"A-Zero dell'opera d'arte di Gino Cilio" a cura di Lidia Pizzo

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LIDIA PIZZO M O N O G R A F I A L’ A – Z E R O D E L L’ O P E R A D’ A R T E D I G I N O B. C I L I O 1

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Lidia Pizzo, curando la monografia "A-Zero dell'opera d'arte di Gino Cilio", ha voluto rendere problematica l'attuale eclissi delle Avanguardie, dell'arte, della critica, del mercato, per aprire sulla prospettiva artistica di una nuova epoca, che la stessa indica come "Civiltà dei byte"

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LIDIA PIZZO

M O N O G R A F I A

L’ A – Z E R O D E L L’ O P E R A D’ A R T E D I G I N O B. C I L I O

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INDICE

Prefazione pag. 7

Profilo biografico ed artistico pag. 9 Breve nota sulle Avanguardie pag. 18

L’opera d’arte tra scetticismoe Metafisica pag. 26

Eclissi dell’opera d’arte? pag. 42

Eclissi della critica pag. 57

Opera d’arte come “rumore”Eclissi del mercato pag. 69

Postfazione: l’A-Zero dell’opera d’arte pag. 75tra Postmoderno e Civiltà dei byte

Curriculum pag. 82

Bibliografia pag. 84

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GINO B. CILIO OPER-AZIONE “A – ZERO” A cura di Lidia Pizzo

A-Zero Superficie A-Zero Forma A-Zero Struttura A-Zero Linguaggio A-Zero Tecnica A-Zero ConcettoA-Zero Fruizione A-Zero Estetica

A-Zerare la superficie, A-Zerare la forma, A-Zerare la struttura, A-Zerare il linguaggio, A-Zerare la tecnica, A-Zerare il concetto, A-Zerare la fruizione, A-Zerare l’estetica.Di tutto il sistema dell’arte cosa lascia Cilio? Solo un indizio. Egli nel suo operare non fa altro che ricondurre espressioni artistiche complesse e complete ad elementi semplici, non ulteriormente riducibili, in una parola atomici.L’atomo di questo processo è rappresentato da un indizio intenzionale, artificiale e convenzionale, il cui scopo è dare un bit di comunicazione agli altri: e se c’è comunicazione, l’indizio è un segno il cui designatum è la presenza di un evento-non-evento artistico in un determinato luogo deputato o meno.Il segno, poi, presuppone un interprete che, nel nostro caso, si identifica con il fruitore ma che potrebbe identificarsi con l’artista stesso. Essi vedono nel segno una traccia psichica, un impulso che potrebbe portarli a mettere in moto l’immaginazione, ad evocare una fantasia, in una parola ad interpretare il segno.E se nell’atto della percezione spettatore ed artista (spettatore potrebbe essere l’artista, come già ribadito) sono in posizione sincronica in quanto possibili creatori di ogni forma d’arte, nell’atto della creatività o della possibilità della creatività sono diacronici, perché ognuno sarà portatore della sua personale sensibilità, della sua immaginazione, della sua Weltanschauung, ecc.…In altri termini, l’indizio lasciato dall’artista si denota come unità significante, ma contemporaneamente per il luogo o i luoghi in cui è posto si connota come significativo, in quanto espressione di un pensiero che l’artista ha intenzionato come tale, essendovi sottesa una struttura concettuale minima. Intanto, l’indizio divenuto segno di qualcosa che convenzionalmente e abitualmente è interpretato come portatore di espressioni estetiche, si trasforma in simbolo di un concetto di arte il cui

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senso dipende da chi lo interpreta e lo usa. Nel nostro caso comunicherà la possibilità di arte, l’aspettativa dell’arte.L’imput dato dal simbolo servirà da autput per arrivare alla rappresentazione, oppure all’intuizione soggettiva del concetto di arte.Alle tre funzioni cui le immagini di qualsiasi opera d’arte adempiono: segno, simbolo e rappresentazione, l’ A-Zero toglie la rappresentazione, di conseguenza anche il segno e il simbolo vengono fortemente scarnificati e possono assumere la loro funzione originaria solo se il fruitore vi interverrà. L’affermazione di Gombrich: “L’arte ha una storia, ha degli stili, a differenza delle percezioni e dei sogni che non ne hanno” viene interpretata dall’artista: l’arte non ha più storia né stili, i sogni e le percezioni del fruitore vi daranno una storia e uno stile.I canoni estetici, i codici formali, le tendenze del gusto hanno per troppo tempo imbrigliato la creatività dell’artista, ora lui ha gettato la spugna, lascia agli altri la responsabilità del “fare”.Cilio con l’A-Zero ha ridotto il sistema dell’arte, di ogni arte, secondo la teoria dell’informazione, a “rumore”. Infatti, nel momento in cui in un ri-quadro vuoto di superficie potrebbero concentrarsi tutte le possibilità estetiche, avremmo l’equivalente del suono bianco in musica.Dice U. Eco in “Opera aperta”: “Un’opera è aperta sinchè rimane opera, oltre questo limite si ha l’apertura come rumore”. Ma, in ultima analisi, il rumore intenzionato come tale si configura come segnale, ma laddove esiste un segnale, esiste un emittente e un ricevente in rapporto comunicativo. Sarà l’interpretazione del ricevente che darà valore a quel bit di informazione, al segnale, che a tal punto diventerà messaggio significante a funzione emotiva.In altri termini, lo “spazio” dell’opera “svuotato” dall’emittente (in questo caso dall’artista) si configura come “campo” su cui l’artista non ha lasciato alcuna impronta personale, nessuna parola, nessuna apertura ad una possibile fruizione, ma solo uno stimolo, un indizio, un segno su cui il ricevente “lavorerà”, poiché tutto il dicibile e il rappresentabile non appartiene all’artista ma all’umanità tutta al di là di lingue, razze, religioni, latitudini, ecc…Del mito dell’arte cosa resta?Soltanto un atto rituale, compiuto in luoghi più o meno deputati, in quanto sequenza di gesti, di azioni di comportamenti di natura significativa o simbolica rivolti ad una comunità sia artistica che extrartistica.Gesti, azioni, comportamenti e solo gesti, azioni, comportamenti creano negli spettatori-attori delle varie arti determinati effetti psicologici molto vicini ai riti di iniziazione. In ogni caso questa ritualità è un atto comunicativo poiché fornisce un codice atomico di informazione, il quale crea un effetto psicologico che induce ad avere dinanzi all’indizio, al segno, al simbolo, al rito una reazione, a formulare nell’intimo un pensiero, proprio perché, attraverso il rituale, il reale si concettualizza in riflessione, pausa, tappa.RI-COMINCIARE?

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C I L I O ’ S “A-ZERO”

An-nhilate the Surface An-nihilate the FormAn-nihilate the Structure An-nihilate the language An-nhilate the Technique An-nihilate the Concept An-nihilate the Fruition An-nihilate the Aesthetics. What remains in Cilio’s stylistic art? Just a hint of the complexity evidenced in his art work through the use of simplicistic elements that cannot be reduced any further. In one word atomic minutiae, the tiniest form of being. This atomic concept of art is presented with an intentional, artificial and conventional evidence, whose design is to give a bit of communication to others, and, if there is communication, then the indication is a sign, whose designatum is the presence of an artistic phenomenon-or-not in a specific or not specific place. The evidence, then, requires the presence of an interpreter, who in our case is identified by the attentive observer, but he also can identify himself with the very artist. They behold in the evidence a psychological trace, an impulse that puts in motion their imagination, evochig a fantasy, in a word to interpret the evidence.

And if in the act of perception the spectator and artist ( the spectator can be the artist himself, as already mentioned ) are in a syncronous position (as they are potential creators of every form of art),in the act of creativity or in the possibility of creativity, they are diacritical because each of them will be a promoter of his own feelings, imagination, Weltanschauung, etc... In other words, the evidence pointed out by the artist denotes a significant unit. At the same time, due to the place or places in which the evidence is allocated, it connotes itself as meaningful. Infact, it is an expression of thought that the artist premeditates as such, and this implies a minimal conceptual form. Meanwhile the evidence having become a sign of something, which usually and conventonally is interpreted as a means of aesthetics expression, it becomes then a symbol of concept of art. Its meaning depends on who interprets it and uses it. In our case, it will express the possibility of art and its expectation. The imput given by the symbol will be used as output to achieve the artistc performance or the subjective intuition of the concept of art. Of the three functions to which the images of every work of art fulfil – sign,symbol, performance – Cilio’s A-Zero eliminates the performance. Consequentially, even the sign and the symbol are

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reduced and they assume their original task only if the attentive observer will intervene. Gombrich’s affirmation. “ Art has its history, its styles in contrast with perceptions and dreams which have not any...” is interpreted by the artist: art has no longer history or style, the observer’s dreams and perceptions will give us a history and style. The aesthetics patterns, the formal codes, the artistic tendency, etc... have curbed the artist’s creativity for too much time. Now, he has surrendered, he has left to others the responsability of “doing”. According to the information theory, Cilio’s A-Zero has reduced the system of art, of every art, to a “noise”. In fact, at the moment in which we concentrate all the aesthetics performances in a empty framework, we will have the equivalent of the white sound in music. In “Opera aperta”, Umberto Eco says. “ A work of art is extended until it stays a work of art. Beyond this limit the extension becomes a noise.” In conclusion, the noise, intended so, configures a signal. But if there is a signal, then there will be two interlocutors who correlate in a comunicative relationship.The respondent’s interpretation will give value to that bit of information ( the signal ) which now becomes a significant message with emotional functions.

In other words, the “space” of the work of art emptied by the artist configures as a “field” in which the artist has not left any personal marks, any interpretation of what it is real, any surface, any words, any access to a possible fruition, but only an impulse, a hint, an evidence, on which the respondent “will work”. In fact, all the things said and shown do not belong to the artist, but to humanity as a whole without any difference of language, race, religion, latitude, etc... What remains of the myth of art?Just the ritual act fulfilled in places more or less specific. It is a sequence of gestures, actions, symbolic and significant behaviours applied to both artistc and extra-artistic comunities. Gesture, actions, behaviours and only gestures, actions and behaviours develop in the spectator---actors of various arts specific psycological effects very near to initiatory rites. In any case, this rituality is a communicative act. It gives an informative, atomic code, which creates a psychological effect, leading to a reaction in the presence of indication, evidence, symbols, rites, leading to the formation of an idea in one’s intimate being, only because it is through the ritual that the real becomes a concept of meditation, pause, halt. Shall we -start all over again?...

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PREFAZIONE

Un’operazione, apparentemente marginale nel mondo dell’arte, l’ “A-Zero” di Gino B. Cilio dibattuta tra il 2003 e il 2004 in diverse città d’Italia, propone tutta una serie di interrogativi e problematiche connesse con l’estetica, l’etica, la critica d’arte, il mercato, il ruolo delle Avanguardie e così via. Quattro non-cataloghi di formato minuscolo ed accattivante, ognuno dei quali fustellato al centro in forma di quadrato, hanno fatto il giro tra molti addetti ai lavori.Il primo dei “non- cataloghi”, sulla copertina, ha un nome, Gino Cilio, ed un titolo, “Opere”, il secondo ha solo il nome dell’artista, il terzo solo il titolo, il quarto è assolutamente anonimo.All’interno trentasei pagine bianche e sempre fustellate al centro in forma di quadrato.Non esiste riproduzione di alcuna opera, solo l’assolutezza di un riquadro vuoto . Il catalogo ha sempre testimoniato un evento costituito da un mostra di opere, ma mostra non c’è stata, quindi ci si trova in presenza di una non-mostra e di quattro non-cataloghi, allegata ai quali c’è una nota rigorosamente anonima con una dichiarazione di poetica: A-Zero Forma, A-Zero Struttura, A-Zero Linguaggio, A-Zero Tecnica, A-Zero Concetto, A-Zero Fruizione, A-Zero Superficie, A-Zero Estetica. Pertanto, se dovessimo tenere fede a questa poetica, le argomentazioni che seguono non dovrebbero essere stilate.Noi sosteniamo, invece, da non addetti ai lavori ma da semplici amateur, e pertanto fuori da ogni sistema dell’arte, con Michael

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Dummett che: “La lingua sarà uno specchio deformante ma è l’unico specchio che abbiamo”.E di quest’unica possibilità ci serviamo per dare il “nostro” senso al gesto iconoclasta di Cilio. Inoltre, nello stilare queste note sono state prese in considerazione più aspetti dello stesso problema che potrebbero risultare contraddittori. In effetti, l’istituire delle contraddizioni risponde alla precisa volontà di dare a questo scritto valenza positiva poiché si crea in tal modo un deuteragonista, (figura che la contemporaneità ha dimenticato perché gli individui sono omologati gli uni agli altri attraverso una diffusa estetizzazione della vita) con cui confrontarsi e quindi superarlo per trovare risposte più probanti al nostro esserci piuttosto che al nostro non esserci, proprio perché il linguaggio è l’unica possibilità che abbiamo per sottolinearlo.L’operazione “A-Zero”, intanto, nella sua dizione risulta ambigua: se è una locuzione avverbiale, essa ha la funzione di modificare il significato della parola cui si accompagna: superficie, forma, struttura……ma, il trattino è ambiguo non rende assolutamente chiaro che trattasi di una locuzione.“A-Zero”, allora, è verbo, quindi sottintende un’azione, un modo di essere, lo stato di una cosa o di una persona ed indica una situazione che informa su di un fatto o su un evento.Ma né fatto, né evento vi sono stati perché l’evento è un non-evento e il catalogo un non-catalogo di una non-mostra.Comunque sia locuzione o verbo, di primo acchito, l’operazione può configurarsi come un “non sense” in quanto va contro il senso comune che vorrebbe il catalogo come la risultante di un evento. Ma il non sense presuppone un minimo di linguaggio, ma qui non ve n’è alcuno.Sarebbe più corretto, allora, parlare di assurdo , ma un’operazione assurda è priva di logica, tuttavia logica esiste, e ben confezionata, come recita la nota allegata ai non-cataloghi.Rimane il paradosso. Esso contraddice il reale, va contro l’esperienza comune che vuole che un evento artistico si verifichi in un luogo, qualunque esso sia, deputato o meno, e in un tempo stabilito in cui l’artista mostra ad un pubblico la sua opera.Ma l’opera non c’è. Ecco il paradosso che suggerisce, come sostenuto in esergo, una serie di interrogativi.Tra l’altro la scomparsa del nome dell’artista rende nulla ogni operazione linguistica a funzione poetica, semmai resta solo la funzione informativa da parte di un individuo determinata da un indizio intenzionale, artificiale e convenzionale costituito dai non-cataloghi. Anche il rito della vernissage è messo in parentesi: l’opera d’arte è insignificante nell’era della “Civiltà dei Byte”, nell’era dell’estetismo estenuato ed estenuante contemporaneo persa com’è in quel mare di immagini che la quotidianità ci propone.

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L’inflazione dell’immagine ha raggiunto il suo apice. In cima è opportuno, dopo la faticosa salita, fermarsi e riflettere. Riflettere soprattutto sul titolo che l’uomo Cilio ha dato ad un “Ri-Quadro” vuoto di superficie formato solo dai quattro listelli che avrebbero dovuto sottendere il piano pittorico: 1 + Uno, in cui l’1 si riferisce al riquadro vuoto appunto e quindi si configura come operazione scettica, mentre il + Uno, laddove la seconda opera manca e quindi in effetti quel più Uno è meno Uno quindi zero onde “A-Zero”, rimanda certamente alla totalità, all’Assoluto, al Nulla ed è quindi operazione positiva.. Essa ci consegna nel non-luogo della dimensione spaziale, nel non-essere della dimensione temporale e dunque in un assoluto che contiene il non essere del mondo, che contiene per converso ogni possibilità. In tal senso l’arte si è liberata dalla materia e quindi anche dalla morte.In questo contesto, allora, questa operazione risulta fondamentale e centrale nel sistema dell’arte contemporanea perché disimpegna finalmente l’artista dall’ossessione dell’oggetto opera d’arte che ha nutrito da molti decenni a questa parte molte personalità da Duchamp, a Piero Manzoni, a Carlo Alfano, ad Ad Reinhard, ecc….Nessuno di questi, però, si era spinto tanto oltre da giungere all’insignificanza del gesto artistico.Svincolati da questa ossessione assume senso, paradossalmente, la totalità del non-essere dell’opera.Infatti, molti artisti hanno scarnificato sia il segno che il colore per introdurre nell’opera il massimo grado di spiritualità da Mallarme in poi, passando per Malevic, Mondrian, Yves Klein, Mark Rothko, Ettore Spalletti, Anish Capoor e molti altri.Tuttavia, ci sembra necessario dire che il vuoto e il nulla dell’arte, se è vero che la creatività è inscritta nel DNA dell’uomo che lo ha portato a raggiungere spazi siderali in senso reale e metaforico, è creato dagli artisti, tanto è vero che per indicarlo Cilio si è servito della dizione Uno, e quindi non ha potuto prescindere dal linguaggio.Il viaggio, lì, nella geografia interiore, allora, è solo iniziatico, darà a Cilio la forza per la risalita che è poi la scoperta che lì lui dimorava da sempre, come tutti noi. L.P

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PROFILO BIOGRAFICO ED ARTISTICO

Fuga, irrequietezza, destino, dannazione, la vocazione di Gino B. Cilio per l’arte fatta di continue ricerche e superamenti che si concretizza in una produzione assai vasta ed articolata di non facile schematizzazione.Nasce in Sicilia a Grammichele, provincia di Catania, il 15 aprile del 1936, ove rimane solo qualche anno. La famiglia, infatti, si trasferisce a Noto, “giardino di Pietra”, come ebbe a scrivere Cesare Brandi, ricostruita dopo il terribile terremoto del 1693 in originali strutture architettoniche barocche che ne hanno fatto un patrimonio

dell’umanità protetta dall’Unesco.A Siracusa, sfidando ogni decisione paterna che avrebbe voluto per lui la carriera di Ippocrate, frequenta l’Istituto d’Arte con ottimo profitto. Ben presto abbandona lo studio sistematico per stabilirsi a Milano, ove soggiorna qualche anno e ove, pur continuando a produrre opere pittoriche, lavora nello studio di Arti Applicate Fornasetti.

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Da lì si trasferisce a Palermo per completare gli studi e conseguire il diploma presso l’Istituto Statale d’Arte. Successivamente si sposta a Roma. Qui frequenta l’Accademia Statale di Belle Arti e contemporaneamente inizia la sua carriera espositiva nelle principali gallerie: Il Mascherino, I Volsci, L’Agostiniana, Palazzo delle Esposizioni, ecc…. Il suo costante bisogno di confronto con altri artisti lo porta, ben presto, ad abbandonare Roma per Salisburgo, ove Oscar Kokoschka aveva fondato e dirigeva l’ Accademia Internazionale a cui lui stesso aveva dato il nome di “Scuola del vedere” e dove insegnava ai suoi allievi, facendosi maestro di arte e di umanità, a prendere coscienza del fatto che attraverso la pratica dell’arte si può esorcizzare il contenuto terrifico della morte sempre presente nella vita.Cilio, qui, assorbe ogni visionarietà del linguaggio kokoschkiano fatto di segni brulicanti di colore e diviene un allievo fra i prediletti del maestro che, quando era soddisfatto dei lavori dei suoi discepoli, ordinava: “al muro!”. Ed “al muro” erano tante le opere del Nostro che “tradisce”, però, presto il suo maestro.L’irrequietezza, infatti, lo porta verso altre esperienze, ad esempio

verso la grafica, insegnata allora dal maestro Slavij Soucek nella stessa Accademia, che lo vede primo nel concorso di grafica riservato appunto agli allievi della medesima. Lasciata Salisburgo, torna a Roma ove dirige l’ Accademia di Belle Arti del Circolo Romano di Cultura frequentata da artisti italiani e stranieri e contemporaneamente lavora presso la Direzione Centrale dell’ IRI come grafico insieme con il maestro Corrado Cagli.Nel frattempo l’attività espositiva si intensifica ed il giovane Cilio è interessato alle problematiche religiose, che in quel momento sono centrali per la Chiesa di Roma, la quale aveva indetto il Concilio Vaticano II°. L’artista tratta le varie tematiche con vena ironica e critica servendosi

di una neofigurazione in cui una forte e sicura gestualità, cifra sempre distintiva dell’artista, sottende un segno deciso che evoca dall’informe la forma riconoscibile, in grado di strappare il velo alle ambiguità di un rinnovato “sistema” religioso.

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Tornato a Noto fonda e gestisce il Centro culturale “La stadera 2” che diventa coagulo di artisti non solo italiani, ma anche stranieri.

Tra la fine degli anni ’60 e l’inizio dei ’70, la Sicilia orientale ha iniziato e consolidato un processo di industrializzazione di base che si è concretizzato nella creazione di uno dei più grossi poli petrolchimici d’Europa, determinando da una parte un relativo progresso economico della zona, ma dall’altra sollevando problemi di forte impatto sociale, umano, ambientale.Questi temi sono così profondamente sentiti dall’artista da spingerlo a trascorrere alcuni mesi tra gli operai del polo.Nasce una lunga serie di lavori che inducono Cilio ad abbandonare l’iniziale neofigurazione per un neoespressionismo in cui l’uomo è rappresentato come “una larva d’uomo” oppresso dal ritmo dell’industria di cui l’artista mette in evidenza l’aspetto ossessivo e drammatico.Man mano che la sua protesta si fa più

pressante il segno si scarnifica e trova singolarità di impaginazione attraverso la scomposizione delle immagini in graduazioni di sequenze analitiche che si ricompongono in sintesi lirico-emotiva, dove si evidenzia una dolente umanità ridotta al ruolo di “servo-macchina”. Qui i miti idilliaco-pastorali del vecchio mondo siciliano sono abbattuti a vantaggio di una selvaggia installazione di “cattedrali nel deserto”.Laddove, nello stesso periodo, Renato Guttuso dipingeva un mondo isolano fatto di agavi, contadini, fichi d’India, mercati rionali e simili, che stava per tramontare per sempre, Gino Cilio guardava con occhio critico al futuro dell’isola che si avviava verso un rapido benessere, senza fare i conti con l’ambiente circostante.

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In questo contesto, allora, per il Nostro, la Sicilia si fa luogo privilegiato per rendere universale una protesta tesa al recupero della dignità dell’uomo nel sistema di sfruttamento delle società capitaliste, mentre l’arte per lui può e deve essere uno strumento di trasformazione sociale in quanto presa di coscienza di determinate problematiche umane. In questi termini “le immagini assumono il sapore di creature emblematiche assorte in uno spazio che le contiene e che esse stesse cercano di conquistare riproponendosi in una azione multipla di sollecitazioni”, come scrisse Vito Apuleio.Questo è un periodo di febbrile attività espositiva che si concretizza in varie mostre tenute in diverse parti d’Europa: Belgio, Olanda, Svizzera, Austria, Germania, ecc… All’inizio degli anni ’80 Cilio intensifica la sua ricerca spaziale che lo condurrà inevitabilmente molti anni dopo

all’ “A-Zero” dei linguaggi espressivi.In questo periodo, la fase dell’Espressionismo in cui il soggetto è scarnificato al limite della riconoscibilità, evolve verso strutture geometriche, di lontana ascendenza cubista-eidetica coniugate ad un dinamismo di forte impatto futurista. Questo momento espressivo è ben sottolineato da una lettura critica di Massimo Bignardi, che di seguito si riporta. “La città per Gino Cilio è un campo disseminato di segni, dati come evidenza di una frenetica corsa o di una continua aggregazione di elementi dinamici. Osservando queste sue opere in particolare modo “Allucinazione notturna” la memoria corre rapida al futurismo di Balla, agli schizzi di

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Sant’Elia e forse, primi fra tutti, i disegni di architettura di Virgilio Marchi, carichi di una gestualità segnica e cromatica.Pian piano, entrando con l’occhio nella fitta rete delle relazioni e dei rimandi semantici, nei salti violenti dei toni, nella porosità del tratto, nelle sfumature e nel dialogo che esse instaurano con la corposità dei segni neri, misuriamo le distanze che separano la ricerca di Cilio da quella futurista spingendo a ritenerla più vicina ad un’area fortemente sensibilizzata dal segnismo informale di un Franz Kline. Penso a quegli incisi nel fondo del supporto, intrisi dei rumori, della velocità delle macchine, del traffico urbano, delle direzioni forzate e convogliate delle metropolitane: questo ricorrendo ad una composizione ove i larghi montanti neri esprimono i rapporti fra i pieni e i vuoti, le “assolute

verità” dei bianchi, le tensioni e le contraddizioni della città moderna”.Tutto ciò mette in evidenza l’altro problema che il Nostro ha sempre affrontato con originalità di soluzioni formali, come bene ha evidenziato il critico di cui sopra, dell’attraversamento dei linguaggi e delle loro connessioni visive, artistiche, esistenziali.La produzione artistica di questo periodo, dunque, si concretizza in un ciclo pittorico di grande maturità stilistica e poetica in cui influisce certamente la lezione di Kokoschka nel suo uso costante di segni morbidi e guizzanti che tanto bene avevano espresso il dramma del sogno continuamente infranto del conoscere proprio della condizione umana, ma anche la ricerca dell’essenza plastica propria del cubismo eidetico nonché la ricerca futurista dell’espressione della velocità e del dinamismo e in ultimo, ma non ultimo, il segnismo informale.Questa fase pittorica è caratterizzata dall’uso di materiali poveri ed abusati, come il catrame, il vetroresina, il sicofoil, il polimaterico, il “combinatorio”, destinati a prospettive inedite che “escludono, in un’azione che è sempre “nata dentro”, ogni forma di gratuità e di anarchia…….si riscontra in essa quella sorta di

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essenzialità orfica – come dire misteriosa, stregata, assumente l’universale sul flusso minuto delle apparenze - di cui parlava Apollinaire per il “fraseggio” delauniano…..Cilio, contrario all’estetismo, che è corruzione ridondante e di maniera della creatività, continua ad assegnare il primato al fatto estetico in sé: somma di motivazione ideali e di esiti professionali, unità di fruizione edonistica, nel cumulo dei referti sensori, di esplorazione gnoseologica e di vibrazioni d’anima”. Così l’amico e conterraneo Renato Civello si espresse relativamente alle opere di questo periodo. Un assemblaggio in particolare è necessario ricordare, esposto già nell’ Expo di Bari del 1989 dal titolo “Installazione” che compare anche in un catalogo dell’artista per la mostra “Ad hoc”, curata da F. Gallo per il Comune di Acireale (Catania), in cui sono uniti due pattern al centro ove è presente una figuratività e due pattern ai lati assolutamente vuoti di superficie.Qui, conformemente alla querelle Alberti-Brunelleschi, che Cilio citava sempre ai suoi allievi, i riquadri vuoti di superficie servono ad esaltare quelli pieni, e, pertanto, mettono in evidenza come il problema spaziale, sin d’allora, urgesse nella ricerca dell’artista. Nel frattempo, negli anni ’90, la forte accelerazione tecnologica, l’eccessiva messe di informazione che ben poco comunica, la perdita di identità del soggetto, nonché un vissuto fatto più di vuoti e di mancanze che di certezze, per cui il desiderio di futuro si fa sempre più labile, pongono all’artista, da sempre attento all’impatto della tecnologia sulla società, altri problemi che trovano singolarità di espressione nelle innumerevoli opere di questo periodo costituite il più delle volte da installazioni fatti di pattern spesso di uguale dimensione e dai titoli significanti, come: Zapping, Happening, Simultaneo, Seriale, Interattivo ed altri che l’artista stesso definisce “Archi-pitto-sculture”. Esse si articolano in dittici, trittici, polittici che mettono in evidenza le problematiche legate alla multimedialità e all’interattività che sommergono il soggetto con la loro messe di immagini multiple e caotiche le quali sembrano mantenere nascosti i loro rapporti ma che Cilio decodifica, sovrapponendo il tempo spazializzato e risolto in moduli, col tempo della coscienza in cui le memorie si sovrappongono o stentano a venire in superficie restando labili parvenze, solo un’eco, quasi volessero lasciare allo spettatore il compito di scoprire e decodificare il messaggio dell’artista.

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Egli, per rendere concreto il suo pensiero, copre con un foglio opaco, in vetroresina generalmente, un frammento dell’assemblaggio, oppure ne sovrappone in parte gli elementi, quasi che passato e presente si intersechino, al fine di evocare inquieti percorsi interiori, tali da lasciare allo spettatore il compito di scoprirli e decodificarli, nel momento in cui la troppa messe di messaggi non potenzia la nostra sensibilità, anzi con la sua ripetitività da una parte anestetizza le emozioni, dall’altra rende anche più inquieti perché ciascuno perde il proprio ubi consistam. Dunque, i pattern posti nello spazio, “provocano” il vuoto dell’ambiente con le loro strutture modulari e/o tridimensionali, in cui lo spazio stesso è il luogo di un accadimento rivolto allo spettatore che non vive un’esperienza preordinata o congelata dall’artista, ma, come attore sulla scena, partecipa attivamente all’evento estetico

spostando, se vuole, i moduli; di fatto de-costruendoli, così come in un gioco di zapping, per ri-creare altri giochi della co-scienza in uno spazio pittorico e architettonico che richiede uno sguardo complice, per ri-costruire una realtà che si fa “altra”, che muta col mutare del soggetto che interagisce con essi.Le opere , in questo modo, consentono una ulteriore “forma” di “apertura” oltre che nella struttura linguistica anche in quella fisica, secondo una personale interpretazione che Cilio dà al concetto di “opera aperta” di Umberto Eco nell’omonimo saggio. Ed ancora, al fine degli ulteriori sviluppi, emblematici risultano alcuni assemblaggi di dieci pattern, di struttura triangolare. Essi “contengono” spazi vuoti, varchi, spazi bianchi o neri che, già da questo momento, mettono in evidenza come l’artista si avvii verso la “sua” soluzione del problema spaziale, linguistico, strutturale dell’arte contemporanea, e non ultimo del suo problema esistenziale di artista.In realtà i dieci pattern sono disposti in modo tale da formare una tetraktis, figura sacra per i Pitagorici, per i quali il dieci era il numero perfetto.La tetraktis, quindi, ha per lato quattro elementi triangolari per così dire “lavorati” e il quattro rappresenta sia la giustizia che il quadrato, figura geometrica assoluta (che l’artista riprenderà per il suo “A-Zero”) simbolo del limite e della misura.

