Abolire la miseria della Calabria

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ella prefazione al volume di Mario Moretti “La rivo- luzione di Fra To m m a s o Campanella”, pubblicato da Veutro Editore, nella ‘Collana della crudeltà e della violenza’ diretta da Rafael Alberti e Maria Teresa Leon, collana, precisa l’editore, “dedicata a Bertrand Russel come al simbolo più luminoso della sempre più folta schiera di filosofi, scienziati, letterati e uomini civili che lot- tano per un mondo pacifico e per il rispetto umano” Miguel Angel Asurias scrive: “L’anno scorso, di passaggio a Roma con mia moglie, siamo andati insieme al fraterno amico Rafael Alberti in un teatrino di Piazza Navona e il Tevere, dove rappresentavano un ‘Processo a Giordano Bruno’. La sorpresa è stata piacevole; l’occasione inaspettata. L’antitesi tirannia–libertà aveva qui la ferma e dolorosa angoscia dei grandi fatti corali, e il messag- gio filtrato dai documenti auten- tici della vicenda di Giordano Bruno era presentato in un con- testo che aveva l’impression- ante, inconfondibile sapore della verità. Abbiamo voluto conoscere l’autore, Mario Moretti. Ci ha parlato della sua idea di un teatro-storia dove nulla sia affidato al caso o alla fantasia, ma dove il documento sia rivis- suto e ricreato in una gamma di possibilità che va dal vero al verosimile, dal plausibile all’at- tendibile. Ho avuto l’impres- sione che il Moretti stia esplo- rando un terreno verminoso per estrarre dal brulichio immondo la pepita della verità”. La lettura de ‘La rivoluzione di fra Tommaso Campanella’ me lo ha confermato. Anche qui l’aggancio con la realtà risulta straziante: il dolore della storia si dilata, sorvola le epoche, le scavalca, arriva fino a noi. Leggi e ti accorgi di masticare e masticare la verità, come un pezzo di canna dalla polpa bian- ca. Alla fine hai la bocca amarognola, ti viene da sputare, perché la a storia proposta in queste note non ha inteso seguire l’intero percorso di un cibo che ha accompagnato l’uomo nel suo cammino ma si ferma nel punto in cui la panificazione inizia a presentare una sostanziale omologazione di processo, fatta eccezione per alcune differenze che ancora resistono in varie parti del mondo, conservando specificità ascrivibili alla storia dell’uomo, dei luoghi in cui vive e delle risorse di cui dispone. Per l’Europa, questo momento si può far coincidere con il Medioevo, quando la tecnica panificatoria è già definita nelle sue linee essenziali, pur facendo registrare adattamen- ti tecnologici in età moderna e contemporanea. È parere di chi scrive che la tecnologia, nel passaggio da una manifat- tura artigianale ad una manifattura industriale, non abbia modificato il processo ma si sia limitata ad imprimervi un’accelerazione e ad introdurre sistemi di controllo, a par- tire dal momento in cui le biotecnologie sono passate dal- l’applicazione affidata a metodi e tradizioni della cultura popolare (Pre- Pasteur Era), a quella legata alle scoperte di Pasteur sui microbi come agenti attivi della fermentazione (Pasteur Era) e alla scoperta degli antibiotici (Antibiotic Era). In sostanza, poiché in molti passaggi il lavoro umano è stato sostituito dalle macchine, sono cambiati gli “attori” del processo ma questo è rimasto sostanzialmente invariato, salvo la perdita di alcuni caratteri organolettici che solo la manualità può conferire al prodotto. Cibo come cultura Sebbene si tenda a relegare l’alimentazione e il cibo nell’ambito ristretto delle esigenze fisiologiche, non v’è dubbio che essi rap- presentino un punto di osservazione privilegiato, tanto per etnolo- gi e antropologi, quanto per gli storici. Questo perché, le relazioni tra cibo, modo di procurarselo e modo di consumarlo, sono in stretta connessione con le risorse dei luoghi abitati dagli uomini, dei rapporti sociali, della cultura e degli atteggiamenti mentali di ogni popolazione e rappresentano uno dei tratti evolutivi che hanno accompagnato l’uomo nel suo cammino. Facciamo un esempio estremo: le larve del Punteruolo rosso, che preoccupano il nord del mondo perché considerate una minaccia per la sopravvivenza delle palme, per alcuni popoli della Papua Nuova Guinea rappresentano una fonte importante di ferro e zinco e soddisfano fino al 30% del loro fabbisogno proteico (Martin et al., 2000). Non è per caso che Claude Lévi-Strauss abbia “costruito” la sua Mitologica sul cibo e sulle connessioni tra questo e le altre fun- zioni vitali (espellere, fecondare, riprodursi) e che storici e antropologi abbiano fornito testimonianze importanti su queste interconnessioni e su come e perché la storia dell’alimentazione può essere “un buon punto di osservazione […] per ricostruire le condizioni di vita della popolazione […] e verificare l’incidenza concreta, quotidiana, che una certa struttura economico- sociale ebbe sulla vita degli uomini. A patto, s’intende, di non consider- are il tema del consumo alimentare in modo aneddotico […]” (Montanari, 2004). “Res non naturalis definirono il cibo medici e filosofi antichi, a cominciare da Ippocrate, includendolo fra i fattori della vita che non appartengono all’ordine «natu- rale», bensì a quello «artificiale» delle ella nascita di una “Questione merid- ionale” propriamente detta si può parlare a partire dall'integrazione delle province meridionali nello stato unitario nel 1860-61: infatti, già all'inizio delle annessioni, nel momento cioè in cui da Torino ci si sforzava di liquidare mediante l'intervento regio l'ipoteca politica della dittatura di Garibaldi, Cavour_ebbe a rettificare i propri orientamenti ottimistici ed a pren- dere drammatica coscienza dell'e- sistenza di una profonda frattura fra le “due Italie”, di un distacco misurabile non solo quantitativa- mente, ma anche in termini sociali e morali. Alla luce delle difficoltà crescenti, il Cavour reputò forse più conveniente anteporre alle ragioni dell'autonomismo e il decentramento amministrativo quelle che persuadevano a rinsal- dare un forte sistema accentratore in senso decisamente unitario. Anzi, é da dire che le preoccu- pazioni politiche suscitate dalla questione del Mezzogiorno influenzarono strettamente tutto il dibattito successivo sulla forma politica-amministrativa da dare al nuovo stato. Negli anni seguenti al 1861, in assenza di una politica governati- va diversa da quella storicamente intrapresa – mentre si saldava l'al- leanza tra borghesia industriale del nord e grande proprietà terri- era del sud, che escludeva la risoluzione in termini socialmente nuovi della questione contadina – l'iniziativa dell'opera di propagan- da e di denuncia non spettò alla democrazia radicale, alla quale in pratica rimase estranea la sostanza politica del problema, ma a pochi intellettuali conservatori, ma illu- ministicamente riluttanti a chiud- ere gli occhi sui problemi che la bruciante realtà meridionale (brig- antaggio, fame di terra da colti- vare, arretratezza economica com- plessiva, agricoltura arcaica clien- telismo diffuso, ecc .) proponeva. Primo di tutti fu Pasquale Villari: la sua descrizione della miseria delle plebi contadine e di quelle che affollavano, cenciose e senza mestiere, i “bassi“ dell'ex capitale (Napoli) infestata dalla camorra, della situazione intollerabile esistente nel latifondo siciliano, delle dimensioni del brigantaggio, procedeva col ripensamento criti- co delle basi sociali che erano all'origine di quei fenomeni pato- logici, insieme con l'appello ai ceti dominanti di tramutarsi nel nome del buongoverno, in classe effettivamente dirigente. Analogo spirito riformatore e moralismo filantropico é presente in Sonnino e Franchetti, i quali con- dussero avanti un discorso polemi- co che aveva alla base le splen- dide inchieste sulle condizioni delle province napoletane (1875) e della Sicilia 1876). Anche l'espan- sionismo coloniale era dal Sonnino giudicato come un canale di sfogo della miseria dei contadi- ni del sud ed www.almcalabria.org solo 1,00 L D Cibo, cultura, evoluzione: La straordinaria storia del pane di Francesco Santopolo La Questione meridionale dalle origini al dibattito contemporaneo di Antonio Carvello (*) Copia Omaggio >> Pag 2, 3 e 4 >> Pag 8 >> Pag. 5, 6, 7 e 8 Periodico nonviolento di Storia, Arte, Cultura e Politica laica liberale calabrese Aprile - Dicembre 2011 - Anno V - N. 4, 5, 6, 7, 8, 9, 10, 11 e 12 Un contributo libero è gradito La rivoluzione di Tommaso Campanella Figura curiosa che tende tranelli agli studiosi di Maria Elisabetta Curtosi Direttore Responsabile: Filippo Curtosi - Direttore Editoriale: Giuseppe Candido Guido Dorso * * * Avellino 1892-1947 N ISSN 2037-3945 Abolire la miseria della Calabria Anno V - n°04 - 12 Publicità Spazio disponibile chiama il 347 8253666 Giuseppe Candido Filippo Curtosi Francesco Santopolo su internet almcalabria.org

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ella prefazione alvolume di MarioMoretti “La rivo-luzione di FraT o m m a s o

Campanella”, pubblicato daVeutro Editore, nella ‘Collanadella crudeltà e della violenza’diretta da Rafael Alberti e MariaTeresa Leon, collana, precisal’editore, “dedicata a BertrandRussel come al simbolo piùluminoso della sempre più foltaschiera di filosofi, scienziati,letterati e uomini civili che lot-tano per un mondo pacifico eper il rispetto umano” MiguelAngel Asurias scrive: “L’annoscorso, di passaggio a Romacon mia moglie, siamo andatiinsieme al fraterno amicoRafael Alberti in un teatrino diPiazza Navona e il Tevere, doverappresentavano un ‘Processo aGiordano Bruno’. La sorpresa èstata piacevole; l’occasioneinaspettata. L’antitesitirannia–libertà aveva qui laferma e dolorosa angoscia deigrandi fatti corali, e il messag-gio filtrato dai documenti auten-tici della vicenda di GiordanoBruno era presentato in un con-testo che aveva l’impression-ante, inconfondibile saporedella verità. Abbiamo volutoconoscere l’autore, MarioMoretti. Ci ha parlato della sua idea diun teatro-storia dove nulla siaaffidato al caso o alla fantasia,ma dove il documento sia rivis-suto e ricreato in una gamma dipossibilità che va dal vero alverosimile, dal plausibile all’at-tendibile. Ho avuto l’impres-sione che il Moretti stia esplo-rando un terreno verminoso perestrarre dal brulichio immondola pepita della verità”.La lettura de ‘La rivoluzione difra Tommaso Campanella’ melo ha confermato.Anche qui l’aggancio con larealtà risulta straziante: il doloredella storia si dilata, sorvola leepoche, le scavalca, arriva finoa noi. Leggi e ti accorgi di masticare emasticare la verità, come unpezzo di canna dalla polpa bian-ca. Alla fine hai la boccaamarognola, ti viene da sputare,perché la

a storia proposta in queste note non ha intesoseguire l’intero percorso di un cibo che haaccompagnato l’uomo nel suo cammino ma siferma nel punto in cui la panificazione inizia apresentare una sostanziale omologazione di

processo, fatta eccezione per alcune differenze che ancoraresistono in varie parti del mondo, conservando specificitàascrivibili alla storia dell’uomo, dei luoghi in cui vive edelle risorse di cui dispone.Per l’Europa, questo momento si può far coincidere con il

Medioevo, quando la tecnica panificatoria è già definitanelle sue linee essenziali, pur facendo registrare adattamen-ti tecnologici in età moderna e contemporanea. È parere dichi scrive che la tecnologia, nel passaggio da una manifat-tura artigianale ad una manifattura industriale, non abbiamodificato il processo ma si sia limitata ad imprimerviun’accelerazione e ad introdurre sistemi di controllo, a par-tire dal momento in cui le biotecnologie sono passate dal-l’applicazione affidata a metodi e tradizioni della culturapopolare (Pre- Pasteur Era), a quella legata alle scoperte diPasteur sui microbi come agenti attivi della fermentazione(Pasteur Era) e alla scoperta degli antibiotici (AntibioticEra).In sostanza, poiché in molti passaggi il lavoro umano è statosostituito dalle macchine, sono cambiati gli “attori” delprocesso ma questo è rimasto sostanzialmente invariato,salvo la perdita di alcuni caratteri organolettici che solo lamanualità può conferire al prodotto.

