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0 A cura di Gattai Alessandro, Phd A uso esclusivo degli studenti del corso di laurea in Psicologia del lavoro e delle organizzazioni INTRODUZIONE AL CONCETTO DI CLIMA <<Le atmosfere psicologiche sono realtà empiriche, fatti scientificamente descrivibili>> (Lewin, 1946) L‟organizzazione è un sistema socio-tecnico dove convivono aspetti soft e aspetti hard, lavoro e tecnologia, persone e know how, sistemi e mondi vitali. Accanto all‟organizzazione definita dall‟autorità o dalle tecnologie operanti, che stabiliscono strutture, procedure, sistemi di coordinamento/controllo e dividono il lavoro individuando ruoli e mansioni, si muove tutto un contesto latente costituito da comportamenti, usi, attese, motivazioni delle persone. Esiste insomma, accanto all‟organizzazione tecnico/formale, un‟organizzazione delle persone che nasce da fenomeni come le attese, le percezioni, le relazioni e la quotidianità (La Rosa, 1993). Studiare un‟organizzazione non significa solo privilegiare una realtà obiettiva, strutturale, ma anche sottolineare una realtà soggettiva di „‟clima‟‟ che non viene quasi mai presa ufficialmente in considerazione. Il concetto di clima ha una chiara derivazione geografico-metereologica che può risultare utile per una sua comprensione intuitiva. Così come il clima metereologico è dato da un‟insieme complesso di fenomeni (piovosità, umidità, temperatura, altitudine, ecc.) che nel loro insieme rendono una regione più o meno adatta ad un particolare tipo di coltura e sensibile a particolari eventi atmosferici (pioggia, neve, nebbia, siccità, ecc.) così il clima organizzativo possiamo immaginarlo come un insieme dato da una serie di fattori la cui conoscenza dello stato medio permette di prevedere, ad esempio, la maggiore incidenza di conflitti e litigi tra le persone, così come la presenza di collaborazione e di rapporti di reciproca fiducia. Incide sui risultati che quel gruppo/territorio può conseguire. Il concetto di clima organizzativo, entrato nella letteratura psicologica negli anni ‟60, ha visto nel decennio successivo un progressivo espandersi delle sue applicazioni ai più diversi tipi di organizzazione. A tale ampiezza di applicazioni, tuttavia, non corrisponde un‟adeguata chiarezza né una definizione univoca delle sue componenti concettuali ed operative (De Vito Piscicelli, 1984). Il primo a parlare di atmosfera psicologica fu Kurt Lewin che inserì tale concetto nella sua teoria del campo con cui intendeva dare basi scientifico/statistiche alla psicologia sociale, spiegando il comportamento umano come derivante dall‟interazione tra fattori interni (persona) e fattori esterni (ambiente). <<[…] Queste caratteristiche (persona e ambiente) del campo inteso come una totalità hanno in psicologia un’importanza pari a quella che può avere, ad esempio, il campo di gravità nella spiegazione dei fenomeni nella fisica classica […] >> (Lewin, 1946) . Negli approcci ai climi organizzativi troviamo, innanzi tutto, teorie definite strutturali in cui prevale, nella determinazione del comportamento umano, il peso dei fattori esterni (ambiente,

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A cura di Gattai Alessandro, Phd

A uso esclusivo degli studenti del corso di laurea in Psicologia del lavoro e delle

organizzazioni

INTRODUZIONE AL CONCETTO DI CLIMA

<<Le atmosfere psicologiche sono realtà empiriche,

fatti scientificamente descrivibili>>

(Lewin, 1946)

L‟organizzazione è un sistema socio-tecnico dove convivono aspetti soft e aspetti hard, lavoro

e tecnologia, persone e know how, sistemi e mondi vitali. Accanto all‟organizzazione definita

dall‟autorità o dalle tecnologie operanti, che stabiliscono strutture, procedure, sistemi di

coordinamento/controllo e dividono il lavoro individuando ruoli e mansioni, si muove tutto un

contesto latente costituito da comportamenti, usi, attese, motivazioni delle persone. Esiste

insomma, accanto all‟organizzazione tecnico/formale, un‟organizzazione delle persone che

nasce da fenomeni come le attese, le percezioni, le relazioni e la quotidianità (La Rosa, 1993).

Studiare un‟organizzazione non significa solo privilegiare una realtà obiettiva, strutturale, ma

anche sottolineare una realtà soggettiva di „‟clima‟‟ che non viene quasi mai presa

ufficialmente in considerazione.

Il concetto di clima ha una chiara derivazione geografico-metereologica che può risultare utile

per una sua comprensione intuitiva. Così come il clima metereologico è dato da un‟insieme

complesso di fenomeni (piovosità, umidità, temperatura, altitudine, ecc.) che nel loro insieme

rendono una regione più o meno adatta ad un particolare tipo di coltura e sensibile a particolari

eventi atmosferici (pioggia, neve, nebbia, siccità, ecc.) così il clima organizzativo possiamo

immaginarlo come un insieme dato da una serie di fattori la cui conoscenza dello stato medio

permette di prevedere, ad esempio, la maggiore incidenza di conflitti e litigi tra le persone, così

come la presenza di collaborazione e di rapporti di reciproca fiducia. Incide sui risultati che

quel gruppo/territorio può conseguire.

Il concetto di clima organizzativo, entrato nella letteratura psicologica negli anni ‟60, ha visto

nel decennio successivo un progressivo espandersi delle sue applicazioni ai più diversi tipi di

organizzazione. A tale ampiezza di applicazioni, tuttavia, non corrisponde un‟adeguata

chiarezza né una definizione univoca delle sue componenti concettuali ed operative (De Vito

Piscicelli, 1984).

Il primo a parlare di atmosfera psicologica fu Kurt Lewin che inserì tale concetto nella sua

teoria del campo con cui intendeva dare basi scientifico/statistiche alla psicologia sociale,

spiegando il comportamento umano come derivante dall‟interazione tra fattori interni (persona)

e fattori esterni (ambiente).

<<[…] Queste caratteristiche (persona e ambiente) del campo inteso come una totalità hanno

in psicologia un’importanza pari a quella che può avere, ad esempio, il campo di gravità nella

spiegazione dei fenomeni nella fisica classica […] >> (Lewin, 1946) .

Negli approcci ai climi organizzativi troviamo, innanzi tutto, teorie definite strutturali in cui

prevale, nella determinazione del comportamento umano, il peso dei fattori esterni (ambiente,

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struttura, sistemi premianti, organigramma) su quelli interni. In altre teorie, invece, il rapporto

si inverte ed i fattori legati alla persona sono visti come più incisivi di quelli legati all‟ambiente

(teorie percettive).

Facendo poi riferimento al soggetto collettivo come „‟culla del clima‟‟ nei vari approcci

possono prevalere o la componente interattiva o l‟importanza dello sfondo. Nel primo caso

viene sottolineata l‟importanza della relazione e dell‟interazione fra i vari soggetti; nel

secondo, viene enfatizzato il ruolo giocato dalla cultura tipica di quello stesso gruppo.

Ciò che può produrre un ambiente di lavoro molto soddisfacente non coincide con ciò che può

produrre un ambiente fortemente centrato sulla prestazione. Un‟organizzazione percepita come

in attesa di elevati livelli di prestazione è associata soprattutto a un chiaro senso di direzione

(chiarezza dei fini aziendali valutati come stimolanti) e ad una chiara definizione dell‟autorità

in relazione alle diverse responsabilità. Viceversa, un ambiente di lavoro soddisfacente, darà

particolare importanza allo sviluppo della risorsa umana, a rendere le persone consapevoli delle

mete aziendali e a processi gestionali fluidi, dove le decisioni vengono prese velocemente e

realizzate senza che vi siano problemi relazionali.

IL CONCETTO DI BENESSERE

La psicologia dominante, sino ad oggi, è stata quella del malessere, una psicologia che parte

dall'assunto che questo esiste e che il suo compito è quello di scoprirlo e di ridurlo. Un

intervento quindi teso allo “stare meglio”, alla conquista di un qualcosa che possa migliorare il

contesto sociale, affettivo, organizzativo.

Un dispositivo mentale che, nel corso dei secoli, è stato usato da politici, governanti, dirigenti,

insegnanti e genitori di quasi tutte le culture del mondo: si minaccia il malessere e si indica

come evitarlo. Il mondo del lavoro, con le sue lotte, ne è indicativo.

Gli uomini hanno lottato per una paga più alta, per un ambiente di lavoro più vivibile, per la

sicurezza. Battaglie dure e lunghe che hanno portato a “stare meglio”. Ma lo stare meglio non

vuol dire certo conquista del benessere.

Spaltro in un suo intervento del 1997 dice che il benessere è qualcosa di soggettivo che ha la

persona singola come protagonista.

Un ribaltamento dei concetti che sino ad oggi hanno costruito il nostro habitat ambientale e

psichico. L‟autore avverte che la psicologia del benessere è oggi praticamente inesistente ed è

quindi prevalentemente teorica: <<[…] Essa, per realizzarsi, deve partire da una definizione di

benessere e dalla presa di coscienza della natura progettuale di ogni soggettività. In definitiva

la psicologia deve diventare più attenta alle soggettività benestanti abbandonando il modello

obiettivista malestante di derivazione medico-sanitaria […]>> (Spaltro, 1997).

E ancora: << […] Da qualche anno si è posta attenzione all'idea di benessere, come modalità

di vita, come sinonimo di qualità di vita, come opposto e contrario del malessere. Ciò ha

provocato un cambiamento radicale dell'idea di benessere non più considerato sinonimo di

ricchezza o salute (benessere obiettivo) ma sinonimo di qualità della vita e di felicità

(benessere soggettivo) […] >> (Spaltro, 1997).

Proprio analizzando il termine benessere, la sua derivazione etimologica, il variare dei

significati, l'intendersi del termine anche in funzione teologica, Spaltro getta le basi della nuova

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psicologia: una psicologia dedicata allo studio degli aspetti piacevoli e non a quelli dolorosi

della vita psichica.

Se sino ad oggi il soggetto è stato sempre concepito come un “soggetto doloroso” (lotta per lo

stare un po' meglio), oggi i tempi sono cambiati e gli interessi stanno virando, anche se

lentamente, verso il benessere, il piacere e la soddisfazione dei desideri.

Chiarisce Spaltro : << […] Già la trasformazione del mondo costituito essenzialmente da

bisogni (dipendenza, frustrazione, paura, libertà) nel mondo prevalentemente costituito da

desideri (relazione, soddisfazione, speranza, comunicazione, negoziazione) ha rappresentato

un passo avanti per la costruzione della psicologia del benessere […]>> (Spaltro, 1997).

Ma c'è ancora uno scoglio da superare, quello di “liberare” il benessere dal suo significato

negativo, dai sensi di colpa che si porta dietro.

Ora, se è vero che le funzioni psichiche che determinano il benessere sono principalmente

l'invidia e la gelosia, l‟autore (1997) rileva anche come la “cultura giuridica” (quella per cui,

dato che tutti gli uomini tendono al benessere, e non essendocene per tutti, occorre che vi siano

delle norme che regolino la distribuzione del benessere - inteso così solo come quantità - e

quindi occorre una giustizia distributiva che ne regoli la diffusione obiettiva) abbia di fatto

bloccato il benessere.

Lo scopo di questo blocco, spiega Spaltro (1997), è appunto l'invidia, che in chi ha il potere, si

esprime come paura del benessere degli altri, che diventa minacciante e che lascia pensare ad

una maggiore autonomia dei nuovi benestanti rispetto ai vecchi. I vecchi benestanti fanno,

infatti, di tutto per evitare ai nuovi di realizzare benessere. Essi sono disposti anche a ridurre il

proprio benessere purchè non aumenti quello dei nuovi benestanti.

Indicato quindi che la psicologia del benessere è una psicologia soggettiva, indicato anche che

alla resa dei conti si tratta di avere un costrutto mentale diverso, Spaltro focalizza l'obiettivo

sulla relazione tra benessere e lavoro.

Con una premessa : << […] E' molto facile dire che il benessere sta nella soggettività, cioè è

soggettivo, e che è proprio il sentimento di essere soggetto, di essere titolare di una propria

ipotesi di benessere che consente di uscire dal benessere di stato, dalla verità di stato,

dall'organizzazione di stato, cioè unica, sacra, involabile, ma non mia […]>> (Spaltro, 1997).

Il lavoro gradevole è stato il sogno di molte generazioni: oggi può essere il progetto della

generazione che sta cominciando a lavorare. I giovani possono passare dall'utopia alla realtà.

Nel mondo del lavoro il conflitto tra benessere e malessere è giunto ad un momento di svolta:

la soggettività combatte la sua lotta per il benessere e non quella contro il malessere.

Ma che tipo di lavoro avremo in futuro? Qualcuno sostiene che il lavoro scomparirà, qualcun

altro parla del lavoro post-industriale, cioè teleorganizzato o meglio soggettivizzato al

massimo.

Il futuro lavoro, ipotizza Spaltro (1997), sarà essenzialmente sentimento ed esercizio di

cittadinanza e delle sue possibili declinazioni benestanti. Il conflitto di base non sta più tra

capitale e lavoro, ma tra cittadino e stato dove la resistenza al benessere si pratica più forte.

La cultura del benessere che avanza è anche la cultura del pluralismo e della diffusione a tutti

del benessere. la cultura del malessere è basata sull'idea che, essendo le risorse scarse, solo

pochi possono disporne e la maggioranza deve invece restare nel malessere. Il malessere dei

più è così funzionale al benessere di pochi.

Ciò nonostante si sta realizzando una società negoziale e la negoziazione non è più sulla

ripartizione “giusta” della ricchezza tra capitale e lavoro, ma su quella della sovranità tra i

gruppi della maggioranza dei cittadini (dimensione privata) e i gruppi della minoranza dello

stato (dimensione pubblica).

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Tutto questo porta alla formulazione di nuovi principi della formazione e quello che oggi si

chiama benchmarking (lavoro cooperativo di scambio delle tecnologie e della capacità) può

agevolare molto questo processo di costruzione e diffusione di una pedagogia del benessere.

Il pericolo sta nella possibilità che la formazione diventi un sistema chiuso, difensivo degli

alibi che sinora hanno bloccato la realizzazione di un nuovo modello di formazione (contrasto

tra finalità del lavoratore e dell'impresa, necessità di soffrire per imparare, apprendimento

come indottrinamento, paura che lo sviluppo dei singoli possa intralciare le finalità

dell'impresa).

Così una psicologia del benessere sta sviluppando alcuni nuovi principi della formazione che

rappresentano la chiave di volta per lo sviluppo e l'apprendimento di una psicologia del

benessere.

Il lavoro sta cambiando ma noi continuiamo a far finta di niente e a lavorare come se tutto

fosse sempre lo stesso, ma poi ci troviamo di fronte al problema della disoccupazione che è

allarme in tutta Europa, ci troviamo di fronte alla tecnologia spesso irraggiungibile per i più e

con i vecchi modelli non riusciamo a spiegarci i fatti in cui viviamo.

Ciò determina il bisogno di rivedere la formazione lavorativa secondo nuovi principi così

riassumibili:

Ogni formazione è in fondo una formazione al benessere;

La formazione serve al soggetto ed è finalizzata allo sviluppo del soggetto;

Esiste una soggettività collettiva e non c'è contrasto tra individuo e società;

Il valore base della società del benessere è la sua soggettività;

Un soggetto è il titolare di un progetto di benessere;

La soggettività è permessa ai forti e vietata ai deboli: è un'aspirazione dei deboli;

Il lavoro futuro sarà soggettivo e connesso col sentimento di appartenenza e cittadinanza.

Ciò vuol dire che ogni formazione deve essere finalizzata al lavoro di domani e non al lavoro

di ieri.

Come conseguenza di questo scenario in movimento, cambiamo anche le relazioni industriali.

Lo scopo di ogni relazione industriale futura sarà la formazione dell'avversario, la

considerazione per l'avversario, per la controparte, per ciò che per secoli è stato considerato il

nemico da battere.

Poichè nessuno nasce benestante, perchè solo dopo lo diventa, poichè quindi è possibile, utile e

necessario imparare a vivere bene, le relazioni industriali rappresentano oggi il territorio ideale

per raggiungere quelle piattaforme di benessere che gli uomini non sarebbero in grado di

raggiungere, nè da soli, nè in piccoli gruppi isolari o in conflitto distruttivo e bellico tra loro.

Fare del conflitto una forza produttiva era lo slogan delle relazioni industriali classiche. Fare

del negoziato una costruzione di benessere rappresenta lo slogan della nuove relazioni

industriali.

Il futuro del benessere sta nel fatto che non esiste e che quindi va quotidianamente inventato. E

siccome sono i soggetti che lo inventano il futuro benessere non potrà che essere soggettivo. Il

benessere quindi si ottiene sempre di più non solo aiutando i poveri e le fasce più deboli, ma

aiutando tutti a raggiungere un maggior benessere.

Il negoziatore è quindi il professionista ideale della società del benessere e del futuro lavoro ad

alta qualità di vita.

Spaltro, schematizza questa ipotesi (figura 7), sottolineando la relativa incidenza delle parti

consapevoli e di quelle inconsapevoli nei tre livelli di funzionamento sociale da lui individuati

(coppia, gruppo e collettivo). Afferma, infatti, l‟esistenza di almeno quattro livelli di

interazione-scontro tra individuo ed altro individuo e tra individuo e mondo esterno in genere.

Questi livelli sono:

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individuo-individuo (cultura di coppia e relazioni interpersonali);

individuo-piccolo gruppo (cultura micro e relazioni sociali);

individuo-grande gruppo o sistema sociale definito e limitato (cultura macro e relazioni

collettive);

individuo-sistema sociale indefinito (non ancora studiato sperimentalmente e riferito alle

relazioni indefinite).

La figura 7 mette in evidenza che il clima è sviluppato dal gruppo, mentre la cultura riguarda la

dimensione collettiva. In alto sono rappresentati gli elementi oggettivi presenti a livello di

consapevolezza, mentre in basso viene raffigurata la presenza della dimensione soggettiva più

inconsapevole (e forse inconscia) dell'organizzazione.

Fig. 7: Rappresentazione delle tre dimensioni relazionali (coppia/gruppo/collettivo) presenti

all'interno di qualsiasi organizzazione.

Alla luce di quanto detto, quindi, possiamo concludere che il clima è un costrutto psicologico

che si riferisce a percezioni sviluppate dalle persone nei riguardi del proprio ambiente di

lavoro. Il gruppo è la sede privilegiata del clima.

Il gruppo diventa la sede privilegiata di ogni intervento in azienda , essendo la struttura stessa

delle organizzazioni composta in piccoli gruppi

3.1 Il gruppo

I gruppi e le relazioni fra persone occupano un posto centrale nell'approccio psicologico e

soggettivo allo studio delle organizzazioni. Prima di alcune ricerche svolte negli anni 30-40

esisteva un luogo comune piuttosto diffuso in base al quale quanto più logici e razionali sono i

rapporti gerarchici tanto più facilmente l'attività dei singoli membri risulterà coordinata e

diretta al raggiungimento degli obiettivi che l'azienda si prefigge. L'ideale sotteso da questa

concezione è che le relazioni fra persone possano essere determinate semplicemente da una

certa forma data e i rapporti facilmente subordinabili alle necessità produttive dell'azienda.

Lo psicologo Elton Mayo definì questo presupposto una “rabble hypotesis” (un'ipotesi folle!)

della società. Come lo stesso Mayo specificò “in qualunque fabbrica che goda di continuo

successo” la direzione non è in rapporto con i singoli lavoratori ma sempre con gruppi di

lavoratori. In ogni reparto che opera continuativamente gli operai hanno formato - se ne

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rendano conto o no - dei gruppi che hanno consuetudini, doveri, routine ed anche riti

appropriati; la direzione riesce o fallisce nella misura in cui è accettata senza riserve dal

gruppo”.

3.2 Il concetto di gruppo

Le lingue antiche non disponevano di alcun termine per designare un numero ristretto di

persone impegnate in una qualche forma di attività comune. II concetto e il termine di gruppo è

relativamente recente: compare solo nel XVIII secolo nell'accezione con la quale noi lo

utilizziamo oggi. Il termine gruppo etimologicamente nasce dall'italiano groppo. Groppo ha

come significato primario quello di “nodo”, ma ha anche delle connessioni con il germanico

“truppa” = massa arrotondata, quindi tondo. Da nodo e da tondo forse provengono il senso di

“riunione”, “assemblaggio”, “circolo”, “coesione” che il termine progressivamente assumerà

dopo il XVIII secolo anche in francese (groupe), in tedesco (gruppe) e in inglese (group).