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Ordine, misura, unità, armonia, bellezza sono concetti greci, (e Cilio vive da lunghissimo tempo tra Roma e Siracusa) per i quali la perfezione era costituita dal limite, dal determinato, dal compiuto.L’espressione idiomatica “è un’opera d’arte finita” significa appunto che è un’opera portata alla sua forma armonica, perfetta, e questi dieci triangoli sembrano dirci che nel limite c’è un principio “attivo”, determinante delle cose. Esso, per i Greci, non è altro che un processo in cui trionfa nell’Universo il limite sull’illimitato, la forma sul caos, l’ordine sul disordine.Nella contemporaneità regna, invece, l’indeterminatezza, un mondo privo di leggi e di limiti, di misura e di fini ove qualunque azione trova il modo di essere legittimata. Allora l’artista con questi assemblaggi di triangoli in forma di tetraktis esorta a trovare l’ordine ideale del mondo, il kosmos.C’è un’apparenza mutevole, ingannevole, attraverso l’arte è possibile trovare le leggi rigorose che governano la realtà. Gli spazi bianchi triangolari (l’uomo nella sua accezione di mente, psiche e soma?) trovano allora la loro ragion d’essere, invitano alla riflessione, alla pausa, alla scoperta e quindi alla consapevolezza.Mentre nel vuoto della forma lo spettatore ha la possibilità di riposare l’occhio, di rilassarlo perché troppo grande è la messe caotica delle immagini, che, a raffica, vengono scaricate sulla sua psiche.Oppure, lì nel vuoto lo spettatore può “scaricare e ri-caricare” l’ altra parte del suo sé, trovando a sua disposizione uno spazio reale in cui può idealmente ricreare il proprio spazio, la propria illusione di potersi “inserire” nel bianco, nel vuoto, lasciato dall’artista, in modo da potere uscire da se stesso per identificarsi in situazioni “altre”.Oppure, il vuoto può iconicamente configurarsi come lo spazio della nostra solitudine, delle nostre speranze, delle nostre aspirazioni, o può consentire una infinità di altre interpretazioni poichè, prima di ogni inizio, bianca è la pagina e la tela, bianca è la luce. Bianco è il silenzio quando la luce e l’ombra dialogano, e la luce e l’ombra sono sempre componenti immateriali ricche di potenzialità estetiche.Comunque, qualunque sia l’intendimento contenutistico di queste

“pause”, dal punto di vista formale esse servono ad esaltare il pieno per evidenziarlo, come era nella citata querelle tra l’Alberti e il Brunelleschi che già diversi secoli fa faceva notare la problematicità del “vuoto” fra le strutture architettoniche e quindi per estensione, nel caso del Nostro, anche fra le strutture pittoriche. Frattanto a metà anni ’90 i colori brillanti e violenti, di cui abbiamo

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trattato più sopra, cedono il posto ai monocromi su vetroresina o masonite, dove il catrame, già usato da Cilio in anni precedenti ma con altre significazioni, viene sfruttato in tutte le sue nuance cromatiche ed evidenzia una costante del pensiero dell’artista: materiali poveri, umili, abusati, di scarsissimo valore commerciale possono, per mano dell’artista, diventare preziosi, grazie ad una operazione alchemica che fa evolvere la materia bruta verso la perfezione artistica, sicchè un supporto povero ed inquinante è riscattato dalla quotidianità dell’uso per essere esaltato come fatto estetico in cui si sedimentano le emozioni declinate sempre in un linguaggio pittorico “alto” e consapevole, in cui la gestualità ha ancora un ruolo fondamentale e serve a far emergere e scaricare sul piano pittorico tracce emozionate ed emozionanti che richiamano temi cosmici in cui sembra di ascoltare i suoni della natura o le voci spettrali di angeli o demoni provenienti da un fondo arcaico e talora violento.Lo spazio monocromo si dilata, è ferito da un segno forte e deciso mentre il colore del catrame si estende fino a riempire tutta la superficie o si contrae sino a lasciare solo qualche traccia. Quel catrame ora e quegli smalti prima che Cilio versa direttamente sul supporto per gestirli manualmente facendoli scorrere, sgocciolare, rapprendere, o per lasciare ampie campiture che fanno vedere la superficie stessa, sia essa il vetroresina di cui sfrutta la proprietà riflettente la luce o la masonite di cui sfrutta il fondo bianco in funzione luministica. A questo punto è evidente come la vexata quaestio del vuoto e del pieno si connetta tanto più strettamente con quella dello “spazio”, mentre affiora prepotente l’altro problema: quello del tempo. Infatti, tra i percorsi esposti sopra, è necessario, ai fini degli sviluppi che seguono, segnalare un progetto, che l’artista ebbe in mente ma che realizzò solo in parte per vari motivi, non ultimo perché improvvisamente il problema dell’A-Zero dei linguaggi si fece più pressante. Di esso rimane qualche schizzo e qualche foto scattata in una cava di pietra, nei pressi della città di Noto o ai monumenti storici sia di Roma che di Siracusa ove Cilio sarebbe dovuto intervenire con alcune installazioni inserite in varchi, archi, luoghi architettonici significanti. Addirittura aveva, per così dire, “incorniciato” con dei riquadri vuoti di superficie alcuni spazi sia della cava che dei monumenti.Egli aveva, tempo prima, realizzato delle installazioni, tanto per citarne qualcuna, nel Museo di Anzio o nella Chiesa degli Artisti in Piazza del Popolo a Roma, o in altri luoghi deputati o meno.L’istallazione certamente gli fa urgere il problema del tempo.Infatti, rispetto al quadro o alla scultura, posto su una parete l’uno, nello spazio l’altra, le installazioni coinvolgono chi guarda differentemente, poiché possono essere fruiti a più livelli, dal corporeo al visivo, al tattile.Inoltre, esse non si danno una volta per tutte, ma poiché si stabilisce una interazione tra lo spazio e il tempo dell’opera e lo spazio e il tempo

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dell’osservatore, si danno ogni volta in modo diverso ad ogni individuo, e allo stesso individuo in tempi diversi. Allora, in merito al primo progetto, quello della performance e delle installazioni nella cava di mattoni, l’intendimento del Nostro era quello di ri-qualificare un sito segnato dalle opere e dai giorni del cavatore di pietre, dell’operaio, dell’umile, tema spesso presente nei lavori di Cilio, attraverso l’opera dell’artista, per trasfigurare la realtà del luogo snaturandola dei significati preesistenti per ri-qualificarla e riscattarla dalla sofferenza del passato perché solo lui, l’artista, può riuscire a porre in rapporto dinamico e dialettico una funzione estetica con una extraestetica.Come si sarà osservato, permane nella poetica dell’artista l’idea che l’arte debba avere funzione etica oltre che estetica.Analogamente nelle installazioni tra i monumenti, che avrebbero dovuto essere intitolati “In-Classicità”, Cilio si pone il problema della fruizione dei reperti archeologici e delle opere architettoniche attraverso i mezzi di comunicazione, non ultimi i CD, le video cassette, ecc… Tra l’altro, avviene che le opere guardate per anni, dove non anche per millenni, hanno perso il loro valore fondante, sono diventati stereotipi di cui si è smarrito il valore culturale, la connessione dinamica col presente, per cui l’occhio non ne coglie più lo scarto spaziale e temporale.Un oggetto troppo fruito determina una specie di sazietà, diventa schema, non provoca più emozione. Ma basta un arricchimento della memoria, una nuova esperienza perché esso ri-diventi “campo” di possibilità interpretative e quindi portatore di un ordine nuovo, perché l’artista lo ha prima desacralizzato, contaminato con le sue personali produzioni “forzandolo” a far parte di un ambiente non consono.Come quando i dipinti del passato vengono posti ben in vista sulle pareti dei moderni appartamenti, per cui il presente viene come risucchiato nel passato, allo stesso modo le opere di Cilio inseriti nei monumenti del passato, se fossero state realizzate, avrebbero fatto sì che questi potessero cogliersi nella loro flagranza presente, perché vivere è ri-vivere, come direbbe Dilthey. Quindi, in questo progetto si evidenzia come già nel Nostro il problema del tempo fosse molto pressante e per di più connesso con lo spazio.Questa operazione non avrebbe potuto, se fosse stata realizzata, non far pensare a Christo e ai suoi empaquetementes con cui aveva fasciato i monumenti isolando l’oggetto della vita dalla vita stessa.In altri termini Christo proponeva un oggetto senza formularlo, perché storicamente già formulato e nel nasconderlo non faceva altro che attirare l’attenzione di chi guardava affinché questi lo ri-formulasse, lo facesse tra-passare nella co-scienza in quanto l’opera per eccesso di visione aveva perso la sua funzione estetica.

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Ma laddove Christo aveva agito per sottrazione di immagine, Cilio avrebbe agito per addizione ed avrebbe aggiunto valore a valore col sigillare lo spazio fisico di accesso ai monumenti.Inoltre, diversi “interventi” avrebbero dovuto riquadrare o “inquadrare” tramite una cornice, costituita da listelli neri, uno spazio all’interno o all’esterno del monumento A questo punto, la “cornice” non sarebbe stata più, come nel passato, elemento di separazione tra la realtà esterna al “Quadro” e la realtà interna, ma elemento di raccordo tra lo scorrere del tempo e lo spazio catturato, che non è, in verità, spazio vuoto ma spazio colto nel suo fluire flagrante, nel suo essere transeunte. L’iter di pensiero che ha portato Cilio all’ “A-Zero”, ora, si chiarisce meglio.Da una parte il catrame si contrae sulla superficie fino a diventare labile traccia, o si espande per invaderla tutta fino a giungere alla monocromia e all’arte, quindi, come tautologia, dall’altra il listello che “in-quadra” una parte di realtà fenomenologica sia essa rappresentata da un monumento o da qualunque altra cosa o meglio ancora se dalla sola luce. Ne consegue che luce, spazio e tempo, su cui l’artista aveva lavorato per anni, trovano la loro soluzione perché coincidono. Già Fontana si era posto il problema e lo aveva risolto attraverso i buchi o i tagli. Egli bucava il supporto, attraversava lo spazio che diventava materia, con un gesto ritmico riproposto continuamente a rimarcare il suo intervento costante. Ma, il taglio, il buco attraversavano lo spazio-materia in un certo tempo, il tempo dell’esistenza, del disinganno, dell’antimonumentalità. Per Fontana l’arte nasceva da una stretta relazione tra pensiero e azione per cui dichiarava: “Io buco, passa l’infinito di lì, passa la luce, non c’è bisogno di dipingere…invece tutti hanno pensato che io volessi distruggere: ma non è vero, io ho costruito, non distrutto…”In pratica l’artista col suo gesto aveva, è vero, distrutto il concetto tradizionale di opera, ma aveva avvicinato il quadro agli oggetti della realtà.Per Cilio del Ri-Quadro vuoto di superficie, ora, l’arte non è più azione, gesto, è solo pensiero, è il “grido taciuto” di Pavese, è quella soglia ove il tempo e lo spazio sono solo interiori, è quella soglia ove il pensiero non rap-presenta le cose ma le vive: “non c’è bisogno di dipingere.” Parafrasando Fontana. Da sottolineare anche che lo stilema di riferimento dell’artista, in tutte le opere di cui si è trattato dalla metà degli anni ’80 fino a tutti i ’90, è l’Informale.Modi e risonanze dell’Esistenzialismo confluiscono in questa corrente, per la quale la funzione dell’arte si risolve in una serie di accadimenti esistenziali soggettivi, che in ogni caso non consentono di cogliere l’essenza delle cose.

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Di conseguenza il gesto artistico è afinalistico, astorico oltre che frammentario e si articola in un tempo senza più orientamento né direzione.Esso è solo un grido, un gesto puro che potrebbe non essere fermato sul supporto. L’artista informale sceglie l’operatività solo perché ritiene che la creatività sia un bisogno insopprimibile dell’uomo.In altre parole, laddove gli artisti informali, impossibilitati a fissare un punto di riferimento immobile, si affidano all’ancestrale bisogno dell’uomo di esprimersi, Gino Cilio abbatte ogni illusione e rende il suo grido inarticolato, il “grido taciuto” di cui si diceva più sopra, quindi il suo primo gesto non può non essere che quello di lacerare la superficie prima, e di toglierla del tutto poi.In questo modo lo stilema informale in Cilio trapassa nel Concettuale, o meglio in un minimalismo concettuale che con un passo successivo lo porterà alla nullificazione dell’opera laddove al “Ri-Quadro” vuoto di superficie darà un titolo: “1 + Uno”.Il Concettuale elimina l’oggetto-opera a favore del concetto. Conseguentemente, l’opera, come dice Filiberto Menna, “viene ricondotta ad una operazione linguistica di tipo analitico” per cui “viene affermato il carattere monosemico dell’ordine della significazione. Ma, eliminato l’oggetto-opera, l’arte non è più merce, essa deve solo ottenere l’appoggio della società in quanto indagine che trova la sua giustificazione in se stessa”. Si deduce che Cilio dal Concettuale mutua l’eliminazione dell’oggetto-opera e il fatto che l’arte non può essere ricondotta a merce, per il resto non propone alcun concetto, ma, implicitamente pone tra gli altri il problema della riflessione sull’atto percettivo, del valore che esso può assumere nel contesto dell’arte, e della natura dell’oggetto artistico. In sintesi, la personale Sinngenesis che induce Cilio all’A-Zero origina da diverse istanze: il problema del vuoto, come era nella querelle tra l’Alberti e il Brunelleschi, risolta in un primo momento dall’artista, in una alternanza di superfici in cui si estrinseca l’attività conformativa a spazi assolutamente vuoti della stessa superficie e semplicemente ri-quadrati ora in forma di triangolo, ora di quadrato, ora di rettangolo. Nel frattempo l’Informale lo fa riflettere su quel punto misterioso tra invenzione pittorica e pagina bianca, tra l’energia che promana dall’immaginario ed espressione artistica, tra formulazione d’immagine e l’azzeramento della stessa e non ultimo il Concettuale con la sospensione dell’ “oggetto” in favore del concetto gli dà l’imput per lacerare la superficie prima e per toglierla dopo.Rimane, dunque, il modulo vuoto di estensione pittorica in cui si eclissa la possibilità del concetto di arte o di emotività ad essa connessa, scompare anche il concetto di autoreferenzialità dell’arte, rimane solo la possibilità del “Ri-Quadro” che perimetra o il massimo di realtà o il massimo di spiritualità.

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Nel primo caso viene superato il concetto di “opera aperta”, la quale, in quanto tale, presuppone una interpretazione da parte di un possibile spettatore. Cilio invece potrebbe rivolgersi alle “cose stesse”, direttamente, poiché il dato reale, come sostiene Hartmann, è un fatto imprescindibile di ogni esperienza estetica e costituisce il “primo piano” dell’opera d’arte. E proprio qui, su questa soglia, prima che la coscienza si oggettualizzi in un segno anche minimo l’artista si ferma. Egli lascia, in primo tempo, solo un segnale, un indizio appena percettibile di ciò che sarebbe potuto avvenire ma non è avvenuto e che si concretizza solo nel gesto di perimetrare uno spazio o una serialità di spazi che al loro interno includono anche il tempo e la luce e spiegano pertanto la dichiarazione di poetica: A-Zero Forma, A-Zero Struttura, A-Zero Linguaggio, A-Zero Tecnica, A-Zero Concetto, A-Zero Fruizione, A-Zero Superficie, A-Zero Estetica.Nel secondo caso, quando il Ri-Quadro perimetra un vuoto e porta un titolo “1 + Uno”, ma la seconda opera manca, è nulla, il concetto di opera d’arte ormai passa dal piano fisico al metafisico, così mentre l’ 1 è tesi scettica, l’Uno è positività perchè porta nel non essere delle cose dove tutte le possibilità sono compresenti, si tratta di riflettere e trascegliere, magari perdersi, per far emergere una nuova verità.Il vero dramma dell’artista non è raggiungere il nulla come ha fatto Gino Cilio ma “viverlo”. Esso è totalità, ma noi, in quanto soggetti limitati, non possiamo coglierlo. Il minore non può contenere il maggiore. Tuttavia, se il nulla è totalità esso contiene tutto. Si tratta di scegliere tra le infinite possibilità.Ma l’artista può scegliere una sola entità: la luce. Non per nulla si è citato Fontana quando diceva che dal taglio e dal buco passava la luce, passava l’infinito, non c’era bisogno di dipingere, appunto perché è lei che fa la differenza. Essa permette di cogliere l’alterità che nel vuoto, nel buio dell’assoluto si era smarrita, quindi per suo mezzo è possibile ri-percepire l’altro che consente la creatività. Questa non decodificherà il mistero del nulla ma lo esprimerà, perchè se dovesse decodificarlo avrebbe bisogno di un linguaggio-nulla, un linguaggio della totalità. Infatti il vero dramma, a nostro avviso, del nulla è il linguaggio, mentre ne abbiamo uno per il mondo fenomenologico, per la totalità non ne abbiamo nessuno oppure dobbiamo applicare questo a quella, cioè dovremmo usare un procedimento logico proprio del mondo fisico per il metafisico. Ergo, se del nulla possiamo fare esperienza, in realtà non lo possiamo estrinsecare mancando appunto il linguaggio-nulla.Dunque l’operazione di azzeramento e di nullificazione dell’opera realizzata da Gino Cilio fa capo a due istanze sempre presenti nella storia dell’arte dell’ultimo secolo tendenti da una parte all’azzeramento e all’annullamento dell’opera d’arte e conseguentemente dell’artista, e

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dall’altra ad introdurre nell’opera il massimo grado di spiritualità, come si evidenzierà nelle note seguenti. BREVE NOTA SULLE AVANGUARDIE

“L’opera d’arte autentica più che spiegare istituisce o abbatte orizzonti di senso e crea o distrugge costellazioni semantiche cui vengono affidate domande non altrimenti emergenti”. Così Hedegger (M.Heidegger, Introduzione alla Metafisica, Mursia Milano, 1968, p.22).Compito dell’artista quindi “è quello di sottrarre l’oggetto all’automatismo della percezione”. Come dice Victor Sklowskij.Un gestus iconoclasta consistente nell’eliminare da un supporto qualsivoglia la superficie, per lasciarlo solo in quanto possibilità simbolica del fare arte, quanti “orizzonti di senso” abbatte? Quante

“costellazioni semantiche” distrugge? Quanti “automatismi della percezione” dissolve? Quali straniamenti propone?Certo, esibire un “Ri-Quadro” vuoto di superficie ed aggiungere un titolo: 1 + Uno, ove il secondo elemento manca, determina straniamento, spaesamento che induce a porsi due problemi: se esso è un “a priori”, è necessario partire da un grado Zero dell’arte, cosa molto ardua per una civiltà, onde “A-Zero”, titolo prescelto da Gino Cilio per questa operazione. Se esso è un “a posteriori”, bisogna annullare tutta l’arte , onde “A-Zero”.Comunque sia, evidente risulta un solo dato: l’èchec dell’artista è assoluto ed assolutizzante. Il “Ri-Quadro” assurge a simbolo dell’impossibilità dell’arte.Esso si articola, pertanto, tra due orizzonti, quello della negazione e della nullificazione in quanto introduzione del massimo grado di trascendenza, come già in un Mondrian o in un Malevic, e quello di una immanenza senza residuo, per cui ogni aspetto del reale può essere opera tout court, come Duchamp

aveva dimostrato con i suoi readymade, oppure come potrebbe essere qualunque trance de vie.In altri termini, il “Ri-Quadro” vuoto di superficie è simbolo attualizzante una “epoché”, una sospensione che sta tra una assenza e una presenza, tra l’essere e il nulla, tra senso e non senso, sta, cioè, in quello spazio intermedio che, producendo Unheimlichkeit, spaesamento, pone una molteplicità di domande.Laddove le Avanguardie proponevano nuovi linguaggi semanticamente coerenti, per scardinare la realtà, azzerando i precedenti, Gino B. Cilio “A-Zera” tutto e non propone nessuna interpretazione della realtà,

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sospende il giudizio, sospende qualunque formulazione di immagine, lascia un simbolo: il “Ri-Quadro” vuoto di superficie ed un titolo “1 + Uno”, laddove il secondo termine manca, che il riguardante può “investire” di una miriade di significati se riuscirà a proiettare in quel vuoto le proprie intenzionalità, attualizzandolo e comprendendolo secondo la particolare Erlebnis del suo plesso culturale.Ma nel momento in cui Cilio sospende qualunque formulazione di immagine, evidentemente azzera tutti i linguaggi e il suo è un gestus degno delle migliori Avanguardie. Il Ventesimo secolo si presenta come un’epoca cataclismatica quanto altri mai.Da una parte si ha un enorme progresso nelle conoscenze scientifiche del mondo, nonché del micro e macro cosmo, nonostante la permanenza invasiva di un certo dogmatismo teologico e scientifico, in cui il dato acquista centralità come “esperienza verificabile” nei vari sistemi di pensiero. Dall’altro la filosofia continua la sua “costruzione” di mondi affermati solo dall’uomo-coscienza, che non permettono un altrettanto progresso gnoseologico rispetto alla scienza e alla tecnologia.

Nell’abisso di queste due culture stanno le rivoluzioni linguistiche, e quindi dei valori, dell’arte e della poesia, del teatro e della musica delle Avanguardie del ‘900, prefigurate dalle rivoluzioni di stile dei Fauves e del Cubismo. Le Avanguardie storiche si configurano come l’espressione della sofferenza e della crisi dell’uomo “nuovo” che si esprime in un linguaggio “nuovo”, immaginoso, liberatorio attraverso la destrutturalizzazione sia della parola che della forma, in favore di una loro ri-significazione, donde l’aperto conflitto con la società di cui non accettano alcun compromesso. Fare arte è contemporaneamente presa di posizione economica, politica, sociale. Lo stesso comportamento dell’artista è consequenziale. Egli non trova nessuna soluzione che non sia la lotta e l’opposizione, perché il mondo non si salva, si distrugge. La sua condizione in seno alla società, tuttavia, non è contraddittoria perché non ne sta fuori in quanto ne combatte le strutture, ma dall’altra parte è un soggetto assolutamente libero non avendo alcun limite ai suoi esperimenti di ribelle sovversivo contro ogni ordine e legge.Per far ciò, allora, deve negare radicalmente la tradizione, sostenendo una innovazione combattiva caratterizzata dall’urgenza eversiva dei valori

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tradizionali e del “senso”, ormai esauriti, fino a giungere al metaverbale, all’asemanticità, al silenzio, sempre nel nome di un gesto radicale di rivolta ideologica totale, che consenta di ridefinire, in ultima analisi, un “nuovo” ordine in cui è, comunque, escluso ogni concetto di continuità e durata. Il comportamento degli artisti di Avanguardia è sempre teatrale ed esibizionistico e sfrutta gli stessi mezzi della società borghese: il teatro, il cinema, le mostre, il manifesto pubblicitario, ecc…ma con funzione sovversiva, mai di trasformazione, e proprio per questo non incide sulla società, anzi con la monotonia delle manifestazioni pubbliche, degli incontri, dei discorsi, dell’atto gratuito ed anarchico viene sospinto al margine e la sua azione è considerata dalle masse a mo’ di divertimento e spettacolo. Solo in questo modo la società borghese lo rende innocuo, confinandolo nel folklore locale.Comunque sia, certa, per le Avanguardie, rimane una sola cosa: la scoperta di nuove dimensioni dell’esistenza che evidenziano il divario sempre crescente tra il concetto di libertà, di vita interiore, e razionalità tecnico-scientifica, insomma il divario tra scienze dello spirito e scienze della natura, che è poi rifiuto di ridurre il mondo umano al metodo matematico-sperimentale.Realizzato questo, le Avanguardie, proprio perché tali, si esauriscono per pratica suicida.La stessa asserzione per cui la “forma” origina la poesia e il significato ne è l’effetto, è ricca di importanti sviluppi i cui risultati sono ancora oggi attualissimi e stanno a testimoniare come l’arte in genere non sia più rappresentazione del mondo, ma sia rifatta su forme già sperimentate, per cui la lettura del reale è assolutamente arbitraria o, se si vuole, ripetitiva in schemi e simboli già consolidati.Ne risulta un’arte dell’arte ed una poesia della poesia in cui convivono ed interagiscono poetica ed operazione creatrice, cioè poetica ed opera, le quali si giustificano con la stessa arbitrarietà soggettiva delle invenzioni che negano la specificità del fare artistico e dell’arte stessa. Molta arte cosiddetta astratta scaturisce da queste premesse.Ma, in tali condizioni, è necessario sottolineare che in ogni caso la forma non resta pura, viene travolta fino ad essere negata con il solito “refrain” di “morte dell’arte” che non comunica più nulla, che è solo autoreferenziale, donde la deshumanisacìon del art, proprio perché, forzando la ricerca del “nuovo”, dell’ “originale” ad ogni costo, perde di vista la sostanza, per concentrarsi sulla forma. Infatti, altra scoperta portante delle Avanguardie è stata quella della relatività dei linguaggi e quindi della loro infinita invenzione che in ogni caso devono essere internamente, semanticamente ed autonomamente coerenti, affinché da soli costituiscano un sistema autosufficiente, sempre e comunque opposto alle consuetudini linguistiche della tradizione, poichè il linguaggio porta con sé tutto un sistema di

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pregiudizi e di comportamenti, che, per essere sradicati, devono essere distrutti.A questo scopo tutto è utile dallo stravolgimento delle regole sintattiche e grammaticali al puro grido, dal rumore al colore astratto, all’uso di ogni materiale reperibile, ecc… ma tutto, in ogni caso, deve essere coerente alla semantica scelta.Lo spazio del linguaggio dell’arte, così, viene enormemente allargato, ma, poiché esso è senza direzione, non può avere continuità storica e per ciò stesso, come sostenuto, non incide sulla società borghese.Come in realtà, tanto per fare un esempio, non incise il Futurismo, nel cui manifesto del 1912 Marinetti sosteneva la necessità di far “tabula rasa” di ogni tradizione troppo venerata e troppo imitata in favore di una “rivoluzione del linguaggio poetico diverso ed universale”, che rispecchiasse la dinamicità dell’era industriale e le rivoluzioni tecnico-scientifiche e in cui predominasse “l’immaginazione senza fili”, non solo in poesia, ma in tutte le arti. Per la qual

cosa “essere compresi, non è necessario” e precisava nel Manifesto del 1913 come poteva essere decisiva l’influenza esercitata sulla psiche dalle “diverse forme di comunicazione, di trasporto e di informazione” che avrebbero permesso “l’acceleramento della vita” ed avrebbero

determinato “coscienze molteplici e simultanee in uno stesso individuo”. Parole premonitrici che richiamano l’odierna “frantumazione delle sfere di esistenza”, già intuita da Baudelaire ne “Il pittore della vita moderna” quando sostenne che la città è il luogo della pluralità delle forme di vita e quindi luogo del mutamento incessante.La “poliespressività” futurista fu vera linfa per le odierne ricerche estetiche. Essa permetteva di unire in un unico accadimento “dal brano della vita reale, alla chiarezza del colore, dalla linea alle parole in libertà, dalla musica cromatico e plastica alla musica di oggetti. In particolare le parole in libertà, rompendo i limiti della letteratura, marciavano verso la pittura, la musica, l’arte dei rumori”.

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Non c’è chi non veda in queste premesse lo sviluppo di moltissima arte contemporanea dall’happening alla body art, dall’arte totale al life theatre, ecc…. Comunque sia, a tutt’oggi, non si è eclissato dalle contemporanee sperimentazioni, laddove esse esistano, il problema del linguaggio.Alla fine degli anni sessanta Isgrò ne poneva ancora una volta la questione e lo stesso faceva Vincenzo Agnetti quando utilizzava una calcolatrice con lettere alfabetiche al posto dei numeri e si potrebbe continuare all’infinito con le citazioni, che, comunque, mettono tutte sempre in evidenza come il problema del linguaggio sia sentito come essenziale, negli spiriti più avveduti, anche se, oggi, è stata totalmente perduta, rispetto alla Avanguardie storiche, quella coerenza semantica che le aveva caratterizzate, insieme alla capacità di rinnovamento della visione della realtà.

Infatti se le prime avevano capovolto la struttura stessa della conoscenza della realtà, le nuove, perso quello slancio ideologico che le opponeva al sistema, vi si sono comodamente adagiate, perché, nel frattempo, modi e moduli delle Avanguardie storiche sono entrate, attraverso diversi canali, non ultimo la pubblicità, a far parte dell’immaginario collettivo per cui gli artisti contemporanei hanno avuto buon gioco nello sfruttare quelle formule che hanno perso la loro funzione di shock della visione capovolta che un tempo aveva trasformato il linguaggio dalle radici ed aveva determinato anche il capovolgimento dell’ordine delle cose, per diventare tecnica svuotata di contenuto. Conseguentemente tutta l’arte contemporanea ha perso quella cifra “tragica” che aveva caratterizzato le vecchie avanguardie in favore invece del momento ironico, parodico o dissacrante.Il tutto aggravato dalla diffidenza degli artisti verso i vari sistemi di pensiero, le varie ideologie, i vari valori ritenuti assoluti

e storici, donde il disinteresse per la realtà in favore dell’interesse per i “modi” con cui essa realtà si rappresenta ed emblematici sono in questo contesto i vari artisti “emergenti” di questi ultimi anni.Il neocapitalismo ha tranquillamente fagocitato l’artista rendendolo inoffensivo perché lo ha inserito nel sistema della mercificazione dell’arte. A sua volta l’artista rimane convinto che basta lo stupefacente, il gioco, la trouvaille, la boutade, ecc… per rinnovare la merce arte .

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Ma in una società massificata dal consumo e basata sull’estetismo omologante non ci può essere “esemplarità della vita” perché non c’è dimensione ideale che vede la storia come sviluppo lineare ed unitario. Ancora oggi, come direbbe Nietzesche “l’uomo rotola dal centro verso la X” ? Oppure è possibile intravedere un cambiamento di posizione del soggetto rispetto alla realtà? (come si cercherà di dimostrare in altra nota.) Ed inoltre, i vari movimenti di Avanguardia storica, se è pur vero che avevano creato nuovi linguaggi, in effetti questi rimanevano confinati nelle élites.Nella contemporaneità, massificatasi la cultura, omologatasi e messa in parentesi ogni tradizione, non si riesce a distinguere un’arte che rispecchi una cultura che non sia quella di massa che si concretizza nell’omologazione degli stili, per cui, poniamo, un’opera di un giapponese non si distingue da quella di un europeo o un americano.Pertanto, pur permanendo quella coinè linguistica, che, attraverso i mezzi di comunicazione di massa, è linguaggio di massa diffuso a livello mondiale e come tale portatore di valori e principi, la diversificazione degli stili, in quanto tradizione culturale identificativa di un popolo, si fa inesistente.Così come ciascuno di noi dalle “Alpi alle Piramidi”, da New York a Pretoria, ecc… beve Coca Cola, mangia McDonald, indossa La Coste, allo stesso modo gli stili delle opere di autori lontanissimi culturalmente, pur nella diversità delle correnti, non si distinguono affatto l’uno dall’altro.Tutto ciò, anzicchè arricchire il linguaggio della civiltà di un epoca dell’umanità, lo impoverisce mancando appunto la diversificazione dello stile, che, omologato in tutto il mondo, non riesce a confrontarsi con altro da sé ( il refrain della contemporaneità, infatti, è la mancanza di un deuteragonista) e per questo l’uomo rimane “fissato” nel tempo con relativa speranza di progresso umanistico, laddove la scienza e la tecnologia progrediscono ogni giorno aumentando sempre più la divaricazione dei due linguaggi per cui la deshumasacìon dell’individuo si fa più pressante.

Pur non essendo un laudator temporis acti, una realtà risulta evidente: l’uomo contemporaneo ha mutato ab imis certezze secolari se non millenarie per cui è lecito chiedersi: l’arte è ancora forma di conoscenza di sé e del mondo? La seduzione delle trouvalille può considerasi arte?Premesso quanto sopra una domanda ancora si impone: tra Avanguardie e Neoavanguardie e

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trouvaille varie il gestus di Gino Cilio di togliere la superficie dal supporto ha ancora la stessa drammaticità della “pagina bianca” di Mallarme? O lo slancio ideale dell’introduzione della spiritualità nell’opera di un Malevic? O il valore dissacratorio di un’arte ridotta a tautologia di un Rodcenko?Ed inoltre, “a-zerando” la superficie, non è più possibile ascrivere alla “non-opera” un valore economico, e ciò rientra nei presupposti delle avanguardie storiche, così come l’attribuzione di un benché minimo valore sociale, politico, etico, estetico, ecc... A questo punto il divario fra scienze dello spirito portatrici di principi etici appunto nella società, e metodo matematico-sperimentale si assolutizza?Quel “Ri-Quadro” vuoto di superficie ed il titolo 1+ Uno, che pure appartiene al solo Ri-Quadro vuoto, ma nello stesso tempo indica un “oltre” che nullifica, potrebbero essere segno o simbolo di una lettura della realtà in quanto unità e quindi totalità? Oppure, mancando ogni attività conformativa, potrebbero indirizzare verso il Nulla, il Vuoto in cui tutto è contenuto ma niente distinto?In ogni caso nello stesso istante in cui il riguardante osserva il “Ri-Quadro” vuoto ed il titolo, l’arte è trapassata dal fisico, in quanto “cosa” tra le cose, al metafisico.

Su un fatto c’è certezza, però: il gestus non è gratuito in quanto l’artista in questione ha speso una vita per l’arte.Allora, nell’immediatezza della visione del “Ri-Quadro” una riflessione arriva immediata alla mente: in questo marasma di immagini estetizzanti, omologanti ed omologati, in questo marasma di trouvaille e boutade gabellate per arte, in questo elefantiaco “sistema dell’arte” che si enfatizza ogni giorno di più di prime donne, di artifices additi artificii, di artifices

dicendi, di galleristi, di pubbliche relazioni per l’arte, di mostre mercato, di Biennali, Triennali, Quadriennali, ecc…, l’artista ha perso il senso del proprio fare, il proprio ruolo sociale per assumere una dimensione cosale, “lui”, ora, non le opere.Non per nulla nell’operazione “A-Zero” di Gino Cilio l’artista scompare quasi a protestare contro un ingranaggio che gli gira attorno, facendolo diventare elemento passivo di un sistema che lo soffoca con le sue spire non lasciandogli libertà di pensiero e di azione in un mondo “apparentemente” libero, in realtà indirizzato da poteri più o meno occulti, di cui si dirà.

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Oggi, come qualunque operaio alla catena di montaggio, l’artista deve “fare” bene il suo lavoro, l’agire, onde la parola arte, non importa. Il fine per cui lo fa non è di sua competenza, altri sono deputati per questo compito. Nel nostro caso il sistema.

Stante così le cose, bisogna, dice Gino Cilio, ristabilire lo statuto ontologico dell’opera d’arte e il ruolo dell’artistaPer fare ciò è necessaria per tutti una pausa di riflessione, uno choc, che non è più visivo, come nelle Avanguardie storiche, ma intellettuale che sia successivamente scelta di metodi e mezzi.In questo senso la funzione sovversiva del linguaggio dell’arte propria delle Avanguardie è messa in parentesi, a favore di un momento meditativo, che consenta una

trasformazione. Cioè, un presa di coscienza dello stato attuale dell’arte, affinché questa riconquisti quello slancio ideale, quell’individualità territoriale, che è poi accumulazione e diversificazione di stili, i soli attraverso cui lo zeitgeist, lo spirito del tempo, possa arricchirsi nella stratificazione dei contenuti.Nell’era in cui la quantità ha soppiantato la qualità di un prodotto qualsiasi e quindi anche di quello artistico, l’ A-Zero” di Gino Cilio si interpreta quale “bi-sogno” del ritorno alla facoltà del “giudicare”, del dire, cioè, con iudicio, con senno, con prudenza.Recita qualche dizionario , a proposito del giudicare: “Esercitare la facoltà intellettuale di vedere la convenienza fra soggetto e

predicato”, onde senno e prudenza appunto, che sono valori di tutti i tempi.