Cibo come culturaSebbene si tenda a relegare l’alimentazione e il cibo nell’ambitoristretto delle esigenze fisiologiche, non v’è dubbio che essi rap-presentino un punto di osservazione privilegiato, tanto per etnolo-gi e antropologi, quanto per gli storici. Questo perché, le relazionitra cibo, modo di procurarselo e modo di consumarlo, sono instretta connessione con le risorse dei luoghi abitati dagli uomini,dei rapporti sociali, della cultura e degli atteggiamenti mentali diogni popolazione e rappresentano uno dei tratti evolutivi chehanno accompagnato l’uomo nel suo cammino.Facciamo un esempio estremo: le larve del Punteruolo rosso, chepreoccupano il nord del mondo perché considerate una minacciaper la sopravvivenza delle palme, per alcuni popoli della PapuaNuova Guinea rappresentano una fonte importante di ferro ezinco e soddisfano fino al 30% del loro fabbisogno proteico(Martin et al., 2000).Non è per caso che Claude Lévi-Strauss abbia “costruito” la sua

Mitologica sul cibo e sulle connessioni tra questo e le altre fun-zioni vitali (espellere, fecondare, riprodursi) e che storici eantropologi abbiano fornito testimonianze importanti su questeinterconnessioni e su come e perché la storia dell’alimentazionepuò essere “un buon punto di osservazione […] per ricostruire lecondizioni di vita della popolazione […] e verificare l’incidenzaconcreta, quotidiana, che una certa struttura economico- socialeebbe sulla vita degli uomini. A patto, s’intende, di non consider-are il tema del consumo alimentare in modo aneddotico […]”(Montanari, 2004).“Res non naturalis definirono il cibo medici e filosofi antichi, acominciare da Ippocrate, includendolo fra i fattori della vita chenon appartengono all’ordine «natu-rale», bensì a quello «artificiale» delle

ella nascita di una“Questione merid-ionale” propriamentedetta si può parlare a

partire dall'integrazione delleprovince meridionali nello statounitario nel 1860-61: infatti, giàall'inizio delle annessioni, nelmomento cioè in cui da Torino cisi sforzava di liquidare mediantel'intervento regio l'ipoteca politicadella dittatura di Garibaldi,Cavour_ebbe a rettificare i propriorientamenti ottimistici ed a pren-dere drammatica coscienza dell'e-sistenza di una profonda fratturafra le “due Italie”, di un distaccomisurabile non solo quantitativa-mente, ma anche in termini socialie morali. Alla luce delle difficoltàcrescenti, il Cavour reputò forsepiù conveniente anteporre alleragioni dell'autonomismo e ildecentramento amministrativoquelle che persuadevano a rinsal-dare un forte sistema accentratorein senso decisamente unitario.Anzi, é da dire che le preoccu-pazioni politiche suscitate dallaquestione del Mezzogiornoinfluenzarono strettamente tutto ildibattito successivo sulla formapolitica-amministrativa da dare al

nuovo stato.Negli anni seguenti al 1861, inassenza di una politica governati-va diversa da quella storicamenteintrapresa – mentre si saldava l'al-leanza tra borghesia industrialedel nord e grande proprietà terri-era del sud, che escludeva larisoluzione in termini socialmentenuovi della questione contadina –l'iniziativa dell'opera di propagan-da e di denuncia non spettò allademocrazia radicale, alla quale inpratica rimase estranea la sostanzapolitica del problema, ma a pochiintellettuali conservatori, ma illu-ministicamente riluttanti a chiud-ere gli occhi sui problemi che la

bruciante realtà meridionale (brig-antaggio, fame di terra da colti-vare, arretratezza economica com-plessiva, agricoltura arcaica clien-telismo diffuso, ecc .) proponeva.Primo di tutti fu Pasquale Villari:la sua descrizione della miseriadelle plebi contadine e di quelleche affollavano, cenciose e senzamestiere, i “bassi“ dell'ex capitale(Napoli) infestata dalla camorra,della situazione intollerabileesistente nel latifondo siciliano,delle dimensioni del brigantaggio,procedeva col ripensamento criti-co delle basi sociali che eranoall'origine di quei fenomeni pato-logici, insieme con l'appello aiceti dominanti di tramutarsi nelnome del buongoverno, in classeeffettivamente dirigente. Analogospirito riformatore e moralismofilantropico é presente inSonnino e Franchetti, i quali con-dussero avanti un discorso polemi-co che aveva alla base le splen-dide inchieste sulle condizionidelle province napoletane (1875) edella Sicilia 1876). Anche l'espan-sionismo coloniale era dalSonnino giudicato come un canaledi sfogo della miseria dei contadi-ni del sud ed

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diFrancesco Santopolo

La Questione meridionaledalle origini al dibattito contemporaneo

di Antonio Carvello (*)

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Periodico nonviolento di Storia, Arte, Cultura e Politica laica liberale calabreseAprile - Dicembre 2011 - Anno V - N. 4, 5, 6, 7, 8, 9, 10, 11 e 12

Un contributo libero è gradito

La rivoluzionedi TommasoCampanellaFigura curiosache tendetranelli aglistudiosidiMaria ElisabettaCurtosi

Direttore Responsabile: Filippo Curtosi - Direttore Editoriale: Giuseppe Candido

Guido Dorso* * *

Avellino1 8 9 2 - 1 9 4 7

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ISSN 2037-3945Abolire la miseria

della CalabriaAnno V - n°04 - 12

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Giuseppe Candido Filippo CurtosiFrancesco Santopolo

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il campo per un pacifico svolgimento delloro lavoro in territori aperti alla civiliz-zazione. La linea del Villari venne altresìcontinuata da Giustino Fortunato, anche sesul finire del secolo, tuttavia, il Fortunatonon nascose la cocente delusione patita peril venir meno di un sogno che aveva alimen-tato le speranze degli anni precedenti: quel-la di uno Stato che si facesse centro emotore attivi di rinnovamento materiale emorale nel Sud e nell'Italia intera.Di fronte all'approfondirsi della frattura franord e sud – così come veniva documentatacon dovizia di cifre e di fatti da FrancescoSaverio Nitti nella opera capitale “Nord eSud“ (1900) – Fortunato abbandonò gli ide-ali protezionistici del “socialismo di stato“ esi convertì decisamente al liberismo, con-vinto addirittura che 1o Stato col suo mal-governo riuscisse d'ostacolo alle soleenergie individuali che avrebbero potutooperare per la rinascita del sud. Nel Nitti, alcontrario, le speranze riposte nell'industri-alizzazione si accentuarono nella misura incui egli pensava che le possibilità ditrasformazione sciale dipendessero nonsoltanto da quella che egli chiamava la“ricostituzione del territorio“, ma anche dal-l'inserimento della regione nell'area capital-istica settentrionale ed europea, dove Napolidoveva fungere da “polo“ industrializzatopropulsore per l'intero Mezzogiorno. A differenza del Nitti, che fu sempre rigida-mente unitario al pari di Fortunato, difesele ragioni di una soluzione federalisticadel problema meridionale il repubblicanoNapoleone Colajanmi, anche se rimase al diqua del meridionalismo borghese per quelsuo privilegiare la riforma dello spirito pub-blico quale pressuposto imprescindibile diun effettivo mutamento di rotta nel Sud,anziché far derivare abusi e discrimi-nazioni dalla struttura sociale italianaquale si era storicamente formata con l'uni-ta.Toccò ai meridionalisti d'ispirazione social-ista portare il dibattito su un piano squisita-mente politico e svolgere talune conseguen-ze: con Ettore Ciccotti, al quale stette acuore illuminare il rapporto che potevaintercorrere tra movimento socialista equestione del sud e che a tal fine operòpolemicamente all'interno e fuori del PSIperché questi assumesse coscienza dei com-piti che gli spettavano; poi, e soprattutto,con Gaetano Salvemini che quella polemicacondusse con vigore ancora maggiore. Mamentre il Ciccotti, pur sottolineando l'im-

portanza dell'educazione per la coscienza diclasse fra i contadini meridionali, ne consid-erò sempre la funzione politica subordinataal movimento organizzato del nord,Salvemini attaccò a fondo i compromessipalesi od occulti raggiunti, nel quadro delsistema giolittiano, dal partito socialista conla borghesia settentrionale, a spese del pro-letariato contadino. Per questo, ed a piùriprese, Salvemini si scontrò con la lineariformista di Turati. Accantona e, anche semai abiurato, il federalismo alla Cattaneodegli anni della milizia giovanile, Salveminisi batté dopo il '900 perché al centro del suoprogramma il PSI ponesse il suffragio uni-versale ed una politica doganale antipro-tezionistica, strumenti rispettivamente dellarinascita politica ed economica del Sud.Convinto, infine, che il suo partito fosseincapace di fare propri quelle due paroled'ordine, uscito dal partito, fondò un proprioperiodico per difendere le sue idee,“L'Unità”.Guido Dorso, che nel 1914-15 si eraaccostato all'interventismo di Mussolini

supponendo che l'evento “rivoluzionario”della guerra avrebbe infranto le fratture con-servatrici del Mezzogiorno, nel suo volume“La rivoluzione meridionale“ (1925) ritennenon poco della lezione di Salvemini, batten-do maggiorante l'accento sulle implicazioniinteressanti tutto quanto il paese ove sifosse fatto del sud “la base della rivoluzione

italiana”.Un nuovo meridionalismo elaboròAntonio Gramsci: più che negliscritti giovanili ed in quelli del peri-odo ordinovista, Gramsci giunse allosue conclusioni più maturo in unsaggio rimasto incompiuto e stesonell'ottobre 1926, pochi giorni primadi essere arrestato, “Alcuni temidella questione meridionale”. Inquest'opera la concezione leninistadell'alleanza fra operai e contadini,si saldava con la riflessione sui“nodi” principali della lotta politicafra democratici e moderati, sullaegemonia di questi ultimi consoli-datasi, poi, storicamente, nellacreazione di un “blocco storico”conservatore che nel “blocco agrariointellettuale” di estrazione merid-ionale aveva il suo perno fondamen-tale. Sempre il sud offerse al mag-giore meridionalista cattolico, il sac-erdote di Caltagiorone Luigi Sturzo,fondatore anche del partito popo-lare,l e occasioni politiche per unifi-care, com'è stato osservato, i filisparsi del suo pensiero e per elabo-

rare i punti programmatici che ne sorresserola battaglia politica dal tempo dellademocrazia cristiana di Romolo Murri finoalla “leadership“ nel partito popolare: larichiesta della proporzionale, del decentra-mento regionale, la lotta per la rottura dellatifondo in favore della piccola proprietà siaffiancarono in lui a quella contro iltrasformismo ed il clientelismo cui lo statoliberale aveva consentito di prosperare e ditrovare alleati fra il clerico-moderati,soprattutto nel Sud.Nel secondo dopoguerra si pone un nuovomeridionalismo, meno polemico e piùpropositivo rispetto ai “mali” antichi enuovi del Mezzogiorno, che ha i suoi mag-giori esponenti in Emilio Serni, RosarioVillari, Giuseppe Galasso, FrancescoCompagna, Manlio Rossi Doria, PasqualeSaraceno, Mario Alicata, Augusto Graziani,ecc; intellettuali e politici di diverso orien-tamento,c he hanno posto all'attenzione gen-erale del paese il problema del Mezzogiornocome “questione nazionale“, nel senso cioèche sarebbe utopia parlare di uno sviluppoendogeno del Mezzogiorno, impensabilesenza una politica d'orientamento e indiriz-zo da parte dello Stato di fronte a quelli cheancora oggi sono i problemi irrisolti delSud: la mancanza d'industrie, un'agricolturanon competitiva, la cementificazione dellecoste, la debolezza organica delle isti-tuzioni, esplodere della criminalità organiz-zata, la crescente disoccupazione giovanile,l'assistenzialismo sempre più diffuso, ecc.In questi ultimi tempi si va sempre più“appannando” la riflessione sui problemi delMezzogiorno: una riflessione, quindi, pernulla comparabile, quanto ad intensità edeco, ai dibattiti svoltisi negli anni '50-60,quando ci si spinse ad affermare l'esistenzadi un “pensiero” e di una “cultura” non solomeridionali, ma “meridionalisti”. Sembraora, per diversi aspetti che i problemi dellaparte meridionale ed insulare del Paese nonsiano più sentiti come una “questionenazionale”, salvo che in poche dichiarazioniufficiali, tanto inevitabili quanto spesso for-mali ed inutili.Ad aprire la breccia in questa direzione,poco più di un anno fa, é stato il sen.Umberto Bossi,o ggi leader incontrastatodelle leghe del Nord: abile, spregiudicato,tanto incolto da raccogliere senza filtro gliumori dispersi della sua gente, ha fatto del-l'antimeridionalismo una bandiera politica,ha raccolto consensi, è divenuto lo “spau-racchio“ elettorale dei partiti tradizionali.Ma dopo la ricca e varia fioritura dei rozzislogan di partenza, il fenomeno sta acquis-tando consistenza, la ricerca delle ragionidel successo delle leghe nordiste si staammantando di una “dignità” culturale: lefilippiche quasi quotidiane di Giorgio Bocca– che traccia progressivamente il ritratto diun Mezzogiorno quasi irrecuperabile, vero“regno“ del male, ostaggio della criminalitàorganizzata e sempre più alimentato dall'as-sistenza statale – hanno aperto la strada a“diagnosi” meno impietose, meno totaliz-zanti e, per questo, più severe e pericolose.“La questione meridionale é soprattutto unaquestione dei meridionali” ha scritto in uneditoriale sulla “Stampa” il filosofoNorberto Bobbio. Ma 1'affermazione dell'il-lustre studioso é stata raccolta ed interpreta-ta al di là della sua valenza effettiva, dandoil via ad analisi dure “Mentre le conseguen-ze del deficit pubblico – ha sottolineatoMario Pirani – sono vissute nelle regionisettentrionali come una minaccia crescentealla possibilità di concorrere alla pari all'in-tegrazione comunitaria, nel Meridione ildebito pubblico costituisce la base indis-pensabile del consenso e dello scambiopolitico”.

