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4, ' ' : ' >''*^' A cura di StjeUa McNàmee, LÀTÈRAPÌA COSTRUZIONE Scritti di Andersen, Anderson, Cecchin, Uarfield, Efran, Epston, Fruggeri, Gersen Goohshian Hoffman, Kaye, £ Marzari?' McNàmee, Murray, O'Hanlon, Tomm, White Collana di Psicoterapia della famiglia/Clmica

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LÀTÈRAPÌACOSTRUZIONE

Scritti di Andersen, Anderson, Cecchin,Uarfield, Efran, Epston, Fruggeri, GersenGoohshian Hoffman, Kaye, £ Marzari?'McNàmee, Murray, O'Hanlon, Tomm, White

Collana di Psicoterapiadella famiglia/Clmica

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LA TERAPIA

Nel suo incontro col costruttivismo, il modello relazionale-siste-mico ha dato vita ad un originale approccio terapeutico e ad undibattito epistemologico particolarmente vivace.

Fondando le sue radici nell'opera di Bateson, la prospettiva siste-mico-costruttivista propone un radicale ripensamento delle basistesse del pensiero "modernista" e rimette profondamente in discus-sione il ruolo del terapeuta come esperto in grado di leggere le rela-zioni nei sistemi umani con un punto di vista privilegiato.

In questo testo, viene presentata per la prima volta al lettore ita-liano una rassegna di contributi di alcuni tra i più importanti edautorevoli rappresentanti di questa nuova prospettiva. Il social con-structionism viene illustrato dai suoi principali sostenitori nei pas-saggi che ne hanno caratterizzato l'esordio e l'evoluzione più recen-te.

Il dibattito, la polifonia, la pluralità di accenti che emergonodalla lettura del testo ben rappresentano il dialogo che si è apertonegli ultimi anni nel campo della psicoterapia relazionale e forni-scono uno strumento di grande ricchezza per tutti quei professioni-sti che intendano approfondire il tema, complesso ed avvincente,della costruzione sociale della realtà, della patologia e del cambia-mento terapeutico.

Sheila McNamee è professore associato all'University of NewHampshire.

Kenneth J. Gergen insegna Psicologia al Swarthmore College,Pennsylvania.

ISBN 88-464-0402-5

€ 25,009"788846H04(

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1. Un'ottica riflessivaper la terapia familiaredi Lynn Hoffman

Negli ultimi cinque o sei anni, un piccolo sotto-gruppo di terapeuti fami-liari ha sviluppato un punto di vista abbastanza originale da poter essere de-finito un nuovo approccio. Questo approccio è più partecipativo e menoorientato allo scopo di altri - tanto che si potrebbe dire che non ha nessunoscopo. Suscita sia aspre critiche che entusiasmi. I suoi portavoce sono alcunigruppi negli Stati Uniti e in altre nazioni, tra cui il gruppo di Galveston(Anderson e Goolishian, 1988), il gruppo di Tromso (Andersen, 1987) e ilgruppo di Brattleboro (Lax a Lussardi, 1989), anche se i suoi sostenitori so-no in aumento. Avendo partecipato a questa ricerca di una prospettiva diver-sa, ho anche cercato di trovargli un nome. Ma gli affluenti che convergonoverso questo nuovo fiume sono ormai talmente tanti che è davvero difficiletrovare un antenato comune.

Per certi aspetti, questo nostro dialogo è affine al movimento di pensieroconosciuto come post-modernismo - col suo implicito assunto che il moder-nismo è ormai morto e nuove prospettive stanno emergendo. Senza esagera-re, si potrebbe dire che i seguaci del post-modernismo hanno fatto proprio ilprogetto di smantellare i fondamenti filosofici del pensiero occidentale. Tal-volta il termine "post-strutturale" viene usato come sinonimo di post-moder-no. Una visione post-strutturale delle scienze sociali, ad esempio, si opponead ogni concezione che postuli l'esistenza di qualche struttura internaall'entità oggetto di studio, sia che si tratti di un testo, di una famiglia o diun pezzo teatrale.