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L’OPERA D’ARTE TRA SCETTICISMO E METAFISICA NEL ‘900

Confluiscono nell’operazione di “A-Zeramento” dell’opera prima, e di nullificazione poi, dell’artista Gino Cilio numerose istanze teoriche che percorrono tutto il secolo appena trascorso tendenti da una parte all’azzeramento e all’annullamento dell’opera d’arte e dell’artista, dall’altra all’introduzione nell’opera del massimo grado di spiritualità, da Kandinsky, a Malevic, a Mondrian ecc…e, più di recente, da Yves Klein, a Rothko, a Cliffort Still, ecc…fino ad Anish Capoor e Ettore Spalletti e sull’altro versante da Duchamp a Piero Manzoni, a Vincenzo Agnetti, ad Emilio Isgrò, a Lucio Fontana, a Giulio Paolini, ad Alfano, al Concettuale stesso, ecc…Tra la fine del diciannovesimo secolo e l’inizio del ventesimo un terremoto linguistico investe sia la scienza che l’arte. La prima mette in parentesi il determinismo filosofico-scientifico della meccanica classica, estende la matematica probabilistica alla statistica, alle scienze naturali e sociali. E, mentre si formula la teoria della relatività spazio-temporale, prendono corpo le meccaniche indeterministiche del caso, per cui caso, disordine, evento entrano a far parte anche dei linguaggi scientifici.Parallelamente, in arte e in letteratura si verifica un altro terremoto epistemico che prevede, tra gli altri, l’introduzione dell’inconscio, del sogno, dell’hasard che, forzando il significato della morte dell’arte di Hegel, si oppone alla consuetudine dell’ “arte bella”.

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Cadute, dunque, le certezze tradizionali nella immutabilità della realtà, che creava il linguaggio, prende corpo il concetto di “autonomia dei linguaggi” in quanto creatori di realtà e quindi svincolati dal senso comune, in poesia come in arte.Sacerdote del “verbe disincarnato” è Mallarme che indirizza la poesia verso il misticismo, verso il silenzio e il nulla. Egli sostiene la spersonalizzazione del poeta, nel fare poesia, in favore del “lasciare parlare” le parole, che devono accendersi di reciproci riflessi. “L’oevre pure implique la disparition èlocutoire du poète, qui cède l’initiative aux mots….ils s’allument de reflets rèciproques comme une virtuelle trainèe de feux sur des pierreries, replaçant la respiration percepible en l’ancien suffle lyrique ou la direction personelle enthousiaste de la phrase.” ( In F. Flora, Storia della letteratura italiana, ed. A. Mondadori, 1966, vol. V°, pag. 623)Questi reciproci riflessi hanno lo scopo di allontanare il mondo, di far dimenticare la realtà, perché il verso possa perdere ogni referente reale per farsi risonanza interiore. In “Un coup de dès jamais n’abolira le hasard”, del 1897, Mallarme, col disporre i versi contemporaneamente su due pagine, col lasciare spazi bianchi, con l’uso di lettere tipografiche di diversa grandezza, ecc… rompe definitivamente con la tradizione, col sistema sintattico e col grafico, per testimoniare, in tal modo, il crollo del mondo oggettivo e del sistema poetico tradizionale.Nello stesso tempo il foglio non è più identificato come superficie su cui si possono vergare dei versi, ma come spazio, come luogo mentale, precorrendo in ciò tanta poesia visiva, e non, contemporanea.

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In altri termini, la parola in Mallarme è tensione verso un mondo di ideale purezza e di incontaminata bellezza. E dove questa parola non riesce ad esprimere tale mondo arriva al dramma della “pagina bianca”, all’impossibilità creativa.Da questo momento in poi entra nell’arte in genere il problema dello spirituale. L’eterna vexata quaestio, quindi, non è tecnica ma di

valutazione dell’immagine, che nell’opera deve essere rappresentata come contenuto ultimo che è, poi, sempre il soggetto a determinarlo.Ma il soggetto è l’uomo gettato nel mondo in assoluta solitudine, quindi il suo esserci è astorico. Il periodo di tempo dato alla sua vita comincia e finisce con lui e in questo cominciare e finire non c’è storia interiore. L’unico movimento possibile è il disvelamento di quello che l’essenza dell’uomo in sé è stata, non della realtà. Quindi, la creatività del soggetto esprime sempre l’hic et nunc che rappresenterà in ultima istanza la poetica dell’Informale non ancora, a tutt’oggi, del tutto esaurita.Se questa è la condition humain, essa è immodificabile. Allora dove trovare l’immagine primigenia di un oggetto? Essa può essere solo nell’anima dell’artista che deve estrinsecarla in una forma.Il dramma scaturisce nel momento in cui il soggetto non riesce a conformarla ed ecco, allora, la Pagina bianca o il Ri-Quadro vuoto di superficie di Gino Cilio Ora, tornando allo specifico dell’arte e prendendo le mosse dall’origine dell’astrattismo, intendendo per astrattismo tutte quelle declinazioni artistiche che non hanno come referente la natura, si può asserire che già il Cubismo, soprattutto nella sua fase matura, privilegi non la rappresentazione ma la visione. Infatti lo stesso Picasso ebbe a dire: “ Mi domando se bisogna rappresentare i fatti così come si conoscono, piuttosto che come si vedono.”(P. Picasso, Lettera sull’arte), dimostrando con ciò che l’arte era rivolta al “fare”, al produrre immagini non più in presa diretta con la realtà, ma mediata dall’estetismo.

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Fonte di ispirazione non è il già vissuto, ma il già detto, per cui le forme vengono ridotte a schemi, su cui ha lavorato e lavora tanta arte contemporanea. Ma al di là di questo, è necessario rimarcare, in tutta la sua rilevanza, come nel cubismo maturo, eidetico, ogni referente naturalistico si sia affievolito fino a nullificarsi. D’altro canto, come da più parti si sostiene, non si è mai completamente eclissata in questo movimento la componente irrazionalistica ed intuitivaJuan Gris, infatti, diceva di lavorare con gli elementi dello spirito che da astratti rendeva concreti, andando dal generale al particolare. L’artista, cioè, iniziava da un’astrazione per arrivare ad un fatto reale.Questa stessa affermazione è carica di significativi sviluppi successivi, che da una parte arrivano a Kandinsky e dall’altra a Mondrian e Malevic. Ne scaturisce che i due aspetti dell’astrattismo, che al cubismo devono, dunque, più di un apporto, attribuiscono all’arte valore diverso. L’astrattismo “espressionista” vede l’arte come destino, il “geometrico”

come progetto. Quest’ultimo sfocia in ultima analisi nell’utopia, in quanto rimane senza contatti con la realtà sociale e quindi “si arrende senza combattere”, come sostenne Argan. (Argan C., in L’arte Moderna 1770/1970, Ed. Sansoni, 1970, pag 449 e seg.).Bisogna anche sottolineare che la parola astrattismo compare raramente in “ Dello spirituale nell’arte” di Kandinschy, mentre Malevic, Rodcenko, Tatlin scelgono dizioni come: Costruttivismo, Suprematismo,

Produttivismo e Mondrian sceglie Neoplasticismo, ecc…Solo nel 1949 un critico del New Yorker usò la fortunata locuzione di “Espressionismo astratto”, che poi si diffuse largamente anche in Italia per indicare l’assenza di rappresentazione legata alla realtà tout court.Certo, alla base di questa definizione ci sono molte e articolate tendenze che vanno dallo spiritualismo kandinskyano, alla tendenza mistica maleviciana, allo slancio utopistico di Mondrian, allo scientismo di un Max Bill, Albers, Lohse, ecc….Comunque sia, una cosa è certa: alla base di questo variegato movimento c’è la dissoluzione della figura nel quadro, ma anche la dissoluzione del quadro stesso. Kandinsky è l’iniziatore di quella corrente, declinata in molte forme ed attuale ancora oggi, che va sotto il nome di astrattismo espressionista, perché si appella esclusivamente all’interiorità dell’artista e all’espressione della sua vita psichica che è altro dall’espressionismo

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vero e proprio, perché i pittori espressionisti, inizialmente, si riferiscono ad un dato reale che, poi, deformano, mentre l’espressionismo astratto parte dall’interiorità per esprimerla e per rendere tangibile “l’era della grande spiritualità”.Infatti, Kandinschy in “Dello spirituale nell’arte” sostiene che se la forma è astratta essa è più pura e primitiva.Misuratore di questa astrazione deve essere il sentimento. Tra l’altro, il riguardante, guidato dall’artista, si familiarizza sempre più con le forme astratte, fino a quando anche lui, come l’artista, ne diventa padrone.In questo contesto Kandinscky mette in evidenza anche il fattore comunicativo dell’arte poichè pensa di scoprire dei codici che affida alle forme e ai colori, i quali avrebbero dovuto avere la stessa funzione di quelli della lingua.Solo in questo modo l’invisibile, per lui, si sarebbe potuto rendere visibile. Da questa corrente poi ne scaturiscono altre fino a giungere all’Informale che prendendo, è vero, le mosse dall’espressionismo astratto ne capovolge i valori, pur continuando ad usarne le forme.

Così laddove il primo intendeva esprimere la spiritualità, il secondo esprime, invece, sensualità, privilegiando un’arte brutale e materica che si rappresenta ora attraverso il segno, ora attraverso la materia, ora attraverso l’azione, ma che in ogni caso vuole rendersi indipendente dalla morale e dall’utilitarismo.In altre parole, l’arte informale è tutta affidata alla potenza del segno e alla

tensione emotiva che si scarica su un supporto, e per ciò stesso è aliena dall’individuare codici linguistici, dal fissare valori e gerarchie perché

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tutto si esaurisce nel qui ed ora, nonché in una pura dimensione spaziale.L’opera non rappresenta una trance de vie, ma è essa stessa “vita”, serve per vivere e fors’anche per curare l’angoscia del soggetto, per cui si “carica” di individualismo esasperato, dal momento che le ideologie delle avanguardie sono fallite.Di conseguenza, l’opera d’arte si allinea agli accadimenti esistenziali e si articola in un tempo senza direzione né orientamento allo stesso modo dell’esistenza nella sua disorganicità e frammentarietà. Essa è un grido puro, un gesto puro che “conforma” una struttura visiva, un’immagine, le quali testimoniano il gesto dell’artista, che, in realtà, potrebbe anche non essere testimoniato.Solo in questo senso l’Informale ricade nella mistica da cui era fuggito e quindi prospetta ancora una volta la morte dell’arte. Da un lato il gesto dell’artista è astorico e quindi potrebbe essere

inutile, ma dall’altro lato l’inutilità del gesto è riscattata dal bisogno insopprimibile tutto umano della creatività, la quale, a questo punto, non serve ad esaltare la centralità dell’io, semmai a stabilire un confine invalicabile tra l’io stesso e la creatività e quindi l’arte, non potendo rappresentare la proiezione dell’artista oltre questo limite, diventa inutile. Da queste premesse, già datate di qualche

decennio, è facile giungere ad un gesto estremo, cioè al suicidio, unica alternativa all’impossibilità dell’arte di valicare un confine, un aldilà in cui non si crede più.Quindi ben si spiega, a distanza di circa un cinquantennio dalla nascita dell’Informale, il gesto iconoclasta di Gino Cilio. Infatti, l’Informale è stato l’ultimo periodo di riferimento cui l’artista si è ispirato ma che aveva già perso in lui la valenza dionisiaca di un Pollock in favore di un gesto più meditato, tendente al recupero dei valori formali.Già nel lontano 1995 egli articolava le sue composizioni assemblando superfici monocrome, “lavorate” col catrame, a riquadri vuoti, in un’alternanza, nello spazio, di vuoti e di pieni.

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Successivamente, le superfici monocrome si ispessiscono sempre più di catrame fino a giungere al nero assoluto. Da lì, per opposizione, è agevole pensare ad un altro non colore, il bianco, e quindi alla lacerazione della superficie prima e alla completa eliminazione poi.Per Cilio, dunque, il passaggio dal vuoto come fatto spaziale, al vuoto come fatto concettuale è stata tappa quasi obbligata.Il suo gesto, oggi, è “estremo” perché arriva al suicidio dell’artista e conseguentemente all’annullamento dell’opera.Tuttavia, in questo momento resta l’uomo, straniero al mondo dell’arte. Egli porta su di sé il dramma di essere straniero e quindi la sua dimensione è quella dell’angoscia e della solitudine, in quanto non riconosce più le strade dell’arte, da lui percorse in lungo e in largo e che le erano diventate così familiari da dimenticare le proprie origini, il senso vero che lui aveva attribuito alla sua vocazione artistica, per la quale aveva affrontato, ragazzino, un primo dramma di essere straniero di fatto in una grande città, Milano, cui era approdato dalla Sicilia, ed ora a distanza di un quarantennio allo stesso modo è straniero all’arte. Infatti, nel momento in cui ha percorso tutte le sue strade, come sostenuto sopra, ha perso di vista la propria origine, le proprie radici. Ora, non riesce a rispondere all’angosciosa domanda del perché dell’arte.Il suo échec è doppiamente tragico: da un lato l’artista Gino Cilio si sente estraneo al mondo dell’arte, dall’altro l’uomo si sente estraneo anche a se stesso, alle proprie radici artistiche.Tuttavia, questa estraneità lo pone anche su un gradino di superiorità che è dato dalla consapevolezza per cui l’arte, in questo preciso momento, è rifatta sull’arte e non sul mondo. Fino al secolo scorso c’era un mondo terrificante ed incomprensibile per quanto si voglia, ma c’era l’artista che cercava di conoscerlo e rappresentarlo. Oggi non c’è più nemmeno quello.La scienza, sopprimendo ogni visione antropologica della terra, ha scavato un abisso tra l’uomo e il mondo, fra la civiltà tecnologica e scientifica e l’umanistica e in questo abisso Cilio si è calato, decretando, per l’ennesima volta, la morte dell’arte rifatta sull’arte, di un’arte che non è più estetica, ma estetismo.Bisogna tenere presente che mentre l’estetismo del secolo scorso di un Wilde o di un Pater era dimensione interiore, frutto di studio e disciplina che si riverberava nell’atteggiamento esteriore, l’odierno è solo dimensione epidermica, forma svuotata di contenuto, trouvaille gabellata per arte, kitsch sfacciato.In queste condizioni, tutta l’arte non ha senso per Cilio, il quale toglie dapprima la superficie dal supporto e poi annulla anche il supporto stesso e quindi ogni segno anche minimo che possa indicare attività conformativa.A questo punto l’operazione presenta due problemi: il Ri-Quadro vuoto di superficie prima e la sua nullificazione poi, testimoniati dal titolo “1 +

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Uno”, si possono interpretare sia come “rappresentazione” del massimo grado di spiritualità introdotta nella non-opera, sia come annullamento in toto dell’opera d’arte.Infatti, se il trascendente e l’eterno sono privi di forma, nullificando la forma, essi nella loro assolutezza entrano a pieno titolo nel mondo dell’arte.Se consideriamo l’opera d’arte come tentativo di imbrigliare l’attimo, che fa peritura la vita per renderlo eterno, ne deduciamo che quell’attimo può essere bloccato solo da una forma.Ora, nella cultura occidentale il concetto di “forma” ingloba in sé più significati.Per semplicità ci si riporta alla distinzione che ne facevano i Greci che indicavano con morphè la forma sensibile, e quindi limitata, e con èidos la forma intelligibile, la quale conteneva l’illimite, la totalità.Le varie tendenze aniconiche o addirittura iconoclaste, come sostenuto più sopra, nascono proprio perché asseriscono che il trascendente, l’eterno è informe.Già Kant aveva sostenuto che l’opera d’arte contiene “fattori” di autotrascendimento perché la sua aspirazione è quella di essere più-che-forma.Il suo pensiero, infatti, si articolava tra il concetto di bello e di sublime. Il primo era l’oggetto di un piacere “senza alcun interesse” e sgorgato dalla consonanza ed equilibrio dell’immaginazione e dell’intelletto, per cui procurava calma e tranquillità in quanto adeguato alle facoltà umane. Mentre il secondo si nutriva del contrasto tra immaginazione e ragione, per cui procurava fremito e commozione poichè la prima non riusciva ad abbracciare grandezze incommensurabili che invece la ragione poteva fino ad elevarsi all’idea di infinito.A partire da questi due concetti sono state date varie soluzioni dai diversi pensatori a seconda della Weltanschauung di ognuno.Anche Gino Cilio, nell’ambito delle sue possibilità espressive e quindi nello stretto ambito artistico, ha cercato di dare una risposta a questo dualismo.Egli lo ha fatto ri-quadrando uno spazio vuoto di superficie e poi eliminando anche il Ri-Quadro; ne consegue che, mancando questi elementi sensibili costitutivi di un’opera, essa si riempie di vuoto.Tolta la superficie, su cui sempre si poteva lasciare una forma, anche come traccia, o su cui si poteva esprimere persino in forma tautologica il concetto di arte, l’opera d’arte muore nel senso in cui “tradizionalmente” siamo abituati a fruirla. Infatti, l’artista, nel dar “forma” all’attimo perituro, era considerato come uno sciamano

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che intraprendeva il suo viaggio nelle regioni infere, celesti, ultraterrene, per portare in superficie e manifestare ciò che agli altri era oscuro.Ma se in Gino Cilio l’opera d’arte non è “formata” perché non c’è superficie e quindi morphè, qualunque morphè, dalla parola al suono, al segno…., conseguentemente non c’è neanche l’artista sciamano che quella morphè presentifica anche in grado infinitesimale.Infatti, con questa oper-azione l’artista ha eliminato la forma sensibile limitata e limitante, per cogliere l’èidos, la forma intelligibile e quindi l’illimite, l’eterno.Tutto ciò avviene allo stesso modo di un corpo, quando esalato l’ultimo respiro, scarcera dalla materia appesantente lo spirito che, ora libero, si rivela come enèrgheia pura, “urlo” originario prima e dopo la materia stessa.In conclusione, nel momento in cui Gino Cilio toglie la superficie, mostrando il vuoto “pieno” di vuoto, esprime il sublime, l’illimite colto nella sua forma pura.Quale la funzione, allora, dell’artista?Nel nostro caso egli non è più lo sciamano, ma il sacer-dote che è riuscito con un gesto, con un actus sacrale, a liberare lo spirito, l’eidos, l’illimite, dalla materia e lo ha presentificato come “Ri-Quadro” vuoto.Egli ha compiuto il “miracolo” di portare in presenza (da prae-esse) l’enèrgheia universale che in tal modo risulta appagante in modo assoluto, come mai potrebbe fare una superficie in cui la morphè dovrebbe contenere l’èidos e mai potrebbe farlo, perché la forma limitante è sempre sensibile anche quando la materia ha raggiunto il grado massimo di rarefazione. Ma, nel momento in cui la forma sensibile è stata eliminata, la forma intelligibile, l’illimite, in quanto enèrgheia pura, si ribasce, si è liberata e la non-opera si è assolutizzata.Solo in questo modo l’actus dell’artista sacer-dote è potuto diventare realmente astorico e quindi eterno: la non esistenza è diventata esistenza perenne, la morte ipotetica si è elevata all’immortalità, morta l’arte essa non può rimorire, può solo eternizzarsi. Se prendiamo, poi, in considerazione l’altra ipotesi per cui il gesto di Cilio è di scetticismo nei confronti dell’opera d’arte, ne risulta che il suo azzeramento deve nuovamente riferirsi al pensiero sotteso alla corrente Informale, per la quale il vitalismo del gesto tende a riscattare la passività dell’idea, il vuoto e la casualità. In tal modo l’artista informale reagisce all’èchec, scacco, nichilistico in quanto lo previene attraverso il gesto che cerca di entrare, come sostiene Calvesi “in simbiosi panica con il naturale, restando ambiguo nell’indeterminazione stessa dei moventi e del ruolo psicologico che l’azione assume: ora, appunto come slancio vitale, ora come impulso centrifugo che tende a proiettare la personalità in un al di là di se stessa, cioè nell’amaro limbo

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dell’alienazione”. (M.Calvesi in Novecento, vol.X, ed. Marzorati, Milano, 1980, pag. 9531-2)Emblematica, in questo senso, è l’opera di un Capogrossi o di un Fontana, per i quali lo spazio è un fenomeno aperto, ramificato, vissuto

in funzione esistenziale, la cui aspirazione è di natura cosmica.Ma, laddove Capogrossi distrugge la forma tradizionale sulla superficie, ma in ogni caso ve ne sostituisce un’altra, Fontana invece l’abolisce, bucando la tela infinite volte, per cui la superficie non è più, come nel primo, piano che può contenere la forma, ma è materia, è spazio o meglio fenomeno spaziale ed è in questo spazio che interviene l’artista, proponendo e riproponendo il suo gesto. Allora, esso spazio si fa materia su cui l’artista opera in un tempo senza direzione e in un senso antimonumentale. Il buco rappresenta il disinganno, l’impossibilità di ogni metafisica e di ogni idea di eternità.Fontana, in realtà, è stato il primo artista

che col suo gesto ha “violentato” la superficie.Gino Cilio, che certo Fontana dovette avere presente nel togliere tale superficie, deve necessariamente andare oltre e l’unico andare oltre può essere solo quello di “strappare” la stessa dal supporto, superando in questo senso il pensiero di Fontana sull’impossibilità di ogni metafisica, per reintrodurre la realtà tout court.Il Ri-Quadro vuoto così può “riquadrare” una qualunque trance de vie, quindi il problema si riporta all’origine, al puro fenomeno riquadrato, all’esistenza in sé, con tutti i suoi interrogativi non risolvibili.Se Cilio non ha trovato nell’arte attuale o del recente passato nulla di valido e costruttivo, ne risulta che deve svuotarla di contenuto, di valore oggettivo e storico. Quindi, l’esserci dell’arte diventa esserci per la morte, come si potrebbe dire parafrasando Heiddeger. Anche l’altro filone, l’ Astrattismo geometrico, tende ad introdurre nell’opera il massimo grado di spiritualità. Esso ha in Malevic e in

Mondrian i maggiori rappresentanti dell’aniconismo artistico di inizio secolo ventesimo, che decreta, insieme a quello di Kandinschy, la fine della rappresentazione del mondo, in favore di una

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rappresentazione senza oggetti, perché ad essere raffigurata è la sensibilità pura. Infatti, l’arte, pur restando “copia”, è “copia”, però, delle sensazioni.Al di là dell’origine dell’astrattismo, sia espressionista che geometrico, che per l’economia del nostro discorso interessa relativamente, ci rifacciamo, ora, al Neoplasticismo che ha in Mondrian il teorico più acuto. Nel suo pensiero confluiscono molte delle istanze della cultura del secolo appena trascorso, dall’esistenzialismo alla teosofia, all’influsso cubista, alle coeve correnti astrattiste, alle teorie purovisibiliste, ecc…Per il Neoplasticismo c’è alla base dell’esistenza un dissidio profondo tra l’universale e l’individuale, che, secondo le tendenze esistenzialistiche, costituisce il “tragico”, impossibile da eliminare nella vita. Addirittura il gruppo De Stijl sostiene che scomparirà il giorno in cui nella vita possa realizzarsi la bellezza.Quindi Mondrian accostandosi alla realtà tragica che il secolo stava vivendo, la prima guerra mondiale, si convinse che solo attraverso la meditazione sui valori universali sarebbe stato possibile un reale accostamento alla realtà e inventò, pertanto, un codice assai vicino a quello linguistico, come già Kandinsky, con cui si sarebbero potuti inviare dei messaggi riguardanti i molti aspetti dell’arte, dalla pittura, alla scultura, all’arredamento, all’architettura, alla grafica, ecc…In questo senso Filiberto Menna così si esprime: “L’astrazione di De Stjil ha appunto questo significato sostanziale: di ridurre l’infinita varietà dell’universo fenomenico ad elementi limitati e costanti, ossia a vere e proprie invarianti” (F. Menna, La linea analitica dell’arte moderna, Einaudi, Torino, pag. 71).E’ come se Mondrian fosse riuscito a trovare un tema musicale che poi variava secondo un ritmo rigoroso, allo stesso modo il contenuto di un dipinto era punto di partenza e nuovo fine, come in realtà l’armonia universale.Ora, visto in questo contesto, se il tragico della vita, cui si è accennato, è costituito dallo squilibrio tra universale ed individuale, c’è un modo che contribuisca se non ad eliminare, a ridimensionare la scomparsa del giorno in cui la bellezza possa realizzarsi nella vita?Mondrian sostiene che, se si individuano dei principi riconducibili alla natura, questo non può avvenire. Ma, se si individua un sistema di segni e colori antinaturalistici, non simmetrici, dinamici, luministici ottenuti, in quest’ultimo caso, attraverso i fondi bianchi, espressione di massima

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luce in una composizione, cui si aggiungono zone nere, espressione di massimo buio, allora è possibile realizzare l’armonia data, oltre che dai colori, anche dalle forme.Questi si devono sviluppare in uno spazio che non è quello fisico ma su una superficie in quanto luogo mentale.

L’uso dei soli colori fondamentali non dà, poi, luogo ad interpretazioni soggettive, mentre l’uso della linea verticale ha la funzione di rappresentare il principio vitale attivo e quindi maschile e quella orizzontale il principio passivo e quindi femminile. Dal loro incrocio germina la vita e per ciò stesso anche la vita dell’opera.In tal senso, essi esprimono, assumendo valore simbolico, il senso di una

“costante” in quanto massimamente oggettivi. Solo in questo modo il tragico della vita può essere eliminato.Ma se Gino Cilio in un sol colpo scioglie il nodo gordiano della superficie, toglie lo stesso tragico, eliminando anche il dualismo tra individuale ed universale, per propendere in modo assoluto o per l’uno o per l’altro, ma in ogni caso togliendo uno dei due termini del contendere toglie la radice del tragico, per penetrare in una dimensione assolutamente altra che può risolversi o in scetticismo assoluto o in totalità assoluta nel tentativo di sfuggire al caos o di penetrarlo.Mondrian aveva assistito alla tragedia della prima guerra mondiale. Ora si assiste ad una miriade di guerre: in Kossovo, in Afganistan, in Iraq, all’assurdo della distruzione delle Torri Gemelle, senza contare le “guerre dimenticate”. Ma, a differenza di un secolo fa, quando la violenza si toccava con mano, oggi ogni tragedia è spettacolo offerto dai media che anestetizzano le coscienze. Allora, se l’artista ha un ruolo nella società, il suo è quello di vedere l’altro lato delle cose e per Gino Cilio l’altro lato delle cose è o piombare nel caos o rinchiudersi nella torre d’avorio della deresponsabilizzazione, come giustamente osserva Galimberti, quando a proposito della contemporaneità, sostiene che all’uomo contemporaneo si chiede non di agire ma solo di “fare”, di far bene la trance del suo lavoro.Il fine per cui lo fa non gli deve interessare, è ininfluente, non lo deve conoscere, in questo senso lui non avrà alcuna responsabilità.Adesso, allora, l’interrogativo che l’ “oper-azione” di Gino Cilio pone è: è possibile, nella situazione attuale di “derealizzazione” della realtà, dare un senso all’opera di un artista? Sulla stessa via imboccata da Mondrian, ma in altro contesto, si muove la ricerca del Suprematismo russo che vede in Malevic il rappresentante più estremo.

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In Russia, è con questo movimento che il segno si svincola dal soggetto rappresentato, per assumere valore autonomo. Le ascendenze, neanche a dirlo, sono da ricercarsi nel simbolismo, nel cubo-futurismo, nel raggismo, ecc… oltre che nella Scuola formalistica russa che ufficialmente si forma intorno al 1915.Essa considera l’opera come oggetto autonomo che esprime un linguaggio convenzionale ed antiimitativo, sovrapersonale e presenta leggi intrinseche sue proprie.Malevic, allora, vuole, raggiungere una razionalità “transrazionale” con leggi, costruzioni e significati autonomi e questo lo porta a ricercare forme pure senza alcun referente fisico. Elabora così nel 1915 “Quadrato nero su fondo bianco”, che vuole essere una forma pura di semplicità non oggettiva, rappresentando esso stesso la sensibilità, la percezione dell’inoggettività, ed essendo anche padre da cui derivano tutte le forme.Anche il bianco ed il nero obbediscono agli stessi principi: il bianco in quanto simbolo della pura azione, il nero, somma di tutti i colori, in quanto simbolo della massima concentrazione di energia.L’artista stesso dichiara di essere arrivato al punto “zero” della pittura, cioè all’ “essenza” della pittura.Da sottolineare, tuttavia, che il bianco non è scetticismo, ma intuizione positiva del nulla-vuoto, apertura verso la conoscenza di questo stesso nulla-vuoto opposta al mondo illusorio degli oggetti.Dopo una successiva fase di Suprematismo dinamico, Malevic torna alle istanze metafisiche precedenti con “Quadrato bianco su fondo bianco”, ma esasperandole in quanto a rappresentatività simbolica.Ora sono solo due i fattori di trascendimento del reale ridotto a forma simbolica, il quadrato e il bianco: superficie e bianco, a suo dire, gli permettono di esprimere la sublimazione dell’Assoluto che l’artista stesso definisce “bianco”. Nel frattempo, sul versante opposto a Malevic, il Costruttivismo, invece, di Rodcenko e compagni pur muovendosi sulla linea della non oggettività, esprime istanze culturali e sociali diverse, in quanto l’arte ha la funzione di identificarsi col lavoro che deve essere trasformato dall’attività dell’artista.In relazione a questo punto di vista l’opera d’arte, allora, deve eliminare ogni riferimento alla soggettività, sbarazzandosi di ogni contenuto filosofico, simbolico, ecc… tesa unicamente a costruire una vita materiale, attraverso una ricerca analitica e sperimentale che porta l’arte stessa a elementi minimi significanti, utilizzabili in contesti extrapittorici.In questo senso le “Tre tele monocrome” con i soli colori primari di Rodcenko esposte nella mostra moscovita 5x5=25 nel 1921 decretano la morte dell’arte perché ridotta a tautologia.

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Ovviamente lo scandalo è enorme perché l’arte non ha più nessuna possibilità di essere letta nè in chiave rappresentativa, né simbolica e quindi i tre monocromi possono essere considerati gli “ultimi quadri”.Inizia da Rodcenko, dunque, quel filo sottile che legherà molti artisti delle generazioni successive allo scetticismo e quindi all’annullamento dell’opera d’arte e dell’artista.

Alla luce di queste ricerche, molta acqua è passata sotto i ponti, ma una sola possibilità si aveva di andare “oltre”gli ultimi quadri: quella di togliere la superficie dal supporto operata da Gino Cilio. La stessa forma quadrata delle non-opere o meglio dei Ri-Quadri vuoti di superficie, elimina dall’opera ogni possibilità di percezione per riportarla, se così di può dire, ad una originaria a-percezione, che potrebbe, ai fini di uno sviluppo successivo, articolarsi o in una “riscrittura” dell’opera in chiave sì simbolica, ma con l’utilizzo di simboli più aderenti alla realtà attuale, non potendo l’uomo prescindere dal simbolo, essendo questo l’unica possibilità con cui lui può esprimersi per con-formare la realtà, o verso l’abolizione di qualunque espressione simbolica, la qual cosa, certo, non sarebbe auspicabile! Nel contesto storico di tutti i fermenti culturali della prima metà

del secolo diventa, a questo punto, importante la figura di un altro “genio” dell’arte che, sostanzialmente, riassume in sé molte istanze e dibattiti precedenti, ma contemporaneamente li supera, dando il fiato a tanti movimenti successivi.Questa singolare personalità, titanica e vulcanica, è quella di Marcel

Duchamp.Punto di snodo di tante correnti artistiche contemporanee, dall’Arte Concettuale alla Minimal art, dal Nouveau rèalisme all’Happening, a Fluxus, alla Body art, all’Arte povera, alla Land art, ecc…, su cui egli esercita la sua influenza con l’ avversione per l’arte retinica in favore di un’arte che reintroduca nell’opera il “concetto”.“Ero conscio dell’aspetto retinico della pittura che personalmente volli trovare un altro filone di esplorazione” (K. Kuh, The artist’ voice, ed.

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Harper e Row, New York, 1962, in A. Schwarz, Marcel Duchamp, ed. Electa, 1988, p. 9).Infatti, nel momento in cui la pittura retinica aveva esaurito il suo compito era necessario volgere altrove lo sguardo, cioè, verso un’arte “fredda”, che arrivasse alla mente, come era sostanzialmente nella poetica “Dada”.Per Duchamp l’arte non è più fatto solo tecnico e linguistico, ma si avvale dei più svariati materiali, onde l’avversione ai movimenti di avanguardia precedenti e segnatamente al Cubismo, di cui avversa il carattere statico e al Futurismo di cui avversa il moto in quanto velocità, per sostituirvi il movimento come struttura che altera quella originaria e rende il moto biologico simile a quello delle macchine. Tuttavia, la sua ricerca artistica non si appaga mai, il suo gesto va sempre “oltre” il suo stesso estremismo. I readymade, oggetti di uso quotidiano, che vengono decontestualizzati, non gli servono altro che a far perdere all’arte l’alone auratico. Basta prelevare un oggetto e intenzionarlo in modo diverso per farne un’opera d’arte. L’oggetto d’uso in sé non ha valore artistico, ma lo può assumere solo se l’artista lo nomina.Allo stesso modo, poi, farà Piero Manzoni quando metterà l’impronta del

suo pollice sulle uova o sulle persone.In pratica, il progetto di Duchamp è quello di opporsi alla società borghese, incapace di rappresentare e interpretare il mondo, attraverso la tecnica dello spaesamento che è, poi, esibizione, presentazione del mondo.