Il termine "gruppo" è successivamente stato usato con un'accezione sempre più ampia sino a

comprendere insiemi sociali di dimensioni e strutture molto diverse che vanno, ad esempio, da

un concetto di collettività nazionale, alle classi sociali, fino alle realtà più limitate dei nuclei

familiari. II solo carattere comune a questi insiemi è determinato dalla pluralità dei soggetti e

dalla loro più o meno forte ed implicita solidarietà. E‟ preferibile riservare l'uso scientifico del

termine gruppo a un insieme (ristretto) di persone che devono e/o possono e/o vogliono

riunirsi.

Il termine di “membri”, con il quale di solito si denotano le persone che compongono un

gruppo, richiama alla mente l'immagine di un corpo le cui diverse parti sono allo stesso tempo

dipendenti e mobili; ricorda quindi un insieme di elementi fra loro distinti ma che conservano

qualcosa in comune e che quindi possono, proprio per questo, “fare” qualcosa insieme. Il

gruppo è “fare”, il gruppo è “azione”.

Al gruppo è generalmente associata l'idea di forza: valga a titolo esemplificativo l'espressione

“raggrupparsi” che esprime, in modo evidente, il fatto che gli individui singolarmente si

sentono più deboli e ritrovano in questa realtà un mutuo rinforzo.

“Il gruppo è qualcosa di più e di diverso della somma dei suoi singoli elementi”.

Quest'affermazione che Kurt Lewin uno dei primi ricercatori che gettò le basi scientifiche allo

studio psicologico dei gruppi, sviluppò a partire dalla psicologia della Gestalt (l'insieme è

diverso dalla somma dei suoi elementi) suggerisce di pensare al gruppo come a un qualcosa di

ordine diverso, con qualità e con risorse nuove rispetto ai singoli elementi che lo compongono.

Alcune considerazioni di carattere quantitativo aiutano a comprendere meglio come il

funzionamento dei rapporti interumani possa assumere diverse modalità. Il gruppo comincia

con la presenza di un terzo in una coppia e con i conseguenti e inevitabili fenomeni di

coalizione, accettazione, rifiuto, maggioranza, minoranza e le relative speranze e paure che li

accompagnano.

I “fenomeni di gruppo” si manifestano pienamente solo a partire da quattro o più componenti,

ovvero nel momento in cui il numero dei possibili rapporti due a due supera il numero dei

membri. Infatti fra tre persone A, B, C esistono solo tre possibili rapporti AB, AC e BC (ma sei

relazioni perché alle prime tre bisogna aggiungerne altre tre: BA, CA, CB). Ulteriormente fra

quattro persone A, B, C, D esistono sei possibili rapporti: AB, AC, AD, BC, BD e CD (e dodici

relazioni). Il numero delle relazioni possibili cresce con il numero dei membri in ragione della

formula n(n-1), mentre il numero dei rapporti cresce in ragione della formula: n(n-1)/2.

Superato il numero di 15 (o al massimo 20) persone il numero dei rapporti (e delle relazioni)

diventa talmente alto che la loro qualità cambia nuovamente e profondamente assumendo

caratteristiche diverse.

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Proseguendo, in termini ancora per il momento solo quantitativi, si possono distinguere quattro

macro tipologie di rapporto:

DI COPPIA (A DUE)

DI GRUPPO (O DI PICCOLO GRUPPO, DA 3 A 15 PERSONE)

DI COLLETTIVO (O ORGANIZZATIVE, DA 20 A 500 PERSONE)

DI COMUNITÀ (DA 500 A MIGLIAIA)

Dal punto di vista qualitativo per ognuno di questi livelli di funzionamento sociale esiste una

cultura particolare, un insieme di elementi diversi che caratterizzano la relazione

indipendentemente dai soggetti interessati. La prima dimensione che, in termini anche

numerici, denota il rapporto sociale nella vita di ogni individuo è rappresentata dalla coppia. La

cultura che caratterizza questa realtà costituisce il primo gradino di una scala numericamente

sempre più complessa che trova la sua soluzione nella dimensione organizzativa e nella relativa

cultura che questa sottende.

Questo passaggio da una cultura ad un‟altra può anche essere definito mediante due parole

ricorrenti:

a) socializzazione (o passaggio dalla cultura di coppia alla cultura di gruppo)

b) collettivizzazione (o passaggio dalla cultura di gruppo alla cultura di collettivo).

La socializzazione e la collettivizzazione sono momenti particolarmente critici nella vita di

ogni insieme sociale ed entrambi trovano nel piccolo gruppo una dimensione sociale e

operativa centrale, perché è in grado di condizionare in modo determinante gli sviluppi (o i

blocchi) del rapporto sociale. Il piccolo gruppo, sia nella dimensione privata che in quella

lavorativa, può essere considerato come una sorta di “cinghia di trasmissione” che agisce in

due possibili direzioni: dall‟organizzazione all‟individuo e viceversa dall'individuo all‟

organizzazione.

Dall‟organizzazione all‟individuo il gruppo adempie a una funzione adattiva (con le sue spinte

al conformismo e all‟uniformazione) divenendo il primo e il più forte trasmettitore delle regole

(esplicite e implicite), delle norme e dei valori del sistema di cui esso fa parte (Sherif M., 1931;

Asch S.E., 1961). Viceversa, dall‟individuo all‟organizzazione, il gruppo svolge una funzione

innovativa attraverso cui si possono modificare regole (soprattutto implicite) e valori del

collettivo e la cui importanza si rivela particolarmente nei momenti di cambiamento operativo

ed organizzativo (K. Lewin, 1947; S. Moscovici, 1983).

3.3 I ruoli nel gruppo

Un modo ulteriore per osservare quanto accade in un gruppo è di considerarlo a partire dalle

sue componenti strutturali: come un insieme di ruoli in costante interazione fra di loro in

funzione del conseguimento di un obiettivo.

Osservando un gruppo al lavoro si nota come ogni partecipante svolga una certa funzione e dia

un proprio contributo (positivo o negativo che sia). II gruppo stesso esige che alcuni membri,

differentemente da altri, si comportino in un determinato modo. Ci si trova di fronte a ruoli

particolari riferibili da un lato ad aspetti individuali, le motivazioni e la particolare personalità

dei soggetti, dall'altro ad un aspetto funzionale, cioè legato ad una serie di aspettative che il

gruppo ha nei confronti dei suoi singoli membri.

Una definizione semplice e chiara di ruolo afferma che il “ruolo” è: “l’insieme delle norme e

delle aspettative che convergono su un individuo in quanto occupa una determinata posizione

in una rete di relazioni sociali”(Gallino L.,1983). Già da questa definizione appare che padre,

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madre, figlio/a, amico/a, ma anche capo o collega sono tutti differenti ruoli ai quali ciascuno di

noi “dà vita” all'interno di differenti relazioni o, a volte, nell'ambito della stessa relazione.

Il concetto di ruolo è centrale nel modello sociologico perché consente una chiave di lettura di

tutte le relazioni sociali. Il ruolo conferisce una certa “prevedibilità” ai comportamenti messi in

atto dal soggetto o da una determinata categoria di soggetti; da cui la dizione sociologica di

individuo come “attore sociale” come di qualcuno che interpreta una certa parte in larga misura

prestabilita. In questo contesto interessa evidenziare alcune conseguenze di questo modello in

ambito organizzativo, in particolare per quel che riguarda la miscela di norme e aspettative in

cui si coagula e attraverso cui si esprime qualsiasi ruolo, professionale e non.

Rispetto a ciascun ruolo sia l'organizzazione, sia il gruppo di lavoro sia la persona stessa sono

origine di aspettative precise e determinate. L'organizzazione fa riferimento a un mansionario

attraverso cui definisce le proprie aspettative in termini prevalentemente normativi. A loro

volta gli altri nel gruppo di lavoro, ovvero i colleghi, i superiori, i clienti, hanno specifiche

attese nei confronti di chi svolge una specifica mansione; queste attese hanno anche una certa

valenza normativa. Infine ultimo, ma non ultimo, chi si trova a svolgere un certo ruolo si

attende in prima persona da quel ruolo, e conseguentemente dagli altri, determinate cose. Le

aspettative personali non hanno valenze normative perché sono strettamente connesse alle

motivazioni che la persona ha nello svolgimento del ruolo.

Nella descrizione proposta il ruolo è qualcosa di intermedio fra noi e gli altri, una sorta di

“maschera” attraverso la quale entriamo in relazione gli uni con gli altri: dalla parte esterna è

definita dagli altri (dall‟organizzazione, dal cliente, dai colleghi ecc.) mentre internamente è

definita da noi stessi (dalle nostre motivazioni, dalla nostra esperienza, dal nostro carattere,

dalle nostre aspettative, ecc.). Nel modello sotteso dal concetto di ruolo troviamo ai due

estremi: da una parte, le attese formali e oggettive preordinate dall‟organizzazione,

all'estremo opposto le aspettative/motivazioni del soggetto. In altri termini l'insieme formale di

ruoli previsto dall‟organizzazione non risolve i comportamenti di ruolo attuati concretamente

dai soggetti perché questi ultimi sono definiti maggiormente dalla rete di aspettative che si

vengono a configurare nel gruppo e nella dinamica esistente tra individuo e gruppo. Per

riflettere più concretamente basti pensare a quando qualcuno in un gruppo mette in atto

comportamenti nuovi o addirittura contrari a quelli abituali, scattano immediatamente

meccanismi di critica, di disapprovazione o di condanna poiché la persona è venuta meno ad

aspettative di tipo sociale. Per verificarlo provate anche solo a vestirvi in modo diverso dal

vostro modo abituale, l'effetto è assicurato!

In ogni gruppo esistono una serie di ruoli che sono solo parzialmente legati alla persona, perché

sono in gran parte funzionali alla situazione che il gruppo attraversa, ovvero sono attese

sviluppate dagli altri che convergono su una persona in base a caratteristiche strutturali del

gruppo. Avviene così che una stessa persona può assumere ruoli diversi in gruppi diversi, ma

anche ruoli diversi nello stesso gruppo in fasi diverse. Il “bastian contrario”, l‟ “entusiasta”, l‟

“eterno scontento” sono presenze note in ogni gruppo, qui aggiungiamo che sono ruoli esistenti

in funzione del gruppo, la cui rappresentazione è momentaneamente, o permanentemente,

affidata ad alcuni componenti del gruppo.

Alcuni autori (K. Benne e P. Sheais, 1948), partendo dalla constatazione che il gruppo si

organizza differenziando delle funzioni al proprio interno e affidandone la rappresentazione ad

alcuni propri membri, hanno verificato che in ogni gruppo i vari possibili ruoli sono

sintetizzabili in base ai tre tipi di funzione da questi svolta, ovvero:

FUNZIONI DI BLOCCO

FUNZIONI DI MANTENIMENTO, O DI “CLIMA”

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FUNZIONI DI PRODUZIONE O DI PROGRESSO VERSO L'OBIETTIVO.

Qui di seguito verranno illustrati questi ruoli. Vale la pena ricordare sin d‟ora che sono

osservabili sia nei gruppi di lavoro, in particolare in quelli con espliciti compiti decisionali, che

nei gruppi di vacanzieri, con obiettivi di divertimento e/o di organizzazione del divertimento.

Funzioni blocco

Le funzioni di blocco sono quelle più legate alla particolare struttura dei soggetti ed esprimono

bisogni individuali.

Questi ruoli risultano negativi ai fini della progressione del gruppo di lavoro e sono legati al

bisogno di servirsi in qualche modo, del gruppo. Si manifestano più spesso all‟inizio quando il

gruppo è ancora allo stato latente, è improduttivo e non si è sviluppato un certo clima fra i

membri. Infatti è prevalentemente all‟inizio che il gruppo suscita il più forte senso di

insicurezza e trovano più facilmente spazio questi ruoli.

Funzioni di mantenimento

Vi sono in ogni gruppo alcuni ruoli che svolgono la funzione di facilitazione allo stabilirsi delle

norme del gruppo e alla circolazione della comunicazione. In altre parole si tratta di ruoli che

contribuiscono a un clima “positivo” in cui i membri si sentono a proprio agio e possono

procedere meglio all‟esame e alla soluzione del compito. Sono i ruoli che maggiormente

aiutano il gruppo a costituirsi come unità che supera la semplice somma degli individui.

Funzioni di produzione

I ruoli che svolgono funzioni di produzione, ovvero di progressione verso l'obiettivo,

favoriscono direttamente l'attività del gruppo in rapporto agli scopi e risultano particolarmente

utili quando il gruppo tende ad evadere, quando il gruppo sì “perde” deviando su obiettivi che

non erano nelle premesse.

L‟APPROCCIO INTERATTIVO

Questo approccio è una sintesi dei precedenti, ma si distingue da entrambi. Il concetto di base è

che gli individui, rispondendo alla specifica situazione, interagiscono gli uni con gli altri e

questi scambi conducono ad un accordo condiviso che diviene l'origine del clima. In questa

prospettiva il clima organizzativo diventa una rappresentazione astratta creata dagli scambi

comunicativi fra i membri del gruppo ed i processi di interazione assumono il ruolo centrale fra

le condizioni organizzative e la percezione individuale (fig. 3).

Percezione

Individuale

Interazione

tra le persone

Condizioni

Organizzative

Clima

Organizzativo

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Fig. 3: Relazioni tra condizioni organizzative, percezione individuale e interazioni fra le

persone del gruppo nel produrre il clima organizzativo secondo l‟approccio interattivo.

Per capire le importanti novità presenti nell'approccio interazionista è utile notare come la

proposta di suddividere gli approcci al clima in strutturali e percettivi sia riconducibile ad un

dibattito più ampio che attraversa la filosofia occidentale: la separazione tra aspetti oggettivi e

aspetti soggettivi della realtà e della conoscenza.

L'approccio strutturale si colloca nella prospettiva secondo cui la realtà è oggettiva, mentre

quello percettivo si rifà all'idea che la realtà sia soggettiva, in quanto esiste nella mente degli

individui. L'approccio interattivo offre un nesso tra questi due punti di vista, sostenendo che

per l'uomo la realtà e la conoscenza non sono né oggettivi né soggettivi, ma sono eventi che

acquistano significato nell‟intersoggettività. L'approccio interattivo da una parte rimanda

all'interazione tra gli individui impegnati nel processo d'interpretazione della realtà; dall'altra

riconosce che il processo intersoggettivo di costruzione del significato necessita

dell'interazione tra le condizioni oggettive e la consapevolezza soggettiva. Ed è proprio

quest‟ultimo elemento che rappresenta la maggior differenza rispetto ai due approcci

precedenti. La consapevolezza è sempre "consapevolezza di qualcosa" che l'individuo vive e

sperimenta come "fatto significativo" (Mumby, 1988). All'interno di ogni organizzazione le

persone sono continuamente impegnate nel processo di costruzione di senso organizzativo

tramite l'esplorazione condivisa di "fatti significativi" osservati in base alle precedenti

esperienze.

La spiegazione del clima, nella prospettiva interattiva, si collega attraverso i concetti di

"intenzionalità", "consapevolezza", "intersoggettività" e "interazione" a due correnti

filosofiche: la fenomenologia e l'interazionismo simbolico.

Joyce e Slocum si ispirano nei loro studi al filosofo tedesco E. Husserl (1859-1938) e alla sua

fenomenologia. Il filosofo parla dell'intersoggettività come del processo fondamentale grazie a

cui si costituisce un collegamento sovraindividuale fra le prospettive, le interpretazioni, i valori

e le credenze. Alla base dell'intersoggettività c'è la consapevolezza che gli altri hanno

esperienze simili alle proprie e quindi si costruisce il proprio "self" usando gli altri come

modelli. <<Ogni soggetto implica l'altro ed è consapevole dell'esistenza degli altri, ciò

determina l'interiorizzazione degli altri nella propria percezione del self e, conseguentemente,

l'esperienza degli altri diventa parte della propria consapevolezza individuale>> (Husserl,

1912-1928).

La seconda componente filosofica all'approccio interattivo ha le sue radici nell'interazionismo

simbolico del filosofo americano G. H. Mead che studiò la relazione esistente tra il Sé e il

significato. Secondo Mead il Sé della persona si forma nel corso dell'interazione sociale sulla

base dei significati che si sente attribuire dagli altri. Il filosofo individua due interazioni

complementari, quali: l'interazione sociale e l'autointerazione (o dialogo interiore). L'agire

umano diventa così il frutto del complesso rapporto che l'uomo ha con sé stesso e con gli altri.

L'azione sociale è costruita nel corso del suo stesso svolgimento e non è né una risposta, né uno

stimolo e ancor meno una scelta fra alternative predeterminate. Gli uomini, secondo questa

filosofia, agiscono in base ai significati che attribuiscono alle cose e interpretano costantemente

i significati emersi nel processo interattivo e autointerattivo. Solo in seguito, mediante

quest'interpretazione, decidono quale debba essere il successivo corso dell'azione. Il gruppo e

le relazioni interpersonali assumono un valore centrale nella formazione del clima.

Schneider e Reichers (1983) traggono da Mead l'idea che l'individuo e l'ambiente si

determinino l'un l'altro, e trovano in Blumer (1969) la chiave di volta da applicare allo studio

del clima. Egli, infatti, sostiene che: <<[...] il significato (che include percezioni, descrizioni e

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valutazioni) non risiede in nessuna cosa particolare, e neppure nell'individuo percipiente.

Piuttosto il significato delle cose nasce dall'interazione tra le persone. Le azioni degli altri

servono per definire un evento, una pratica o una procedura per la persona in questione. Le

persone non applicano semplicemente il significato dato a loro dagli altri, ma controllano,

sospendono, raggruppano e trasformano le loro proprie percezioni degli eventi alla luce delle

interazioni che essi hanno con gli altri nell'ambiente […]>> (Blumer, 1969).

All‟interno dell'approccio interazionista, oltre agli autori già citati, si collocano anche Poole e

McPhee (1983) con quella che viene definita teoria strutturazionale. Questi sostengono che le

strutture sono transpersonali, nel senso che il clima non è più riscontrabile nelle percezioni

individuali ma nelle loro interazioni e lo definiscono come di: <<[...] un atteggiamento

collettivo, prodotto e riprodotto in continuazione attraverso l'interazione fra i membri>>

(Poole e McPhee, 1983).

In questa ottica il clima consente di interpretare e comprendere specifici eventi organizzativi

perché è un tramite e nello stesso tempo un risultato dell'interazione: è un tramite nel senso che

genera strutture specifiche dove queste non esistono ma, contemporaneamente, è anche un

risultato delle pratiche quotidiane presenti nelle organizzazioni strutturate (Quaglino e Mander,

1987).

Aspetti strutturali

Ognuno di noi svolge ogni giorno moltissime attività in quanto membro di un gruppo, con la

propria famiglia, gli amici, i compagni di lavoro ed altri.

Lo studio dei gruppi, pertanto, è importante, a livello psicologico e sociologico, sia perché essi

costituiscono un fenomeno diffuso, sia perché mediano molti dei contatti tra individuo e

società.

Che cos‟è un gruppo?

Una semplice estrapolazione dell‟interazione a due non è sufficiente a comprendere il

comportamento all‟interno dei gruppi, neppure di quelli “piccoli”, anche se è possibile,

naturalmente, riscontrarvi delle somiglianze.

“Due costituiscono una coppia, tre un piccolo gruppo”. Il più piccolo dei piccoli gruppi è

formato da tre persone.

Le dimensioni del più grande sono meno chiare; un‟indicazione utile viene dal sociologo R.F.

Bales: “Se ogni membro riceve da ognuno degli altri delle impressioni o percezioni, sufficien-

temente distinte per cui egli possa reagire ad ognuno degli altri membri preso singolarmente,

allora un insieme di persone può essere chiamato “piccolo gruppo”.

Gruppi che vanno da tre a circa trenta persone.

Quindi, prima caratteristica: ampiezza. Necessaria, ma non sufficiente.

Altra caratteristica fondamentale: l’interazione: i membri agiscono e reagiscono gli uni gli altri

ed in questo modo tra i loro comportamenti si instaura un rapporto di mutua influenza e di

interdipendenza.

Ancora un‟altra caratteristica ricorrente è che, un po‟ alla volta, i partecipanti cominceranno a

percepire il gruppo come un‟entità reale e sé stessi come dei membri: pertanto, la percezione

del gruppo come entità a sé stante da parte dei membri.

Il gruppo sviluppa, inoltre, degli obiettivi. Anche ove si costituisca per rispondere ad uno

scopo imposto dall‟esterno, è probabile che reinterpreti questo scopo secondo i propri punti di

vista ed è quasi certo che vi aggiungerà dei propri obiettivi.

Nel frattempo sorgeranno norme interne al gruppo; i membri agiranno secondo regole

prestabilite e si aspetteranno che così facciano anche gli altri: coloro che violano queste norme

si espongono alla disapprovazione ed a possibili sanzioni.

