'reali psicologicamente'). Sono proprio le relazioni e gli scambi possibili tra forme di base e forme di citazione (per cui per es. una forma di base può diventare l'effettiva forma di citazione) a sostenere l'esistenza di 'zone intermedie' di continuità tra i due concetti. Le nostre 'forme di base a posteriori' sono forme di citazione, che attraverso il processo chiarificativo (discorsivo) di ricorso all'italiano come 'forme di esplicitazione' e poi 'di citazione' vengono ad avvicinarsi a forme di base vere e proprie (con un processo quindi di 'retrodeterminazione della base'). Questo processo si incontra con i frequenti procedimenti di costituzione di neologismi dialettali a partire da forme italiane tramite procedimenti di corrispondenza morfo-fonologica, in cui le forme italiane fanno, almeno la prima volta in cui vengono 'trasformate', da vere e proprie forme di base. In questo modo, le forme italiane per il dialetto non sono solo entità pre-scientifiche (come le vere forme di citazione427),

427 Cfr. le chiare osservazioni sul concetto di 'forma di citazione' in Scalise (1994, 64-65). Questo autore mette giustamente in luce quanto questo concetto sia relativamente poco significativo all'interno dei processi morfologici.

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ma, attraverso il processo di scambio in corso tra i codici, possono anche venire ad avere effetti sulle regole del sistema dialettale ed eventualmente sul recupero e sulla processazione428. Quindi il concetto di 'forma di citazione' sembra, nel nostro caso, effettivamente assumere una nuova valenza, dato che le forme dell'italiano si vedono assegnare questo ruolo rispetto al dialetto da parte dei parlanti. Abbiamo dunque una tendenza a far coincidere le basi ed a passare dalla forma di citazione a un ruolo eventuale di 'forma di base' (che può arrivare a fare da punto di partenza, e non solo di riferimento, per la costruzione delle forme superficiali). E ancora una volta il concetto di 'corrispondenze interlinguistiche' assume un'importanza particolare nei rapporti tra italiano e dialetto. Chiaramente, nella nostra situazione effettiva, ciò non vuol (ancora) dire che i parlanti deriverebbero ogni forma dialettale in ogni uso da forme italiane, ma è chiaro che l'italiano ha ormai assunto il ruolo di codice metalinguistico (in questo senz'altro aiutato dall'essere il codice della scuola e dello scritto) e che da qui si estende in usi particolari al ruolo che potremmo definire di 'lingua matrice' (cioè la lingua che fornisce le basi lessicali) confinando il dialetto nel ruolo di 'lingua parassitaria'. Ciò vuole anche dire che l'italiano ha assunto il ruolo di 'lingua della cognizione', cioè di codice dei nuovi concetti. In questo modo si sposta in parte il noto problema del cosiddetto 'paradosso del BT' (cfr. per es. Brown 1977), secondo il quale i genitori usando il BT (con le sue caratteristiche 'devianti') vorrebbero insegnare la lingua (corretta!) ai bambini (questa motivazione didattica è quella che più frequentemente i genitori indicano come responsabile dei fenomeni linguistici del BT). Non occorre a questo proposito dimenticare che probabilmente con il BT i genitori insegnano sì la lingua, ma anche, e forse soprattutto, il mondo, cioè le categorizzazioni concettuali espresse dalla lingua. In questo senso è presente anche una chiara funzione 'didattica'. Tra l'altro i bambini non sono l'unico gruppo sociale per il quale la competenza linguistica ridotta ha delle conseguenze sul comportamento

428 Uno tra i processi semplificativi spesso ritenuti tipici del BT è la riduzione della morfologia, sotto forma di omissioni di marche flessive, di articoli, ecc. Ci si può chiedere se usare la forma italiana non voglia dire, nel nostro contesto, ridurre anche la 'morfologia interlinguistica' ricorrendo direttamente alla 'forma di base' (italiana).

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comunicativo degli adulti nativi. All'interno delle varie situazioni che si muovono tra diglossia e quella che è stata chiamata dilalìa (vale a dire, la situazione di compresenza di varietà alta e varietà bassa nella conversazione quotidiana; cfr. Berruto 1987b) ci si può chiedere quali siano i differenti effetti che queste situazioni hanno sulle varietà usate con stranieri. Le tendenze in questi casi a passare alle varietà 'alte' (H) sono state segnalate più volte429, e questa sembra essere la soluzione normale per le situazioni più vicine alla dilalìa430. In casi invece più vicini alla diglossia (almeno per quanto riguarda il criterio del non uso della varietà H nella conversazione), come per esempio nella Svizzera tedesca, il passaggio alla varietà alta è molto più raro e marcato. In altri casi poi esso è ancora più raro e la varietà alta è esclusivamente scritta. E' ovvio quindi l'interesse di ricerche che tengano conto di questo parametro, e in genere delle varietà 'marginali', per un raffinamento delle tipologie dei repertori, specialmente per quanto riguarda situazioni intermedie, in cui la scelta della varietà da utilizzare rivela anche molto degli atteggiamenti dei parlanti. Nel tentativo di elicitare fenomeni di FT con parlanti fortemente dialettofoni (che cioè parlano quasi esclusivamente dialetto e dispongono solo di un italiano molto interferito e poco fluente) ho ottenuto unicamente cambiamenti di lingua con risposte in italiano (che a volte si possono definire versioni semplificate di italiano popolare) e risposte miste. E' però presumibile che le eventuali risposte dialettali che si ottengono siano conformi più al tipo di strategia che Berruto (1993a) contrappone alla semplificazione e attribuisce al prevalere di intenzioni 'chiarificative'. Si tratta di comportamenti caratterizzati da forte ridondanza e ripetitività (Berruto parla della strategia del 'dire molto') e non da riduzioni della complessità delle strutture (fenomeni semplificativi, normalmente considerati come tipici e costanti per il FT)431. E' difficile dire fino a che punto questa situazione sia stata creata dalla quasi mancanza di veri e propri apprendenti il dialetto come L2

429 v. per es. Dittmar e von Stutterheim (1986, 166), che, analizzando il FT usato da un lavoratore tedesco con un italiano, notano un "uso ipercorretto dello standard tedesco (normalmente, K [il lavoratore tedesco] si serve del dialetto del Palatinato)".

430 Si vedano in proposito anche le interessanti osservazioni e i materiali di Sobrero (1988) sull'uso del dialetto (quindi partendo da un punto di vista opposto) in indicazioni stradali in Salento.

431 Inoltre, nel caso dei dialetti, è ovvio che bisogna considerare anche gli eventuali fenomeni di varietà di koinè.

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e/o dal fatto che l'uso del dialetto in uno straniero implica solitamente la conoscenza almeno rudimentale dell'italiano432. Probabilmente però si deve anche tener conto di un certo grado di convenzionalità delle strategie semplificative, che se non si manifesta in un influsso sulle strutture stesse si manifesta senz'altro in termini di 'normalità' dell'uso di varietà di questo tipo. Il ricorso all'italiano con valore 'chiarificativo' nel corso di interviste dialettologiche-etnografiche è ben illustrato da Vicari (1983, 164-166), che discute l'uso da parte degli informatori di forme italiane o italianeggianti. Accanto alle alternanze più chiaramente motivate da vuoti di memoria (e riguardanti soprattutto discorsi su attività scomparse da tempo, come l'allevamento dei bachi da seta, la raccolta delle castagne, ecc.) si ritrovano casi in cui

"il ricorso al codice alternativo può [...] manifestarsi come giustapposizione di due varianti: l'una è il termine specifico dialettale e l'altra, la sua traduzione o un equivalente italiano che, pur appartenendo allo stesso ambito semantico, non ne rappresenta la traduzione. La causa è da attribuire al vuoto di memoria o all'intenzione di decodificare la voce dialettale per renderla di comprensione più agevole? Una risposta univoca sarebbe azzardata (anche perché le mie registrazioni non offrono prove sufficienti): non escludo tuttavia che l'ordine di successione delle due varianti eserciti un ruolo non secondario." (Vicari 1983, 165)

E' possibile che anche attraverso comportamenti di questo tipo le forme italiane abbiano almeno parzialmente assunto un valore di 'forma di citazione' attraverso il quale più facilmente, sia per il parlante che per l'ascoltatore, si possa arrivare alla forma locale-tecnica. E per il nostro caso ciò è particolarmente interessante per quei casi in cui la forma italiana e quella dialettale non siano particolarmente distanti e la seconda venga così lentamente (magari anche per il

432 Anche in questo caso la situazione nella Svizzera tedesca è differente, in quanto non è difficile trovare parlanti stranieri che non sanno lo Hochdeutsch ma sanno lo Schwyzertütsch. In Ticino capita di sentire usare il dialetto con italofoni non dialettofoni o con stranieri (anche non troppo competenti in italiano), che però sono già ben conosciuti dai parlanti. In questi casi prevale perciò il valore del dialetto come lingua della solidarietà del gruppo (v. già Collovà e Petrini 1981-1982 che spiegavano in questo modo casi di usi del dialetto con interlocutori che parlano italiano) e come 'lingua preferita', che si parla appena sussistano le condizioni minime per poterlo fare.

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frequente uso comune in fenomeni di 'ripetizione bilingue'433) ad essere sentita come 'derivata' o derivabile dalla prima. Questi fenomeni hanno nel tempo costituito una 'prassi' e quindi si è istituita una nuova relazione tra i corrispondenti delle due lingue. Perciò per i parlanti è andato affievolendosi il valore di 'ripetizione in italiano perché l'italiano è più conosciuto' (cioè altrettanto arbitrario ma lingua più sovraregionale) a favore di un valore del tipo 'l'italiano ha strutture più chiare rispetto al dialetto'.

4.2.2.1.Il ruolo dei diminutivi Un classico negli studi sul BT è la segnalazione della forte presenza di diminutivi (tipici segnali dell'azione della forza 'espressiva'434). Anche in questo settore abbiamo la solita infiltrazione dell'italiano, come ben si può vedere negli esempi seguenti:

varda fö i uccellini ["guarda fuori gli uccellini"] e la barchetta indóa l'è? ["e la barchetta dov'è?"] ciao bimbino + tii che bei guantini che t'a fai la nonna ["che bei guantini che ti ha fatto la nonna"] indóa iè i angioletti? ["dove sono gli angioletti"]

Se per questi casi valgono ovviamente le stesse motivazioni che abbiamo individuato per le parole non derivate, essi inoltre fanno sì che ci si renda conto

433 Cfr. Gumperz (1982).

434 La ricerca sul BT ha messo chiaramente in evidenza come questo procedimento morfologico, in questo registro, abbia più un chiaro valore di espressione di affettività che non referenziale (di "dimensioni ridotte"). In effetti, in italiano è possibile per es. diminutivizzare categorie nominali che nella norma linguistica sarebbero escluse da questo processo morfologico, come per es. acqua che può diventare acquina in, per es., la vuoi l'acquina, oppure famina o setina, formate su rispettivamente fame e sete (cfr. Savoia 1984, 112).

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anche di altre particolarità aggiuntive qui più evidenti. In primo luogo, nelle forme con il diminutivo, l'inserimento della vocale finale comporta una maggiore corposità del diminutivo stesso, che viene così messo in maggiore evidenza con un tipico effetto di lento speech. In secondo luogo, nella formazione di queste parole l'uso del suffisso previsto dalla norma dell'italiano può essere sentito come qualcosa di differente rispetto alla forma dialettale, e dà così luogo ad una variazione, fino allo sfruttamento del contrasto nelle norme delle due lingue (come italiano e uso BT pallina vs dialetto balèta, o panchina vs banchèta; entrambe le forme dialettali sono usate dagli adulti con adulti). In direzione inversa si hanno formazioni italiane basate sul dialetto, come cagnino per cagnolino o sassino per sassolino (dove l'interfisso gioca senz'altro un ruolo importante). Queste variazioni di derivazione possono essere intese ancora una volta come espressioni di una tendenza 'parassitaria' del dialetto, che elabora come risposta ad una richiesta di variazione interna alla lingua una variazione 'esterna', riprendendo la variante italiana. Talvolta l'impressione che si ottiene è che l'uso della variante italiana (anche non diminutivizzata) abbia di per sé già lo stesso valore del diminutivo, e quindi il ricorso all'altra lingua soddisfi le esigenze che altrimenti sarebbero soddisfatte da una strategia morfologica intralinguistica (la diminutivizzazione appunto). Infatti, le similarità tra diminutivizzazione e inserzione di parole dell'altra lingua sono parecchie. Per esempio Dressler (1992, 155) fa notare come di norma si ritrovi in genere un solo diminutivo per atto linguistico, ed esattamente la stessa cosa avviene nella maggior parte dei nostri casi con le parole italiane. La motivazione di questa 'restrizione' va a nostro parere cercata in un fenomeno semiotico generale, e cioè quello legato alla relazione tra variazione di forma (per diminutivizzazione o per alternanza di lingue) e incremento della rilevanza informativa. Il fatto di adottare una forma differente da quella 'normale', meno marcata, attira l'attenzione su un membro della frase, segnalandone (e incrementandone, in un interessante intreccio di cause ed effetti) il ruolo maggiormente centrale nella struttura informativa dell'enunciato. Se osserviamo il ruolo delle forme diminutivizzate nel BT classico (monolingue) notiamo che esse hanno non solo una funzione (molto secondaria) di veicolare il tratto semantico /+piccolo/, e non solo una funzione, molto più importante, di espressione di affetto, ma anche una funzione tematizzante. I diminutivi, come varianti marcate di forme lessicali, attirano l'attenzione del bambino su una parola centrale informativamente. Quindi, hanno una funzione simile a quella delle nostre parole italiane.

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In questo senso si può senz'altro dire che la diminutivizzazione e l'uso di forme di un'altra lingua sono (anche) strategie di 'messa in evidenza', coerenti con altre tipiche strategie del BT come per es. una salita intonativa sulle parole più importanti, una maggiore forza di emissione, ecc.435, tutte strategie che servono ad attirare l'attenzione e a creare enfasi su certe parti dell'enunciato. Nel caso dei diminutivi e delle parole italiane non si tratta di strategie sintattiche, come nei vari casi di dislocazione di elementi della frase, ma rispettivamente morfologiche e interlinguistiche, che variando la forma della parola (a relativa costanza del contenuto referenziale) segnalano diagrammaticamente una sua centralità informativa. Infatti, è nostra opinione che anche per il BT classico, monolingue, si possa dire che la diminutivizzazione ha pure la funzione di focalizzare l'attenzione su un membro dell'enunciato. Nel nostro caso non è escluso che la ricerca di maggiore corposità del suffisso sia una delle cause importanti del passaggio a forme italiane, creando così una 'zona di transizione' tra diminutivi monolingui e l'uso di forme italiane non diminutive aventi la stessa funzione436. Se la prima menzione di una parola richiama (o, come effetto, istituisce) una specie di forma di citazione italiana delle forme dialettali, l'uso come strumento di enfatizzazione è indipendente dal fatto che la parola sia nota o meno, come ben dimostra tra i tanti l'esempio seguente:

adess t'en ciapi due e dopu basc-ta [”adesso ne prendi due e dopo basta”],

Questo uso costituisce molto probabilmente uno dei più importanti percorsi funzionali di nascita e sviluppo dell'impiego dell'italiano nel dialetto rivolto ai bambini. E in questa direzione le due forze funzionali (l'enfatizzazione nel discorso e la sovraesplicitazione nella prima menzione) non sono del tutto disgiunte, poiché la

435 Sui fenomeni prosodici e fonetici del parlato rivolto ai bambini si trovano osservazioni molto interessanti in Cruttenden (1994).

436 Si noti che con la maggior parte dei diminutivi affettivi non cade la vocale finale: non si dice, per es., al pesciolin ma al pesciolino. Quindi il procedimento morfologico italiano blocca l'applicazione delle potenziali regole di corrispondenza fonologica con il dialetto, ma nel contempo la parola italiana veicola meglio della corrispondente dialettale i valori di appropriatezza a cui il parlante fa riferimento.

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prima menzione provoca di solito un'enfatizzazione della forma, tanto maggiore quanto più forte è il valore metalinguistico. Dato il ruolo che tradizionalmente si attribuisce ai diminutivi negli studi sul mutamento linguistico e in particolare nel caso delle lingue romanze437, ci si può poi chiedere se proprio le varietà utilizzate con i bambini (o varietà con componenti simili, affettive ma anche enfatiche) non abbiano effettivamente giocato un ruolo importante in questi processi, tanto più che, come vedremo in seguito anche alla luce di casi esterni al mondo romanzo, almeno nei processi di sostituzione lessicale, i comportamenti in questi contesti possono avere delle ricadute sul repertorio. Le posizioni scientifiche classiche sull'argomento, come ben illustra Mair (1992, 179) nel passaggio che qui citiamo, si suddividono in due grandi categorie:

"Während auf der einen Seite von einigen Romanisten (z.B. Meyer-Lübke, Gilliéron) der Grund für die Ausweitung der modifizierenden Suffixe in der Substanzschwäche vieler lat. Wörter, in der Gefahr der drohenden Homonymie und zum Teil auch in der objektiven Bezeichnungsnotwendigkeit in Bezug auf Grössenverhältnisse (z.B. soliculus = 'kleine Sonne in Gallien') gesehen wird, findet sich auf der anderen Seite (z.B. bei Vossler) eine Überbewertung des affektischen Charakters des Vlat., der sich in der Tendenz zur emotionalisierenden, verkleinernden Diminution bzw. Augmentation äussern soll (soliculus = 'liebe Sonne')."

A queste posizioni Mair (1992) aggiunge una terza possibilità, più concentrata, a nostro parere, sui processi che hanno portato alla diffusione della diminutivizzazione che non su quella che può essere stata la sua origine. In breve, secondo questo autore, la fortuna del procedimento andrebbe ricercata nella sua capacità di costuire un mezzo molto potente per la valorizzazione dei lessemi.

437 Pensiamo anche solo ai casi più noti nella linguistica romanza originati da una preferenza per forme latine diminutivizzate che si sostituiscono alle forme non marcate, come in auricula, apicula, avicellus, genuculum, ovicula, ecc. Cfr. per es. Tagliavini (1972, 233): "Uno dei principali mezzi di rinnovamento del lessico Latino volgare è dato indubbiamento dalle derivazioni per mezzo di suffissi e dalle composizioni con prefissi. Non bisogna dimenticare che questo Latino volgare era specialmente una lingua parlata e familiare e nella lingua familiare sono frequenti le derivazioni diminutivali di carattere affettivo". Vedremo in seguito che può non essere casuale che molti di questi diminutivi in latino volgare siano nomi di parti del corpo o di animali, due settori lessicali tradizionali dei processi del BT.

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"gerade die Mehrdeutigkeit des Merkmals 'Kleinheit', das aufgrund seiner zahlreichen Bezugsmöglichkeiten sowohl in der semiotischen als auch der symbolischen Dimension des Zeichens einerseits im despektierlichen, ironisierenden Sinn und andererseits im affektiven, verniedlichenden Sinn interpretiert werden kann, gestattet es dem sprechenden Subjekt, sowohl seine Bedürfnisse nach Selbstrepräsentation als auch seine Ambivalenz der Objektwelt gegenüber einzubringen." (p. 180)438

Alla luce di quanto abbiamo appena osservato per il nostro caso specifico, sorgono quindi due domande generali. Quale deve essere stato il ruolo di varietà di BT nella nascita e, in secondo luogo, nella diffusione di questi diminutivi? E, secondariamente, ci si può chiedere se la diminutivizzazione non debba parte della sua popolarità al suo potenziale valore di 'enfatizzazione' di un elemento dell'enunciato?439

Se un'origine nel BT della tendenza alla diminutivizzazione è quanto meno plausibile440, andranno pure indagate le dinamiche che portano questi processi alla generalizzazione, con la perdita del carattere di varietà speciale indirizzata ai

438 Attualmente il processo di diminutivizzazione è al centro dei lavori che si occupano della costruzione di una teoria morfopragmatica e dai quali si ci possono attendere osservazioni interessanti anche per gli aspetti che ci interessano (cfr. Dressler - Merlini Barbaresi 1994).

