Afghanistan: Aspettando il 2014. La società civile afghana su pace, giustizia e riconciliazione

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Aspettando il 2014: la società civile afghana su pace, giustizia e riconciliazione di Giuliano Battiston Con il contributo del Ministero Affari Esteri, Direzione Generale per la Cooperazione allo sviluppo

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Promosso dalla rete "Afgana", lo studio è il frutto di cinque mesi di ricerca in 7 province afghane intorno a 4 temi principali: le ragioni del conflitto; il processo di pace; il rapporto tra pace e giustizia; le aspettative per il post-2014.

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Aspettando il 2014: la società civile afghana su pace, giustizia e

riconciliazione

di Giuliano Battiston

Con il contributo del Ministero Affari Esteri,

Direzione Generale per la Cooperazione allo sviluppo

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L’AUTORE: Giuliano Battiston è un giornalista e ricercatore freelance. Ha viaggiato a lungo in Afghanistan,

realizzando reportage, inchieste e due ricerche accademiche:

- La società civile afghana: uno sguardo dall’interno, condotta nell’ambito del primo

progetto promosso dal network “Afgana” con il contributo della Direzione Generale della

Cooperazione allo Sviluppo del Ministero degli Affari Esteri.

- Le truppe straniere agli occhi degli afghani. Opinioni, percezioni e rumors a Herat, Farah e

Badghis, promossa dall’Ong Intersos.

Si occupa anche di temi culturali ed è autore di due libri-intervista: Zygmunt Bauman. Modernità e

globalizzazione e Per un’altra globalizzazione, entrambi pubblicati dalle Edizioni dell’Asino.

ARCS:

Arcs, Arci Cultura e Sviluppo è l’Ong del sistema ARCI (idoneità l. 49/1987). Ha 25 sedi territoriali

in Italia e 11 sedi all’estero. É iscritta al registro delle associazioni di promozione sociale, APS (n.

383/2000). Nasce nel 1985 con l’obiettivo di perseguire, nell’ambito della solidarietà, della

cooperazione, del volontariato internazionale, l’affermazione del processo di partecipazione

democratica attiva delle cittadine e dei cittadini, attraverso la promozione di tutte le forme di

aggregazione e associazionismo civile, per un mondo di diritti globali e di pace, più giusto e

socialmente sostenibile. www.arciculturaesviluppo.it

AFGANA: Afgana è un network informale della società civile italiana nato nel marzo 2007 e costituito da Ong,

associazioni per la pace e i diritti umani, sindacati, accademici e singoli cittadini. Il suo lavoro è

fondato sull’idea che il coinvolgimento diretto delle organizzazioni della società civile sia centrale

nel processo di ricostruzione dell’Afghanistan e che la voce della società civile debba essere

ascoltata da tutte le istituzioni nazionali e internazionali. www.afgana.org

I PARTNER

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Ringraziamenti: L’autore ringrazia in primo luogo tutti coloro che in Afghanistan hanno messo a disposizione il loro

tempo per rispondere alle sue domande. Senza di loro e senza la collaborazione dei membri dello

Steering Committee, il Comitato che da anni collabora con il network “Afgana”, la ricerca non

sarebbe stata possibile. Grazie allo staff di Roma dell’Arcs per l’assistenza negli aspetti logistici.

Grazie alla Ong Intersos per l’ospitalità a Herat e Maimana; all’associazione Mediothek

Afghanistan per quella a Jalalabad e Mazar-e-Sharif. A Kabul, grazie a Timur Hakimyar, direttore

della Foundation for Culture and Civil Society per il sostegno e l’amicizia e a Najiba Ayoubi,

direttore di The Killid Group, per i preziosi consigli. Grazie, ancora una volta, alla principessa

Soraya Malek e a Emanuele Giordana per condividere con me la loro passione per l’Afghanistan.

Un ringraziamento particolare alla principessa India d’Afghanistan: i suoi racconti hanno reso molto

più piacevoli e istruttivi i soggiorni a Kabul.

Giuliano Battiston

settembre 2013

Note La ricerca fa parte del progetto finanziato dalla DGCS MAE “Afghanistan: attività di formazione e

di sostegno alla società civile afgana nel processo di ricostruzione e riconciliazione nazionale e per

la realizzazione di una ‘Casa della società civile’ a Kabul, quale centro culturale per lo sviluppo di

rapporti tra l’Italia e l’Afghanistan (AID 9572)”.

Le analisi e i giudizi contenuti in questa ricerca sono dell’autore e non riflettono necessariamente

quelli dei membri della rete “Afgana” o della DGCS MAE.

Questa pubblicazione può essere riprodotta e usata solo per scopi non commerciali, citando

esplicitamente l’autore e gli enti promotori. Ogni uso diverso deve essere preventivamente richiesto

scrivendo ad [email protected] oppure a [email protected] o direttamente all’autore,

[email protected].

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INDICE

Acronimi p. 8

Sintesi p. 9

Introduzione p. 21

Metodologia p. 25

Limiti p. 27

1. Le ragioni del conflitto p. 28

1.1 I fattori esterni: p. 29

a) Un nuovo “grande gioco” p. 29

b) Interessi materiali e motivazioni ideologiche p. 30

c) Gli eserciti della missione Isaf-Nato p. 30

d) Il ruolo degli Stati Uniti p. 31

e) Le interferenze: il ruolo di Iran e Pakistan p. 32

1.2 I fattori interni: p. 34

a) La sfiducia nel governo p. 34

b) “La forza dei Talebani è la debolezza del governo” p. 35

c) L’ingiustizia: corruzione e cultura dell’impunità p. 36

d) La sfiducia tra le comunità locali p. 38

Testimonianze 1. Le ragioni del conflitto p. 41

2. Pace, negoziato e riconciliazione p. 54

2.1 Sì al dialogo, no al negoziato attuale: p. 55

a) La critica al negoziato p. 55

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b) L’approccio da “mercato-bazar” p. 57

c) L’Alto consiglio di pace e l’opacità del negoziato p. 57

d) Il piano per il reintegro degli ex combattenti p. 59

2.2 I Talebani: p. 60

a) I Talebani di nuovo al potere? p. 62

b) La chiave regionale p. 65

2.3 Il doppio approccio al processo di pace p. 67

Testimonianze 2. Pace, negoziato e riconciliazione p. 69

3. La giustizia p. 92

3.1 Pace e giustizia: p. 93

a) Lo scarto tra volontà e realismo p. 95

b) La debolezza del governo p. 95

c) Le responsabilità della comunità internazionale p. 96

3.2 Transitional Justice: un’occasione mancata p. 97

3.3 Memoria, amnistia e il diritto delle vittime p. 98

3.4 I metodi per “fare giustizia” p. 101

Testimonianze 3. La giustizia p. 103

4. La transizione e il post-2014 p. 117

4.1 Le aspettative: p. 118

a) Una transizione complessa e graduale p. 118

b) I cambiamenti culturali p. 120

c) Una soluzione interna p. 120

4.2 Le richieste: p. 121

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a) Le ragioni dell’impegno p. 121

b) La sovranità p. 122

c) Un impegno diverso nei metodi e negli obiettivi p. 123

d) L’importanza della transizione politica p. 124

4.3 I timori: p. 124

a) Il conflitto interno p. 125

b) Le interferenze esterne e le elezioni presidenziali p. 126

c) Le forze di sicurezza afghane p. 127

d) La crisi economico-finanziaria p. 128

e) Le basi militari e i soldati degli Stati Uniti p. 129

Testimonianze 4. La transizione e il post-2014 p. 132

5. Elenco delle persone intervistate p. 153

6. Bibliografia selezionata p. 157

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ACRONIMI

ACSF Afghan Civil Society Forum

AIHRC Afghanistan Independent Human Rights Commission

AIRA Afghanistan Independent Radio Association

AYSO Afghan Youth Social Organization

APRP Afghanistan Peace and Reintegration Program

ASCP Association for Solving of Community Problems

ASPR Agricultural Support for Peace and Reintegration

AREU Afghan Research and Evaluation Unit

AWEC Afghan Women’s Educational Center

AWN Afghan Women’s Network

BAO Better Afghanistan Organization

CCA Cooperation Center for Afghanistan

CPAU Cooperation for Peace and Unity

CSDC Civil Society Development Center

CSHRN Civil Society Human Rights Network

CSO Civil Society Organization

DEOW Developing and Education Organization for Women

ERSA Engineering Rehabilitation Service for Afghanistan

FCCS Foundation for Culture and Civil Society

HPC High Peace Council

HOOAC High Office of Oversight and Anticorruption

ISI Inter-Services Intelligence

IWA Integrity Watch Afghanistan

YIAA Youth In Action Association

SDO Sanayee Development Organization

TLO The Liaison Office

VWO Voice of Woman Organization

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SINTESI

L’Afghanistan sta attraversando uno dei periodi più importanti e complicati della sua storia recente:

la transizione (Inteqal). La transizione indica in primo luogo il progressivo passaggio della

responsabilità della sicurezza dalle forze internazionali della missione Isaf-Nato a quelle afghane,

ma è un processo che investe molti altri ambiti, da quello finanziario a quello amministrativo e

fiscale, da quello politico a quello sociale. Il compimento formale della transizione avverrà soltanto

alla fine del 2014, quando la maggior parte delle truppe straniere lascerà il paese e la missione Isaf

verrà sostituita dalla missione Resolute Support. Sin da quando è stata annunciata la data del ritiro,

nel corso della conferenza Nato di Lisbona del novembre 2010, il 2014 è entrato nella discussione e

nell’immaginario pubblico afghano come una data fondamentale.

Oggi, a poco più di un anno dal compimento della transizione, il progressivo disimpegno degli

eserciti stranieri sollecita una riflessione seria sui risultati ottenuti dalla comunità internazionale e

dal governo afghano a partire dal 2001, sugli errori compiuti finora e sugli strumenti più adeguati

per elaborare una strategia di lungo respiro che sia adeguata alle sfide che il paese dovrà affrontare

nei prossimi anni.

Il presente studio muove dal presupposto che per elaborare una strategia appropriata a questa

delicata fase di passaggio sia indispensabile conoscere le aspettative della popolazione, le loro

richieste, i loro suggerimenti. Una strategia elaborata senza tener conto di tali aspetti rischia di porre

le condizioni perché si ripetano gli errori del passato.

La ricerca prosegue il lavoro di analisi inaugurato con il primo studio promosso dal network Afgana

e realizzato dallo stesso autore (La società civile afghana: uno sguardo dall’interno) e si basa su un

lavoro sul campo di quasi cinque mesi in sette diverse province (Balkh, Bamiyan, Farah, Faryab,

Herat, Kabul, Nangarhar), su circa 120 interviste strutturate a rappresentanti della società civile, su

incontri informali e sull’analisi della letteratura accademica in materia.

La ricerca è animata dai seguenti obiettivi:

- raccogliere opinioni e percezioni sulle cause del conflitto;

- raccogliere giudizi sul negoziato di pace e sul piano di riconciliazione con i movimenti

antigovernativi;

- raccogliere opinioni sulla compatibilità tra le richieste di pace da una parte e quelle di giustizia per

i crimini passati e presenti dall’altra;

- raccogliere giudizi sulla fase di transizione e valutare le aspettative, i timori, le richieste per il

post-2014.

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1. LE RAGIONI DEL CONFLITTO

Il primo capitolo è dedicato ai fattori che generano e alimentano la mobilitazione antigovernativa e

agli elementi che ostacolano la pace. La cornice temporale di riferimento è quella degli ultimi

dodici anni: l’Afghanistan “post-talebano”.

I fattori esterni

Nelle 7 province esaminate è diffusa la convinzione che il conflitto dipenda da una combinazione di

fattori interni ed esterni. Tali fattori interagiscono tra di loro, si alimentano a vicenda, tanto da

rendere difficile distinguerli nettamente e di individuare quale fattore abbia maggiore rilevanza. La

maggioranza dei partecipanti alla ricerca ritiene comunque che le fonti del conflitto vadano

individuate in primo luogo fuori dai confini dell’Afghanistan, non al suo interno. Quella afghana

sarebbe una guerra alimentata dai paesi stranieri. Tra gli intervistati, è diffusa l’idea che sia in corso

un nuovo “grande gioco”, simile a quello avvenuto nell’Ottocento tra l’Impero russo e la Corona

britannica per il controllo dell’Asia centrale. La collocazione strategica dell’Afghanistan

alimenterebbe interessi conflittuali e molti attori stranieri avrebbero interesse a destabilizzare il

paese per perseguire obiettivi strategici.

Il conflitto viene dunque percepito nell’ambito di un ampio contesto geopolitico. All’interno di un

ambiente altamente conflittuale, l’Afghanistan si troverebbe a essere l’attore più vulnerabile, quello

sul quale ricadono le conseguenze più pesanti di una guerra decisa altrove. Le cause del conflitto

sarebbero dunque esterne, mentre le conseguenze prevalentemente interne a causa della fragilità del

paese: i decenni di guerra ne avrebbero indebolito le strutture sociali e istituzionali, rendendo più

facile l’interferenza dei paesi stranieri e più facilmente manipolabile la popolazione.

Iran e Pakistan sono i paesi a cui vengono imputate le maggiori responsabilità. Entrambi i paesi non

solo ostacolerebbero i tentativi di pace, ma alimenterebbero in modo attivo il conflitto. C’è la forte

convinzione che Iran e Pakistan sostengano finanziariamente e militarmente i gruppi antigovernativi

per creare instabilità in Afghanistan. Il Pakistan in particolare viene considerato il paese che ha

le responsabilità più gravi e verso il quale si registra la più alta diffidenza. L’interferenza del

Pakistan negli affari interni dell’Afghanistan sarebbe la principale causa del conflitto.

Una parte degli intervistati nutre dubbi e sospetti nei confronti di tutti i paesi coinvolti militarmente

in Afghanistan, soprattutto verso gli Stati Uniti. Il coinvolgimento degli Stati Uniti non sarebbe

volto a stabilizzare il paese e a combattere i movimenti ribelli, ma a tutelare interessi di natura

strategica e a esercitare un’egemonia politico-militare nell’area. I paesi che fanno parte della

missione Isaf-Nato sono percepiti in modo ambivalente, anche se si registra un tendenziale

orientamento a considerarli attori che direttamente o indirettamente alimentano il conflitto, piuttosto

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che come fonti di stabilità e beneficio per la popolazione. La difficoltà di trovare una soluzione al

conflitto dipenderebbe dall’eterogeneità degli interessi in gioco, dalla mancanza di onestà da parte

di molti paesi e dallo scarto tra i loro obiettivi espliciti e quelli reali.

I fattori interni

Tutti coloro che hanno preso parte alla ricerca riconoscono che i fattori esterni non agiscono da soli

e che si combinano invece ad alcuni importanti fattori interni. Tra gli elementi interni che causano

in modo diretto o indiretto la mobilitazione antigovernativa, ce n’è uno che viene unanimemente

sottolineato: il deficit di fiducia nei confronti del governo. Il governo è percepito come illegittimo,

impermeabile alle richieste dei cittadini, incapace di provvedere ai loro bisogni essenziali, corrotto e

animato da interessi egoistici e “predatori”. Per la maggior parte dei partecipanti alla ricerca, la

forza dei gruppi antigovernativi risiede essenzialmente nella debolezza del governo e nello scarso

consenso di cui gode tra la popolazione.

Il deficit di fiducia nei confronti del governo è radicato in un diffuso senso di ingiustizia che

comprende: l’ingiustizia sociale; la mancanza di giustizia penale e dello stato di diritto; l’ineguale

distribuzione delle risorse e del potere politico ed economico; l’inaccessibilità delle strutture

governative e statali per i cittadini; la mancanza di servizi sociali e di opportunità di lavoro.

L’ingiustizia viene attribuita a molti fattori, ma sono due quelli maggiormente enfatizzati: la

corruzione e la cultura dell’impunità. É diffusa la percezione che la corruzione sia uno dei pericoli

maggiori per la stabilità del paese e uno dei maggiori ostacoli verso la pace, perché mina alle

fondamenta la residua legittimità del governo. Se il sistema politico afghano viene criticato per aver

reso la corruzione una prassi quotidiana, è la comunità internazionale a essere stigmatizzata per

l’affermazione della cultura dell’impunità. In particolare, gli intervistati contestano il sostegno

accordato dalla comunità internazionale ai cosiddetti signori della guerra.

Alla base dell’instabilità dell’Afghanistan ci sarebbe anche una crisi identitaria, di natura sociale e

culturale. Il tessuto sociale che fa di un paese una nazione sarebbe stato indebolito dalla guerra; tra

le varie comunità si registrerebbe un deficit di fiducia simile a quello tra il governo e la

popolazione. Il sospetto reciproco, frutto dei precedenti conflitti, sarebbe una delle cause meno

evidenti ma più profonde del conflitto; il paese sarebbe condizionato dal peso della storia più di

qualunque altro fattore.

Le differenze tra le varie comunità non sono percepite come un dato naturale, ma come una

costruzione “artificiale”. I processi di polarizzazione etnica sarebbero il frutto di una deliberata

strumentalizzazione da parte di leader locali e stranieri, che avrebbero usato le divisioni per

perseguire interessi privati.

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Secondo gli intervistati, è proprio la combinazione tra fattori interni ed esterni a rendere difficile la

risoluzione del conflitto, perché genera un circolo vizioso: le divisioni interne rendono possibile, o

quantomeno più facile, l’interferenza esterna; a sua volta l’interferenza esterna rafforza le divisioni

interne, politicizzandole e strumentalizzandole. Se agli attori esterni viene attribuita in genere la

responsabilità di alimentare volontariamente il conflitto, al governo afghano viene invece imputata

la responsabilità di non saper affrontare le ragioni strutturali che favoriscono l’interferenza degli

attori esterni e che favoriscono la mobilitazione antigovernativa.

2. PACE, NEGOZIATO E RICONCILIAZIONE

Il secondo capitolo è dedicato alle percezioni sul processo di pace, ai fattori che ne limitano

l’efficacia e agli strumenti per favorire un accordo di pace tra il governo e i gruppi antigovernativi.

Sì al dialogo, no al negoziato attuale

Tra gli intervistati prevale l’idea che la soluzione militare si sia rivelata inefficace e che sia quindi

non solo utile ma indispensabile seguire la via del dialogo politico. Soltanto una minoranza contesta

del tutto questa idea, sostenendo che l’unica chiave per porre fine al conflitto sia quella militare e

che la soluzione politica sia un cedimento ai gruppi antigovernativi. La maggioranza degli

interlocutori sostiene l’ipotesi di un processo di riconciliazione nazionale e di un contestuale

processo di pace.

Dalla ricerca emerge una forte contraddizione tra il sostegno di principio all’idea del negoziato e la

critica al modo in cui è stato finora condotto dal governo afghano e dalla comunità internazionale,

attori ai quali viene contestata una forte opacità: mezzi e fini del processo di pace appaiono

sconosciuti alla maggioranza degli intervistati, secondo i quali i negoziati dovrebbero essere

trasparenti, sottoposti allo scrutinio pubblico, fondati sulla consultazione della popolazione e

sull’inclusione del più ampio spettro di opinioni possibile.

Il dato che emerge con più forza è la richiesta di chiarezza: gli intervistati chiedono di sapere chi

debba parlare con chi, a proposito di cosa, per quale scopo. L’idea sottostante è che ogni accordo

politico che sia il frutto di un negoziato diplomatico ma privo del sostegno della popolazione sia

destinato a durare poco, o a provocare ulteriore instabilità.

Tra gli intervistati, si registrano aspettative molto basse sulla possibilità di trovare in tempi brevi un

accordo di pace con i Talebani e con gli altri gruppi antigovernativi. Tra gli ostacoli elencati, la

mancanza di un mediatore che sia considerato neutrale e legittimo dalle parti in conflitto. L’Alto

consiglio di pace, l’organismo istituito dal presidente Karzai nel settembre 2010 per favorire i

colloqui con i gruppi antigovernativi, viene considerato inadatto a mediare tra il governo e gli

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insorti, a causa della sua composizione e della sua leadership. Molti intervistati lamentano inoltre

l’esclusione delle donne dal processo negoziale. Il cedimento alle eventuali richieste dei Talebani

sui diritti delle donne e nel campo dell’educazione è considerato una perdita per gli afghani e un

danno d’immagine per l’intera comunità internazionale.

Il piano per il reintegro e il reinserimento professionale e sociale dei militanti di piccolo-medio

calibro viene sostenuto sulla carta ma criticato nella sostanza per l’incapacità del governo di

sviluppare un’azione di lungo respiro che faciliti l’adesione dei combattenti al programma. Il piano

sarebbe inoltre strumentalizzato sia dal governo sia dagli insorti: il governo lo userebbe per dividere

il campo avversario; i gruppi antigovernativi per ottenere immediati benefici materiali, senza che

questo comporti l’accettazione della legittimità e dell’autorità del governo.

I Talebani

La scarsa fiducia nel buon esito dei negoziati di pace si fonda anche sulla percezione che i Talebani

siano inaffidabili come interlocutori politici e che il fronte antigovernativo sia composto da gruppi

molto eterogenei. La frammentazione e l’eterogeneità dei movimenti antigovernativi viene spesso

ricondotta all’interferenza dei paesi esterni. Il fatto che alcuni gruppi antigovernativi siano percepiti

come eterodiretti li rende illegittimi agli occhi degli intervistati.

Secondo molti di questi ultimi, i colloqui di pace stentano a produrre risultati visibili perché

disgiunti da un’appropriata strategia regionale. Vi è la diffusa percezione che a ostacolare l’avvio di

vere trattative siano i paesi vicini, in particolare il Pakistan. Secondo la maggior parte degli

intervistati, nessun negoziato porterà risultati concreti fino a quando il governo pakistano, e al suo

interno i servizi segreti dell’Isi, non decideranno che è arrivato il momento di porre fine al conflitto.

Oltre alle resistenze del Pakistan, gli intervistati enfatizzano i contrasti tra i vari attori

internazionali, sostenendo che l’Afghanistan continuerà a essere instabile fino a quando non si

raggiungerà un compromesso che ne soddisfi gli interessi.

Sull’ipotesi che i Talebani possano ottenere posizioni di potere in un futuro governo di “ampia

coalizione” le opinioni sono discordanti. Si registra comunque una tendenza prevalente a sostenere

l’ipotesi di un governo di ampia coalizione, se questo servisse a porre fine al conflitto. Il sostegno a

questa ipotesi è funzionale all’ottenimento della pace, non deriva da un consenso verso i gruppi

antigovernativi, che appaiono invece privi di qualsiasi credito e legittimità agli occhi dei

partecipanti alla ricerca. Tra questi, tutti ritengono che i Talebani debbano soddisfare alcune

condizioni inderogabili, prima di entrare far parte di un eventuale governo: dimostrare l’onestà delle

proprie intenzioni; dichiarare il rispetto della Costituzione; accettare apertamente le conquiste

legislative e sociali degli ultimi anni; riconoscere la legittimità e l’autorità del governo e dell’attuale

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sistema politico; rinunciare alla lotta armata e ai legami con gli attori esterni. Le aspettative che i

Talebani siano in grado o siano disposti a soddisfare tali condizioni sono molto basse.

Molti partecipanti alla ricerca insistono del distinguere tra “Talebani afghani”, che potrebbero

legittimamente far parte di un governo laddove accettassero le condizioni citate, e “Talebani

stranieri” oppure eterodiretti, ai quali dovrebbe essere negato qualsiasi ruolo politico in

Afghanistan. Qualcuno appoggia in linea di principio l’ipotesi di un governo di ampia coalizione,

pur ritenendo che i leader che hanno avuto responsabilità nell’uccisione di civili non debbano

ottenere posizioni di potere o incarichi politici. Vi è la diffusa percezione che i Talebani possano

entrare a far parte di un futuro governo a titolo individuale, a condizione che questo non pregiudichi

l’architettura politico-istituzionale creata nel 2001. Il rispetto della Costituzione sembra costituire

un criterio dirimente per la totalità degli intervistati.

Gli interlocutori incontrati ritengono che i rappresentanti dei gruppi antigovernativi possano

partecipare anche alle elezioni presidenziali e provinciali del 2014, laddove accettassero i principi

costituzionali e abbandonassero le armi. Per qualcuno, la partecipazione alle elezioni sarebbe un

fatto positivo, perché implicherebbe l’accettazione del regime politico vigente e l’adesione ai

principi e ai meccanismi che ne regolano il funzionamento. L’avallo alla partecipazione dei

Talebani alle elezioni si fonda inoltre sull’idea che le elezioni riserverebbero loro una dura

sconfitta: tra gli intervistati prevale l’opinione che i Talebani non godano di molto consenso.

Tra i partecipanti alla ricerca c’è infine una minoranza che ritiene che dare vita a un governo di

ampia coalizione rappresenterebbe una sconfitta clamorosa per tutta la comunità internazionale. É

significativo notare inoltre che per una parte dei partecipanti la diffidenza verso i Talebani è tale che

perfino l’attuale governo, considerato corrotto e illegittimo, rappresenta un’alternativa preferibile.

Il doppio approccio al processo di pace

Per gli intervistati, il governo e i gruppi antigovernativi non sono attori legittimi né autonomi,

perché almeno in parte eterodiretti e dipendenti dal sostegno esterno. Anche a causa di questa

scarsa legittimità, gran parte degli intervistati distingue tra una “pace politica” e una “pace sociale”

e reclama un doppio approccio al processo di pace. La pace politica deve essere costruita con un

approccio dall’alto al basso, dagli attori politici e istituzionali. La pace sociale deve essere costruita

con un approccio dal basso all’alto, fondato sulla partecipazione delle comunità locali. Ciò significa

che al processo politico-diplomatico che punta nel breve periodo alla gestione e all’interruzione del

conflitto dovrebbe accompagnarsi un parallelo processo sociale di lungo periodo che punti alla

ricostruzione delle relazioni e della fiducia tra le comunità locali. Gli intervistati suggeriscono

l’adozione del dialogo politico-diplomatico per ottenere la pace politica e l’uso del dialogo intra-

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comunitario per la pace sociale. Senza la pace sociale, la pace politica è destinata inevitabilmente a

naufragare, sostiene la maggior parte degli intervistati. Se il dialogo politico-diplomatico è lo

strumento adatto per porre fine al conflitto nel breve periodo, il dialogo sociale è lo strumento

privilegiato per impedire che esploda di nuova. Solo il dialogo sociale può affrontare e risolvere le

ragioni strutturali della guerra.

3. LA GIUSTIZIA

Il terzo capitolo è dedicato a una domanda fondamentale: se pace e giustizia siano obiettivi

compatibili oppure no nell’attuale contesto.

Pace e giustizia

Per la maggioranza degli intervistati l’ingiustizia è uno degli elementi che maggiormente

contribuisce ad alimentare il conflitto. Molti sottolineano che la legittima aspirazione a una pace e

all’interruzione immediata del conflitto non deve far dimenticare le richieste di giustizia per i

crimini passati. É diffusa l’idea che ignorare le richieste di giustizia indebolisca un eventuale

accordo di pace, incrementi le ragioni dell’insicurezza, favorisca il conflitto e la violenza. Pace e

giustizia sono percepiti dalla maggioranza degli intervistati come aspirazioni complementari, non

reciprocamente esclusive o incompatibili.

Sebbene per gli intervistati la pace sia la priorità assoluta, la maggioranza sostiene che la pace sia

priva di vera legittimità senza giustizia. Vi è l’opinione prevalente che una pace ottenuta

sacrificando la giustizia sia effimera e destinata a durare poco, perché può essere contestata

facilmente. Per qualcuno, potrebbe perfino causare maggiore instabilità, poiché ad alimentare il

conflitto è la percezione di aver subito un’ingiustizia o di non avere strumenti per veder riconosciuti

dei diritti negati. La soddisfazione delle richieste di giustizia viene inoltre vista come condizione

necessaria per la riconciliazione, intesa non come riconciliazione politica, non come costruzione di

una piattaforma politica che tenga insieme gruppi antagonisti, ma come riconciliazione sociale,

dunque come ricostruzione di legami sociali fondati sulla reciprocità e sulla fiducia.

Gli intervistati criticano la subordinazione delle richieste di giustizia alla ricerca della “pace

politica”, ma riconoscono pragmaticamente che le loro aspettative sulla giustizia sono poco

realistiche: esiste una forte discrepanza tra ciò che gli intervistati desiderano e ciò che

realisticamente si aspettano di ottenere. Per i partecipanti alla ricerca, coloro che in passato si sono

macchiati dei crimini più gravi oggi detengono un potere (militare, politico, economico) troppo

ampio perché possano essere giudicati. Nessuno in Afghanistan avrebbe la volontà politica e la

forza necessaria per portarli di fronte a un tribunale: il governo sarebbe troppo debole, corrotto o

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colluso; il potere giuridico sarebbe subalterno a quello politico; il sistema giudiziario inefficiente e

corrotto; la società civile troppo vulnerabile e inesperta. Quanto alla comunità internazionale, viene

criticata per il completo disinteresse dimostrato su questo tema e per aver sostenuto

finanziariamente, militarmente e politicamente proprio quei personaggi a cui gli intervistati

attribuiscono le responsabilità più gravi nei passati conflitti e nelle ingiustizie odierne.

Transitional Justice: un’occasione mancata

Per i partecipanti alla ricerca, subito dopo il rovesciamento del regime talebano vi erano le giuste

condizioni per attuare un piano di transitional justice con il quale fare chiarezza sul passato,

accertare la verità storica, individuare le responsabilità penali e morali. La ricerca della stabilità a

breve termine da parte della comunità internazionale avrebbe impedito l’attuazione di tale piano.

Oggi la transitional justice riceve un sostegno ideale ma viene perlopiù considerata irrealizzabile a

causa delle dinamiche di potere locali, della cultura dell’impunità e della mancanza di volontà

politica sia del governo afghano sia della comunità internazionale.

Sull’opportunità di attuare tale piano, si registrano due opinioni contrapposte: per una parte degli

intervistati, se il piano di transitional justice venisse gestito da un governo considerato illegittimo

rischierebbe di esacerbare i conflitti già esistenti, minando ulteriormente la già fragile stabilità del

governo. Per altri, il governo attuale appare illegittimo proprio perché ignora completamente le

richieste di giustizia; se attuasse il piano di transitional justice otterrebbe una maggiore legittimità,

dimostrando di avere a cuore le richieste della popolazione.

Tra quanti sostengono in linea di principio l’utilità della transitional justice ma la considerano

irrealizzabile, si registra la tendenza a considerare i tempi non ancora maturi. Qualcuno sostiene che

sarà possibile e proficuo attuarla quando ci sarà un governo riconosciuto da tutti; per altri, quando il

conflitto sarà terminato e la sicurezza garantita. Tra gli intervistati c’è infine chi sostiene che

l’Afghanistan dovrebbe guardare al presente e pensare al futuro, e che affrontare il passato renda

più complicato ricostruire il paese su nuove basi.

Memoria, amnistia e il diritto delle vittime

Per una parte minoritaria degli intervistati, l’amnistia rappresenta un passo necessario per chiudere

simbolicamente con il passato e aprire una nuova pagina nella storia afghana. La maggior parte

degli intervistati condanna invece la scelta del governo di promulgare la legge di amnistia. L’idea

sottostante è che il passato possa essere realmente archiviato soltanto dopo un rigoroso accertamenti

dei fatti e delle responsabilità: l’amnistia contraddice la richiesta di accertamento dei fatti e priva la

popolazione del diritto di conoscere la verità e ottenere giustizia. Per i sostenitori di questa tesi, ogni

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vera riconciliazione passa per il riconoscimento pubblico della verità storica, senza il quale potrà

darsi un semplice accordo politico che miri all’interruzione momentanea del conflitto, non una pace

destinata a durare nel tempo. La conoscenza, il riconoscimento pubblico di quanto avvenuto in

passato sono considerati condizioni indispensabili per la riconciliazione sociale.

Tra quanti contestano l’amnistia si nota una forte tendenza a negare alle istituzioni il diritto di poter

decidere al posto delle vittime o dei loro familiari. I singoli individui possono decidere di

dimenticare o perdonare le sofferenze patite in favore di una riconciliazione politica e sociale, ma il

governo non ha il diritto di farlo al posto loro. Alla base di tale posizione, vi è l’idea che siano le

vittime, ed eventualmente i loro parenti, gli unici titolari del diritto di decidere se perdonare o

dimenticare il passato o se, al contrario, chiedere l’accertamento della verità e la punizione dei

responsabili. Da qui, la richiesta di un referendum popolare che raccolga le diverse opinioni.

Tutti i partecipanti alla ricerca riconoscono implicitamente o esplicitamente l’influenza dei

precedenti conflitti su quello attuale. I modi suggeriti per affrontare i crimini passati sono diversi.

Non c’è un unico metodo che sia ritenuto efficace. La maggioranza degli intervistati afferma

comunque che il metodo migliore sia perseguire penalmente i responsabili: vi è l’idea che le

violazioni dei diritti umani e i crimini compiuti siano di tale rilevanza da meritare una punizione

esemplare, e che perseguirli penalmente corrisponda a un obbligo morale. La giustizia penale viene

sostenuta anche perché implica l’accertamento dei fatti e ciò sembra rispondere al bisogno di verità

delle vittime. La consapevolezza della difficoltà di portare davanti a una corte di giustizia coloro

che ricoprono posizioni di potere suggerisce una soluzione ulteriore: la rimozione dagli incarichi

governativi o istituzionali. Tale misura viene considerata meno efficace nell’impedire abusi futuri,

moralmente meno soddisfacente ma più facilmente praticabile.

Tra gli intervistati è diffusa anche l’idea che alcuni atti simbolici possano avere un’efficacia

“terapeutica” nel lenire le sofferenze delle vittime o dei loro familiari, nel restituire una certa fiducia

nella giustizia e nel rimarginare le ferite passate. L’ammissione pubblica delle proprie colpe da

parte dei responsabili di crimini meno gravi, così come le scuse ai familiari delle vittime sono

considerati strumenti utili a favorire la riconciliazione nazionale.

4. LA TRANSIZIONE E IL POST-2014

Il quarto capitolo è dedicato alle valutazioni sull’attuale fase di transizione e alle aspettative per il

periodo successivo alla fine della missione Isaf della Nato. Il primo, prevedibile elemento da

registrare è l’incertezza che domina i sentimenti, modella le aspettative, genera timori tra gli

intervistati.

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Le aspettative

La transizione e il ritiro sono interpretati come processi che prevedono un complicato trasferimento

di sovranità dagli internazionali agli afghani. Tale trasferimento non riguarda soltanto l’ambito

militare (l’aspetto su cui si concentra generalmente l’attenzione), ma molti altri settori, nei quali il

passaggio viene percepito come potenzialmente ancora più rischioso. Nonostante la complessità

della transizione, la maggior parte degli intervistati si aspetta una sostanziale continuità con la

situazione attuale, perlomeno nel breve periodo: un conflitto a macchia di leopardo e con intensità

variabile a seconda delle aree geografiche, una sostanziale diffidenza tra il governo e la

popolazione, l’interferenza dei paesi vicini e degli attori internazionali. Il passaggio dal 2014 al

2015 viene immaginato come una fase di trasformazione complessa e graduale, non repentina o

catastrofica. Tra gli intervistati, nessuno esclude comunque la possibilità di eventi improvvisi che

facciano precipitare la situazione.

Secondo gli intervistati, la situazione rimarrà sostanzialmente simile a quella attuale se, e solo se, la

comunità internazionale manterrà gli impegni presi con il governo afghano. Vi è infatti da una parte

la diffusa percezione che l’Afghanistan sia ancora un paese estremamente fragile in termini

politico-amministrativi, sociali, economici, militari, e dall’altra il timore che la sua vulnerabilità

possa essere sfruttata dai paesi vicini, una volta che le truppe straniere si ritireranno.

La maggioranza degli intervistati chiede un ulteriore impegno da parte della comunità

internazionale anche perché ritiene insufficiente ciò che è stato realizzato finora e improbabile che

alla fine del 2014 venga raggiunto l’obiettivo primario della transizione: la “costruzione” di uno

stato autosufficiente. La preoccupazione che il paese possa essere abbandonato dalla comunità

internazionale è molto diffusa.

Per i rappresentanti della società civile incontrati, la comunità internazionale può gestire la

transizione e il ritiro in due modi opposti. Usando la retorica del disimpegno e della restituzione

della sovranità come un pretesto per abdicare alle proprie responsabilità; oppure come un’occasione

per restituire sovranità e autonomia agli afghani senza far venir meno l’impegno futuro. Per molti

intervistati, la transizione e il ritiro sono l’ultima occasione per ripensare tale impegno alla luce

delle esperienze accumulate e delle aspettative degli afghani.

Le richieste

Da qui deriva la richiesta di maggiore sovranità e autonomia. Tra gli intervistati, molti chiedono che

gli afghani tornino a poter decidere del destino del paese, rivendicano maggiori spazi decisionali,

sollecitano un passo indietro degli stranieri: il sostegno della comunità internazionale dovrebbe

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essere inteso come collaborazione e cooperazione, non come interferenza né come imposizione di

modelli, pratiche, obiettivi elaborati altrove.

Ciò che viene chiesto è un impegno prolungato, onesto, ma diverso dal passato, sia negli obiettivi

sia nei metodi. Sotto il profilo del metodo, molti lamentano la mancata consultazione con la

popolazione e a volte anche con le istituzioni locali; sotto il profilo degli obiettivi, la comunità

internazionale viene criticata per aver privilegiato la stabilità a breve termine rispetto alla

sostenibilità di lungo periodo e per l’aver attribuito priorità assoluta alla sicurezza militare – senza

ottenere peraltro effetti evidenti – a scapito della più generale “sicurezza umana”.

Alla comunità internazionale viene chiesto un cambio di paradigma: da un approccio fondato sulle

priorità militari a un approccio fondato sulle priorità civili. Questa richiesta è legata alla

consapevolezza che la forza dei movimenti antigovernativi risiede nella debolezza del governo e

delle istituzioni. Se il governo riuscisse a garantire alla popolazione la sicurezza umana, intesa in

tutte le sue implicazioni, le cause strutturali del conflitto e della mobilitazione antigovernativa

verrebbero progressivamente meno. Senza una transizione politica interna, senza un rafforzamento

della legittimità del governo e dei meccanismi istituzionali, perfino un impegno duraturo e ben

orchestrato della comunità internazionale viene comunque ritenuto insufficiente. Le aspettative

sulla possibilità che ciò possa accadere in tempi brevi sono molto basse.

I timori

Dalla ricerca emergono cinque timori principali per la fase di transizione e per quella successiva al

disimpegno internazionale:

1) Il primo timore è legato all’idea che con la riconfigurazione degli equilibri politici, economici e

militari legata al ritiro delle truppe straniere si possa avviare un nuovo conflitto interno. Si

registrano due visioni contrapposte: secondo una parte degli intervistati, con un governo centrale

debole e scarsamente legittimo è prevedibile che ogni network di potere locale cerchi di rivendicare

maggiore autonomia. Le spinte centrifughe potrebbero portare alla frammentazione del sistema

politico e a un conflitto interno. Secondo un’altra interpretazione, nel corso di questi dodici anni i

“signori della guerra” avrebbero ottenuto potere politico e maturato consistenti interessi

commerciali e finanziari, e un eventuale conflitto interno metterebbe a repentaglio quanto ottenuto

in questi anni.

2) A dispetto delle opinioni diverse sull’eventualità di un conflitto interno, gli intervistati

concordano sulla percezione del pericolo “esterno” e sulla centralità delle elezioni presidenziali del

2014. Vi è il diffuso timore che il disimpegno delle truppe internazionali e il vuoto politico-militare

che ne deriverà possano favorire l’interferenza dei paesi vicini. Pakistan e Iran in particolare

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potrebbero colmare tale vuoto e approfittare delle incognite legate alle elezioni presidenziali. Le

elezioni sono considerate una fase di passaggio politico fondamentale, i cui esiti possono essere

opposti: un progressivo miglioramento del quadro politico nel caso fossero considerate legittime

dalla popolazione; un radicale peggioramento nel caso dovessero essere viziate da frodi e brogli. Si

registrano aspettative molto basse sulla prima ipotesi.

3) Il terzo rischio è legato all’idea che le forze di sicurezza afghane siano prive dell’esperienza

necessaria, dell’equipaggiamento appropriato e delle giuste motivazioni per difendere il paese. I

primi due fattori sono imputati alla comunità internazionale, che avrebbe iniziato i programmi di

addestramento molto in ritardo e con molta riluttanza. Il terzo fattore viene imputato alla scarsa

coesione sociale e alla mancanza di un interesse nazionale condiviso.

4) Il quarto timore deriva dall’opinione che la fine della missione Isaf e la progressiva riduzione

degli aiuti allo sviluppo possano provocare una crisi economico-finanziaria. Si ritiene infatti che la

presenza della comunità internazionale abbia generato miglioramenti economici parziali, senza

favorire la nascita di un sistema economico efficiente e autonomo. Alla debolezza strutturale si

somma la preoccupazione per il vuoto economico che lascerà la scomparsa dell’economia di guerra

e del suo indotto.

5) L’ultimo timore è legato alle negoziazioni in corso tra l’amministrazione Obama e il governo

Karzai sull’accordo bilaterale di sicurezza e sull’eventuale presenza di basi militari americane sul

suolo afghano. Si registrano due posizioni contrapposte: quella di chi accetta la presenza delle basi

militari come necessarie per la stabilità del paese, come forma di protezione dalle interferenze dei

paesi vicini e come garanzia che il paese non venga abbandonato; quella di chi ritiene invece che

possa provocare ulteriori interferenze, alimentare un nuovo conflitto e ledere la già precaria

sovranità e legittimità del governo. Per i sostenitori di questa tesi, la sovranità del paese potrebbe

essere meglio garantita migliorando le capacità dell’esercito afghano, mentre il ritiro completo dei

soldati stranieri potrebbe facilitare una soluzione negoziata interna, fin qui impossibile a causa

dell’interferenza esterna.

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INTRODUZIONE

Questa ricerca prosegue il lavoro inaugurato con il primo studio promosso dal network Afgana, La

società civile afghana: uno sguardo dall’interno1. In quello studio, avevamo cercato di capire se

fosse legittimo applicare alla realtà afghana il concetto di società civile; se fosse utile adottare al

contesto locale una griglia analitica e concettuale elaborata e sviluppata altrove, nell’ambito del

dibattito accademico di matrice euro-atlantica; cosa pensassero i rappresentanti della società civile

locale del loro ruolo e della stessa definizione di società civile; quale fosse il rapporto della società

civile con il governo da una parte e con la comunità internazionale dall’altra; come venisse

interpretata la relazione tra forme “tradizionali” e forme più recenti e organizzate di società civile.

Si è trattato del primo tentativo compiuto in Italia di restituire un’immagine organica e articolata

della società civile afghana, dei suoi limiti, delle sue contraddizioni e potenzialità, fornendo una

sintesi della letteratura accademica in materia, associata a una serie di valutazioni derivate da una

ricerca sul campo in 8 delle 34 province afghane.

Alla base di quello studio vi erano due convinzioni fondamentali: da una parte l’idea che per

comprendere la società civile e più in generale l’Afghanistan fosse indispensabile lasciare la parola

agli afghani, raccogliendone le opinioni, le richieste, le aspettative, cercando di analizzarne le

ragioni e le contraddizioni implicite ed esplicite2; dall’altra l’idea che le stesse percezioni e auto-

percezioni degli afghani avessero un valore euristico, che potessero rilevare del conflitto - delle sue

cause e dei metodi per risolverlo - indicazioni più essenziali di quelle derivate dalla raccolta di

informazioni fattuali.

L’adozione di un metodo sostanzialmente qualitativo - volto a comprendere i diversi significati che

soggetti diversi attribuiscono a processi complessi sulla base di specifiche percezioni3 - si basava

su una precisa ragione: la consapevolezza che nella storia recente dell’Afghanistan le percezioni, le

opinioni, i giudizi e perfino i “rumors” avessero svolto un ruolo fondamentale4. Come è stato

1 Giuliano Battiston, La società civile afghana. Uno sguardo dall’interno, promossa dal network Afgana e da Intersos-Link 2007, con il contributo del Ministero degli Affari Esteri, Direzione Generale per la Cooperazione allo sviluppo. 2 Secondo Marika Theros e Mary Kaldor, “ciò che serve è un impegno strategico, un processo duplice in cui gli afghani esprimano quel che si aspettano dalla comunità internazionale. La questione non è tanto che la comunità internazionale assicuri tutto ciò che gli afghani richiedono; piuttosto, che si discuta con gli afghani su ciò che è possibile, fornendo delle soluzioni”: Theros, Kaldor, Building Afghan Peace from the Ground Up, The Century Foundation 2011, p. 46. 3 L. Mayoux, Quantitative, Qualitative or Participatory? Which Method, for What and When?, in V. Desai e R.B. Potter (eds), Doing Development Research, Sage Publications 2006; E. Winterbotham, Legacies of Conflict: Healing Complexes and Moving Forwards in Ghazni Province, AREU 2011.4 Si veda G. Battiston, N. Sergi, “Introduzione” a G. Battiston, Le truppe straniere agli occhi degli afghani. Opinioni, percezioni e rumors a Herat, Farah e Badghis, Intersos 2012, pp. 11-13; si veda anche A. Giustozzi, The “Great Fears” of Afghanistan: How Wild Rumours Shape Politics, in “IDEAS Today”, Issue 4, June 2010, pp. 9-10.

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giustamente osservato5, il fatto che percezioni, opinioni o rumors riflettano circostanze

oggettivamente vere è meno importante del fatto che siano diffuse e che abbiano un impatto, diretto

o indiretto, sul modo in cui gli afghani valutano ciò che accade nel loro paese. Ignorare tali opinioni

o derubricarle a semplice “chiacchiericcio” equivale a rinunciare a un elemento fondamentale per

comprendere il paese ed elaborare un’efficace strategia politica.

Anche la presente ricerca si basa su un metodo qualitativo e su alcune convinzioni, simili a quelle

appena elencate:

- ogni tentativo di pianificare il futuro dell’Afghanistan senza considerare le richieste e le

aspettative della popolazione è destinato a produrre risultati fragili e non duraturi;

- esiste una distanza rilevante tra le percezioni che i cittadini e i policymakers occidentali

hanno del conflitto afghano e quelle della popolazione e dei policymakers locali;

- questa distanza può essere almeno parzialmente colmata con un rigoroso lavoro sul campo,

capace di tenere conto della diversità dei punti di vista locali;

- il periodo della transizione, come ogni periodo di interregnum, porta con sé molti rischi e

alcune opportunità: tra queste ultime, la possibilità di modellare gli scenari futuri tenendo in

considerazione le opinioni e le aspettative della popolazione;

- se opportunamente gestito, il periodo della transizione può consentire alla comunità

internazionale di sintonizzare i propri obiettivi con quelli degli afghani.

La ricerca è stato organizzata intorno a quattro principali aree tematiche e relative domande:

- Il conflitto e le sue ragioni, il modo in cui è vissuto e percepito: abbiamo posto domande sui

fattori che alimentano il conflitto e la mobilitazione antigovernativa e sugli ostacoli che

impediscono di ottenere la pace.

- La pace, il negoziato e la riconciliazione: abbiamo raccolto opinioni e giudizi sugli strumenti

usati finora dalla comunità internazionale e dal governo afghano per favorire il processo di

pace e posto domande sul come dovrebbe essere organizzato il negoziato per essere efficace.

Allo stesso tempo, abbiamo cercato di capire che significato abbiano i termini “pace” e

“riconciliazione” per gli interlocutori incontrati.

- La giustizia e l’eredità dei conflitti precedenti: abbiamo raccolto opinioni sui metodi ritenuti

più legittimi ed efficaci per affrontare l’eredità dei conflitti passati e delle ingiustizie

5 E. Gaston e J. Horowitz, The Trust Deficit: The Impact of Local Perceptions on Policy in Afghanistan, Open Society Foundation, ottobre 2010, p.6.

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presenti, e posto domande sulla compatibilità tra le richieste di pace futura da una parte e

quelle di giustizia per i crimini passati e presenti dall’altra. Allo stesso tempo, abbiamo

cercato di capire che significato abbia il termine “giustizia” per i partecipanti alla ricerca.

- La transizione e il post-2014: abbiamo raccolto opinioni sulle aspettative, le richieste e i

timori legati all’attuale fase di transizione e alla fase che si aprirà con il ritiro dei soldati

della missione Isaf-Nato, alla fine del 2014.

Coerentemente con la divisione in aree tematiche, la ricerca è divisa in quattro capitoli. La

suddivisione in capitoli riflette una scelta di metodo e di chiarezza espositiva, mentre le risposte

delle persone intervistate si basano su una concezione generalmente più sfumata dei confini tra gli

argomenti affrontati.

Il primo capitolo è dedicato alle cause del conflitto ed esamina i fattori che alimentano la

mobilitazione antigovernativa all’interno di una cornice temporale circoscritta, quella

dell’Afghanistan “post-talebano”. Il capitolo si basa sull’idea che la condizione indispensabile per

individuare i metodi potenzialmente più utili per costruire un percorso di pace sia comprendere le

radici del conflitto o, meglio, quelle che sono percepite come tali. Il primo capitolo è suddiviso in

due sottocapitoli: il primo è dedicato ai fattori esterni, tra i quali l’interferenza dei paesi vicini e il

ruolo degli Stati Uniti, il secondo ai fattori interni, tra i quali il deficit di fiducia nei confronti del

governo e tra le comunità locali.

Il secondo capitolo è dedicato alle percezioni sul processo di pace in corso, alla valutazione dei

fattori che ne limitano l’efficacia e ai suggerimenti su quali possano essere gli strumenti più

appropriati per porre fine al conflitto. Il processo di pace tra il governo Karzai e i gruppi

antigovernativi viene valutato all’interno di un quadro che tiene conto del ruolo giocato dagli altri

attori internazionali. Il capitolo è diviso in tre sottocapitoli. Il primo è dedicato ai giudizi sulla

legittimità di un accordo politico con i movimenti antigovernativi e a quelli sull’attuale negoziato,

con un’attenzione particolare da una parte al ruolo dell’Alto consiglio di pace, l’organo istituito dal

presidente Karzai per favorire i colloqui di pace, dall’altra al piano per il reintegro degli ex

combattenti (i due aspetti dell’Afghanistan Peace and Reintegration Program, Aprp). Il secondo

sottocapitolo è dedicato al modo in cui i Talebani sono percepiti come interlocutori politici, al

giudizio su un eventuale governo di ampia coalizione che includa anche esponenti dei gruppi

antigovernativi, al ruolo degli attori regionali. L’ultimo sottocapitolo è dedicato alle proposte degli

esponenti della società civile incontrati sul negoziato.

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Nel terzo capitolo verifichiamo se per gli intervistati affrontare le questioni relative alla giustizia - i

crimini passati e le ingiustizie presenti - possa favorire oppure ostacolare la costruzione della pace,

la stabilità nel lungo termine, la coesione sociale. Analizziamo i diversi significati che gli

intervistati attribuiscono ai termini “giustizia”, “ingiustizia”, “crimine”; le percezioni sul modo in

cui i crimini passati e presenti si riflettono sull’attuale conflitto; il giudizio sul modo in cui sia il

governo afghano sia la comunità internazionale hanno finora affrontato la questione; i desideri, le

richieste, le aspettative sul modo più efficace per affrontare l’eredità del passato. Il capito è diviso

in tre sottocapitoli: il primo è dedicato al rapporto tra pace e giustizia; il secondo alla transitional

justice; il terzo ai “tempi della giustizia” e alle opinioni sull’amnistia e sul diritto delle vittime di

esigere giustizia.

Il quarto capitolo è dedicato alle valutazioni sull’attuale fase di transizione e alle aspettative per il

periodo successivo alla fine della missione Isaf della Nato. Si basa sulla constatazione che il 2014 è

entrato nella discussione e nell’immaginario pubblico afghano come una data fondamentale.

Valutiamo quali siano i timori più diffusi, quali i settori che più preoccupano i rappresentanti della

società civile e quali gli strumenti che suggeriscono di adottare per affrontare efficacemente il

trasferimento di responsabilità e di sovranità dagli internazionali agli afghani. Il capitolo è diviso in

tre sottocapitoli: il primo è dedicato alle aspettative sul futuro prossimo; il secondo alle richieste nei

confronti della comunità internazionale e del governo afghano; il terzo ai principali timori sul

prossimo futuro.

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METODOLOGIA

La ricerca è stata condotta in sette diverse province: Balkh, Bamiyan, Farah, Faryab, Herat, Kabul,

Nangarhar. Le province sono state scelte per offrire una rappresentazione della diversità geografico-

territoriale ed etnico-sociale del paese. La ricerca sul campo è stata condotta nell’arco di quasi

cinque mesi, nel corso di diversi viaggi in Afghanistan6.

Per dare seguito alla scelta del metodo qualitativo, sono state condotte interviste individuali

strutturate e semi-strutturate, a cui si sono aggiunti alcuni focus group e numerose conversazioni

informali. Sono state condotte circa 130 interviste strutturate e molti altri incontri informali. Tutti

gli incontri hanno seguito un orientamento flessibile, per dare all’intervistato/a l’opportunità di

definire meglio, di volta in volta, gli argomenti e gli aspetti ritenuti più rilevanti. Agli intervistati è

sempre stata accordata la possibilità di mantenere l’anonimato, per consentire una maggiore liberà

di espressione. La maggioranza degli intervistati ha espresso il proprio consenso a essere citata con

nome e cognome. Tra le sette province dove è stata condotta la ricerca, in quella di Farah si è

registrata un’alta percentuale di persone che hanno preferito evitare di essere citate, perché ciò

avrebbe potuto metterle in pericolo. In una percentuale significativa di casi - il 25% - le donne

intervistate hanno preferito non essere citate con nome e cognome.

Nella maggior parte dei casi le interviste sono state condotte mediante un interprete e in ambienti

privati, per fare in modo che gli intervistati si sentissero protetti e liberi di parlare. I giudizi raccolti

sono restituiti in modo ampio e articolato - anche se selettivo - alla fine di ogni capitolo. Le

citazioni riportate rappresentano solo una parte di quelle complessive e sono state scelte in ragione

della loro forza di esemplarità euristica. Nella sua elaborazione e nelle fasi preliminari e di

preparazione, la ricerca beneficia dei risultati delle interviste condotte su argomenti simili e

dell’esperienza maturata dal ricercatore in altre parti del paese, nel corso di diversi viaggi di lavoro,

alcuni dei quali realizzati per due precedenti ricerche.

Come nella precedente ricerca del network “Afgana”, si è scelto di raccogliere informazioni e

opinioni nell’ambito delle organizzazioni e dei gruppi che rappresentano la società civile. Le

persone intervistate sono state individuate adottando una griglia analitica sufficientemente ampia ed

6 Il mese di aprile 2012 per l’individuazione delle aree tematiche e delle aree geografiche di riferimento; dal 20 giugno al 15 agosto 2012 per la prima fase della ricerca sul campo; dal 19 al 27 settembre per la seconda fase della ricerca sul campo; dal 20 novembre al 17 dicembre 2012 per la terza fase della ricerca sul campo; dal 23 aprile all’8 maggio 2014 per la quarta fase della ricerca sul campo; il periodo che va dal 2 giugno al 2 luglio è stato impiegato per la discussione dei risultati con alcuni interlocutori afghani e per la stesura del rapporto. I risultati della ricerca sono stati presentati il 6 giugno 2013 all’Università di Herat nell’ambito della conferenza “Afghan Civil Society in Transition: Challenges and Opportunities”, organizzata da “Afgana” e in seguito a Kabul, presso l’Afghanistan Centre at Kabul University (ACKU).

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elastica da includere forme di associazionismo più o meno strutturate, gruppi culturali,

organizzazioni non governative, associazioni di giornalisti, “elders”, associazioni di categoria,

gruppi di promozione sociale, di genere e giovanili, cittadini ordinari, ricercatori, esperti,

parlamentari. Gli intervistati sono stati individuati secondo il criterio della maggiore

rappresentatività possibile e della più diversa collocazione sociale. Sono stati inclusi preferibilmente

coloro che, per autorevolezza, status, ruolo o professione, rappresentano interessi sociali ampi e

condivisi.

Dal punto di vista concettuale e metodologico, l’autore è consapevole che quello di società civile sia

un “concetto notoriamente sfuggente”7, con diversi significati normativi e un’ampissima portata

empirica, di cui attori diversi si sono appropriati ideologicamente soprattutto a partire dalla fine

della guerra fredda, quando il concetto ha acquisito un’“ubiquità globale”, tanto che per alcuni

studiosi l’eccesso di teorizzazione lo ha reso un “fuoco fatuo”, un mero attaccapanni analitico sul

quale appendere il proprio abito ideologico preferito8. Anche per questo è stata adottata una

concezione funzionale di società civile9 e si è fatto riferimento a un concetto di società civile

produttivamente “sfocato”, riflesso di una realtà che presenta a sua volta confini imprecisi: una

realtà che è il prodotto di quel processo in cui un mero individuo soggetto all’autorità politica o

militare diventa “cittadino”, titolare di diritti e di voce propria, acquisendo e costruendo insieme ad

altri gli strumenti per influenzare quell’autorità e per autodeterminare il proprio futuro, come

individuo e come membro di una comunità10.

7 D. Lewis, Civil society in non-Western contexts: Reflections on the ‘usefulness’ of a concept, Civil Society Working Paper series 13, 2001, Centre for Civil Society, London School of Economics and Political Science. 8 Su questo, si veda Si veda A. B. Seligman, Civil Society as Idea and Ideal, in Chamblers, Kymlicka (eds), Alternative Conceptions of Civil Society, Pricenton University Press 2002; Chandhoke, The Limits of Global Civil Society, in M. Glasius, M. Kaldor, H. Anheier (eds.), Global Civil Society 2002, Oxford University Press 2002; A. Van Rooy, Civil Society as Idea: An Analythical Hatstand, in Ead. (ed), Civil Society and the Aid Industry, Earthscan Publications Inc. 1998; M. Edwards, Civil Society, Polity Press 2004, preface; J. Ehrenberg, Civil Society: The Critical History of an Idea, New York University Press 1999. 9 Si veda Christoph Spurk, Understanding Civil Society, in Thania Paffenholz (ed.), Civil Society & Peacebuilding. A Critical Assessment, Rienner 2010, pp. 3-27 e Thania Paffenholz, Christoph Spurk, Civil Society, Civic Engagement, and Peacebuilding, World Bank, Conflict Prevention and Reconstruction Unit, Social Development Papers, Paper n. 36, 2006. 10 Per una più ampia spiegazione del modo in cui l’autore intende il concetto di società civile in Afghanistan, si veda G. Battiston, La società civile afghana, op. cit., pp. 7-15.

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LIMITI

Ogni ricerca presenta inevitabilmente dei limiti. In questo caso, il limite più evidente deriva dal

fatto che le interviste sono state raccolte quasi esclusivamente in ambiente urbano, nelle città

principali delle province selezionate: Mazar-e-Sharif, Bamiyan, Farah, Maimana, Herat, Kabul,

Jalalabad. Nella valutazione dei risultati della ricerca è indispensabile tenere a mente che in

Afghanistan esiste una differenza considerevole tra le città e gli ambienti rurali. Le opinioni raccolte

vanno considerate espressione di una parte di società circoscritta e particolare. Ciò suggerisce la

necessità di integrare la ricerca con uno studio ulteriore in ambiente rurale, in modo da ottenere

termini di paragone e valutare le differenze.