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considerarsi totalmente gratuita e volontariaGli articoli riflettono il pensiero degli autori che si assumono la responsabilità di fronte la legge

Hanno col laborato a questo numero:Giuseppe Candido, Antonio Carvello, Filippo Curtosi, Maria Elisabetta Curtosi,

Francesco Santopolo Progetto Grafico e impaginazione : Giuseppe Candido

Questo numero è stato chiuso il 25 dicembre 2011 alle ore 19,17

La Questione meridionaledalle origini al dibattito contemporaneo

di Antonio Carvello

LLaa ““QQuueessttiioonnee MMeerriiddiioonnaallee””

Gaetano Salvemini(Molfetta, 8 settembre 1873 – Sorrento, 6

settembre 1957

segue dalla prima

>> >>

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Ed il sociologo Luciano Gallimo, riferen-dosi al Mezzogiorno, ha aggiunto: “Nessunpaese europeo reca dentro di sé un nemicoaltrettanto pericoloso per tutti i progetti disviluppo, di promozione sociale e cultur-ale“. E Vittorio Feltri, direttoredell'“Europeo” ha avanzato “il sospetto chese i carabinieri nella provincia diCaltanissetta arrestassero tutti coloro chesono in combutta con le cosche e hanno vio-lato il codice, la popolazione in libertà sidimezzerebbe” .Le esemplificazioni potrebbero continuare,ma ciò che é importante rilevare é che, sullaspinta di questo “nordismo democratico”,prendono consistenza, in teoria, le ipotesi diuna “secessione” del Nord. Il suo profeta è

il prof. Gianfranco Miglio, ordinario discienze della politica alla “Cattolica” diMilano: “Per accelerare il processo di seces-sione non c'è affatto bisogno che la LegaNord conquisti la maggioranza assolutanelle prossime elezioni. È sufficiente cheottenga la maggioranza relativa nelleregioni settentrionali. E questo mi sembraprobabile”. E sulla scia di questa previsionedisegna il “modello” di uno Stato Federale,con tre macro regioni (Nord, Centro e Sud),con poteri limitati di coordinamento per ilgoverno centrale e con la conseguenza che arestare “aggrappati” alle Alpi (e all'Europadel '93) rimarrebbero solo i fratelli “sepa-rati” del Settentrione. Queste provocatorieproposte, arricchite di nuove sviluppi, ilprof. Miglio ora le ripropone in un volumepubblicato da Laterza-Bari “UnaCostituzione per i prossimi trent'anni.Intervista sulla terza Repubblica”, a cura diM. Staglieno, ove alle ipotesi di elezionepopolare del primo ministro, di riduzionedrastica dei poteri del Parlamento, di divi-sione delle funzioni tra i componenti delleassemblee rappresentative e quelle degliamministratori, di abbattimento dello statosociale e l'applicazione integrale delleregole del mercato, sul versante isti-tuzionale ribadisce la costituzione di tremacro regioni (la Padania, il Centro id ilSud), unite in uno Stato federale.Una proposta che, più che giustificata da unapprofondito e persuasivo approccio scien-tifico al problema, sembra condizionatadalla avversione del prof. Milglio ai guasticreati dalla partitocrazia; una “provo-cazione”, però, che si muove nella direzionecontraria a quella di determinare una ripresad'interesse e d'impegno tali da ricollocare laquestione meridionale al centro del dibattitopolitico e culturale. E come se, durante lianni '80, l'affermarsi – non solo a parole, maanche negli indirizzi economici e nellepratiche sociali – delle teorie liberiste, conil loro “corredo” di pensiero “debole”,“morte” delle ideologie, ecc. avesse fatto“rovinare” anche nelle coscienze e nelladimensione etico-politica la percezione delproblema Mezzogiorno come una questioneche – con la realtà drammatica dei suoi“ritardi” - interpella nel profondo la storiadell'Italia post-unitaria e la funzione di gov-erno svolta alle classi dirigenti.In questo senso non poco ha influito la con-

statazione del fallimento – oggi evidente intutti i suoi aspetti – delle politiche d'inter-vento straordinario, condotte per un quaran-tennio nel Sud col fine di ridurre le “dis-tanze” che lo separavano dalla parte piùsviluppata del Paese. Ma le distanze sonocresciute, il divario si é approfondito e c'échi non esita a ricordarci, quasi quotidiana-mente, che nel Mezzogiorno é in corso unapreoccupante regressione civile, sociale edeconomica: la disoccupazione nel 1988 haraggiunto la punta del 21,6%, contro il 5%del Nord e non é solo la quantità del datoche impressiona, ma anche la sua “qualità”poiché il Sud ha il triste primato di essere lasola area di un'economia avanzata, qualequella italiana, in cui – com'é stato osserva-to – i disoccupati adulti e di lunga durataeguagliano quelli giovani. Nel Sud, e nellaCalabria in particolare, sono poi in atto pro-cessi di vera e propria de-industrializ-zazione: mentre al Nord si ristruttura, nelMezzogiorno si smantella con l'effetto dinetta contrazione delle attività industriali.L'industrializzazione del Sud ed il maggioreimpiego nel Mezzogiorno della sua forza-lavoro hanno rappresentato due “obiettivi”delle politiche dei governi repubblicani chesono stati, però, entrambi mancati.E le prospettive che ora s'intravedono nonsembrano migliori: si ripropone, ancora unavolta ed in termini che non sono sostanzial-mente cambiati, la vecchia contrapposizionefra politica dell'industrializzazione e politi-ca delle e costruzioni, che nel secondodopoguerra aveva trovato un punto di medi-azione nella teoria di un intervento infra-strutturale che doveva consentire, e in talsenso ne costituiva una precondizione,1'insediamento delle attività industriali. Emolte analisi ritengono che oggi la linea chesi viene affermando é di nuovo quella che,già all'epoca di F .S. Nitti, si chiamava delle“opere pubbliche“, delle costruzioni, degliinterventi infrastrutturali: si tratta di realiz-zazioni viarie, di interventi nelle areeurbane, di infrastrutture idriche e fognarie,ecc. Ma almeno due fatti, sotto questo aspet-to, vanno sottolineati: il primo é che gliinvestimenti per centri direzionali delle areeurbane (che dovrebbero rappresentare unindicatore di modernizzazione) spesso sitraducono in operazioni di tipo immobiliare,che non hanno quasi nessun rapporto con lamodernizzazione e l'industrializzazione(qualcuno s'è spinto ad affermare che nel

Sud non vi sono città propriamente mod-erne, se é vero che la città moderna é defini-ta dal fatto che incorpora una funzione fon-damentale che é quella della produzione deiservizi per le imprese); il secondo é che igruppi industriali meridionali sono preva-lentemente attivi nel settore dellecostruzioni e che, conseguentemente, 1'usodi capitale é di tipo speculativo”, volto cioèa conseguire rendimenti elevati e a brevetermine.È fuori discussione che il Mezzogiorno inquesti ultimi 40 anni ha subìto processi diprofonda trasformazione, ma in che senso?Sono cresciuti i consumi e sono diminuitel'occupazione e la produttività; si vive o sitende a vivere con uno “stile” di consumo –e anche con una relativa possibilità – similea quello delle altre parti del Paese, ma nonattraverso un'autonoma produzione di ric-chezza: i trasferimenti di risorse hannoaccresciuto i consumi ed i redditi, ma non laproduzione l'occupazione ed il risultato chesi constata oggi é questo: un Sud no povero,ma più “dipendente” o, come l'ha definitaqualche studioso, “modernizzazione passi-va” del Mezzogiorno.È su questa base oggettiva che si fondano iprocessi di disgregazione e degenerazionedella vita associata, che si manifestano infenomeni come gli “incroci” fra politica edaffarismo, la gestione clientelare dei trasfer-imenti di risorse, il diffondersi della piagadella criminalità organizzata. Ed é tutto ciòche porta taluni a parlare di un “futuro senzasperanza” per il Sud ed altri ancora di unMezzogiorno che sia finalmente in grado di“sbrogliarsela” da solo, ci sembra superfluosottolineare le insidie che si nascondonosotto la “nozione” di “sviluppo endogeno”del Sud, oggi riproposta dai leghisti delNord: essa può essere utilizzata per nascon-dere il tentativo di abbandonare a se stessoil Mezzogiorno, di farne un'area perifericadell'europa sviluppata con un esclusivoruolo di “mercato interno”. E se non si puònon riconoscere il fallimento delle politichedi sviluppo assistito, tuttavia non si puòaccettare una posizione che chiede al mez-zogiorno che...faccia da solo. Ad unaprospettiva di marginalità, di cultura dellapovertà, di mero “galleggiamento”, bisognacontrapporre, ancora una volta, la tesi di unMezzogiorno come grande questionenazionale che non può essere risolta se noncon lo sforzo concorde di tutto il Paese.Si tratta, soprattutto per lo Stato, diriconoscere i diritti dei più deboli in un“universo – come ha scritto un filosofofrancese – regolato dalla legge del piùforte”, di abbandonare le politiche di disim-pegno, disinteresse e latitanza nei confrontidelle contrade meridionali o, nel miglioredei casi, delle cosiddette “briciole”.Ma quest'aggressione violenta alMezzogiorno, questa corale campagna distampa contro un Sud palla al piede dellosviluppo nazionale, “nasconde” logichetanto di natura economica quanto di naturapolitica. A dare risposte alle prime, un econ-omista di fama, Mariano D'Antonio, conquesta spiegazione: “Ci sono atteggiamentimotivati che assumono a difesa dei lorointeressi, i gruppi sociali più forti, che sonoquelli del Centro-nord. Le grandi impreseche sovente invocano il criterio della liberacompetizione, non disdegnano mai di attin-gere ai sussidi pubblici (le vicende dellaristrutturazione negli anni dal '79 all'84sono eloquenti. Oggi che l'economia italianaé chiamata alla grande prova del mercatounico europeo, bisogna ridurre sussidi etrasferimenti ai meridionali per riservarli aquelle porzioni forti del nostro sistema pro-duttivo che devono competere con l'indus-tria e la finanza più agguerrita d'Europa”.Accanto a questa, una spiegazione ancorapiù inquietante: “Nell'opinione pubblica si éfatta strada la convinzione che il mercato edil perseguimento del tornaconto personalesiano l'unico collante della i nostra organiz-zazione sociale. Una filosofia collettiva, un

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SSppeecciiaallee 115500°° ddeellll’’IIttaalliiaa UUnniittaa

Don LuigiSturzoCaltagirone(1871 - 1959)

I partiti dell'Italiacontemporanea non

possono ignorare chesenza l'unità nazionale,senza il potenziale non

solo economico ma ancheumano di tutte le regionimesse assieme (nessunaesclusa!) l'integrazione

del Paese all'Europasarebbe monca.

Fi l ippo Turat i (1857 – 1932)

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nuovo darwinismo sociale che esclude unintervento pubblico correttivo del mercato,politiche di sostegno e di promozione deipiù deboli. Chi é debole deve tutto il suodanno a se stesso e non può disturbare lamarcia dei più forti...”.Più incline a spiegazioni strettamentepolitiche Francesco Tagliamonte: “Ormai sié soggiogati dall'effetto-mafia e dall'effet-to-Leghe. Il primo fa assumere per definiti-vo il giudizio secondo cui gli aiuti alMezzogiorno alimentano il malaffare e ladelinquenza organizzata. Il secondoattanaglia politici e parlamentari in unasorta di timor panico secondo cui, appog-giando le buoni ragioni del Sud, si perdonovoti che vanno ad impinguare le leghenordiste”. Classico il richiamo alla ragionedi un autorevole storico e politico merid-ionale, Giuseppe Glasso, che ha ossevato:“Vogliamo, come dice Bocca, correre aturare le falle della nostra barca?Riacquistiamo pienamente coscienza delladimensione nazionale non solo del problemameridionale e delle sua attuali caratteris-tiche, ma anche del problema etico esociale, da cui l'Italia è da alcuni anni afflit-ta. Dimensione nazionale significa strategianazionale, alleanze nazionali, piattaformenazionali, atteggiamenti e decisioni nazion-ali, il che é più che dubbio che, al Nord edal Sud, si possa fare con le Leghe”.Durissimo, infine, il giudizio di un espertodi problemi istituzioni, quale AntonioMaccanico: “Quale credito può venire concretamenteallo sforzo di integrarsi in Europa, se ilMezzogiorno viene considerato un peso dacui liberarsi? Potrebbe accadere che la tessaItalia sia considerata dall'Europa un peso dicui liberarsi, anche se alleggerita dall'am-putazione del Mezzogiorno; o, meglio, pro-prio per questo”.Ma c'é un'altra considerazione da fare: ed éche in questi ultimi tempi l'andamentodecrescente della spesa statale al Sud é statainversamente proporzionale alla virulenzacon la quale si é sviluppata la campagnaantimeridionalista.Ma, per completare il quadro, all'antimerid-ionalismo dei leghisti bisogna ancheaggiungere le polemiche del novembre scor-so sul Risorgimento italiano, i grossolaniargomenti di Vittorio Messori controMazzini e Garibaldi, le farneticanti “buo-tades” a proposito di una...Norimberga per iprotagonisti dell'Unità d'Italia: tutti “segni”,questi, di quanto oggi il senso di apparte-nenza alla comunità nazionale appaia incrisi (anche tra chi non condivide gli argo-menti dei leghisti!), per cui un autorevolestorico come Franco Della Peruta ha potutoosservare che mai oggi “il patriottismo é unvalore che facilmente cade in letargo”.Anche il presidente del CENSIS, GiuseppeDe Rita, in un intervento sul “Corriera dellaSera” (24.XI.990) ha sottolineato quantonella realtà italiana contemporanea stia“diventando grande l'egoismo territoriale,cioè il rifiuto di assumere impegni chetravalichino gl'interessi più stretti delle sin-gole comunità locali”, avvertendo che“purtroppo é anche un egoismo destinato acrescere visto che si intreccia con l'attualeforte spinta a radicarsi sul territorio ed afare localismo, anche politico” e che super-are tale egoismo territoriale “é un impegnoche non può essere rinviato di troppotempo” poiché “La qualità della vita e lastessa civiltà di un popolo si sono sempremisurate nella capacità di mettere a fruttocomune le risorse e le responsabilità” e