439 Una spiegazione del genere del fenomeno, se vuole esser completa, dovrà tener conto di altri fattori, come per es. del fatto che in situazioni di apprendimento e acquisizione i morfemi diminutivali di solito vengono individuati molto presto (ciò che dovrebbe rendere più difficile un'ipotesi di agglutinazione con perdita dell'analisi morfematica), o del fatto che di frequente nel latino volgare si trovano mutamenti di suffissi (cfr. Tagliavini 1972, 233; questo fenomeno potrebbe far pensare ad una fase di 'regolarizzazione' con la generalizzazione del processo di diminutivizzazione concentrato su pochi suffissi più produttivi; quindi in ultima analisi ad una fase di forte diffusione e grammaticalizzazione del processo che precede la sua parziale lessicalizzazione in alcune parole derivate). Infine, in un'ottica più generale, l'eventuale valore di 'messa in evidenza' legato alla diminutivizzazione potrebbe essere inserito nell'ottica generale del passaggio all'ordine sintattico meno libero, quindi con minore possibilità di messa in evidenza mediante spostamenti dei costituenti.

440 Anche controesempi possibili, come la frequenza dei diminutivi nella lingua degli artigiani, sono talvolta ricondotti a meccanismi simili a quelli del BT. Cfr. per es. Mair (1992, 180): "Bemerkenswert ist auch der Gebrauch von Diminutiva in der Handwerkersprache, wie aus Vitruv hervorgeht: axicula, torulus, modiolus, etc., der sich aus der anthropomorphisierenden Bewertung des Werkzeugs (als modifizierte Hand) ergibt." Non abbiamo gli strumenti per verificare questa ipotesi esplicativa di Mair, ma nel nostro contesto essa è interessante.

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bambini. Questo problema si suddivide a sua volta in due sotto-tematiche. Qual è la mantenibilità di fenomeni di BT nelle varietà dei bambini stessi441? E in che modo i diminutivi possono desemantizzarsi con un processo di lessicalizzazione della parola derivata? Proprio in quest'ultimo senso il valore dei diminutivi come strumento morfologico di enfatizzazione potrebbe aver contribuito parzialmente alla desemantizzazione del valore diminutivale442. In chiusura di questa discussione sulla relazione tra uso di diminutivi e uso di parole di un'altra lingua vorremmo unicamente accennare al fatto che negli studi sull'argomento si è notata molto presto la sensibilità interlinguistica dei diminutivi. Basti per es. vedere i riferimenti che si ritrovano già in Weinreich (1953), che rimanda a lavori antecedenti di Schuchardt (1884), Pritzwald (1938), Rubin (1945) e altri ancora. La forte trasferibilità (e addirittura una forte tendenza al trasferimento) dei morfemi diminutivali costituirebbero così un momento di collegamento tra le lingue in gioco, e dato che l'affettività in genere è notoriamente una delle forze più importanti nei superamenti dei confini tra i codici, l'uso con una particolare intensificazione affettiva della diminutivizzazione diventa ancora di più un eccellente candidato per lo sfruttamento delle lingue 'compresenti'443. Nel nostro caso in particolare questo carattere sia di espressione di affettività che di strumento di messa in evidenza dei diminutivi fa sì che queste forme si presentino come particolarmente adeguate per 'far da ponte' anche tra la spinta funzionale della chiarificazione e quella della espressione di affettività.

441 Di questo problema parleremo più avanti quando ci occuperemo di quale sia il mantenimento effettivo delle parole italiane nel dialetto dei bambini che ricevono il particolare BT misto.

442 Il problema principale di una spiegazione diacronica di questo tipo è ovviamente quello di spiegare perché in alcuni casi ci sia stata una lessicalizzazione e in altri casi no.

443 Per concludere questa parentesi sui diminutivi vale la pena di notare che nonostante i bambini ne producano effettivamente parecchi già da molto piccoli, studi di elicitazione esplicita arrivano alla conclusione che la capacità dei bambini di costruire morfologicamente nuovi diminutivi non sembra essere particolarmente sviluppata (cfr. per es. Berko 1958 e Derwing 1976). Recentemente Svaib (1992) è ritornata sulla questione, arrivando alla conclusione che, a differenza di quanto osservato dagli studi precedenti, i bambini userebbero effettivamente molti diminutivi, oltretutto sia con valenze relative alla dimensione che anche relative alla affettività. La differenza tra dati da test e comportamento affettivo, secondo questa autrice, sarebbe legata al fatto che i diminutivi sono tipicamente associati al registro del BT, del quale costituiscono un marker, e nei test questa componente dell'uso viene trascurata.

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Ma nel campo dell'uso di parole italiane in dialetto per scopi di focalizzazione esiste un'altra tradizione molto importante. Nelle narrazioni è già da molto tempo solito riportare in forma italiana i titoli, citazioni, e, ancora più interessante per noi, momenti o personaggi importanti della storia. Quindi l'italiano viene utilizzato come strumento di 'messa in evidenza'.

4.2.2.2. L'italiano nelle narrazioni dialettali Data l'apparentemente improvvisa apparizione del fenomeno di cui qui ci occupiamo, è lecito chiedersi se sia possibile ritrovare altri elementi fondamentali che permettano di capirne la genesi (cercando se possibile di seguire la 'doppia pista' della datazione cronologica e della identificazione delle motivazioni dell'innovazione) e verificarne la datazione approssimativa che abbiamo proposto. Durante le interviste con adulti dialettofoni ho esplicitamente indagato anche i ricordi degli adulti relativi a comportamenti simili nella loro infanzia (per esempio chiedendo dei titoli di fiabe o altre storie sentite durante l'infanzia). Con forte regolarità, gli intervistati (specialmente quelli attorno ai quarant'anni) hanno prodotto titoli di storie in italiano (o italianeggianti)444, come per esempio la favola del

444 Le interviste si sono ovviamente svolte sempre in dialetto.

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Pastorello e il lupo, dove inoltre sia il pastorello che il lupo appaiono nelle narrazioni fornite nella forma italiana445. Gli stessi soggetti però ricordano comportamenti simili unicamente in relazione al raccontar storie della loro infanzia, ma negano che gli adulti abbiano utilizzato un BT non narrrativo misto. Fatte le dovute riserve sulla affidabilità della memoria e sui potenziali interventi di 'ricostruzione a posteriori' che si possono tendere a fare in questi casi, ritengo comunque fondamentale che i ricordi differenzino, per questo parametro, tra le narrazioni e altri tipi di testi ivolti ai bambini. Questa osservazione ha poi ricevuto un forte sostegno dalla pubblicazione da parte di Dario Petrini (1988a e 1990) di due narrazioni registrate nel 1982 con un'informatrice nata nel 1895, la quale "non usa praticamente mai l'italiano per la sua comunicazione quotidiana" (Petrini 1988a, 8). Uno degli scopi che motivano queste pubblicazioni è proprio quello di "dare un esempio del modo di raccontare

445 Il fatto che il titolo sia in italiano sostiene l'ipotesi che questi testi abbiano spesso avuto origine da traduzioni; il titolo concentra talvolta l'enfasi del testo sui personaggi e costituisce nel contempo uno strumento fondamentale di 'catalogazione' del testo (ne è quindi la 'forma di citazione'). In altri casi il titolo fornisce la sintesi della storia e i personaggi vi appaiono in italiano perché nel testo sono in italiano. Cinque dialettofoni ai quali ho chiesto di raccontare la favola di Cappuccetto rosso hanno tutti fornito una versione coerente con questa tendenza. E' categorico per esempio che si parli del lupo, che nella forma italiana diventa quasi un nome proprio (come dev'essere il nome di un personaggio principale), più che nome di una specie animale. Frequente è anche il fatto che al cacciatore si faccia riferimento proprio con la parola italiana nella prima menzione, quando cioè entra in scena, e che qua e là, più avanti nella narrazione, possa ridiventare al casciadoo. Agli stessi parlanti, non (ancora) consapevoli dei fenomeni di BT, ho poi fatto notare che la loro narrazione sembrava rivolta a bambini e ho chiesto loro di ri-raccontarla immaginandosi un pubblico adulto con il risultato che i fenomeni di cambiamento di codice si sono notevolmente attenuati pur non scomparendo del tutto. Questo dato farebbe pensare ad una particolarità dell'alternanza in termini di 'strumento di registro' quasi obbligatorio, con in pratica, per esempio, una contrapposizione tra il lüf come animale della realtà e il lupo come personaggio delle fiabe, per cui il referente 'reale' viene denotato con una lingua differente da quella usata per il referente 'fiabesco'. D'altro canto, raccontare la favola di Cappuccetto rosso ad un pubblico adulto crea notevoli difficoltà ai parlanti ( per es. nell'individuazione del destinatario possibile, dato che si può presumere che ogni parlante nativo adulto conosca questa favola). Le risposte ottenute tendono quindi ad andare molto sul 'concreto' e verso un registro che si potrebbe definire 'tecnico-riassuntivo', dove le componenti narrative più esplicite, come la costruzione delle aspettative, la strutturazione forte in sfondi e figure, ecc. vengono appiattite a favore di una versione riassuntiva che espone i fatti più che narrarli veramente.

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storie senza che il raccoglitore intervenga eliminando ripetizioni, incertezze, o italianismi da scartare in quanto 'corpi estranei'" (ibidem). Appaiono perciò

"numerosi italianismi [...], che lasciamo intatti volendo mantenere la spontaneità del racconto di una nonna ai nipoti coi quali parla di solito sempre in dialetto, italianismi relativi soprattutto ai personaggi (conte, servo, regina), a loro azioni e attributi (felici, minaciá, vendètta, cedüd, risolvüd, ricognossüda), ai luoghi (furèsta, gròta, cavèrna, per i quali sarebbero forse stati possibili altri sinonimi dialettali), elementi cardinali del racconto, e inoltre scopiád, sempre, spetava (accanto al locale speciava), lingua, davero, capra, caprètta, tazza, guarda per s'ciopád (forse però meno applicabile a "guerra"), sempru, lengua, dabón, cavra, cavreta, scüdela o squèla, varda ..." (Petrini 1988a, 9)

Non possiamo non pensare al fenomeno da noi notato nel parlare non narrativo ai bambini davanti a frasi come la guarda föra la ved una capretta ch'a vegneva gió a cursa, o e la gh'ra racumandada a n sèrvo, o, per finire, na volta gh'eva n conte. Altri passaggi sono di tipo differente e tradiscono chiaramente l'origine italiana della narrazione (ben documentata poi da Petrini 1990), come tipicamente nei passaggi di discorso riportato:

"... e l gh'a dii: uh! uh che paura! / a- alontanati da mè / quela lì la s'a faia nnanz / l'a dii: / o sigifrido sèi tornato, quaicoss inscì / e lüü l s'a tirád indré l gh'a dii: allontanati da mè, spèttro / che mi fai paura / e lee la gh'a dii: nò non sono uno spètro, sono la tua genoèffa / sono la tua genoèffa // guarda, guarda, riconóscimi, guarda l'anello che ò nel dito, ..." (Petrini 1988a, 10)

Se questi inserti sono vere e proprie citazioni riteniamo invece che i casi di singole parole visti sopra vadano ritenuti simili alle forme di BT dialettale, se non nell'origine (che rimanda anche in questi casi molto probabilmente alla fonte italiana), almeno nelle motivazioni del mantenimento che sono essenzialmente quelle del valore evocativo o enfatico della variante italiana. Nell'elenco di Petrini non si notano unicamente forme italiane ma anche forme italianeggianti, cioè varianti dialettali dovute probabilmente alla dialettizzazione di forme italiane. Fenomeni di questo tipo di avvicinamento al livello inferiore a quello della parola, che erano difficilmente individuabili nei nostri primi rilevamenti di BT (perché nel parlato normale dei nostri adulti si ritrovavano già

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forme simili italianeggianti e quindi era praticamente impossibile attribuirle al registro speciale, a differenza invece delle vere e proprie parole italiane che caratterizzavano tipicamente quest'ultimo), hanno, come vedremo, attualmente assunto una nuova valenza con l'entrata in scena di fenomeni fonologici di italianizzazione che non si ritrovano nelle varietà colloquiali normali, e che tendono linee di possibile transizione o avvicinamento tra italiano e dialetto. Almeno a livello di letteratura popolare la convivenza di italiano e dialetto è da considerare perciò non solo di origine remota in parlanti che pur si possono definire esclusivamente dialettofoni (magari anche a sostegno di una origine molto precoce della diglossia, come proposto da Bianconi 1989), ma anche ben distribuita, con ruoli stabili e funzionali dei due codici all'interno dei registri narrativi. A proposito della lingua delle narrazioni fiabesche tradizionali, Sanga (1984, 256) riporta una osservazione di Imbriani:

"Il dialetto che vi è usato è molto simile a quello d'uso quotidiano, ma appare 'nobilitato' sul piano lessicale dalla predilezione per alcuni termini che diremo 'aulici'. Così, invece del normale coo [= cuu] è usato di preferenza testa, invece di ancamò è usato ancora, invece di stremì compare spaventa."

In genere, questo fenomeno può allora essere considerato il risultato di una lunga tradizione di distribuzione complementare tra parlato e scritto, con probabilmente una tradizione di trasmissione delle narrazioni scritte riferite in forma orale da parte di alcuni narratori alla maggior parte della popolazione. Rimane comunque la domanda del perché vengano mantenute alcune forme italiane e solo quelle. Questa domanda può trovare risposta solo nella definizione più precisa dei ruoli delle lingue e non può essere liquidata con la semplice spiegazione di una fonte scritta italiana. I parlanti avrebbero infatti facilmente potuto tradurre le parole nei corrispondenti 'normali' dialettali, se invece mantengono la forma italiana o italianeggiante non è perché stanno ripetendo la storia così come l'hanno sentita e memorizzata anche a livello di forma, ma piuttosto perché cercano di ricreare l'effetto narrativo che loro stessi hanno vissuto sentendo o leggendo la storia (riproducento inoltre alcune delle caratteristiche salienti del ruolo del 'narratore tipico'). Sono dunque fondamentali effetti stilistici caratteristici della categoria dei prestiti interlinguistici, come per esempio una maggiore biunivocità significato-significante (si veda quanto detto sopra a proposito de il lupo).

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La motivazione principale consiste perciò in un ben preciso effetto narrativo che, da un lato, ha le sue radici in (e dà origine a) un fenomeno di 'polifonia' della narrazione. Il narratore mantiene il suo riferimento alla fonte, ne è un semplice enunciatore, rappresentante di un'entità sovrastante (il corpus narrativo della comunità) e cita con le parole della 'fonte'446, e dall'altro lato caratterizza il genere particolare con una sua propria 'varietà narrativa'. A questo proposito è interessante ricollegare il fenomeno in questione ai comportamenti tipici delle situazioni bilingui, in cui il discorso riportato è una delle cause più classiche di deviazione dal comportamento normale di scelta di lingua447 (cfr. per es. Saunders 1988, 91-98). A questo proposito si noti, nella narrazione della "Santa" Genoveffa (Petrini 1988a), che le uniche frasi interamente in italiano del testo sono quelle del discorso diretto dello scambio tra Sigfrido e Genoveffa448. Dall'altro lato, la forma 'deviante' mette l'accento sul referente al quale si ricollega, creando a livello narrativo effetti di 'messa in evidenza', enfasi (giustamente Petrini 1988a, p. 9, parla di "elementi cardinali del racconto"449), e di 'particolarità' del referente, quali per esempio l'attribuirgli un carattere di 'unicità', che in un secondo tempo può prestarsi ad essere visto come 'forma di citazione' del concetto. Un valore, in questo senso, molto vicino a quello che abbiamo visto essere alla base dell'uso dell'italiano nelle interazioni con bambini. L'uso dell'italiano è molto spesso collegato in questi casi ad un effetto di rallentamento della narrazione e la forma italiana non è estranea a questo effetto. Molte delle caratteristiche fonetiche che distinguono parole italiane da quelle dialettali portano nelle prime ad una maggiore corposità fonica, e si può così creare una relazione simile a quella tipica tra forme allegro e forme lento, per cui l'uso della

446 In questo ricollegarsi ad una 'saggezza popolare' vi sono quindi 'due tradizioni', quella del dialetto, con i suoi proverbi e modi di dire a volte in una varietà più arcaica, e quella dell'italiano, con il suo ricollegarsi ad una cultura più ampia e probabilmente almeno in parte 'fantastica'.

447 Si tratta anche di un parziale fenomeno di 'imitazione'.

448 Anche in Saunders il cambiamento di codice è di solito provocato dal discorso diretto, mentre nel discorso indiretto vi è più la tendenza a adattare anche nel senso della scelta di lingua e si tende a riferire senza cambiare lingua rispetto al discorso non riferito.

449 Sanga (1984, 259) cita Sordi secondo il quale le inserzioni italiane nelle narrazioni fiabesche tradizionali hanno lo scopo anche di "caratterizzare un momento culminante".

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parola italiana nel testo può riavvicinare la stessa alla forma dialettale creando una specie di relazione tra forma di base e forme superficiali. Che il fenomeno possa essere generalizzato in situazioni simili a quella di cui ci stiamo occupando (cioè di 'riduzione dei registri' di lingua) è rivelato per esempio anche dagli studi di Tsitsipis sulla convivenza di greco e Arvanítika (la varietà di albanese parlata da una minoranza in Grecia450):

"Furthermore, fluent Arvanítika speakers use both languages as symbolic resources for strategic interaction; that is, they switch code situationally and metaphorically, and the manipulation of synonymous expressions serves the purposes of evaluation in narrative performances". (1989, 119)451

Se pensiamo al ruolo che le narrazioni hanno avuto e hanno nelle interazioni con i bambini è facile vedere il collegamento tra il fenomeno attuale di cui ci stiamo occupando e l'uso dell'italiano o di forme italianizzate nelle narrazioni. Pur non presupponendo una discendenza diretta di un fenomeno dall'altro (tant'è vero che il secondo è documentato ormai da moltissimo tempo, mentre il primo, se la nostra analisi è corretta, è relativamente recente) è senz'altro sostenibile che l'uno abbia preparato il terreno all'altro distribuendo in modo adatto al nuovo uso i valori d'impiego delle due lingue.

450 Tra le caratteristiche che rendono per noi interessante questa varietà dobbiamo senz'altro segnalare la presenza di quelli che Tsitsipis chiama terminal speakers, cioè parlanti che mostrano specificità sia linguistiche che extralinguistiche simili a quelle dei semi speakers della Dorian, sia il fatto che l'Arvanítika sta subendo un processo di intensa rilessicalizzazione nella direzione del greco.

451 Lo stessso fenomeno appare in un'altra situazione per certi aspetti simile alla nostra, quella del contatto tra creolo e inglese standard a Trinidad e Tobago. Si confronti a questo proposito la seguente osservazione di Youssef (1996, 6): "... towards the end of the study, at age 4;0, K developed the use of standard English for narrative, to the extent that it overrode his tendency to make addressee relationship the only social-psychological motivation for shift. It seemed that the early use of standard English forms in telling stories like Jack and the Beanstalk was motivated by his having heard them first in his standard English demanding nursery school and having made an associative link between school talk, stories, and the standard English code." Altre osservazioni sui rapporti tra italiano e dialetto nelle narrazioni si trovano nel capitolo dedicato ai 'bambini parlanti evanescenti' (dove lo stesso problema e le stesse tendenze emergono nonostante il punto di osservazione differente).

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Inoltre il collegamento tra questo fenomeno e l'uso dell'italiano come lingua dei giochi di fantasia è più che esplicito nel risultare di entrambi dalla configurazione fine della diglossia (pur mantenendo il punto di vista che si tratti piuttosto di 'poligenesi' che di 'discendenza diretta', ciò, tra l'altro, per l'intervento di nuovi 'strumenti della fantasia', primo tra tutti la televisione, che hanno incrementato questo uso ludico dell'italiano nei bambini). Le 'solidarietà d'uso' con il BT misto sono perciò indubbiamente parecchie, basti per esempio pensare ancora all'uso dell'italiano come strumento per attirare e focalizzare l'attenzione dell'interlocutore. Quanto visto, in fondo, tocca anche la forte problematica delle commutazioni di codice nei nativi, che, come abbiamo visto, sono incrementate notevolmente negli ultimi anni. Tra tutte le motivazioni alla commutazione di codice qui in particolare ci interessa unicamente quella in cui il cambiamento è motivato da funzioni simili a quelle che si ritrovano nel BT. In particolare a funzioni con motivazioni metalinguistiche. Sono particolarmente interessanti forme come difatti (chiaramente non degeminata), che si ritrovano anche nel parlato di nativi proprio con questo valore di 'segmentazione' del discorso, di forma enfatica, che però ha anche un valore 'metalinguistico' e quindi meno legato alla scelta di forma.

