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1 Aggiornamenti e integrazioni al libro INFORMAZIONE E COMUNICAZIONE NELL’ORDINAMENTO GIURIDICO ITALIANO di Maria Romana Allegri (agg. settembre 2016) Pag. 6 (sul diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero): La Corte costituzionale, con sentenza n. 122 del 1970, relativa al sequestro di stampati per tutelare il diritto al’immagine, ha precisato che i diritti inviolabili dell’uomo contemplati nell’art. 2 Cost. sono riconosciuti al singolo, il quale può farli valere erga omnes. Quindi «non é lecito dubitare che la libertà di manifestare il proprio pensiero debba imporsi al rispetto di tutti, delle pubbliche autorità come dei consociati, e che nessuno possa recarvi attentato senza violare un bene assistito da rigorosa tutela costituzionale». La Corte ha voluto così sottolineare che il diritto in parola è garantito non solo nei confronti dei pubblici poteri, ma anche per ciò che attiene ai rapporti fra privati. Pag. 20 (sul reato di diffamazione): Recentemente la Corte di Cassazione (prima sezione penale, sentenza n. 24431 del 2015) ha precisato che la fattispecie aggravata del reato di diffamazione ricorre anche nel caso in cui i commenti offensivi siano postati su una bacheca Facebook, essendo questo tipo di bacheche accessibili ad un gran numero di persone. Inoltre ha precisato la Cassazione «l'utilizzo di Facebook integra una delle modalità attraverso le quali gruppi di soggetti socializzano le rispettive esperienze di vita, valorizzando in primo luogo il rapporto interpersonale, che, proprio per il mezzo utilizzato, assume il profilo del rapporto interpersonale allargato ad un gruppo indeterminato di aderenti al fine di una costante socializzazione». Peraltro, già in precedenza la Cassazione (I sezione penale, sentenza n. 16712 del 2014) aveva esaminato un caso relativo a insulti pubblicati su Facebook, leggibili solo nell’ambito di una cerchia ristretta di amici; il nome della persona insultata non era stato scritto, ma la persona era certamente identificabile dagli amici che avevano accesso a quella pagina. Ebbene, anche in tale occasione la Cassazione aveva ritenuto sussistente il reato di diffamazione perché era ravvisabile negli autori del commento offensivo la consapevolezza di pronunciare una frase lesiva dell’altrui reputazione e la volontà che la frase venisse a conoscenza di più persone. Però chi, mediante un post su un social network, semplicemente aderisca a post dal contenuto denigratorio caricati in precedenza da altri utenti non commette il reato di diffamazione (così Cass. Pen. V, sent. 29 gennaio 2016 n. 3981). La questione del reato di diffamazione, specialmente se imputato al direttore responsabile di una testata giornalistica, è recentemente tornato di attualità per via del “caso Sallusti”, su cui si è espressa anche la V sezione penale della Corte di Cassazione con sentenza 26 settembre 2012, n. 41249: per via di due articoli pubblicati sul quotidiano “Libero” e riconosciuti dal giudice come gravemente diffamatori, al direttore Alessandro Sallusti è stata comminata caso più unico che raro per la giurisprudenza italiana la massima pena prevista dal codice penale, cioè quella detentiva (che successivamente il Presidente della Repubblica ha commutato in pena pecuniaria), ritenendo che il direttore fosse a conoscenza del contenuto diffamatorio dell’articolo e ne avesse consapevolmente consentito la pubblicazione. Il caso ha riaperto il dibattito fra quanti ritengono la pena detentiva sproporzionata per il reato di diffamazione, poiché per la sua gravità rappresenta un serio ostacolo alla libertà di espressione, e quanti invece ritengono che la dignità umana vada tutelata attraverso la previsione di efficaci deterrenti alla troppo disinvolta pubblicazione di notizie diffamatorie. Peraltro, la Corte europea dei diritti dell’uomo (sent. 24 settembre 2013, Belpietro c. Italia), pur ritenendo legittima la condanna penale del direttore di un quotidiano sul quale, per via dell’omesso controllo da parte del direttore, era stato pubblicato un articolo dal contenuto diffamatorio, ha censurato l’applicazione della pena detentiva ritenendola sproporzionatamente severa e quindi contraria

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Aggiornamenti e integrazioni al libro INFORMAZIONE E COMUNICAZIONE NELL’ORDINAMENTO GIURIDICO ITALIANO

di Maria Romana Allegri

(agg. settembre 2016) Pag. 6 (sul diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero): La Corte costituzionale, con sentenza n. 122 del 1970, relativa al sequestro di stampati per tutelare il diritto al’immagine, ha precisato che i diritti inviolabili dell’uomo contemplati nell’art. 2 Cost. sono riconosciuti al singolo, il quale può farli valere erga omnes. Quindi «non é lecito dubitare che la libertà di manifestare il proprio pensiero debba imporsi al rispetto di tutti, delle pubbliche autorità come dei consociati, e che nessuno possa recarvi attentato senza violare un bene assistito da rigorosa tutela costituzionale». La Corte ha voluto così sottolineare che il diritto in parola è garantito non solo nei confronti dei pubblici poteri, ma anche per ciò che attiene ai rapporti fra privati. Pag. 20 (sul reato di diffamazione): Recentemente la Corte di Cassazione (prima sezione penale, sentenza n. 24431 del 2015) ha precisato che la fattispecie aggravata del reato di diffamazione ricorre anche nel caso in cui i commenti offensivi siano postati su una bacheca Facebook, essendo questo tipo di bacheche accessibili ad un gran numero di persone. Inoltre – ha precisato la Cassazione – «l'utilizzo di Facebook integra una delle modalità attraverso le quali gruppi di soggetti socializzano le rispettive esperienze di vita, valorizzando in primo luogo il rapporto interpersonale, che, proprio per il mezzo utilizzato, assume il profilo del rapporto interpersonale allargato ad un gruppo indeterminato di aderenti al fine di una costante socializzazione». Peraltro, già in precedenza la Cassazione (I sezione penale, sentenza n. 16712 del 2014) aveva esaminato un caso relativo a insulti pubblicati su Facebook, leggibili solo nell’ambito di una cerchia ristretta di amici; il nome della persona insultata non era stato scritto, ma la persona era certamente identificabile dagli amici che avevano accesso a quella pagina. Ebbene, anche in tale occasione la Cassazione aveva ritenuto sussistente il reato di diffamazione perché era ravvisabile negli autori del commento offensivo la consapevolezza di pronunciare una frase lesiva dell’altrui reputazione e la volontà che la frase venisse a conoscenza di più persone. Però chi, mediante un post su un social network, semplicemente aderisca a post dal contenuto denigratorio caricati in precedenza da altri utenti non commette il reato di diffamazione (così Cass. Pen. V, sent. 29 gennaio 2016 n. 3981). La questione del reato di diffamazione, specialmente se imputato al direttore responsabile di una testata giornalistica, è recentemente tornato di attualità per via del “caso Sallusti”, su cui si è espressa anche la V sezione penale della Corte di Cassazione con sentenza 26 settembre 2012, n. 41249: per via di due articoli pubblicati sul quotidiano “Libero” e riconosciuti dal giudice come gravemente diffamatori, al direttore Alessandro Sallusti è stata comminata – caso più unico che raro per la giurisprudenza italiana – la massima pena prevista dal codice penale, cioè quella detentiva (che successivamente il Presidente della Repubblica ha commutato in pena pecuniaria), ritenendo che il direttore fosse a conoscenza del contenuto diffamatorio dell’articolo e ne avesse consapevolmente consentito la pubblicazione. Il caso ha riaperto il dibattito fra quanti ritengono la pena detentiva sproporzionata per il reato di diffamazione, poiché per la sua gravità rappresenta un serio ostacolo alla libertà di espressione, e quanti invece ritengono che la dignità umana vada tutelata attraverso la previsione di efficaci deterrenti alla troppo disinvolta pubblicazione di notizie diffamatorie. Peraltro, la Corte europea dei diritti dell’uomo (sent. 24 settembre 2013, Belpietro c. Italia), pur ritenendo legittima la condanna penale del direttore di un quotidiano sul quale, per via dell’omesso controllo da parte del direttore, era stato pubblicato un articolo dal contenuto diffamatorio, ha censurato l’applicazione della pena detentiva ritenendola sproporzionatamente severa e quindi contraria

