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Poste Italiane S.p.A. - Sped. in abb. post. D.L. 353/03 (conv. L. 46/04) art. 1 comma 2 DCB - Filiale di Roma cristiani nel mondo Rivista della CVX Comunità di Vita Cristiana Anno XXVII · Gennaio/Febbraio 2012 · Nº 1 Abbassarsi all’incontro con Dio In questo numero La normalità dell’impegno La forza della fragilità Il microcredito Quale politica per il bene comune? Abbassarsi all’incontro con Dio In questo numero La normalità dell’impegno La forza della fragilità Il microcredito Quale politica per il bene comune?

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cristiani nel mondoRivista della CVX Comunità di Vita CristianaAnno XXVII · Gennaio/Febbraio 2012 · Nº 1

Abbassarsiall’incontro con Dio

In questo numero � La normalità dell’impegno � La forza dellafragilità � Il microcredito � Quale politica per il bene comune?

Abbassarsiall’incontro con Dio

In questo numero � La normalità dell’impegno � La forza dellafragilità � Il microcredito � Quale politica per il bene comune?

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cristiani nel mondoRivista della CVXComunità di Vita Cristiana d’Italia

1 editorialeAbbassarsi all’incontro con Diodi P. Vincenzo Sibilio S.I.

2 Gli interventi del convegno di PompeiCome essere un corpo apostolicodi Franklin Ibañez

3 InterventoIl tempo non ci appartienedi Silvia Dolfini

8 InterventoLa fragilità come punto di forzadi Mons. Giancarlo Bregantini

12 InterventoLa normalità dell’impegnodi Tano Grasso

16 InterventoIl microcredito per sconfiggere la miseriadi P. Paolino Mondo

18 InterventoLa Compagnia di Gesùin un mondo che cambiadi P. Carlo Casalone S.I.

20 Tavola rotondaQuale politica per il bene comuneTavola Rotonda con Giuseppe Civati e Paola Binetti

23 InterventoIndifferenza peggiore della collusionedi Luigi De Magistris

Immagine di copertina: La lavanda dei piedi di Sieger Köder

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Èstata un’esperienza unica: più di 500 per-sone provenienti da ogni parte d’Italiariunite a Pompei per vivere un convegno

un po’ “strano” non solo nel titolo (Abbassarsiall’incontro con Dio) ma anche nella imposta-zione variegata e itinerante (giornata indimenti-cabile a Napoli con la contemplazione del Bat-tistero più antico d’Europa e la chiesa del GesùNuovo con intermezzo di Caravaggio, della viadei Pastori, di Spaccanapoli…; visita notturnaagli scavi archeologici; spettacolo teatrale….).Un clima di gioia, di serenità, ma, soprattutto,di fraternità. Un ascolto attento e cordiale deitanti relatori intervenuti. Uno spazio di confron-to attraverso l’“open space” (purtroppo la man-canza di tempo non ha permesso un approfon-dimento e uno scambio assembleare). Un in-contro festoso di una enorme famiglia (lapresenza dei bambini è, ogni volta, presenzacarnale della speranza che si riconosce nel sensodi appartenenza, nella spiritualità, nel desideriovero di abbassarsi ai piedi del povero ricono-scendolo Cristo).Tutto questo ci ha permesso di affrontare e su-perare anche alcuni disagi derivanti dalla siste-mazione logistica.Il nostro Presidente, Leonardo Becchetti, pienodi entusiasmo e di gratitudine, diceva: final-mente noi CVX non su un monte ma per lastrada e in mezzo alla gente.Vogliamo offrire: a quanti hanno partecipatouna relazione abbastanza completa perché pos-sano fare memoria; a quanti non hanno potutopartecipare, la possibilità di percepire, attraver-so il testo scritto, la portata grande e intensa diquesto convegno.Come potrete notare, leggendo o rileggendo,l’alta qualità umana e professionale dei relatorisi è manifestata soprattutto attraverso la loro te-stimonianza di vita. Gli applausi abbondanti eprolungati non erano espressione di una adesio-ne intellettuale a concetti ma esprimevano l’e-mozione che il loro raccontarsi suscitava in noiuditori e la volontà di partecipare in qualche

modo alla loro vita e al loro impegno al serviziodella legalità, della giustizia, del povero. E tuttoquesto è stato sintetizzato nel logo scelto per ilConvegno: quella strana “lavanda dei piedi” cheè diventata un po’ il filo conduttore del tutto.Ho ripensato molto e per molto tempo al con-vegno e alle sollecitazioni ricevute e quando misono preparato per l’inaugurazione dell’anno pa-storale accademico della Cappella dell’Univer-sità La Sapienza di Roma, mi è venuto sponta-neo e immediato tradurre in versi quanto avevovissuto a Pompei. Lo offro anche a voi, nella speranza che possa es-sere utile e tradursi in “fatto” per ciascuno di noi.

CRISTIANI NEL MONDO · GENNAIO-FEBBRAIO 2012 · 1

E D I TO R I A L E

Abbassarsiall’incontro con DioDI P. VINCENZO SIBILIO S.I.

E viene il tempo in cuidevi abbassarti,

accettare di metterti in ginocchioe, cinto di un grembiule,

lavare i piedi.Senti che ripugna,

i piedi sanno di sudore e faticae strade calpestate.

E il tuo gesto spingea derisione o ribellione,turba il cuore e la mente

dei benpensanti,di coloro che stanno in alto

di chi è avvezzo al primo posto.Ma tu sai

che è l’unica tua via,è la possibilità di esprimere

un amore che a parolesuona vuoto e arido.

È l’unica possibilità per tedi vivere

e attraversare la carne dell’altroe offrirgli occasioni di vita.

In questo nostro oggise vuoi disegnare il futuro

e ridare la speranzaai tanti giovanidai sogni rubati

cinto di un grembiuleabbassati ai loro piedi

e servi.

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GLI INTERVENTI DEL CONVEGNO DI POMPEI

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Sono molto contento di essere con voiun’altra volta. Vi porto innanzitutto i salu-ti di mia moglie che non può essere qui

con noi perché il nostro bimbo piccolo ha biso-gno di lei. Ci tengo a cominciare il mio inter-vento ricordando lo slogan dell’ultima assem-blea di Fatima: essere un corpo apostolico.Ognuno di noi ogni giorno a lavoro, con i bam-bini, qualsiasi cosa stia facendo, deve tenere pre-sente questa immagine perché tutti noi, anchemediante la preghiera, ci dobbiamo sentire par-te di un’unica famiglia chiamata CVX.Quando l’ultima volta a Roma abbiamo parlatodi un progetto che stiamo cercando di realizzareè venuta fuori l’immagine della nascita dellaChiesa subito dopo la morte di Gesù. I discepo-li non sapevano cosa fare, davanti a loro aveva-no due strade: restare insieme e condividere so-lo tra di loro l’esperienza di Gesù o aprirsi almondo. Hanno scelto la seconda: condividerela loro fede e la loro esperienza. È così che sononati altri gruppi cristiani, altre comunità, così ènata la Chiesa cattolica ed è per questo che tut-to ciò è arrivato anche a noi. Dopo la profonda e forte esperienza degli Eser-cizi Spirituali Sant’Ignazio ha compiuto la stessascelta dei discepoli di Gesù. Con i primi compa-gni aveva la possibilità di diventare monaco, po-tevano andare a vivere insieme per condividerela loro fede, ma nonostante ciò ha cominciato acondividere l’esperienza degli Esercizi Spirituali.Così è nata la Compagnia di Gesù. In altre pa-role, quello che poteva rimanere come un grup-po chiuso si è trasformato in qualche cosa diaperto per tanti gruppi, a cominciare dai laici. Nel 2013 festeggeremo i quattrocentocinquan-ta anni di una scelta simile a quella di Sant’I-gnazio. Nel 1563 a Roma, vicino al CollegioRomano, si è formata la prima comunità orga-nizzata di laici ignaziani che qualche anno piùtardi divenne la Congregazione mariana. Que-sta scelta influenza il nostro cammino: noi sia-mo laici organizzati e ignaziani e stiamo insie-me per dare il nostro meglio, per fare qualcosa

in più. La nostra vocazione universale è serviregli altri con il carisma degli Esercizi Spirituali. La nostra associazione è grande e per questo stia-mo elaborando un progetto di sostenibilità fi-nanziaria. Al momento siamo in deficit ma nonpossiamo continuare così a lungo perché la no-stra volontà sarebbe quella di sostenere più pro-getti, più opere apostoliche. L’idea concreta, co-me forse già sapete, è quella di acquistare un ap-partamento a Roma da utilizzare come ufficio inmodo tale da non pagare più un affitto. Voglia-mo camminare pian piano in questa direzione,Siamo stati incoraggiati dal Padre Generale cheha manifestato di condividere la nostra sceltache denota, secondo lui, un segno di maturità. Grazie a tutti e buon convegno. Leonardo Becchetti, presidente CVX, ringraziaFranklin Ibañez e ricorda come la missione dellaCVX sia quella di trasferire il carisma ignazianonel tempo.

Come essere un corpo apostolico

DI FRANKLIN IBAÑEZ, Segretario mondiale CVX

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Anche se è rimasto a casa poiché gli annipassano, sento qui vicino a me mio ma-rito Giuseppe. Quello che vi dirò sono

pensieri che abbiamo condiviso fino a pochigiorni fa, anche per questo lo sento al mio fian-co. Faccio un’altra premessa: quando si deve fa-re una testimonianza è bene tenere conto di al-cuni pericoli. Il primo è quello della superbia, ilsecondo è quello di sentirsi buoni e protagoni-sti. Chiedo a voi di fare un’opera di pulizia, ditirare via dal mio discorso ciò che non è pulito. Le esperienze sono uniche, le storie non si ripe-tono mai perché l’uomo è unico. La nostra sto-ria ha inizio dal dono grande che il Signore ciha fatto nel farci incontrare. Mio marito ed iosiamo convinti che il Signore si sia impossessato

del nostro matrimonio. Fin da giovani sposi ab-biamo sempre considerato la paternità e la ma-ternità come qualcosa di allargato. Per noi i figlinon sono solo coloro che generiamo, noi consi-deriamo ogni essere umano un fratello. «Unosolo è il vostro maestro e voi siete tutti fratelli»,ci dice il Vangelo. In questo senso per noi la pa-ternità e la maternità esortano a farsi carico del-l’altro, delle persone che in qualche modo il Si-gnore ci affida. A noi il Signore ci ha donato quattro figli: Ma-tilde, Marta, Marco ed Ester. Allo stesso temponei primi diciasette anni di matrimonio abbia-mo fatto numerose esperienze di accoglienza, inparticolare l’affido. Abbiamo ospitato a casa no-stra per un tempo limitato dei bambini. Qual-

GLI INTERVENTI DEL CONVEGNO DI POMPEI

CRISTIANI NEL MONDO · GENNAIO-FEBBRAIO 2012 · 3

Il tempo non ci appartiene

DI SILVIA DOLFINI, Fondatrice di Casa Betania

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4 · CRISTIANI NEL MONDO · GENNAIO-FEBBRAIO 2012

cuno si è fermato poco, altri di più. Tutti i bam-bini hanno lasciato qualcosa d’importante. Unbambino che avevamo preso poiché non potevapiù stare con la mamma in carcere ci chiedevaspesso quanto mancasse all’ora d’aria. Aveva dueanni e mezzo. Quando la mamma è uscita dalcarcere se lo è ripreso. C’è stato poi l’incontro con la disabilità e conl’immigrazione. Tutto questo ha cambiato lanostra famiglia pian piano senza che noi ce neaccorgessimo. Abbiamo ricevuto il dono di tro-varci in una realtà di comunità parrocchiale do-ve c’erano altre famiglie che facevano la nostrastessa esperienza. In questa comunità è nata l’i-dea di aprire una struttura che potesse accoglie-re più persone, è nata in altre parole l’idea difondare una casa famiglia. È nata così Casa Be-tania. Ci sembrava bello chiamarla così perchéBetania è il luogo dove Gesù andava a ritrovarsicon gli amici per poi riprendere la sua strada.Noi abbiamo visto Betania come un luogo incui le persone potessero venire nel momento difatica e di sofferenza, lasciare una valigia caricadi cose pesanti, svuotarla, rimetterci dentroqualcosa di un po’ più leggero e poi ripartire.Casa Betania è nata nel 1993 quando io avevoquarantasei anni e Giuseppe sessantaquattro.