Dal momento in cui insiemi di norme giungono ad organizzarsi attorno a certe “posizioni”

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all‟interno del gruppo, questo inizia ad avere una serie di ruoli.

Un‟ultima caratteristica è data dalla certezza che nel gruppo si stabilisca un insieme particolare

di relazioni affettive; i membri di un gruppo non sono emotivamente neutrali od indifferenti

l‟uno all‟altro. E‟ anzi più che probabile che l‟affettività interna al gruppo rappresenti uno dei

collanti maggiori di esso.

Proprio perché per prevedere e spiegare l‟operato delle persone entro i gruppi siamo costretti a

ricorrere a concetti come numerosità, interazione, percezione del gruppo, obiettivi, norme, ruoli

e relazioni affettive, possiamo dire che i gruppi sono, di fatto, reali, come entità psicologiche e

sociologiche.

Il gruppo è pertanto qualcosa di diverso dalla somma dei suoi membri: ha struttura propria, fini

peculiari e relazioni particolari con gli altri gruppi.

Quel che ne costituisce l‟essenza non è la somiglianza o la diversità dei suoi membri, bensì la

loro interdipendenza.

Il grado di interdipendenza dipende, tra gli altri fattori, dall‟ampiezza, dalla coesione e

dall‟organizzazione del gruppo.

Esso in tal senso può definirsi come una totalità dinamica.

Un cambiamento di stato in una sua parte o frazione, interessa lo stato di tutte le altre.

Processi di gruppo

I processi, le dinamiche, di gruppo riguardano ciò che sta accadendo fra ed ai membri del

gruppo, mentre esso sta interagendo.

Nell‟ambito dell‟interazione di gruppo, infatti, si rilevano due aspetti fondamentali: contenuto

e processo.

Il contenuto riguarda l‟argomento, il compito, su cui il gruppo lavora.

Il processo riguarda elementi come il morale, la tonalità dei sentimenti, l‟atmosfera,

l‟influenza, gli stili d‟influenza, la leadership, la coesione, il conflitto, la partecipazione, la

competizione, la cooperazione, la motivazione, ecc.

Spesso, la causa maggiore di inefficace azione del gruppo è rappresentata da aspetti inerenti al

processo.

L‟attenzione e la sensibilità alle dinamiche di gruppo mette in grado di diagnosticare

precocemente i problemi ed, eventualmente, di gestirli più efficacemente.

Poiché i processi sono presenti in ogni tipo di gruppo, la consapevolezza di essi può consentire

una partecipazione più efficace; nonché fornire all‟operatore delle chiavi di lettura utili alla

comprensione di ciò che sta accadendo.

Piuttosto che parlare astrattamente di quelli che sono i processi emergenti del gruppo, appare

preferibile proporre alcune linee di osservazione, utili a dare evidenza a tali dinamiche ed a

sensibilizzarsi alla loro percezione ed individuazione.

Alcuni processi appaiono direttamente evidenti all‟osservazione, altri possono essere dedotti

dai primi.

1. Partecipazione

La partecipazione all‟interazione è indice dell‟interesse del componente ai problemi che il

gruppo dibatte.

Domande da porsi:

Chi ha partecipato di più?

Chi ha partecipato meno?

Mutamenti nel livello di partecipazione di un componente?

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Comportamento del gruppo verso coloro che hanno partecipato meno.

2. Influenza

Influenza e partecipazione non sono la stessa cosa: qualcuno può parlare molto poco, ma essere

ascoltato attentamente dal gruppo; e viceversa.

Tipi di potere

Il potere sociale può essere definito come “l‟influenza potenziale di un soggetto X su di un

soggetto Y. L‟influenza viene definita come un cambiamento delle conoscenze, degli

atteggiamenti, del comportamento o dei sentimenti di Y che può essere attribuito a X”.

Tipi di potere, dal punto di vista del soggetto Y che può essere influenzato:

Potere di ricompensa: Y si rende conto che X ha il potere di ricompensarlo (bambino/madre);

Potere coercitivo: Y si rende conto che X ha il potere di punirlo (figlio/genitore);

Potere d‟esempio: Y desidera identificarsi od assomigliare ad X (fan/cantante);

Potere di competenza: Y attribuisce una maggiore conoscenza e competenza ad X

(discepolo/maestro);

Potere legittimo: Y accetta delle norme che permettono ad X di avere influenza su di lui

(avvocati/giudice);

Domande da porsi:

Chi è stato ascoltato attentamente quando ha preso la parola?

Chi è stato ignorato?

Che tipo di influenza è stato esercitato?

Che tipo di potere è stato espresso?

Cambiamenti nell‟influenza esercitata sul gruppo da un partecipante? In che direzione?

3. Stili di influenza

L‟influenza può assumere molte forme; può essere positiva o negativa (cioè può fare ottenere o

meno, a chi la esercita, il sostegno ed il gradimento degli altri).

Il modo in cui un membro tenta di influire sugli altri può rivelarsi fattore di grande importanza

nel determinare l‟apertura o la chiusura di altri a tale influenza (Lewin, Lippit e White 1958)

Autocratico, autoritario

Pacifista

Permissivo, lassista

Democratico, partecipativo

Domande da porsi:

Qualcuno ha cercato di imporre la sua volontà, i suoi valori al gruppo? Ha esercitato

pressioni sugli altri, per cercare di far sostenere le proprie decisioni? Ha espresso

valutazioni e giudizi sugli altri?

Qualcuno ha delegato il suo potere ad altri? Ha parlato soltanto per complimentarsi con gli

altri? Ha cercato costantemente di evitare conflitti e sensazioni spiacevoli?

Qualcuno ha manifestato disinteresse? Ha accettato passivamente le decisioni altrui, senza

prendere posizione? Partecipava meccanicamente e solo ove sollecitato?

Qualcuno ha cercato di far partecipare tutti alla discussione ed alla decisione? Ha accettato

con atteggiamento costruttivo le critiche? Ha espresso sensazioni ed opinioni, senza

esprimere giudizi o valutazioni sugli altri? Ha tentato di utilizzare i conflitti in modo da

promuovere un confronto positivo di idee?

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4. Leadership

La complessità dello studio della leadership è evidenziato dai quattro approcci diversi adottati

in questo campo in momenti diversi.

Le caratteristiche della personalità dei leaders

Sono stati fatti grandi sforzi, dall‟inizio del 1900 fino agli anni „50, per descrivere la

personalità ed i correlati sociali degli individui identificati come leaders.

Questi correlati sono molti, anzi troppi.

Non è realistico aspettarsi che le stesse persone possano essere leaders in tutti i casi.

Ciò dimostra che valutare le caratteristiche delle persone ritenute leaders costituisce un

approccio poco fruttuoso.

Tuttavia sono emerse alcune generalizzazioni significative: i leaders di gruppo ottengono

punteggi più alti degli altri membri per quanto riguarda le valutazioni delle capacità

(intelligenza, quantità di conoscenze specifiche possedute, facilità di parola), della

socievolezza (partecipazione sociale, cooperatività, popolarità) e della motivazione (iniziativa,

perseveranza).

Fattori relativi alla situazione

Un diverso approccio, dal 1950, si è allora evoluto verso lo studio della coerenza e

dell‟incoerenza della leadership in situazioni differenti.

Quanto più il ricercatore modifica la situazione, tanto più riduce la coerenza di colui che

detiene la leadership.

Tuttavia, anche andando alla ricerca dei cambiamenti che si riscontrano nei leaders in

situazioni diverse, l‟approccio situazionale mantenne delle ipotesi sui leaders che non sono

state giustificate: esso accentrò l‟attenzione sugli individui specifici, anche se in situazioni

diverse.

Le funzioni della leadership

Un terzo approccio mette da parte il concetto di leader e ricerca invece quel comportamento

che potremmo considerare di leadership.

La leadership potrebbe venire definita, allora, come quel particolare tipo di comportamento

che spinge il gruppo al conseguimento dei propri scopi.

In un gruppo particolare la maggior parte di questi comportamenti potrebbe essere attribuita ad

un solo membro (leader), in un altro a due o più (leaders).

E‟ stato osservato che esistono funzioni specifiche per compiti, ma si è anche riscontrato che

un certo numero di funzioni ricorre in maniera sistematica.

Si è evidenziato che esistono almeno due funzioni di massima della leadership, importanti e

ricorrenti: una leadership orientata al compito, che si riferisce al comportamento che favorisce

gli scopi strumentali del gruppo, ed una leadership socio-emozionale, che si riferisce alle

attività che contribuiscono ad assicurare il benessere al gruppo stesso.

I ruoli della leadership

Un ultimo approccio è dato dall‟attenzione riservata ai ruoli giocati dalla leadership.

Il concetto di ruolo si riferisce ad una posizione, piuttosto che ad un individuo, tuttavia è un

concetto dinamico, che si riferisce ai processi ed al comportamento, una posizione in

movimento.

Tuttavia, un‟analisi della leadership in termini di ruolo richiede, quanto meno, una relativa

stabilità in tale comportamento, organizzato attorno ad una o più persone che lo assumono in

modo preponderante.

Qualora questi individui dovessero lasciare il gruppo, le loro posizioni permarrebbero e, una

volta che fossero di nuovo coperte, la struttura della leadership del gruppo sarebbe più o meno

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quella di prima, anche se persone diverse svolgessero quelle funzioni.

Di solito la leadership viene ad organizzarsi intorno a due ruoli differenziati, ma

complementari.

Una figura è quella che è in grado di fornire la maggior parte delle idee e che viene considerato

il leader dagli altri.

L‟altra è quella meno attiva, ma più simpatica.

La leadership, pertanto, confermando l‟approccio funzionale, viene perciò ad organizzarsi

attorno a due ruoli coperti da due persone diverse, indicate di solito come “specialista nel

compito” e “specialista socio-emozionale”.

Tuttavia, soprattutto nel caso di legittimazione istituzionale, anche una sola persona può

coprire entrambi i ruoli.

Un tentativo di sintetizzare gli approcci anzi detti è relativo al “modello della contingenza”

(Fiedler), secondo il quale si ipotizza che l‟efficienza dei due stili opposti di leadership dipenda

dalle caratteristiche della situazione, favorevole o no al leader.

Secondo tale modello, quando le cose vanno nel modo migliore per il leader, egli dovrebbe

riuscire a rafforzare il proprio potere; quando la situazione è quasi caotica, una leadership

fortemente orientata al compito è meglio di niente; quando la situazione si regge su un delicato

equilibrio, allora il tatto, la considerazione e la consultazione sono probabilmente molto più

fruttuosi.

Domande da porsi:

Chi ha assunto la guida del gruppo?

Con quali modalità?

Che tipo di leadership?

Sono nate rivalità?

Lotte per la leadership?

Quali effetti hanno avuto sui componenti il gruppo?

5. Appartenenza al gruppo

I componenti il gruppo si preoccupano di essere accettati. Possono svilupparsi diversi modelli

di interazione, che offrono indicazioni sul livello e sul tipo di appartenenza.

In particolare, l‟appartenenza appare in diretta correlazione con la coesione (grado di

attrazione reciproca fra i componenti il gruppo): un gruppo mostra un alto grado di coesione

quando i propri membri sono fortemente attratti fra loro. Risulta condizionata da due ordini di

fattori principali (Cartwright e Zander, 1953):

Proprietà specifiche del gruppo (dimensione, obiettivo, composizione, leadership);

Bisogni di ogni membro del gruppo (quanto più il gruppo riesce a soddisfare i bisogni dei

membri, tanto più il grado di coesione è elevato)

Domande da porsi:

Si sono formati sottogruppi (in positivo, sostenendosi, o in negativo, ostacolandosi)?

Alcuni appaiono “dentro”, mentre altri sembrano “fuori”? Come vengono trattati quelli

“fuori”?

Alcuni si spostano da “dentro” a “fuori” e viceversa (con la postura, con la sedia, si

avvicinano e si allontanano)? In quali circostanze?

6. Procedure di decisione

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Nel corso della vita del gruppo vengono assunte decisioni, senza prestare attenzione agli effetti

che tali decisioni, ma soprattutto i processi decisionali, potranno avere sui membri.

Sulle procedure di decisione influiscono, naturalmente, i processi di influenza sociale, i tipi di

potere, il tipo di leadership, le norme.

Modalità con cui si esprime la decisione:

Voto

Confronto

Consenso

Domande da porsi:

Che modalità decisionale è stata assunta? Effetti?

Qualcuno ha assunto una decisione ed ha cercato di realizzarla senza curarsi degli altri

(autocratico)? Effetti sugli altri?

Qualcuno ha offerto contributi e suggerimenti che sono stati ignorati? Effetti?

Sono stati fatti tentativi per coinvolgere attivamente tutti nel procedimento di decisione?

Effetti?

In che modo i suggerimenti e le decisioni dei membri sono stati supportati?

7. Comportamenti orientati al compito

Individuazione dei comportamenti riferiti all‟esecuzione del lavoro od alla realizzazione del

compito, che il gruppo deve affrontare.

In questo ambito, si riscontra l‟influenza particolare della leadership orientata, appunto, al

compito.

Domande da porsi:

Qualcuno ha posto domande, od enunciato suggerimenti, circa il modo migliore di

procedere per risolvere od affrontare il problema?

Qualcuno ha tentato di riassumere gli argomenti trattati nel corso della discussione, o i fatti

che si sono verificati all‟interno del gruppo?

Vi sono state richieste ed offerte di fatti, opinioni, idee, tentativi di ricercare soluzioni

alternative?

Chi ha aiutato il gruppo a stare in tema, ad evitare che si saltasse da un argomento all‟altro?

8. Funzioni di mantenimento

Queste sono le funzioni importanti per il morale del gruppo.

Servono a mantenere buoni ed armoniosi rapporti tra i componenti il gruppo ed a creare

un‟atmosfera tale da permettere ad ogni componente di dare il massimo contributo. Assicurano

un‟attività di gruppo distesa e priva di attriti.

In questo aspetto, si rileva l‟importanza del leader socio-emozionale.

Domande da porsi:

Chi ha aiutato gli altri a partecipare alla discussione?

Chi ha interrotto quelli che parlavano?

In che modo avviene lo scambio di idee tra i membri?

Vi è qualcuno troppo preoccupato per seguire la discussione?

Vi è qualcuno che aiuta gli altri a chiarire le loro idee?

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In che modo le proposte, i contributi, vengono respinti? In che modo si reagisce a ciò?

9. Atmosfera di gruppo

Si tratta di quello che potrebbe essere definito il “clima” del gruppo.

L‟atmosfera è determinata da qualche fattore tipico del modo in cui il gruppo agisce e

prende forma in una sensazione generalizzata.

Naturalmente, le persone hanno preferenze diverse, circa il tipo di atmosfera, di clima, che

sperano di trovare in un gruppo.

Il trovare le parole che aiutino a descrivere l‟impressione comune, circa l‟atmosfera in cui

il gruppo agisce, può aiutare a comprenderne meglio le caratteristiche.

Domande da porsi:

Chi dà l‟idea di preferire un‟atmosfera amichevole, rilassata? Vi è qualcuno che tenta di

sopprimere i conflitti ed i contrasti?

Chi dà l‟idea di preferire un‟atmosfera di conflitto, di disaccordo? Qualcuno tende ad

annoiare, ad irritare?

I membri sembrano interessati, attenti?

E‟ un‟atmosfera distesa, armoniosa, pacifica?

E‟ un‟atmosfera tesa, elettrica?

Si tratta di un‟atmosfera di lavoro, di gioco, di soddisfazione, di pigrizia?

10. Emozioni

Siamo qui negli aspetti non verbali, affettivi in senso lato.

E‟ possibile farsene un‟idea dal tono delle voci, dalle espressioni facciali, dai gesti, dalle

varie manifestazioni non verbali.

Questi aspetti hanno grande rilevanza in rapporto alla meta-comunicazione, al livello di

relazione.

Offrono livelli di lettura sul piano affettivo.

Domande da porsi:

Quali emozioni sembra che provino i membri del gruppo: rabbia, irritazione, frustrazione,

calore, eccitazione, noia, competitività, ecc.?

Qualche tentativo di mascherare le proprie emozioni, particolarmente quelle ritenute

negative? In che modo?

11. Norme

Il gruppo sviluppa standard e norme di comportamento, che possono essere:

Esplicite (chiare per tutti)

Implicite (conosciute o sentite solo da alcuni)

Inconsapevoli (al di sotto del livello di consapevolezza di tutti)

Di solito, le norme sono espressione dei valori e dei desideri della maggioranza dei membri

circa ciò che può essere considerato “comportamento da adottare” (o “da respingere”) da parte

dei componenti il gruppo.

Alcune norme facilitano il processo del gruppo, altre lo ostacolano.

Domande da porsi:

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Vi sono argomenti che il gruppo cerca di evitare? Qualcuno pare rafforzare queste

esclusioni? In che modo?

I membri si comportano reciprocamente in modo eccessivamente corretto od educato?

Vengono espresse solo emozioni considerate positive? Ci si mette d‟accordo con troppa

facilità?

Cosa accade quando qualcuno non è d‟accordo?

Si nota l‟esistenza di norme che regolano la partecipazione, o il tipo di interventi

consentiti?

I membri paiono sentirsi liberi di comunicarsi le proprie emozioni?

Gli interventi tendono ad essere limitati ad argomenti intellettuali od ad eventi estranei al

gruppo?

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Bibliografia:

BROWN, R. Psicologia sociale dei gruppi, Il Mulino, 2000

COLAMONICO, P. Microcosmo, La Nuova Italia Scientifica, 1995

DE GRADA, E. Fondamenti di psicologia dei gruppi, Carocci, 1999

LICCIARDELLO, O. Il piccolo gruppo psicologico, Franco Angeli, 2005

LUFT, J. Dinamiche di gruppo, CittàStudi, 1997

SPALTRO, E. Conduttori. Manuale per l'uso dei piccoli gruppi, Franco

Angeli., 2005

SPALTRO, E. Il gruppo. Sintesi e schemi di psicologia plurale,

Pendragon, 1999

SPELTINI, G. , PALMONARI, A. I gruppi sociali, Il Mulino, 1999

Bibliografia leadership (oltre ai precedenti):

AVOLIO, B.J. Leadership a tutto campo, Guerini e associati, 2001

BENNIS, W., NANUS, B. Leader. Anatomia della leadership, Franco Angeli, 1988

DILTS, R.B. Leadership e visione creativa, Guerini e associati, 1999

GABASSI, P.G. e CERBAI, S. Leadership 1975-1996, Una bibliografia ragionata e

commentata, Franco Angeli

GORDON, T. Leader efficaci, La Meridiana, 1999

HERSEY, P., BLANCHARD, K., Leadership situazionale, Sperling & Kupfer, 1976

KERNBERG, O.F. Le relazioni nei gruppi. Ideologia, conflitto, leadership,

Cortina, 1999

KETS DE VRIES, M.F.R. Leader, giullari e impostori. Sulla psicologia della

leadership, Raffaello Cortina, 1998

KOTTER, J.P. Il fattore leadership, Sperling & Kupfer, 1989

QUAGLINO, G.P. Leadership, Nuovi profili della leadership per nuove

prospettive organizzative, Cortina, 1999

RICE, A.K., Esperienze di leadership, Giunti Barbera, 1974

TRENTINI, G., Oltre il potere, Discorso sulla leadership, Franco Angeli,

1999

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La leadership situazionale

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1. LA LEADERSHIP SITUAZIONALE

L'aspetto forse più innovativo della teoria della Leadership Situazionale, elaborata da Hersey e

Blanchard negli anni '70, è di aver superato gli schematismi e i "dogmatismi" delle precedenti

teorie sulla leadership, affermando che NON ESISTE UN MODO "GIUSTO" DI ESSERE CAPO,

non è possibile definire un solo stile di leadership che sia coerente alle diverse possibili situazioni,

ma al contrario, lo stile deve essere scelto in funzione delle diverse situazioni che il capo si trova di

fatto a gestire.

Il "nucleo" della Leadership Situazionale è tutto qui:

è una visione sistemica del rapporto capo-dipendente, nel quale il comportamento

dell'uno è influenzato da - e nello stesso tempo influenza - il comportamento dell'altro; il

tutto in relazione anche alle caratteristiche del contesto nel quale si sviluppa la relazione.

CONTESTO CONTESTO

COMPORTAMENTOdel DIPENDENTE

COMPORTAMENTOdel CAPO

Ora si tratta di trarre da questa idea di partenza delle indicazioni il più possibile operative, che siano

cioè utili per determinare il comportamento, lo stile del leader più coerente allo scopo di influenzare

meglio il comportamento altrui.