La situazione a tutt’oggi si è acuita. Per esistere, bisogna esibirsi, e Gino Cilio esibisce, in sintonia con i tempi, il suo “Ri-Quadro” vuoto di superficie, vi aggiunge accanto un titolo 1+ Uno che in effetti è meno uno, e decreta col suo “Più Uno”, che in effetti è meno 1, una simulazione di realtà, che non è un’altra realtà, ma il suo annullamento, cioè l’annullamento della simulazione propria dell’arte in un mondo che ha fatto della simulazione la “sua” realtà.Ma, a sua volta, così come è simulata, oltre che omologata, la realtà del mondo, allo stesso modo l’esibizione del gesto di Gino Cilio di

annullamento dell’opera d’arte non è altro che un “cerimoniale significante” che “si esibisce” in contesti culturali ed artistici come fine, ma che in realtà è mezzo strategico di persuasione per cui l’arte è morta.

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Duchamp decontestualizza l’oggetto di uso comune per presentarlo come opera in forza di un gesto, per cui l’opera d’arte in senso tradizionale muore; ma, in ogni caso, all’opera è sostituito qualcos’altro che viene sempre e comunque esibito. Gino Cilio, invece, non sostituisce all’opera d’arte alcun oggetto, ostenta solo la simulazione di una realtà che può essere totalizzante o sostanzialmente nulla, per cui la simulazione della morte dell’opera d’arte e dell’artista trova il suo fondamento non più all’esterno e cioè nella violazione di un canone, ma all’interno, nella tensione dell’artista verso l’irreversibilità della morte “data” all’arte, collocata nel suo orizzonte artistico, poetico ed operativo. Dopo Duchamp, singolare personalità di artista ed infaticabile propositore di formule e modi di interpretare l’arte, si eclissa, tranne poche eccezioni, il concetto di gruppo che era stata cifra distintiva dei primi anni del secolo. Emergono adesso singole personalità che conducono per proprio conto la loro ricerca nel tentativo di dare all’arte nuovo impulso e nuove soluzioni.Negli Stati Uniti, così come in Europa, il problema del linguaggio è cruciale, insieme al senso del vuoto, dell’abisso e della caduta nonché del mistero del non detto. Le tele quasi monocromatiche di un Marc Rothko racchiuse da contorni vaghi ed indeterminati richiamano spazi indefiniti, insondabili che catturano l’ego dello spettatore. Lo stesso Clyfford Still sosteneva che l’artista deve fare un viaggio in solitudine “finchè dopo avere attraversato le valli oscure e desolate, non si giunge infine in un luogo di aria limpida, su un altopiano sconfinato. L’immaginazione non è più imprigionata dai ceppi delle leggi della paura, diviene un tutt’uno con la Visione. E l’Atto intrinseco ed assoluto è il suo significato, il veicolo della sua passione”. (Cit. in Sandler, The triunph of american painting, New York, 1970, pag.70).Ecco questo tutt’uno con la Visione ha messo in evidenza Gino Cilio, perchè per lui alla Visione era d’impaccio la stessa tela.Mentre Still aveva una concezione sostanzialmente positiva nei confronti dell’artista, Ad Reinhard ne aveva una scettica, sosteneva, infatti, che era assurdo rappresentare “una realtà al di là della realtà”.Egli lentamente attraverso un processo intellettuale elimina dalla superficie il colore, il disegno e, dunque, anche l’immagine, fino a giungere al concetto di assenza della pittura con i suoi quadri neri che

egli definiva gli ultimi quadri della pittura, appunto perché il nero era campito appena differenziato nei toni. Il fruitore, allora, per scoprirlo era costretto ad avvicinarsi ed osservare attentamente per cui si trovava a vivere una specie di trance.

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Un altro passo avanti poteva essere solo quello di Gino Cilio di lacerare la superficie e toglierla del tutto dopo per poter assolutizzare il concetto di assenza. Un altro artista su cui bisogna soffermarsi, al fine di chiarire il gesto iconoclasta del Nostro, è Yves Klein, che, nel Manifesto dell’Hotel Chelsea del 1961, acutamente si interrogò: “L’artista futuro non sarà forse colui che, attraverso il silenzio, ma eternamente esprimerà un’immensa pittura, cui mancherà ogni concetto di dimensione? I visitatori delle gallerie – sempre le stesse persone – porteranno con sé questa immensa pittura nella loro memoria ( una memoria che non deriverà affatto dal passato, ma che in se stessa sarà conoscenza di una possibilità di accrescere indefinitamente l’incommensurabile all’interno della sensibilità umana dell’indefinibile). E’ sempre necessario creare e ricreare in una incessante fluidità fisica in modo da ricevere questa grazia che permette una reale creatività del vuoto”.A causa di tali premesse, allora, Klein concludeva molte delle sue mostre con un silenzio effettivo, ma “a posteriori”, quasi l’artista fosse un demiurgo in grado di creare un’ “unica zona di sensibilità pittorica dell’immateriale…..” perché “tutto ciò che è fenomeno si rappresenta da se stesso”. Così nel 1959 a Parigi da Iris Clert in Le viole, ou sensibilité pictural a la état de matière première, dipinse di bianco tutte le sale della galleria in modo che i muri potessero rimanere “sensibilizzati” dalla sola presenza di Klein e quando le persone pensarono che avrebbero visto delle opere, si trovarono davanti al vuoto, uscendone scandalizzati.Tuttavia, in questa operazione estrema l’artista rimane sempre un demiurgo, un direttore d’orchestra anche se questa non suona. Cilio, invece, portando alle estreme conseguenze il gesto di Klein, non opera.Il suo è un gesto non a posteriori ma “a priori” e ciò stesso porta all’eclissi dell’artista (che poi sarà la preoccupazione costante di un Piero Manzoni). Infatti il Ri-Quadro vuoto di superficie in-quadra un fenomeno che si rappresenta da se stesso con tutta la sua carica di ambiguità ed inconoscibilità.Ed ancora, recentissimamente, due artisti, tra gli altri, è necessario citare: Ettore Spalletti e Anish Capoor, il primo alla Fondazione Bevilacqua La Masa a Venezia nel 2004 con le sue forme assolute, o a Capodimonte a Napoli nel 1999 con le sue Pareti Bianche porta l’arte verso il silenzio e il nulla, mentre il secondo al Museo Archeologico di Napoli sempre inizio 2004 presenta una tela, di un nero particolare, di m. 2X1 che, contrastando col bianco della parete, assolutizza il non colore per cui introduce nell’opera il massimo di energia e quindi di spiritualità.In ogni caso nei due artisti sopra citati permane sempre una superficie che esprime con un colore o con un bianco o un nero il concetto di arte come vuoto, come silenzio.

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Se facciamo un passo indietro e torniamo a riferirci alla corrente scettica di cui si è detto, intorno agli anni sessanta cominciano ad avere rilevanza pubblicitaria, la critica li ignora, i gesti più o meno scandalosi e scandalistici di Piero Manzoni, il cui pensiero sotteso è poco recepibile per la vulcanicità delle trouvaille, che, tuttavia, hanno un’unica costante, da una parte l’avversione per il culto riservato all’artista, infatti, l’unica concessione che gli fa è l’impronta, dall’altra l’avversione per l’opera d’arte che esprima il mondo psicologico-esistenziale dell’artista, che lui rifiuta in favore di un’opera che rispecchi il fluire dell’esistenza. Infatti negli “Achrome” il suo l’intervento è ridotto al minimo, per dimostrare come l’opera viva di vita propria, sia vitale in se stessa, indipendentemente dalla sua mediazione, e ripetibile all’infinito.Lo stesso libro consistente in 100 fogli bianchi, poi in 100 fogli di plastica, che lui stesso intitola “The life and the works”, mette in evidenza il suo pensiero sempre rivolto all’azzeramento dell’espressività e della spiritualità dell’artista.La mostra allo Stetelik Museum di Amsterdam, da lui intitolata “Ekpostie nul”, dimostra la disintegrazione dell’oggetto artistico e la disintegrazione della personalità dell’artista stesso. Infatti tutte le creazioni prevedevano l’occultamento dell’opera attraverso basi magiche.Gino Cilio giovanissimo a Milano certamente dovette sentire gli echi delle operazioni di Manzoni che rimasero per molto tempo come suoni

opachi nella sua memoria preso com’era, invece, dall’interpretazione della sacralità dell’opera che conteneva l’espressività dell’artista tesa a farsi operazione etica e sociale. Ma, quando, esplorate le strade dell’arte e riportatene l’impressione dell’impossibilità di esprimerla, gli echi di Manzoni nel Nostro si fanno presenza e gli “Achrome” manifestano tutta la loro potenza eversiva.Non resta altro per Cilio che aggiungere un altro gesto: “realizzare” la non-opera in ripetizione seriale infinita e quindi sostanzialmente nulla.La disintegrazione dell’oggetto artistico auspicata da Manzoni è realizzata da Cilio, rappresentando il quadro il modo tradizionale di fare arte, con un semplice gesto: togliere la superficie, assolutizzare l’opera attraverso l’annullamento e contemporaneamente

azzerare l’artista.

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Nel panorama artistico della seconda metà del secolo emerge anche la figura di Emilio Isgrò, che inizia il suo percorso con riflessioni sul linguaggio poetico per darvi connotazione politica, nel senso più ampio del termine. Dice lo stesso Isgrò: “Io rifiutavo la parola, ma non escludevo di servirmene tutte le volte che lo avrei ritenuto necessario: anche perché la mia parola non sarebbe più stata quella dell’estenuato Novecento letterario” (In: Novecento, vol X, ed. Marzorati, Milano, 1980, p. 10187)Infatti, l’artista in sintonia con le poetiche ancora oggi attualissime sosteneva che “la nuova poesia si muove secondo una costante tipica degli ultimi anni, in direzione del gesto e del comportamento” (o.c.) “Sfondato il muro della parola, tutte le strade sono aperte alla poesia: anche quella di negare se stessa. Con la parola e l’icona viene il gesto, con il gesto il modello d’azione” (o.c. pag. 10188).Allora, Isgrò propone il suo modello ed inizia a cancellare volumi su volumi invitando gli astanti a fare altrettanto e a considerare l’arte come contagio e non come plagio. Ma plagio di che cosa? Di un linguaggio utilizzato dai meno per sopraffare e dominare i più. Infatti, l’artista vede nel linguaggio uno strumento di oppressione sulla cultura e quindi della politica istituzionalizzata sulle masse che, ora, cancellando, si liberano dalla schiavitù della poesia.“In una società fondata sulla violenza, l’esercizio della poesia viene concesso come privilegio d’oppressione, di raffinata, orientata, violenza.” (o.c. pag.10.189). Così, con un gesto estremo, cancella volumi interi dell’Enciclopedia Treccani in quanto modello insuperato di linguaggio oppressivo e codificato.Oltre questo gesto, quale poteva essere l’ulteriore? La cancellazione annullava il linguaggio ma non il testo in sé, che portava sempre la traccia delle cancellazioni e la firma dell’autore. Era necessario eliminare l’autore e il testo stesso per annullare definitivamente ogni linguaggio. Ed è, poi, quello che Gino Cilio ha fatto. Anche Vincenzo Agnetti si pone il problema del linguaggio.

La sua prima formazione artistica si attua sull’ Informale, le cui opere, poi, distrugge per passare al Concettuale.Di questo primo periodo lui stesso dice: “Quello che ho fatto, pensato, ascoltato l’ho dimenticato a memoria: è questo il primo documento autentico”. (B.Corà, Vincenzo Agnetti, ed. Peccolo, Livorno, 1997, n° 33, Autoritratto).Da queste premesse saranno costanti nel suo pensiero l’idea di silenzio, di oblio, di vuoto che mettono in evidenza una poetica lucidamente negativa attraverso

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intuizioni-proposizioni sintetetico-concettuali fulminanti come: “Quando mi vidi non c’ero” oppure “Quando ti vidi non c’eri”, oppure ancora “Libro dimenticato a memoria”:E’ evidente come in queste proposizioni lo spazio e il tempo diventino incerti mentre più pressante si fa il gioco tra senso e non senso.La maggior parte della sua opera consiste in un processo di azzeramento del linguaggio comune, per accedere a significazioni inedite espresse in formule fulminanti come, appunto, “Libro dimenticato a memoria”, in cui, obliterato il testo, si oblitera pure il piano di scrittura che presentifica un’assenza che è, però, presenza del tempo della memoria, cioè del tempo dimenticato, che in ogni caso può essere riportato alla memoria con uno slancio vitale, con un atto della volontà.In opposizione, Gino Cilio presenta un catalogo anch’esso obliterato in forma di quadrato perfetto in cui non resta nulla, neanche la traccia delle opere che l’artista avrebbe voluto o potuto immaginare. Si eclissa la stessa dizione “Opere”, si eclissa il nome dell’artista. Il catalogo, dunque, non testimonia più niente, se non il tempo dell’arte rimosso dalla coscienza. Infatti, l’arte nella contemporaneità, come dice G. Chiari: “è piccola cosa”, proprio perché il mondo è di per se stesso significante.Però, laddove Chiari sostiene che anche il gesto artistico si aggiunge ai fenomeni del mondo, che è poi la somma dei gesti, Cilio, invece, reputa ogni gesto conformativo inutile e quindi opta per la morte dell’artista. Resta l’uomo, l’operaio, che non è più neanche “operaio di sogni”, come direbbe Quasimodo, perché oggi ogni possibile sogno a furia di essere esibito ha perso la propria dimensione onirica.“Se uno di noi usa un linguaggio una disciplina qualsiasi per fare arte, presto si troverà costretto ad azzerare, cioè a riportare al punto di partenza, la disciplina stessa. Sarà quello il momento di strumentalizzare la disciplina usata fino a cancellarne la struttura stessa”, sostiene ancora Agnetti nel catalogo citato a proposito della sua opera “Amleto politico.” E Cilio di linguaggi dell’arte ne ha sperimentati tanti ed ogni volta su nessuno si è soffermato, è passato al successivo fino al gesto estremo di annullarli tutti mediante l’annullamento dell’opera e dell’artista che all’opera può dare forma.Ma laddove Agnetti ricomincia tutto daccapo fino alla successiva fase di azzeramento, Cilio non fa ulteriore ricerca. L’uomo oggi ha prevaricato l’artista, evidentemente il desiderio di “fare” arte è scemato, non è più tanto forte come un tempo, l’artista ha bisogno di fermarsi, perché l’uomo ha bisogno di riflettere e di invitare gli altri a farlo.I ritmi tecnologici sono prevalsi sui biologici, il soggetto non può stare più al passo con le informazioni, con l’esibizione di ogni gesto, con l’azione omologante dei mezzi di comunicazione che rendono la realtà

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virtuale. E’ necessaria la pausa, l’elaborazione del lutto, per potere andare oltre, per riuscire a vedere l’altro lato del mondo, quello non costantemente esibito. Ed ancora, fino a ieri l’evento artistico lasciava dietro di sé una traccia per quanto effimera, ma pur sempre traccia. Probante a tal

proposito è l’operazione di Alfano quando, nei primi anni ‘70 nella “Stanza per voci” e nell’ “Archivio delle nominazioni”, ripresentati a Napoli nel maggio 2001 in Castel dell’Ovo, ripensa la forma-quadro lasciandola vuota, ma attraversata da un nastro magnetico che ad un certo punto porta registrata la sua voce che sussurra: “Ora pronunziando il mio nome….la mia voce coincide con il mio tempo presente. Dopo il mio udito…

coincide con un altro tempo.”Ciò mette in evidenza l’impossibilità di una lettura oggettiva sia del mondo, che del senso della stabilità e dell’unità dell’io, nonché l’impossibilità di considerare la realtà come struttura e stimolo per l’elaborazione di un pensiero estetico ed etico.Tutto è volatile ed effimero. Tutto, nella contemporaneità, si consuma nel volgere di un attimo. La stessa attività creatrice e conformatrice perde di senso.Quella di Alfano non vuole essere neanche una provocazione, solo la presa di coscienza di un dato oggettivo nihilistico, in quanto ricerca costante di significato, oltre che dilatazione all’infinito dell’attimo che “coincide con un altro tempo”.L’oper-azione di Gino Cilio, invece, è sostanzialmente critica, perché del passaggio di un artista e della sua opera non c’è più traccia, semmai c’è l’esortazione implicita a ripensare il mondo dell’arte e con essa il mondo stesso e la sua “ri-lettura”, senza sterili polemiche, senza perdere di vista l’uomo che, comunque, rimane con i suoi interrogativi sulla libertà espressiva e ideologica, sull’arte impegnata o disimpegnata, sui possibili linguaggi artistici, fermo restando il fatto che quello di Gino Cilio non è disimpegno, ma coscienza dello scacco, evidenziato da quel Ri-Quadro vuoto di superficie e da un titolo “1+ Uno” che è poi meno Uno e quindi “zero”, onde il titolo dato dall’artista di “Oper-azione A-Zero”. Da un’altra delle molte intuizioni di Duchamp derivano le operazioni di diversi artisti, compresi i Concettuali, i quali sostengono che l’opera d’arte non può essere trattata come una merce, è necessario, invece, che essa ottenga l’appoggio della società in quanto l’arte è indagine che si giustifica da sé.

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I readymade di Duchamp costituiscono un esempio, perché spostano l’accento dall’ “apparenza” al “concetto”. Pertanto, l’arte, ora, non ha a che fare con i prodotti artistici in sé, ma si comprova nell’attività artistica stessa. In altre parole , per i Concettuali ciò che in arte va messo in evidenza è l’idea generatrice dell’operazione artistica. In Italia, in particolare si ha una invariante del “concettualismo” americano consistente nel ridurre, invece, un’opera già storica a concetto con Giulio Paolini, che in una mostra relativamente recente a Londra da Lisson nel 1999, nel suo sapiente gioco di specchi dell’arte sull’arte, allestisce due stanze della galleria, una per l’autore in cui lui si muove tra simboli e tracce di un’arte sua e di un’arte del passato, ed una stanza del fruitore in cui non esiste l’artista, ma appesa alle pareti resta una teoria di cornici vuote e in alcuni punti della sala lui segna con la matita degli ipotetici spettatori.Ogni traccia, dunque, che può lasciare l’artista non può arrivare all’astante, anche se potenzialmente la traccia esiste e potrebbe bastare a ricostruire l’oggetto artistico in quanto esiste la cornice.Ma quando anche questa non esiste più, non c’è possibilità di scambio né di tesaurizzazione, solo in questo modo il sistema si può scardinare e Cilio lo ha fatto in piena consapevolezza, quando tolta la tela dal supporto ne ha lasciato solo il Ri-Quadro. In sintesi: confluiscono nell’operazione di Gino Cilio dal titolo “A-Zero” , che si concretizza nell’esibizione di un “Ri-Quadro” privo del piano pittorico e che ha un titolo “1 + Uno”, le due istanze che serpeggiano nelle opere di molti artisti del ventesimo secolo: la scettica, rappresentata dall’1 e la metafisica rappresentata dal + Uno.Le due tendenze spesso non si possono separare con un taglio netto nei vari artisti.Un solo esempio fra tutti: Yves Klein, che pur tenta di introdurre nell’opera il massimo grado di spiritualità, alla fine simula il suicidio dell’artista che, nonostante tutto, mette in evidenza anche un certo orientamento scettico.Comunque, a grandi linee si può sostenere che l’indirizzo metafisico iniziato da Mallarme con l’introduzione nell’opera del massimo grado di spiritualità, passa a Kandinsky, a Mondrian, a Malevic, a Yves Klein, a Marc Rothko, a Cliffort Still, tanto per citare i più importanti, fino al 2004 a Ettore Spalletti e Anish Capoor. Mentre l’indirizzo scettico tendente all’azzeramento e all’annullamento dell’opera d’arte e dell’artista si può far risalire ad un Rodcenko, per passare a Duchamp, a Piero Manzoni, a Ad Reinhard, ad Emilio Isgrò, a Vincenzo Agnetti, a Carlo Alfano, a Giulio Paolini, ed altri fino ai giorni nostri col concettuale non ancora esaurito.

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ECLISSI DELL’OPERA D’ARTE ?

Prima di aprire un qualunque discorso sull’arte che l’ “Operazione A-Zero” di Gino Cilio presuppone, è necessario precisare il senso che si attribuisce alla dizione “eclissi”, che nel linguaggio corrente è sinonimo di fine e di morte, mentre in astronomia è “l’oscuramento parziale o totale di un astro dovuto all’interposizione di un corpo o fra la sorgente luminosa e l’astro se questo non è luminoso o fra questo e l’osservatore qualora questo sia luminoso”.Quindi l’eclissi, in questo contesto, è un fenomeno transitorio, esaurito il quale, l’astro tornerà a risplendere.Allo stesso modo l’arte quando, azzerati in continuazione tutti i linguaggi, già da un più di un secolo a questa parte, riuscirà a trovare

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un rinnovato statuto ontologico. Si sarebbe potuto usare interim, break o altro, si è preferito usare questa dizione perché, eclissi mette, si potrebbe dire con un ossimoro, in luce l’altro volto dell’astro, quello momentaneamente oscurato da quel “Ri-Quadro” (verbo o nuovo quadro?) costituito dall’assemblaggio di quattro listelli uniti in forma di quadrato e rigorosamente anonimi che molti interrogativi pone: Trovata? Opera d’arte? Doloroso percorso esistenziale? Enigmatico itinerario artistico? “Gestus” avanguardistico? Consapevolezza della temperie culturale contemporanea? Insofferenza verso un “sistema” dell’arte elefantiaco? Inutilità dell’espressione artistica in una società di per se stessa estetizzata ed estetizzante e costantemente esibita? Inefficacia dell’arte tra scienza e tecnologia? Assoluta irriducibilità tra pensiero umanistico e sistema tecnologico-scientifico? E per converso nullificazione dell’opera in quanto, raggiunto il vuoto, il nulla, lì in quel non-luogo, tutti i linguaggi sono compresenti e quindi l’opera si assolutizza? Realizzazione della bellezza dell’ottavo giorno? Non è proprio in quell’ottavo giorno che passato e presente, natura e spirito, sensibile ed intelligibile, corpo e anima sono compresenti e conciliati? Questi e molti altri interrogativi pone e propone l’operazione “artistica” (?) di Gino Cilio, consistente, in ultima analisi, nel semplice gesto di lacerare la superficie sul supporto, prima, e di toglierla del tutto dopo. E’ rimasto solo un Ri-Quadro “vuoto” dove non c’è un autore ma solo un titolo: “1 + Uno”. In effetti la seconda opera manca, è nulla. Il titolo si riferisce solo al Ri-Quadro privo di superficie, per cui quel più

Uno in effetti è meno Uno, cioè Zero, onde il titolo “A-Zero”.

Dopo un iniziale senso di spaesamento dinanzi a quel “vuoto”, a quel “nulla”, a quella “tabula rasa” si impossessa di noi il bisogno di riflettere e valutare, di intel-ligere, insomma l’operazione.Se l’artista ha “tolto” ogni possibilità di lasciare un segno anche minimo su un supporto qualunque, è opportuno per prima cosa riflettere sulla funzione

che ha la superficie in un’attività artistica conformativa.Euclide definiva la superficie “epiphàneia”, apparizione, delle cose.Da un qualunque dizionario ricaviamo la definizione per cui “la superficie è il contorno di un corpo che si pone come limite tra lo spazio esterno e quello occupato dal corpo stesso, per cui il corpo acquista evidenza”, onde epiphàneia; mentre lo spazio è “l’insieme dei punti in cui i corpi si collocano”.Traslando e componendo le definizioni , risulta che in arte la superficie è l’insieme dei punti su un piano delimitato da un supporto qualsiasi (tela, computer, ecc…) per mezzo del quale essa acquista evidenza.

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Su questa poi si inscrive l’attività dell’artista che determina l’epiphàneia delle cose attraverso un sistema di segni e codici condivisi.La superficie, dunque, è il luogo degli accadimenti artistici.In essa si distinguono due elementi: la figurazione e lo sfondo o meglio

il fondo, quest’ultimo di per se stesso, in base alla definizione di cui sopra, è immagine iniziale di ogni operazione visiva, materia concreta in cui si dispiega il segno dell’artista, sia che esso si assottigli fino all’insignificanza, sia che esso invada tutta la superficie, parimenti fino all’insignificanza, come immagine, ovviamente. In ogni caso la superficie rimane la condizione iniziale imprescindibile che di per se stessa è categoria esistenziale su cui si sono sempre

inscritti i vari linguaggi che hanno in-formato un’epoca.Allorché una qualunque attività formativa si assottiglia e scompare, o quando un segno si ispessisce e invade tutta la superficie, ci troviamo sempre e solo davanti al concetto di arte ridotto a tautologia, come già in Rodcenko nelle sue tre tele monocrome (giallo, rosso e blu primari) esposte nel 1921 alla mostra moscovita “5 x 5 = 25”, che tanto scandalo suscitarono.Infatti, arrivati a questo limite del monocromo, la pittura perde ogni consistenza, ogni particolarità inessenziale per attualizzare solo se stessa colta al di là dell’esistere, al di là di qualsivoglia sistema di segni complesso.Molti artisti a partire da Rodcenko si sono cimentati con le superfici monocrome, attribuendovi significazioni le più svariate, in quanto sostituti simbolici delle varie e particolari forme di espressività su un piano, vale a dire della prassi della figurazione pittorica.Ancora nel maggio del 2004, alla Fondazione Bevilacqua La Masa di Venezia, Ettore Spalletti presenta le sue superfici monocrome in quanto proposta di azzeramento e silenzio, di contro alle “opere straripanti di vitalità contemporanea” di un Patrick Tuttofuoco.Oppure al Museo Archeologico di Napoli tra Ottobre 2003 e Gennaio 2004 Anish Kapoor esibisce un rettangolo nero di m. 2 X 1 disposto verticalmente su una parete bianchissima, per cui l’energia che promana da quel nero si assolutizza a causa della sua qualità particolare. (Già in Malevic esso era simbolo della massima energia essendo costituito dalla somma di tutti i colori).

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Tuttavia in questo artista esiste sempre una superficie e un artista che su quella interviene col non-colore. Questi stessi elementi sono limitanti l’assolutizzarsi dell’energia. Invece se si toglie la superficie essa si può cogliere nella sua totalità.Comunque sia, facendo un passo indietro nel tempo, Fontana per primo ha osato “violentare” la superficie attraverso il gesto ossessivo di bucarla, facendo vacillare il concetto di pittura, ma lasciando, tuttavia, lo “spazio” della superficie, il fondo, su cui comunque proponeva e riproponeva il gesto di bucarlo o tagliarlo. Un ulteriore passo avanti poteva essere solo quello di lacerare la superficie come ha fatto Gino Cilio, per vedere con occhi più smaliziati l’ “oltre” di essa, la realtà tout court che dalla luce trae evidenza e significazione, mentre dal buio riflessione e significato.In ogni caso, comunque, nel Nostro la materia pittorica comincia a stare fuori dalla rappresentazione anche in forma tautologica. Basta un solo gesto ancora, quello di togliere del tutto la superficie, per portare l’artista alla sua dimensione tragica, in quanto necessitato da una scelta che sta tra il sì e il no della rappresentazione. Una figuratività qualsivoglia, un segno pittorico qualsivoglia, per esistere ha bisogno di una superficie a due dimensioni: larghezza e lunghezza, ma se è tolta la superficie, rimane un supporto che contiene sempre larghezza e lunghezza, a cui si aggiunge inevitabilmente la profondità, che era prima escamotage solo in presenza di attività formativa.Tra l’altro attraverso la larghezza e la lunghezza l’ illimite era inevitabilmente “limitato”, con la profondità tout court l’illimite può entrare a pieno diritto nell’opera, l’illimitatezza della totalità del mondo non è più rappresentazione, ma sensazione pura dissolta nella più pura immaginazione.Oltre questa soglia è il “Vuoto” assoluto, il “Nulla” cui si perviene se si toglie anche il supporto, infatti all’ultimo “supporto dell’arte” l’uomo Cilio ha dato un titolo, che potrebbe essere l’ultimo titolo della storia dell’arte: “1 + Uno”. Laddove la seconda opera manca, la non-opera si assolutizza e l’opera d’arte trapassa dal piano fisico al piano metafisico, la Pittura si è totalmente emancipata dal fatto “retinico”, come direbbe Duchamp, ma anche da qualsivoglia fisicità indotta da un altro oggetto sussunto ad opera d’arte.Da questo momento in poi o l’opera d’arte è solo realtà tout court o è aisthesis pura, sensazione pura, cioè. Essa si può eclissare, scomparire

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momentaneamente per “ri-comparire” nella forma della totalità, in quell’ Uno che costituisce la seconda parte del titolo dell’ultimo Ri-Quadro dell’arte: Altre interpretazioni dell’eclissi dell’arte è possibile stabilire in relazione all’operazione “A-Zero” di Gino Cilio.Nella civiltà cibernetica globalizzata, di cui si parlerà in altra nota, è chiarificatore esaminare il senso che l’opera di un artista assume in seno ad una società tecnologicamente avanzata.Fino a buona parte dell’ 800, l’artista aveva rappresentato con le sue opere l’autocoscienza di un’epoca e di un popolo che in esse si riconosceva e, pertanto, la loro “lettura” aveva validità gnoseologica dello spirito del tempo.In altri termini, l’opera si configurava come rappresentazione del mondo.Con le Avanguardie storiche il concetto va in crisi, soprattutto nel momento in cui si affaccia l’arte astratta. Il periodo coincide con le grandi migrazioni di masse che dalla campagna si spostano, a causa della rivoluzione industriale, in città. Ed è qui che si articolò e si articola, a maggior ragione oggi, una pluralità di forme di vita che non consentono più di riconoscere un modello stabile, come era stato un tempo il mondo agricolo-patriarcale in cui i ritmi di vita erano quelli biologici e le trasformazioni molto lente.In relazione al passato, quindi, la vita della città si caratterizza per mobilità e instabilità, il che non permise e non permette più di vedere la realtà ed interpretarla sub specie aeternitatis, perché i modelli unitari del mondo si sono eclissati e con essi la ricerca di una verità assoluta, per cui altamente profetica risulta l’idea di Baudelaire che l’artista è responsabile, non più davanti alla storia, ma solo davanti a se stesso.Con le Avanguardie, pertanto, tutta la realtà è posta in discussione e frantumata in infiniti rivoli che decretano la morte della rappresentazione unitaria del mondo e il trionfo delle immagini.Così, alla frammentazione del reale corrisponde la frammentazione delle sfere di esistenza del soggetto non più uguale a se stesso, poichè nel momento in cui lui fa esperienza di qualcosa non è più lo stesso che prima.Infatti, la specializzazione dei linguaggi scientifici, la parcellizzazione dei valori, la divaricazione sempre più ampia tra il linguaggio tecnologico e scientifico e l’ umanistico, già all’inizio del Novecento, delineano quei caratteri che informano tutto il secolo appena trascorso e questo già iniziato.Le Avanguardie storiche, in altre parole, dimostrano la relatività dei linguaggi col crearne infiniti altri, purchè semanticamente coerenti ed autonomi, ma sempre in opposizione a quelli tradizionali che sono sostenuti dalla classe dominante ed oppressiva, cui si oppongono con tutte le loro forze.

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Ora, la possibilità di creare all’infinito nuovi linguaggi ne dimostra il carattere relativo ed effimero. Esso mette in evidenza un concetto fondamentale per gli sviluppi successivi: non è la visione e quindi la realtà che determina il linguaggio, ma è il linguaggio a determinare la visione della realtà.Quella realtà che l’artista ha sempre rifiutato e che con la sua opera ha teso a mutare. Quell’opera in cui tempo e durata non coincidono perché per essa ha valore e senso solo la perennità, in quanto incarna la possibilità di vincere la morte.

Tenute presenti queste premesse molti e articolati risultano fino ad oggi i tentativi di definire l’arte: dal rispecchiamento della realtà, alla naturalità dell’arte, all’arte come tautologia, secondo la nota frase di Tristan Tzara per cui “è arte tutto quello che gli uomini chiamano arte”, ripresa poi in altro contesto da Dickie e Danto per i quali è arte ciò che il sistema dell’arte ritiene tale.Non concordando appieno con nessuna di tali tesi, sarebbe opportuno tornare alla centralità

dell’opera, senza la quale nessuna tesi sarebbe sostenibile. Se è vero che è lei che col suo linguaggio ri-crea la realtà, il sistema attorno a cui ruota l’arte le è sostanzialmente estraneo. Tuttalpiù l’opera dovrebbe essere inserita in quel contesto di derealizzazione del reale che è cifra distintiva della contemporaneità e che sembra aver perso di vista il mondo e ciò che si aggiunge al mondo, come direbbe Eco, cioè la centralità dell’opera nella interpretazione dello spirito del tempo o come direbbero i tedeschi, dello zeitgeist.Quindi, rifacendoci all’idea dell’importanza del linguaggio nel determinare la visione, diciamo che “l’arte è Retorica” Il post-modern che inutilmente ci affanniamo a dire superato, ci ha liberato dall’ossessione di essere moderni con l’auspicare la proiezione dell’oggi su ciò che ci ha preceduto e non si vede come potrebbe essere altrimenti, visto che il confronto, il mixage può avvenire solo ed esclusivamente col passato, essendo impossibile col futuro.Quindi da post-moderni si può sostenere che “l’arte è Retorica”. “Retorica”, tuttavia, non secondo il senso che ha assunto nella contemporaneità di tecnica più o meno vuota di contenuto, ma la retorica nell’accezione con cui era definita dai Sofisti, indifferente al vero o al falso, e quindi “retorica” come parola tragica.I Greci, quando apparve la Sofistica, erano appena usciti dal Medioevo ellenico e non erano stati ancora tracciati i confini tra retorica, poetica e filosofia, pertanto, allora, gli uomini si riconoscevano in un mondo che apparteneva loro, esattamente come oggi, e la stessa vita soggiaceva alla retorica in quanto pèitho, persuasione tragica, in quanto forza eversiva ed antimetafisica.