4.2.3. Antecedenti espressivi

4.2.3.1. L'espressività dell'italiano e dello 'pseudo-italiano' E' nota la linea di sfruttamento del fondo dialettale da parte dell'italiano per scopi espressivi. Si tratta della cosiddetta 'linea espressiva' che nella letteratura, secondo una felice formulazione, ricollega Folengo a Gadda. Lo sfruttamento del dialetto per questo scopo è chiaro e coerente con le attribuzioni di valore che di solito si danno ai due codici e soprattutto al dialetto, ritenuto lingua informale, espressiva, del comico, delle emozioni, ecc. Meno nota è probabilmente l'esistenza nella quotidianità dialettale di una tendenza simile all'uso dell'italiano nel dialetto per lo stesso scopo espressivo. Questa seconda linea è apparentemente meno coerente con i valori prototipici della lingue, ma presenta comunque una sua coerenza e chiare motivazioni.

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Già Salvioni (1975, 10), a proposito di alcune conservazioni della vocale finale, osservava con ammirevole chiarezza (interpretando perfettamente la matrice del fenomeno):

"tale presenza ha ragioni psicologiche. Troviam cioè la vocale in parole esclamative, imprecative, magnificative, spregiative, ingiuriose, nelle quali la forma letteraria ha qualcosa di elativo di solenne; per quanto poi il lungo e abbondante uso ne abbia a poco a poco scemata l'efficacia."

Lurati (1976, 86), tornando sull'argomento, nota che:

"Dall'italiano anche la -o/-u enfatica di pulito, -u: l'a pròprii fa pulito, detto di lavoro ben eseguito, fa i tò ropp pulito e ta saré content, fa bene il tuo lavoro e sarai contento; e i tò, i sta tücc pulito?, e i tuoi, tutti bene? qui anche le forme emotive del participio passato di Poschiavo: normalmente esso esce in -u (levú, guardú), per l'enfatizzazione ricupera però l'it. -atu (levátu, guardátu: al s'è levato sü e l gh'è saltù adòss; al s'è massacratu, detto di bambino uscito dal sentiero e precipitato da un burrone). Analogamente a Chiasso: l'è strepenato, detto di 'persona povera, piena di debiti' in opposizione a strepenaa 'spettinato'."

E, per finire, Lurà (1987, 43 n. 4, e 122) segnala accanto alla conservazione di -o finale e al participio anche il suffisso -óni, che viene definito 'enfatico' in contrasto con il normale plurale in -ún (tra gli esempio citati da Lurà, mangióni, zücóni, bruntulóni)452. Ciò che però rende ancor più interessanti questi casi è che tra di essi si possono trovare pseudo-italianismi, cioè parole ricostruite su una ipotetica forma italiana, che però non corrisponde del tutto alla parola italiana. L'effetto enfatico viene allora veicolato da un 'incremento esagerato' dei possibili tratti italiani. Così l'esempio già visto di pulito può conoscere una forma ancora più enfatica (che diventa allora ironica) in pulitto, con un raddoppiamento chiaro della t (o anche polito, con un'altra applicazione errata di una regola di corrispondenza). La nostra opinione è che allora più che il prestito vero e proprio dall'italiano ciò che conta, e ciò che è avvenuto, in questi casi 'enfatici' è l'adozione di procedimenti 'simil-italiani', cioè l'estrazione di caratteri tipici dell'italiano (che distinguono solitamente in modo

452 A p. 122 Lurà dice che si tratta di casi in cui "è presente, nell'enunciato, una partecipazione affettiva". Alla stessa pagina riconduce a questa matrice anche forme come sciuri e vilani, ricollegandole pure ad un probabile influsso italiano.

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forte i due codici tra loro) che vengono applicati a parole dialettali (con esiti che possono anche essere divergenti da quelli della lingua italiana). In breve, accanto alla componente parziale del prestito entra in gioco un'altra componente fondamentale, costituita da regole dialettali di enfatizzazione che si fondano su tratti strutturali di differenziazione tra italiano e dialetto e sui valori sociolinguistici delle lingue in gioco453. Dato che l'intenzione dell'utente, enfatica o ironica, non coincide però perfettamente con il valore dell'italiano nello schema di diglossia (che è lingua alta, enfatica sì, ma non dell'enfasi ironica tipica dei contesti informali in cui queste parole sono usate), è d'altronde 'normale' che il procedimento non sia quello del prestito ma piuttosto quello di una sovramarcatura. Dunque una specie di iper-italianizzazione, dove l'incremento esagerato del significante veicola un incremento esagerato (l'enfasi e l'ironia appunto) del significato. L'applicazione errata di regole di corrispondenza è quindi voluta e si ricollega iconicamente al valore emotivo della parola454. E' presumibile che questo procedimento abbia caratterizzato tutta la storia della convivenza di italiano e dialetto (e prima ancora del latino e dei volgari: anche qui la lista delle voci latine con valore enfatico o ironico potrebbe essere assai lunga). Dario Petrini (comunicazione personale) mi ha fatto notare la presenza di voci come per esempio caldonazo ("caldo grande", detto in Val Verzasca) già nel vocabolario del Monti. Le procedure che sono alla base di questi fenomeni sono ancora in attesa di una appropriata verifica e definizione, ma, come abbiamo detto, sembra che le loro modalità vadano ben al di là del semplice prestito dall'italiano e tendano talvolta nella direzione di processi 'autonomi' di enfatizzazione, sulla base

453 Sulla pseudo-italianizzazione ci sarebbe molto lavoro da fare. Molte delle trasformazioni che si ritrovano si basano infatti su pseudo-regole molto generiche come per esempio quella che, considerando una struttura preferenziale di parola italiana (soprattutto non ossitona, e secondariamente non monosillabica: ciò che fa sì che i monosillabi tonici dialettali vengono sentiti come frutto di troncamento della sillaba atona finale) trasforma il dialettale l'è burlaa gió in è burlato giurro. Questo esempio specifico è (o era) molto usato nelle caricature del dialettofono tipico che parla italiano, ma mi è capitato di sentirlo effettivamente produrre da un bambino dialettofono di quattro anni che stava giocando in italiano (ed è poco probabile che si tratti di una ripresa da input caricaturale).

454 Si tratta dunque di un fenomeno 'morfopragmatico', e ancora una volta si verifica una similarità tra morfologia intralinguistica e regole di corrispondenza.

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di valori attribuiti nel dialetto a varianti linguistiche differenti. Si tratta quindi qui di approfondire quali siano i fenomeni di ripresa dall'italiano, quali quelli di 'pseudo-italiano' e quali invece (se ve ne sono stati) quelli di settori della competenza unicamente dialettale che sono andati persi. Le linee attraverso le quali il fenomeno si muove sono quelle già identificate da Salvioni. L'autorità della lingua italiana costituisce il motivo scatenante dell'uso di queste forme, ma questa autorità viene reimpiegata a scopi ironici, causando un effetto cumulativo. In questo modo l'oggettivizzazione (espressa attraverso l'autorità collegata alla lingua italiana) e la soggettivizzazione (che veicola l'espressività del locutore) vengono ad essere espresse con la stessa tecnica. Diventa così chiara una delle dinamiche secondo le quali la varietà formale, 'alta', col tempo, può passare ad assumere il valore di varietà 'affettiva'. Nel caso del BT, più specificamente, l'espressione di affettività passa attraverso un'intenzione 'intermedia' di attenzione per il bambino, per cui parlare a quest'ultimo in un modo ritenuto più facilmente comprensibile esprime un interesse ed una benevolenza che si associano a condizioni di affetto verso di lui.

4.2.3.2. Gli eufemismi Ci si può chiedere se vi siano parole legate all'infanzia entrate già nei decenni precedenti nella competenza dialettale nella forma unicamente, o primariamente, nella forma italiana. Per indagare questa problematica ho affrontato l’argomento specifico con un micro-campione di informatori (20 persone tra i quaranta e i settant'anni455). L’inchiesta, sotto forma di domande orali che facevano da base per una mini-intervista, chiedeva di formulare il termine dialettale che le persone ricordavano dalla propria infanzia per alcuni oggetti tipicamente legati alla sfera infantile (per i quali, nella mia varietà non possedevo un termine dialettale vero e proprio). Il risultato conferma in buona parte le mie intuizioni, dato che tutti gli intervistati mi hanno fornito risposte omogenee sui termini che mi sembravano 'più solidamente' italiani. Primo tra tutti, e quasi paradigmatico, è vasetto (nel senso di

455 Il campione è ovviamente molto ridotto, ma l'omogeneità delle risposte può essere adottata come una scusante sufficiente di questa mancanza. Le persone considerate non appartengono alla mia cerchia famigliare, e provengono tutte da famiglie differenti.

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”vaso da notte, pitale del bambino”), che presumibilmente deve far parte in questa forma del BT dialettale a partire almeno dal secondo dopoguerra. Si deve notare che vasetto non figura tra i materiali del VSI456, nei quali non si ritrova nessun altra alternativa che si possa considerare aver carattere di BT. Le forme registrate rimandano a pitale, orinario, ecc., e sono tutte attualmente sentite come poco 'affettive'. Si può pensare che si sia trattato di un oggetto 'nuovo', entrato nella cultura portando con sé la parola nuova, ma resta comunque interessante l’uso della forma italianeggiante non adattata457. Un'altra di queste forme con un forte uso generalizzato è culetto o, in una variante dialettizzata, cületto (o anche cületo). Una differenza fondamentale tra vasetto e culetto rispetto ad altri casi di italiano nel dialetto è che in questi due termini non si tratta, come nei fenomeni attuali che abbiamo discusso sopra, di inserzioni provvisorie, di 'commutazioni di codice' (o 'style shifting', se si preferisce un'ipotesi di 'inglobazione' già avvenuta di queste strutture in dialetto), ma di parole senza concorrenti dialettali in vigore. Se queste due parole sono tra le prime italianizzate usate specificamente con i bambini, possiamo allora ipotizzare un'altra funzione particolare dell'uso dell'italiano con il dialetto. Ci possiamo infatti chiedere perché queste parole e non altre e la risposta non potrà non tener conto del fatto che si tratta di parole con sfondo eufemistico458, e conseguentemente particolarmente legate a zone tipiche dell'espressività. Anche in questi casi abbiamo dunque avuto una reinterpretazione di un valore particolare come forma normale. Quando la motivazione specifica originale perde di forza queste forme vengono amalgamate in un generico uso dell'italiano come 'varietà BT'. In questo caso il valore originario particolare,

456 Altri elementi emersi dal questionario sono per es. cavàl a dóndolo e patüsc, che è sentito come più riferito ai vecchi pannolini di stoffa ed è sostituito da pannolino per i pannolini usa e getta.

457 Può aver influito anche l'intenzione di evitare l'omonimia con vasett ("piccolo vaso"), ma indipendentemente da ciò la forma italiana viene accetta per scopi comunicativi e in parte anche espressivi (violando una delle regole di adattamento più produttive, quella della caduta di -o finale, anche in nel suffisso -etto).

458 La frequenza del mutamento in zone di eufemismo è un dato noto della ricerca linguistica, anche per situazioni molto differenti dalla nostra (si veda per es. anche il caso del Malayalam discusso da Kala 1977, che oltre che degli eufemismi parla anche dei nomi di parentela, un altro settore tipico del BT).

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eufemistico o 'tecnico'459, facilita il passaggio sulla base della ripartizione funzionale degli usi delle lingue che prevede che l'italiano abbia appunto un maggiore potenziale di questo tipo. Questi casi di parole che anticipano il fenomeno mostrano come nell'origine dello stesso possa aver agito anche una componente di 'diffusione lessicale', per cui l'uso è apparso dapprima in alcune parole, in cui esso era particolarmente motivato, per poi generalizzarsi in un secondo momento ad altre occorrenze meno motivate specificamente, sulla base di regolarità che gli utenti avrebbero sovraesteso, dando allo stesso fenomeno valenza discorsivo-pragmatica (a sfondo fonologico) e rendendolo produttivo. Se questi fonti di datazione indiretta sono accettabili, possiamo allora pensare ad una prima, leggera, accelerazione del fenomeno, con riferimento diretto ai bambini, attorno al secondo dopoguerra, probabilmente con l'aumento, o il rinnovarsi, dei contatti con l'Italia. Si pensi per esempio alla crescita della diffusione della stampa scritta italiana in Ticino a partire dagli anni '50 (e in particolare alla pubblicistica femminile). Queste pubblicazioni sono un filone importante di contatto 'sotterraneo' con l'Italia460, indipendentemente da quelli che potevano essere gli atteggiamenti dei ticinesi verso l'Italia nelle varie fasi storiche461. Se poi si tiene conto del fatto che per esempio le ninne nanne tradizionali dialettali sono al giorno d'oggi in larga parte scomparse, si può concludere che già negli anni '50 si era avviato questo processo di mutamento nel genere folclorico.

459 La distinzione tra 'eufemismo' e 'espressione tecnica' come strumenti differenti di 'attenuazione di un'entrata nella faccia dell'interlocutore' è stata lucidamente colta da Robin Lakoff nel suo famoso articolo sulla logica della cortesia (cfr. Lakoff 1973). Potremmo dire che l'espressione tecnica più che 'nascondere' il lato 'censurabile' dell'espressione, come fa invece l'eufemismo, lo neutralizza connotandolo come non pertinente per il discorso in corso.

460 'Sotterraneo' nel senso che aggirano quelli che potevano essere gli atteggiamenti dei ticinesi verso gli italiani, costituendo delle 'comunità trasversali' in cui ci si può identificare a scapito delle prescrizioni culturali di differenziazione (fino alla xenofobia). Si creano così delle solidarietà di interessi e convergenze di vario tipo tra lettrici e lettori italiani e ticinesi.

461 Quanto si può così osservare mostra allora, su un piano teorico, come gli atteggiamenti dei parlanti possano essere 'sabotati' dallo schema culturale in cui essi si muovono, al punto da comportarsi in modo contrario a quello che credono di fare.

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Considerando che anche l'altro grande genere per bambini, le filastrocche, erano in declino e ricollegando questi fatti all'ipotesi di Bruner (1983) che considera fondamentali questi 'testi' per la socializzazione e lo sviluppo del bambino, ci si può chiedere in quale momento storico l'italiano, pur rimanendo 'lingua matrigna' per gli adulti e per i bambini diventati adulti, sia diventato 'lingua balia' per i bambini dialettofoni (che allora, esagerando questa visione, sarebbero stati solo in un secondo tempo 'ri-nativizzati' nella loro vera lingua materna, il dialetto). Questa immagine individua perciò un profondo bilinguismo italiano-dialetto che ha caratterizzato molto presto nel tempo storico e molto precocemente nelle fasi evolutive individuali i bambini ticinesi. E' noto inoltre come il mistilinguismo sia centrale nelle canzoni tradizionali. Chiunque scorra raccolte di canzoni popolari si trova di fronte, anche in raccolte precoci, a notevoli fenomeni di bilinguismo462 e l'italiano appare quindi ancora una volta primariamente come strumento di variazione e secondariamente come strumento di espressività (cfr. per es. le osservazioni in questo senso di Sanga 1984, oppure, per quanto riguarda noti esempi in materiali ticinesi, le raccolte di Pellandini 1911 e Todorovic-Strähl 1987). Cortelazzo (1972), volendo ridurre l'importanza data da altri ai canti popolari come "catalizzatori di correnti linguistiche unitarie", fa notare che "l'amalgama di elementi eterogenei (nei motivi e nei metri, oltre che nella rima) è sempre imperfetta, provvisoria e superficiale" (1972, 20-21), e segnala come talvolta le varianti siano addirittura poco localizzabili, con intrecci di differenti matrici regionali. Ciò sfocia nel risultato per noi interessante di una parziale perdita dei confini tra italiano e dialetto, e di indebolimento delle norme linguistiche nella canzone, con la creazione di una tradizione di forme di transizione463. Infine, in un quadro più generale della socializzazione in situazioni di diglossia occorre notare che i micro-testi rivolti ai bambini sono probabilmente uno dei punti più precoci di intersezione delle due lingue o varietà in gioco. Infatti molti elementi della cultura egemone, per es. sotto forma di canzoni, indovinelli e giochi, entrano facilmente a convivere con i corrispondenti testi della lingua tradizionale, in virtù del loro essere in parte testi popolari o popolarizzati che mettono a

462 Bilinguismo che talvolta può anche esser stato nella realtà superiore a quanto presentato dai raccoglitori, che spesso hanno epurato dai testi i tratti italiani.

463 Interessanti in questo senso sono anche le osservazioni che si ritrovano in Savoia (1988) proprio relative ai generi specificamente dedicati ai bambini.

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disposizione dei caregivers strumenti adeguati per le loro necessità con in più il vantaggio di un apporto di innovazione nel repertorio (pensiamo solamente a quante canzoni del Festival di Sanremo o dello 'Zecchino d'Oro' sono state utilizzate come ninne nanne accanto ai testi tradizionali dialettali; ma il fenomeno ha una tradizione molto più antica, con un chiaro effetto di diffusione di varianti sovraregionali). Un altro punto che deve esser tenuto presente riguarda il probabile statuto 'neurologico' particolare di queste forme particolari rivolte al bambino (cfr. Berko-Gleason 1982), che sembrano essere immagazzinate in modo particolare nel cervello (forse addirittura con un 'doppio immagazzinamento'). Questa sarebbe la base neurologica del fatto che essi da un lato sono tra i primi elementi della lingua a essere adottati dai parlanti, e dall'altra parte essi sono spesso stati indicati come gli ultimi elementi che sopravvivono nelle situazioni di morte di lingue (v. per es. Dressler 1977). Una parte importante del BT, godendo delle stesse caratteristiche, fa sì che esso sia nel contempo un registro 'conservativo' (come ha fatto notare Ferguson) che un registro 'innovativo' nel contatto. Lo stesso fenomeno avviene con le 'lingue rituali', che sopravvivono per la loro particolare collocazione sociolinguistica, ma che nel contempo, per fare ciò, si servono di tecniche particolari da un punto di vista neurologico e tipiche della funzione poetica del linguaggio464.

4.2.4. Il ruolo delle aspettative riguardo al comportamento dei bambini Una motivazione che frequentemente i genitori stessi forniscono nei casi di cambiamento di lingua è quella secondo la quale essi cambierebbero lingua perché questo rispecchia le preferenze dei bambini o perché i bambini stessi parlano in questo modo. Nel nostro caso vorrebbe dire che gli adulti usano l'italiano perché questa è la lingua preferita dei bambini. Normalmente però la forma particolare mista di BT che stiamo discutendo viene utilizzata anche con bambini che non parlano ancora, per i quali quindi non sono ancora osservabili preferenze individuali. Dobbiamo però tener conto di un fattore particolare in questi casi. I bambini infatti non nascono come individui sociolinguisticamente 'neutrali': a loro vengono

464 Invece le varietà informali-colloquiali del dialetto si conservano parzialmente fornendo elementi para-gergali e informali all'italiano (cfr. Radtke 1990); nei casi estremi esse sopravvivono quindi come 'serbatoi di variazione' fornendo alcuni elementi lessicali alla lingua che li sta sostituendo.

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attribuite preferenze linguistiche, addirittura prima che inizino a parlare. Il loro comportamento viene perciò interpretato alla luce di queste preferenze e i patterns culturali sui quali le proiezioni di preferenza si sono sviluppate vengono in questo modo rinforzati (con un bell'esempio di profezia che si autoadempie). Il generale comportamento di interpretazione delle azioni dei bambini, tipico pure della nostra cultura, dove si possono spesso vedere adulti dialogare con bambini anche di uno o due mesi attribuendo loro intenzioni che è poco probabile che abbiano, viene così esteso anche alla scelta di lingua. La letteratura etnolinguistica si è riempita negli ultimi anni di esempi di proiezioni interpretative di questo tipo. Ne basti uno, ricavato da Ochs (1988, 159)465. A Samoa gli adulti ritengono che i bambini, detto molto semplicisticamente, non si sanno controllare, non si sappiano comportare socialmente. E possono perciò fare molte cose che agli altri individui non sono permesse. Coerentemente con ciò le madri samoane dichiarano che la prima parola detta dai loro figli è tae (che, per mantenere le connotazioni, dovremmo tradurre in italiano con "merda"), detta non per fare riferimento ma per puro 'parlar male'. E' facile, infine, e direi quasi normale, che i bambini siano visti come i 'parlanti di domani', e se gli adulti prevedono un cambiamento di lingua è perciò normale che essi attribuiscano ai bambini, già prima che questi comincino a parlare, una preferenza per la lingua che sta guadagnando terreno sociolinguistico. In questo modo si crea, e si rinforza nel contempo, anche la credenza che i bambini capiscano meglio questa lingua, che di conseguenza verrà utilizzata per compiti chiarificativi e per compiti di esplicitazione metalinguistica. Uno dei migliori esempi di mutamento del repertorio linguistico attraverso registri speciali indirizzati ai bambini (e in ultima analisi attraverso la proiezione di aspettative da parte degli adulti) è quello di un villaggio di Papua-Nuova Guinea, il villaggio di Gapun, studiato in modo esemplare da Don Kulick (1990)466. Questo autore ha potuto dimostrare come il passaggio dalla lingua locale, il Taiap, alla lingua sovraregionale, il Tok Pisin, si fonda essenzialmente sulla convinzione da parte degli adulti che questa seconda lingua sia quella da preferire con i bambini

465 Sul caso di Samoa, il cui studio da parte di Elinor Ochs ha costituito un momento fondamentale delle ricerche sulle varietà rivolte ai bambini, torneremo in modo pìù approfondito in seguito.