Solitamente è un’età in cui si va in pensione, oral’allungheranno un poco, ma è comunqueun’età in cui molti credono erroneamente che igiochi siano fatti. Ma a sessantaquattro anniGiuseppe si è imbarcato con me in questa av-ventura. Io oggi ho sessantaquattro anni e l’av-ventura continua.

“Senza la disponibilità della famiglia Dolfini CasaBetania non sarebbe nata, senza i Volontari non sa-rebbe cresciuta…”, questa è la frase di presentazio-ne che viene ripetuta sovente a chi chiede di potereffettuare servizio di volontariato presso Casa Be-tania. I Volontari di Casa Betania rappresentanouna risorsa importante; operando gratuitamente eliberamente, costituiscono una fonte di creatività edi energia quasi inesauribile, testimoniando con-cretamente spirito di collaborazione e di acco-glienza. Ciascuno arriva con il suo bagaglio diesperienze personali, e offre semplicemente se stes-so, animato da un senso di giustizia e di uguaglian-

za, spesso non essendo consapevole di apportareun contributo, grazie al proprio impegno, al cam-biamento sociale. Qualsiasi sia la motivazione, del tutto originale,che ha spinto nel tempo circa 700 persone a pre-stare servizio di volontariato presso Casa Betania,la condivisione di idee e valori ha fatto sì che si po-tesse camminare insieme lungo un percorso certa-mente non privo di errori, ma che, attraverso loscambio di riflessioni, emozioni, sogni, istinti, sta-ti d’animo è sempre stato volto alla ricerca di nuo-ve soluzioni che spezzassero le catene della povertà,del bisogno e dell’indifferenza.

1/ I volontari

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A Casa Betania in questi diciannove anni di vitasono passate centosette mamme e novanta bam-bini in difficoltà. Qualcuno è tornato a casa,qualcuno in affido, altri ancora sono stati adot-tati. Sono poi oltre settecento i volontari chehanno prestato servizio. La famiglia di Casa Be-tania, come tutte le famiglie, si è trasformata neltempo: siamo entrati quando la nostra figlia piùgrande aveva diciassette anni e la più piccolacinque. Oggi due dei nostri figli si sono sposatie hanno scelto di vivere per conto loro. La piùpiccola è ancora con noi in casa. Intorno a Casa Betania sono poi nate tante cosenel tentativo di dare una risposta a dei bisogniche entravano nella nostra casa. Penso al labora-torio delle donne messo in piedi per dare lorolavoro o al piccolo nido per le mamme che sonosole.Cosa abbiamo ricevuto, cosa ci è stato donato,cosa abbiamo capito e come siamo cambiati?Provo a rispondere a queste domande. Abbiamoaperto le braccia per accogliere, abbiamo strettoqueste persone in un abbraccio e poi abbiamo

riaperto le braccia per farle andare via. Un po’come si fa con i figli. È bello aiutare una perso-na a camminare con le proprie gambe, ma anessuno piace essere portato a lungo per mano.Ognuno deve poter andare dove la vita lo porta.Nessuna assistenza, le persone vanno accompa-gnate e lasciate andare, non dobbiamo mai trat-tenerle. Quando facciamo un tratto di stradainsieme è chiaro che queste stesse persone di-ventano un po’ come figli. Sono persone di cuici prendiamo cura, sono persone che si affidanoa noi e che prendono forza dalla nostra vicinan-za. È il Signore che ce le affida. Non siamo noia cercarle, le incrociamo semplicemente nel sen-tiero della vita. Non dobbiamo andare tantolontano per incontrare queste persone, ogni cri-stiano dovrebbe cominciare la giornata apren-dosi all’incontro con l’altro. A Casa Betania abbiamo anche capito che sulladisabilità c’è tanta superficialità e che la diver-sità è un valore. Abbiamo scoperto che le mam-me africane hanno un modo diverso di relazio-narsi con il proprio figlio da quelle europee oasiatiche. E chi lo ha detto che il nostro è quellomigliore? Mettiamoci in discussione. Il diversoti aiuta a vedere diversamente le cose perchéognuno di noi possiede un pezzetto di verità.Incontrare una persona diversa diventa cosìun’occasione per conoscere una parte di verità. Ciascuno di noi ha in sé delle risorse che a voltenon pensa nemmeno di avere, l’altro è in qual-che modo chiamato a risvegliarlo. Questo vuoldire farsi prossimi. Non c’è sofferenza dove l’uo-mo non possa risalire la china perché il Signoreconosce le nostre possibilità e non lascia mai so-li i suoi figli. E non consente mai che abbiano aportare pesi al di sopra delle loro forze. Un ami-co prete mi diceva tempo fa: i pesi che noi met-tiamo sulle spalle degli altri pesano, così come ipesi che gli altri mettono sulle nostre spalle. Maquelli che il Signore mette sulle nostre spallenon pesano. Lo stesso Gesù ci ricorda: «Venite ame, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vidarò ristoro».

Fin da giovani sposi abbiamo sempre considerato la paternità e la maternità come qualcosa di allargato.

Per noi i figli non sono solo coloro che generiamo, noi consideriamo ogni essere umano un fratello.

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Dobbiamo poi imparare a distinguere tra ciòche è necessario e ciò che è superfluo. Questo losi può fare sia con i piccoli che con i grandi, ri-scoprendo il valore della condivisione. Qualcu-no diceva: condividi e distribuisci, non tratte-nere. Questo è uno stile di vita molto impegna-

tivo. La giusta scala dei valori si mantiene fer-mandoci ogni tanto a riflettere come persone,coppie, comunità, su quali siano i valori in cuicrediamo e vedere se ce ne siamo dimenticati.Dobbiamo essere vigili e attenti perché è facilis-simo perdersi. La morte è la separazione delle separazioni maquando è condivisa è più vivibile e meno dolo-rosa. Anche questa esperienza abbiamo vissutoin Casa Betania quando dei bambini sono tor-nati al Padre durante il loro cammino nella ca-sa. La morte può essere vista con dolcezza quan-do ci facciamo vicini agli altri. Dobbiamo ab-bandonare qualsiasi forma di possesso, nessunovive grazie a noi. Questa è la parabola della vita:si nasce nudi, scopriamo gradualmente il mon-do che ci circonda, viviamo di relazioni, lascia-mo che la vita scorra ma poi ci ripresenteremonudi davanti a Dio. Siamo dunque tutti invitatia spogliarci quotidianamente di ciò che posse-diamo. Le donne che accogliamo in Casa Beta-nia arrivano a mani vuote, senza nemmeno un

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Da tutti i Paesi è un piccolo laboratorio artigiana-le, nato nel 1996 in seno a Casa Betania, casa fa-miglia aperta all’accoglienza di mamme gestanti ocon bambino e di piccoli soli nella fascia d’etàcompresa dalla nascita agli otto anni. Il laboratorio offre a donne e madri immigrate eitaliane in uscita dalla casa famiglia, un’opportu-nità di lavoro creativo, un’occasione di partecipa-zione sociale, una possibilità per valorizzare la tra-dizione e la ricchezza artistica di cui queste donnesono portatrici. Da tutti i Paesi è luogo di incon-tro e di laboriosità, un’esperienza di convivenza ecooperazione tra persone di provenienze diverseper nazionalità, cultura e religione.I prodotti del Laboratorio sono realizzati artigianal-mente, e sono venduti ad un prezzo trasparente edequo. Le creazioni sono di tipo sartoriale (arredocucina, bagno, linea bimbi, borse e accessori) e dioggettistica: abbiamo un laboratorio di ceramica,

di cesteria, di pittura e di realizzazione di gioielli.Inoltre, attraverso l’acquisto e l’uso di materie pri-me e semilavorati solidali, e la collaborazione conimportatori di commercio equo e cooperative so-ciali (Libera, la Stelletta, Eugea, Equoland, Altra-Qualità), il Laboratorio sceglie di sostenere proget-ti di solidarietà e giustizia del Nord e Sud delMondo e di promuovere la crescita di una culturae di una economia responsabile.Nel Laboratorio “Da Tutti i Paesi” lavorano oggicirca una decina di donne provenienti dall’Africa(Etiopia, Marocco), dal Sud America (Perù, Boli-via, Colombia), dall’Europa dell’Est (Romania,Ucraina, Moldavia) e dall’Asia (Bangladesh). Attra-verso l’attività artigianale, queste mamme hanno lapossibilità di sostenere la propria famiglia: a loro ègarantita un’equa retribuzione, un’adeguata forma-zione ed un ambiente lavorativo sereno.

www.datuttiipaesi.it

2/ Da tutti i paesi, il laboratorio delle mamme

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documento, a volte non conoscono il giorno delloro compleanno, possiedono solo quello chehanno nel loro cuore: la loro storia. Noi gli pre-sentiamo un mondo pieno di cose, spesso inuti-li. Facciamo nascere in loro desideri che non co-noscevano, alimentiamo questa sete di possessocon il rischio di lasciarli vuoti dentro. Il tempo non ci appartiene. Questa elasticitàmentale non è facile da assimilare. Viaggiamosempre sui binari della sicurezza e basta pocoche una giornata promettente possa trasformar-si in un pessimo giorno. Riscopriamo il tempodell’ascolto, quello vero fatto di silenzi. L’altrovuole essere ascoltato, guardato, dobbiamo se-derci e dedicargli il nostro tempo. Non dobbiamo avere paura di mostrare i nostrisentimenti perché possono essere da stimolo al-l’altro per esprimere i suoi. In una comunità tuttisanno tutto di te, è un po’ come vivere in piazza.I figli non ci appartengono, ci vengono affidati, lidobbiamo custodire e dobbiamo sapere lasciarliandare. In tutti questi anni abbiamo avuto mo-menti di gioia piena, di fatica, abbiamo fatto iconti con i nostri limiti e le nostre debolezze, manon ci siamo mai sentiti soli. Il Signore non hamai permesso che questo accadesse perché ci hasempre manifestato la sua presenza. La nostra scelta di vita ha di certo influenzatoanche quella dei nostri figli. È stato faticoso vi-

vere l’intimità familiare solo in alcuni momenti,ma abbiamo sempre parlato con i nostri filgi percondividere la nostra scelta. Molti messaggi so-no passati e siamo fiduciosi che questo bagaglioli accompagnerà per il resto della loro vita. Og-gi che siamo nonni abbiamo ricavato un picco-lo spazio dentro la casa per avere tempi più con-soni alla nostra età. Questa scelta ha fatto sì chesi creasse un vuoto poi colmato da operatori af-fiancati da tanti volontari. È per noi una situa-zione diversa, nuova, viviamo un tempo di cam-biamento al quale si affianca una grave faticaeconomica. A conclusione mi sembra di poter dire con co-scienza, e mi viene da sorridere, che Casa Beta-nia non ci appartiene. Cosa ne sarà del suo fu-turo? È nelle mani del Signore, ma allo stessotempo molto dipenderà dalla generosità e dallarisposta degli uomini e delle donne del domani.Ognuno è chiamato a percorrere il suo piccolotratto di strada, guardare avanti e non voltarsiindietro. «Così, anche voi, quando avrete fattotutto ciò che vi è comandato, dite: “Noi siamoservi inutili; abbiamo fatto quello che eravamoin obbligo di fare”». (Luca 17, 10). E non di-menticate ciò che ho detto all’inizio: ripulite be-ne la mia testimonianza e non dimenticate chesiamo tutti in cammino, che nulla è compiuto eche ogni giorno tutto comincia da capo.