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“Si dice che il pensiero tragico, anzi il pensiero della tragedia trovi voce nei sofisti. Ad opera della sofistica – questa una tesi oggi ampiamente condivisa – il tragico troverebbe il proprio orizzonte in una ontologia radicalmente dualistica. (….) Non è il dissidio che sulla scena separa agonista e deuteragonista il riflesso di un più profondo dissidio radicato nel linguaggio?” Recita Sergio Givone (Givone S., Storia del Nulla, ed. Laterza, 2003, pag. 27 e seg.)Quel linguaggio che, oggi come allora, crea il mondo, quel linguaggio anche dell’arte che dell’indifferenza al vero o al falso si nutre, ma che comunque paradossalmente produce verità, anche se questa non è nei suoi presupposti come potrebbe essere per la filosofia.“L’arte, più che conoscere il mondo, produce dei complementi di mondo, delle forme autonome che si aggiungono a quelle già esistenti esibendo leggi proprie e vita personale”, sostiene Eco. (Eco U. Opera aperta, ed. Bompiani, 1976, pag. 50).E la vita oggettiva dell’opera sta lì sotto i nostri occhi.Diceva Wilde che il vero mistero del mondo non è l’ invisibile ma il visibile, ed in quanto cosa visibile l’opera sta davanti a noi in tutta la sua fisicità che è poi la greca morphè, la forma sensibile, che contiene quel quid che serpeggia e strizza l’occhio, che non si dispiega apertamente e richiede uno sguardo che indaga al di là della forma esteriore, affinché questa ponga domande inattese che svelino anche la contraddizione del reale, essendo appunto l’arte retorica in grado di produrre unheimlichkeit, spaesamento. In questo contesto, pertanto, sarebbe meglio definire l’opera d’arte come skèma, come forma, appunto, che è sì forma esteriore (spazio, materia, mani, ecc…) ma cava, come sostiene Focillon (Focillon H., Vie des formes, Paris,1934, trad.it. Vita delle forme, S. Bettini, Torino,1972), e in questa cavità il contenuto non è importante, è importante, invece, come esso si trasformi e in questo trasformarsi diventa transito continuo, metamorfosi incessante o se si vuole trasgressione perenne.Nella contemporaneità i cambiamenti avvengono ad un ritmo

vertiginoso. E si può aggiungere che anche ciò che sembra falso, se la realtà è multiforme ed in continuo mutamento, può essere vero.Stante così le cose, oggi è ancora possibile considerare l’opera come forma cava?Le scienze umanistiche possono tenere il passo con l’universo tecnico-scientifico e le codificazioni cibernetiche?Anche queste sono alcune tra le tante domande che affiorano guardando quel Ri-Quadro senza alcuna superficie dell’uomo Gino Cilio.Intanto ciò che si evidenzia lampante in quest’ultimo mezzo secolo è la profonda

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divaricazione tra sapere umanistico e sapere tecnologico e scientifico, come sopra sostenuto.Il primo, frantumando i linguaggi, da molto tempo non riesce più a dare risposte alle eterne domande che l’uomo si è sempre posto, e sempre si porrà, per attribuire senso ontologico al suo essere nel mondo : Chi siamo? Da dove veniamo? Dove andiamo?Il secondo, invece, si compatta sempre più lasciando che la tecnologia, la computerizzazione, la velocità delle comunicazioni, procedano per loro conto.Eppure, fino a qualche decennio fa, in quel clima di generale rinnovamento succeduto all’evento bellico, ci fu una sorta di convinzione fideistica nella possibilità della tecnologia e della scienza di convivere con l’Umanesimo e che si incarnò in quella singolarissima figura di scienziato e poeta che fu Sinisgalli con la rivista: “Civiltà delle macchine”, per mezzo della quale era miracolosamente riuscito ad aggregare personaggi come Ungaretti, Solmi, Turcato, Perilli, Fortini, Caproni, Burri, Mafai, ecc… e scienziati come Vaccarino, Wiener, Ceccato, Panaria, Somenzi ed altri, fiduciosi tutti che il progresso tecnologico fosse solo benefico.Lo stesso titolo “Civiltà delle macchine”, e non era o epoca o altro, fu una geniale intuizione che stette a significare come fosse la civiltà a creare le macchine e non viceversa.Ma di lì a poco si vide anche il potere distruttivo della tecnologia: inquinamento, piogge acide, buco nell’ozono, Cernobil e molto altro ancora minarono la fiducia nel progresso tout court che avrebbe reso confortevole la vita dell’uomo.Dinanzi ai vari disastri il poeta, l’artista, il critico, insomma l’uomo di cultura umanistica si defilò, lasciando che fosse la tecnologia a creare la civiltà e a sommergerci con la sua messe di immagini estetizzanti ed accattivanti che mutano con la loro realtà virtuale la nostra percezione del mondo.Nel frattempo le neo-avanguardie più o meno a noi contemporanee perdono lo slancio ideologico delle storiche. Le opere degli artisti, oggi, non esprimono più un linguaggio che è visione di un mondo da trasformare, non è condizione di un ordine futuro delle cose, non suscita giudizi e non condanna, semplicemente si ingloba dentro il sistema neo-capitalistico.In sostanza il sistema ha fagocitato l’artista con vantaggio per entrambi. Ma il prezzo da pagare è che lui e la sua coscienza etica, in nome del dio mercato, si prostituiscono.Il prodotto artistico è merce che deve essere smerciata e si deve servire di stilemi linguistici facilmente riconoscibili dalle masse che costituiscono il mercato. L’opera non ha più neanche potere di denuncia, di opposizione tragica, come era stata quella delle avanguardie storiche, al massimo può sfiorare l’ironia, la parodia, il sarcasmo.

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Ogni trouvaille è gabellata per opera geniale, dal gallerista attaccato al muro con l’adesivo da imballaggio, allo sterco di elefante, all’artista legato al guinzaglio e così all’infinito.

Se queste sono operazione artistiche di lettura complessa del reale, allora l’arte è davvero fuori “misura”, è, eticamente, totalmente inadeguata a confrontarsi con l’odierna civiltà cibernetica, che, con la sua esorbitante messe di immagini, derealizza il reale, lo estetizza, lo omologa, lo anestetizza e contemporaneamente anestetizza anche le coscienze.Allora, se la condizione dell’arte è questa, è necessario per un attimo sospendere ogni giudizio, annullare l’opera, come ci fa vedere appunto

Gino Cilio con la sua “Operazione A-Zero”, per avere la possibilità di guardarsi intorno e nel buio e nel silenzio della propria riflessione, trovare una risposta chiarificatrice a quest’oggi cibernetico in cui l’umanesimo si attesta su posizioni di assenza, di distacco, di rimpianto.In un momento in cui non esistono barriere spazio temporali, in un momento in cui i rapporti tra individui anche in guerra tra di loro possono agevolmente stabilirsi, salta evidente quel problema, di kantiana memoria: “Cosa posso conoscere” di questo mondo che colgo attraverso immagini che possono riprodursi all’infinito e che, pertanto, percepisco per mezzo di una infinità di linguaggi che dissolvono il reale in una pluralità di “mondi di vita”?In altri termini, se all’oggettività della rappresentazione si sostituisce la soggettività della interpretazione, che parcellizza il reale in mille rivoli già da circa un secolo, quale la funzione dell’opera d’arte in questo contesto?Essa, tradizionalmente, ha avuto il compito di farci vedere la realtà con altri occhi, di intensificare la nostra esperienza di vita. E questo dovrebbe essere incontrovertibile anche oggi.L’artista non deve distaccarsi da ciò che è esterno all’io, deve giungere all’interno di ciò che si considera esterno, per accedere e farci accedere ad una dimensione più articolata e ricca del vivere.L’io, pertanto, non deve restare esterno al fenomeno, ma scendere verso l’interno.Ora, questi principi possono considerarsi ancora validi se si tiene ferma l’idea che la frammentazione dei linguaggi, delle sfere di esistenza, ecc…non sono esterne all’io ma avvengono nell’unità dell’io.Se è vero che l’uomo è formato da mente, psiche e soma, l’equilibrio di questi tre elementi ci dà l’io, il sé, ed in quest’io i vari linguaggi possono

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convivere ed essere espressi, ma per essere espressi devono essere e-laborati e poi estrinsecati con un mezzo, non importa quale, video, straccio, installazione, ecc… poiché tutto può servire per dare una lettura complessa del reale.Se ciò non accade l’arte ha abdicato alla sua funzione.Certo, si ha perfetta consapevolezza che questo è difficile da realizzare, per cui ci sono momenti di “azzeramento”, di vuoto, vuoi perchè non sempre lo spirito del tempo è facilmente decodificabile, vuoi perché la visione del reale, come nella nostra contemporaneità, si ferma all’ “apparenza” delle cose, all’immagine del mondo, vuoi perché premono altre civiltà che mettono in dubbio le nostre certezze, vuoi perché altre branche del sapere, e quindi altri linguaggi, vedi la scienza e la tecnologia, prendono il sopravvento sui linguaggi umanistici, vuoi per altri infiniti motivi.Quindi la stasi, la riflessione sono necessarie per ri-definire il reale e cioè ri-leggerlo per re-intelligerlo (etimologicamente da intus o inter: dentro e tra, e legere: raccogliere, scegliere e cioè leggere il reale interiorizzandolo e trascegliendo quelle idee e quei principi che informano un’epoca).Il divenire storico, sostiene Steiner in “Vere presenze”, ha perso la sua linearità in favore di un percorso spiraliforme. Una spirale che inghiotte e fagocita con il kitsch e il trash esibiti, assimilati, goduti attraverso i mezzi di comunicazione di massa, per cui più manifesta che mai sembra oggi la divaricazione fra linguaggio ed umanità, dialogo e speranza, proprio perché la gerarchia dei valori non è più quella dell’uomo col suo desiderio di “durare”, ma quella delle scienze e della tecnologia col loro frenetico desiderio di evolversi.Tenuto presente quanto sopra, al fine di attribuire all’arte quel senso di perennità per cui l’artista ha sempre vissuto, è possibile una speranza?

A questo proposito, il concetto diltheiano di erlebnis diventa fondante. Dilthey, infatti sosteneva, con lettura profetica, la crisi del mondo occidentale.Ora, tutte le crisi si possono superare rileggendo il passato in modo dinamico, alla luce cioè del presente ed il post-modern, crediamo, gli debba più di un tributo, anche se questo, non essendo stato recepito con la dovuta approfondita riflessione,

sostanzialmente è fallito, anche perchè una nuova visione del mondo si è delineata: la globalizzazione. Il concetto non è nuovo, le varie guerre da sempre hanno cercato di raccogliere sotto la bandiera del più forte più popoli, ma non se ne era mai avuta lucida coscienza, oggi invece la nostra epoca viene indicata come quella della globalizzazione che comporta, come si dirà, omologazione di tutto e di tutti.

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A parer nostro, proprio perché la nostra è un’epoca essenzialmente diversa dalle precedenti in quanto il linguaggio tecnologico e scientifico ha finito per prevaricare l’umanistico, e questo nel passato non era accaduto con la stessa divaricazione, il post modern è più attuale che mai al fine di recuperare i valori più universali propri della cultura umanistica e che vedono, come sostiene ancora Steiner nell’opera citata, nella poiesis, e quindi nell’opera, la possibilità della speranza e nella dignitas la possibilità che il percorso esistenziale dell’individuo trovi una giustificazione, appunto perché quella odierna è una fase di altissima estenuata ed estenuante estetitizzazione della vita.In altre parole, solo se si recupera la poiesis in uno con la dignitas e la capacità tecnica, che permette alla poiesis di essere espressa, si avrà la possibilità di resistere alla “civiltà dell’effimero”, appunto perché, come si diceva, l’opera anela alla perennità.Solo così l’opera d’arte può rimanere sempre un modo di fare esperienza del reale per metterlo in forma, quella forma cava, di cui sopra, che permette una lettura complessa e dinamica dello zeitgeist.E un Ri-Quadro può essere forma cava? In esso è ancora possibile la fusione tra poesis e dignitas? Comunque sia, una cosa è certa: ogni opera, che si possa classificare nel novero di opera d’arte scardina i codici linguistici esistenti, gli stilemi esistenti, per riorganizzarli in una nuova visione e tensione.Ma quali sono i codici linguistici a noi contemporanei, o almeno qual è il presente su cui si dovrebbe innestare il passato? L’evoluzione del pensiero va a piccoli passi e non per rivolgimenti, che taglino i ponti con ciò che ci ha preceduto, nel qual caso saremmo davvero degli sradicati impossibilitati a vivere in un ordine di cose di cui non ri-conosciamo i nessi.Sta sotto gli occhi quale visione fortemente estetizzata ed estetizzante della vita ci danno i mass media: corpo scolpito, forme accattivanti, luoghi lindi e perfetti, ecc….Per comprendere la portata di questo rinnovato estetismo dobbiamo recuperarne la nozione come fu concepita da un Pater o da un Wilde e fare le dovute differenze e considerazioni dato che quel Ri-Quadro privo di superficie non può non farci porre il problema.Per questi artisti la forma esteriore era dimensione di quella interiore e si manifestava in ogni aspetto della vita quotidiana: “L’estetismo non è una forma di basso edonismo, un godere della vita in tutte le sue occasioni, ma una forma raffinata di piacere, che esige cultura, distinzione, applicazione” (D’Angelo P., Estetismo, ed., Il Mulino, 2003, pag. 203). Gli stessi comportamenti dell’esteta si distinguevano da quelli della massa per una ricercatezza ed originalità del vestire e dell’eloquio, insomma l’esteta faceva della propria vita un’opera d’arte e qualcuno di questi atteggiamenti è ancora rispecchiato oggi in artisti come Gilbert & Gorge.

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Ora se confrontiamo questo modo di concepire l’esistenza con l’odierno, risulta evidente che quest’ultimo non è più dimensione interiore ma solo apparizione, superficie, omologazione a determinati standard estetici favoriti dalla percezione spazio-temporale virtualizzata: gli stessi edifici, gli stessi McDonald’s, le stesse griffe in tutto il mondo, ecc…. per cui risulta difficile distinguere la dislocazione materiale delle cose che è poi dislocazione spaziale.Non si percepisce più neanche la natura se non attraverso quella offerta dal “Mulino Bianco”, dal vino “Tavernello”, dalla pasta “Barilla” e così via. In questo contesto, si cerca di omologare la realtà che si ha sotto gli occhi a quella estetizzante offerta dai mezzi di comunicazione: casa impeccabile, linea perfetta, palestre, automobili, griffe ecc….insomma ognuno ha perso la propria individualità.Basta un banalissimo esempio per rendersene conto. Tutti andiamo in vacanza scegliendo “liberamente” il residence del nostro relax in modo da fare ciò che più ci aggrada. Goduto il meritato riposo, informiamo l’amico, che ha fatto la sua vacanza all’altro capo del mondo, su ciò che abbiamo fatto, inaspettatamente coincide tutto, dagli orari per il desinare, alla palestra, alle visite guidate, ecc…tutto fotocopia. Ma non è solo il relax omologato, ogni altro aspetto della vita gode dello stesso “privilegio”, per cui lo spazio del “privato” si assottiglia sempre più, così come lo spazio della comunicazione, perché non c’è più nulla da dire facendo tutti le stesse azioni. Pertanto il soggetto non è individuo, ma massa su cui “agire” per fini che il soggetto non deve conoscere. Conseguentemente, se l’estetismo del secolo scorso era distinzione, quello di oggi è omologazione, massificazione.Tutti obbediscono allo stesso imput, quello del “Potentato del Superfluo”, intendendo per “Potentato” tutto un sistema di poteri occulti che fanno capo al neocapitalismo post industriale e per “Superfluo” tutto ciò che esula dai bisogni primari dell’individuo. Esso fa sembrare necessario ciò che non lo è, proprio perché è la merce, il superfluo, che “ci” desidera, e di cui si parlerà più ampiamente in altra nota, che ha il suo deus ex machina nella pubblicità.Non era mai accaduto in nessun’epoca che il superfluo fosse così necessario, e questo perché omologa dando la sensazione di appartenenza e l’appartenenza è quella ad un mondo che si ritiene il migliore tra i possibili.

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Ma, attenzione, apparentemente nessuno impone nulla a nessuno ed è per questo che il “Potentato del superfluo” è più subdolo di ogni totalitarismo, perché lascia intatta la sensazione di compiere libere scelte laddove i mezzi di comunicazione martellano le stesse scelte e quindi gli stessi comportamenti, come evidenziato sopra.Conseguentemente, in piena libertà, in apparenza, la coscienza del soggetto si omologa, si omogeneizza.Le catastrofi umane, i problemi sociali, ecc… esibiti e sovraesposti nei mass media tra una pubblicità di automobili, una fiction, uno spettacolo di intrattenimento, assumono tutti caratteri virtuali, anestetizzano la sensibilità, in quanto il vero ha la stessa apparenza del falso, la realtà della metarealtà, perchè tutto può esistere e coesistere in un mondo globalizzato e virtualizzato.Il tempo e lo spazio sono entità astratte appiattite nel qui ed ora. La

campagna e la città non sono reali, sono spettacolo standardizzato che un viaggiatore può consumare allo stesso modo di un pacchetto di patatine fritte.Così decostruito o meglio virtualizzato il mondo perde la sua realtà.Già Platone, millenni prima di Matrix, col mito della caverna, se il mito non racconta ma disvela in forma simbolica ed intuitiva l’esistenza e l’esperienza dell’uomo in rapporto con l’universo, aveva dimostrato

come dei prigionieri chiusi in una caverna, vedendo passare le ombre degli uomini, le consideravano realtà.Analoga è la situazione contemporanea.Allora, in tale contesto, è ancora possibile uno statuto ontologico per l’opera d’arte?Matrix, al di là di ogni giudizio di valore, ha dimostrato che la vita sta in bilico tra il reale e il virtuale.Per poter salvare il mondo bisogna distruggerlo, per poter salvare l’arte, allora, bisogna azzerarla e se nel film, alla fine, il trillo di un telefono riporta alla realtà lo spettatore, allo stesso modo il “Ri-Quadro” vuoto di superficie di Gino Cilio chiama in causa il mondo dell’arte, affinché una volta per tutte si ponga delle domande.Oggi nessuno se ne pone, nessuno ha niente da raccontare, nessuna esperienza da esprimere, essendo tutte le esperienze omologate e per quel poco che si ha da dire ci si serve di un linguaggio povero lessicalmente, proprio perché povero è il pensiero sotteso.Tutti avranno fatto l’esperienza di dire un concetto complesso con termini appropriati, e quante volte ci si è sentiti redarguire!!! Il parlare “semplice”, leggi omologato, è la cosa più bella per comunicare qualcosa!

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Ma si ha poi il desiderio di comunicare e di ascoltare la comunicazione? Se qualcuno prima si pone delle domande, poi riflette e poi comunica qualcosa che non rispecchia lo standard comune di pensiero viene escluso dal gregge perché anticonformista, perché incapace di adattamento e come tale affetto da patologia.Se il conformismo oggi è feticcio esso automaticamente si trasforma in tabù, è necessario violarlo perché ci sia un progresso o almeno una alternativa.Probabilmente anche Gino Cilio è affetto da patologia perché la sua operazione è fuori dagli standard correnti che semantizzano un’opera come opera d’arte. Infatti, gli stili, che un tempo con la loro diversificazione da regione a regione arricchivano il linguaggio di un’epoca, oggi, omologati come sono, non si distinguono più uno dall’altro. Allora il conformismo anche in arte sta per diventare o è già diventato un tabù.Così come taluni popoli che non riescono a violare i tabù religiosi, sociali, culturali ecc… restano bloccati in un certo ordine di cose, allo stesso modo l’opera d’arte inserita a mo’ di feticcio nel sistema del consumo se non è violata non può produrre “visione altra” della realtà.Il Ri-Quadro senza una superficie, la quale un tempo era simbolica dell’opera d’arte, ha violato il tabù consapevolmente.In altre parole, la domanda che si pone è: può l’artista, un tempo anticonformista per eccellenza, sentirsi dèracinè in un mondo globalizzato in cui il processo di omologazione spaziale, culturale, comportamentale, ecc…ha il sopravvento sulla territorialità in cui l’individuo è radicato?In un mondo inflazionato dalle immagini è possibile trovare un orientamento che indichi un passaggio, un cammino…”in cui le cose / s’abbandonano e sembrano vicine / a tradire il loro ultimo segreto, / talora ci si aspetta / di scoprire uno sbaglio di natura / il punto morto del mondo / l’anello che non tiene / il filo da sbrogliare che finalmente ci metta / nel bel mezzo di una verità…”, come direbbe Montale de “I limoni”?In questo momento Gino Cilio, violando il tabù opera d’arte, ha individuato un varco e lo mostra. Non lo oltrepassa. Lo indica a questo mondo confuso e soffocato da una marea di immagini che si frappongono tra il sé e una realtà derealizzata. Se come dicevamo il mito non racconta ma disvela, una interpretazione soggettiva del mito di Narciso potrebbe consentire una semplice decodificazione relativamente alla riduzione del mondo ad immagini e farci trarre le dovute conclusioni.

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Dunque, il mito racconta di Narciso, giovinetto bellissimo, che si specchia nell’acqua di una fonte, non su una superficie rigida, e vede la sua immagine riflessa, ma essa a causa della liquidità rimanda una immagine del giovinetto sempre diversa, cangiante, sfumante, accattivante, comunque irreale. E Narciso si perde tra la moltitudine delle immagini, sordo ai richiami della realtà rappresentata dall’amore della ninfa Eco, fino a perdere anche se stesso.Quindi il perdersi tra le immagini di questa nostra realtà

omogeneizzata, derealizzata, globalizzata, anestetizzata, ci fa dimenticare anche la stessa nostra soggettività, lasciando al “Potentato del Superfluo” di agire indisturbato, col suo imporre regole e comportamenti e quindi anche pensieri e concetti.In questa temperie culturale, il post-modern può essere messo in parentesi?La tecnologia in sé è vuota di contenuto spirituale, bisogna “riempirla”. E come, se non attraverso ciò che ci ha preceduto innestato nello spirito del tempo?Solo così un linguaggio tecnologicamente

giovane di tre, quattrocento anni può, impiantandosi sulle vecchie culture di migliaia di anni, essere vivificato e rispondere alle vecchie domande di senso di cui si è parlato, (Chi siamo? Da dove veniamo? Dove andiamo?) che sono poi eterne, perché i bisogni essenziali dell’uomo sono sempre gli stessi.Ma, poiché in questo momento ne abbiamo perso il senso profondo, e Gino Cilio col suo Ri-Quadro vuoto di superficie ce lo testimonia, è possibile avanzare un’altra ipotesi di “eclissi dell’arte”, proprio perché essa da sempre è stata una interpretazione del mondo ed oggi non lo è più, ridotto tutto il reale a immagine, a linguaggio. Già Hegel, nei primi decenni dell’Ottocento aveva preconizzato la morte dell’arte, che tanti sviluppi ed interpretazioni ha avuto successivamente. Ma l’arte non può morire finchè ci sarà un solo uomo sulla terra, perchè la creatività e la sua consapevolezza è prerogativa solo dell’uomo e quindi da essa non si può prescindere.Però, a volte, bisogna fermarsi un attimo a riflettere, così come denuncia quel Ri-Quadro vuoto di superficie di Gino Cilio, che vivendo la contemporaneità ne vive le contraddizioni e non riesce a trovare una soluzione valida alla derealizzazione del reale, e in ciò consiste la modernità dell’operazione.Dicevamo della morte dell’arte di Hegel in merito alla quale si vuole avanzare un’altra ipotesi da quella scaturita.

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Per il filosofo, com’è noto, nell’arte lo spirito fonde in modo immediato ed intuitivo il soggetto e l’oggetto, lo spirito e la natura, proprio perché la natura è la manifestazione dello spirito. Il filosofo dialettizza la storia dell’arte in tre momenti: l’arte simbolica propria dei popoli orientali in cui persiste uno squilibrio tra forma e contenuto perché il messaggio spirituale è povero e si nutre di simboli e di una certa sfarzosità e bizzarria nello stile; l’arte classica in cui lo spirito e la natura trovano la loro armonia espressiva nella figura umana in quanto equilibrio fra contenuto spirituale e forma sensibile, per cui l’arte classica è il culmine della perfezione artistica; ed infine l’arte romantica in cui si ridefinisce in forme diverse lo squilibrio rilevato nell’arte simbolica, ma qui invece il messaggio spirituale è così ricco da non trovare adeguata espressione in una forma sensibile. “ Si può sempre sperare che l’arte si innalzi e si perfezioni sempre più, ma la sua forma ha cessato di essere il bisogno supremo dello spirito. E per quanto possiamo trovare eccellenti le immagini degli dei greci, e vedere degnamente e perfettamente raffigurati il Padreterno, Cristo e Maria, tuttavia questo non basta più a farci inginocchiare” (Hegel F., Estetica, trad. N. Merker e N. Vaccaio, Einaudi, Torino, 1976)Al contrario, a nostro avviso, oggi l’eccessiva messe di possibilità espressive è esorbitante rispetto ad un messaggio spirituale povero, essendo il reale ridotto ad accadimento esistenziale soggettivo e per giunta derealizzato, estetizzato o vuotamente estetizzante in quanto neanche più dimensione interiore.Per cui unico escamotage per l’artista contemporaneo potrebbe essere quello di sentirsi un deracinè, uno sradicato, anche dal mondo dell’arte, posizione che gli permetterebbe di mettersi in funzione critica nei confronti della contemporaneità, per riuscire a guardare l’altro lato della realtà. In pratica, Gino Cilio, nella temperie culturale attuale, si sente momentaneamente sradicato, per cui il suo operare di artista tace, ma l’uomo rimane vigile ai moti della psiche, il suo sguardo cerca di vedere, ma per “vedere” ha necessità di calarsi in una dimensione abissale, in un nulla che azzerando prima e nullificando poi l’opera gli permetta di ri-flettere sul reale derealizzato per reinterpretarlo e se foss’anche per perdersi, questo perdersi avrebbe il vantaggio della “coscienzialità”. Personaggi mitologici come Enea o Ulisse fecero il viaggio

nell’oltretomba, nel buio, per trovare quella saggezza che permettesse loro di decodificare con nuovi occhi il reale ed averne consapevolezza, allo stesso modo l’uomo Gino Cilio. Ma, la sua non-opera pone anche un altro quesito.

Una superficiale ricognizione della realtà attuale permette di metterne in evidenza alcuni fattori caratterizzanti: la

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dissociazione dell’individuale dall’universale e il prevalere del linguaggio scientifico e tecnologico su quello umanistico nonché la diffusa estetizzazione che accompagna ogni aspetto della “civiltà cibernetica”. Già da un secolo caduta la fiducia del positivismo nel progresso, si è manifestata l’impossibilità di ricondurre ad unità uomo e natura, verità individuale e verità universale. Neanche il rapporto uomo-Dio si è salvato dalla dissoluzione, perché davanti all’Assoluto di cui non si sa niente l’uomo è vuoto, la sua ragione registra il suo fallimento. Il singolo sente profonda la sua solitudine in seno alla collettività e il tempo non ha valore ontologico perché il nascere e il morire sono incogniti e senza perché, onde il senso di angoscia di fronte al nulla che si spalanca nella coscienza dell’essere umano.Ogni autorità si è vanificata, ogni valore, principio, istituzione è entrato in crisi, l’uomo è gettato nel mondo senza possibilità di salvezza, il suo èchec è inesorabile.L’ esistenzialismo con le sue varie forme dal cristiano al non cristiano, dall’irrazionalistico al razionalistico, dal negativo al positivo, ecc…, ci ha insegnato, in ultima analisi, che è difficile distinguere il vero dal falso, il male dal bene, il bello dal brutto e nonostante qualche tentativo di esautoramento dell’esistenzialismo, ancora oggi non riusciamo ad uscirne, anche perché, rispetto al passato, si è imposto un linguaggio nuovo di tre quattrocento anni, come si è più volte ribadito: il linguaggio tecnologico e scientifico che segna le economie più avanzate e le loro connessioni strutturali, politiche, socioeconomiche, ecc…Tra l’altro, in linea con lo spirito del tempo, anche molte certezze scientifiche sono state scardinate da Eistein, Planck, Enriquez e molti altri, per cui all’oggettività si è sostituita la soggettività delle osservazioni, onde l’assunto che la scienza può procedere solo secondo “la legge degli errori”.Già Eistein relativizzò i rapporti spazio-temporali per cui lo spazio non fu più “contenitore di forme” e il tempo “contenitore di storie”. Gli atomi, fu dimostrato, non essere indivisibili, di conseguenza le stesse immagini della natura non furono immutabili. Anche la conoscenza del funzionamento del nostro cervello ha cambiato molte certezze in relazione ai nostri sensori biologici.Già Heisemberg notava come il mondo potesse essere trasformato dalla tecnologia e di conseguenza anche la nostra vita quotidiana in rapporto con la natura, nel momento il cui la tecnologia avrebbe preso nelle sue maglie l’uomo.Infatti questa nel momento in cui trasforma le condizioni materiali del soggetto ne modifica anche il modo di percepire la realtà.Oggi, la civiltà tecnologica non rappresenta una continuità con le epoche precedenti ma una frattura in quanto il suo linguaggio ha prevaricato l’umanistico vecchio di migliaia di anni.

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Dunque, all’homo tecnologicus, all’homo novus, non si chiede di agire ma di fare, di fare bene il proprio lavoro, il motivo per il quale lo fa esula dalle sue competenze per cui egli non è responsabile dello scopo ultimo, perché imperativo categorico della tecnica è funzionalità ed efficienza, come sostiene Galimberti.In questo contesto di “strapotere dell’esistente”, l’artista, l’uomo di cultura, il poeta, il filosofo, ecc… hanno perso la loro funzione, la loro centralità, centralità che fino a quasi tutto il XIX° secolo era quella di essere l’autocoscienza di un’epoca in quanto capaci di elaborarla e, nel caso dell’artista, autorappresentarla per darla al mondo.Ancora oggi, forse, l’uomo continua a “rotolare dal centro verso la X” come direbbe Nietzsche, e non riesce a fermare la sua corsa per potere ri-flettere sul reale e problematizzarlo, e Cilio con quel Ri-Quadro vuoto di superficie vuol fare entrare in quel vuoto l’artista affinché abbia agio di riflettere e tra-scegliere. L’operazione “A-Zero”, inoltre, impone anche quest’altra domanda: l’homo tecnologicus, visto che il sapere scientifico e tecnico slitta in avanti, può sopravvivere senza l’homo sapiens?La risposta a questa domanda è quella che Edgar Morin chiama “la tragedia della riflessione”.Il pragmatismo americano di questi ultimi anni addirittura espunge il problema dell’umanesimo, per cui centrali, invece, diventano non le eterne domande: Chi siamo? Da dove veniamo? Dove andiamo? Ma: “Sono utile ad una comunità?”Infatti essendo così avanzati i sistemi di comunicazione ciò che deve prevalere è il senso di solidarietà rispetto al senso di oggettività, mentre il progresso umano deve identificarsi nel fare cose più interessanti, per diventare persone più interessanti.Ora, questo potrebbe essere accettato per una nazione giovane e senza retroterra culturale profondo come gli Stati Uniti, non altrettanto può esserlo per la civiltà europea che ha alle spalle culture millenarie.Piuttosto le nostre domande potrebbero essere quelle di kantiana memoria, che sono poi le domande perenni dell’uomo, perché le esigenze dello spirito sono sempre le stesse in tutte le epoche: Che cosa posso conoscere? Che cosa debbo fare? Che cosa posso sperare?In merito al primo punto alcuni problemi saltano evidenti agli occhi e che accomunano vecchie e nuove culture.Le migrazioni di popoli del terzo e quarto mondo, pur sempre portatori di saperi altri, fa emergere il problema del rapporto con queste civiltà.La globalizzazione con le sue reti di comunicazione, che collegano tra loro un numero enorme, e potenzialmente illimitato, di persone di tutte le culture, razze, religioni, ecc… fa cadere barriere sociali e culturali. Tuttavia la positività dell’osmosi tra i popoli rimane limitata perché non mediata da rapporti reali, ma da legami virtuali per cui anche il nostro sistema percettivo-sensoriale e cognitivo si modifica, esso da reale si fa virtuale.