Il secondo limite deriva dal fatto che la ricerca è stata condotta da un ricercatore straniero, che

influenza l’interlocutore diversamente da quanto farebbe un ricercatore locale. Si tratta di un dato

inevitabile, che però non inficia la genuinità delle opinioni raccolte: è già stato rilevato che nel caso

le domande siano poste da connazionali o da stranieri le differenze nelle risposte ci sono ma non

sono sostanziali11. Inoltre, chi scrive è convinto che un punto di vista esterno possa facilitare una

valutazione appropriata dei dati raccolti. Per essere efficace, ogni ricerca si basa su due momenti:

quello dell’immersione nel campo di studio e, in seguito, del recupero di una distanza critica per la

valutazione analitica. Uno sguardo esterno, se opportunamente gestito, può facilitare questo

secondo passaggio.

11 E. Gaston e J. Horowitz, The Trust Deficit, op. cit. p. 6.

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1. LE RAGIONI DEL CONFLITTO

Il primo capitolo è dedicato alle cause del conflitto, ai fattori che generano e alimentano la

mobilitazione antigovernativa, agli elementi che ostacolano la pace. La cornice temporale di

riferimento è quella degli ultimi dodici anni: l’Afghanistan “post-talebano”. Si è deciso di

considerare soltanto l’ultima fase del conflitto, quella che comincia con il rovesciamento del regime

talebano e con l’intervento della comunità internazionale a partire dal 2001. Sono state escluse dalla

ricerca le fasi precedenti del conflitto, generalmente riconducibili a tre periodi storici: la rivoluzione

comunista, l’instaurazione del governo guidato dal Partito democratico popolare dell’Afghanistan

(Pdpa, 1978-9) e la successiva invasione sovietica (1979-89); la caduta del regime di Najibullah e la

guerra civile (1989-96); il regime talebano (1996-2001). Dal momento che l’attuale conflitto è

fortemente condizionato dall’eredità di quelli precedenti12, nella ricerca emergeranno comunque

riferimenti a quei periodi. Soprattutto tra gli intervistati più anziani si registra la tendenza a

riconoscere legami espliciti tra il conflitto attuale, la storia degli ultimi trent’anni, le aspettative per

la pace futura.

Questo primo capitolo si basa sull’idea che la condizione indispensabile per individuare i metodi

più efficaci per costruire un percorso di pace sia comprendere le radici del conflitto o, meglio,

quelle che sono percepite come tali. Il primo dato che emerge dalla ricerca è la forte esigenza di

valutare il conflitto nelle sue ragioni più profonde, nelle sue cause strutturali e meno visibili,

piuttosto che come un semplice scontro militare tra il governo afghano e i diversi gruppi

antigovernativi13. Come diventerà evidente nel corso della lettura, le aspettative della maggioranza

degli intervistati sul prossimo futuro e i loro suggerimenti sul processo di pace14 sono fortemente

condizionati dalla valutazione che danno delle cause della guerra.

Il primo capitolo è suddiviso in due sottocapitoli principali: il primo è dedicato ai fattori esterni che

alimentano il conflitto e ostacolano la pace, tra i quali l’interferenza dei paesi vicini e il ruolo degli

Stati Uniti; il secondo ai fattori interni, tra i quali il deficit di fiducia nei confronti del governo e tra

le comunità locali.

12 Sulle radici storiche del conflitto, si veda Thomas Ruttig, How It All Began: A Short Look at the Pre-1979 Origins of Afghanistan’s Conflict, AAN Occasional Paper 1/2013. Una delle più complete ricerche sulle ragioni della mobilitazione antigovernativa in chiave storica è quella di Antonio Giustozzi (con Niamatullah Ibrahimi), Thirty Years of Conflict: Drivers of Anti-Government Mobilisation in Afghanistan 1978-2011, AREU, 2012. 13 Si veda Antonio Giustozzi, Insurgency in Afghanistan, in Paul Rich e Isabelle Duyvesteyn (eds.), The Routledge Companion to Insurgency and Counter Insurgency, London, Routledge, 2012. 14 Per un’introduzione ai concetti di pace e peacebuilding si veda Thania Paffenholz, Civil Society and Peacebuilding, in Thania Paffenholz (ed.), Civil Society & Peacebuilding, op. cit.

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29

1.1 I FATTORI ESTERNI

In tutte le 7 province esaminate è diffusa la convinzione che il conflitto dipenda da una

combinazione di fattori interni ed esterni. Tali fattori interagiscono tra di loro, si alimentano a

vicenda, tanto da rendere difficile distinguerli nettamente e individuare quale fattore abbia maggiore

rilevanza15. I fattori esterni sono quelli sui quali hanno insistito con particolare enfasi gli

intervistati. La maggioranza ritiene infatti che il conflitto dipenda da cause regionali di lungo

periodo. Secondo questa lettura, le sue fonti andrebbero individuate primariamente fuori dai confini

dell’Afghanistan, non al suo interno. Quella afghana, sarebbe una guerra alimentata dai paesi

stranieri, e viene percepita all’interno di un contesto geopolitico più ampio dei confini nazionali16.

All’interno di un ambiente altamente conflittuale, l’Afghanistan si troverebbe a essere l’attore più

vulnerabile, quello sul quale ricadono le conseguenze più pesanti di una guerra decisa altrove. Le

cause sarebbero dunque esterne, mentre le conseguenze sarebbero prevalentemente interne a causa

della fragilità del paese. I decenni di guerra che il paese ha attraversato ne avrebbero indebolito le

strutture sociali e istituzionali, rendendo più facile l’interferenza dei paesi stranieri e più facilmente

manipolabile la popolazione. A sua volta, la pluralità degli scontri politici e militari in corso

accrescerebbero la frammentazione del sistema politico-sociale, perché ogni attore esterno avrebbe

interesse ad alimentare le differenze interne.

a) Un nuovo “grande gioco”

Tra gli intervistati, è diffusa l’idea che sul territorio afghano sia in corso un nuovo “grande gioco”,

simile a quello avvenuto nell’Ottocento tra l’Impero russo e la Corona britannica per il controllo

dell’Asia centrale: la collocazione strategica del paese alimenterebbe interessi conflittuali17. Diversi

paesi stranieri avrebbero motivo di destabilizzare l’Afghanistan per ottenere influenza e condizioni

favorevoli al perseguimento dei propri interessi in Asia centrale e meridionale. Molti intervistati

sostengono che tutti i principali paesi della regione e quelli che fanno parte della missione Isaf della

15 Per Hamish Nixon, “il conflitto in Afghanistan è caratterizzato da un incredibile mescolamento di fattori interni ed esterni, e i leader afghani fanno riferimento sia all’influenza deleteria degli interessi stranieri sia ai problemi tra gli stessi afghani come elementi che alimentano il conflitto”, in Nixon, Achieving Durable Peace: Afghan Perspectives on a Peace Process, USIP 2011, p. 7. 16 Per una lettura del conflitto afghano in chiave regionale, si veda Kristian Berg Harpviken, Afghanistan in a Neighbourhood Perspective: General Overview and Conceptualisation, Oslo, PRIO, 2010 e, dello stesso autore, Caught in the Middle: Regional Perspectives on Afghanistan, in “Comparative Social Research” 27, 2010, pp. 277–305. 17 Si veda anche Theros, Kaldor, Building Afghan Peace from the Ground Up, op. cit. Per un’interessante analisi sulla persistenza della competizione regionale in Afghanistan (tra India, Russia, Iran e Arabia Saudita), si veda Stina Torjesen, Afghanistan and the regional powers: history not repeating itself?, Norwegian Peacebuilding Resource Center, 2012. Sulle due diverse e fondamentalmente opposte prospettive (quella “occidentale” e quella “asiatica”) per il futuro dell’Afghanistan si veda Astri Suhrke, Towards 2014 and beyond: NATO, Afghanistan and the “Heart of Asia”, Norwegian Peacebuilding Resource Centre, 2012.

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30

Nato si distinguerebbero per un atteggiamento incoerente: sulla carta sosterrebbero il governo

afghano, nella realtà sarebbero disposti ad aiutare con mezzi e strumenti diversi i gruppi

antigovernativi, laddove questo facilitasse i loro interessi. La difficoltà di trovare una soluzione al

conflitto dipenderebbe dunque dall’eterogeneità degli interessi in gioco, dalla mancanza di onestà

da parte di molti paesi e dallo scarto tra i loro obiettivi espliciti e quelli reali.

b) Interessi materiali e motivazioni ideologiche

Tra gli intervistati, soltanto una minoranza individua in uno scontro ideologico la causa del conflitto

in corso. É significativo notare che anche coloro che considerano determinante il fattore ideologico

tendono a collocarlo all’interno di un contesto regionale e internazionale, non nazionale. Lo scontro

non riguarderebbe differenti visioni tra il governo e il movimento talebano sulla futura architettura

politico-istituzionale del paese e sugli ideali sociali e culturali su cui il sistema politico dovrà

basarsi una volta che le truppe internazionali si ritireranno. Esso avrebbe a che fare, più in generale,

con l’antagonismo tra due blocchi politico-ideologici alternativi: quello democratico-liberale

incarnato dalla comunità internazionale e quello “islamista”, che viene incarnato dai gruppi

antigovernativi ma che rimanda a una tendenza più ampia, propria di tutta la regione e originata

dall’attivismo “culturale” e finanziario di paesi come l’Arabia saudita, il Pakistan, l’Iran.

c) Gli eserciti della missione Isaf-Nato

Tra gli intervistati, si registra un netto divario tra le aspettative di un tempo e le percezioni attuali:

quanti nel 2001/2 si aspettavano che le truppe internazionali avrebbero garantito la sicurezza e

stabilizzato il paese oggi si dichiarano delusi, perché più insicuri e vulnerabili di allora18. Da qui,

deriva una crescente diffidenza e sfiducia nei confronti degli eserciti che fanno parte della missione

Isaf-Nato, criticati perché incapaci di porre fine al conflitto e di sconfiggere i gruppi

antigovernativi. La sfiducia e la disillusione sono riconducibili a due fattori principali: la percezione

che dopo dodici anni di intervento militare la sicurezza non sia ancora garantita sull’intero

territorio; la constatazione che i movimenti antigovernativi siano militarmente ancora molto forti.

Sfiducia e disillusione generano sospetto. Ai paesi stranieri, in particolare agli Stati Uniti, è

assegnato un grande potere: se tale potere non produce i risultati aspettati, ciò significa che non

viene esercitato in modo onesto, sostengono gli intervistati. Per qualcuno, il fatto che un gran

numero di soldati stranieri dotati di armi sofisticate e di strumenti tecnologicamente avanzati non

sia riuscito a sconfiggere né indebolire la guerriglia dimostrerebbe la loro scarsa volontà di porre

18 Un sentimento simile a quello registrato in G. Battiston, Le truppe straniere agli occhi degli afgani, op. cit. pp. 29-31.

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fine al conflitto19.

d) Il ruolo degli Stati Uniti

In tutte le province esaminate - in particolare in quella di Farah, nel sudovest del paese - una parte

degli intervistati nutre una profonda sfiducia nei confronti dei paesi stranieri, soprattutto degli Stati

Uniti. Il coinvolgimento degli Stati Uniti non sarebbe volto a stabilizzare l’Afghanistan e a

combattere i movimenti ribelli, ma a favorire i propri interessi di natura strategica e a esercitare

un’egemonia politica e militare nell’area20. Molti esprimono dubbi sulle vere ragioni della presenza

dell’esercito statunitense sul suolo afghano: il fatto che un esercito considerato il più potente del

pianeta non sia riuscito a sconfiggere i gruppi antigovernativi genera l’idea che l’obiettivo primario

degli Stati Uniti sia quello di mantenere il paese instabile per giustificare la propria presenza in Asia

centrale. Da qui deriverebbe un atteggiamento ambivalente: sostegno al governo afghano e,

contestualmente, uso strumentale di alcuni gruppi antigovernativi per perseguire i propri interessi21.

Per adottare la formula usata da uno degli intervistati, “è come se in una partita a scacchi lo stesso

giocatore muovesse sia le pedine bianche che quelle nere”. Alla base dell’atteggiamento

ambivalente degli Stati Uniti ci sarebbe il tentativo di arginare il crescente protagonismo economico

e politico della Cina. Oltre allo scontro tra il blocco atlantico e la Cina, alcuni intervistati

enfatizzano la pluralità degli scontri politici che si starebbero verificando in Afghanistan: tra Iran e

Stati Uniti; tra India e Pakistan; tra Stati Uniti e Russia; tra Pakistan e Afghanistan. Secondo la

lettura prevalente, ogni attore esterno avrebbe interesse ad alimentare le differenze interne del

paese. É significativo notare come il sospetto sulle reali intenzioni dei paesi della missione Isaf-

Nato sia diffuso anche tra coloro che sostengono in linea di principio la missione e i suoi obiettivi o

che ricavano benefici dalla presenza della comunità internazionale in Afghanistan.

19 Nella loro ricerca, Theros e Kaldor registrano che “il fallimento nell’indebolire gli insorti ha causato la diffusione di teorie cospiratorie […] La crescente insicurezza nel nord e la crescente forza dei Talebani alimentano la percezione che ci sia una collusione tra le forze internazionali e i Talebani”, in Theros, Kaldor, Building Afghan Peace from the Ground Up, op. cit. pp. 28-29. 20 Risultati simili emergono dalla ricerca di Hamish Nixon: “La consapevolezza del quadro geopolitico, unita al percepito fallimento degli Stati Uniti nell’affrontare la questione della complicità del Pakistan, creano una diffusa percezione che gli Stati Uniti non rappresentino un soggetto che porta beneficio. Piuttosto, si tratterebbe di un – o forse del – principale belligerante nel conflitto. Al di là dei confini sociali e politici c’è ‘la comune percezione che l’America non voglia la pace e la sicurezza a causa della sua strategia di lungo termine’”, in Nixon, Achieving a Durable Peace, op. cit. p. 8. 21 Sono diverse le ricerche che registrano tra gli afghani una percezione simile sul ruolo degli Stati Uniti. Niamatullah Ibrahimi ed Emily Winterbotham notano per esempio che alcune persone da loro intervistate “accusano le forze americane di fornire armi e munizione ai Talebani per prolungare la propria presenza in Afghanistan. Al di là della veridicità di queste tesi, a essere pericolosa per il governo e per la legittimità internazionale è la stessa percezione di questi legami…”, in N. Ibrahimi, E. Winterbotham, Caught Between Past and Present. Consultation with Victims of Three Massacres in Afghanistan: 15 March 1979 Herat, February 1993 Afshar and August 1998 Balkh, Afghanistan Watch 2012, p. 26.

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e) Interferenze: il ruolo di Iran e Pakistan

In tutte le 7 province dove è stata realizzata la ricerca, la maggioranza degli intervistati imputa a

Iran e Pakistan le maggiori responsabilità nel conflitto. Entrambi i paesi non solo ostacolerebbero i

tentativi di pace, ma alimenterebbero in modo attivo il conflitto. C’è la forte convinzione che Iran e

Pakistan sostengano finanziariamente e militarmente alcuni gruppi antigovernativi per creare

instabilità in Afghanistan22. Il Pakistan in particolare viene considerato il paese che ha le

responsabilità più gravi23. Tra gli intervistati, tutti enfatizzano il ruolo giocato dal Pakistan, oggi

e in passato, nell’addestramento dei gruppi ribelli e nella loro gestione in chiave anti-afghana.

L’interferenza del Pakistan negli affari interni dell’Afghanistan sarebbe la principale causa del

conflitto. Nonostante ci sia una tendenza prevalente ad accusare il Pakistan tout court, una parte

considerevole degli intervistati imputa una più precisa responsabilità ai servizi segreti dell’Inter-

Services Intelligence (d’ora in poi Isi)24. In termini percentuali, la maggioranza accusa comunque “i

pakistani”, genericamente intesi, come responsabili della guerra.

La comunità internazionale viene criticata per non aver riconosciuto per tempo il ruolo del Pakistan

e per aver creduto che le fonti del terrorismo di matrice islamista si trovassero in primo luogo in

Afghanistan. Gli Stati Uniti vengono criticati per non aver esercitato pressioni adeguate sul governo

pakistano affinché mettesse fine al sostegno dei gruppi islamisti. La debolezza dimostrata dagli Stati

Uniti viene ricondotta a due spiegazioni principali: l’abilità del Pakistan nel nascondere i propri

interessi e la volontà degli Stati Uniti di mantenere lo status quo per poter continuare ad avere una

presenza in Asia centrale. La percezione che gli Stati Uniti non abbiano costretto il governo

pakistano a una politica onesta e trasparente verso l’Afghanistan rafforza l’idea che abbiano

interesse nel proseguimento del conflitto e nell’instabilità del paese. Diverse persone hanno

sottolineato che al Pakistan andrebbe attribuita anche la diffusione di una concezione dell’Islam

radicale e fondamentalista, estranea alla tradizione afghana, considerata aperta e tollerante.

22 Secondo Jonathan Goodhand, “è difficile stabilire l’esatta natura dei legami tra l’Iran e i Talebani, ma il fatto che i Talebani siano stati in grado di aprire un ufficio nella citta iraniana di Zahedan nel maggio 2012 indica un’intimità crescente”, in Goodhand, Contested Transitions: International drawdown and the future state in Afghanistan, Norwegian Peacebuilding Resource Center, 2012, p. 5. 23 Hamish Nixon scrive che “molti leader afghani nutrono anche sospetti generali sui desideri del Pakistan di mantenere perennemente debole l’Afghanistan, così da sfruttare più facilmente i rifugiati e le risorse naturali”. 24 Sulle responsabilità dell’Isi, si veda Matt Waldman, The Sun in the Sky: The Relationship between Pakistan’s ISI and Afghan Insurgents, London School of Economics, Crisis States Research Centre, Discussion Paper No. 18, June 2010. Per una ricostruzione storica della politica estera pakistana nei confronti dell’Afghanistan si veda Safdar Sial, Pakistan’s role and strategic priorities in Afghanistan since 1980, Norwegian Peacebuilding Resource Center, 2013; dello stesso autore si veda anche (con M. Amir), Afghanistan and Pakistan: a common security perspective, in “Conflict and Peace Studies”, 5(1), aprile 2013, pp. 9-34.

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L’interferenza del Pakistan sarebbe dunque avvenuta tramite il sostegno ai gruppi militanti islamisti

e allo stesso tempo tramite la diffusione di un’interpretazione religiosa che giustifica

pretestuosamente il ricorso alla violenza. Vi è la diffusa percezione che l’Islam afghano sia stato

contaminato dall’esterno e che sia necessario recuperare la concezione locale dell’Islam

depurandola dalle influenze esogene, considerate deleterie e del tutto incompatibili con la cultura

tradizionale. Oltre che attraverso i gruppi antigovernativi e la diffusione di un’interpretazione

fondamentalista dell’Islam, il Pakistan sarebbe attivo in Afghanistan anche al livello politico,

riuscendo a influenzare le decisioni del parlamento e del governo. Inoltre, sfrutterebbe le divisioni

etniche presenti nel paese per raggiungere i propri scopi.

Gli intervistati individuano 4 fattori principali come causa dell’interesse del Pakistan a perpetuare il

conflitto afghano:

- Fattore politico. La fragilità strutturale del paese e quella politico-istituzionale del governo

afghano garantirebbero al Pakistan margini di manovra più ampi per influenzarne le decisioni. Un

paese instabile e un governo debole faciliterebbero l’influenza pakistana in Afghanistan e in Asia

centrale.

- Fattore economico. L’instabilità dell’Afghanistan garantirebbe privilegi economici al Pakistan, che

sarebbe interessato a mantenere il paese vicino in una condizione di dipendenza economica.

Secondo molti interlocutori, nel caso in cui l’Afghanistan diventasse economicamente prospero, il

Pakistan perderebbe la sua posizione di esportatore privilegiato, mentre l’Afghanistan acquisterebbe

una posizione centrale nei traffici commerciali ed energetici tra Asia centrale e meridionale,

alterando gli attuali equilibri della regione.

- Fattore territoriale. In tutte le province - in particolare in quella di Nangarhar, a ridosso del confine

pakistano - gli intervistati sottolineano la centralità della controversia irrisolta tra Afghanistan e

Pakistan sulla linea di confine, la Durand Line25. La lettura prevalente suggerisce che fino a quando

il governo afghano sarà instabile, gli risulterà difficile rivendicare l’apertura di un vero negoziato

sulla Durand Line. Il Pakistan avrebbe interesse ad alimentare il conflitto in Afghanistan così da

evitare di affrontare la questione o per poterla risolvere da una posizione di forza.

- Fattore geopolitico. Il Pakistan starebbe combattendo una guerra per procura contro l’India in

Afghanistan, il cui territorio servirebbe per guadagnare posizioni nel lungo contenzioso indo-

pakistano sul Kashmir. Per una parte minoritaria degli intervistati, la crescente influenza politica

dell’India in Afghanistan starebbe alimentando per reazione un rinnovato protagonismo militare del

25 La Durand Line deve il suo nome a Henry Mortimer Durand (1850-1924), segretario degli Esteri nell’India britannica dal 1884 al 1894, che nel 1893 negoziò i confini tra il Raj britannico, di cui faceva allora parte anche l’attuale Pakistan, e l’Afghanistan, allora governato dall’emiro Abdur Rahman Khan.

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Pakistan26. Come vedremo nell’ultimo capitolo, si registra anche un’interpretazione opposta: la

presenza indiana in Afghanistan costituirebbe un deterrente all’interferenza pakistana.

1.2 I FATTORI INTERNI

Come abbiamo visto, la maggioranza degli intervistati attribuisce le ragioni del conflitto

principalmente a fattori esterni. Tutti coloro che hanno preso parte alla ricerca riconoscono però che

i fattori esterni non agiscono da soli e si combinano ad alcuni fattori interni, alimentandosi a

vicenda27. Secondo la percezione prevalente, è proprio la combinazione di fattori interni ed esterni a

rendere difficile la risoluzione del conflitto. Più in particolare, la vulnerabilità dell’Afghanistan

all’interferenza esterna, la facilità con cui i paesi stranieri possono esercitare la loro influenza sul

suolo afghano viene attribuita alla debolezza delle istituzioni governative e, come vedremo più

avanti, alla frammentazione del tessuto sociale. Ne deriva un circolo vizioso: la fragilità governativa

e istituzionale facilita le interferenze esterne; a loro volta le interferenze esterne aggravano la

fragilità del paese sotto il profilo istituzionale e sociale.

a) La sfiducia nel governo

Tra i fattori interni che alimentano il conflitto, causando in modo diretto o indiretto la mobilitazione

antigovernativa, ce n’è uno che viene unanimemente sottolineato dagli intervistati: il deficit di

fiducia nei confronti del governo28. Secondo la quasi totalità degli interlocutori incontrati, alla base

del conflitto ci sarebbe il divario crescente tra governo e popolazione29. Il governo viene percepito

come privo di legittimità, screditato, impermeabile alle richieste dei cittadini, incapace di

provvedere ai loro bisogni essenziali, autoreferenziale, privo di vera rappresentanza sociale,

orientato al profitto, forte con i deboli e debole nelle sue strutture istituzionali e amministrative.

La popolazione non nutre alcuna fiducia nel governo, di cui al contrario diffida, sostengono molti

26 Gilles Dorronsoro scrive che “l’esercito pakistano è convinto che l’India stia assumendo una posizione offensiva in Afghanistan, dando sostegno ai gruppi anti-Talebani e alle tribù beluci affinché reclamino l’indipendenza dal Pakistan. La politica indiana è interpretata dal Pakistan come un pericolo strategico”: Dorronsoro, Waiting for the Taliban in Afghanistan, Carnegie Endowment for International Peace, September 2013, p. 12. 27 Ciò conferma i risultati dello studio di Hamish Nixon, il quale scrive che “nessuno crede che questi fattori esterni contribuiscano da soli […]. Molti intervistati notano anche che, con l’aggravarsi del conflitto post-2001, i problemi interni dell’Afghanistan e i conflitti relativi sono diventati sempre più rilevanti e sono esacerbati e resi possibili dalle influenze straniere”: Achieving a Durable Peace, op. cit. pp. 7-8. Su questo si veda anche Afghan People’s Dialogue on Peace. Laying the Foundation for an Inclusive Peace Process, un rapporto reso pubblico nel dicembre 2011 da un gruppo di organizzazioni della società civile afghana insieme all’Afghanistan Independent Human Rights Commission. 28 Gilles Dorronsoro scrive che “il sistema politico ha perso ogni legittimità democratica agli occhi della popolazione afghana”, in Waiting for the Taliban in Afghanistan, op. cit. p. 8. 29 Secondo Hamish Nixon, “la qualità e il comportamento del governo afghano è quasi universalmente riconosciuto come un fattore che alimenta il conflitto, e insieme al ritiro e alla limitazione del potenziale terrorismo internazionale, una questione centrale per qualunque processo di pace”, in Achieving a Durable Peace, op. cit. p. 10.

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partecipanti alla ricerca. Viene considerato un’entità estranea e ostile, animata da interessi egoistici,

“predatori” e “parassitari”. Molti intervistati sottolineano che il sentimento di sfiducia verso il

governo è crescente. La percezione che il governo sia privo di legittimità e che non meriti la fiducia

dei cittadini sembra essere riconducibile allo scarto tra le aspettative di un tempo e i risultati attuali

in termini di sviluppo economico, garanzia dei diritti, funzionamento istituzionale, trasparenza

amministrativa e finanziaria, capacità di rispondere alle aspettative della popolazione: alcuni

interlocutori ricordano di aver sperato, con la caduta del regime talebano, che il nuovo governo

garantisse servizi e diritti ai cittadini, per poi rimanere delusi dall’inefficienza del governo, dalla

scarsa qualità dei servizi offerti e soprattutto dall’impermeabilità verso le richieste della

popolazione.

La sfiducia verso il governo non viene attribuita a una particolare classe sociale, a una specifica

area territoriale, a una determinata comunità etnica o a un certo gruppo politico, ma viene percepita

come un sentimento che attraversa tutto il paese. Non è un caso che il governo venga criticato anche

da coloro che ne fanno parte. Molti interlocutori incontrati sottolineano che il distacco tra il governo

e la popolazione è particolarmente marcato nelle aree rurali, dove il governo è incapace di garantire

i servizi per l’educazione, la salute, il lavoro e dove la sua legittimità e la capacità di affermare la

propria sovranità sarebbero ancora più limitate.

b) “La forza dei Talebani è la debolezza del governo”

La sfiducia verso il governo non presuppone un automatico sostegno ai movimenti antigovernativi.

Al contrario, in molti casi la diffidenza nasce proprio dall’incapacità del governo di garantire la

sicurezza ai cittadini, sconfiggere i gruppi ribelli e portare la pace nel paese. Agli attori esterni in

genere viene attribuita la responsabilità di alimentare volontariamente il conflitto, al governo invece

quella di non essere in grado di affrontare le ragioni strutturali che favoriscono l’interferenza degli

attori esterni. L’idea sottostante è che, se il governo affrontasse le ragioni strutturali del conflitto, le

interferenze esterne cesserebbero e il consenso dei gruppi antigovernativi diminuirebbe. La critica

al governo per la sua incapacità di mettere fine al conflitto riguarda dunque gli scarsi risultati sia nel

settore della sicurezza e della protezione dei civili sia nella creazione di un contesto sociale e

istituzionale capace di essiccare i semi della mobilitazione antigovernativa.

Secondo alcuni intervistati, le stesse ragioni che giustificano la crescente sfiducia della popolazione

nei confronti del governo favoriscono anche il reclutamento dei gruppi antigovernativi. I fattori

ideologici conterebbero poco nell’adesione dei militanti. Più importanti sarebbero invece i

sentimenti di scontento e di risentimento verso il governo (oltre che verso le truppe straniere). La

militanza nei gruppi armati viene percepita come una risposta all’inefficienza del governo e in

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36

particolare come una reazione estrema alla completa sordità e impermeabilità del governo alle

richieste dei cittadini. La mancanza di meccanismi certi, trasparenti e accessibili per rivendicare i

propri diritti spingerebbe la maggioranza della popolazione a un sentimento di sfiducia nel governo.

Una parte minoritaria, quella più marginalizzata, sarebbe invece spinta alla militanza armata. É da

notare che ciò è riferito soltanto a quelli che gli intervistati definiscono come i “Talebani afghani”,

non a quelli stranieri, verso i quali i sentimenti sono molto diversi, come vedremo nel successivo

capitolo.

Il governo si caratterizzerebbe negativamente dunque per la completa impermeabilità alle richieste

della popolazione, che non avrebbe strumenti per presentare le proprie istanze. La sclerotizzazione

dei meccanismi di comunicazione tra governo e cittadinanza aggraverebbe la distanza tra i due e

renderebbe più acuto il conflitto. Secondo questa lettura, la forza dei gruppi antigovernativi

risiederebbe essenzialmente nella debolezza del governo e nello scarso consenso di cui gode: la

forza dei Talebani è la debolezza del governo, sostengono gli intervistati30.

c) L’ingiustizia: corruzione e cultura dell’impunità

Dalla ricerca emerge un dato inequivocabile: il deficit di fiducia nei confronti del governo è

radicato in un diffuso senso di ingiustizia (si veda anche il terzo capitolo). L’ingiustizia è

considerata un fattore determinante nel mobilitare i gruppi antigovernativi e nell’accrescere il

risentimento e la sfiducia della popolazione nei confronti del governo. Il concetto di ingiustizia

viene inteso in un senso molto ampio e inclusivo: comprende l’ingiustizia sociale; la mancanza di

giustizia penale e dello stato di diritto; l’ineguale distribuzione delle risorse e del potere politico;

l’inaccessibilità delle strutture governative per i cittadini; la mancanza di servizi sociali e di

opportunità di lavoro; l’impermeabilità del governo alle richieste della popolazione.

L’ingiustizia viene attribuita a molti fattori. Sono due quelli enfatizzati dai partecipanti alla ricerca:

la corruzione e la cultura dell’impunità. Tra gli intervistati è diffusa la convinzione che la

corruzione sia diventata uno dei maggiori pericoli per la stabilità del paese e uno dei maggiori

ostacoli verso la pace31, perché minerebbe alle fondamenta la residua legittimità del governo. La

30 Antonio Giustozzi scrive che alcuni Talebani in carcere “dicono di stare combattendo contro un governo corrotto e contro la presenza straniera nel paese, e sembrano avere un forte senso di appartenenza ai Talebani come movimento”, in Antonio Giustozzi, Taliban Military Adaptation, in Theo Farrell, Frans Osinga e James A. Russell (eds), Military Adaptation in Afghanistan, Stanford University Press 2013, p. 245. 31 Si veda Afghan People’s Dialogue on Peace (p. 6), dove si sostiene che “gli uomini e le donne afghane quasi unanimemente riconoscono la corruzione a tutti i livelli del governo come un fattore che contribuisce al deterioramento della situazione della sicurezza”. Nel 2012, la metà dei cittadini afghani ha pagato una mazzetta per richiedere un servizio pubblico, mentre il costo totale della corruzione è arrivato a 3.9 miliardi di dollari, secondo le stime di Corruption in Afghanistan. Recent Patterns and Trends, un rapporto congiunto tra High Office for Oversight and Anticorruption (HOO) e United Nations Office on Drugs and Crime (UNODC). Secondo il Corruption Perceptions Index 2012 di Transparency International, l’Afghanistan è il terzo paese più corrotto al mondo dopo la Corea del Nord e

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corruzione è generalizzata, diffusa in tutte le amministrazioni pubbliche, da quelle periferiche a

quelle centrali, coinvolge le forze di polizia e dell’esercito, il sistema giudiziario, quello politico e

lo stesso esecutivo, sostengono gli intervistati. Viene intesa come una malattia che indebolisce il

sistema politico-sociale e aumenta la distanza tra il governo e i cittadini, tra la classe politica e la

popolazione.

Alcuni partecipanti alla ricerca denunciano la natura sistemica, strutturale della corruzione. Altri

sottolineano il legame tra l’aumento della corruzione e la presenza della comunità internazionale.

Gli internazionali sono considerati responsabili per due ragioni: al livello individuale per essere

soggetti attivi nella diffusione dei meccanismi di corruzione. Al livello generale per aver introdotto

nel paese un sistema di aiuti e di assistenza che produrrebbe “fisiologicamente” corruzione e

dipendenza: la quantità di aiuti destinati al paese, ma soprattutto i meccanismi della loro

distribuzione e assegnazione, eccederebbero la capacità di assorbimento complessivo della società e

le capacità di gestione delle istituzioni. Una parte minoritaria degli intervistati ritiene che la

corruzione dipenda dal repentino passaggio da un sistema economico fortemente burocratizzato di

derivazione sovietica a un sistema basato sull’economia di mercato, adottato con l’arrivo della

comunità internazionale: l’apertura improvvisa al sistema del libero mercato in un paese privo di

adeguate strutture istituzionali di controllo e di indirizzo delle politiche economiche e degli

investimenti privati avrebbe generato la corruzione.

Alla diffusione della corruzione si accompagna la cultura dell’impunità, che gli intervistati

considerano causa e insieme conseguenza della corruzione. La cultura dell’impunità giustifica a

monte i comportamenti penalmente rilevanti, perché li rende meno riprovevoli dal punto di vista

sociale e morale e li legittima a valle perché esclude che siano penalmente perseguiti. Se il sistema

politico locale viene criticato per aver reso la corruzione una prassi quotidiana, indispensabile per

adempiere qualsiasi pratica ordinaria, la comunità internazionale è stigmatizzata per l’affermazione

della cultura dell’impunità32. La maggiore responsabilità che viene imputata agli stranieri sembra

essere legata all’idea che il governo afghano sia “moralmente” debole mentre i paesi stranieri siano

“forti”: nei confronti della comunità internazionale si registrano aspettative più alte nei settori della

giustizia e dei diritti umani.

Tali aspettative sono contraddette dalle scelte compiute in passato dalla comunità internazionale. La

la Somalia. I risultati del National Corruption Survey, uno studio biennale della Ong Integrity Watch Afghanistan, dimostra che “la corruzione è ancora considerata il terzo principale problema in Afghanistan, dopo l’insicurezza e la mancanza di lavoro”. 32 Sul modo in cui la comunità internazionale, nel corso degli anni, ha cercato di affrontare il problema della corruzione si veda Heather Barr, Settling for Nothing: International Support for Anti-Corruption Efforts, in Martine van Bijlert and Sari Kouvo Snapshots (eds), Snapshots of an Intervention. The Unlearned Lessons of Afghanistan's Decade of Assistance (2001–11). Il saggio di Barr e il testo completo dell’e-book possono essere scaricati gratuitamente dal sito http://www.afghanistan-analysts.org/.

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totalità degli intervistati contesta in modo radicale il sostegno accordato ai cosiddetti “signori della

guerra”. Anziché destituirli di potere e favorire un cambio di leadership, la comunità internazionale

avrebbe preferito affidarsi a coloro che in passato hanno contribuito alla distruzione del paese33. Il

sentimento di ingiustizia più radicato e diffuso riguarda proprio questo aspetto: il fatto che a

detenere il potere politico, economico e militare siano leader considerati corrotti e incapaci, inclini

alla violenza ed estranei ai valori democratici. Il senso di ingiustizia sembra derivare da un forte

senso di disillusione: anche tra coloro che si sono dichiarati contrari all’intervento armato del 2001,

la maggioranza sostiene di aver comunque sperato che la presenza della comunità internazionale

avrebbe rimosso dal potere quanti in passato si erano macchiati di crimini di guerra e compiuto

abusi dei diritti umani, portando a un rinnovamento nella leadership politica. A distanza di dodici

anni, il fatto di vedere l’Afghanistan dominato da network di potere controllati da quegli stessi

uomini di cui ci si voleva liberare genera un forte senso di frustrazione. A ciò si aggiunge la

consapevolezza che le attuali dinamiche di potere interne e la mancanza di volontà politica da parte

della comunità internazionale rendano inverosimile un cambiamento in tempi brevi. Tale

consapevolezza rafforza il senso di frustrazione e di ingiustizia e, in una parte degli intervistati,

genera un profondo sospetto verso le reali intenzioni degli stranieri. Tutti questi elementi

contribuiscono a formare l’idea che sia stata sprecata un’occasione importante per rifondare il paese

su principi diversi da quelli del passato34.

d) La sfiducia tra le comunità locali

Tra i partecipanti alla ricerca, la maggioranza identifica anche nella mancanza di fiducia tra le

comunità e i gruppi etnici un fattore che alimenta il conflitto. Tra le varie comunità ci sarebbe un

deficit di fiducia simile a quello che si registra tra il governo e i cittadini, anche se dovuto a ragioni

diverse. Il sospetto reciproco, frutto dei conflitti passati, sarebbe una delle cause meno evidenti ma

più rilevanti della guerra, una delle sue radici. La mancanza di fiducia rende più difficili le relazioni

intra-comunitarie e la costruzione di un senso di identità nazionale condiviso, sostengono in molti. I

decenni di guerra passati hanno favorito i ripiegamenti identitari, la ricerca di legami considerati

sicuri nell’ambiente di appartenenza più circoscritto, la diffidenza verso gli altri e una generale

riluttanza a prendere parte alla “cosa pubblica”. Le conseguenze di questo arroccamento

comunitario sarebbero evidenti anche oggi, con il prevalere di interessi parziali, di gruppo, etnia35,

33 Secondo The Cost of War. Afghan Experiences of Conflict, 1978-2009 (p. 30) - una ricerca promossa da 8 organizzazioni non-governative che operano in Afghanistan -, “le politiche post-talebane di cooptazione sostenute dai principali donatori hanno ostacolato gli sforzi per far conoscere gli abusi del passato e rendere giustizia” 34 Si veda anche il paragrafo che nel terzo capitolo di questa ricerca abbiamo dedicato alla transitional justice. 35 Sulle “due opposte posizioni sostenute da quanti concordano nel dire che l’etnicità è un fattore che alimenta il conflitto”, si veda Antonio Giustozzi, Thirty Years of Conflict, op. cit. specialmente pp. 32-37.

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affiliazione politica o di orientamento religioso a scapito dell’interesse generale. Anche

l’inefficienza del governo viene ricondotta alla tendenza a subordinare l’interesse nazionale ai

legami di affiliazione, oltre che alla pratica di affidare posizioni di responsabilità in base

all’appartenenza e alla fedeltà piuttosto che alla competenza e alla professionalità.

Alla base dell’instabilità attuale dell’Afghanistan ci sarebbe dunque una crisi identitaria, di natura

sociale e culturale. Il tessuto sociale che fa di un paese una nazione sarebbe stato indebolito dalla

guerra, causando linee di frattura ancora non ricomposte. In questo senso, come è stato notato,

l’Afghanistan sarebbe condizionato dal peso della sua storia recente più di qualunque altro fattore36.

É significativo notare come nella provincia di Bamiyan sia prevalente un’interpretazione diversa.

Secondo tale interpretazione, il fattore “etnico” sarebbe rilevante, così come il peso della storia, ma

in un senso diverso da quello visto. Per gli interlocutori incontrati nella provincia a maggioranza

hazara, l’attuale conflitto deriverebbe infatti dal risentimento della comunità pashtun, egemone a

livello politico negli ultimi duecento anni, per essere stata privata del controllo del potere centrale

con l’arrivo della comunità internazionale nel 2001. I Talebani non sarebbero che lo strumento

militare con cui la comunità pashtun contesta l’equilibrio di potere post-talebano e rivendica un

potere più ampio. L’interpretazione registrata a Bamiyan non contraddice quella prevalente nelle

altre 6 province. Conferma semmai quanto sia diffusa la percezione che il fattore “inter-

comunitario” contribuisce ad acuire il conflitto.

Da questo punto di vista, è importante notare un altro elemento: gli intervistati sottolineano spesso

che le differenze etniche e di gruppo non hanno sempre giocato un ruolo così importante nella storia

del paese. Tali differenze non sono percepite come un dato naturale, ma come una costruzione

“artificiale”37. I processi di polarizzazione etnica sarebbero il frutto di una deliberata

strumentalizzazione da parte dei leader politici e militari locali, che avrebbero fomentato le

divisioni per perseguire interessi privati, specie durante la guerra civile. Allo stesso tempo, anche i

paesi vicini, in particolare l’Iran e il Pakistan, avrebbero politicizzato le divisioni interne per

raggiungere i propri scopi e ottenere maggiore influenza in Afghanistan. Una parte degli intervistati

riconosce lo stesso circolo vizioso tra fattori interni ed esterni già sottolineato: le divisioni interne

avrebbero reso possibile, o quantomeno più facile, l’interferenza esterna. A sua volta l’interferenza

esterna avrebbe rafforzato le divisioni interne già esistenti, politicizzandole e strumentalizzandole.

36 Secondo Antonio Giustozzi, “l’Afghanistan è tormentato dal peso della sua storia più che da ogni altra cosa”, in Thirty Years of Conflict, op. cit. p. 62. 37 Hamish Nixon sottolinea che “tra alcuni intervistati c’è anche la sensazione che l’etnicizzazione sia in parte il prodotto di una manipolazione da parte di leader che non rappresentano più del tutto i soggetti che dicono di rappresentare”, in Achieving a Durable Peace, op. cit. p. 13. Secondo Antonio Giustozzi, “una tendenza verso l’etnicizzazione del conflitto ha cominciato a emergere” durante “l’epoca dei warlords (1992-1996)”, quando “le diverse fazioni hanno usato argomenti etnici per mantenere in piedi la mobilitazione che altrimenti sarebbe svanita”, in Thirty Years of Conflict, op. cit., p. 20.

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La facilità con cui le divisioni interne sono diventate così centrali viene attribuita a un elemento in

particolare: l’analfabetismo e la scarsa istruzione della popolazione. La mancanza di educazione

renderebbe facilmente manipolabile la popolazione e più incline a ritenere legittimi gli argomenti

dei leader politici e degli attori stranieri. Se la mancanza di istruzione facilita il settarismo,

l’educazione viene considerata la risorsa più importante su cui investire per superare le divisioni del

passato. Secondo molti intervistati, l’istruzione non sarebbe soltanto il migliore antidoto alla guerra,

ma anche il miglior antidoto alla strumentalizzazione politica delle divisioni interne. Più istruzione

e alfabetizzazione, suggeriscono molti intervistati, significano più coesione sociale.

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TESTIMONIANZE 1. LE RAGIONI DEL CONFLITTO

Testimonianze 1.1: I fattori esterni

“Non si tratta di una questione di fede, di religione, o di ideologie, ma di poteri forti e interessi materiali. L’Afghanistan rappresenta un’area strategica fondamentale, una zona di confine tra oriente e occidente, e tutti i paesi vogliono trarne beneficio. Per ottenerli, sono disposti a finanziare o sostenere i gruppi ribelli, anche se possono cambiare atteggiamento a seconda dei periodi: a volte aiutano il governo afghano, a volte i gruppi anti-governativi”, dottor Abdul Jabar, Provincial Health Director, Farah

“L’Afghanistan si trova al centro di due diversi blocchi ideologici, nella zona dove si scontrano. Uno rappresenta il liberalismo che proviene dall’occidente, l’altro invece il radicalismo e il fondamentalismo islamista di Al Qaeda, che trova un suo terreno di coltura privilegiato nella zona di confine tra Afghanistan e Pakistan. Gli occidentali si sforzano di impedire l’instaurazione di un Califfato islamico, Al Qaeda invece combatte proprio per questo e per contrastare l’avanzata del liberalismo. Sul territorio afghano si gioca una partita ideologica dalle conseguenze molto rilevanti. Anche l’interpretazione religiosa è fortemente influenzata dai paesi vicini, in particolare da Iran e Pakistan. É necessario recuperare la nostra tradizione, che non è mai stata radicale né fondamentalista. Sono i paesi vicini che hanno introdotto questa concezione nel paese e che hanno enfatizzato la divisione tra sciiti e sunniti”, Ghulam Shah Adel (Alizai), preside Facoltà di Legge e Scienze politiche Università di Herat

“L’Afghanistan è un paese strategico, importantissimo per gli equilibri della regione. É sempre stato interesse dei paesi forti occuparlo o dominarlo. Gli americani e i russi si sono combattuti per questo, ora invece si combattono i paesi della Nato e la Cina e altri paesi che non fanno capo all’Alleanza atlantica. Anche i paesi vicini ovviamente hanno cominciato a interferire, in particolare il Pakistan e l’Iran”, Amir Sharif, lettore in Sociologia, Università di Bamiyan “Siamo nel cuore dell’Asia, e tutti i paesi che ci sono intorno vogliono approfittare della situazione. Per questo siamo sempre in guerra: dipende dalla nostra posizione geografica”, studentessa universitaria, Herat “L’Afghanistan è collocato in una zona geograficamente fondamentale, non per caso in passato tutti i paesi hanno provato a conquistarlo o attraversarlo, per garantire i propri interessi economici e commerciali. Uno dei fattori principali del conflitto è che il paese è collocato strategicamente, a ridosso dell’Asia centrale, inoltre abbiamo risorse minerarie importanti e petrolio. Sia il Pakistan sia gli Stati Uniti hanno degli agenti segreti nel paese, per favorire i propri interessi”, Sameer Ahmad Bana, programme manager DEOW, Maimana “Sono molti i paesi invischiati nella guerra, dal Pakistan all’Iran passando per la Russia. Quando i russi erano in Afghanistan, gli americani finanziavano i combattenti anti-russi. Oggi potrebbe avvenire il contrario”, mawlawi Ruhal Ahmad Rohani, responsabile dipartimento per l’Haj, Farah

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“La ragione del conflitto è che l’Afghanistan si trova nel cuore dell’Asia, e molti paesi vogliono che i benefici di questa posizione finiscano a loro, piuttosto che agli afghani o ad altri”, Ali Asghar Arghash, Ong internazionale, Maimana “Gli stranieri dovrebbero lavorare come mediatori, invece tutti, dall’Iran al Pakistan al Turkmenistan all’Uzbekistan, hanno qualche responsabilità e favoriscono i combattimenti. Non capiscono che se il nostro paese sarà sicuro, anche loro lo saranno. Nessuno lavora con completa onestà, con il cuore, per la pace”, Akhtar Mohammad Ibrahim Khil, responsabile Peace Council, Mazar-e-Sharif “Lo sappiamo tutti: sono i nostri vicini e i paesi stranieri a complicarci la vita. Se non interferissero nei nostri affari, le cose andrebbero molto meglio”, studentessa università privata e attivista, Farah “La comunità internazionale sa benissimo che il Pakistan interferisce in Afghanistan, ma non interviene. Gli Stati Uniti fanno un gioco pericoloso: mettono pressione al Pakistan ma senza esagerare, perché vogliono rimanere nella regione. Delle vittime non tengono conto: sono parte del gioco. Inoltre, anche nei prossimi anni non vogliono rinunciare a usare i Talebani come arma in funzione anti-iraniana. Un’altra causa del conflitto sta nelle politiche e negli interessi dei paesi vicini, soprattutto il Pakistan. Pakistan e Iran vedono l’Afghanistan come il loro giardino di casa, usano il nostro territorio come strumento politico. La comunità internazionale dovrebbe convincerli a lasciarci stare. Il Pakistan è preoccupato dell’influenza crescente dell’India e che l’India possa aiutare i separatisti beluci. Il vero Afghanistan è il Pakistan”, Ahmad Qureishi, chief reporter agenzia Pajhwok, Herat “La realtà afghana è complicata, diversa da molte altre. Qui è come se si giocasse una partita a scacchi dalle regole particolari. Negli scacchi un giocatore muove i pezzi bianchi e uno muove i neri. Qui invece lo stesso giocatore li muove entrambi. Sappiamo tutti che Osama bin Laden è stato usato dai servizi americani. Ed Hekmatyar, che fine ha fatto? La sua famiglia, dov’è finita? É con gli americani. Non siamo che piccoli attori in un gioco politico internazionale molto grande. L’Afghanistan è collocato in un’area geografica importante. Accanto a noi ci sono il Pakistan, la Russia, gli Stati Uniti che esercitano le loro pressioni, e poi la Cina, l’Iran, e via dicendo. É come se fossimo parte di una formula matematica di cui nessuno conosce più il significato e la soluzione. Per questo è difficile fermare il gioco che è in corso. Gli attori esterni sono molto forti e potenti, mentre noi afghani, per ora, non abbiamo la forza necessaria per fermarli. Sta qui il punto. I nostri vicini non ci permettono di progredire e diventare autonomi”, Khalilullah Hekmati, direttore BAO, Mazar-e-Sharif “Il nostro non è un semplice conflitto tra il governo afghano e i Talebani. Ci sono molti altri elementi in gioco, compreso il conflitto tra sunniti e sciiti, in cui ha responsabilità anche l’Arabia saudita. Molti paesi non hanno interesse alla pace: basta pensare che i Talebani favorevoli al negoziato - come il mullah Barader - sono stati catturati dai servizi pakistani. Per trovare le

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ragioni del conflitto bisogna guardare oltre confine”, Abdul Khaliq Stanikzai, Regional Manager SDO, Herat “Sono i paesi vicini a interferire pesantemente nei nostri affari interni e a causare insicurezza”, Bilgees Attaye, managing director DEOW, Maimana “Alcuni paesi stranieri non vogliono la pace. Per loro, la guerra è utile e conveniente. Le vere ragioni del conflitto sono esterne: i gruppi locali come i Talebani, il gruppo di Hekmatyar e gli Haqqani sono sostenuti dagli stranieri, è una cosa risaputa. I combattenti sono inviati dai paesi vicini”, Ali Erfan, giornalista, deputy director AIRA e direttore Radio Bamiyan “Il Pakistan è il nostro problema principale: mi chiedo cosa mai vorranno ancora da noi, dopo averci rovinato la vita così a lungo, mandando terroristi e attentatori suicidi nelle nostre case”, attivista sociale, Farah “La causa principale dell’instabilità dell’Afghanistan è l’interferenza del Pakistan e in particolare dei servizi segreti militari, l’Isi. Oltre a questo, ci sono anche legami tra Isi e Al Qaeda, e questi legami si riflettono nella situazione sul terreno in Afghanistan. Gli Stati Uniti dovrebbero fare pressioni sul Pakistan affinché cambi atteggiamento”, Hamid Ghulami, direttore Ibn Sina Institute of Higer Education, Mazar-e-Sharif “La prima causa della guerra è il Pakistan. I pakistani non vogliono un Afghanistan indipendente, preferiscono che qui ci sia insicurezza, anche per la storia della Durand Line. Per questo, inviano i combattenti nel nostro paese. Anche l’Iran favorisce il conflitto, a causa della controversia che ha con l’Afghanistan sulle risorse idriche. Se ci fosse più sicurezza, il nostro paese sarebbe più forte, e questo nuocerebbe a Iran e Pakistan”, Sakhida Masroor, elder, Maimana “Il conflitto continua a causa della scarsa collaborazione e intesa tra il governo afghano e la comunità internazionale e perché quest’ultima ha faticato a riconoscere che le radici del conflitto vanno ricercate fuori dai nostri confini, in Pakistan. Ora finalmente pare che anche gli americani ne siano convinti. L’estremismo che nasce in Pakistan sta danneggiando anche il Pakistan”, Habiba Sorabi, governatrice provincia di Bamiyan “I nostri problemi di sicurezza dipendono da fattori esterni. I Talebani afghani da soli non riuscirebbero a controllare un solo distretto. Per loro, è essenziale il legame con Al Qaeda e con i servizi segreti pakistani. Se riuscissimo a fermare le interferenze del Pakistan, potremmo controllare l’intero Afghanistan molto facilmente”, Haji Mohammad Rafiq Sharir, Head of professional Shura, Herat “Gli stranieri hanno pensato che quella dei Talebani fosse una sconfitta totale, irrimediabile. Invece era una ritirata tattica. Il Pakistan aveva convinto gli americani che non ci fosse bisogno di addestrare l’esercito afghano, visto che i Talebani erano stati sconfitti del tutto e non rappresentavano più un pericolo. La comunità internazionale si è lasciata convincere, senza capire gli interessi nascosti dei pakistani. Non a caso, Bin Laden è stato trovato in Pakistan, non in

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Afghanistan”, Mirwais Ayobi, lettore in Law and Political Science, Università di Herat, direttore Herat University Legal Clinic “I gruppi antigovernativi provengono dai paesi vicini. Negli ultimi dieci anni abbiamo ripetuto alla comunità internazionale che la vera guerra si combatte fuori dal paese, non qui in Afghanistan, ma non ci hanno mai ascoltato. Dopo il ritrovamento di Osama bin Laden in Pakistan qualcosa è cambiato. Finalmente tutti si dicono consapevoli che il problema è il Pakistan. L’Afghanistan non va condannato per l’insicurezza che sconta sul suo territorio. Il Pakistan crede che mantenere il governo afghano in condizioni di debolezza vada a suo vantaggio”, Mohammed Saeed Niazi, direttore CSDC, Kabul “Il Pakistan è uno stato che agisce al di fuori di ogni legalità. Vuole estendere il suo territorio, l’area geografica di influenza e continua a combattere la guerra contro l’India in Afghanistan. L’obiettivo dei militari pakistani è l’instaurazione di un Califfato; in Pakistan, il governo civile non ha vera autorità, che invece è dell’Isi, i servizi segreti. Vogliono un governo afghano che gli sia congeniale. La cosa migliore, per loro, è un governo debole e malleabile. Un governo che non sia in grado di portare la nazione a un vero sviluppo”, Sher Alam Amlawal, docente Legge e Scienze politiche, Aryana University, Jalalabad “Qui la gente è davvero stufa della guerra. Vorrebbe solo la pace. Ma ci sono persone che vengono addestrate per fomentare la guerra. Chi le addestra? É chiaro, il Pakistan. Anche la religione è usata come un pretesto per alimentare la guerra. Gli afghani sono musulmani, ma non estremisti. Hanno avuto esperienza di quanto possa essere duro un governo fondamentalista come quello talebano, e nessuno ne ha un buon ricordo”, Rahman Salahi, già Head of Professional Shura, Herat “Qui a Jalalabad sentiamo ancora di più la presenza del Pakistan. Non abbiamo nulla contro i pachistani, ma contro i servizi segreti sì. Sono loro a voler destabilizzare il nostro paese”, studentessa universitaria, Jalalabad “Il conflitto tra i due paesi va avanti dalla creazione del Pakistan. Il governo afghano non voleva riconoscere né accettare la nascita del Pakistan come stato indipendente. Leggevo tempo fa un libro del generale Musharraf, In the Line of Fire: A Memoir, in cui il generale si lamentava dell’Afghanistan. Si lamentava che l’Afghanistan avesse provato a usare l’idea del grande pashtunistan contro gli interessi del Pakistan. Karzai ha ripetuto spesso che non accetta la Duran Line come linea di demarcazione territoriale definitiva, e in Pakistan c’è chi teme che l’Afghanistan punti ad avere sovranità su una porzione di territorio più ampia, fino a Peshawar. Il Pakistan continua a interferire in Afghanistan, creando insicurezza, a causa di questo vecchio e irrisolto contenzioso”, Taqi Wahidi, scrittore, attivista sociale, membro AIHRC, Mazar-e-Sharif “In Europa i confini ormai sono dati per scontati, non creano problemi, non ci sono controversie territoriali. Qui è diverso. C’è una forte controversia tra Afghanistan e Pakistan. La Durand Line è uno dei fattori che più contribuisce all’instabilità del paese. É stata creata al tempo dei britannici, per un periodo di 100 anni. Quel periodo è terminato, ma il Pakistan non ha intenzione di tornare a discutere la questione, e tanto meno a restituirci le nostre terre. Per questo prova a mantenere

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l’Afghanistan e il suo governo in posizione di debolezza”, Naqibullah “Saqib”, preside Facoltà Legge e Scienze politiche, Nangarhar University, Jalalabad “Le cause del conflitto sono complesse. Rimandano innanzitutto agli interessi regionali. I nostri vicini intendono salvaguardare i propri interessi. Alcuni di questi sono legittimi, altri ovviamente no”, Ali Wardak, Center for Criminology, University of Glamorgan “Il vero conflitto non è quello voluto dai Talebani ma quello sostenuto dai pakistani, che combattono in Afghanistan le loro guerre, contro l’India e contro un Afghanistan indipendente”, Asadullah Larawi, Jalalabad Regional Officer CSDC “L’Afghanistan è un paese profondamente religioso, e i paesi vicini usano argomenti religiosi per alimentare il conflitto; educano i giovani studenti a una versione intollerante dell’Islam, li addestrano in Pakistan, e poi li rimandano indietro a creare problemi. Molti finiscono per unirsi ai Talebani. Anche gli americani gli danno sostegno, tutti in qualche modo hanno qualche complicità”, Farzana Asra, studentessa Balkh University, giornalista radio-tv locale, Mazar-e-Sharif “Le cause del conflitto sono chiare a tutti: l’interferenza, molto pesante, dei paesi vicini. L’esempio più evidente è il Pakistan: quando in Afghanistan c’è qualche nomina importante, nelle istituzioni, al governo, nell’esercito o altrove, se chi viene eletto è considerato contrario agli interessi del Pakistan, vengono inviati dei killer, il cui scopo è intimidire o uccidere il nuovo eletto”, Zia Urraham Tariq, CSHRN, Jalalabad “Il Pakistan vuole un governo afghano funzionale ai suoi interessi; il regime talebano era sostenuto dai pakistani, e giocava a loro favore, ora cercano di avere un altro governo che gli sia congeniale; inoltre il Pakistan auspica che la Durand Line venga definitivamente riconosciuta. Oltre al Pakistan, anche l’Iran è parte del conflitto, essendo in competizione con gli Stati Uniti. L’Afghanistan è il luogo dove mettere in difficoltà gli Stati Uniti. É un conflitto internazionale, non nazionale”, Zamir Saar, lettore in Letteratura pashto, Balkh University, Mazar-e-Sharif “Dal Pakistan all’Iran, dagli Stati Uniti alla Russia, tutti hanno i loro interessi nella guerra. Le cose starebbero diversamente se ognuno pensasse ai propri problemi interni, piuttosto che crearne a noi”, studentessa Herat “Bisogna guardare alle radici dei problemi: da dove vengono le armi, l’equipaggiamento, i soldi degli insorti. La comunità internazionale e la Nato devono fare pressioni sul Pakistan. L’Isi sostiene i Talebani. Senza il sostegno pakistano i Talebani non potrebbero fare niente. Anche l’Iran contribuisce. Con il Pakistan i motivi di scontro sono tre. Il primo è la Durand Line, si tratta di una storia vecchia, che risale agli inglesi. Il secondo sono i benefici che il Pakistan ricava da un Afghanistan fragile e instabile. Vogliono mantenere l’Afghanistan come il loro bazar. Il terzo sono i rapporti con l’India: per il Pakistan le buone relazioni tra Afghanistan e India sono un problema. Siamo come un pallone di calcio che tutti vogliono calciare ”, Khalil Azizi, Mediothek Mazar-e-Sharif

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Testimonianze 1.2: I fattori interni