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Voglio cominciare questa mia testimo-nianza dicendovi grazie per tutto il beneche state facendo nelle vostre comunità

cristiane. Questo incontro risente dell’esperien-za positiva che ho vissuto con il MEG a Bari inuna realtà di periferia molto complessa e diffici-le ma nonostante ciò segnata dal sorriso dei ra-gazzi che adagio adagio hanno ritrovato la capa-cità di sperare e credere nel domani. Il mio grazie si estende a tutti i gesuiti. Ho stu-diato all’Università Gregoriana “Storia dellaChiesa” dove ho avuto tanti professori meravi-gliosi che sono diventati veri maestri di vita. Mipiace anche ricordare la realtà di due grandi ri-viste come Aggiornamenti Sociali e La CiviltàCattolica e i tanti gruppi in Calabria che hoavuto modo di incontrare. Oggi più che mai le CVX giocano un ruolo im-portante nella nostra società. Nella Chiesa italia-na c’è un po’ di scoramento, la realtà appare cosìfragile anche perché le forze sono diminuite. Ilrischio più grande è l’accidia, uno dei peccati piùcombattuti dai monaci antichi. Parlo di quel vi-rus che insidia l’amore, quella pigrizia intellet-tuale e spirituale che ti spinge a non trovare piùgusto nell’amare, nel non trovare passione nellapreghiera. Non fatevi coinvolgere da questo mo-mento di scoramento. Continuate ad essere au-tentici, coraggiosi, pieni, spronate i vostri parro-ci perché loro vi dovranno guidare ma anche voidovete rimboccarvi le maniche. Il titolo di que-sto convegno vi ricorda che la vostra fiducia na-sce dallo sguardo a chi è più povero. E in que-st’ottica la parola fragilità diventa scuola di vita,dobbiamo cogliere la bellezza dentro le nostre fa-tiche. I padri del deserto hanno racchiuso que-sto concetto in una bellissima frase: «La perfe-zione non sta nel salire ma nel discendere». A me piace chiamare tutto questo il triangolodelle tre C: Cristo, Chiesa, cuore. Quello che hafatto Gesù lo faccia la Chiesa, quello che è chia-mato a fare la Chiesa lo faccia il mio cuore. Co-me Cristo ha compiuto la redenzione attraversola povertà, così la Chiesa è chiamata a prendere

la stessa via per comunicare agli uomini i fruttidella salvezza. La Chiesa non è stata costituitaper cercare la gloria in Terra bensì per diffonde-re, anche con il suo esempio, l’umiltà del Cristopovero. Come Cristo è stato inviato dal Padread annunciare la buona novella ai poveri, a gua-rire coloro che hanno il cuore contrito, a salvareciò che era perduto, così la Chiesa deve circon-dare di affettuosa cura quanti sono afflitti dal-l’umana debolezza. Mentre Cristo è santo, in-nocente, immacolato e non conosce peccato, laChiesa non è altrettanto santa ma comprende isuoi peccatori e mai tralascia la penitenza e ilrinnovamento. Se questo triangolo è chiaro,ogni azione che farete avrà sempre una sua fon-dazione e i poveri saranno sempre l’immaginedi Dio. Ricordate sempre: è il povero che ci sal-va e non il contrario. Quando ero cappellano in carcere a Crotone,un giorno un detenuto mi raccontò nei minimiparticolari come aveva ucciso brutalmente unadonna. Rimasi talmente inorridito che quandotornai a casa mi lavai le mani per non avere piùsegni di quell’incontro e mi chiesi: davanti atanto male ha un senso la figura di un cappella-no in un penitenziario? I pensieri mi spinsero fi-no a considerare l’ipotesi di dare le dimissioni.Con il passare delle settimane ho ritrovato labussola meditando su queste poche parole: «Sia-te perfetti come è perfetto il Padre vostro». Dalì la domanda era diventata: come si fa a resti-tuire a Dio il bene che ci ha dato? E questa è larisposta: il povero è il segno teologico della re-stituzione a Dio della gratuità. Vedete ancora latriangolazione: gratuitamente ho ricevuto, gra-tuitamente dono e lo faccio per riconoscenza enon per beneficienza. Non ci interessa in questocaso il criterio sociologico, ma quello teologico.Ora capite che la gratuità permette di compiereil gesto che ha fatto San Francesco quando in-contra il lebbroso: scende da cavallo, lo abbrac-cia e lo bacia. «Ciò che mi sembrava amaro, mifu cambiato in dolcezza d’anima e di corpo»,scrisse più tardi sull’accaduto San Francesco.

8 · CRISTIANI NEL MONDO · GENNAIO-FEBBRAIO 2012

GLI INTERVENTI DEL CONVEGNO DI POMPEI

La fragilitàcome punto di forzaDI MONS. GIANCARLO BREGANTINI, Vescovo di Campobasso

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Vedete allora come la gratuità scardina i criterimeritocratici del mondo di oggi e rompe glischemi del do ut des. Cristo va oltre il merito esi è fatto servo dell’uomo. Stesso tragitto devecompiere la Chiesa. Vi faccio tre esempi. Il pri-mo è la figura di Don Milani il cui stile deve es-sere da esempio per tutti noi. Il secondo vienedal film “Gli uomini di Dio” che racconta lastoria di una comunità monastica che di frontealla crescita del fondamentalismo islamico inAlgeria si spacca in due: alcuni vogliono scap-pare, altri restare. Il Superiore stabilisce che ladecisione verrà presa solo dopo un tempo dipreghiera comune che alla fine darà coraggio aimonaci nel restare al loro posto. L’insegnamen-to che dobbiamo prendere da questa storia è chenon dobbiamo lasciarci vincere dal male, masconfiggerlo con il bene. Terzo esempio è l’espe-rienza meravigliosa dei preti operai. Ho colla-borato in fabbrica prima di essere prete, così co-me molti gesuiti che si sono immersi fino infondo in questo mondo. Gli operai non aveva-no bisogno di prediche ma di qualcuno che su-dasse e piangesse con loro, del Cristo in croce.Un po’ come Giovanni Paolo II che con ilparkinson non parlava più al mondo con le pa-role, ma con i segni. Dobbiamo, dunque, recu-perare tutta una serie di segni meravigliosi mol-to fragili, ma preziosismi. E qui ci viene in aiuto il buon samaritano (Lc,10), figura autentica di ciò che significa serviree avere un cuore profondamente capace di ama-re. Ogni volta che rileggo questa parabola risco-pro quanto è grande il cuore di Cristo e il cuoredi chi lo guarda. Il perdono è l’arte più immen-sa e difficile, ma la più necessaria per la nostravita sociale, culturale, politica, ecclesiale e so-prattutto familiare. Mi piace accostare a questi temi la figura di donAndrea Santoro. Quindici giorni prima di esse-re ucciso, scrisse alla sua comunità a Romaquanto fosse difficile la situazione in Turchia.Don Santoro voleva essere un filo d’erba ma avolte per difendersi si sentiva piuttosto una rosa

piena di spine pungenti. In questi casi si rimet-teva sotto la croce, la guardava e si riproponevadi seguire il suo “fondatore”, ovvero colui chenon usa né spada e né spine. Anzi ha subito l’u-na e le altre per spezzare la spada e togliersi lespine del risentimento dell’inimicizia e dell’osti-lità. Come il buon samaritano, don AndreaSantoro cambiava il suo cuore mentre cammi-nava lungo i sentieri della vita. Ora torniamo un momento al concetto di fragi-lità che non vi deve sorprendere ha una forza in-credibile. L’ho imparato da don Lorenzo Guet-ti, fondatore delle cooperative trentine, che ciha regalato questa immagine meravigliosa. I sas-si da soli hanno poco valore ma ben incuneatipossono diventare dei resistenti muri a secco an-che senza bisogno della calce. Queste sono lecooperative, questo è prendersi cura dell’altro,questa è la premura di cui oggi abbiamo tantobisogno. Se riusciamo a creare questa capacitàdi incastonarci l’uno con l’altro, di costruire in-sieme, pensate a quante cooperative potrebberonascere dall’unione di tante persone fragili cheinsieme sarebbero forti. Ognuno di noi devedunque diventare una pietra di questa cintamuraria che nessuno potrà mai far crollare. Ve-dete allora come la fragilità diventa forza.Quando sono debole divento forte perché nonsono più solo, ma c’è la forza di Dio in CristoGesù che mi dà coraggio e c’è la relazione posi-tiva con l’altro. Se si riesce anche a coltivare ilgusto del perdono e della collaborazione si co-struiscono cose meravigliose e si applica in pie-no la logica del buon samaritano.Il vero abbassarmi all’incontro con Dio si haquando non sono scandalizzato dal peccato del-l’altro perché guardo il mio e mi domando seDio me lo abbia perdonato. Anche qui unesempio bellissimo che la storia della chiesa cidona è l’incontro di San Francesco con il lupodi Gubbio. Francesco con il lupo usa tutte e duele mani: quella della severità di fronte al male equella della misericordia. In particolare France-sco compie quattro azioni: 1) non fugge; 2) non

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Mentre Cristo è santo, innocente, immacolato e non conosce peccato, la Chiesa non è altrettanto santa

ma comprende i suoi peccatori e mai tralascia la penitenza e il rinnovamento.

