Acque sorgive e Pratolino ok - accademiasalute.eu · Dante Alighieri nel Canto XXXIV dell’Inferno...

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Le benefiche acque sorgive e il Parco delle ‘maraviglie’ di Pratolino “Pare che il Principe abbia di proposito scelto una posizione poco amena, sterile e montuosa e anche senza fonte, per il merito di andarle a cercare cinque miglia più in là” così Michel de Montaigne, filosofo e scrittore francese, ospite tra il 1580 e il 1581 del Granduca Francesco I de’ Medici nella Villa Medicea del Parco di Pratolino, riportò nei suoi appunti di viaggio. La Villa, chiamata Palazzo Celeste del Sole, sorgeva al centro di un parco che si estendeva per più di 200 ettari sulla collina sovrastante Firenze: un luogo prossimo alla città ma al tempo stesso defilato, situato sull’importante direttrice di traffico che conduceva a Bologna. L’idea di Francesco I di preferire un terreno impervio, arido e “senza fonte”, per farlo diventare lo spazio idilliaco dove le acque, ordinatamente convogliate, avrebbero portato “vita”, bellezza e musicalità, non nacque certo a caso. Dante Alighieri nel Canto XXXIV dell’Inferno chiamò la terra “la gran secca” mettendo in evidenza quanto un terreno può rimanere arido e sassoso se non intervengono delle “benefiche” acque ad irrorarlo. Il profeta Isaia (40:3) avvicinò il deserto, al cuore arido dell’uomo: “Nel deserto preparate/la via al Signore,/ appianate nella steppa/la strada per il nostro Dio./(...) Secca l’erba, appassisce il fiore,/ma la parola del nostro Dio dura per sempre”. Lo stesso concetto verrà chiarito ulteriormente dalle parole di Gesù Cristo riportate nell’Apocalisse da San Giovanni Evangelista (21:6): “A colui che ha sete darò gratuitamente acqua della fonte della vita”, mettendo in evidenza che è Cristo la vera e sola fonte 1

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Le benefiche acque sorgive e il Parco delle ‘maraviglie’ di Pratolino

“Pare che il Principe abbia di proposito scelto una posizione poco amena, sterile e montuosa e anche senza fonte, per il merito di andarle a cercare cinque miglia più in là” così Michel de Montaigne, filosofo e scrittore francese, ospite tra il 1580 e il 1581 del Granduca Francesco I de’ Medici nella Villa Medicea del Parco di Pratolino, riportò nei suoi appunti di viaggio.La Villa, chiamata Palazzo Celeste del Sole, sorgeva al centro di un parco che si estendeva per più di 200 ettari sulla collina sovrastante Firenze: un luogo prossimo alla città ma al tempo stesso defilato, situato sull’importante direttrice di traffico che conduceva a Bologna. L’idea di Francesco I di preferire un terreno impervio, arido e “senza fonte”, per farlo diventare lo spazio idilliaco dove le acque, ordinatamente convogliate, avrebbero portato “vita”, bellezza e musicalità, non nacque certo a caso.Dante Alighieri nel Canto XXXIV dell’Inferno chiamò la terra “la gran secca” mettendo in evidenza quanto un terreno può rimanere arido e sassoso

se non intervengono delle “benefiche” acque ad irrorarlo. Il profeta Isaia (40:3) avvicinò il deserto, al cuore arido del l ’uomo: “Nel deserto preparate/la via al Signore,/ appianate nella steppa/la strada per il nostro Dio./(...) Secca l’erba, appassisce il fiore,/ma la parola del nostro Dio dura per sempre”.Lo stesso concetto verrà chiarito ulteriormente dalle parole di Gesù Cristo riportate nell’Apocalisse da San Giovanni Evangelista (21:6): “A colui che ha sete darò gratuitamente acqua della fonte della vita”, mettendo in evidenza che è Cristo la vera e sola fonte