“Per capire le ragioni del conflitto basta che ognuno si ponga una domanda semplice: il governo afghano cosa ha fatto per me, cittadino ordinario, che vuole vivere in pace e mantenere la sua famiglia? Si pensa molto ai Talebani ma poco agli afghani comuni”, Niamatullah Harez, Ong internazionale, Herat “Il governo è screditato, la giustizia non funziona, le richieste della gente non vengono ascoltate né prese in considerazione. Questo crea una distanza enorme tra il governo e la gente. Oltre a questo c’è anche chi combatte perché ha idee radicali e considera quello attuale un governo di infedeli”, Farid Aibad, Dipartimento educazione Farah e direttore AYSO “Il sistema è troppo corrotto e inefficiente. Nessuno è in grado di riprendere il potere che ora è dei comandanti. La gente non sostiene il governo. Il governo è debole e manca di legittimità. Questo crea una situazione difficile. Con un governo così debole, i comandanti diventano forti. Se il governo fosse forte, loro non lo sarebbero”, Kazem Amini, docente Faryab Teaching Training Center e responsabile Zahiruddin Faryabi Cultural Association, Maimana “Le ragioni del conflitto sono molteplici, impossibile semplificare. Direi però che molta gente è insoddisfatta a causa del mancato sviluppo economico e di un governo che non fa quanto dovrebbe. La corruzione mina la fiducia tra la popolazione e il governo. Per questo, il governo e tutti noi dobbiamo fare di più”, Daoud Saba, governatore provincia di Herat “Il nostro governo non offre alcuna prospettiva agli uomini e ai giovani di questo paese, ecco perché molti si uniscono ai Talebani. Lo chiediamo alle donne che vengono da noi: ‘perché i vostri mariti si uniscono ai Talebani?’. Ci rispondono che lo fanno perché non hanno lavoro, non hanno da mangiare”, Lailuma Sediqi, responsabile Dipartimento affari femminili, Farah “C’è una distanza enorme tra il governo e le comunità locali. É una sfida per tutti colmare questa distanza, perché se non lo si fa il paese non può tornare a funzionare”, Hambdullah Arbab, artista e regional coordinator YIAA, Jalalabad “La popolazione non ha alcuna fiducia nella possibilità di ottenere giustizia, non ha fiducia nel governo; il 70% vive sotto la soglia della povertà; non c’è un governo efficiente, non c’è uno stato di diritto che sia veramente tale, tanto meno nelle aree rurali; l’ingiustizia cresce di giorno in giorno. La cultura dell’impunità sollecita tutti a commettere abusi. La gente è veramente scoraggiata, non crede più nel governo né nell’intero sistema”, studentessa e attivista sociale, Farah “Nessuno fa niente per difendere il governo perché c’è una distanza enorme tra il governo e la gente. Più che la forza dei Talebani, bisogna riconoscere la debolezza del governo, che è corrotto, inefficiente, incapace di garantire servizi e diritti ai cittadini, specialmente nelle aree rurali”, Mohammed Saeed Niazi, direttore CSDC, Kabul

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“La popolazione non sostiene il governo perché vede che la giustizia non c’è, che la legge non viene rispettata, che la corruzione domina ogni aspetto della nostra vita. La fiducia nel governo potrà tornare solo se la legge verrà applicata e se ci sarà qualcuno che si interessa della sorte della povera gente”, Shir Shah Hamdard, CSDC, Jalalabad “La gente non è tenuta in considerazione, c’è una distanza enorme tra la popolazione e il governo. Per la gente è impossibile trovare meccanismi e strumenti per essere ascoltata e per influenzare le scelte del governo. C’è una forte sfiducia reciproca tra il governo e la gente”, Abdul Khaliq Stanikzai, Regional Manager SDO, Herat “All’inizio la popolazione sperava in un governo trasparente, tutti si aspettavano molto di più. Oggi dal governo non ci si aspetta più niente. Per questo, la maggior parte della gente rimane neutrale: non vuole né il governo né i Talebani”, Asif Karimi, project coordinator TLO, Kabul “Il governo ha perso la fiducia della gente. É un dato di fatto”, Rahman Salahi, già Head of Professional Shura, Herat “Tra quelli che conosco, tra i miei colleghi all’università, tra le mie amiche, non ce n’è uno che rispetti il governo. Per noi, è soltanto un insieme di persone corrotte, che pensano al loro tornaconto personale”, studentessa universitaria, Herat “La debolezza del governo è la ragione principale. Inoltre, manca del tutto il dialogo con la popolazione, che non riesce a ricevere risposte dal governo. Molti, soprattutto nelle aree rurali, hanno perfino rinunciato a chiedere ciò che spetterebbe loro”, Raz Mohammad Dalili, direttore SDO, Kabul “Qui molti combattono perché non c’è nessuno che si faccia carico delle loro richieste di giustizia; non ci sono meccanismi attraverso i quali i cittadini possano rivendicare i loro diritti. Nessuno dà risposte concrete ai loro problemi. Molti combattono perché avvertono di subire un’ingiustizia”, Abdul Qader Rahimi, regional program manager AIHRC, Herat “Il primo ostacolo sulla via della pace è la mancanza di giustizia e dei diritti umani, dimenticati e offesi perfino in Parlamento. É una questione culturale e politica, che riguarda il governo, il presidente, i leader locali. Tutti ignorano completamente la giustizia, senza la quale non ci può essere alcuna riconciliazione. L’altro elemento che alimenta la violenza è la mancanza di legalità, dello stato di diritto, il fatto che manca una buona governance”, Aziz Rafiee, direttore ACSF, Kabul “Quando il regime talebano è stato sconfitto, la popolazione era pronta a sostenere il nuovo regime, ma si aspettava che la giustizia sociale e che il governo e la comunità internazionale assicurassero alla giustizia i criminali. Invece, la comunità internazionale ha fatto l’esatto contrario: il nuovo regime è stato dato in appalto ai leader meno stimati. I criminali temevano di subire dei processi, poi invece si sono accorti che che gli veniva affidato il potere, che era tutto un gioco, che nessuno reclamava giustizia né gli imputava colpe o responsabilità passate. Le

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aspettative della popolazione erano molto diverse. Sono andate disilluse”, Taher Mufid, leader religioso, Mazar-e-Sharif

“I fattori che alimentano il conflitto sono diversi, i principali la mancanza di giustizia e di una buona governance, insieme alla corruzione. Senza giustizia non potremmo mai raggiungere la stabilità, perché non potrà mai esserci un rapporto di fiducia tra la popolazione e il governo. C’è un crescente senso di insoddisfazione e malcontento per l’impunità che regna nel paese. I warlord, tutti coloro che in passato hanno compiuto i crimini più atroci sono al governo, hanno soldi e potere. Tutto ciò fa indignare gli afghani, che cercano giustizia”, Mir Ahmad Joyenda, Deputy Director for Communications and Advocacy AREU, Kabul “Il fattore principale dell’instabilità attuale è l’ingiustizia. In questo paese c’è molta gente insoddisfatta, molte persone che hanno forti rivendicazioni. Molti non riescono a veder soddisfatti i propri diritti e per ottenerli decidono di unirsi agli insorti. Il governo Karzai deve capire le ragioni del malcontento e provare a garantire diritti a chi li merita. Se si risolvesse questo problema, la gente abbandonerebbe i Talebani a se stessi”, Khalida Aimaq, direttrice AWEC, Maimana “In questi 11 anni sono stati compiuti molti errori. Dopo la prima conferenza di Bonn il potere è stato affidato nelle mani sbagliate, a gente inesperta o peggio ancora corrotta. Per tutti noi era molto importante che la conferenza di Bonn rappresentasse il superamento dei vecchi conflitti e che fossero coinvolti tutti i gruppi etnici e le comunità del paese. Al contrario, alcuni gruppi ne sono stati esclusi e il potere è stato affidato a persone che in passato hanno compiuto abusi e crimini di guerra”, Naim Nazari, executive coordinator CSHRN, Kabul “Il punto è che fino a qualche anno fa abbiamo avuto a che fare con un sistema economico di natura essenzialmente socialista, mentre con l’arrivo della comunità internazionale abbiamo adottato il sistema del libero mercato. Si è trattato di un cambiamento fondamentale, avvenuto in modo repentino. Nessuno sapeva come gestire questo cambiamento, neanche Karzai e i suoi consiglieri. Il cambio di sistema è avvenuto contestualmente all’arrivo di un mucchio di soldi, senza che fossero stati preparati adeguati meccanismi di trasparenza e di distribuzione del denaro. Da qui, l’alto livello di corruzione, che dipende dalle scelte degli individui, certo, ma che ha una radice sistemica, strutturale”, Rahman Salahi, già Head of Professional Shura, Herat “La corruzione del sistema politico e dell’amministrazione è una sfida enorme perché con la corruzione viene meno la legittimità del governo e la fiducia dei cittadini. E aumenta quella dei Talebani. Se ci si rivolge ai Talebani per risolvere una questione, non chiedono soldi, puntano alla conciliazione”, Mirwais Ayobi, lettore in Law and Political Science, Università di Herat, direttore Herat University Legal Clinic “La corruzione compromette ogni residua legittimità del governo. La gente non ha alcuna fiducia nel governo. Non crede che lavori per il bene di tutti. Finora al centro dell’azione della comunità internazionale c’è stata la lotta ad Al Qaeda e al terrorismo. É ora che si combatta la corruzione, il nostro più grande nemico”, Abdul Qader Rahimi, regional program manager AIHRC, Herat

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“Dai nostri report risulta che anche la comunità internazionale è corrotta. Quando i progetti vengono realizzati attraverso le istituzioni locali, c’è un controllo maggiore da parte nostra, mentre c’è meno controllo sui soldi spesi dalla comunità internazionale. In sintesi, direi che dove più sono presenti gli stranieri, più è diffusa la corruzione”, Ahmad Kharimi, acting director HOOAC, Herat “Il paese ha attraversato decenni di guerre. Ciò che manca sono persone qualificate e serie, in grado di gestire le istituzioni e per far ripartire l’economia e un buon governo. Sono state scelte persone sbagliate, che non fanno altro che alimentare la corruzione”, Mohammad Hosainy, membro Provincial Council, Herat “Nessuno dei Talebani, singolarmente preso, ha fatto tanti danni quanto quelli dei signori della guerra che oggi siedono in parlamento. Dovrebbero essere rimossi dai loro incarichi. So che è difficile che ciò avvenga: non possono essere combattuti facilmente, né con la giustizia né tanto meno militarmente, ma passeranno ad altra vita. La nuova generazione saprà comportarsi diversamente. É solo questione di tempo”, Ahmad Qureishi, chief reporter agenzia Pajhwok, Herat “Gli internazionali hanno dato potere politico e denaro ai signori della guerra, a quanti hanno commesso crimini, a chi ha ucciso migliaia di persone e di innocenti, a Kabul come altrove. La gente sperava che le cose cambiassero, sperava nella giustizia. Occorre dare spazio a gente nuova, i donatori possono farlo: i signori della guerra non hanno nessun vero radicamento tra la popolazione. L’unico strumento di consenso di cui godono sono i soldi e le armi. I signori della guerra negano la giustizia sociale. Hanno sequestrato lo Stato. É ora di liberare lo Stato dalle mani di questi personaggi”, Sayed Ikram Afzali, Head of Advocacy and Communication, Integrity Watch, Kabul “Non è una novità che la comunità internazionale abbia delle responsabilità enormi sulla mancanza di giustizia in Afghanistan. Non sono di certo la sola a dirlo. Su questo, la cecità degli internazionali è stata incredibile, e le conseguenze le pagheremo - noi e loro - anche negli anni futuri”, Soraya Pakzad, direttrice VWO, Herat “Il principale errore della comunità internazionale è l’aver dato il potere ai criminali come il maresciallo Fahim, ai ladri e agli approfittatori. Hanno scelto come amici le persone sbagliate, i ladri e corrotti, anziché i rappresentanti delle comunità locali”, Mohammed Anwar Sultani, elder, già docente universitario, Jalalabad

“La comunità internazionale ha compiuto molti errori. Il primo nel corso della conferenza di Bonn 2001, a cui ha partecipato soltanto chi disponeva di armi e munizioni. Per paura che la guerra riprendesse, gli americani e la comunità internazionale hanno appoggiato la gente sbagliata, coloro che avevano commesso crimini atroci, restituendo loro quel potere che avevano cominciato a perdere. É stato sottovalutato il bisogno di giustizia degli afghani e sopravvalutato il consenso e la forza dei warlord. Quando il maresciallo Fahim è stato rimosso da ministro dell’Interno, o quando Ismail Khan ha perso il posto di governatore di Herat, cosa è successo? Niente di particolare, perché nessuno in Afghanistan li sostiene. Nel 2003 Lakhdar Brahimi ammonì dal

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sacrificare la giustizia per la pace. Oggi, dopo 10 anni, non abbiamo né pace né giustizia. La comunità internazionale è colpevole per aver sostenuto gente corrotta e criminale”, Mir Ahmad Joyenda, Deputy Director for Communications and Advocacy AREU, Kabul “Nel 2001-2 i signori della guerra erano scappati, impauriti, poi gli è stato restituito il potere e hanno avuto nuove occasioni, sono diventati ministri. É stato un errore clamoroso. La comunità internazionale li ha sostenuti”, Raz Mohammad Dalili, direttore SDO, Kabul “Tra le cause principali del conflitto c’è l’aver affidato il paese ad alcuni signori della guerra che in passato hanno distrutto l’Afghanistan. A distruggere Kabul non sono stati i Talebani, ma questi comandanti che ora hanno posizioni di potere. Gli afghani sanno bene chi ha ucciso i loro familiari: quelli che ora li governano. Tutto questo alimenta un forte risentimento e un senso di ingiustizia”, Ali Wardak, Center for Criminology, University of Glamorgan “La comunità internazionale ha sbagliato quando ha scelto di sostenere i leader sbagliati, i signori della guerra. É come curare una persona, anziché con una medicina, con un veleno”, Taqi Wahidi, scrittore, attivista sociale, membro AIHRC, Mazar-e-Sharif “Nei villaggi e nelle aree rurali ci sono leader ancora forti che seguono solo i propri interessi. Gente vergognosa, che non teme neanche il giudizio di Dio e pensa solo a se stessa. É gente abituata a seguire chi dà loro soldi e potere. Se gli risulta conveniente, sostiene i Talebani o non li ostacola. Sono una maledizione per il paese. Sono usati dalla comunità internazionale, dal governo, dai Talebani, da tutti. Non fanno che mettersi al servizio del miglior offerente”, Hafizullah Fetrat, Faryab Provincial Program Manager, AIHRC, Maimana “Dobbiamo criticare il governo, certo, ma anche noi stessi, la società: abbiamo lasciato prevalere le divisioni interne, i conflitti etnici, le visioni miopi di alcuni gruppi religiosi che enfatizzavano le differenze anziché le similitudini. I partiti politici, i leader e i gruppi di opposizione, tutti hanno preferito guardare ai propri interessi, piuttosto che a quelli dell’Afghanistan. Questa distanza è stata usata dalle fazioni antagoniste al governo per rafforzarsi e trovare argomenti con cui reclutare nuovi simpatizzanti”, Abdul Khaliq Stanikzai, Regional Manager SDO, Herat “Alla conferenza di Bonn sono state affrontate solo le questioni amministrative, mentre ci si è dimenticati della particolare struttura sociale ed etnica del paese. In questi anni, poi, i conflitti etnici sono aumentati, a causa delle divisioni non superate nella conferenza di Bonn”, Ali Jan Fahim, CSHRN, Bamiyan “Manca una consapevolezza e un’idea chiara su quale sia l’interesse della nazione. Oggi a prevalere sono gli interessi parziali, di gruppo, di etnia, di affiliazione, di orientamento religioso. Dovremmo definire in modo chiaro e pragmatico cosa voglia dire interesse nazionale. Ogni volta invece l’interesse viene definito secondo ottiche parziali. I leader politici favoriscono il settarismo, le divisioni etniche, il conflitto tra gruppi e comunità”, Ghulam Shah Adel (Alizai), preside Facoltà di Legge e Scienze politiche università di Herat

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“La causa principale della guerra è che gli afghani non sono uniti, non pensano gli uni agli altri. I nostri vicini ne approfittano per farci combattere l’uno contro l’altro, tra tagichi, uzbechi, turkmeni, pashtu, etc. Gli stranieri, in particolare i pakistani, provano a convincerci che siamo tagichi, uzbechi, pashtun, prima ancora che afghani, ecco la vera ragione della guerra. Occorre educare gli afghani all’idea che apparteniamo tutti all’Afghanistan”, Nazira Hamadi, regional manager ACSF, Mazar-e-Sharif “Ogni paese deve essere unito come un pugno. Un pugno chiuso non può essere aperto. Una mano chiusa in un pugno è solida. Ma basta un solo dito aperto e la mano si può aprire facilmente. Ecco perché tutti interferiscono in Afghanistan. Occorre un cambio alla guida del paese, servono nuovi leader, consapevoli dell’importanza di essere uniti. Serve una rivoluzione della gente”, Khalil Azizi, Mediothek Mazar-e-Sharif “Abbiamo una grande, unica nazione, composta da tribù e comunità diverse. Sono i politici, i vari Dostum, Khalili, Mohaqeq, a usare le divisioni tra le comunità. La realtà è che abbiamo bisogno gli uni degli altri. É importante essere uniti. I politici usano le divisioni per i loro interessi. Una volta che avranno un buon livello di istruzione, le comunità non seguiranno più vecchi e politici stupidi e criminali. Qui a Mazar ci sono tagichi, uzbechi, hazara, pashtun. Viviamo negli stessi quartieri. Frequentiamo le stesse moschee, abbiamo matrimoni e funerali condivisi. E non abbiamo problemi. I problemi li creano i politici. Per questo il nostro obiettivo principale è incoraggiare la gente a istruirsi, a migliorarsi; è arrivato il tempo di garantire l’istruzione a tutti, il tempo di lasciare che i bambini vadano a scuola, che diventino istruiti, che familiarizzino con la tecnologia. Non è più tempo di ottenere le cose che si vogliono con le armi e lasciare che i politici ingannino la gente”, Barialai Jalalzai, scrittore e attivista, Khoshal Baba Library, Mazar-e-Sharif “Il nostro problema è che la gente pensa alla propria tribù, alla comunità di appartenenza, non alla collettività. É una storia che risale già al periodo del passaggio dalla monarchia alla repubblica. La Costituzione recita che ogni cittadino dovrebbe nutrire un sentimento positivo verso la nazione. Oggi nessuno lo fa, e i paesi vicini, Iran e Pakistan, favoriscono il settarismo e le divisioni. La fiducia reciproca è alla base di tutto”, Noorullah Mohsini, preside Facoltà di Legge e Scienze politiche, Balkh University, Mazar-e-Sharif “Viviamo una forte crisi di identità, che riguarda i conflitti tra le comunità, e una profonda crisi di fiducia reciproca: la fabbrica sociale della nostra società è andata distrutta, e la nuova è difficile da costruire. La sfiducia reciproca è ampia e diffusa. Tutto questo ci rende più vulnerabili”, Aziz Rafiee, direttore ACSF, Kabul “Qualcuno dice che il conflitto attuale dipende dai tre decenni di guerra che abbiamo vissuto. Io dico invece che dipende dai tre secoli di dominio di un’unica comunità etnica, i pashtun. Non sono i Talebani le vere cause del conflitto. Le radici del conflitto sono nella nostra storia. Per questo credo che la soluzione migliore per il paese sia un sistema pluri-nazionale, federale. Concedere i diritti a una nazione non significa negarli ad un’altra”, Sadek Alior, politico, Bamiyan

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“La gente che per secoli ha dominato il paese ora non è più al potere, perché il nuovo regime istituzionale prevede la divisione delle cariche. Per loro, è difficile accettare la novità, e fanno di tutto per riprendersi il potere”, Said Hussein Sha Hussainy, Assisting in Monitoring and Investigating Unit, AIHRC, Bamiyan “Da quando è stato fondato l’Afghanistan moderno, circa due secoli fa, c’è stato un conflitto tribale che ha accompagnato la storia del paese. La comunità dei pashtun ha governato il paese a lungo e ha sempre provato a tener fuori dal governo le altre comunità. La guerra civile successiva non ha fatto altro che enfatizzare questa spaccatura già esistente. Ancora oggi è questo il problema principale”, Amir Sharif, lettore in Sociologia, Università di Bamiyan “Nella nostra storia abbiamo vissuto a lungo sotto regimi dispotici e dittatoriali, non abbiamo mai avuto esperienza della democrazia. Tutti i governi sono stati fortemente centralizzati, gestiti da uomini forti con molti poteri. L’unica preoccupazione era il potere, l’esercizio della forza, non la stabilità politica, il buon governo, la società civile. Sulle nuove istituzioni pesa il retaggio di questa storia. Gli afghani sono un popolo molto religioso e tradizionalista, che sta vivendo un’importante fase di transizione storica verso la modernità. Da qui, nascono una serie di problemi”, Mirwais Ayobi, lettore in Law and Political Science, università di Herat, direttore Herat University Legal Clinic “La prima causa dell’insicurezza è la mancanza di lavoro, la disoccupazione, che si combina con l’analfabetismo e la mancanza di educazione e istruzione. Tutto ciò rende le cose molto più facili per i nostri vicini, favorendo le loro interferenze. Qui nella provincia di Faryab ne abbiamo avuta la prova, con l’arresto nel distretto di Gormuch di diversi pakistani che combattevano contro il governo”, Ahmad Shuaib “Shahir Qasemian”, Provincial Managaer, ASPR, Maimana “Il problema principale è la mancanza di istruzione. La gente non è istruita, e per questo può essere condizionata facilmente. L’istruzione porta progresso e consapevolezza. E dà potere a chi ce l’ha. Ecco perché penso che bisogna investire nel settore educativo”, Laila Samani, attivista, Herat “Siamo molto orgogliosi dei curricula di pace che abbiamo introdotto in alcune scuole. L’educazione è il migliore antibiotico contro la guerra. Abbiamo organizzato un progetto di risoluzione dei conflitti anche nelle madrase. In passato non abbiamo lavorato con gli studenti delle madrase, non li abbiamo sostenuti come avremmo dovuto. Ma è una nostra responsabilità pensare a come vengono educati, a come renderli parte attiva della società. In Afghanistan non c’è un buon sistema di insegnamento islamico; alcuni studenti vanno in Pakistan a studiare, dove vengono educati secondo una certa agenda politica, molto pericolosa”, Raz Mohammad Dalili, direttore SDO, Kabul “I miei genitori hanno insisito perché potessi studiare: sono convinti che il nostro paese potrà evolversi, e la guerra terminare, soltanto quando tutti saranno istruiti. Per questo mi hanno incoraggiata a iscrivermi all’università e a darmi da fare nella società”, studentessa universitaria, Herat

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“La prima causa della guerra è la mancanza di istruzione e di educazione, specie nelle aree pashtun, dove non ci lasciano educare i nostri figli. Altrove è più facile, ma nelle aree pashtun la situazione è davvero complicata; ci sono perfino attentati suicidi contro le scuole. L’obiettivo è lasciare la gente nell’ignoranza, così che i nemici dell’Afghanistan possano avere mano libera”, Baz Mohammad Abid, giornalista Radio Mashsal, Jalalabad “L’educazione, la conoscenza, sono molto importanti. Se la gente avesse un buon grado di istruzione, le cose si risolverebbero più facilmente; l’ignoranza favorisce anche il fraintendimento della religione, per questo la migliore strategia contro la guerra è l’istruzione”, Farzana Asra, studentessa Balkh University, giornalista radio-tv locale, Mazar-e-Sharif

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2. PACE, NEGOZIATO E RICONCILIAZIONE

Il secondo capitolo è dedicato alle percezioni sul processo di pace in corso, alla valutazione dei

fattori che ne limitano l’efficacia e ai suggerimenti su quali possano essere gli strumenti più

appropriati per porre fine al conflitto. Si è deciso di prendere in considerazione il processo di pace

tra il governo Karzai e i gruppi antigovernativi all’interno di un quadro più ampio che tenga conto

del ruolo giocato dagli altri attori internazionali. L’obiettivo è verificare come siano giudicati i

tentativi di pace compiuti negli ultimi due anni e mezzo, da quando cioè la comunità internazionale,

prima riluttante, ha riconosciuto apertamente la necessità di accompagnare alla soluzione militare la

soluzione negoziale. Come data indicativa di questo cambio di rotta abbiamo assunto il discorso del

18 febbraio 2011 dell’allora segretario di Stato Usa, Hillary Clinton, all’Asia Society di New York,

dove si è parlato per la prima volta in modo esplicito del bisogno di un “responsabile processo di

riconciliazione”38 con i Talebani. La cornice temporale di riferimento esclude dunque la valutazione

della prima conferenza di Bonn del novembre 200139, da cui è derivato l’attuale equilibrio di potere

politico e l’odierna architettura costituzionale. Degli esiti della conferenza di Bonn ci occupiamo

solo indirettamente, laddove la questione è sollevata dagli intervistati.

Coerentemente con il metodo scelto, che mira a garantire agli interlocutori tutto lo spazio necessario

per articolare i loro punti di vista, il significato dei termini “pace” e “riconciliazione” non è stato

definito in modo rigido, a priori. Si è lasciato piuttosto che fossero i partecipanti alla ricerca a

riempire di significato contenitori concettuali ampi e generici.

Il capitolo è diviso in 3 sottocapitoli. Il primo è dedicato alla valutazione della legittimità di un

accordo politico con i movimenti antigovernativi e ai giudizi sul negoziato, con un’attenzione

particolare da una parte al ruolo dell’Alto consiglio di pace, l’organo istituito dal presidente Karzai

per favorire i colloqui di pace, dall’altra al piano per il reintegro degli ex combattenti. Il secondo

38 Dichiarazione disponibile online: http://www.state.gov/secretary/rm/2011/02/156815.htm. Confermata dalla Clinton anche nel discorso tenuto alla Conferenza di Bonn del 5 dicembre 2011, http://www.auswaertiges-amt.de/cae/servlet/contentblob/603090/publicationFile/162778/United%20States%20of%20America.pdf. Per una ricostruzione puntuale dei negoziati con i Talebani, si veda Thomas Ruttig, The Battle for Afghanistan. Negotiations with the Taliban: History and Prospects for the Future, New America Foundation, 2011; Astri Suhrke e altri, Conciliatory Approaches to the Insurgency in Afghanistan: An Overview, CMI Report 2009. 39 Quella di Bonn è stata la prima conferenza internazionale sull’Afghanistan post-talebano. Come ricorda Barbara Stapleton, “le negoziazioni non includevano i Talebani. Il risultato è stato una roadmap per la transizione politica verso uno stato afghano sovrano, piuttosto che un processo di pace”, in Stapleton, Beating a Retreat. Prospects for the Transition Process in Afghanistan, AAN Thematic Report 01/2012, p. 6. Si veda anche Thomas Ruttig, The Failure of Airborn Democracy: The Bonn Agreement and Afghanistan’s Stagnating Democratisation, in Van Bijlert e Sari Kouvo Snapshots (eds), Snapshots of an Intervention, op. cit. Il testo dell’accordo di Bonn è disponibile online al seguente indirizzo: http://www.afghangovernment.com/AfghanAgreementBonn.htm. Per Antonio Giustozzi, “L’accordo di Bonn del 2001 non è stato un accordo politico definitivo e ciò ha avuto conseguenze importanti, in termini politici sia interni sia internazionali”, in Giustozzi, Thirty Years of Conflict, op. cit. p. 64.

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sottocapitolo è dedicato al modo in cui i Talebani sono percepiti come interlocutori politici; alla

valutazione di un eventuale governo di ampia coalizione che includa anche esponenti dei gruppi

antigovernativi; al contesto regionale. L’ultimo sottocapitolo è dedicato alla proposta principale sul

negoziato degli esponenti della società civile incontrati: il “doppio approccio” al processo di pace.

2.1 SÍ AL DIALOGO, NO AL NEGOZIATO ATTUALE

Tra gli intervistati prevale l’idea che la soluzione militare al conflitto si sia rivelata inefficace e che

sia quindi indispensabile seguire la via del dialogo politico. La maggioranza degli interlocutori

incontrati sostiene l’ipotesi di un processo di riconciliazione nazionale e di un contestuale processo

di pace. La fine dei combattimenti viene spesso presentata come la priorità assoluta, come

l’obiettivo da perseguire con più urgenza, quello verso cui far convergere i maggiori sforzi possibili.

L’appoggio alla soluzione diplomatica sembra essere legato anche all’eredità dei conflitti precedenti

e al modo in cui sono percepiti: la lezione che gli intervistati sostengono di aver imparato dalla

storia è che le armi creano problemi, piuttosto che risolverli.

É molto diffusa la convinzione che, se ideati in modo approssimativo e poco chiaro o condotti in

modo incoerente, i processi di pace possano rivelarsi controproducenti, causando maggiore

instabilità e alimentando ulteriori conflitti40. La storia recente del paese suggerisce di adottare

estrema prudenza nel negoziato. Da qui, la richiesta che venga valutato in tutte le sue implicazioni,

di carattere politico, militare, ma anche sociale, culturale ed economico. Gli obiettivi ultimi del

negoziato e il metodo per raggiungerli devono essere attentamente analizzati. La mancanza di

chiarezza sugli obiettivi e sul metodo è considerata una garanzia di fallimento; la chiarezza sugli

obiettivi e sul metodo assicurerebbe invece una solidità maggiore agli accordi raggiunti41.

a) La critica al negoziato

Per la maggioranza assoluta dei partecipanti alla ricerca, la pace e la negoziazione sono gli

strumenti più efficaci per ottenere la pace. Dalla ricerca emerge però una forte contraddizione tra il

sostegno di principio all’idea del negoziato come via privilegiata per la risoluzione del conflitto e la

critica al modo in cui sia il governo afghano che la comunità internazionale lo hanno condotto

40 Si veda anche Talking about Talks. Toward a Political Settlement in Afghanistan, International Crisis Group Asia Report n. 221, 26 marzo 2012, dove si sottolinea che approcci male gestiti al processo di pace da parte del governo afghano e della comunità internazionale rischiano di destabilizzare ulteriormente il paese. Si veda anche Hamish Nixon e Caroline Hartzell, Beyond Power-sharing: Institutional Options for an Afghan Peace Process, USIP 2011, in cooperazione con PRIO e CMI. 41 Per una significativa raccolta delle principali preoccupazioni sul processo di pace da parte degli esponenti della società civile afghana e del mondo politico si vedano Hossain Saramad e Temur Beg, Negotiations with Insurgents in the Afghan Print Media, Afghanistan Watch, aprile 2012 e Mohammad Noori e Ahmad Zia Mohammadi, Political Settlement and Negotiation with Taliban, Afghanistan Watch, aprile 2012.

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finora42. Al governo afghano è contestato un metodo di lavoro troppo opaco, il fatto di non

condividere con la popolazione gli obiettivi del processo di pace e i modi con cui intende

raggiungerli. Tra gli intervistati, una minoranza attribuisce l’opacità governativa alla volontà di

nascondere i propri piani. Per la maggior parte, la mancanza di trasparenza del governo deriva

invece dall’assenza di una reale consapevolezza su quali debbano essere gli esiti del negoziato, su

quanto e quale potere debba essere accordato ai movimenti antigovernativi e sul come cederlo senza

che il governo perda la residua solidità istituzionale e, con essa, legittimità politica. Secondo gli

intervistati, la mancanza di chiarezza riflette due elementi: una debolezza politica di fondo e

l’assenza di una visione strategica sul futuro del paese.

Alcuni temono che un eventuale accordo con i Talebani si fondi sulla fragilità del governo, piuttosto

che su una negoziazione paritaria. La fragilità del governo e la sua indecisione sarebbero confermati

dall’atteggiamento nei confronti degli insorti, giudicato incoerente. L’alternanza tra quelle che

vengono percepite come aperture al dialogo e sul versante opposto come chiusure rivelerebbe la

natura oscillante del governo, in particolare del presidente Karzai. Da qui, la preoccupazione che i

Talebani siano nella condizione di imporre le proprie condizioni e che i diritti umani e delle donne

possano essere sacrificati a causa della debolezza del governo. La preoccupazione che i diritti delle

donne siano subordinati all’intesa diplomatica è rafforzata dall’esclusione delle donne dal piano

negoziale.

Le donne incontrate ammoniscono il governo dall’adottare soluzioni che barattino sull’altare della

realpolitik le poche conquiste, legislative e sociali, ottenute negli ultimi anni, considerate ancora

incerte, fragili, facilmente reversibili. Ogni accordo che prescinda dalle preoccupazioni e aspettative

delle donne è destinato a essere contestato, hanno sostenuto le partecipanti alla ricerca43.

Una minoranza degli interlocutori incontrati suggerisce un’interpretazione differente: il processo

negoziale può favorire un’intesa politico-diplomatica con gli attuali gruppi antigovernativi, ma non

può escludere la nascita di nuovi gruppi che in futuro si oppongano al governo. Per questo, il

governo dovrebbe impegnarsi a eliminare le cause strutturali della mobilitazione antigovernativa,

creando un contesto istituzionale ed economico che ne estirpi le radici. Secondo questa lettura, il

compito principale del governo sarebbe di natura istituzionale e sociale, prima ancora che politica o

42 Su questo, la ricerca conferma quanto emerge dallo studio di Theros e Kaldor, per le quali “la schiacciante maggioranza degli afghani consultati crede che un processo di riconciliazione nazionale è l’unica strada per mettere fine al conflitto ma che l’attuale processo non avrà successo”, in Building Afghan Peace from the Ground Up, op. cit. p. 29. 43 Secondo i risultati della già citata ricerca Afghan People’s Dialogue on Peace (p. 13), “le donne afghane sostengono di pagare il prezzo più alto nell’attuale conflitto, dal momento che, insieme ai bambini, rappresentano il gruppo più vulnerabile. Le donne sono dell’opinione che non ci sarà pace sostenibile se non saranno attivamente coinvolte in tutti gli aspetti del processo di pace”.

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diplomatica. Il consolidamento della legittimità del governo agli occhi della popolazione sarebbe il

metodo più sicuro per stabilire una pace che resista nel lungo periodo.

b) L’approccio da “mercato-bazar”

A condizionare negativamente il processo di pace ci sarebbe anche quello che è stato definito come

un approccio da “market-bazar”44. La critica in questo caso è rivolta alla comunità internazionale e

alla sua incapacità di trovare canali di dialogo con i gruppi antigovernativi che non siano in

contraddizione gli uni con gli altri. Molti intervistati lamentano la confusione dei tentativi di

dialogo fin qui intrapresi, condotti dai diversi attori secondo le rispettive agende, piuttosto che sulla

base di un obiettivo condiviso.

L’elemento che emerge con più forza è la richiesta di chiarezza: gli intervistati chiedono di sapere

chi debba parlare con chi, a proposito di cosa, per quale scopo. La maggioranza dei partecipanti alla

ricerca sostiene di non capire chi stia conducendo il gioco, chi sia l’attore incaricato di parlare con i

movimenti antigovernativi, chi gli abbia dato mandato e per raggiungere quali obiettivi. Mezzi e fini

del processo di pace appaiono sconosciuti o ambigui alla maggioranza degli intervistati. Anche per

questo, si registrano aspettative molto basse sulla possibilità di trovare in tempi brevi, prima del

2014, un accordo di pace con i Talebani e gli altri gruppi antigovernativi45.

c) L’Alto consiglio di pace e l’opacità del negoziato

Dalla ricerca emerge un dato che accomuna tutte le province prese in considerazione: la critica al

ruolo svolto dall’Alto consiglio di pace (d’ora in poi HPC, High Peace Council), l’organismo

istituito dal presidente Karzai nel settembre 2010 per favorire i colloqui con i gruppi antigovernativi

e trovare una soluzione negoziata al conflitto. Secondo la quasi totalità dei partecipanti alla ricerca,

l’HPC non avrebbe raggiunto alcun risultato considerevole. La sua azione sarebbe inefficace e

confusa, segnata da una marcata assenza di strategia sugli obiettivi da perseguire e dall’incapacità di

interloquire con la leadership degli insorti.

In modo particolare è diffusa l’idea che l’HPC sia del tutto inadeguato a mediare tra il governo e i

gruppi antigovernativi. La composizione del consiglio e soprattutto la sua leadership sono

considerate di parte, dunque inaccettabili dai gruppi ribelli. É fortemente criticata la decisione di

44 Si veda il già citato rapporto dell’International Crisis Group, Talking about Talks. Toward a Political Settlement in Afghanistan. 45 “Non sembra probabile alcun accordo di pace con la Shura di Quetta. Mullah Omar e compagni rimangono irriducibili e probabilmente sono ottimisti sulla possibilità di ottenere una vittoria militare una volta che finirà la missione Isaf”. E’ quanto scrivono l’ex comandante della missione Isaf, generale John Allen, l’ex sotto-segretario alla Difesa americano, Michèle Flournoy e Michael O'Hanlon – Senior Fellow alla Brookings Institution – nel saggio Toward a Successful Outcome in Afghanistan, Center for a New American Security (maggio 2013, citazione a pag. 11).

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affidare a Burhanuddin Rabbani la leadership del consiglio46. La critica all’HPC si fonda sull’idea

che per negoziare tra due contendenti ci sia bisogno di un mediatore considerato imparziale e

neutrale da entrambi. Ciò è vero soprattutto per il conflitto afghano: per colmare la diffidenza e il

forte sospetto reciproco tra il governo e gli insorti c’è bisogno di un attore terzo, indipendente, forte,

sostengono gli intervistati. L’HPC non avrebbe nessuna di queste caratteristiche47. Qualcuno

ricorda come la parzialità dell’HPC contraddica radicalmente il metodo tradizionale di affrontare le

controversie, quando la risoluzione di un conflitto viene affidata a persone che godono di uno status

super partes nel corso delle jirga e delle shura48.

Gli intervistati richiedono una riforma radicale dell’HPC e della sua composizione, in modo tale che

rifletta la diversità politica, etnica e sociale del paese e sia considerato un attore neutrale. Tra le

donne e tra i rappresentanti delle organizzazioni per i diritti umani, prevale l’idea che nell’HPC

debbano essere incluse più donne e che a una loro maggiore rappresentanza numerica debba

accompagnarsi un maggior peso decisionale. Vi è infatti l’idea che l’attuale presenza di donne nel

consiglio risponda soltanto a esigenze di immagine49. É significativo notare che se gli intervistati

criticano la parzialità dell’HPC, quasi nessuno segnala invece quale altro attore, nazionale o

internazionale, potrebbe più efficacemente prenderne il posto.

La critica alla composizione e al ruolo dell’HPC sembra rimandare a una più generale

preoccupazione sull’opacità del processo di pace e sulla mancanza di trasparenza da parte del

governo e della comunità internazionale. I colloqui di pace devono essere trasparenti, sottoposti allo

scrutinio pubblico, sostiene la maggioranza dei partecipanti. La trasparenza viene intesa in due

modi diversi: a monte, rimanda alla necessità di consultare la popolazione, di includere i punti di

vista dei cittadini sugli esiti del processo di pace; a valle, rimanda alla richiesta di aggiornamenti

continui e regolari sullo stato di avanzamento dei colloqui. Come hanno già fatto notare altri

ricercatori, qui si registra la contraddizione caratteristica di ogni negoziato di pace: la tensione

46 Rabbani, già presidente dell’Afghanistan dal 1992 al 1996 e poi nel 2001, è stato il leader del partito Jamiat-e-Islami, che a lungo ha osteggiato e combattuto i Talebani. Dopo la sua uccisione nel settembre 2011, il suo posto come portavoce dell'HPC è stato preso dal figlio. 47 Secondo Hamish Nixon, “un punto centrale è che, tradizionalmente, l’accordo reciproco sui termini del negoziato e la credibilità dei mediatori è cruciale per far accettare una decisione. L’attuale High Peace Council potrebbe rappresentare il governo o facilitare il dialogo intra-afghano in preparazione dei colloqui, ma è difficile che sia efficace nel ruolo di mediatore”, in Achieving a Durable Peace, op. cit. p. 32. 48 Per una definizione di jirga, si veda B. Rubin, The Fragmentation of Afghanistan, Yale University Press 2002. Sul carattere reattivo delle shura, e sul loro funzionamento, L. Carter, K.M. Connor, A Preliminary Investigation of Contemporary Afghan Councils, ACBAR 1989; A. Wardak, Jirga - A Traditional Mechanism of Conflict Resolution in Afghanistan, http://unpan1.un.org/intradoc/groups/public/documents/apcity/unpan017434.pdf; I. Atayee, A Dictionary of the Terminology of the Pashtun Tribal Customary Law and Usages, The Academy of Sciences of Afghanistan 1979; L. Carter, K. Connor, A Preliminary Investigation of Contemporary Afghan Councils, ACBAR 1989. 49 Sulla mancata rappresentatività dell’HPC si veda Patricia Gossman, Afghan High Peace Council Fails to Reflect Afghan Civil Society, USIP, 2011. Sulla mancata inclusione delle donne nel processo di pace, Palwasha Hassan, The Afghan Peace Jirga: Ensuring that Women are at the Peace Table, USIP, 2010.

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strutturale, inevitabile, tra la segretezza richiesta per ottenere progressi con gli insorti da una parte e

la trasparenza e il consenso su cui deve basarsi qualunque processo di pace affinché i suoi esiti

possano essere duraturi50.

d) Il piano per il reintegro degli ex combattenti

Tra le attività di cui è responsabile l’HPC c’è anche la supervisione e l’attuazione dell’Afghanistan

Peace and Reintegration Program (APRP51). Lanciato nel luglio del 2010 dal governo afghano con

il sostegno della comunità internazionale, il programma prevede il reinserimento professionale e

sociale dei militanti di piccolo-medio calibro e il contestuale dialogo con la leadership talebana.

Come abbiamo visto, il processo politico di riconciliazione è sostenuto dalla maggioranza degli

intervistati ma criticato per il modo in cui è stato finora condotto. Anche il processo di reintegro

viene sostenuto sulla carta ma fortemente criticato nella sostanza. La maggioranza dei partecipanti

alla ricerca giudica inappropriato e inefficace il piano per il reintegro, che viene visto come un

processo privo di coerenza, strumentalizzato sia dal governo afghano sia dai movimenti

antigovernativi52.

Il governo afghano viene criticato per due ragioni principali: sul piano pratico, per una gestione

disorganizzata e incoerente, per la scarsa attenzione al reinserimento sociale e lavorativo degli ex-

combattenti; più in generale per l’incapacità di sviluppare un’azione di lungo respiro che faciliti

l’adesione dei combattenti al programma e che faccia apparire loro desiderabile abbandonare la

lotta armata. Quest’ultimo elemento si collega a un problema già visto: l’incapacità del governo di

creare consenso tra la popolazione.

50 Hamish Nixon sostiene che “c’è una tensione comune nei processi di pace tra la segretezza richiesta per ottenere progressi con i belligeranti la cui legittimità e influenza sui seguaci può essere facilmente compromessa e l’inclusione, la trasparenza e il consenso che possono sostenere un esito più legittimo e, dunque, duraturo”, in Achieving a Durable Peace, op. cit. p. 31 51 “L’APRP è un complesso programma su ampia scala gestito al livello nazionale dall’High Peace Council e attuato attraverso un segretariato comune. Al livello provinciale, le attività dell’High Peace Council si rispecchiano in quelle dei Provincial Peace and Reintegration Committees (PPRCs). Il programma quinquennale da 800 milioni di dollari si divide in un segmento sulla sicurezza; un segmento sulla governance, la rule of law e i diritti umani; un segmento sullo sviluppo economico”, ricordano Patricia Gossman e Sari Kouvo in Tell Us How this Ends. Transitional Justice and Prospects for Peace in Afghanistan, AAN 2013. 52 Sui rischi legati al piano di reintegro, si veda Matt Waldman, Golden Surrender: The Risks, Challenges, and Implications of Reintegration in Afghanistan, AAN Discussion Paper 03/2010; Tazreena Sajjad, Peace at All Costs? Reconciliation and Reintegration in Afghanistan, AREU, 2010. Per una valutazione critica dell’APRP in relazione al più ampio processo di pace si veda Patricia Gossman e Sari Kouvo, Tell Us How This Ends, op. cit. Gilles Dorronsoro scrive che “la coalizione considera questo programma un successo, ma è profondamente controproducente, alimenta la corruzione e il disordine senza indebolire gli insorti. In più, le statistiche dei reintegri sono basse…quelli che sono andati dalla parte del governo non sono comandanti importanti, e il programma non ha avuto alcun impatto militare misurabile sul terreno”, in Waiting for the Taliban in Afghanistan, op. cit. p. 7. Secondo il Report of the United Nations High Commissioner for Human Rights on situation of human rights in Afghanistan” (gennaio 2013, p. 13), “nonostante i passi positivi, UNAMA è preoccupata che la mancata trasparenza e implementazione delle procedure standard possano minare il processo di reintegro e la credibilità e l’efficacia del programma”.

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60

Sul piano formale, il governo viene criticato per l’uso prevalentemente politico che farebbe del

piano. Secondo molti intervistati, il governo, privo di un indirizzo generale sul processo di pace e

sugli esiti che dovrebbe avere, seguirebbe un’ottica di breve respiro. Da qui, l’uso del piano per

frammentare il campo avversario, piuttosto che come strumento per cercare un soggetto politico con

cui interloquire sul futuro del paese. Per alcuni intervistati anche la tendenza a presentare

all’opinione pubblica risultati eccessivamente positivi, che nasconderebbero la sostanziale

inefficacia della strategia usata, dipenderebbe dall’adozione di un’ottica di breve respiro.

La scarsa efficacia del piano governativo faciliterebbe la strumentalizzazione da parte talebana. La

lettura prevalente suggerisce che i Talebani usino il piano per la riconciliazione e il reintegro

soltanto per ottenere benefici materiali immediati, senza che questo comporti l’accettazione della

legittimità e dell’autorità del governo53. Questa lettura contraddice quella secondo la quale il

governo sarebbe incapace di garantire reali benefici a chi decide di abbandonare le armi, aderendo

al piano di reintegro. Entrambe le letture, pur se contraddittorie, segnalano elementi comuni: la

mancanza di informazioni sul piano e un giudizio negativo sul modo in cui viene condotto.

2.2 I TALEBANI

Una minoranza degli intervistati contesta completamente l’idea dei negoziati di pace, sostenendo

che l’unica chiave per sconfiggere gli insorti e porre fine al conflitto sia quella militare. La

soluzione politica viene considerata un cedimento ai gruppi antigovernativi, che meriterebbero di

essere combattuti militarmente o perseguiti penalmente, piuttosto che essere invitati al tavolo

negoziale o a condividere il potere in un futuro governo.

Altri appoggiano idealmente la soluzione politica, ma si dicono molto scettici sulla possibilità di

poterla applicare nel contesto attuale. In particolare, la scarsa fiducia nel buon esito dei negoziati di

pace si fonda sulla percezione che i Talebani siano inaffidabili come interlocutori politici. Tale idea

è legata a due ragioni principali: il ricordo dei crimini e degli abusi passati compiuti dai Talebani,

che dimostrerebbero come siano del tutto estranei ai valori della maggioranza della popolazione;

l’idea che le loro dichiarazioni di principio sulla “guerra di liberazione” contro le truppe

d’occupazione siano contraddette dalle azioni sul campo, di cui sarebbero vittime principali i

civili54.

53 Secondo Theros e Kaldor, molti afghani giudicano il programma “peggio che inutile”, “per molti incoraggia il reclutamento tra gli insorti, premiando coloro che hanno preso le armi mentre i bisogni e le aspirazioni del resto della popolazione vengono ignorati”, in Building Afghan Peace from the Ground Up. 54 Secondo il Mid-Year Report on the Protection of Civilians in Armed Conflict in Afghanistan, pubblicato da Unama, la missione dell’Onu in Afghanistan, nei primi mesi del 2013 c’è stato un aumento del 23% delle vittime civili, perlopiù causate dagli ordigni artigianali improvvisati (IEDs, improvised explosive devices).

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61

Anche tra coloro che sostengono la soluzione negoziale, una buona parte tende a riconoscere la

difficoltà di dialogare con un fronte antigovernativo eterogeneo, composto da molte anime, spesso

in contraddizione55. I gruppi antigovernativi sarebbero mossi da obiettivi e motivazioni diverse, da

cui discenderebbero metodi di guerriglia e di combattimento differenti. La frammentazione e

l’eterogeneità dei movimenti antigovernativi viene spesso ricondotta all’interferenza dei paesi

esterni. Il fatto che il movimento talebano sia considerato parzialmente eterodiretto lo rende

politicamente illegittimo agli occhi degli intervistati.

Molti partecipanti alla ricerca sottolineano la necessità di distinguere accuratamente tra Talebani

con cui si può e si deve trovare una soluzione negoziata e Talebani con cui non si può e non si deve

avere alcun dialogo. I primi sono i “Talebani afghani”, coloro che hanno scelto di aderire alla

guerriglia per ignoranza, per mancanza di alternative, per un sentimento di ingiustizia, per dei diritti

negati o per qualche “legittima” forma di risentimento verso il governo56. I partecipanti alla ricerca

sostengono che occorre trovare il modo per instaurare un dialogo con i “Talebani afghani”, facendo

in modo che tornino a occupare un posto nella società e che le loro rivendicazioni possano essere

espresse in modo non-violento. Qualcuno suggerisce che servirebbe un lungo processo dalla doppia

valenza, sociale e culturale: sul piano sociale, trovando i meccanismi con cui “riassorbire” nella

società quanti se ne sono allontanati; sul piano culturale favorendo la de-radicalizzazione dei

combattenti, rendendoli più consapevoli, più istruiti e dunque meno permeabili alle sirene della

propaganda antigovernativa, soprattutto straniera. Tale processo rimanda a un elemento considerato

centrale: il bisogno di rafforzare la legittimità dello stato e di dare vita a un governo affidabile che

sia garante dei principi di legalità e giustizia per tutti.

Tra gli intervistati, si nota la tendenza a distinguere tra gli ideologi del movimento talebano e la

semplice manovalanza, reclutata spesso tra gli emarginati o tra gli indigenti57, tra quanti hanno

meno da perdere e più da guadagnare dall’adesione alla guerriglia58. Qualcuno si dice convinto che,

55 Sulla natura e gli obiettivi dei movimenti antigovernativi, si veda Thomas Ruttig, The Other Side. Dimensions of the Afghan Insurgency: Causes, Actors - and Approaches to Talks, AAN Thematic Report 01/2009. Un’analisi sull’attuale compagine anti-governativa, sulle influenze esterne che condizionano i Talebani e il loro punto di vista sulla risoluzione del conflitto si veda State of the Taliban: detainee perspectives, ISAF (International Security Assistance Force), January 2012. 56 Si veda anche Theros e Kaldor, Building Afghan Peace from the Ground Up, op. cit. p. 32. 57 Secondo Antonio Giustozzi “sono stati condotti studi sul livello economico delle province afghane e non c’è alcun chiaro legame tra l’influenza dei Talebani e il grado di povertà rurale”; senza dubbio la povertà “crea una condizione per il reclutamento dei mercenari, che potrebbe svolgere un ruolo nel conflitto, ma è difficile vedere come ciò possa essere considerato un fattore scatenante”, in Thirty Years of Conflict, op. cit. p. 31 58 Sulla struttura del movimento, si veda Thomas Ruttig, How Tribal Are the Taleban? Afghanistan’s Largest Insurgent Movement between its Tribal Roots and Islamist Ideology, AAN, Thematic Report, 04/2010; Antonio Giustozzi, Negotiating with the Taliban. Issues and Prospects, The Century Foundation 2010; Anne Stenersen, The Taliban insurgency in Afghanistan – organization, leadership and worldview, FFI Rapport 2010/00359, Norwegian Defence Research Establishment. Sull’evoluzione militare del movimento, si veda Antonio Giustozzi, Taliban Military Adaptation, in Theo Farrell, Frans Osinga and James A. Russell (eds), Military Adaptation in Afghanistan, Stanford

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62

laddove questi ultimi avessero a disposizione gli strumenti per rivendicare i diritti loro negati o per

raggiungere un livello di vita dignitoso, i reclutatori e gli ideologi perderebbero buona parte della

loro forza di persuasione. Questa tesi conferma l’idea, già analizzata in precedenza, che le ragioni

del reclutamento siano di natura pratica prima ancora che ideologica, anche se una parte degli

intervistati sostiene che i combattenti siano ispirati da motivazioni religiose o dall’obiettivo ideale

di liberare il paese dalle forze di occupazione.

Se i “Talebani afghani” andrebbero recuperati all’interno di un processo di riconciliazione che

includa aspetti politici, sociali, culturali ed economici, i “Talebani stranieri” vanno invece

combattuti. Per Talebani stranieri in genere si intende tutti coloro che non sono di nazionalità

afghana, oltre agli afghani che hanno deciso di subordinare l’interesse nazionale a quello di qualche

paese straniero, Pakistan e Iran in primo luogo. Secondo le percezioni prevalenti, i Talebani

stranieri andrebbero combattuti anche perché sarebbero del tutto contrari a ogni ipotesi di negoziato

e mossi soltanto dall’interesse di creare instabilità in Afghanistan. I Talebani stranieri sarebbero più

“jihadisti”59, meno inclini al compromesso politico, dunque diversi da quei Talebani afghani a cui

una parte degli intervistati sembra riconoscere la legittimità dell’obiettivo – la liberazione dalle

truppe di occupazione60 – pur contestando il metodo scelto – l’uccisione anche dei civili

innocenti61.

a) I Talebani di nuovo al potere?

Sull’ipotesi che i Talebani possano ottenere posizioni di potere in un futuro governo di “ampia

coalizione” 62 le opinioni tra gli intervistati sono discordanti. La questione di un governo che veda

University Press 2013. Sulla presunta frammentazione del movimento talebano, Gilles Dorrensoro ricorda che “la gente tende a confondere due cose diverse: la diversità di vedute all’interno del movimento e una possibile frattura politica. Anche se esitstono certamente diverse prospettive strategiche all’interno dei Talebani, il movimento ha gli strumenti per esercitare il controllo sui suoi membri, e non ci sono state defezioni importanti dopo la sconfitta del 2001”, in G. Dorronsoro, Focus and Exit: an Alternative Strategy for the Afghan War, Carnegie Endowment for International Peace, 2009, p. 5. 59 Sulla storia del rapporto tra Talebani e Al Qaeda si veda A. van Linschoten e F. Kuehn, An Enemy We Created: The Myth of the Taliban/Al Qaeda Merger in Afghanistan, 1970–2010, Hurst Books 2012. Sulla limitata “trasnazionalizzazione” dei Talebani, Kristian Berg Harpviken, The Transnationalization of the Taliban, in "International Area Studies Review”, 15(3), 2012, pp. 203–229. 60 Per Gilles Dorronsoro, “il rigetto afghano della presenza straniera è tale che la coalizione non ha più alcun capitale politico. Il ritiro è dunque divenuto una necessità, piuttosto che una scelta, mentre l’alternativa è finire in una occupazione militare sempre più brutale”, in G. Dorronsoro, Waiting for the Taliban in Afghanistan, op. cit. 61 Sul codice di condotta dei Talebani si veda Kate Clark, The Layha: Calling the Taleban to Account, AAN thematic report 2011; Thomas Johnson, Matthew C. DuPée, Analysing the New Taliban Code of Conduct (Layeha): An Assessment of Changing Perspectives and Strategies of the Afghan Taliban, in “Central Asian Survey” 31(1), 2012, pp. 77–91. 62 Gilles Dorronsoro scrive che “la coalizione non può più sconfiggere i Talebani, che rimarranno una forza politica e militare in Afghanistan nel prossimo futuro […] Date le circostanze, gli Stati Uniti devono cominciare a considerare la situazione che si creerebbe con la caduta del regime e il ritorno dei Talebani al potere”, in Waiting for the Taliban in Afghanistan, op. cit. p. 17.

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al suo interno rappresentanti dei movimenti antigovernativi appare controversa: nel corso dei gruppi

di discussione questo tema ha sollevato i dibattiti più accesi e le risposte più diverse, anche tra

persone accomunate dallo status sociale e dall’appartenenza alla stessa comunità. Tra gli

intervistati, si registra comunque una percentuale maggiore di persone che sostiene l’ipotesi di un

governo di ampia coalizione, se questo servisse a porre fine al conflitto. Il sostegno a questa ipotesi

è funzionale all’ottenimento della pace, non deriva da un consenso verso i gruppi antigovernativi,

che appaiono invece privi di qualsiasi credito e legittimità agli occhi dei partecipanti alla ricerca.

Tra coloro che sostengono la formula della condivisione del potere al livello governativo, tutti

ritengono che, prima di dare vita a un governo simile, i Talebani debbano soddisfare alcuni criteri

inderogabili: dimostrare l’onestà delle proprie intenzioni; dichiarare il rispetto della Costituzione;

accettare apertamente le conquiste legislative e sociali degli ultimi anni; riconoscere la legittimità e

l’autorità del governo e dell’attuale sistema politico; rinunciare alla lotta armata e ai legami con gli

attori esterni. Molti insistono del distinguere tra Talebani afghani, che potrebbero legittimamente far

parte di un governo laddove accettassero le condizioni citate, e Talebani stranieri oppure

eterodiretti, ai quali deve essere negato qualsiasi ruolo politico. Qualcuno appoggia in linea di

principio l’ipotesi di un governo di ampia coalizione, pur ritenendo che i leader dei movimenti

antigovernativi che hanno avuto responsabilità nell’uccisione di civili non debbano ottenere

posizioni di potere o incarichi politici.

Vi è la diffusa percezione che i Talebani possano entrare a far parte a titolo individuale di un futuro

governo, a condizione che questo non pregiudichi l’architettura politico-istituzionale creata nel

2001. Le condizioni che i Talebani dovrebbero accettare sono simili a quelle che il governo Karzai

e la comunità internazionale hanno finora posto come base per il negoziato. É significativo notare

che questo appare l’unico punto sul quale gli intervistati manifestano un sostanziale accordo con il

governo afghano, altrimenti criticato o contestato. La maggioranza degli intervistati attribuisce una

particolare rilevanza al riconoscimento e all’accettazione della Costituzione: ciò sembra ancora una

volta dimostrare il timore che i gruppi antigovernativi possano desiderare una modifica dell’attuale

sistema politico e allo stesso tempo una forte contrarietà a questa ipotesi63. A una lettura ulteriore,

la rilevanza accordata al rispetto della Costituzione come precondizione per un accordo politico non

63 Secondo Barbara Stapleton, “l’idea che gli obiettivi politici dei Talebani siano rimasti invariati è prevalente tra le minoranze etniche, ma anche tra i pashtun che si oppongono all’agenda islamista militante dei Talebani”, in Beating a Retreat, op. cit. p. 33. Sugli obiettivi dei Talebani, si veda Matt Waldman, Dangerous Liaisons with the Afghan Taliban. The Feasibility and Risks of Negotiations, USIP 2010, specialmente pp. 2-7; M. Semple, T. Farrell, A. Lieven, e R. Chaudari, Taliban Perspectives on Reconciliation, RUSI Briefing Paper, 2012. Hamish Nixon sottolinea che “da parte loro i Talebani non hanno avanzato richieste specifiche o posto precondizioni sul tema della costituzione, puntando invece sul ritiro delle truppe straniere”, in Achieving a Durable Peace, op. cit. p. 20.

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64

sembra derivare dalla conoscenza o dal sostegno ai principi in essa stabiliti quanto, piuttosto, dalla

volontà di evitare in ogni modo il ritorno al regime talebano. La Costituzione assume un valore

paradigmatico: il simbolo di una nuova fase storica e del superamento definitivo della parentesi del

regime talebano. Una linea rossa da non oltrepassare.