466 Un mutamento con dinamiche simili era già stato presentato anche da Scollon e Scollon (1979).

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(perché più semplice467 e per altri motivi coerenti con la cultura di questa comunità) e quella che i bambini preferiscono. La conseguenza è che i bambini non parlano quasi più Taiap e gli adulti se ne meravigliano e fanno fatica a vedere il loro ruolo in tutto questo468. Quindi con i bambini c'è la possibilità di forte innovatività: sono 'interlocutori nuovi', con i quali il comportamento linguistico non è strettamente prefissato e con i quali si deve negoziare la nuova situazione comunicativa. E' piuttosto con i genitori e nelle 'famiglie assestate' che sussistono 'imprintings' di tipo emotivo, non con i figli piccoli. In margine, possiamo poi osservare che, contrariamente a quanto si può pensare, l'uso di una lingua non nativa (o differente da quella della propria socializzazione, come probabilmente nella maggior parte dei nostri casi) con i bambini è relativamente poco problematico. Infatti si soddisfano molti compiti routinici (caratterizzati spesso da un certo grado di idiomaticità, com'è peraltro tipico del linguaggio 'privato' delle famiglie), dove la fluenza di un parlante non nativo può essere esattamente uguale a quella di un nativo, e dove quindi il parlante è relativamente poco inibito dalla mancanza di confidenza con la lingua ‘non nativa’. Inoltre, se l'atteggiamento affettivo di base (e verso la lingua usata) è positivo non

467 La credenza che pidgin e creoli siano più semplici è molto diffusa nelle comunità che ne fanno uso. Il loro vantaggio di semplicità può rivolgersi sia verso la lingua locale che stanno sostituendo (come nel caso discusso da Kulick) sia verso la lingua lessicalizzatrice (in situazioni di continuum post-creolo), come è per es. ben rivelato dalla seguente affermazione di un parlante di Haiti (citato in Valdman 1978, 322): "Les enfants doivent parler le français aux parents, même si les parents parlent créole. Quand les enfants commencent à parler, c'est le créole; quand on est tout petit c'est le créole qu'on connait, mais quand on a quatre ou cinq ans on commence à parler français jusqu'en grandissant. Ici, on a fini avec le créole parce qu'on va en classe, on continue avec le français. On défend de parler le créole."

468 Un altro esempio di dinamiche complesse e comportamenti non consci che influiscono sull'apprendimento bilingue dei bambini è quello relativo a famiglie haitiane domiciliate a New York presentato da Schieffelin (1994).

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sarà la lingua a creare turbe psichiche, come dimostrano i numerosi casi di genitori che hanno socializzato i propri figli in una lingua non nativa per i genitori stessi469.

4.2.4.1. L'italiano come lingua dei giochi Ci si può però chiedere se al di là di queste proiezioni vi siano anche nel nostro caso specifico comportamenti effettivi dei bambini che possono sostenere i genitori nella credenza che l'italiano sia la lingua preferita. Un caso di questo tipo può essere rappresentato dall'uso che i bambini fanno dell'italiano nei giochi di finzione. In molti casi l'italiano ha assunto un ruolo di 'lingua dei mondi inventati', forse perché in fasi prescolastiche esso appare molto spesso con valore 'controfattuale', come per es. come lingua dei telefilm e della televisione in genere, ma prima ancora come lingua delle narrazioni scritte e lette dagli adulti. La generalità di questo fenomeno in situazioni di diglossia è ancora tutta da indagare, ma le segnalazioni negli ultimi tempi si sono moltiplicate. Per esempio si osservano distribuzioni dello stesso tipo in bambini svizzero-tedeschi (con lo Hochdeutsch lingua dei giochi di finzione) e si può interpretare in questo senso anche la seguente affermazione di Sieber e Sitta (1986, 100):

"Eher positiv wirkt auch, dass die Standardsprache in der ersten Zeit [...] in der gesprochenen Form oft in spielerisch bestimmten Situationen Verwendung findet."

Fenomeni simili si hanno per es. anche nel norvegese, con il Bokmal, la varietà alta, usata anche nei giochi dei bambini, e specialmente nei giochi di ruolo con ruoli alti e in situazioni in cui si voglia dare maggiore autorità ai personaggi (cfr. Larson (1985).

469 Si veda per es. il caso di Saunders (1988), un linguista australiano, figlio di genitori monolingui anglofoni, che, in Australia, ha educato i figli in tedesco (mentre la moglie parlava loro inglese), o il caso descritto da Brennan (1987), di figli educati dal padre in esperanto. Ancora una volta bisogna evitare di proiettare sulle lingue problemi che hanno un'altra origine. Di parere diverso, ma in modo piuttosto aprioristico, sono Wodak e Rindler-Schjerve (1985). Se le eventuali difficoltà sono ridotte per l'uso di una intera L2, esse devono essere ancora più deboli in casi come il nostro di uso unicamente di parti specifiche del secondo codice (dove, come sappiamo, entra in gioco anche una funzionalità specifica della commutazione di codice, oltre che la differenziazione nel grado di gestione di parti differenti di un sistema).

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E' chiaro che proprio fenomeni di questo tipo possono avere forti ripercussioni sulla situazione, per es. dando ai genitori l'impressione che i bambini mostrino una chiara preferenza per la varietà alta (dato che la utilizzano come lingua del gioco), e costruendo così la credenza che sia meglio parlare questa varietà ai bambini se si vuole essere ascoltati e capiti con sicurezza. Per i bambini la lingua 'non quotidiana' permette invece probabilmente di costruire una 'realtà diversa', marcata dalla scelta linguistica come differente dalla 'realtà quotidiana effettiva', allo stesso modo di quanto ottenuto con l'uso, in italiano, dell'imperfetto indicativo come 'modo' del mondo del gioco470. Di fronte a questa serie di differenti 'antecedenti', possiamo quindi dire che il fenomeno relativo al BT misto che qui ci interessa è stato preparato da una lunga e solida tradizione.

4.2.5. Il BT come varietà periferica Su un piano più generale non si deve dimenticare che il BT è una varietà che si muove già di per sé ai limiti della grammaticalità471, e questo secondo una dinamica ben delineata da Savoia (1984, 117):

"Ci possiamo aspettare, d'altronde, che sistemi periferici altamente marcati come l'insieme di strutture linguistiche che si è chiamato 'BT' ricorrano tipicamente a forme di confine tra accettabilità e non-accettabilità, dotandole di un valore semiotico legato a condizioni comunicative specifiche."

Ciò facilita senz'altro il ricorso ad un altra lingua. L'uso dell'italiano viene perciò adottato per produrre variazione in una zona del sistema in cui la normatività

470 Tra le caratteristiche particolari del sistema verbale italiano vi è la forte polivalenza dell'imperfetto, che viene sovraesteso anche a contesti chiaramente modali, come per es. nel periodo ipotetico substandard, o, appunto, nella costituzione da parte dei bambini dei ruoli nei giochi di fantasia. La formula utilizzata in questi sensi è quella del tipo: "Facciamo che io ero il poliziotto e tu eri il ladro." Abbiamo sopra sostenuto che l'uso dell'italiano, invece del dialetto, all'interno di questi giochi, abbia una funzione simile, cioè di costituzione di una modalità del 'non reale', attraverso un distanziamento dalla lingua usata nella quotidianità.

471 Si veda per es. il caso dei diminutivi già citati come acquina.

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è già indebolita, sfruttando oltretutto la vicinanza e la maggiore interscambiabilità delle lingue alle loro periferie. In secondo luogo, il BT, in quanto si deve differenziare dagli usi 'normali' della lingua, deve per definizione essere creativo e cercare percorsi di innovazione dei comportamenti linguistici poco frequentati. Un approccio interessante al nostro problema è poi dato anche da osservazioni di Farris (1992), secondo la quale sarebbe possibile considerare l'uso del BT, di per sé, già come un caso di code switching, che permette ai parlanti di muoversi tra varietà differenti di lingua, definendo in modo differente le situazioni472. Se i parlanti percepiscono effettivamente le alternanze di registro alla stregua di commutazioni di codice, è più facile che vere e proprie commutazioni di codice basate su lingue differenti entrino in scena per esprimere le stesse funzionalità. Dall'altra parte la similarità tra le regole di corrispondenza interlinguistica ed i procedimenti alla base dei fenomeni di BT erano già evidenti nella discussione presentata da Ferguson (1977) su alcuni di questi procedimenti in inglese473. Se da un punto di vista dell'effetto spesso abbiamo risultati simili a quelli della commutazione di codice, per altri aspetti, quindi, abbiamo una notevole similarità con quella che abbiamo definito come 'morfologia interlinguistica', con la derivazione delle forme del registro 'secondario' dalle forme di base del registro normale di adulti. In questo modo le alternative 'italiane' vengono ad trovarsi in contrasto con le varianti 'normali' dialettali anche sul parametro dell'espressività, e ciò più che per valori sociali dei codici, per valori di alternativa alla norma dialettale. E queste scelte sono pure da interpretare allora come tecniche di caratterizzazione della varietà BT )e conseguentemente forse anche come mezzi di selezione dell'interlocutore474).

472 L'autrice si basa su osservazioni effettuate a Taiwan. Un accostamento tra i concetti di code switching (usato per altro in modo non del tutto proprio) e 'registri speciali' era già stato fatto da Berko Gleason (1973).

473 Ferguson mostra per es. quali sono i procedimenti che permettono di derivare dall'inglese 'normale' stomach la variante BT tummy.

474 A sostegno di un possibile valore del BT in questo senso stanno le affermazioni (v. per es. Denison 1986, 96) secondo le quali i bambini darebbero tipicamente meno attenzione ai discorsi non indirizzati a loro: le scelte di BT avrebbero quindi anche la funzione specifica di far capire ai bambini che si sta parlando a loro.

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I fenomeni qui in discussione non rappresentano perciò niente altro che la conseguenza di una nota tendenza dei dialetti (evidente anche in zone 'forti' come il canton Ticino), che fa sì che essi si caratterizzano sempre più come codici privi di proprie innovazioni lessicali, perché dipendenti in questo ormai dall'italiano475. E’ sulla base delle forme italiane che vengono ricreati i 'neologismi' dialettali secondo regole di corrispondenza ormai necessariamente molto produttive (su queste regole cfr., per la nostra situazione, la discussione nella parte dedicata ai parlanti evanescenti). Si tratta dunque di quello che potremmo definire un processo di 'rilessicalizzazione profonda', che affianca ad un nucleo duro dialettale (lessicale ma soprattutto morfologico, il nucleo degli elementi più frequenti e quindi più 'veloci') una periferia lessicale 'neo-dialettale', fortemente collegata al lessico italiano. Dall'altro lato è importante notare che l'uso dei termini italiani da parte dei caregivers non è costante. Non si tratta infatti di fenomeni duraturi e stabili, cioè di termini 'prestati' che rimangono stabilmente ma piuttosto di usi 'transitori'476, spesso caratteristici della prima menzione di una parola. Ciò è mostrato bene dalla variabilità con cui si alternano parole italiane e dialettali (a volte anche per parole molto frequenti: così per es. parecchi casi di alternanza nonna - nona, in cui il raddoppiamento consonantico è inequivocabilmente distinguibile, forse proprio perché ostensivamente rafforzato, o pane - pan). I bambini non sembrano per niente disturbati da queste variazioni. A loro volta, nelle loro realizzazioni, essi utilizzano spesso sia forme italiane che forme dialettali. Ma su quali possano essere gli effetti a lungo termine e quali siano le conseguenze sulle varietà dei bambini stessi (con un eventuale incremento dell'italianizzazione del dialetto, ed un'espulsione stabile delle forme dialettali) ci soffermeremo con maggiore precisione nel paragrafo dedicato specificamente a questo argomento.

475 cfr. Berruto (1984,138): "Es gibt eine einzige Erscheinung, die auf den Verlust der Vitalität der Mundarten klar hinweist, nämlich die Abwesenheit von autonomen Neubildungen in der Entwicklung des Wortschatzes. Von diesem Gesichtspunkt aus scheinen die Mundarten sozusagen alt und fossilisiert. Sie sind ganz passiv, sie können sich nicht mehr von innen her erneuern."

476 In questo senso di tratta di un fenomeno differente dai casi di prestito normalmente considerati in linguistica ed è più vicino al senso comune di 'prestito', in quanto i termini italiani, nella varietà dei caregivers, sono nella maggior parte dei casi 'restituiti' alla lingua da cui provengono e risostituiti con parole (più) dialettali.

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4.2.6. I paralleli

4.2.6.1. L'universalità del BT Come abbiamo detto, appare sorprendente il fatto che il dialetto perda in parte la sua autonomia proprio nel momento importante della prima socializzazione. Ci si può quindi chiedere se ogni comunità abbia effettivamente un BT, e quanto siano costanti le caratteristiche. Mentre le osservazioni di Ferguson (1964, 1978) in questo senso sono decisamente ottimistiche, al punto che lo stesso autore tenta un elenco di caratteristiche universali, ricerche più recenti hanno messo in dubbio l'esistenza di fenomeni universali di semplificazione, ponendo l'accento sul carattere 'mediato' attraverso le norme culturali477. Le obiezioni principali sono venute da ricerche di Ochs (cfr. 1982, 1988) e Schieffelin (1990). E' sintomatico a questo proposito il seguente passaggio (tratto da Ochs 1988):

"In certain societies more than others, caregivers are expected to make rather dramatic accomodation to young children's cognitive immaturity (Sachs 1977, Snow & Ferguson 1977). [...] In societies where this expectation prevails, such as American white middle-class society, caregivers simplify their speech in addressing small children. In societes where this expectation does not prevail, such as traditional Western Samoan society and Kaluli (Papua New Guinea) society, caregivers do not simplify their speech to the extent characteristic of the American middle class. Simplified caregiver speech is one kind of caregiver speech that exists in the world's societies. It is a social register. It is not universal and not a necessary environmental condition for language acquisition to take place." (p. 23)

477 Si veda ad es. quanto osserva Romaine (1984, 163):"... the most that should be said is that it is probably found cross-culturally in societies in which the child is seen as a legitimate participant in interaction."(In margine, è interessante notare che Romaine cita il giapponese come controesempio all'ipotesi universalistica fergusoniana ("By contrast, in other cultures such as Japan, parents do not believe the baby understands anything and tend not to encourage speech production. They imitate the baby's sounds but do not converse with him"; 1984, 164) mentre il giapponese era proprio una delle lingue considerate e discusse nel campione di Ferguson, che indica tra l'altro tre differenti fonti).

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E' quindi evidente che il modo in cui il bambino è visto in una certa cultura condiziona il tipo di linguaggio che gli viene rivolto, parametrizzando i comportamenti finalizzati al miglioramento del suo sviluppo linguistico. La ricerca in questo campo ha ben messo in luce come culture diverse possano adottare comportamenti diversi. Per esempio tra i Kaluli (Papua-Nuova Guinea), studiati dalla Schieffelin (1990), si obbligano i bambini a ripetere ciò che viene detto dando maggiore importanza all'atto di enunciare che non a quello di capire ciò che viene detto (e in base al principio che bisogna insegnare a parlare ai bambini). Si ritrovano quindi routine interazionali che cercano di insegnare al bambino un linguaggio corretto facendogli ripetere quello che gli adulti dicono. La forte concentrazione sull'imitazione fa pensare ad una teoria popolare sull'acquisizione del linguaggio simile all'approccio behavioristico. Ancora differente da questo è il caso di Samoa (Ochs 1988) già citato sopra. Mentre nelle nostre culture, in genere, si tendono a cercare molto presto scopi comunicativi nelle azioni dei bambini (per es. un sorriso viene interpretato come un saluto, ecc.), a Samoa non si interpretano i 'fatti' dei bambini come 'azioni' (intenzionali). Ciò dipende dalla visione dei samoani della natura umana. Le persone infatti avrebbero uno scarso controllo sulle loro azioni478, il corpo non è visto come un'unità integrata con una parte responsabile, e quindi si hanno espressioni come "le gambe camminano", "la mano scrive", ecc. piuttosto che "io/tu/egli cammina, scrive, ecc.". Il corrispondente samoano di "rifiutare" è un'espressione che va tradotta come "essere in uno stato di non disponibilità". Ancor più tipicamente mancano gli elementi lessicali "individuo", "personalità", e "self". Quindi il concetto di 'persona' è frammentato e non presupposto in grado di controllare le sue azioni e i suoi stati. Ci sono due concetti che dominano la persona: il 'comportamento naturale' (chiamato amio) e il comportamento socialmente appropriato (aga). Le persone non sono in grado di controllare il proprio amio. La socializzazione del bambino è il processo di acquisire aga, che è la forza che può controllare amio. Per i bambini vale la regola che possono controllare l'amio ancora meno degli adulti. Quindi non sanno comportarsi socialmente in modo corretto. E possono fare

478 Ciò che ad un altro livello mette per es. in crisi una teoria degli atti comunicativi basata sull'intenzionalità (cfr. Duranti 1988).

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molte cose che agli altri non sono permesse. Ne consegue che i bambini non sono trattati come esseri sociali e responsabili (ciò che fanno è visto più come un riflesso fisiologico), poiché sono ritenuti 'ineducabili'. Nessun adulto perciò ripeterebbe o espanderebbe mai ciò che un bambino ha detto (cercando di chiarire le 'intenzioni' del bambino). Per il samoano l'enunciato non chiaro del bambino non è niente di simile al linguaggio adulto, è più vicino al verso di un animale (e si dice che i bambini parlano come i cinesi: guku Saiga; anche il modo di parlare dei cinesi è considerato inintelligibile e fatto oggetto di ridicolo). Mentre da noi ci si attende che gli adulti 'si decentrino' assumendo la visione del mondo del bambino (mettendosi nei suoi panni per rimediare al suo percepito 'egocentrismo'), a Samoa nessuno si aspetta che una persona di rango più alto (più vecchia) si adatti a quella più di rango più basso (più giovane). E' piuttosto il più giovane che deve 'decentrarsi': l'egocentrismo è un privilegio (per es. un oratore non necessariamente deve farsi capire dagli altri, e anzi sarà apprezzato per questo). Così non ci si attende che l'adulto riempia i buchi informativi del piccolo (e l'uso di espansioni è attribuito dalla gerarchia sociale) Un altro caso paradigmatico è quello dei Quiché del Guatemala (cfr. Pye 1983), che ritengono che i bambini nascano con un'anima che deve essere protetta affinché non sia persa. Perciò il bambino viene trattato con molta cura perché l'anima non lasci il corpo (due dei modi possibili di perdere l'anima sono urla eccessive e cadute). Da ciò consegue la visione di che cosa sia un comportamento appropriato con i bambini. Da un punto di vista comunicativo si ignora il bambino finché egli non sia in grado di produrre linguaggio adulto riconoscibile, come se parlare al bambino frammenterebbe la sua anima. I genitori perciò parlano pochissimo al bambino, e iniziano a conversare con lui solo quando è attorno ai 18 mesi - 2 anni. Anche in questo periodo comunque continuano a proteggerlo dalle comunicazioni degli estranei. Pye (1983) riferisce che spesso la madre risponde ad estranei che facciano domande al bambino e nello stesso tempo fa ripetere, anche più volte, al bambino una risposta possibile. Tra i Quiché non sembrano esserci routine tipiche di scambio con i bambini, come filastrocche, recite, canzoncine, ecc., che di solito vanno di pari passo con la presenza di BT e che spesso vengono considerate come fondamentali per l'acquisizione. Un dato però degno di nota è che secondo Pye i bambini Quiché sembrano acquisire la lingua più lentamente dei loro coetanei inglesi, e la spiegazione che viene data è quella appunto della scarsa quantità di lingua che viene loro indirizzata.