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inesauribile di Sapienza alla quale attingere.Da un punto di vista simbolico il significato dell’acqua ci riporta alle acque concepite come origine e veicolo di ogni forma vita, emblema di fecondità e di fertilità: pensiero già ben noto a Francesco I de’ Medici, profondo conoscitore non solo di ermetismo, ma anche delle Sacre Scrittore. Il silenzioso Principe, che aveva ben capito a quale deleteria “pietrificazione” può condurre il vivere senza un orientamento cristico, scelse quell’aspra località collinare per mettere in pratica il suo grandioso pensiero: dar vita e “ordine” ad una

natura arida ed inospitale, con la segreta aspirazione di riproporre quel “Fiat Lux” di cui si parla nella Genesi.Fu così che Francesco I, grazie alla geniale scenografia organizzata dal Buontalenti, ideò nella Villa Medicea di Pratolino, un parco fuori del comune in cui rigogliosità, musicalità e bellezza non avevano eguali, e l’acqua, propulsore di ogni “maraviglia”, ne divenne il suo elemento generatore.“L’acqua per Pratolino è stata l’elemento essenziale di vita più della terra, dell’aria e della luce; essa non appare mai in funzione strumentale ma come fine stesso del Giardino

delle Meraviglie che Francesco I dei Medici volle creare apposta per lei-acqua, per farla scorrere, saltare, sprizzare, zampillare, scaturire. Per lei-acqua, quasi per compiacerla sono state create fonti, grotte, getti, teatrini d’automi, scherzi, gamberaie e cascate”, scr ive lo s tudioso e ricercatore Gaetano Manara in un suo articolo, evidenziando il ruolo di preminenza di quel liquido elemento.Nella mente del Principe l’acqua diventò l’assoluto protagonista di quell’esteso “hortus conclusus”, che tanto ricordava il “paraidaeza” o “paradiso” persiano e, per conferire maggiore sacralità a quel luogo, si andarono a ricercare le sorgenti

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scaturite da Monte Senario.La scelta di questa montagna non fu certo casuale. Per anni Monte Senario aveva ospitato nelle sue gelide ed anguste grotte i Sette Santi Fiorentini e quei padri, con la loro vita di digiuni, ascesi e preghiere, avevano resa “santa” quella altura, tanto da far scaturire dalle sue pendenze aride e rocciose, pura acqua cristallina.Dodici furono le sorgenti indiv iduate su una vasta

superficie di oltre due chilometri quadrati, ad un’altitudine compresa tra i 500 ed i 700 metri ed i loro nomi si ricordano ancor oggi: le sorgenti degli Ebbi, del Masso della Strega, di Sala, della Galleria, del Fosso delle Ceppe, dei Castagni, delle Felciaie, di Citerne, della Buca dei Ciliegi, di Aquirico, di Brucheto e della Fittaccia. “Quelle acque partivano da lontane sorgenti ed attraverso condotti sotterranei delle boscose giogaie del Monte Senario, g i u n g ev a n o a l l e b a l z e d i Pratolino, aspre di macchie di lentisco e di mortella. Le acque erano portate da una intelligente filigrana di condotti, cunicoli, tonfani, chiuse: tutto questo secondo leggi idrauliche e quindi senza impiego di pompe od altri macchinari. Si utilizzavano tubazioni in terracotta, bottini di sfiato e risciacquatoi”, ricorda il Manara evidenziando la geniale semplicità di quel progetto.