sarebbe triste se non ci riuscissimo noi (ital-iani), ormai giunti ad uno stadio avanzato disviluppo economico complessivo”.Queste ed altre ragioni spiegano la ripresad'interesse, soprattutto a livello di dibattitostoriografico e culturale, al periodo storicoche portò nel 1860 al processo di unifi-cazione nazionale e a riconsiderare il prob-lema della formazione di una coscienza uni-taria nelle varie regioni italiane, col supera-mento di quelle “differenze” caratterizzantigli Stati italiani pre-unitari. Per quanto con-cerne il nostro Mezzogiorno, tra il 1815-20lo Stato borbonico sembrava il più avanzatod'Italia. Poi, nel periodo di Ferdinando II, lasvolta accentratrice aliena definitivamentela Sicilia alla monarchia borbonica e creadifficoltà alla classe dirigente meridionale.Ci fu, quindi, una evoluzione diversa deisingoli Stati: del resto, già nei primi decen-ni dell'800 era tramontata definitivamentel'economia mediterranea e con la rivo-luzione industriale, dagli anni '50 dell'800in poi, si avrà la preminenza dell'Europacentro-settentrionale. È allora che ilMezzogiorno comincia ad essere tagliatofuori dai circuiti più moderni della vita eco-nomica e sociale. Nel Mezzogiorno vige laconvinzione di Ferdinando II per cui tra“acqua santa ed acqua salata” il regno nonabbia nulla da temere e, quindi, non abbiabisogno di una evoluzione. Ma é intorno al1840 che nei vari stati italiani comincia aporsi il problema della formazione di unacoscienza unitaria: il momento chiave élegato al dibattito sulla necessità per l'Italiadi raggiungere l'unità economica per metter-la al passo con le grandi potenze europee incui si sta compiendo la rivoluzione industri-ale. Allora non si pensa neanche che si possaabbattere le monarchie secolari esistenti inItalia: s'immagina piuttosto una federazionedi Stati, una unità doganale, con lacostruzione di una grande rete ferroviaria. Tra le “voci” più autorevoli in questo dibat-tito ci sono personaggi poco noti come ilSerristori in Toscana e Ilarione Petitti inPiemonte, che preparano un clima culturaleunitario su cui si salderanno elaborazionicome quelle di Vincenzo Gioberti sull'unitàmorale degli italiani. E c'é anche LudovicoBianchini, che già in quegli anni difendegl'interessi del Mezzogiorno e ancor primadell'unificazione gli sembra che non s'iden-tifichino con quelli del Nord. Nell'Italia del1859-60, poi, non mancarono momenti incui sembrò che l'unità della penisola, con ladistruzione dei vecchi Stati, avrebbe realiz-zato un'unità culturale, politica ed economi-ca. Ma subito dopo la proclamazione delRegno le prime delusioni. Un deputatocatanzarese della Sinistra, BendettoMusolino, in un suo discorso agli elettoriaveva così decritto la situazione all'inde-mani dell'unificazione:“Geograficamente parlando noi siamo quasiuniti: ma le nostre province non hanno tuttele stesse leggi, le stesse istituzioni, lo stessoorganismo. Sicché, animati dalla stessa idea,sorretti dallo stesso desiderio, ras-somigliamo agli atomi del caos primitivoche si agitano nel vuoto eterno senza avertrovato ancora la forza di coesione dadivenire corpo omogeno e compatto”(1861) .Naturalmente, oggi i problemi non si pon-gono più nella stessa maniera: anche doveesistono stati nazionali, sorgono forti ten-denze separatiste come in Francia, Spagna,Jugoslavia. C'é l'esigenza di affermare le“piccole patrie”, potremmo dire. E anchein Italia, dove non c'è il peso della nazional-ità, si pone questa questione per cuirinascono egoismi economici e sociali, tornal'impressione che una piccola comunitàavanzata come quella lombarda possameglio badare ai propri interessi distaccan-dosi da quelle meno avanzate come ilMezzogiorno. Ma si tratta di tendenze senzafondamento, né futuro storico poiché é sem-pre più difficile vivere in comunità ristrette,credere che il progresso risieda nelle nuove

“divisioni” d'Italia (proposte da Bossi) piut-tosto che nella riaffermazione della suaunità. Così, le varie prospettive neo-federal-iste non hanno alcuno respiro, né possibilitàdi attuazione. Tutt'al più potrebbe aversenso parlare di un potenziamento delleautonomie regionali, peraltro già attuate datempo con modalità che sembrano averprodotto più danni che vantaggi.Anche dopo il 1860 emersero molte forze“nemiche” dello Stato unitario: una certaresistenza dei cattolici, un'opposizione deinostalgici delle monarchie cadute, un'oppo-sizione del movimento socialista che non siriconosceva nello stato liberale. In definiti-va, una gran difficoltà per l'esigua classedirigente unitaria di farsi davvero classedirigente di tutta la nazione. I partiti dell'Italia contemporanea non pos-sono ignorare che senza l'unità nazionale,senza il potenziale non solo economico maanche umano di tutte le regioni messeassieme (nessuna esclusa!) l'integrazionedel Paese all'Europa sarebbe monca. E sec'è ancora qualcosa che rende preziosa la“lezione” dei meridionalisti (da Fortunato aDorso, da Gramsci a Sturzo) é la loro con-vinzione che il problema del Sud non é unproblema locale e settoriale non é una“questione” ... straordinaria e territorial-mente circoscritta, ma é un problema “cen-trale” d'indirizzo, di orientamento politicoed economico fondamentale dello Statodemocratico e l'ambito entro cui la “ques-tione” va risolta é quello della democraziadei partiti.

La Questione meridionaledalle origini al dibattito contemporaneodi Antonio Carvello

segue dalle pagine 1, 2 e 3

Antonio Carvello*

(*) Docente di diritto dell’organizzazione pubblicaeconomica e società presso l’Università degli Studi diCatanzaro “Magna Grecia”

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L’approfondimento

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cose. Ovvero, alla cultura che l’uomo stesso costruiscee gestisce” (Montanari, 2004). Il cibo è cultura quandosi produce, è cultura quando si trasforma, è culturaquando si consuma e questi atti, considerati singolar-mente o come insieme, riflettono i valori di riferimen-to di un popolo e ne tracciano la storia.Una storia che parte da lontanoTra 3,7 (Tobias) e 5 milioni di anni fa (Jhoanson e

White), dalle prime scimmie antropomorfe, comparseverso la fine dell’Era Terziaria, emergerà il genereHomo. Punto di partenza di questa fase evolutiva erastato il Ramapithecus che si era evolutonell’Australopithecus afarensis.A tre milioni di anni si genera un “cespuglio” geneti-co: gli Australopiteci vanno ad imbucarsi in due “nic-chie” senza sbocco: da una parte A. africanus e A.robustus, dall’altra A. aethiopicus e A. boisei. Sul terzoramo si colloca l’Homo habilis, seguito dall’Homoerectus e dall’Homo sapiens e, infine, dall’Homo sapi-ens sapiens che dovrebbe identificarsi con il nostro sta-dio evolutivo, salvo, ovviamente, alcune debiteeccezioni che si muovono nel segno della regressione.Le ricerche e i ritrovamenti fossili non consentonoancora di stabilire con precisione come e perché siaavvenuto il passaggio dal Ramapithecus agliAustrolopiteci e alla specie Homo.(R. Leackey et al.1979) ma sono state trovate sufficienti tracce perseguire l’evoluzione dell’Homo erectus, tra l’altroricostruite magistralmente da Roy Lewis (1992) nelromanzo “Il più grande uomo scimmia delPleistocene”.Protagonisti del romanzo di Lewis, sono Edward e lasua famiglia.Edward è il prototipo della ricerca evolutiva. Arriveràad “inventare” il fuoco, semplicemente trasportandoloall’accampamento con un ramo acceso alla fiamma diun vulcano in eruzione, “fonderà” il matrimonioesogamico, la politica e la retorica. Accanto ad Edwardtroviamo altri due prototipi: il reazionario zio Vaniache rifiuta l’innovazione e sceglie di continuare avivere sugli alberi e il fratello Ian, tornato da un viag-gio in Francia, Cina, India e Arabia e in procinto diripartire per l’America (Lewis, l. c.). L’immaginazioneletteraria di Lewis si basa su un dato accertato.Circa un milione di anni fa, l’Homo erectus cominciò

la sua lunga marcia spostandosi dall’Africa all’Asia epoi in Europa, mosso da una spinta evolutiva che loporterà ad esplorare nuovi spazi e a sperimentare leproprie capacità di adattamento e acquisire nuovicaratteri (Leackey et al., l. c.)Questa non è la sola eredità che ha lasciato il nostroantenato. Questo ominide aveva anche iniziato adosservare la natura e ad utilizzarne i prodotti spon-tanei. Scoprì i cereali, cominciò a nutrirsene e, pre-sumibilmente, dopo averne consumato per moltotempo i semi crudi che inumidiva nella bocca, iniziò afrantumarli fra due pietre e a bagnarli per renderne piùagevole la masticazione.Ma la fantasia dell’Homo erectus non si fermò al sem-plice rudimentale impasto e, casualmente, imparò cheposto a riposare su una pietra esposta al sole, acquista-va un sapore particolare.Con la scoperta del fuoco imparò a cuocerlo regolar-

mente, come già aveva iniziato a fare con la carnedegli animali abbattuti. Senza entrare nella controver-sia tra natura e cultura, possiamo convenire che il pas-saggio dal crudo al cotto rappresenta “il momento cos-titutivo e fondante della civiltà umana”(Montanari, l.c.). E non c’è alcuna contraddizione se con Il crudo eil cotto (1974) Lévi-Strauss fa emergere una contrap-posizione tra stato di natura e stato di cultura e con Dalmiele alle ceneri (1970) compie una svolta e mette inrelazione un cibo già pronto (il miele) con uno chedeve essere bruciato (il tabacco) perché questo “nontoglie che nella rappresentazione simbolica che gliuomini hanno storicamente dato di sé, il dominio delfuoco e la cottura degli alimenti siano stati percepiticome il principale elemento di costruzione dell’iden-tità umana e di evoluzione dallo stato «selvatico» alla«civilizzazione»”(Montanari, l. c.). L’uomo è il soloanimale che “costruisce” il proprio cibo e anche quan-do si nutre di prodotti naturali tal quali, lo fa“preparandoli” (verdure condite con altri ingredienti)per renderli più nutrienti o appetibili o, semplicemente,per ostentare uno status (macedonie, dolci). Dalleprime esperienze dell’Homo erectus, la storia dell’uo-mo e del pane riparte con la scoperta e la successivadomesticazione dei cereali, processo che ha segnato ilpassaggio da una società di cacciatori- raccoglitorinomadi ad una società stanziale dedita all’agricoltura.Si può tentare di dare un senso a questo mistero evolu-tivo, ricostruendo per sommi capi la nascita dell’agri-coltura che la maggior parte degli studiosi fissa a circa8-9000 anni a. C. (Anderlini, 1981; McKibben, 1989;Leakey et al., 1979 e 1980), mentre per altri si sposta

di qualche migliaio di anni (Bairoch, 1999, vol. I;Diamond, 2006). La differente datazione è legata aproblemi di metodo (1) ma, in linea di massima, unoscostamento di mille- duemila anni in un tempo cosìlungo, non infirma la possibilità di tentare un esamecomparato che ricostruisca il rapporto e il complessodi relazioni che l’uomo riesce a stabilire con l’ambi-ente e con gli altri organismi viventi con i quali dividespazio e risorse trofiche.Questa ricostruzione deve necessariamente partiredalla scoperta dell’agricoltura, momento che si fa con-venzionalmente coincidere con la fine della preistoria.McCorriston e Hole (1991) sostengono che l’agri-coltura sarebbe comparsa tra gli 80 e i 150 km dal MarMorto attorno a 10.000 anni fa, ossia -8.500/-8.000 nelMedio Oriente, -6.000/-5.000 nell’Asia propriamentedetta, - 5.000 in Africa, -7.000/-6.500 nelle Americhe -6000/-6500 in Europa (Bairoch, l. c.). Questo processopotrebbe aver seguito due vie: scoperta spontanea ediffusionismo.

Nonostante le discussioni che ancora affascinanoalcuni ricercatori, crediamo che le due ipotesi coesis-tano, piuttosto che collidere. In Italia, per esempio ilmodello fu portato da immigrati che provenivano dal-l’oriente nel 5500 a. C. circa (Rossini et al., 1987) main zone del mondo lontane tra loro si hanno quasi con-temporaneamente segni dell’inizio di un processo chedoveva cambiare il modello di vita dell’uomo. Traccesono state trovate alle foci dell’Indo, nella penisola diShantung, tra Pechino e Nanchino, alle foci del FiumeGiallo (Leakey et al., 1979). Tuttavia, quando si diceche l’agricoltura si affermò nella Mezzaluna fertile, siintende che qui ebbe un carattere di continuità mentrein altre zone subì vicende alterne, come inMesoamerica dove si tornò più volte all’economia dicaccia e pesca e l’agricoltura, pur essendo comparsa dacirca 10.000 anni, dovette aspettare 6-7.000 anni perdiventare un modello stabile, con la coltivazione dimais, zucche e fagioli (Leakey et al., l. c.).Il nuovo modello doveva determinare altri cambia-menti. Primo, fra tutti, la crescita demografica.Si stima che, fino al 12- 10.000 a. C., nel mondo sicontassero poco meno di un milione di abitanti e solodalla rivoluzione neolitica in avanti, la popolazionemondiale comincia a crescere, sia pure lentamente,raggiungendo circa duecento milioni nel primo annodell’era cristiana.Con la nascita dell’agricoltura gli uomini potevanodisporre di nuove risorse alimentari e si spostavanofrequentemente alla ricerca di nuove specie vegetali dadomesticare e di luoghi più adatti per coltivarli. Lascoperta dell’allevamento ha consentito di percorrerela stessa strada, allargando gli orizzonti dell’uomo efornendogli sufficienti risorse per riprodursi.Questi eventi, solitamente indicati come spartiacque

tra storia e preistoria, hanno fatto intravvedere nellanascita dell’agricoltura la fine della preistoria ma, inrealtà, la storia non coincide con la produzione di benima con quella del surplus e degli scambi perché, quan-do alla “produzione di mezzi di sussistenza, di generiper l’alimentazione, di oggetti di vestiario, diabitazione e di strumenti necessari per queste cose hacorrisposto […] la riproduzione degli uomini stessi: lariproduzione della specie”’altra, alla divisione dellavoro.L’uomo non è più soggetto alla natura ma inizia a dom-inarla per i propri interessi iniziando un percorso chedoveva portarlo verso le società moderne.Il dominio dell’uomo sulla natura comincia con ladomesticazione di piante e animali:Domesticazione indipendente di piante e animali indi-geni:

A supporto di una società in evoluzione compariranno“in varie parti del mondo i primi villaggi, i primi inse-diamenti umani certi in Nordamerica. Finisce, con l’ul-tima glaciazione, il Pleistocene e inizia l’era geologicapiù moderna, chiamata Olocene o Postglaciale”(Diamond, l. c.).Siamo ancora in una fase in cui la densità della popo-lazione è molto bassa, varia con le condizioni cli-matiche e sarà solo dopo la comparsa dei primi villag-gi che, con l’economia del surplus, si creeranno le pre-messe per la nascita delle città databile, almeno in

Mesopotamia, attorno al 6-5000 a. C. (Sjoberg, 1980),perché “L’esistenza di un vero e proprio centro urbanonon presuppone semplicemente un surplus alimentare,ma anche la possibilità di immagazzinare e scambiarequesto surplus” (Bairoch, l. c.).La nascita delle città, che gli Australiani hanno defini-to “tirannia della distanza che si aggiunge alla tiranniadell’agricoltura” (Bairoch, l. c.), riduce il valore eco-nomico del surplus. I costi e le difficotà di trasporto,abbinati alla bassissima densità di popolazione dellesocietà preneolitiche, spiegano perché non fosse possi-bile la comparsa di città vere e proprie prima di questieventi.Quasi contemporaneamente alle città nasceranno lascrittura (Godart, 1992) e la matematica (Kline, 1999),come strumenti indispensabili per regolare gli scambie supportare il nuovo modello.All’inizio l’uomo è concentrato sui prodotti essenzialiper la sopravvivenza (farro, grano, mais, riso) ma,quando con il surplus di produzione, cominciano gliscambi e fanno la loro comparsa i consumi di status,legati alla maggiore disponibilità di risorse, l’interessesi sposta su altri beni.Con gli scambi ha inizio un massiccio ricorso all’em-

igrazione che, sebbene in tempi storici abbia assuntocaratteri peculiari, è un fenomeno antico nella storiadell’uomo, anzi è iniziato nelle società pre- umane conl’Homo erectus. I gruppi di Homo erectus che, circa unmilione di anni fa, attraversando una piccola striscia diterra arida, si spostarono dall’Africa in Asia e poi rag-giunsero l’Europa se, da una parte, “rappresentavanole avanguardie della definitiva conquista della terra daparte della popolazione umana” (Leakey et al.,1979),dall’altra non può essere considerata soltanto “lamigrazione di un popolo alla conquista di nuovi spazi”(Leakey et al., l.c.) se consideriamo che alla vigiliadella rivoluzione neolitica, si stimava una densità di 9abitanti per km quadrato per le aree tropicali, di 0,1 perl’Europa occidentale e di 1 ogni 150-350 per le zoneartiche (Bairoch, l. c.)È lecito, piuttosto, convenire che “La diffusione di

Homo erectus nei continenti settentrionali fu […] laconseguenza inevitabile di un particolare sforzo evolu-tivo” (Leakey et al.,l. c.).Il pane entra nella storiaLe prime sperimentazioni di coltivazione in MedioOriente risalgono almeno al 7.000 a. C., ma è con l'ar-rivo dei Sumeri che l'agricoltura farà un grande balzoin avanti, grazie alla loro abilità nell’uso dell’acquaper l’irrigazione. A partire dal periodo di Uruk, venneintrodotto l'aratro a trazione animale e l'irrigazioneestensiva, favorendo così una ricca produzione agrico-la.Per superare i problemi di siccità, i campi erano realiz-zati nelle aree adiacenti ai canali e posti più in bassorispetto a questi, per permettere all'acqua di defluirenaturalmente.I campi erano sistemati con il lato corto vicino alcanale e venivano irrigati e arati in senso longitudinaledisponendo le coltivazioni a "doppio pettine". Il ricor-so alla rotazione biennale (riposo/coltivo), consentivaeconomia di acqua e mantenimento della fertilità. Lezone adiacenti ai canali erano destinate alla colti-vazione di cipolle, aglio, legumi e palme da dattero esolo i terreni non irrigabili venivano destinati a cereali,principalmente orzo e frumento. Alcuni campi veni-vano abbandonati per eccessiva salinizzazione dovutaal pessimo drenaggio che portava all’accumulo di salinello strato arabile. Questo spiega perché nei territoripianeggianti del sud mesopotamico predominava l’or-zo, notoriamente più resistente alla salinità, mentrenella parte settentrionale c’era un sostanziale equilib-rio fra orzo e frumento. Per la semina dei cereali che,in generale, si effettuava contemporaneamente, venivausata una seminatrice, mentre la mietitura prevedeval’impiego di gruppi di tre uomini: uno per falciare, unoper formare i covoni e un terzo, probabilmente, perguidare l’attività degli altri due. Dopo la mietitura pas-savano i carri trebbiatori per separare le spighe dalculmo e un carro per raccogliere i chicchi. Il riparto delprodotto era pari a 1/3 per il coltivatore e 2/3 come ris-erva da portare nel magazzino del tempio o del palaz-zo.Già nel terzo millennio a. C. si consumavano focacce,come è stato possibile rilevare da una tavoletta diNippur in cui è scritto: «Quando mi alzavo presto lamattina, mi volgevo a mia madre e le dicevo: “Dammila colazione, devo andare a scuola!”. Mia madre midava due focacce e io uscivo; mia madre mi dava duefocacce e io andavo a scuola».Importanti ritrovamenti archeologi, ci dicono che, giànel 4000 a. C., in Egitto si usava panificare in diversevarietà, tra cui il pane dolce e un’antenata della pizza.La contemporanea disponibilità di orzo, farro e avenaportava gli Egizi ad utilizzarli macinandoli e impastan-doli contemporaneamente. Plinio il Vecchio (1984)ricorda che in Egitto si otteneva farina anche dall’oli-ra” (la terza specie di spelta, n. d. r.).L’iscrizione “io coltivai il grano, venerai il dio del fru-

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Cibo, cultura, evoluzione: la straordinaria storia del panedi

Francesco Santopolo

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Fonte: Diamond, l. c.. Modificato

CCuullttuurraa ee ttrraaddiizziioonnii CCuullttuurraa ee ttrraaddiizziioonnii

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mento in ogni valle del Nilo. Nessuno ha mai conosci-uto fame o sete durante il mio regno”, attribuita alfaraone Amenemhat I (XII dinastia, circa 2040 a.C.),rende l’idea di come l’agricoltura fosse l’attività piùimportante dell’antico Egitto e la coltivazione del fru-mento quella cui si affidava la prosperità del paese.L’inondazione corrispondeva per gli Egizi alla fase

Alchet, quella successiva, quando il Nilo si ritirava las-ciando i campi generosamente fertilizzati, era la fasePeret,. La terza fase,detta Shonon, corrispondeva alperiodo meno piovoso dell’anno. Gli strumenti utiliz-zati erano l’aratro di legno, la zappa con una largalama di legno e la falce per mietere.La razione dei soldati reali comprendeva circa due

chili di pane a testa ma il consumo maggiore era riser-vato alle classi più umili, tanto che gli Egizi erano statisoprannominati dai greci artophagoi (mangiatori dipane).L’alimentazione era integrata con cipolle, porri, mel-

oni, cetrioli, fagioli, sedano, fave, ceci, lenticchie e lat-tuga. Per l’irrigazione gli Egizi non avevano attintoalla scuola sumerica e il loro sistema consisteva neltrasportare l’acqua nelle giare, anche se, dal contattocon la Siria avevano appreso lo Shaduf che era unmetodo per sollevare le acqueGli Egizi, per fare mattoni, utilizzavano anche lapaglia pressata, tagliuzzata, mischiata a fango e secca-ta al sole.La macina del grano era affidata alle donne e con lafarina ricavata si facevano pane e focacce salate oarricchite con semi di sesamo o di papavero. Con l’ag-giunta di uva o miele, si facevano i dolci.Tornando al pane, dopo i primi passi si trattava diaffinare ulteriormente la tecnica e dopo qualche seco-lo si scoprirono casualmente gli effetti della fermen-tazione (5.000 a. C.) che si avviava spontaneamente sel’impasto veniva lasciato per un giorno all'aria primadi cuocerlo, anche se una leggenda riferisce che la fer-mentazione si era avviata accidentalmente quando leacque del Nilo avevano inondato i magazzini in cui eraconservata la farina.Gli Egizi utilizzarono ugualmente la farina bagnata edebbero modo di scoprire gli effetti della fermen-tazione.Poi si passò alla frantumazione dei semi di cereali inun mortaio e alla separazione al setaccio della partenutritiva del chicco dall’involucro che lo racchiude.Più tardi la cottura cominciò ad essere fatta al chiuso,in un vaso o in una buca scavata nel terreno e riscaldatidal fuoco.Quando la temperatura era abbastanza alta, il fuocoveniva spento e, tolta la cenere, si introduceva il pane,prima di chiudere il vaso con un coperchio o la bucacon una grossa pietra.Poi vennero i primi forni in argilla che avevano formaconica. Sulla parte esterna veniva poggiato il pane checadeva a terra quando la cottura si era completata.Anche la lievitazione fu una scoperta casuale.Il primo fattore lievitante utilizzato, oltre alla pasta

acida, sembra essere stata la birra che una serva egiziaavrebbe versato inavvertitamente sull’impasto. Lapaura di essere punita, la indusse a tacere sull’accadu-to ma l’incidente consentì di ottenere un pane più sof-fice e fragrante che portò ad adottare la lievitazionecome prassi normale nella preparazione del pane e lapratica fu in seguito adottata in Mesopotamia, Creta,Grecia e Magna Grecia.Un’altra versione vorrebbe che siano stati i cuochi allacorte dei Medici di Firenze a utilizzare il lievito dibirra per migliorare la lievitazione del pane, e chequesta pratica sia poi stata esportata in Francia daMaria de' Medici, moglie di Enrico IV (Barbieri,2006).Successivamente si affinò la tecnica di cottura con lacostruzione di forni internamente divisi in due parti:nella parte inferiore ardeva il fuoco, in quella superiorecuoceva il pane.Dalla Mesopotamia e dall’Egitto, che erano state culladi civiltà dal Neolitico in avanti, il modello del panecominciò a farsi strada in altre parti del mondo.Secondo Strauss (2009), al tempo in cui gli storici col-locano la guerra di Troia (ca. 1.200 a. C.), i Greci sinutrivano ancora di lenticchie e orzo tanto da osservarecon meraviglia e invidia la piana di Troia coperta dimessi di grano. Ma è solo la congettura di uno storicoche tende a connotare di arretratezza la cultura ali-mentare e l’agricoltura greche, le cui caratteristichegenerali si muovevano già attorno alle colture mediter-ranee: cereali, vite e olivo (Gallo, 1997) e “Per quantoriguarda i cereali, che hanno un ruolo di primo pianonel consumo alimentare (secondo una stimaattendibile, forniscono il 70-75 per cento del fabbisog-no calorico complessivo), ancora predominante inepoca classica […] è la coltivazione dell’orzo, cheresiste meglio ai mutamenti climatici e assicura rendi-menti più elevati” (Gallo, l.c.).In realtà, la Grecia ha pochi terreni coltivabili e “Lapiù limitata diffusione del frumento, che è il cerealepiù adatto alla panificazione […] è del resto sottolinea-ta dalla marcata specializzazione regionale di talecoltivazione, che, ad eccezione della Tessaglia, appare

per lo più tipica di aree situate al di fuori dellamadrepatria greca (la Libia, la Tracia e, soprattutto, ilPonto)” (Gallo, l. c.).Disponiamo, però, di altre notizie che confermano chein Grecia si faceva uso di grano almeno tre secoliprima della guerra di Troia. Si tratta delle tavolette inLineare B trovate a Pilo e Cnosso.In “Una fondamentale tavoletta di Pilo [si] indica in

quantità di semenza di grano” (Musti, 1989).Ritroviamo il pane e la focaccia in Aristofane (ICavalieri, 424 a. C.), quando Salsicciaio dice ”E iogiuro sui pugni e le coltellate che ho preso fin daragazzo, che ti batterò invece, se no, inutilmente sareicresciuto a tozzi di pane” e Demostene risponde“Atozzi di pane come un cane?” Poi, Paflagone dice aSalsicciaio: “Ti porto una focaccia impastata con l’or-zo di Pilo” e Demostene “L’altro giorno avevo impas-tato a Pilo una focaccia laconia”. Per inciso, la focac-cia laconia era fatta con grano comune (cfr. Plinio ilVecchio, l.c.).Il nutrimento base della popolazione greca era costitu-ito da cereali impastati con acqua e cotti per fare“polente” e minestre, oppure cotti direttamente sulfuoco in forme di pani e focacce.Generalmente si accompagnavano a frattaglie cotte dianimali, trippa arrostita in pentola; oppure a verdurecrude o cotte condite con olio, insalata o formaggi. Datutte le fonti (tra cui l’Odissea) risulta che nella Greciaantica si fece grande uso di frumento e di orzo.I greci avevano ben 72 tipi di pane e il compito dellapanificazione era affidato alle donne, per divenire unlavoro maschile quando si cominciò a panificare dinotte perché al mattino si potesse disporre di pane fres-co.Passando ad altre aree, nel Lazio, in piena età del

ferro, non si coltivavano grani superiori a cariossidenuda ma orzo, il cui pappone sarà poi denominatopolenta e, soprattutto, farro (far o adoreum) che inrealtà era il Triticum dicoccum (Scrk.) e non ilTriticum spelta (L.).come erroneamente è stato identi-ficato da qualcuno (Pucci, l. c.).Tuttavia, “poiché le due specie sono distinguibili con

difficoltà all’analisi botanica, converrà limitarsi a direche nei contesti più arcaici di Roma finora studiati(una ventina) farro e/o spelta assommano complessi-vamente al 58 per cento della produzione del Lazio traX e VII secolo” (Pucci, l. c..) e, nonostante avessero adisposizione un territorio fertile per la coltivazione dicereali più pregiati, si dedicavano alla coltivazione delfarro, da cui il termine farina per indicarne il prodottodi frantumazione. Carattere distintivo dell’agricolturadel Lazio, rispetto ad altre regioni, era la prevalenzadei cereali inferiori mentre in Etruria, per esempio,”sicoltivavano le specie più nobili” (Pucci, l. c.).“Dovunque si poteva, diverse specie di cereali eranocoltivate insieme [per] limitare il rischio di un cattivoraccolto [e] questo insieme di cereali, che comprende-va anche il miglio, il panico, l’avena e la segale (lostesso che in età medioevale sarà chiamato mestura)costituiva la farrago” (Pucci, l. c.).La farrago che, inizialmente, costituiva il cibo base

dell’alimentazione umana, “col tempo decadde a for-aggio per gli animali, e come tale viene trattata dagliscrittori de re rustica” (Pucci, l. c.).Fino alla scoperta del maggese (tra VIII e VI secolo),le popolazioni del Lazio adottarono “i sistemi più ele-mentari del «campo ad erba» ossia del campo abban-donato fino a che non ricostituisce la sua fertilità, oquello del debbio, per il quale si disbosca e poi si bru-cia il legno per fertilizzare la radura, coltivandola finoal suo esaurimento” (Pucci, l. c.).Dalle focacce salate ricavate dalla farina di farro iRomani, a contatto con i greci, passarono al pane difrumento lievitato e costruirono i primi forni pubbliciin cui lavoravano fornai greci portati a Roma comeschiavi.