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Per finire, vale la pena di vedere un altro bel caso di 'condizionamenti culturali' sul comportamento con i bambini, che mostra, questa volta, come fenomeni di questo tipo non debbano necessariamente essere ricercati unicamente nelle cosiddette 'culture esotiche'479. Si tratta delle osservazioni di Heath (1983), che mostrano come all'interno della stessa grande 'cultura' si ritrovino comunità con comportamenti differenti, dipendenti dalla visione che si ha del bambino. Mentre a Roadville i bambini crescono nei primi anni con molto BT 'tipico', a Trackton480 gli adulti non considerano i bambini come interlocutori utilizzabili per conversazioni normali, non ci si attende che essi diano informazioni, ci si aspetta piuttosto che diventino dei 'prenditori d'informazioni', osservando quello che dicono e fanno gli altri. Raramente si indirizza linguaggio ai bambini molto piccoli. Gli adulti, quando parlano ai bambini, né semplificano né chiarificano. Inoltre gli adulti di Trackton trovano stupido il modo di parlare ai bambini dei bianchi. A Trackton però i bambini sono integrati completamente nella famiglia, di modo che sono costantemente circondati da linguaggio (devono imparare più 'da soli' che cosa

479 Su queste la ricerca riporta ancora una serie notevole e interessantissima di 'visioni del bambino dal punto di vista linguistico' (che, forse, andrebbero in parte ricontrollate). Tra i casi più interessanti segnaliamo i seguenti: a Mundugumor (Nuova Guinea; cfr. Mead 1935): i bambini sono visti come causa di litigi e gelosie, quindi sono tenuti in isolamento (nella terminologia della Mead si tratta di una tipica 'società di guerrieri'). Tra i Mohave vige la credenza che il feto viene alla luce con la capacità di capire il linguaggio adulto (Devereux 1949). A Giava i bambini non sono ancora umani (Geertz 1973; sulla socializzazione linguistica a Giava, v. anche Smith-Hefner 1988). Tra i Chinook (della Colombia Britannica): i bambini hanno una lingua propria, comune con i cani, i coyote, e gli spiriti protettori Cane e Coyote (e la perdono quando cominciano a parlare come gli umani adulti). Per finire, tra i Kipgisi (Kenia) la comprensione è più valutata della produzione, e la maggior parte della comunicazione indirizzata a bambini consiste di direttivi e spiegazioni, piuttosto che di domande e commenti come da noi (una raccolta critica su questi fenomeni si ritrova in Pye 1983). Da un punto di vista funzionale, possiamo perciò dire che questa casistica ci insegna che le caratteristiche del modo in cui si parla ai bambini discendono dalla collocazione che viene data del bambino all'interno della comunità.

480 Roadville e Trackton sono due comunità dello stato della Carolina distanti solo pochi chilometri tra loro. Heath (1983, 1) le caratterizza nel seguente modo: "Roadville is a white working-class community of families steeped for four generations in the life of the textile mills. Trackton is a black working-class community whose older generations grew up farming the land, but whose current members work in the mills. Both communities define their lives primarily in terms of their communities and their jobs, yet both are tied in countless ways to the commercial, political, and educational interests of the townspeople - mainstream blacks and whites of the region."

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possono fare e come, e la comunicazione non verbale è molto più importante per questo scopo di quella verbale). Per es. bambini che si trovano con adulti che conversano tra di loro provano per conto proprio a ripetere quello che gli adulti dicono, magari mentre sono impegnati in altri giochi e senza che gli adulti prestino attenzione al loro parlare. La sviluppo della 'partecipazione' all'interazione da parte dei bambini viene divisa da Heath in tre stadi (che vanno ca. da quando cominciano a parlare a ca. 2 anni e più): 1. ripetizione, 2. ripetizione con variazione, 3. partecipazione (diventano 'conversazionalisti', cioè provano a entrare nella conversazione degli adulti spesso interrompendola).

4.2.6.2. L'universalità dei tratti del BT Abbiamo quindi visto che la presenza o meno di un registro con i tratti tipici del BT dipende dalla caratterizzazione che viene data del bambino in una certa comunità. Ma ci si può ora chiedere quanto siano generalizzati i tratti specifici del BT quando la collocazione sia quella adatta a presentare fenomeni di questo tipo. Dobbiamo innanzitutto dire che mentre il BT è tipicamente collocato tra le cosiddette varietà semplificate, esso tende invece facilmente a perdere i tratti più tipici di semplificazione, mantenendo di più i tratti di chiarificazione e quelli espressivi. Così ad esempio nel nostro materiale spiccano soprattutto fenomeni prosodici come una pronuncia lenta e una esagerazione dei contorni intonativi. Tra i fenomeni sintattici ritroviamo frasi brevi, paratassi (d'altronde però in una quantità tipica per il parlato e perciò non molto significativa), ripetizioni, ma non stile telegrafico (altro procedimento tipicamente semplificativo/riduttivo). Per la fonologia dobbiamo segnalare la scarsa presenza di fenomeni di adattamento. In genere i tipici adattamenti fonologici sono quelli ripresi dalle creazioni del bambino e non vengono prodotti dagli adulti che ho potuto osservare (v. sopra il caso di taratóre). Nel 'discorso' abbiamo uso frequente di domande e soprattutto lo scivolamento nell'uso dei pronomi, con la forma della terza persona singolare per rivolgersi al bambino-interlocutore (cus'al fà al mè tusìn) e l'uso della prima plurale nella stessa funzione. Mentre questa seconda forma si ritrova tipicamente in ordini o atti di questo tipo (adèss ném a fà nàna) e quindi la sua motivazione sarà probabilmente

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quella di un coinvolgimento dell'interlocutore, la motivazione della prima forma è più elaborata. Allo stesso modo negli studi che hanno cercato di elaborare una revisione delle caratteristiche universali del BT proposte da Ferguson (1978) ritroviamo una relativizzazione dei tratti fergusoniani. Di questo tipo sono per esempio i lavori di Ruke Dravina (1976) e di Haynes-Cooper (1986). La prima autrice riduce infatti a sei i probabili universali (Ammenton o 'tono da balia', reduplicazioni, ipocorismi, nomi di parti del corpo e di eventi collegati strettamente al bambino, onomatopee, e scivolamenti nel sistema pronominale), mentre gli autori del secondo lavoro ampliano il campione di lingue usato da Ferguson 1978 (34 lingue vs le 27 di questo autore) e colmano i punti rimasti vuoti per mancanza di informazioni. Il risultato è che unicamente 5 delle 22 caratteristiche sono segnalate per meno della metà delle lingue del campione, mentre 8 caratteristiche sono segnalate per 27 lingue (si tratta di high pitch, exaggerated intonational contours, shorter sentences, repetition, special terms for kin and body parts, reduplication, pronoun shift, più un ottavo tratto che non riguarda 'modifiche' legate al parlare con bambini, cioè l'uso di BT da parte di bambini di età più avanzata con bambini più piccoli). Un dato che mi sembra interessante di queste rassegne è che il 'registro semplificato BT' presenta le percentuali più basse di costanza proprio nei tratti classici di semplificazione. Infatti caratteristiche come parataxis o, meglio ancora, telegraphic style (che include fenomeni classici come l'omissione della copula) sono tra quelle segnalate solo per all'incirca la metà del campione (tra le 22 caratteristiche mancano purtroppo informazioni sulle dimensioni del lessico, il quale però ovviamente è difficilmente quantificabile, e quindi poco si presta a schematizzazioni di questo tipo). Mentre Haynes e Cooper (1986, 133) concludono che

"... our data suggest that the characteristics Ferguson listed are indeed typical of BT and that many of them are highly likely to occur.",

l'osservazione che vorrei suggerire è che questi dati, coerentemente con quelli che abbiamo osservato, dimostrano una gerarchia di drasticità (in parte parallela alla gerarchia dei degree of babyishness di Ferguson), che, partendo dall'assenza di adattamento (che, secondo quanto osservano Ochs e Schieffelin, può essere totale, in conseguenza di norme culturali differenti da quelle agenti nelle comunità in cui c'è BT), fa preferire dapprima unicamente interventi di tipo chiarificativo (probabilmente

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sentiti come meno marcati e che a livello di certe strategie possono essere in distribuzione complementare con soluzioni semplificative), e solo in un secondo tempo interventi semplificativi (con un grado di marcatezza maggiore). In secondo luogo, il BT si rivela principalmente, o più stabilmente, uno stile chiarificativo-affettivo, più che semplificativo, ed il ricorso ad elementi di un'altra lingua diventano allora più prevedibili. Data la forte incidenza culturale su questi comportamenti, qualora i rapporti tra le lingue lo permettano e lo richiedano ci si può anche attendere che gli adulti si servano dell'altra lingua proprio per esprimere la funzionalità tipica del BT.

4.2.6.3. BT mistilingui in altre società Si deve notare a questo punto la similarità di quanto abbiamo qui osservato con fenomeni segnalati in situazioni apparentemente assai differenti. In uno studio sui cambiamenti lessicali e morfologici in warlpiri, Bavin (1989) rileva che:

"One reason for the use of English loanwords in place of traditional words in the speech of young children may be the incorporation of these words into a speech style that is used by adults and older children when addressing young children. The speech style ('Warlpiri Baby Talk') is used mainly when directly addressing a child of about 1-3 1/2 years. [...] We have noted that young mothers are now incorporating a few English words into the Baby Talk." (p. 277)

Dixon (1980) riporta fenomeni dello stesso tipo per l'anindilyakwa, un'altra lingua aborigena australiana. Romaine (1988a, 135; 1989a), a sua volta, osserva una forte anglicizzazione dei nomi di animali nel Tok Pisin di bambini. La coincidenza di questi dati indica quindi come i fenomeni qui osservati non siano fatti eccezionali ma facciano parte di dinamiche che sembrano riprodursi in modo regolare in certe situazioni di contatto di lingue. Fenomeni simili, per altro, erano già stati notati nel BT bèrbero da Bynon (1968, dove l'autore segnalava una frequenza molto alta di parole dello standard), e prima ancora segnalazioni degli stessi fenomeni in relazione ai nomi di animali (e a suffissi ipocoristici, un altro settore tipico del registro rivolto ai bambini) si ritrovavano già nel classico Bloomfield (1933).

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Abbiamo visto che spesso caratteristiche del BT si ritrovano anche nella comunicazione rivolta ad animali. Ovviamente, allo stesso modo, la commutazione o alternanza di lingua può manifestarsi anche in questi ultimi casi, anche se non necessariamente con valori di espressione di affettività positiva. Così, per es., Dressler e Wodak (1977, 41 n. 15) fanno notare che:

"Observation reveals the existence of large differences. Some Bretons use Breton spontaneously only when they speak to animals. This is a situation in which others who often also speak Breton constantly use French."481

L'uso alternato delle lingue può veicolare quindi sia valenze espressive positive che negative, a seconda dei valori associali, nelle differenti culture, ai vari codici compresenti. La scelta dipenderà allora dalla categorizzazione dei vari tipi di destinatari e dalla interpretazione delle differenti situazioni comunicative. Vanno perciò considerate come manifestazioni differenti di uno stesso fenomeno, segnalazioni di alternanza di lingua con i bambini non più come espressione di benevolenza ma come strumento di distanziamento, come per esempio quelle rilevate da Penzinger (1985, 48) nel comportamento di madri a Graz482.

4.2.7. La 'facilità' della commutazione di codice nelle famiglie bilingui Per finire, non si deve dimenticare che molti dei contesti di commutazione di codice qui segnalati sono stati ritrovati anche nell'analisi del cambiamento di lingua in famiglie bilingui. Anche in questi ultimi casi infatti abbiamo una dissociazione tra le intenzioni esplicite delle persone ed i comportamenti effettivi, nel senso che le persone si comportano in modo effettivamente differente da quanto dichiarano di fare. Questo tipo di fenomeni è frequentissimo nelle famiglie bilingui, e si tratta allora di trovare le linee che motivano questi comportamenti, ovvero di capire come

481 Secondo Dressler e Wodak-Leodolter, per molti bretoni il francese avrebbe ormai assunto il ruolo di 'lingua dell'espressività', nella quale tra l'altro molti bretoni dicono di sognare.

482 Questa autrice riferisce come sia possibile osservare un avvicinamento maggiore alla lingua standard in contesti autoritari o di rimprovero dei bambini.

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è possibile che alcuni fenomeni succedano quasi "da sé". In questo senso, la situazione dei soggetti coinvolti è stata ben sintetizzata già da Haugen nel 1969, che, parlando del passaggio dal bilinguismo al monolinguismo inglese dei bambini norvegesi negli Stati Uniti, concludeva: "Both children and parents seem almost like pawns in a game which they do no themselves understand." (p. 235)483. Alcune acquisizioni della ricerca attuale sono fondamentali per la comprensione dei mutamenti inconsci, in quanto toccano proprio il problema del comportamento differente con i bambini rispetto alle proprie abitudini e intenzioni, e toccano perciò anche il fatto che spesso questa differenza di comportamento in famiglia possa essere vista come un luogo molto importante del mutamento. Innanzitutto la coerenza nell’uso delle lingue (per es. con l'associazione ‘una persona - una lingua’, che spesso i genitori si propongono di mantenere come uno degli strumenti di educazione bilingue dei figli, secondo la cosiddetta "formula di Grammont"), è nella maggior parte dei casi messa in crisi da altre tendenze che entrano in gioco484. Una di queste pressioni fondamentali è quella degli astanti, cioè delle persone presenti in qualche modo, magari senza nemmeno parteciparvi, all'interazione tra genitore e bambino. Sono moltissimi i casi, in situazioni plurilingui, in cui la scelta di lingua è dettata dagli astanti più che dal bambino piccolo, destinatario vero e proprio. Il ruolo di questo tipo di 'partecipanti quasi-esterni' all'interazione è quindi fondamentale nelle situazioni in cui siano in gioco bambini, i quali, perciò, non hanno un vero statuto di partecipanti all'interazione a pieno diritto paragonabile a quello degli adulti. La presenza di 'terze persone' è spesso importante anche in situazioni multilingui in cui siano coinvolti soli adulti. Un bell'esempio di questo tipo, dove la motivazione specifica è quella del 'mimetismo', è riferito da Lüdi e Py (1984, 70): "Zwei spanische Gastarbeiterfrauen sprechen in der Oeffentlichkeit untereinander - sehr holprig - Französisch, 'um nicht als Fremde erkannt zu werden' (sic)". Per quanto riguarda i contesti di language death o

483 Una parte dei mutamenti nasce però dall'incontro tra la non comprensione della situazione da parte dei soggetti con il loro tentativo di capirla e di modificarla, e questo contribuisce a rendere ancora meno 'trasparente' il mutamento.

484 D'altro canto Garcia (1983) ha dimostrato come il fallimento della correlazione rigida 'una persona - una lingua' non debba necessariamente portare il bambino al mistlinguismo. Nei bambini bilingui (in età prescolare) esaminati da Garcia, nonostante un forte input misto inglese-spagnolo dato dalle madri, non si ritrova una percentuale alta di enunciati misti ed i bambini sono indubbiamente capaci di usare separatamente i due sistemi linguistici.

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language shift, già il classico lavoro della Dorian (1981) sul gaelico notava il non uso di questa lingua qualora un monolingue inglese fosse presente. Anche il lavoro di Fasold sui Tiwa (1984, 235), una comunità indiana del Nuovo Messico, ha rilevato come il fattore più forte per la scelta dell'inglese, dopo l'interlocutore monolingue anglofono, fosse la presenza di un "anglo or Chicano friend". La lista di lavori che riferiscono fenomeni di questo tipo è oramai assai lunga. La categorizzazione particolare dei bambini (come 'partecipanti deboli' all'interazione) può ulteriormente intensificare queste tendenze ma anche aggiungere motivazioni nuove, come appunto quelle legate al fatto di dividere lo statuto di destinatario effettivo con persone adulte che assistono passivamente alle interazioni. Naturalmente poi nelle singole situazioni possono esserci anche differenziazioni nella categorizzazione e nei comportamenti degli adulti485. Può essere curioso inoltre notare che i genitori ai quali si facciano notare comportamenti di questo tipo da parte loro rispondano motivandoli di solito in termini di 'buona educazione' verso gli astanti ("altrimenti sembrerebbe che parliamo di loro", "così capiscono anche loro quello che diciamo", ecc.). Ma la vera motivazione486 dev'essere probabilmente da ricercare in una definizione che il genitore vuole dare di sé all'altro adulto, piuttosto che nella volontà di non escluderlo (fino ad un certo punto si può dunque senz'altro dire che stanno parlando per l'altro adulto più che per il bambino). Se la direzione di mutamento è costante, è ovvio che il bambino ne trarrà le proprie conclusioni sui ruoli e sui valori relativi delle lingue in gioco.

485 Per esempio, nello studio di MacDonald (1987, citato da Constantinidou, 1994) le donne risultavano più sensibili alla presenza di una terza persona che non possedesse la loro lingua.

486 La differenza tra comportamenti dichiarati e comportamenti effettivi può essere motivata da cause anche molto differenti tra loro e costituisce una nota crux delle domande dirette sul comportamento linguistico. Uno degli esempi più divertenti che io conosca è riportato da Alberto Mioni (1987, 213, n. 17), e vale la pena di citarlo quasi per intero: "una volta, nel 1968, incontrai un amico haitiano, assieme al figlio; mi parlò della situazione del suo paese, mostrando disprezzo per il créole nativo ('lingua delle persone non istruite'), che egli negava di conoscere, ma quando il suo bambino cercò di metter fine alle nostre chiacchiere, il padre gli disse qualcosa come fu-mwen pe-la ti-mwen, e non certo 'Fous-moi la paix, mon petit!'." Le Page e Tabouret-Keller (1985, 173 ss.) esaminano la questione delle differenti dichiarazioni di genitori e figli su quale lingua sia parlata in casa proprio in relazione ai creoli, notando che i figli mostrano una maggiore accettazione del creolo. Per un caso simile nel contesto dei patois romandi v. Wüest (1993).

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In secondo luogo, in situazioni plurilingui, come oramai ben si sa, l'alternanza di lingua è estremamente funzionale, ha cioè una 'funzionalità allargata' rispetto alla comunicazione monolingue (basterebbe qui rimandare all'estesa bibliografia sul code switching). I genitori bilingui che non inseriscono assolutamente mai elementi di un'altra lingua nel loro discorso sono probabilmente un'estrema minoranza487. Quest'ultima osservazione ha tra l'altro giocato un ruolo fondamentale anche nelle polemiche sullo sviluppo linguistico dei bambini bilingui. Mentre un certo filone di ricerche proponeva una serie di stadi di sviluppo, che avrebbero visto all'inizio un sistema unico non differenziato (manifestato secondo queste persone dal mistilinguismo caratteristico delle fasi iniziali dell'apprendimento) e poi progressivamente separato nei due differenti sistemi linguistici (cfr. tipicamente Volterra e Taeschner, 1978), i sostenitori della separazione fin dall'inizio dei sistemi da parte dei bambini hanno contestato queste conclusioni dimostrando che nell'input fornito al bambino era ritrovabile una proporzione notevole di commutazioni di codice dei genitori stessi. E questo anche nei prodotti di genitori che dichiaravano fermamente di non produrre enunciati di questo tipo (cfr. ancora Goodz 1989). Quindi il comportamento dei bambini poteva essere considerato come risultato dell'apprendimento della possibilità di compiere 'commutazioni di codice' piuttosto che come un segnale di mancata separazione dei sistemi (cfr. Genesee, 1989488). In questo modo la commistione costituisce quindi un fenomeno di

487 Questa posizione è sostenuta in forma forte per es. da Idiazábal (1984). Anche Goodz (1989) ha potuto osservare che persino i genitori che dichiaravano di usare una sola lingua con i figli producevano sia enunciati che contenevano elementi di entrambe le lingue in gioco, che enunciati interamente nella lingua che i genitori dichiaravano di non usare (almeno a partire dal momento in cui i figli cominciavano a parlare).