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all’art. 10 CEDU, poiché rappresenta un’illegittima compressione del diritto a manifestare liberamente il proprio pensiero. Secondo la Corte di Strasburgo, che si era già così espressa in un caso precedente (sent. 17 dicembre 2004, Cumpănă e Mazăre c. Romania), la pena detentiva in caso di reati a mezzo stampa potrebbe essere giustificata solo in circostanze eccezionali che comportino una grave lesione di altri diritti fondamentali, come del resto la Corte aveva già evidenziato Negli ultimi anni sono stati presentati diversi disegni di legge in tema di diffamazione a mezzo stampa. Il più recente fra questi (AC 925-C approvato dalla Camera dei Deputati nel giugno 2015) ha previsto l’eliminazione della pena detentiva per il reato di diffamazione, come richiesto dalla Corte di Strasburgo, compensata però con l’obbligo di immediata rettifica su richiesta dell’interessato, con la possibilità per il diffamato di richiedere, oltre al risarcimento dei danni, anche una somma a titolo di riparazione, determinata in relazione alla gravità dell'offesa e alla diffusione dello stampato, e soprattutto con una sanzione pecuniaria molto ingente per l’organo di informazione che ha diffuso la notizia diffamatoria. Nel corso dell’iter parlamentare, caratterizzato da vari passaggi fra Camera e Senato, la proposta ha subito alcune modifiche e ha suscitato numerose polemiche, tanto che per il momento sembra essersi arenata. Pag. 22 (sui reati di opinione): A proposito dei reati di opinione, oltre a quanto previsto dal codice penale va ricordata la legge n. 654 del 1975, con cui l’Italia ha ratificato la Convenzione internazionale sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione razziale, che punisce chi propaganda idee fondate sulla superiorità o sull'odio razziale o etnico, ovvero istiga a commettere o commette violenza o atti di discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi. La recente legge n. 115 del 2016 vi ha aggiunto un nuovo articolo che prevede la reclusione da due a sei anni nei casi in cui la propaganda, l'istigazione e l'incitamento, commessi in modo che derivi concreto pericolo di diffusione, si fondino «in tutto o in parte sulla negazione della Shoah o dei crimini di genocidio, dei crimini contro l'umanità e dei crimini di guerra" come definiti dallo Statuto della Corte penale internazionale». È stato così inserito nel nostro ordinamento il cosiddetto reato di negazionismo, già esistente in alcun Paesi europei ed extra-europei, come reazione al proliferare in tutta Europa di movimenti di ispirazione razzista e antisemita. Tuttavia, se ben si comprendono le ragioni che sono alla base della previsione di questa nuova fattispecie penale, non si può non esprimere qualche perplessità circa il fatto che non è compito del diritto stabilire la verità o la falsità dei fatti storici. Proprio per questo correttamente la nuova legge non punisce il negazionismo in sé e per sé, ma solo le opinioni negazionisti da cui derivi concretamente propaganda, istigazione o incitamento alla violenza o alla discriminazione. Pag. 22 (sul concetto di privacy): Il diritto alla privacy, che originariamente era visto come diritto dell’individuo borghese ad escludere gli altri dalla propria sfera privata (così nel saggio The Right of Privacy di Brandeis e Warren, 1890), ha assunto via via i connotati del diritto di ogni persona di mantenere il controllo sui dati che la riguardano, ovunque essi si trovino. Si parla allora di habeas data, un diritto tutelato anche da alcune Costituzioni, soprattutto dei Paesi latino-americani, che costituisce il moderno sviluppo dell’habeas corpus dal quale si è storicamente sviluppato il diritto ala libertà personale. Quindi oggi con il termine privacy si intende un insieme di poteri che, prendendo le mosse dall’antico nucleo del diritto ad essere lasciati in pace, si sono diffusi nella società per consentire ai singoli il controllo sulle modalità di trattamento dei propri dati nei confronti di soggetti sia pubblici che privati che ha tali dati hanno accesso. Pag. 37 (sulla disciplina del segreto di Stato): Errata corrige: la legge sul segreto di Stato citata a pag. 37 è la n. 124 del 2007. Pag. 40 (sull’art. 15 Cost.):

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La Corte costituzionale, con sentenza n. 366 del 1991, ha affermato che «la libertà e la segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione costituiscono un diritto dell’individuo rientrante tra i valori supremi costituzionali, tanto da essere espressamente qualificato dall’art. 15 Cost. come diritto inviolabile»; quindi «il suo contenuto essenziale non può essere oggetto di revisione costituzionale, in quanto incorpora un valore della personalità avente un carattere fondante rispetto al sistema democratico voluto dal Costituente». Pag. 58 (sul sequestro degli stampati): Nel 1970 la Corte costituzionale è stata chiamata a decidere (sentenza n. 122) se il potere del giudice civile di disporre il sequestro di pubblicazioni a stampa "al fine di far cessare l'abuso dell'immagine altrui" (artt. 96 e 97 della legge sul diritto d’autore n. 633 del 1941) fosse compatibile con l'art. 21, terzo comma, della Costituzione. Questo perché l’art. 21 Cost. ammette espressamente il sequestro preventivo solo nel caso di «delitti per i quali la legge sulla stampa espressamente lo autorizzi» o nel caso di «violazione di norme che la legge stessa prescriva per l'indicazione dei responsabili». Tuttavia, a giudizio della Corte, «quando la stampa viene in considerazione come strumento di diffusione del pensiero – presupposto che discende dalla già rilevata connessione fra libertà di stampa e libertà di pensiero – la norma contenuta nel terzo comma dell'art. 21 della Costituzione copre l'intera area del sequestro, qualunque sia il contrapposto interesse col quale la stampa entra in collisione»; quindi anche il sequestro finalizzato alla tutela del diritto di immagine è da ritenersi ammissibile. Pag. 61 (sui reati di stampa): Fra i reati di stampa va annoverato anche il reato commesso da chiunque in qualsiasi modo divulghi stampe o stampati pubblicati senza l'osservanza delle prescrizioni di legge sulla pubblicazione e diffusione della stampa periodica e non periodica (art. 366 bis c.p., rubricato come “divulgazione di stampa clandestina”) che però è punito solo con una sanzione amministrativa pecuniaria. Pag. 73 (sui finanziamenti pubblici all’editoria): Il d.l. n. 201 del 2011, convertito in legge n. 214 del 2011, aveva stabilito la completa cessazione dei finanziamenti pubblici diretti all’editoria entro il 31 dicembre 2014. Tuttavia la legge di stabilità 2014 (legge n. 147 del 2013, art. 1 comma 261) ha istituito presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri un Fondo straordinario per gli interventi di sostegno all'editoria per il periodo 2014-2016, destinato ad incentivare «gli investimenti delle imprese editoriali, anche di nuova costituzione, orientati all'innovazione tecnologica e digitale e all'ingresso di giovani professionisti qualificati nel campo dei nuovi media ed a sostenere le ristrutturazioni aziendali e gli ammortizzatori sociali». Un decreto della Presidenza del Consiglio dei Ministri del 30 settembre 2014 ha individuato come beneficiari del fondo «le imprese operanti nel settore dell’editoria e dell’informazione che editano libri e pubblicazioni giornalistiche, anche in via telematica, a carattere quotidiano o periodico, le agenzie di stampa a carattere nazionale o locale, le imprese esercenti attività di emittenza radiotelevisiva nazionale o locale che diffondono servizi e programmi di informazione giornalistica, nonché le imprese che ad esse forniscono prodotti giornalistici». Il Fondo è destinato ad incentivi per l’innovazione tecnologica e digitale, ad incentivi all’assunzione di giornalisti, al parziale finanziamento degli ammortizzatori sociali erogati in favore di giornalisti interessati da processi di riduzione dell’attività lavorativa. La legge di stabilità 2016 (legge n. 2018 del 2015) il Fondo è stato allocato presso il Ministero dello sviluppo economico. Approssimandosi l’estinzione del Fondo, il Parlamento sta attualmente esaminando una proposta di legge che conferirebbe deleghe al Governo per la ridefinizione del sostegno pubblico all'editoria e istituirebbe un nuovo Fondo per il pluralismo e l'innovazione. La Camera dei Deputati ha approvato il testo in prima lettura il 2 marzo 2016 (C 3317 e C 3347); si attende l’esito dell’esame in Senato (S 2271). Questo nuovo Fondo