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Bernardo Buontalenti aveva calcolato, per tutto il percorso, sia la pendenza che la velocità delle acque ed aveva anche trovato il modo affinché venissero utilizzate in maniera ottimale, seguendo gli insegnamenti riportati nei più antichi trattati di idraulica come il “Pneumatica” di Erone di Alessandria, il “De Architettura” di Vitruvio ed il “De Re Rustica” di Giunio Columella.Dalle sorgenti l’acqua arrivava in depositi posti nella parte alta del parco detti “conserve”, e da qui partivano i condotti che andavano ad alimentare le fontane inserite in quell’estensione di territorio. La principale “conserva” era quella della Fonte di

Giove che convogliava le acque all’interno del “gran labirinto di lauri” e dentro al l ’Appennino. Un altro condotto arrivava alle Stalle ed alla Vecchia Posta ed andava ad animare tutta una serie di piccole fonti come la Fonte dell’Orsa, la Fonte di Perseo e quella di Esculapio, dislocate in quella zona del parco.

Un deposito di acque era stato ideato anche sotto la Peschiera della Maschera ed andava ad alimentare la Gamberaia destra che, passando davanti alla Grotta di Cupido, arrivava sino alla fine del giardino. Un nuovo gruppo di condotti partiva poi dalla Fontana dell’Ammannati e, alimentando la Gamberaia sinistra, giungeva alle due fonti più spettacolari poste nella parte terminale parco: la Fonte della Rovere e la Fonte del Monte Parnaso. Ma le tecniche idrauliche più avanzate furono utilizzate per mettere in moto tutta una serie di automi inseriti all’interno delle nove grotte della Villa e per animare lo straordinario Viale degli

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Z a m p i l l i , u n p e r g o l a t o cristallino, che dalla Fonte del Mugnone si estendeva in linea retta sino alla Fonte della Lavandaia.Come già accennato, nessuna di quelle acque veniva sprecata, ma al contrario si recuperavano per nuovi usi e, utilizzando un sistema naturale detto “a cascata”, si arrivò a convogliarle verso valle, fino al Mulino p roge t t a to ne l 1580 da l Buontalenti, che andava ad alimentare altri due mulini ed un frantoio posto al termine dell’acquedotto: tutto questo vincendo le asperità del terreno e la difficoltà di operare su una simile lunghezza di percorso.I condotti furono realizzati in terracotta e molti di essi vennero smaltati all’interno sia per impedire qualsiasi incrostazione, che per fornire una maggiore velocità di scorrimento ed infine per garantire la potabilità dell’acqua stessa. Risciacquatoi, sfiati e bottini servivano per tenere sotto controllo il regime delle acque, mentre le “bronzine” e le “chiavi” servivano

per vuotare i condotti o dare il via alle fontane.Altri ingegneri di idraulica come il “maestro Lazzaro delle Fontane”, Buonaventura da Orvieto e Cosimo Lotti, collaborarono con il Buontalenti per rendere possibile l’ambizioso progetto del Principe, ma la genialità di quest’ultimo fu tale da conquistarsi il titolo di “Bernardo dei condotti”.Come ricorda il Manara “questo sistema di condotti resta il progetto idraulico più geniale e più nascosto e costituisce il trionfo della natura rispettata dalla ‘buona intelligenza’ dell’uomo”.Così quel difficile e impervio territorio

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diventò, sotto le direttive di Francesco I e del Buontalenti, un luogo paradisiaco dove venivano piantati alberi di ogni specie, popolato da ogni tipo di uccelli ed irrigato da infiniti percorsi d’acqua, che andavano ad alimentare fonti e grotte formando sorprendenti effetti scenografici.Il Gualterotti, poeta e cantore alla corte medicea, nel suo “Vaghezze di Pratolino” mise in luce quale splendore era stato ricreato su quell’aspro territorio e nei suoi aulici versi avvicinò il parco di Pratolino al celeste Olimpo, dimora degli dei.Per Cesare Agolanti, Torquato Tasso e