488 V. anche la ridiscussione fatta da Pye (1986) dei presunti casi di 'enunciati misti' presentati da Vihman (1985).

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apprendimento sociolinguistico, piuttosto che una spia della organizzazione mentale dei sistemi489. Infine, gli studi sulla commutazione di codice hanno spesso messo in evidenza tra le motivazioni all'alternanza di lingua funzioni che sono frequentissime nelle interazioni con bambini. Si veda per esempio quanto osserva Fasold (1984, 203):

"Three particular applications show striking parallels in widely separated speech communities around the world. These three are: (1) use of the High language to make and utterance more authoritative; (2) using the High language to give the 'point' or reason for telling a story that had been narrated mostly in the Low language; and (3) using the High language to impress a child with the seriousness of a command."

Le similarità di questi usi con il caso che stiamo indagando sono più che evidenti, come è evidente che tutti e tre gli usi hanno una frequenza particolare proprio nelle interazioni con i bambini, che, anche per questo motivo, si configurano quindi come 'luoghi ideali del cambiamento linguistico'. Che il mutamento per fini 'espressivi' nei casi citati da Fasold vada talvolta nella direzione di un maggiore distanziamento dal bambino, e non nella direzione dell'espressione di una maggiore affettività, è da considerare alla stregua di una selezione parametrica relativa ai rapporti tra le lingue, che non tocca per niente il rapporto triangolare fondamentale bambino - commutazione di codice - espressività. Abbiamo inoltre visto quanto possa essere facile, all'apparire delle circostanze

489 Indipendentemente da ciò il discorso relativo alla domanda se il bambino bilingue processi all'inizio le due lingue assieme o separatemente è ancora ben lungi dall'essere chiuso per i motivi ben sintetizzati da de Houwer (1995, 235): "As Romaine (1989: 186) writes, 'it is often difficult to decide what counts as evidence for differentiation,' It seems to be equally hard to see what would count as evidence for the lack of language separation. More fundamentallly, it has been questioned whether it is appropriate to discuss bilingual development before about two years of age in terms of an initial single system or a dual systems hypothesis. Klausen et al. (1992) suggest it is not, and that it is more important to study the possible determining factors in bilingual development (see also Lanza, 1990: 436, 448). Furthermore, as Wode (1990: 43) writes, 'much of the debate on whether or not L1 bilinguals can or do keep the systems of their language apart [from the start] is pointless unless the notion of system [nel contesto di questi discorsi, B.M.] is made clear'." Recentemente, Youssef (1996) ha proposto di definire come 'varilingualism' l'acquisizione di competenze variazionistiche come quelle dei bambini di cui qui ci stiamo occupando.

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adatte, il passaggio da usi di 'oggettivizzazione' ad usi di 'soggettivizzazione'. E’ quindi la definizione delle situazioni e dei valori dei codici a spingere piuttosto verso un tipo di comportamento che non verso l'altro.

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4.3. Gli sviluppi del fenomeno Siccome la situazione che abbiamo descritto in precedenza, per quanto riguarda la varietà indirizzata ai bambini, è relativamente nuova ci si può chiedere se siano visibili degli sviluppi della stessa secondo due dimensioni differenti. Da un lato nei termini di una intensificazione eventuale di questi comportamenti da parte degli adulti, con l'apparizione di una nuova casistica. Dall'altro lato nei termini degli effetti sulle varietà dei bambini. Nei due paragrafi che seguono ci occuperemo proprio di queste due problematiche, cercando di fornire un quadro degli sviluppi.

4.3.1. I mutamenti intervenuti nei comportamenti degli adulti

Abbiamo già detto che a nostro parere questi fenomeni devono avere avuto la loro diffusione massiccia a cavallo tra la fine degli anni Settanta e l'inizio degli anni Ottanta. Ci si può allora chiedere se tra il nostro primo rilevamento (avvenuto, ricordiamo, alla fine degli anni Ottanta) e oggi siano intervenuti altri cambiamenti nei comportamenti. In effetti, riteniamo di poter affermare che le modalità del BT dialettale abbiano conosciuto alcune innovazioni, che si possono raccogliere in tre categorie di fenomeni che o non comparivano o erano relativamente marginali nei nostri primi materiali. Il primo grande fenomeno innovativo, che è a nostro parere anche il più importante, consiste nella variazione che riguarda unità al di sotto della parola. Abbiamo così parole dialettali in cui compaiono tratti fonologici che nel normale parlato di nativi non compaiono. I tratti toccati da questo fenomeno sono tra quelli di più alta categoricità del dialetto (che diventano così variabili nel parlato rivolto ai bambini), ed in particolare sono interessate soprattutto le realizzazioni dentali di /n/ in posizione finale o le realizzazioni non palatali di /s/ preconsonantica, come per es. in cestinn invece di cesc-tin (dove si deve notare comunque la mancanza della vocale finale, ciò che impedisce di considerare questa parola come italiana). Che la pronuncia palatale di /s/ fosse, in precedenza, uno dei tratti forti della dialettalità ticinese è dimostrato anche dalla seguente affermazione, relativa all'italiano regionale ticinese, di Berruto (1980, 13):

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"Mi pare poi non rarissima la realizzazione più o meno palatalizzata della s [fricativa dentale sorda] davanti a occlusive sorde come p o t, e anche della ʃ [fricativa dentale sonora] davanti a b [...] probabilmente i contesti di palatalizzazione sono ancora più ampi ...".

Negli ultimi anni mi è capitato invece di sentire usi della palatalizzazione nell'italiano di giovani ticinesi (che altrimenti non mostravano interferenze dialettali e probabilmente non erano nemmeno dialettofoni) in corrispondenza però ad usi espressivi della lingua, sia di origine dialettale (come per es. in si è sc-patasciato "si è sfracellato") che non (come in quando è entrata quasi è sc-tramazzata al suolo). Quest'ultimo fenomeno va senz'altro inserito nel filone dello sfruttamento, in italiano, del dialetto (e di sue caratteristiche 'autonomizzate') a scopi espressivi. In questo modo italiano e dialetto sono venuti negli ultimi anni a dividersi, pur come sistemi separati (perché il fenomeno si ritrova anche in monolingui italofoni), la stessa coppia di varianti sociolinguistiche (e a differenza dei comportamenti rilevati da Berruto questi ultimi fenomeni sono motivati stilisticamente ed il parlante ne è consapevole). Nella genesi del nuovo fenomeno potrebbero aver giocato un certo ruolo anche pronunce meridionali dell'italiano (specialmente attraverso esempi cinematografici e televisivi), anche se credo che la linea più importante sia quella che vede le pronunce palatali entrare a scopi espressivi nell'italiano attraverso l'uso di parole di origine dialettale particolarmente cariche da un punto di vista emotivo, come, per citare un altro esempio, in: mi sono sc-cióncato un dito, "mi sono rotto/distrutto un dito"). Queste interazioni si possono presentare schematicamente nel modo seguente (le frecce tratteggiate indicano la direzione di provenienza dell''innovazione'):

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DIALETTO

/s/ -> [ʃ]/_Cons.

>-----------------------------> 1. Italiano regionale

/s/ -> [ʃ]/_Cons. <informale, trascurato >

2. BT dialettale e dialetto degli ex-PE

/s/ -> [s]/_Cons. <+aff +chiaro; -'dial.'.> <----------------<

>--------------------> 3. Italiano giovanile espressivo:

[s] -> [ʃ]/_Cons. <espressivo>

ITALIANO

/s/ -> [s]/_Cons.

In 1. è rappresentato il fenomeno colto da Berruto (1980), che porta per interferenza ad usi nell'italiano regionale della variante palatale [ʃ], di origine dialettale. In 2. abbiamo il fenomeno dell'uso della neo-variante dentale [s] nel dialetto degli ex-PE e nel BT. In 3. infine abbiamo l'uso per scopi espressivi della neo-variante palatale [ʃ] nell'italiano dei giovani. La caratteristica di queste varianti nel BT è proprio quella di costituire, da un punto di vista fonologico, una soluzione intermedia, di continuum, tra l'italiano e il dialetto. Questi fenomeni avvicinano le 'nuove' varietà di BT al parlato di quelli che abbiamo definito parlanti 'ex-evanescenti'. Rispetto a questi ultimi si hanno solo pochissimi casi di sostituzione di [ü] dialettali con [u], ciò che fa pensare che per i veri nativi questo tratto si presenti come più solido nel suo ruolo di marca di dialettalità. Ma anche nel BT regole categoriche vengono trasformate in regole variabili, con la particolarità che la variabilità non è generalizzata per ora a tutti gli interlocutori. Possiamo perciò dire che mentre nei rilevamenti fatti alla fine degli anni '80 avevamo piuttosto a che fare con un fenomeno vicino al code switching (inteso nel senso ampio del termine), quanto abbiamo appena osservato in relazione ai giorni nostri ci avvicina senz'altro ad una casistica da code shifting, con la particolarità che gli stadi intermedi nel continuum tra italiano e dialetto vengono creati proprio da queste varietà particolari.

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Dato che il BT inizia ad esprimersi anche attraverso una autonomizzazione delle regole fonologiche, possiamo dire che la parola non è più l'unità minima coinvolta, cioè i parlanti non hanno più solo l'alternativa tra unità lessicali italiane e unità lessicali dialettali, ma possono modulare soluzioni intermedie applicando modifiche parziali della forma fonologica alle parole delle due lingue. E' importante osservare che proprio con i bambini aumentano le regole variabili. Si ha quindi un processo di 'italianizzazione parziale'. Questo è tra l'altro coerente con la nostra visione dei fenomeni come 'forme di citazione' (cioè più vicini ai prestiti che alla commutazione di codice), in modo simile all'uso, per esempio, della forma dialettale degli articoli accanto al nome in forma dialettale. Non si tratta di due codici separati rigidamente (che solo nel discorso vengono ricongiunti, come è tipico nella commutazione di codice vera e propria), ma di fenomeni di convergenza linguistica che mette a disposizione del codice dialettale differenti varianti il cui uso è funzionalmente governato. Dall'altro lato il fenomeno apre la via ad una maggiore italianizzazione, quindi ad una riduzione delle inibizioni all'uso dell'italiano. Tra i tratti di variabilità, a metà però questa volta tra il fenomeno lessicale e quello fonologico, è l'alternanza per la terza persona singolare del presente indicativo di "essere", con l'è sostituito talvolta dalla forma senza clitico è (per es. in al nòno è nai a lavurà). Avevamo già incontrato questo tratto nelle varietà degli ex-PE, dove appariva in contrasto con la fondamentale correttezza, per questo settore, dei PE veri e propri (abbiamo pure visto che questo tratto è molto precoce nelle varietà dei non italofoni). e perciò dobbiamo senz'altro interpretare la sua presenza come motivata sociolinguisticamente e non apprendimentalmente. E' simile, nel BT come nelle varietà degli ex-PE, anche l'utilizzazione di solo in luogo del suppletivismo dumà. Si tratta quindi di segnali di segnali forti della dialettalità che possono talvolta essere sentiti come non appropriati. Gli altri due tratti innovativi hanno, per ora, uno statuto più incerto della variazione legata alle regole fonologiche. Il primo di essi tocca la regola, non

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categorica, che viene italianizzata una sola parola per enunciato, per la quale si presentano attualmente molte eccezioni490, come nel caso seguente:

te s'è diventaa proprio grande ["sei diventato proprio grande"]

Questo va nella direzione, ancora una volta, di una maggiore accettazione dell'italiano. Parzialmente collegato a questo fenomeno è il fatto che non sono più solo nomi ad essere usati nella forma italiana, ma anche avverbi e aggettivi (per es. proprio, troppo, ...). La parola dunque non è più nemmeno l'unità alternabile più grande. L'ultima innovazione che ci è stato possibile riscontrare riguarda le condizioni d'uso del nostro BT misto. Mentre nei primi rilevamenti l'uso dell'italiano era chiaramente legato a contesti di forte affettività, al giorno d'oggi esso è ritrovabile anche con altre modalità, come per es. talvolta in rimproveri particolari con carattere di 'stile esplicativo':

ta l'avevi dii da lassà sc-tà i fiori491

["te l'avevo detto di lasciar stare i fiori"]

Quest'ultima caratteristica indica anch'essa una riduzione della complementarizzazione. L'italiano, che attraverso le modalità essenzialmente chiarificative aveva assunto una valenza affettiva (che ne rendeva possibile l'uso in contesti di stretta dialettofonia), si estende a contesti in cui questa valenza non è più del tutto necessaria per liberalizzarne l'uso, e diventa una marca caratteristica di varietà indirizzate ai bambini (come se questo fosse, in genere, il modo appropriato

490 Già in precedenza si poteva avere più di una parola in italiano, ma questa era più l'eccezione che non la regola. Oggi pur non essendo ancora la regola, si tratta di una eccezione meno rara. A titolo di esempio, una persona registrata nel 1987 aveva prodotto, in circa due ore di parlato tre casi di frasi con più di una parola in italiano. La stessa persona, nel 1994, in uno spazio di tempo comparabile ne produce ventidue. Nel primo caso l'interlocutore era un bambino di quattro anni, nel secondo un bambino di sette anni, ed è perciò difficile dire quanto importante sia l'influsso dell'età del bambino su questo aumento, ma la nostra impressione è che il fenomeno si sia in parte 'liberalizzato'.

491 Questo messaggio fa un parziale effetto di 'doppio legame', manifestando probabillmente l'incertezza della parlante tra l'espressione dell'affettività e l'arrabbiatura per il disastro combinato dal bambino (che ha rovesciato sulla tovaglia un vaso di fiori).

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col quale si parla ai bambini). In questo caso possiamo dunque dire che l'uso dell'italiano diventa in parte un 'registro del dialetto'. Questi tre fenomeni vanno tutti nella direzione di una maggiore accettazione dell'italiano e di una complementarità meno forte dei codici. Il primo scende al di sotto della parola toccando singole regole fonologiche e il secondo si estende su più parole. Se la parola è l'unità più facilmente individuabile492, in cui i differenti codici sono meglio separati, qui ci si sta parzialmente allontanando da questo livello, a favore di una maggiore variazione e di una transizione più dinamica tra i codici o a livello del discorso o a livello fonologico. Per quanto riguarda il terzo fenomeno, se si riduce il grado di affettività di questi usi vuol dire che l'insieme di contesti in cui essi si possono ritrovare diventa teoricamente più grande (e, ipoteticamente, si potrebbero addirittura specializzare come 'varietà normali da usare con i bambini'). In questo senso l'italianizzazione sembra essere sulla strada di diventare un'ulteriore dimensione di variazione del dialetto. Non si deve dimenticare che queste persone vogliono parlare dialetto e sono convinte di farlo. Per loro, quello che stanno parlando è dialetto e siccome le strutture che il dialetto riprende dall'italiano servono ad un allargamento degli strumenti espressivi, possiamo dire che l'italiano è diventato un 'serbatoio di variazione' del dialetto. I confini tra le lingue sono stati ridotti e possono essere spostati a seconda delle necessità e delle intenzioni dei parlanti. Questo scenario, di un nuovo tipo di variazione che sta nascendo nel dialetto, trova già una sua realizzazione nelle varietà dei parlanti che abbiamo definito ‘ex-PE’, alcuni tratti linguistici dei quali coincidono con le nuove caratteristiche che abbiamo potuto rilevare nel parlato di adulti nativi a bambini nativi.

492 Sulla realtà psicologica della parola cfr. Ramat (1990), o per quanto riguarda l'apprendimento di lingue seconde Moretti (1990).

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4.3.2. Le conseguenze sulle varietà dialettali dei bambini Il problema degli effetti dell'input in generale e del BT in particolare è senz’altro uno dei problemi centrali dell'intera ricerca linguistica493. Nella nostra situazione diventa interessante vedere quali siano le conseguenze di questi comportamenti comunicativi dei genitori sulle varietà linguistiche dei bambini, fermo restando che, come abbiamo visto, in genere questi ultimi sanno identificare assai presto i caratteri tipici del BT loro rivolto e tendono altrettanto presto ad escluderli dalle loro varietà normali (cfr. per es. Andersen 1990). In alcuni casi, come in quello discusso da Kulick (1990), abbiamo però visto che le abitudini degli adulti hanno come conseguenza un mutamento nel comportamento dei bambini, e concorrono con le tendenze già in atto ad accelerare il mutamento. La nostra situazione presenta aspetti particolari (come per esempio l'intenzione di insegnare il dialetto ai figli e l'inserimento di parole italiane nel discorso dialettale piuttosto che il cambiamento completo di lingua) e non si può perciò a priori essere sicuri che l'alternanza di lingue tipica della varietà rivolta ai bambini si stabilisca nel comportamento normale di questi ultimi. Si noti per es. che in uno dei casi che abbiamo già visto di introduzione di parole di un'altra lingua nel registro rivolto ai bambini, quello dell'anindilyakwa, Dixon (1980) osserva che le parole inglesi di BT vengono risostituite attorno ai sei anni con parole originali. Simile è l'osservazione di Bavin (1989) relativa al warlpiri, e nel nostro caso abbiamo visto che comunque sia i bambini che gli adulti posseggono di solito entrambe le forme, quella dialettale e quella italiana. Se vogliamo individuare le ricadute del comportamento degli adulti ci possiamo muovere tra due ipotesi estreme, una in cui i bambini, identificando le inserzioni in italiano come tipiche di una forma di BT, eliminino l'uso delle parole italiane o non presentino l'alternanza nel loro comportamento quotidiano. All'altro estremo abbiamo l'ipotesi che l'uso 'speciale' degli adulti diventi il registro normale, non marcato, dei bambini, con un fenomeno di influsso diretto dell'input e di

493 Esistono rassegne molto accurate che presentano lo stato delle opinioni su questo problema. Segnaliamo in particolare Snow (1995) e parecchi dei contributi contenuti in Gallaway - Richards (1994).

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mancata interpretazione della peculiarità di questo comportamento, ciò che innescherebbe quindi un mutamento rapido nelle varietà dialettali494. Potremmo sintetizzare le due ipotesi con due formule. Per la prima si può pensare a qualcosa del tipo "è solo BT, ed il mutamento è avvenuto solo nel modo di parlare ai bambini". Per la seconda ipotesi potremmo dire che "quello che ieri era BT, sta diventando, per le giovani generazioni, la norma". Innanzitutto l'osservazione empirica ci conferma che si è oramai verificato un corollario della prima di queste due ipotesi, e cioè che il comportamento degli adulti venga colto e riutilizzato dai bambini stessi come forma specifica di BT con interlocutori più piccoli. In questo senso possiamo quindi constatare che le giovani generazioni hanno accettato il mutamento di registro e l'inserzione dell'italiano in dialetto caratterizza anche il loro registro rivolto a bambini più piccoli. Così per es. nei nostri materiali un bambino di 6 anni parlando ad un altro di 2 anni e 5 mesi produce, in contesti affettivi, enunciati come i seguenti:

te ma la dè la macchinina ["mi dai la macchinina"] te vöi anca tì al biscotto ["vuoi anche tu il biscotto"]

Questo esempio e molti altri mostrano come i bambini più grandi usino inserzioni italiane nel loro discorso in dialetto con più piccoli. Nello spazio che separa le due possibilità estreme della specificità di registro di questi comportamenti e della loro generalizzazione da parte dei bambini si possono poi configurare ovviamente soluzioni intermedie che vedono il permanere dell'uso dell'italiano anche in contesti in cui il destinatario non sia un bambino, ma in

494 Questa ipotesi potrebbe essere indipendente dal fatto che i bambini posseggano le forme corrispondenti di entrambi di codici o meno. Nel caso più forte si potrebbe però assistere a fenomeni di sostituzione lessicale con conseguente perdita di elementi dialettali.