Gli interlocutori incontrati ritengono che i rappresentanti dei gruppi antigovernativi possano anche

partecipare alle elezioni presidenziali e provinciali del 2014, laddove accettassero i principi

costituzionali e abbandonassero le armi. Per qualcuno, la partecipazione alle elezioni sarebbe un

fatto positivo, perché implicherebbe l’accettazione del regime politico vigente e l’adesione ai

principi e ai meccanismi che ne regolano il funzionamento. L’avallo alla partecipazione dei

Talebani alle elezioni si fonda inoltre sull’idea che le elezioni riserverebbero loro una dura

sconfitta: tra gli intervistati è prevalente l’opinione che i Talebani non godano di molto consenso

nel paese, perché avrebbero già dimostrato in passato di non essere in grado di governare. La loro

visione sociale e culturale sarebbe inoltre troppo lontana dagli attuali orientamenti della

maggioranza della popolazione. Per qualcuno, la partecipazione alle elezioni faciliterebbe la

trasformazione del movimento da forza di opposizione militare a forza di opposizione politica.

Coloro che si dicono contrari all’ipotesi di un governo di ampia coalizione sostengono che nel paese

alcune comunità - quelle che più hanno sofferto e che sono state discriminate per ragioni etniche

durante il regime dei Talebani - non permetterebbero che tornino al potere e che ciò potrebbe

alimentare nuovi conflitti. Vi è inoltre la percezione che il dialogo e la cooperazione possano essere

utili e produttivi soltanto se si basano sull’accettazione di valori condivisi. I valori dei Talebani

sarebbero incompatibili con quelli della maggioranza della popolazione. Gli esponenti del

movimento talebano sarebbero riluttanti a riconoscere la validità e la stessa legittimità dei valori

altrui, così come a condividere il potere con altri attori politici. Notiamo che anche in questo caso si

registra l’idea di una crescente estraneità tra i sentimenti e i valori della maggioranza degli afghani e

quelli dei Talebani.

Tra le ragioni per cui si ritiene improbabile o sbagliata la nascita di un governo di ampia coalizione,

c’è anche la consapevolezza che la diffidenza e la distanza tra il governo e i gruppi antigovernativi

sia tale da escludere qualunque intesa che vada più in là di un accordo temporaneo per porre fine al

conflitto. Coloro che escludono la partecipazione dei Talebani al futuro governo non indicano

strumenti alternativi che possano porre fine alle loro rivendicazioni.

É significativo notare un altro elemento: per una parte dei partecipanti, la diffidenza verso i

Talebani è tale che perfino l’attuale governo, considerato corrotto e illegittimo, rappresenta

un’alternativa preferibile. Il dato è inequivocabile: nelle città dove è stata condotta la ricerca i

Talebani godono di scarsissimo consenso, sono reputati inaffidabili e lontani dal sentire comune. É

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importante ricordare che nelle aree rurali le opinioni al riguardo potrebbero essere notevolmente

diverse. Non è un caso che tra gli intervistati ci sia chi ricorda che nelle aree rurali, soprattutto in

alcune province, il desiderio maggiore è la fine dei combattimenti, la pace. Se questo dovesse

implicare un ritorno dei Talebani al potere, sarebbe pragmaticamente accettato. Nelle aree dove si

combatte meno, come le città prese in considerazione, le preoccupazioni sembrano invece altre:

proteggere le conquiste sociali e legislative ottenute dalla caduta del regime talebano.

Tra i partecipanti alla ricerca c’è infine chi contesta radicalmente l’idea di attribuire di nuovo potere

ai Talebani, anche se parzialmente. Dare vita a un governo di ampia coalizione, che includa

esponenti della leadership talebana, sarebbe una regressione, un ritorno al passato.

Rappresenterebbe una sconfitta clamorosa, in termini di immagine e di sostanza, per tutta la

comunità internazionale, il cui intervento è stato spesso giustificato con la necessità di liberare

l’Afghanistan dall’oscurantismo talebano. Il cedimento alle eventuali richieste dei Talebani sui

diritti delle donne e nel campo dell’educazione è unanimemente considerato una perdita per gli

afghani e una sconfitta per l’intera comunità internazionale.

b) La chiave regionale

Nel primo capitolo abbiamo visto che la maggioranza dei partecipanti alla ricerca colloca il conflitto

all’interno di una cornice regionale. L’idea che quella afghana non sia soltanto una guerra

nazionale, interna, ma anche e soprattutto una guerra regionale condiziona anche i giudizi sul

negoziato di pace. Secondo molti intervistati, i colloqui di pace stentano a produrre risultati visibili

perché disgiunti da una strategia regionale. L’inclusione degli attori regionali nel processo di pace

viene considerata condizione essenziale per il loro buon esito.

Vi è la diffusa percezione che a ostacolare l’avvio di vere trattative di pace in Afghanistan siano i

paesi vicini, in particolare il Pakistan. Secondo questa lettura, sarebbero limitati i margini di

autonomia politica dei Talebani, considerati subalterni alle volontà del governo pakistano e in

particolare dei servizi segreti dell’Isi. Per la maggior parte degli intervistati, nessun negoziato

porterà risultati concreti fino a quando il governo pakistano, e al suo interno i servizi segreti, non

decideranno che è arrivato il momento di porre fine al conflitto64. Come abbiamo visto nel capitolo

64 Theros e Kaldor scrivono che, “data la convinzione quasi unanime tra gli afghani che il Pakistan controlli gli insorti, quasi tutti i partecipanti credevano che i negoziati diretti con la leadership talebana fossero inutili”, in Building Afghan Peace from the Ground Up, p. 32. Secondo Borhan Osman, la roadmap preparata nel 2012 dall’High Peace Council prevedeva un ruolo di primo piano per il Pakistan, “ma si è rivelata non realistica e dunque inefficace”: B. Osman, Déjà Vu All Over Again: The Af-Pak roller coaster and a possible new Taleban office, AAN 25 agosto 2013. Per gli autori del già citato rapporto Toward a Successful Outcome in Afghanistan, “la verità è questa: il Pakistan è, e rimarrà, un attore principale nell’esito finale in Afghanistan, e l’orientamento di Washington in questa situazione dovrebbe essere quello di continuare a lavorare sulle relazioni interpersonali tra i maggiori leader” (op. cit. p 12). Gilles Dorronsoro

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dedicato ai fattori che alimentano la guerra, la gran parte degli intervistati attribuisce un ruolo

determinante al Pakistan; tra questi, tutti indicano precise ragioni alla base dell’interferenza

pakistana: la necessità di tenere l’Afghanistan in condizioni di debolezza strutturale; il bisogno di

un governo amico o quantomeno alleato; la guerra per procura con l’India; la controversia irrisolta

sulla Durand Line. Se le ragioni dell’interferenza pakistana appaiono chiare agli occhi degli

intervistati, così non è per le soluzioni: solo una minoranza fornisce indicazioni precise sui metodi

che potrebbero favorire il consenso pakistano alla risoluzione del conflitto.

Oltre alle resistenze del Pakistan, gli intervistati sostengono che è difficile ottenere la pace a causa

degli interessi contrastanti tra i vari attori internazionali coinvolti nel conflitto. L’opinione

prevalente è che l’Afghanistan continuerà a essere instabile fino a quando non si raggiungerà un

compromesso politico che soddisfi gli interessi dei diversi attori. Tra questi, viene attribuito un

ruolo centrale agli Stati Uniti, fortemente criticati per non aver esercitato sufficienti pressioni su

quello che è considerato il maggiore sponsor dei gruppi antigovernativi, il Pakistan. Per una buona

percentuale degli intervistati, la pace non c’è perché agli americani non conviene: gli Stati Uniti

preferirebbero un Afghanistan instabile per giustificare la propria presenza in Asia centrale, in

funzione anti-cinese, anti-iraniana, anti-russa.

Il dibattito politico sull’eventuale presenza di soldati o basi militari statunitensi in Afghanistan dopo

la fine della missione Isaf rafforza l’idea che ci siano ragioni nascoste che impediscono la fine del

conflitto. Ad alimentare tale idea, vi sono altri due elementi: la convinzione che gli Stati Uniti

possano tutto, sul piano militare e politico, e che ciò che non riescono a ottenere sia il frutto di una

scelta deliberata, piuttosto che la conseguenza dell’adozione di una strategia errata o del modo

errato di implementare una strategia appropriata. E l’idea che dopo la sconfitta del 2001 i Talebani

non sarebbero riusciti a guadagnare peso politico, consenso e territorio se non fossero stati sostenuti

dagli Stati Uniti. Quest’ultimo elemento sembra rimandare ancora una volta all’opinione che la

chiave del successo dei gruppi antigovernativi non risieda nel consenso ideologico tra gli afghani

ma dal sostegno degli attori esterni. Secondo questa lettura, che conferma quanto emerso nel primo

capitolo, l’ostilità degli americani verso i Talebani sarebbe soltanto strumentale e funzionale al

perseguimento della propria strategia di lungo termine nella regione. Una parte degli intervistati

sostiene che, se gli Stati Uniti dovessero trovare conveniente un cessate il fuoco, la fine del conflitto

o perfino il ritorno al potere dei Talebani, non esiterebbero a dare concretezza a queste ipotesi.

suggerisce una “coerente politica regionale che includa l’armonizzazione dell’approccio americano ai tre attori principali, Afghanistan, Pakistan e India”, in Waiting for the Taliban in Afghanistan, op. cit. p. 4.

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2.3 IL DOPPIO APPROCCIO AL PROCESSO DI PACE

Come abbiamo visto, è diffusa l’idea che entrambi gli attori che dovrebbero trovare un’intesa

negoziata siano illegittimi agli occhi degli intervistati: se tardano a trovare un accordo è anche

perché sia il governo che i movimenti antigovernativi non rappresentano la popolazione e non ne

hanno il sostegno65. A entrambi viene attribuita una sostanziale mancanza di autonomia politica: i

movimenti antigovernativi sarebbero eterodiretti, mentre il governo afghano non potrebbe

intraprendere nessuna iniziativa di pace senza l’appoggio dei partner internazionali.

Per gli intervistati, il governo e i gruppi antigovernativi non sono dunque attori legittimi né

autonomi. Qualunque accordo politico dovesse uscire dal negoziato, rischia di tradire le aspettative

della popolazione. Da qui, deriva la richiesta di un processo di pace che tenga conto dei punti di

vista della popolazione, che sia trasparente e modellato sulle aspettative della maggioranza degli

afghani. L’idea sottostante è che ogni accordo che sia il frutto di un negoziato diplomatico ma privo

del sostegno della popolazione è destinato a durare poco, o a provocare ulteriore instabilità.

La gran parte degli intervistati distingue tra una “pace politica” e una “pace sociale” e reclama

conseguentemente un doppio approccio al processo di pace66. La pace politica deve essere costruita

con un approccio dall’alto al basso, dagli attori politici e istituzionali. La pace sociale deve essere

costruita con un approccio dal basso all’alto, fondato sulla partecipazione delle comunità locali. Ciò

significa che al processo politico-diplomatico tra governo e gruppi antigovernativi dovrebbe

accompagnarsi un parallelo processo sociale; al processo di pace che punta nel breve periodo alla

gestione e all’interruzione del conflitto dovrebbe accompagnarsi un parallelo processo di lungo

periodo che punti alla ricostruzione delle relazioni e della fiducia tra le comunità locali. In altri

termini, gli intervistati suggeriscono l’adozione del dialogo politico-diplomatico per ottenere la pace

politica e l’uso del dialogo intra-comunitario per la pace sociale67. Senza una sottostante pace

sociale che gli dia solidità e consistenza, ogni accordo politico è destinato a produrre risultati

effimeri, sostengono gli intervistati68.

65 Theros e Kaldor scrivono: “Il problema con la riconciliazione è che tende a legittimare quegli attori che beneficiano dell’instabilità: i colloqui dall’alto avranno successo soltanto se i Talebani verranno riportati al governo, mentre il reintegro ai livelli locali - senza una maggiore stabilità - non farà che garantire nuova linfa al conflitto. Inoltre, anche se questo tipo di riconciliazione tra attori riprovevoli portasse una tregua temporanea, non potrebbe mai fornire la base per una stabilità di lungo termine”, in Building Afghan Peace from the Ground Up, op. cit. p. 37. 66 Un’interessante applicazione al caso afghano delle diverse teorie di risoluzione dei conflitti è quella offerta da Matt Waldman e Thomas Ruttig, Peace offerings: Theories of conflict resolution and their applicability to Afghanistan, AAN 2011. 67 Secondo i risultati principali della già citata ricerca The Cost of War. Afghan Experiences of Conflict, 1978-2009, “per ottenere una pace duratura in Afghanistan sono centrali il perdono, la riconciliazione e la risoluzione del conflitto al livello locale. I donatori dovrebbero garantire un sostegno maggiore per le iniziative di peacebuilding comunitario, che spesso hanno dimostrato di essere efficaci nel mediare i conflitti locali e nel restaurare la coesione sociale”, The Cost of War, p. 30. 68 Sul ruolo della società civile nei contesti conflittuali, si veda Thania Paffenholz (ed.), Civil Society & Peacebuilding. A Critical Assessment, op. cit.

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L’importanza assegnata alla pace sociale deriva dalla consapevolezza, già emersa nel primo

capitolo, della distanza e della diffidenza che la storia recente afghana avrebbe causato tra le varie

comunità. Molti intervistati sentono il bisogno di ricreare un tessuto sociale condiviso, legami

fondati sulla fiducia, relazioni solide, capaci di respingere le interferenze esterne e di dissipare i

sospetti reciproci. La costruzione di meccanismi di mobilitazione sociale è ritenuta essenziale anche

come risposta agli effetti indiretti della guerra, che avrebbero disincentivato la partecipazione alla

“cosa pubblica” e generato un ripiegamento verso interessi egoistici e circoscritti. Mobilitare le

comunità locali e creare un clima di fiducia reciproca significa renderle più consapevoli, dunque

meno facilmente manipolabili dai leader che sfruttano le divisioni esistenti per fini personali. Se il

dialogo politico-diplomatico è lo strumento adatto per porre fine al conflitto nel breve periodo, il

dialogo sociale è lo strumento privilegiato per impedire che esploda di nuovo. Solo il dialogo

sociale può affrontare e risolvere le ragioni strutturali della guerra69.

Tra i partecipanti alla ricerca è diffusa inoltre l’idea che ci sia un legame, implicito ma

fondamentale, tra il conflitto politico di natura nazionale e i conflitti sociali di natura locale che,

strumentalizzati e politicizzati, finirebbero per alimentare quello nazionale. Si crede inoltre che i

gruppi antigovernativi ottengano gran parte della loro autorità e del loro consenso dalla risoluzione

dei conflitti locali, un’attività che sarebbe preclusa al governo, incapace di raggiungere le aree più

periferiche. Ciò causerebbe uno spostamento di autorità dal governo ai gruppi antigovernativi.

Mobilitare le comunità, fare in modo che risolvano i propri conflitti autonomamente significa

impedire questo spostamento di autorità, ridurre lo spazio di legittimità dei Talebani, mitigare i

conflitti presenti e soprattutto ridurre i punti di accesso per un futuro conflitto politico.

La gran parte degli intervistati rivendica dunque la necessità di costruire la pace sociale

contestualmente a quella politica: senza la prima, quest’ultima è inevitabilmente destinata a

naufragare. Tale opinione è legata a una concezione ampia di pace, che non riguarda soltanto

l’assenza di guerra o la fine del conflitto, ma rimanda piuttosto all’idea che ci sia pace quando

vengono meno le ragioni strutturali – di ordine sociale, economico, politico, culturale – che

alimentano il conflitto70.

69 Si veda anche Bator Beg e Ali Payam, Charting a Course for Sustainable Peace: Linking Transitional Justice and Reconciliation in Afghanistan, Afghanistan Watch, 2010. 70 Gli individui consultati nel corso della ricerca The Cost of War (p. 4), “hanno espresso un comune desiderio per la pace, che non vedono soltanto come la fine della violenza fisica della guerra, ma come inclusiva del rispetto dei diritti umani di base, dell’alleviamento della povertà, di un governo efficace e trasparente, come accesso ai servizi fondamentali come la sanità e l’educazione”.

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TESTIMONIANZE 2. PACE, NEGOZIATO E RICONCILIAZIONE

Testimonianze 2.1: Sì al dialogo, no al negoziato attuale

“Le armi non sono l’unica soluzione per mettere fine a un conflitto. Alla fine di ogni guerra ci deve essere la pace, che si ottiene solo con un negoziato. Ma il negoziato va realizzato seguendo una strategia appropriata e chiara, che va condivisa con la comunità internazionale e con il Pakistan. Il modo in cui si costruisce il negoziato è essenziale”, Habiba Sorabi, governatrice provincia di Bamiyan

“Le armi non risolvono i problemi, li creano soltanto. Non ho mai lasciato l’Afghanistan e in trent’anni non ho mai visto risolvere un problema con le armi. Sono favorevole alle soluzioni negoziate. Finora nessuno però sembra aver valutato le implicazioni di un negoziato di pace. Se io ora la picchiassi e poi le dicessi, ‘bene, tutto finito, vogliamo diventare amici?’, lei cosa risponderebbe? Il negoziato va portato avanti con molta cautela. E il conflitto deve essere valutato nelle sue cause profonde. Quanto ai Talebani, se non sono afghani, la comunità internazionale è tenuta ad aiutarci a respingerli. Se sono afghani, ci deve essere qualche modo di risolvere la questione. Dobbiamo capire cosa cercano, quali diritti sono stati loro negati, pensare a cosa possiamo offrire loro. Spesso l’ignoranza è la causa di tutto”, Abdul Qader Rahimi, Regional Program Manager AIHRC, Herat “La nostra storia ci insegna che gli strumenti militari non portano risultati duraturi. Per questo, credo sia positivo provare a instaurare un dialogo politico. Questo però non deve significare che chi ha ucciso mio padre finisca con l’avere un posto di governo. Sarebbe inaccettabile. I negoziati devono essere trasparenti e non devono condurre di nuovo al potere i Talebani o creare un ‘talibanistan’”, Gholam Hussein, responsabile associazione Shohada, Bamiyan “Non c’è altra soluzione al negoziato. Siamo costretti a crederci. Ma i negoziati sono ostacolati da due fattori fondamentali, la scarsa legittimità del governo e la corruzione. Ecco perché la pace tarda a venire. Con un governo migliore, più efficiente e meno corrotto la pace arriverebbe più facilmente”, Hamid Ghulami, direttore Ibn Sina Institute of Higher Education, Mazar-e-Sharif “Tra le autorità al governo, molti sostengono che la pace si può ottenere combattendo. Io non sono d’accordo. Credo che la via per la pace passi attraverso i negoziati e il dialogo. Alcuni Talebani sono in galera. Senza un segnale di distensione come si può dire di voler la pace? Dalle carceri i negoziati non si possono fare. Quando le porte sono chiuse è difficile parlare. Il governo afghano dovrebbe dare la possibilità ai Talebani di aprire un ufficio politico in Qatar. In quel modo, potrebbero avere degli interlocutori con cui parlare”, Wahidullah Danish, CSDC, Jalalabad “Pensare che si possa ottenere la pace senza il dialogo è pura pazzia. La nostra storia dovrebbe insegnarci qualcosa, su questo”, studentessa universitaria, Herat

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“Se i Talebani continueranno a combattere, a occuparsene dovrà essere il nostro esercito. Se invece intendono parlare, senza armi, siamo disposti ad ascoltarli. Ma chiunque voglia avere un ruolo politico nel paese deve riconoscere il valore della Costituzione e ottenere il riconoscimento elettorale. Anche Karzai lo ha detto: ‘potete contribuire alla pace, rispettando la legge costituzionale, presentate un vostro candidato alle prossime elezioni’. Le elezioni sono un’opportunità per tutte le forze di opposizione. Sarà la popolazione a decidere”, Timur Hakimyar, direttore FCCS, Kabul

“La guerra provoca morte e distruzione. Non ci sono guerre che non siano distruttive. Provocano solo perdenti, nessun vincitore. Per questo va promossa la pace e i meccanismi di riconciliazione. La risposta militare è contro-producente: ho scritto un saggio intitolato ‘Is Killing the Taliban a Good Idea?’. Non credo lo sia: droni e bombardamenti radicalizzano gli insorti. Più gli inglesi e gli americani vengono percepiti come giocatori scorretti e più c’è riluttanza a impegnarsi nel negoziato. I Talebani che abbiamo incontrato ci dicono che vogliono la pace, ma non possono accettare una resa. Questa gli sembra la richiesta degli americani. Il processo di radicalizzazione di questi gruppi può essere fermato e invertito. Occorrono molti anni, ma venti anni di negoziazioni e di guerra a bassa intensità sono preferibili a una guerra sanguinosa”, Ali Wardak, Center for Criminology, University of Glamorgan “Il processo di riconciliazione, così come è stato concepito e realizzato, non porta da nessuna parte”, Aziz Rafiee, direttore ACSF, Kabul

“Si svolge tutto in modo opaco, senza renderne conto alla popolazione. Alla gente viene impedito di sapere quali siano i termini del negoziato, cosa si vuole concedere e cosa no. Il rischio è che il governo sia troppo debole per un compromesso degno di questo nome, e che l’accordo si basi non su richieste e concessioni reciproche, ma solo sulla nostra debolezza. Il fatto che le donne non siano incluse nella fase negoziale, se non simbolicamente, ci deve far riflettere”, Soraya Pakzad, direttrice VWO, Herat “Dobbiamo essere realistici. In genere le condizioni per un accordo di pace non sono mai accettate da chi è più forte, e chi cerca la pace è sempre la parte in difficoltà. Perché nel 2002, nel 2003 o 2004 il governo non ha annunciato un piano di pace? Perché non ne aveva bisogno. Oggi invece sul campo di battaglia i gruppi insorti sono più forti del governo. É difficile che decidano di seguire la via del negoziato. Il processo di riconciliazione finora è stato un espediente tattico. Il governo lo usa per rompere l’unità dei nemici. L’obiettivo non è quello di negoziare con i Talebani come soggetto politico unitario, ma di dividerli, di negoziare con tanti gruppi diversi. Dall’altro lato i Talebani non stanno veramente negoziando, non accettano il gioco. Il Qatar e gli Stati Uniti hanno provato a favorire un dialogo con i Talebani ma hanno lasciato ai margini il governo afghano”, Abdul Khaliq Stanikzai, Regional Manager SDO, Herat

“Continuare il negoziato è inutile. I Talebani pretendono di imporre le loro condizioni, che non siamo disposti ad accettare. Se riusciamo a convincerli ad accettare i diritti umani, i principi

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democratici, allora sarà utile questa battaglia. Altrimenti sarà tempo perso”, Ali Jan Fahim, CSHRN, Bamiyan “Non vedo alcun risultato concreto, né per il governo né per la popolazione. Il guaio è che il governo crede di stare negoziando, mentre i gruppi antigovernativi e le forze di opposizione non lo credono affatto. La distanza tra i due è ancora enorme. Karzai ha provato a fare qualcosa. É andato spesso in Pakistan a parlare con i leader locali, ha fatto pressioni per la liberazione di alcuni detenuti Talebani dalle carceri pakistane, ha interloquito con Hezb-e-Islami. I Talebani però continuano a dire che vogliono che le truppe straniere se ne vadano, prima di iniziare i colloqui. Prima del 2014 è difficile che si trovi una soluzione negoziata al conflitto, Karzai può provarci, ma è difficile che ne venga fuori qualcosa di significativo”, Mohammad Sardor Saeedi, responsabile Hizb-e-Wahdat Mardom, Mazar-e-Sharif

“Il negoziato è una buona idea. Il governo dovrebbe usare tutta la sua autorità per lanciare dei segni di disponibilità, per esempio facendo in modo che alcuni prigionieri detenuti a Guantanamo vengano liberati, o liberandone altri dalla prigione di Bagram. Inoltre, potrebbe favorire il dialogo tra i Talebani e le comunità rurali. Allo stesso tempo, dovrebbe dimostrarsi meno oscillante e più deciso. A volte succede che i Talebani fingano di unirsi al governo, prendano i soldi del programma di riconciliazione e poi tornino a combattere. Inoltre, il processo di negoziazione non è trasparente e tanto meno chiaro nei suoi obiettivi e nei suoi metodi. Il governo non sa cosa dare e cosa prendere. Su questo, dovrebbe avere idee più chiare e atteggiamenti più risoluti”, Nawroz Raja, giornalista, Bamiyan “Non sono fiduciosa: finora non c’è stato alcun risultato concreto. Io sostengono l’idea dei negoziati, ma così come sono stati condotti finora rappresentano soltanto una perdita di tempo”, studentessa università privata e attivista, Farah “I colloqui di pace sono solo un rito, non c’è nessuna sostanza dietro. Il governo non ha un piano preciso, non sa dove cominciare, dove finire e cosa fare nel mezzo. Non sa chi combatte davvero. Di conseguenza, reagisce come i bambini: a volte combatte, a volte chiede la pace. Il risultato è che distribuisce soldi senza alcun effetto. I nostri leader ci prendono in giro e nel frattempo costruiscono per sé appartamenti e interi edifici. Non pensano al giudizio della storia”, Khalil Azizi, Mediothek, Mazar-e-Sharif

“Esistono troppe divisioni perché il negoziato possa funzionare. Meglio procedere con calma, facendo in modo che il decennio della trasformazione sia veramente tale, piuttosto che puntare a un accordo firmato di corsa. Se la ‘trasformazione’ accadrà davvero, crescerà la fiducia verso il governo, gli insorti avranno più occasioni per integrarsi. Non dobbiamo ripetere gli errori della prima conferenza di Bonn”, Sayed Ikram Afzali, Head of Advocacy and Communication, Integrity Watch, Kabul

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“Bisogna chiedersi se i metodi usati per il negoziato funzionano. Io credo di no. Il governo è diviso, non ha una strategia comune, i ministeri sono stati affidati su basi etniche. Prima di negoziare, bisognerebbe rafforzare l’unità del governo”, Niamatullah Harez, Ong internazionale, Herat “É evidente la mancanza di coordinamento nelle iniziative di pace e la confusione. Lo prova il fatto che i Talebani una volta vengano definiti come terroristi, un altro giorno come ‘fratelli’, oppure come ‘musulmani’ insoddisfatti. La gente non capisce chi siano i nemici, con chi stiamo combattendo. Ciò confonde anche i nostri soldati e poliziotti, che si chiedono contro chi devono combattere e per quale ragione. É indispensabile definire chiaramente chi sono i nemici, chi gli amici”, Mir Ahmad Joyenda, Deputy Director for Communications and Advocacy AREU, Kabul “I colloqui di pace finora non hanno portato alcun vero risultato perché ci sono stati troppi canali aperti, troppi tentativi da parte di attori diversi: gli Stati Uniti, la Germania, l’Arabia saudita su richiesta di Karzai, anche le Nazioni Unite. E nessuna condivisione dell’obiettivo finale. C’è chi pensa a una sorta di confederazione, chi a una condivisione del potere sotto l’attuale sistema istituzionale, chi a un Califfato. Inoltre, c’è il rischio che un eventuale accordo politico sia fondato sulla debolezza del governo, che non sia una vera negoziazione, ma un adeguarsi del governo alle richieste dei Talebani”, Soraya Pakzad, direttrice AWA, Herat

“I grandi giocatori della partita, come il Pakistan, il governo afghano, gli americani, hanno tutti la loro agenda specifica. Anche la comunità internazionale non sta giocando onestamente, altrimenti avrebbe esercitato da tempo una vera pressione sul Pakistan. Il governo afghano non è onesto: alcuni di quelli che sono al governo in realtà sono all’opposizione, come Hezb-e-Islami. In molti hanno interesse a proseguire la guerra. L’unica cosa sensata è una strategia di azione coordinata della comunità internazionale che metta pressione sul governo afghano, sul Pakistan e sui Talebani affinché comincino davvero i negoziati. L’alternativa è uno scenario infinito, come certe soap-opera indiane, con centinaia di episodi”, Raz Mohammad Dalili, direttore SDO, Kabul

“Manca il coordinamento tra le varie iniziative di pace. Non c’è una chiara definizione di chi siano i nemici e chi gli amici. I metodi usati sono contraddittori, spesso duri, a volte morbidi. Un giorno si dice che i Talebani sono dei nemici, poi vengono definiti come fratelli. La gente è confusa. Senza contare che la guerra ha una cabina di regia remota, oltre-confine”, dipendente pubblica, Farah “C’è una competizione negativa sui temi del negoziato. I meccanismi non sono chiari, né per il governo né per i donatori stranieri. Ho ricordato di recente al presidente Karzai che per prima cosa si dovrebbero individuare i nemici e gli amici, altrimenti si rischia di girare in tondo, senza sapere dove andare a parare. Dovremmo chiarire chi deve parlare e con chi, con quali mezzi e per quali obiettivi. D’altronde anche i Talebani non hanno mai reso veramente pubbliche le loro richieste. Continuano a dire che non parlano con il governo Karzai e che discutono soltanto con gli americani, ma allo stesso tempo sostengono che gli americani sono gli occupanti e che dunque non vogliono parlarci. Sono tutti molto confusi”, Sima Samar, portavoce AIHRC, Kabul

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“La popolazione non ha informazioni sul processo di pace, dunque non può giudicare se sia un buon meccanismo o meno per portare pace nel paese. Questo vale per la gente ordinaria, per i membri della società civile e per gli stessi esponenti del governo. Neanche i membri dell’HPC sanno veramente cosa stia accadendo. La cosa importante è che la popolazione, la società civile, i partiti politici ricevano informazioni sul processo di pace e che si tenga conto delle loro aspettative altrimenti sarà tutto inutile. Per ottenere la pace, la cosa principale è conoscere le aspettative della popolazione”, Naim Nazari, executive coordinator CSHRN, Kabul “Per fare un negoziato ci vuole qualcuno che negozi. In Afghanistan questo ruolo è stato attribuito all’High Peace Council, il cui capo era Rabbani, un uomo che ha a lungo combattuto i Talebani, prima di essere ucciso, e che ha lavorato anche con gli americani. Una persona con una storia simile non è la persona giusta per trovare un accordo. Una volta ha sostenuto che i Talebani andavano tutti uccisi, senza distinzioni, che andavano sconfitti una volta per tutte. Non era un discorso accettabile da parte di chi avrebbe dovuto costruire la pace. Per questo è stato ucciso. I Talebani non lo rispettavano come mediatore e l’hanno ucciso. Ora il figlio ha preso il suo posto, ma la situazione rimane la stessa. L’HPC dovrebbe mediare, ma non è considerato un attore terzo, neutrale”, Baz Mohammad Abid, Radio Mashal, Jalalabad

“Piuttosto che High Peace Council lo chiamerei High War Council visto i membri che lo compongono. Non ha fatto nulla di importante, non ha inaugurato nessun processo credibile”, Aziz Rafiee, direttore ACSF, Kabul “L’Alto consiglio di pace è parte del conflitto, non della soluzione. I Talebani stanno combattendo anche contro l’HPC”, Asadullah Larawi, Jalalabad Regional Officer CSDC “Ancora una volta gli uomini fanno la guerra e pretendono anche di fare la pace. Ma non ne sono capaci. Dovrebbero essere coinvolte più donne nell’HPC, allora sì che diventerebbe efficace”, studentessa universitaria, Herat

“Non funziona. É un organismo fondato per ragioni politiche, privo di qualunque progetto degno di questo nome. Non c’è alcuna prova che il processo di riconciliazione e reintegro stia funzionando”, Idrees Zaman, direttore CPAU, Kabul “La scelta dei membri dell’Alto consiglio di pace è stata miope. Sono stati scelti soltanto da un lato; il consiglio non include gente che possa vantare titoli specifici come mediatori di pace”, Ali Asghar Arghash, Ong internazionale, Maimana “In ogni contesto, che sia l’Afghanistan o un altro paese, per ottenere la pace c’è bisogno di un attore terzo, neutrale, imparziale, riconosciuto come tale dalle parti in conflitto. Sfortunatamente l’HPC è composto da warlord, da individui che hanno passato la vita a combattere, da gente che ha combattuto contro i Talebani, come Rabbani. I Talebani come potrebbero fidarsi? La composizione dell’HPC va rivista. Dovrebbero essere inclusi i rappresentanti della società civile, coloro che hanno veramente a cuore la pace e che non pensano di usare i soldi dell’HPC per fini

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personali”, Mir Ahmad Joyenda, Deputy Director for Communications and Advocacy AREU, Kabul “Le attività dell’Alto consiglio di pace sono solo simboliche, di facciata. Non portano da nessuna parte. La sua stessa struttura e composizione è sbagliata. A Rabbani padre è subentrato il figlio. Perché? Gli unici meriti di Rabbani sono quelli di aver fatto il jihad, di aver fatto molte vittime, ecco il suo merito. Prende migliaia di dollari al mese per coprire le spese di viaggio e ospitare gente, ma finora non si è visto nessun risultato. Inoltre, gli insorti non possono accettare che sia proprio Rabbani, nemico dei Talebani, a fare la pace. Sia il padre che il figlio sono considerati dei nemici dai Talebani. Non dei mediatori”, content manager Radio Killid, Jalalabad

“Il sistema delle jirga, delle shura, è sempre stato usato tradizionalmente per risolvere le dispute. Alla base di questo meccanismo, c’è l’idea di un attore terzo, considerato neutrale, capace di redimere le controversie. Negli ultimi 3 decenni, anche a causa della presenza della comunità internazionale, abbiamo perso i nostri valori e le nostre pratiche, e non è più chiaro chi debba gestire questi processi. Oggi per esempio si parla molto di riconciliazione e negoziato. Ma la mediazione è affidata a criminali. Come è possibile risolvere un conflitto se la mediazione è affidata a un criminale?”, Hambdullah Arbab, artista e regional coordinator YIAA, Jalalabad “Il Consiglio di pace è come un fazzoletto di carta. Lo usiamo per asciugarci le mani e poi lo buttiamo. Non serve a niente. D’altronde i leader Talebani lavorano sotto l’ombrello del Pakistan e dell’Isi, ma a sua volta l’Isi lavora sotto il comando della Cia. É la realtà. Lavorano l’uno per l’altro”, Khalilullah Hekmati, direttore BAO, Mazar-e-Sharif

“Non può funzionare l’HPC: troppi comandanti corrotti al suo interno e troppe poche donne. Soprattutto, mancano al suo interno coloro che sanno come costruire la pace, perché godono del rispetto della gente. Va tutto rivisto”, studentessa universitaria, Jalalabad

“É una struttura che non funziona. Per capirlo, basta vedere come, dopo l’uccisione di Rabbani, sia stato scelto suo figlio, nonostante nel paese ci fossero molte personalità più qualificate e adatte di lui, e soprattutto accettabili dai Talebani. Se si vogliono ottenere dei risultati concreti, occorre scegliere delle persone che abbiano una buona reputazione, non i membri del partito del Jamiat-e-Islami, che storicamente ha avuto dissidi con i Talebani. É una scelta contraddittoria”, Abdul Khaliq Stanikzai, Regional Manager SDO, Herat “É molto difficile che un organismo come l’High Peace Council riesca a ottenere qualche risultato positivo e duraturo. La ragione è semplice: non è un organismo accettato da tutte le parti in conflitto”, Zia Urraham Tariq, CSHRN, Jalalabad

“La sua stessa composizione dimostra che sui temi della pace manca un impegno serio”, Sima Samar, portavoce AIHRC, Kabul

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“Sia il governo afghano sia la comunità internazionale hanno sbagliato tutto nei negoziati. Lo dimostra la composizione dell’HPC e la scelta che a guidarlo fosse Rabbani, un personaggio del tutto inaccettabile dai Talebani, che non a caso hanno intensificato i combattimenti. Come poteva negoziare con i Talebani un uomo che li aveva sempre combattuti? E come potrebbero i Talebani accettare come mediatore un uomo che in Panjshir e poi in Badakhshan ha ricevuto soldi dagli stranieri per combattere i Talebani?”, Nurrahmad Nurrani, direttore Youth Federation, Jalalabad

“L’HPC rappresenta un ostacolo alla pace, non uno strumento per ottenerla. La cosa è semplice: per mettere pace tra due belligeranti, ci deve essere un attore terzo, neutrale, considerato imparziale, che abbia una reputazione e un’autorevolezza riconosciute da entrambi. L’HPC è composto di warlord ed ex combattenti che hanno fatto la guerra contro i Talebani. Bisognerebbe riformare l’HPC, portando gente nuova, considerata imparziale e neutrale”, attivista sociale, Farah “Il ruolo dell’HPC è limitato perché il conflitto non è tanto una questione di politica interna, ma di politica estera. E l’Afghanistan in politica estera è debole. Dovremmo prima rafforzarci nella politica estera, per poi ottenere dei risultati interni”, Ahmad Shuaib “Shahir Qasemian”, Provincial Managaer, ASPR, Maimana

“Secondo le usanze tradizionali e religiose afghane, se due persone litigano, una terza persona dovrebbe favorire una negoziazione. I membri dell’HPC invece sono parte del conflitto, ecco perché non funziona. Servirebbe gente imparziale per riuscire a convincere i contendenti a sedersi intorno a un tavolo. I membri dell’HPC hanno un’ottima esperienza nel fare la guerra, non nel costruire la pace”, Mohammed Saeed Niazi, direttore CSDC, Kabul

“La gente non nutre più alcuna aspettativa sull’HPC. Il rilascio di alcuni detenuti Talebani dalle carceri pachistane non è un vero successo, perché sul terreno la situazione non è cambiata. Il Pakistan promette molto in questo senso, ma non mantiene nulla: il nostro paese continua a essere in guerra”, Mohammad Sardor Saeedi, responsabile Hizb-e-Wahdat Mardom, Mazar-e-Sharif “La prima cosa che il governo deve fare è ricostruire la fiducia con le comunità locali, sforzandosi di favorire la cooperazione. Oggi esiste una distanza fortissima tra il governo e la società e questa distanza va ridotta. Le comunità locali non hanno alcuna fiducia nel governo e i paesi vicini approfittano della loro ingenuità per convincerli che il governo ha obiettivi opposti ai loro. Costruire la fiducia è un aspetto essenziale per ogni riconciliazione”, Wahidullah Danish, CSDC, Jalalabad “L’altro giorno su Tolo tv un comandante talebano raccontava la sua storia: diceva che gli erano state promesse molte cose e che invece, dopo aver rinunciato a combattere, si trovava solo, con i Talebani contro, senza poter ritornare sui suoi passi e senza mezzi per aiutare la sua gente. Se questo è il piano per il reintegro, non funziona”, studentessa universitaria, Herat “Il reintegro non esiste. La sicurezza non c’è. Le milizie, gli arbakai, sono state create e sostenute dal governo e dagli stranieri. La gente si chiede come sia possibile che prima il governo chieda la restituzione delle armi e poi decida di armare alcuni gruppi. Si tratta di gruppi abituati a uccidere,

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a rubare, a drogarsi, e possono farlo grazie alla copertura del governo. Di giorno usano la copertura del governo, di notte fanno quel che vogliono. Altro che reintegro”, Nurrahmad Nurrani, direttore Youth Federation, Jalalabad “Tempo fa le forze di sicurezza hanno catturato alcuni Talebani, poi però Karzai ha deciso che dovevano essere rilasciati. Non credo sia la soluzione giusta al problema”, Lailuma Sediqi, responsabile Dipartimento affari femminili, Farah

“I Talebani prendono i soldi e poi tornano a combattere. A che serve allora il piano per il reintegro?”, Ali Jan Fahim, CSHRN, Bamiyan “Il processo di reintegro e riconciliazione non funziona come dovrebbe. Non è uno strumento per la pace, ma un business. Una volta aderito al programma, molti gruppi tornano di nuovo a combattere. Di esempi del genere ce ne sono molti, anche nelle province di Herat, Farah, Badghis. Vari gruppi pretendono dal governo, minacciandolo, una serie di cose, compiono operazioni di guerriglia per ottenerle, poi aderiscono al programma e in seguito tornano a combattere e la storia si ripete”, Abdul Khaliq Stanikzai, Regional Manager SDO, Herat

“Per me la riconciliazione e il reintegro non hanno alcun significato in Afghanistan: già in passato abbiamo distribuito soldi e cibo ai ribelli e non ha mai funzionato. É un gioco e allo stesso tempo un business: oggi vengono, domani tornano a combattere. La riconciliazione prevede una vera strategia, che in questo caso manca. Per i Talebani, è davvero un ottimo business, perché ricevono soldi da questo e da quello”, Raz Mohammad Dalili, direttore SDO, Kabul “Il processo di reintegro non funziona: quando i Talebani decidono di unirsi al governo, finiscono per non trovare lavoro; il quadro economico è preoccupante, e la giustizia dovrebbe essere accessibile a tutti, in tutti i distretti. Così non è. Quando dicono di volersi riconciliare con il governo, gli insorti non vogliono far altro che prendere qualche soldo. Il governo dovrebbe preoccuparsi di garantire lavoro per tutti”, Khalida Aimaq, direttrice AWEC, Maimana

“Sul piano di riconciliazione e reintegro ci sono molti slogan mediatici e poca sostanza. Si sente spesso, anche nella nostra provincia, di gruppi antigovernativi che hanno rinunciato alle armi. In realtà non si tratta di veri Talebani, ma di criminali che si spacciano per tali. Quanto ai veri combattenti, subito dopo aver aderito al piano tornano a combattere. Se volessimo davvero porre fine ai combattimenti, potremmo farlo. Ma il governo centrale di Kabul su questo ancora non ha preso una vera decisione”, Haji Mohammad Rafiq Sharir, Head of professional Shura, Herat “In questa parte del paese in molti hanno già deciso di unirsi al governo. Lo hanno fatto gruppi di 10, 20, perfino di 90 combattenti, inclusi i comandanti, che hanno consegnato le armi. Negli ultimi due mesi, più di 50 persone hanno deciso di rinunciare alle armi”, Akhtar Mohammad Ibrahim Khil, responsabile Peace Council, Mazar-e-Sharif

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“Se un combattente decide di far parte del programma di reintegro, porta con sé tutta una serie di problemi e la comunità che lo accoglie deve essere pronta a gestire la situazione, a ‘riassorbirlo’. Spesso i mediatori non sono in grado di farlo e il governo non sa come fare. I meccanismi sono molto confusi. Inoltre, a volte i ‘reintegrati’ sono ‘compagni di merenda’ del governo, oppure il governo usa il reintegro come strumento politico per manipolare e dividere gli insorti. É accaduto spesso che quanti hanno prima aderito al programma siano poi tornati a combattere. Non credo che su questo il governo sia sufficientemente serio”, Idrees Zaman, direttore CPAU, Kabul

Testimonianze 2.1: I Talebani “In linea di massima sono d’accordo nel dialogo, ma mi chiedo che tipo di dialogo si possa avere con gente che uccide i civili in un modo così atroce. Neanche gli animali fanno cose simili. La vera soluzione sarebbe chiudere i confini con il Pakistan”, Lailuma Sediqi, responsabile Dipartimento affari femminili, Farah

“I colloqui di pace sono inutili. I Talebani hanno fatto esplodere delle bombe anche il primo giorno di Eid-al fitr, la festa islamica. L’ex presidente Rabbani, che è stato a capo dell’HPC, è stato ucciso. Com’è possibile parlare di pace dopo una cosa simile? Ora al suo posto è subentrato il figlio, ma i gruppi che stanno contro il governo non vogliono veramente la pace. Non sono ottimista sul negoziato. I tentativi fatti fin qui sono simbolici, servono a mostrare alla gente, qui e nel resto del mondo, che qualcosa si sta facendo”, Farzana Asra, studentessa Balkh University, giornalista radio-tv locale, Mazar-e-Sharif “Abbiamo dei pessimi ricordi dei Talebani, non vogliamo che si ripetano le tragedie del passato. Non abbiamo alcuna garanzia che una volta diventati ministri o leader politici, una volta ‘presi a bordo’ i Talebani non ripetano ciò che già hanno fatto”, Bilgees Attaye, managing director DEOW, Maimana

“I Talebani per ora sono in posizione di forza, non sembrano disposti a negoziare. Perché dovrebbero farlo? Decideranno di sedersi intorno a un tavolo soltanto quando saranno stati indeboliti”, Aziza Khairandish, West Coordinator CSHRN, Herat “Non possiamo fidarci dei Talebani, anche se dovessero giurare mille volte di interrompere le attività militari. Come potremmo? Dicono che combattono contro gli americani, eppure compiono attentati suicidi a scapito dei civili. Perché?”, Enjila Surkhabi, gender officer DEOW, Maimana

“I Talebani hanno una mentalità disumana. Se qualcuno commette atti orribili e poi gli si propone la pace, è una cosa sbagliata. Il nostro governo non può dimostrarsi così debole. I colloqui di pace dimostrano che il governo agisce come un bambino”, Khalil Azizi, giornalista e collaboratore di Mediothek, Mazar-e-Sharif

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“Il governo sostiene di avere un preciso piano per la riconciliazione, ma rimane il fatto che non conosce veramente chi sono e cosa vogliono gli insorti. I rappresentanti del governo parlano tra di loro, discutono, litigano perfino, ma non riescono a parlare direttamente con i Talebani. E senza un dialogo diretto non può esserci pace e riconciliazione”, Zia Urraham Tariq, CSHRN, Jalalabad

“Credo che al negoziato politico vada accompagnata la pressione militare. Da sola, l’azione politica non funziona. Sarebbe solo una perdita di tempo. C’è gente verso cui bisogna usare il dialogo, l’inclusione, la giustizia, e gente verso cui bisogna usare la forza. Ci sono migliaia di combattenti che neanche sanno veramente contro chi e per quale ragione combattano, lo fanno soltanto perché ricevono dei soldi, perché non sono istruiti e perché sono vittime di una propaganda ben orchestrata, che dice che viviamo sotto occupazione, che gli infedeli minacciano le nostre tradizioni, che gli afghani sono un popolo coraggioso e fiero. Ma c’è gente come il mullah Omar e i suoi amici in Pakistan che non accetta alcun dialogo, che non crede nel negoziato. Questa gente va combattuta. Non ci devono essere aperture verso di loro”, Amir Sharif, lettore in Sociologia, Università di Bamiyan

“Con i Talebani di professione, quelli che hanno sempre combattuto e continueranno sempre a combattere, c’è poco da discutere. Non sono pronti alla pace e con loro servono leggi severe. Dobbiamo invece convincere quanti sono disposti a unirsi al governo ma finora non l’hanno fatto perché rischiano di perdere più di quanto guadagnerebbero. La prima cosa da fare è lavorare a un governo migliore”, Farid Aibad, Dipartimento educazione Farah e direttore AYSO “Il governo non è in grado di gestire e contrastare i Talebani stranieri, perché rappresentano un problema di natura internazionale. La responsabilità del problema è degli Stati Uniti e dell’Europa. L’altro tipo di Talebani invece è gente che in passato ha subito un’ingiustizia, un danno, che contesta la corruzione o la debolezza del governo. Nelle prigioni ci sono detenuti innocenti. La gente non si fida dello stato, del governo, e sostiene le tribù per auto-difesa. La cosa più importante è promuovere la legittimità dello stato soprattutto nelle aree rurali, dove vengono diffuse idee retrograde dall’Iran e dal Pakistan, e dove si ragiona solo in termini religiosi e i media non sono accessibili”, Mirwais Ayobi, lettore in Law and Political Science, università di Herat, direttore Herat University Legal Clinic

“Il processo di pace deve tener conto della diversità dei gruppi che fanno parte della galassia talebana. Inoltre, si dovrebbe combattere il ‘talibanismo’, la mentalità talebana, non solo i singoli combattenti. Quanto a coloro che lavorano per il Pakistan, servono degli sforzi diplomatici seri da parte del nostro ministero degli Esteri affinché la comunità internazionale costringa il Pakistan a cambiare strategia. Ci tengo a sottolineare che fino a quando non ci sarà un governo affidabile, che non sia corrotto, che garantisca diritti per tutti i cittadini e che segua il diritto e la legalità, non ci sarà modo di eliminare le cause dell’insoddisfazione”, Naim Nazari, executive coordinator CSHRN, Kabul

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“Il guaio è che al loro interno i Talebani hanno idee e orientamenti diversi e perfino obiettivi diversi. É difficile parlare con gruppi così divisi. Il negoziato è inutile”, Sameer Ahmad Bana, programme manager DEOW, Maimana “Guai a fidarsi dei Talebani. In più, con chi parlare? Sono tanti gruppi, con idee molto diverse”, studentessa universitaria, Jalalabad “Nella galassia antigovernativa ci sono anime diverse. C’è il gruppo più fondamentalista, legato ad Al Qaeda, con cui non si può negoziare, perché persegue valori incompatibili con i nostri. Ci sono poi i criminali organizzati, che beneficiano dell’insicurezza e dell’instabilità per i loro traffici di esseri umani e di droga e per fornire i propri ‘servizi’ a tutti gli attori in gioco. E poi c’è il gruppo dei ‘veri afghani’, coloro che sono insoddisfatti del governo, che non ricevono alcun servizio dallo stato, che non vengono protetti, che non hanno lavoro, che non hanno niente e che dovremmo reintegrare. Con loro è indispensabile parlare e trovare strumenti per aiutarli”, Mir Ahmad Joyenda, Deputy Director for Communications and Advocacy AREU, Kabul “Il dialogo è utile con i Talebani afghani, che potranno facilmente capire le ragioni della pace. Sarà inutile e impossibile con gli stranieri, quelli finanziati dai paesi vicini. Un ufficio di rappresentanza dei Talebani in Qatar sarebbe molto utile, perché sapremmo a quale indirizzo trovarli. Ora che sono in Pakistan non si sa bene dove e come rintracciarli. I Talebani stranieri non devono avere alcun posto nel governo; i Talebani afghani, quelli che sinceramente desiderano la pace, possono essere parte del governo e potranno essere accettati anche dalle donne. Anzi, possono anche presentarsi alle elezioni”, mawlawi Ruhal Ahmad Rohani, responsabile dipartimento per l’Haj, Farah

“Ci sono tre gruppi da considerare: i terroristi, che sono vicini ad Al Qaeda e non sono disposti a negoziare; i criminali organizzati, che beneficiano dell’insicurezza, alimentano la corruzione, sono legati ai trafficanti di droga e danno una mano a entrambi gli attori in gioco; e poi il terzo gruppo, con cui è importante lavorare, composto da gente che è scontenta del governo, che non viene protetta, a cui manca tutto, il lavoro, l’istruzione, i diritti. Sono persone abbandonate. Per fare in modo che rinuncino alle armi, bisogna costruire la pace su base locale, distrettuale”, attivista sociale, Farah

“Non ci vedo nulla di male nel condividere il potere con quei Talebani che sono afghani e che vogliono davvero la pace. Ma ciò deve avvenire seguendo i principi della Costituzione, senza contraddirla. Non deve più accadere che le donne siano costrette a casa, o che i diritti umani siano negati. Se succedesse, sia la Nato sia la comunità internazionale perderebbero del tutto prestigio e credibilità”, Ali Erfan, giornalista, deputy director AIRA e direttore Radio Bamiyan “Può andare al potere chiunque accetti la Costituzione afghana. Non vedo problemi di sorta. Che vengano pure i Talebani”, Aziz Rahman “Saddiqi”, presidente ASCP, Jalalabad

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“Posso essere d’accordo sull’idea di un governo ampio, inclusivo, ma bisogna impedire alla gente sbagliata di occupare posizioni ministeriali o importanti. Di certo il mullah Omar non potrà essere ministro. Qualcun altro va bene”, Aziz Rafiee, direttore ASCF, Kabul “Se accettano le nostre leggi, la nostra Costituzione, le nuove consuetudini sociali, non vedo ragioni per impedire anche ai Talebani di andare al potere. D’altronde anche dal governo spesso arrivano appelli a prendere parte in modo trasparente e onesto alle elezioni, e, se eletti, a occupare posti di potere”, Zia Urraham Tariq, CSHRN, Jalalabad “Nel governo e nel parlamento c’è gente con una mentalità retrograda ed estremista, come i rappresentanti del partito Hezb-e-Islami. I Talebani sono tanto diversi? Se i Talebani decidono di rispettare la Costituzione e i diritti delle donne, non ci saranno problemi. Ma dobbiamo essere chiari: se così non sarà, è inaccettabile che entrino a far parte di un futuro governo o che ci sia un’amnistia che condoni i loro reati”, Aziza Khairandish, West Coordinator CSHRN, Herat

“Chi vuole la pace ha diritto a far parte del governo. Accoglieremmo volentieri i Talebani se decidessero di unirsi al governo e dimostrassero di essere onesti. Non abbiamo problemi particolari con loro”, Ezatullah Zwab, giornalista e scrittore, editor in chief magazine Meena, Jalalabad “I Talebani hanno diritto di partecipare alle elezioni, d’altronde nessuno li voterà. Davvero pensiamo che ci sia qualcuno disposto a votare per il mullah Omar? I Talebani hanno già sprecato la loro occasione. Gli afghani gliel’hanno data in un periodo in cui erano davvero stanchi degli abusi dei comandanti, ma non conoscevano veramente la mentalità talebana. Ora la conoscono, e nessuno è più disposto a sopportarla. Nessuno approva gli attentati nelle scuole, gli omicidi gratuiti. Anche a me sembrava che i Talebani fossero un uccello portatore di pace. Ero stufo dell’epoca dei mujahedin, degli stupri, delle battaglie sanguinose. Poi invece ho imparato a conoscerli. E a diffidarne. Comunque, se accettano la Costituzione, non abbiamo problemi a farli vivere con noi. Possono perfino unirsi al governo”, Mohammed Anwar Sultani, elder, già docente universitario, Jalalabad

“Non avrei problemi ad accettare degli esponenti talebani al governo, se riconoscessero apertamente la legittimità e la validità del quadro legale afghano, la Costituzione”, Yor Mohammad Bakhiri, docente Ibn Sina Institute of Higher Education, Mazar-e-Sharif “L’eventualità che i Talebani rinuncino a combattere e si uniscano a un governo futuro dipende dal Pakistan. Molti in Afghanistan si chiedono perché a gestire il potere possa essere un criminale come il maresciallo Fahim e non i Talebani. Che differenze c’è? Siamo disposti a parlare con chiunque intenda onestamente costruire la pace. Se i Talebani si uniscono al governo e dimostrano di voler lavorare per il paese sarà bene per tutti. Ma l’onestà è un presupposto imprescindibile”, Sher Alam Amlawal, docente Legge e Scienze politiche, Aryana University, Jalalabad

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“I Talebani potrebbero partecipare al processo democratico. D’altronde lo stesso Muttawakil in passato ha provato a presentarsi alle elezioni. Se riescono a ottenere i voti necessari perché non potrebbero entrare in parlamento? Ma la soluzione è la costruzione di un sistema veramente democratico e di un sistema giudiziario trasparente, secondo gli standard internazionali. I nostri amici internazionali invece tendono ad abbassare gli standard, per l’Afghanistan. Ma quando si definisce uno standard per la democrazia non può cambiare a seconda delle circostanze”, Sima Samar, portavoce AIHRC, Kabul

“La condizione per formare un eventuale governo che includa anche i Talebani è che loro accettino la Costituzione e ciò che questo implica: che rispettino i diritti delle donne, che non le costringano in casa o in prigione, che accettino i risultati ottenuti in questi anni, che condividano i valori della popolazione. In caso contrario, la popolazione sarà contro di loro”, Mohammad Sardor Saeedi, responsabile Hizb-e-Wahdat Mardom, Mazar-e-Sharif “Se i Talebani accettano la Costituzione e decidono di rispettarla veramente, nel suo complesso, e se rispettano il fatto che le donne lavorino, che si organizzino, se rispettano i diritti umani non ci saranno problemi. Sono anche loro afghani”, Farzana Asra, studentessa Balkh University, giornalista radio-tv locale, Mazar-e-Sharif

“La preoccupazione è che i Talebani possano tornare al potere, anche se non credo che abbiano più la stessa forza di un tempo. La gente li conosce, conosce le loro idee: si sono diffusi gli anticorpi. Con i cambiamenti avvenuti negli ultimi dieci anni, non credo che la gente sarà contenta di vederli tornare al potere; non credo che abbiano neanche le capacità militari di farlo. Non c’è posto per loro nella società afghana così come è oggi. In ogni caso, in seguito a un compromesso politico, potremmo anche accettare che diventino una sorta di partito politico all’opposizione, come quello di Hekmatyar, che è dentro al governo. Anche i Talebani possono trasformarsi in un partito politico; d’altronde già ci sono esempi di leader Talebani, o ex leader che ora sono vicini al governo o tentano di mediare con il governo, come Muttawakil”, Zamir Saar, lettore in Letteratura pashto, Balkh University, Mazar-e-Sharif “Se vogliono presentarsi alle elezioni o prendere parte al governo, che lo facciano, ma devono prima abbandonare le armi. Se vogliono dei posti di potere, devono essere pronti a condividerlo”, Akhtar Mohammad Ibrahim Khil, responsabile Peace Council, Mazar-e-Sharif

“Perché il conflitto prosegue? Per una questione di potere. Se ai Talebani fosse data una parte di potere, il conflitto cesserebbe. Il governo deve concedere ai Talebani i diritti legali che spettano loro, ma niente più di questo, né deve contraddire la legge per ottenere la pace. Il problema è sapere quali diritti chiedano i Talebani. Sono gli stessi che chiedo io? Loro auspicano un sistema completamente dominato dalla sharia, oltre al ritiro completo degli eserciti stranieri. I Talebani hanno il diritto di partecipare alle elezioni, e ovviamente anche di vincere, ma il governo deve soddisfare solo le richieste che risultano legittime e compatibili con il nostro quadro legale”, Wahidullah Danish, CSDC, Jalalabad

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“Dipende cosa intendiamo per Talebani. Se sono quelli che non credono nei diritti umani e delle donne, sarà davvero difficile dar loro dei posti di governo. Se i Talebani sono quelli che combattono per ragioni economiche, con loro è possibile parlare e farli lavorare a un governo condiviso”, Sadek Alior, politico, Bamiyan “Se il portavoce dei Talebani che per tutta la vita è stato un criminale decide di partecipare al processo di pace, va bene, ma che non gli si dia una posizione nel governo o nel parlamento. In generale, sono contrario a un governo che includa anche i Talebani così come sono ora. I Talebani devono arrendersi, devono lasciare le armi, accettare la Costituzione e la democrazia, arrivare al potere non con la forza o tramite una interpretazione della sharia tutta particolare, ma con i voti nelle elezioni. Almeno il 50% della popolazione afghana non permetterà mai che i Talebani tornino al potere, se restano così come sono; le comunità degli hazara, dei tagichi, degli uzbechi, non permetteranno che venga realizzato il disegno dell’amministrazione Karazi di ottenere la pace con i Talebani dando il potere ai pashtun. Non dico che non ci possa essere un partito islamico talebano, ma le coordinate che regolano la vita del paese devono seguire l’attuale Costituzione”, Amir Sharif, lettore in Sociologia, Università di Bamiyan