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verrebbe allocato presso il Ministero dell’economia. Di tale risorse non potrebbero più beneficiare i quotidiani di partiti o movimenti o organi sindacali, quelli appartenenti a società quotate in borsa e le riviste o i periodici a carattere tecnico, professionale, scientifico o aziendale; ne potrebbero invece beneficiare le tv locali, le cooperative giornalistiche, le pubblicazioni edite da enti senza fini di lucro, i giornali espressione delle minoranze linguistiche, i periodici per non vedenti e per ipovedenti, quelli editi da associazioni dei consumatori, i giornali in lingua italiana diffusi all’estero. Pag. 81 (sulla nozione di stampa applicata alle testate telematiche): Se nel 2010 (sent. n. 35511) la Cassazione ha evidenziato l’assoluta eterogeneità delle informazioni presenti in internet rispetto alla stampa propriamente detta, tanto da escludere che al direttore di una testata telematica possa essere imputato il reato di diffamazione a mezzo stampa, più recentemente sembra aver mutato avviso. Infatti nel 2015 (sent. n. 31022, sezioni unite) la Cassazione ha evidenziato che al concetto di stampa deve attribuirsi un significato evolutivo coerente tanto con il progresso tecnologico quanto con l’ordinamento giuridico considerato nel suo complesso, giungendo alla conclusione che ai quotidiani e ai periodici on-line dotati di direttore responsabile e di una propria organizzazione redazionale debbano essere applicate – con esclusivo riferimento ai contenuti redazionali e non anche ai commenti postati dagli utenti – le medesime disposizioni previste per la stampa tradizionale. Continuano invece ad essere escluse dall’ambito di applicazione delle disposizioni riferite alla stampa tutti quegli strumenti telematici caratterizzati dalla spontaneità della comunicazione (forum, blog, newsletter, social network, newsletter, mailing list, ecc.). Di conseguenza, la legge sulla stampa del 1948 non è applicabile a queste forme “libere” di comunicazione, né lo è la disciplina sul sequestro degli stampati prevista dall’art. 21 Cost. (così Cass. pen. V, sent. n. 10594 del 2013). Pag. 83 (sul caso Google-Vividown): In primo grado (Tribunale di Milano, sentenza 24 febbraio 2010 n. 1972) i dirigenti di Google Italia sono stati assolti dall’accusa di diffamazione (le motivazioni sono spiegate nel libro a pag. 83), ma condannati perché Google – in qualità di Internet Service Provider – avrebbe dovuto fornire ai propri inserzionisti chiare e puntuali informazioni sulle corrette modalità di trattamento dei dati personali. Tuttavia, anche questo secondo capo di imputazione è caduto nel secondo grado di giudizio (Corte di appello di Milano, sentenza del 21/12/2012, depositata in cancelleria il 27/02/2013) e l’assoluzione è stata confermata dalla Corte di Cassazione (sentenza n. 3672 del 3 febbraio 2014). Il giudice d’appello ha infatti escluso qualsiasi obbligo di controllo preventivo da parte dell’hosting provider sui contenuti immessi in rete perché «non può essere ravvisata la possibilità effettiva e concreta di esercitare un pieno ed efficace controllo sulla massa dei video caricati da terzi, visto l’enorme afflusso di dati». Inoltre, non è corretto affermare che l’art. 13 del Codice sul trattamento dei dati personali, relativo agli obblighi di informativa, imponga al provider di avvertire i propri utenti circa i contenuti della legge sul trattamento dei dati personali. Infine, il giudice d’appello ha precisato che occorre distinguere fra le diverse modalità di trattamento dei dati: trattare un video, come fa Google, è cosa ben diversa dal trattare il singolo dato in esso contenuto, cosa che rientra nella responsabilità di chi ha caricato il video e non del provider. Dell’intera vicenda, però, l’aspetto più delicato – come ben evidenziato nella sentenza di secondo grado – è che «demandare a un internet provider un dovere-potere di verifica preventiva appare una scelta da valutare con particolare attenzione in quanto non scevra da rischi, poiché potrebbe finire per collidere contro forme di libera manifestazione del pensiero». Pag. 83 (il caso Google Spain): A proposito della responsabilità degli Internet Service Provider circa il trattamento dei dati personali, va citata anche la recente sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione europea 13 maggio 20014, causa C-131/12, nota come Google Spain, che ha chiaramente stabilito che la raccolta, l’organizzazione e la conservazione dei dati che il gestore del motore di ricerca compie nell’esercizio delle sue funzioni

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costituisce trattamento dei dati personali e deve quindi rispettare la normativa europea in materia. Poiché il trattamento dei dati personali effettuato dal motore di ricerca permette agli utenti del web di ottenere facilmente, attraverso l’elendo dei risultati associati a un nome, molte informazioni che toccano vari aspetti della vita privata, ai fini del rispetto dei diritti individuali tale trattamento è addirittura più rilevante della originaria pubblicazione delle notizie sui siti web. Ulteriori informazioni su questa importantissima sentenza si trovano nel paragrafo successivo dedicato al diritto all’oblio. Pag. 87 (sulla professione giornalistica): La legge sull’ordinamento della professione giornalistica è rispettosa di quanto previsto dall’art. 2229 del codice civile, secondo cui «La legge determina le professioni intellettuali per l'esercizio delle quali è necessaria l'iscrizione in appositi albi o elenchi. L'accertamento dei requisiti per l'iscrizione negli albi o negli elenchi, la tenuta dei medesimi e il potere disciplinare sugli iscritti sono demandati [alle associazioni professionali] sotto la vigilanza dello Stato, salvo che la legge disponga diversamente. Contro il rifiuto dell'iscrizione o la cancellazione dagli albi o elenchi, e contro i provvedimenti disciplinari che importano la perdita o la sospensione del diritto all'esercizio della professione è ammesso ricorso in via giurisdizionale nei modi e nei termini stabiliti dalle leggi speciali». Recentemente la legge n. 233 del 2012 ha stabilito che i giornalisti iscritti all’albo devono percepire un “equo compenso” proporzionato alla qualità e quantità del lavoro svolto e ha istituito, presso il Dipartimento per l’informazione e l’editoria della Presidenza del Consiglio dei Ministri una Commissione incaricata della definizione e valutazione dell’equo compenso. La Commissione redige e pubblica un elenco dei quotidiani, dei periodici anche telematici, delle agenzie di stampa e delle emittenti radiotelevisive che garantiscono il rispetto di un equo compenso. Gli organi di informazione non inclusi nell’elenco non possono beneficiari del sostegno economico pubblico all’editoria. Pag. 88 (sugli iscritti all’Albo dei giornalisti): La Corte di Cassazione, con sentenza n. 256 del 2 aprile 1971, ha precisato la differenza tra "giornalista professionista" e "giornalista pubblicista": il professionista è un operatore a tempo pieno del mondo dell'informazione mentre il pubblicista, pur svolgendo attività continuativa e retribuita, è un operatore non professionale a tempo parziale (cioè svolge un'altra professione come attività principale). Di conseguenza, i pubblicisti non possono ricoprire le qualifiche previste dal contratto di lavoro giornalistico (redattore ordinario, capo servizio, inviato, capo redattore e vice direttore). Solo gli iscritti all’Albo (professionisti e pubblicisti) possono ricoprire il ruolo di direttori responsabili di una testata giornalistica. Infatti «l'esperienza dimostra che il giornalismo, se si alimenta anche del contributo di chi ad esso non si dedica professionalmente, vive soprattutto attraverso l'opera quotidiana del professionisti. Alla loro libertà si connette, in un unico destino, la libertà della stampa periodica, che a sua volta é condizione essenziale di quel libero confronto di idee nel quale la democrazia affonda le sue radici vitali» (Corte costituzionale, sentenza n. 11 del 1968). Proprio per questa ragione «l'obbligo imposto dall'art. 46 della legge [sull’ordinamento della professione giornalistica] – nei limiti in cui viene prescritto che direttore e vicedirettore responsabili siano iscritti nell'albo – risulta legittimo in entrambi gli aspetti sotto i quali, come si é detto, esso va valutato. Ed infatti la funzione dell'Ordine – funzione, giova ripeterlo, che dà giustificazione costituzionale alla sua istituzione e disciplina – risulterebbe frustrata ove proprio i poteri direttivi di un quotidiano, di un periodico o di un'agenzia potessero essere assunti da un soggetto (non importa che si tratti dello stesso proprietario o di altri) che per il fatto di non essere iscritto nell'albo non possa essere chiamato a rispondere di fronte all'Ordine per eventuali comportamenti lesivi della dignità sua e dei giornalisti che da lui dipendono: vale a dire per inadempienza al primo e fondamentale dovere di garantire che l'attività affidata alla sua direzione e responsabilità si svolga in quel clima di libertà