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sfida il lupo con le armi della violenza ma gli vaincontro con la forza della croce, questo bloccal’animale che vede davanti a sé un uomo forte edeterminato; 3) Francesco è durissimo con illupo a cui rimprovera di essere un delinquenteche merita la morte per aver ammazzato tantagente, in altre parole gli fa vedere il male com-piuto; 4) gli dice di sapere perché è cattivo, ov-vero perché è affamato; questa è la misericordiadi chi comprende la situazione. Pensiamo se a livello mondiale si fosse ragiona-to così dopo la caduta delle torri gemelle a NewYork… Non ci sarebbero state le guerre in Iraqe in Afghanistan se avessimo ammesso che la si-tuazione che sta dietro il crollo di queste duetorri è di ingiustizia. Il mondo è diventato catti-vo perché è segnato da un’ingiustizia globale chelo rende ingiusto.Vedete allora come il passaggio chiave sia la co-scientizzazione del male fatto. Proviamo ad ap-plicare questo metodo anche alla mafia. France-sco direbbe al mafioso: sei cattivo perché sei af-famato e non perché il male che provochi nascada una cattiveria innata. Nessuno di noi nascecattivo, la cattiveria è una sofferenza inacidita.Quando non hai nessuno che ti asciuga le lacri-me, nessuno che ti guarda e che ti capisce, lasofferenza si tramuta in rabbia, in vendetta. Perquesto è necessario condannare la violenza maanche comprenderla. Dobbiamo ragionare sullaprecarietà dei nostri ragazzi altrimenti come fa-remo a dare futuro e speranza alle nuove gene-razioni. Non è una questione solamente legataal posto di lavoro, ma è l’impostazione della vi-ta che oggi viene tolta ai ragazzi. Voglio ora rispondere alla domanda che mi ave-te fatto sull’obbedienza ma non prima di chie-dervi: la vita è nostra? La decidiamo noi o èpensata? Attenzione: non ho detto decisa, mapensata! L’esempio che vi posso fare è quello diMadre Teresa che usava l’immagine bellissimadella matita che unisce i puntini nel gioco dellasettimana enigmistica. Ogni puntino ha il suonumero, ma al primo sguardo non si capiscenulla. Ma dietro c’è un disegno pensato e tu lodevi compiere. Cosa dice Gesù prima di morire:«Tutto è compiuto». Qualcuno di voi potrebbechiedersi perché il punto cinque è in alto e il seiin basso? Questo è il mistero. Capite bene: l’ob-bedienza è a Dio che ti ha pensato. Dio ci ha co-nosciuti, ci ha predestinati, ci ha chiamati, ci hagiustificati e glorificati. Sono i cinque verbi diSan Paolo che insieme costituiscono un’armo-nia splendida. A noi tocca prendere la matita eandare avanti con fiducia anche quando ci sem-bra strano che il cinque sia in alto e il sei in bas-

so. Lo comprenderemo dopo. Questa è la vita. Posso sempre spaccare la matita o disegnare ciòche voglio ma il risultato sarà sempre uno scara-bocchio. Ognuno di noi deve capire che è statopensato. La felicità sta nel fare ciò che Dio hapensato per me. Ed ecco allora che il discerni-mento di Sant’Ignazio diventa preziosissimoperché ci insegna in maniera mirabile cosa vuoldire interrogarsi sulla posizione dei puntini edove mi stanno portando. Per farvi capire me-glio posso raccontarvi un’esperienza personale.Quattro anni fa il nunzio a Roma mi mise inmano una lettera con la quale mi chiedeva dipartire per Campobasso. La mia prima reazioneè stata: dove si trova questa città? Non ero maistato in Molise. Mi sono poi chiesto: obbediscoo no? Sono stati giorni tremendi nel mio cuore.Allora ho chiamato mio fratello in Trentino cheda buon contadino mi ha detto: «Non ti preoc-cupare, obbedisci perché hai sempre obbedito epoi cambiare ti farà bene. Vedrai sarà come unapotatura». Con queste semplici, ma profondeparole, ha risolto il mio problema interiore inmodo meraviglioso. In primavera quando sono andato a trovarlo in

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Trentino gli ho chiesto di insegnarmi a potare levigne. «Per potare ci vuole occhio e non un li-bro», mi ha detto. Mi ha spiegato che la primacosa da tagliare è il tralcio più grosso, quello cheha fatto più frutti l’anno precedente. Dentro dime ho pensato che sarebbe stato il primo cheavrei lasciato, così gli ho detto: «Ma in questomodo resta questo tralcio piccolino?». E lui:«Vieni a settembre e vedrai». Ho capito quelgiorno che il contadino quando pota la vignaintravede l’uva che verrà. Stesso discorso valeper la fede, non è altro che intravedere Dio nel-le cose che non vedi oggi. «Non si vede bene checol cuore. L’essenziale è invisibile agli occhi»,abbiamo imparato dal Piccolo Principe.E allora l’obbedienza non è altro che obbedirecon il cuore. Obbedienza è guardare lontano enon quello che tu vedi oggi. Come diceva donMilani, la felicità dipende da che cuore mettinelle cose che fai. I tempi di Dio sono lunghima alla fine il bene è sempre più fecondo e soli-do del male. Concludo con una storia semplice che probabil-mente vi farà ridere. Quando avevo vent’anniandai in Sicilia con degli amici. A Taormina inun giorno particolarmente caldo vedemmo lun-go la strada dei fichi d’India, frutto a noi trenti-ni sconosciuto prima di allora. Dopo averli rac-colti togliemmo velocemente le spine più grossee li mettemmo in bocca. Non potete immagina-re il dolore… Qualche istante dopo un ragazzodel luogo, che aveva assistito alla scena diverti-to, tirò fuori il suo temperino, fece due tagli e cidiede il fico senza spine. Ho capito allora, e vilascio questa immagine, che noi siamo come ifichi d’India. Se tu ti accosti in maniera diretta

all’altro (il sud, i poveri e via dicendo), riceveraiin cambio le sue spine e tu penserai di averlodominato quando in realtà sei tu che soffri. Seinvece tratti l’altro (sai capire il sud, sai capirequesto tempo, la tua famiglia, tua suocera, iltuo vinco di casa) non con le spine ma nella lo-gica della capacità di entrare nel giusto verso,tutto andrà per il meglio. Ognuno di noi ha unverso spinoso e uno dolce, dipende da come sia-mo accostati. Dobbiamo essere capaci di leggerel’altro non nella logica del fico d’India spinoso,ma nella logica del frutto meraviglioso che è.Grazie e buon cammino.

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Il giorno in cui s’insediò nella diocesi di Locri-Ge-race fu accolto con una bomba sotto il palco e alleforze dell’ordine che gli intimavano di accettare lascorta oppose un netto rifiuto. Vescovo della gentefra la gente, monsignor Bregantini combatte lamafia e le sue derive da una vita intera. E dal didentro. Non disdegna di entrare nelle case delle’ndrine per consolare una madre che piange il fi-glio ucciso o per tentare una pacificazione. Dopola strage di Duisburg, si reca con un gruppo di pre-ti e laici in Germania a sostenere la comunità cala-brese. All’indomani dell’uccisione del politicoFrancesco Fortugno, si fa promotore insieme atanti giovani del movimento “AMMAZZATECITUTTI”. Nel molisano, si batte con altri vescovidel territorio per l’acqua pubblica e i posti di lavo-

ro. Nel racconto di un uomo del Nord, che hascelto di essere prete operaio, poi cappellano dellecarceri e infine vescovo al Sud, si alternano storiedrammatiche a tante esperienze positive di colla-borazione civile ed ecclesiale: nelle scuole, con leparrocchie, con le associazioni anti-racket, con lerealtà culturali e con tante persone che non cessa-no di credere nella legalità e nella cittadinanza atti-va. Sono pagine che non si limitano a denunciarele ambiguità mafiose – nell’atteggiamento di chipaga al bar, nell’ostentazione della ricchezza, nellaconnivenza con la Chiesa – ma che documentanola forza di una tesi: «La mafia ha orrore della bel-lezza. Una delle migliori forme di antimafia è il gu-sto del bello, del buono e del vero. Il destino non èineluttabile, il Sud può vincere».

In libreria / Non possiamo tacere

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Prima di tutto vorrei ringraziarvi per l’invi-to a partecipare al vostro convegno. Perme è un immenso piacere rivedervi dopo

tanti anni. Era il 1992 quando ad Assisi parteci-pai ad un’altra vostra iniziativa. Venti anni faero agli inizi di quell’esperienza d’impegno civi-le che vi racconterò oggi. Venti anni fa il conte-sto storico era assai diverso: il paese ha vissutoin quegli anni momenti terribili a causa dellegrandi stragi, penso in particolare a quella diCapaci e quella di via d’Amelio.Il compito oggi è quello di raccontarvi come ènata in quel contesto storico una storia d’impe-gno civile nel nostro paese. La mia è un’esperien-za collettiva, di un gruppo di persone, di un’as-sociazione, e anche questa è una novità per que-

sto tipo di esperienza. La nostra storia cominciain modo casuale tra la fine del 1989 e l’inizio del1990 a Capo d’Orlando, cittadina che dista cen-tocinquanta chilometri da Palermo e cento daMessina, che alla fine degli anni Ottanta costi-tuiva un importante centro commerciale. Nono-stante la popolazione di diecimila abitanti, Capod’Orlando serviva infatti un territorio di circacentomila abitanti dal punto di vista commer-ciale. In quei mesi si verificavano numerosi at-tentati contro degli esercizi commerciali. Nonpassava una settimana che non esplodesse unabomba contro un negozio, che un commercian-te non trovasse la saracinesca bucherellata daproiettili. Si trattava di atti intimidatori che ve-nivano compiuti con il fine di spaventare e inti-midire le persone che li ricevevano. Tanto più ilcommerciante, l’imprenditore era intimiditotanto più facile era che egli accettasse l’imposizio-ne che gli veniva presentata dalla mafia. Assiemea questi atti di intimidazione si sono verificatiuna serie numerosa (per il numero di abitanti diCapo d’Orlando) di omicidi e soprattutto di lu-pare bianche (sparizione di ragazzi minorenninel corso di una guerra tra due famiglie mafioseche si combattono per mettere mano alle attivitàestorsive sul territorio). Venti anni fa era pacifico che si pagasse e si ac-cettasse di sottomettersi alle richieste mafiose.Era un’assoluta consuetudine, era rarissimo chequalcuno mettesse in discussione il fatto che bi-sognasse pagare questo obolo di sottomissione.Ma una calda mattina di settembre del 1990, citengo a sottolineare in maniera del tutto casua-le, qualcosa cambiò. Mentre mi trovavo davantial mio negozio di scarpe, passò davanti a meuna macchina. Il conducente andò avanti perqualche metro, frenò di colpo e poi fece retro-marcia. Scese dalla macchina e si avvicinò. Co-noscevo di vista quella persona, ma non ci ave-vo mai parlato. Non era mio cliente, la sola cosache sapevo era che il telegiornale regionale ave-va mostrato l’attacco mafioso contro il suo con-cessionario di macchine e i buchi dei proiettili

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La normalità dell’impegno

DI TANO GRASSO

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sulla sua abitazione che si trovava sopra l’eserci-zio commerciale.Guardandomi dritto negli occhi mi disse: «Chedobbiamo fare?». Risposi prontamente con uninvito: «Vediamoci questa sera alle 20 in parroc-chia». Da questo rapido scambio nacque l’espe-rienza del movimento anti racket. Quella sera ciritrovammo in sette in parrocchia con don To-nino (oggi parroco di una chiesa a Licata in pro-vincia di Agrigento) per capire se esistevanomargini per operare diversamente non per quel-la curiosità intellettuale nel vedere cosa sarebbesuccesso, ma perché l’acquiescenza toccava deinervi molto sensibili soprattutto sul terreno del-la libertà di ciascuno di noi. Nessuno pensava quella sera in parrocchia cheavremmo dato vita ad una esperienza significa-tiva che oggi è ben nota anche oltre i confini delnostro paese. Tutto pensavamo tranne di fareuna cosa che ci avrebbe portato a fare di quellariunione un modello che sarebbe stato replicatoin tante altre parti del nostro paese. Mi piacesottolineare questo aspetto perché ha a che farecon un tema molto importante, quello dellanormalità dell’impegno in opposizione conquello dell’eroismo dell’impegno. Quella seraaccaddero un paio di cose inedite. Ci accorgem-mo innanzitutto che il valore dell’intimidazionesvaniva se restavamo uniti. Questa scoperta fuper noi come un miracolo. D’incanto ci ren-demmo conto che il re era nudo. Cosa vogliodire? Torno un attimo indietro. Immaginate uncommerciante che alle tre del mattino riceve acasa la chiamata di un maresciallo dei carabinie-ri che lo informa che il suo negozio sta prenden-do fuoco. Quello si toglie il pigiama, si veste dicorsa, sale in macchina e raggiunge il negozio.Immaginate in quei dieci minuti di strada cosagli può passare per la testa. Chi è stato? Perchéproprio a me? Cosa ho fatto? E soprattutto glipassa per la testa la rappresentazione di chi gliha distrutto il negozio, qualcuno di davvero po-tente. Dietro quel qualcuno ci sono in realtàtante persone, c’è un’organizzazione mafiosa. In

quei dieci minuti quest’immagine si ingiganti-sce e ti fa sentire sempre più debole e incapacedi qualsiasi reazione. Capite allora come scoprire che il re fosse nudocostituisce un miracolo, forse all’università loavrei definito fattore della realtà. Quella sera inparrocchia scoprimmo che davanti a noi nonc’era un gigante, un mostro invincibile, ma deicriminali e assassini ben definibili e definiti.Non erano nient’altro che criminali. Capimmoallora non solo che ci potevamo opporre, mache se avessimo reagito insieme saremmo statipiù forti. Siamo più intelligenti della violenza,possiamo sconfiggere la mafia attraverso unastrategia. Dato che la mafia è una realtà ben organizzata,l’opposizione ad essa può essere fatta solo attra-verso l’organizzazione. Diventi più forte se seipiù intelligente e se hai la capacità di costruireuna strategia. La grande intuizione di Giovanni Falcone fuquella di guardare la mafia come un fenomenocomplesso di carattere economico e culturale.Prima che questo approccio a trecentosessantagradi fosse adottato dalle Procure ogni fatto cri-minoso di stampo mafioso veniva assegnato almagistrato di turno con la conseguenza chedieci episodi tra loro collegati venivano assegna-ti a dieci magistrati differenti. Ognuno di que-sti fatti veniva così indagato nella sua chiusaparzialità.