Possiamo porci fondamentalmente due ordini di domande:

COME ANALIZZARE E DEFINIRE LE SITUAZIONI

QUALI SONO I COMPORTAMENTI, GLI STILI PIU' COERENTI

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2. L'ANALISI E LA DEFINIZIONE DELLE SITUAZIONI

Possiamo utilizzare come "discriminante" delle diverse situazioni il LIVELLO DI MATURITA' dei

collaboratori. Intendiamo per "maturità" l'insieme della "maturità nel lavoro" e della "maturità

psicologica".

La maturità nel lavoro è la competenza professionale specifica, l'esperienza maturata nello

svolgere un particolare lavoro, nel raggiungere un determinato obiettivo.

La maturità psicologia è la disponibilità e la volontà di assumersi in prima persona le

responsabilità che derivano dagli obiettivi assegnati; può essere considerato l'impegno nello

svolgere un lavoro,

Se un individuo, o un gruppo, possiede sia maturità lavorativa che maturità psicologica, emerge

un'altra dimensione della maturità che ne rappresenta un po' la sintesi:

l'AUTONOMIA che definiamo qui come la capacità di stabilire obiettivi di lavoro personali

elevati, ambiziosi, sfidanti, ma nello stesso tempo realistici e raggiungibili.

Possiamo affermare quindi che un individuo, o un gruppo, è "MATURO" quando:

possiede le competenze e le capacità necessarie per svolgere un lavoro;

è disponibile ad assumersi le responsabilità che ne derivano;

è capace di fissarsi obiettivi ambiziosi e raggiungibili.

Un capo si trova spesso a dover gestire singoli collaboratori ed in questo caso si tratterà di cercare

di definire il livello di maturità complessiva che l'individuo possiede.

E' opportuno ricordare che quando si gestisce un gruppo di collaboratori, il livello di maturità NON

è rappresentato dalla "media" delle maturità dei singoli: il gruppo è diverso dalla semplice somma

delle competenze dei collaboratori.

Incidono infatti, nel determinare la "maturità del gruppo", altri fatti quali il livello di conoscenza

reciproca, l'età del gruppo (cioè da quanto tempo è costituito come gruppo), il tipo di rapporti che

intercorrono tra i membri, il livello di fiducia reciproca, il grado di coesione, ecc.

E' chiaro che la maturità, del singolo o del gruppo, è anche in funzione delle caratteristiche dello

specifico compito e del contesto all'interno del quale viene richiesto il risultato; si tratta, in altre

parole, di analizzare il livello di complessità e di "novità" del compito e dell'ambiente, in

RAPPORTO alle caratteristiche di maturità dei collaboratori.

Possiamo rappresentare sinteticamente in modo grafico quanto detto, in questo modo:

MATURITA'- competenza- disponibilità- autonomia

CARATTERISTICHEINDIVIDUALI

CARATTERISTICHEDEL GRUPPO

CARATTERISTICHEAMBIENTALI

CARATTERISTICHEDEL TASK

Va sottolineato che a determinare la MATURITA' non sono i "valori assoluti", ma il RAPPORTO

RELATIVO tra caratteristiche dell'individuo, del gruppo, del task e dell'ambiente.

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In questo senso si comprende come la maturità dei collaboratori non è un dato stabile, acquisito per

sempre, ma può variare fortemente in funzione della complessità del compito e/o del contesto nel

quale si opera.

Si rende a questo punto necessario "classificare" i diversi gradi di maturità, in modo da poterli poi

correlare ai diversi comportamenti del leader.

In altre parole: come determinare, operativamente la maturità dei collaboratori?

Evidentemente non esistono sistemi oggettivi che consentano di "misurare" una dimensione

complessa come quella della maturità. Si possono però costruire dei "questionari", delle "scale di

misurazione" che ci diano - perlomeno - delle indicazioni.

A puro titolo esemplificativo, riportiamo qui alcune domande che possono aiutare il capo a definire

il grado di maturità dei collaboratori:

M a t u r i t à l a v o r a t i v a

Questa persona, per svolgere questo particolare compito in questa situazione specifica:

ha esperienze di lavoro precedenti utili?

ha le conoscenze professionali necessarie?

ha la piena comprensione dei requisiti del lavoro?

M a t u r i t à P s i c o l o g i c a

Questa persona, nel perseguire questo particolare obiettivo in questa situazione specifica:

è pronta e disponibile ad assumersi responsabilità?

è motivata dal raggiungimento dei risultati?

si impegna nel lavoro?

Sinteticamente e schematicamente, si evidenziano quattro livelli di maturità (M):

BASSA MATURITA' (M1) La persona è non competente e non

preparata, non pronta ad assumersi

responsabilità.

MATURITA' MEDIO/BASSA (M2) La persona non è ancora competente, ma

dimostra disponibilità e volontà di

assunzione di responsabilità.

MATURITA' MEDIO/ALTA (M3) Il collaboratore è competente, ma si

mostra ancora insicuro, non

completamente disponibile ad assumersi

responsabilità personali.

ALTA MATURITA' (M4) Il collaboratore è ormai capace,

competente, disponibile, sicuro di sé.

E' chiaro che questa classificazione appena fatta è da ritenersi indicativa e da rappresentarsi lungo

un continuum che va dalla immaturità alla maturità completa.

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3. GLI STILI DI COMPORTAMENTO DEL LEADER

Possiamo scomporre, da un punto di vista logico, il comportamento di un capo secondo due

dimensioni fondamentali:

IL COMPORTAMENTO DIRETTIVO o di GUIDA OPERATIVA

IL COMPORTAMENTO di RELAZIONE o di SOSTEGNO RELAZIONALE.

Il comportamento direttivo è composto da tutte le attività rivolte a fornire al collaboratore

indicazioni operative e normative, determinazione delle scadenze e dei controlli.

Il comportamento di relazione è composto dalle attività tese a favorire un buon rapporto capo-

dipendente e a fornire sostegno e supporto da un punto di vista più "psicologico", relazionale:

interazioni frequenti, coinvolgimento, scambio di opinioni, interesse per i problemi personali,

ascolto attivo, comunicazioni franche ed esplicite, ecc.

E' chiaro che, nella realtà, qualunque comportamento adottato da un capo sarà sempre un mix di

queste due dimensioni fondamentali; ciò che distingue un "stile" da un altro è proprio il prevalere di

una dimensione sull'altra e l'intensità di questi comportamenti. Ad esempio è possibile che lo stile di

un particolare capo sia caratterizzato da una grossa componente di indicazioni operative, di

istruzioni specifiche e da poca attenzione alla relazione personale: ciò non significa "non parlarsi",

ma tendenzialmente i rapporti capo-dipendente saranno caratterizzati soprattutto dai contenuti

tecnico-professionali del lavoro, preoccupandosi meno del "fattore umano" della relazione.

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Graficamente possiamo rappresentare lo "stile del leader" usando queste due componenti

fondamentali:

alto

bassoaltobasso

comportamentodirettivo

E' da sottolineare che l'origine di questi assi non è zero; non è ipotizzabile infatti che un capo non

dia nessuna direttiva o non abbia nessuna relazione con i suoi collaboratori.

Proviamo ora a mettere in relazione i diversi livelli di maturità dei collaboratori con lo stile del

capo, cercando di individuare le maggiori coerenze in termini di efficacia.

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3.a LA COERENZA TRA MATURITA' E

STILE

BASSA

MATUR

ITA'

(M 1) Persona non competente e non

preparata all'assunzione di

responsabilità.

Qual è lo stile più efficace nei confronti di una persona (o di un gruppo) caratterizzata da una bassa

maturità?

Probabilmente questo collaboratore avrà bisogno, prima di ogni altra cosa, di avere indicazioni

precise sul lavoro da eseguire, di conoscere a fondo la normativa e le procedure necessarie per

svolgere adeguatamente le proprie mansioni, mentre minore importanza avrà per lui - in questo

momento - l'aspetto relazionale.

Chiamiamo questo stile "TELLING", cioè "CHE DICE" le cose da fare, in una parola uno stile

DIRETTIVO nel quale il leader prende le decisioni per i collaboratori, pianifica ed organizza loro

il lavoro; il ruolo dei dipendenti consiste nel fare ciò che viene loro comunicato.

alto

bassoaltobasso

comportamentodirettivo

stiledirettivo

Come si vede, questo stile è caratterizzato da un ALTO comportamento direttivo e da un

relativamente BASSO comportamento di relazione (S1).

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MATURITA'

MEDIO/BASSA

(M2) Persona non ancora

competente, ma disponibile

ad assumere responsabilità.

Questa persona è caratterizzata, rispetto a quella in M1, da una maggior disponibilità allo sviluppo

professionale: dimostra volontà di crescere e di assumere le responsabilità, ma non è ancora

completamente capace di fare il lavoro assegnato.

Sarà dunque opportuno mantenere relativamente alto il supporto e l'aiuto per ciò che riguarda il

contenuto del lavoro, affiancato però dall'attenzione crescente a spiegare il perché delle decisioni, a

tenere in considerazione l'opinione del collaboratore e a sviluppare quindi un comportamento di

relazione più alto.

E' uno stile che potremmo definire PERSUASIVO, nel quale le decisioni rimangono una

responsabilità del capo, ma vengono illustrate e motivate con l'obiettivo di coinvolgere

maggiormente il collaboratore attraverso un comportamento di relazione sempre più intenso.

alto

basso

altobasso

comportamentodirettivo

stilepersuasivo

E' uno stile caratterizzato da un ALTO comportamento direttivo affiancato da un ALTO

comportamento di relazione (S2).

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MATURITA'

MEDIO/ALTA

(M3) Persona competente, ma

ancora insicura per ciò che

riguarda l'assunzione di

responsabilità individuali.

Il collaboratore è, da un punto di vista "lavorativo", ormai maturo, capace di svolgere

adeguatamente le proprie mansioni; mostra però qualche incertezza sul piano della

"determinazione", della sicurezza delle proprie scelte che pure sono oggettivamente corrette.

E' quindi il caso di diminuire progressivamente il comportamento direttivo, mantenendo però alto il

comportamento di relazione: si tratta di "rassicurare" il collaboratore, di dargli "fiducia nelle

proprie capacità", condividendo con lui il peso della responsabilità finale.

In questo stile PARTECIPATIVO, il capo e collaboratore decidono insieme le scelte qualificanti il

lavoro e l'attenzione prevalente del leader sarà tesa ad agevolare l'assunzione di decisioni autonome

da parte del collaboratore.

alto

bassoaltobasso

comportamentodirettivo

stilepartecipativo

Lo stile partecipativo è caratterizzato da un BASSO comportamento direttivo e da un ALTO

comportamento di relazione (S3).

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ALTA

MATU

RITA'

(M4) Persona capace, competente,

disponibile, responsabile, sicura di sé.

A questo punto il collaboratore è autonomo, è in grado di fissarsi gli obiettivi all'interno delle linee

guida di riferimento stabilite dal capo.

In questa situazione l'intervento del leader è limitato alla definizione delle linee di riferimento

generali e alla disponibilità a fornire ai i collaboratori aiuto e supporto solo quando viene richiesto.

E' uno stile DELEGANTE, nel quale i livelli di interazione personale sono relativamente bassi e

molto scarso il comportamento direttivo. (S4)

alto

bassoaltobasso

comportamentodirettivo

stiledelegante

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Uno schema riassuntivo di quanto esposto:

STILE 3 STILE 2

STILE 4 STILE 1basso

basso altoCOMPORTAMENTO DIRETTIVO

(GUIDA)

MODERATAALTA BASSA

M4 M3 M2 M1

Maturità dei Collaboratori

stile di leadership

La curva "a campana" tracciata nel grafico rappresenta lo stile più efficace in funzione della

maturità dei collaboratori (evidenziata lungo un continuum da destra a sinistra - bassa e alta).

Come evidenziato dalla figura, i quattro stili fondamentali che abbiamo illustrato sono un graduale

modificarsi del mix delle componenti fondamentali (relazione e guida).

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4. CONSIDERAZIONI GENERALI

4.1 LE DEGENERAZIONI DEGLI STILI

Crediamo valga la pena di sottolineare come ognuno di questi stili sia coerente ad una data

situazione di maturità e nello stesso tempo che ciascuno di questi modi di "essere capo" può

degenerare in un comportamento che non è mai funzionale.

"Fuori" dallo schema sopra esposto si possono evidenziare le esasperazioni degli stili:

uno stile eccessivamente direttivo rischia di diventare autoritarismo;

un certo modo, un po' capzioso di persuadere diventa facilmente manipolazione, con

tutti gli effetti boomerang che ne conseguono;

partecipare sempre o comunque è assemblearismo, primo passo per lo scarico di

responsabilità individuali ("è stato il gruppo") e per non decidere;

lo stile delegante non deve diventare lassismo e disinteresse.

4.2 UTILIZZO DELLO SCHEMA

Una delle responsabilità del capo dovrebbe essere quella di favorire lo sviluppo professionale

dei collaboratori che gli sono affidati. Questo significa che lo stile del leader dovrebbe,

partendo dalla maturità attuale dei collaboratori, stimolarne la crescita in termini di maturità.

Riprendendo ciò che si diceva all'inizio e interpretando questo schema in un'ottica sistemica,

dovrebbe essere possibile, per il capo, "educare" gradualmente i propri collaboratori,

influenzandoli con il proprio stile di comando.

L'errore gravissimo che può commettere un capo è infatti quello di "dirigere" i propri

collaboratori adottando uno stile coerente ad un livello di maturità "inferiore" rispetto a quello

effettivo. Ad esempio adottare uno stile direttivo con collaboratori di maturità M3. La

conseguenza è quella di provocare una sorta di "involuzione" nella maturità delle persone o

perlomeno, di farle sentire "soffocate" da uno stile troppo pressante.

Altrettanto rischiosa è la situazione opposta: ad esempio avere uno stile delegante a fronte di

maturità M1 o M2.

Le persone si sentono in questi casi, "abbandonate" e possono interpretare la delega o la

partecipazione come lassismo o scarico di responsabilità da parte del capo. In una parola, il

modificarsi dello stile - che pure è necessario - deve essere graduale nel tempo.

Quanto detto vale per lo sviluppo professionale del collaboratore: idealmente, dal momento

dell'assunzione (M1) all'autonomia completa (M4).

Abbiamo visto però che la maturità dei singoli individui (e dei gruppi) è in funzione anche

dello specifico compito da svolgere e dello "stato d'animo" del momento: un collaboratore

normalmente autonomo può, per motivi personali di insoddisfazione e di scoramento,

"retrocedere" ad un livello di maturità inferiore; un obiettivo nuovo e particolarmente

complesso da raggiungere, in una situazione ambientale incerta ed ostile, determina un

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"abbassamento" della maturità relativa di collaboratori normalmente gestiti in modo

partecipativo. Il leader deve possedere la capacità e la sensibilità di valutare queste variazioni

della "maturità relativa" dei collaboratori e modificare di conseguenza momentaneamente il

proprio stile di guida.

4.3 GLI STILI INDIVIDUALI

La ricerca sperimentale ha evidenziato che la gran parte dei managers è caratterizzata dall'uso

prevalente di uno o due stili, che vengono chiamati stile fondamentale e stile di sostegno, e

dal relativo abbandono degli altri due stili.

Ci riferiamo in questo caso a persone che tendono ad adottare un certo stile perché coerente

con i propri bisogni e con la loro "personalità" e non in funzione della maturità effettiva dei

collaboratori.

La combinazione di due stili determina una sorta di "profilo" prevalente del manager che può

comportare alcuni rischi.

Vorremmo qui evidenziare i "pericoli" dei diversi profili, ricordando che sono da considerarsi

tali nel momento in cui i managers adottano solo, o con grossa prevalenza, gli stili qui

descritti indipendentemente dalla situazione specifica.

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Profilo 1-3 (direttivo-partecipativo)

Il rischio più grosso che corrono i managers con questo tipo di profilo è di

ETICHETTARE i propri dipendenti, dividendoli in due grandi categorie nelle quali si

perdono tutte le sfumature individuali. da una parte i "buoni", persone motivate ed

affidabili, dall'altra i "cattivi", pigri, irresponsabili da tenere sotto stretto controllo.

Essendo la relazione capo-dipendente un fenomeno sistemico, il rischio vero è che

questa "visione del mondo" del manager diventi poi la realtà effettiva: trattando le

persone sempre in modo direttivo, queste non si assumeranno nessuna iniziativa e

tenderanno a sfuggire gli incarichi più gravosi confermando in questo modo la

"profezia" del capo.

Profilo 1-4 (direttivo-delegante)

Questo profilo è molto simile a quello 1-3 con una differenza: la divisione dei

dipendenti in due categorie non è fatta sulla base della loro motivazione al lavoro, bensì

sulla loro competenza.

Da una parte ci sono i "competenti", che vengono "lasciati in pace", liberi di svolgere in

piena autonomia i compiti affidati, dall'altra gli "incompetenti" che hanno bisogno di

guida costante, di indicazioni precise, di controlli puntuali.

Anche in questo caso valgono le riflessioni fatte in precedenza a proposito delle

"profezie autoconfermanti".

Profilo 2-3 (persuasivo-partecipativo)

E' il profilo più diffuso; il rischio di questo profilo è di essere scelto perché "non

rischioso". Di fatto adottando questi stili non si rischiano grosse incoerenze tra il

comportamento del capo e la maturità dei collaboratori; si tende però ad "appiattire" le

differenze, non si colgono le situazioni nelle quali sarebbe più opportuno un

comportamento direttivo o uno stile delegante: le persone e le situazioni vengono

considerate tutte simili.

Profilo 1-2 (direttivo-persuasivo)

Questi managers non diminuiscono mai il loro comportamento di guida, sono sempre

portati, in altre parole, a "condurre il gioco". E' il profilo tipico degli "ex-venditori" o

degli "ex-tecnici" passati a ruoli direzionali, ma che non smettono di interessarsi a fondo

dei contenuti tecnici del lavoro, dando indicazioni precise di comportamento anche

quando i collaboratori potrebbero essere in grado di decidere autonomamente. Ciò che

questi managers pensano è spesso qualcosa del tipo "nessuno può fare le cose meglio di

come faccio io".

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Profilo 2-4 (persuasivo-delegante)

Sono i managers che tendenzialmente sono portati ad avere delle relazioni interpersonali

molto intense con i propri collaboratori fornendo loro tutto il supporto tecnico e

direttivo di cui hanno bisogno (stile 2). Non sono però capaci della necessaria gradualità

nel passare allo stile delegante: se il collaboratore reagisce bene allo stile persuasivo e

dimostra interesse, viene "di colpo" responsabilizzato dando così la sensazione di un

ingiustificato abbandono. Il collaboratore può infatti interpretare la delega completa

come disinteresse del capo nei suoi confronti, come una "punizione" non meritata.

Profilo 3-4 (partecipativo-delegante)

Il rischio di adottare sempre e solo questo profilo è di essere di fatto di poca guida. E'

tipico dei capi interessati al "fattore umano", ma che tralasciano - forse per mantenere

delle buone relazioni - la necessaria attenzione agli obiettivi ed ai risultati. Questi

managers sono "incapaci" di gestire persone con bassa maturità che rischiano di non

essere aiutate a crescere dal punto di vista professionale.

Vorremmo sottolineare ancora che queste descrizioni sono per forza di cose schematiche e per

certi versi semplicistiche: l'obiettivo era di evidenziare i rischi dovuti all'adozione di stili

"monolitici", senza la necessaria flessibilità di comportamento che le situazioni richiedono.

Apprendimento organizzativo, individuale e generativo

Cosa mai sarà una learning organization? Che fattori e dinamiche la caratterizzano? Come

sviluppare organizzazioni che imparino e che facilitino lo sviluppo delle proprie persone?

Una learning organization è un‟organizzazione in cui le persone possono espandere continuamente

le proprie capacità per raggiungere i risultati che vogliono. In queste organizzazioni è diffuso un

orientamento alla creazione di nuovi modelli e strumenti, alla libertà di espressione delle

aspettative-aspirazioni individuali e all‟integrazione delle diverse ottiche.

Il paradigma della LO si diffonde per assumere strategie flessibili, adattive e produttive a fronte di

contesti macrosociali fluidi ed altamente destrutturati. Ma per raggiungere questo obiettivo è

necessario che organizzazioni e persone ri-scoprano come aver voglia di imparare

quotidianamente e ad ogni livello e da ogni esperienza; è necessario uno shift-of-frame da un

orientamento alle procedure ad uno più focalizzato sulla vision.

Si possono presentare alcune tipiche situazioni a questo proposito:

La maggior parte delle persone ha la capacità e la voglia di imparare ma l‟organizzazione (o

la funzione) in cui lavorano spesso non favoriscono la riflessione e lo scambio di idee.

L‟organizzazione incoraggia la riflessione e lo scambio di idee ma le persone non hanno

voglia.

L‟organizzazione e le persone non incoraggiano la riflessione e lo scambio di idee e le

persone.