In terapia familiare questo ha comportato un pesante attacco alla visionecibernetica secondo cui la famiglia è un sistema omeostatico. Dato che leidee post-moderne e post-strutturali sono emerse dalla semiotica e dalla cri-tici letteraria, è diventato sempre più comune, nel dibattito all'interno dellelOitnze sociali, l'uso della metafora del testo o della narrativa.

Ili quello contesto, diversi personaggi impegnati nello studio dei sistemii OOme Harlene Anderson ed Harry Goolishian (1988), hanno ab-

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bandonato la bandiera cibernetica per quella ermeneutica. L'ermeneutica,brillantemente definita da alcuni dei suoi seguaci, "la svolta interpretativa",è una branca dell'interpretazione testuale che sta tornando in auge. Per i te-rapisti familiari che hanno adottato questo approccio, i circuiti a feedbackdei sistemi cibernetici vengono sostituiti dai circuiti intersoggettivi del dia-logo. La metafora centrale per la terapia diventa dunque la conversazione,rinforzata dal fatto che la conversazione è anche lo strumento di base dellaterapia.

A mio parere, la teoria della costruzione sociale (Gergen, 1985) è un ap-proccio più interessante ed efficace. Sebbene non siano pochi coloro - mecompresa - che hanno confuso questa teoria col costruttivismo (von Glaser-sfeld, 1984), le due posizioni sono decisamente diverse. Hanno in comune lamessa in discussione dell'idea modernista secondo cui un mondo "reale"esiste e può essere conosciuto con certezza oggettiva. Tuttavia, il co-struttivismo continua a ritenere che il sistema nervoso sia una sorta di"macchina chiusa". Secondo questo approccio, le percezioni e i costruttiprendono forma quando l'organismo si scontra col proprio ambiente. Percontro, i teorici della costruzione sociale postulano che le idee, i concetti e iricordi abbiano origine nell'interscambio sociale e vengano mediati attraver-so il linguaggio. Ogni conoscenza, secondo i socio-costruzionisti, si svilup-pa nello spazio tra le persone, nel regno del "mondo comune" o della "danzacomune". Solo attraverso il procedere della conversazione con le personeche gli sono vicine l'individuo sviluppa un senso d'identità o una voce in-terna.

Inoltre, i teorici del costruzionismo sociale si collocano nettamente all'in-terno della tradizione post-moderna. Fanno riferimento alla critica testuale epolitica rappresentata dalla tradizione decostruzionista francese (JacquesDerrida, 1978) e derivante dal pensiero neo-marxista della Scuola di Fran-coforte. Per completare il quadro di questo contesto intellettuale, va ag-giunta l'influenza dello storico sociale francese Michel Foucault (1975), cheha riportato in primo piano il concetto di potere, riesaminando le modalitàattraverso cui le relazioni di dominio e sottomissione si incarnano nel di-scorso sociale.

In seguito a questi influssi, stiamo assistendo ad una rivoluzione nellescienze sociali: una sfida all'idea stessa che chi studia la società debba defi-nire se stesso "scienziato". Ricercatori sociali come Kenneth Gergen (1991)e Rom Harrè (1984) da anni criticano radicalmente alcuni degli assunti dibase della psicologia e della sociologia moderna. Studiose femministe si so-no unite a questa linea di pensiero, trovando nelle idee dei pensatori post-moderni, in particolare nelle teorie di Foucault, un consistente supporto alla

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loro tesi secondo cui il linguaggio stesso della terapia è pieno di pregiudizicontro le donne. E simpatizzanti del femminismo, come Jeffry Masson(1990) hanno brillantemente dimostrato che la psicoterapia esordì cometrattamento mirante a controllare le donne che si ribellavano alle condizionicui erano costrette a sottostare.