Ma “È noto tuttavia che per un lungo periodo iRomani si cibarono di puls e non di pane” (farinataottenuta facendo bollire cereali macinati in acqua olatte, n. d. r.). e che “di tutti i cereali presso il popoloromano per 300 anni fu usato solo il farro” (Plinio ilVecchio, l. c.).L’alimentazione antica di Roma e dei territori conter-mini era basata sui “cereali a cariosside vestita [che],per essere consumati, devono essere prima privatedelle glume. Perciò essi erano usualmente torrefatti”(Pucci l. c.) e “La preparazione della farina di farro[…] presenta nella società arcaica un’importanzapolitico- sociale direttamente proporzionale all’impor-tanza politico- religiosa di questo alimento” (Pucci, l.c. Si veda anche F. Toubert, 1973).Per il suo carattere rituale, la preparazione della fari-

na di farro era affidata alle Vestali, con un procedimen-to particolare: “I chicchi venivano prima torrefatti, poibattuti e infine macinati. Con la farina così ottenuta eil sale si preparava la mola salsa, indispensabile perogni genere di sacrificio, immolare, ossia cospargeredi mola salsa la vittima, divenne sinonimo di sacrifi-care” (Pucci, l. c.).In febbraio si celebravano i Fornacalia, feste dedicate

alla dea Fornax per celebrare la torrefazione del farro

e l’immissione al consumo del prodotto dell’annoprecedente (Pucci, l. c.), nota, anche, come Festa deglisciocchi “perché nei tempi antichi i coloni erano ines-perti, tostavano troppo il farro e talvolta bruciavanoanche le loro capanne” (Ferrari, l. c.).Il farro da utilizzare per la semina non doveva esseretostato.Nel mito di Ino, moglie di Atamante, si dice che abbiafatto tostare i chicchi destinati alla semina.Naturalmente il grano non spuntò e Ino fece accusaredel misfatto, per sbarazzarsene, i figli di primo lettodel marito, (Ferrari, 2008)Per la panificazione, i romani utilizzavano due tipi dilievito.Il primo consisteva di miglio mescolato al vino dolce elasciato a fermentare per un anno, il secondo di cruscadi frumento lasciata a macero per tre giorni nel vinodolce e poi fatta essiccare al sole (Plinio il Vecchio, l.c.).In questo periodo erano già state messe a punto lemacine di pietra di lava che si facevano ruotare con laforza motrice degli schiavi o degli animali. A Vitruviosi deve l’invenzione del mulino ad acqua ma la tecni-ca si diffuse solo dopo che Quinto Candido Benignofece costruire in Francia otto mulini mossi contempo-raneamente dall’acqua.In epoca feudale i contadini, in cambio del lavoro neicampi, ricevevano una parte del raccolto ma eranoobbligati a cuocere il pane nel forno del padrone.Il pane del contadino era fatto con poca farina e moltacrusca. Spesso venivano utilizzati cereali minori comeil miglio e il pane destinato ai poveri si chiamava “panrozzo”, mentre ricchi, nobili e “cittadini” consuma-vano carne e pane bianco di cereali.Nel Medioevo, quindi, l’agricoltura comincia ad iden-tificarsi con i cereali e questa scelta traccerà un precisospartiacque che delinea lo status sociale.Il frumento viene coltivato solo per i ricchi e i cittadi-ni, per i poveri e i contadini vengono utilizzati inmisura massiccia i cereali minori.Questo non denota “la decadenza della coltura del fru-mento e il predominio assunto dai grani inferiori”(Montanari, 1979) ma rappresenta una scelta determi-nata dal fatto che la maggior parte della popolazioni ècostituita dai poveri cui sono riservati la segale, ilmiglio, l’orzo e l’avena che, nei dati del polittico diSanta Giulia di Brescia, rappresentano il 72% delle ris-erve, con la segale che, da sola, occupa il primo postocon il 40% dei “grani” conservati (Montanari, l. c.).Il sistema più diffuso di macinazione era quelloromano con i mulini ad acqua e si dovette ricorrere aregole severe per tutelare i mugnai.Coloro che utilizzavano i mulini dovevano pagare unatassa (tassa sul macinato). Il mugnaio doveva pesare ilgrano prima di macinarlo, restituire al proprietario lagiusta quantità di farina e veniva retribuito in natura.Per assumere la qualifica di fornaio era necessario unlungo tirocinio come garzone e, raggiunta le necessariaesperienza, si doveva giurare davanti alle autorità dicuocere pane a sufficienza e di non barare sulla qualitàe quantità di pane prodotto.Ai garzoni competeva l’onere di trasportare il pane inuna gerla e consegnarlo casa per casa e il consumatoreera tutelato dall’obbligo del fornaio di produrre e con-segnare pane ben cotto, pena un’ammenda in denaro eil risarcimento con un’altra infornata.In giro per il mondoSe il processo di panificazione ha raggiunto una certastandardizzazione (frantumazione di cereali, impasto,fermentazione, cottura), permangono ancora differen-ze, tanto in ordine agli ingredienti da cui si ricava lafarina, quanto in alcuni valori simbolici.Partiamo dalla definizione canonica del pane comeprodotto ottenuto dalla lievitazione e cottura in fornodi un impasto a base di farina di cereali e acqua, peravviare una riflessione.La definizione proposta ha il vantaggio di un impattoimmediato nel nostro immaginario ma, non v’è dub-bio, che è tutta dentro una spirale culturale eurocentri-ca che afferisce al sistema di valori del mondo occi-dentale e non tiene conto che forme e modo di con-sumare il pane, sono il risultato delle risorse disponi-bili, dei rapporti sociali nelle diverse aree del mondo erappresentano l’identità dei popoli e la loro storia,Nel sud- est asiatico (India, Cina, Giappone) si fa uso

di farina di riso, in Africa e nei Paesi Arabi farina dimiglio o di sesamo, in Etiopia e in Eritrea farina di Teff(Eragrostis tef), nei paesi freddi del nord Europa fari-na di segale, in Mesoamerica farina di mais, quinoa,patata.Queste differenze, sebbene riconoscibili nellatradizione, sono anche il risultato delle condizioniambientali che hanno determinato l’elaborazione dispecifici modelli alimentari.L’uso del riso nel sud-est asiatico, non è una sceltadeterminata dalla maggiore diffusione e disponibilitàdi questo cereale ma trova le proprie ragioni nellecause stesse che hanno determinato la domesticazionedi questa pianta, qualche millennio dopo che nellaMezzaluna fertile era già stato domesticato il frumen-to. Nel caso specifico, ma in tutti gli altri casi, prima di

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indagare sul processo di domesticazione, bisogneràindagare sui processi di selezione naturale che hannodeterminato la struttura ecologica in un ambiente dato.In altri termini se, per definizione, l’ecologia studia“tutte le relazioni o i modelli di relazione tra gli organ-ismi e il loro ambiente” (Odum, 1988), l’azioneantropica è preceduta dalla selezione naturale chedetermina la biocenosi di un ambiente dato.Nel caso della Cina, l’agricoltura nasce e si sviluppa inun ambiente naturale difficile che ha richiesto grandilavori di sistemazione e di bonifica.La selezione è avvenuta sugli altipiani in cui predom-

ina il loess che è “un suolo formato dall’accumulomillenario, durante il Pliocene, di sabbia e limo portatidal vento “ (Saltini, 2009). V’è da aggiungere che “Ilclima della regione del loess è quello tipico del mon-sone: d’estate i venti dell’Oceano portano precipi-tazioni copiose e continue, d’inverno spirano dallaSiberia venti freddi e asciutti” per cui si formavano“dopo le piene del monsone, isole galleggianti dallequali dispiegavano i culmi” (Saltini, l. c.) di quelli chei paleobotanici hanno dimostrato essere i progenitoridel riso, specie risultata vincente nella competizionecon altre specie per l’adattamento a vivere nell’acqua.La segale è il cereale più diffuso nel nord Europa, maanche nell’Italia continentale, per la sua rusticità e per-ché adattato ai climi freddi..Il Teff, cereale coltivato e utilizzato nell'alimentazioneumana da 7.000 anni, è una pianta erbacea annuale chepresenta semi di diametro inferiore a 1 mm e questo lorende adatto alla vita seminomade delle popolazioniche ne fanno uso, dal momento che in una pugno sipuò trasportare un numero di semi sufficiente a semi-nare un intero campo.Prima che fosse conosciuto il pane di frumento, nelle

Americhe si consumava solo pane di farina di mais,cui si aggiungeva, nelle zone montane delle Ande,quello di farina di Quinoa (Chenopodium quinoa) cheha costituito un alimento base per quelle popolazioni,tanto che per gli Inca era la «chisiya mama» (madre ditutti i semi). Dopo la conquista spagnola, la culturaandina dovette fare i conti con l’eurocentrismo cattoli-co che considerava sacro solo il pane di frumento, percui la coltivazione della quinoa venne scoraggiata, senon proprio combattuta, fino a quando, anche l’ottusofondamentalismo religioso, non dovette ammettere chel’ambiente andino è poco adatto alla coltivazione delgrano, mentre la quinoa si avvantaggia dello sforzo diadattamento di migliaia di anni di storia evolutiva.Nei momenti di crisi gli andini facevano ricorso a fari-na di patata, ottenuta con un procedimento singolareper ottenere quello che gli Inca chiamavano chu?u Il procedimento consisteva nel lasciare le patate a

gelare all’aperto e schiacciarle con i piedi al mattinoper allontanare l’acqua. Il procedimento andava avan-ti per cinque giorni, finche il chu?u, completamentedisidratato, poteva essere conservato integro o trasfor-mato in farina bianca e leggera che poteva essere con-servata per anni (von Hagen, l. c.), che è un bel risul-tato se consideriamo che “La patata fu messa al bandoper tre secoli dagli europei, in quanto ritenuta causadella lebbra” (von Hagen, l. c).Pane e conflittiIn questa rapida ricostruzione non vengono presi inconsiderazione i conflitti legati a momenti particolaridella storia (economia di guerra) ma solo quelli chesono esplosi quando la disponibilità di pane è stata uti-lizzata come strumento di lotta politica e di repressionesociale.A Roma, per esempio, l’istituzione dello schiavismo ela disponibilità di manodopera a basso costo, avevaindotto molti proprietari terrieri a trasformare i fertiliterritori del Lazio e di altre regioni italiane in orti efrutteti, per cui l’approvvigionamento di grano del-l’impero dipendeva dalle province (Sicilia, Egitto,Africa).Questo rendeva vulnerabile il potere centrale che, apartire dal VI secolo a. C. cominciò ad avere seri prob-lemi di approvvigionamento e fu travagliato dallo spet-tro di carestie ricorrenti.Nel 273 Firmo bloccò le forniture dall’Egitto per inde-bolire il potere di Aureliano.Nel 397 in Mauretania, la ribellione capeggiata daGildone ebbe come conseguenza immediata il bloccodei rifornimenti di grano e la conseguente carestia chemise in ginocchio l’impero.Nel 409 Eracliano bloccò il rifornimento di grano perindebolire Prisco Attalo e nel 412 utilizzò lo stessoespediente contro Flavio Onorio.Lo stesso farà nel 423 Bonifacio nei confronti diPrimicerio.In precedenza, quando il problema si era presentato,non erano mancate misure “illuminate” per venireincontro alle esigenze del popolo.Nel 123 a.C. Caio Gracco aveva imposto il prezzopolitico e la distribuzione gratuita ai poveri.Augusto aveva istituito l’Annona per distribuire gra-tuitamente grano a circa centomila persone.Queste misure, però, non portarono alla soluzione delproblema e si rese necessario il sempre più frequente

ricorso a cereali minori come orzo e segale e, qualchevolta, piselli e fave.Nei secoli successivi, la produzione di grano ripresecon relativa abbondanza ma l’esplosione endemicadella ruggine del grano (2) e della segale cornuta (3)riportarono di nuovo lo spettro della fame, parzial-mente soddisfatta con le piante alimentari importatedalle Americhe.Patate e mais posero fine alle carestie e furono allabase dell’esplosione demografica.Ma altri conflitti erano in agguato.Nel 1630 ci fu la rivolta dei milanesi che assaltarono iforni per procacciarsi grano e farina.Nel 1748 Benedetto XIV emanò norme per la liberal-