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L‟organizzazione incoraggia e facilita la riflessione, lo scambio e la generazione di idee e le

persone hanno voglia di partecipare a questo processo creativo.

L‟apprendimento è la capacità che permette all‟essere umano (ed alle sue organizzazioni) di ri-

creare sé stesso in relazione all‟ambiente ed alle proprie aspettative, l‟apprendimento può essere

dunque considerato come lo strumento che l‟uomo utilizza per ottimizzare la sua relazione con

l‟ambiente. Riprendendo le Scale Evolutive (Bruscaglioni, 2001; Sardu, 2003) possiamo

ipotizzare, in figura 1, la scala evolutiva tendenziale dello strumento apprendimento. Questa

rappresentazione permette di focalizzare l‟attenzione sul processo evolutivo e sui salti di qualità

che il soggetto compie per raggiungere lo stadio evolutivo seguente.

Primariamente un individuo e un‟organizzazione impara a fronteggiare le esigenze di

sopravvivenza; in una fase successiva, al variare delle condizioni ambientali la persona o

l‟organizzazione impara per far fronte ai nuovi aspetti emergenti del contesto; nella fase seguente

la persona (o qualsiasi altro sia il soggetto protagonista) impara a trasformare pezzi del contesto a

seconda delle proprie esigenze, comincia ad intervenire sull‟ambiente; nel successivo momento il

soggetto impara a generare, a creare nuove cose e nuovi pezzi di mondo che prima non esistevano.

L‟apprendimento generativo prevede i livelli precedenti di apprendimento e li ingloba, non si dà il

successivo senza il precedente, ma avere in mente quale sia il successivo gradino evolutivo aiuta

nell‟acquisizione delle risorse necessarie per compiere il salto di qualità verso il seguente.

Possiamo leggere l‟intero processo come processo in cui la persona apprende come utilizzare lo

strumento apprendimento a fronte di diverse condizioni e, dunque, chiederci come facilitare

l‟acquisizione e l‟utilizzo di questo strumento per creare e sviluppare learning organization.

Oppure possiamo leggerlo come il processo in cui il soggetto da passivo-spettatore diventa attivo-

attore, da responsivo nei confronti del mondo a creatore di nuovi pezzi di mondo.

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Figura 1: Scale evolutive applicato all'apprendimento

GESTIRE IL BENESSERE ORGANIZZATIVO

di Carlo Consiglio

La “Modernità liquida”descritta dal sociologo Bauman attraversa anche le organizzazioni produttive

e addette ai pubblici servizi. L‟incalzare dei cambiamenti non consente di consolidare esperienze,

competenze, processi operativi perché intanto bisogna riadattarsi a nuovi scenari tecnologici e a

nuovo scenari di concorrenza globale. La società dell‟abbondanza ha liberato parte della

popolazione dalle rigidità imposte dalla limitatezza delle risorse senza tuttavia trovare equilibri che

garantiscano il benessere personale. Nei contesti organizzativi il principio della rapidità, di

innovazione, di cambiamento, di riconversione, diventa sempre più strategico di quello di

consolidamento, di posizione, di sfruttamento del knowhow acquisito. La gerarchia, che garantiva

continuità, “saggezza”, responsabilità decisionale diventa ostacolo, difesa del potere, incapacità a

recepire le istanze della base professionale, le richieste dei mercati, le opportunità da cogliere.

A livello delle persone che operano nelle organizzazioni tutto questo si traduce in stress, sia

negativo, disagio, sofferenza, perdita di sicurezza, sia positivo, impegno, ricerca, carico di lavoro. I

sintomi di questo malessere e di questa pressione sono da tempo presenti, riconoscibili e

riconosciuti, analizzati con le indagini sul clima organizzativo e sulle strategie di coping, con

misurazioni dello stress e le ricerche sul burnout, testimoniati dalla domanda formativa in

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evoluzione dalle competenze tecnico-professionali alle capacità personali, di autostima, di

resistenza (hardiness), di selfmanaging, di “resilienza”.

Fondamentalmente la tematica del benessere organizzativo nasce dall‟esigenza di valorizzare al

massimo il contributo delle risorse umane in ambito organizzativo. A sua volta l‟esigenza di

ottenere questa valorizzazione deriva da una serie di fattori che hanno profondamente trasformato i

contesti organizzativi sia produttivi che amministrativi, sia pubblici che privati. Si rifletta sul fatto

che i processi produttivi di qualsiasi natura (produzione di beni, di servizi, di apprendimento, di

ricerca, di aiuto) sono sempre stati regolati da impianti organizzativi basati sulla predisposizione di

strutture, procedure, sistemi di potere, strumentazioni operative e gestionali progettati in funzione

della razionalizzazione e della economia delle attività da svolgere, e della loro verificabilità e

controllabilità. In questi apparati organizzativi “pre-disposti” si inseriscono poi le competenze e le

energie delle persone che forniscono il loro apporto lavorativo. Ancorché gli apparati siano in

continua evoluzione e aggiornamento resta il fatto che la partecipazione delle risorse umane risulta

sempre adattiva e subordinata alle esigenze di un processo produttivo pre-stabilito.

Questa impostazione, da cui sembra non si possa mai uscire, ha comportato da sempre una serie di

implicazioni, di conseguenze e di problematiche. Ha implicato inizialmente una concezione

meccanicistica del contributo delle persone, prevedendone una prestazione “tecnica” che ignorava,

e considerava disturbanti, le componenti soggettive di tipo motivazionale, relazionale e emozionale.

Si è privilegiato così più l‟attenzione all‟apporto quantitativo ed esecutivo della prestazione

(lavorare sodo, impegnarsi di più, fare il proprio dovere, non fare errori, rispettare le regole e gli

adempimenti) che all‟aspetto qualitativo e innovativo, generando una cultura gestionale e una

leadership autoritaria ancora oggi molto presenti. Successivamente si è indagato a fondo sulle

componenti soggettive del lavoratore sia sul fronte del miglior utilizzo e rendimento nell‟apparto

produttivo (che restava sempre pre-stabilito), sia sul fronte della minimizzazione di danni e

ostacoli, e conseguenti costi, dovuti alla sua autonomia emozionale e psichica, causa di

disfunzionalità di grande portata (disaffezione, assenteismo, infortunistica, conflittualità, burn-out,

ecc.). Ciò spiega come tradizionalmente l‟attenzione del benessere organizzativo si è concentrata ad

elaborare due tematiche principali, quella della sicurezza sul lavoro e quella della salute psicofisica

della persona. Ma in entrambi i casi l‟impostazione è stata inevitabilmente risanatoria, riduttiva, tesa

cioè a ridurre, a diminuire il malessere e dunque il benessere era inteso come assenza del malessere,

come eliminazione del disturbo, come normalizzazione (cioè primato della norma), non come

aggiunta di un elemento generativo. Si è rimasti cioè nella logica dei “fattori igienici” di Herzberg,

quelli che creano conflittualità solo se carenti, ma che, perseguita una certa soglia di accettabilità,

non inducono di per sé stimoli motivanti.

E questo è il punto, perché attualmente lo scenario in cui agiscono le organizzazioni è radicalmente

mutato e con ciò tutte le implicazioni connesse. I processi produttivi, pubblici e privati, devono

confrontarsi costantemente con: evoluzione tecnologica a incremento esponenziale, annullamento

delle distanze spaziali e temporali, globalizzazione e competitività esasperata, alta domanda di

qualità dell‟output (prodotti e servizi) a fronte della pesante compressione delle risorse investibili in

input, diversificazione e innovatività dei contenuti e delle attività, incessante e precipitosa

variabilità degli assetti economici e sociali, delle tipologie di “governance”, delle emergenze

energetiche ed ambientali.

I fattori di successo (o di sopravvivenza) in questo contesto diventano: la prontezza di reazione e di

riconversione, la flessibilità e l‟adattabilità, l‟intelligenza “situazionale”, la forte integrazione delle

variabili di sistema, l‟autonomia decisionale e la responsabilità.

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In questa nuova sfida, i processi produttivi governati da apparati organizzativi pre-disposti in base a

parametri tecnici e normativi risultano ineluttabilmente rigidi, vincolanti, paralizzanti, contro-

produttivi. Ed è invece la risorsa umana quella che diventa determinante, diventa risorsa strategica,

pregiata, fattore differenziativo,“capitale umano”. E sono infatti le persone le uniche risorse

dell‟organizzazione in grado di poter essere flessibili, adattabili, intelligenti, situazionali, in

apprendimento continuo, collaborative, creative e innovative, autonome e responsabili. Ma le

persone sono anche un sistema integrato complesso in cui lottano perennemente per l‟equilibrio

ragione e passione, valori e emozioni, idealità e debolezze, ambizioni e risentimenti, intelligenze e

intolleranze, ansie e talenti, disponibilità e bisogni, ecc. ecc. La persona è dunque un soggetto

psicologico, non il mero contraente di una transazione economica, le cui performances si

acquisiscono con un contratto o con un incentivo. Cade il mito delle prestazioni corrispettive lavoro

contro denaro, attraverso cui, tirando e spingendo, ci si illude ancora che tutto si possa ottenere

dalle persone. La valorizzazione delle persone richiede molto di più, richiede un ambiente che le

coinvolga nel mobilitare spontaneamente tutte le potenzialità produttive.

Questo “ambiente generativo” deve essere caratterizzato da quello che oggi viene individuato come

“benessere organizzativo”, cioè un contesto che favorisca l‟investimento psichico dei soggetti che

vi operano, e, per questa via, l‟appartenenza, la partecipazione, l‟espansività del proprio potenziale,

l‟espressione delle competenze, la generazione di soluzioni e di innovazione, la rigenerazione delle

energie, la relazionalità positiva e solidale, la costituzione di un clima avvincente, rassicurante e

gratificante. E‟ un contesto che va analizzato e compreso in ogni specifica variabile produttiva per

poi poterne incrementare intenzionalmente il tasso di benessere con progettualità gestionale.

E proprio l‟acquisizione degli elementi e degli strumenti per declinare questa progettualità

gestionale è l‟obiettivo pedagogico del Master, la cui architettura segue un percorso che attraversa

tutte le aree gestionali dell‟organizzazione che incidono nella costituzione del contesto generativo.

Gli esperti in benessere devono essere professionisti in grado di “leggere” i processi organizzativi e

di individuare le aree di criticità psicologica e professionale attraverso strumenti di rilevazione

come l‟analisi del clima, la valutazione dei fattori di stress, l„accertamento degli agenti di disagio

motivazionale, sia di natura relazionale, sia operativa, sia strutturale.

Le aree della gestione del benessere organizzativo individuate sono nove e per esigenze di sintesi di

seguito ne viene sviluppata una rassegna che traccia le componenti specifiche di ogni area.

Le aree sono:

1. BENESSERE GESTIONALE

2. BENESSERE PROCESSIVO

3. BENESSERE STRUMENTALE

4. BENESSERE PRESTAZIONALE

5. BENESSERE PROFESSIONALE

6. BENESSERE RELAZIONALE

7. BENESSERE VALUTATIVO

8. BENESSERE AMBIENTALE

9. BENESSERE CONTRATTUALE

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I contenuti essenziali delle aree sono:

1. BENESSERE GESTIONALE

Chiarezza della vision e dei valori e coerenza delle strategie

Credibilità, affidabilità e omogeneità della leadership

Visibilità di prospettive

Omogeneità e compattezza della cultura organizzativa

Supporto nelle situazioni di crisi e gestione positiva degli insuccessi

Programmabilità non vanificata da contraddizioni gestionali

Trasparenza dei processi decisionali

2. BENESSERE PROCESSIVO

Linearità e fluidità dei lay-out per avere la massima razionalità ed efficienza

Funzionalità ed essenzialità dei processi operativi (evitando incoerenze, duplicazioni, sprechi,

ecc.)

Partecipazione alla progettazione dei processi operativi

Distribuzione appropriata dei ruoli e dei carichi di lavoro e delle risorse professionali e

strumentali

Integrazione intersettoriale (compatibilità procedure, format, software, ecc.)

Cultura e prassi del “cliente interno”

3. BENESSERE STRUMENTALE

Tecnologie adeguate e avanzate

Disponibilità degli strumenti e dei mezzi

Istruzione efficace e personalizzata

Help desk tempestivi all‟uso delle tecnologie

Efficienza della manutenzione

Sistemi di comunicazione interna

Accessibilità dei data base

Automazione di processi in tempo reale

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4. BENESSERE PRESTAZIONALE

Bilancio delle competenze approfondito e aggiornato

Matching tra competenze e ruoli

Assegnazione di delega effettiva

Attribuzione dei livelli di responsabilità e di autonomia appropriati ai soggetti

Coinvolgimento negli obiettivi e nelle programmazioni

Fattibilità e “engagement” di compiti e risultati assegnati

Riconoscimento dei risultati

5. BENESSERE PROFESSIONALE

Prospettive di crescita e di autorealizzazione

Presenza di attività di tutorship e mentoring

Coaching personalizzato di sviluppo a parte dei capi

Opportunità di apprendimento e di esperienze

Programmi mirati di formazione

Cura delle pari opportunità

Utilizzo della valutazione del potenziale

6. BENESSERE RELAZIONALE

Qualità delle relazioni e della comunicazione

Spirito di collaborazione e fiducia reciproca

Largo impiego della dimensione di gruppo (team work, team building, ecc.)

Ascolto delle problematiche e del dissenso

Clima organizzativo monitorato periodicamente

Attenzione ad evitare situazioni di mobbing e bossing

7. BENESSERE VALUTATIVO

Anticipazione e chiarezza dei criteri valutativi

Omogeneità tra i valutatori nell‟applicazione dei criteri

Coerenza ed equità nell‟applicazione dei criteri

Riconoscimenti sia individuali che di gruppo

Colloqui personalizzati di valutazione

Trasparenza dei criteri di mobilità

8. BENESSERE AMBIENTALE

Localizzazione della sede di lavoro e raggiungibilità (tempi e mezzi)

Localizzazione interna degli uffici (contiguità, accessibilità, barriere)

Spazi di lavoro: ampiezza, salubrità, gradevolezza, riservatezza e comfort

Servizi: mensa, distributori bevande, infermeria, asilo nido, navette, ecc.

Rispetto dei vicoli ambientali, acquisti ecologici, certificazione ambientale

9. BENESSERE CONTRATTUALE

Chiarezza contrattuale e retributiva

Perequazione contrattuale e retributiva

Copertura assicurativa e previdenziale

Opzionalità contrattuale

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Flessibilità ad personam

Compatibilità internazionale.

Essere esperti di benessere organizzativo, in conclusione, non vuol dire sapersi sostituire ai manager

in tutti i rami della gestione aziendale, ma vuol dire avere la preparazione e gli strumenti per

leggere e analizzare le situazioni contingenti, saper diagnosticare un clima organizzativo, sapersi

orientare nell‟individuare le aree critiche di intervento per migliorare la condizione prestazionale

delle persone, saper pianificare, insieme ai responsabili degli enti e delle aziende, un programma di

sviluppo interno inteso a instaurare quel “ambiente generativo” indispensabile per ottenere una alta

qualità dei risultati.

L‟ambizione di fondo di questo progetto è di liberarsi dal vincolo tayloristico primigenio e che si

arrivi a concepire processi produttivi e amministrativi in cui le componenti strutturali (normative,

organizzazione, lay-out, procedure, strumenti) non siano “pre-stabiliti”, ma, pur nel rispetto dei

vincoli, siano costruiti e implementati in funzione e al servizio delle esigenze di espressione dei

know-how, delle professionalità e delle passionalità delle persone impegnate a operarvi

Carlo Consiglio, consulente senior, docente di Promozione del Benessere presso l’Università di

Genova e al Master in Benessere Organizzativo dell’Università di Firenze.

BIBLIOGRAFIA

- Avallone F., Paplomatas A. (2005), Salute Organizzativa. RaffaelloCortina, Milano.

- Ballabio L., Paronetto D. (2006), Personaleprofessionale. Formare ben-essere e bell-

essere nelle nostre persone e nell'organizzazione, Franco Angeli, Milano.

- D‟Amato A., Majer V. (2005), Il vantaggio del clima. RaffaelloCortina, Milano.

- D‟Imperio G. (2005) La passione per l’emozione: la prossima meta dei manager, in

“Senza passione non c‟è vita”. Ed. Scuola di Palo Alto, Milano.

- Di Nuovo S., Rispoli L., Genta E. (2000), Misurare lo stress. Franco Angeli, Milano.

- Direttiva del Ministro della Funzione Pubblica 24 marzo 2004 “Misure finalizzate al

miglioramento del benessere organizzativo nelle Pubbliche Amministrazioni”.

- Hamel G. (2001), Leader della Rivoluzione. Il Sole24Ore, Milano.

- Mayer V., Marocci G. (2003), Climi Organizzativi. Carocci, Roma.

- Marocci G., Andreoni P. (1997), Sicurezza e Benessere nel Lavoro. Ed. Psicologia, Roma.

- Zani B., Cicognani E. (1999), Le vie del benessere. Carocci, Roma.

- Zapelli G.M., (2005) Esercizi di coraggio. Etas, Milano.

Prevenire il burnout e costruire l‟impegno

Nello studio delle possibili cause del burnout è fondamentale includere l’analisi del contesto

organizzativo nel quale l’individuo opera. La struttura e il funzionamento di questo contesto

sociale plasmano il modo in cui le persone interagiscono tra loro e il modo in cui eseguono il

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loro lavoro. Quando l’ambiente lavorativo non riconosce l’aspetto umano del lavoro, il rischio

di burnout cresce, portando con sé un alto prezzo da pagare.

Nella natura del lavoro stanno avvenendo cambiamenti dirompenti dovuti alla competizione

globale, all’innovazione tecnologica, ai sistemi di controllo più serrati e a una retribuzione

inadeguata. Il contesto organizzativo è continuamente modellato da forze sociali, culturali ed

economiche potenzialmente rischiose. Di conseguenza, le organizzazioni sono messe a dura

prova, forzate ad aumentare la produttività, a riprogettare le gestioni e a resistere allo

sfruttamento opportunistico da parte di altre persone. Le tensioni derivanti da grandi

cambiamenti sociali finiscono spesso col danneggiare le persone, i lavoratori che

interiorizzano tali mutamenti e li trasformano in stress fisico e psicologico.

Così, la tensione scende come una cascata partendo da un contesto politico ed economico,

passando attraverso le politiche regionali, l’organizzazione locale e, infine, si riversa sui

singoli individui.

La realtà è che, nonostante sia l’individuo a fare esperienza di burnout, è la discrepanza tra

persona e lavoro a costituirne la causa principale.

Le nuove proposte teoriche nell’ambito della Psicologia del Lavoro cercano di dare una più

complessa concettualizzazione della persona all’interno del contesto lavorativo.

Maslach e Leiter (1997) hanno elaborato un nuovo modello interpretativo che si focalizza

principalmente sul grado di adattamento/disadattamento tra persona e lavoro. Secondo questi

autori la sindrome del burnout ha maggiori probabilità di svilupparsi quando è presente una

forte discordanza tra la natura del lavoro e la natura delle persone che svolgono tale lavoro.

Queste discrepanze sono da considerarsi come i più importanti antecedenti del burnout e sono

sperimentabili in sei ambiti della vita organizzativa: carico di lavoro, controllo, ricompense,

senso comunitario, equità, valori.

Maslach e Leiter (1997) hanno ridefinito il burnout come una erosione dell’impegno nel

lavoro. Quest’ultimo, secondo gli autori, sarebbe caratterizzato da tre fattori (energia,

coinvolgimento ed efficacia) che rappresentano i poli opposti delle dimensioni del burnout:

impegno e burnout non sono altro che le due estremità opposte di un continuum. L’impegno di

ogni individuo può essere valutato attraverso l’utilizzo dei punteggi opposti (positivi) sulla

scala del MBI.

Oggi il burnout rappresenta un rischio troppo elevato per ogni contesto organizzativo: i costi

economici, la produttività ridotta, i problemi di salute e il generale declino della qualità della

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vita personale o lavorativa (tutte possibili conseguenze di questa sindrome) sono un prezzo

troppo alto da pagare.

E’ dunque consigliabile l’adozione di un approccio preventivo per affrontare il problema

burnout. E’ fondamentale fare un investimento sulle persone per poter contare su lavoratori

ben preparati, leali e dediti, capaci di realizzare un lavoro di qualità. Questo tipo di

investimento deve prendere in considerazione i valori umani presenti nell’ambito dell’attività

lavorativa, cercando così di rafforzare l’organizzazione per una futura sopravvivenza.

Il modo migliore per prevenire il burnout è sicuramente puntare sulla promozione

dell’impegno nel lavoro. Ciò non consiste semplicemente nel ridurre gli aspetti negativi

presenti sul posto di lavoro, ma anche nel tentare di aumentare quelli positivi. Le strategie per

aumentare l’impegno sono quelle che accrescono l’energia, il coinvolgimento e l’efficacia.