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di informazione e di critica che la legge vuole assicurare come necessario fondamento di una libera stampa» (Corte costituzionale, sentenza n. 98 del 1968). Per le stesse ragioni la Corte costituzionale (sentenza n. 2 del 1971) ha ritenuto legittima la norma che prescrive che, qualora la direzione di un giornale che sia organo di partiti o movimenti politici o di movimenti sindacali sia affidata a persona non iscritta nell'albo dei giornalisti (ma con l’iscrizione provvisoria del direttore nell'albo stesso) il vice direttore responsabile debba necessariamente essere un giornalista iscritto nell'elenco dei professionisti o dei pubblicisti. Pag. 91 (sull’attività giornalistica): La Corte di Cassazione (sentenza n. 1827 del 1995) ha definito l’attività giornalistica come «prestazione del lavoro intellettuale volta alla raccolta, al commento e all’elaborazione di notizie destinate a formare oggetto di comunicazione interpersonale attraverso gli organi di informazione», precisando inoltre che la professione giornalistica si differenzia dalle altre professioni intellettuali «in ragione di una tempestività di informazione diretta a sollecitare i cittadini a prendere conoscenza e coscienza di tematiche meritevoli, per la loro “novità”, della dovuta attenzione e considerazione». Pag. 93 (sui codici deontologici): All’elenco dei codici deontologici pubblicato a pag. 93 va aggiunta la Carta di Perugia su informazione e malattia, risalente al 1995 e fatta propria solo da alcuni Consigli regionali dell’Ordine. Secondo la Carta di Perugia nel rispetto del rispetto del diritto del cittadino-paziente alla tutela della propria dignità personale e del diritto del cittadino-utente ad un'informazione corretta e completa, l'informazione e la divulgazione devono contenere tutti gli elementi necessari a non creare false aspettative nei malati e negli utenti, devono essere distinte in maniera evidente e inequivocabile da ogni possibile forma di pubblicità sanitaria, non devono provocare allarmismi, turbative ed ogni possibile distorsione della verità né indurre in interpretazioni speculative o deformanti dei fatti. In anni più recenti l’elenco dei codici deontologici approvati dall’Ordine dei giornalisti si è allungato. L’8 novembre 2011 è stata approvata la Carta di Firenze sulla precarietà nel lavoro giornalistico: la Carta stabilisce che l’Ordine dei giornalisti vigilerà affinché sia garantita a tutti i giornalisti – dipendenti o autonomi – un’equa retribuzione e venga posto un freno allo sfruttamento e alla precarietà, considerando che il primo diritto del giornalista è la tutela della sua autonomia, purtroppo lesa nelle frequenti situazioni di precarietà per via delle inadeguate retribuzioni. Proprio per questo motivo, la legge n. 233 del 2012 ha istituito presso il Dipartimento per l'informazione e l'editoria della Presidenza del Consiglio dei ministri una Commissione per la valutazione dell'equo compenso nel lavoro giornalistico e ha stabilito che le imprese editoriali che non rispettano il principio dell’equo compenso non possano accedere ai contributi pubblici per l’editoria. Il 18 marzo 2013 il Consiglio nazionale dell’Ordine dei giornalisti ha varato un Protocollo deontologico per i giornalisti che trattano notizie concernenti carceri, detenuti o ex detenuti, noto come Carta di Milano. Muovendo dalla fondamentale e ribadita esigenza deontologica di rispettare la persona e la sua dignità, la Carta, consapevole che il diritto all’informazione può trovare limiti quando venga in conflitto con i diritti dei soggetti bisognosi di una tutela privilegiata, vincola i giornalisti a osservare la massima attenzione nel trattamento delle informazioni concernenti i cittadini privati della libertà o quelli alle prese con la fase estremamente difficile e problematica del reinserimento nella società. Il proliferare dei codici deontologici ha fatto emergere l’esigenza che i diversi documenti venissero riuniti ed armonizzati in un testo unico, al fine di consentire una maggiore chiarezza di interpretazione e facilitare l’applicazione di tutte le norme, la cui inosservanza può determinare la responsabilità disciplinare dell’iscritto all’Ordine. Quindi, nel gennaio 2016 il Consiglio nazionale dell’Ordine dei giornalisti ha

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approvato il Testo unico dei doveri del giornalista, che ha recepito i contenuti dei seguenti documenti: Carta dei doveri del giornalista; Carta dei doveri del giornalista degli Uffici stampa; Carta dei doveri dell’informazione economica; Carta di Milano; Carta di Perugia; Carta di Roma; Carta informazione e pubblicità; Carta informazione e sondaggi; Codice di deontologia relativo alle attività giornalistiche; Codice in materia di rappresentazione delle vicende giudiziarie nelle trasmissioni radiotelevisive; Decalogo del giornalismo sportivo. Tutti i documenti confluiti nel Testo unico del 2016, pur mantenendo inalterato il loro valore etico e storico, non sono più vigenti: ciò significa che non possono più essere indicati come regole di comportamento dei giornalisti né possono essere richiamati nei procedimenti disciplinari come testi normativi di riferimento. Mantengono invece efficacia e validità autonoma i seguenti Codici che figurano in allegato al Testo unico: Codice deontologico relativo al trattamento dei dati personali per attività giornalistica; Carta di Treviso e relativo Vademecum; Glossario alla Carta di Roma; Carta dei doveri dell’informazione economica; Carta di Firenze sulla precarietà nel lavoro giornalistico. Pag. 97 (sulla giurisprudenza della Corte di Strasburgo relativa al segreto professionale giornalistico): Anche nella sentenza Martin v. Francia del 12 aprile 2012 la Corte europea dei diritti dell’uomo ha ribadito che le perquisizioni nel domicilio e nell’ufficio di un giornalista e il sequestro di supporti informatici, con l’obiettivo di individuare la fonte anonima di cui il giornalista si è servito, sono in contrasto con l’art. 10 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU). Pag. 104 (sul trattamento dei dati personali per finalità giornalistiche): Il Garante per la protezione dei dati personali, con delibera n. 376 del 2013 ha deciso di avviare la procedura di modifica del codice deontologico relativo al trattamento dei dati personali per attività giornalistica. Si è sempre generalmente ritenuto che le norme del Codice deontologico relativo al trattamento dei dati personali per attività giornalistica si riferissero soltanto ai giornalisti iscritti all’Albo (professionisti e pubblicisti) e che solo costoro potessero trattare i dati personali con le modalità indicate nel Codice deontologico, mentre per tutti gli altri soggetti – anche per coloro che svolgono attività di informazione giornalistica senza essere iscritti all’Albo – valesse la disciplina generale. Tuttavia il Garante per il trattamento dei dati personali, con provvedimento n. 29 del 27 gennaio 2016, ha stabilito invece che la disciplina del Codice deontologico sia applicabile anche al blog che svolge attività di informazione. Infatti, gli artt. 136 ss. del Codice Privacy estendono l’applicazione delle disposizioni concernenti il trattamento dei dati personali in ambito giornalistico anche ad ogni altra attività di manifestazione del pensiero implicante trattamenti di dati personali, pur non effettuata da giornalisti professionisti o pubblicisti. Ciuò considerato il blogger, nel momento in cui svolge un’attività informativa, è soggetto alle stesse regole e gli sono riconosciute le stesse garanzie del giornalista; pertanto egli non commette alcun illecito nel riportare notizie e commenti, anche senza il consenso degli interessati, purché rispetti i diritti, le libertà fondamentali e la dignità della persona di cui scrive. Pag. 105 (sul diritto all’oblio): Con l’espressione “diritto all’oblio” si intende il diritto individuale a non vedere continuamente riproposte dai mezzi di comunicazione notizie riferite alla propria persona relative a fatti di cronaca accaduti tempo addietro, dal momento che tali notizie non sono più di interesse pubblico e la loro ripubblicazione non è di utilità sociale. In altre parole, è il diritto ad essere dimenticati quando il trascorrere del tempo rende la notizia non più attuale, esaurendo l’interesse pubblico di conoscenza per quel fatto. Il diritto all’oblio sorge dunque a tutela della reputazione di un soggetto e può essere sacrificato soltanto nel caso in cui, per qualche ragione oggettiva, l’interesse pubblico per quella notizia si risvegli. La terza sezione civile della