izzazione del commercio, revocò alcuni privilegi delleclassi egemoni ed emise un bando contro le privative.Con l’Unità d’Italia e l’istituzione di una nuova mone-ta, il peso calmierato del pane fu fissato a 16 libbre e ilprezzo a 20 centesimi al pezzo ma, nel 1868, l’isti-tuzione di una nuova tassa sulla macina di 2 lire/quin-tale per il frumento e di 1 lira/quintale per il frumen-tone, vanificò la politica dei prezzi.Tra il dicembre del 1868 e il gennaio del 1869,esplosero i “moti del macinato” finiti davanti ai fucilidei soldati che lasciarono “237 morti, 1099 feriti,3.788 arrestati” (Foa, 1973). Solo a S. Giovanni inPersiceto si contarono 10 morti. A connotare, ancora,l’importanza del pane come alimento, vale ricordare iltermine cumpanaticum con cui si indica ogni altro ali-mento che ne accompagna il consumo. Su questobinomio sono nate alcune espressioni popolari, come“mangiara pana e curteddu” (mangiare pane e coltel-lo), usata dai braccianti meridionali per fornire un’im-magine della propria povertà, sottolineata dalla man-canza di companatico, o ancora il proverbio contadino“col pane asciutto si fanno i bei bambini”, con la vari-ante calabrese “Salute e pane asciutto”, amara conso-lazione dei poveri.Conclusioni e un’appendiceConcludiamo qui la nostra storia per evitare il rischiodi scivolare nell’aneddotica, ricordando che, se il ciboè linguaggio, il pane, cibo per antonomasia, si presen-ta con codici di comunicazione diversi, assumendovalori simbolici come il pane azzimo (Matzah) che gliEbrei consumano per ricordare l’esodo dall’Egitto ocome la complessa simbologia ancora riscontrabilenella tradizione calabrese. In Calabria si aggiungono-e questo giustifica la breve appendice proposta- oltre aimolti valori simbolici che afferiscono alla straordinar-ia ricchezza di capitale sociale che, attorno al pane,conserva una forte simbologia del dono attraverso loscambio di pane o di pasta madre tra vicini, anchemolti proverbi che aiutano a tracciare la storia dei sub-alterni.Alcuni sono precetti come “Chi vô mangiàri pane eviviri vino simmina jermànu (segale) e chianta erbino(vite selvatica)” (Spezzano, 1992).Altri esprimono lo stato di miseria dei poveri come“‘A casa ‘e pezzienti’un mancanu tozzi” (Caligiuri,1999) che indicano anche l’ospitalità dei poveri e laloro capacità di adattamento perché “Chine ha pane e‘jermanu ‘un more de fame” (Caligiuri, l. c.).Altri ancora, sono espressioni di ribellismo sociale

come “A chine te caccia llu pane, càcciacci la vita”(Caligiuri, l. c.), perché, come ebbe a scrivereVincenzo Padula, “Il popolo calabrese è agricolo […]quando dunque gli mancano le terre irrompe violente-mente nella Sila coi suoi strumenti rurali, o vi irrompecoi suoi strumenti da brigante”“megliu n’annu tauru cacent’anni voe!”’anni bue).Il pane tradizionale in Calabria è identificato con duetermini equivalenti: Pana ‘e casao Pana casaloru.Lavalenza culturale del pane è evidente dalle tradizioniche si conservano e dal loro valore simbolico. Dalpane a cuddhura periodo natalizio a quello pasquale,alla pitta ‘nchiusa, alla pitta collura per la commemo-razione dei defunti, al pane di S. Antonio e a quelli checelebrano la nascita, il battesimo, il matrimonio.Normalmente prodotto con farina di frumento tenero eduro, nei periodi di carestia si ricorreva anche a cere-ali minori come mais, orzo, avena, miglio, farrooppure a patate, castagne, ghiande o a prodotti ancorapiù poveri come il lupino e il grano saraceno, a ripro-va che la storia del pane in Calabria è anche storiadella fame e della miseria delle popolazioni che hannoimparato a surrogare l’ingrediente principale conquanto la natura poteva offrire.La fantasia femminile ha fatto il resto inventando ilpane aromatizzato con sesamo, finocchio selvatico opeperoncino per fornire sapore e dignità al cibo deipoveri.Dalle varie miscele di farina di cereali sono nati panitipici come la pizzata di Nardodipace, il biscotto digrano di Reggio Calabria, il pane ai semi di finocchiodi Serra S. Bruno, il pane di grano duro di Mangone, ilpane con la giuggiulena (sesamo) di Reggio Calabria,il pane a cuddhura (ciambella) decorato con figurine arilievo, la focaccia ai fiori di sambuco.Il pane di Cutro e il pane di Donnici, pur nel passaggiodalla produzione artigianale a quella industriale, con-servano caratteristiche organolettiche uniche ma il solo

Pane di Cerchiara- è un nostro parere personale- con-serva qualità non riproducibili, legate a tradizioni sec-olari sostanzialmente non modificate dalla nuova tec-nologia di processo.Per la lievitazione del pana ‘e casa si usa la pasta

madre o pasta acida, conservata appositamente dallapanificazione precedente.L’impasto consistente in farina, acqua, sale marino,

pasta madre ed eventuali erbe aromatiche, si esegue inuna vasca di legno detta maidda o maiddra.Una volta formate le pagnotte, si stende la metà di unatovaglia sul timpagnu (piano di legno), si posano lepagnotte e si ricoprono con l’altra metà della tovagliasulla quale si stende una coperta di lana per facilitarela lievitazione.Segue un rituale religioso che consiste nell’imprimeresu ogni pagnotta un segno a forma di croce e recitan-do: “Crisci, crisci pasta, comu nostru Signuri ‘nta lafascia”.Finita questa operazione si imprimono tre segni di

croce equidistanti sull’impasto rimasto nella maddra,si baciano una per una con la mano, facendosi ognivolta il segno della croce.Per la cottura si usa legna di bosco del genere Quercusma il pane più fragrante e aromatico si ottiene con ramisecchi di olivo e di arancio.Note al testo(1) Di norma, la datazione al radiocarbonio (14C),applicato a tutti i materiali trovati che lo contengono,si basa sul fatto che l’isotopo, decade molto lenta-mente a 14N, isotopo stabile dell’azoto. Il 14C si pro-duce continuamente nell’atmosfera in un rapporto conil 12C pari a 1:1 milione. In 5.700 anni, il 50% del 14Cdiventa 12C ed è diventato troppo scarso nel reperto daanalizzare. Il metodo più attendibile è quello di datar-lo in base al rapporto tra 14C e 12C. Questo metodo sichiama “calibrato” e si va affermando l’uso di scriverele date non calibrate in tondo e quelle calibrate inmaiuscoletto. (Diamond, 2006).(2) L’agente di malattia della ruggine del grano è ilfungo Puccinia graminis, definito dai romani maximasegetum pest.(3) L’agente di malattia della segale cornuta è il fungoClaviceps purpurea, responsabile dell’ergotismo.Dalle ife di questo fungo si è partiti per sintetizzareLSD.

** ** **BibliografiaAnderlini, R, (1981), 9000 anni di fertilità, Bologna, Edagricole.Barbieri, M. (2006), Il pane nella storia. Dalle origini ai giorni nos-tri Bairoch, P. (1999), Storia economica e sociale del mondo, Torino,Einaudi.Biondetti L. (1997), Dizionario di mitologia classica, Milano,Baldini & Castoldi.Caligiuri, M. (1999), Proverbi calabresi, Roma, Tascabili Newton.Columella (1977), L’arte dell’agricoltura, Torino, Einaudi.Diamond, J. (2006), Armi, acciaio e malattie, Torino, Einaudi.Engels, F. (1963), L’origine della famiglia, della proprietà privata edello Stato, Roma, Editori Riuniti.Ferrari, A. (2008). Dizionario di mitologia, Milano, De Agostini.Foa, V. (1973), Sindacati e lotte sociali, sta in Storia d’Italia, vol.5**, Torino, Einaudi.Foraboschi, D. (1998), Economia rurale e riflessione teorica, sta in IGreci, 2/III, Trasformazioni, Torino, Einaudi.Gallo, L. (1997), Lo sfruttamento delle risorse,sta in I Greci, vol.II/2, Torino, Einaudi.Giusti, F. (1996), La nascita dell’agricoltura, Roma, DonzelliEditore.Godart, L. (1992), L’invenzione della scrittura, Torino, Einaudi.Hagen (von), V., W. (1993), L’impero degli Inca, Roma, NewtonCompton.Leakey, L., S., B.- Goodall, V., M. (1981), La scoperta delle originidell’uomo, Milano, Feltrinelli.Leakey, R., E,- Lewin, R, (1979), Origini. Nascita e possibile futurodell’uomo, Bari, Laterza.Leakey, R., E,- Lewin, R, (1980), Il popolo del lago, Milano,Rusconi.Lévi-Strauss, C. (1970 ), Dal miele alle ceneri, Milano, IlSaggiatore.Lévi-Strauss, C. (1971),Le origini delle buone maniere a tavola,Milano, Il Saggiatore.Lévi-Strauss, C. (1974), Il crudo e il cotto, Milano, Il Saggiatore.Kline, M. (1999), Storia del pensiero matematico, Torino, Einaudi.MacCorriston, J.-Hole, F. (1991), The ecology of Seasonal Stressand the Origin of Agricolture in the Near East, in «SmericanAnthropologist». Citato in Bairoch, 1999.MacKibben, B. (1989), La fine della natura, Milano, Bompiani.Martín M. M., Cabello T., Barranco P., de la Peña J.A.(2000),.Rango de hospedantes de Rhynchophorus ferrugineus (Olivier,1970) y diametro de la palmera hospedante (ColeopeteraCurculionie), Boletín de sanidad vegetal. Plagas, 26(1):73-78. ISSN0213-6910.Montanari, M. (1979), L’alimentazione contadina nell’altoMedioevo, Napoli, Liguori.Montanari, M. (2004), Il cibo come cultura, Bari, Laterza.Musti, D. (1989), Storia greca, Bari, Laterza.Odum, E. P. (1988). Basi di ecologia, Padova, Piccin.Padula, V. (1878), Il bruzio.Plinio (1984), Storia naturale, Torino, Einaudi, Vol. III.Pucci, G. (1989), Storia di Roma, IV, Torino, Einaudi.Rossini, E.-Vanzetti, C. (1987), Storia dell’Agricoltura Italiana,Bologna, Edagricole.Saltini, A. (2009), I semi della civiltà, Firenze, Nuova Terra Antica.Spezzano, F. (1992), Proverbi calabresi, Firenze, Giunti.Strauss, B. (2009), La guerra di Troia, Bari, Laterza.Sjoberg, G. (1980), Le città dei padri, Milano, Feltrinelli.Toubert, F. (1973), Les structures du Latium médiéval, I, Roma.Virgilio, Georgiche, Milano, Rizzoli, 1983

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Pag 8AB O L I R E L A M I S E R I A D E L L A CA L A B R I A

Più di un libro per l’estate, un progetto per Non MollareUna collana di studi di alto livello scientifico che attingono all'ordine culturale del nostro territorio calabrese

verità non è mai dolce.La straordinaria esperienza di Campanella ha la vivac-ità, la corposità, la tropicalità della vita. Morettiespone i suoi documenti come foglie di tabacco: liallarga, li mette ad essiccare al sole, poi li “trincia”nella forma teatrale. Il risultato è immediato:Campanella ci appartiene; appartiene a tutti quelli chehanno conosciuto la violazione del proprio mondo, lacorruzione, il dispotismo, la violenza”.“Mai come oggi”, chiosano Rafael Alberti e MariaTeresa Leon, “l’umanità ha avvertito il bisogno diriesaminare con occhio critico e privo di indulgenza lastoria di cui è stata ed è protagonista. All’ingenua fidu-cia con la quale aveva creduto nella possibilità del pro-prio rettilineo progresso, sembra ora determinata a sos-tituire la ferma decisione di analizzare le cause di tantetragiche esperienze, dalle guerre ai campi di sterminio,al genocidio. L’umanità sembra aver preso atto che unagran parte della sua storia è stata scritta all’insegnadella ‘violenza e della crudeltà’. Non vi è niente difatale in tutto ciò. All’origine di entrambe vi è il ciecoegoismo, l’ostinata determinazione di difendere ilprivilegio, l’abuso del potere contro ogni diritto, chegenera reazioni di cui è spesso difficile constatare latragica necessità”.L’ambizione di “Abolire la Miseria della Calabria”,Rivista Nonviolenta, va nella stessa direzione della“Collana della crudeltà e della violenza” diretta daRafael Alberti e Maria Teresa Leon, e cioè di con-tribuire a restaurare attraverso la conoscenza dellecause della crudeltà e della violenza, la fiducia nellacapacità’ dell’uomo di scrivere la storia della tolleran-za e della fraternità fra gli uomini.Poche opere del Seicento hanno sollevato copiosi studie appassionate discussioni come quella di fraTommaso Campanella. Dagli scrittori e storici contem-poranei a Campanella come G.Voet (Disputationeseselectae,1648) che definiva “Ateo e libertino il filoso-fo di Silo”, o il cattolico M. Mersenne che mette il pen-satore calabrese in compagnia degli atei, mentre illaico De Sanctis sostiene la tesi di un neo–guelfismocampanelliano.Dagli storici politici della fine del secolo decimo nonoche videro nella ‘Civitas solis’ e negli Aforismi politi-ci le tavole precorritrici del comunismo, agli storicidella filosofia che nel ‘De Sensu Rerum’ o nel ‘DeInvestigatione’ videro il precursore di Cartesio e del-l’idealismo, il problema campanelliano è come si vedeappassionante.In tempi romantici il saio del domenicano di Stiloprese posto accanto alla tragica ombra di GiordanoBruno e alla figura gigantesca di Galileo: martiri dellaloro idea, propugnatori della libertà di pensiero e dellaverità scientifica contro la menzogna dogmatica, essifurono i simboli, gli argomenti polemici di tutte lebattaglie anticlericali. In realtà il posto del domenicanodi Stilo era in quella Accademia cosentina fondata daBernardino Telesio. Campanella quindi continuatore diTelesio, una sorta di reincarnazione. Ma come sostene-va Alberto Consiglio sulle pagine de “L’ItaliaLetteraria” non v’è pensiero vivo che non subisca revi-sioni, non c’è verità che in un secondo tempo nonappaia meno pura, meno sicura.Un saggio di B.Croce ‘Il comunismo di TommasoCampanella in materialismo storico ed economiamarxistica’ del 1895 fa giustizia del Campanella antic-ipatore degli scrittori politici, negando alla Città delsole ogni valore sia come documento storico sia come