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Dato che la mafia una realtà ben organizzata, l’opposizione ad essa può essere fatta solo attraverso l’organizzazione.

Diventi più forte se sei più intelligente e se hai la capacità di costruire una strategia.

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L’associazionismo anti racket presuppone cheognuno abbia la forza di assumersi una respon-sabilità personale, cosa non affatto scontata. Dasiciliano sento questo aspetto come una maledi-zione di una mentalità, un modo di ragionareed essere che porta a spostare sempre più in là laresponsabilità dei fatti: i poliziotti conduconomale le indagini e lo stato che non c’è. Ma se iovoglio essere libero dal condizionamento mafio-so, devo in quanto singola persona assumere laresponsabilità di oppormi. Poi si ragiona sul ri-schio. Ma senza questa presa di responsabilità sigira intorno al problema. Questa in sintesi è la storia di un impegno civilecominciato nel 1990. Prima di venire qui mi so-no chiesto: dopo venti anni cosa racconto? Par-lo di quello che facevo venti anni fa che sostan-zialmente continuerò a fare domani mattina.Qualche giorno fa sono andato a mangiare unapizza con sei persone vittime di mafia, tra di lo-ro c’era un signore che proprio domani mattinasi presenterà in tribunale a Napoli per testimo-niare contro una decina di mafiosi. Queste seipersone fanno parte di un gruppo di ben venti-cinque commercianti che si è costituito parte ci-vile in questo processo. La scorsa settimanahanno testimoniato i primi quattro, la prossimaaltri quattro e così via. Abbiamo mangiato lapizza quella sera per stare vicino a chi il giornodopo avrebbe risposto alle domande dei giudicie soprattutto degli avvocati difensori. Capitebene come mangiando la pizza con i miei colle-ghi ho riscoperto la stessa identica emozione diquella sera in parrocchia a Capo d’Orlando condon Tonino. Questa non è retorica. In pizzeriac’era un pasticcere straordinario autore di unadelle più belle meraviglie del mondo, la tortacon ricotta e pere. Dopo aver studiato econo-mia ha scelto di seguire le orme del nonno chegli aveva insegnato il mestiere di pasticcere. Neisuoi occhi si legge la passione per questo lavoro,dentro le sue torte c’è un pezzo della sua anima. Chi vuole essere libero non è un eroe ma unapersona assolutamente normale. L’eroismo na-

sconde un meccanismo diabolico, è una grandeimpostura. La soluzione dei problemi non pas-sa mai attraverso queste rappresentazioni artifi-ciose. L’eroismo comprende altre dinamiche. Ilcoraggio si rafforza sulla base dei valori. Ciò chefa la differenza non è il portafoglio, non è il fat-to che un commerciante si rifiuta di pagare cin-quecento euro al mafioso, ma la consapevolezzache quei comportamenti fanno riferimento a unordine di valori diversi. La legalità senza valori èuna scatola vuota, anzi è un’impostura. Quan-do si invoca l’eroe si concede l’alibi alle personedi dire non è cosa mia, mi interesso solo al miolavoro e alla mia famiglia. Non si può pensaresolo a se stessi, questo è il massimo dell’egoi-smo. Colui che andrà a testimoniare domanicambierà con il suo atto un pezzo importantedella storia del suo paese perché contribuirà arenderlo più libero. La nostra esperienza non esaurisce il complessorapporto tra i commercianti e le mafie. C’è unaltro pezzo di operatori economici, dal punto divista quantitativo il più ampio, che si sottomet-tono non per paura ma per convenienza. Senzaessere dei criminali assumono un atteggiamentodi acquiescenza alle richieste mafiose perché leg-gono il pizzo come il prezzo da pagare per resta-re sul mercato. Infine c’è un’altra fascia di im-prenditori che assumono il rischio penale di in-staurare una collaborazione con la mafia. Questisono dei collusi perché dalla loro complicitàtraggono dei vantaggi in termini di concorrenzarispetto agli altri colleghi.Il senso comune fa la differenza. Per vincere ènecessario che il maggior numero di personeesprima un atteggiamento di riprovazione neiconfronti di chi ha atteggiamenti intimidatori.Di fronte all’imprenditore che dice di non po-ter fare altro che pagare il pizzo bisogna esserefermi nell’indicare che esistono altre strade.Non bisogna avere esitazione nel manifestareuna riprovazione pubblica nei confronti di que-sti atteggiamenti. L’Italia che è uno dei paesi piùarretrati dei paesi industrializzati sotto il profilo

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della disciplina deontologica. Una sanzione eti-ca vale molto di più di una penale. I consuma-tori possono fare tanto, ad esempio nel preferirequei negozi che sono certificati come antiracket. Stesso discorso vale per le banche chedevono avere il coraggio di rifiutare certi clientie per i candidati a cariche pubbliche. I politicidevono essere fermi e trasparenti nel rinunciareai voti sporchi che introducono un virus dentrola qualità della democrazia del nostro paese.Non è la democrazia il voto, ma è la qualità delvoto che fa la democrazia. L’attenzione deve essere massima perché la fan-tasia dei mafiosi non ha limiti. Alcuni di lorofanno addirittura fattura dietro il pagamentodel pizzo. La mafia può rinunciare a tutto, manon a questa attività criminale perché questa dàil senso dell’esercizio mafioso. Il mafioso non èun criminale che compie delitti per arricchirsi,anche, ma non solo questo. Il mafioso è taleperché esercita un potere, una sovranità su unpezzo di territorio. Dobbiamo poi tenere conto anche dell’aspettomediatico del fenomeno. Come aveva intuitotempo fa Pasolini, il fenomeno non è ciò che è,ma è in base a come passa attraverso i media.Ma la lettura dei fenomeni attraverso i media èper definizione falsata perché il mezzo che simette in mezzo distorce inevitabilmente la rap-presentazione della realtà. Voglio dire l’immagi-ne della mafia che riceviamo dai media non èesaustiva. L’immagine a cui dobbiamo fare rife-

rimento è la dimensione economica perché è dalì che i mafiosi traggono la loro forza. Senza gliimprenditori le mafie non andrebbero da nessu-na parte. È incredibile come nel Mezzogiornonon operino imprese straniere, non ci sia liberacircolazione di aziende e capitali per colpa dellamafia. Non c’è altra area geografica con questecaratteristiche. Ma attenzione, esiste un proble-ma anche nel nord dell’Italia. Milano, quantoCatania, è una città interessata dalla mafia. InLombardia però paradossalmente non c’è la rea-zione degli imprenditori. C’è più reazione a Ca-serta che a Milano, questa se volete è la vera tra-gedia.Quando con onestà confronto la situazione diventi anni fa con quella odierna non ho dubbinel sostenere che oggi è meglio di ieri. Ciò nonvuol dire che va tutto bene. Non è vero che nonè cambiato nulla, il fatto che voi siete qui riuni-ti oggi è la prova che nella coscienza pubblica lecose sono cambiate. Un’ultima considerazione la voglio dire sullamia scorta e vi prego su questo di credermi sullaparola. La mia protezione è l’eccezione che con-ferma la regola. Le persone di cui vi ho parlatonon necessitano per fortuna di alcuna scorta, iosì per via del ruolo assolutamente simbolico chericopro. Il pasticcere non è chiamato a svolgerequesto ruolo simbolico, se solo lo pensasse glispezzerei le gambe. Lui deve continuare a fare ilpasticcere e guai se non lo fa perché le sue tortesono fantastiche.

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Sono nato in Uganda ma mi sento africano.Dal 1988 al 1991 ho vissuto in Italia perstudiare teologia morale all’Accademia

Alfonsiana. Per questo parlo romano e non ita-liano. Ho un rapporto tutto particolare con lelingue perché a Nairobi ho l’occasione di par-larne almeno cinque diverse. Se pronunceròdunque parole a voi sconosciute vorrà dire chehanno un origine africana. Detto questo speroche il mio messaggio arriverà. Il mio compito oggi è quello di parlarvi del mi-crocredito, ovvero di come possiamo fare soldiusando i soldi. Noi in Africa, così come in altripaesi del terzo mondo, siamo abituati a ricevereaiuti che qualcuno chiama elemosina. Vi possoassicurare che la gente si stanca a chiedere ognigiorno, per questo sono convinto che il metodomigliore sia utilizzare ciò che riceviamo per au-mentare il pane sulla nostra tavola. La chiesa non deve rimanere un luogo dove ci siinginocchia, la chiesa può essere anche una fab-brica di pane, di intelligenza, promotrice di unavisione che crea un’Africa nuova. La mia espe-rienza ve lo dimostra. Ho cominciato sedici an-ni fa radunando cinquanta persone che hannomesso insieme i loro pochi soldi per aiutarsi gliuni gli altri. Abbiamo comprato canna da zuc-chero, verdure e patate, li abbiamo rivenduti econ i guadagni siamo riusciti ad aiutare qual-cun’altro. Quando abbiamo cominciato non so-no mancate le critiche di chi ci definiva ungruppo di sbandati e confusi, ma noi siamo sta-ti fermi nel dare un’altra immagine di noi stessi,quella di un esercito di formiche che se ben or-ganizzate può buttare giù un elefante. Da cinquanta persone sedici anni fa adessoquando vado a contare la gente che fa gruppo dimicrocredito (in swahili si dice ruma che vuoldire misericordia) siamo arrivati a tremila per-sone tutti quasi della nostra parrocchia di Ka-riobanghi. La nostra vision è cancellare la mise-ria, non la povertà che per certi aspetti è sana.La povertà si trova nella Bibbia. La nostra par-rocchia, e più in generale l’Africa intera, non vi-