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Corte di Cassazione, nella sentenza n. 3679 del 1998, ha per la prima volta riconosciuto il diritto all’oblio come nuovo e specifico profilo del diritto alla riservatezza, e cioè come «giusto interesse di ogni persona a non restare indeterminatamente esposta ai danni ulteriori che arreca al suo onore e alla sua reputazione la reiterata pubblicazione di una notizia in passato legittimamente divulgata»; tuttavia «quando il fatto precedente per altri eventi sopravvenuti ritorna di attualità, rinasce un nuovo interesse pubblico all’informazione — non strettamente legato alla stretta contemporaneità fra divulgazione e fatto pubblico  — che si deve contemperare con quel principio, adeguatamente valutando la ricorrente correttezza delle fonti di informazione». Il diritto all'oblio salvaguarda la proiezione sociale dell'identità personale, l'esigenza del soggetto di essere tutelato dalla divulgazione di informazioni (potenzialmente) lesive in ragione della perdita di attualità delle stesse, sicché il relativo trattamento viene a risultare non più giustificato ed anzi suscettibile di ostacolare il soggetto nell'esplicazione e nel godimento della propria personalità (Cass. civ. n. 11864/2004). L’utilizzo di Internet per la diffusione di informazioni anche di tipo giornalistico impone di considerare il diritto all’oblio sotto un diverso profilo, poiché l’informazione presente online non è cancellata, ma permane disponibile o quanto meno astrattamente disponibile nella Rete. Non si può fare riferimento al tempo trascorso fra l’originaria pubblicazione della notizia e la sua ripubblicazione in un momento successivo, ma al tempo di permanenza dell’informazione in Rete. Si pone quindi l’esigenza di contestualizzare l’informazione, che è rimasta sempre disponibile online, adeguandola all’evoluzione storica dei fatti, in modo da non ledere l’integrità dell’identità personale. Significativa a tale proposito è stata la sentenza della terza sezione civile della Corte di Cassazione n. 5525 del 2012. Secondo la Corte, anche riguardo a un fatto molto risalente nel tempo può persistere un interesse pubblico di conoscenza a distanza di anni, soprattutto nel caso in cui una vicenda passata sia da porre in relazione con nuovi fatti di interesse pubblico; tuttavia, a tutela della reputazione della persona protagonista della notizia, è importante che il titolare del trattamento dei dati (nella fattispecie si trattava di una testata giornalistica online) provveda ad aggiornare la notizia attraverso «il collegamento della notizia ad altre informazioni successivamente pubblicate concernenti l'evoluzione della vicenda, che possano completare o financo radicalmente mutare il quadro evincentesi dalla notizia originaria»; occorre quindi «garantire la contestualizzazione e l'aggiornamento della notizia già di cronaca oggetto di informazione e di trattamento, a tutela del diritto del soggetto cui i dati pertengono alla propria identità personale o morale nella sua proiezione sociale, nonché a salvaguardia del diritto del cittadino utente di ricevere una completa e corretta informazione», altrimenti «la notizia, originariamente completa e vera, diviene non aggiornata, risultando quindi parziale e non esatta, e quindi sostanzialmente non vera». Qualche perplessità ha destato la recente sentenza della terza sezione civile della Corte di Cassazione, n. 13161 del 24 giugno 2016, con la quale è stata imposta la cancellazione dagli archivi di un quotidiano locale di una notizia relativa a un fatto risalente al 2008, con la motivazione che – nonostante fosse tuttora in corso un procedimento penale a carico dei protagonisti di tale vicenda e che essa fosse, almeno per la comunità locale, di interesse pubblico – la facile accessibilità e consultabilità di quell’articolo via internet avesse determinato una lesione del diritto dei ricorrenti alla riservatezza ed alla reputazione. Con tale sentenza la Corte sembra aver sancito una “scadenza” del diritto di cronaca quantificabile in due anni e mezzo (tale è stato infatti il tempo intercorso fra la pubblicazione dell’articolo nel marzo 2008 e la richiesta al giornale di cancellare l’articolo, risalente al settembre 2010), ritenendo che «fosse trascorso sufficiente tempo perché le notizie divulgate potessero avere soddisfatto gli interessi pubblici sottesi al diritto di cronaca giornalistico». È evidente che, qualora venga dato seguito a questa impostazione giurispundenziale, vi sarebbero significative ripercussioni sulla libertà di cronaca e sul diritto di tutti ad essere informati. Poiché gli artt. 12 e 14 della direttiva 95/46/CE, che l’Italia ha recepito attraverso gli artt. 7, commi 3 e 4, e 11 del Codice in materia di protezione dei dati personali del 2003, consentono all’interessato di opporsi per motivi legittimi al trattamento dei dati che lo riguardano e impongono ai soggetti responsabili del trattamento dei dati di provvedere alla cancellazione dei dati la cui conservazione non è più necessaria

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(oppure, a seconda dei casi, alla loro rettifica o alla loro trasformazione in forma anonima), l’Autorità Garante per la protezione dei dati personali è più volte intervenuta con provvedimenti volti alla tutela del fondamentale diritto all’oblio, accogliendo i motivi per cui gli interessati si sono opposti al trattamento dei dati. È molto interessante a tale proposito il provvedimento dell’8 aprile 2009, con cui il Garante ha tenuto conto «delle peculiarità del funzionamento della rete Internet che possono comportare la diffusione di un gran numero di dati personali riferiti a un medesimo interessato e relativi a vicende anche risalenti nel tempo – e dalle quali gli interessati stessi hanno cercato di allontanarsi, intraprendendo nuovi percorsi di vita personale e sociale – che però, per mezzo della rappresentazione istantanea e cumulativa derivante dai risultati delle ricerche operate mediante i motori di ricerca, rischiano di riverberare comunque per un tempo indeterminato i propri effetti sugli interessati come se fossero sempre attuali»; di conseguenza il Garante ha ingiunto all’editore di un sito web di adottare le misure idonee affinché le generalità della persona contenute nell'articolo pubblicato online per il quale era stato presentato il ricorso non fossero rinvenibili direttamente attraverso l'utilizzo dei comuni motori di ricerca. Tuttavia sempre il Garante, con provvedimento n. 152 del 31 marzo 2016, si è opposto alla richiesta di una persona di rimuovere alcuni contenuti digitali che associavano il suo nome a reati di matrice terroristica compiuti fra la fine degli anni Settanta e in primi anni Ottanta, che venivano visualizzati automaticamente attraverso la funzione “completamento automatico” di Google: sebbene, infatti, l’ex terrorista avesse finito di scontare la pena comminatagli per quei reati, avesse intrapreso un nuovo percorso di vita, non fosse un personaggio pubblico e fosse comunque trascorso tantissimo tempo da quei fatti, il Garante ha ritenuto che «l'attenzione del pubblico è tuttora molto alta su quel periodo e sui fatti avvenuti», che hanno ormai assunto una valenza storica e segnato la memoria collettiva, e che quindi «debba ritenersi prevalente l'interesse del pubblico ad accedere alle notizie in questione». La responsabilità dei motori di ricerca quali responsabili del trattamento dei dai personali è stata recentemente chiarita dalla sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione europea del 13 maggio 2014, nota come Google Spain (causa C-131/12), che ha stabilito che: l’attività tipica svolta da un motore di ricerca – cioè l’aggregazione di informazioni – è da qualificarsi come trattamento dei dati personali, e pertanto il gestore deve rispettare la normativa europea sulla protezione dei dati; ai sensi degli artt. 7 e 8 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, chiunque può chiedere direttamente al motore di ricerca che l’informazione relativa alla sua persona non venga più messa a disposizione degli utenti della rete (deindicizzazione), ovvero venga cancellata, esercitando così il suo diritto all’oblio; il motore di ricerca è tenuto rimuovere dall’elenco dei risultati di una ricerca sul nome di un soggetto quei link verso pagine web che contengono informazioni relative al soggetto ricorrente quando quei dati «non siano più necessari in rapporto alle finalità per le quali sono stati raccolti o trattati» oppure risultino inadeguati, non siano o non siano più pertinenti, ovvero siano eccessivi in rapporto alle finalità suddette e al tempo trascorso». Va sottolineato che l’oggetto della cancellazione è costituito solo dai link pubblicati del motore di ricerca, non dai dati pubblicati dal gestore del sito fonte dell’informazione, che rimangono comunque disponibili in Rete. Va anche sottolineata la delicatezza della valutazione che il motore di ricerca – un soggetto privato che persegue interessi economici – dovrà fare delle ragioni per le quali viene richiesta la cancellazione o la deindicizzazione dei dati, decidendo di accogliere o meno i ricorsi degli interessati. Comunque, qualora il motore di ricerca dovesse respingere la richiesta di rimozione, l’interessato potrà rivolgersi all’autorità nazionale competente per la protezione dei dati ovvero all’autorità giudiziaria, accompagnando la richiesta di rimozione dei con una richiesta risarcitoria per i danni eventualmente subiti per via del diniego espresso dal motore di ricerca. Infine, il diritto all’oblio è stato sancito dal nuovo regolamento europeo sulla protezione dei dati personali, approvato il 14 aprile 2016, che sostituisce la normativa attualmente vigente in quest’ambito (vedi capitolo sulla disciplina del trattamento dei dati personali, pp. 246 ss.). Ricordiamo che i regolamenti emanati dall’Unione europea sono direttamente applicabili ed efficaci in tutti gli Stati membri dell’Unione – quindi anche in Italia – dal giorno della loro entrata in vigore. Secondo l’art. 17 del nuovo regolamento, l’interessato ha il diritto di ottenere dal responsabile del trattamento dei dati la cancellazione di dati personali che lo riguardano e la rinuncia a un’ulteriore diffusione di tali dati, in particolare in relazione ai