indizio sociale. Già l’Amabile aveva compiuto unarevisione totale dei giudizi correnti e dei luoghi comu-ni diffusi sul frate di Stilo. Tra l’altro s’era potuto sta-bilire che la congiura per la quale Campanella fuarrestato e per quasi un trentennio tenuto tra il letto deitormenti e l’oscurità della segreta, era stata effettiva-mente ordita. “Avevano torto i romantici ad accender-si retoricamente”, continua il Consiglio, “di sdegno perla tirannide dei viceré e la spietata giustizia dei preti: ildominio spagnolo nelle Calabrie corse in effetti un belpericolo e una bella avventura avrebbe avuto il suocompimento se i domenicani, i vescovi, i preti, i con-tadini calabresi che giuravano per fra Tommaso,avessero, in alleanza coi Turchi del bassa Cicala, sta-bilita la Città del sole sugli Appennini di Calabria”.Ora pare che la valutazione negativa della filosofiacampanelliana deve a sua volta subire una revisione.Né è stato un segno lo studio di de Mattei che tentavadi rivalutare la politica campanelliana dimostrandoladi spiriti machiavellici, inserendo la figura del domeni-cano in quell’atmosfera del segretario fiorentino.Nel suo studio, ‘La filosofia politica di TommasoCampanella’ (Bari, Laterza, 1930) Paolo Treves, anal-izza con occhi molto sereni il pensiero politico deldomenicano con uno sforzo di grande equilibrio,sobrio e chiaro: i giudizi sono dosati con cura, la doc-umentazione è abbondante e la scelta delle citazionisempre acuta ed opportuna.Tortura dei cavicchiFigura stranamente ambigua, si può giurare che sia unveggente, un’accesa anima di profeta e subito dopodubitare che sia un impostore o un pazzo. Fu questo ilcaso dei rappresentanti dei viceré e del clero che istru-irono il suo processo ed ebbero a concludere per la suapazzia, a proposito della congiura calabrese, salvo aritenerlo colpevole ed eretico in materia di fede. Fuancora il caso di coloro che denunziarono i plagi delCampanella ed espressero dai suoi testi massime econcetti del Botero e del Gucciardini. Il Treves sisforza di dimostrare l’originalità del pensiero campan-elliano, tratto di nuovo dalle ombre del medioevo emesso in a meno macchievellismo il pensiero delprimo Seicento senza addirittura risalire sul piedistallodel vaticinatore. Tra coloro che vogliono ridurre amero machiavellismo il pensieri campanelliano e col-oro che fermandosi alle innumerevoli e spietate invet-tive fulminanti di fra Tommaso contro il segretariofiorentino, lo definiscono l’anti-macchiavelli. Il Treveselegge una felice posizione mediana: Campanellainconsapevolmente avrebbe preso dal Macchiavelli laragione di stato, l’etica esteriore del ‘fine giustifica imezzi’.In realtà egli risentiva i cattivi influssi del secolo e sudi un medesimo piano si trovano i politici laici delgenere di Macchiavelli i gesuiti e Campanella chetenacissimamente avversava ambedue le tendenze. Ilfrate di Stilo non aveva affatto coscienza di questo suomachiavellismo: egli credeva, in effetti, che, permutatii fini dello Stato nei fini della Chiesa, e quindi in quel-li di Dio, fosse capovolto il contenuto etico della polit-ica. Rifatta, dunque la distinzione tra Macchivelli emachiavellismo, del quale furono eccellenti campioniproprio gli scrittori della Controriforma che osteggia-vano la politica laica del fiorentino, l’opposizione tralo ‘stilese’ e il gran segretario appare evidente esostanziale. Nel primo si elaborava un concetto teo-cratico universalistico dello Stato che, in gran parte erapur sempre il pensiero tradizionale dei politici for-matosi nell’orbita della scolastica: supremo ed univer-

sale potere del pontefice; potere esecutivo nell’imper-atore, primo suddito del pontefice, collettività ferra-mente sottomessa ai principi etici della verità rivelata,estrema subordinazione dell’individuo ai fini religiosidella società.Che aveva a che fare questa concezione nella qualeentravano tumultuosamente in concorso tutte le dis-parate letture di fra Tommaso ,la tradizione scolasticae l’esperienza monastica, col pensiero veramente inno-vatore e moderno di Nicolò Macchiavelli?Perché veramente nel ‘Principe’ si svolge il concetto diStato da quello di individuo e si libera l’attività eco-nomica dalla subordinazione religiosa.Ed è contro questa sostanza che si eleva, pieno di ram-pogne il frate di Stilo: tutta la vita egli lotterà contro gliscrittori che sommettono la religione agli interessidello Stato, in favore di un impero utopistico sottomes-so ai fini religiosi.In effetti la dottrina del ‘Principe’ e la dottrina della‘Città del sole’ e, meglio ancora, della ‘Monarchia diSpagna’ sono divise dall’abisso medesimo che divide-va Riforma e Controriforma: il calvinismo in quel sec-olo, trovava nella predestinazione le ragioni religioseche davano valore e vigore alla vita terrena, mentre imistici del cattolicesimo rinnovato ribadivano il con-cetto della valle di lacrime, dell’esilio terrestre.Tuttavia, benché rigidamente schierato tra le file delcattolicesimo il pensiero del frate di Stilo, incon-sapevolmente tratto dal maturarsi dei tempi nuovi,tradisce concetti eterodossi, vivacemente innovatori,proprio quelli che lo hanno fatto definire profeta eanticipatore. Nel suo amore per la natura, per l’osser-vazione diretta, per il progresso e per il miglioramentodelle condizioni di vita sociale, il Treves trova i docu-menti probatori di un’alta e luminosa originalità.A proposito della bibliografia campanelliana, consul-tando un dizionario di scienze ecclesiastiche moltoortodosso, compilato dai gesuiti Richard e Girond,dove alla voce Campanella troviamo la “biografia diun dottore della chiesa”. Se si va invece nella ‘Istoriacivile’ di Giannone troviamo un Campanella diavolo.In realtà Campanella è un uomo d’azione, un rivo-luzionario che fece suo il motto: “Propter Sion nontacevo”. Si scagliò contro pontefici e contro principi econtro ogni sorta di ingiustizie, per la libertà e la gius-tizia sociale.Lo stesso De Sanctis, quando parla del civile impegnodella poesia di campanella definisce lo scrittore cal-abrese “Tutto d’un pezzo e alla naturale ,veemente,rozzo, audace di pensiero e di parola, propenso a las-ciare le discussioni astratte, le sottigliezze teologiche,malattia del tempo, e volgersi alla storia, allageografia, allo studio del reale, per migliorare le con-dizioni sociali”.Campanella filosofo naturalistaNell’anno 1589 Campanella esordisce, sulla scia diB.Telesio come filosofo e lo fa con ‘La Philosophiasensibus demonstrata’, lavoro fortemente polemico eanticonformista.Nel 1591 compone in latino ‘Del senso delle cose edella magia. Tutte le cose sentono’:” tanta sciocchezzaè negare il senso delle cose perché non hanno né occhiné bocca né orecchie, quanto negare il moto al ventoperché non ha gambe, e il mangiare al fuoco perchénon ha bocca ,il vedere a chi sta in campagna perchénon ha finestre d’affacciarsi, e all’aquila perché non haocchiali”. Ad una conoscenza sopraggiunta “addita”come la chiama il frate di Stilo c’è una conoscenzanascosta “abdita” che è innata ed immediata e costitu-isce la forma preventiva della esistenza delle altre.

La rivoluzione di Fra Tommaso CampanellaFigura curiosa che tende tranelli agli studiosi

diMaria Elisabetta Curtosi

segue dalla prima pagina

Dunca futtiti vue mò quatrarazzi,Scialativila ccu sti cunnarizzi: Sciacquativille vuì sti cugliunazzi, E a Venere mannati li pastizzi: Nnarvulatile, e sparmatile sti cazzi, Chiantati corna ppi tutti sti pizzi: Jati gridannu ppe tuttu lu munnu Viva lu cazzu, lu culu, e lu cunnu. Duonnu Pantu - La Cazzeide

* * *Sempri avisti grandi amuri

mu ti azzippi pistunati e cu monaci ed abbati cu filosafi e dotturi, no ti dicu la bucia Cecia amata, Cecia mia!E Galluppi lu dotturi puru avisti ammenzu a tanti chi t'amau di pacciu amanti, ti chjavava a tutti l'uri cu la sua filosofia Cecia amata, Cecia mia! Vincenzo Ammirà - La Ceceide

Canti erotici calabresiNon Mollare edizioni, Pagine 111, € 10,00, ISBN 9788890504037

Nelle edicole e librerie o su internet sul sito www.abolirelamiseriadel lacalabria. i t

Francesco Barbieri, l’anarchico di BriaticoNon Mollare edizioni, Pagine 117, € 10,00, ISBN 9788890504013

Nato in Calabria a San Costantino di Briatico, la storia diFrancesco Barbieri, combattente antifascista, conosciuto colnomignolo di “Cicciu u’ professuri”, ha percorso i primi quarant’anni del ‘900.Partito da S. Costantino di Briatico a 26 anni, vi tornerà casual-mente dopo l’estradizione dall’Argentina per riprendere subito ilsuo viaggio per il mondo, legando le sue vicende a quelle di gran-di intellettuali come Camillo Berneri e Carlo Rosselli.Per Francesco Barbieri, l’Internazionalismo Proletario è stata unaragione di vita, fino all’estremo sacrificio consumato davanti allacanna di un mitra imbracciato da quelli che riteneva fossero dellastessa parte.Per sopravvivere, avrebbe dovuto scegliere: tra diventare‘ndranghetista” o sbirro; Barbieri non sceglie né l’uno né l’altro:diventa libertario, socialista rivoluzionario, radicale e anarchico,con una pronta e decisa avversione al fascismo.Un rivoluzionario libertario, assassinato da quelli che erano conlui a Barcellona per difendere la giovane repubblica, è l’evento piùtragico che si consegna alla storia.

Giuseppe Candido Filippo CurtosiFrancesco Santopolo

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SPECIALE: Il terremoto delle Calabrie del 1905Rassegna stampa dell’epoca

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Terremoti: la storia ci mettein guardiaa cura di Giuseppe Candido

In molti ricordano il sisma di ReggioCalabria e Messina del 1908 ma laCalabria anche tre anni prima era statascossa da un violento terremoto. Alle2:45 dell'otto settembre del 1905 i cir-condari di Monteleone (oggi ViboValentia) e Nicastro furono le aree piùcolpite. Secondo le stime ufficiali levittime del terremoto furono 557 e2615 i feriti. Ben 326 comuni furono“distrutti o grandemente danneggiati”.Quasi totalmente distrutti i comuni diZammarò (70 morti), Parghelia (62),Piscopio (60), Stefanaconi (65), SanLeo di Briatico (24), Aiello (23),Martirano (16) e il rione Forgiari diMonteleone dove ci furono 6 morti e

26 feriti. Olindo Malagodi, inviato per “LaTribuna” titola il suo articolo: “Monteleoneè come la capitale di un paese di deso-lazione”. Di “lutto italiano” parla il Corrieredella Sera del 9 settembre 1905, all'indo-mani del disastro. Il Giornale d'Italia titola a

tutta pagina “Gravissimo terremoto inCalabria e in Sicilia”; il catenaccio anticipala cronca di “Scene angosciose – Una nottedi terrore – Morti e feriti – Edifici rovinati –paesi distrutti”. Poi la visita di VittorioEmanuele sui luoghi del terremoto. Luigi

Barzini, autorevole penna delCorriere della Sera, titola la sua cor-rispondenza da Monteleone diCalabria e pubblicata il 12 settembredel 1905 con le lapidarie parole “INCALABRIA SI MUORE”. Un arti-colo lettera con cui il giornalista sispiega come la gente “muore di famee di sete” perché “i soccorsi, perquanto alacremente portati, non bas-tano”. Il suo viaggio in Calabriadiventa “via dolorosa” e “spettacolodi miseria”. E anche se in alcuniluoghi erano crollate poche case,negli abitanti “v'era il terrore dellacasa. Essa è il nemico. – Scrive

ancora il Barzini – Nessunoardisce più affidarvisi. L'amatorifugio, il desiderato luogo delriposo, rinchiude un tradimento,non protegge più ma uccide; etutta questa misera gente guardadalla strada la sua abitazionecome si guarda un mostro, scor-gendovi una minaccia ad ognifessura che si rivela sui muri”.Durante la sua “escursione” inCalabria il giornalista nota che“i primi segni del terremoto si

scorgono allastazione di

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Sant'Eufemia, mezzo demolita, ma moltoprima ancora si scorgono i segni del ter-rore”. Anche Antonio Anile, scrittore, poetaoriginario di Pizzo Calabro e docente pressol'Università di Napoli intervenne di suopugno con un accorato articolo pubblicato

da Il Giornale d'Italia il 13 settembre coltitolo “Franca e fervida parola di un cal-abrese” per allarmare il governo col suogrido di dolore: “... Ogni ora che passa” –scrive in quell'editoriale Anile – “è una voceche si spegne sotto le macerie ...”.

La Calabria è una terra ballerina e la storiaci insegna molte cose. Per questo riteniamointeressante pubblicare questi scorci di stam-pa dell'epoca passata ma che possono farciriflettere per il nostro futuro.

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Immagini didistruzione

EROVINE

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LA CARITAS E I GIONALI SI MOBILITANOPag VI

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Il ministro Ferraris col Sindaco diMonteleone a Tripani, una località dis-trutta dal sisma