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cui la motivazione alla base delle occorrenze nel BT di adulti sia stata in qualche modo parzialmente generalizzata o reinterpretata495. Un secondo livello quindi, successivo a quello della constatazione della diffusione del nuovo BT, può essere quello di vedere se l'italiano abbia assunto valori tipici simili a quelli che ne hanno fatto la fortuna nel BT e se dunque esso si sia stabilizzato come un 'nuovo strumento funzionale' nel repertorio dialettale. Esso potrebbe, per esempio, avere assunto un valore tipico di 'affettività' e/o di 'chiarezza' nelle varietà dei bambini che incrementano queste esigenze funzionali. Riassumiamo nello schema seguente queste tre categorie di esiti possibili con un ordine, dall'alto in basso, che riproduce il dislivello di forza differente delle ipotesi:

Livello 'debole':

mantenimento come forma di BT (interpretazione completa ed esclusiva simile all'uso degli adulti)

¦ ¦ ¦ ¦

Livello intermedio: reinterpretazione dell'uso BT e utilizzazione rimotivata funzionalmente

(interpretazione 'allargata') ¦ ¦ ¦ ¦

Livello 'forte': mantenimento categorico; quello che era BT è diventato la 'forma normale'

(interpretazione 'acritica' o de-motivata)

Abbiamo già visto che si ritrovano occorrenze rilevanti di parole italiane nel discorso dialettale di bambini più grandi con bambini più piccoli in un modo simile a quello del BT (quindi coerentemente con l'interpretazione debole). Ma ritroviamo

495 Da un punto di vista puramente teorico ci sarebbero altre possibilità ancora più forti, come per es. quella che si tratti, anche per gli adulti, di un comportamento temporaneo, con un ritorno nel futuro ad un registro dialettale puro (esclusa peraltro dal fatto appena discusso che i bambini riproducono a loro volta un BT equivalente a quello degli adulti), ecc. Ma a questo esito, come ad altri teoricamente possibili, non riteniamo di dover concedere credenziali di realisticità e perciò riteniamo che lo spazio d'azione sia delimitato strettamente dalle possibilità esposte sopra.

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fenomeni simili anche con interlocutori adulti (ciò che apre la possibilità ad uno scenario da 'interpretazione allargata'). Come abbiamo detto, il nostro campione comprende soggetti fino ai dieci anni, quindi ben oltre l'età in cui sia possibile pensare ad un mantenimento forte di caratteri particolari di un input BT. Inoltre, abbiamo visto precedentemente che la riutilizzazione dei tratti tipici del BT nelle varietà di bambini subisce un forte calo attorno ai quattro anni, e la sporadicità con cui eventualmente si può ritrovare in bambini dai sette ai dieci anni è ben distante dalla sistematicità con cui ci è stato possibile osservare l'inserzione di parole italiane nel discorso dialettale di bambini di questa età. Per una corretta interpretazione di questi fenomeni si tratta allora di definire se sia possibile attribuire loro una funzionalità ben precisa che li definisca come 'scelte marcate' o se invece si tratti di usi non marcati (ciò che aprirebbe invece la strada all'interpretazione forte o 'de-motivata'). Un punto fondamentale che va richiamato prima di iniziare questa discussione è che comunque il fenomeno, a livello delle singole parole, non è categorico, dato che una stessa parola può occorrere sia nella forma dialettale che nella forma italiana nello stesso discorso dello stesso bambino, ciò che dimostra come l'elemento dialettale non sia stato interamente sostituito dal corrispondente italiano. Abbiamo quindi messaggi come i seguenti, rivolti in questo caso da bambini ad adulti:

ma dumà per vün496 giorno te végni a lavurà con noi

Esempi come questi sono relativamente frequenti in contesti in cui l'uso dell'italiano è chiaramente da ricollegare ad una funzione di 'convincimento dell'interlocutore', quindi in atti richiestivi o in tentativi di convincere una persona

496 E' interessante che il bambino (di sette anni) qui utilizzi il numerale vün al posto dell'articolo indeterminativo un. Lo scambio è probabilmente indotto dalla difficoltà di definizione, in contesti contrastivi come questo, del valore preciso. Il bambino mette l'accento sul fatto che si tratti di "uno solo, e non due o più" e quindi adotta la forma del numerale che gli sembra esprimere meglio questo contrasto, mentre non gli sembra rilevante la non definitezza che viene espressa dall'indeterminativo, che però qui ha anche valore di numerale.

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riguardo alla verità dei propri enunciati. Data l'altra frequenza di atti di questo tipo nell'interazione di adulti con bambini è legittimo credere che i bambini abbiano interpretato la commutazione di codice degli adulti come strumento di persuasione. L'ampliamento della casistica ha portato ad allargare questa ipotesi, mostrando una reinterpretazione dell'uso dell'italiano da parte dei bambini anche come una 'forma di deferenza' verso l'interlocutore. Quando sia usato con adulti (e questo è il caso più frequente), questo registro si configura dunque come una specie di 'BT inverso', dove la percezione nel comportamento linguistico degli adulti di un valore di 'affettività' è alla base della reinterpretazione dell'appropriatezza dell'uso di un registro simile da parte dei bambini come 'forma di attenzione all'interlocutore', e quindi di 'rispetto o cortesia'497. La scarsità dell'uso con altri bambini coetanei sostiene l'esistenza di un nucleo centrale, pragmaticamente motivato quindi, di adozione dell'italiano nel dialetto dei bambini rivolto agli adulti o in situazioni di richiesta, come ben si vede anche dai casi seguenti (dove si tratta sempre di richieste o di domande, con la curva intonativa che si innalza sulla parola italiana, facilitando la sua maggiore corposità):

t'é durmii bene? [”hai dormito bene?”] pòdi vègh ammò un biscotto? [”posso avere ancora un biscotto?”] te ma passi la macchina [”mi passi la macchina”]

Il terzo livello di penetrazione attraverso il BT nel dialetto dei bambini è infine, come abbiamo visto, quello dell'ipotesi più forte: se si abbia cioè un nuovo dialetto con un incremento dell'identità con l'italiano come conseguenza dell'assunzione acritica del comportamento affettivo-chiarificativo dei genitori.

497 La massima pragmatica del "sii chiaro" (Grice 1968) ha tra l'altro chiari valori di cortesia nell'esplicitare maggiormente all'altro ciò che si sta dicendo. Non si può qui non pensare anche alla 'deference maxim' formulata nel modo seguente dalla Scotton (1983, 123): "Show deference in your code choice to those from whom you desire something".

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Da quanto detto sopra riguardo alla variazione nei comportamenti e alle motivazioni che condizionano questa variazione è ovvio che il BT non ha provocato (almeno per ora) un 'nuovo dialetto', ma unicamente nuove varietà e registri all'interno del repertorio. In parte i fenomeni di assunzione di forme italiane sono considerabili nell'ottica discussa sopra di valori pragmatici speciali o come fenomeni di age-grading, cioè fenomeni che scompaiono al crescere del bambino. L'argomento principale sul quale si basa questa conclusione è che nelle interazioni tra pari la frequenza di alternanze verso l'italiano è molto minore che nelle interazioni con adulti. Rispetto alle nostre osservazioni della fine degli anni Ottanta dobbiamo però anche rilevare che alcune parole italiane restano molto di più oggi nel discorso dei bambini di quanto non facessero allora (un esempio tipico è la parola palla che in alcuni bambini ha oramai sostituito il dialettale bala) e la loro presenza non è ricollegabile ad una chiara motivazione 'speciale' (in alcuni bambini si ha una tendenza al decrescere in relazione all'età, che però può essere dovuta al fatto che i più piccoli hanno conosciuto il fenomeno in un'altra matrice dei più grandi, cioè quando esso era meno forte). Questa grande variazione nei bambini può essere il segnale di una fase di forte mutamento. In questo senso, si può dire che si sta assistendo ad un allargamento del continuum o addirittura del concetto di dialetto e perciò spesso vi è la possibilità di alternare le due forme. In conclusione, queste alternanze non sono ancora la norma con i coetanei, ma sono comunque molto frequenti parlando con adulti. Con i coetanei la loro presenza è più sporadica e in questi casi essa dà spesso l'impressione di essere la conseguenza o di una perdita della variante dialettale o di una sua non recuperabilità. Questo è tanto più vero quanto più la parola dialettale è 'suppletiva' rispetto a quella italiana e tanto più essa è poco frequente. Su questa tendenza incide in modo fondamentale la tendenza altrettanto forte ad non più adattare i prestiti italiani, introducendo così nel dialetto una maggiore accettazione della fonologia italiana e modificando di conseguenza il sistema fonologico originale dialettale. In questo modo si può andare delineando un 'lessico a due velocità', dove le componenti più frequenti sono in dialetto e quelle meno frequenti in italiano (o 'ex-italiano', dato che non si ha l'impressione che per i bambini vi sia cambiamento di lingua). Vi è infine, al terzo livello (quello dell'ipotesi forte), una sotto-problematica che va considerata a parte dall'ipotesi forte globale. Si tratta del problema della

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conseguenze a lungo termine di questi comportamenti. E' infatti presumibile che l'incremento osservato nell'alternanza di parole italiane e parole dialettali per lo stesso significato porti ad un incremento dell'avvicinamento delle basi lessicali e, ad un altro livello, ad un rafforzamento del ruolo delle forme italiane come 'forme più chiare', che, se non ad un livello di competenza vera e propria, ad un livello metalinguistico assumono sempre più un ruolo di forme di citazione, che a lungo termine le può pure portare ad un ruolo di forme di base vere e proprie. Così si istituisce una vera e propria 'morfologia interlinguistica' nei parlanti nativi stessi, che permette il passaggio regolare da una lingua all'altra e che avrebbe, a lungo termine, in situazioni come quella da noi osservata, effetti importanti sul repertorio dei dialettofoni. Questo vorrebbe tra l'altro dire che, a differenza di quanto si è spesso pronosticato, non gli italiani regionali verrebbero a costituire i 'nuovi dialetti', ma i dialetti entrerebbero sempre più nell'orbita dell'italiano, diventandone, per quanto riguarda il lessico, delle realizzazioni peculiari da un punto di vista soprattutto fonologico (dei veri e propri 'dialetti a posteriori' dell'italiano, con una forte riduzione delle differenze profonde, ed un mantenimento di caratteristiche fonetiche, variabili, di realizzazione). Ancora una volta quindi si avrebbe un avvicinamento sul continuum con la riduzione della distinzione (per quanto riguarda il dialetto) tra italiano e dialetto, ma non in direzione di una scomparsa dei dialetti, bensì verso un'ampliamento delle strutture dialettali tramite l'italiano. Dall'altro lato l'uso dell'italiano potrebbe portare a lungo termine ad una perdita di motivazione al mantenimento del dialetto, e quindi, in ultima analisi, all'abbandono del dialetto stesso. Sulla base delle nostre osservazioni è senz'altro presumibile che almeno per una minima parte di parole dialettali ci sia stata, in alcuni bambini, una perdita e che il loro posto sia stato stabilmente preso dai corrispondenti italiani. In molti casi, però, almeno teoricamente, le regole di corrispondenza mettono a disposizione del bambino, quando sia necessario, gli strumenti per ricostruirsi la parola dialettale a partire da quella italiana. Oltre ai fenomeni più tipicamente lessicali, nei bambini ritroviamo altre tracce di cedimento sistematico di caratteristiche un tempo tipiche del contrasto italiano-dialetto. Due fenomeni che abbiamo potuto constatare con una certa frequenza, e che coincidono con il comportamento degli adulti nel BT sono la non palatalizzazione della /s/ preconsonantica e l'uso della variante non velare per /n/ finale. A livello morfosintattico si è creata una zona simile di transizione con l'alternanza di l'è ed è. E' verosimile che questi tratti, che come abbiamo detto si

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ritrovano nel parlato a bambini di adulti (che altrimenti non li presentano498), siano oramai stati assunti come varianti 'native', normali, da parte dei bambini stessi e che quindi essi siano entrati nel nuovo sistema dialettale. Il fenomeno che qui abbiamo osservato è relativamente nuovo e si è sviluppato molto velocemente (anche solo nel tempo in cui le nostre osservazioni sono avvenute). Non è quindi da escludere che nei prossimi anni si abbiano nuovi comportamenti. Ci troviamo perciò in un momento di transizione, in una zona di 'facilitazione maggiore' dell'italiano, che potrebbe eventualmente aprire la porta ad un uso più generale. La transizione è quella dall'uso di adulti con bambini per scopi chiarificativi (e in un secondo tempo affettivi), all'uso dei bambini con gli adulti per scopi speciali (per es. come una forma di ‘BT inverso’), fino all'uso generalizzato non marcato, dove le regole comunicative permettono di impiegare alcune parole sempre nella forma italiana senza che venga percepita una differenza, e dove il valore di dialettalità è affidato ai 'non Nomi' o agli elementi con valore più 'correlativo' che 'informativo'. Accanto a queste parole italiane però, nel caso delle espressioni più frequenti, il bambino conosce le forme dialettali (v. per es. sum ammò un po' stanco; ma poco dopo usa sc-trach), e perciò, anche se non sembra sempre possibile individuare univocamente una forma motivante 'specialistica' per l'uso dell'italiano, d'altro canto non abbiamo ancora una riduzione del lessico centrale. La sostituzione radicale a partire dall'input quindi non si verifica. Questi bambini hanno semplicemente imparato che si parla così, e che la parola sulla quale maggiormente si concentra l'attenzione nel messaggio deve essere in italiano. Infine i tratti di realizzazione variabile delle corrispondenze con movimenti sul continuum che abbiamo ritrovato nella varietà indirizzata dagli adulti ai bambini si ritrovano anche nei bambini stessi, con le stesse correlazioni sociolinguistiche che si hannno per le alternanze di intere parole.

4.3.3. Un tratto innovativo autonomo nelle varietà dialettali dei bambini nativi

498 Ma che abbiamo già incontrato come 'zone deboli' del sistema dialettale negli altri tipi di varietà analizzate.

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Al di là dei fenomeni di italianizzazione che si ritrovano nelle varietà di questi bambini, si possono notare anche alcuni tratti non dipendenti dall'influsso diretto dell'italiano che costituiscono dei potenziale mutamenti interni al dialetto. Questi fenomeni si rivelano in genere dei fenomeni transitori nella costruzione della competenza dialettale da parte dei bambini e scompaiono con lo sviluppo linguistico a contatto di varietà native che non li presentano. Ci soffermiamo però qui su un tratto interessante per due aspetti, da un lato non è transitorio nei bambini da noi osservati almeno fino ai 10 anni (l'età più avanzata dei bambini seguiti nella nostra ricerca) e secondariamente si tratta di un fenomeno morfosintattico, che mostra quindi un indebolimento di strutture nei giovani nativi non solo al livello della ben nota e documentata convergenza lessicale e fonologica ma anche in relazione a zone più 'centrali' del sistema'. Si tratta della tendenza alla perdita della distinzione tra il verbo "avere" come ausiliare e come verbo autonomo. Mentre nella norma dialettale frasi come le seguenti:

noi abbiamo una mela noi abbiamo fatto una gita

sarebbero realizzate in dialetto come rispettivamente:

(nüm) (a) gh'em una poma (nüm) em fai na pasegiada

dove la forma non ausiliare non richiede un avverbio (cfr. anche Lurà 1987, 165, che conferma la presenza di gh' categorica con avere tranne quando abbia funzione di ausiliare), in tutti i bambini nativi che abbiamo potuto osservare ci sono occorrenze (e in alcuni bambini la presenza è categorica) di forme non ausiliari con l'avverbio, come negli esempi seguenti:

el gh'em visct passà via ["l'abbiamo visto passar"] a gh'em fai la corsa ["abbiamo fatto la corsa", "abbiamo corso"] a gh'em giügà a la bala

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["abbiamo giocato alla palla"]

Collegato alla mancata distinzione tra la funzione di ausiliare e non ausiliare per avere si ha la preferenza per l'avverbio fortemente legato al verbo anche in contesti in cui si dovrebbe o potrebbe intromettere un clitico499: v. per es. al gh'évi prima mì per a ga l'évi prima mì. Si tratta in pratica del verbo ‘ciavere’, che mantiene fisso l'avverbio anche quando ha funzione di ausiliare. Mentre le altre caratteristiche peculiari dei bambini sono da attribuire piuttosto a fenomeni apprendimentali, la presenza di questo tratto anche in bambini di dieci anni fa pensare che si tratti di una innovazione linguistica che potrebbe toccare in modo anche radicale le strutture del sistema. Nel nostro contesto questo tratto è interessante perché non si ricollega in nessun modo a comportamenti osservati nei genitori e quindi non fa parte di quei fenomeni appresi attraverso l'input discussi nel paragrafo precedente. Una sua eventuale interpretazione come 'stadio apprendimentale transitorio' è messa in discussione dal fatto che ci è stato possibile osservarne la presenza sistematica anche in bambini di undici anni, ciò che farebbe piuttosto pensare che si tratti di una innovazione che sta 'tentando' di diffondersi dopo esser nata autonomamente nelle varietà dei bambini (ed essersi presumibilmente diffusa attraverso le stesse nei gruppi dei pari). Non era nostra intenzione concentrarci sulle varietà dei bambini dialettofoni (obiettivo che merita e richiede invece uno studio a sé) al di là di quelli che potessero essere gli effetti dell'input misto sulle loro varietà. La rilevanza però del fenomeno appena visto ci ha costretti almeno per un attimo a venir meno al nostro principio. E accanto a questo fenomeno vanno ancora ricordati altri tratti significativi che si notano nelle varietà dei bambini nativi e che avvicinano questi ultimi (per alcuni settori specifici) ai parlanti evanescenti. Pensiamo per es. alla difficoltà a distinguere tra un (articolo indeterminativo) e vün (pronome indefinito e numerale), o alla sovrageneralizzazione che abbiamo osservato in alcuni bambini nativi (ma forse li si potrebbero definire 'neo-nativi', volendo cogliere la forza di queste tendenze innovative rispetto alle varietà degli adulti), della forma maschile trii "tre" con il

499 Nell'ambiente di questi bambini (ed in particolare da parte dei genitori) viene preferita la forma del tipo a ga l'évi prima mì.

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valore non marcato e con la conseguente perdita della distinzione di genere legata all'opposizione con tre (femminile). Questi ultimi fenomeni, che non sono apprendimentali perché si rivelano stabili nelle varietà di alcuni bambini di età attorno ai dieci anni che hanno avuto la loro socializzazione primaria in dialetto, mostrano un ulteriore indebolimento della norma dialettale, con l’insorgere di una certa ‘sordità all’input’, e l'apertura di 'spazi di risistemazione' delle strutture da parte dei 'neo-nativi'.

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5. Conclusioni

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5. Conclusioni. Mutamenti, relazioni tra sistemi, apprendimento e variazione

'Dialetto lingua del cuore - italiano lingua del pane'? Possiamo dire che questa espressione è valida come approssimazione generale, ma solo fino ad un certo punto dato che la definizione di quali siano le 'varietà del cuore' e quali siano 'quelle del pane' è anch'essa soggetta a rielaborazione. Il caso che qui abbiamo presentato mostra come se fino ad un certo punto una compartimentazione di questo tipo sia sostenibile, dall'altro lato le categorie che vi sono implicate sono esse stesse costantemente in interazione. Per migliorare la nostra comprensione delle situazioni di diglossia, dobbiamo allora assumere un'ottica che veda accanto a due grandi categorie di domini d'uso (relativamente stabili ma astratte) dei 'momenti di mutamento', cioè delle derivazioni di queste categorie che si prestano ad essere rianalizzate sociolinguisticamente dai parlanti. Ciò può portare a fenomeni apparentemente incoerenti con la tipologia bipartita ma motivati da relazioni più profonde che appartengono al grande sistema culturale della comunità. Momenti di mutamento di questo tipo sono stati presenti a più riprese nella storia della relazione italiano-dialetto e, alcuni di essi, come nel caso delle narrazioni dialettali visto in precedenza, hanno portato a situazioni di 'mutamento in potenza', dove sullo sfondo di un quadro superficiale di contrapposizioni stabili emergono tendenze di incoerenza con il quadro generale stesso. Queste tendenze, per il loro carattere marginale, spesso non hanno un ruolo importante nella coscienza dei parlanti (spesso non vengono nemmeno percepite a livello metalinguistico) e/o rimangono al livello delle 'eccezioni'. Il concentrarsi però di una serie, fino ad allora indipendente, di queste 'eccezioni' o il mutare delle condizioni extralinguistiche mette in crisi il quadro generale e provoca la ricerca di una nuova coerenza nei rapporti linguistici. In queste fasi si hanno accelerazioni dei mutamenti che portano a nuovi equilibri relativi. La prospettiva particolare adottata per osservare il dialetto, attraverso alcune sue varietà marginali, ci ha permesso di osservare differenti soluzioni dell'interazione dinamica del dialetto con i suoi utenti (più o meno passivi, più o meno nativi, più o meno adulti, ecc.) che individuano alcune delle linee del grande potenziale strutturale a disposizione di questa lingua per reagire ai mutamenti potenziali delle sue circostanze d'uso.