“Il dialogo e la cooperazione possono avere effetti positivi solo se si accettano valori condivisi. Con i Talebani, non è questo il caso, perché non accettano i valori democratici, anche per questo è impossibile stabilire un governo di coalizione con loro: già abbiamo conosciuto in passato come intendono governare e non intendiamo che si ripeta quel periodo”, Ismail Zaki, regional coordinator CSHRN, Bamiyan “Non c’è alternativa all’attuale governo, i Talebani non sono un’opzione reale. Il governo non ha legittimità, è vero, tutti sanno che è un governo corrotto, eppure la gente sa che è la nostra unica chance”, Mirwais Ayobi, lettore in Law and Political Science, università di Herat, direttore Herat University Legal Clinic “Sarei d’accordo con un governo di coalizione, a condizione che i Talebani rispettino la Costituzione. Temo però che per i Talebani non sarebbe possibile rispettare la Costituzione e i diritti e condividere il potere. Lo vogliono tutto per sé”, Nawroz Raja, giornalista, Bamiyan “Difficile dire se sia possibile dare vita a un governo al cui interno ci siano anche i Talebani, in futuro. Certo, se i Talebani continuano a essere quelli di prima, che non rispettano i diritti di nessuno e tanto meno delle donne, allora sono molto preoccupata di un’ipotesi simile”, Habiba Sorabi, governatrice provincia di Bamiyan “Certo, se accettassero la Costituzione e le nostre leggi non ci sarebbero problemi. Ma dobbiamo essere realisti: non l’accetteranno mai, perché non ritengono sia una legge legittima. Credo che la soluzione del problema sia una strategia doppia: combatterli e allo stesso tempo conoscerli meglio e parlarci, educarli. La vecchia generazione, da una parte e dall’altra, deve fare il suo tempo, lasciare il campo ai più giovani. La guerra, da sola, non basta, non porta da nessuna parte. Bisogna puntare anche sull’educazione e sulla negoziazione. Ma credo serviranno ancora molti

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anni perché ci siano dei frutti”, Hamid Ghulami, direttore Ibn Sina Institute of Higer Education, Mazar-e-Sharif “Su questo, le idee sono molto diverse da provincia a provincia. Nelle province in cui si combatte di più, c’è un unico desiderio: la fine dei combattimenti. Questo vuol dire che si è più disposti a un governo ampio, che includa i Talebani. Ma si tratta di poche province. Nel resto del paese, ci si aspetta che il governo garantisca i servizi di base, e che ponga fine ai privilegi degli uomini di potere. Hanno già avuto esperienza di un governo gestito dai Talebani e hanno visto che non c’è stato alcun miglioramento nelle loro condizioni. Se si dovesse formare un governo di coalizione che includa anche i Talebani, forse nell’immediato non ci saranno reazioni, ma a lungo andare l’insoddisfazione crescerà. In linea generale, non vedo molte possibilità per un governo del genere”, Naim Nazari, executive coordinator CSHRN, Kabul “La natura dei Talebani esclude che possano collaborare e decidere di unirsi ad altri. Anche quando erano al potere, hanno governato il paese senza alcuna collaborazione con altri gruppi di muhajedin. Non sono in grado di entrare a far parte di un vero processo politico che includa anche il governo afghano. Trovo molto difficile che accettino un processo di pace autentico e ancora più difficile che possano far parte di un governo di ampia coalizione. Sui media, gli osservatori ripetono che i Talebani sono forti sul campo militare ma deboli sul campo politico. É difficile per loro proporre un’agenda politicamente articolata che sia accettabile per gli altri attori politici. Rigettano le attuali istituzioni ed è difficile che decidano di farne parte, rispettandole. Pensano soltanto al loro modo di governare il paese, non ad altro. C’è ancora una distanza difficile da colmare”, Abdul Khaliq Stanikzai, Regional Manager SDO, Herat

“Sappiamo che molti Talebani non sono afghani ma vengono da fuori. Non possiamo accettare qualunque cosa dicano e qualunque condizione impongano. Di certo non accetteremo le condizioni di una volta, soprattutto per quanto riguarda il ruolo delle donne nella società. Ho letto e sentito che i Talebani seguirebbero regole nuove, diverse dal passato. Spero che sia vero, che siano cambiati davvero, se così non fosse, nessuno ne accetterà il ritorno al potere, anche se condiviso. Non credo comunque che gli afghani accetterebbero un governo di coalizione che includesse anche i Talebani”, Nazira Hamadi, regional manager ACSF, Mazar-e-Sharif “Non abbiamo problemi particolari con i Talebani. La condizione per una loro partecipazione al governo è che accettino i risultati ottenuti negli ultimi 10 anni, che rispettino la libertà dei media e la Costituzione, che sostengano i diritti umani, che smettano di combattere contro il governo. Anche loro sono afghani come noi, potrebbero partecipare alle elezioni, ma la condizione è che rinuncino alle armi. Il vero guaio è che i Talebani vogliono tutto il potere. Questo non possiamo accettarlo”, Asadullah Larawi, Regional Officer CSDC, Jalalabad

“Se l’obiettivo ora è di trovare un accordo politico con i Talebani e portarli al governo del paese, mi chiedo allora per quali ragioni gli Stati Uniti abbiamo deciso di venire fin qui con la storia dei diritti umani. Se ci sarà un accordo del genere, i paesi che si sono impegnati in questi anni verranno condannati dalla storia. Quell’accordo con i Talebani non va trovato. Altrimenti che

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senso hanno tutti gli sforzi e gli investimenti fatti dopo l’11 settembre?”, Ali Asghar Arghash, Ong internazionale, Maimana “Non puoi portare i Talebani al tavolo negoziale se non tagli prima i loro legami con l’esterno. Il contesto in cui si realizza il processo non è adatto. I Talebani comunque sanno che non gli sarà possibile continuare a lungo la guerra, specie se, come sembra, il sostegno economico del Pakistan viene ridotto o eliminato. Ci deve essere una soluzione politica, che però deve riguardare non solo l’Afghanistan, ma anche il Pakistan”, Aziz Rafiee, direttore ASCF, Kabul

“Non credo che si raggiungerà alcun accordo di pace prima del 2014: gli insorti chiedono che gli stranieri lascino il paese come precondizione del dialogo, fino ad allora non permetteranno nessuna riconciliazione. Dopo il ritiro delle truppe straniere invece potrebbe esserci un accordo. Per ora, a trarne profitto è il Pakistan, per il quale la presenza della comunità internazionale è un pretesto per favorire i propri interessi. Al Pakistan serve una ragione per combattere in Afghanistan”, Zia Urraham Tariq, CSHRN, Jalalabad “Credo che ci sia bisogno di un accordo regionale. Gli Stati Uniti e i paesi europei hanno i loro contrasti con l’Iran, e usano il territorio afghano per risolverli. L’Iran da parte sua cerca di creare problemi sostenendo alcuni gruppi antigovernativi. Lo stesso accade per il conflitto tra India e Pakistan, con l’India che sostiene i ‘Beluchistan freedom fighters’ attraverso l’Afghanistan, e il Pakistan che sostiene i Talebani. Se l’Afghanistan si stabilizza, il Pakistan teme di perdere la sua posizione nel quadro geopolitico dell’Asia meridionale. L’Afghanistan potrebbe diventare un attore centrale, grazie ai suoi minerali. Se dovesse avere sicurezza e stabilità e riuscisse a portare avanti un serio processo di sviluppo, la comunità internazionale cambierebbe posizione, l’Afghanistan diventerebbe un paese centrale nelle rotte commerciali per Cina, India, ex repubbliche sovietiche”, Abdul Khaliq Stanikzai, Regional Manager SDO, Herat

“Gli insorti dicono che, una volta avvenuto il ritiro, saranno disposti a parlare di pace e negoziati. Se sono onesti, lo faranno. Se sono disonesti e sostenuti da paesi stranieri, continueranno la loro battaglia. Il 2014 è una sfida anche per loro. Gli afghani aspettano di vedere come si comporteranno. I Talebani dicono che sono disposti al negoziato, ma il Pakistan ancora non vuole la pace, e finché il Pakistan non la vorrà, non ci sarà pace”, content manager Radio Killid, Jalalabad “Per ottenere la pace non c’è bisogno di aprire un ufficio politico dei Talebani in Qatar: basta parlare con loro in Pakistan. É un dato di fatto che chiunque abbia cominciato le negoziazioni sia stato ucciso dai pakistani, come il mullah Baradar. La leva finanziaria è importante. Si dice che i Talebani siano pagati da alcuni rami dei pakistani con i soldi degli Usa. Questo vuol dire che se gli Usa interrompono i pagamenti al Pakistan, ci saranno meno talebani”, Idrees Zaman, direttore CPAU, Kabul

“Il dato di fatto è che il Pakistan non ha ancora deciso di favorire il processo di riconciliazione”, Asadullah Larawi, Regional Officer CSDC, Jalalabad

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“C’è anche una notevole mancanza di coordinamento tra le iniziative del governo afghano e quelle degli Stati Uniti e degli altri paesi. Senza considerare che i pakistani temono di restare marginalizzati dal processo di pace. Va detto chiaramente: la regia a distanza della guerra e della pace è nelle mani dei servizi di intelligence pakistani”, Mir Ahmad Joyenda, Deputy Director for Communications and Advocacy AREU, Kabul “I veri giocatori della partita non sono i Talebani, che non fanno altro che fare il gioco di altri, fuori dal paese”, Ali Asghar Arghash, Ong internazionale, Maimana

“Il fatto è che i Talebani non decidono da sé. I Talebani moderati potranno unirsi al governo, anche perché molti sono stati colpiti e indeboliti. Quanto agli altri, è l’Isi che gli impedisce di accettare un piano di pace. Che possano entrare a far parte di un nuovo governo, dipende dagli Stati Uniti”, Ahmad Qureishi, chief reporter agenzia Pajhwok, Herat

“I nostri vicini, specialmente il Pakistan, non vogliono la pace. Il Pakistan ha negoziato con gli Stati Uniti il mantenimento del nostro paese come sua zona di interesse. Se arrivasse la pace in Afghanistan, il Pakistan si troverebbe ad affrontare seri problemi economici”, Wahidullah Danish, CSDC, Jalalabad

“Finora l’Alto consiglio di pace non ha ottenuto nessun risultato; i suoi membri ricevono molti soldi ma non li usano in modo appropriato. Manca soprattutto un buon coordinamento e una buona intesa con il Pakistan, da dove provengono molti dei pericoli che minacciano l’Afghanistan. Sanno tutti ormai che il Pakistan ha degli interessi economici e strategici qui da noi, e che invia Talebani in Afghanistan perché mantengano la situazione così complicata”, Enjila Surkhabi, gender officer DEOW, Maimana “Non ci sarà pace fino a quando non si stabilirà una vera cooperazione tra i paesi che hanno lunghi confini in comune nella regione. In Europa questo processo di avvicinamento e di cooperazione è avvenuto molto lentamente, ma ora funziona. Anche qui dovrà avvenire, se vogliamo la pace. Abbiamo una lunga disputa con il Pakistan sul nostro confine meridionale, e il Pakistan sembra ritenere un suo diritto interferire nelle nostre questioni. Teme infatti che se l’Afghanistan diventasse un paese stabile, quel tema verrebbe nuovamente sollevato. Con l’Iran invece c’è una disputa economica, perché fino a quando l’Afghanistan rimane un paese instabile l’Iran ha una centralità maggiore nei commerci dall’Asia centrale. Dobbiamo convincere i nostri vicini che la nostra stabilità andrà anche a loro beneficio”, Ghulam Shah Adel (Alizai), preside Facoltà di Legge e scienze politiche università di Herat

“Sarà impossibile ottenere la pace se i nostri vicini non saranno onesti”, Timur Hakimyar, direttore FCCS, Kabul “Molte di noi sono state vittime dei Talebani e degli altri gruppi, che continuano a combattere e a far soffrire altra gente. Per questo ci chiediamo: se sono davvero disposti a mettere fine alla

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guerra, perché non lo fanno ora? Come possiamo credere che lo facciano in futuro? Su questo, non ho molta fiducia. La verità è che sono fondamentalisti e che le loro radici sono altrove, fuori dal paese. La decisione sul negoziato non spetta solo a loro”, Bilgees Attaye, managing director DEOW, Maimana

“I Talebani sono gruppi diversi con idee differenti. Qualcuno di loro è già parte del governo e della società. Altri invece sono sotto il controllo dell’Isi, non ci si può parlare né negoziare, se non attraverso il Pakistan. É impossibile parlare con i fantocci del Pakistan: la cosa migliore sarebbe che la comunità internazionale esercitasse pressioni sul Pakistan, affinché la smetta di sostenere i Talebani”, Mohammed Saeed Niazi, direttore CSDC, Kabul “Il Pakistan continua a sostenere di aver condotto e voler condurre negoziati con i Talebani, di volere la pace, ma non credo sia vero. Non ho nessuna fiducia che vogliano davvero raggiungere la pace, a meno che la comunità internazionale non li convinca, facendo pressioni serie”, Zamir Saar, lettore in Letteratura pashto, Balkh University, Mazar-e-Sharif

“Il vero, grande problema dell’Afghanistan è che quella in corso non è una guerra civile, interna, ma una guerra in cui interferiscono tutti i paesi della regione e quelli interessati, dagli Stati Uniti all’Iran, dal Pakistan alla Cina, passando per la Russia. Questa non è una guerra afghana. Per questo, se vogliamo la pace, molto dipende dagli altri paesi. Da solo, il governo afghano è impotente”, Azim Resalat, Radio Killid, Mazar-e-Sharif “È impossibile ottenere la pace e avviare negoziati in questo paese, perché i Talebani hanno dei sostenitori importanti. Non va dimenticato che i Talebani sono stati già sconfitti una volta, erano spariti dai nostri villaggi e dai distretti. Dobbiamo chiederci come abbiano fatto a tornare forti. La verità è che gli Stati Uniti, il Pakistan e altri paesi li sostengono. É questa la questione principale. Una volta che il sostegno esterno ai Talebani verrà meno, otterremo la pace nel nostro paese”, studentessa università privata e attivista, Farah

“I Talebani per il 99% provengono dal Pakistan, per l’1% dall’Iran. Ma gli americani hanno preferito evitare di pressare il Pakistan, per ragioni politiche”, Mohammed Anwar Sultani, elder, già docente universitario, Jalalabad “I gruppi di Talebani che si oppongono al governo non sono così forti da tenere testa alla Nato. La Nato avrebbe la forza necessaria a sconfiggerli, eppure non lo fa. Non vuole rimuovere davvero il terrorismo dall’Afghanistan perché in questo modo può controllare l’Asia centrale”, Ali Erfan, giornalista, deputy director AIRA, Radio Bamiyan

“L’Alto consiglio di pace non funziona, lo penso io e lo pensa la maggior parte della gente qui in Afghanistan. Si tratta di pura esibizione, del tentativo di far vedere che qualcosa si fa. In ogni caso, gli Stati Uniti sono responsabili del mantenimento della sicurezza. La pace arriverà quando gli americani otterranno i propri benefici e impediranno che i paesi vicini creino problemi”, Sameer Ahmad Bana, programme manager DEOW, Maimana

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“Mi chiedo perché gli americani finora non siano riusciti a catturare mullah Omar. Sono stati in grado di prendere Saddam Hussein e invece il mullah Omar ancora no. Perché? Sono sicuro che sappiano dove siano il mullah Omar e Haqqani ma che per ragioni di equilibrio politico regionale e internazionale non li abbiano presi. Hanno ucciso Osama bin Laden, ma il mullah Omar dov’è? É in Pakistan, sostenuto e coperto dall’Isi. Lo sanno tutti, lo sanno gli americani e lo sa la Nato”, Amir Sharif, lettore in Sociologia, Università di Bamiyan

“Diversi paesi sono arrivati in Afghanistan a combattere questa guerra, che è alimentata dagli stranieri. Quelli che decidono sono gli americani, che in Afghanistan perseguono i propri interessi. Ecco perché la situazione continua a essere così conflittuale. Nel 2002 il regime talebano era finito, completamente, dal punto di vista logistico, militare, finanziario. Oggi sono forti: chi li sostiene?”, Asadullah Larawi, Regional Officer CSDC, Jalalabad “L’HPC è un organismo di facciata. La chiave delle negoziazioni non è nelle mani dei membri dell’Alto consiglio di pace; si trova negli Stati Uniti e in Pakistan. Sono loro a decidere, insieme all’Arabia saudita, al Qatar, alla Germania e alla Turchia”, Mohammad Anwar Sultani, elder, già docente universitario, Jalalabad

“Qui siamo in molti a pensare che potremo avere la pace soltanto quando ci sarà un accordo che sia ritenuto conveniente dai grandi attori, dagli Stati Uniti, dalla Russia, dalla Cina, dall’Inghilterra. Senza un accordo del genere, la pace non ci sarà”, Fe Mohammad Rozbeg, impiegato e attivista sociale, Maimana “Gli Stati Uniti e l’Inghilterra appoggiano il governo da una parte e gli insorti dall’altra. Se gli americani volessero portare la pace, lo potrebbero fare facilmente. Non lo fanno, perché hanno interessi diversi. Vogliono mantenere una presenza in Asia centrale per contrastare l’espansione economica cinese; la Cina diventa sempre più forte, e la Nato è preoccupata che si crei un forte blocco politico antagonistico: si vuole impedire che la Cina cresca troppo dal punto di vista strategico. Ancora ci si ricorda del blocco di Varsavia, che contrastava il blocco atlantico. Da qualche anno c’è solo il blocco atlantico e ci si preoccupa della nascita di un altro blocco regionale. Gli Stati Uniti sono la super-potenza e vogliono evitare che altri lo diventino”, Baz Mohammad Abid, Radio Mashal, Jalalabad

“Spesso ci chiediamo perché gli stranieri non vogliano la pace nel nostro paese. Se l’avessero voluta, l’avrebbero raggiunta. Invece, la guerra continua. La ragione è che l’Afghanistan è un paese piccolo, non è potente, ma si trova nel cuore dell’Asia centrale. Gli stranieri non vogliono la pace qui in Afghanistan, perlomeno non ancora. Fino a quando gli eserciti stranieri saranno qui sarà impossibile avere pace e stabilità”, Wahidullah Danish, CSDC, Jalalabad “Il conflitto afghano non è interno, è un conflitto tra servizi segreti di paesi diversi, tra superpotenze, tra gli Stati Uniti e una serie di altri paesi. Se gli Stati Uniti pensassero che un accordo con il mullah Omar porterebbe loro dei benefici, lo farebbero oggi stesso, gli darebbero

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un posto di potere, ristabilirebbero un Emirato islamico, etc. Credo che per ottenere una pace di lungo periodo ci sia bisogno che gli americani negozino direttamente con i pakistani”, Sher Alam Amlawal, docente Legge e Scienze politiche, Aryana University, Jalalabad

Testimonianze 2.3: Le soluzioni

“Abbiamo deciso di puntare al peace-building comunitario perché negli ultimi decenni abbiamo visto che se la pace è fatta dai politici, non porta da nessuna parte. Per questo, lavoriamo con le comunità nelle aree periferiche, facendo in modo che si attivino e che non aspettino che qualcun altro risolva i loro problemi”, Raz Mohammad Dalili, direttore SDO, Kabul “Il processo di pace e riconciliazione funziona sulla carta, ma non produce i risultati sperati dalla popolazione. É un’operazione simbolica, di facciata. Se davvero si vuole portare la pace in questo paese, occorre tener conto delle opinioni di chi ci vive. Le decisioni dell’Alto consiglio di pace non sono basate sulla volontà della gente, ma su quella dei componenti del consiglio, che non ci rappresentano”, Ali Erfan, giornalista, deputy director AIRA, direttore Radio Bamiyan

“La riconciliazione, per essere efficace, deve passare attraverso il ponte della giustizia. Per usare una metafora, direi che non possiamo raggiungere l’altro lato del fiume senza passare per il ponte della giustizia. Per i Talebani, il governo attuale è ingiusto, illegittimo, e nel governo attuale c’è chi impedisce e ostacola un processo democratico. La giustizia è usata come filtro”, Aziz Rafiee, direttore ACSF, Kabul “É essenziale sapere ciò che la gente vuole, condurre delle ricerche, così da ristabilire la fiducia tra le comunità del paese. Bisogna seguire un procedimento contrario a quello adottato per la prima conferenza di Bonn: allora a decidere sono stati in pochi, i membri dell’élite militare o politica. Oggi a decidere deve essere tutta la popolazione afghana”, Ali Jan Fahim, CSHRN, Bamiyan

“Ci sono due meccanismi per favorire la pace, entrambi complicati ma necessari. C’è il meccanismo del dialogo politico, quello promosso dal governo, dalle istituzioni. E c’è il meccanismo del dialogo sociale, promosso dalla gente, dalle comunità. I conflitti sociali, tra comunità, possono essere risolti con le jirga, le shura, mentre il conflitto tra il governo e i ribelli deve essere affrontato garantendo la giustizia, facendo in modo che ognuno sappia che le proprie richieste sono prese in considerazione”, Abdul Qader Rahimi, regional program manager AIHRC, Herat

“Sono le comunità che si devono attivare per costruire la pace. Non dobbiamo aspettare che a farla siano i politici”, Ismail Zaki, regional coordinator CSHRN, Bamiyan

“Piuttosto di una riconciliazione portata avanti dal governo, ci sarebbe bisogno di una riconciliazione comunitaria, portata avanti dai leader tribali, dalla gente che fa parte delle comunità locali ed è rispettata. Con l’HPC si spendono un mucchio di soldi senza alcun risultato.

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Si potrebbe spendere il 10% di quei soldi in modo molto più efficace, coinvolgendo i leader tribali, gli anziani dei villaggi, le persone rispettate dalla popolazione”, Baz Mohammad Abid, Radio Mashal, Jalalabad “Critico l’inefficacia del governo ma contesto anche la passività della gente, che rimane inerte, semplice spettatrice. Molti rimangono in attesa di vedere quel che succederà e quel che gli altri – prima i mujahedin, poi la comunità internazionale – possono far per loro. Al paese servirebbe un atteggiamento opposto”, Aziza Khairandish, West Coordinator CSHRN, Herat

“Sono convinto dell’utilità dei progetti basati sulle comunità locali, perché sono quelle che più vogliono la pace e che più hanno sofferto la guerra, perdendo vite umane e beni di necessità. Con la nostra organizzazione realizziamo progetti comunitari, e incoraggiamo la nascita di altri simili. Vogliamo costruire la pace al livello locale, senza immischiarci nelle faccende politiche nazionali. La gente ha voglia di pace, ma i politici e i leader usano strumentalmente alcune divisioni per i loro interessi. Enfatizzano le divisioni politiche ed etniche per calcoli elettorali e di potere. Prendono in giro la gente semplice. Se non ci fossero politici del genere, l’entusiasmo per la pace sarebbe perfino maggiore nel paese”, Abdul Khaliq Stanikzai, Regional Manager SDO, Herat “Per innescare un processo di riconciliazione, occorre rafforzare la società civile. Se la società civile è più forte, tutto è più semplice. Ma anche i partiti politici devono essere più attivi. É la società nel suo complesso che deve costruire la pace, non solo i politici”, Asadullah Larawi, Regional Officer CSDC, Jalalabad

“Con la nostra organizzazione negli ultimi tempi abbiamo fatto uno sforzo importante con gli ulema e i leader tribali per parlare di pace sociale. In trent’anni, la guerra è entrata dovunque, nella poesia, nella musica, nella letteratura, nel nostro modo di pensare e ragionare. Dobbiamo riuscire a portare la pace nelle famiglie, nelle comunità, nella società nel suo complesso”, Mohammed Saeed Niazi, direttore CSDC, Kabul “Molti continuano a credere che la pace sia una questione soltanto politica, di pertinenza del governo, che ne avrebbe il monopolio. Si tende a credere che parlare di pace significhi parlare con i Talebani. Non è così: parlare di pace all’interno delle comunità vuol dire incoraggiarle a essere attive. Noi lavoriamo sugli aspetti sociali della pace e non siamo coinvolti in alcun modo nella risoluzione del conflitto politico a livello generale, non direttamente. C’è però un contributo indiretto, perché abbiamo notato un legame tra i conflitti locali e quelli nazionali: quando un conflitto locale viene strumentalizzato e politicizzato, si espande facilmente. Per questo è importante lavorare a livello locale. Spesso le comunità locali sono ben disposte, vorrebbero contribuire alla pace, ma sono troppo occupate a sopravvivere e tendono all’accettazione dello status quo. Per questo occorre mobilitarle. Se vogliamo la pace e la riconciliazione, dobbiamo mobilitare le comunità locali. Ci sono stati casi in cui i membri di una comunità hanno impedito o fermato combattimenti”, Idrees Zaman, direttore CPAU

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“Gli stranieri dicono di essere qui per portare pace e stabilità. I Talebani invece dicono che fino a quando gli stranieri sono qui non ci sarà pace e stabilità. Io credo che debba essere la società afghana a farsi carico del problema”, Wahidullah Danish, CSDC, Jalalabad “Senza il sostegno e la fiducia della gente, nessuna leadership, per quanto capace, è in grado di ottenere la pace, che va costruita tra la gente”, Sima Samar, portavoce AIHRC, Kabul

“Noi lavoriamo per far crescere la consapevolezza che ognuno ha un compito, una responsabilità verso la comunità in cui vive o verso chi è più svantaggiato, come le famiglie povere. Crediamo molto nel recupero delle tradizione del volontariato e della collaborazione come antidoto alla guerra”, “Tasal”, membro Welfare Association, Jalalabad “Ci sono alcune attività condotte a livello locale che indirettamente contribuiscono alla pace. Quando le ragioni sotterranee di un conflitto vengono risolte, automaticamente c’è un miglioramento. I problemi che nascono all’interno di una comunità crescono pian piano. Prevenirli significa ridurne gli effetti potenziali. Noi vogliamo costruire la pace, ma non nel senso politico del termine. Crediamo di essere efficaci quando vediamo che le comunità diventano attive e consapevoli”, Asif Karimi, project coordinator TLO, Kabul

“La situazione attuale è complicata, soprattutto dal punto di vista sociale. Ci dobbiamo chiedere come attivare dei canali sociali che possano favorire la pace. Dopo trent’anni di conflitto, bisogna concentrare la nostra attenzione su percorsi praticabili dal basso, a livello comunitario, che costruiscano la pace. Se la gente vuole produrre cambiamenti veri e positivi, può farlo”, Naqibullah “Saqib”, preside Facoltà scienze politiche, Nangarhar University, Jalalabad “I gruppi antigovernativi sostengono di poter mediare nei conflitti comunitari. Questo determina uno spostamento dell’autorità dal governo ai gruppi antigovernativi. Quando le comunità sono in grado di risolvere da sé i vari problemi che sorgono, ciò automaticamente riduce lo spazio di legittimità per i Talebani. Non si tratta soltanto di mitigare i conflitti presenti, ma di ridurre anche i punti di accesso per un futuro conflitto politico”, esperta in risoluzione dei conflitti, Kabul

“Ogni pace futura dipende dal popolo afghano, gli afghani dovrebbero essere più partecipi, costruire la pace con le loro mani, se aspettiamo che la comunità internazionale, il governo afghano o i gruppi di insorti trovino una soluzione, sarà difficile avere pace in questo paese. Tocca a noi, alla società”, Farzana Asra, studentessa Balkh University, giornalista radio-tv locale, Mazar-e-Sharif “Non c’è stato mai il tentativo onesto di mettere insieme delle persone che avessero a cuore la costruzione di una nazione pacifica. A rappresentarci, è stata scelta la gente sbagliata. In seguito, ci sono stati problemi tra comunità e tribù diverse, e le divisioni sono aumentate. Ma per costruire un paese che sia unito, occorre che le divisioni vengano superate, ricomposte, che si dia un orizzonte comune e condiviso. Per questo, bisogna lavorare dal basso. D’altronde, la pace è come un frutto, deve avere il tempo di maturare, non nasce dal nulla, ma da un albero i cui rami

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rappresentano la giustizia, la sicurezza, la libertà. Senza uno di questi elementi, l’albero non è solido, e rischia di appassire. Questo vuol dire che senza libertà, sicurezza e giustizia non può esserci alcuna pace”, Taher Mufid, leader religioso, Mazar-e-Sharif

“La pace è un concetto molto ampio, che in genere viene inteso soltanto come assenza di guerra, io credo invece che significhi molte altre cose: cooperazione, collaborazione, capacità di vivere insieme. Investe ogni nucleo sociale, ogni aspetto della vita, da quello individuale a quello famigliare, passando per il vicinato, la società e il paese inteso nella sua totalità. In Afghanistan, dove si continua a combattere e dove a prevalere sono gli elementi conflittuali, la pace non c’è. Nel 2000 dicevamo che eravamo un paese nella fase di post-conflitto, ora diciamo che siamo un paese in guerra: abbiamo perso un’occasione importante”, Abdul Khaliq Stanikzai, Regional Manager SDO, Herat “Giustizia, libertà e sicurezza sono le tre componenti della pace”, Ali Jan Fahim, CSHRN, Bamiyan

“Sinceramente ho smesso di sapere cosa significhi pace. Forse non l’ho mai saputo. Quando apro gli occhi, da molti anni vedo sempre la stessa situazione. Per la maggior parte degli afghani, pace significa – semplicemente – non sentire più i rumori della guerra, non averne più paura. Altrove, negli Stati Uniti, in Europa, significa qualcosa di diverso: più welfare, istruzione, sanità, lavoro. Qui la intendiamo in modo più semplice, certo, ma anche più complicato”, Noorullah Mohsini, preside facoltà di Legge e Scienze politiche, Balkh University, Mazar-e-Sharif “La pace senza giustizia, la cosiddetta pace negativa, può durare per un certo periodo, ma se rimangono inalterate le ragioni strutturali, se la gente continua a lamentarsi, se c’è il sentimento diffuso di non vedere rispettati i propri diritti, allora la pace diventa insostenibile. Per questo dico che c’è bisogno di giustizia sociale, l’unica che affronti i problemi e la violenza strutturale della nostra società, quella violenza che priva la maggioranza della popolazione dei più elementari diritti”, Ikram Afzali, Head of Advocacy and Communication, Integrity Watch, Kabul

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3. LA GIUSTIZIA

Come abbiamo visto nel precedente capitolo, la maggior parte degli intervistati chiede che il

processo di pace sia trasparente e modellato sulle aspettative della popolazione. Allo stesso tempo,

coloro che hanno partecipato alla ricerca reclamano un doppio approccio al peace-building,

chiedendo che al processo di pace politico che mira alla gestione e all’interruzione del conflitto nel

breve periodo vada accompagnato un parallelo processo sociale che miri nel lungo periodo alla

ricostruzione delle relazioni e della fiducia tra le comunità locali. In questo capitolo cerchiamo di

approfondire la questione verificando se per gli intervistati affrontare le questioni relative alla

giustizia - i crimini passati e le ingiustizie presenti - possa favorire oppure ostacolare la costruzione

della pace, la stabilità nel lungo termine, la coesione sociale.

Coerentemente con il metodo adottato, volto a garantire agli interlocutori tutto lo spazio necessario

per articolare i loro punti di vista, anche in questo caso il significato dei termini “giustizia”,

“abuso”, “ingiustizia” non è stato definito in modo rigido, a priori. Si è lasciato piuttosto che

fossero i partecipanti alla ricerca a riempire di significato contenitori concettuali ampi e generici. In

questo capitolo analizziamo i diversi significati che gli intervistati attribuiscono ai termini

“giustizia”, “ingiustizia”, “crimine”; le percezioni sul modo in cui i crimini passati e presenti

influenzano l’attuale conflitto; il giudizio sul modo in cui sia il governo afghano che la comunità

internazionale hanno finora affrontato la questione dei crimini di guerra passati e dei conflitti

avvenuti tra le comunità afghane; i desideri, le richieste, le aspettative dei partecipanti sul modo più

efficace per affrontare l’eredità del passato. Alla base di tutti questi interrogativi, c’è una domanda

centrale: se il desiderio di ottenere pace sia considerato compatibile o meno con quello di ottenere

giustizia; se pace e giustizia siano obiettivi compatibili oppure no nell’attuale contesto.

Nel corso delle interviste abbiamo fatto riferimento esplicito al concetto di transitional justice,

chiedendo agli intervistati se l’applicazione dei processi di transitional justice possa favorire o meno

il rafforzamento e il recupero di una forte coesione sociale e la risoluzione del conflitto. Quello di transitional justice è un concetto molto ampio 71 che include e descrive tutte le iniziative – di natura

penale, simbolica, morale, sociale - legate ai tentativi che una società compie per fare i conti con

71 Secondo l’International Center for Transitional Justice, il concetto di transitional justice “si riferisce a un insieme di misure giudiziarie e non giudiziarie che sono state realizzate in diversi paesi al fine di porre rimedio alle eredità di abusi dei diritti umani su ampia scala. Tali misure includono i procedimenti giudiziari, le commissioni di verità, i programmi di riparazione e diversi tipi di riforme istituzionali”: http://ictj.org/about/transitional-justice. Per un’introduzione sintetica al concetto di transitional justice si veda What is Transitional Justice Factsheet, http://ictj.org/sites/default/files/ICTJ-Global-Transitional-Justice-2009-English.pdf. Per una disamina più completa si veda, Ruth Teitel, Transitional Justice, Oxford University Press, 2000. Si veda anche il paragrafo “Conceptualising transitional justice: Justice, forgiveness, peace and reconciliation” in E. Winterbotham, Healing the Legacies of Conflict in Afghanistan, op. cit. pp. 8-12.

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l’eredità di abusi compiuti in passato, per assicurare la trasparenza e l’accountability, garantire la

giustizia e ottenere la pace.

3.1 PACE E GIUSTIZIA

Tra i partecipanti alla ricerca si registra una comune percezione: i crimini di guerra passati, gli abusi

compiuti negli oltre trent’anni di guerra che l’Afghanistan ha attraversato hanno generato un

profondo senso di ingiustizia, un’eredità di sofferenze e di rancore che continua a condizionare il

presente, in termini politici, sociali, psicologici, culturali72. All’eredità dei conflitti passati viene

attribuita una centralità nel modellare i sentimenti, le opinioni, i giudizi sul conflitto attuale e nel

determinare le aspettative future.

Per la maggioranza degli intervistati, i crimini passati rappresentano un ostacolo fondamentale alla

risoluzione del conflitto. Tutti i partecipanti alla ricerca riconoscono implicitamente o

esplicitamente la necessità di fare i conti con il passato per affrontare il presente e immaginare il

futuro in termini non conflittuali73. I modi suggeriti per farlo sono però diversi, e appaiono

condizionati dall’area geografica in cui si vive, dalle esperienze personali e familiari, dall’intensità

emotiva e psicologica dei traumi passati e dal modo in cui vengono ricordati oggi.

Sebbene la pace sia la priorità assoluta, la maggioranza degli intervistati sostiene che, senza

giustizia, la pace sia priva di legittimità e dunque fragile. Vi è l’opinione che una pace ottenuta

sacrificando le richieste di giustizia della popolazione sia effimera, che possa essere facilmente

contestata e che posso perfino innescare nuovi conflitti, perché ad alimentare il conflitto è

l’ingiustizia, o la percezione di aver subito un’ingiustizia e di non aver strumenti per ottenere

giustizia.

72 Secondo i risultati della ricerca The Cost of War (p. 4), “un’intera generazione è cresciuta senza aver mai conosciuto la pace e molti afghani devono fare i conti con le conseguenze psicologiche, economiche, sociali e fisiche dei conflitti, passati e presenti”. Patricia Gossman e Sari Kouvo in Tell Us How This Ends scrivono che “il fardello del passato continua a ostacolare la transizione dell’Afghanistan verso la stabilità e la pace”. Secondo Ibrahimi e Winterbotham, “più di un decennio dopo la caduta del regime talebano, gli afghani ancora sentono l’impatto dei conflitti passati nel momento in cui cercano affrontare la fase più recente del conflitto. Quasi ognuno di quanti sono stati intervistati da Afghanistan Watch può ancora sentire l’impatto delle passate violazioni dei diritti umani”, in Caught Between Past and Present, op. cit. p. 24. Per un quadro delle passate violazioni dei diritti umani si veda il A Call for Justice. A National Consultation on past Human Rights Violations in Afghanistan, report pubblicato nel gennaio 2005 dall’Afghanistan Independent Human Rights Commission (AIHRC) e Casting Shadows: War Crimes and Crimes against Humanity: 1978-2001, dell’Afghanistan Justice Project (AJP). Entrambi disponibili on-line. 73 Per Barbara Stapleton, “per essere efficace, un processo di riconciliazione deve per prima cosa e soprattutto favorire qualche forma di riconoscimento dei crimini passati”, in Beating a Retreat, op. cit. pag. 33. Per Patricia Gossman, “come dimostrano gli ultimi anni di continue azioni militari, l’Afghanistan non uscirà dal conflitto senza fare i conti con la sua storia. Pace, stabilità e giustizia non sono obiettivi separati, ma inestricabilmente connessi”, Afghanistan: The Past as a Prologue. Leveraging the Coming Transition to Break the Cycle of Abuse in Afghanistan, ICTJ report, p. 3, maggio 2012.

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Ciò sembra rimandare ancora una volta a una concezione ampia di pace, considerata non soltanto

come l’assenza di combattimenti – la “pace negativa”74 – ma come assenza strutturale di violenza,

come rimozione degli ostacoli che impediscono la piena affermazione della giustizia, cioè la “pace

positiva”. Per la maggioranza degli intervistati, anche quello di giustizia è un concetto ampio. Per

una parte di loro, la giustizia è un concetto tanto ampio da includere anche la pace: la pace sarebbe

una derivazione della giustizia, una conseguenza della rimozione delle cause strutturali che

alimentano l’ingiustizia, mentre non sarebbe vero il contrario, perché può esserci pace senza

giustizia. A sostegno di tale tesi viene ricordato il periodo in cui a governare l’Afghanistan erano i

Talebani, che garantivano una relativa pace senza però che ci fosse alcuna forma di giustizia nel

paese.

In questo ambito è interessante notare che tra gli intervistati è diffusa un’interpretazione che

conferma e rafforza quella già registrata nel capitolo dedicato a “pace e riconciliazione”:

l’insistenza con cui una parte maggioritaria degli intervistati sottolinea la necessità di tenere insieme

pace e giustizia sembra rimandare infatti alla differenza tra “pace sociale” e “pace politica”. La pace

politica è una pace costruita a tavolino, dall’alto in basso, promossa dai politici, priva però di un

ancoramento sociale e, dunque, priva di giustizia. La pace sociale invece è quella che include anche

la giustizia, e che si fonda anzi sulla giustizia e sulla capacità di superare e ricomporre le fratture

esistenti tra le varie comunità e le divisioni del passato, affrontando l’eredità dei conflitti precedenti.

Per la maggioranza dei partecipanti alla ricerca la giustizia è intesa dunque in due sensi principali:

come un mezzo indispensabile per ottenere una pace duratura, solida perché capace di tenere conto

delle aspettative e delle richieste della popolazione; oppure come un fine in sé, da cui deriverebbe

inevitabilmente la pace, come esito derivato.

Tra quanti vedono nella giustizia uno strumento, un ponte che occorre necessariamente attraversare

per ottenere la pace, si registra l’uso frequente del termine giustizia in abbinamento a quello di

riconciliazione: la giustizia in questo caso viene intesa come condizione necessaria per la

riconciliazione e, di conseguenza, per la pace. La riconciliazione qui non viene interpretata come

riconciliazione politica, come costruzione di una piattaforma politica che tenga insieme gruppi

politici antagonisti e tra loro conflittuali, ma come ricostruzione di legami sociali forti, fondati sulla

reciprocità e sulla fiducia. La giustizia viene considerata un elemento centrale della riconciliazione

74 Sulla differenza tra pace positiva e negativa si rimanda ai celebri lavori di Johan Galtung, in particolare a Violence, Peace, and Peace Research, in “Journal of Peace Research” 6, no. 3 (1969), pp. 167–191, e ai volumi Peace and Social Structure. Essays in Peace Research, III, Christian Ejlers 1978 e Peace by Peaceful Means: Peace and Conflict, Development and Civilization, SAGE 1996. Si veda anche E. Winterbotham, Legacies of Conflict:, cit., p. 5 e seguenti.

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sociale, dunque della pace sociale, non della riconciliazione e della pace politica, che possono farne

a meno e che per questo sono considerati prodotti fragili e facilmente reversibili75.

Per sintetizzare, possiamo dire che per la maggioranza degli intervistati l’ingiustizia percepita o

reale è uno degli elementi che maggiormente contribuiscono ad alimentare il conflitto, insieme alla

mancanza di strumenti per dare voce alle proprie rivendicazioni. Per questo, molti sostengono che

ignorare le richieste di giustizia per i crimini passati e per gli abusi presenti indebolisca un

eventuale accordo di pace, incrementando le ragioni dell’insicurezza, del conflitto e della

violenza76. Molti sottolineano che la legittima aspirazione a una pace e all’interruzione immediata

del conflitto non deve far dimenticare le richieste di giustizia per i crimini passati. In questo senso,

pace e giustizia sono percepiti dalla maggioranza degli intervistati come concetti complementari,

non reciprocamente esclusivi o in contraddizione l’uno con l’altro77.

a) Lo scarto tra volontà e realismo

Nel secondo capitolo abbiamo registrato un’evidente distanza tra quanto gli intervistati auspicano in

relazione al negoziato di pace e quanto realisticamente si aspettano che possa accadere nei prossimi

mesi. Un simile scarto tra volontà e realismo lo registriamo anche nei desideri e nelle aspettative

nell’ambito della giustizia: una buona parte dei partecipanti alla ricerca ritiene che soddisfare le

richieste di giustizia sia uno strumento utile per costruire una pace più duratura, eppure nessuno

sembra aspettarsi che il governo afghano o la comunità internazionale possano davvero dare seguito

alle loro aspettative. Esiste dunque una forte discrepanza tra ciò che gli intervistati desiderano e ciò

che realisticamente si aspettano di ottenere nel breve periodo. Gli intervistati criticano la

subordinazione delle richieste di giustizia alla ricerca della “pace politica”, ma riconoscono

pragmaticamente che le loro aspettative sulla giustizia sono poco realistiche, considerate le attuali

dinamiche di potere. Le ragioni sono diverse.

b) La debolezza del governo

Secondo la maggioranza degli intervistati, quanti in passato si sono macchiati dei crimini più gravi

oggi detengono un potere (militare, politico, economico) troppo ampio perché possano essere

75 Su questo, si veda E. Winterbotham, Healing the Legacies of Conflict in Afghanistan. Community Voices on Justice, Peace and Reconciliation, AREU 2012, in particolare il paragrafo “Peace and Reconciliation in Afghanistan”. 76 Sul legame tra impunità e mobilitazione anti-governativa, si vedano, Emily Winterbotham, Healing the Legacies of Conflict in Afghanistan, op. cit; Thomas Ruttig, The Other Side, op. cit; Norah Niland, Impunity and Insurgency: a Deadly Combination in Afghanistan, International Review of the Red Cross, vol. 92, dicembre 2010. 77 I risultati della nostra ricerca confermano quelli di E. Winterbotham, la cui ricerca “ha dimostrato che i processi di giustizia, pace e riconciliazione sono interdipendenti e sovrapposti”, in Healing the Legacies of Conclict in Afghanistan (op. cit. p. 88). Secondo Ibrahimi e Winterbotham “durante il regime Karzai la tendenza è stata di perseguire la pace, la riconciliazione e la giustizia indipendentemente l’una dall’altra”, in Caught Between Past and Present, op. cit. p. 11.

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giudicati per le loro azioni78. Le richieste di giustizia della popolazione rimangono inevase perché

nessuno ha la volontà politica e le capacità di portare i cosiddetti “signori della guerra” di fronte a

un tribunale. Il governo viene considerato debole, corrotto, colluso o dipendente dal potere di quegli

stessi criminali che andrebbero giudicati per i loro misfatti79. Come vedremo più avanti, per molti

intervistati anche se il governo decidesse di soddisfare le richieste di giustizia della popolazione, il

discredito di cui gode rischierebbe di far naufragare tale tentativo, o di renderlo un fattore di

ulteriore destabilizzazione. Il potere giuridico è considerato subalterno a quello esecutivo. Il sistema

giudiziario del tutto inaffidabile e corrotto, oltre che controllato da coloro che dovrebbero essere

giudicati. La società civile è ritenuta ancora troppo fragile perché sia in grado di promuovere

un’azione incisiva che riesca a mobilitare la popolazione e a spingere il governo ad adottare misure

concrete per fare chiarezza sui crimini passati80.

c) Le responsabilità della comunità internazionale

Tra i partecipanti alla ricerca si registra un fortissimo scetticismo sulla reale volontà della comunità

internazionale di perseguire i crimini passati e di punire coloro che hanno commesso abusi o

continuano a commetterli. La comunità internazionale viene criticata per due ragioni principali: per

il completo disinteresse dimostrato in questo ambito e soprattutto per aver sostenuto

finanziariamente, militarmente e politicamente, in particolare nel periodo successivo al

rovesciamento del regime talebano, proprio quei personaggi a cui gli intervistati attribuiscono le

responsabilità più gravi nei conflitti passati e nelle ingiustizie presenti. Secondo questa lettura, la

comunità internazionale avrebbe preferito perseguire la stabilità nel breve periodo, sostenendo

leader politici e militari dal passato opaco, anziché promuovere un vero processo di riconciliazione

sociale che partisse dalle aspettative e dalle richieste di giustizia della popolazione. A distanza di

78 Per Ibrahimi e Winterbotham, “la Conferenza di Bonn del 2001 ha permesso ai presunti responsabili di alcuni dei peggiori crimini di ottenere di nuovo posizioni di potere, mentre venivano ignorate le cause strutturali o le conseguenze della guerra su milioni di vittime afghane. Ciò ha lasciato dietro di sé fattori sociali, politici ed economici irrisolti e ha creato una pace turbolenta senza giustizia”, in Caught Between Past and Present, op. cit. p. 10. Sull’eredità dei crimini passati si vedano anche Barnett Rubin, Transitional Justice and Human Rights in Afghanistan, in “International Affairs” 79, no. 3, 2003; Emily Winterbotham, Healing the Legacies of Conflict in Afghanistan, op. cit.; Patricia Gossman e Sari Kouvo, Tell Us How This Ends, op. cit. 79 Nel capitolo dedicato all’Afghanistan di Human Rights Watch World Report 2012, si legge che “il governo afghano continua a lasciare briglia sciolta a warlord ben conosciuti e a coloro che abusano dei diritti umani, così come a politici e uomini d’affari corrotti, in questo modo erodendo ulteriormente il sostegno popolare. Ed è stato fatto troppo poco per affrontare le continue torture e gli abusi nelle prigioni e le diffuse violazioni dei diritti delle donne”. 80 Per Barbara Stapleton, “aspettarsi che una società civile vulnerabile possa offrire l’impulso per le riforme politiche sarebbe ingenuo e irresponsabile”, in Beating a Retreat, op. cit. p. 34. Su limiti e potenzialità della società civile afghana rimandiano a G. Battiston, La società civile afghana, op. cit.; E. Winter, Civil Society Development in Afghanistan, London School of Economics and Political Science 2010; Kaja Borchgrevink, Kristian Berg Harpviken, Afghanistan: Civil Society Between Modernity and Tradition, in Thania Paffenholz (ed.), Civil Society & Peacebuilding, op. cit. pp. 253-258. Su limiti e potenzialità della società civile in contesti conflittuali, si veda Thania Paffenholz, Christoph Spurk, Civil Society, Civic Engagement, and Peacebuilding, op. cit.

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molti anni dal rovesciamento del regime talebano, i “signori della guerra” sarebbero molto più forti

rispetto a prima, proprio a causa del sostegno ricevuto dalla comunità internazionale81. Indeboliti

durante il regime talebano, questi personaggi avrebbe progressivamente riguadagnato potere

politico, militare ed economico grazie al sostegno internazionale. Oggi godrebbero di un potere che

gli intervistati percepiscono come assoluto, nel senso etimologico di ab-solutus, legibus solutus,

svincolato cioè da qualsiasi legge che non sia quella da loro stessi stabilita. Piuttosto che rispondere

alla legge, sarebbero loro a incarnare la legge. Come abbiamo visto nel primo capitolo, il fatto che

tali personaggi siano oggi in posizioni di potere anziché essere processati accresce il senso di

ingiustizia e di frustrazione. La responsabilità attribuita alla comunità internazionale genera

sentimenti di dura condanna e di scetticismo verso la reale volontà di introdurre in Afghanistan un

sistema democratico. Per gli intervistati, il sostegno garantito ai “signori della guerra” dimostra una

contraddizione evidente: gli esponenti della comunità internazionale da una parte enfatizzerebbero a

parole l’importanza dei principi democratici, della legalità, dello stato di diritto, dall’altra

negherebbero nella pratica tali principi, sostenendo i criminali o quantomeno chiudendo un occhio

sui loro crimini passati.

3.2 TRANSITIONAL JUSTICE: UN’OCCASIONE MANCATA

É prevalente l’opinione che l’Afghanistan abbia perso una grande occasione per liberarsi di quei

personaggi che hanno “sequestrato” le istituzioni per fini personali. Tali personaggi impediscono

l’affermazione dello stato di diritto, preferendo il diritto del più forte, cioè il loro, sostengono molti

intervistati. L’opinione più diffusa è che subito dopo il rovesciamento del regime talebano vi fosse

lo spazio politico necessario e le condizioni giuste per attuare un piano di transitional justice82. La

81 Sull’impunità, si veda Afghanistan Justice Project, Casting Shadows, op. cit.; Human Rights Watch, Blood-Stained Hands Past Atrocities in Kabul and Afghanistan’s Legacy of Impunity; sui legami tra giustizia e impunità Rama Mani, Ending Impunity and Building Justice in Afghanistan, AREU 2003. 82 Nel 2005, il cabinetto del presidente Karzai e la comunità internazionale hanno adottato il National Action Plan for Peace, Reconciliation and Justice in Afghanistan, che poneva la transitional justice al centro dell’agenda politica. L’Action Plan, che esplicitamente rifiutava l’ipotesi dell’amnistia per i crimini passati, prevedeva cinque attività principali: misure simboliche; riforme istituzionali; ricerca della verità; riconciliazione; misure per l’accountability. In Caught Between Past and Present (op. cit. p. 10), Ibrahimi e Winterbotham scrivono che, “ad oggi, a parte la creazione del Presidential Special Advisory Board for Senior Appointments (2007) e l’istituzione di una giornata nazionale per le vittime (2006), l’Action Plan è stato largamente disatteso”, a dispetto dell’impegno assunto nel National Priority Program on Human Rights and Civic Responsibilities a riprendere e realizzare l’Action Plan. Sul tentativo di applicare la transitional justice in Afghanistan e sulle ragioni del suo insuccesso si vedano Sari Kouvo, A Plan Without Action. The Afghan Government’s Plan for Peace, Justice and Reconciliation, op. cit.; Patricia Gossman e Sari Kouvo, Tell Us How This Ends. Transitional Justice and Prospects for Peace in Afghanistan, op. cit.; E. Winterbotham, Healing the Legacies of Conflict in Afghanistan, op. cit. Ricordiamo inoltre che nel febbraio 2009, un network di circa 26 organizzazioni della società civile ha istituito in Afghanistan il Transitional Justice Coordination Group (TJCG, http://tjcgafghanistan.wordpress.com/about/).

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ricerca della stabilità a breve termine83 da parte della comunità internazionale lo avrebbe impedito.

Subordinato a più prosaici obiettivi, oggi il piano di transitional justice viene percepito come utile in

linea di principio per fare chiarezza sul passato; accertare la verità storica; individuare le

responsabilità penali e morali di quanti hanno commesso crimini; mettere a punto i meccanismi con

cui fare definitivamente i conti con il passato. Anche in quest’ambito però il pragmatismo e il senso

di realtà sembrano prevalere sugli ideali e sui desideri. Considerate le dinamiche di potere interne,

la diffusione della cultura dell’impunità nel paese e la scarsa volontà della comunità internazionale

di affrontare la questione, il piano di transitional justice viene perlopiù considerato irrealizzabile.

Per qualcuno, oltre che irrealizzabile rischia di essere controproducente. Le ragioni sono molteplici:

innanzitutto vi è il timore diffuso che potrebbe rendere ancora più instabile il governo. Secondo i

partecipanti alla ricerca, transitional justice vuol dire innanzitutto trovare gli strumenti per ristabilire

la fiducia tra la popolazione e tra le varie comunità. Per farlo, occorre un attore che goda della

fiducia generale. L’attuale governo è considerato inadeguato perché debole, corrotto, privo di

legittimità e di consenso. Se il piano di transitional justice venisse gestito da un governo considerato

illegittimo, rischierebbe di alimentare nuovi conflitti o di esacerbare quelli già esistenti, minando

ulteriormente la già fragile stabilità del governo. É significativo notare come una parte degli

intervistati sostenga una tesi del tutto diversa: il governo appare illegittimo agli occhi della

popolazione proprio perché ne ignora completamente le richieste di giustizia; se decidesse di attuare

il piano di transitional justice otterrebbe una maggiore legittimità perché dimostrerebbe di prendersi

cura e di avere a cuore le richieste e le sofferenze della popolazione. Secondo questa lettura,

attraverso il piano di transitional justice il governo potrebbe diminuire la distanza che lo divide

dalla popolazione84.

3.3 MEMORIA, AMNISTIA E IL DIRITTO DELLE VITTIME

Sulla questione dei tempi più adatti per affrontare i crimini passati e soddisfare le richieste di

giustizia si registra una differenza di vedute tra gli intervistati. Come abbiamo visto nella prima

parte del capitolo, tra di loro c’è una percentuale maggioritaria che riconosce un legame ineludibile

83 Theros e Kaldor scrivono che “l’attenzione sul contro-terrorismo e sulla sicurezza militare hanno fatto risorgere vecchi network militari e riabilitato warlord finiti in disgrazia facendone degli uomini di stato, senza che venisse verificato il sostegno di cui godevano tra la popolazione”, in Building Afghan Peace from the Ground Up, p. 21. Per Bator Beg e Ali Payam, “nel caso afghano i principali architetti e attori che hanno dominato il processo di transizione hanno subordinato la questione dell’accountability e della giustizia agli imperativi della stabilità politica e della pace tra i vari gruppi”, in Charting a Course for Sustainable Peace, op. cit. p. 8. 84 Per Ibrahimi e Winterbotham, “il fallimento nell’affrontare la questione dell’impunità a partire dalla caduta dei Talebani ha indebolito agli occhi di molta gente la legittimità del governo afghano e dei suoi partner internazionali”, in Caught Between Past and Present, op. cit. p. 29. Theros e Kaldor scrivono che “per migliorare le loro rivendicazioni di legittimità, il governo Karzai e gli internazionali dovrebbero favorire una maggiore responsività e trasparenza nei confronti della più ampia popolazione”, in Building Afghan Peace from the Ground Up, op. cit. p. 41

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tra pace e giustizia. Ciò significa che pace e giustizia devono essere perseguite contestualmente, già

da ora, anche se con metodi diversi. Tra quanti sostengono in linea di principio l’utilità della

transitional justice ma la considerano irrealizzabile nel contesto attuale, si registra la tendenza a

considerare i tempi non ancora maturi. Qualcuno sostiene che sarà possibile e proficuo attuare il

piano di transitional justice soltanto quando in Afghanistan ci sarà un governo legittimo, sostenuto

da tutta la popolazione. Altri ritengono che questo capitolo potrà essere affrontato solo quando il

conflitto sarà terminato e la sicurezza garantita sull’intero territorio nazionale. Vi è infatti la

preoccupazione che, se realizzato nei tempi sbagliati, il piano di transitional justice possa favorire

l’instabilità e l’insicurezza. Tra gli intervistati c’è infine chi sostiene che la transitional justice,

intesa come una serie di iniziative volte ad affrontare l’eredità dei conflitti passati, sia perfino

controproducente. L’Afghanistan dovrebbe guardare al presente e pensare al futuro: affrontare il

passato renderebbe più complicato ricostruire il paese su nuove basi e nuovi valori85. Anche in

questo caso, le ragioni addotte sono diverse, ma animate da un evidente pragmatismo: coloro che

sostengono questa ipotesi partono dalla constatazione che quella afghana sia una società divisa,

attraversata da fratture interne molto forti, un corpo sociale in cui le ferite del passato non sono

ancora rimarginate. Riaprire la discussione sul passato non farebbe altro che alimentare il rancore

reciproco e rendere ancora più dolorose quelle ferite. Al contrario, dimenticare il passato, voltare

completamente pagina favorirebbe l’impegno comune per la costruzione del futuro. Tale

interpretazione si basa su due altre considerazioni: la prima è l’idea che in Afghanistan siano stati

compiuti troppi crimini, troppi abusi dei diritti umani, e che le responsabilità siano così diffuse da

rendere praticamente impossibile distinguere le vittime dai colpevoli; la seconda è l’idea che

l’accertamento della verità sui fatti della storia recente sia destinato a produrre ulteriori divisioni.

Molti ricordano infatti che alcuni personaggi che per una certa comunità sono eroi, per un’altra

comunità sono invece dei criminali. Trovare il modo per rendere compatibili le due prospettive è

considerato del tutto irrealistico. Sarebbe dunque preferibile mettere un punto sul passato e pensare

al futuro. Notiamo che anche in questo caso la motivazione per “voltare pagina” non dipende da

considerazioni egoistiche o personali, ma dalla ricerca di quello che viene presentato come il “bene

comune”: sarebbe il paese nel suo complesso a beneficiare dell’archiviazione dei crimini passati.

Per una parte minoritaria degli intervistati, l’amnistia86 rappresenta un passo necessario per

chiudere simbolicamente con il passato e aprire una nuova pagina nella storia afghana.

85 Nella citata ricerca The Cost of War (pp. 27-28), si registra che “nonostante la principale preoccupazione tra gli individui consultati fosse di impedire ai criminali di far parte del governo, c’era un forte desiderio di tracciare una linea sulla violenza dei tre decenni passati e guardare avanti”. 86 La “National Reconciliation, General Amnesty and National Stability Law” è stata adottata dall’Assemblea nazionale afghana nel 2007 ed è entrata in vigore dopo essere stata pubblicata sulla Gazzetta nel dicembre 2008. Garantisce l’amnistia a tutti i soggetti attualmente o precedentemente coinvolti nelle guerre condotte sul territorio afghano. Come

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La maggior parte degli intervistati - quelli che riconoscono la necessità di combinare pace e

giustizia, di ancorare la pace al soddisfacimento delle richieste di giustizia - condanna invece la

scelta del governo di promulgare la legge di amnistia87. L’idea sottostante è che il passato può

essere realmente archiviato soltanto dopo un rigoroso accertamenti dei fatti e delle responsabilità

passate e in seguito a un’adeguata soddisfazione delle richieste di giustizia della popolazione.

L’amnistia contraddice sostanzialmente l’accertamento dei fatti, conferma la politica di negazione e

la mancanza di volontà sia del governo che della comunità internazionale, priva la popolazione del

diritto di conoscere la verità e di ottenere giustizia. Per i sostenitori di questa tesi, ogni vera

riconciliazione passa per il riconoscimento pubblico della verità storica, senza il quale potrà darsi

un semplice accordo politico che miri all’interruzione momentanea del conflitto, non una vera e

propria pace destinata a durare nel tempo. La conoscenza, il riconoscimento pubblico di quanto

avvenuto in passato sono dunque considerati condizioni indispensabili per la riconciliazione sociale.

Questa lettura si basa su due ulteriori elementi: l’idea che le sofferenze passate, che tante divisioni

hanno provocato nel paese, possano diventare un tratto unificante, un elemento che accomuna le

diverse comunità, anziché un motivo di conflitto; l’idea che sia possibile distinguere tra i leader

politici e militari a cui imputare le maggiori responsabilità del conflitto e la popolazione, che di quei

leader sarebbe stata soprattutto vittima.