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dati personali resi pubblici quando l’interessato era un minore, nel caso in cui il trattamento di tali dati non sia conforme alle finalità del regolamento oppure l’interessato si sia opposto al trattamento, abbia revocato il consenso o il consenso sia scaduto, oppure infine qualora i dati non siano più necessari rispetto alle finalità per cui erano stati raccolti o trattati. Il responsabile del trattamento dovrà dunque procedere alla cancellazione e dovrà anche prendere tutte le misure ragionevoli, anche tecniche, per informare i terzi che stanno trattando tali dati della richiesta dell’interessato di cancellare qualsiasi link, copia o riproduzione dei suoi dati personali. I dati però non verranno cancellati nel caso in cui la loro conservazione sia necessaria per l’esercizio del diritto alla libertà di espressione, per motivi di interesse pubblico nel settore della sanità pubblica, per finalità storiche, statistiche e di ricerca scientifica. Il regolamento prevede infine i casi in cui il responsabile del trattamento, anziché cancellare i dati, potrà semplicemente limitarne il trattamento. Pag. 166 (sull’emittenza locale): La legge n. 448 del 1999 ha introdotto il sostegno economico pubblico in favore delle emittenti radiotelevisive locali. Nell’ottica di un risparmio di spesa, l’entità di tali contributi è stata ridotta con decreto legge n. 69 del 2013 (art. 1 comma 1 lett. c). Con la legge di stabilità 2014 è stato istituito un Fondo straordinario per gli interventi di sostegno all'editoria per il periodo 2014-2016, di cui possono beneficiare anche le emittenti radiotelevisive nazionali e locali che diffondono servizi e programmi di informazione giornalistica. Pag. 166-1667 (sull’art. 34 del Testo unico relativa alla tutela dei minori nelle trasmissioni radiotelevisive): Il d. lgs. n. 120 del 2012 ha modificato la norma in oggetto. La modifica prevede che l’AGCom emani la disciplina di dettaglio contenente l'indicazione degli accorgimenti tecnici idonei ad escludere che i minori vedano o ascoltino normalmente i programmi inadatti al loro sviluppo fisico e mentale, e che i fornitori di servizi di media audiovisivi possano rendere fruibili tali programmi solo attraverso una funzione di controllo parentale che inibisca l’accesso dei minori a determinati contenuti; tale funzione deve poter essere disattivata solo mediante un codice segreto, affidato alla responsabilità del maggiorenne titolare del contratto di fornitura di servizi di media audiovisivi. Pag. 168 (sulla composizione del SIC): Il d.l. n. 63 del 2012 (art. 3, comma 5 bis) ha inserito fra i ricavi del SIC anche gli introiti derivanti «da pubblicità on line e sulle diverse piattaforme anche in forma diretta, incluse le risorse raccolte dai motori di ricerca, da piattaforme sociali e di condivisione». Pag. 170 (sugli incroci Tv-stampa): L’art. 3 del d.l. 34 del 2011, convertito in legge n. 75 del 2011, ha prorogato al 31 dicembre 2012 il divieto di incroci fra settore della stampa e settore della televisione. Attualmente il divieto è decaduto. Pag. 174-175 (sulla nuova legge sul governo della RAI): Il Testo unico dei servizi di media audiovisivi e radiofonici regola il servizio pubblico generale radiotelevisivo e il relativo rapporto concessorio agli artt. 45-49, che sono stati recentemente modificati con legge n. 220 del 2015, in vigore dal 30 gennaio 2016, intitolata Riforma della RAI e del servizio pubblico radiotelevisivo. Secondo le norme attualmente in vigore, la concessione del servizio pubblico radiotelevisivo è affidata alla Rai fino al 6 maggio 2016. Entro tale scadenza la concessione dovrà essere rinnovata secondo la nuova disciplina, che prevede che il contratto di servizio che lega la società concessionaria del servizio pubblico radiotelevisivo al Governo verrà rinnovato ogni cinque anni e non più ogni tre anni. Prima di ciascun

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rinnovo quinquennale del contratto nazionale di servizio, sulla base di un’intesa fra l’AGCom e il Ministero sono fissate le linee-guida sul contenuto degli ulteriori obblighi del servizio pubblico generale radiotelevisivo, definite in relazione allo sviluppo dei mercati, al progresso tecnologico e alle mutate esigenze culturali, nazionali e locali. L'informazione pubblica a livello nazionale e quella a livello regionale saranno garantite attraverso la presenza in ciascuna Regione e Provincia autonoma di proprie redazioni e strutture adeguate alle specifiche produzioni, dotate di autonomia finanziaria e contabile. Specifiche disposizioni riguardano il servizio pubblico radiotelevisivo nelle province autonome di Trento e di Bolzano. L’intento di queste modifiche è quello di favorire un maggior decentramento e una maggiore autonomia delle strutture produttive della RAI. L’aspetto più delicato della riforma riguarda però la nuova governance della RAI (art. 49 del Testo unico), grazie alla quale il Governo acquisirà importanti poteri di direzione e controllo sulla concessionaria del servizio pubblico radiotelevisivo. Il Consiglio di amministrazione sarà composto non più da nove ma da sette membri, in modo da favorire «la presenza di entrambi i sessi e un adeguato equilibrio tra componenti caratterizzati da elevata professionalità e comprovata esperienza in ambito giuridico, finanziario, industriale e culturale, nonché tenendo conto dell'autorevolezza richiesta dall'incarico, l'assenza di conflitti di interesse o di titolarità di cariche in società concorrenti». Non potranno entrare a far parte del Consiglio di amministrazione i membri del Governo o i soggetti condannati in via definitiva a pene detentive o che si trovino in stato di interdizione temporanea o perpetua dai pubblici uffici. Alla scadenza del mandato del Consiglio di amministrazione già in carica (cioè nel 2018) si applicheranno le nuove regole, secondo cui i nuovi sette membri del CdA non verranno più nominati dalla CPIV: due membri saranno nominati dalla Camera dei Deputati, due dal Senato, due dal Governo e uno dai dipendenti dell’azienda. In questo modo, la società concessionaria del servizio pubblico radiotelevisivo sarà controllata, a livello politico, dalla maggioranza parlamentare che appoggia il Governo. I membri del Consiglio di amministrazione verranno eletti tra coloro che presentano la propria candidatura nell'ambito di una procedura pubblica di selezione. Al Consiglio di amministrazione sarà affidata l'approvazione del piano industriale e del piano editoriale, del preventivo di spesa annuale, degli investimenti di importo superiore a dieci milioni di euro, degli atti e dei contratti aziendali aventi carattere strategico. Il Presidente sarà nominato dal Consiglio medesimo nell'ambito dei suoi membri e la sua nomina diverrà efficace solo dopo l'acquisizione del parere favorevole espresso dalla CPIV a maggioranza dei due terzi: avrà solo poteri limitati alle relazioni esterne e istituzionali e alla supervisione delle attività di controllo interno. La figura dominante sarà l’Amministratore delegato – figura tipica delle società per azioni di diritto privato – che sarà nominato ogni tre anni dal Consiglio di amministrazione su proposta dell’assemblea dei soci. Poiché però il processo di privatizzazione della RAI non è stato ancora avviato e le azioni della società sono possedute quasi integralmente dal Ministero dell’economia (solo lo 0.44% delle azioni è posseduto dalla Siae), l’Amministratore delegato sarà di fatto nominato dal Governo. Dati i suoi amplissimi poteri (nomina dei direttori di rete, di testata e di canale su proposta del CdA, nomina dei dirigenti di secondo livello, decisioni sulla collocazione dei giornalisti su proposta dei direttori di testata, firma dei contratti fino a dieci milioni di euro, definizione di criteri e modalità per il reclutamento del personale e per il conferimento di incarichi esterni) il controllo del Governo sulla concessionaria del servizio pubblico radiotelevisivo diverrà pervasivo. Una norma transitoria stabilisce che, nell’attesa della nomina del nuovo Amministratore delegato, i poteri a lui attribuiti dalla nuova normativa verranno esercitati dal Direttore generale attualmente in carica. Sul fronte della trasparenza, è prevista la pubblicità dei dati relativi agli investimenti totali destinati ai prodotti audiovisivi nazionali e ai progetti di coproduzione internazionale; dei curricula e dei compensi lordi percepiti dai componenti degli organi di amministrazione e controllo, dai dirigenti di ogni livello e dai soggetti, diversi dai titolari di contratti di natura artistica, che ricevano un trattamento economico annuo