Anche l’organizzazione deve mostrare ai suoi dipendenti lo stesso tipo di impegno, rispetto e

interessamento che essa pretende da loro. Il modo migliore per farlo è quello di prendere delle

misure per ridurre le sei possibili discrepanze che si verificano tra le persone e il lavoro. Le sei

aree di vita organizzativa nelle quali emergono queste discordanze rappresentano il contesto

immediato nel quale gli individui si imbattono al lavoro, e all’interno di ciascun area si

trovano i punti di partenza del cammino che dal burnout porta all’impegno. Ogni area infatti,

contiene i fattori di rischio che da un lato, possono causare i problemi relativi al burnout,

dall’altro offrire le soluzioni per un buon adattamento e un valido impegno.

Lo scopo di una buona strategia organizzativa a livello preventivo è quello di creare strutture

e processi gestionali in grado di incrementare l’impegno nel lavoro. Un buon intervento deve

essere inizialmente condotto dalla direzione centrale per poi diventare un vero e proprio

progetto organizzativo che coinvolge tutti i lavoratori.

Un’efficace strategia che voglia prevenire il burnout e promuovere l’impegno deve iniziare

con un’analisi tra il personale (“Organizational Check-up Survey”) sugli aspetti chiave della

vita organizzativa. Questo tipo di analisi permette di valutare il modo in cui

un’organizzazione si occupa delle proprie responsabilità nei confronti dei dipendenti. In altri

termini, rivela in quale misura il posto di lavoro sta promuovendo la loro produttività e il loro

impegno.

Attraverso l’analisi tra il personale si possono valutare i livelli di impegno/burnout tra i

dipendenti, l’estensione della discrepanza lavoro-persona nelle sei aree della vita

organizzativa e il rapporto tra le diverse strutture e procedure gestionali e le sei aree. Tutte le

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informazioni ricavate da questo tipo di analisi potranno essere migliorate per migliorare la

cultura organizzativa.

L’analisi identifica le questioni che hanno maggiori possibilità di influenzare l’impegno del

personale. Il successivo intervento infatti, si dovrà focalizzare su una struttura o prassi

gestionale in grado di influenzare una o più aree nelle quali emergono le discrepanze.

Un intervento organizzativo, condotto a livello preventivo, potrebbe richiedere molto tempo

per l’implementazione e comportare la necessità della collaborazione di più persone, tuttavia

il suo impatto potrebbe risultare molto efficace. Il cambiamento che ne può derivare è

sicuramente di una portata più ampia rispetto a quello di un intervento individuale.

L’organizzazione, focalizzandosi sull’incremento dell’impegno e sulla promozione dei valori

umani, potrà aumentare la capacità di perseguire la propria missione: una sua eventuale

spesa economica per effettuare un intervento preventivo sarà un sicuro investimento per il

futuro.

La gestione delle risorse umane in ambito lavorativo ha assunto negli ultimi anni un ruolo di

fondamentale importanza, tanto da rientrare negli obiettivi primari di qualsiasi azienda.

Nessun ambiente organizzativo può oggi ignorare gli effetti negativi derivanti da una mancata

presa di coscienza di queste problematiche. Gestire le risorse umane e quindi l’attività

professionale richiede impegno costante nel tempo e costi fisici e psichici non sempre

facilmente definiti o definibili. Tuttavia nessuna previsione di budget, in qualunque azienda,

può sostenere il raggiungimento dei propri obiettivi senza considerare le risorse umane.

Le aziende, all’inizio di un progetto preventivo, possono oggi avvalersi di un nuovo

strumento: l’ Organizational Check-up Survey (OCS).

Nel questionario, la prima scala (“Relazione con il lavoro”) valuta l’esperienza di ciascun

individuo sul continuum burnout-impegno. Questo strumento permette di misurare le tre

dimensioni centrali dell’esperienza di una persona con il lavoro: esaurimento-energia,

depersonalizzazione-coinvolgimento e inefficienza-successo/realizzazione. Lo strumento

inoltre, comprende altri item che valutano sia la percezione dei lavoratori rispetto alle sei aree

di vita organizzativa (carico di lavoro, controllo, ricompense, senso di comunità, equità,

valori) sia le strutture e le procedure gestionali corrispondenti (supervisione, comunicazione,

sviluppo delle capacità e coesione del gruppo di lavoro). Inoltre è presente una scala

(cambiamento) per valutare i mutamenti nel contesto organizzativo. Tale complemento

all’MBI è definita come analisi tra il personale ed è considerato un mezzo per progettare e

valutare interventi organizzativi intesi a creare l’impegno nel lavoro.

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Il nuovo questionario è stato indicato da alcuni autori (Maslach e Leiter, 2000) come un efficace

strumento per analizzare i contesti organizzativi e progettare cambiamenti all‟interno di essi. Questo

test infatti, è fonte di numerose informazioni che riguardano il rapporto tra persona lavoro e può

essere preso in considerazione per eventuali interventi e strategie preventive. Attraverso questo test

si potrà approfondire lo studio della sindrome del burnout in relazione agli aspetti specifici

dell‟ambiente di lavoro.

Una recente ricerca, condotta su 203 lavoratori operanti nell’area toscana, ha cercato di

verificare le proprietà psicometriche di questo nuovo strumento. Il lavoro si è concentrato

soprattutto sull’analisi delle undici scale di OCS, escludendo i primi sedici item (“Relazione

con il lavoro”), i quali rappresentano la nuova versione del MBI.

2 Burnout

2.1.Un particolare tipo di risposta allo stress negativo

Freudenberger H. in “ Staff burnout, Journal of social issues” del 1974 introduce il termine

Burnout per indicare una condizione rilevata fra i lavoratori delle professioni d‟aiuto specialmente

socio sanitarie.

Maslach (1982) afferma di essere stata la prima ricercatrice ad occuparsi del burnout nei primi

anni settanta quando ancora non se ne sapeva nulla.

Ella afferma che le ricerche erano inesistenti tanto da dover partire da zero, intervistando la gente

e analizzando le sue risposte.

Quando iniziò ad intravedere uno schema significativo C.Maslach espose le sue idee durante un

convegno nazionale tenuto nell‟agosto del 1973 (convegno della American Psychological

Association a Montreal)

Il termine burnout o meglio ancora burning out inizia a diffondersi negli Stati Uniti alle metà

degli anni 70 in riferimento ad una situazione osservata con frequenza sempre maggiore negli

operatori dei servizi sociali e in generale nelle professioni d‟aiuto (helping profession).

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Si notava che dopo mesi di impegno il personale si brucia, ha un crollo morale e manifesta un

atteggiamento di nervosismo e irrequietezza, oppure di apatia indifferenza e di cinismo nei

confronti del proprio lavoro.

Il termine probabilmente è mutuato dal gergo dell‟atletica,

negli anni trenta questo termine era usato per definire un atleta che dopo una serie di successi si

esaurisce si svuota di ogni energia e tensione emotiva, si brucia (termine usato anche in italiano e

non solo per lo sport) e non riesce a dare più nulla.

Secondo Maslach e Jackson ( 1986) il burnout è una sindrome di esaurimento emotivo, di ridotta

realizzazione personale, di depersonalizzazione che può insorgere in operatori che lavorano a

contatto con la gente.

Maslach e Jakson (1986) definiscono il burnout come una sindrome costituita da :

Esaurimento emotivo

svuotamento risorse emotive

il non avere più niente da offrire a livello psicologico

ridotta realizzazione professionale

percezione propria inadeguatezza al lavoro

caduta di autostima

depersonalizzazione

atteggiamenti negativi di distacco e cinismo e ostilità verso la gente cui si lavora

Nel Burnout si distinguono due fattori:

Fattore organizzativo

organizzazione del lavoro

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tipo di mansione esplicata

conflitti interpersonali e di ruolo

inadeguato riconoscimento delle competenze

esclusione delle funzioni decisionali

scarsa coesione nei gruppi di lavoro

mancanza di feedback

mancanza di sostegno sociale

Caratteristiche personali

debole e remissivo nei confronti degli altri

difficoltà ad identificare i limiti tra coinvolgimento

professionale e personale

difficoltà a controllare impulsi ostili

facilità alla frustrazione

ricerca d‟approvazione

motivazione professionali irrealistiche

competitività aggressività impazienza

…” il burnout – dice Maslach (1986) – può essere considerato come una sindrome caratterizzata

da esaurimento psicoemozionale, da spersonalizzazione e da riduzione delle capacità personali che

può presentarsi nei soggetti che si occupano delle persone” ….. .

Tre sono i sintomi predominanti: fatica, cinismo, inefficienza.

La fatica deriva direttamente dallo stress individuale, il cinismo è la reazione negativa agli altri

e al lavoro, l‟inefficienza nasce dall‟autovalutazione negativa.

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Spesso queste condizioni si presentano assieme, fino a penalizzare chi lavora e renderlo

demotivato nei confronti della sua professione……” la comparsa della sindrome del burnout è

legato probabilmente ai cambiamenti avvenuti nei posti di lavoro sia nel modo in cui si

lavora”…..”Oggi infatti il posto di lavoro viene considerato freddo ostile esigente. Il che porta a

sfinire a livello fisico e spirituale molti operatori”…..(ANSA del 29.05.02 C.Maslach ospite della

Fondazione Gaslini di Genova).

……”Al personale che opera nei servizi socio sanitari e nelle istituzioni educative viene spesso

richiesto di passare un tempo considerevole in intenso coinvolgimento con altre persone.

L’interazione tra operatore e utente è frequentemente centrata su problemi contingenti di

quest’ultimo (problemi di tipo psicologico sociale o fisico) ed è, perciò spesso gravata da

sensazioni d’ansia, imbarazzo, paura o disperazione.

Poiché non sempre la soluzione dei problemi dell’utente è semplice o facilmente ottenibile , la

situazione diventa ancor più ambigua e frustrante.

Per la persona che lavora continuativamente con la gente in circostanze simili, lo stress cronico

può logorare emotivamente e condurre al burnout.

Il burnout è una sindrome di esaurimento emotivo, di depersonalizzazione e di ridotta

realizzazione personale, che può insorgere in coloro che svolgono una qualche attività lavorativa

di aiuto.

Un aspetto chiave di tale sindrome è l’aumento della sensazione di esaurimento emotivo.

Venendo a mancare le risorse emotive, gli operatori sentono di non essere più in grado di dare

se stessi a livello psicologico.

Un altro aspetto della sindrome del burnout è lo sviluppo di depersonalizzazione , cioè di

atteggiamenti e di sentimenti negativi, cinici nei confronti degli utenti.

Questa percezione distaccata o perfino disumanizzata degli altri può indurre gli operatori a

ritenere che l’utente, in un modo o nell’altro, si meriti i problemi che ha (Ryan, 1971). La

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diffusione tra chi è occupato in professioni di questo atteggiamento negativo verso gli utenti è stata

ben documentata (Wills, 1978).

Lo sviluppo di depersonalizzazione appare collegato con l’esperienza di esaurimento emotivo e

questi due aspetti del burnout dovrebbero essere modificati.

Un terzo aspetto delle sindrome di burnout – la riduzione del senso di realizzazione personale –

si riferisce alla tendenza a valutarsi in modo negativo, particolarmente per quanto attiene al

proprio lavoro con le persone.

Gli operatori possono sentirsi scontenti di se stessi e non realizzati nel loro lavoro.

Le conseguenze del burnout sono potenzialmente molto pericolose per il personale, per gli utenti

e per le istituzioni all’interno delle quali essi interagiscono.[…]Inoltre, il burnout, costituisce un

importante fattore nel provocare tra i lavoratori turnover, assenteismo, morale basso.

Il burnout sembra, altresì, associarsi con la presenza di difficoltà personali, che includono

esaurimento fisico insonnia, incremento nell’uso di alcool o farmaci, problemi coniugali o familiari

.La complessiva coerenza dei risultati che emergono da queste ricerche ci ha indotto a postulare

l’esistenza di una sindrome specifica di burnout…..” (C.Maslach, S.Jackson MBI – 1986)

Maslack e Jakcson (ibid) postulando l‟esistenza di una sindrome specifica di burnout , ne hanno

dato una definizione operativa, in modo da evitare che il termine stesso divenisse contenitore di tutti

i tipi di crisi lavorative.

Il burnout è considerabile come un processo multifattoriale costituito dalle tre dimensioni, tra

loro indipendenti esaurimento emotivo, depersonalizzazione e ridotta realizzazione personale..

Dal punto di vista lavorativo lo stress si può quindi configurare come ..”funzione del reciproco

adattamento tra organizzazione e individuo, come equilibrio tra domanda proveniente

dall’ambiente di lavoro e capacità di risposta individuale” (Marocci e Bernabei , in La Rosa 1992)

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2.2 MBI - Maslach Burnout Inventory –

…..” Il MBI è stato costruito per valutare tre aspetti della sindrome di burnout: esaurimento

emotivo, depersonalizzazione e mancanza di realizzazione personale. Ogni aspetto è misurato da

una apposita sottoscala” ….. (Maslach Jakson – 1986-)

1) La sottoscala “esaurimento emotivo” è composta da nove item ed esamina la sensazione di

essere inaridito emotivamente ed esaurito dal proprio lavoro.

2) La sub scala “depersonalizzazione” comprende cinque item che descrivono una risposta

impersonale e fredda nei confronti dei propri utenti.

in entrambe le scale i punteggi più alti corrispondono ad un più elevato livello di burnout

3) La sottoscala “realizzazione personale” contiene otto item che misurano la sensazione

relativa alla propria competenza e al proprio desiderio di successo in un lavoro a contatto

con la gente.

in questa scala punteggi bassi corrispondono ad un alto livello di burnout

◙ I punteggi sono ottenuti tramite una scala Likert così costruita :

QUANTO SPESSO:

0 = mai; 1= qualche volta all‟anno; 2 = una volta al mese, 3 = qualche volta alla settimana; 4 una

volta alla settimana; 5 = qualche volta alla settimana; 6 = ogni giorno

EX:

Quanto spesso affermazione:

0 – 6 Al lavoro mi sento depresso

(Da: Analisi dei servizi socio sanitari – Sirigatti, Stefanile – O.S.)

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Il MBI è un test ad autosomministrazione, l‟esperienza maturata sul campo indica che per

completarlo in media ci vogliono intorno ai cinque/dieci minuti

L‟adattamento italiano è stato eseguito da Sirigatti e Stefanile.(1993)

Da “Aspetti e problemi dell‟adattamento italiano del MBI” – bollettino psic. applicata 1992 –

202 –203 - : …….” La presenza in Italia di Christina Maslach nel 1983 diede l‟avvio ad una serie di

ricerche per la messa a punto della versione italiana del Maslach Burnout Inventory (MBI)

(Stefanile 1984). Sulla base della versione preliminare italiana del MBI – fornita direttamente dalla

Maslach – si condussero alcune indagini esplorative, volte in primo luogo a saggiare la validità di

costrutto dello strumento”….

La versione italiana del MBI derivata dalle ricerche preliminari fu poi somministrata a numerosi

operatori che svolgevano professioni di aiuto in diversi contesti e realtà geografiche italiane.

….”Le indicazioni tratte da questo insieme di ricerche potranno costituire utili elementi per lo

studio dello stress nelle professioni di aiuto e dei suoi correlati, nonché, in termini più specifici,

potranno contribuire ad una più precisa definizione del concetto di burnout e allo sviluppo di

strumenti di misura diversi, per alcuni aspetti, dal MBI” (Stefanile, Sirigatti 1992)

2.3 Ricerche sulla sindrome di burnout

Maslach (1986) invita ad includere il MBI nelle ricerche e nelle valutazioni di interventi nelle

organizzazioni del lavoro al fine di avere una maggiore comprensione delle variabili personali,

sociali e istituzionali che favoriscono o inibiscono il manifestarsi del burnout , in modo da ampliare

le conoscenze al riguardo degli aspetti teorici delle emozioni e dello stress lavorativo.

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2.4 Una nuova frontiera per il burnout.

Maslach e Leiter (1997) nella prefazione del loro libro “The truth about burnout” dicono che

questo libro assume un significato concettualmente diverso da ciò che avrebbero potuto scrivere

anni prima …..” A quel tempo ci saremmo concentrati sui servizi sociali personali e sui servizi

sanitari, per i quali il burnout ha sempre rappresentato un serio problema .Oggi, come risultato dei

cambiamenti sociali ed economici, il burnout si è diffuso maggiormente, divenendo un problema

importante in tante altre professioni; perciò abbiamo allargato la nostra messa a fuoco e la nostra

analisi del fenomeno”…. (Maslach Leiter 1997)

Maslach e Leiter (ibid) nel loro lavoro ci presentano una visione nuova della sindrome di

burnout, visione in parte già anticipata e supposta da Maslach (Maslach 1986) partendo proprio dal

presupposto che il cambiamento repentino e sostanziale nei posti di lavoro e nel modo in cui si

lavora abbia reso il posto di lavoro freddo ostile e soprattutto esigente sia in termini psicologici che

economici. ….. “Le richieste quotidianamente avanzate dal lavoro, dalla famiglia e da tutto il resto

consumano la loro energia e il loro entusiasmo. La gioia del successo e il brivido della conquista

sono sempre più difficili da ottenere. La dedizione e l’impegno nei riguardi del lavoro si stanno

affievolendo, mentre molte persone stanno diventando ciniche, si tengono a distanza e cercano di

non farsi coinvolgere troppo….” (Maslach Leiter 1997)

Va detto che il modello di riferimento di Maslach e Leiter è il mondo del lavoro degli Stati Uniti

d‟America dove il ritmo frenetico e la ultra flessibilità delle risorse umane in qualsiasi campo

della vita lavorativa rappresentano uno dei dogmi neoliberisti più diffusi.

Gli autori quindi nel loro lavoro fanno riferimento a situazioni lavorative estreme rispetto al

contesto di tutele sindacali e ammortizzatori sociali presenti in Europa e in particolare nel nostro

paese.

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In un‟economia globale anche le organizzazioni del lavoro risentono pesantemente dei modelli

d‟oltreoceano, fosse solo per la necessità di far fronte alle continue sfide dei mercati. Sfide che

spesso si tramutano nella stessa sopravvivenza delle aziende.

L‟accelerazione delle dinamiche lavorative, la compressione dei costi da parte delle aziende e

non ultima la riduzione della forza lavoro impiegata in carichi di lavoro sempre maggiori e

asfissianti fa si che nel nostro paese inizia ad esserci una certa comunanza con quel modello

d‟oltreoceano descritto da Maslach e Leiter (ibid).

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53

3 Le sei discrepanze fra persone e lavoro

3.1. Come cambia il posto di lavoro

Maslach e Leitier (ibid) postulano che la struttura sociale moderna derivi nei posti lavori una

condizione di cambiamento radicale del posto di lavoro stesso.

Per Maslach e Leitier le organizzazioni stanno trasformando la struttura del loro valore. I guadagni

prodotti sono convertiti in rendimenti azionari a breve termine, il denaro ottenuto alimenta il passo

frenetico delle fusioni e delle acquisizioni a livello internazionale. La priorità di queste

organizzazioni è quella assoluta di produrre flusso di cassa in modo da coprire i loro debiti,

tralasciando la qualità dei loro prodotti e di conseguenza mettendo in secondo ordine l‟asset

primario delle proprie risorse cioè i loro dipendenti.

Si assiste quindi ad una dominanza delle questione finanziaria a discapito degli interessi delle

risorse umane che generano la produzione dei bene o dei servizi.

Le organizzazioni pretendono il sacrificio dai loro dipendenti esclusivamente a vantaggio

dell‟organizzazione stessa senza ridistribuire la ricchezza sia in senso di ricompense tangibili

(salariali) che in termini di accrescimento umano e professionale (formazione e migliori condizioni

organizzative)

Per le organizzazioni orientate al profitto: …..”I valori che definiscono la qualità della vita

organizzativa non sono quelli di un gruppo di lavoro coeso che si impegna per fornire prodotti o

servizi eccellenti, ma sono quelli di una gestione esclusivamente orientata al risultato economico

finale in una realtà che ha un disperato bisogno di flusso di cassa. …(Maslach Leiter 1997)

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54

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General Survey: An Internet Study. Anxiet y, Stress and Coping: An International Journal, 15(3),

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Maslach, C. e Leiter, MP. (2000). Burnout e organizzazione. Modificare i fattori strutturali della

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Engagement in university students: Across national study. Journal of Cross Cultural Psychology,

33(5), 464-481.

.

FOCUS GROUP1

Di Emanuela Chemolli, Phd

«Il focus group può essere definito come una tecnica di rilevazione per la ricerca sociale basata

sulla discussione tra un piccolo gruppo di persone, alla presenza di uno o più moderatori,

focalizzata su un argomento che si vuole indagare in profondità.»