É significativo sottolineare che tra quanti contestano l’amnistia si nota una forte tendenza a negare

al governo il diritto di poter decidere per conto della popolazione su una materia così delicata. Vi è

la diffusa percezione che la questione delle ingiustizie passate sia centrale per il futuro del paese, e

che le opinioni al riguardo siano molto diverse, differenti da persona a persona e da zona a zona. Da

qui, deriva una distinzione ritenuta fondamentale tra le scelte individuali, che possono prevedere

anche il perdono o l’oblio, e le scelte collettive: i singoli individui possono anche decidere di

dimenticare le sofferenze patite per favorire una riconciliazione politica e sociale ma il governo non

ha il diritto di farlo al posto loro. L’amnistia viene considerata un indebito sconfinamento del

governo in un ambito in cui a contare sono le scelte individuali.

Alla base di tale posizione, vi è l’idea che siano le vittime, ed eventualmente i loro parenti, gli unici

titolari del diritto di decidere se perdonare o dimenticare il passato o se, al contrario, chiedere

ricordano Ibrahimi e Winterbotham, alcune “disposizioni per l’amnistia sono contenute anche nell’attuale programma per la pace e la riconciliazione, l’Afghanistan Peace and Reintegration Program (APRP), che non chiarisce gli obblighi dell’Afghanistan nei riguardi del diritto internazionale e introduce senza definirlo il concetto di amnistia politica”, in Caught Between Past and Present, op. cit. p. 11. Patricia Gossman e Sari Kouvo ricordano invece che la legge di amnistia “è stata interpretata come garante dell’amnistia non solo per i crimini che sono stati commessi, ma potenzialmente per crimini futuri”, in Tell Us How This Ends, op. cit. p. 30. 87 Un risultato simile emerge dalla ricerca di Theros e Kaldor: “pochi afghani appoggiano l’amnistia per coloro che hanno commesso i peggiori crimini; infatti, molti pensano che l’assenza di giustizia abbia favorito la violenza”, in Building Afghan Peace from the Ground Up, op. cit. p. 30.

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l’accertamento della verità e la punizione dei responsabili88. Il governo non ha tale diritto,

tantomeno un governo considerato illegittimo come quello attuale89. Soltanto le vittime o i loro

parenti avrebbero il diritto di decidere chi perdonare, come e quando farlo, cosa perdonare e cosa

no. Si registra inoltre una tendenza a considerare l’accertamento della verità come una via

privilegiata per restituire dignità alle vittime, per soddisfare il bisogno di risposte della popolazione

e per accrescere la legittimità del governo. La consapevolezza che su tali questioni le percezioni e le

aspettative siano molto diverse porta a favorire la soluzione di un referendum popolare che possa

raccogliere le diverse opinioni.

3.4 I METODI PER “FARE GIUSTIZIA”

Nell’ambito dei metodi suggeriti per affrontare i crimini e gli abusi passati, i risultati della ricerca

confermano significativamente quelli già emersi da altri studi realizzati sullo stesso argomento, in

particolare le ricerche condotte dall’Afghanistan Research and Evaluation Unit coordinate dalla

ricercatrice Emily Wintherbotham90: non vi è un solo metodo che sia considerato efficace per

affrontare l’eredità delle violazioni dei diritti umani o i crimini di guerra compiuti in passato. Tra i

partecipanti alla ricerca, una percentuale maggioritaria ritiene comunque che il metodo migliore sia

quello di perseguire penalmente i responsabili, o coloro che sono ritenuti tali. La giustizia penale, i

processi, le corti di giustizia sono gli strumenti di giustizia sostenuti con più convinzione e

menzionati più di frequente91. Si ritiene che le violazioni dei diritti umani e i crimini compiuti siano

di tale rilevanza da meritare una punizione esemplare, e che perseguirli penalmente corrisponda a

una sorta di obbligo morale. La giustizia penale viene sostenuta anche perché implica

l’accertamento dei fatti, rispondendo adeguatamente al bisogno di chiarezza e verità della

popolazione. Accertare le responsabilità penali è ritenuto uno strumento per combattere la cultura

dell’impunità, per accrescere la legittimità del governo e per impedire che i crimini vengano

commessi di nuovo. Se la cultura dell’impunità favorisce la reiterazione dei reati e aumenta il senso

di ingiustizia, perché diffonde l’idea che i potenti siano immuni dalla legge e che i cittadini non

abbiano strumenti per veder riconosciuti i propri diritti, la giustizia penale viene ritenuta un antidoto

88 Si veda anche Sari Kouvo e Dallas Mazoori, Reconciliation, Justice and Mobilization of War Victims in Afghanistan, in “The International Journal of Transitional Justice”, vol. 5, 2011, pp. 492-503. 89 In modo simile a quanto emerge dalla nostra ricerca, Ibrahimi e Winterbotham scrivono che “molti tra gli intervistati credono che nel caso di crimini gravi il governo non abbia il ‘diritto’ di perdonare il sangue versato della gente”, in Caught Between Past and Present, op. cit. p. 25.90 Si veda Emily Winterbotham, Healing the Legacies of Conflict in Afghanistan, op. cit. In particolare, il paragrafo “Different Models to Address Afghanistan’s Past and Present Conflicts”. 91 Sulle ragioni della preferenza per i procedimenti penali, Ibrahimi e Winterbotham scrivono che “in parte può derivare dalla mancanza di familiarità con meccanismi diversi, ma è chiaro che per molti risulta insoddisfacente una strategia di transitional justice che non comprenda una componente di giustizia penale”, in Caught Between Past and Present, op. cit. p. 24.

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efficace alla ripetizione dei crimini passati, una garanzia che verranno commessi con minore facilità

e, insieme, uno strumento per soddisfare le aspettative dei cittadini. La consapevolezza della

difficoltà di portare davanti a una corte di giustizia coloro che ora ricoprono posizioni di potere

suggerisce agli intervistati una soluzione ulteriore: la rimozione dagli incarichi governativi o

istituzionali. Tale misura viene considerata meno efficace nell’impedire abusi futuri, moralmente

meno soddisfacente ma più facilmente praticabile nel contesto odierno. Appare dunque una

“seconda scelta”, legata a considerazioni di ordine pragmatico.

Tra gli intervistati è diffusa anche l’idea che alcuni atti simbolici possano avere un’efficacia

“terapeutica”, nel lenire le sofferenze delle vittime o dei loro familiari, nel restituire una certa

fiducia nella giustizia e nel rimarginare le ferite passate. L’ammissione pubblica delle proprie colpe

da parte dei responsabili di crimini meno gravi, così come le scuse ai familiari delle vittime sono

considerati strumenti utili a favorire la riconciliazione nazionale. L’insistenza con cui gli intervistati

sottolineano la necessità che tali atti avvengano pubblicamente in molti casi è legata alla percezione

che il governo afghano e la comunità internazionale vogliano nascondere sotto il tappeto92 i crimini

passati: garantire il carattere pubblico di tali atti e la diffusione delle informazioni sui crimini è

considerato un passo indispensabile per rispondere alla richiesta di giustizia e verità della

popolazione. Tra gli intervistati, prevale l’idea che le vittime e i loro familiari siano mossi dal forte

desiderio di veder riconosciute le proprie sofferenze. Ricevere scuse pubbliche potrebbe soddisfare

tale riconoscimento.

Per altri invece perfino le scuse pubbliche nei confronti delle vittime e l’ammissione di

responsabilità da parte di coloro che hanno commesso crimini non riuscirebbero a soddisfare le

aspettative della popolazione. Secondo questa lettura, specie nelle aree rurali molte famiglie

aspetterebbero soltanto il momento più adatto per poter vendicare la morte o la sofferenza di un

proprio caro. Da qui, discende l’idea che tutti gli strumenti di giustizia sono inefficaci, se non si

accompagnano alla diffusione di una cultura della giustizia e della legalità che renda i crimini

passati moralmente sbagliati tanto quanto la vendetta.

92 Scrive Sari Kouvo che “finora la strategia favorita sia dal governo afghano sia dalla comunità internazionale per affrontare le eredità delle violazioni passate e presenti dei diritti umani e dei crimini di guerra in Afghanistan è stata di nasconderli sotto al tappeto”, in A Plan Without Action, op. cit. p. 1.

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TESTIMONIANZE 3. LA GIUSTIZIA

Testimonianze 3.1: Pace e giustizia

“Non c’è pace senza giustizia. Lo ha ripetuto anche Desmond Tutu, il quale ha sottolineato che in Sudafrica si è raggiunta la pace, che però rimane fragile perché non è ancorata alla giustizia. Qui in Afghanistan il 90% della popolazione si considera vittima della guerra, ha subito abusi, ha sofferto atrocità, direttamente o meno. Come possiamo arrivare alla pace senza tener conto di questo dramma? Se la giustizia viene sacrificata a un semplice cessate il fuoco, non si tratta di una vera pace, sarà piuttosto una pace fragile, molto fragile”, Aziz Rafiee, direttore ACSF, Kabul

“Condivido lo slogan che dice ‘non c’è pace senza giustizia’. Sono due elementi intrinsecamente legati l’uno all’altro. Non sono in contraddizione, come molti pensano. La guerra è come una malattia, un’epidemia, che bisogna affrontare individuandone le cause: la più importante, è la mancanza di giustizia. Da qui, il legame tra pace e giustizia. La prima cosa che serve per ottenere pace sono dei meccanismi trasparenti e seri per rendere efficace e dare concretezza alla legge. In Afghanistan esiste un sistema giuridico, ci sono delle leggi, ma non vengono applicate, e se vengono applicate sono usate da chi ha potere. Se in passato un membro della mia famiglia ha subito un abuso, se è stato torturato o rischia di esserlo e nessuno fa niente, come potrà esserci pace? Ecco perché serve la giustizia, che garantisce che i crimini passati siano puniti e quelli futuri impediti”, Abdul Qader Rahimi, regional program manager AIHRC, Herat “La pace è giustizia e viceversa. Non più darsi pace senza giustizia né uguaglianza senza pace. Ma i crimini del passato vanno affrontati in modi diversi. Quelli più recenti, da uno a cinque anni a questa parte, vanno affrontati subito, e coloro che li hanno compiuti vanno processati. Quanto a quelli realizzati più di dieci anni fa, è difficile ora ricondurli in un ambito giudiziario. Credo che i criminali in questo caso debbano essere portati a riconoscere pubblicamente le loro colpe. Sarà la popolazione a giudicare. Anche le misure simboliche infatti hanno il loro valore. Se i signori della guerra che oggi siedono nel gabinetto o al parlamento insistono nel dire che hanno compiuto azioni giuste ed eroiche, il popolo afghano non lo accetterà, se invece ammettono i loro sbagli o dimostrano di essere cambiati, potremmo farlo. Ma le parole devono corrispondere ai comportamenti”, Habiba Sorabi, governatrice provincia di Bamiyan

“La cosa principale è la giustizia. La comunità internazionale dovrebbe combattere chi ruba le terre, chi ha commesso crimini, organizzare delle corti speciali, impedire ai criminali di fare ciò che vogliono, dare giustizia alle vittime. Se la comunità internazionale non si concentra su questi aspetti, la situazione peggiorerà senz’altro, e ancora una volta ci saranno dei conflitti interni”, Nurrahmad Nurrani, direttore Youth Federation, Jalalabad “La pace senza giustizia non è vera pace e non è stabile. La giustizia è più importante della pace, perché la comprende”, Ismail Zaki, regional coordinator CSHRN, Bamiyan

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“La giustizia è necessaria per ottenere la pace. É come nel rapporto tra la temperatura interna di una casa e l’esterno. Ci deve essere equilibrio, perché l’aria possa passare liberamente”, Sadek Alior, politico, Bamiyan “Pace e giustizia sono due facce della stessa medaglia. Per avere una pace vera e duratura ci deve essere giustizia, e coloro che hanno compiuto abusi devono essere processati. Per ottenere pace bisogna tenere in considerazione anche la ricerca di giustizia. Per questo, c’è bisogno di un vero piano di riconciliazione nazionale, che passi attraverso un piano per la giustizia. So che è difficile nella situazione attuale affrontare il tema della responsabilità criminale dei leader, ma senza giustizia sarà ancora più difficile trovare la pace. Forse dovremmo prima risolvere i nostri problemi a livello regionale, così che poi la soluzione nazionale sia più facile da trovare”, Abdul Khaliq Stanikzai, Regional Manager SDO, Herat

“Se sacrifichiamo la giustizia per la pace, non otteniamo niente, perché l’ingiustizia alimenta guerra e conflitti. Giustizia vuol dire che tutti devono poter vedere garantiti i propri diritti, giustizia vuol dire uguaglianza”, Said Hussein Sha Hussainy, assisting in monitoring and investigating unit -AIHRC, Bamiyan “Bisogna puntare a una combinazione tra pace e giustizia, perché la pace da sola non può durare; lo dimostra il periodo dei Talebani, quando in Afghanistan si può dire che ci fosse pace e sicurezza ma non c’era alcuna forma di giustizia, nessun accesso ai diritti fondamentali, niente di tutto questo. La pace va coniugata con la giustizia, altrimenti è soltanto mancanza di combattimento”, Soraya Pakzad, direttrice AWA, Herat

“Quelli che dicono che dobbiamo chiudere con il passato sono coinvolti negli abusi e nei crimini. Il sondaggio A Call for Justice dell’AIHRC dimostra che la popolazione vuole giustizia. Senza giustizia non può esserci pace duratura. L’amnistia ha cancellato il passato, ma il passato non può essere rimosso. Non è mai troppo tardi per affrontarlo”, Ali Wardak, Center for Criminology, University of Glamorgan “Quando penso al rapporto tra pace e giustizia mi torna in mente quel modo di dire che dice: ‘viene prima l’uovo o la gallina?’. La giustizia viene prima o dopo la pace? Sono elementi collegati tra di loro. Se non c’è giustizia, è impossibile che ci sia pace. Sfortunatamente in Afghanistan è stato deciso di sacrificare la giustizia per una presunta pace. Su questo, la responsabilità maggiore è della comunità internazionale. Sia da parte del governo che della comunità internazionale manca la volontà politica di coniugare pace e giustizia”, Mohammed Saeed Niazi, direttore CSDC, Kabul

“Avremo la pace quando ci sarà giustizia e uguaglianza. Il problema di questo paese è che in passato abbiamo avuto la pace senza giustizia. La conquista dello stato di diritto, l’affermazione dei principi di legalità e uguaglianza porterà con sé la pace. La legge dovrebbe essere l’elemento principale della vita del paese”, Aziza Khairandish, West Coordinator CSHRN, Herat

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“Le cause della violenza stanno nell’ingiustizia. Se oggi commetto un crimine e nessuno mi ferma, come posso pensare di accusare qualcuno per i crimini passati? Anche in questi 11 anni sono stati commessi molti crimini, ma molti di quelli che li hanno compiuti sono al potere, in posizioni chiave. Sappiamo tutti chi sono, ma come portarli davanti alla giustizia?”, Raz Mohammad Dalili, direttore, SDO, Kabul

“Perdonare è illegale, oltre che contrario alla volontà della popolazione. I crimini devono essere puniti, altrimenti non c’è futuro. Se il governo decide di perdonare i criminali, cosa ne penseranno le vittime, i loro familiari? Cosa decideranno di fare? Decideranno di combattere il governo, si ribelleranno. La giustizia potrà arrivare in questo paese quando avremo un presidente che sia veramente sostenuto dalle comunità afghane, dalla popolazione. Ci deve essere un presidente amato da tutti, rispettato, un buon musulmano, che ami la nazione e dimostri di amarla. Solo allora i comandanti potranno essere allontanati dalle posizioni di potere e portati davanti a una corte”, Mohammed Anwar Sultani, elder, già docente universitario, Jalalabad

“La maggior parte della gente desidera che chi ha commesso crimini o abusi riconosca le sue colpe, chieda scusa e sia allontanato dai posti di governo. All’inizio del governo Karzai era possibile lavorare su questo obiettivo, ma non è stato fatto. Vedo difficile che si possa fare in futuro. I criminali sono ancora più potenti di prima, e quelli che hanno subito abusi non hanno mezzi per rivendicare giustizia”, Gholam Hussein, responsabile Shohada, Bamiyan “Fino a quando il piano di transitional justice non sarà realizzato, non potrà esserci una pace duratura né un sistema realmente stabile. Il guaio è che oggi i criminali hanno posizioni di rilievo nel governo e nelle istituzioni e che la gente non sa cosa significhi transitional justice. Manca la consapevolezza. C’è bisogno di più tempo perché possa realizzarsi. Dall’altro lato, anche la comunità internazionale non ha sufficiente volontà politica per portare a termine questo processo”, Naim Nazari, executive coordinator CSHRN, Kabul

“In questo paese non c’è pace perché i criminali occupano posizioni di rilievo nel governo e nel parlamento, oppure sono alti ufficiali. Nessuno è in grado di costringerli ad andare davanti a un giudice per rispondere dei crimini passati. Per ora, non c’è modo che possano essere giudicati, e temo che neanche in futuro possa accadere. Per due ragioni principali: sono ricchi, dispongono di capitali e potere. E poi perché hanno a disposizione veri e propri eserciti. Inoltre, anche la comunità internazionale è stata disonesta, altrimenti non avrebbe permesso a gente come Khalili, Sayyaf o Fahim di avere posizioni così alte. L’AIHRC ha dimostrato che queste persone hanno commesso crimini, ma il governo continua a presentarli come i ‘nostri muhajedin’, come coloro che combattono o perlomeno hanno combattuto per l’Islam. Chi ha commesso più crimini viene ripagato con posizioni governative o con il sostegno del governo. E dispone di eserciti irregolari. Quando non gli si accordano posizioni di potere, promettono o minacciano di riprendere a combattere. Oggi al governo ci sono gangster e criminali, alcuni dei quali hanno il sostegno degli stranieri”, Baz Mohammad Abid, Radio Mashaal, Jalalabad

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“É ancora tutto sulla carta, nessuno si è impegnato a trasformare la transitional justice in un piano concreto. D’altronde, come potrebbe essere altrimenti? Karzai ne sarebbe coinvolto, o almeno i suoi familiari, così come il vice-presidente”, rappresentante Aga Khan Foundation, Bamiyan

“Ora non dovremmo parlare né affrontare la questione degli abusi e dei crimini passati. I criminali o i loro sostenitori sono al governo, hanno il potere. Basta pensare che non si può dire che Masoud sia stato un criminale, né qui a Bamiyan dire che lo sia stato Mazari, e altrove non si può dirlo di Fahim o di Hekmatyar. Credo che dovremmo puntare all’unità nazionale, perlomeno all’inizio, anche a livello simbolico. Si potrà parlare di una corte speciale, nazionale o internazionale, solo più avanti, quando ci saranno istituzioni funzionanti e solide, quando ci sarà pace e stabilità, quando ci sarà sicurezza per tutti e un governo centrale forte e accettato dalla maggior parte della popolazione”, Amir Sharif, lettore in Sociologia, Università di Bamiyan “I criminali devono essere portati davanti a una corte di giustizia. Ma la vera domanda è: chi li giudicherà, chi applicherà la legge? Quelli che dovrebbero giudicarli sono a loro volta dei criminali. In ogni caso, sono contrario all’amnistia, che non fa altro che dare carta bianca a tutti per commettere nuovi crimini, prima che il paese sia in grado di fare i conti con quelli passati. Oggi è impossibile giudicare i colpevoli, portarli davanti a una corte. La comunità internazionale dovrebbe cercare di favorire questo processo, organizzare una corte speciale come quella dell’Aja o un processo simile a quello per il figlio di Gheddafi. Il guaio è che gli stranieri sembrano sostenere quei criminali che dovrebbero processare”, content manager Radio Killid, Jalalabad

“Per l’affermazione dello stato di diritto sono stati spesi miliardi di dollari. Il risultato? Qui lo stato di diritto viene inteso come il diritto dei più forti a essere sopra la legge. Nella sua essenza, stato di diritto significa invece che ci sono dei limiti ai quali devono sottostare anche le autorità governative e parlamentari. Occorre una riforma di tutti gli apparati istituzionali, del sistema giudiziario, della polizia, delle corti di giustizia, e via dicendo. In poche parole, dobbiamo garantire la giustizia. Come possiamo pretendere che i cittadini seguano la Costituzione se i leader politici la calpestano?”, Noorullah Mohsini, preside facoltà Legge e Scienze politiche, Balkh University, Mazar-e-Sharif “In tutti questi anni, qualcuno ha dimenticato gli omicidi e gli abusi subiti in passato, ma altri no, e vogliono che la verità venga conosciuta, che si sappia chi ha ucciso il figlio, il marito, il padre, il familiare. Non credo che sia possibile avere pace senza giustizia. Sono convinto che sia il governo afghano che la comunità internazionale debbano svolgere delle indagini, appurare la verità, arrestare i colpevoli degli abusi passati e portarli davanti a un tribunale. Mi chiedo però quali saranno i tempi della giustizia. La gente ha bisogno di risposte: perché hanno ucciso mio fratello o mio padre? Dieci anni fa era il momento giusto per portare avanti questo discorso, si doveva cominciare allora. Ma allora né il governo afghano né la comunità internazionale volevano fare una cosa del genere. Se lo avessero saputo, nessuno di quei criminali avrebbe oggi una posizione così importante. Se avessimo cominciato allora, avremmo goduto oggi dei benefici. Se cominciamo domani, i benefici li otterremo solo in un lontano futuro”, Azim Resalat, Radio Killid, Mazar-e-Sharif

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“Se si decide di soprassedere agli errori passati, bisogna essere sicuri che non si ripetano. In Afghanistan c’è stata una guerra civile e dobbiamo pensare a ricostruire il paese, ma la gente non si fida. Perché? Perché il sistema è quello di prima, i meccanismi di potere sono gli stessi, i potenti che abusano del potere rimangono gli stessi. Secondo la nostra cultura, se qualcuno compie un crimine ci deve essere una sorta di riconciliazione, oppure il colpevole deve pagare in qualche modo. É una maniera per restituire dignità alla vittima. In Afghanistan ci portiamo dietro questioni vecchie di generazioni. Non è avvenuto quel processo di riconciliazione nazionale avvenuto altrove, come in Sudafrica. Perché è indispensabile? Perché dà alla gente la sensazione che il sistema si prende cura di te, si preoccupa di te, risponde al tuo bisogno di giustizia. Qui non è accaduto. Anzi, l’amministrazione americana ha reso ancora più forti i criminali”, Sayed Ikram Afzali, Head of Advocacy and Communication, Integrity Watch, Kabul “Senza affrontare il passato non si va da nessuna parte. La gente è stufa, perché vede che chi in passato ha commesso crimini e abusi ha ancora un ruolo di potere. Questi personaggi esercitano un’influenza negativa, perché sottraggono risorse, ignorano le regole. La comunità internazionale non avrebbe dovuto sostenerli, e il governo dovrebbe rimuoverli dagli incarichi attuali. Bisogna smantellare questi circoli di potere, a cominciare dal governo”, Asif Karimi, project coordinator TLO, Kabul

“Gli occidentali hanno sostenuto personaggi che non rappresentano la società afghana, anche quando ci siamo lamentati delle elezioni fraudolente non ci hanno ascoltato, ci sono alcuni criminali con doppio passaporto, afghano e straniero, sono sostenuti dai governi occidentali. Al governo manca la volontà politica di allontanare questa gente: a volte la loro elezione è stata rifiutata dal parlamento, poi sono riusciti a ottenere posizioni elevate. Nessuno tra gli internazionali se ne cura davvero, perché dopotutto non danneggia la finta democrazia afghana”, Hambdullah Arbab, artista e regional coordinator YIAA, Jalalabad

Testimonianze 3.2: la Transitional Justice: un’occasione mancata

“La nostra Commissione alcuni anni fa ha realizzato un sondaggio, A Call for Justice; abbiamo lavorato anche a un Action Plan per la Transitional Justice. Alcuni punti sono stati realizzati, altri invece no, a causa del mancato impegno da parte del governo. Oggi è disponibile anche un nuovo rapporto che individua gli abusi compiuti in passato, ma non è ancora stato reso pubblico. Anche la comunità internazionale non ha avuto interesse nel promuovere il piano della transitional justice. Sia il governo che la comunità internazionale avevano i loro ‘fidanzati’, tra i quali i signori della guerra. La questione è stata affrontata in modo superficiale. Si è pensato che tutto fosse finito con la rimozione dei Talebani dal potere”, Sima Samar, portavoce AIHRC, Kabul

“Prima di lavorare alla transitional justice bisogna che ci sia un governo legittimo e rispettato, che abbia piena sovranità in tutto il paese. Solo allora, quando i signori della guerra non saranno più al potere, sarà possibile lavorarci. Se lo facessimo prima, ci ucciderebbero”, Ali Jan Fahim, CSHRN, Bamiyan

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“Prima di affrontare il tema della transitional justice, c’è bisogno di tempo. Ancora non è il momento giusto. C’è bisogno di far maturare l’idea nella testa delle persone. Sono convinto che sia fondamentale, ma che bisogna lavorarci con prudenza”, Ismail Zaki, regional coordinator CSHRN, Bamiyan

“Lasciamo perdere la transitional justice. Dimentichiamocene, per ora. Non è tempo per questo genere di cose. Nel nostro paese sono successe troppe cose, e oggi dobbiamo affrontare troppi problemi di natura diversa. Il governo è composto proprio da coloro che hanno commesso i peggiori crimini. Gente che è al governo o che è sostenuta da chi è al governo o dalla comunità internazionale. Forse potremmo occuparcene una volta che ci sarà un governo forte, solido, sostenuto da tutti. Non ora. Oggi nessuno è in grado di pretendere che i signori della guerra affrontino un processo penale. Non voglio dire che dobbiamo dimenticarci del tutto di chi chiede giustizia. Ma oggi non ha senso affrontare la questione”, Haji Mohammad Rafiq Sharir, Head of professional Shura, Herat “É un meccanismo utile, certo, perché chi ha commesso crimini in passato non dovrebbe ricoprire cariche pubbliche. Il guaio è che qui in Afghanistan succede il contrario, perché questi personaggi sono stati eletti o hanno ottenuto più potere. Per questo finora quest’idea non ha funzionato. Servirebbe un governo diverso, con più volontà politica. Inoltre, sono convinto che dobbiamo pensare a come vivere nel presente: è giusto che chi commetta o abbia commesso crimini, ora o in passato, venga giudicato, che la gente possa chiederne contro, ma non possiamo partire dal passato, perché sarebbe troppo complicato, ma dal presente, e poi vedere come e se è possibile risalire indietro. I meccanismi attuali non funzionano. Lo stesso vale anche per i meccanismi ‘simbolici’: l’ammissione e il riconoscimento dei crimini deve valere soprattutto per il presente”, Abdul Qader Rahimi, regional program manager AIHRC, Herat

“Oggi la priorità non è l’attuazione del piano di transitional justice, ma la sicurezza. Gli anni 2003/04 erano quelli più adatti per portare avanti un discorso simile, ora invece il governo non ha la forza né la volontà per farlo. Non è tempo di parlare di transitional justice. Tutti i signori della guerra e i criminali sono in posizioni di prestigio, al governo o all’opposizione. Questo vuol dire che è semplicemente irrealizzabile. Ora c’è bisogno di pace, quando ci sarà la pace ci sarà modo di affrontare anche questa questione. Difficile farlo ora in un paese governato dalla mafia delle terre, dalla corruzione, dal traffico di droga. Se si decidesse di affrontare questo tema, il governo diventerebbe ancora più instabile, visto che è composto da gente che ne risentirebbe personalmente”, Abdul Khaliq Stanikzai, Regional Manager SDO, Herat “Non è tardi per portare a compimento il processo di transitional justice. Non intendo dire che tutti coloro che hanno compiuto abusi o crimini debbano essere processati, che tutti debbano andare in prigione. Ma devono essere portati di fronte a un giudice o alla gente. Alcuni di questi abusi non devono essere dimenticati. I colpevoli potrebbero andare in televisione, riconoscere i loro crimini, dimostrarsi pentiti, piangere le loro colpe. Questo faciliterebbe il sentimento di appartenenza alla stessa nazione. Sarebbe importante. Alcuni andrebbero puniti con la prigione a vita, altri invece no. Bisogna saper distinguere tra chi ha avuto responsabilità importanti e chi invece no. É la via

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più logica ed efficace per portare un po’ di pace a questo paese, dove sono stati compiuti errori inimmaginabili”, Taher Mufid, leader religioso, Mazar-e-Sharif

“É impossibile ora portare in tribunale i criminali e ottenere giustizia per i crimini passati. Il nostro governo aveva iniziato a gestire insieme alla Commissione indipendente per i diritti umani un progetto per la transitional justice, ma poi non se n’è fatto più niente. Dei risultati di quel progetto non conosciamo nulla. Il governo ha la responsabilità di rendere pubblici i risultati. Qualcuno all’interno del governo potrebbe cercare di proporre un referendum sulla Transitional justice. É passato molto tempo dai crimini passati, ma non è troppo tardi. L’unica soluzione per chiudere con il passato è fare come in Uganda o in Bosnia, dove ci sono stati lunghi processi di ricerca della verità. Il guaio è che la gente non sa niente della Transitional justice, ed è responsabilità del governo diffondere la conoscenza e far conoscere i risultati”, Khalilullah Hekmati, direttore BAO, Mazar-e-Sharif “Se dopo la caduta del regime talebano fosse stata applicata la Transitional justice ci sarebbero stati sviluppi diversi, migliori, e non avremmo avuto un simile divario tra la popolazione e il governo. Se un governo ignora del tutto le richieste di giustizia della popolazione, non può essere legittimamente definito tale. Credo che su questo la comunità internazionale porti la responsabilità più grande: sono stati gli stranieri ad aver sostenuto i signori della guerra, che oggi hanno un potere enorme e grandi interessi economici di tipo mafioso. I Talebani ne avevano ridotto il potere, oggi invece hanno riacquistato forza e potere. É stato questo il grande sbaglio della comunità internazionale”, Mohammed Saeed Niazi, direttore CSDC, Kabul

“Quando la comunità internazionale è arrivata in Afghanistan, ha preferito stare dalla parte di personaggi come Ismail Khan piuttosto che dare seguito all’idea della transitional justice. Ma fino a quando non elimineremo le ostilità legate al passato, non potrà esserci vera pace. Oggi chi dovrebbe essere giudicato fa parte del governo o ha posizioni di potere, ma non è mai troppo tardi per perseguire l’idea di giustizia”, Aziza Khairandish, West Coordinator CSHRN, Herat “Tempo fa il governo aveva approvato un Action Plan per la Transitional justice, poi però non se ne è più fatto nulla perché sia il governo afghano che la comunità internazionale hanno preferito evitare di portarlo avanti e se ne sono disinteressati. I diplomatici internazionali hanno detto di non fidarsi del governo afghano, aggiungendo che non era il momento opportuno per affrontare una questione così delicata. Ma era soltanto una scusa per non andare in fondo”, Aziz Rafiee, direttore ACSF, Kabul

Testimonianze 3.3: I tempi della giustizia: memoria, amnistia e il diritto delle vittime

“Il passato può essere affrontato soltanto quando il governo sarà accettato da tutti in Afghanistan. Prima di allora, qualunque decisione sul modo in cui affrontare i crimini del passato non potrà che alimentarne di nuovi. Solo allora potremo decidere se dimenticare o meno”, Mohammad Asif Samin, poeta, Jalalabad

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“Non c’è volontà da parte del governo di affrontare la questione, di portare tutti i criminali davanti a una corte di giustizia. Non credo ci sia modo di portare uno come Dostum di fronte a un giudice. Se lo immagina? Ogni famiglia in Afghanistan ha sofferto per la guerra, ma temo che in pochi credano che il governo possa assicurare giustizia. Spero che in futuro il governo diventi più forte e che ci possa essere spazio per restituire giustizia alle vittime, a chi ha sofferto. Oggi il governo è alle prese con altri problemi: la guerra, i negoziati, le prossime elezioni. La giustizia per i crimini passati non è tra le priorità. Anche io d’altronde credo che oggi la priorità sia quella di rendere l’esercito più forte e di far maturare la gente, grazie all’educazione”, Zamir Saar, lettore in Letteratura pashto, Balkh University, Mazar-e-Sharif “Innanzitutto c’è bisogno di pace, di una pace comune e condivisa, poi, una volta ottenuta la pace, potremmo fare in modo di ottenere anche la giustizia. La condizione per la giustizia è che ci sia la pace”, Khalil Azizi, Mediothek, Mazar-e-Sharif

“Pace e giustizia sono legate a vicenda, certo, e la giustizia non deve essere ignorata in favore della pace. Ma qui i signori della guerra sono ancora al potere, occupano posti chiave nell’amministrazione e nella politica. É un fatto che non può essere ignorato. Credo che la giustizia arriverà con la sicurezza. Non significa che dobbiamo dimenticare le richieste di giustizia, dove è possibile dobbiamo implementarla, ma la sicurezza è fondamentale”, Timur Hakimyar, direttore FCCS, Kabul “Per avere un Afghanistan pacifico e sicuro dobbiamo dimenticare le divisioni tra uzbechi, tagichi, hazara, pashtun e allo stesso tempo dimenticare gli avvenimenti passati, gli scontri che ci sono stati. Alle autorità spetta il compito di favorire l’unità, non di fomentare la divisione”, Akhtar Mohammad Ibrahim Khil, responsabile Peace council, Mazar-e-Sharif

“I crimini di cui dovremmo occuparci riguardano trent’anni di storia del paese. Ne servirebbero altrettanti per contare i crimini e individuarne le responsabilità. Tutto ciò impedirebbe lo sviluppo del paese. É ora di mettere un punto su ciò che è accaduto, di ripartire da zero, da un nuovo inizio. É ora di tracciare una linea sul capitolo del passato e voltare pagina, affidando ai giovani la costruzione di un nuovo paese”, dottor Abdul Jabar, Provincial Health Director, Farah “Non credo nell’efficacia della giustizia penale in un paese con una storia come la nostra. Quello che per una comunità è un criminale per un’altra è un eroe, un benefattore. Prendiamo Masoud, che per i tagichi è un eroe, mentre per altri è un vero criminale. Lo stesso accade con Mazari. L’amnistia è l’unico metodo per voltare pagina e guardare avanti. Sarebbe troppo difficile e doloroso giudicare tutti”, Hamid Ghulami, direttore Ibn Sina Institute of Higer Education, Mazar-e-Sharif

“La migliore soluzione è dimenticare il passato. Se dovessimo cominciare a perseguire i crimini commessi in Afghanistan, dovremmo cominciare da 100 anni fa, o almeno dopo la seconda guerra mondiale. Mi spiace dirlo ma la gente non è pronta per applicare la transitional justice e la vostra legge umanitaria. Piuttosto che cercare la verità e la giustizia per gli ultimi trent’anni di guerra,

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dobbiamo garantire la sicurezza. É questo che la gente vuole. Se guardiamo al passato, perdiamo il futuro. Il tempo passato, con i crimini connessi, non tornerà indietro. Volerlo fermare vuol dire perdere il futuro. La transitional justice non è applicabile in Afghanistan. La gente forse è pronta, ma ha paura, perché i criminali sono al potere e nessuno può criticarli. Anche l’AIHRC non può rendere noti i risultati delle sue ricerche”, Ahmad Shuaib “Shahir Qasemian”, Provincial Managaer, ASPR, Maimana “Nel paese c’è un diffuso sentimento di rancore, tra tutti coloro che hanno subito abusi o ingiustizie in passato. Ma da dove cominciare? Sono stati compiuti tanti di quei crimini che è difficile stabilire la data di inizio e individuare le singole responsabilità. Se cominciamo a guardare al passato, solleveremo molti problemi. In tutti i recenti periodi della storia afghana ci sono stati errori e abusi: durante il regime comunista, con Taraki, con i mujahedin. Per costruire il futuro, la cosa migliore è l’amnistia, altrimenti non ne usciremo più fuori. Ogni persona lamenta qualche abuso. Se aprissimo questo capitolo, si tornerebbe sulle montagne a combattere e nessuno potrebbe più fermare la guerra interna, neanche la comunità internazionale. Andrebbero uccisi tutti, i leader delle comunità, i mujahedin, i Talebani. La cosa migliore è guardare al futuro, non al passato”, Mohammad Sardor Saeedi, responsabile Hizb-e-Wahdat Mardom, Mazar-e-Sharif

“Credo che per avere la pace qualche forma di oblio sia necessaria. Allo stesso tempo, i crimini compiuti in passato devono essere accertati, e deve avvenire qualche forma di riconciliazione pubblica. I criminali non devono avere posizioni di governo o di responsabilità pubblica. Si veda il caso del Sudafrica. I posti chiave non vanno affidati a chi ha compiuto abusi”, Taher Mufid, leader religioso, Mazar-e-Sharif “Il problema è questo: in passato tutti hanno combattuto contro tutti, e c’è scarsissima fiducia. Meglio dimenticare e guardare al futuro. Altrimenti sarà il caos”, Aziz Ur Rahman “Saddiqi”, presidente ASCP

“L’amnistia va contro la volontà della popolazione e contro il diritto umanitario. In un paese come il nostro, come si può dimenticare il passato e concedere l’amnistia a gente che ha commesso crimini simili? Un parlamento diverso avrebbe la facoltà di rivedere quella decisione. Per poter raggiungere una vera riconciliazione, bisogna innanzitutto riconoscere pubblicamente ciò che è stato fatto. Ogni riconciliazione sociale e politica passa per l’accertamento dei fatti. In caso contrario, si potrà ottenere un semplice accordo, non una vera riconciliazione. La difficoltà di pubblicazione del nostro ultimo rapporto sui crimini passati dimostra che da parte del governo e dei leader politici c’è una vera e propria politica di negazione. C’è l’idea che far conoscere la verità complichi la situazione. Noi crediamo che sia vero il contrario. Se devi riconciliarti con tuo fratello, hai bisogno di conoscere e riconoscere la verità. La soluzione sta nel riconoscere gli abusi commessi. In questo senso il nostro rapporto, se usato in modo appropriato, potrebbe essere utile per la riconciliazione nazionale. Ogni comunità, ogni gruppo etnico porta con sé un carico di sofferenza. Abbiamo tutti sofferto, in diversi periodi storici. Questa sofferenza comune può essere usata per guardare avanti, al futuro”, Sima Samar, portavoce AIHRC, Kabul

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“In Afghanistan qualcuno vorrebbe dimenticare, andare avanti; quanto a me, credo che non dobbiamo dimenticare né perdonare. Piuttosto, dovremmo aiutare le famiglie che hanno subìto abusi, quelle che hanno visto uccidere i propri cari, dobbiamo comprendere il loro dolore e aiutarle a superarlo, per quanto possibile. Uno degli strumenti è la giustizia: ci sono individui che hanno commesso molti crimini e che ora ricoprono anche incarichi di governo,. Dovrebbero essere processati, anche se non sono d’accordo che ogni singolo episodio debba essere verificato da un processo. Non voglio che si dimentichi, ma non credo che tutti i singoli casi debbano passare per una corte di giustizia. Dipende dai fatti, dalle aree”, Zia Urraham Tariq, CSHRN, Jalalabad

“Occorre perdonare ma non dimenticare. Lavoriamo insieme, superiamo le differenze, le ragioni dei contrasti, proviamo a far maturare l’idea della Transitional justice, che rimane valida anche dopo 50 anni. Per farlo ci vuole un sincero impegno da parte della comunità internazionale e del governo afghano. Non si può dimenticare ma si può perdonare. L’Islam prevede in alcuni casi e a certe condizioni il perdono, ma questo non significa che bisogna dimenticare, né che sia consentito che i criminali diventino membri del governo o del parlamento. Lasciamo piuttosto che siano i giovani competenti a lavorare nel governo, nei ministeri, gente non corrotta”, Hambdullah Arbab, artista e regional coordinator YIAA, Jalalabad “Difficile valutare come affrontare il passato. Credo che entrambe le visioni vadano considerate: quella della ricerca di giustizia e verità e quella del voltare pagina. Non possiamo ignorare ciò che hanno compiuto alcune persone, molte delle quali oggi ricoprono incarichi importanti. Allo stesso tempo, dobbiamo impegnarci a guardare al futuro. Il passato è passato, non torna più, né torneranno in vita le tante vittime”, Sameer Ahmad Bana, programme manager DEOW, Maimana

“La via del referendum è fondamentale. C’è chi vuole affrontare il passato in un modo e chi in un altro. Chiediamo alla gente di esprimersi, di farlo in un referendum. Che ci sia una commissione eletta di persone che possa occuparsi della Transitional justice, e che non sia stata coinvolta nei crimini di guerra. Non risolverebbe tutti i problemi, ma ci aiuterebbe a capire come immaginare questo processo, se dare vita a una commissione per la verità o meno, etc”, Aziz Rafiee, direttore ACSF, Kabul “A decidere che cosa fare con coloro che hanno commesso crimini deve essere la popolazione. Per questo, serve un dialogo aperto, un processo di riconciliazione. Non importa quando si farà, l’importante è che si faccia. Non deve essere il governo a prendere una decisione su questo, ma la popolazione. La gente deve poter chiedere conto, deve poter esigere che i criminali vadano giudicati. Ora è difficile farlo, con l’attuale governo. Serve un governo diverso”, Aziza Khairandish, West Coordinator CSHRN, Herat

“La cosa fondamentale è che siano le vittime a decidere. Solo le vittime possono accettare le scuse dei criminali o decidere come affrontare la questione”, Ali Wardak, Center for Criminology, University of Glamorgan

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“Sul modo migliore per affrontare il passato credo ci sia bisogno di un referendum, attraverso il quale sia l’intera popolazione a decidere se occorre processare i criminali o dimenticarne gli abusi. La gente deve decidere. É importante farlo anche perché su questo ci sono idee diverse tra gli afghani. Si potrebbe fare: sono state organizzate delle elezioni presidenziali per cui si possono organizzare anche dei referendum del genere. Dobbiamo tener conto di tutte le opinioni, quelle di chi vuol vedere coloro che hanno compiuto crimini davanti a un giudice e quelle di cui invece non lo vuole. Le decisioni non vanno prese dai politici e dai diplomatici, ma dalla gente comune. Le soluzioni ai problemi del passato sono possibili, e il referendum è una di queste”, Hafizullah Fetrat, Provincial Program Manager, AIHRC, Maimana

“Le persone non riescono a dimenticare gli abusi che hanno subito. É impossibile farlo. Devono esserci meccanismi che accertino la verità sul passato. Questi meccanismi devono riflettere la volontà delle vittime, che è la cosa più importante. In ogni caso, i processi penali di per sé non sono sufficienti, se non riusciamo a imparare dal passato. Soltanto imparando dal passato possiamo evitare di ripetere gli errori compiuti”, Naim Nazari, executive coordinator CSHRN, Kabul “Dobbiamo cambiare prospettiva. Non dobbiamo puntare a chi ha commesso i crimini, ma a chi li ha subiti. Dobbiamo chiedere alle vittime, alle persone che hanno sofferto, devono essere loro a dover dire come e se procedere, come fare i conti con gli abusi del passato. A loro spetta la decisione, le vittime sono le uniche persone che hanno il diritto a esprimersi. Anche se volessero l’amnistia, dovremmo accettarlo”, Taqi Wahidi, scrittore, attivista sociale, AIHRC, Mazar-e-Sharif

“Sono le vittime a dover decidere come affrontare la questione. A loro, e solo a loro, spetta il diritto di decidere. Nessun altro può farlo al posto loro. Né il governo né la comunità internazionale”, studentessa università privata, Farah

Testimonianze 3.4: I metodi per “fare giustizia”

“In passato sono stati compiuti abusi di diverso tipo, e le soluzioni possono essere di tipo diverso. Credo che occorra distinguere i casi avvenuti al livello individuale, o al livello familiare, da quelli avvenuti al livello dei partiti e dei gruppi combattenti. Quanto al primo tipo, qui in Afghanistan abbiamo molti modi per risolvere le controversie, ci sono i meccanismi tradizionali, le jirga, la compensazione monetaria, la negoziazione, etc. Quanto al secondo, non c’è nessuno che non abbia le mani sporche di sangue, che non sia coinvolto nei combattimenti, nei partiti politici ognuno ha delle responsabilità. Portare avanti dei procedimenti giudiziari, in questo caso, è difficile, e non farebbe che peggiorare la situazione, creando nuovi problemi. Dobbiamo negoziare, discuterne e guardare al futuro del paese”, Aziz Ur Rahman “Saddiqi”, presidente ASCP, Jalalabad

“In ogni famiglia c’è qualcuno che è stato ucciso, che ha sofferto, tutti aspettano il momento giusto per vendicarsi. Questa eredità del passato influenza negativamente il processo di pace. In Afghanistan nessuno accetterà di essere definito colpevole o di essere processato, nessuno. Eppure tutti aspettano qualche forma di rivincita, che sia tra 1, 10 o 20 anni. Come risolvere la questione

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nessuno lo sa. Forse il modo migliore è parlarne, discuterne pubblicamente, ma nessuno sa davvero quale sia la soluzione giusta. Neanche io lo so”, Nazira Hamadi, regional manager ACSF, Mazar-e-Sharif “Tempo fa era stato avviato un processo per realizzre la Transitional Justice, ma in seguito il parlamento ha passato l’amnistia, un gesto che credo abbia nuociuto al paese. Sarebbe meglio portare i colpevoli di fronte a un giudice, affinché rispondano dei loro crimini”, Yor Mohammad Bakhiri, docente Ibn Sina Institute of Higher Education, Mazar-e-Sharif

“Credo al cento per cento nella necessità di perseguire la giustizia per i crimini passati. Tutti coloro che hanno commesso dei crimini dovrebbero essere giudicati da un tribunale. C’è gente come Fahim, che ha commesso crimini orribili, che ha partecipato alla Loya Jirga. Noi abbiamo fatto sapere alla comunità internazionale che personaggi simili non avrebbero dovuto prendere parte a nessun processo politico, ma nessuno ci ha ascoltato. Al contrario, gli è stato dato ancora più potere. Se oggi il governo afghano e la comunità internazionale non sono in grado di portare questa gente in tribunale, almeno che gli venga tolto il potere”, Sher Alam Amlawal, docente Legge e Scienze politiche, Aryana University, Jalalabad “Come esponente della società civile, come donna e come attivista sociale, credo che chi ha compiuto dei crimini debba essere processato, che vada portato davanti ai giudici: il governo dovrebbe punirli, secondo i principi della legalità, pubblicamente. Gli afghani hanno il diritto di vedere che la giustizia si compie. Invece in genere accade il contrario: i criminali pagano e sono liberi. Comprano la giustizia con il denaro. Senza un percorso che assicuri alla giustizia i criminali, non ci sarà pace nel paese”, Khalida Aimaq, direttrice AWEC, Maimana

“Mi auguro che i criminali siano giudicati in un tribunale. In passato le cose sono andate diversamente e questo ha avuto conseguenze negative. Quando i russi hanno occupato l’Afghanistan, sono stati commessi molti crimini, ma in seguito c’è stata una sorta di pubblica amnistia. Così, in seguito la gente ne ha commessi altri. Quando il dottor Najib era qui, e sono arrivati i mujahedin, c’è stato un perdono generale. Sono completamente contrario all’amnistia. Al cento per cento. In seguito all’amnistia, quanti hanno compiuto abusi hanno pensato di poterne commettere di nuovo”, Baz Mohammad Abid, Radio Mashal, Jalalabad “Prendiamo i leader che oggi sono al governo, quelli che stanno in parlamento: hanno commesso crimini, non è gente perbene. Se concedi l’amnistia a queste persone la devi concedere anche a tutti gli altri. Perché per alcuni sì e per altri no? La storia insegna che la giustizia in questo paese non ha fatto il suo corso; dovremmo processare i criminali. La cosa migliore sarebbe metterli in prigione. Insisto nel dire che bisogna affrontare le ragioni della povertà e dell’ignoranza perché le cose cambino davvero”, Farzana Asra, studentessa Balkh University, giornalista radio-tv locale, Mazar-e-Sharif

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“Dobbiamo condurre delle ricerche, fare luce sui crimini passati, scoprire chi ha commesso abusi e chi invece li ha subiti. I colpevoli devono essere processati, altrimenti non può esserci garanzia che tali atti non si ripetano in futuro”, Bilgees Attaye, managing director di DEOW, Maimana “Chi ha commesso crimini gravi deve risponderne, altrimenti sarà libero di commetterne altri. I processi penali devono attenersi alla legge afghana e a quella internazionale a cui siamo vincolati. In Afghanistan quanti hanno commesso crimini gravi, tra cui il genocidio, sono diventati con il tempo più forti, e il governo più debole. Sarebbe dovuto succedere il contrario. L’amnistia è una legge votata da gente che voleva salvarsi, da parlamentari che si erano macchiati di abusi gravi. Come ci si può aspettare che questa gente, dentro al parlamento, segua la legge?”, Naqibullah “Saqib”, preside Facoltà scienze politiche, Nangarhar University

“I leader politici o militari che hanno ucciso, maltrattato, umiliato o abusato della gente, tutti quanti coloro che hanno fatto del male al paese devono essere giudicati davanti a tutti, in pubblico. La gente ha diritto ad avere tutte le informazioni su quanto accaduto in passato. Tutti i crimini passati devono essere giudicati. Non c’è un tempo giusto e uno sbagliato per questo. Se concediamo ancora altro tempo, se aspettiamo, i carnefici e le loro vittime rischiano di morire. E poi sarà la storia a giudicare”, studentessa università privata e attivista sociale, Farah “Un processo dal carattere simbolico non è sufficiente, in Afghanistan vige la legge dell’occhio per occhio dente per dente. Per molti afghani, anche la punizione che potrebbe dare il governo ai criminali non basta, né basta la prigione. Soprattutto nei villaggi la gente aspetta di vendicarsi. Nelle città è diverso. La vera punizione – pensano in molti – la dobbiamo dare noi, non il governo. Su questo, l’unico lavoro da fare è quello sulla mentalità della gente, affinché senta la pace nel cuore, affinché ne capisca il valore e la difenda”, Nazira Hamadi, regional manager ACSF, Mazar-e-Sharif

“Possiamo ancora cambiare rotta. Sappiamo chi sono i criminali. E sappiamo che la popolazione non vuole che questi assassini abbiano posti di potere. Il minimo è che non vengano assegnati loro posti di potere, o che almeno riconoscano pubblicamente, semmai in tv, le loro colpe. Il guaio è che oggi sono forti. Dicono di essere degli eroi, ma sono criminali”, Mohammed Saeed Niazi, director CSDC, Kabul “ A volte delle scuse pubbliche possono soddisfare le vittime, oppure altre forme di riconoscimento pubblico delle proprie responsabilità. Oppure con processi penali. Gli strumenti sono tanti. Nascondere il problema sotto il tappeto non lo risolve. Il guaio è che in Afghanistan chi ha commesso i crimini più atroci è al governo e continua ad abusare del potere accumulato in questi anni”, Ali Wardak, Center for Criminology, University of Glamorgan

“Un percorso simbolico, con il quale i criminali riconoscono le proprie colpe e chiedono scusa ai parenti delle vittime potrebbe andar bene. Sappiamo che è difficile in questo paese processare i criminali. La via simbolica è un’alternativa promettente”, studentessa università privata, Farah

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“Anche qualche azione simbolica, di carattere pubblico, potrebbe funzionare. Il minimo è che i criminali non abbiano posti importanti al governo”, Said Hussein Sha Hussainy, assisting in monitoring and investigating unit - AIHRC, Bamiyan

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4. LA TRANSIZIONE E IL POST-2014

Da quando la comunità internazionale, la Nato e i paesi che fanno parte della missione Isaf hanno

concordato con il governo Karzai la data del ritiro93, il 2014 è entrato nella discussione e

nell’immaginario pubblico afghano come un passaggio fondamentale, uno spartiacque. A poco più

di un anno dal suo completamento, il disimpegno degli eserciti stranieri porta con sé molti

interrogativi e diversi timori94, mentre l’attuale fase di transizione è un processo i cui esiti si

manifesteranno compiutamente solo in futuro.

Il quarto capitolo è dedicato alle valutazioni sull’attuale fase di transizione e alle aspettative per il

periodo successivo alla fine della missione Isaf della Nato. Qui intendiamo individuare quali siano i

timori più diffusi, quali i settori che più preoccupano i rappresentanti della società civile e quali gli

strumenti che suggeriscono di adottare per affrontare efficacemente il trasferimento di

responsabilità e di sovranità dagli internazionali agli afghani. Anche in questo caso ci basiamo

sull’idea che per elaborare una strategia appropriata per accompagnare l’Afghanistan in questa

delicata fase di passaggio sia indispensabile conoscere le aspettative della popolazione, le loro

richieste, i loro suggerimenti. Una strategia elaborata senza tener conto di tali aspetti rischia di porre

le condizioni perché si ripetano gli errori del passato, rendendo il paese ancora più instabile95.

Come tutti i periodi di passaggio, la transizione è un periodo di incertezza che porta con sé molte

incognite, rischi potenziali96 e potenziali opportunità. Questo capitolo si fonda sull’idea che la

transizione e il ritiro, se opportunamente gestiti e condotti, possano favorire due processi essenziali,

fin qui poco applicati: l’inclusione dei punti di vista degli afghani nell’elaborazione strategica e nel

modellamento dell’agenda post-2014; la riflessione sugli errori compiuti finora dalla comunità

internazionale, dal governo afghano e dalla stessa società civile, insieme a un ragionamento sul

modo per evitarli in futuro. Ciò sembra confermare una delle tesi che con più forza viene sostenuta

dai partecipanti alla ricerca: la transizione e il ritiro rappresentano l’ultima occasione affinché la

93 Il piano cronologico per la transizione è stato formalmente adottato nel corso della conferenza internazionale tenuta a Lisbona nel novembre 2010. Barbara Stapleton suggerisce però che “la decisione politica di ritirare le forze regolari internazionali dall’Afghanistan (e terminare la missione Isaf) sia stata presa nell’ambito della Nato due anni prima”, in Beating a Retreat, op. cit. pp. 4-5. 94 Jonathan Steele scrive che “le interviste con un ampio spettro di politici del governo e dell’opposizione, attivisti della società civile e comuni cittadini rivelano la delusione per gli 11 anni di coinvolgimento straniero, e la forte preoccupazione che i prossimi anni portino difficoltà economiche e maggiore violenza politica e insicurezza”, in On the eve: Afghan views of the future as foreign forces withdraw, Norwegian Peacebuilding Resource Center, 2013. 95 Secondo gli autori della ricerca The Cost of War (p. 6), “nonostante molto sia stato scritto sulle guerre in Afghanistan, spesso mancano i racconti, le prospettive e le percezioni degli afghani comuni”. 96 Si veda Prisca Benelli, Antonio Donini, Norah Niland, Afghanistan: Humanitarianism in Uncertain Times, Feinstein International Center 2012.

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comunità internazionale possa rendere i propri interessi coerenti con quelli degli afghani. In seguito,

potranno esserci solo occasioni mancate o ripensamenti.

Il capitolo è diviso in tre sottocapitoli: il primo è dedicato alle aspettative sul futuro prossimo; il

secondo alle richieste nei confronti della comunità internazionale e del governo afghano; il terzo ai

principali timori per il futuro.

4.1 LE ASPETTATIVE

Dalla ricerca emerge un dato inequivocabile e poco sorprendente: la maggioranza degli intervistati

dichiara di non essere in grado di prevedere cosa accadrà nella fase successiva al ritiro delle truppe

internazionali. L’incertezza sembra dominare i sentimenti, modellare le aspettative, generare timori.

Sono diversi gli elementi che ostacolano una chiara comprensione dei processi in corso e di quelli

futuri: l’eterogeneità degli interessi in gioco e la pluralità degli attori che direttamente o

indirettamente partecipano al conflitto; l’opacità delle intenzioni dei paesi vicini e dei grandi attori

internazionali; la mancanza di trasparenza sul processo di pace e i dubbi che possa produrre risultati

a breve termine; l’eterogeneità territoriale quanto a sicurezza, stabilità ed efficienza amministrativa;

l’incognita sulla preparazione, l’equipaggiamento e la coesione delle forze di sicurezza locali;

l’estrema volatilità delle dinamiche interne di potere, complicata dalle elezioni presidenziali che si

terranno nell’aprile 2014. Tali elementi si sommano alle incertezze intrinseche a ogni fase di

transizione e mutamento97.

a) Una transizione complessa e graduale

La transizione e il ritiro sono interpretati come processi che implicano un complesso trasferimento

di sovranità dagli internazionali agli afghani. Per gli intervistati, il trasferimento di sovranità non

riguarda soltanto l’ambito militare (l’aspetto su cui si concentra generalmente l’attenzione), ma

molti altri settori, nei quali il passaggio rischia di essere ancora più complicato98.

Nell’ambito delle aspettative, si registra un’opinione prevalente: in seguito al ritiro delle truppe

straniere non ci saranno cambiamenti rilevanti, perlomeno non nel breve periodo; non ci sarà alcun

miglioramento nel settore della sicurezza, ma neanche un rapido deterioramento. Ci si aspetta una

sostanziale continuità con la situazione attuale: un conflitto a macchia di leopardo e con intensità

97 Per un’analisi esauriente delle sfide poste dalla transizione e dalla fase successiva si veda il saggio collettivo The International Community’s Engagement in Afghanistan beyond 2014, AAN discussions papers 2011. 98 Jonathan Goodhand scrive: “così come è fuorviante parlare di ‘una guerra’, è ugualmente inutile parlare di ‘una transizione’; ci sono molteplici transizioni che si stanno compiendo simultaneamente a livelli diversi e in luoghi diversi in Afghanistan”, in Contested Transitions, op. cit. p. 10. Si veda anche Afghanistan: The Long, Hard Road to the 2014 Transition, International Crisis Group, Asia Report n. 236, ottobre 2012.

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variabile a seconda delle aree geografiche99, una sostanziale diffidenza tra il governo e la

popolazione, l’interferenza dei paesi vicini. Il passaggio dal 2014 al 2015 viene considerato meno

brusco di quanto generalmente immaginato. Come una fase di trasformazione complessa e graduale,

non catastrofica. Nessuno esclude comunque la possibilità di eventi improvvisi che facciano

precipitare la situazione.

Secondo gli intervistati, la situazione rimarrà sostanzialmente simile a quella attuale se e solo se la

comunità internazionale manterrà gli impegni presi con il governo afghano. Vi è la diffusa

percezione che l’Afghanistan sia ancora un paese estremamente fragile, in termini politico-

amministrativi, sociali, economici, militari; vi è il timore che la sua vulnerabilità possa essere

ulteriormente sfruttata e strumentalizzata dai paesi vicini, una volta che le truppe straniere si

ritireranno. Da qui, la convinzione che ci sia assoluto bisogno del sostegno della comunità

internazionale.

La maggioranza degli intervistati chiede un ulteriore impegno da parte della comunità

internazionale anche perché ritiene insufficiente ciò che è stato realizzato finora100. Vi è inoltre la

convinzione che la comunità internazionale non riuscirà a ottenere per la fine del 2014 l’obiettivo

primario della transizione e del disimpegno: la costruzione di uno stato autosufficiente, in grado di

provvedere autonomamente ai propri bisogni101. Se la richiesta di un impegno ulteriore è quasi

unanime, si registrano invece opinioni diverse sulla reale volontà della comunità internazionale e

sull’onestà con cui potrà mantenere in futuro le sue promesse. Alcuni partecipanti alla ricerca si

dicono convinti che gli accordi di cooperazione strategica recentemente firmati dal governo afghano

con altri paesi, tra cui l’Italia, segnalino un vero impegno da parte della comunità internazionale.

Tali accordi vengono percepiti come una forma di reale interesse da parte dei paesi stranieri e

sembrano rassicurare una parte degli intervistati.