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omnicomprensivo pari o superiore a duecentomila euro; dei criteri per il reclutamento del personale e per il conferimento di incarichi a collaboratori esterni; dei dati concernenti il numero e la tipologia dei contratti di collaborazione o consulenza non artistica per i quali è previsto un compenso; dei criteri e delle procedure per l’assegnazione dei contratti relativi all'acquisto, allo sviluppo,alla produzione o coproduzione e alla commercializzazione di programmi radiotelevisivi e di opere audiovisive; dei dati risultanti dalla verifica del gradimento della programmazione generale e specifica della società. Pag. 181 (sull’assegnazione del dividendo digitale mediante asta pubblica onerosa): Il bando di gara per l’asta pubblica per l’assegnazione delle frequenze eccedenti è stato pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale il 12 febbraio 2014. La scadenza per presentare le offerte è stata fissata al 17 giugno 2014. In un primo tempo, il disciplinare di gara prevedeva la messa all’asta di sei lotti di frequenze; successivamente si è deciso di mettere all’asta solo tre lotti di frequenze (altri tre restano quindi ancora da assegnare). I vincitori avrebbero ottenuto i diritti d’uso delle frequenze televisive per venti anni, eventualmente cedibili ad altri soggetti solo dopo i primi tre anni. Per rispondere al richiamo della Commissione europea che – minacciando di riaprire la procedura di infrazione nei confronti dell’Italia avviata nel 2005 (n. 2005/5086) e sospesa nel 2009 – aveva evidenziato la scarsa concorrenzialità nel mercato televisivo, è stato deciso non permettere agli operatori già in possesso di almeno tre multiplex di partecipare alla gara. Quindi gli operatori “storici” (Rai, Mediaset e Telecom) sono stati esclusi. Potevano invece concorrere per tutti e tre i lotti i soli nuovi entranti o piccoli operatori (cioè che detenevano un solo multiplex) e per due lotti gli operatori già in possesso di due multiplex; inoltre operatori integrati, attivi su altre piattaforme con una quota di mercato superiore al 50% della tv a pagamento (cioè Sky Italia) potevano concorrere per aggiudicarsi un solo multiplex. Alla fine ha partecipato all’asta per uno solo dei tre multiplex un unico operatore (Cairo Network s.r.l.), che, in assenza di concorrenti, si è aggiudicato il multiplex con un’offerta non superiore alla base d’asta. Per la realizzazione e la gestione tecnica della rete Cairo ha siglato un accordo pluriennale “Full service” con una società controllata di Mediaset (EiTowers ). Gli incassi derivanti dall’asta, che è andata semideserta, sono stati dunque ben inferiori al previsto. Evidentemente le condizioni previste dal bando (base d’asta di circa trenta milioni di euro per un multiplex e soprattutto obbligo per il vincitore della gara di arrivare a coprire entro cinque anni più della metà del territorio nazionale) non hanno suscitato l’interesse degli altri operatori. L’obiettivo di aprire il settore radiotelevisivo ai nuovi operatori non è stato quindi raggiunto. Le emittenti private di piccole dimensioni trovano non poche difficoltà di penetrazione nel mercato televisivo, sfavorite in questo anche dall’ordine di numerazioni dei canali, che vede ai primi posti le emittenti “storiche”. Inoltre, i mercati televisivi hanno una dimensione geografica limitata ai confini nazionali o aree linguistiche omogenee, cosa che non facilita la concorrenzialità sul piano europeo. Questi elementi sono stati in più occasioni messo in luce sia dall’AgCom che dalla Commissione europea. Il livello di concentrazione nel settore radiotelevisivo resta quindi elevato. In realtà Rai e Mediaset sarebbero obbligate per legge a cedere a diversi fornitori di contenuti il 40% della capacità trasmissiva del quinto multiplex che esse possiedono, ma per il momento nessuno ha manifestato interesse in tal senso. Nella Relazione annuale 2015 (p. 21) l’AgCom ha rilevato che «la capacità trasmissiva sulle reti televisive terrestri in tecnica digitale è offerta, nel contesto nazionale, da otto operatori di rete nazionali, sei dei quali verticalmente integrati con soggetti che operano nel segmento a valle della fornitura di contenuti. Tali operatori, in virtù del possesso dei diritti d’uso delle relative frequenze, gestiscono 19 multiplex ….». Di questi otto operatori, Rai e Mediaset detengono più dell’80% delle quote di mercato nel settore della tv in chiaro. Nel settore della tv a pagamento, è leader il gruppo 21st Century Fox/Sky Italia, che opera anche attraverso la piattaforma satellitare e che detiene da solo più dell’80% delle quote di mercato. Insieme, i tre gruppi principali (Rai, Mediaset e Sky) detengono quasi il 90% dei ricavi complessivi del settore radiotelevisivo (dati tratti dalla Relazione annuale AgCom 2015, pp. 77-78).

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Pag. 190 (sull’affollamento pubblicitario): La direttiva SMAV prevede un limite di affollamento pubblicitario (spot di televendita e pubblicità Televisiva) del 20% per ogni ora di trasmissione, ma lascia agli Stati membri la facoltà di richiedere ai fornitori di servizi di media soggetti alla loro giurisdizione di rispettare norme più particolareggiate o più rigorose. La legislazione italiana prevede che la trasmissione di messaggi pubblicitari da parte della concessionaria del servizio pubblico generale radiotelevisivo non possa eccedere il 4% dell’orario settimanale di programmazione ed il 12% di ogni ora. La trasmissione di spot pubblicitari televisivi da parte delle altre emittenti televisive in chiaro non può eccedere il 15% dell’orario giornaliero di programmazione ed il 18% di ogni ora, mentre il limite per le emittenti televisive a pagamento è del 14% di ogni ora. Nel 2011 l’AGCom ha comminato all’emittente Sky una sanzione pecuniaria per aver superato il limite orario di affollamento pubblicitario. Il Tar Lazio, cui Sky Italia si è rivolta per chiedere l’annullamento della decisione, ha chiesto alla Corte di Giustizia (rinvio pregiudiziale) se la normativa italiana sull’affollamento pubblicitario, più rigorosa rispetto a quanto previsto dalla direttiva SMAV, fosse compatibile con il diritto dell’Unione europea. La Corte ha stabilito (sentenza del 18 luglio 2013) che, nel ricercare una tutela equilibrata degli interessi finanziari delle emittenti televisive e degli interessi dei telespettatori, il legislatore nazionale può stabilire limiti diversi all’affollamento pubblicitario orario a seconda che si tratti di emittenti televisive a pagamento o in chiaro e che la tutela dei consumatori contro gli eccessi della pubblicità commerciale costituisce un motivo imperativo d’interesse generale che può giustificare restrizioni alla libera prestazione dei servizi. Dopo la pronuncia della Corte di Giustizia, il TAR Lazio ha sollevato dinanzi alla Corte costituzionale questione di legittimità dell’art. 38 del Testo unico dei servizi di media audiovisivi e radiofonici (TUSMAR) che, prevedendo limiti di affollamento pubblicitario differenziati per le emittenti a pagamento e per quelle in chiaro, costituirebbe una ingiustificata discriminazione a danno delle prime. La Corte costituzionale però (sentenza n. 64 del 2014) ha ritenuto inammissibili e non fondate le questioni proposte, salvando quindi la disciplina del TUSMAR. Pag. 190 (sulla proposta di modifica della direttiva SMAV): Nel maggio 2016 la Commissione europea ha presentato una proposta di modifica della direttiva n. 2010/13/Ue, in modo da adeguarsi alla rapida evoluzione del mercato dei media audiovisivi, favorendo la circolazione di servizi di media audiovisivi transfrontalieri. La proposta prevede una maggiore flessibilità nella tipologia e nel posizionamento della pubblicità all’interno dei media audiovisivi, compreso il product placement e le sponsorizzazioni, fermo restando il limite generale del venti per cento del tempo di trasmissione fra le 7 e le 23. A ciò si associa però una più accurata protezione dei minori rispetto al contenuto dei messaggi pubblicitari e dei media audiovisivi in genere, potenziando le forme di controllo parentale. Sarà inoltre richiesta la promozione e la diffusione di opere europee anche ai servizi di media audivisivi on- demand. Specifiche disposizioni dovranno riferirsi alle piattaforme di video-sharing, finora non considerate dalla normativa vigente. Si rafforza l’obbligo per gli Stati membri di affidare la regolamentazione e il controllo sui media audiovisivi ad autorità indipendenti rispetto a ogni altro soggetto pubblico e privato. Infine, si propone di istituire un apposito Gruppo europeo dei regolatori di servizi di media audiovisivi composto da rappresentanti delle autorità nazionali, Pag. 244 (sulla direttiva 2006/24/CE): Ai fini della prevenzione, individuazione e perseguimento di reati gravi – quali in particolare la criminalità organizzata e il terrorismo – la direttiva 2006/24/CE, nota come Direttiva Data Retention prevedeva che i fornitori di servizi di comunicazione elettronica operanti nell’Unione europea conservassero, per un periodo minimo di sei e un periodo massimo di ventiquattro mesi, i dati di traffico e localizzazione e quelli comunque necessari per identificare l’utente, pur non consentendo di conservare i contenuti della comunicazione o dell’informazione consultata. La direttiva è stata però annullata dalla Corte di Giustizia