Da questa affermazione si può dedurre che gli elementi fondamentali della tecnica del focus group,

sono:

1 La tecnica oggi nota con il nome di «focus group» risale agli anni ’40. Dimenticato per decenni nella ricerca

scientifica-sociale, oggi è stato recuperato in molti settori.

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o il gruppo come fonte di informazione;

o l‟interazione tra i partecipanti;

o la focalizzazione su uno specifico argomento;

o l‟interesse ad uno studio in profondità;

o la presenza di uno o più moderatori.

Nel focus group la ricchezza di informazioni prodotta deriva:

o da un confronto di tipo cognitivo;

o da una interazione interpersonale;

o da una creazione di un‟atmosfera confidenziale tale da favorire l‟espressione di opinioni e

sentimenti.

La rilevazione non è basata sulle risposte dei singoli partecipanti alle domande del moderatore2-

come, invece, in una intervista in profondità – bensì sulla loro interazione.

La caratteristica peculiare del focus group è l‟interazione tra i partecipanti, quindi grazie a questa

tecnica si recupera la dimensione relazionale nella formazione delle opinioni.

L‟unità d‟analisi, quindi, è sempre il gruppo nel suo complesso, e NON il singolo partecipante.

La specificità rende difficile la comparabilità dei risultati persino di una stessa serie di focus group

ed è del tutto illecita la loro generalizzazione al di là della particolare situazione da cui sono emersi.

Il focus group permette di individuare la gamma delle possibili posizioni su una determinata

questione, ma non consente di conoscere la loro distribuzione nella popolazione.

Ma l‟obiettivo in questa ricerca dell‟utilizzo del focus group non è la generalizzazione (svolta, per

altro, nella prima parte della ricerca), ma la comprensione.

Per molto tempo il focus group è stato utilizzato quasi esclusivamente nella fase preliminare della

ricerca, allo scopo di raccogliere informazioni utili alla stesura del disegno. Spesso i focus group

sono utilizzati per la costruzione dello strumento da adottare successivamente. Talvolta vengono

condotti anche quando una prima stesura dello strumento è già pronta, per effettuare il pre-test.

«I focus group si sono rivelati utili anche nella fasi conclusive della ricerca, in sede di

interpretazione di risultati emersi dall‟applicazione di altre tecniche e strumenti, soprattutto nel caso

di relazioni inaspettate tra variabili. In questo modo, il punto di vista di gruppi di persone con le

stesse caratteristiche del campione coinvolto integra quello del ricercatore (Dawson et al. 1992;

Frey e Fontana, 1993; Krueger, 1994; Morgan, 1988).»3

Obiettivo del focus group potrebbe essere quello di sottoporre ai partecipanti un prodotto, un

documento o un questionario, per avere le loro reazioni o per raccogliere le loro opinioni in merito.

Gli scopi del focus group in fase di valutazione dei risultati raggiunti possono essere:

o verificare se l‟interpretazione dei dati effettuata dal ricercatore trovi conferma presso la

popolazione oggetto d‟indagine;

o capire il significato dei risultati;

o stabilire se l‟indagine sia stata esaustiva;

o identificare i punti critici dello strumento approntato;

o stabilire quali siano le conseguenze o le conclusioni che si possono trarre dai risultati dal

punto di vista delle azioni da intraprendere;

o stabilire quali possano essere le reazioni della popolazione target alle azioni programmate a

partire dai dati raccolti.

Questi sono solo dei punti su cui riflettere; un elenco non esaurisce la gamma delle possibili

applicazioni di questa tecnica in questa fase precisa.

2 Moderatore: non è un intervistatore, ma una persona che modera una discussione. 3 Corrao S. (1999), Il focus group: una tecnica di rilevazione da riscoprire, in «Sociologia e ricerca sociale».

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L‟uso di due tecniche, come questionario e focus group, nello stesso piano di ricerca permette di

mirare sia alla generalizzazione dei risultati sia all‟approfondimento.

Krueger suggerisce alcune domande di fondo da porsi ogni qualvolta si decida di svolgere i focus

group:

o Quali sono le ragioni per cui si è deciso di procedere allo studio?

o Quali sono le informazioni importanti che si vogliono ottenere?

o Chi dovrà usare le informazioni? Chi vuole le informazioni?

o Come dovranno essere usate le informazioni?

CAMPIONAMENTO FOCUS GROUP

Per la selezione dei partecipanti si ricorre a campionamenti non probabilistici, detti anche «a scelta

ragionata», perché:

i risultati non sono generalizzabili;

c‟è un‟autoselezione dei partecipanti;

le opinioni sono strettamente legate al contesto in cui sono state espresse. [Stewart e

Shamdasani, 1990].

La scelta delle persone da inserire nel campione deve essere guidata dagli obiettivi di ricerca; perciò

il gruppo di ricerca dovrebbe decidere quali caratteristiche debbano possedere i partecipanti perché

possano fornire le informazioni desiderate.

PARTECIPANTI: attenzione alla modalità di contatto, il tipo di incentivo offerto, il luogo in cui si

effettuano i focus group.

Nella lettera di partecipazione verranno indicati:

scopi e argomenti dell‟incontro;

data, luogo, ora prevista;

attestato di frequenza.

VALUTAZIONE: i dati del focus group sono validi quando soddisfano l‟obiettivo della ricerca.

Ci sono tre momenti chiave nella valutazione della qualità dei dati ottenuti attraverso i focus:

a. a priori: rispettati i criteri che sono alla base dell‟organizzazione di un focus group;

b. in-progress: monitoraggio dell‟andamento del focus group;

c. ex-post: adeguatezza delle interpretazioni rispetto ai dati raccolti, raggiungimento degli

obiettivi informativi iniziali, verifica della completezza delle informazioni raccolte.

APPROFONDIMENTO SU LA VALUTAZIONE STRESS LAVORO CORRELATO AI SENSI

DEL T.U. 81/08

Un approccio quali-quantitativo alla valutazione dello stress lavoro-correlato e del burnout

nel settore ospedaliero

Alessandro Gattai

1 Introduzione

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Scegliere un approccio quantitativo e qualitativo al contempo per la diagnosi di una

organizzazione lavorativa, è da ritenersi una metodologia da perseguire tutte le volte che ne venga

data l‟opportunità al ricercatore od al consulente. È opportuno infatti confrontarsi con il

committente, affinchè si realizzino condizioni adatte per poter trattare sia dati qualitativi che

quantitativi.

Oltre al dibattito metodologico fra teorie esterne al contesto studiato (etiche) e teorie interne ad

esso (emiche) (Pike, 1966), l‟esperienza sul campo porta a confrontarsi sul fatto che possa risultare

di maggiore utilità adottare strategie multiple e diversificate, al fine di poter avere la migliore

“fotografia” possibile della realtà oggetto di investigazione.

All‟interno della consulenza per lo Stress Lavoro Correlato, in particolare in ambito sanitario si

è cercato di misurare i sentimenti, le percezioni, le aspettative, gli atteggiamenti, le speranze e le

paure dei soggetti che la compongono.

L‟organizzazione è un sistema socio-tecnico dove convivono aspetti soft e aspetti hard, lavoro e

tecnologia, persone e know how, sistemi e mondi vitali. Accanto all‟organizzazione definita

dall‟autorità o dalle tecnologie operanti che stabiliscono strutture, procedure, sistemi di

coordinamento/controllo e dividono il lavoro individuando ruoli e mansioni, si muove tutto un

contesto latente costituito da comportamenti, usi, attese, motivazioni delle persone. È ipotizzabile

che possa esistere accanto all‟organizzazione tecnico/formale, un‟organizzazione delle persone che

nasce da fenomeni come le attese, le percezioni, le relazioni e la quotidianità.

Il punto di vista teorico, seguito per la progettazione della parte qualitativa del lavoro, è stato di

tipo costruttivista4 (Kelly, 1955). Da questa prospettiva, per comprendere l‟organizzazione è

4 Kelly fonda e sviluppa la sua concezione della personalità sull‟idea che il soggetto “costruisca” gli eventi della realtà.

Da ciò discendono articolate elaborazioni concettuali (i corollari) attraverso le quali vengono chiarite le diverse

specificazioni e i diversi significati del rapporto individuo - ambiente.

A tale proposito Kelly enfatizza la capacità creativa dell‟essere vivente di rappresentarsi l‟ambiente, anziché rispondere

semplicemente ad esso. È infatti in virtù di tale facoltà di rappresentarsi il proprio ambiente che l‟individuo può anche

modificarlo, costruirlo e adattarlo alle proprie esigenze. La teoria dei costrutti personali è perciò una teoria dei modi in

cui una persona perviene a rappresentarsi, a interpretare, a prevedere i vari eventi e, di conseguenza, a fondare su tali

rappresentazioni, interpretazioni e previsioni la propria condotta ed il proprio rapporto con il mondo.

Con la nozione di costrutto, Kelly si riferisce appunto agli schemi o alle lenti che l‟individuo crea per conoscere gli

eventi. Come ha sostenuto Landfield (1971) il costrutto è un unità centrale del significato ed è definito dai contrastanti

modi di comprendere e organizzare gli eventi della vita che l‟individuo usa per cercare di dare un senso alla propr ia

esperienza.

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necessario partire dal comportamento degli individui, dalle loro credenze e motivazioni e dalle loro

interazioni: il mondo organizzativo è considerato una realtà co-costruita e negoziata dagli attori che

ne fanno parte e la sua realtà è ritenuta consistere nel sistema di assunti e significati condivisi

intersoggettivamente (Avallone & Farnese, 2005).

L‟approccio metodologico seguito è stato di ispirazione etnografica. L‟etnografia si muove dal

presupposto che le interpretazioni date dagli attori guidino in modo sostanziale la loro azione.

Questo non significa ritenere che le interpretazioni siano in grado di spiegare completamente i

comportamenti messi in atto, ma che invece possano chiarire quel è il quadro di riferimento entro il

quale l‟azione si situa e il modo in cui le azioni delle persone saranno comprese od otterranno

risposta. L‟insieme di queste interpretazioni e il modo in cui costantemente si rafforzano o sono

negoziate nell‟interazione costituiscono la cultura.

Nella discussione di questo capitolo, si intende riportare un‟esperienza diretta effettuata in due

reparti ospedalieri di un ospedale del centro Italia. L‟intervento si è distinto in due fasi: la prima

caratterizzata da gruppi di discussione con i lavoratori, la seconda dalla somministrazione del

Maslach Burnuot Inventory (Maslach & Jackson, 1986).

2.1 L’incontro fra le persone e le istituzioni sanitarie

La qualità della vita è da considerarsi un diritto fondamentale di tutti gli individui (Farr &

Markova, 1995) e per garantirla è necessario che l‟individuo goda anche di un buon stato di salute.

Secondo la definizione dell‟O.M.S. la salute è “uno stato di benessere fisico, mentale e sociale e

non la semplice assenza di malattia o infermità, è un diritto umano fondamentale” 5

. Sempre

secondo l‟O.M.S. nella Carta di Ottawa (1986) 6

per la promozione della salute e del benessere

riporta che:

“le società contemporanee sono complesse e interdipendenti, la salute non può essere un

obiettivo isolato […]. Il principio guida generale per il mondo intero, per le nazioni, le regioni o le

comunità deve essere sempre il sostegno reciproco; dobbiamo avere cura gli uni degli altri della

nostra comunità, del nostro ambiente naturale”.

La qualità dei servizi offerti alla persona è determinata da sistemi e servizi di cura (Care Health

System) che operano al fine di prevenire malattie e promuovere la salute di tutti i cittadini. Il

5 Conferenza Internazionale sull‟Assistenza Sanitaria Primaria, Alma Alta, URSS, 6-12 settembre 1978.

6 1° Conferenza Internazionale sulla promozione della salute 17-21 novembre 1986, Ottawa, Ontario, Canada

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rapporto che esiste tra gli utenti del servizio e tra le istituzioni viene poi mediato dal rapporto

operatore sanitario-paziente. Per cui sempre maggiori studi vengono effettuati per cercare di

comprendere quale siano le variabili migliori per ottimizzare tale rapporto.

Per comprendere la qualità della relazione tra l‟operatore e il paziente è opportuno fare

riferimento al livello di soddisfazione da quest‟ultimo manifestata. La soddisfazione del paziente

relativamente alle cure ricevute deriva a sua volta dal tipo di comunicazione che si instaura con

l‟operatore e dalla sua capacità di risposta (Bowers, Swan & Koehler 1994).

Le resistenze che il paziente ha nei confronti dei servizi sanitari/ospedalieri sono dovute alla

paura di ricevere una diagnosi sfavorevole, al timore di svolgere esami dolorosi o alla

preoccupazione di dover instaurare un rapporto intimo con una persona che si trova ad una livello

superiore rispetto ad esso. Infatti l‟asimmetria che caratterizza il rapporto tra operatore e paziente

può essere fonte di stress. Tale asimmetria è relativa a un‟ineguaglianza del rapporto di potere e/o a

una differenza di compiti tra i due soggetti. C‟è quindi una persona che pone un quesito ed un‟altra

che invece dà una risposta e fornisce il proprio aiuto; come suggerisce Chiland (1995) l‟incontro tra

professionista e paziente è caratterizzato proprio dall‟incontro tra una domanda e un‟offerta.

Gli studi di Ratanawongsa, Wright, e Carrese (2008), indicano che bassi livelli di benessere

degli operatori influenzano i rapporti con i pazienti, le interazioni con i colleghi e le prestazioni

sanitarie che vengono offerte. Questo studio conferma, come già mostrato in altre ricerche (Papp et

al., 2004), che esiste una correlazione positiva tra il benessere dei lavoratori e la loro percezione

circa la qualità delle cure che offrono ai pazienti, e la loro soddisfazione di carriera. Il benessere

inciderebbe quindi sulle capacità di cura, sulle capacità comunicative e sulla professionalità degli

operatori.

3 Stress e Burnout

Lo stress è un tipico fenomeno organizzativo che deriva da un‟eccessiva richiesta dell‟ambiente

nei confronti del lavoratore. Questa valutazione eccessiva dipenderebbe dalla percezione

dell‟individuo più che dalla situazione oggettiva.

La gestione delle risorse umane ha assunto un‟importanza fondamentale nell‟ambito lavorativo.

È infatti provato che l‟assetto emotivo del personale influenzi l‟efficacia lavorativa e la funzionalità

di un‟impresa (Maslach & Leiter 2000). Sempre maggiore è quindi la necessità di prevenire

qualsiasi forma di stress sul lavoro, compresa la sindrome di burnout.

Gli studi su questo fenomeno negli ultimi anni hanno assunto sempre maggiore rilevanza a

causa della scarsità del numero di infermieri i quali dovrebbero mantenersi sempre qualificati nello

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svolgere i ruoli di assistenza clinica e non dovrebbero mai essere soggetti a sindromi di questo tipo

(Aiken, L.H., Buchan, J., Sochalski, J., Nichols, B. & Powell, M., 2004). I dati di alcune ricerche,

confermano infatti che sempre meno giovani scelgono di svolgere la professione infermieristica

(Booth, 2002).

Un altro motivo per cui il burnout ha assunto fondamentale importanza è relativo alla sua

associazione con l‟insoddisfazione dei pazienti e con altre misure di qualità del servizio, così come

hanno mostrato alcuni studi (Vahey, D.C., Aiken, L.H., Sloane, D.M., Clarke, S.P. & Vargas, D.,

2004). Lo stress sviluppato sul lavoro risulta anche essere connesso allo sviluppo di problemi di

salute nei dipendenti (Gray, 2000).

Il termine burn-out letteralmente significa “bruciato”, “esaurito”, “scoppiato”, “cortocircuitato”

(Contessa, 1987) e deriva dal gergo sportivo: negli anni Trenta veniva utilizzato per indicare la

condizione di quegli atleti che, dopo un periodo di successi, improvvisamente vanno in crisi e non

riescono a dare più nulla dal punto di vista agonistico. Analogamente, gli operatori sociali in

burnout non riescono a dare più nulla dal punto di vista relazionale (Rossati & Magro, 1999). Il

burnout si distingue dallo stress, il quale può essere una concausa del burnout; ed essendo un

disturbo del ruolo lavorativo e non della personalità si distingue anche da altre forme di nevrosi.

Lo stress entra a determinare il burnout ma non coincide con esso, piuttosto il burnout ne

costituisce un esito possibile in presenza di determinate condizioni (Trombini 1994; Del Rio,

1990). Il burnout è il risultato non tanto dello stress in se, ma dello stress non mediato, dell‟essere

stressati senza via d‟uscita, senza elementi di moderazione senza sistema di sostegno (Farber,

1983).

Stress e burnout non si identificano, emerge piuttosto l‟idea che i sintomi del burnout

compaiono dopo un certo periodo di esposizione a condizioni stressanti, come conclusione di un

percorso segnato da tensione e affaticamento. Esiste quindi un susseguirsi di fasi diverse che

conduce al burnout (Trombini, 1994; Del Rio, 2000).

Secondo Maslach e Jackson (1986) il burnout è una sindrome di esaurimento emotivo, di ridotta

realizzazione personale, di depersonalizzazione che può insorgere in operatori che lavorano a

contatto con la gente e definiscono il burnout come una sindrome costituita da esaurimento emotivo

(svuotamento risorse emotive, il non avere più niente da offrire a livello psicologico), ridotta

realizzazione personale (percezione propria inadeguatezza al lavoro), depersonalizzazione

(atteggiamenti negativi di distacco e cinismo verso la gente con cui si lavora).

Freudenberger (1974) introduce il termine burnout per indicare una condizione rilevata fra i

lavoratori delle professioni d‟aiuto specialmente socio sanitarie.

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Maslach (1982) afferma di essere stata la prima ricercatrice ad occuparsi del burnout nei primi

anni settanta quando ancora non se ne sapeva nulla; le ricerche erano inesistenti tanto da dover

partire da zero, intervistando la gente e analizzando le sue risposte.

Quando iniziò ad intravedere uno schema significativo Christine Maslach espose le sue idee

durante il convegno della American Psychological Association a Montreal nell‟agosto del 1973.

Dal punto di vista lavorativo il burnout si può quindi configurare come funzione del

reciproco adattamento tra organizzazione e individuo, come equilibrio tra domanda proveniente

dall‟ambiente di lavoro e capacità di risposta individuale (Maslach & Leiter, 2000).

Alcuni ricercatori ritengono invece che il burnout abbia una struttura a due fattori costituita

soltanto da esaurimento emotivo e depersonalizzazione (Kalliath, T. J., Gillespi, D. F., O‟Driscoll,

M. P. & Bluedorn, A.C., 2000). Altri ancora hanno suggerito che sia addirittura un fenomeno

unidimensionale (Brenninkmeijer & VanYperen, 2003; Halbesleben & Buckley, 2004).

Nonostante i vari punti di vista, la definizione proposta da Maslach e Jackson (1981) viene

ritenuta un punto di riferimento per gli studiosi di questo fenomeno.

Viene messo a punto da Maslach e Jackson il Maslach Burnout Inventory (1986) strumento

prevalentemente rivolto a operatori socio sanitari e educatori sociali, adattato nella versione italiana

da Sirigatti e Stefanile nel 1993.

Le sindromi da stress come il burnout che derivano dal lavoro possono essere meglio

fronteggiato se si dispone di una buona rete di rapporti sociali (House & Wells, 1978;

Yancik,1984), comprese buone relazioni con i supervisori (Constable & Russell, 1986; Fawzy,

Wellisch, Pasnau & Leibowitz, 1983).

Essere sotto esaurimento e cinismo in maniera cronica corrode con la credenza dei soggetti nella

loro capacità di poter aver influenza sul loro lavoro. Queste tre esperienze interdipendenti formano

la sindrome del burnout (Leiter, 2008).

Limitatamente la definizione dell‟exhaustion come aspetto del burnout, incoraggia

un‟attenzione esclusiva sui diversi impatti del carico di lavoro e della mancanza di energia. Questa

relazione è centrale per lo stress lavorativo e per le ricerche sul burnout. I lavoratori hanno una

limitata capacità di dedicare l‟energia alle richieste lavorative. Eventualmente essi proveranno fatica

nel momento in cui incontreranno eccessive richieste avendo poco tempo per soddisfarle. Benchè

questa dinamica sia un importante parte del processo del burnout, non è l‟unico che concorre a

definirlo.