99 Per Gilles Dorronsoro, “la sfida principale per gli alleati è trasformare il gioco politico definendo quali aree siano importanti nel lungo periodo. Gli Stati Uniti dovrebbero identificare tre aree: strategiche (sotto controllo totale), cuscinetto (intorno alle aree strategiche) e territori dell’opposizione”, in Focus and Exit, op. cit. p. 9 e seguenti. 100 Per un’analisi critica della “vulnerabilità di una crescente percentuale di afghani”, si veda Prisca Benelli, Antonio Donini, Norah Niland, Afghanistan: Humanitarianism in Uncertain Times, op. cit. Si veda anche G. Battiston, Le truppe straniere agli occhi degli afghani, op. cit. 101 I risultati della ricerca confermano le valutazioni di Barbara Stapleton, secondo cui “stanno aumentando le preoccupazioni relative alle sfide enormi della transizione e alla domanda se si riuscirà a ottenere l’obiettivo della transizione: uno stato afghano autosufficiente”, in Beating a Retreat, op. cit. p. 1. Per Jonathan Goodhand, “dopo ampi investimenti in uomini e soldi, gli attori internazionali sono ora nella posizione di provare a negoziare un’uscita, ma con il pericolo reale che lascino il paese in condizioni peggiori di quelle precedenti all’occupazione”, in Contested Transitions, op. cit. p. 14.

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b) I cambiamenti culturali

Tra le ragioni che portano a ritenere che non ci saranno cambiamenti significativi vi è l’idea che

negli ultimi anni il paese sia molto cambiato, in termini culturali e sociali. Come abbiamo visto nel

secondo capitolo, la maggioranza degli intervistati sostiene che i movimenti antigovernativi siano

ormai privi di consenso e che i valori da loro incarnati siano considerati obsoleti e anacronistici

dalla popolazione. Allo stesso tempo, molti enfatizzano l’importanza della nuova generazione: a

differenza dei loro padri, i ragazzi e le ragazze afghane sarebbero istruiti, meno facilmente

manipolabili, più culturalmente attrezzati per respingere le ideologie fondamentaliste, più aperti al

resto del mondo e consapevoli che i propri valori possono essere affermati in modo pacifico. I più

anziani tra gli intervistati sembrano riporre fiducia nella nuova generazione e nei cambiamenti che

potrà introdurre nel paese; tra i più giovani, si registra un’inclinazione a farsi carico di tale

responsabilità, pur riconoscendo che le dinamiche locali ostacolano il cambiamento. É significativo

notare comunque una tendenza di segno opposto, registrata soprattutto negli incontri informali:

l’inclinazione e la volontà dei più giovani a lasciare il paese, laddove ce ne fosse la possibilità. Ciò

sembra indicare una profonda incertezza nel futuro.

c) Una soluzione interna

Dalla ricerca emerge un altro dato significativo: per una parte degli intervistati, il ritiro dei soldati

stranieri potrebbe di per sé facilitare la soluzione del conflitto. L’idea sottostante è simile a quella

registrata nel primo capitolo: la presenza delle truppe della missione Isaf sarebbe un fattore

destabilizzante102. A dispetto della scarsa fiducia accordata in genere ai Talebani, in questo caso gli

intervistati sembrano ritenere legittima la loro posizione: i combattimenti finiranno quando le truppe

straniere lasceranno il paese. Qualcuno sottolinea come il 2014 rappresenti uno spartiacque anche

102 Secondo Gilles Dorronsoro, “la presenza delle truppe straniere è il più importante fattore che ha alimentato il ritorno dei Talebani”, mentre “il ritiro creerebbe una nuova dinamica nel paese, con due benefici principali. Il ‘momentum’ dei Talebani si rallenterebbe o si interromperebbe, perché senza un occupante straniero si potrebbero meno facilmente mobilitare i sentimenti jihadisti o nazionalisti della popolazione. Inoltre, il regime Karzai guadagnerebbe legittimità”, in Focus and Exit, op. cit. p. 2 e 13. Per Antonio Giustozzi, “l’intensificazione della presenza militare internazionale a partire dal 2006, voluta per contrastare gli insorti, ha avuto un effetto contrario […] L’accelerazione nella diffusione degli insorti è stata anche il risultato di reazioni locali alla presenza delle truppe straniere”, in Thirty Years of Conflict, op. cit. p. 2. Per Jonathan Goodhand, “una più leggera ma continuata presenza internazionale potrebbe forse creare un ambiente più favorevole alle negoziazioni a livello regionale, nazionale e locale. Una riduzione graduale della presenza internazionale nel corso del tempo può ridurre il livello statale di dipendenza (rentier statehood), calmare le preoccupazioni regionali sulla presenza militare straniera e ridurre tra gli insorti gli effetti mobilitanti dell’occupazione”, in Contested Transitions, op. cit. p. 14. Astri Suhrke sostiene che “ridurre la nostra presenza, specialmente in ambito militare, non porterà a un disastro sul campo, come spesso viene sostenuto; al contrario, è plausibile che porti il conflitto a un livello meno intenso e più maneggevole”, in The Case for a Light Footprint: The International project in Afghanistan, Anthony Hyman memorial lecture 2010, School of Oriental and Africa Studies, University of London, marzo 2010, p. 1. Al contrario, Barbara Stapleton sostiene che “è destinato a rivelarsi illusorio l’assunto che la rimozione della maggior parte delle truppe internazionali possa rimuovere il casus belli e dunque condurre a repentini miglioramenti nella situazione della sicurezza”, in Beating a Retreat, op. cit. p. 34.

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per gli insorti, che dovranno dimostrare di essere onesti, abbandonando le armi e la guerriglia. A

questa idea si aggiunge quella che il ritiro degli stranieri possa facilitare una soluzione negoziata

interna, fin qui impossibile a causa dell’interferenza esterna. Alla base, vi è la convinzione che, se

lasciati a se stessi, gli afghani sarebbero in grado di affrontare le cause del conflitto e risolverlo.

L’arrivo delle truppe straniere avrebbe aggravato una situazione già instabile; il conflitto si sarebbe

rilevato meno cruento senza la loro presenza, strumentalizzata politicamente dai gruppi

antigovernativi e fattore di risentimento tra la popolazione, specie nelle aree rurali.

Tale ipotesi contraddice solo apparentemente quella secondo la quale il paese avrebbe bisogno di un

ulteriore sostegno della comunità internazionale: coloro che chiedono il ritiro delle truppe e lo

giudicano un passo necessario per la stabilizzazione non escludono un sostegno “a distanza”. Tale

sostegno deve però avvenire nell’ambito della cooperazione civile. A essere fortemente contestata è

la presenza degli stranieri sotto forma militare, una presenza che provoca la reazione della

popolazione e risulta incompatibile con la sua richiesta di sovranità. Torneremo ad affrontare questo

punto nel paragrafo dedicato alle interferenze esterne e alle basi militari degli Stati Uniti.

4.2 LE RICHIESTE

La maggior parte degli intervistati chiede in modo esplicito e con grande nettezza che la comunità

internazionale mantenga con onestà gli impegni assunti. Tale impegno deve essere chiaro nei suoi

obiettivi, trasparente nei metodi in cui è realizzato, prolungato nel tempo e diversamente modulato

rispetto a quanto fatto finora.

a) Le ragioni dell’impegno

La comunità internazionale avrebbe ragioni pratiche, simboliche, storiche e morali per dare seguito

agli impegni assunti. Sotto il profilo pratico, continuare ad assistere l’Afghanistan - soprattutto in

ambito militare, con l’addestramento delle forze di sicurezza e il loro equipaggiamento - significa

impedire che il paese torni a ospitare gruppi jihadisti e fondamentalisti con ambizioni globali.

Rendere più preparate le forze di sicurezza afghane equivale a rafforzare la sicurezza interna del

paese e, di conseguenza, quella internazionale.

Ciò conferma la percezione che il destino dell’Afghanistan sia strettamente legato a quello

regionale. I rischi di un fallimento nel settore militare sono considerati troppo alti anche per la

comunità internazionale. Inoltre, si ritiene che gli stranieri non possano perdere tutto ciò che in

questi anni hanno investito in termini di risorse umane e finanziarie nel conflitto.

Sotto il profilo simbolico, vi è la diffusa convinzione che se il paese dovesse cadere di nuovo nella

conflittualità interna o nell’anarchia, ci sarebbe un enorme danno di immagine per tutta la comunità

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internazionale, in particolare per gli Stati Uniti, il paese che più ha voluto l’intervento militare nel

2001 e che ha maggiormente investito nel conflitto. L’eventuale rovesciamento del governo o la

modifica del sistema politico-istituzionale rappresenterebbero un’enorme sconfitta militare, politica

e ideologica per tutti i paesi della missione Isaf e per la stessa Nato.

Dal punto di vista storico, tra i partecipanti alla ricerca molti imputano alla comunità internazionale

l’abbandono dell’Afghanistan dopo il ritiro delle forze di occupazione sovietiche. Soprattutto tra i

più anziani, si registra la convinzione che l’esempio di quanto accaduto allora dovrebbe valere

come un monito per il presente. É diffusa inoltre l’idea che ci sia un legame tra l’errore di allora e la

situazione odierna: il conflitto sarebbe il risultato del progressivo isolamento dell’Afghanistan dalla

comunità internazionale. Cominciato allora, sarebbe stato ulteriormente accentuato

dall’isolazionismo del governo talebano.

Da qui gli intervistati - soprattutto i più anziani - fanno derivare una responsabilità a carico della

comunità internazionale: l’obbligo morale di rimediare agli errori di allora. La responsabilità

attribuita alla comunità internazionale sembra discendere anche dalla percezione che la guerra

afghana non sia una guerra nazionale ma una guerra alimentata dagli interessi conflittuali dei paesi

stranieri. Secondo questa lettura, la comunità internazionale non può abdicare alle proprie

responsabilità ed è tenuta a risolvere un conflitto che ha contribuito a creare e che non riguarda solo

l’Afghanistan, ma tutta la regione.

b) La sovranità

Dalla ricerca emerge un dato più generale: per i rappresentanti della società civile incontrati, la

comunità internazionale può gestire la transizione e il ritiro in due modi opposti. Usando la retorica

del disimpegno e della restituzione della sovranità come un pretesto per abdicare alle proprie

responsabilità; oppure come un’occasione per restituire sovranità e autonomia agli afghani senza far

venir meno l’impegno futuro. Per molti intervistati, la transizione e il ritiro sono anzi l’ultima

occasione per ripensare tale impegno alla luce delle esperienze accumulate in questi anni, della

valutazione degli errori compiuti, delle aspettative degli afghani. Quest’ultimo punto è legato alla

richiesta di maggiore sovranità.

La richiesta di un sostegno prolungato della comunità internazionale si accompagna a una richiesta

di segno apparentemente opposto: quella di maggiore sovranità e autonomia. Tra gli intervistati,

molti chiedono che gli afghani tornino a poter decidere del destino del paese, rivendicano maggiori

spazi decisionali, sollecitano un passo indietro degli stranieri: il sostegno della comunità

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internazionale dovrebbe essere inteso come collaborazione e cooperazione, non come interferenza

né come imposizione di modelli, pratiche, obiettivi elaborati altrove103.

c) Un impegno diverso, nei metodi e negli obiettivi

Ciò che la maggioranza degli intervistati chiede è un impegno prolungato, onesto, ma diverso dal

passato, sia negli obiettivi che nei metodi. Sotto il profilo del metodo, tra gli intervistati molti

lamentano la mancata consultazione con la popolazione e a volte anche con le istituzioni, oltre che

una certa opacità da parte della comunità internazionale nel giustificare le scelte effettuate. Inoltre,

viene criticata la scelta di privilegiare la stabilità a breve termine rispetto alla sostenibilità di lungo

periodo. La strategia adottata dalla comunità internazionale viene criticata perché elaborata a

tavolino dagli esperti internazionali, privi delle necessarie conoscenze della complessità sociale e

politico-istituzionale dell’Afghanistan. La tendenza a escludere gli afghani dall’elaborazione della

strategia per stabilizzare il paese avrebbe indebolito il governo e ne avrebbe ulteriormente

compromesso la legittimità agli occhi della popolazione.

Sotto il profilo degli obiettivi, si registra una valutazione quasi unanime: la comunità internazionale

avrebbe destinato eccessive risorse, in termini finanziari e di uomini, alla sicurezza militare, a fronte

di uno scarso sostegno alle iniziative per la ricostruzione del paese e il rafforzamento istituzionale.

Molti degli intervistati lamentano uno squilibrio tra i fondi destinati alle operazioni militari e quelli

all’aiuto allo sviluppo104. L’ossessione della sicurezza avrebbe relegato ai margini strategie ritenute

altrettanto necessarie: un programma per la ricostruzione delle infrastrutture; progetti a lungo

termine per garantire l’autosufficienza e la sostenibilità del sistema economico; progetti di ripristino

di un quadro istituzionale funzionante e trasparente; strategie per edificare un sistema di diritto

efficiente. Nel modo in cui ha assistito l’Afghanistan, la comunità internazionale avrebbe

commesso un errore fondamentale: l’aver attribuito priorità assoluta alla sicurezza militare – senza

ottenere peraltro effetti evidenti – a scapito della più generale sicurezza umana105.

103 Una delle prospettive più articolate sulla necessità di una presenza internazionale “meno intrusiva” e per un impegno di lungo termine nel processo di ricostruzione dell’Afghanistan è quella fornita da Astri Suhrke nel volume When More is Less. The International Project in Afghanistan, Hurst 2011. Per una più sintetica presentazione delle tesi espresse nel libro, si veda Astri Suhrke, The Case for a Light Footprint, op. cit. Qui (pp. 6-7), l’autrice sostiene che la “principale contraddizione” nel progetto internazionale in Afghanistan “è tra ownership e controllo: ‘Noi’ (la comunità internazionale degli aiuti vagamente definita) vogliamo esercitare il controllo sul processo di ricostruzione, ma allo stesso tempo il principio di ‘local ownership’ è un pilastro nell’ideologia dell’internazionalismo liberale e deve essere formalmente osservato. Ciò dà agli afghani una cornice legittimante per richiedere di potere modellare la direzione dello sviluppo e la distribuzione dei benefici – in una parola, per una ownerhip genuina”. 104 Si veda L. Poole, Afghanistan. Tracking the major resource flows 2002-2010, Briefing Paper, Global Humanitarian Assistance/ Development Iniziatives, gennaio 2011. 105 Si veda Humanitarian Policy Group, Humanitarian Action in the New Security Environment: Policy and Operational Implications in Afghanistan, settembre 2006; Onu, Human Security Report 2005, http://www.hsrgroup.org/human-security-reports/2005/text.aspx; Center for Conflict and Peace Studies, Human Security in Afghanistan through the Eyes of Afghans, in State Building, Political Progress, and Human Security in Afghanistan: Reflections on a Survey of the

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Alla comunità internazionale viene chiesto un cambio di paradigma: da un approccio fondato sulle

priorità militari a un approccio fondato sulle priorità civili e della governance. Questa richiesta è

legata alla consapevolezza che la forza dei movimenti antigovernativi risieda nella debolezza del

governo. Se il governo riuscisse a garantire alla popolazione la sicurezza umana, intesa in tutte le

sue implicazioni, le cause strutturali del conflitto e della mobilitazione antigovernativa verrebbero

progressivamente meno, sostengono gli intervistati.

d) L’importanza della transizione politica

É interessante notare che tra molti intervistati è comune l’idea che l’efficacia del sostegno della

comunità internazionale sia condizionata non solo al cambio di paradigma sopra descritto, ma anche

a un contestuale mutamento nel sistema politico e istituzionale afghano106. Senza una transizione

politica interna, senza un rafforzamento della legittimità del governo e dei meccanismi istituzionali,

perfino un impegno duraturo e ben orchestrato della comunità internazionale si rivelerà inutile107. É

diffusa la richiesta di una riforma dell’intero sistema politico e istituzionale. Senza una radicale

trasformazione politica, la transizione è destinata a naufragare: trasferire competenze, risorse e

sovranità a un governo privo di legittimità e a un sistema istituzionale inefficiente significa

aggravare l’instabilità del paese e accrescere la distanza tra il governo e la popolazione. Da qui, la

richiesta che la transizione porti con sé un rinnovamento radicale del sistema politico e istituzionale.

Le aspettative sulla possibilità che ciò possa accadere in tempi brevi sono unanimemente molto

basse.

4.3 I TIMORI

Come abbiamo appena visto, tra gli intervistati è diffusa la consapevolezza che senza una

trasformazione del sistema politico-istituzionale afghano anche un impegno prolungato e coerente

della comunità internazionale rischia di rivelarsi effimero. Allo stesso tempo, si registrano

aspettative molto basse sull’eventualità che tale trasformazione possa avvenire in tempi brevi. Ciò

genera una serie di timori, che investono ambiti diversi, da quello politico a quello militare, da

quello economico a quello geopolitico. Dalle interviste realizzate emergono cinque rischi principali

per la fase di transizione e per la fase successiva al disimpegno internazionale.

Afghan People, Asia Foundation 2007; A. Donini, L. Minear, I. Smillie, T.v.Baarda, A.C. Welch, Mapping the Security Environment:Understanding the perceptions of local communities, peace support aspirations, and assistance agencies, Feinstein International Famine Center, 2005. 106 Si veda International Crisis Group, Afghanistan’s Parties in Transition, Asia Briefing n. 141, giugno 2013. 107 Si veda il paragrafo su “Political, institutional and constitutional reform” in Hamish Nixon, Achieving a Durable Peace, op. cit.

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1) Il conflitto interno: il rischio che con la partenza delle truppe straniere si avvii un nuovo conflitto

interno, alimentato da network di potere politico, militare, economico.

2) Le interferenze e la fragilità istituzionale: il rischio che il vuoto politico e militare lasciato dal

ritiro delle truppe Isaf-Nato possa essere occupato dai paesi vicini, che potrebbero approfittare delle

incognite legate alle elezioni presidenziali dell’aprile 2014.

3) Le forze di sicurezza: il rischio che le forze di sicurezza afghane si dimostrino impreparate a

garantire la situazione del paese e che possano verificarsi processi di disgregazione dell’esercito.

4) La crisi economica: il rischio che la fine della missione Isaf e la contestuale riduzione degli aiuti

allo sviluppo possano provocare una crisi economico-finanziaria.

5) Le basi militari e i soldati degli Usa: il rischio che la prolungata presenza degli americani in

Afghanistan possa provocare ulteriore instabilità, anziché favorire la stabilizzazione del paese e

proteggerlo.

a) Il conflitto interno

La fase di transizione e il graduale ritiro delle truppe straniere provocherà una riconfigurazione

degli equilibri politici, economici e militari interni. Ciò darà vita a nuove dinamiche di potere,

alcune delle quali già in corso, per ottenere egemonia politica, profitti economici, sovranità militare

e territoriale. Tutti gli intervistati riconoscono l’inevitabilità di tali dinamiche, ma il modo in cui

vengono interpretate varia in modo significativo108.

É possibile registrare due visioni contrapposte: secondo una parte degli intervistati, con un governo

centrale debole e scarsamente legittimo è prevedibile che ogni network di potere cercherà di

rivendicare e guadagnare maggiore autonomia rispetto al governo centrale, una volta che questo

sarà privo del sostegno militare esterno. Le spinte centrifughe potrebbero portare alla

frammentazione del sistema politico e a un conflitto interno109. I cosiddetti “signori della guerra”

non esiterebbero a fare ricorso alle armi e ad alimentare le divisioni tra gruppi etnici e comunitari

pur di favorire i propri interessi. A conferma di questa ipotesi vengono portati due elementi: lo

scarso consenso di cui gode il governo e il deficit di fiducia tra le comunità. A causa del primo

108 Jonathan Goodhand scrive: “La guerra genera un insieme di interessi e gruppi sociali che cercano di sfruttare la mancanza di regole e l’incertezza. Tra questi, mercenari, approfittatori, contractor, specialisti della violenza, trafficanti….In Afghanistan la guerra è diventata sistemica nel senso che molti gruppi beneficiano economicamente e politicamente del ‘disordine duraturo’. Il modo in cui una presenza ridotta di truppe e fondi si rifletterà su questo sistema della guerra è imprevedibile, ma è probabile che una repentina riduzione in entrambi i settori porterà a una cambiamento dell’equilibrio corrente, e a una intensificata competizione violenta per ricorse sempre più scarse”, in Contested Transitions, op. cit. pp. 9-10. Su rischi e pericoli della fase post-2014, si veda anche Thomas Barfield, Afghans Look at 2014, in “Current History”, Vol 111, n. 744, aprile 2012, pp. 123–128. 109 Per Gilles Dorronsoro, “lo scenario più probabile è il collasso del regime afgano in pochi anni, dopo un continuo periodo di indebolimento. L’alternativa è il contenimento degli insorti, con una guerra civile indefinita e nessuna prospettiva per il rafforzamento dell’attuale governo centrale”, in Waiting for the Taliban in Afghanistan, op. cit. p. 14.

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elemento, sarebbero pochi gli afghani disposti a difendere l’integrità del sistema politico-

istituzionale, in caso di spinte verso il suo rovesciamento. A causa del secondo, i leader politici

avrebbero gioco facile ad alimentare il fuoco del risentimento reciproco.

L’altra lettura presenta uno scenario diametralmente opposto: i cosiddetti signori della guerra oggi

sarebbero “too fat too fight” (“troppo grassi per combattere”): a differenza di quanto accaduto

all’epoca della guerra civile, oggi avrebbero molto da perdere e nulla da guadagnare da un conflitto

domestico110. Nel corso di questi dodici anni i signori della guerra avrebbero ottenuto potere

politico e maturato consistenti interessi commerciali e finanziari. Un eventuale conflitto interno

metterebbe a repentaglio quanto ottenuto in questi anni anche grazie al sostegno internazionale.

Nuove avventure militari avrebbero esiti molto incerti e potrebbero compromettere i loro interessi.

b) Le interferenze esterne e le elezioni presidenziali

Ci sono due elementi su cui concordano i partecipanti alla ricerca, nonostante le opinioni diverse sul

conflitto interno: la percezione del pericolo “esterno” e la centralità delle elezioni presidenziali del

2014 nella riconfigurazione degli equilibri politici111. Quanto al primo elemento, vi è il diffuso

timore che il disimpegno delle truppe internazionali possa favorire l’interferenza dei paesi vicini, in

particolare del Pakistan e dell’Iran112. Il vuoto politico-militare provocato dal disimpegno

dell’Alleanza atlantica potrebbe essere occupato in particolare dal Pakistan, a cui viene attribuita la

volontà di destabilizzare l’Afghanistan. Pur se contestata, la presenza della comunità internazionale

e degli eserciti stranieri viene percepita come un deterrente rispetto a tale interferenza.

Quanto al secondo elemento, la maggioranza degli intervistati auspica una “transizione” politica che

conferisca maggiore legittimità al governo, elimini la corruzione come strumento di gestione della

macchina amministrativa, porti alla leadership individui competenti e interessati al benessere del

paese. Le elezioni presidenziali vengono considerate come una fondamentale fase di passaggio

politico. Dai risultati dalle elezioni e soprattutto dal modo in cui saranno condotte, gli intervistati

110 Secondo Barbara Stapleton, “oltre alla possibilità di una compagine anti-governativa del tutto ristabilita, il vacuum di sicurezza causato dalla partenza delle truppe internazionali potrebbe innescare un conflitto tra l’esercito afghano e le forze paramilitari, oltre che al loro interno”, in Beating a Retreat, op. cit. p. 4. Astri Suhrke sostiene che “la spesso evocata paura che il ritiro militare della Nato provochi una nuova guerra civile tra fazioni regionali ed etniche è influenzata più dal ricordo della precedente guerra civile negli anni Novanta che non da una valutazione delle attuali relazioni etnico-regionali. Soprattutto, molti leader delle fazioni oggi hanno forti interessi economici e politici nello status quo”, in The Case for a Light Footprint, op. cit. p. 9. Per Antonio Giustozzi, “tutti gli attori del conflitto condividono un interesse nella sua continuazione, perfino quando ognuno cerca di rafforzare la propria posizione. Il governo e i suoi alleati ricevono direttamente l’assistenza esterna e, soprattutto, le opportunità di approfittare delle risorse costituisce un ulteriore incentivo. Anche i Talebani ne beneficiano…”, in Thirty Years of Conflict, op. cit. p. 39 111 Per John Allen, Michèle Flournoy, Michael O'Hanlon, “il vero evento politico spartiacque per l’Afghanistan saranno le elezioni del 2014” e “il verdetto sulla guerra in Afghanistan potrebbe essere scritto meno sui campi di battaglia che negli uffici elettorali della prossima primavera”, in Toward a Successful Outcome in Afghanistan, op. cit. p. 9 e 11. 112 Gilles Dorronsoro sostiene che “nella prossima fase della guerra civile, gli attori regionali che sponsorizzano i gruppi afghani giocheranno un ruolo chiave, probabilmente negativo”, in Waiting for the Taliban in Afghanistan, op. cit. p. 17.

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fanno derivare due ipotesi: un progressivo miglioramento del quadro politico e del rapporto tra la

popolazione e il governo nel caso che le elezioni dovessero rappresentare un pacifico trasferimento

di potere, considerato legittimo dalla popolazione; un radicale peggioramento della situazione nel

caso dovessero essere viziate da frodi e brogli. É significativo notare che la maggioranza degli

intervistati nutre aspettative molto basse sulla prima ipotesi113.

c) Le forze di sicurezza afghane

Nel secondo sottocapitolo abbiamo registrato la richiesta di un impegno maggiore da parte della

comunità internazionale nel sostegno alle forze di sicurezza afghane. Tale richiesta è legata al

diffuso timore che non siano ancora pronte a garantire la sicurezza sull’intero territorio: le forze

afghane sarebbero prive dell’esperienza necessaria114, dell’equipaggiamento appropriato e delle

motivazioni giuste per difendere il paese. I primi due fattori sono imputati alla comunità

internazionale, che avrebbe iniziato i programmi di addestramento molto in ritardo e con molta

riluttanza. Il terzo fattore viene imputato alla scarsa coesione sociale del paese e alla mancanza di

un interesse nazionale condiviso. La preoccupazione più grande sembra essere proprio la fragilità

interna e la mancanza di coesione dell’esercito, indebolito da affiliazioni etniche e lealtà politiche

locali115. Molti paventano il rischio che eventuali conflitti politici interni possano riflettersi sulla

113 Secondo John Allen, Michèle Flournoy, Michael O'Hanlon, “un processo o un esito illegittimo potrebbero polarizzare etnicamente il paese, provocare una discesa nella guerra civile e demotivare a tal punto i donatori esterni da farli decidere di tagliare o ridimensionare sostanzialmente i loro impegni di lungo termine nell’ambito della sicurezza”, in Toward a Successful Outcome in Afghanistan, op. cit. p. 9. Nel rapporto dell’International Crisis Group, Afghanistan: The Long, Hard Road to the 2014 Transition, si legge che “il ripetersi del caos e degli imbrogli delle prevedenti elezioni innescherebbe una crisi costituzionale, diminuendo le chances che l’attuale quadro politico possa sopravvivere alla transizione. Nell’attuale contesto, le prospettive per elezioni trasparenti e per una regolare transizione sono esigue”. 114 Gilles Dorronsoro ritiene che “il ritiro occidentale condurrà a una crisi nell’ambito della sicurezza dal momento che l’esercito nazionale e la polizia afghana si combatteranno per affrontare i Talebani”, in Waiting for the Taliban in Afghanistan, op. cit. p. 8. Si veda anche Gary Owen, Another Post-2014 Capability Gap: Spin and reality of the Afghan air force’s readiness e Beans and Bullets: Pentagon report puts ANSF logistical and combat capabilities in doubt; gli articoli possono essere scaricati su http://www.afghanistan-analysts.org/. Si veda anche il Report on Progress Toward Security and Stability in Afghanistan del Dipartimento della Difesa Usa, dicembre 2012. Uno studio originale sull’evoluzione delle forze di polizia afghane è quello di Antonio Giustozzi e Mohammed Isaqzadeh, Policing Afghanistan, Columbia University Press 2013. 115 Secondo Antonio Giustozzi, le forze Isaf e Nato “non sono state in grado di affrontare la questione della rivalità etnica all’interno del’esercito afghano. La questione non è tanto quanti pashtun ne facciano parte, ma cosa significheranno tali rivalità una volta che l’esercito afghano dovrà vedersela da sé, senza l’aiuto esterno. In altri termini, quanto sono sostenibili gli effetti dell’addestramento impartito dall’Isaf?”, in Antonio Giustozzi, The Afghan National Army. Marching in the Wrong Direction?, in Martine van Bijlert e Sari Kouvo Snapshots (eds), Snapshots of an Intervention, op. cit. Sui problemi delle forze di sicurezza afghane, si veda anche Barbara Stapleton, Beating a Retreat, specialmente pp. 17-19 (‘ANSF Morale and Security Sector Reform’); Adam Grissom, Shoulder-to-Shoulder Fighting Different Wars: NATO Advisors and Military Adaptation in the Afghan National Army 2001-2011, in Farrell, Osinga, Russell (eds), Military Adaptation in Afghanistan, op. cit.; No Time to Lose. Promoting the Accountability of the Afghan National Security Forces, Oxfam 2011; A Force in Fragments: Reconstituting the Afghan National Army, International Crisis Group, Asia Report n. 190, 2010; A. Giustozzi, The Afghan national army: unwarranted hope?, in “RUSI journal”, 154 (6), 2009, pp. 36-42; A. Giustozzi, Restructuring the defence sector, in Afghanistan’s security sector governance challenges, Geneva Centre for the Democratic Control of Armed Forces, 2011. Per una valutazione più ottimistica sulle forze di sicurezza afghane, si veda il citato rapporto di John Allen, Michèle Flournoy, Michael

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tenuta dell’esercito, dando luogo a una disgregazione per linee etniche e di affiliazione politica. La

percezione che l’esercito e le forze di polizia afghane siano inadeguati al compito è legata ad altri

due fattori: la convinzione che i paesi vicini non esiteranno a intensificare le interferenze una volta

che gli eserciti stranieri avranno abbandonato il terreno; l’idea che i movimenti antigovernativi

costituiscano un effettivo pericolo per la stabilità delle istituzioni, anche grazie agli aiuti militari

esterni.

d) La crisi economico-finanziaria

Tra coloro che hanno partecipato alla ricerca c’è il timore che una volta avvenuto il ritiro completo

degli eserciti stranieri il paese debba affrontare una grave crisi economica e finanziaria. L’idea

sottostante è che l’aiuto finanziario internazionale sia condizionato alla presenza delle truppe sul

terreno: un loro ritiro significherebbe una contestuale e progressiva riduzione degli aiuti allo

sviluppo116. Se continuasse la tendenza alla diminuzione degli aiuti, i pochi risultati raggiunti

potrebbero rivelarsi effimeri e la transizione fiscale e finanziaria perfino più complicata di quella

militare117. Tra le preoccupazioni, anche quelle relative ai costi per mantenere le forze di sicurezza

afghane118.

Si ritiene che la presenza della comunità internazionale abbia generato miglioramenti economici

parziali, senza favorire la nascita di un sistema economico efficiente e autonomo, a causa della

O'Hanlon, Toward a Successful Outcome in Afghanistan. Per gli autori (p. 7), “lo sviluppo delle forze di sicurezza afghane, soprattutto dell’esercito nazionale, è stato fondamentalmente sottostimato dalla stampa occidentale”. 116 L’8 luglio 2012, si è svolta a Tokyo una conferenza in cui il governo afghano e la comunità internazionale hanno discusso l’impegno finanziario per il “decennio della trasformazione” (Transformation Decade, 2015 – 2025). Il comunicato reso pubblico alla fine della conferenza conferma l’intenzione della comunità internazionale di garantire 16 miliardi di dollari nei prossimi anni, sulla base di un Mutual Accountability Framework (MAF) che prevede riforme specifiche e misurabili da parte del governo afghano nei settori della governance, della rule of law, dell’anti-corruzione, delle performance nello sviluppo. Per un’ampia panoramica sugli aiuti allo sviluppo in Afghanistan, si veda How the Aid Architecture Worked, la terza parte dell’ebook Snapshots of an Intervention curato da Martine van Bijlert e Sari Kouvo Snapshots (in particolare il saggio di Anja de Beer, The Early Aid Architecture and How It Has Changed). 117 Secondo Barbara Stapleton, “se la tendenza a diminuire i fondi continuasse, i risultati ottenuti nella governance e nello sviluppo in Afghanistan potrebbero non essere sostenibili. Tale scenario eroderebbe ulteriormente la legittimità del governo afghano tra gli afghani e contribuirebbe all’instabilità”, in Beating a Retreat, op. cit. p. 2. Per Anthony H. Cordesman, “gli Stati Uniti già sono almeno sei mesi indietro nel modellare un’efficace transizione in Afghanistan. Non hanno preparato piani credibili per la sicurezza, la governance e gli aspetti economici della transizione in Afghanistan. Non hanno reso chiari ai propri alleati o agli afghani quale sia il livello del loro futuro impegno, e hanno fallito miseramente nel convincere il Congresso e il popolo americano che c’è una ragione credibile per sostenere la transizione oltre il 2014”, in Failing Transition. The New 1230 Report on Progress Toward Security and Stability in Afghanistan, Center for Strategic and International Studies, agosto 2013, p. 4. Per Jonathan Goodhand, “un improvviso venir meno dei fondi e del sostegno militare potrebbe condurre allo scenario finale di una guerra civile regionalizzata. Ciò suggerisce la necessità di concreti impegni di lungo termine, e una chiarezza di obiettivi che è mancata per gran parte dell’impegno occidentale in Afghanistan”, in Contested Transitions, op. cit. p. 14. 118 Al Summit di Chicago che si è tenuto il 20-21 maggio 2012, i paesi membri della Nato e i partner della coalizione che opera in Afghanistan hanno ribadito il “Lisbon framework for Transition” e sostenuto il “NATO Strategic Plan for Afghanistan (NSPA)”, garantendo 3.6 miliardi di dollari annui per tre anni a partire dall’inizio del 2015 per sostenere le forze di sicurezza afghane. A questa somma vanno aggiunti i 500 milioni di dollari annui che il governo afghano si è impegnato a impiegare nel settore della sicurezza nello stesso arco di tempo, prevedendone un progressivo aumento nella fase successiva.

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subordinazione degli obiettivi della ricostruzione a quelli della sicurezza. Alla debolezza strutturale

si somma la preoccupazione per il vuoto economico che lascerà la scomparsa dell’economia di

guerra e del suo indotto119. Molti sottolineano il legame tra economia e sicurezza: il nesso tra la

capacità del governo di garantire condizioni economiche migliori e opportunità per tutti da una

parte e la stabilità politica dall’altra. Una eventuale crisi economica provocherebbe una

radicalizzazione del conflitto e il collasso del sistema politico120.

É significativo notare che per una parte minoritaria degli intervistati, il fattore economico potrebbe

favorire la stabilità, in una chiave regionale. L’idea sottostante è che il conflitto potrebbe diventare

meno cruento se la competizione militare fosse indirizzata verso la competizione economica121.

Laddove tutti i principali attori della regione avessero un interesse economico da preservare in

Afghanistan, sarebbero disposti a collaborare e rinuncerebbero più facilmente all’uso di strumenti

militari. Inoltre, se gli interessi economici cinesi diventassero rilevanti, la Cina sarebbe portata a

chiedere al Pakistan di mettere fine all’interferenza in Afghanistan e al sostegno ai gruppi

fondamentalisti, contribuendo alla stabilità del paese.

e) Le basi militari e i soldati degli Stati Uniti

Tra i fattori che alimentano preoccupazioni e timori, ci sono le negoziazioni in corso tra

l’amministrazione Obama e il governo Karzai sull’accordo bilaterale di sicurezza e sull’eventuale

presenza post-2014 di soldati e basi militari americane sul suolo afghano122. Si tratta di una

119 Per Gilles Dorronsoro, “l’imperativo del ritiro economico si sentirà soprattutto in relazione alla riduzione delle spese legate alla presenza delle truppe, sopratutto nei progetti legati alle infrastruttre…Tutto ciò condurrà a una crisi economica”, in Waiting for the Taliban in Afghanistan, op. cit. p. 8. 120 Su questo si vedano la valutazione della Banca mondiale, Afghanistan in Transition: Looking Beyond 2014, volume 2: Main Report, maggio 2012; e poi World Bank, Afghanistan Economic Update, World Bank 77083, aprile 2013. Il rapporto dell’aprile 2013 della Banca mondiale avverte: “il processo di transizione espone l’Afghanistan a una serie di gravi rischi… Una peggiorata situazione della sicurezza e un’accresciuta percezione di incertezza sta condizionando i nuovi investimenti. Il numero di nuove aziende registrate è sceso dell’8 per cento nel 2012 (gennaio-dicembre)…Ci si aspetta che la crescita economica rallenti nel 2013 e nel 2014…Le proiezioni suggeriscono che perfino in condizioni favorevoli, che dipendono da buoni progressi nel settore minerario e da un ambiente relativamente sicuro, la crescita del prodotto interno lordo potrebbe scendere da una media del 10% avuta nel decennio passato al 4-6% tra il 2011 e il 2018…”. 121 Sulle due diverse e fondamentalmente opposte prospettive (quella “occidentale” e quella “asiatica”) per il futuro dell’Afghanistan si veda Astri Suhrke, Towards 2014 and beyond: NATO, Afghanistan and the “Heart of Asia”, Norwegian Peacebuilding Resource Centre, August 2012. 122 Il 20 novembre 2010 il governo afghano ha stipulato a Lisbona una dichiarazione di “enduring partnership” con la Nato: si veda “Declaration by the North Atlantic Treaty Organisation (NATO) and the Government of the Islamic Republic of Afghanistan on an Enduring Partnership signed at the NATO Summit in Lisbon, Portugal”, http://www.nato.int/cps/en/natolive/official_texts_68724.htm; a maggio 2012 i presidenti Barack Obama e Hamid Karzai hanno firmato un “Enduring Strategic Partnership Agreement between the Islamic Republic of Afghanistan and the United States of America”: http://www.whitehouse.gov/sites/default/files/2012.06.01u.s.-afghanistanspasignedtext.pdf. Al momento sono in corso i negoziati per la firma del Bilateral Security Agreement e il relativo Status of Forces Agreement (SOFA). Su questo, si veda Kate Clark, Legalities of the Post-2014 Landscape: The US-Afghan Bilateral Security Agreement, articolo disponibile sul sito http://www.afghanistan-analysts.org.

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questione che divide gli intervistati. Si registrano due posizioni opposte: quella di chi accetta la

presenza delle basi militari come un elemento necessario per la stabilità del paese e come forma di

protezione dalle interferenze dei paesi vicini; quella di chi ritiene invece che le basi militari possano

provocare ulteriori interferenze esterne e ledere la già precaria sovranità del governo.

Tra i sostenitori della prima tesi, sembrano prevalere considerazioni di ordine pragmatico.

L’esercito afghano viene considerato ancora impreparato per difendere il paese dalle interferenze di

Pakistan e Iran, e le basi militari appaiono un deterrente efficace, oltre che una garanzia che

l’Afghanistan non verrà abbandonato dalla comunità internazionale. I timori di attacchi esterni e il

ricordo di quanto accaduto dopo il ritiro dell’esercito sovietico prevalgono sulle considerazioni

ideali, che suggerirebbero di negare agli Stati Uniti il diritto di avere basi militari. La maggior parte

degli intervistati chiede comunque che le negoziazioni si svolgano su un piano paritario: gli Stati

Uniti dovrebbero rendere chiari i propri obiettivi, il governo afghano dovrebbe valutarne la

compatibilità con quelli nazionali; la presenza di militari e basi americane dovrebbe essere

subordinata al rispetto dei valori culturali e sociali locali e al rispetto della sovranità del paese.

É significativo notare un altro elemento, che emerge in modo implicito: il timore che il Pakistan

possa tentare di annettersi parte del territorio afghano è superiore al timore che gli Stati Uniti

possano mantenere delle basi militari per perseguire i propri obiettivi. Gli Stati Uniti vengono

percepiti come un attore esterno meno “pericoloso” dei paesi vicini. Al contrario di questi, in

particolare del Pakistan, gli obiettivi degli Stati Uniti in Afghanistan sarebbero di natura strategica,

regionale, non territoriale. Significativamente, tale ipotesi è sostenuta anche da coloro che imputano

agli Stati Uniti un atteggiamento ambiguo nei riguardi dei movimenti antigovernativi: l’idea

sottostante è che le basi militari di un paese dalle politiche contraddittorie come gli Stati Uniti siano

comunque preferibili a quelle che vengono percepite come evidenti aggressioni del Pakistan.

Si registra inoltre una differenza tra le diverse province: nella provincia di Nangarhar c’è una

maggiore insistenza sulla necessità che gli Stati Uniti rispettino i valori culturali e sociali locali e

dichiarino i loro veri obiettivi nella regione; nella provincia di Bamiyan si insiste sulla necessità

strumentale delle basi militari americane in funzione protettiva. Comune a tutte le province è la

convinzione che, con o senza le basi americane, già ora i paesi vicini interferiscano in Afghanistan.

Da qui, un paradosso sottolineato da molti intervistati: con la loro interferenza i paesi vicini

costringono il governo afghano a contraddire il loro stesso interesse di allontanare gli Stati Uniti

dalla regione.

Un’interpretazione opposta suggerisce che il governo dovrebbe rifiutare le basi militari americane. I

sostenitori di questa posizione la giustificano elencando diversi timori: il timore che le basi militari

americane non vengano usate per controllare Iran e Pakistan ma per interferire negli affari interni

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del paese; il timore che la loro presenza possa alimentare le interferenze dei paesi vicini, rafforzare

le ragioni della mobilitazione antigovernativa e prolungare il conflitto; l’idea che sia ingenuo

pensare che le basi militari possano essere usate per scopi pacifici; la consapevolezza storica che in

Afghanistan la presenza di un attore straniero ha sempre provocato una mobilitazione interna e una

contestuale interferenza esterna, come dimostra il caso dell’occupazione sovietica da un lato e

dell’intervento militare occidentale del 2001. Qualcuno sottolinea inoltre che le basi militari

americane rischiano di ledere ulteriormente la già fragile sovranità del governo. L’immunità che gli

Stati Uniti rivendicano per i propri soldati contraddice la sovranità del governo afghano. La

sovranità del paese potrebbe essere meglio garantita rifiutando le basi militari americane e

migliorando le capacità dell’esercito afghano, sostiene una parte degli intervistati.

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TESTIMONIANZE 4. LA TRANSIZIONE E IL POST-2014

Testimonianze 4.1: Le aspettative

“Quelli sulla prossima catastrofe nel 2014 sono soltanto voci. Non succederà niente di rilevante. Ora abbiamo una polizia, un esercito, Al Qaeda non è più forte come prima, Osama bin Laden è morto, i Talebani già sono stati sconfitti politicamente e ideologicamente, non sono in grado di riprendere il controllo del paese, la gente non li sostiene più. In questo la nuova generazione è la forza più importante, che si farà sentire nell’arco dei prossimi due decenni. Dove sembra che i Talebani siano forti, in realtà a essere forti sono i servizi segreti ‘regionali’”, Aziz Rafiee, direttore ACSF, Kabul

“Gli accordi di partenariato firmati dal governo con alcuni paesi stranieri, tra cui Italia, Germania, Stati Uniti, mi rendono più ottimista. É un’indicazione chiara che la comunità internazionale non ripeterà gli errori passati, quando l’Afghanistan è stato abbandonato. In ogni caso, sento in giro molta preoccupazione. Tra la gente, prevale l’incertezza. Qui a Herat per esempio si investe meno che in passato, proprio perché nessuno sa cosa potrà accadere in futuro, e molti temono una nuova guerra”, Aziza Khairandish, West Coordinator CSHRN, Herat “Abbiamo fiducia nel futuro, ma solo Allah può sapere cosa ci riserva. A volte i media tendono a enfatizzare i pericoli del dopo 2014, sostenendo che una volta avvenuto il ritiro ci saranno molti cambiamenti negativi. Io non lo credo. Ma di certo non credo neanche in miglioramenti repentini. La cosa essenziale è che la comunità internazionale mantenga le sue promesse, soprattutto il sostegno al nostro esercito. Credo che le manterrà perché altrimenti perderebbe tutto quello che ha speso in questi ultimi dieci anni di aiuti e cooperazione”, content manager Radio Killid, Jalalabad

“Difficile prevedere cosa accadrà. Tutto dipende dalle decisioni che prenderanno in questi mesi il governo e la comunità internazionale. Se il sistema verrà finalmente ripulito, se i corrotti verranno allontanati, potrà realmente avvenire la ‘trasformazione’. Altrimenti il sistema potrebbe facilmente crollare, perché la gente ogni giorno di più perde fiducia nel governo, e senza la fiducia della popolazione nessun sistema politico può durare a lungo”, Sayed Ikram Afzali, Head of Advocacy and Communication, Integrity Watch, Kabul “Non credo che dopo il 2014 ci saranno cambiamenti rilevanti nell’intensità del conflitto. Semmai, sarà il settore economico a risentirne di più. Ma anche l’economia dei Talebani ne risentirà”, Farid Aibad, Dipartimento educazione Farah e direttore AYSO

“É un tema molto dibattuto. La gente non sa cosa aspettarsi. Da parte mia, non credo che ci saranno cambiamenti sostanziali. I Talebani forse indosseranno nuovi abiti, ma le forze di sicurezza afghane sono più forti di prima. Molti miei amici sono comunque preoccupati per quel che succederà”, Farzana Asra, studentessa Balkh University, giornalista radio-tv locale, Mazar-e-Sharif

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“Se gli stranieri continueranno ad assistere le forze afghane in ambito militare, non ci dovrebbero essere grandi problemi con il ritiro”, Ahmad Jamal, giornalista, editor in chief magazine Meena, Jalalabad

“Ci sono tre scenari possibili: uno scenario neutrale, in cui la situazione sarà più o meno come quella attuale, con un governo debole, una forte corruzione, gruppi di insorti che combattono e un investimento simile a quello attuale da parte di Stati Uniti e Pakistan. Uno scenario positivo, altamente improbabile, che può accadere soltanto se si dovesse trovare un accordo tra il governo e gli insorti. E uno scenario di progressiva discesa verso il caos, come negli anni 90, con vari attori impegnati a combattersi a vicenda. Io credo che le cose non cambieranno molto, perlomeno non nel breve periodo”, Idrees Zaman, direttore CPAU, Kabul “A dire il vero non sono sicuro che le forze internazionali lasceranno davvero e per sempre il paese, alla fine del 2014. Comunque, se la comunità internazionale continua a sostenerci, non ci saranno cambiamenti significativi. Ma è importante che lo faccia davvero”, Akhtar Mohammad Ibrahim Khil, responsabile Peace council, Mazar-e-Sharif

“Non ci saranno grandi cambiamenti. Perché? Perché prima la gente era ignorante e cieca, oggi invece è istruita e capisce meglio l’importanza della pace. Inoltre, già oggi non c’è un vero e proprio conflitto in Afghanistan, ci sono piuttosto gli attentati degli insorti, legati alla presenza degli stranieri. Credo che una volta che gli eserciti stranieri si ritireranno, il jihad terminerà. I Talebani dicono di combattere i non-musulmani, gli infedeli. Una volta che questi saranno andati via dal paese, non ci sarà ragione di combattere. I gruppi antigovernativi mirano agli stranieri, non agli afghani”, Mohammed Anwar Sultani, elder, già docente universitario, Jalalabad “Dopo il 2014 non ci saranno cambiamenti rilevanti. La comunità internazionale ha fatto molti investimenti nel paese e non vorrà perderli. Su questo, credo che i media e le televisioni esagerino i rischi futuri. Sono abbastanza ottimista anche sulla capacità delle nostre forze di sicurezza di garantire la stabilità. Certo, è difficile fare previsioni ora, ma credo faranno un buon lavoro”, Yor Mohammad Bakhiri, docente Ibn Sina Institute of Higher Education, Mazar-e-Sharif

“Non credo che avverranno dei grandi cambiamenti, nel 2014. Sotto il profilo della sicurezza, se i soldati americani rimarranno in Afghanistan non ci saranno cambiamenti rilevanti. Forse la popolazione dovrà affrontare delle sfide economiche, però”, Khalilullah Hekmati, direttore BAO, Mazar-e-Sharif “Dopo il ritiro, la situazione rimarrà come è ora. Non ci saranno peggioramenti significativi perché conviene a molti una situazione simile a quella attuale. In ogni caso, anche se ci fossero un milione di soldati, non riuscirebbero a garantire la sicurezza fino a quando nel governo e nell’amministrazione ci saranno comandanti e criminali. Senza contare che anche gli stranieri traggono vantaggio dall’instabilità attuale, gli inglesi, gli americani, tutti”, Kazem Amini, docente Faryab Teaching Training Center e responsabile Zahiruddin Faryabi Cultural Association, Maimana

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“Non credo che la situazione sarà quella descritta e paventata da molti politici e commentatori che vanno in Tv: ci saranno combattimenti, attacchi, situazioni di instabilità, ma non saranno così diffusi e forti da far scattare un’altra guerra; siamo tutti stanchi della guerra. Dobbiamo essere positivi. Non mi piacciono quelli che pensano solo in negativo e che non si forzano di trovare soluzioni ai problemi: dobbiamo identificare i problemi e poi sforzarci di trovare le soluzioni, non solo lamentarci”, Zamir Saar, lettore in Letteratura pashto, Balkh University, Mazar-e-Sharif “Dopo il 2014 non credo ci saranno cambiamenti rilevanti. La gente è stanca della guerra. E farà di tutto per evitare conflitti ulteriori”, Ahmad Shuaib “Shahir Qasemian”, Provincial Managaer, ASPR, Maimana

“La gente teme che riprenda il conflitto interno. Io credo che non ci sarà nessun cambiamento sostanziale. Gli afghani hanno già cominciato a ricostruire il proprio paese, a migliorarlo. Rimane vero che molti hanno cominciato da tempo a mettere da parte i soldi, in caso dovessero lasciare il paese”, Nazira Hamadi, regional manager ACSF, Mazar-e-Sharif “Non credo che, come molti dicono, la situazione peggiorerà una volta avvenuto il ritiro delle truppe internazionali. Negli ultimi 10 anni ci sono stati investimenti importanti nel settore militare afghano, inoltre gli stranieri hanno assicurato che continueranno a sostenerci, in un modo o nell’altro. É loro responsabilità mantenere le promesse fatte. Finora hanno mantenuto le promesse al 50%. É ora che tengano fede a tutte le promesse fatte”, Asadullah Larawi, Regional Officer CSDC, Jalalabad

“Il 2014 rappresenta una data cruciale e porterà con se una serie di problemi, è innegabile. Ci dà molto da pensare. La comunità internazionale ha promesso maggiore cooperazione e aiuti, staremo a vedere. Mi pare stiano lavorando per rafforzare il governo afghano e le forze di sicurezza. Senza un corpo militare degno di questo nome, senza un esercito equipaggiato come si deve, non possiamo garantire sicurezza, e senza sicurezza non possiamo costruire la rinascita civile del paese. Se le promesse verranno mantenute, non ci saranno grandi cambiamenti”, Khalida Aimaq, direttrice AWEC, Maimana “La questione per me è molto semplice. Gli eserciti stranieri, in primo luogo quello degli Stati Uniti, sono sul territorio afghano e questo genera un conflitto. La via per la pace presuppone che gli eserciti stranieri si ritirino e che non interferiscano nelle nostre attività. Una volta che gli stranieri saranno andati via, potremmo fare affidamento sui nostri meccanismi tradizionali di risoluzione dei conflitti per venire a capo della situazione. Quando si saranno ritirati sarà tutto più facile, potremmo organizzare meglio e più efficacemente le nostre shura, facendo ricorso a quegli strumenti culturali che per noi sono più efficaci. Potremmo andare dai nostri fratelli a Peshawar e risolvere la situazione. Molto dipende dalla comunità internazionale; se deciderà di mantenere la promessa di fare un passo indietro, ritirando gli eserciti ed evitando di interferire. Tutti si chiedono se dopo il 2014 la situazione cambierà, peggiorerà, cosa succederà. Io dico che non dovete preoccuparvi, ci penseremo noi afghani. Che gli occidentali pensino piuttosto a risolvere il conflitto in Palestina”, Mohammad Asif Samin, poeta, Jalalabad

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“Anch’io non so cosa pensare, e mi divido tra le due idee che circolano. A volte la penso in un modo, a volte in un altro. La prima idea è che una volta che gli stranieri se ne andranno il conflitto cesserà pian piano e la situazione si stabilizzerà. La seconda è che la situazione peggiorerà. Qui molti stanno vendendo le case per trasferirsi. Io sono preoccupata. Temo che i Talebani possano riprendere il potere”, Lailuma Sediqi, responsabile Dipartimento affari femminili, Farah Testimonianze 4.2: le richieste “Se gli stranieri se ne vanno senza pianificare il futuro del paese, è come lasciare incustodito un fuoco dopo averlo acceso. Quel fuoco si alimenterà da solo e finirà per incendiare le case e bruciare le persone. Se la comunità internazionale si disinteressa dell’Afghanistan e della sua popolazione, saranno andati persi 10 anni. Lasciare un paese senza una economia funzionante e senza una strategia chiara per il suo futuro, è insensato. Senza un programma chiaro e definito, il paese scivolerà nuovamente nella conflittualità interna anche se oggi ai comandanti non conviene più combattere, come conveniva una volta”, membro Welfare Association “La comunità internazionale deve continuare a sostenere l’Afghanistan, in ambito militare, con più armi e mezzi, e in ambito economico, così da far nascere una vera economia afghana. Altrimenti i Talebani e Al Qaeda diventeranno più forti”, Ismail Zaki, regional coordinator CSHRN, Bamiyan “Sapevamo che le truppe straniere non sarebbero rimaste qui per sempre. Ora la grande questione è il tipo di sostegno che avremo dopo il 2014. Se sarà limitato, la situazione sarà insostenibile. Se invece ci sarà un sostegno vero, indirizzato alla riforma delle istituzioni afghane, allora la situazione sarà più stabile. La strada per la stabilità è ancora lunga. Non credo comunque che la comunità internazionale voglia assumersi i rischi di un fallimento in Afghanistan. Sarebbero troppo alti, in termini simbolici e pratici. Se il governo afghano dovesse cadere dopo il 2014 si tratterebbe di una sconfitta militare, politica e insieme ideologica”, Naim Nazari, executive coordinator CSHRN, Kabul “La maggioranza del paese vuole pace, non vuole più combattere come in passato. Bisogna costruire e proteggere la pace. Dopo la guerra santa contro i sovietici, la comunità internazionale si è dimenticata dell’Afghanistan e ha lasciato che a prendere il potere fossero i Talebani. L’esempio del passato ci deve ammonire per il futuro: sarebbe uno sbaglio enorme abbandonare il paese nuovamente. Temo comunque che dopo il 2014 il governo possa limitare la libertà di espressione e i diritti umani, perché le priorità saranno altre”, Nawroz Raja, giornalista, Bamiyan “Chiederemo alla comunità internazionale di sostenere l’Afghanistan, certo, ma soprattutto la società civile; finora il sostegno c’è stato, ma è stato soprattutto nominale, simbolico; serve un impegno più diretto, che contrasti i personaggi poco trasparenti, che incoraggi il governo ad avere un atteggiamento più leale verso la società civile. Chiederemo anche che le questioni di genere vengano rispettate, che alle donne siano garantiti più spazi nelle decisioni politiche, e che la nostra voce venga ascoltata veramente”, Hasina Nekzad, coordinatrice regionale AWN, Herat

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“Sarà bene che la comunità internazionale continui a cooperare con l’Afghanistan, soprattutto in ambito finanziario. Abbiamo ancora bisogno dell’amicizia e del sostegno della comunità internazionale. Senza un sostegno esterno, il nostro paese sarà vittima delle interferenze dei paesi vicini, Iran, Pakistan, e altri. Il paese diventerà ancora una volta la culla del terrorismo internazionale. Il rapporto con i paesi stranieri dovrebbe essere più chiaro: abbiamo bisogno di sostegno, in campo economico e militare, ma non vogliamo interferenze. Se gli stranieri ci sostengono nella ricerca della nostra via, sarà per un beneficio condiviso, se ci abbandonano, il conflitto sarà duro”, Sher Alam Amlawal, docente Legge e Scienze politiche, Aryana University, Jalalabad “Molto dipende dalle intenzioni della comunità internazionale. Se esercita pressioni sul Pakistan affinché smetta di sostenere i Talebani e di mandarli in Afghanistan; se sostiene adeguatamente l’esercito e la polizia afghani; se continua con il sostegno e gli aiuti allo sviluppo allora le cose cambieranno in positivo. Ma bisogna proseguire sui temi dei diritti di genere e della buona governance da cui dipende la sicurezza”, Habiba Sorabi, governatrice provincia di Bamiyan

“Gli stranieri hanno l’obbligo di mantenere le promesse fatte al popolo afghano, continuando a combattere gli insorti. Se non lo facessero, i pericoli arriverebbero anche in casa loro”, Wahidullah Danish, CSDC, Jalalabad “La comunità internazionale deve rendersi conto che questa non è la nostra guerra. É stata creata dalla comunità internazionale e loro devono risolverla, se ne devono assumere la responsabilità. Sarebbe un errore clamoroso se dovessero lavarsene le mani, ora”, Mohammed Saeed Niazi, direttore CSDC, Kabul

“Se la comunità internazionale dovesse pian piano dimenticarsi di noi, i gruppi antigovernativi, specialmente i Talebani e Al Qaeda diventererebbero più forti e intensificherebbero le loro attività. La comunità internazionale ha una grande responsabilità: gli Stati Uniti e l’Europa non devono distogliere l’attenzione dal paese, una volta ritirate le truppe”, Khalil Azizi, Mediothek, Mazar-e-Sharif “Il 2014 è anche l’occasione per guardarsi indietro: quando sono arrivati in Afghanistan, gli stranieri pensavano grossolanamente di essere in Medio Oriente, non avevano una conoscenza specifica del paese, così sono emersi problemi inaspettati. Oggi non sono più così sicuri dei loro obiettivi e agiscono molto più prudentemente. Credo che gli Stati Uniti non siano nella posizione di abbandonare l’Afghanistan, a causa dell’impegno, della responsabilità che si sono presi con la comunità internazionale. Per questo sono in cerca di una soluzione, anche se parziale. Pensano a come uscire dal pantano senza creare nuovi problemi”, Mirwais Ayobi, lettore in Law and Political Science, università di Herat, direttore Herat University Legal Clinic

“Spero che la comunità internazionale mantenga le promesse di Bonn e di Tokyo. Se lo fanno, forse il futuro sarà migliore. La situazione rimane difficile, anche la storia ce lo insegna. Quando i russi

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erano qui, la Nato ha combattuto i sovietici e il blocco di Varsavia; se gli americani non realizzano cose importanti, veramente essenziali, altri paesi torneranno facilmente a interferire, e il paese verrà distrutto”, Nurrahmad Nurrani, direttore Youth Federation, Jalalabad “Il ritiro delle truppe straniere deve essere l’occasione per lasciare che gli afghani gestiscano da sé i propri problemi e che lavorino per il proprio paese piuttosto che per la comunità internazionale; l’occasione affinché si prendano la responsabilità di organizzarsi e di decidere come andare avanti. La comunità internazionale dovrebbe limitarsi a concedere ai gruppi antigovernativi la possibilità di sganciarsi da Al Qaeda. In questo modo, il 2014 può essere un’occasione. Però è importante che non sia percepito come il fallimento della comunità internazionale. Se così fosse, i gruppi radicali avrebbero ulteriori motivazioni per combattere, e altra gente si unirebbe a loro”, Ghulam Shah Adel, preside della Facoltà di Legge e scienze politiche dell’Università di Herat