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dell’Unione europea a seguito di rinvio pregiudiziale (sentenza 8 aprile 2014, cause riunite C-293/12 e C-594/12). La Corte ha dunque accolto i dubbi espressi dai ricorrenti circa la compatibilità del sistema di raccolta dei dati delineato dalla direttiva con il diritto al rispetto della vita privata, alla protezione dei dati personali e alla libertà di espressione tutelati dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. Infatti, i dati sottoposti all’obbligo di conservazione potevano fornire informazioni molto precise sulla vita privata individuale (l’identità, il momento e il luogo della comunicazione, le abitudini, le relazioni sociali, gli ambienti frequentati). Di conseguenza, imponendo la conservazione di tali dati e permettendo alle autorità nazionali competenti di accedervi, senza che l’utente del servizio di comunicazione ne fosse previamente informato, la direttiva interferiva in modo eccessivo con i diritti fondamentali del rispetto della vita privata e della protezione dei dati personali, tanto più che essa riguardava in generale tutti gli individui, tutti i mezzi di comunicazione elettronica e tutti i dati di traffico, senza alcuna differenziazione, limitazione o eccezione e senza stabilire alcun criterio oggettivo in base al quale fosse garantito che le autorità pubbliche potessero accedere ai dati solo ai fini della prevenzione e dell’accertamento di reati penali. Infine, la direttiva non prevedeva sufficienti garanzie per assicurare l’effettiva protezione dei dati contro il rischio di accesso illegale ai dati e conseguente utilizzo indebito degli stessi, permetteva ai provider di determinare il livello di sicurezza solo sulla base di considerazioni di carattere economico (ad esempio, il costo di attuazione delle misure di sicurezza, non garantiva la distruzione irreversibile dei dati al termine del loro periodo di conservazione e non imponeva la conservazione dei dati all’interno del territorio dell’Unione). Pag. 246 (sulle ultime norme approvate dall’UE riguardo al trattamento dei dati personali): Il 25 agosto 2013 è entrato in vigore il regolamento n. 611/2013/UE in materia di notifica di violazioni dati personali (data breach) nel contesto delle prescrizioni previste dalla direttiva europea 2002/58/CE come modificata dalla direttiva 2009/136/CE. Più precisamente, il regolamento riguarda la notifica di violazioni dati personali nel settore dei servizi di comunicazioni elettroniche accessibili al pubblico e ha come obbiettivo principale quello di schematizzare il processo che i fornitori di servizi di comunicazione elettronica (cioè i provider) devono adottare nel momento in cui rilevano un data breach; in particolare, viene sottolineato il vincolo della “tempestività” della notifica della violazione alla competente Autorità nazionale, notifica che deve essere effettuata entro ventiquattro ore dalla rilevazione della violazione. La scelta di utilizzare tale strumento normativo è da ricercare nell’esigenza di rendere uniforme in tutta l’Unione le modalità di gestione delle violazioni dei dati personali, utilizzando uno strumento in grado di avere immediata efficacia normativa in tutti gli Stati membri. Il 14 aprile 2016 sono stati finalmente approvati in seconda lettura il regolamento e la direttiva dell’Unione europea sulla protezione dei dati personali, di cui si discute fin dal 2012. In particolare, il nuovo regolamento Ue 2016/679 è relativo alla protezione delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali, nonché alla libera circolazione di tali dati, abrogando la direttiva 95/46/CE: l’Unione europea mira così a uniformare la regole sul trattamento dei dati personali in tutti gli Stati membri. Va sottolineato che finora le norme approvate a livello europeo in materia di protezione dei dati personali hanno avuto la forma della direttiva, uno strumento normativo non direttamente applicabile, ma che deve essere recepito e attuato con atti normativi di diritto nazionale. L’Italia ha infatti provveduto dapprima con la legge n. 675 del 1996 e successivamente, nel 2003, con il Codice sulla protezione dei dati personali (d. lgs. n. 196/2003). Invece, il nuovo regolamento europeo, che interessa tutti i soggetti privati (persone fisiche e imprese) e parte di quelli pubblici, è direttamente applicabile, pur lasciando agli Stati membri due anni di tempo per adeguarvisi. Di conseguenza, a partire dal 25 maggio 2018 il nuovo regolamento sostituirà completamente le norme nazionali vigenti in quest’ambito, fra cui nostro Codice della privacy del 2003. Il nuovo regolamento si applica si applica a tutti i trattamenti di dati personali che siano effettuati da un titolare stabilito nel territorio dell’Unione europea, nonché da tutti i soggetti (titolari o responsabili) stabiliti fuori dall’Unione europea nel caso in cui il trattamento abbia ad oggetto i dati personali di coloro che si

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trovano nell’Unione europea. Si supera così un limite della precedente disciplina, quello cioè di essere applicabile solo nel caso di trattamenti effettuati da strumenti automatizzati o non automatizzati situati all’interno dell’Ue. Il nuovo regolamento non si applica, invece, ai trattamenti di dati personali effettuati da organi e istituzioni dell’Ue, dalle autorità nazionali per finalità di sicurezza o di prevenzione e repressione dei reati e da persone fisiche senza finalità di lucro per l’esercizio di attività esclusivamente personali o domestiche. Il trattamento dei dati si fonda sul principio del consenso dell’interessato, cui bisogna prestare particolare attenzione nel caso dei dati sensibili. Il trattamento di dati personali di minori di età inferiore ai tredici anni è lecito se e nella misura in cui il consenso è espresso o autorizzato dal genitore o dal tutore del minore. Il responsabile del trattamento è tenuto a fornire all’interessato tutte le informazioni e le comunicazioni relative al trattamento dei dati personali in forma intelligibile, con linguaggio semplice e chiaro e adeguato all’interessato, in particolare se le informazioni sono destinate ai minori. L’interessato che ne faccia richiesta ha il diritto di ottenere in qualsiasi momento, dal responsabile del trattamento, la conferma che sia o meno in corso un trattamento di dati personali che lo riguardano e ha il diritto di ottenerne la rettifica, l’integrazione o la cancellazione. Il “diritto all’oblio” è specificamente tutelato all’art. 17 (vedi par. precedente sul diritto all’oblio). È previsto anche il diritto alla portabilità dei dati (art. 18): l’interessato ha il diritto, ove i dati personali siano trattati con mezzi elettronici e in un formato strutturato e di uso comune, di ottenere dal responsabile del trattamento copia dei dati trattati in un formato elettronico e strutturato che sia di uso comune e gli consenta di farne ulteriore uso. L’interessato ha inoltre il diritto di opporsi in qualsiasi momento e gratuitamente al trattamenti dei dati, con particolare riferimento ai dati trattati per finalità di marketing diretto. L’art. 20 si riferisce alle misure basate sulla profilazione dell’utente (quelle che, tramite il trattamento automatizzato dei dati, mirano a valutare taluni aspetti della sua personalità o ad analizzarne o prevederne in particolare il rendimento professionale, la situazione economica, l’ubicazione, lo stato di salute, le preferenze personali, l’affidabilità o il comportamento) che devono essere esplicitamente autorizzate dall’interessato. Il Regolamento introduce anche una serie di obblighi nuovi per le imprese che trattano dati personali, in un’ottica di maggiore tutela per gli interessati. Si prevede, ad esempio, la figura del Responsabile del trattamento e dell’Incaricato del trattamento dei dati, che devono garantire la corretta applicazione delle regole europee da parte dei soggetti che effettuano il trattamento dei dati e sono anche tenuti a mettere in atto misure tecniche e organizzative adeguate per garantire un livello di sicurezza appropriato, in relazione ai rischi che il trattamento comporta e alla natura dei dati personali da proteggere. La sicurezza dei dati, infatti, costituisce un aspetto molto importante del nuovo regolamento. Quando il trattamento dei dati, per la sua natura, il suo oggetto o le sue finalità, presenta rischi specifici per i diritti e le libertà degli interessati, il Responsabile del trattamento o l’Incaricato del trattamento devono effettuare una valutazione preventiva dell’impatto del trattamento previsto sulla protezione dei dati personali. Inoltre Le autorità pubbliche, le imprese private di grandi dimensioni e tutti i soggetti privati la cui finalità principale consista nel trattamento dei dati devono nominare un Responsabile per la protezione dei dati. Il trasferimento dei dati verso paesi terzi o organizzazioni internazionali può avvenire solo in cambio idonee garanzie circa il loro trattamento; le condizioni alle quali il trasferimento dei dati verso paesi extra-UE o altre organizzazioni internazionali è consentito sono dettagliatamente indicate in una specifica sezione del regolamento. Un’altra sezione riguarda l’indipendenza e i poteri delle Autorità nazionali di controllo (nel caso italiano, il Garante per il trattamento dei dati personali), che devono cooperare fra loro, con la Commissione europea e con un apposito Comitato europeo per la protezione dei dati. Contro le decisioni dell’Autorità di controllo, del Responsabile del trattamento o dell’Incaricato del trattamento, ogni persona fisica o giuridica deve avere il diritto di proporre un ricorso giurisdizionale. Le sanzioni nei casi di violazione al regolamento devono essere efficaci, proporzionati e dissuasive; il regolamento dedica alcune disposizioni alla definizione della tipologia e dell’entità delle sanzioni irrogabili dall’Autorità di controllo. La nuova direttiva invece si concentra solo sul trattamento dei dati personali da parte delle autorità competenti a fini di prevenzione, indagine, accertamento e perseguimento di reati o esecuzione di sanzioni

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penali, nonché sulla libera circolazione di tali dati, abrogando la precedente decisione quadro 2008/977/GAI del Consiglio. La decisione quadro, infatti, si applicava solo al trattamento transfrontaliero dei dati e non alle attività di trattamento effettuate dalla polizia e dalle autorità giudiziarie a livello strettamente nazionale, creando così delle difficoltà nella cooperazione fra forze di polizia e le altre autorità competenti per la prevenzione e repressione del crimine. La direttiva mira invece ad armonizzare le discipline nazionali in quest’ambito, con un duplice obiettivo: tutelare i diritti e le libertà fondamentali delle persone fisiche, in particolare il diritto alla protezione dei dati personali, garantendo nel contempo un elevato livello di sicurezza pubblica, e garantire lo scambio dei dati personali tra le autorità competenti all’interno dell’Unione. A differenza del regolamento, la direttiva dovrà essere recepita e attuata da tutti gli Stati membri con strumenti di diritto interno.