Un percorso simile sta emergendo anche in antropologia ed etnografia.Gli etnografi James Clifford e George Marcus (1986), ad esempio, assumo-no un atteggiamento partecipativo nei confronti delle persone che studiano,sostenendo che la posizione degli antropologi tradizionali è il frutto diun'inconscia mentalità coloniale. La loro critica ha profondamente influen-zato il modo di condurre l'intervista in ambito di ricerca e, per estensione,anche l'intervista clinica. Le implicazioni di tutte queste sfide a quell'in-sieme di credenze chiamate psicoterapia sono sconcertanti. Per spiegare indettaglio ciò che intendo dire, cercherò di descrivere cinque "vacche sacre"della psicologia moderna e di illustrarne le relative argomentazioni critiche,gran parte delle quali provengono dal campo del costruzionismo sociale.

1. Le cinque vacche sacre della psicologia moderna

/./. L'aggettività nella ricerca sociale

I socio-costruzionisti non solo mettono in discussione l'idea di un'unicaverità, ma dubitano anche dell'esistenza dell'oggettività nella ricerca socia-le. Sostengono che non siamo in grado di sapere cosa sia la "realtà sociale"e che quindi la ricerca scientifica tradizionale, coi suoi test, le sue statistichee i suoi quozienti di probabilità, è fuorviante se non addirittura bugiarda.Questa tesi, se accolta, costituirebbe una vera e propria minaccia per lo sta-tus qua nelle professioni della salute mentale.

Per fare solo un esempio, la copertura assicurativa per problemi psicolo-gici negli Stati Uniti è garantita soltanto se questi possono essere definitialla stregua di malattie biologiche. La diagnosi è il cuore pulsante del nostrosistema dei rimborsi, eppure queste diagnosi - e i cosiddetti studi scientificisu cui si basano - sono spesso discutibili e imprecise. Basti pensare alla ca-tegoria recentemente inserita nel DSM III per definire le donne che si fannodel male o non riescono ad uscire da relazioni violente: disturbo di persona-lità auto-distruttiva. Questa diagnosi era stata inventata per definire i pro-bltrni dei reduci dal Vietnam, ma oggi viene adottata per chiunque abbia1VUIO un trauma nel passato.

, U BAÌO MIMO della storia mi dice che affermazioni come quella precede n-

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te, non sono molto in linea con la fase che stiamo vivendo, data l'attualeeconomia della salute mentale. In tempi di crisi, le dispute su territorio e le-gittimità si fanno più intense, e così stiamo assistendo ad una corsa per defi-nire i problemi trattabili, per stabilire le corrette modalità di terapia, e perinventare nuovi e più sofisticati studi sugli effetti delle cure. L'idea che larealtà sia socialmente costruita non è mai stata tanto evidente, ma allo stessotempo non è mai stata tanto osteggiata. Anche per questo, non è mai statatanto necessaria.

1.2. Use

Kenneth Gergen è assai convincente quando sostiene la tesi della"costruzione sociale del sé" (1985), invece di assegnargli una sorta di irri-ducibile realtà interna rappresentata da concetti come cognizioni ed emozio-ni. Anche i primi terapisti familiari erano piuttosto cauti nell'usare il con-cetto di sé. Essi tendevano a credere che le idee di una persona a propositodi se stessa sarebbero cambiate soltanto nella misura in cui cambiavano leidee delle persone che le stavano vicine. Vent'anni fa, scoperto il campodella famiglia, mi impegnai a fondo per far scomparire l'individuo dallascena. In realtà, sostituii semplicemente l'entità individuo con l'entità fami-glia. Quello che allora serviva era liberarsi dall'idea di struttura, e passaread una visione del sé come storia in movimento, come un fiume, o come unacorrente.