Francesco de’ Vieri, quell’‘hortus conclusus’ divenne un vero “paradiso terrestre”, costellato da innumerevoli divinità mitologiche che, immerse in una flora e fauna lussureggianti, andavano a ricreare l’arcaico concetto della mitica Età dell’Oro in cui il Divino e l’Umano convivevano in intima unione.L’Agolanti menziona nei suoi scritti la presenza di cervi, caprioli, montoni, conigli, lepri, gazzelle, peccari che

giravano in semilibertà nel parco, ma anche starne, pernici, fagiani, tacchini, anatre, folaghe, pavoni bianchi e cigni. Si parla anche della presenza della “vedova Paradisae” e di “crestati augelli d’India” che si muovevano indisturbati per quei verdi spazi emettendo dei suoni che si sposavano perfettamente con il gocciolio delle acque e con la melodia suonata, ad ore differenti della giornata, dai due organi idraulici: uno collocato all’interno della Villa e l’altro all’interno della Fonte del Monte Parnaso.Anche la grande Voliera, vo l u t a d a l G r a n d u c a

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Francesco nelle prossimità del Giardino segreto sul quale si affacciavano le sue stanze, destava notevole stupore da parte dei visitatori. I viaggiatori che avevano l’onore di essere invitati dal Principe a passeggiare per quell’insolito giardino, ne rimanevano così estasiati da raccontare di avere visto una

“grandissima gabbia” coperta da una rete di rame tutta rivestita di edera ed all’interno una fontana “per abbeverar grandissima copia di uccelli”.In un giardino alchemico ogni presenza, sia che provenga dal regno faunistico, che da quello vegetale, veniva scelta per il simbolismo che velatamente si voleva esprimere, quindi non è da meravigliarsi se insieme ai pavoni bianchi ed ai candidi cigni vi si trovavano gallinacei come il Carcambe e il Pauris, descritti da Federico Zuccari per la particolarità del loro piumaggio che ricordava i colori dell’Opera alchemica.Ad una ricchezza d’acque e di fauna non poteva che corrispondere un’altrettanta copiosità di vegetazione. E’ praticamente impossibile risalire alle specie di alberi che un tempo

costeggiavano fonti, viali, sentieri, grotte e gamberaie offrendo un fresco riparo dai raggi del sole.Anche in questo caso per risalire alla lussureggiante flora di quel parco, dobbiamo annotare le descrizioni lasciate dall’Agolanti o andare a ricercare i meravigliosi acquerelli di Jacopo Ligozzi.“Castagni verdiggiar vidi anco, a l’ombra/ di cui, cozzarsi duoi monton/faggi c’(h)anno in guisa d’arco/ piegati i rami, e ‘l bel ginepro e l’elce,/ il cipresso di lagrime ancor carco,/la querce, e i pini sovra verde felce”. Il poema continua con un nostalgico riferimento agli arbusti di mortella, spigo, cedri, aranci, viole e rose, ma 7

poi vengono menzionati anche alberi di pomi, di frutti rari, di ulivi e di viti che insieme all’abete bianco, all’alloro, alla querce, agli ippocastani, ai cerri, ai faggi, ai larici, ai cotogni, ai melograni, ai corbezzoli e ai noccioli andavano a dar corpo a quel fantastico Eden dove tutto poteva essere coltivato. A Francesco de’ Vieri, poeta e letterato fiorentino alla corte medicea, apparvero talmente meravigliose le opere ideate da Francesco I e dal Buontalenti da individuare in quell’estensione di terreno, ben “dodici tipi si Prato l in i paradis iac i” che trascrisse sinteticamente come segue:1)la Divina Essenza con le idee; 2) i Cielo empireo degli angeli e santi; 3) i Cieli visibili; 4) il mondo naturale; 5) il Paradiso terrestre; 6) il Giardino regale; 7) il parco ricco di molteplici attrattive; 8) la persona dotata di bellezza e nobiltà; 9) il concerto degli artisti e delle loro opere; 10) Gli uomini rari e valorosi in pace e in guerra; 11) il concerto dei sapienti; 12) un saggio di varia erudizione e filosofia.”