Il burnout è un argomento di interesse primario per i professionisti delle relazioni d‟aiuto in

settori quali i servizi sociali, l‟assistenza sanitaria e l‟istruzione. Secondo l‟attuale terminologia

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(Maslach, Leiter, 1999, 2000; 2008), queste professioni sono considerate high touch (a contatto

continuo), ed implicano, cioè, numerosi contatti diretti con persone in difficoltà. Queste professioni

possono esigere a tal punto, sia emotivamente che fisicamente, da comportare un rischio elevato di

burnout. La dedizione che tali professioni richiedono, le lunghe giornate lavorative e l‟eccessivo

carico di lavoro sono spossanti, come le sono anche i potenziali conflitti che si creano con clienti,

pazienti, studenti, colleghi o supervisori. Il focus originale del burnout era infatti centrato sulle

professioni dedicate al servizio di aiuto verso gli altri (Freudenberger, 1974; Maslach &

Jackson,1981).

La sua importanza è stata non solo che la gente si sentiva esausta dal troppo lavoro, ma che

aveva perso la capacità di coinvolgimento nel loro lavoro, non avendo più a cuore i loro destinatari

dei servizi. Inoltre, la perdita del senso di realizzazione nel lavoro, porta a ritenere di non dare più

un contributo significativo attraverso il proprio lavoro.

Con l‟ampliamento della sindrome del burnout al di là dei servizi rivolti alla persona, la

relazione che le persone instaurano con il proprio lavoro rappresenta un continuum di cui il burnout

costituisce il polo negativo che presenta le seguenti caratteristiche: Esaurimento (stress individuale);

Disaffezione negativa (reazione negativa agli altri e al lavoro); Inefficacia professionale

(valutazione negativa di se stessi). Al polo positivo si colloca l‟impegno nel lavoro, una condizione

positiva caratterizzata dalle tre dimensioni Energia, Coinvolgimento e Efficacia professionale. Le

strategie per promuovere l‟impegno possono essere fondamentali, allo stesso tempo, sia per la

prevenzione, che per la riduzione del rischio di burnout (Maslach & Leiter, 2000).

Il continuum burnout-impegno si focalizza sulla sintonia, o integrazione, tra il lavoratore e il

suo ambiente lavorativo. Più elevata è la sintonia, maggiore è la probabilità che ci sia impegno; al

contrario, maggiore è la discrepanza, più grande è la probabilità di andare incontro al burnout.

L‟ampliamento del costrutto ha portato alla realizzazione del Maslach Burnout Inventory-

General Survey (Schaufeli, Leiter, Maslach, Jackson, 1996), che è stato adattato anche nella

versione italiana (Borgogni, Galati, Petitta, & Centro Formazione Schweitzer, 2005).

Da questo punto di vista, il carico di lavoro e l‟esaurimento sono un unico processo da

considerare con il burnout.

Il Job Demand/Resources (JD/R), come modello di burnout (Bakker, Demerouti, &

Schaufeli, 2002; Bakker, Demerouti, & Verbeke, 2004), considera come lo squilibrio, fra le

richieste fatte e le risorse a disposizione del lavoratore, possa contenere le informazioni più rilevanti

da prendere in considerazione, per determinare il livello di burnout. Effettivamente in questo

modello si considera in modo particolare come le richieste provenienti dal posto di lavoro siano gli

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antecedenti più importanti della componente energia/esaurimento a disposizione dell‟individuo. Il

modello comprende largamente le qualità relative della vita lavorativa, ma considerandole soltanto

come risorse, trascura le loro implicazioni per la partecipazione e l‟efficacia.

Una prospettiva completa sul contesto organizzativo del burnout considera pure la

congruenza dei valori (Leiter & Maslach, 2004, 2009; Maslach & Leiter, 2000).

Leiter (2008) ritiene centrale, come processo, il fatto che i dipendenti nel monitorare la

congruenza dei loro valori personali con quelli dell‟organizzazione possono trovare delle

dispercezioni. I loro giudizi di congruenza sono un fattore determinante nella loro rapporto

psicologico con il lavoro. Congruenza dell‟esperienze personali e dei valori organizzativi come

conferma per i lavoratori della loro rilevanza per l‟organizzazione. Congruenza che assicura le

persone che lavorano, le quali sono ben posizionate per perseguire ciò che è veramente importante

nella loro carriera.

L‟individuo solitario ha solo un impatto modesto in un mondo post-lavoro industrializzato.

Persone che lavorano in una organizzazione con i valori congruenti sono motivati a perseguire gli

obiettivi condivisi e sono rassicurati sul fatto che essi possiedono l‟efficacia per il raggiungimento

di tali obiettivi.

Al contrario, l‟esperienza di conflitti di valore, con un datore di lavoro può essere

l‟occasione per una crisi di carriera. Quando sono in conflitto, perseguendo i valori personali il

rischio riguarda la natura del lavoro (Leiter, 2008; Maslach & Leiter 2006).

Laschinger & Finegan, 2005; Verplanken, 2004; hanno trovato correlazioni di forte

incongruenza tra i valori ed il burnout.

Un ampio studio svedese ha trovato che il rapporto tra valore e congruenza nel burnout

risulta essere evidente all‟interno una vasta gamma di occupazioni in tutto il paese (Lindblom,

Linton, Fedeli, & Bryngelsson, 2006).

Alla luce di queste considerazioni, si prevede che l‟incongruità abbia valore nelle

implicazioni per tutti e tre gli aspetti del burnout. In primo luogo, i conflitti con l‟organizzazione o

con responsabili all‟interno dell‟organizzazione stessa esaurisca l‟energia dei lavoratori.

Sia la tensione del conflitto e la futilità del talento sprecato sono estenuanti. In secondo

luogo, i conflitti di valore diminuiscono il coinvolgimento dei lavoratori nel loro lavoro.

Terzo, perdono il loro senso di efficacia e di realizzazione in quanto dedicano il loro tempo e

il loro talento per le attività di poca importanza personale. L‟impatto combinato di congruenza e

valore costituisce un processo fondamentale nello sviluppo del burnout.

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4 La valutazione dello stress lavoro correlato: i gruppi di discussione

Alla luce della circolare del Ministero del lavoro e delle Poliche Sociali, redatta dalla

Direzione Generale della tutela delle condizioni di lavoro7, viene fatto espresso riferimento al caso

in cui vi sia la necessità di dover ricorrere ad una valutazione approfondita del rischio stress lavoro

correlato, utilizzando diversi strumenti, quali questionari, focus group, interviste semistrutturate.

Al di là della valutazione complessiva nel merito della circolare medesima, che sembrerebbe

dare un‟interpretazione non proprio congruente con lo spirito della legge, ed in particolare con

l‟accordo dell‟8 Ottobre 2004, espressamente citato nell‟Art. 28 del T.U.; riteniamo importante

porre in risalto come anche in sede di commissione sia stata data rilevanza all‟uso sia di strumenti

quantitativi (questionari), che qualitativi (focus group, interviste semistrutturate).

Nel presentare l‟utilizzo della tecnica del focus group in ambito della valutazione dello

Stress Lavoro Correlato, possiamo considerare essere importante, nella conduzione di un gruppo di

discussione, il modo e lo stile di conduzione del professionista; sia che si tratti di un gruppo di

discussione, di formazione o di psicoterapia.

Per stile e modo di conduzione non si faccia confusione con quanto il conduttore sia

percepito positivamente o negativamente dai membri del gruppo, ma di quanto esso stesso sia

congruente ed empatico nei confronti del gruppo; della propria abilità ad essere centrato nello

schema di riferimento di ogni partecipante del gruppo, rendendo circolare la comunicazione,

cercando di non perdere e quindi di osservare i predicati non verbali dei partecipanti.

Non si sottolineerà mai abbastanza l‟importanza di aiutare il gruppo ad avere fiducia nella propria

capacità di analisi. Questo fa parte dello stesso processo che comprende la riduzione della

dipendenza dal facilitatore.

Un altro aspetto è relativo al fatto che l‟influenza e l‟attività devono essere condivise. Le incertezze

nella fase formativa della vita di gruppo lasciano spazio all‟influenza ed all‟iniziativa nella struttura

informale del gruppo stesso. Si manifesta, quindi, una forte tendenza a lasciare la direzione

informale ai partecipanti aggressivi, autoritari o forse eccessivamente attivi, considerati “l‟anima

della compagnia”. Così facendo si facilita certamente l‟avvio del gruppo, ma si provoca anche

l‟effetto indesiderabile di inibire i partecipanti meno sicuri e di stabilire una gerarchia di gruppo.

Questa situazione è tanto difficile da cambiare quanto efficace nel limitare l‟apertura, l‟accettazione

e la libertà del gruppo.

7 Ministero del lavoro e delle Politiche Sociali, Roma 18.11.2010, Prot.15/SEGR/0023692

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Per questo motivo il facilitatore deve dimostrare continuamente, il suo rispetto e la sua

considerazione per tutti gli interventi, specialmente quelli dei membri che vengono messi in disparte

o che trovano difficoltà ad esprimersi.

Talvolta è necessario reagire in modo alquanto diverso agli interventi dei membri, a seconda che

questi si dimostrino subito attivi o passivi. Non è necessario concentrare il processo di gruppo sui

primi, la loro attività continuerà.

Se i partecipanti schivi, però, non vengono facilitati, possono accettare di essere messi in disparte

per tutta la durata del gruppo; ed il loro contributo potenziale andrà perduto.

E‟ utile iniziare ogni gruppo con una precisa presentazione del conduttore, chi è e perché è

lì, non tralasciando la citazione dell‟Art. 28 del T.U. 81/08, e facendo riferimento all‟accordo

dell‟8.10.2004; rassicurando i partecipanti sulla tutela della privacy rispetto al colloquio che si

appresteranno a fare, dichiarare il numero di appartenenza all‟ordine degli psicologi, come ulteriore

garanzia della propria professionalità, cercando da subito di instaurare un contratto psicologico

(Anderson, Schalk 1998) con i presenti, in base alle percezioni circa l‟esito di questo scambio,

l‟individuo deciderà fino a che punto si sente membro e quanto desidera impegnarsi, coinvolgersi,

farsi carico della propria parte.

Il passo successivo consiste nell‟informare i partecipanti che durante la discussione si

prenderanno appunti sul nostro taccuino personale, in modo da poter aver migliore memoria della

discussione che ci appresteremo a fare, segnalando, inoltre al gruppo, che l‟optimum sarebbe quello

di poter registrare tramite supporto digitale il colloquio, spiegando che non ce ne avvaleremo al fine

di garantire la loro privacy.

Le domande stimolo usate appartengono ad una check list, che per necessità di

standardizzazione sono uguali in tutti i gruppi.

Le domande stimolo usate, pur se a volte presentate in ordine diverso, a seconda di come si

sviluppa la discussione, sono categorizzabile in 4 aree: apertura al gruppo, analisi dei punti di forza

e debolezza percepiti nella proprio organizzazione del lavoro, percezione del futuro rispetto

all‟organizzazione di appartenenza, senso di fiducia nell‟organizzazione.

La prima domanda da porre, può essere meglio definita come uno stimolo per facilitare

l‟apertura del gruppo, come prima cosa sarebbe opportuno rivolgersi ai partecipanti chiedendo:

“Come state? Come va?” Tecnicamente si chiama “Warming up” o riscaldamento del gruppo,

generalmente, salvo esigenze di tempo dettate da necessità organizzative (limite di tempo per la

conduzione, imposto dalla direzione del personale) la domanda è rivolta in modo gruppale e non

direttivo.

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Più in generale sarebbe preferibile non effettuare un giro di tavolo, ma dirigersi verso ogni

partecipante, lasciando che le persone si attivino secondo i propri tempi, dando quindi modo ai

membri del gruppo di sentirsi maggiormente a proprio agio nel “qui ed ora”.

Può succedere a volte di incontrare gruppi molto asettici o demotivati, in questo caso per

non rimanere troppo nel silenzio ed evitare imbarazzi, si rivolge la domanda ad un partecipante

precisando che la stessa verrà rivolta a tutti.

Spesso capita che alla domanda come va; la risposta sia: “..bene, o tutto bene” ; in questo

caso è utile chiedere di spiegare quali sono le cose che lo fanno stare bene in azienda, cercando di

mantenere circolarità nello sguardo, in modo da non perdere i segnali non verbali degli altri

partecipanti.

Di fatto per ogni asserzione del partecipante che si presenti come una risposta chiusa, si

reindirizza la conversazione sul significato di quanto è stato asserito, facendo attenzione a non

esprimere termini di giudizio, ma semplicimente utilizzando la produzione verbale della risposta, si

riformula la stessa, cercando di allargare la cornice di riferimento.

In alcuni casi si possono usare delle vere e proprie riformulazioni cognitive, per esempio la

formula …”allora lei mi sta dicendo che”…., o …”se io ho capito quello che mi sta dicendo, lei mi

sta dicendo che….”. Con questa tecnica (Rogers, Kinget, 1970), si fa riascoltare alla persona o al

gruppo quello che abbiamo ascoltato, permettendo così la possibilità di avere feedback di conferma

o disconferma.

Le domande successive coinvolgono il gruppo nell‟analisi dei punti di debolezza e di forza

della propria organizzazione del lavoro, invitando i partecipanti a proporre proprie soluzione sul

miglioramento dell‟organizzazione stessa.

Lo scopo di queste domande è quello di rendere l‟idea ai partecipanti dei gruppi, di

capovolgere la piramide organizzativa, dove le persone diventano il vertice, ed il vertice diventa la

base, da un punto di vista psicologico potremmo dire che questo favorisce un cambio di percezione

rispetto al proprio modo di essere collocato in azienda. La vita nelle organizzazioni è accompagnata

da esperienze di ambivalenza: voglia di “esserci” come persona intera e voglia di sottrarsi.

Condizioni soggettive (Spaltro 1993) che influenzano il “senso di esserci”: - significatività esperita

(quanto è significativo il mio contributo) - responsabilità esperita (quanto posso contribuire alla

soluzione dei problemi) - conoscenza dei risultati (quanto è efficace quello che produco) - sicurezza

(quanto posso impegnarmi senza aver paura di conseguenze negative per il mio status, immagine,

carriera).

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Durante la conduzione, spesso si può ricorrere ad un espediente, facendo giocare ogni

partecipante ad immedesimarsi nel ruolo di capo dell‟azienda, chiedendoli quale sarebbe la prima

cosa utile per lui da fare al fine di migliore l‟organizzazione ed il modo di lavorare delle persone, in

modo da facilitare il membro del gruppo ad avere il più possibile presa di conoscenza rispetto alle

tematiche trattate nella discussione fra i partecipanti.

Il gruppo di discussione viene concluso, facendo un riassunto di quanto detto durante l‟

incontro, in modo da poter fare avere al gruppo, in maniera trasparente, qual è l‟impressione che si è

avuto fino a quel momento, tecnicamente si usa questa frase:…”alla fine di questo nostro incontro,

dopo avervi ascoltato, queste sone le cose che mi sono rimaste più impresse, vi chiedo di

confermarmi o meno se le mie congetture sono congruenti con quello che avete detto fino ad

ora…”

Questa modalità permette al gruppo di confermare o meno l‟analisi del consulente,

rafforzando il contratto psicologico con il gruppo.

L‟esperienza sul campo fa dire che questa strategia ha il duplice vantaggio di migliorare il

processo di trasparenza e apertura del gruppo rispetto ai dati qualitativi che si vogliono raccogliere e

soprattutto di creare un effetto sul clima all‟interno dell‟azienda rispetto all‟indagine svolta.

La diffidenza e la non accettazione verso il consulente, riteniamo che non facilitino il lavoro

di consulenza, rendendo quest‟ultima sicuramente più difficile ed in alcuni casi, pressochè nulla.

I lavoratori sono sicuramente il miglior veicolo promozionale per diffondere positivamente

il lavoro che si sta portando avanti, favorendo quindi l‟accettazione del consulente e del compito

che sta svolgendo.

5 L’importanza del dato qualitativo

In una ricerca svolta in un ospedale pediatrico, si era rilevato dai gruppi di discussione e

dall‟osservazione naturalistica nei reparti, decisi segnali positivi nei rapporti con i piccoli pazienti.

Il personale intervistato autoriferiva, al contempo, alti livelli di stress, sicuramente non riconducibili

al rapporto operatore/paziente.

Si era infatti notato, grazie all‟osservazione sistematica e partecipante e al materiale di trascrizione

emerso dai gruppi di discussione, che da parte dei genitori vi era una continua richiesta nei

confronti degli operatori sociosanitari, ad avere informazioni sullo stato di salute dei piccoli, e un

costante stato di tensione con il resto del personale che andava dalla qualità del cibo, al modo in cui

venivano praticate le iniezioni. Si rivelò da subito evidente che il rapporto e la natura stressogena

per il personale non era il rapporto con i pazienti ma con i genitori dei bambini. Ad una delle

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domande, fatte nelle interviste semistrutturate, e più precisamente alla domanda: “E’ più faticoso

gestire il rapporto medico genitore o medico bambino”, il nostro campione concordò

unanimemente che vi era forte tensione nel rapporto con le figure genitoriali.

Dai punteggi rilevati tramite il M.B.I., fu riscontrato alto burnout per quanto riguarda la variabile

D.P. (depersonalizzazione). La nostra analisi ci portò a considerare che vi fosse un nesso fra gli

aspetti della sottoscala D.P. e quanto rilevato nei gruppi di discussione.

Grazie al dato qualitativo potemmo rilevare che il cinismo non fosse rivolto direttamente ai pazienti

di questa particolare struttura pediatrica, ma fosse traslato8 verso i genitori dei bambini. In tutti i

gruppi i partecipanti manifestavano disagio nel rapporto con i genitori dei bambini.

L‟importanza del qualitativo aveva permesso di poter avere una lettura profonda del dato

quantitativo fornito dal test, il sentimento di distacco non era verso il paziente ma verso i genitori

dei pazienti.

La possibilità di aver approcciato questa organizzazione con un approccio metodologico sia

quantitativo (somministrando il M.B.I. ed uno strumento appositamente costruito per l‟analisi del

benessere organizzativo) che qualitativo (focus group, osservazione sistematica e partecipante)

aveva permesso al ricercatore di poter focalizzare le soluzioni organizzative in maniera mirata, nella

redazione del piano di miglioramento; il quale prevedeva al suo interno, la creazione di un punto

unico di contatto all‟interno della struttura, affidato a personale qualificato ed appositamente

formato a prendere in carico le richieste dei genitori, e a fornire loro tutte le informazioni che era

possibile dare loro, in merito all‟avanzamento dello stato dell‟artev della cartella clinica dei piccoli

pazienti.

Conclusioni

In questo capitolo, pur restringendo il campo alla consulenza in ambito sanitario, si è cercato di

presentare come l‟approccio metodologico del consulente, possa determinare il successo o

l‟insuccesso della consulenza stessa.

Non solo nel case study riportato, ma in tutte le consulenze ci imbattiamo nella necessità di inserire

in un adeguata cornice concettuale i dati rilevati dagli strumenti di rilevazione

psicologica/organizzativa.

8 A.Freud (1968). Il concetto (e il termine) “traslazione” era destinato inizialmente a indicare che il rappporto fra

analista e paziente nel suo reale manifestarsi è sempre deformato da fantasie e relazioni oggettuali che scaturiscono dal

passato del paziente, e che proprio queste deformazioni possono essere trasformate in mezzo tecnico capace di rivelare

l‟evoluzioni patogena del passato del paziente. Al giorno d‟oggi il significato del termine è stato ampliato sino al punto

da includere tutto quanto avviene tra analista e paziente e senza più alcun riguardo a ciò che deriva e alle ragioni del suo

accadere.

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E‟ da considerare utile, dunque, ricorrere al dato quantitativo in ogni occasione, sia di consulenza

che di ricerca, ritenendo altresì, pressoché irrinunciabile la relazione intersoggettiva con le persone

coinvolte nell‟indagine, non per senso di appartenenza ad un filosofia, ma per un semplice fatto di

“qualità” nel fornire alle aziende/istituzioni la visione più nitida, o meno sfuocata, di quali siano i

livelli stress nella relazione con il lavoro e di come l‟organizzazione del lavoro possa essere un

antecedente delle cause stress lavoro correlate.

Il burnout è un rischio sia per le persone che per le organizzazioni del lavoro.

La possibilità di intervenire sia sui singoli che sul contesto organizzativo riteniamo sia un approccio

moderno che va nel senso dell‟efficienza e dell‟efficacia che detta l‟agito di ogni singola realtà

aziendale e ospedaliera.

Le istituzioni di successo conoscono il loro mercato sociale e si affermano perché sono in grado di

fornire, prodotti o servizi che risolvono le esigenze della persone.

In questo scenario diviene sempre più importante la capacità delle aziende sanitarie di sviluppare al

loro interno dei processi volti al miglioramento continuo.

..”Quando un’organizzazione è insensibile nei riguardi delle persone – delle sue aspirazioni, dei

suoi limiti e del modo in cui lavora – lo stress cronico ne rappresenta il risultato inevitabile”.

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