In seguito, cominciai a pensare al sé nello stesso modo in cui gli aborige-ni australiani pensano alle loro "vie dei canti" (Chatwin, 1987). Le vie deicanti sono mappe stradali musicali che tracciano percorsi da villaggio a vil-laggio nel territorio abitato da ciascun individuo. Ogni persona nasce lungouna di queste vie ma ne conosce solo una parte. Gli aborigeni ampliano laloro conoscenza di una particolare via dei canti spostandosi periodicamenteper andare ad incontrare altre persone che vivono lontano e che, per cosìdire, conoscono altri versi.

Uno scambio di canti diventa così un importante scambio di conoscenza.Queste vie dei canti sono anche connesse agli spiriti di diversi antenati -animali, piante o siti - creati nell'"età del sogno", quando gli esseri umaninon esistevano ancora. Una persona può condividere un antenato con altriche vivono in tutt'altra parte del territorio.

La bellezza di questo mito sta nel fatto che propone un'immaginedell'identità individuale che non è racchiusa nella persona o in qualche altraentità. Essa consiste invece di flussi che possono essere semplici, come il

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segmento di un percorso, o complessi, come il disegno di certi tessuti, mache comunque si realizzano cantando e camminando. È davvero sorpren-dente l'intreccio di sapere ecologico e sociale che si ritrova in questa prati-ca. La propongo come immagine lirica della costruzione sociale del sé.

1.3. Psicologia dello sviluppo

I socio-costruzionisti sono stati i primi, che io sappia, a mettere in discus-sione l'idea degli stadi di sviluppo. Gergen (1982) propone una tesi assaiconvincente contro le teorie evolutive. Sostiene che è pericoloso dare perscontata l'esistenza di standard universali ai quali fare riferimento per valu-tare l'adeguatezza di un essere umano, aggiungendo che l'idea stessa di unpercorso di vita normale è decisamente discutibile:

È sempre più chiaro ai ricercatori che operano in questo campo che le traiettoriedi sviluppo nel corso della vita sono estremamente variabili; è insensato generalizza-re sia rispetto al funzionamento psicologico sia rispetto al comportamento... Ap-paiono possibili forme virtualmente infinite di sviluppo, e la forma che finirà peremergere potrà dipendere dal confluire di diversi aspetti, la cui esistenza è sostan-zialmente tutt'altro che sistematica (Gergen, 1982: 161).

Le parole di Gergen riecheggiano l'idea, proposta da Prigogine (1984) esuccessivamente validata dalla teoria del caos (Gleick, 1987), secondo cuiquando un sistema si è spostato troppo dall'equilibrio - ovvero supera ilpunto in cui può verificarsi qualche cambiamento di stato - entra in giocol'elemento casualità. L'evento-stimolo che opera in quel dato punto determi-nerà lo sviluppo futuro, ma quale stimolo interverrà è del tutto imprevedi-bile.

Allo stesso modo, secondo i teorici dell'evoluzione come Stephen Gould(1980), le specie si sviluppano in modo discontinuo e non progressivo. Unaspecie evolverà lentamente a seconda dell'intreccio tra il proprio patrimoniogenetico e il proprio ambiente, ma in qualunque momento potrebbe verifi-carsi un cambiamento improvviso, come ad esempio la caduta di un meteo-rite, tale da mutarne la traiettoria .evolutiva in modo altrettanto repentino.Un'intera specie in questo modo può scomparire, e una nuova prendere ilsuo posto. Dagli studi citati si evince che è sempre più arduo sostenere cheall'interno della personalità umana, o all'interno di qualunque gruppo uma-no, possa essere descritto un percorso di sviluppo predeterminato e ottimale,al fuori del quale vi siano solo miserevoli fallimenti. Eppure, la pratica psi-

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coterapica è tuttora largamente fondata su una versione più o meno ortodos-sa di questa concezione.

Possiamo porci un'altra domanda: come mai la psicologia moderna ha fi-nito per adottare in modo così massiccio questa metafora vegetale basata sutempi prefissati di crescita?