ve la povertà ma la miseria. Per questo quandoin Italia si esclama “porca miseria” si dice unaparolaccia. Una persona che vive in miseria vuoldire che non ha niente da mangiare, non puòvestirsi, non può andare a scuola. Vi chiederete:perché c’è questa miseria? È forse un’intenzionedi Dio? Assolutamente no, sono gli umani anon essere bene organizzati. Aprendo questo gruppo di microcredito abbia-mo osato il Vangelo, sapendo bene che senza lafede si scrive sul vuoto. Abbiamo visto con i no-stri occhi che man mano che condividevamociò, compresa la nostra fede, la realtà comincia-va a cambiare. Vivere in miseria non coincidecon non avere un cervello. Bisogna saper legge-re e scrivere per conoscere ciò di cui si è privi.Se qualcuno non sa che ha bisogno di acqua edi cibo è difficile anche che attribuisca un valo-re a queste due cose. Tutto è nato dunque conl’insegnamento. Ricordo ancora molto bene quando nei primiincontri i partecipanti dovevano portare con sédieci euro e qualcuno di loro domandava comeavrebbero potuto procurarseli. Con pazienza liho convinti a tagliare alcune spese in vista di unguadagno più grande. Tutti avevano qualcosa,quello che gli mancava era l’organizzazione.Dopo sei mesi abbiamo costituito un comitatoeletto che oggi conta dodici persone di cui al-meno un terzo donne, notoriamente più sensi-bili nella cura dei beni comuni. I membri delcomitato non percepiscono alcun compenso, illavoro è un servizio alla comunità. Il Comitatoè garante delle regole ci aiutano a non caderenella corruzione, piaga assai diffusa. Vi illustrobrevemente alcune di queste norme: 1) periscriversi al gruppo di microcredito bisogna ver-sare come minimo una quota di dieci euro; 2)la persona a cui concediamo un prestito deveavere almeno tre garanti che si impegnano a ri-sarcire in qualsiasi caso di insolvenza; 3) il no-stro tasso di interesse è l’1% e non il 15% comequello applicato da alcune banche; 4) i nostrisoldi sono depositati presso una banca interna-

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Il microcreditoper sconfiggere la miseriaDI P. PAOLINO MONDO

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zionale etica e sono sempre disponibili; 5) ognimembro ha un’assicurazione sanitaria che pagaspese mediche fino a duecento euro, qualoradovessero superare tale cifra la generosità deipiù abbienti non è mai venuta meno; 6) sonopreviste assicurazioni in caso di morte di unodei richiedenti prestito, ma comunque noi pre-ghiamo affinché ciò non accada. Come vi ho detto, abbiamo cominciato in po-chi, eravamo una sola comunità cristiana. L’ab-biamo chiamata “San Francesco d’Assisi” e il ve-scovo si è anche arrabbiato. Mi disse: «San Fran-

cesco era un povero, come può essere il patronodi quelli che fanno i soldi con i soldi». Risposiche San Francesco è in sintonia con coloro chesono bisognosi. Il nostro obiettivo è mostrate aDio il vero volto dell’africano che non deve es-sere per forza quello dell’affamato, di un mala-to, di uno che non ha i soldi per vestirsi. All’inizio vivevamo in baraccopoli, poi abbiamoaperto un ufficio nei locali della parrocchia chenon chiede soldi per l’affitto. La nostra contabi-lità è elaborata al computer da tre impiegati(una donna e due uomini). Sono io a firmaretutti gli assegni, ma in generale i laici fanno me-glio dei preti. È sufficiente orientarli sulla strada

giusta. Anche adesso il lavoro va avanti, ho fir-mato alcuni assegni e sono partito per essere quicon voi. So che non sbagliano, anche perchévengono da me a confessarsi!Con i soldi che prestiamo alcuni comprano perpoi rivendere beni non deperibili, altri aprononegozi di falegnameria. Il successo dei primi haaperto le porte a tanti altri. Si iscrivono al no-stro gruppo di microcredito tanti neomaggio-renni a cui insegniamo a risparmiare qualcosaoggi per rovesciare la loro situazione domani. La nostra parrocchia di Kariobanghi si estendesu un territorio di circa nove chilometri quadra-ti che conta mezzo milione di abitanti. Tra que-sti sessantanovemila sono battezzati, metà di lo-ro partecipa alle quindici messe che organizzia-mo ogni domenica. Siamo formiche benorganizzate. Ma sia chiaro che a noi non inte-ressa se una persona sia credente, battezzato omeno, perché Dio guarda tutti e solo l’amorepuò cambiare la vita delle persone. Abbiamo da poco comprato centocinquantaacri di terreno dove già qualcuno del gruppo hacominciato a costruire la sua abitazione, dicen-do così addio alla baraccopoli. È un luogo nuo-vo: con strade, scuole e accesso all’acqua. È ladimostrazione che si può cambiare la propria vi-ta in meglio, la gente non può rimanere nellebaraccopoli per sempre. Oltre alle case stiamocostruendo delle scuole, una di queste è quelladi Giacomo Giacomo, dove insegniamo ancheai bambini le potenzialità del microcredito. Vedete dunque che la Chiesa non predica unGesù vuoto, ma un Gesù che fa miracoli usan-do le cose in nostro possesso. Bisogna ricordarebene che Gesù ha moltiplicato i pani e i pesciche la gente ha condiviso per cercare di sfamaremigliaia di persone. Come si vincono le grandisfide? Con l’amore di Dio. Io sono ugandese e imembri del gruppo di microcredito kenyoti maquesto non importa. Apparteniamo tutti a unatribù unica: quella dei credenti, siamo tutti fra-telli. E stiamo cambiando il mondo con il mi-crocredito.

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Vivere in miseria non coincidecon non avere un cervello.

Bisogna saper leggere e scrivere per conoscere ciò di cui si è privi.

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Desidero anzitutto esprimervi la mia gra-titudine per avermi offerto l’occasionedi essere qui insieme a voi. So bene che

questo è un momento importante per le CVX,il convegno è un luogo di incontro e ricerca suquelle domande che agitano tutti noi. Vivo lagiornata di oggi in una modalità mista: questamattina ero al convegno del MEG dove ho cele-brato la messa con 800 ragazzi in un tendone.Ho sentito vibrare un desiderio di incontrarsi,di collegarsi, che percepisco come una forza po-sitiva e vitale. A partire da alcune sollecitazioni che ho appenaascoltato e dai discorsi precedenti con LeonardoBecchetti, mi sembra opportuno incentrare ilmio discorso su quelle piste di ricerca delleCVX che interagiscono con ciò che i gesuiti del-la Provincia d’Italia vogliono realizzare. Il temache spicca maggiormente è quello della collabo-razione. Si tratta di un punto focale dal quale sidiramano una serie di collegamenti su cui pos-siamo ulteriormente riflettere.Partirei da una frase del Padre Generale AdolfoNicolás: «Sono convinto che la missione dellaCompagnia di Gesù è troppo grande per laCompagnia stessa, ma con i collaboratori pos-siamo fare molto». La nostra missione è quelladi Cristo ed è molto più grande di quello chepuò fare da sola la Compagnia di Gesù. Nel-l’impossibilità di compiere la missione in tuttala sua ampiezza la Compagnia avverte un limi-te. La percezione di questo limite è senz’altrofrustrante. Ma proprio di questa esperienza èpossibile dare un’altra interpretazione: il luogodell’impossibilità diviene un luogo di relazionee di incontro che ci chiama ad uscire da noistessi per collegarci meglio. Vedete, dunque, co-me la grande tematica del limite vissuto a livellopersonale, che serpeggiava in alcuni discorsi cheho sentito poc’anzi, esiste anche a livello di cor-po apostolico della Compagnia. Se Dio ha suscitato nei cuori degli altri il desi-derio di servire, nessuno può negare a Dio que-sta iniziativa. I collaboratori sono le persone che

i gesuiti incontrano nel loro cammino. Qualco-sa di analogo succede nella Compagnia stessa:un novizio entra senza sapere chi sono gli altrigesuiti. Siamo chiamati da un unico Padre checi sollecita a un cammino da percorrere insiemeper il servizio. Non abbiamo scelto noi chi viveal nostro fianco.Il tema della collaborazione invita la Compa-gnia a comprendere nuovamente la sua identità,ci sprona a una nuova autocomprensione comegesuiti. Voi sapete che in passato molte comu-nità, e la stessa Compagnia, si interpretavanocome realtà autonome o addirittura autarchi-che. Molto spesso le nostre case erano autosuffi-cienti fino al punto di somigliare a dei monaste-ri. E questo favoriva una logica di autoreferen-zialità e di scarsa apertura. Oggi questo gusciosi è spaccato e noi gesuiti siamo molto più espo-sti e collegati con la vita quotidiana e ordinariadelle persone. La collaborazione non va ridotta al concetto dilavorare insieme, ma è nel cuore della missione,come ci ricorda la 35ª Congregazione Generale.Non sta dunque ai margini, è qualcosa che stanella struttura e che costituisce la missione perquello che effettivamente è. La «collaborazionenel cuore della missione» (Decreto 6) ci indicache il fatto di lavorare insieme è parte stessa delmessaggio che noi annunciamo. La relazione incui siamo impegnati nel nostro lavorare insiemeè una testimonianza del Vangelo che vogliamoannunciare. È un po’ quello che ci dice san Gio-vanni nel Vangelo: «Da come vi amate gli uni egli altri si vedrà se siete miei discepoli».In questo senso la collaborazione è costitutiva enon un accordo fatto in modo strumentale inordine a un obiettivo. Il Vangelo si annuncia ne-cessariamente insieme. Questo è uno schemanon facilmente recepibile dalla cultura contem-poranea, che, se da una parte chiede aggregazio-ne, dall’altra è altamente individualista. Basti ci-tare solo il titolo di un libro di Bauman “Missingcommunity”: la comunità manca e mi manca1.Molte domande su questioni relative alla so-

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La Compagnia di Gesùnel mondo che cambiaDI P. CARLO CASALONE S.I., Provinciale dei Gesuiti d’Italia