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Ed ancora, nel momento in cui i mezzi di comunicazione si diffondono estendono anche il modello culturale di chi detiene i mezzi di informazione e delle banche dati delle immagini ed ad averli è il mondo occidentale con la sua potente macchina tecnologica ed in particolare gli Stati Uniti.Nel mondo occidentalizzato un fenomeno è evidente a prima vista, l’estetizzazione formale di ogni aspetto della vita. Tutto deve essere bello, gradevole alla vista, dalla mela al corpo “scolpito”, dalla carta igienica alla forma della bottiglia del vino, alla griffe e così via all’infinito. Ci si deve muovere quasi in un contesto di allure in cui il vestito, l’aspetto esterno, conta più dell’interno, in cui la dimensione estetica nasconde il reale proprio perché la dimensione interiore è ininfluente ed in questo contesto l’estetizzante e l’estetizzazione è aspetto totalizzante della vita.

A differenza dell’esteta del secolo scorso per il quale l’esteticità era dimensione di ricercatezza interiore che si manifestava all’esterno attraverso atteggiamenti distinti da quelli della massa, come più volte ribadito, al contrario oggi la dimensione estetica è solo fatto formale e di massa perchè le immagini, mediate dai media, aggregano ed omologano, perché tutti

vivono le stesse realtà derealizzate in cui il kitsch, il piacere superficiale, l’effetto, ci vengono ammanniti come l’optimum tra tutti i possibili modelli di vita e nemmeno l’arte si salva dall’effetto speciale.Si ha sempre più spesso la sensazione che le opere d’arte contemporanee siano la parodia kitsch dell’arte “alta” proprio perchè incapaci di esprimere valori formali e contenutistici acconci. A ciò si aggiunga la ibridazione dei linguaggi contemporanei per cui tra testo ed interpretazione non sussiste differenza, onde l’allargamento a dismisura della interpretazione appunto perché l’opera è del fruitore. E questo permette di dissolvere i valori contenutistici e formali a puro accidente, cioè a nulla, a semplice effetto più o meno volgare.Questi alcuni aspetti che saltano evidenti agli occhi nella nostra contemporaneità e danno alcune risposte alla prima domanda kantiana: Cosa posso conoscere?In merito all’altra domanda: Che cosa debbo fare? Si può certo dire che non si può fare tabula rasa della cultura umanistica né si può fermare il progresso tecnologico e scientifico e guai se lo si facesse. Allora bisogna prendere co-scienza di alcuni fattori già delineati e che in sintesi riprendiamo.a) L’allargamento del campo visivo dovuto alla globalizzazione non ha comportato forse una espansione della conoscenza ma una sua estetizzazione, che della cifra del kitsch ha fatto la sua distinzione. b) La libertà e l’individualità del soggetto e quindi anche dell’artista sono

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fortemente influenzati dal “Potentato del superfluo” che, per acquisire una forza sempre maggiore, deve incidere sui processi mentali del pubblico attraverso il martellamento delle immagini che rendono nullo il “valore” del contenuto, mentre il consumo deve coinvolgere tutto e tutti: la vita, il costume, l’etica, la politica senza che si possa esercitare alcuna facoltà critica al sistema, essendo questo mondo il migliore tra i possibili. c) Il mondo è sostanzialmente estraneo al soggetto che non può modificarlo. Dall’altra parte il mondo attuale ci offre una realtà derealizzata che tutto sommato offrendo dei modelli di vita e di comportamento lo rende sicuro e protetto e l’arte ne risente gli effetti. d) Il “Potentato del superfluo” si mostra tollerante nei confronti dell’arte, che benché superflua al concetto di produttività, se inglobata nel sistema può dare i suoi frutti allorché l’opera assurge a feticcio. Allora, e solo allora, il valore pecuniario vanifica ogni affermazione estetica. Ma questo per il “Potentato del superfluo” è ininfluente. Tenuti grosso modo presenti questi principi, cosa si può fare? L’unica risposta possibile è: innestare il presente sul passato. Ma prima bisogna azzerare l’opera, nullificarla. Anche questo è un assunto già sostenuto da Nietzsche quando diceva che per liberarsi di Dio, bisognava prima liberarsi della grammatica. Ma per liberarsi della grammatica bisogna azzerarla prima e nullificarla poi. Solo allora si può introdurre l’ultimo interrogativo kantiano: Che cosa posso sperare?Sperare che dopo l’annullamento del linguaggio dell’arte, il nostro “vissuto”, in quanto dimora abituale, diventi tensione verso la distruzione di abitudini, schemi e metafore, e nel buio illuminante della co-scienza ri-senta la necessità di recuperare l’ordine artistico dell’opera d’arte, che, contrariamente all’ordine estetico, si fonda sull’oggettivazione dell’opera stessa che resiste all’usura del tempo edax, e mai così edax come quello contemporaneo, e insieme essa ri-conquisti la sua dimensione di perennità, aspirazione costante dell’uomo di vivere dopo la morte.Infatti, se l’opera d’arte è un puro accidente estetico, essa è svuotata di contenuto, è teatralità vuota, poiché non implica esperienza valutativa, e se non c’è valutazione non se ne spiega l’utilità. Quindi, sarebbe necessario, oggi come non mai, ristabilire, ove ancora possibile, i suoi compiti, per ridisegnare la possibilità di confine tra arte ed esteticità diffusa. In questo contesto il Ri-Quadro privo del piano pittorico può assurgere ad icona che pone infiniti interrogativi non ultimo quello di ri-definire lo statuto ontologico dell’arte. Le sfilate di moda, si sente dire da molti artisti, sono più belle delle opere d’arte contemporanea. Questa stessa frase mette in evidenza come lo spettacolo dell’effimero elimini ogni distinzione, ogni differenza tra i concetti e le cose.

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Se il concetto deve essere recuperato ed è altro rispetto alle cose pur contenendole, una cosa è certa in ogni caso, l’opera d’arte, che sia tale, ha la funzione di interpretare il presente assimilandone i codici linguistici condivisi ma nello stesso tempo scardinandoli dall’interno, come sempre è stato fatto, per dare una nuova visione della realtà. In una società dominata dalla

velocità dei mezzi di comunicazione cui l’uomo deve adeguarsi, in una società dominata dall’apparire per essere, dominata dallo spettacolo che ribalta il senso della realtà delle cose, l’elaborazione dello zeitgeist, spirito del tempo, abbisogna di tempi lunghi, perché la mente, la psiche, il corpo hanno ritmi biologici più lenti rispetto alla macchina. Il cervello umano, nonostante si parli di homo tecnologicus, quanto a sviluppo intracranico, è quello dell’homo sapiens ed il numero di informazioni che può contenere è limitato, non per nulla opera la selezione delle informazioni dimenticando. Ri-flettere su queste problematiche implica il viaggio all’interno della coscienza affinché l’artista si interroghi e trovi le risposte. Ma ciò può avvenire nella sosta, nel non luogo che tutti i luoghi comprende, nel nulla, nel regno dei morti di Gino Cilio come già di Enea o Ulisse. Se ciò non è possibile, o peggio se questa “operazione” si considera superficiale ed esornativa ai fini di un ripensamento della funzione dell’arte in un momento in cui essa sta in bilico tra conservazione ed annichilimento, lasciamo che il kitsch, la quantità, sommerga tutti in un edonismo fine a se stesso, ma almeno che se ne abbia consapevolezza, dice Cilio.In questa situazione, sembra avverarsi ed inverarsi il pensiero di Duchamp a proposito dei suoi readymade, quando sosteneva che era assolutamente necessario liberarsi del gusto dell’artista. Per far ciò prelevava un oggetto quotidiano con un atto di scelta soggettiva e vi attribuiva valore estetico. In tal modo, eclissando il valore d’uso, attribuiva al readymade valore di opera d’arte. Il suo era un gesto degno del miglior Dada.Onde la tautologia di Tristan Tzara per cui è arte tutto quello che gli uomini chiamano arte. Essa esprime molto bene il pensiero duchampiano ed è profetica se riferita ai giorni nostri. Infatti oggi basta esibire qualunque oggetto, opportunamente pubblicizzato, per farlo diventare opera, le stesse trouvaille più o meno originali fanno gridare più di un critico, direttore di riviste, curatore creativo ecc… al miracolo dell’apparizione dell’opera d’arte.

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Dunque anche per Cilio diventa arte l’esibizione del vuoto, del “Ri-Quadro” privo di superficie. Il nichilismo ha la sua espressione artistica alternativa al concetto di readymade.Cilio con questa operazione non ha fatto altro che riflettere sulle condizioni per cui l’artista produce un’opera, sull’appiattimento che comporta omologazione, infatti spessissimo un’opera non si differenzia poi tanto da quella prodotta da un altro artista, sul sistema monoculturale imposto dal “Potentato del Superfluo”, sul diffuso concetto di edonismo che livella tutto e tutti, sull’indifferenza che si prova davanti al differente, come avviene per le guerre “fruite” in televisione, ecc… Allora, alla luce di quanto sopra, l’ azzeramento dell’opera diventa un fatto choc, come lo fu a suo tempo “Fontaine de vie” di Duchamp, per la quale però rimaneva sempre l’artista che col suo gesto significava l’oggetto di uso comune come opera d’arte, mentre in questa operazione di Cilio l’artista scompare come era già nelle intenzioni di un Piero Manzoni o di Klein quando si lanciava nel vuoto a simboleggiare il suicidio dell’artista.Tutto questo comporta evidentemente un’ennesima eclissi dell’arte, se per opera d’arte intendiamo quel prodotto della creatività umana che è fenomeno atemporale e senza confini territoriali generata dall’uomo “per” l’uomo. Essa ha un unico dovere: produrre spaesamento, unheimlichkeit, (heim: casa), produrre, cioè, quella coloritura affettiva che fa sentire il riguardante, il lettore, l’ascoltatore come fuori casa, fuori dal paesaggio conosciuto. Vale a dire, l’opera deve mostrare l’altro lato delle cose, quello non usuale, quello che sta sotto gli occhi ma non si vede, cioè il non-essere della realtà, il nulla, come fece Duchamp con i readymade o Gino Cilio col “Ri-Quadro” vuoto di superficie“….ogni opera d’arte (non necessariamente “cosale”: rientrerebbero qui anche il poema, la performance, l’ installazione) consiste in una viva contraddizione, appositamente prodotta: si tratta di prendere e apportare saggiamente una serie di misure affinché, per suo tramite, compaia l’incommensurabile, cioè di fare in modo che venga alla superficie (e pertanto in forma limitata e ben composta) il fondo illimitato ed indisponibile, di permettere che appaia fra gli uomini quello che, senza questa prudente disposizione e fattura, si “mostrerebbe” soltanto come il negro orrore del caso, quello che gli antichi chiamavano moira e heimarmène: cieco destino.” (Felix Duque, L’arte pubblica nello spazio politico, in Estetica, 1/2004, ed. Il Melangolo, pag. 6, trad. A. Bertinetto).Dunque, il “Ri-Quadro” vuoto di superficie non è frutto del caso in Gino B. Cilio, né di cieco destino, ma di un percorso artistico ed esistenziale molto complesso, come in precedenza delineato, cosicchè quando osserviamo quel “Ri-Quadro” insieme al titolo 1+ Uno, subiamo un senso di spaesamento, appunto perché simbolicamente il “quadro” ha

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rappresentato un supporto su cui si è sempre inscritta una superficie che anche in forma minimale o tautologica ha indicato un modo di “fare” arte.In cosa consista l’ Unheimlichkeit del Ri-Quadro, ciascuno lo può interpretare a suo modo.A noi piace chiudere queste nostre proposte di eclissi dell’opera d’arte con i seguenti versi tratti dalla lirica “Pane e vino” di Holderlin “…Ma spesso penso/ che è meglio dormire che essere senza compagni/ e attendere. Ma tu dici che sono sacri i sacerdoti del Dio del vino / che migrano di terra in terra in una sacra notte.”La momentanea notte dell’arte? La sacralità del “Ri-Quadro”?

ECLISSI DELLA CRITICA

Nel momento in cui un artista, con una operazione aperta all’azzardo, riduce “A-Zero” la sua opera prima e la “nullifica” poi, nel momento in cui Gino Cilio stesso esce dal palcoscenico assai affollato dell’arte, perché il suo gesto “conformativo” di un’opera qualsivoglia ha perso di senso, quale la funzione della critica?Osservando il “Ri-Quadro” vuoto di superficie ed il titolo “1 + Uno” ma il secondo elemento manca, per cui, in realtà è meno Uno e quindi Zero, nulla, molte domande si pongono riguardanti la critica d’arte, se un siffatto gesto eclissa l’ opera e l’artista che di quella è artefice. A questo punto l’operazione rende necessario un momento di riflessione, come già per l’eclissi dell’arte, sulla validità della critica nell’attuale momento di crisi.L’opera d’arte in un non lontano passato aveva rappresentato una lettura complessa dello zeitgeist, spirito del tempo. Ora, da quasi un secolo a questa parte, essa è diventata “forma” rifatta non sul mondo, ma sulle “forme” divenute oggi formule più o meno trite, per cui ogni trouvaille spesso è elevata a rango di opera d’arte grazie alla “lettura” di un critico che agisce, come sostiene Bonito Oliva, “come un “cacciatore”, un elaboratore di idee che si affianca all’artista con funzione creativa, senza con questo identificarsi in un unico movimento artistico”.Sulla funzione del critico “cacciatore” e poi elaboratore di idee che “si affianca all’artista con funzione creativa” si può avanzare qualche riserva, essendo questo un concetto ormai trito da Pater in poi.

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Semmai il critico non deve “affiancarsi” all’artista ma all’opera d’arte che se, tra l’altro, è tale non ha nessuna necessità di elaborazione (da labor, lavoro, ed ex, fuori) aggiunta, pertanto la funzione del critico dovrebbe essere quella di “intelligere” (da “legere”, raccogliere, scegliere, intendere e “intus”, dentro o “inter”, tra) l’opera per trasmettere questa sua intel-ligenza di quella, tramite una con-versazione, ad un possibile astante che, a corto di codici linguistici selettivi di questa o quella corrente o stile, possa arricchire le sue cognizioni. Solo in questo caso l’opera del critico può avere una sua validità in quanto capacità teorica in grado di decrittare con cognizione di causa qualsivoglia opera.Mentre, si può essere d’accordo, nelle linee generali, sull’ identificarsi del critico in quella butter fly che vola di movimento in movimento, di artista in artista, per constatare la validità delle proposte, per farsi mediatore tra colui che mette in forma un’opera qualsivoglia e il pubblico.Inoltre il vero elaboratore di idee non è il critico ma l’artista, se come sostiene Musil ne “Il giovane Torless”: “Ogni grande scoperta si compie solo nella metà del cerchio illuminato della mente cosciente, per l’altra metà nell’oscuro recesso del nostro essere più interiore”. Da quanto sopra si comprende che la funzione o meglio l’azione dell’artista è “circolare”, dal sé alla realtà e viceversa, perché le scoperte dell’arte sono sotto il duplice aspetto della razionalià e dell’irrazionalità e il compito dell’artista è, come sostiene Franco Loi, “di chiamare a presenza lo spirito che aleggia sul mondo”, cioè lo spirito del tempo. In altre parole, il gesto formativo dell’artista compendia in sé il suo pensiero, i costumi, i sentimenti, le aspirazioni, la moralità, l’artisticità di un soggetto che realizza delle forme, delle figure che, a loro volta, diventano stile, che arricchisce il linguaggio di una determinata epoca. Pertanto qualunque opera d’arte è il momento terminale di un processo di figurazione e simbolizzazione tipica dello zeitgeist. Per comprendere ed interpretare la forma è necessario da parte di un teorico ripercorrere il processo formativo, ripercorrere cioè la concreta personalità dell’artista che ha espresso quella forma secondo un determinato stile.Infatti, se anche il critico elabora idee non è più l’opera che “parla”, ma il critico: artifex additus artificii, concetto vecchio di oltre un secolo, di dannunziana memoria, a sua volta mutuato da Pater e Wilde. Sarebbe opportuno, a questo punto, prendere coscienza che, nel rivolgimento totale di idee e principi, canoni e precetti, propri della nostra epoca, il critico fosse un po’ più “moderno”, più a la page con i tempi.

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Al di là di ogni intenzione polemica, le parole di Achille Bonito Oliva, presi ad esempio di una generazione di critici “militanti”, mettono in evidenza come oggi l’artista abbia più che altro funzione inventiva che attraverso le parole del critico può trasformarsi in funzione creativa. Allora, stante così le cose è necessario sgomberare il campo da qualche malinteso ed avanzare alla critica qualche “critica” che poggi su alcuni punti che qui di seguito si delineeranno, perché scaturiti da una riflessione che l’uomo Cilio ha messo in campo col suo “A-Zero” dell’opera d’arte e

conseguentemente dell’artista. La figura del critico d’arte, che a nostro avviso sarebbe meglio indicare come teorico o meglio ancora tecnico dell’opera d’arte, distinto dallo storico dell’arte, è relativamente recente. Risale alla seconda metà dell’ Ottocento ed indicava, allora, colui che era esperto nella “lettura” dell’opera d’arte ed era figura profondamente diversa dall’intenditore.Se è lecito un paragone, l’intenditore era come il nostro medico di famiglia, appunto perché aveva familiarità con l’espressione artistica, mentre il critico si potrebbe apparentare ai nostri specialisti, in quanto aveva un occhio particolarmente esperto nella valutazione ed attribuzione di un’opera a causa di un’esperienza ed una osservazione avvenuta a contatto diretto con le opere e per questo si distingueva dallo storico, la cui esperienza era maturata prima sui testi e poi sulle opere, quindi era, come dire, più astratta.In verità, oggi, una distinzione netta non è più possibile operare, e ben lo sapeva Lionello Venturi quando sosteneva che: “Una vera critica d’arte, per essere una vera storia dell’arte, sottintende una sensibilità individuale, ma deve andare oltre, raggiungere un’oggettività che le permetta di sollevarsi al grado della storia.” ( Venturi L., Teoria e storia della critica, in Saggi di critica, ed. Bocca, Roma 1956, pag. 206.).Comunque sia, la rilevanza del critico d’arte, nella seconda metà dell’Ottocento, aumenta sempre di più a causa dell’acutezza delle sue osservazioni, rispetto allo storico.(Zeri fu, forse, in questo contesto, l’ultimo dei grandi esperti.)Infatti, col passare del tempo, la sua immagine, rilevanza e funzioni si modificano, già Wilde, sul finire del secolo, sosteneva che la facoltà critica è parte integrante di quella creativa, e D’Annunzio parlava di artifex additus artificii.Ma, se fino ai primi decenni del Novecento, quanto sopra era suffragato nei critici da innegabili competenze tanto da rendere trascurabili le differenze sta storico e critico d’arte, a partire già dagli anni cinquanta del nostro secolo la situazione si modifica.Lo storico dell’arte si rivolge ad un pubblico selezionato per competenza, mentre il critico, che si preferisce sempre indicare come

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teorico dell’opera d’arte, si rivolge ad un pubblico più vasto che comprende, insieme agli intenditori, una moltitudine di spettatori socialmente in vista ed economicamente benestante e potenzialmente acquirente, ma sostanzialmente impreparata nel valutare la validità di un’opera, proprio perché il riguardante è portatore di competenze altre. Il suo occhio, però, è scaltrito poiché i mezzi di comunicazione e la pubblicità in particolare offrono dei modelli estetici altamente accattivanti.In questo contesto l’opera del critico, la sua competenza, il suo “occhio”, le sue conoscenze, l’obiettività ed imparzialità diventano criteri di valutazione e quindi mezzi per mettere in condizione lo spettatore di recepire i messaggi che l’opera gli invia.Ma il problema nasce in merito all’oggettività ed imparzialità del critico che deve avere a monte un sistema di principi dichiarati sin dall’inizio, vale a dire delle metodologie di indagine coerenti e rigorose. Per cui, si è contrari al concetto di critica a posteriori e favorevoli al concetto di critica a priori, per cui l’intenditore o semplicemente quella che viene chiamata, con vocabolo assai abusato, massa che è poi il possibile acquirente in un sistema di mercato, possa conoscere sin dall’inizio le dinamiche, i principi, i criteri che il teorico dell’opera metterà in campo nell’esprimere dei giudizi su di essa, in modo da ridurre al minimo l’arbitrarietà della valutazione.Se la nostra civiltà tecnologica esige precisione ed obiettività nel linguaggio, perché la critica va contro corrente? Evidentemente perché non è al passo con i tempi, è obsoleta e quindi pleonastica.Al fine di renderla più puntuale sono sorte, è vero, delle scuole come la gestaltica, la formalistica, l’iconologica, la sociologica, ed altre.Ma, essendo queste tutte parziali, non obbediscono fino in fondo a quei criteri di oggettività che si pretende debba avere la critica, onde una prima ipotesi di eclissi della stessa, intendendo la dizione eclissi nel senso specificato per l’opera d’arte.La situazione si complica nella temperie culturale contemporanea, perché, oggi, nessun critico segue una scuola, per quanto parziale, perché non ci sono più maestri, vale a dire sono tutti maestri, onde la confusione babelica delle interpretazioni, con disappunto degli spettatori che, smarriti e confusi davanti a tante elucubrazioni mentali del teorico, disertano le mostre e non acquistano più opere.Questa situazione prende l’abbrivio tra gli anni settanta e ottanta quando emerge la figura dell’onnipotente “critico militante” che porta alle estreme conseguenze l’intuizione, condivisibile o meno, di dannunziana memoria di artifex additus artificii, di cui s’è detto, per cui il teorico dell’opera si sostituisce all’artista inventando nuove o rivestendo di nuovo vecchie formule adeguatamente pubblicizzate.Oggi, la figura del teorico onnipresente, onnisciente, onnivoro, comincia a manifestare più di un segno di saturazione nelle co-scienze più avvedute.

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Già nel 1958, Fortunato Bellonzi in “L’arte nel secolo della tecnica” così recitava: “Si vedano le ambiziose “poetiche” contemporanee, gli abbondanti ragionamenti sull’arte da parte degli artisti medesimi, la fiorentissima letteratura critica che spesso supera di gran lunga in virtuosismo verbale il valore intrinseco delle opere prese a soggetto di studio”. ( Bellonzi F., L’arte nel secolo della tecnica, Ed. De Luca, Roma, 1958, pag. 32.)Da allora è passato quasi mezzo secolo, ma le parole di Bellonzi sono più che mai attuali perché la figura del teorico si è enfatizzata, enfiata al punto che la nostra epoca è definita: “Civiltà della critica”. Nel momento in cui questa cresce a dismisura e non si collega più con l’opera, non si può neanche parlare di artefice aggiunto dell’opera, ma solo di artificio avulso dall’opera, divenuta trascurabile escamotage per frasi e concetti fine a se stessi.In questo contesto, l’operato del teorico quale possibilità di fruizione di un’opera d’arte può fornire ad un pubblico?L’interrogazione è retorica e mette in evidenza come, oggi, la sua parola sia esornativa rispetto all’opera, come lo fu già per Malevic di “Quadrato bianco su foglio bianco”, per cui l’arte trapassò nella metafisica, o per Rodcenko delle “Tre tele monocrome”, per cui l’arte fu ridotta a tautologia o per Duchamp quando, decontestualizzando un oggetto, di fatto azzerò l’operato dell’artista e conseguentemente della critica, o come, in un contesto diverso, lo è per Cilio che, tolta la superficie dal supporto prima e nullificata l’opera poi, rende, di conseguenza, superflua la critica.Questa una prima ipotesi di eclissi della stessa. Un’altra ipotesi potrebbe sembrare paradossale, ma in realtà non lo è.Essa si riferisce all’assunto per cui l’opera d’arte non è forma di conoscenza razionale, ma forma di conoscenza esperienziale esclusivamente interiore.Se consideriamo un’opera d’arte come parte del mondo, come “cosa” tra le cose, evidenziamo come il mondo stia dentro di lei, come sta dentro di noi.Solo che noi prigionieri come siamo di ciò che conosciamo, “non” vediamo ciò che non “sappiamo”.L’opera d’arte, pertanto, presentifica l’attimo totalizzante della creatività che si manifesta attraverso mezzi contingenti, colore, massa, superficie, suono, parola ecc… e manifesta un sentire fuori dallo spazio e dal tempo, ma che tuttavia nello spazio e nel tempo si attualizza attraverso una morphè, forma sensibile. Essa custodisce il suo segreto:

l’èidos, forma intelligibile.

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Penetrare nell’èidos è difficile, richiede sforzo, per alleggerire il quale ci si serve di decodificazioni affidati alla critica, alla storia, all’estetica, alla filosofia, all’antropologia, alla semiotica, ecc... La loro funzione "reale" è quella di creare gli strumenti per “capire” l’opera, non per “vederla”, cioè “sentirla”.Tutti questi mezzi di decodificazione sono estranei all’ “esserci” dell’opera, che è quella di essere un eterno presente che riveli l’attimo della creatività, ribadiamo.Fino ad oggi, l’opera d’arte è diventata tale solo ed esclusivamente dopo una valutazione post factum e ciò ha sempre implicato l’applicazione, come detto sopra, di determinati canoni di giudizio estetico e di gusto espressi da un soggetto, vuoi critico dell’arte, storico, intenditore, ecc….Ma, nel momento in cui il soggetto compie una valutazione, attraverso un suo processo logico, il ragionamento è soggettivo e vale solo per lui. Il ragionamento, infatti, per essere oggettivo e quindi assoluto deve andare fuori dalla logica soggettiva e perdere il suo carattere sillogizzante, deve essere a-logico, deve guardare all’attimo che ferma qualunque accadere e lo mostra.E’ questa "essenza" del mostrare che si deve cogliere, ogni parola è d’impaccio.In altri termini, nell’opera d’arte bisogna cogliere ciò che sta al di là del pensiero senza usare il pensiero e l’intelligenza classificante. Bisogna scendere nel "silenzio" e nell’ "abisso" dell’opera, toccare il suo "centro" senza intermediazione alcuna.Se consideriamo l’opera d’arte come uno specchio, il soggetto che guarda si trova davanti allo specchio ad una distanza tale che gli permette la visione perché decodifica l’opera secondo una sua personale ermeneutica. E’ necessario annullare la distanza, i codici, perché ogni distanza ci distoglie dall’opera.Il nostro compito è quello di penetrare, di entrare nello specchio, eliminare la "distanza", per "sentire" l’opera come totalità e, pertanto, non totalità fuori di noi ma dentro di noi, non totalità fuori da lei ma dentro di lei, in lei. Ciò può avvenire solo abdicando, come dicevamo, ad ogni sillogizzazione che possa "spiegare" l’opera che invece deve essere recepita come con-templa-azione sim-patetica.Se l’opera è come un tempio che contiene l’essenza della forma intelligibile, la nostra azione è quella di stabilire con “lei” un rapporto sim-patetico, che ci permetta di “sentire” le stesse affezioni che l’opera contiene.Una volta che noi siamo entrati in con-templ-azione sim-patetica avverrà che il nostro “sentire” coinciderà col “sentire” dell’opera.Le due spiritualità, quella dell’opera e quella dello spettatore, sono entrate in comunione.

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E’ in questo preciso momento che ogni pensiero sillogizzante deve essere abolito.Se usassimo la razionalità, non faremmo altro che storicizzare l’opera e quindi la coglieremmo solo al passato.In altri termini, l’opera d’arte deve essere recepita nell’attimo in cui il segno precede il significato.Solo in questo modo l’astante potrà fare un’esperienza totale e totalizzante dell’opera.Per chiarire meglio il concetto, si può portare un esempio.Mi trovo sulla strada che mi conduce a Palermo. Il Monte Pellegrino esiste là da sempre, ma, svoltata la curva, mi si presenta in tutta la sua imponenza e nudità, in modo diretto ed immediato, si insinua nell’anima, negli occhi, nei sensi, nella psiche. Respiro il respiro del Monte, siamo per un attimo in simbiosi, viviamo dell’unica vita che scorre nel mondo, viviamo di un’unica essenza.A questo punto qual è la mia co-scienza del Monte Pellegrino? Nulla.

Tuttavia la mia co-noscenza è stata totalizzante.Solo in un secondo momento posso indagare il fenomeno Monte Pellegrino dal punto di vista morfologico, geologico, antropologico o altro.In questa seconda accezione il fenomeno Monte Pellegrino diventa conoscenza razionale, nel primo è esperienza fonda e profonda e quindi conoscenza totalizzante.Al vedere “come” sarà subentrato il vedere “così”, come sostenuto da Wittgenstein.Dunque la tecnica nel fruire un’opera è

quella del “levare” nozioni su nozioni, solo in questo modo l’opera può rimanere eterna, perché eternamente rinnovata nel “sentire” del riguardante in quanto costui è riuscito a spogliarsi di ogni condizionamento, allora in questo contesto si può dire che l’opera “è” del fruitore.Ecco, a nostro parere, in che cosa consiste l’ “eternità” dell’opera d’arte.Questa attrazione, naturalmente, non avverrà tout court, ma per gradi che comporteranno il costante affinamento del sentire soggettivo, finchè la collimazione avverrà spontaneamente e senza sforzo.In questo contesto, è chiaro che la critica non ha senso, semmai ha senso solo quando considera l’opera d’arte come fenomeno da storicizzare, nel qual caso diventa fatto sistematico, sostanzialmente estraneo alla sua essenza.Il critico passionè o il razionale non hanno senso, come non lo hanno le tante ipotesi di morte della critica, per cui può ben sostenere Achille Bonito Oliva, in contrasto con quanto detto in precedenza,: “Il critico

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d’arte deve partire da un nuovo assunto, quello della realtà che lo deresponsabilizza e lo dimette del suo ruolo di spegnitore di incendi. Gli restano il ruolo del notaio che testimonia a memoria futura, che moralisticamente pensa di svolgere un lavoro edificante, oppure quello di chi accetta la leggerezza del proprio compito, l’inutilità del proprio sguardo”.(Bonito Oliva A., Il sogno dell’arte, Spirali Edizioni, Milano, 1981, pag.20.)E se lo sguardo del teorico dell’opera d’arte è inutile perché affannarsi? Se non partecipa con l’artista al progetto di progresso culturale la sua presenza è davvero superflua.Nel momento in cui Malevic presenta “Quadrato bianco su fondo bianco” la critica si limita a dire che l’artista introduce nell’arte la metafisica, di conseguenza il suo compito già da allora era esaurito. A maggior ragione lo è, oggi, nel momento in cui anche la tela bianca viene tolta da Gino Cilio o addirittura quando anche il supporto è eliminato e l’opera vanificata insieme all’artista. Il compito di interpretarla è esaurito, non è più del critico, che non ha neanche la funzione di notaio, perché non c’è alcuna transazione da compiere tra opera ed astante. Semmai, potrebbe entrare in gioco forse il filosofo, poiché sul Nulla la metafisica si è sempre cimentata dai presocratici ai tragici greci, ai sofisti, passando per l’Apocalisse, Plotino, Eckart, Montaigne fino ad Heiddeger e Nietzsche, come ha argomentato, con grande originalità di contenuti, Sergio Givone nella sua “Storia del Nulla” per le edizioni Laterza e a cui rimandiamo i teorici dell’opera d’arte per un aspetto della lettura dell’operazione “A-Zero”. Una terza ipotesi di eclissi della critica riguarda i codici linguistici.In questa nostra società “retorizzata” in cui le parole dilagano, si enfatizzano, rimbalzano dai mass media alle nostre orecchie ove si cristallizzano, fossilizzano e si svuotano di senso, l’espressione artistica visiva significante ed altamente poetica può essere tradotta e “messa in prosa” dal teorico dell’opera d’arte? O semplicemente “messa in prosa”? Al di là di che cosa si intenda per opera d’arte, intanto bisogna dire che essa si serve di un sistema di segni linguistici condivisi.A loro volta i segni linguistici hanno due funzioni: la poetica e la comunicativa. La prima è propria delle opere d’arte in genere, la seconda è afferente ogni altro genere di comunicazione, dalla scientifica alla tecnologica, ai segnali stradali, ecc… ed è a sua volta regolata da sottofunzioni.Ciò che distingue il linguaggio poetico dal comunicativo è la funzione emotiva del primo, anche se è pur vero che un linguaggio a funzione semplicemente comunicativa può stimolare delle emozioni nel ricevente a seconda dello stato d’animo di questi, ma in questo caso lo standard linguistico rimane immutato.

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Ciò non avviene nelle opere che esprimono un linguaggio a funzione poetica. Ora, la “funzione comunicativa” è caratterizzata dall’automaticità del discorso, in quanto diretta verso gli oggetti o verso i significati, come quando qualcuno comunica qualcosa a qualcun altro oppure comunica concetti scientifici o tecnici.Invece la “funzione poetica” opera sui “segni” e ne modifica, quando

non ne scardina, il nesso significante-significato.Lo schema testè indicato non è simmetrico perché la funzione comunicativa presenta delle distinzioni o delle sottofunzioni come quella emotiva, conativa, referenziale, ecc… che tendono tutte a diventare automatiche, soprattutto nella “postmodernità”, allorché i mezzi di comunicazione di massa tendono a far sì che i discorsi si automatizzino e pertanto l’uso di un vocabolario articolato di lemmi tende ad essere frenato.