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Per capire il significato delle dodic i d i f f e rent i l e t ture ermetiche che il De Vieri dette di quel “paradiso”, bisogna prima avere un quadro preciso delle meraviglie che in quel parco erano state immortalate.N e l s u o c o m p o n i m e n t o letterario “Delle meravigliose Opere di Pratolino & Amore” il De Vieri, oltre a offrire q u e s t o s c h e m a

ermetico, dette una visione particolareggiata dell’esteso giardino soffermandosi, con minuziosa descrizione, sugli straordinari effetti che l’acqua produceva non solo all’interno della Villa, ma anche nell’Appennino e nelle fonti e grotte inserite in quei verdi spazi.Secondo lo storico dell’arte Detlef Heikamp, in quella successione di grotte che “si scoprivano all’improvviso camminando per gli stretti sentieri del parco”, si poteva addirittura ipotizzare il desiderio di un ritorno ad un’antica epoca monacale: “tutto era fatto per dedicarsi, per immergersi nella contemplazione della vita naturale. Facilmente si potrebbe scambiare la Grotta di Cupido per una cella monastica, come la cappella per un padiglione del giardino”. Lo studioso ricorda che malgrado gli scherzi d’acqua presenti nelle grotte,

quegli “ameni convegni” che vi s i tenevano, specialmente durante il periodo est ivo, non erano da intendersi come puri giochi senza senso; l’idea che se ne doveva trarre era di venire a contatto con una dimensione diversa, irreale e fantastica, che nascondeva ben più segrete simbologie.

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“In quegli anni tutti i grandi temi venivano letti in chiave simbolica”, afferma Luciano Berti, nel suo “Principe dello Studiolo”, ma dobbiamo ben tenere presente che il frasario utilizzato dal De Vieri, così semplice e analiticamente descrittivo, fu volutamente adottato per velare, a chi non era addentro all’ermetismo, delle conoscenze esoteriche che dovevano mantenersi nascoste per non incorrere nell’ossessiva “vigilanza” esercitata in quegli anni dal Tribunale dell’Inquisizione, così ben attento a qualsiasi scritto o immagine che andasse ad interferire con le idee espresse dal Concilio di Trento.Sapendo per certo quali conoscenze ermetiche ed alchemiche coltivasse segretamente Francesco de’ Vieri, leggendo quelle pagine traspare evidente che le attente e appassionate narrazioni nascondevano qualcosa di più di un caloroso plauso per i geniali artifici riprodotti. Il complesso strutturale di Pratolino, verso la fine del 1500, stava prendendo il titolo di “ottava meraviglia”, meta agognata da filosofi, scienziati, letterati, artisti, ambasciatori e personaggi illustri del mondo politico e culturale di allora e la sua fama stava raggiungendo l’Europa intera e addirittura il Giappone.

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Eppure il Granduca non era così prodigo di inviti e solo a pochissimi fu concesso, come segno di benevolenza, l’entrata nel Parco e nella Villa.Luigi Zangheri, storico del giardino e del paesaggio, nel suo “Pratolino, Magni Ducis Hetruriae”, ricorda che “il microcosmo di Pratolino rimase inaccessibile a chiunque e solo una volta l’anno era aperto graziosamente a tutti per la festa di San Cresci, il santo protettore della Chiesa di Macioli, situata nei pressi; in quell’occasione vi si riversavano soprattutto i contadini dei dintorni vestiti a festa (...) in modo da godere anch’essi delle meraviglie di quel luogo”.In un giardino ermetico, ogni spazio ha la sua giusta collocazione ed il dispiegamento di statue, grotte, boschi, cascatelle d’acqua, schizzi improvvisi

e m o d u l a z i o n i s o n o r e , n o n p rove n i va n o s o l o d a l s o g n o alchemico del suo ideatore, ma dalla ricerca di una Sapienza antica che non ha mai cessato di “parlare” a chi con Lei si sintonizza.L’intento di Francesco I era di far percepire, al fortunato visitatore che si trovava a percorrere quegli ombrosi sentieri, un linguaggio paesaggistico e musicale intimo, personale che solo l’anima ricettiva e attenta poteva recepire.A quell’epoca era l’acqua a suggerire