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5.1. Le varietà usate con i bambini NeI periodo che va dagli anni Sessanta ai nostri giorni, in Ticino si è passati da una situazione sociolinguistica 'atipica', in cui il dialetto poteva essere in parte sia la lingua 'del cuore' che 'del pane', all'altra atipicità che qui abbiamo discusso. Proprio uno degli ambiti che dovrebbero essere più centrali e tipici dell'uso del dialetto come 'lingua del cuore', quello con i bambini che si vogliono socializzare in dialetto (e in particolare l'espressione dell'affettività nel discorso rivolto a loro), manifesta fenomeni che sono la conseguenza di relazioni tra le lingue presenti ormai da anni ma unicamente in una forma marginale. Con il cedimento dei blocchi sociali posti all'italofonia questi fenomeni hanno però improvvisamente assunto il carattere di norma e hanno a loro volta provocato nuovi mutamenti. La soluzione mista e di transizione nella trasmissione della lingua che qui abbiamo discusso coniuga le nuove valenze delle lingue e ne è nel contempo la conseguenza500. Contrariamente a quanto si è sostenuto a varie riprese nella storia degli studi linguistici (per es. da parte dei cosiddetti 'neo-grammatici' ottocenteschi) i bambini non sono i responsabili principali del mutamento linguistico, né sono necessari perché quest’ultimo si verifichi. La differenza tra i fenomeni tipici dell'acquisizione e quelli della lingua che si modifica nel tempo è oramai ben indagata da studi che sciolgono la relazione causale che si voleva vedere tra i due fenomeni (cfr. per es.

500 Per una dimostrazione della ripartizione tra i codici dei valori che qui stiamo discutendo si ricordi la caricatura della madre (cfr. n. 1 del cap. 4) che offre i dolci al figlio in italiano e quando questi non sa decidersi, lo tratta in malo modo parlando dialetto. Questo fenomeno, dei genitori dialettofoni che vogliono parlare italiano ai figli e in situazioni di affettività negativa ricadono nel dialetto, ed il nostro BT, in cui dialettofoni, parlando dialetto, incrementano il grado di affettività positiva inserendo parole italiane, possono sembrare simili negli effetti, ma in verità si basano su situazioni di marcatezza sociolinguistica contrapposte. Mentre in entrambi i casi l'italiano veicola un atteggiamento positivo, nel primo di essi il dialetto ha per la madre in questione una valenza chiaramente negativa mentre nel secondo esso ha carattere 'non marcato'. Il mutamento che qui abbiamo cercato di indagare di indagare consiste proprio nel passaggio da un tipo di situazione all'altro.

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Baron 1977, Bybee - Slobin 1982, Romaine 1989c501). Ciò non vuole però dire che i bambini, intesi come individui sociolinguisticamente particolari e non più come 'iniziatori' del mutamento, non giochino comunque un ruolo particolare in quest'ultimo. Soprattutto in situazioni particolari, come quella della creolizzazione o nel revival di lingue che avevano perso l'uso attivo (cfr. Bar-Adon 1978, 1988502) la loro importanza può essere notevole. Nel nostro caso si tratta quindi di tener conto della figura del bambino come 'parlante particolare' e come gestore di un momento importante nella storia di una lingua. In quest'ottica il bambino costituisce per gli adulti un momento di possibile riflessione sul repertorio e sul suo riassestamento. I suoi fattori caratteristici sono quelli dell'interlocutore poco competente e verso il quale si esprime affettività, ma anche quello del parlante del futuro, con quindi un possibile intreccio di queste due funzionalità e la nascita, attraverso le caratteristiche di varietà specifiche a lui indirizzate, di un nuovo rapporto tra le lingue in gioco nel repertorio. In un secondo momento, come giustamente ha suggerito Romaine (1989c), il bambino può diventa il 'suggellatore della norma', il nuovo parlante nativo che stabilisce, con il suo comportamento (che è in parte l'espressione dei mutamenti operati dagli adulti) che cosa è 'normale' nei fatti della sua lingua. La nuova situazione acquisisce così dei parlanti nativi che la fissano e la stabilizzano.

501 Anche se ci sono pure studi che cercano di dimostrare che talvolta, in situazioni particolari, i bambini possono essere all'origine della nascita di variazione e quindi di mutamento, come per es. Mougeon, Beniak e Valois (1986).

502 Bar-Adon (1988, 1694), a proposito della rivitalizzazione della lingua ebraica in Israele, afferma che "The final, and most crucial, stage in the revival process which determined the success of the entire revival, and transformed it from an experiment to an established fact, was the emergence of a new generation of native speakers, who were born into the new language and reared on it. With their mouths they realized the final phase of socio-linguistic (and linguistic) crystallization - the transition from a language of immigration to a language of native speakers. Indeed, this was the most important step in the normalization process of the Hebrew language, the culmination of the revival process. The children not only contributed to the creation of a native-speech community, but also to the shaping of the new language itself."

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Date queste premesse non deve più essere sorprendente che una parte delle innovazioni si ritrovi nel BT e che in questo modo si fissi nella comunità503. Abbiamo anche visto che questi mutamenti, provocati non intenzionalmente dai bambini (che ne sono i destinatari), costituiscono una tendenza molto regolare in situazioni particolari di diglossia. Quando la varietà 'alta', percepita come più chiara e adatta per la messa in evidenza di parti del discorso, entra nell'uso colloquiale della comunità, le reticenze che impedivano il suo uso nell'ambito famigliare cedono velocemente, lasciando spazio ad un codice misto, basato su alternanze di forme, che ottiene come secondo effetto, attraverso l'espressione di chiarezza, un incremento di espressione di affettività verso il bambino. Per la situazione da noi osservata è fondamentale notare che anche se il fenomeno del cambiamento di lingua nel BT modifica la varietà dei bambini queste modifiche riguardano soprattutto il livello lessicale e l'atteggiamento in genere verso l'italiano, ma non la morfosintassi. Il processo che abbiamo osservato passa attraverso una serie di stadi che portano da un uso dell'italiano come 'forma alternativa', ad un uso come 'forma di citazione', con un valore metalinguistico decrescente, fino, attraverso la percezione di una maggiore chiarezza o esplicitezza della forma italiana, ad un uso come 'forma di base' esplicita, con un avvicinamento delle forme superficiali delle due lingue. Infine, con un processo di 'retro-determinazione', le forme dialettali vengono derivate a posteriori dalle forme italiane, interpretando queste ultime come vere forme di base (implicite), dalle quali, mediante regole di 'differenziazione sociolinguistica' (le 'ex-regole di corrispondenza'), sono ricavabili le ‘varianti’ dialettali.

503 D'altro canto, da un punto di vista della comunità e del suo repertorio, occorre notare che questi fenomeni stanno portando in pratica ad almeno due tipi di mutamenti. In primo luogo, dal BT tradizionale si sta passando a quello bilingue (con sostituzioni funzionali delle lingue nel registro: quindi un mutamento di registro). In secondo luogo, abbiamo un mutamento generale dal dialetto all'italiano (che porta ad un nuovo assestamento nei rapporti diglossici se non proprio ad una vera e propria sostituzione). Secondo Ferguson (1978) il BT viene trasmesso da generazione all'altra (ed è quindi un registro altamente convenzionalizzato). In questo senso possiamo dire di trovarci in un momento di 'mutamento' o transizione, che ci permette di osservare come può cambiare un genere 'altamente stabile' nella trasmissione generazionale e eventualmente fissarsi nella nuova forma come se così fosse sempre stato. E non solo, dato che qui addirittura il BT fa da 'chiave' potenziale per un mutamento più generale.

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A seconda di dove le lingue in gioco collocano i loro confini, il rapporto italiano-dialetto si fissa parametricamente in punti differenti di questa scala di transizione (che fa passare le forme di base da un polo all'altro). Alla fine un polo del continuum fornirà le basi lessicali e l'altro polo una morfologia e una fonologia minime necessarie per definire come differente l’altra varietà (liberata dalle regole meno prevedibili504). Per quanto riguarda la morfologia verbale, che sembra costituire un nucleo più stabile e solido, il raggruppamento in paradigmi, che facilita la memorizzazione, contribuisce alla creazione di 'micro-sistemi' che resistono meglio alle innovazioni505. Una visione di questo tipo ha conseguenze importanti anche sul concetto stesso di continuum506, che assume così una nuova valenza in quanto le forme variabili di uno stesso continuum sono effettivamente 'isobasiche' e vengono, nel nostro caso, ricavate dalla forma di base italiana con un movimento morfofonologico continuo di allontanamento più o meno forte dalla forma di base (dalla quale si vuole marcare una distanza sociolinguistica). In questo modo, il polo dialettale si ritrae lasciando sempre più spazio alle forme di derivazione italiana (ed alle regole di corrispondenza). Per quanto riguarda le varietà native dobbiamo però mettere l'accento in modo fondamentale sul fatto che i fenomeni individuati non vanno interpretati come segnali verso una 'scomparsa del dialetto' (anche se esso viene attaccato dal lato dell'espressione di affettività, che dovrebbe essere il suo lato forte), quanto piuttosto come fenomeni di mutamento nella scelta degli strumenti di variazione, che, almeno a breve e medio termine, possono addirittura costituire un potenziamento del dialetto tramite una sua migliore funzionalità nella situazione.

504 Con l'eccezione, come abbiamo visto, di alcune peculiarità fissate negli elementi lessicali memorizzati.

505 Anche da un punto di vista identitario i parlanti sembrano accettare meglio elementi lessicali (e specialmente Nomi) che non tratti morfologici (come osservato anche dalle cosiddette 'gerarchie di trasferibilità'). Questo coincide in parte con il noto criterio usato dai linguisti per risolvere casi di presunto ibridismo (assegnando le parole alla lingua che fornisce la morfologia). Dato che i parlanti sembrano anch'essi esser sensibili a questo fattore il criterio viene in parte a coincidere con l'altro criterio proposto, e cioè quello dell''intenzione relativa all'attribuzione che il parlante vuole dare di un dato elemento (cioè quale lingua rappresenti).

506 Sul concetto di continuum v. almeno Rickford (1987) e, per la situazione italiana, Berruto (1987a).

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Per vedere in modo più importante fenomeni di più forte italianizzazione o semplificazione della morfosintassi occorre rivolgersi alle varietà di stranieri o di 'post-nativi' (semi-speakers), dove appaiono possibili 'strade di transizione' dalla tipologia o dal sistema dialettale a quello italiano o a un nuovo dialetto più 'economico' e ridotto.

5.2. I parlanti evanescenti I parlanti evanescenti sono il risultato di un fenomeno di apprendimento passivo a lungo termine, in parte 'involontario'. I tratti che si ritrovano nelle loro varietà sono presumibilmente tratti molto stabili sotto due differenti aspetti. Da un lato si tratta di caratteristiche molto importanti per le strutture dialettali, nel senso che fanno parte in modo centrale del sistema costituendone un nucleo fondamentale attorno al quale ruotano caratteristiche più periferiche. Dall'altro lato la presenza di queste strutture può avere una motivazione più 'identitaria', in quanto si tratta di 'marche di differenziazione' fondamentali del dialetto rispetto all'italiano. Tra i fatti strutturali che ci preme qui riprendere c'è in primo luogo l'osservazione del riapparire, nel campo dei clitici soggetto ma anche in altri settori, di fenomeni e linee di sviluppo note dagli studi diacronici sui dialetti. Questa 'costanza' ci deve far riflettere sul concetto di 'limiti della variazione', cioè di spazio possibile di mutamento di un fenomeno linguistico. Esistono quindi direzioni preferenziali alternative nelle quali si indirizzano i mutamenti, dato che i sistemi linguistici nativi si configurano come 'equilibri instabili' i quali, una volta attenuate le condizioni di stabilità, tendono a ricercare nuovi assestamenti ripercorrendo talvolta percorsi già noti. Il concetto di 'limite della variazione' viene a collegarsi in modo importante con il concetto di 'velocità della variazione', o di 'velocità necessaria', per cui il travalicamento dei limiti presuppone normalmente o una velocità di variazione notevole (una rottura con la lingua obiettivo o con lo standard) o un tempo di variazione altrettanto importante (ad una velocità 'normale')507. Una domanda che ci si può porre riguarda l'utilizzabilità di questi parlanti per la costruzione di previsioni sul futuro strutturale del dialetto. E' lecito supporre che il

507 Abbiamo discusso casi di 'incremento della velocità' ('teorica' rispetto alle situazioni normali di mutamento) parlando delle cosiddette 'interlingue improbabili', dove una velocità di mutamento molto rapida può produrre effetti simili a quelli di un tempo di mutamento lungo.

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dialetto di domani sarà quello dei parlanti evanescenti di oggi? A nostro parere la categoria dei PE più competenti è l'unica che ci possa dare qualche indicazione in questo senso. Infatti, con i PE1 abbiamo a che fare con parlanti molto competenti ('quasi-nativi') che mettono in mostra, diagnosticamente, i punti critici del sistema per soggetti che comunque hanno avuto un contatto molto forte (e fin dalla prima infanzia) con il dialetto ma che hanno come lingua dominante l'italiano. Al polo estremo la distanza strutturale e temporale (nel senso ricordato prima di 'velocità del mutamento') dalle varietà native attuali dei PE3 rende quest'ultimi meno credibili come modello a breve o medio termine del dialetto. Un'altra domanda fondamentale che ci dobbiamo porre è se questi parlanti abbiano oramai preclusa la strada verso una eventuale competenza dialettale completa. Proprio parlando di apprendimento di altri dialetti e della correlazione della competenza con il fattore età, Chambers (1992, 689) osserva che "fine graded sociolinguistic studies reveal that late learners may never master complex rules of the new accent". Da quanto abbiamo visto dai nostri parlanti ci sentiamo di sostenere che per una parte importante dei parlanti evanescenti, con l'opportuna motivazione e gli opportuni input, attraverso un incremento dei comportamenti linguistici attivi, sarebbe possibile (e per alcuni addirittura facile) raggiungere livelli da parlanti nativi o comunque con un grado di mimetismo molto alto rispetto a questi. Una delle componenti fondamentali di questo potenziale successo è proprio la tendenza dei parlanti nativi veri e propri a ridurre le regole forti della dialettalità (o a mantenerle unicamente come fenomeni lessicali olistici), e ci si può allora chiedere se i parlanti nativi attuali non manifestino in questo senso già tracce in loro stessi delle caratteristiche tipiche dei parlanti evanescenti, con una economizzazione nel paradigma multilingue delle strutture più complesse. Infatti, il passaggio dalla prevalenza delle singole varietà arcaiche-locali alle varietà sovraregionali-innovative ha potenzialmente adattato il dialetto anche ad una migliore apprendibilità da parte di chi ha l'italiano come lingua materna, incrementando la simmetria del passaggio dal dialetto all'italiano e viceversa. In un quadro di prognosi sulle strutture dialettali del futuro è però fondamentale anche l'eventuale emergere nei nativi (e nei giovani nativi in particolare) di reinterpretazioni sociolinguistiche di strutture apprendimentali, che potrebbero assumere uno statuto 'legittimato' ed essere assunte e trasmesse dai nativi stessi.

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5.3. Le altre varietà L'arco delle altre varietà che abbiamo osservato ci mostra come il dialetto sia nei decenni scorsi passato da una L2 dominante nella comunità, alla quale dovevano rifarsi anche i non nativi che volevano stabilirsi definitivamente sul territorio ticinese, ad una L2 subordinata, che addirittura perde i suoi parlanti nativi. Se i parlanti non italofoni che usano il dialetto rappresentano oramai un fenomeno marginale, gli italofoni che non utilizzano abitualmente il dialetto in forma attiva sono oramai diventati importanti quantitativamente . Può sembrare in questo senso paradossale ritrovare ai vertici dei livelli più avanzati di competenza508 parlanti di origine non italofona che hanno avuto intensi contatti con la comunità di immigrazione (come per es. tedescofoni molto competenti), ai quali si affiancano unicamente alcuni parlanti nativi 'persi' (i nostri parlanti evanescenti più competenti). Ciò dimostra il ruolo fondamentale di fattori extralinguistici (come il contesto particolare di inserimento, più o meno dialettofono) e motivazionali nell'apprendimento attivo del dialetto, tanto che talvolta ci si può chiedere se questi fattori non possano diventare più importanti dell'acquisizione primaria. Tra questo livello più alto e quello più basso, occupato dai non italofoni che non hanno avuto bisogno di imparare il dialetto, si definisce così una zona intermedia di varietà linguistiche. Queste varietà sono differenziate tra loro dai 'pesi' differenti dalle pressioni funzionali fondamentali dovute ai due 'attrattori' che abbiamo identificato nel corso del nostro lavoro. I prodotti linguistici che ritroviamo qui risentono, in modi differenti, sia di pressioni apprendimentali (rimangono quelle strutture o elementi dialettali che sono di più facile percezione, analisi ed uso) che di pressioni di tipo sociolinguistico (si mantengono quelle strutture che manifestano meglio il carattere differenziale di dialettalità, o che vengono percepite come tipiche a contrasto con l'italiano).. L'italiano entra in scena da un lato come varietà più immediatamente disponibile per queste persone (perché loro lingua materna o lingua meglio conosciuta), e dall'altro lato come lingua che influenza normalmente il dialetto e fornisce a quest'ultimo strumenti di modernizzazione lessicale e talvolta strutture di

508 Tralasciando ovviamente i parlanti che abbiamo definito ex-PE.

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prestigio (come nel caso le tecniche della formalità, pensiamo per es. solo alle frasi relative). Per il dialetto è invece fondamentale, oltre all'uso degli strumenti noti e disponibili, la volontà di marcare chiaramente la differenza identitaria tra i codici, che fa sì che alcune delle sue tecniche centrali e preminenti vengano mantenute. La domanda relativa a quanto di 'gestibilità del sistema ci sia nei fenomeni sociolinguistici' e quanto di 'intenti identitari e stilistici ci sia nelle interlingue' è senz’altro una delle domande fondamentali di una teoria linguistica allargata. Varietà come quelle qui analizzate presentano un punto d'osservazione interessante per questa problematica in quanto riuniscono in sé sia componenti apprendimentali che componenti legate all'interazione sociolinguistica delle varianti e delle lingue. La manifestazione più interessante di questo fenomeno di interazione tra mutamento nelle strutture della variazione dialettale e italianizzazione si ha senz'altro nelle varietà degli 'ex-PE', per i quali strutture italianeggianti, ritrovabili anche in contesti apprendimentali, assumono valenze sociolinguistiche particolari. La 'realisticità di questo tipo di varietà (in termini di eventuali sviluppi futuri del dialetto) è confermata dal fatto che in buona parte queste stesse strutture, con la stessa funzionalità iniziano ad apparire anche nel parlato, con valori stilistici particolari, di adulti nativi con bambini509. A questo livello, quindi, le regole di corrispondenza diventano regole variabili, che collegano forme superficiali e forme di base, secondo modalità processuali molto simili a quelle della morfologia intralinguistica e distinguendo sulla base di valori tipicamente sociolinguistici. I dialetti entrano così sempre più nell'orbita dell'italiano (e costituiscono con esso un unico grande potenziale variazionistico), mantenendo comunque una propria

509 Si tratta dei due tipi di varietà in cui la componente apprendimentale è praticamente trascurabile e le particolarità sono unicamente motivate da pressioni sociolinguistiche. Dal punto di vista delle strutture caratteristiche, varietà 'motivate primariamente da fattori apprendimentali' (come quelle dei PE e dei non italofoni che usano il dialetto in modo solo passivo) e varietà 'motivate primariamente da fattori sociolinguistici' mostrano spesso tendenze contrapposte, con tratti dialettali gestiti bene anche dagli apprendenti meno competenti che vengono sostituiti da varianti 'neo-dialettali' nelle varietà dei più competenti.

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motivazione identitaria, che blocca la sostituzione radicale, spesso pronosticata, tramite gli italiani regionali510. Osservando le varietà marginali abbiamo quindi potuto cogliere varietà di italiano che si 'colorano di dialetto' (quelle dei non nativi che preferiscono usare il dialetto) e varietà di dialetto che si 'colorano di italiano' (quelle dei nativi e dei 'quasi-nativi'), e una zona intermedia di gradi differenti nelle soluzioni. Abbiamo così individuato sia una serie di percorsi possibili che collegano italiano e dialetto costituendo i possibili momenti di un continuum bidimensionale relativo a fatti sociolinguistici e a fatti apprendimentali, sia una serie di linee preferenziali di sviluppo anche slegate da eventuali influssi dell'italiano.

510 Anche perché l'ottica secondo la quale a sua volta gli italiani regionali dovrebbero esser sostituiti da uno standard non regionale si è rivelata irreale.

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