Dall’altra , invece, il linguaggio a funzione poetica si basa su un uso arbitrario di segni linguistici il cui “rimando semantico non si consuma nel riferimento al denotatum, ma si arricchisce continuamente ogni qualvolta sia fruito godendo il suo insostituibile incorporarsi nel materiale in cui si struttura; il significato rimbalza continuamente sul significante e si arricchisce di nuovi echi.” Come sostiene Umberto Eco in “Opera aperta” ( Eco U.,Opera aperta, tascabili Bompiani, 2^ edizione, 1976, pag. 84)La distinzione di cui sopra è riferita al linguaggio poetico, ma è necessario trasporla anche sul piano visivo, perché il funzionamento dei codici sia visivi che linguistici è uguale. Esiste una messe infinita di opere che ripetono eternamente gli stessi stilemi che non riescono a scardinare i nessi linguistici. In questo caso essi hanno funzione comunicativa e restano nell’ambito di un “artigianato” più o meno raffinato.Non è detto, però, che questo tipo di artigiano non possa, aiutato dalla thècne, trapassare nel regno dell’arte, allorchè riesca ad utilizzare i segni in modo tale da scardinarne il sistema e a suscitare profonde emozioni.Lo stesso Federico Zeri sosteneva che, allorché c’è un possesso pressocchè totale dei mezzi di espressione, è più facile essere un grande artista e portava l’esempio di Rubens che dipingeva con la stessa facilità con cui le donne facevano, allora, la calza. Infatti l’opera visiva, come la poetica o la musicale sono un “campo di stimoli” che permettono allo spettatore di cogliere il denotatum nel suo insieme.

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Questo sarà, poi, connotato in base alle esperienze, ricordi, studi del riguardante in un complesso di rimandi che si arricchisce sempre più, ma si blocca solo quando non si ricevono più stimoli, vuoi perché il

gusto del riguardante col passare del tempo è mutato, vuoi perché l’epoca in cui si vive non rispecchia più determinati valori estetici, vuoi perché, a volte, non si riesce più a decodificare determinati segni iconografici, vuoi per altro.Quanto sopra per dire, ancora una volta, che un’opera d’arte visiva, come poetica o musicale si serve di un linguaggio, di un sistema di segni, cioè, a

funzione altamente emotiva e quindi come tradizionalmente si indica “a funzione poetica”.Ora, nel momento in cui il teorico dell’opera d’arte si propone di decrittarla, giocoforza deve “tradurre” da un linguaggio a funzione poetica in un linguaggio a funzione comunicativa che mai potrà dare la dimensione del primo, se non nella sua totalità almeno nella sua complessità, quindi inutile risulta la critica. Le cose si complicano ancora se da un tipo di linguaggio espressivo a funzione poetica, come quello delle arti visive, che usa un certo sistema di codici, si passa ad un altro tipo di linguaggio espressivo a funzione comunicativa che usa un altro sistema di codici, disomogeneo rispetto al primo. Ne consegue che per il secondo sarà difficile se non impossibile dare una lettura anche superficiale di un’opera.Magritte ha più volte messo in evidenza (vedi, ad esempio, l’opera Ceci n’ est pas una pipe) come l’arte abbia un codice linguistico diverso da quello della poesia e della scrittura.Queste ultime, per qualificarsi come tali, hanno bisogno di “nominare” le cose, l’arte non ce l’ha, rappresenta semplicemente le cose, che, attraverso le loro relazioni, hanno la capacità e la possibilità di caricarsi di ulteriori significati. “Quanto più spinta è la decontestualizzazione dell’oggetto, tanto maggiore è l’ampiezza disorientante dell’area semantica cui rimanda la sua apparizione” ….. “La poesia ha uno statuto diverso da quello della pittura. La scrittura è costretta a dire, a nominare. Per essa la rappresentazione implica sempre, in qualche modo, una verbalizzazione anche quando voglia esprimere l’inesprimibile”. (Cagliano S., Uomini e mostri sulla rivista Terzo Occhio, marzo 2004, pag. 6).Ed ancora “Se l’arte e in particolare la pittura hanno, come il sogno, la possibilità di ricorrere ad un alfabeto iconografico/simbolico…la scrittura sembra avere solo la possibilità di girarvi attorno, di circoscrivere l’indicibile, facendolo affiorare come un vuoto, come un’assenza.” (o.c. pag. 7 e seg.).Le cose, ovviamente si complicano se l’ “alfabeto” iconografico riguarda l’arte informale.

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La poesia visiva e prima ancora le famose “parole in libertà” di Martinetti mettono in evidenza la “possibilità” di liberare la parola dalle “pastoie logiche”, e non è detto che vi siano riuscite, cosa che in arte è assolutamente possibile, anzi auspicabile!A maggior chiarimento, ci sia permesso un esempio banale, ma non banalizzante.Se si deve pesare una mela, ci si serve di una bilancia o di un’altra mela o di qualunque oggetto possa essere preso ad unità di misura, si potrebbero anche tenere tra le mani i due oggetti in modo da affidare all’ esperienza la differenza o l’uguaglianza di peso della mela rispetto agli altri oggetti presi ad unità di misura. In ogni caso e con qualsiasi modalità, in questa evenienza, si può esprimere un giudizio.Ma, se se si vuole pesare la mela con un metro, per quanti sforzi si facciano, non si riuscirà mai, perché le due unità di misura sono disomogenee.Allo stesso modo, usando la parola, per spiegare fatti poetici, la nostra fatica potrebbe avere senso perchè i due linguaggi si servono degli stessi codici linguistici condivisi, anche se la funzione in ogni caso varia e trapassa da poetica a comunicativa.Ma, nel caso in cui si usa la parola per decrittare l’opera d’arte visiva, non si riuscirà mai a rendere neanche parzialmente l’idea di un linguaggio che pur avendo la stessa funzione, usa codici comunicativi condivisi ma diversi: codice artistico-iconografico a funzione poetica l’una, codice linguistico a funzione comunicativa l’altra. Essi sono, dunque, irriducibili, anche perché, in ogni caso, la decodificazione non aggiungerà mai nulla al valore di un’opera, proprio per la differenza sostanziale tra linguaggio iconico e verbale.Quest’ultimo, infatti, può arricchire i contenuti concettuali di un’opera poetica attraverso l’analisi dei contenuti stessi, mentre per un’opera iconica, o peggio ancora aniconica, l’analisi verbale non aggiunge o toglie nulla al valore intrinseco dell’opera quando questa viene fruita da uno spettatore, come più volte sostento anche da Gillo Dorfles. Ne consegue l’inutilità, anzi l’impossibilità della critica, come dimostra il Ri-Quadro di Gino Cilio cui è stata tolta la superficie sulla quale non si può, dunque, inscrivere nessun codice visivo, sia iconico che aniconico, o che è lo stesso vi sono inscritti tutti. Quindi se da una parte la critica d’arte ha esaurito la sua funzione, dall’altra, per opposizione, essa può avere valore totalizzante, perché ha tutte le funzioni.Infatti, in quest’ultimo caso, se dobbiamo dar credito al critico Achille Bonito Oliva, ma non solo a lui perché sulla stessa scia sono tantissimi, che il critico è “un elaboratore di idee che si affianca all’artista con funzione creativa”, allora il “Ri-Quadro” vuoto di attività conformativa gli lascia aperte tutte le possibili elaborazioni, perché sul nulla, sul vuoto si può dire all’infinito, rappresentando essi il non-essere delle

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cose che il critico elaboratore potrà portare all’essere spinto solo da un accidentale segnale costituito da quattro listelli assemblati in forma di Ri-Quadro, su cui tradizionalmente si stendeva una superficie.Di conseguenza, paradossalmente, Cilio lavora per il teorico dell’opera d’arte, che non è più artifex additus artificii, qualifica in ogni caso limitante, ma assurge, per il gesto di un artista, come fece Duchamp con il reademade, ad artifex tout court, non essendoci per lui neanche la limitazione del riferirsi ad una attività conformativa. Un’altra ipotesi di eclissi della critica prende l’abbrivio dal presupposto che l’arte è esistita, esiste ed esisterà anche senza la critica. In “Il critico come artista” di Oscar Wilde, due personaggi Gilbert ed Ernest discutono di critica d’arte, ad un certo punto Ernest dice: “Perché l’artista dovrebbe essere disturbato dallo stridulo clamore della critica?

Perché coloro che non possono creare dovrebbero arrogarsi la valutazione dell’opera creativa? Che possono saperne?” (Wilde O, Opere, a cura di M. D’Amico, Milano, Mondadori, 1992, pag. 254)In opposizione a questa tesi, Wilde, alla fine, per bocca di Gilbert, sostiene che l’arte e la critica sono due attività autonome e quindi l’opera è una cosa, la critica un’altra. Quest’ultima è impressione soggettiva per la quale “Il significato di qualsiasi cosa bella creata è nell’animo di colui che la guarda”.

(Wilde, op.cit. pag 314)Questa visione della critica in parte mediata da Steiner, e da cui, per motivi di coerenza, ci dissociamo, è in auge ancora oggi. Anzi, con la figura del “critico militante” è stata portata alle estreme conseguenze. Infatti con il solito refrain che l’opera non è dell’artista ma del fruitore, del regista, dell’esecutore….ci si può permettere di tutto.Ma, una domanda si impone: perché il regista, il fruitore, l’esecutore non producono in proprio opere? Che senso ha una contaminazione che non restituisce nella sua interezza il testo originale?A nostro parere nessuna opera può essere stravolta, mistificandone il senso che vi diede chi la compose.Se gridiamo allo scandalo quando Papa Sisto fece mettere “le braghe” agli Ignudi di Michelangelo, perché le stesse regole non dovrebbero valere per tutti gli autori? Se gridiamo allo scandalo quando tocchiamo i reperti archeologici per rimetterli al loro posto essendo già in situ, perché lo possiamo fare con le opere d’arte e di letteratura o di musica quando, con l’escamotage di cui sopra, ne distorciamo il senso?

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Quale senso ha un’opera se diventa pochade?Nel respingere l’assunto di Wilde, sosteniamo che qualora volessimo attribuire un senso alla figura del teorico dell’opera d’arte, questi, nel conversare con lo spettatore per farsi mediatore tra lui e l’opera, deve attenersi a dati quanto più oggettivi possibili.

Deve, cioè, osservare almeno alcuni presupposti di fondo che mettano in evidenza la struttura dell’opera per coglierne gli aspetti semantici (eliminando ogni elemento di disturbo, compresa la sua fantasia e creatività) e correlarli tra loro. Deve cogliere gli aspetti formali e stilistici, il contesto storico in cui l’opera si produce, nonché gli elementi extracontestuali e di novità rispetto ai codici linguistici in uso. In

questo caso, allora, l’ opera del teorico dell’arte potrebbe giustificarsi. In un sistema di controllo generalizzato (la privacy di nessun individuo è rispettata, dalla fabbrica, alle banche, ad internet, ecc….) e di comunicazione sempre più spettacolarizzata, la funzione del teorico consapevole del proprio ruolo è fondamentale per rimettere al giusto posto i tasselli del puzzle dell’apparato attorno a cui ruota l’arte.Nel sistema produttivo contemporaneo non esiste più il concetto di lavoro fisso, perché il teorico dell’opera d’arte ne deve avere uno a vita?Al di là di qualunque intenzione polemica, si torni al concetto di conversazione del critico o meglio del teorico dell’opera d’arte con lo spettatore.Il termine conversare deriva da latino “cum, insieme, con, e “vertere”, girare, e quindi rivolgersi insieme, cioè intrattenersi con qualcuno su qualcosa.Pertanto, la conversazione del critico di per se stessa è ponte tra il riguardante e l’opera d’arte in un sistema dinamico di comunicazione che vede al vertice di un triangolo ipotetico: a) l’opera e ai lati opposti b) l’astante ed c) il teorico dell’arte.Da quanto sopra, risulta che il senso della conversazione non è statico, come spesso avviene in presenza di un critico, performer di soliloqui che nulla hanno a che spartire con l’opera, ma dinamico, perché c’è crescita nel riguardante in quanto aggiunge alle sue conoscenze ciò che ha appreso chiaramente in presenza dell’opera, vertice di congiunzione tra insegnamento (teorico dell’opera d’arte) ed apprendimento (fruitore). Quest’ ultimo, al di là del settore in cui si apprende, è stato ed è il fine di ogni attività umana.L’opera del teorico diventa, secondo la visuale testè indicata, connessione tra i suoi saperi e quelli del riguardante, in questo modo la “con-versazione” si sarà tramutata in comprensione, per cui lo spettatore riuscirà a “vedere” l’opera.

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Non per nulla Kokoschka, di cui Cilio era stato tra gli allievi prediletti, aveva definito la sua Accademia di Salisburgo “Scuola del Vedere”.Infatti, si vede solo ciò che si conosce, il non conosciuto è difficile da percepire, solo una guida come Kokoschka o il famoso sciamano Yaqui, don Juan, nella trilogia di Carlos Castaneda, può essere d’aiuto.Essi posseggono la facoltà del “vedere”, ma questa può essere insegnata, o meglio venire in luce attraverso un processo educativo, nel senso socratiano del termine, in quanto in potenza tutti la posseggono, ed è questo quello che il teorico deve fare, far “vedere” l’opera, non aggiungersi all’opera, artifex additus artificii, come da molti si sostiene ancora, con grande fastidio del riguardante medio che spesso non conosce il codice specifico dell’opera e per “vederla” chiede lumi ad altri, non ricevendoli, diserta le mostre e le vernissage, come constatiamo giorno per giorno proprio perché alla con-versazione si è sostituito, oggi, il discorso. Lavoro incessante del teorico è di rendere visibile l’invisibile, ciò che l’opera nasconde in quanto a forma, contenuto, messaggio.Il mondo sta dentro di noi e noi siamo dentro il mondo, e questo è incontrovertibile.Poiché anche l’opera d’arte è “mondo”, è necessario “vederla” per comprenderla e per far ciò, se non se ne hanno gli strumenti, è d’aiuto lo sciamano-critico che conversando “disvela” la verità o quanto meno il vero dell’opera.Se il teorico dell’arte abiura alla sua funzione di con-versatore, in favore di un discorrere solipsistico, la sua presenza e la sua opera è inutile all’interno del sistema dell’arte, infatti la critica perde senso, meglio non farla e decretarne l’eclissi, come correttamente ha intuito Gino Cilio nel presentare il suo “Ri-Quadro” con cui evidenzia come il “discorso” dello sciamano-critico non si collega più con l’opera, proprio perché costui ha abdicato alla sua funzione di con-versatore. Ancora una quinta ipotesi riguardante l’eclissi della critica. Nell’era della “Civiltà delle macchine”, l’esigenza di esattezza coinvolge tutte le discipline, perché la critica d’arte va in senso opposto? Come già ribadito.Se vogliamo dar credito all’esigenza di

precisione nella contemporaneità dobbiamo sostenere che anche il teorico dell’opera d’arte, essendo un tecnico altamente specializzato e operando una intermediazione tra l’opera e l’astante, deve attenersi a criteri quanto più oggettivi possibili di decrittazione (da “de”, da, e “cèrnere”, separare, sceverare e

figurativamente anche riconoscere, decidere e simili) e cioè deve osservare la struttura dell’opera per coglierne gli aspetti semantici,

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eliminando ogni elemento di disturbo compresa la sua fantasia e creatività, e correlarli tra di loro, deve cogliere gli aspetti formali e stilistici, il contesto storico in cui l’opera si produce, nonchè gli elementi extracontestuali.In questa precisa temperie culturale, in cui quasi tutti i valori artistici, e non, sono stati azzerati, fondamentale risulta l’equilibrio della critica nell’esame dell’opera di un artista contemporaneo.Se prescindiamo da ogni estremismo idealistico, per cui l’opera d’arte è una immagine animata da un sentimento trasfuso in essa da un artista che cerca di uscire dai propri limiti, e da ogni estremismo psicologizzante, per cui ogni opera d’arte non porta in sé la personalità dell’artista perché nello spazio altro dell’opera essa si dissolve, è necessario sostenere, tra i due estremi, che ogni artista vive in un tempo e in una collettività di cui introietta lo spirito che, filtrato attraverso la sua sensibilità, esprime ed estrinseca in un’opera. Ne consegue che l’opera, pur presentando i caratteri dello zeitgeist contemporaneo all’artista, nello stesso tempo li trascende perché la sua sensibilità vi ha agito, mutandoli.Quindi l’arte muta perché l’artista interviene a mutarla in qualcosa di diverso da quella che era stata fino ad allora.Se così non fosse quella non avrebbe bisogno di questi.Infatti un’opera d’arte si configura come un sistema di segni significante su cui il teorico deve “lavorare” considerandoli in prima istanza nella loro totalità, e, dopo, nella loro singolarità. A ciò si aggiunga che l’opera è stata “formata” per mezzo di un sistema di norme e competenze.Sul teorico si addiziona una ulteriore responsabilità: stabilire se l’opera sia la risultanza di una tecnica più o meno raffinata oppure stabilire se ci si trovi dinanzi ad un’opera che riesca a mutare il linguaggio dell’arte stessa in qualcosa di diverso.Nel primo caso, infatti, il linguaggio dell’opera può essere paragonato a quello a funzione comunicativa perché non ne altera i nessi, nel secondo caso l’opera, direbbe Barthes, si pone in situazione “profetica”, avendo la capacità di diventare modello attraverso cui il reale “parla”. Ovviamente, ogni opera non può essere decrittata al di fuori dello spazio e del tempo in cui è stata realizzata, quindi deve essere messa in relazione con altre coeve o passate sia per contrasto che per comparazione.Infatti, il critico o meglio sempre il teorico dell’ opera d’ arte deve riconoscere in che modo un artista riesca a corrodere i codici linguistici dall’interno fino a sovvertirli e talora a distruggerli, nel qual caso si parla di opera d’arte e di artista, oppure in che modo l’opera visiva renda stabili i codici connettivi di un certo linguaggio, nel qual caso si deve parlare di artigianato più o meno raffinato.

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Così, mentre quest’ ultimo non realizza attese in quanto comunica il già esistente, la prima precorre future Ghiaccio su pannello esperienze ed anticipa delle attese, come già chiarito in precedenza. Altra funzione della critica è quella di stabilire i fondamenti dell’opera e cioè se ci sia relazione tra l’impulso alla creatività artistica e l’inconscio personale: infanzia perduta, impulsi elementari, desideri, nonchè l’inconscio collettivo: mondi

archetipali.Lo stesso Freud aveva sostenuto che anche l’astante vede nell’opera rispecchiati e comunicati i suoi desideri inconsci e quindi aveva messo in evidenza per l’arte la capacità di stabilire una comunicazione tra lo spettatore e l’opera di un artista.Quest’ultimo, sostiene, poi, Starobinski è “il soggetto della mediazione tra l’oscurità della pulsione e la luce del sapere sistematico e razionale.” (Starobinski J., L’occhio vivente, Einaudi, Torino, 1975, pag. 305).Ma non è solo il rimosso personale che preme sull’artista, ad esso va aggiunto anche un sistema di archetipi, in quanto esperienze tipiche stratificate, figure, demoni, uomini o processo, che costantemente si ripetono nella storia e che incidono nel momento in cui la fantasia creatrice entra in scena, mettendo in forma un’immagine in cui un lontanissimo passato emerge con la sua eco attraverso il medium di un linguaggio.Da quanto sopra, emerge la figura di un teorico dell’opera d’arte provvisto di un ampio bagaglio culturale che gli deve permettere di decrittarla correttamente.Infatti, un artista conforma un’opera non per murarla nel suo studio, nel qual caso avrebbe senso solo per lui, ma per farla fruire, nel qual caso deve stabilirsi una dialettica con lo spettatore.Sartre con una frase ormai famosa sosteneva che “l’arte esiste per gli altri e per mezzo degli altri” e poiché questi altri non sono tutti in grado di recepire il messaggio artistico in modo corretto, il teorico deve mediarne la fruizione, come più volte ribadito.La sua figura, se correttamente intesa, è tanto più necessaria oggi, allorchè l’opera d’arte attraverso la sua “riproducibilità tecnica” ha raggiunto un vasto pubblico, che spesso si chiama con vocabolo assai abusato massa, ed ha perso, quindi, la sua “aura” riducendosi a merce portatrice, è vero, di valori culturali ma che non suscita più emozione, persa com’è nel gran mare dell’indifferenza del costantemente esibito. Altro problema è poi dato dal fatto che sempre più gli artisti, pur di entrare nel mercato, ma questo è un discorso che affronteremo successivamente, producono lavori di routine, mentre quelli significativi, non rientrando nei codici condivisi, vengono scartati.E’ in questo contesto che l’opera della critica è fondamentale, perché contribuisce a distinguere le trouvaille, le boutade dalle opere

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significative, che scardinano il sistema linguistico codificato, e per ciò stesso acquista senso, perché il ricettore non fornito di adeguate cognizioni trova in essa una guida che partecipa alla sua crescita culturale.Ovviamente nel caso di uno spettatore avveduto il contributo del teorico è quello di permettere un confronto costruttivo di idee. In sintesi, una critica oggettiva e consapevole del proprio ruolo, a nostro avviso, deve tenere presente quale sia il soggetto vero della decrittazione, quale l’ oggetto e a quale patrimonio di immagini l’opera attinga.Se la tanta critica che oggi leggiamo (il famoso pezzo di “bravura” fine a se stesso e magari fatto di frasi stereotipate già pronte per l’uso in computer, tanto cambiando l’ordine dei fattori la somma non cambia) è avulsa dalla “lettura” compente, ingenera solo noia e confusione, ed è assolutamente inutile, se ne può decretare l’ eclissi nessuno piangerà sul suo feretro. Ora, quale contributo può dare il teorico dell’opera d’arte nell’interpretazione di un’operazione come quella proposta da Gino B. Cilio?Se il teorico si considera artifex additus artificii, (ma l’artificio “opera d’arte” manca!) può scrivere ad libidum, come qualunque fruitore perché sul nulla tutto si può dire, come accennato in precedenza. Se invece manifesta a priori il suo sistema di interpretazione non può far altro che scendere nella temperie culturale contemporanea e percorrere tutti i processi di azzeramento e di nullificazione dei linguaggi perpetrati in quest’ultimo secolo e darcene la sua decrittazione. In questo senso la sua opera si affiancherà a quella dello storico dell’arte e avrà senso perché accrescerà le cognizioni di ogni riguardante, anche di quello che osserva un Ri-Quadro senza superficie e, scandalizzato, se ne allontana perché non ne percepisce il senso e la portata a corto di nozioni riguardanti l’azzeramento o la nullificazione dell’opera e dell’artista nella contemporaneità.

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OPERA D’ARTE COME RUMORE – ECLISSI DEL MERCATO

Umberto Eco in “Opera aperta”, più volte citata, accorda all’arte il privilegio di essere considerata “co-realtà” a cui applicare gli stessi principi che per via semiologica inverano la realtà fenomenologica.Ora, il “Ri-Quadro” mancante di superficie di Gino Cilio quale co-realtà invera? Tutte o nessuna.

Se questa co-realtà, in base all’atto percettivo, viene interpretata da un soggetto in continuo cambiamento, quale interpretazione, quale possibile lettura la visione di un “Ri-Quadro” senza superficie porta con sé?E’ applicabile ad esso il concetto di “opera aperta”?Se il linguaggio fonda ogni comunicazione, il Ri-Quadro in cui è assente ogni segno linguistico può ancora comunicare qualcosa? Può essere “campo di suggestività”? (Eco U., Opera aperta, Tascabili Bompiani, 1974, pag. 77)In un’opera d’arte il linguaggio estetico e quindi poetico implica un rapporto dialettico tra il significante e il significato che si arricchisce

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continuamente di “nuovi echi”, di stimoli che il riguardante decodificherà secondo la sua personale ermeneutica.In questo senso ogni opera d’arte è aperta, perché il suo significato risulta “multiforme” e ogni volta arricchito da un atto transattivo in cui si compongono il bagaglio di ricordi del fruitore e il sistema di significati dell’opera. (Eco, o.c. pag, 85 e seg.).In conclusione, per Eco “L’apertura è….la condizione di ogni fruizione estetica e ogni forma fruibile in quanto dotata di valore estetico è “aperta”.Ne “Le due vie”, rispetto ad Eco, Cesare Brandi restringe notevolmente l’apertura di un’opera, considerando “aperta” solo quella in cui il fruitore può intervenire in una delle due fasi del processo creativo e cioè o nella costituzione d’oggetto o nella formulazione d’immagine.Nel primo caso il percepito viene sospeso, ad opera della coscienza, dalla realtà per trapassare direttamente nell’oggettualizzazione, vedi la pop art, nel secondo caso, eliminato l’oggetto, lo stato d’animo si proietta direttamente sul supporto e crea non un’immagine reale ma un segno di quello stato, vedi Informale, (Brandi C., Le due vie, ed. Laterza, Bari, 1966, pag. 101 e segg.) che, guarda caso, è l’ultimo periodo di riferimento di Gino Cilio.Ad ogni modo, sia Brandi, anche se in via secondaria, sia Eco sostengono la funzione comunicativa dell’arte, cui si possono applicare le stesse regole della comunicazione.Ma un Ri-Quadro senza piano pittorico può ancora comunicare la presenza dell’opera?Un messaggio contiene informazione quando si presenta secondo un “certo gioco di libere reazioni”, dice Eco, che il ricettore può decodificare in modo più profondo se esse presentano un certo grado di ambiguità, di incertezza desiderabile, in una parola contengono violazioni espressive della norma. Tali violazioni hanno la proprietà di attirare l’attenzione del fruitore.Infatti, se in un sistema di regole codificate l’autore ne viola alcune inventa nuove possibilità espressive, formali, fruitive.Ma quando la violazione delle regole è troppo ampia, l’opera assume la stessa connotazione del “suono bianco” in musica.Il semiologo porta come esempio un sistema musicale elettronico, al cui insieme di suoni che forma un gruppo viene imposta una forte accelerazione. A causa di questa accade che l’orecchio non ne percepisce il rapporto di frequenza, onde il “suono bianco”, costituito dalla somma di tutte le frequenze che si configura pertanto come rumore. Questo non comunica più nulla, anche se può dare un minimo di informazione. (Eco U. o.c., pag. 72).

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Ora, un Ri-Quadro privo di superficie su cui non si può estrinsecare alcuna forma non presenta nessuna possibilità fruitiva, oppure le presenta tutte.

Ma, c’è di più, il Ri-Quadro non ha neanche l’intenzionalità dell’attività formante dell’artista o che è lo stesso le ha tutte. Di conseguenza, se il peri-metrare uno spazio qualsiasi è un campo di possibilità infinite, di nessuna di esse si fa carico l’artista, oppure si fa carico di tutte.In questa situazione il Ri-Quadro si connota come “rumore”, come somma indifferenziata di tutte le frequenze, così come in un sistema

di suoni fortemente accelerato, i quali contengono il massimo di entropia, disordine auspicabile del codice linguistico, e quindi dovrebbero contenere il massimo di informazione, invece non ne contengono nessuna, proprio perché il nostro orecchio (nel Ri-Quadro il nostro occhio) non è più capace di scegliere. “Un’opera è aperta sinchè rimane opera, oltre questo limite si ha l’apertura come rumore” (Eco U. o.c. pag. 177).Tuttavia una sola possibilità rimane: il rumore è sempre un segnale che se non comunica contiene sempre un minimo di informazione.Il Ri-Quadro informa di una mostra, una performance, un’istallazione, un evento insomma mai avvenuto? Oppure informa che la creatività non ha più bisogno dell’opera, allora essa è autopoietica? Oppure che, se l’immaginazione è senza immagini, l’arte si riduce a filosofia? Oppure che, se l’immaginazione è senza immagini, abbiamo forse bisogno di

riappropriarci della vita nella sua plasticità e mobilità? Oppure può informare che, se ci fosse rappresentazione estetica, la vita “precipiterebbe” sul supporto restando bloccata nella forma? Oppure che è eterno il mutamento e temporale l’esistenza e imperfetti i nostri sensi perché incapaci di comprendere l’indistinto, il non ordinato e allora è ancora possibile l’esperienza del bello

e della verità? Oppure che, se l’opera d’arte, qualunque opera d’arte, non riesce a cogliere l’èidos, la forma intelligibile nella sua essenza, data la “resistenza” della materia a lasciarsi plasmare, c’è un’espressione artistica, un linguaggio che consenta di trascendere la forma, la morphè, per arrivare all’èidos?Si potrebbe continuare all’infinito nella decodificazione di questo “segnale”, che non comunica attività conformativa su una superficie, come più volte ribadito, ma informa comunque che nel sistema dell’arte

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sussiste più di un problema, qualcuno dei quali si è cercato di delineare nelle note precedenti, ma molti altri rimangono aperti, di cui ogni lettore si può fare carico, compreso quello di un “Ri-Quadro” quale prodotto da inserire in un circuito di mercato. La realtà è segno inesauribile cui l’opera d’arte dà senso attraverso l’ “apparenza” che è poi rappresentazione. Ma, questa, una volta che ha preso forma in un’opera, ha perso l’essenza materiale di cui conserva però la figura.In altri termini, l’opera d’arte trasforma l’oggetto in un apparire che pur essendo indifferente al vero o al falso, onde la definizione iniziale di arte come retorica, paradossalmente produce verità che sono pur sempre apparenze. Tuttavia, verità ed apparenze sono unificate a priori nell’opera la quale è indifferente alla verità perseguita dai filosofi, semmai ha il suo credo nella “riuscita” che consiste nel fermare un gesto, una parola, un colore, un moto dell’animo, un suono, la sfumatura di un sentire, ecc…Questo nelle linee generali. In particolare, poi, la contemporaneità ha liberato l’arte dai clichè tradizionali, dagli stereotipi dei tempi passati per approdare ad un continuo azzeramento dei linguaggi, come già nelle Avanguardie, che dal Futurismo in poi fecero piazza pulita di ogni tradizione.Ma, nel momento in cui tali linguaggi si stabilizzano, diventano, a loro

volta clichè. Di conseguenza, qualunque rivoluzione linguistica ricompone ciò che voleva evitare: “Non c’è scrittura capace di mantenersi rivoluzionaria e che ogni silenzio della forma sfugge all’impostura col mutismo completo”. (Barthes R., Il grado zero della scrittura, Einaudi, Torino, 1982, pag. 55)Quindi, in questo contesto l’ “A-Zero” di Gino Cilio realizza finalmente l’omicidio del linguaggio dell’arte che è anche “suicidio” dell’artista, disillusione di un uomo mai

soddisfatto e gratificato fino in fondo, nonostante i successi ottenuti.Gino B. Cilio non è giovane, non ha l’entusiasmo di quando, come sottolineato nella biografia, al ri-flettere si preferisce il fare, anche se quest’ultimo non esclude il pensare.Adesso, per lui, è giunto il momento della ri-flessione. Ma, “ri-flettere” su cosa?Ovviamente sull’oggi. Su quest’oggi velocizzato, estetizzato, estetizzante ora kitsch ora trash, in cui tutto è prodotto da consumare velocemente secondo le leggi del mercato, quindi anche le opere d’arte.Stante così le cose Gino Cilio compie un gesto “puro”, degno delle migliori Avanguardie. “Ogni opera pittorica e plastica è inutile”, aveva

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asserito Tristan Tzara, e altrove: “Abbiamo bisogno di opere forti, decise e incomprese una volta per tutte”.E l’ “A-Zero” del Nostro è compreso? E’ comprensibile? E’ un nonsense? Quel famoso nonsense che tante opere ha nutrito, e che, se così fosse, avrebbe bisogno di un minimo di linguaggio per potere entrare nel circuito del mercato in una società che in nome di un efficientismo esasperato rifiuta l’angoscia e lo scacco di cui, invece, si nutre ancora in profondità la cultura umanistica?Nel mezzo se non l’artista, l’uomo che con Pascal “connait qu’il est miserable: il est donc miserable. Puisqu’il est, mas il est bien grand puisqu’il le connait.” E Gino Cilio conosce la piccolezza dell’uomo che si misura con l’Infinito e dell’artista che si misura col desiderio di perennità della sua opera, perché, in realtà, questa è l’aspirazione ab origine quando affronta la difficoltà e la durezza, onde durare, della materia che non si lascia “penetrare”, che resiste a mostrare il suo non-essere, che lascia magari intravedere il suo potere-essere, ma sempre con difficoltà assurge all’essere.E’ questa la tragedia che vive Gino Cilio, consumato tra il desiderio di “vedere” l’oltre del mondo e la resistenza di questo a “lasciarsi” vedere. “Ho provato anch’io. / E’ stata tutta una guerra / d’unghie. Ma ora so. Nessuno / potrà mai perforare / il muro della terra”, diremmo con Giogo Caproni.E il Nostro ne ha consapevolezza, forse perché guardandosi intorno, si è reso perfettamente conto che si è perduto nel mare di immagini che la contemporaneità ci pone, impone e propone.Se ognuno di noi facesse un calcolo approssimativo di quante immagini ha visto, diciamo, nell’ultimo lustro tra film, mostre, giornali, riviste, vernissage, biennali, triennali, quadriennali, TV, computer, internet, CD, DVD, ecc… non credo potrebbe tenere il computo. Quindi il soggetto è come “perso” tra le immagini, non ultime quelle date dai cellulari e dalle camere digitali, che obbligandoci a rappresentare agli altri la realtà, ci impediscono di viverla.Stante così le cose, è possibile “vedere” il mondo? E’ possibile ancora la “scuola del vedere” di Kokoshka, di cui Cilio, allievo prediletto, ha assorbito la lezione?La “scuola del vedere” implica affinamento nella percezione della realtà, riflessione nella propria co-scienza, perché solo nell’oscurità “illuminante” si può dare ordine al caos per trarne una visione cosmica