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a ciascuno, tra suoni, rumori e silenzi, la “sua passeggiata attraversante nel Parco”. Un tempo quel liquido elemento, sapeva “giocare” con il terreno apparendo, scomparendo, riaffiorando, inventando arcobaleni ed imprevedibili scherzi che producevano un sano scompiglio; un’acqua che addirittura “si odorava nell’aria”, che fluiva, rumoreggiava e “dava vita” mettendo in movimento automi ed ingranaggi sofisticati che producevano una dolce e armoniosa musicalità. “Ovunque dominava l’armonia. Il fluire delle acque dava vita agli automi, alimentava i ritmati getti delle fontane, accompagnava musicalmente la vita nel parco”, scrive Luigi Zangheri nel suo libro ricordando la rigogliosità di quel luogo. Purtroppo quell’armonia non durò quanto il pensieroso Principe aveva progettato. Dopo la morte di Francesco I, avvenuta il 19 ottobre 1587, pian piano il parco cambiò aspetto: molte statue furono spostate e portate nel Giardino di Boboli, alcune fonti furono chiuse e, cosa ancora più grave, il regime di quelle acque non fu più controllato e direzionato.“Al giorno d’oggi, per volere della natura e per l’incuria dell’uomo, i percorsi antichi ed i magnifici

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elementi decorativi, d e p red a t i d e i l o ro accessori mobili come le bronzine e le chiavarde, oltre ai raccordi di bronzo e piombo, si s o n o ‘ n a s c o s t i ’ : quell’acqua si è dispersa nelle profondità del suolo, forse alla ricerca del suo primitivo corso”, commenta amaramente Gaetano Manara.

Con la morte del Principe morì anche l’idea alchemica che aveva originato ogni “maraviglia” e fu così che quelle acque, un tempo dispensatrici di ermetiche e ardite scenografie, si dispersero nella vastità del terreno e divennero l’elemento corrosivo e disgregatore delle fondamenta della Villa-Palazzo che sorgeva nel cuore dell’antico Parco.Nel 1818 Ferdinando III di Lorena dette l’ordine di abbattere al suolo la Villa e con essa si perse un patrimonio artistico di inestimabile valore. “La bellezza e la ricchezza di questo luogo non si possono rappresentare con la scrittura” affermò un tempo Michel de Montaigne rimanendo letteralmente incantato davanti all’organizzazione iconologica di quegli spazi, eppure l’incuria e l’insipienza di chi avrebbe dovuto salvaguardare un simile tesoro, arrivarono al punto di cambiarne totalmente la fisionomia.Ma non tutto è andato perduto. Ancora oggi la Fonte di Giove, le due c o n c r e z i o n i d i s p u g n a c h e contrassegnavano il Labirinto, l’Appennino del Giambologna, la Cappella del Buontalenti, la scalinata con il Mugnone, il Vialone (un tempo degli zampilli), la Peschiera della Maschera, la Voliera, qualche resto di Gamberaia, la grotta di Cupido ed un ampio stagno posto nella parte meridionale del parco, rimangono

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testimonianze quasi archeologiche di un disegno ermetico che è ancora in grado di parlarci.Passeggiando per i sentieri alberati del Parco, assaporando l’aria pulita che ancora vi si riesce a respirare, possiamo ricreare con la mente l’antico fascino di quegli spazi. Certo, manca il gorgoglio delle acque, il suono dei meccanismi animati, le note dei due organi idraulici ed il canto degli uccelli esotici che animavano il giardino, ma lo stormire delle fronde unito alla musicalità dei piccoli volatili ancora presenti, ci riporta in qualche modo a rivivere ancora oggi quell’antica atmosfera.

! ! ! Appennino del Gianbologna

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