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cietà, alla qualità del legame sociale, sono rele-gate a risposte individuali. Si cercano soluzionipersonali a contraddizioni sistemiche. Un esem-pio fra tutti: la sicurezza. Si blindano le porte esi moltiplicano gli allarmi quando la vera que-stione è relativa alla fiducia nelle relazioni. Ilproblema è la qualità del nostro modo di convi-vere, la via è vincere la diffidenza, riuscire a darecredito gli uni gli altri, perché non c’è altro mo-do di far fronte al problema della sicurezza edell’insicurezza. Non è la società delle assicura-zioni che risolverà il problema.Il risultato è che da una parte abbiamo il deside-rio di risolvere, di far fronte, a queste domandecentrali della nostra società che generano paura,e dall’altra riscontriamo l’impossibilità di dare ri-sposte personali che invece sono quelle su cui sicerca di muoversi. Nella nostra società notiamouna visione dell’uomo fortemente individuali-sta che porta con sé la concezione contrattuali-stica delle relazioni e della convivenza umana. “La collaborazione nel cuore della missione” in-tende invece dire che la relazione è a monte diogni accordo successivo, alla base di tutto. Cosìla relazione fa parte dell’annuncio, della testi-monianza e della trasmissione del Vangelo chevogliamo comunicare.Siamo strutturalmente e originariamente in re-lazione: essa non è qualcosa che avviene dopo,attraverso un accordo in cui io posso entrare euscire come si fa con facebook dove mi possoconnettere e disconnettere quando voglio. Si ca-pisce allora come la genitorialità a cui avete fat-to cenno sia in crisi: se tutto viene letto in ter-mini di accordo e non in termini di relazionicostitutive. Ai miei genitori sono permanente-mente e definitivamente legato finché muoio,essi vengono prima di me perché mi mettono almondo. Tutto ciò si collega anche al tema del-l’autorità: sono autorevole se, venendo prima dite, ti trasmetto un mondo che genera speranza,possibilità di vita. Anteriorità e autorità sonostrettamente connesse.Mi sembra che oggi viviamo una crisi dell’auto-rità e della genitorialità perché noi, che venia-mo prima, trasmettiamo ai nostri figli e nipotiun mondo sfinito, un’economia indebitata. Ildebito pubblico ci indica che viviamo al di so-pra delle nostre possibilità, da cui l’importantequestione degli stili di vita, di cui avete trattato.La nostra autorità come genitori e padri gesuitiviene screditata completamente non tanto daidiscorsi che facciamo ma dal mondo che conse-gniamo ai nostri figli. Se consegniamo un mon-do in cui non si può vivere, le risorse non rin-novabili sono finite, il lavoro non c’è, mi dite

che autorità possiamo avere sui nostri figli? Larelazione precede dunque la libertà. Non scelgodi nascere, non scelgo di essere figlio, mi ci tro-vo. O si fa i conti con questo dato originario,oppure la libertà è fasulla perché non tiene con-to della realtà.La collaborazione tra gesuiti e laici non è quindifunzionale, strategico-operativa, per raccoglierequalche fondo, per mandare avanti qualcheopera, ma è insita nel cuore della missione. An-che noi gesuiti dobbiamo imparare a collabora-re tra di noi in modo sia sincronico (nel tempoin cui siamo insieme in un luogo) sia diacronico(quando un gesuita lascia il suo incarico a un al-tro confratello). Il gesuita deve essere capace diappassionare le persone a un progetto e di intro-durle: dobbiamo certamente crescere nella ca-pacità di coinvolgere i collaboratori nel cuoredella missione e nella sequela del Signore, trop-po spesso rischiamo di formare gruppi di genteaffezionata o addirittura dipendente da un sin-golo padre gesuita. Per questo sulla formazione siamo molto ag-guerriti e desiderosi di muoverci. Fin dal filoso-fato abbiamo studiato modalità che costringanoi gesuiti a interagire, a crescere in progetti ela-borati e realizzati insieme. Il tema della formazione vale tanto per i gesuitiquanto per i laici, in tutti i diversi settori apo-stolici. Il CIS, Centro Ignaziano di Spiritualità,va in questa direzione poiché realizza una reteapostolica ignaziana di cui fanno parte gesuiti,religiose e laici. Stiamo inoltre promuovendogruppi di lavoro e tavoli attorno a cui collabora-re. Siamo alla ricerca di metodi che favoriscanola partecipazione. Questo non significa che ilmodo di procedere della Compagnia sia demo-cratico. La distinzione tra il momento consulti-vo e quello decisionale è molto netta. Il primopuò coinvolgere molti, il secondo è proprio delSuperiore. E questo pone qualche differenza digoverno rispetto a profili organizzativi e giuridi-ci di tipo democratico. A dire il vero nella realtàle cose non sono così nettamente distinte: comediceva il Padre Peter Kolvenbach S.I., «la Com-pagnia è una monarchia assoluta temperata dal-la disobbedienza dei sudditi».

1 In italiano: Bauman Z., Voglia di comunità, Laterza 2008.

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LuiseLancio senza troppe premesse due dei temi sucui ci piacerebbe discutere con voi oggi: il pre-dominio della finanza sulla politica e la rottama-zione dei giovani che nonostante ciò provano adindicare una strada con indignazione e civiltàverso il bene comune. Il Vaticano, attraverso ilPontificio Consiglio per la Giustizia e la Pace,ha chiesto una riforma del sistema finanziario emonetario internazionale e un’autorità pubblicauniversale che governi la finanza. Chiede multi-lateralismo non solo in diplomazia ma per svi-luppo sostenibile e pace. Denuncia il rischio diuna generazione di tecnocrati che ignori il benecomune. La Chiesa chiede inoltre di tornare alprimato della politica sull’economia e la finan-za. Un’economia che abbia il bene comune alcentro. Su questo punto la politica vola bassissi-ma. Questa è la considerazione che giro ai no-stri due ospiti.

CivatiNon penso di dire niente di nuovo nell’affermareche in Italia la politica non funziona più. Oggisulle colonne del Corriere della Sera MassimoMucchetti parla del vero spread: la distanza tra l’I-talia e il resto del mondo. Secondo Mucchetti lapolitica italiana guarda solamente a se stessa inmodo narcisistico e non intercetta i temi caldi cheinteressano il paese, su tutti la questione giovani-le. A me non piace parlare di giovani rottamatorima di nuove generazioni che non hanno trovatorappresentanza, non hanno nessuno che li possaaccompagnare in un percorso non solo politicoma economico, di progetto del loro futuro.In questo momento di crisi dobbiamo esseretutti molto sobri. Questo, se volete, è il miospread con il sindaco di Firenze Matteo Renzi.Credo che bisogni tornare ad un utilizzo dellaparola pubblica molto attenta, cauta, responsa-bile. Non abituiamoci ad un impoverimentoconcettuale. Abbiamo bisogno di ritrovare an-che un po’ di compassione, parola che uniscechi è laico con chi è credente.

Ho partecipato alla manifestazione di San Gio-vanni organizzata dai giovani indignati. Unaprotesta sapiente il cui canone era quello dell’i-ronia, una novità per il nostro paese diviso daormai tanti anni tra il sarcasmo della sinistra ela violenza verbale della destra. Ancora oggi c’èun Bossi spericolato che ha celebrato Halloweendicendo che i giornalisti andrebbero appesi peril collo. I manifestanti hanno rappresentato ilconflitto sociale e politico con parole diverse. Eallora vanno sostenuti, vanno accompagnatiperché non hanno niente a che vedere con iblack bloc. I ragazzi non ci stanno ad essere gli unici a pa-gare il debito pubblico che non hanno contri-buito a creare. Questo paese deve sapere rispon-dere alla Banca Centrale Europea ma anche aloro. In questo quadro la richiesta di un nuovogruppo dirigente che guidi questo paese non èda banalizzare. Più che una questione anagrafi-ca, il punto è che in Italia si parla poco di queitemi vicini alle nuove generazioni. Prendiamol’ambiente: il Partito Democratico (PD) si è at-trezzato con una corrente, gli EcoDem, di cuifanno parte però solo quattro persone. Scrivonodocumenti bellissimi che però sono poco letti.Un altro tema è l’orizzontalità della rete. Vengoancora considerato strano perché ho un blog!C’è poi il tema della disuguaglianza: dobbiamoritrovare la giusta misura tra chi lavora e chi vi-ve di speculazione. Il rischio è che i giovani si convincano che siatempo buttato quello impiegato per conseguireuna laurea. In altre parole abbiamo bisogno dirimettere a posto le cose, ci vuole una nuova sta-gione. Come a Pompei, sembra che siamo im-mobili da secoli. Se leggete i giornali di oggi sco-prirete le stesse notizie del 1994: crisi della giu-stizia, della situazione economica, i conti chenon tornano. Ma io nel 1994 facevo la maturità! Oggi abbiamo davanti a noi una grande occa-sione per restituire alla politica il suo ruolo. Manon dobbiamo dividerci in personalismi. Perquesto guardo con particolare interesse all’uni-

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Quale politicaper il bene comuneTAVOLA ROTONDA CON GIUSEPPE CIVATI (PD) E PAOLA BINETTI (UDC) MODERATA DA RAFFAELE LUISE, VATICANISTA RAI

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versalità della Chiesa e dunque al vostro mes-saggio come CVX. Ci dovrebbe essere anche unmessaggio universale della politica, universalevuol dire che su alcuni temi ci sia un certo gra-do di condivisione: efficaci armonizzatori socia-li, distribuzione della ricchezza, la società deveessere protagonista, le primarie per scegliere iparlamentari. Reciprocità, ascolto e rispetto de-vono prendere il posto dell’anticlericalismo. Dalcanto suo la Chiesa dovrebbe abbandonare sualcune questioni un irrigidimento dogmatico.L’importante è mettersi a diposizione per unconfronto vero, troviamo un punto di media-zione non al ribasso, d’altronde era proprio perquesto che abbiamo fondato il PD. Laici e cat-tolici non devono distinguersi all’interno delpartito. Siamo chiamati a una sintesi difficileche purtroppo, lo ammetto, con il tempo si èun po’ immiserita. Non capisco perché abbia-mo fatto diventare eticamente sensibili delle co-se che non lo sono. Non tocco i temi della vita,della nascita e della morte. Penso però alla situa-zione delle coppie di fatto: riusciamo a dire chesono diverse dalla legge 40 e dalla legge sul te-stamento biologico?

BinettiIl primo tema che voglio affrontare è quello diuna civiltà che invecchia. Questo dobbiamodirlo con chiarezza. In Italia, e un po’ in tutto ilmondo occidentale, ci troviamo davanti a unprocesso di invecchiamento. Se avremo la luci-dità di capirlo e il coraggio di affrontarlo riusci-remo a tenere viva la cultura e la tradizione diuna realtà che sta per finire. Oggi parliamo tanto del deficit della Grecia sen-

za ricordarci che il popolo greco in fatto di filo-sofia, matematica e medicina, arte e scultura haprodotto a oggi le migliori manifestazioni almondo. Eppure la Grecia oggi sembra non averepiù nulla da dare. Per non parlare di Roma: unacittà che nell’antichità era famosa per la tecnicadi costruzione delle strade e opere di ingegneriae che oggi in termini di grandi opere lascia mol-to a desiderare. Questo ragionamento vale pernoi quanto per la Spagna, l’Inghilterra e così via.Le epoche danno molto di sé ma a un certopunto quel momento finisce. Noi stiamo viven-do un passaggio epocale che non è solo un pas-saggio di leadership. È il modello ad essere cam-biato. Pochi si ricordano quando l’economia erauna branca della filosofia morale. L’economia haperso totalmente il senso delle sue radici e nelsuo processo di sganciamento, di autonomia, haperso la sua identità. L’economia è una grandescienza dei mezzi e non dei fini. Noi abbiamobisogno di mantenere la scienza dei fini, rive-dendo quella che è la scienza dei mezzi. Questasorta di ipertrofia economico-finanziaria haportato al paradosso che l’1 per cento della po-polazione mondiale detiene una ricchezza incre-dibile. Ogni giorno tocchiamo con mano laperdita totale di un sistema di sicurezze sociali,di welfare, che era la ricchezza totale della cul-tura occidentale. Non possiamo perdere la cultura di un sistemadi welfare che si fa a carico di chi versa in con-dizioni di fragilità per motivi di salute, età e di-sparità sociale. Questa è la cultura occidentaledalle profonde radici cristiane, vedete allora co-me l’abbassarsi all’incontro con Dio significhideclinare una carità intelligente e illuminata cheè fatta di opportunità. Con quest’ottica la classedirigente si fa servizio e diventa opportunità dipromozione. Questo è il patrimonio che ci vie-ne dalle nostre radici cristiane. E allora permet-tetemi dire che siamo tutti indignati, non solo igiovani. Tra l’altro, sul Corriere della Sera di ieri,ho letto che oggi la generazione più massacrataè quella delle donne cinquantenni. Siamo indi-gnati a volte con noi stessi per aver perso il sa-pore della primitiva carità. Il tema vero dell’in-dignazione è dunque il tema della nostra coe-renza. Condivido l’indignazione dei trentenniperché su di loro si sta facendo un’operazioneche impedisce il rinnovamento di cui abbiamoestremo bisogno. È urgente guardare i problemiinediti con uno sguardo nuovo, ma allo stessoabbiamo anche bisogno di pensare a problemivecchi con chiavi di risoluzione diversa. Neces-sitiamo dell’intelligenza di chi non dice “si èsempre fatto così”. Dobbiamo aprire nuovi spa-