“La soluzione sta nel restituire al governo afghano la piena sovranità. Anche dal punto di vista finanziario, il governo deve poter gestire direttamente tutti gli aiuti che riceve. Inoltre, sia i civili che i soldati stranieri devono essere sottoposti alla legge afghana”, dottor Abdul Jabar, Provincial Health Director , Farah “Il ritiro delle truppe? Io sono convinta che non bisogna starsene con le mani in mano, aspettando di vedere cosa succede nel 2014 e subito dopo. Molto più utile, invece, impegnarsi da subito per migliorare la situazione”, Bilgees Attaye, managing director di DEOW, Maimana

“Finora, gli aiuti sono andati sprecati perché c’è stata pochissima consultazione e tantissima corruzione. Credo che il ritiro degli stranieri sia benefico per noi, perché solo allora si comprenderà che nessun paese può nutrirne un altro. L’idea che ci sarà una guerra civile è soltanto propaganda occidentale, credo invece che con il ritiro gli afghani tornino a comprendere i propri doveri, lasciamo che si ritirino, e pensiamo al nostro paese. La gente qui è come drogata dagli aiuti, dalla cultura dell’assistenza. Dobbiamo tornare a reggerci sulle nostre gambe”, Hambdullah Arbab, artista e regional coordinator YIAA, Jalalabad “É arrivato il tempo che il paese sia gestito da una nuova generazione di persone. Coloro che hanno combattuto e che detengono il potere in ragione delle loro battaglie militari, verranno presto sostituiti da una nuova generazione di giovani istruiti. É solo questione di tempo”, Daoud Saba, governatore della provincia di Herat

“Qui in Afghanistan sono arrivati più di 40 paesi diversi, hanno cooperato negli ambiti militari e della ricostruzione, ma la cosa più importante è qualcosa che loro non possono fare, perché non possono costruire o ricostruire la nostra cultura. É un compito che spetta a noi. É nostro dovere e responsabilità farlo, nostro dovere rendere accessibile la cultura a tutti e in questo modo rendere più forti le relazioni sociali”, Timur Hakimyar, direttore FCCS, Kabul

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“Sappiamo che la comunità internazionale ha i suoi interessi in Afghanistan. E anche noi abbiamo interesse che la comunità internazionale sostenga l’Afghanistan. Dobbiamo fare in modo di lavorare sugli interessi reciproci”, Aziza Khairandish, West Coordinator CSHRN, Herat “Un giorno gli afghani dovranno assumersi la piena responsabilità del paese, che sia oggi o che sia domani poco importa, è un passaggio che deve avvenire ed è un bene per tutti che avvenga. É essenziale che gli afghani si dimostrino capaci di gestire il paese. La sfida è quella di non fare passi indietro, agli anni Novanta. Gli accordi di partenariato stabiliti con l’India, con gli Stati Uniti, con l’Inghilterra e con altri paesi dimostrano che la comunità internazionale non ha intenzione di abbandonare il paese, come già accaduto. Per questo penso che il passaggio di consegne sia una buona opportunità per il paese per conquistare l’autonomia”, Mohammed Saeed Niazi, direttore CSDC, Kabul

“Volete andar via? Fatelo pure, ma perlomeno evitate di dire che lascerete il paese del tutto. Mi chiedo perché gli Stati Uniti vogliano andarsene? Perché hanno trovato e ucciso Bin Laden? Sarebbe un errore. Al Qaeda fa ancora una propaganda capillare e per alcuni convincente, molti giovani arabi, afghani, pakistani si sono uniti al movimento. Il ritiro della Nato potrebbe dimostrarsi fatale. Avremo bisogno del sostegno della comunità internazionale almeno fino al 2020/24. Qui ci si chiede perché gli stranieri se ne vanno, se non hanno completato il loro lavoro. L’improvviso venir meno del sostegno della comunità internazionale sarebbe un disastro. Ma il ritiro potrebbe essere anche l’occasione affinché il paese impari a sostenersi sulle proprie gambe”, Noorullah Mohsini, rettore Facoltà di Legge e Scienze politiche, Balkh University, Mazar-e-Sharif “Ogni cittadino dei paesi occidentali, direttamente o meno, ha finanziato l’intervento in Afghanistan. Sarebbe ora che chiedeste ai vostri leader politici quali fossero gli obiettivi iniziali, e se li hanno ottenuti”, Abdul Qader Rahimi, regional program manager AIHRC, Herat “La comunità internazionale vorrà dare soldi solo all’esercito, ma questo non serve per la crescita economica; serve lavorare sull’economia, creare posti di lavoro, convincere chi combatte il governo e si aspetta una vita normale di unirsi al piano di pace”, Niamatullah Harez, Ong internazionale, Herat “Ciò di cui c’è veramente bisogno in questo paese sono miglioramenti in ambito economico e sociale. Abbiamo bisogno di cose ben diverse dalle basi militari. Servono più posti di lavoro, un’economia migliore, maggiori capacità ed educazione della gente, un governo migliore”, Zia Urraham Tariq, CSHRN, Jalalabad

“Il ritiro delle forze internazionali è una fuga, significa andarsene a gambe levate cercando di non darlo a vedere. Significa fuggire da una crisi profonda, abdicare alle proprie responsabilità. La sicurezza non c’è, la giustizia non c’è, l’economia non c’è. Fuggire davanti ai problemi non è un rimedio, chiudere gli occhi non è un rimedio. Al contrario, produrrà effetti negativi. Se valutiamo quel che ha fatto la comunità internazionale in Afghanistan, ci rendiamo conto che il 95% del suo impegno è stato usato nel modo e nel posto sbagliato. Serve una nuova strategia, subito. Che includa anche l’affermazione e il rispetto dei diritti umani e il consolidamento di un vero governo,

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che stia dalla parte della gente. Serve un governo nazionale che rappresenti tutti, nessuno escluso, e che goda della supervisione delle Nazioni Unite. Sarebbe un’occasione importante. I nostri attuali leader sono ignoranti, non hanno educazione, come possiamo pretendere che facciano delle leggi per la popolazione? Per questo, serve un monitoraggio internazionale, un governo mandatario, controllato dalla comunità internazionale. Non c’è alternativa al sistema mandatario. É un modo efficace e legale per risolvere la questione. Ed è l’unico modo per evitare l’interferenza di paesi come Iran e Pakistan. Può darsi che qualcuno obietti che in questo modo la sovranità nazionale viene meno. Ma è da molto tempo che non godiamo veramente della nostra libertà”, Taher Mufid, leader religioso, Mazar-e-Sharif “Oggi la comunità internazionale ha più esperienza di prima. Per questo spero che sappia riconoscere gli errori del passato e porvi rimedio: il modello adottato fin qui non funziona, serve un modello pensato per l’Afghanistan, non semplicemente importato. La strategia per l’Afghanistan è stata elaborata fuori dal paese, da gente senza esperienza e conoscenza delle nostre strutture sociali. Sarebbe ora di ricominciare tutto da capo, con un altro modello”, Soraya Pakzad, direttrice AWN, Herat “Qui a Farah non abbiano ottenuto benefici dalla presenza degli stranieri. Hanno promesso molto e mantenuto molto poco. Dicevano di essere venuti per portare sicurezza e la sicurezza non c’è. Dicevano di essere venuti a ricostruire il paese e può rendersi conto da sé delle condizioni in questa provincia. Se avessero concentrato l’impegno sull’economia, sullo sviluppo, anche la sicurezza ne avrebbe beneficiato”, funzionaria pubblica, Farah

“In Afghanistan si è puntato sulla soluzione militare. Come se di fronte a un’epidemia si facesse ricorso a medicine palliative, senza affrontarne la causa. Il paradosso è che ora molti vanno a ingrossare le fila dei Talebani perché delusi di quanto realizzato dal governo afghano e dagli stranieri”, Abdul Qader Rahimi, regional program manager AIHRC, Herat “Finora gli sforzi sono stati indirizzati al settore militare, che è importante ma non è l’unico. É stata dimenticata la governance, lo sviluppo economico. Dovrebbe esserci uno spostamento dell’attenzione da parte di tutti i paesi - soprattutto degli Usa - su altri settori”, Aziza Khairandish, West Coordinator CSHRN, Herat

“Le Ong straniere hanno speso molti soldi per progetti legati alla formazione e al capacity building, non per la creazione di una rete di infrastrutture che avrebbe aiutato maggiormente la popolazione e la crescita economica. Le infrastrutture sono le fondamenta di ogni economia. In Afghanistan invece ha lungo è stata seguita la logica delle emergenze”, Abdul Naser Aswadi, direttore Dipartimento economia, Herat “La comunità internazionale ha scelto una strategia prevalentemente sbagliata. Sono stati spesi milioni di dollari, migliaia di vite sono andate perdute senza che venisse elaborata e tanto meno applicata una buona strategia. L’errore? Quello di puntare tutto sul settore militare. Quei soldi andavano indirizzati al lavoro, all’educazione, alle istituzioni. Inoltre, la popolazione è stata

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dimenticata. La comunità internazionale ha pensato all’1% della popolazione, dimenticando la povera gente, il 99% della società”, Raz Mohammad Dalili, direttore SDO, Kabul

“In Afghanistan la democrazia è una grande bugia. Una farsa. Ho sempre sostenuto una cosa: senza una vera trasformazione politica la transizione non funzionerà. Serve un cambiamento politico e di governo, altrimenti sarà tutto inutile, perché il governo è del tutto corrotto e incapace, ha avuto il sostegno della comunità internazionale per dieci anni e non ha saputo gestire la situazione”, Mohammad Rafiq Sharir, Head of professional Shura, Herat “La transizione politica è ancora più importante di quella della sicurezza e dell’economia. Un cambiamento politico è indispensabile, perché più il sistema politico è debole e più i nemici sono forti. Rafforzare la legittimità del sistema politico è la cosa più importante da fare in questi mesi. Lo si può fare allontanando i signori della guerra che approfittano delle istituzioni deboli e che sono stati sostenuti dalla comunità internazionale”, elder, Farah “Ho sempre vissuto in Afghanistan e ho imparato che qui la cosa più difficile è riuscire a prevedere qualcosa. Sono in corso delle negoziazioni tra il governo e lo Hezb-e-Islami, i cui membri forse prenderanno parte alle elezioni, forse ci sarà anche qualche talebano al governo, ma la vera questione è un’altra: bisogna essiccare i semi del conflitto, affinché non crescano di nuovo. Se oggi uccidi un mullah Omar, domani un altro mullah prenderà il suo posto. Il governo deve conquistarsi la fiducia della gente. Solo allora le forze di opposizione potranno unirsi al governo. Più che dei Talebani, mi preoccupo dei gruppi di opposizione che sono oggi all’interno dello stesso governo: godono dei benefici della libertà e della democrazia ma agiscono come una vera e propria mafia”, Mohammed Saeed Niazi, direttore CSDC, Kabul

“Il punto centrale è un altro: ci sarà un governo vero, sostenuto da tutti, nessuno escluso, oppure no? É questo il punto, non le basi americane né il negoziato con i Talebani. Il governo deve conquistarsi la fiducia della gente, altrimenti sarà tutto inutile”, attivista sociale, Farah “La vera preoccupazione è la fragilità del governo, la mancanza di legittimità”, Sima Samar, portavoce AIHRC, Kabul “La vera questione non è la presenza o meno delle truppe straniere, ma la presenza o meno di un governo che sia accettato e considerato legittimo da tutta la popolazione, compresi quelli che ora combattono e quelli che ora sono esclusi dal potere”, Ali Wardak, Center for Criminology, University of Glamorgan

“Se il circolo che ruota intorno a Karzai verrà rimosso dal potere e se le Nazioni Unite e la comunità internazionale decideranno di sostenere un altro gruppo di persone, non credo ci saranno grandi cambiamenti nel paese, e la sicurezza migliorerà. Nel caso in cui il circolo Karzai continuerà a gestire il potere, i problemi saranno destinati ad aumentare”, Taqi Wahidi, scrittore, attivista sociale, AIHRC, Mazar-e-Sharif

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“Con l’attuale sistema e l’attuale leadership, se anche la comunità internazionale dovesse onorare i suoi impegni e prenderne ulteriori, non ne ricaveremmo nulla. Non ci sono meccanismi trasparenti, non c’è un vero stato di diritto, il settore giudiziario è del tutto inadeguato, all’interno del governo c’è gente che rema contro il governo. Voglio dire che occorre una riforma radicale dell’intero sistema politico e istituzionale”, Rahman Salahi, già Head of Professional Shura, Herat

Testimonianze 4.3: i timori

“Sono preoccupato per la partenza delle truppe straniere, soprattutto perché il governo afghano non è ancora solido e ci sono due rischi principali: quello di una nuova guerra interna e quello di interferenze pesanti da parte di Iran e Pakistan. Per questo è importante avere un esercito nazionale forte”, mawlawi Ruhal Ahmad Rohani, responsabile dipartimento per l’Haj, Farah

“La comunità internazionale sostiene che nel 2014 lascerà il paese; il governo dice che diventerà indipendente. Ma i meccanismi attraverso i quali questo passaggio avverrà sono poco chiari, soprattutto per i cittadini afghani, che si chiedono: ‘come si manterrà in piedi il governo?’. Se la comunità internazionale dovesse abbandonare l’Afghanistan come nel 1992, vari network di potere politico e militare si combatteranno tra loro per il controllo delle risorse. E la comunità internazionale sarà nuovamente costretta a intervenire”, Abdul Qader Rahimi, regional program manager AIHRC, Herat “Alcuni signori della guerra stanno di nuovo tentando di mobilitare uomini e armi in vista del ritiro delle truppe internazionali, perché nessuno sa come si metteranno le cose e nessuno vuole rischiare. Per questo occorre un sostegno della comunità internazionale”, rappresentante 1 Aga Khan Foundation, Bamiyan “La gente tende a pensare che se gli occidentali lasciano il paese si tornerà a combattere, perché i paesi stranieri sosterranno ancora di più gli insorti, favorendo nuovi conflitti inter-comunitari. L’altra lettura è più ottimista, ma è condizionata al fatto che gli afghani decidano di incontrarsi, di smettere di combattere, chiamando a raccolta studenti, mullah, anziani, rappresentanti delle comunità, per discutere e mettere fine alla guerra. La pace avverrà solo a queste condizioni. Succederà davvero? Temo che manchi questa volontà, e che si possa tornare a combattere”, Baz Mohammad Abid, Radio Mashaal, Jalalabad

“Gli afghani temono che il conflitto interno possa scoppiare di nuovo, e che i gruppi che hanno soldi, armi e sostegno dall’Iran e dal Pakistan possano prendere il controllo del paese. Senza un sistema degno di questo nome c’è il rischio che si ripeta lo scenario del periodo dei mujaheddin, con Hezb-e-Islami che prende il controllo di parte di Kabul, Dostum e i suoi altre zone, Jamiat-e-Islami un’altra zona, così come parte del gruppo di Sayyaf e gli altri. Senza un governo legittimo, c’è il rischio che la situazione peggiori progressivamente per poi esplodere in una vera e propria guerra. Solo con un sistema legale e di governo vero la popolazione eviterebbe di combattere”, Raz Mohammad Dalili, direttore SDO, Kabul

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“La preoccupazione è che si possa tornare alla guerra civile, una prospettiva tremenda. I membri del parlamento e del governo dovrebbero essere simboli dell’unità del paese, del tentativo di trovare una strada che ci porti fuori dalla crisi che viviamo da decenni, e invece dimostrano ogni giorno di essere divisi, di enfatizzare le differenze etniche. Se i politici si comportano così, come possono mostrare la strada agli altri? Il grande problema da affrontare è la mancanza di speranza tra la gente. Le ragioni le conosciamo: la corruzione, il disinteresse delle forze di sicurezza per l’unità del paese, etc”, Abdul Khaliq Stanikzai, Regional Manager SDO, Herat

“Quella di una nuova guerra civile è una possibilità. Per questo dico che serve un governo forte e un sostegno ulteriore della comunità internazionale. Se non sarà così, ci sarà un’altra guerra”, Mohammad Sardor Saeedi, responsabile Hizb-e-Wahdat Mardom, Mazar-e-Sharif “I signori della guerra sono ancora forti, diversi mujahedin hanno ancora delle armi e quando le truppe Isaf-Nato se ne andranno c’è il rischio che si combattano tra loro. Temo l’esplodere di una nuova guerra civile. Su questo, le idee della gente sono diverse, ma la preoccupazione è unanime”, Azim Resalat, Radio Killid, Mazar-e-Sharif

“Non sono ottimista. Se la comunità internazionale dovesse abbandonare l’Afghanistan, gli attuali circoli di potere rimarranno al potere, e c’è il rischio che formino delle coalizioni per combattersi a vicenda. C’è bisogno di grandi cambiamenti. Un governo opaco e corrotto come quello attuale non può avere la fiducia né della comunità internazionale né, tanto meno, degli afghani. Qui le persone sono potenti, e le istituzioni deboli”, Asif Karimi, project coordinator TLO, Kabul “Oggi i mujaheddin e i gruppi di potere militare sono diversi dal passato. Sono controllati da individui che siedono in parlamento o al governo. Hanno accumulato ricchezze, hanno interessi in molti settori economici. Sono più ricchi e più concilianti: non vogliono mettere a repentaglio quel che hanno ottenuto e rubato. Ma per il futuro non sono molto ottimista: gli europei e gli americani hanno deciso che è tempo di andarsene, ma il Pakistan rimane un nostro vicino e potrebbe farsi ancora più aggressivo”, Ali Erfan, giornalista, deputy director AIRA e direttore Radio Bamiyan

“Molti signori della guerra hanno interessi economici importanti, che vorranno proteggere. Per questo, eviteranno di combattere”, rappresentante 2 Aga Khan Foundation, Bamiyan “I vecchi signori della guerra sono ‘too fat too fight’, troppo grassi, di denaro e potere, per combattere. Forse manderanno a combattere qualcun altro al posto loro, ma credo che non vorranno mettere in pericolo i loro interessi economici”, Ali Wardak, Center for Criminology, University of Glamorgan

“Speriamo che gli stranieri mantengano le loro promesse: il Pakistan non aspetta che il ritiro per attaccare il governo afghano ed estendere la sua autorità in Afghanistan”, Ezatullah Zwab, giornalista e scrittore, editor in chief magazine Meena, Jalalabad

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“Con il ritiro delle truppe internazionali paesi come Iran e Pakistan possono creare facilmente problemi maggiori di quelli attuali. Anche la Russia potrebbe farlo. Il nostro governo ha sovranità e capacità limitate. Speriamo che i nostri vicini cambino atteggiamento. Non c’è dubbio che la popolazione afghana voglia la pace, il problema è che i nostri vicini non lo credono conveniente, per ora”, Naqibullah “Saqib”, preside Facoltà scienze politiche, Nangarhar University, Jalalabad “La nostra prima preoccupazione è la sicurezza. Quando le truppe straniere se ne andranno (ma ancora non sappiamo se se ne andranno del tutto), le rivalità dei nostri vicini ricominceranno, più di prima. Ci sono paesi come l’Iran, il Pakistan, la Russia, che combatteranno le loro guerre per procura qui sul nostro territorio”, “Tasal”, membro Welfare Association, Jalalabad

“In passato abbiamo già avuto esperienze molto negative legate all’isolamento internazionale. Molti temono che, ritirate le truppe straniere, i paesi vicini, Pakistan e Iran, continueranno con le politiche già adottate in passato. Altri pensano che oggi invece abbiamo un governo capace di difenderci e che quando gli afghani rimangono soli riescono a dimostrarsi uniti”, Mirwais Ayobi, lettore in Law and Political Science, università di Herat, direttore Herat University Legal Clinic “C’è un forte scetticismo tra la gente sul fatto che il nostro esercito sia in grado di reggere da solo, di stare sulle sue gambe, una volta che verrà meno il sostegno degli stranieri. La più grande preoccupazione è che non riesca a contrastare i Talebani e soprattutto i paesi vicini”, Soraya Pakzad, direttrice AWA, Herat “Se dovessero lasciare il paese nelle attuali condizioni, prevedo un futuro negativo, perché i Talebani avrebbero la percezione di aver vinto la guerra e di aver fatto andar via gli stranieri. Si diffonderebbe l’opinione che i Talebani sono riusciti a sconfiggere gli stranieri”, Sadek Alior, politico, Bamiyan

“L’esito delle elezioni dipende dalle regole elettorali con cui verranno svolte. Se ci sarà una attività di monitoraggio seria e se verranno rispettate le regole allora tutto andrà bene, altrimenti sarà un disastro. Sembra che Karzai stia già facendo le sue mosse per orientare l’esito delle elezioni. Siamo molto preoccupati”, Yor Mohammad Bakhiri, docente Ibn Sina Institute of Higher Education, Mazar-e-Sharif “Sono convinto che la transizione più importante sia quella politica, prima ancora di quella della sicurezza e di quella economica. Se le istituzioni sono sostenute dalla popolazione, se il potere è legittimo, se c’è fiducia, vengono meno le ragioni della mobilitazione antigovernativa. Più le istituzioni sono deboli e più gli insorti sono forti. Più forti sono le istituzioni, più deboli gli insorti. Ecco perché credo sia indispensabile una transizione politica, che rimuova gli incapaci e i corrotti dalle loro posizioni, sostituendoli con chi guarda al benessere del paese”, Mir Ahmad Joyenda, Deputy Director for Communications and Advocacy AREU, Kabul “Il 2014 e gli anni a seguire sono segnati da grandi punti interrogativi: chi sarà il nuovo presidente? In che modo verrà eletto? Se dovessero vincere i ‘comandanti’, che succederà? Il

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nostro esercito sarà in grado di combattere e proteggerci dalle interferenze dei paesi vicini? Ci sono molti punti interrogativi, molte domande e nessuna certezza. Se il nuovo presidente sarà eletto in modo trasparente e sarà sufficientemente forte, allora potrà tenere la situazione sotto controllo. Ma se le cose non andranno per il verso giusto o se ci saranno pesanti interferenze esterne la situazione rischia di precipitare. Non è escluso che in alcune aree del paese scoppi di nuovo una guerra civile”, Timur Hakimyar, direttore FCSC, Kabul “Chiunque sia il nuovo presidente dell’Afghanistan, la situazione della sicurezza non cambierà. I problemi del paese non derivano da una sola persona, e non possono essere risolti da una sola persona”, Hamid Ghulami, Ibn Sina Institute of Higer Education, Mazar-e-Sharif “Il vero spartiacque saranno le elezioni presidenziali. Qualche esperienza elettorale ormai l’abbiamo avuta, ma con essa anche gli aspetti più deleteri, come le frodi e gli imbrogli. Molto dipende dalle elezioni: la fiducia della gente nel governo, e la fiducia della comunità internazionale. Serve un monitoraggio serio e attento. Credo comunque che non ci saranno elezioni libere e trasparenti al 100%. Possiamo sperarlo, augurarcelo, ma crederlo sarebbe ingenuo”, Ahmad Shuaib “Shahir Qasemian”, Provincial Managaer, ASPR, Maimana “Non ci sarà stabilità in questo paese fino a quando i risultati delle elezioni non saranno accettati da tutta la popolazione. Se saremo in grado di organizzare delle elezioni vere, trasparenti, crescerà la fiducia della gente per il governo, e la popolazione sarà più disposta a sostenerlo”, Naim Nazari, executive coordinator CSHRN, Kabul “Le elezioni rischiano di non essere trasparenti. Abdullah Abdullah ha già denunciato il rischio di frodi e corruzione. Molti paesi stranieri hanno interesse a far naufragare o a condizionare il processo elettorale, d’altronde basta guardare come sono andate le scorse elezioni. Non sono neanche convinto che si terranno veramente nel 2014, e anche se ci saranno non saranno libere e trasparenti. In ogni caso, la gente non ha fiducia”, studentessa università privata e attivista, Farah “La gente teme il risultato delle elezioni presidenziali, a causa della corruzione che c’è nel paese. Chi sarà il prossimo presidente? É una domanda importante. Deve essere eletto in modo trasparente e democratico, senza frodi e brogli, né imposto dall’esterno”, Nazira Hamadi, regional manager ACSF, Mazar-e-Sharif “Non sono per niente convinto che nel 2014 si instaurerà un governo regolare e democratico. Abbiamo già avuto esperienza di elezioni irregolari. La comunità internazionale era qui e le ha legittimate. Se alle prossime elezioni dovessero andare al potere i gruppi sbagliati, perderemmo un’altra importante occasione”, Raz Mohammad Dalili, direttore SDO, Kabul

“Il vero problema è quello della sicurezza. Durante la primavera, ci saranno molti problemi, in alcune zone ci sarà la neve alta, molti non potranno partecipare alle elezioni, nell’ultima tornata elettorale ci sono stati molti brogli, nonostante la presenza degli stranieri”, Azim Resalat, Radio Killid, Mazar-e-Sharif

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“Tutti dovrebbero sforzarsi di rendere trasparenti le elezioni. Bisogna essere sicuri che tra i candidati non ci siano criminali, o che i criminali non appoggino un candidato particolare. La commissione per i reclami elettorali deve lavorare seguendo alti livelli di professionalità e dimostrarsi realmente indipendente”, Aziz Rafiee, direttore ACSF, Kabul “Difficile dire ora cosa accadrà. La sicurezza deve essere garantita in tutte le province, così che tutti i cittadini possano votare i loro candidati liberamente. C’è inoltre bisogno di un rigoroso monitoraggio per garantire elezioni libere. Ma la prima condizione è garantire la sicurezza a chi vuole andare a votare. Credo che sia importante un monitoraggio della comunità internazionale, anche se Karzai credo il contrario, perché è convinto che rappresenti una sconfitta per il paese. Non è vero che sarebbe una limitazione della nostra sovranità. Sarebbe un modo per garantirla meglio”, Mohammad Sardor Saeedi, responsabile Hizb-e-Wahdat Mardom

“La comunità internazionale deve continuare a sostenere l’Afghanistan, ma senza interferire negli affari interni, decidendo il prossimo presidente, i ministri o altro. Se riusciamo a selezionare un presidente vero, perché eletto dalla gente, otterremo un ottimo risultato”, Khalil Azizi, Mediothek, Mazar-e-Sharif “Quando è stato deciso il ritiro delle truppe internazionali, si sapeva che nel 2014 si sarebbero tenute le elezioni presidenziali. Mi chiedo perché abbiano deciso di fissare due passaggi così importanti e difficili nello stesso anno. Quanto alle elezioni, dipende dalla volontà politica del governo. Se il governo non intende permettere elezioni libere e trasparenti, che ci siano o meno le truppe straniere cambia poco”, Mohammed Saeed Niazi, direttore CSDC, Kabul

“Senza il sostegno delle forze internazionali tutto sarà più complicato. Sono preoccupato: le nostre forze di sicurezza ora riescono a controllare la situazione ma solo perché aiutate da quelle straniere”, elder, Farah “L’esercito non è solido. I soldati sono stati reclutati secondo logiche di affiliazione; più che alla difesa della nazione sono legati al gruppo di provenienza. É questo il vero punto debole del nostro esercito, più ancora che lo scarso addestramento o equipaggiamento. Sono preoccupato del fatto che, più subiranno pressioni sul campo e più c’è il rischio che finiscano per combattersi tra loro”, Abdul Khaliq Stanikzai, Regional Manager SDO, Herat

“Il settore militare deve diventare indipendente dal controllo politico, deve rispondere al benessere del paese, non di un singolo gruppo. L’esercito deve diventare più professionale, meno vincolato alle affiliazioni varie. Sfortunatamente, finora il nostro esercito non soddisfa questi criteri. Se ci dovessero essere nuovi conflitti politici, le conseguenze si riverseranno anche sull’unità dell’esercito. In passato abbiamo già avuto esperienza che quando i conflitti etnici investono il settore militare, è facile scatenare una guerra civile. In quel caso, tutti pensano ad aprire i depositi di armi alla ‘propria’ gente, e nessuno pensa più al bene del paese”, Naim Nazari, executive coordinator CSHRN, Kabul

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“Se gli stranieri lasceranno completamente questo paese, i paesi vicini torneranno a farsi aggressivi, ad attaccarci; il governo e le forze di sicurezza afghani non hanno ancora strumenti sufficienti per difendersi autonomamente; quando il nostro esercito combatte nelle aree rurali, lo fa con strumenti del tutto inadeguati, senza elicotteri, con poche armi. Come riuscirebbe a difenderci dagli attacchi dei vicini? Certo, non ci piace l’idea che gli stranieri siano qui per sempre: per me dovrebbero restare fino al 2024, o almeno fino a quando non saremo forti abbastanza da difenderci”, Aziz Rahman “Saddiqi”, presidente ASCP, Jalalabad

“Dobbiamo avere un esercito preparato ed equipaggiato per combattere le interferenze dei paesi vicini. I paesi stranieri devono sapere che in Afghanistan ci sono forze di sicurezza bene addestrate ed equipaggiate e un servizio di intelligence degno di questo nome. Abbiamo ancora bisogno di addestramento, armi, etc. Se gli stranieri se ne vanno prima di aver contribuito a formare un vero esercito, saranno guai”, mawlawi Ruhal Ahmad Rohani, responsabile dipartimento per l’Haj, Farah “É molto difficile prevedere cosa accadrà dopo il ritiro; credo che la comunità internazionale abbia deciso di sostenere l’Afghanistan e il nostro esercito anche dopo il ritiro delle truppe straniere. Staremo a vedere. Non sappiamo se il nostro governo sarà in grado di gestire la situazione. Oggi se le truppe americane vogliono andare nei distretti, hanno le capacità e i mezzi per farlo, usando armi e attrezzature sofisticate, mentre l’esercito afghano non ha gli strumenti appropriati. Se nelle condizioni attuali i nostri militari decidessero di andare nei distretti, non tornerebbero indietro”, Zia Urraham Tariq, CSHRN, Jalalabad

“Si è puntato molto alla quantità, piuttosto che alla qualità, e le conseguenze si vedranno presto. Inoltre l’addestramento è cominciato troppo tardi: il 2014 è dietro l’angolo, siamo come uno scolaretto che si limita a studiare la notte prima degli esami. Inoltre, la Nato ha intenzione di ridurre il numero dei membri delle forze di sicurezza dagli attuali 350 mila a 228.500 già nel 2015. Ma dove andranno a finire i licenziati? Cosa faranno? Se non troveranno un lavoro alternativo, c’è il rischio di addestrare oggi i nostri nemici di domani”, Rahman Salahi, già Head of Professional Shura, Herat “Se le truppe straniere se ne vanno davvero e ci ritroviamo con esercito, polizia, forze di sicurezza nelle condizioni attuali, la situazione sarà complicata. Alle nostre forze di sicurezza mancano armi ed equipaggiamento adeguati. É un problema molto serio. Karzai sostiene che le nostre forze di sicurezza sono in grado di reggersi sulle proprie gambe, ma non è così. Già ora i nostri uomini non riescono a tener testa ai gruppi all’opposizione. La comunità internazionale non ha preparato come doveva l’esercito afghano, non gli ha fornito l’equipaggiamento necessario”, Mohammad Sardor Saeedi, responsabile Hizb-e-Wahdat Mardom

“É essenziale che le forze di sicurezza afghane possano contare anche in futuro sul sostegno degli stranieri”, colonnello Ghoos Malyar, capo della polizia di Farah

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“Le nostre forze di sicurezza sono in grado di combattere, ma hanno bisogno dell’equipaggiamento adeguato e della cooperazione da parte della comunità internazionale. A queste condizioni possono fare un buon lavoro. Ma gli internazionali devono fornirci le armi giuste. Non si può difendere un paese a mani nude”, Akhtar Mohammad Ibrahim Khil, responsabile Peace council, Mazar-e-Sharif “Siamo preoccupati per la diminuzione dei fondi per le attività come le nostre, che si svolgono in ambito civile. Rischiamo di dover interrompere in modo troppo repentino le relazioni che abbiamo stabilito con la gente. Dal punto di vista finanziario siamo ancora fragili. Ci serve il sostegno esterno. In più, sono proprio le organizzazioni come le nostre che possono reclamare un uso trasparente dei fondi destinati all’Afghanistan. Se non lo facciamo noi, chi altri potrà farlo?”, Timur Hakimyar, direttore FCCS, Kabul “Tra la gente c’è una forte preoccupazione che con il ritiro dei soldati arriveranno anche meno aiuti allo sviluppo. Stiamo attraversando una situazione estremamente delicata: l’incertezza non fa bene all’economia. Gli investitori stranieri aspettano di vedere cosa accadrà. Ma il paese ha urgente bisogno di investimenti. I milioni promessi dalla comunità internazionale non sono pochi. Ma diventeranno qualcosa di concreto soltanto se verranno gestiti dal governo centrale. Su questo, la comunità internazionale dovrebbe fare un passo indietro, restituendo sovranità al governo e alla società, limitandosi a monitorare la situazione”, Naser Moin, docente di Economia all’Università di Herat “In Afghanistan sono stati spesi miliardi di dollari, ma nelle aree rurali i progressi non sono stati

significativi. Lì vive la maggior parte della popolazione, e lì il 70 per cento della gente vive al di sotto della soglia di povertà. In quelle aree, c’è un forte risentimento verso il governo e le istituzioni, che non riescono a garantire i servizi essenziali. Il reclutamento dei movimenti antigovernativi è facilitato”, Mir Ahmad Joyenda, Deputy Director for Communications and

Advocacy AREU, Kabul “L’80% circa del budget nazionale proviene dalla comunità internazionale, questo vuol dire che se la mole di aiuti diminuisce troppo repentinamente, i guai per il paese saranno preoccupanti. In ogni caso, il periodo degli aiuti internazionali deve finire prima o poi; gli aiuti sono insensati se nel frattempo la popolazione non si sforza di costruire una nuova società e una nuova economia, dalle fondamenta. Dobbiamo tutti lavorare, darci da fare, anche se mancano infrastrutture di base”, Sameer Ahmad Bana, programme manager DEOW, Maimana “La mia più grande preoccupazione riguarda l’ambito economico, perché i donatori già tendono a revocare il loro sostegno e il nostro paese non è ancora fornito di una buona governance, di investimenti sufficienti, di posti di lavoro. L’economia è strettamente legata alla sicurezza. Nel complesso sono una persona ottimista, ma non lo sono affatto per il settore economico. La comunità internazionale non ci deve lasciare da soli, altrimenti i Talebani rischiano di tornare al potere. Nelle aree a prevalenza pashtun sono ancora forti e godono di un certo consenso, e i pashtun potranno essere tentati di dare ancora una volta il potere ai Talebani”, Hamid Ghulami, direttore Ibn Sina Institute of Higer Education, Mazar-e-Sharif

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“Il governo vuole in qualche modo il ritiro delle truppe, ma allo stesso tempo lo teme, lo vuole per ottenere legittimità e sovranità ma non vuole che questo significhi perdere tutto il sostegno finanziario avuti fin qui, e nessuno vuole finire nelle mani dei pakistani. Se si guarda al governo è ovvio che ci sono dei problemi, sul modo in cui sarà usato il denaro ricevuto. Non c’è speranza che il governo sia in grado di usarli in modo giusto, non ha queste capacità. Il governo assume obblighi e impegni al di là delle sue capacità”, Abdul Khaliq Stanikzai, Regional Manager SDO, Herat “Tutto dipende dal modo in cui verranno gestiti gli aiuti Perché non si tratta soltanto di dare soldi, di promettere aiuti, ma di trovare meccanismi certi e trasparenti per assicurarsi che vengano impiegati per le cose di cui c’è realmente bisogno. Dobbiamo sapere cosa è stato speso e per quale ragione”, Aziza Khairandish, West Coordinator CSHRN, Herat

“Nella nostra provincia le cose funzionano piuttosto bene, perché c’è un coordinamento effettivo tra i donatori internazionali, il nostro Dipartimento, il Provincial Development Committee (Comitato per lo sviluppo provinciale), l’ufficio del governatore. Ma altrove la situazione è davvero ingestibile: in alcuni casi neanche i governatori sanno quali attività vengano svolte – e da chi – nei loro territori. La gente ritiene che la montagna di soldi degli aiuti sia finita nelle mani del governo, che sia il governo a decidere come spenderli. Invece il 90% passa per altri canali. La popolazione, non vedendo risultati concreti, ha perso fiducia nella buona volontà e nella capacità del governo. Farebbe meglio a chiedere conto anche agli attori internazionali; anche lì d’altronde la corruzione non manca”, Abdul Naser Aswadi, direttore del Dipartimento economico della provincia di Herat “Ci sono migliaia di persone che lavorano nell’indotto, con le Ong, in ambito civile ma soprattutto militare. Che fine faranno? Se la situazione economica dovesse peggiorare, molti si chiederanno se non sarà meglio tornare ad affidarsi ai Talebani”, Niamatullah Harez, Ong internazionale, Herat “Molte persone rimarranno senza lavoro: traduttori, contractors, consulenti, tutti quei lavoratori che in qualche modo sono legati alla presenza delle truppe straniere. Sono migliaia di persone. Che fine faranno? Cosa combineranno? Anche nel settore dei media già sono cominciati i licenziamenti. L’economia è una preoccupazione seria. Ma se gli occidentali se ne vanno, cinesi e indiani restano. La crescita degli interessi cinesi in Afghanistan potrebbe anche arginare l’interferenza dei pakistani. I cinesi non alimentano la guerra, cercano stabilità, e lo fanno senza mezzi militari”, Ahmad Qureishi, chief reporter agenzia Pajhwok, Herat

“La popolazione non vuole assistere a nessuna nuova guerra, questo è chiaro. Ma il vero problema è che c’è molta gente senza lavoro e senza prospettive. Possono essere reclutati facilmente. Già ora la situazione economica è molto difficile, dopo il 2014 peggiorerà. L’economia è ciò che più mi preoccupa”, studentessa università privata e attivista, Farah “Oltre alle pressioni sul Pakistan, per il dopo 2014 bisogna fare in modo che l’Afghanistan si integri all’interno di una cornice economica regionale. Le due cose possono procedere insieme. Il legame con l’India per esempio potrebbe aiutare a ridurre l’influenza negativa del Pakistan. L’India è una grande potenza economica, oltre che una potenza nucleare, e potrebbe giocare un

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ruolo favorevole. Bisogna dimostrare al Pakistan che se non vuole essere parte del gioco, onestamente, ci sono altri attori che vogliono esserlo. All’azione economica, va associata quella politica: il Pakistan dovrebbe essere reso innocuo e marginalizzato, se continua a essere un paese inaffidabile”, Rahman Salahi, già Head of Professional Shura, Herat

“La presenza degli internazionali è un fattore destabilizzante, ma potrebbe anche rivelarsi utile per ottenere la pace. Come? Capendo che il conflitto in Afghanistan è di natura regionale, e che per risolverlo occorre portare gli attori ora in conflitto a competere positivamente, per esempio in ambito economico. L’Afghanistan è costretto ad avere buoni rapporti con i suoi vicini, anche con il Pakistan, che è paranoico sull’India. Ognuno dei paesi della regione dovrebbe avere un interesse economico da preservare in Afghanistan, nessuno escluso. Una sana competizione economica potrebbe rilevarsi positiva”, Ali Wardak, Center for Criminology, University of Glamorgan “Non abbiamo problemi con gli americani se rispettano le nostre tradizioni e la nostra cultura. Se invece non lo fanno, se non portano rispetto ai nostri valori, il conflitto continuerà. Quanto alle basi, è bene chiare le differenze tra gli interessi dell’Afghanistan e quelli degli Stati Uniti. Bisogna valutare se gli interessi degli Usa non contraddicono i nostri valori e interessi. Se lo fanno, il conflitto continuerà”, membro Welfare Association, Jalalabad “Spero che venga firmato l’accordo con gli Stati Uniti e che gli americani mantengano le loro basi militari. Altrimenti i Talebani e terroristi perfino peggiori torneranno al potere. Molti si dicono preoccupati che le basi militari siano percepite come un pericolo e una minaccia per l’Iran, per la Russia e per la Cina. Altri dicono che gli americani potrebbero usare le basi per i loro interessi. Spero non lo facciano. O meglio. Posso accettare che gli americani perseguano i loro interessi nella regione, ma quei benefici devono essere condivisi anche dagli afghani”, Amir Sharif, lettore in Sociologia, Università di Bamiyan “Il presidente ha una decisione importante da prendere. In questo paese vogliamo soltanto la pace. Dovremo capire se le basi americane aiutano la pace o la ostacolano. Se le basi soddisfano i nostri interessi nazionali, andranno fatte, altrimenti no. Se gli Stati Uniti intendono lasciare 10.000 soldati e questo può aiutare i nostri interessi, possono farlo. Quanto ai paesi stranieri e ai pesi vicini, l’Afghanistan è un paese indipendente, e le nostre decisioni non li devono riguardare”, Akhtar Mohammad Ibrahim Khil, responsabile Peace council, Mazar-e-Sharif “Qualcuno ancora si chiede se gli Usa vogliono davvero mantenere delle basi. Certo che lo vogliono. Stanno aumentando gli uffici politici in diverse città afghane. Qual è il problema? Dall’Omar al Bahrein, sono decine e decine i paesi che ospitano basi americani”, Ahmad Qureishi, chief reporter agenzia Pajhwok, Herat

“Gli Stati Uniti intendono mantenere delle basi militari nel paese per ragioni strategiche, questo però vuol dire che devono anche assumersi la responsabilità per la sicurezza. I politici afghani dicono che i nostri vicini aumenterebbero le interferenze. Io credo invece che sia meglio se gli Stati

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Uniti restano: il nostro paese è ancora debole sotto il profilo della sicurezza e dell’economia”, Sameer Ahmad Bana, programme manager DEOW, Maimana “Le basi militari americane avranno inevitabilmente delle conseguenze su scala regionale, ma credo comunque che sia un bene che ci siano. La Russia ha distrutto il paese e poi lo ha abbandonato; l’Iran già ora è nemico dell’Afghanistan. Se gli americani ci lasciano, chi ci protegge? Gli americani possono farlo”, Zamir Saar, lettore in Letteratura pashto, Balkh University, Mazar-e-Sharif

“Gli Stati Uniti sono il paese più forte al mondo. Per noi sarebbe un beneficio, perché i nostri vicini eviterebbero di interferire. Il governo deve far capire ai nostri vicini che le basi non rappresentano un pericolo per loro. Il nostro esercito, da solo, non è in grado di presidiare e difendere i nostri confini. Il nostro esercito è senza esperienza, a tenerlo insieme è soltanto il salario; senza, si scioglierebbe facilmente, rivoltandosi contro il governo, è un esercito composto di milizie. Se gli americani se ne andassero del tutto, i vicini come il Pakistan interferiranno e ci sarà il pericolo di una nuova guerra civile. Basta ricordare quel che è avvenuto al tempo di Najib, quando il Pakistan provava ad attaccare il governo, allora però il nostro esercito era molto più preparato di oggi. Dobbiamo preoccuparci del nostro benessere. Se i vicini sono preoccupati delle basi americane, è un loro problema. Già ora questa non è la nostra guerra, a combattere non sono gli afghani, ma gente venuta a fuori”, Asadullah Larawi, Regional Officer CSDC, Jalalabad “Se i soldati americani dovessero andar via, l’Afghanistan rischierebbe di diventare un paese in pieno conflitto, ancora una volta. Le basi e i soldati americani garantirebbero maggiore stabilità. Abbiamo passato dei terribili decenni di guerra e non vogliamo tornare indietro”, Khalilullah Hekmati, direttore BAO, Mazar-e-Sharif

“Se gli americani dovessero lasciare delle basi, i vicini ovviamente non ne sarebbero contenti, ma noi dobbiamo preoccuparci della nostra situazione, non di quel che pensano loro. La nostra posizione geografica e la nostra storia ci insegnano che abbiamo bisogno di qualcuno che ci sostenga. Iran e Pakistan non ci lascerebbero vivere in tranquillità. Da solo, il nostro esercito non è in grado di proteggerci dalle interferenze esterne. I nostri vicini devono sapere che, nel caso volessero attaccarci, ci sarebbero delle reazioni, e che attaccando noi attaccano la Nato”, Sher Alam Amlawal, docente Legge e Scienze politiche, Aryana University, Jalalabad “All’Iran e al Pakistan non piace l’idea delle basi militari americane. Ciò rappresenta un problema, ma credo che se gli americani lasciano l’Afghanistan i problemi saranno ancora maggiori. Forse dovrebbero rimanere per altri 100 anni”, Hamid Ghulami, direttore Ibn Sina Institute of Higer Education, Mazar-e-Sharif “Come cittadino afghano ritengo di poter dire che la maggior parte degli afghani sono soddisfatti di ciò che gli occidentali hanno fatto e che chiedono agli americani di rimanere. Quanto alla reazione dei paesi vicini, non è un problema per noi: quei vicini già creano problemi e insicurezza,

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cercando di influenzare le cose già ora, dunque non cambierà molto”, Taqi Wahidi, scrittore, attivista sociale, AIHRC, Mazar-e-Sharif

“La presenza delle truppe straniere è il pretesto con il quale i Talebani giustificano la loro guerra. E la gente che vive nelle aree rurali è sostanzialmente d’accordo con i Talebani, quando dicono che non vogliono vedere soldati stranieri. Se gli stranieri lasciano il paese, non ci saranno più ragioni per combattere, e la gente comprenderà più di ora la necessità di stare in pace. Verrà meno il sostegno della popolazione ai movimenti che fanno la guerra agli stranieri e al governo, che diventeranno inevitabilmente più deboli”, Aziz Rahman Saddiqi, presidente ASCP, Jalalabad “I paesi stranieri non sono qui per portare pace e stabilità, ma per seguire i propri interessi. L’Iran ha ambizioni nucleari, e gli Stati Uniti vogliono impedirne il rafforzamento. Gli Usa hanno interesse a controllare l’Iran e il Pakistan. Le basi degli americani possono essere usate per impedire a Iran e Pakistan di interferire negli affari dell’Afghanistan ma anche per interferire nei nostri affari. In questo secondo caso, non sarà bene per noi accettarle. L’altro problema riguarda gli insorti, che hanno più volte sostenuto di non voler neanche un soldato straniero sul suolo afghano. Con le basi, gli attacchi contro gli stranieri e il governo afghano continueranno”, content manager Radio Killid, Jalalabad “Che lo si voglia o meno, gli americani terranno alcune basi. Nell’accordo strategico tra Usa e Afghanistan il governo afghano in qualche modo le ha già accettate. Ma tenere delle basi americane in Afghanistan può essere destabilizzante, per questo credo che non debbano restare. Bisognerebbe chiedersi perché sono qui? Se costruiscono delle basi, è perché vogliono fare una guerra in Asia centrale. Se non vogliono fare una guerra, che se ne vadano”, Baz Mohammad Abid, Radio Mashaal, Jalalabad “Gli americani sono arrivati in Afghanistan senza essere invitati, usando la forza, e ora se ne vanno senza aver mai veramente parlato con noi, pretendendo di lasciare alcune basi militari. L’atteggiamento adottato è quello di chi non considera gli altri come membri di uno stato sovrano, ma come schiavi. Questo non può essere accettato dagli afghani. Karzai ha incarnato questo paradosso quando ha detto che ai soldati americani potrà essere concessa l’immunità nel caso riconoscessero la nostra sovranità. Ma concedere l’immunità agli altri significa negare la propria sovranità. Impossibile dire che siamo sovrani, con i soldati americani sul nostro suolo”, Mohammad Asif Samin, poeta, Jalalabad “Se gli Stati Uniti decidono di stabilire delle basi militari, la situazione peggiorerà perché i nostri vicini non saranno d’accordo. Otterremmo l’aiuto di un paese importante, ma provocheremmo ulteriori inimicizie. Cosa ci conviene? La storia dovrebbe insegnarci qualcosa: quando i russi hanno invaso l’Afghanistan, molti paesi hanno cominciato a tramare in Afghanistan per allontanarli, specie gli americani, che dei russi sono nemici storici. Cosa accadrebbe domani se la cosa si ripetesse?”, Bilgees Attaye, managing director di DEOW, Maimana “Si tratta si una questione politica. Il Pakistan vuol creare problemi al suo nemico storico, l’India, ma dal momento che l’India è una nazione forte, preferisce creare problemi agli indiani qui in

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Afghanistan. Se gli americani decidono di mantenere delle basi militari in Afghanistan, c’è il rischio che i pericoli aumentino per noi”, Naqibullah “Saqib”, preside Facoltà scienze politiche, Nangarhar University, Jalalabad “Ci deve essere un vero negoziato con il governo, basato sul rispetto reciproco, altrimenti ignoreremo qualunque richiesta. Sono i paesi vicini, con la loro interferenza, che in qualche modo ci obbligano a tenere in casa gli eserciti stranieri, e ora ci chiedono di mandarli via. Abbiamo bisogno che la comunità internazionale ci fornisca armi ed equipaggiamenti per l’esercito, così da difenderci da noi. Ma non deve interferire nei nostri affari interni. Possiamo rispettare e condividere in parte gli interessi stranieri, ma non possiamo essere un regime fantoccio”, “Tasal”, membro Welfare Association, Jalalabad “Chi lo dice che con le basi militari americane i paesi vicini non interferiranno nei nostri affari? Oggi in Afghanistan ci sono molti eserciti stranieri, eppure le interferenze ci sono lo stesso. Le basi militari americane sono inaccettabili per i nostri vicini e per gli insorti, che lancerebbero una nuova jihad contro gli stranieri. La soluzione è una: anziché ospitare le basi americane, rafforziamo il nostro esercito, con altre armi, addestramento, equipaggiamento”, Wahidullah Danish, CSDC, Jalalabad

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ELENCO DELLE PERSONE INTERVISTATE123

Provincia di Balkh

Akhtar Mohammad Ibrahim Khil, responsabile Shura (consiglio) di pace provinciale

Azim Resalat, content manager Radio Killid

Barialai Jalalzai, scrittore, promotore Khoshal Baba Library

Farzana Asra, studentessa università di Balkh, giornalista radio-tv

Hamid Gulami, direttore Ibn Sina Insitute of Higher Education

Khalil Hekmati, direttore BAO

Khaliq Azizi, studente, giornalista, collaboratore Mediothek

Mohammad Sardar Saeedi, responsabile Hezb-e-Wahdat Mardor

Monir Ahmad Noori, membro BAO

Nazira Ahmadi, regional manager e advocacy officer ACSF

Noorullah Moshini, preside Facoltà di Legge e Scienze politiche, Università di Balkh

Sadeq Hossian, docente Letteratura in lingua dari, Università di Balkh

Taher Mufid, leader religioso

Taqi Wahidi, attivista, scrittore, membro AIHRC

Yor Mohammed Bakhiri, docente Ibn Sina Institute of Higher Education

Zamir Saar, lettore Università di Balkh, già giornalista Pajhwok

Provincia di Bamiyan

Ali Erfan, vice direttore AIRA e direttore Radio Bamiyan

Ali Jan Fahim, attivista CSHRN

Amir Sharif, lettore in Sociologia e direttore Research Department, Università di Bamiyan

Gholam Hussein, responsabile associazione Shohada

Habiba Sorabi, governatrice provincia Bamiyan

Ismail Zaki, regional coordinator CSHRN

Mohammed Asif Alizada, provincial Finance and Procurement Officer The Asia Foundation

Nawroz Raja, giornalista Bostnews

rappresentante 1 Fondazione Aga Khan

rappresentante 2 Fondazione Aga Khan

123 La qualifica si riferisce al momento dell’intervista. Nell’elenco sono stati inclusi solo i nomi delle persone con cui si è svolta un’intervista strutturata. L’elenco non comprende le persone incontrate nell’ambito di discussioni informali.

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Sadek Alior, politico

Saed Husseiny Sha Husseiny, Monitoring and Investiganting Unity AIHRC

Studenti universitari

Provincia di Farah

Abdul Jabar, provincial Health director

Abdul Rahman Zhwandaj, giornalista, portavoce governatore di Farah

Attivista sociale

Funzionaria pubblica, Farah

Farid Aibad, Dipartimento educazione Farah e direttore ANSO

Farid Eshas, attivista

Ghoos Malyar, capo polizia Farah

Lailuma Sedeqi, responsabile Dipartimento Affami femminili provincia di Farah

Mawlawi Ruhal Ahmad Rohani, leader religioso, responsabile Dipartimento per l’Haj

Mirwais Bidel, insegnate privato

Studentessa università privata Farah e attivista sociale

Studenti universitari

Provincia di Faryab

Ahmad Shuaib “Shahir Qasemian”, provincial manager ASPR

Ali Asghar Arghash, Ong internazionale

Amrullah Hafizi, Ong internazionale

Behroz Roozbi, responsabile provinciale SDO

Bilgees Attaye, managing director DEOW

Enjila Surkhabi, gender officer DEOW

Hafizullah Fetrat, provincial program manager AIHRC

Hassan Serdash, giornalista tv

Kazem Amini, docente Faryab Teaching Training Center e responsabile Zahiruddin Faryabi

Cultural Association

Khalida Aimaq, responsabile AWEC

Mohammad Rozbeh, impiegato e attivista sociale

Nawid Faizi, responsabile Peace-Building programme SDO

Sakhidad Masroor, elder

Sameer Ahmad Bana, programme manager DEOW

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Provincia di Herat

Abdul Khaliq Stanikzai, regional coordinator SDO

Abdul Naser Aswadi, direttore Dipartimento economia della provincia di Herat

Abdul Qader Rahimi, responsabile regionale AIHRC

Ahmad Kharimi, acting director HOOAC

Ahmed Qureishi, giornalista, chief reporter per l’agenzia Pajhwok

Asina Nekzad, responsabile area occidentale AWN

Attivista per i diritti umani e studentessa

Aziza Khairandish, West Coordinator CSHRN

Daoud Saba, governatore della provincia

Ghulam Shah Adel (Alizai), preside della Facoltà di Legge e Scienze Politiche

Laila Samani, attivista per i diritti umani

Lettrice università di Herat

Lettrice “2” università di Herat

Mirways Ayobi, lettore in Law and Political Science, direttore Herat University Legal Clinic

Mohammed Hosainy, membro della Shura (consiglio) provinciale

Naser Muin, docente Economia, Università di Herat

Niamatullah Arez, Ong internazionale

Rafiq Shahir, portavoce e presidente della Shura dei professionisti di Herat, già parlamentare

Rahman Salahi, già portavoce della Shura dei professionisti, executive director ERSA

Soraya Pakzad, direttrice VWO

Provincia di Kabul:

Ahmad Seyar Lalee, programme officer CSHRN

Ali Wardak, docente universitario, University of Glamorgan, Pontypridd

Aziz Rafiee, executive director ACSF

Docente università di Kabul

Esperta in risoluzione dei conflitti

Idrees Zaman, managing director CPAU

Jawed Noorani, ricercatore (Extractive Industries Monitoring) IWA

Mir Ahmad Joyenda, Deputy Director for Communications and Advocacy AREU

Mohammed Asif Karimi, project manager TLO

Naim Nazari, executive coordinator CSHRN

Peyton Alexander Cooke, Justice and Governance Officer TLO

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Raz Mohammad Dalili, executive director SDO

Mohammed Saeed Niazi, direttore CSDC

Sayed Ikram Afzali, head of advocacy and communication IWA

Sima Samar, portavoce AIHRC

Studentessa universitaria

Studentessa universitaria “2”

Timur Hakimyar, executive director FCSC

Provincia di Nangarhar

Abdul Basit Amirzoi, studente Nangarhar University

Ahmad Jamal, giornalista, columnist magazine Meena

Asadullah Khaliz, membro Community Welfare Association

Asadullah Larawi, regional officer CSDC

Asadullah Sahil, membro Community Welfare Association

Attivista sociale e studentessa

Aziz Ur Rahman “Saddiqi”, presidente ASCP

Baz Mohammad Abid, giornalista, Radio Mashaal

Content manager, Radio Killid

Dr Tasal, coordinatore attività Community Welfare Association

Esatullah Zwab, poeta, editor in chief magazine Meena

Hamdullah Arbab, artista e Regional Coordinator YIAA

Membro Welfare Association

Mohammad Anwar Sultani, elder, politico, già docente universitario

Mohammad Asif Samim, scrittore e poeta, notabile locale

Naqibullah “Saqib”, preside Facoltà di Legge e Scienze politiche, Università di Nangarhar

Nassar Angar, communication officer ASCP

Nurramad Nurrani, direttore Youth Federation

Sher Alam Amlawal, docente Scienze Politiche, Aryana University

Shir Shah Hamdard, membro CSDC

Studentessa universitaria

Wahidullah Danish, FCSC

Zahidullah Kamirzai, studente Nangarhar University

Zia Urraham Tariq, CSHRN

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BIBLIOGRAFIA SELEZIONATA AA.VV., The International Community’s Engagement in Afghanistan beyond 2014, AAN discussions papers 2011, http://www.afghanistan-analysts.org/wp-content/uploads/downloads/2012/10/200111201-AAN_Beyond_2014.pdf. AIHRC et al, Afghan People’s Dialogue on Peace. Laying the Foundation for an Inclusive Peace Process, http://www.aihrc.org.af/media/files/People%27s%20Dialogue%20FINAL%20report.pdf. AIHRC, A Call for Justice. A National Consultation on past Human Rights Violations in Afghanistan, 2005, http://www.aihrc.org.af/media/files/Reports/Thematic%20reports/rep29_1_05call4justice.pdf. AJP, Casting Shadows: War Crimes and Crimes against Humanity: 1978-2001, 2005, http://afghanistanjusticeproject.org/warcrimesandcrimesagainsthumanity19782001.pdf. Allen J., Michèle Flournoy, Michael O'Hanlon, Toward a Successful Outcome in Afghanistan, Center for a New American Security, 2013, http://www.cnas.org/files/documents/publications/CNAS_Afghanistan_Flournoy_Voices.pdf. Barnett R., Transitional Justice and Human Rights in Afghanistan, in “International Affairs” 79, no. 3, 2003. Battiston G., La società civile afghana. Uno sguardo dall’interno, “Afgana” e Intersos-Link 2007, con il contributo del Ministero degli Affari Esteri, Direzione Generale per la Cooperazione allo sviluppo, http://intersos.org/sites/default/files/images/ricerca_la_societa_civile_afghana.pdf. Battiston G., Le truppe straniere agli occhi degli afghani. Opinioni, percezioni e rumors a Herat, Farah e Badghis, Intersos 2012, http://intersos.org/sites/default/files/images/le_truppe_straniere__percezioni_afgane.pdf. Beg B. e Ali Payam, Charting a Course for Sustainable Peace: Linking Transitional Justice and Reconciliation in Afghanistan, Afghanistan Watch, 2010, http://www.watchafghanistan.org/files/Charting_%20a_Course_for_a_Sustainable_Peace.pdf. Benelli P., Antonio Donini, Norah Niland, Afghanistan: Humanitarianism in Uncertain Times, Feinstein International Center 2012, http://sites.tufts.edu/feinstein/files/2012/12/Afghan-uncertain-times.pdf. Borchgrevink K., Kristian Berg Harpviken, Afghanistan: Civil Society Between Modernity and Tradition, in Thania Paffenholz (ed.), Civil Society & Peacebuilding. A Critical Assessment, Rienner 2010, pp. 253-258.

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