(da cosmos, ordine.) corretta, “finita” come direbbero i Greci.Ma riflessione e velocizzazione dei tempi tecnologici odierni non possono andare di pari passo, anche per fatti strettamente biologici

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perché il cervello umano attuale non è diverso da quello dell’ homo sapiens di qualche tempo fa. L’uomo sottomette la natura ai propri fini, ma non può andare oltre un certo limite. E questo vale anche per il cervello. L’intel-ligenza umana abbisogna di tempi lunghi nella percezione del mondo, che è poi percezione dello spirito del tempo, su cui si deve intuire, riflettere, elaborare, collegare, esprimere, estrinsecare per “vedere”, appunto, il non-essere delle cose, del mondo, per dare, cioè, una nuova “lettura” della realtà, una nuova visione onde, si ribadisce, “scuola del vedere”.A tutto ciò, relativamente al linguaggio artistico, si deve aggiungere quel “quid” inqualificabile che semantizza l’opera come opera d’arte.In questo contesto, Gino Cilio rivendica il suo diritto-dovere, che è poi diritto-dovere di tutti, alla ri-flessione.Egli prende congedo momentaneo dal mondo velocizzato contemporaneo, si ritaglia il “suo” spazio di libertà dall’ossessione di essere onnipresente con la propria opera nel mondo dell’arte, dal perseguire la notorietà ad ogni costo con trouvaille e boutade dissacranti sì, ma che non producono quello spaesamento proprio dell’opera d’arte, che è poi visione alternativa del reale che oggi non ha un punto esterno cui appoggiarsi per farne un antagonista ed entrare in rapporto dinamico e dialettico con esso.Tutto è morto, dalla Storia alla Geografia, a Dio, all’Arte, ecc…tranne l’adesione ipnotica alla mercificazione di ogni cosa. Ma un “Ri-Quadro” senza superficie può essere merce? Se non lo è, quale il suo statuto? Boutade?No! Non è possibile, perché esso nella solitudine della parete bianca, o dello spazio tout court, insieme al titolo 1 + Uno, produce spaesamento, shock visivo, disorientamento. E’ paradossale e, a parer nostro, sta a testimoniare con la “profondità” del suo “vuoto” che si è eclissato (nel senso che a questo lemma abbiamo dato precedentemente) il concetto per cui arte è viaggio dentro se stessi, nel profondo, e vive del silenzio, anche se non in silenzio. Ma, oggi, quel silenzio, si direbbe con un ossimoro, è assordante, vive di batage pubblicitari “ad arte” studiati, che rimbalzano da giornale a giornale, da addetti ai lavori a non addetti, che fanno salire ingaggi e quotazioni, perché soprattutto la pubblicità è funzionale alla “merce” arte.Infatti l’opera deve dare spettacolo e, come un qualunque oggetto da comprare, deve farsi fantasmatica, deve avere potere di seduzione, deve essere adorata come un feticcio, così, poniamo, i Girasoli di Van Gogh, come il cellulare Vodafone, le vacanze esotiche, le griffe, l’elettrodomestico talismano della felicità, ecc…La pubblicità deve confezionare una realtà appetibile perché l’oggetto venga a noi, “ci” desideri e sottolineiamo “ci” perché è proprio quel “ci” che fa sentire un uomo uguale all’altro. Ed è in questi termini che si

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arriva all’uomo-massa, a quel “collettivo sognante” che non ha storia, felice solo di essere a-ideologico, e pertanto rassicurante.Ciò premesso, è necessario precisare che nel momento in cui il prodotto entra nel mercato e segue le sue leggi perde, ovviamente, la sua incidenza, in quanto questo può sopportare l’ironia, al massimo il sarcasmo, mai l’eversione o il disordine o peggio il dissenso. Conseguentemente, l’opera immessa nel circuito del consumo e del consenso perde la carica destabilizzante ed emotiva.La società capitalistico-borghese prima e la post-industriale poi hanno inglobato al loro interno l’artista, rendendolo inoffensivo. Cosa che all’inizio non era riuscita con le Avanguardie storiche perché gli artisti per libera scelta si erano esclusi, mentre con le neo si sono ben inseriti ed hanno fatto perdere all’opera la sua valenza rivoluzionaria. Anzi, blandendo, accarezzando, solleticando e sollecitando il sistema, gli artisti si sono ben sistemati al suo interno e molti di loro sono diventati, al pari delle merci, miti o, come sostiene J. Starobinski, attori. “L’artista deve diventare attore che si proclama attore” e cioè deve arrivare alla funzione di intrattenitore.Ma al fine di non divagare, torniamo al mercato e cerchiamo di darne una definizione elementare. Questo, per dare valore economico ad un prodotto, deve verificarne il suo valore d’uso, anche se esso è superfluo deve, attraverso la

pubblicità, sembrare necessario, e, in questa accezione, sottostà alla regola della domanda e dell’offerta. Più alto è il valore d’uso reale o che può e deve sembrare tale, più alta sarà la domanda e quindi più alto sarà il valore economico.Questo per semplici linee generali il concetto di mercato.Può accadere che il valore d’uso sia soppiantato dal valore di scambio, come avviene per le opere d’arte, allora è il denaro e non l’uso che ne determina la presa in considerazione e quindi l’opera

assurge a feticcio non per il valore in sé, ma per il valore economico che essa esprime, per cui acquista prestigio, è simbolica di un sogno dell’uomo, è immagine-simbolo: il valore pecuniario vanifica ogni affermazione estetica.Rispetto al passato, però, l’innovazione sta nel fatto che il contenuto non è nell’oggetto opera ma nella “novità” che esprime, sia essa una boutade o una trovata, o altro, dato che il mercato può sopportare solo queste, per cui la forma rimane scissa dal contenuto, perché se l’opera scardinasse i codici linguistici per darne una nuova visione non sarebbe recepita dal mercato.

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Ora all’interno del “nuovo” così inteso dove sta il confine tra realtà ed apparenza dell’opera?Naturalmente il nuovo è sempre esistito, ma contrariamente a quanto avveniva nel passato, per esempio con le Avanguardie, che con l’invenzione di linguaggi “altri” volevano sovvertire il volto del mondo, oggi questo non può essere auspicabile, altrimenti l’impalcatura del sistema arte crolla, ma per farlo crollare non è necessaria tanta fatica, basta l’esibizione di un Ri-Quadro senza superficie che avrebbe certo mandato in visibilio Trista Tzara.In altre parole, attualmente le novità in arte stanno come su un

palcoscenico di movimenti solo apparenti in quanto “puri esercizi di stile”, che non riescono, purtroppo, a disarticolare schemi e regole che facciano della “prosa del mondo” poesia.In quest’ ambito, allora, l’ “O-Per-Azione” di Gino Cilio, come lui la indica, di azzeramento di ogni linguaggio è opportuna e forse necessaria per rompere il cerchio di omologazione che attanaglia gli artisti propinato ed imposto con i mezzi più subdoli e stringenti dai media e dal mercato.

Tra artista ed omologazione alla società del “collettivo sognante” non dovrebbe esserci ratifica. E Cilio non ratifica.Con fare utopico azzera il mercato perché nessuno in tempi di griffe, si sognerebbe di comprare un supporto anonimo a suon di Euro.Quella di Cilio è una visione lucida del presente, la sua è una spinta ideologica forte con cui guardare ad un futuro sia esso lento ad arrivare, ad una attesa, ad una speranza.E se ciò è solo un’illusione, anche questa deve avere il suo statuto ontologico, se soccorre l’individuo nella ricerca della propria individualità per essere “individuo”, appunto, e non massa o peggio “collettivo sognante”.

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POSTFAZIONE: L’ “A-Zero” dell’opera d’arte tra Postmoderno e “Civiltà dei Byte”

A conclusione di queste note riguardanti le problematiche messe in campo dall’ “A-Zero” dell’opera d’arte di Gino Cilio un’ ultima invariante interpretativa dell’operazione si impone. Essa si articolerà in due direzioni: 1) da una parte si focalizzeranno brevemente i mutamenti di prospettiva riguardanti le arti con l’affacciarsi all’orizzonte di quel periodo particolare del nostro tempo che indichiamo come “Postmoderno”, 2) dall’altra si evidenzierà come i nuovi mezzi di comunicazione dati da una tecnologia nuova e sofisticata: internet,

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computer, compact disc, ecc… stiano rivoluzionando dalle fondamenta la nostra percezione della realtà. Naturalmente saranno solo ipotesi suffragate dall’esperienza personale e pertanto suscettibili di ripensamenti e virate proprio perché ci troviamo agli albori una nuova epoca ed oseremmo dire di una nuova “Civiltà”. In merito al primo punto diciamo che la dizione “Postmodernità”, riferita all’epoca in cui viviamo, compare nel 1977 , anche se talvolta il termine viene usato qua e là, e si collega all’Architettura che, allora, mostrava più di un segno di stanchezza nel ripetere gli stessi rigidi stilemi dell’ “International style”, per il quale ogni ornamento “era un delitto”, secondo la formula messa in campo da A. Loos. Dopo decenni di moduli costruttivi simili ad enormi scatoloni privi di ogni piacevolezza estetica, si sente l’esigenza di guardare all’abbellimento delle strutture, al piacere visivo dell’ impianto architettonico. Allora si torna a recuperare l’uso di stilemi di un passato più o meno recente.Ben presto, però, il progetto e l’innovazione concernente il punto di vista dell’Architettura passa velocemente alle altre arti visive e a quelle connesse con la parola, il teatro, la poesia, il romanzo, ecc….con la ripresa sempre di riferimenti a forme e formule appartenenti al passato i cui temi, ora, sono, però, trattati in modo autoironico e disincantato proprio perché si ha consapevolezza di tale “citazionismo”. Da quanto sopra deriva al Postmoderno quel carattere di appiattimento di prospettive, di ricerca di effetto che sta tutto in superficie, di tecnicismo, di silenzio, di assenza nonché di decostruzione progressiva.Il tutto si motiva su un aspetto rilevante della postmodernità fondato: “sullo schiacciamento, sulla riduzione degli spessori psichici, dall’altro incentrato su un gioco combinatorio e sulla ripresa sistematica di materiali stereotipati. Se ci si riflette sopra con cura, questa seconda ipotesi è di natura qualitativa, [gli stilemi di riferimento n.d.a] mentre l’altra è invece di natura quantitativa, ed ecco proprio il punto che, fino ad oggi, sembra essere sfuggito alla maggior parte di coloro che si sono affaticati attorno al nodo moderno-postmoderno. La differenza tra l’uno e l’altro potrebbe non essere di qualità, di categorie, di forme, bensì di quantità ”. (Barilli R., in Novecento Sperimentalismo e tradizione, ed. Motta, pag.718 e seg.). In questo senso, allora, la ripresa di stilemi del passato subisce un rovesciamento, una compressione, una riduzione e di conseguenza una maggiore estensione quantitativa.Infatti, non c’è chi non veda come in questi ultimi anni la produzione artistica si basi sulla quantità e non sulla qualità, proprio perché la ripetizione delle stesse tendenze, forme e formule entra nell’immaginario collettivo in vari modi non ultimo la pubblicità che le rende facilmente riconoscibili non solo agli addetti ai lavori ma anche ai non addetti e quindi esse sono in grado di entrare con facilità nel “sistema arte”. Questo vive sulla creatività dell’artista imbrigliato in un elefantiaco ingranaggio che vede l’opera inserita in un apparato di

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consumo di massa voluto, al pari di altri prodotti, dal mercato globale in cui domina l’assoluta uniformità delle esperienze estetiche.Da quanto sopra si evince chiaramente che a fronte di un principio di “normalizzazione” delle neoavanguardie a noi contemporanee, si accompagna la perdita della soggettività nonché lo schiacciamento e l’abbassamento qualitativo che si appiattisce, si democraticizza, si massifica espungendo la qualità in favore, invece, della quantità pronta ad infiltrarsi ovunque e a soddisfare i nostri post-bisogni più o meno indispensabili.A questa prospettiva di schiacciamento qualitativo l’ A-Zero di Gino Cilio, visto che lui ha lavorato una vita in favore invece dell’innalzamento qualitativo, dice di no! Contemporaneamente al “Postmoderno” qualcosa di nuovo è accaduto in questo nostro secolo caotico e straordinario: il balzo in avanti della tecnologia elettromagnetica ed elettronica che ha consentito che il mondo, secondo la fortunata espressione di McLuan, fosse un unico “Villaggio Globale”.Qui il modo di percepire la realtà sia quello legato alle percezioni sensoriali date da ciò ci circonda, sia quello legato alle conoscenze culturali afferenti la sfera del privato subisce un cortocircuito..In questo senso l’ “A-Zero” di Gino Cilio rappresenta il punto di non ritorno ad un mondo materiale che si riduce ogni giorno di più e la cui comprensione non riguarda ormai i nostri sensori biologici in genere ma riguarda soprattutto quello che si potrebbe definire il nostro “Occhio ciclopico”, circolare, autoreferenziale e policentrico ma immateriale che prelude a quella che denominiamo “Civiltà dei Byte” la quale determina una diversa “percezione” della realtà e quindi della sua rappresentazione anche in chiave artistica, che è poi quella che ci interessa in questa sede.Da quanto sopra si evince, allora, che Gino Cilio non ha sostenuto con questa operazione che l’opera d’arte sparirà dal mondo, ma certamente che subirà profonde trasformazioni nell’era della rivoluzione dei bit. Si è insinuato, infatti, nella contemporaneità un modo alternativo di vedere il mondo attraverso i media che lo fa slittare in avanti in un “altrove” che pure esiste ma che non si percepisce attraverso la conoscenza sensoriale. Davanti a questa dimensione alternativa l’ operazione di azzeramento dell’opera d’arte di Cilio segna il collasso del modo tradizionale dell’operare artistico, per aprirsi su prospettive inedite che preludono ad una diversa civiltà.Infatti, se per civiltà intendiamo tutto un sistema di valori afferenti l’arte, la scienza, la religione, ecc… indicativi del grado di formazione umana e spirituale di una larga parte degli abitanti della terra, non c’è chi non veda come altri valori stiano soppiantando i vecchi per dare luogo ad una diversa cultura: alla cultura del “Villaggio globale” per cui in tempo reale ci si mette in contatto con qualunque parte del pianeta, si seleziona qualunque notizia interessi, si veda qualunque immagine

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rientri nelle nostre ricerche e così via. Pertanto dopo la “Civiltà delle macchine”, di cui si è detto in altra nota, la nostra si potrebbe definire “Civiltà dei Byte” o “Civiltà dell’immateriale” appunto perché si tratta di una Civiltà diversa rispetto alla prima in quanto, oggi, si privilegiano certe forme particolari di attività legate all’informatizzazione, ad Internet, ai mezzi di comunicazione di massa, ecc… che influenzano fortemente le esperienze umane, soprattutto quelle legate alla percezione della realtà.In altre parole, tutti questi velocizzati cambiamenti fanno sì che la cultura, in quanto progetto implicito ed esplicito di vita, si evolva rapidamente per mezzo di altri stili percettivi che danno luogo a forme diverse di simbolizzazione e rappresentazione, rispetto a quelli di un non lontano passato.In questo contesto l’uomo, l’artista, il poeta, quale posizione occupano? In che modo la realtà è vista? Il digitale è “tecnica unificante” in quanto è diventata il fondamento di una cultura, così come un tempo lo era stato l’alfabeto, almeno in occidente. Al suo posto oggi è subentrato on/off o che è lo stesso il bit: O/1 che permette soluzioni migliori e più economiche sia relativamente all’uso dell’alfabeto che ai processi umani legati ai sensi, a strutture, a materiali, a transazioni differenti ed eterogenee, elementi tutti che confluiscono in un singolo ambiente di informazione al centro del quale sta il soggetto col suo linguaggio nella sua doppia accezione di linguaggio esterno attraverso cui il soggetto è controllato e linguaggio interno sul quale è il soggetto ad esercitare un controllo.Nel primo caso rientrano ad esempio la religione, la politica, la radio, la televisione, i giornali in genere, ecc…che con un’unica espressione indichiamo come “sfera del pubblico”, nel secondo i libri, internet, la cultura in genere, i CD, i DVD, ecc….cioè tutto quello che dipende dalle nostre libere scelte soggettive e che indichiamo come “sfera del privato”.Basta un semplice sguardo solo su Internet per convincersi che nella contemporaneità si realizza un contemperamento tra ciò che è pubblico e ciò che è privato perchè tutto ciò che è pubblico in rete può diventare privato e viceversa. In questo modo il soggetto ha la possibilità di controllare un linguaggio anche se questo controllo è condiviso con un mezzo: il computer o qualsivoglia strumento abbia le stesse funzioni, per cui fondamentale oggi diventa il problema della “conoscenza”. Generazioni di filosofi ne hanno indagato la natura e vi hanno dato le più svariate risposte. Fino a poco tempo fa si dava conoscenza sia attraverso ciò che il soggetto coglieva attraverso i sensi sia attraverso la mente. Nel primo caso si aveva a che fare con le percezioni legate alla corporeità: un odore, un suono, un colore ecc…nel secondo con i processi mentali che per comodità indichiamo con la parola immateriale. Quindi l’io mutava anche attraverso un processo cognitivo percettivo. Oggi, invece, con i nuovi e velocissimi mezzi di

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comunicazione, dalla TV al computer, al videocellulare, al palmare, ecc…. il processo cognitivo è prevalentemente mentale e non comporta se non in misura limitata e sempre per via indiretta il coinvolgimento del sistema sensoriale.In queste condizioni nasce quello che Nicholas Negroponte chiama: “Essere digitali” che vede il passaggio dall’atomo al bit, intendendo per atomo tutto ciò che si riferisce alle cose materiali che hanno quindi peso e durata nel tempo, e per bit tutto ciò che ha a che fare con la computerizzazione e quindi col “leggero”, con l’oggetto ridotto a semplice funzione perché “il più” nuoce all’economicità della comunicazione microelettronica.“Il passaggio dagli atomi ai bit, come io chiamo questa evoluzione, è irreversibile e inarrestabile”…….. “la comunicazione di massa sarà rivoluzionata da sistemi che consentono di trasmettere informazioni e passatempi personalizzati. La scuola diventerà più simile a un museo o a un campo giochi, dove i bambini potranno scambiare idee e socializzare con altri bambini di tutto il pianeta. Il mondo digitale diventera piccolo come la capocchia di uno spillo” ( (Nicholas Negroponte, Essere Digitali, Sperling & Kupfer Editori, Milano, 1997, trad. F. e G Filippazzi, pag. X e seg.).A questo punto una rosa di problemi inerenti l’informazione, l’arte, l’estetica, gli strumenti di costruzione dei significati e soprattutto la proprietà del sapere si apre.In merito, infatti, all’ultimo argomento è necessario mettere in evidenza come il sapere si sia incorporato nelle macchine, nei management, nell’intelligenza operaia inestricabilmente legata alla scienza e alla tecnica mentre gli eccessi dei copyright non conoscono limiti. Un esempio per tutti: i familiari di John Cage, in nome del diritto di autore, hanno intentato causa ad un musicista che in una sua composizione aveva introdotto 60 secondi di silenzio. E’ naturale chiedersi come potrebbero evolversi le arti, la letteratura, la musica senza la possibilità delle citazioni, delle contaminazioni, delle combinazioni! In gioco, dunque, oggi è lo statuto della proprietà della conoscenza data dall’intelligenza collettiva incorporata nel software e in tutta “l’industria dell’immateriale”.Si è consapevoli delle immense problematiche legate a quella che si è testè definita “Civiltà dei byte”, così come si è consapevoli che da diversi anni tanti artisti hanno cercato di attivarsi nel campo delle arti visive connotandosi come nomadi protagonisti della sensibilità dell’immateriale.In Italia Studio Azzurro nella XVIII triennale del 1992 investigava già sulla natura stessa della visibilità muovendosi in un ambiente a raggi infrarossi, o un Peter Callas con i suoi “Paesaggi pluristratificati” mostrava visioni caleidoscopiche e disorientanti superando le tradizionali categorizzazioni relative alla rappresentazione e percezione del paesaggio appunto, e di nomi se ne potrebbero citare molti altri ma

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qui ciò che preme sottolineare è che già da parte di molti artisti si pone il problema della “strutturazione” del lavoro secondo una più libera evoluzione operativa determinata dai nuovi mezzi tecnologici che preludono alla strutturazione di una nuova sensibilità proprio perché questa non è più legata esclusivamente alle percezioni dei sensori biologici ma a quell’ “ Occhio Ciclopico” di cui si parlava più sopra.Comunque sia in tutti gli artisti di queste ultime generazioni, ed è il caso di un Peter Callas citato, emerge chiaro il concetto espresso da De Cherckove della scomparsa del “punto di vista” della prospettiva classica, sostituito dal “punto di essere” centrale in qualunque posto ci si trovi perché la realtà tecnologica porta il mondo nelle nostre case.Fino a qualche decennio fa, o per dirla meglio con Sinisgalli, fino alla “Civiltà delle macchine”, il soggetto, nel nostro caso l’artista percepiva il mondo e quindi anche la macchina con i sensi, vedendola ora come elemento positivo, ora negativo, ora costruttivo, ora distruttivo, ecc…Lo stesso Gino Cilio, in quel periodo, sentiva l’esigenza di vivere con gli operai del Polo petrolchimico di Siracusa proprio per “sentire” come l’operaio avvertiva l’impatto con la macchina in relazione anche alla percezione dell’attorno, quell’attorno che veniva introiettato attraverso i sensi in modo lineare e causale, per cui il Nostro poteva rappresentare l’uomo come “servo-macchina”, poteva mettere in evidenza il sistema di sfruttamento dell’operaio, l’impatto dell’industria sull’ambiente, ecc…Trascorsi alcuni decenni, avanzate ed evolutesi rapidamente le tecnologie, si modifica il modo di percepire il mondo, mentre un passato recente si fa sempre più remoto, l’ “altrove” incalza pressante. Così alla linearità e causalità dell’ intuizione si sostituisce la circolarità e l’interdipendenza delle informazioni attraverso l’ingerenza pervasiva nel quotidiano dei mezzi di comunicazione di massa che consentono una percezione immateriale della realtà.Di conseguenza, tutto ciò che sta “altrove” permea i nostri gusti e le nostre scelte, nonché le nostre sensazioni, le quali non fanno più capo a ciò che “sentiamo” con il corpo ma a ciò che vediamo filtrato da uno “schermo” onde l’esplosione dell’immateriale insieme ad una grande espansione cognitiva, come non s’era mai registrata prima. C’è un Villaggio Globale e una messe infinita di notizie, è possibile essere qui ed agire in un altro luogo, e già molti artisti hanno cominciato a fare delle sperimentazioni in questo senso, come a Berlino o a Kassel a Documenta IX, in cui l’interattività rese possibile fare interagire in tempo reale un pubblico transnazionale immesso in una dimensione teletopica, come direbbe Virilio.Tutto questo ed altro ancora aprono spazi di azione inediti ed impensabili fino a poco tempo fa quando l’artista nel chiuso del suo atelier interpretava la realtà e la esibiva agli astanti. Oggi, davanti ad uno schermo, l’occhio registra il contatto con un mondo esterno incommensurabile e lo relaziona con l’ interno, col “sé” il quale realizza continue attese che una dopo l’altra permettono al

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soggetto di operare selezioni e chiuderle in uno spazio dove è possibile collegarle con le altre già immagazzinate.L’occhio e solo l’occhio può, quindi, isolare una immagine, un pensiero, un’idea da un fondo caotico, multidirezionale o circolare, se si vuole, e interdipendente, che permette la messa a fuoco di una posizione di controllo di quanto si voleva conoscere.Un esempio chiarisce meglio gli assunti. Un individuo, data l’enorme messe di informazioni reperibili via Internet o altri mezzi di comunicazione, si trova al centro di un cerchio instabile che gli ruota attorno per trecentosessanta gradi e che è fatto di un numero infinito di informazioni che il soggetto stesso può selezionare scegliendone la direzione e ritagliandosi quel settore che gli interessa. In queste condizioni passato e futuro si intersecano senza soluzione di continuità, in un attimo è possibile colmare uno scarto temporale di secoli se non di millenni, per cui gli scenari percettivi cambiano in continuazione, ma che comunque è sempre il soggetto a gestirli . Ora, non sembri azzardato questo assunto: l’ uomo, secondo la formula nietzeschiana rotolava dal centro verso l’ incognita, avendo la realtà perduto la sua centralità. Oggi, mutato il modo di percepire le cose, quello stesso uomo si ritrova, invece, al “centro” di una realtà che, è vero, non è più colta in presa diretta, ma è smaterializzata, teletopica di cui lui, però, è signore e dominatore.Da quanto premesso risulta che lo spazio del privato si allarghi a dismisura attraverso le possibilità offerte da questo mondo interconnesso ove tutto è permesso, dove è possibile costruire e ricostruire tutto artificialmente, sensazioni ed emozioni comprese.L’uomo fino a qualche hanno fa aveva una dimensione fisica ed una spirituale, l’homo novus contemporaneo ha sì una dimensione fisica ma la spirituale slitta perpetuamente in un “altrove” precipuamente mentale che non fa altro che produrre immagini a cui non corrisponde, almeno fino ad ora, una vera e propria ricerca di metodo epistemologico, poiché ognuno metterà in campo il suo per allargare a dismisura il suo “Occhio Ciclopico” sulle cose la cui sostanza è in continua evoluzione e mobilità, proprio perché i nuovi modelli di pensiero non sono sorretti dal principio di causalità ma di interdipendenza e circolarità. A questo punto l’assunto di De Cherckove per cui al punto di vista della prospettiva rinascimentale si sostituisce il “punto di essere” trova la sua giustificazione. Da quanto sopra, stabiliti a grandi linee i caratteri più salienti che emergono chiaramente anche ad un occhio poco incline ad osservare i mutamenti vertiginosi che avvengono nella contemporaneità, è lecito chiedersi: che senso ha l’ A-Zero dell’opera d’arte di Gino B. Cilio?Essa a parer nostro chiude un’epoca, o meglio chiude l’epoca della “Civiltà delle Macchine”. Chiude l’epoca dell’atomo e del peso.Chiude l’epoca dell’estensione corporea limitata all’attorno.

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Chiude l’epoca in cui la sfera del privato e del pubblico erano rigidamente separati. Chiude l’epoca in cui la memoria non è più nella nostra mente, ma è condivisa con altri attraverso quel gigantesco disco solare CD rom che è la rete.Chiude l’epoca di Gutemberg che ha fatto di ogni uomo un lettore. Chiude l’epoca della prospettiva rinascimentale che bandiva il soggetto dall’oggetto della visione. Chiude l’epoca dello sguardo lineare e causale sul mondo delle cose. Chiude l’epoca della lotta tra le idee e le cose, queste ultime dall’inizio della civilizzazione dell’uomo hanno rappresentato la sua identità ma oggi sono il “grande sconfitto”. Chiude l’epoca della rappresentazione, del segno come rimando di senso, dell’equivalenza segno-reale.Apre l’epoca della “videocrazia”. Apre l’epoca dell’immateriale e dell’ “Occhio ciclopico”. Apre l’epoca del CD, dell’avveniristico computer quantistico. Apre l’epoca della realtà virtuale, del 3D, che, contrariamente alla prospettiva rinascimentale, ospita lo spettatore all’interno della scena. Apre l’epoca dell’uso di nuovi strumenti di lettura che riescano a cogliere ciò che sta accadendo attraverso uno sguardo che presta attenzione al multidirezionale, interdipendente e circolare su un mondo dematerializzato, virtualizzato che sposta lo sguardo del soggetto e il senso del reale in un “altrove” in continua dislocazione. Apre l’epoca della simulazione e del segno che non si scambia più col referente reale, ma vive e si riproduce da sé. Apre l’epoca del medium che trasforma dall’interno i sistemi simbolici poiché il reale è costituito da cellule miniaturizzate di matrici, da memorie che possono essere riprodotte all’infinito. Apre l’epoca in cui non è possibile essere razionali poiché ancora non si evidenzia una misura ideale collettiva.Quanto sopra e molto altro ancora spezzano la continuità storica per costruire un nuovo mondo, quello dell’immateriale/virtuale, iperreale, fatto di flussi di immateriale che è poi il prodotto delle tecnologie digitali, post-alfabetiche, autoreferenziali e policentriche. Di conseguenza la dimensione del vivere diviene assolutamente altra e in questa diversa dimensione del vivere non è possibile non essere “il punto di essere”, non essere “essere digitali”.

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UNA INTERPRETAZIONE: Il valore e/o l’insignificanza dello spazio nella parola poetica.

Il demone bianco di luce impregnato dona dominio su forme e colori.Ma basta una X nell’oceanico sogno perché l’orma si oscuri e il linguaggio sia “A-Zero”.

L’uomo si interroga e tace.

Tace……tace perché voce non suona e il pensiero abbandona la mano veloce.

Buio.Mancanza.Non forma. Solo un riquadro nell’abisso calato del nero assoluto_____________________________________________________________________________________________________

Il demone bianco di luce impregnatodona dominio su forme e colori.Ma basta una X nell’oceanico sogno Perché l’orma si oscuri e il linguaggiosia “A-Zero”. L’uomo si interroga e tace. Tace……tace perché voce non suona e il pensiero abbandona la mano veloce.Buio. Mancanza. Non forma. Solo un riquadro nell’abisso calato del nero assoluto. _____________________________________________________________________________________________________

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IldemonebiancodiluceimpregnatodonadominiosuformeecolorimabastaunaXnelloceanicosognoperchèlormasioscurieillinguaggiosiaAZeroluomosiinterrogaetacetacetaceperchévocenonsuonaeilpensieroabbandonalamanovelocebuiomancanzanonformasolounriquadronellabissocalatodelneroassoluto_________________________________________________________________________________

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A-Zero

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CURRICULUM 2005 Casa italiana Zerilli-Marimò – New York2005 Bazart - Milano2004 Palazzo del Senato di Siracusa Seminario: “Intorno al Nulla” Artista Gino Cilio, Prof. Sergio Givone e Dr. Ferdinando Schiavo 2004 Le Segrete di Bocca- Milano “Spazio Vitale in” - Catania Libro d’Artista alla Galleria “La Tana” - Roma Libro d’Artista – Collezione Archivio Gino Gini - Milano Formella – Libreria Bocca - Milano Mail Art – Sharja Art Museum – United Arab Emirates2003 “ L’altro” - Galleria Arte Contemporanea - Palermo Ciminiere - Catania Mostra-Progetto per scultura nella Basilica di San Francesco ad Assisi Protomoteca del Comune di Roma- Conferenza-dibattito sul Progetto “A-Zero” 2002 Progetto A-Zero – Galleria “Spazio Vitale”- Catania Progetto A-Zero – Galleria “Il Labirinto”-Roma2001 Progetto A-Zero: produzione di “non-cataloghi”. Overseas – Percezioni dinamiche – Miami- (USA) Roma-New York- “Galleria Monogramma” – Roma Installazione – Galleria “Il labirinto” Roma Performance Plaça de Catalunya – Barcellona (Spagna) Mostra-Performance-Installazione – Falerna (RC) Biennale d’Arte – Monterosso Calabro Galleria Qal’at - Caltanissetta2000 “Oro-Argento e…..” – Galleria “Monogramma”- Roma Galleria dell’Accademia” - Agrigento1999 Performance – “Piper” – Roma Mostra Galleria “Dei Serpenti” – Roma1998 Galleria d’arte contemporanea “Monogramma” – Roma1997 “Villaggio Globale” - Roma1996 Spazio Espositivo Comune di Acireale- Catania Museo Comunale di Anzio – Roma1995 Mostra itinerante Amsterdam-Parigi-Bruxelles1994 Spazio Espositivo “Notegen” – Roma1993 Spazio Espositivo “Picasso”- Roma1992 Art Mail – Museo Civico – Taverna (RC) Galleria “Cafè Bagarre” Lamazia Terme1991 Arte Contemporanea – “Galleria Ezio Pagano” – Bagheria (PA)1990 Performance – Palazzo Cenci – Roma1989 Galleria “Il quadrifoglio” – Siracusa1987 Biennale Nazionale d’arte Sacra – Siracusa

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1986 Expo Internazionale – Bari1985 Nuovi aspetti dell’Arte nel siracusano – Studio “Arti Visive” – Siracusa1983 Circolo di Cultura “Ras” – Milano1980 Galleria “Leonardo da Vinci”- Seraing (Belgio)1979 Galleria “Galileo Galilei” – Bruxelles (Belgio)1977 Galleria “Rey” – Biel-Bienne (Svizzera)1972 Accademia Internazionale di Salisburgo (Austria) Galleria “Horst Behrent” – Berlino – Germania1971 Galleria d’arte contemporanea – Brunssum – Olanda

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