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zi ai giovani, permettere loro di inserirsi, recu-perando quella dimensione e propensione al ri-schio che con tutto rispetto per gli amici tren-tenni noi sessantenni quando avevano trentaanni avevamo bene in mente. C’era meno palu-damento burocratico, questo lo ammetto. Ave-vamo meno fili che ci tenevano, ma avevamo lapropensione al rischio ed è questo che dobbia-mo liberare nei ragazzi. Su tutti questi temi auspico l’unità dei cristiani.L’unità è possibile nella misura in cui i cristianisono realmente cristiani, ovvero si riconoscononei parametri di riferimento della figura di Cri-sto. L’unità dei cattolici auspicata nel recenteconvegno di Todi non sarà stata solo un’interes-sante iniziativa, non sarà stata una bolla di spe-culazione mediatica, nella misura in cui a titolopersonale e di rappresentanza ciascuno dei par-tecipanti crederà e si batterà ogni giorno per l’u-nità dei valori cristiani.A Todi non è stato redatto un manifesto, ma so-no stati riproposti dei valori. Per esprimere que-sta unità dobbiamo sapere su cosa dobbiamo es-sere uniti. Dal mio punto di vista non ho dubbinel dire che ciò che ci unisce è la dottrina socia-le della Chiesa. Nessuna dipendenza dalla gerar-chia ma dai criteri, dalla dottrina sociale. Con-frontiamoci su questa. Già nel 1967 Paolo VIha detto nella Populorum Progressio che i laicidevono assumere come loro compito specifico ilrinnovamento dell’ordine temporaneo. Il tema dunque non è l’eventuale formazione diun partito dei cattolici. La sfida è il dialogo tracattolici e cattolici. Non si capisce perché separlo con Civati debbo stressare al massimo ipunti di convergenza e spingere ai lati le diver-

sità. Viceversa all’interno del mondo cattolico sistressano al massimo le differenze minimizzan-do i punti di contatto. Riscopriamo allora un’espressione di Paolo VI:una fede che si fa vita, una vita che si fa cultura,una cultura che si fa politica. Tutti questi pas-saggi sono necessari. Da Todi viene fuori una fe-de che si fa vita e una vita che si fa cultura.Adesso vediamo il passaggio da una cultura chesi fa politica. Vi posso garantire che in tutti ipartiti sono presenti splendide figure di colleghicredenti. Cosa riusciamo a fare oggi nel quadropolitico attuale, o cosa siamo colpevoli di nonfare? All’interno del proprio partito ognuno dinoi fa soprattutto un’azione di resistenza rispet-to a derive decisionali che potrebbero essere incontrasto con i nostri valori. Distribuiti nei di-versi partiti i cattolici riescono dunque a fareprevalentemente un’azione di contenimento. Di che cosa ha bisogno il paese? Di propostenuove che rimettano in movimento la situazio-ne economica, i giovani, ma l’Italia deve ancherimettere in primo piano alcuni valori senzaavere paura di essere bollata come medievale, re-trograda, moralista e così via. Dobbiamo torna-re a parlare di verità, sobrietà, carità, rispettoper gli altri, questi sono i nostri valori. Occorre un partito unico? No. Serve allearsi? Sì.Questa alleanza deve durare per l’eternità? No,le formule politiche intercettano i bisogni deltempo, ciò che è utile e necessario oggi potreb-be non esserlo tra cinque anni. Abbiamo biso-gno di modelli per raggiungere un fine, che è ilbene comune. Ma il bene comune va raggiuntoinsieme, senno non è né bene comune nel mo-do, né nel fine.

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So che prima di me con Civati e Binetti ave-te parlato dell’indignazione dei giovani.Anche io voglio partire da questo tema rac-

contandovi la storia di un indignato. Si chiamaSalvatore Borsellino, fratello minore di Paolo.Salvatore ha un’energia incredibile e una granderabbia dentro che finirà, così lui mi ha confessa-to, solo quando saranno individuati i mandantie gli esecutori della strage di Capaci. Stiamoparlando di una rabbia positiva perché non si ètradotta mai in una cattiveria fine a se stessa oun’indignazione che ti tieni dentro in modo in-timistico. È una rabbia che semina i valori dellalegalità, che segna la voglia di mettersi in cam-mino, di non tenere le mani in tasca ma di tirar-le fuori per lavorare, come diceva don Milani.Di questa indignazione il nostro paese ha tantobisogno. Gli indifferenti a volte sono peggio dei collusi. Icollusi fanno una scelta di vita di fronte l’autaut, gli agnostici rimangono a guardare e nono-stante ciò sono pontificano e predicano più dichiunque altro. Nei momenti di crisi ognuno di noi deve farequalcosa di più rispetto al normale, anche se bi-sogna ammettere che oggi fare cose ordinariecome comportarsi onestamente, rispettare i va-

lori, appare come qualcosa di rivoluzionario.Chi sente qualcosa in più per il bene comune, sideve mettere in cammino. Da questo tipo di ri-flessione è nata la decisione di candidarmi a sin-daco di Napoli. Luigi Settembrini diceva che inalcuni momenti storici più che ai sani bisognaaffidarsi ai folli. Questo non vuol dire che ilnuovo sindaco di Napoli sia un folle ma piutto-sto che se io avessi dovuto fare una scelta razio-nale non avrei mai deciso di candidarmi. Peresempio mia moglie era contraria. Mi disse chese mi fossi candidato quella era la prova defini-tiva della mia follia.Prima di diventare primo cittadino di Napoli ri-coprivo il ruolo di parlamentare europeo che,per quanto faticoso, è un lavoro molto interes-sate. Girando l’Europa ho visto troppi giovanimeridionali che non per scelta hanno dovuto la-sciare l’Italia perché non trovavano lavoro o nonaccettavano di chiedere l’elemosina a qualcunoper averlo. Il lavoro così non diventa più un di-ritto. Questi giovani mi hanno spinto a metter-mi in gioco per Napoli e per questo non è uncaso che ho fortemente voluto l’assessorato aibeni comuni e alla democrazia partecipativa. Ilconcetto di bene comune è straordinario e rap-presenta un punto chiave per la politica. I benicomuni non sono dello stato ma della colletti-vità. L’acqua, il mare, il paesaggio, l’arte, la sto-ria, il sapere, la conoscenza, la cultura, dobbia-mo difendere questi beni comuni perché appar-tengono a tutti noi. Abbiamo dunque il doveredi preservare il centro storico di Napoli e Pom-pei. E poi, al di là di quello che pensa qualcuno,con la cultura e con i beni comuni si “mangia”,si creano posti di lavoro, ci arriva anche mio fi-glio piccolo Peppino. Dobbiamo lavorare per costruire la globalizza-zione dei diritti. Visto che l’Unione Europea ènata come mercato libero siamo più abituati ariflettere sulla globalizzazione dei mercati, chepoi è diventata anche dei mercanti, e poco suquella dei diritti. Ritengo quanto meno curiosoche le merci possano circolare liberamente da

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Indifferenzapeggiore della collusioneDI LUIGI DE MAGISTRIS, Sindaco di Napoli

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una parte all’altra del globo mentre gli esseriumani li incriminiamo per reati come l’immi-grazione clandestina. Nella mia vita ci sono sta-ti due libri che mi hanno sempre aiutato: la Co-stituzione repubblicana e il Vangelo. E allora èbene ricordare che il primo immigrato clande-stino della storia si chiama Gesù Cristo. All’inizio della mia campagna elettorale avevoun po’ tutti contro e il clima in città era di ras-segnazione totale. Con il passare delle settimaneho visto però trasformare, soprattutto nei giova-ni, questa depressione in indignazione e in mo-bilitazione. Altro che anti politica descritta daigiornali, chi vuole lasciare lo status quo la chia-ma così. L’anti politica a Napoli non c’entra,magari c’è l’anti casta, l’anti sistema, l’anti par-titocrazia, l’anti cricca, l’anti mafia... A Napolitraspira una straordinaria voglia nei giovani emeno giovani di partecipare alla vita politica delnostro paese. Quando discutiamo della Costi-tuzione nelle scuole, parliamo di politica, nelsuo significato più nobile. Oggi l’apparenza e l’avere contano più dell’esse-re. Il modello è quello che gli altri ti fanno di-ventare e non quello che tu veramente desideriche sia. Il valore sembra oggi riconducibile alleveline, a chi partecipa al grande fratello, alleescort che a detta di qualcuno hanno perfinoemancipato la donna. Così l’operaio e l’impie-gato diventano dei fessi. Penso proprio che abbiamo bisogno di una ri-voluzione pacifica. Lo stesso Falcone era con-vinto che solo una rivoluzione culturale puòsconfiggere le mafie. La sconfitta del malaffarenon passa solo per il lavoro delle forze dell’ordi-ne e dei magistrati perché da un lato cresce l’in-quinamento al loro interno e dall’altro non èpossibile delegare solo ai servitori dello stato co-raggiosi ed onesti un lavoro collettivo per i benicomuni. Che un magistrato parli di legalità èimportante, ma è straordinariamente normale.Quello che è davvero importante è vedere unpregiudicato che riconosce come valori il lavoroper la comunità e non il profitto senza regole.Questo è un messaggio rivoluzionario.E allora che lavoriamo affinché crescano asso-ciazioni, movimenti, luoghi d’incontro, perchédobbiamo togliere le persone da davanti allaTV. Punto molto a Napoli sulle pedonalizzazio-ni, ZTL, perché le città devono essere vissute.Ho fatto un’ordinanza per liberalizzare gli arti-sti di strada, il Mezzogiorno è pieno di creati-vità e non di finanza creativa. Creatività intesacome capacità di creare. In questo modo co-struiremo una nuova classe dirigente, che nonnasce da esperimenti in laboratorio. Ma si deve

dare fiducia alle persone che credono di poterfar politica senza sporcarsi le mani. Parallelamente deve però finire anche la stagio-ne della delega, ovvero l’atteggiamento di colo-ro che dopo aver votato si disinteressano dellacosa pubblica. L’immagine che ci deve essere diesempio è quella del quarto stato, del popoloche si mette in movimento e cammina. L’indi-gnazione deve sfociare nella partecipazione enon nella violenza fine a se stessa che non hamai portato da nessuna parte. Chi ha cuore nonha bisogno di seminare i valori dell’odio e pro-fitto senza regole. Sono certo che per riappropriarsi dei valori dicui vi sto parlando è necessario un contributonon solo dal mondo cattolico ma da tutte le re-ligioni. In questa direzione va la firma del Pro-tocollo di Pace a Piazza Dante a Napoli, eventoche ho organizzato con il cardinale Sepe, da par-te di tutti i responsabili e capi di tutte le religio-ni presenti nel comune. È stata una giornatastraordinaria, lo dico da laico, credente e catto-lico. Mi sono impegnato affinché ci siano a Na-poli luoghi adeguati anche per le comunità isla-miche, ebraiche. Io credo al dialogo tra le reli-gioni e i popoli e Napoli può diventare unlaboratorio di pace internazionale.

GLI INTERVENTI DEL CONVEGNO DI POMPEI

24 · CRISTIANI NEL MONDO · GENNAIO-FEBBRAIO 2012

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