Una delle credenze più persistenti a proposito degli esseri umani è cheesista quella cosa che viene chiamata personalità, che può essere segnata osquilibrata da qualche lesione nei primi anni di vita o che può essere com-promessa per aver saltato un certo stadio più o meno importante. Questa, amio parere, è scienza per analogia. La teoria del trauma in certi casi puòfunzionare per spiegare problematiche emotive, ma non le riconosco alcunostatus oggettivo, né ritengo che sia plausibile per ogni sorta di problemi.

1.4. Le emozioni

Rom Harrè (1986) ha messo in discussione la tesi secondo cui le emozio-ni sarebbero uguali in tutto il mondo ed esisterebbero dentro le persone co-me tratti distinti o stati. Molti non conoscono né hanno mai provato le emo-zioni che noi definiamo tali; Videa stessa di emozioni è relativamente re-cente anche nella nostra storia. I socio-costruzionisti le interpretano comeuna delle tante parti della complessa rete comunicativa tra le persone e nonriconoscono loro alcuno status speciale di stati interni.

Questa tesi ha un antecedente negli scritti dei terapeuti familiari. Haley(1963) attaccò già tre decenni fa la teoria della repressione, secondo cui, re-primendo le emozioni in qualche stadio precoce della vita, si rischia di pro-durre sintomi in quelli successivi. Una versione di questa teoria è alla basedi diversi assunti della psicologia popolare: mi riferisco all'idea, largamentediffusa, secondo cui per mantenersi in buona salute bisogna "restare in con-tatto" con la propria rabbia o con la propria tristezza. Non esprimere i proprisentimenti viene considerato altrettanto pericoloso della ritenzione degliescrementi corporei, e capita ormai spesso che le madri si preoccupino se leloro creature paiono aver poca dimestichezza con l'espressione delle emo-zioni. Di fatto, le professioni della salute mentale hanno trasformatoquest'idea in una sorta di feticcio, soprattutto nei casi di disastri che coin-volgono intere comunità, tipo le alluvioni, o di fronte a suicidi di adolescen-ti. Nel passato, le persone si confortavano tra loro, ma oggi pare ci sia biso-gno di un professionista del lutto (spesso un assistente sociale o uno psico-logo) che aiuti intere comunità ad "elaborare" le loro emozioni. Se questolutto non venisse elaborato, è ormai senso comune che le persone coinvolte

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sarebbero destinate a sperimentare orribili conseguenze future, nebulosa-mente definite come disturbi psichici o somatici.

1.5. Livelli

Ispirata da questa corrente critica, ho cominciato a riflettere attornoall'idea dell'esistenza di livelli di struttura gerarchici negli eventi umani. Adesempio, c'è un sintomo in superficie, e sotto c'è una causa; c'è un conte-nuto manifesto e un contenuto latente; c'è una comunicazione esplicita eduna comunicazione implicita. La teoria generale dei sistemi è fortementelegata all'idea che il mondo naturale sia fatto di scatole cinesi, una dentrol'altra, e che la più grande abbia più influenza della più piccola. E se nessu-na di queste idee fosse vera? E se tutti questi livelli, strati e scatole non fos-sero altro che insiemi di diversi fattori che s'influenzano reciprocamente,tutti dello stesso valore, ma scelti da noi, descritti da noi e da noi sistematiin assetto gerarchico?

Il lavoro degli studiosi della comunicazione Pearce e Cronen (1980) chia-risce meglio questa mia affermazione. Essi distinguono diversi livelli dellacomunicazione, più o meno come Bateson (1972) utilizzò la teoria dei tipilogici di Russell e Whitehead (1910) per classificare i messaggi. Pearce eCronen individuano però molti più livelli. In sostanza, essi analizzano lacomunicazione secondo un ordine crescente di inclusione (rivisto di tanto intanto): l'atto linguistico, l'episodio, la relazione, la biografia interna, il mitofamiliare, il modello culturale. Essi sostengono che, sebbene i livelli supe-riori esercitino una potente forza (contestuale) verso il basso, anche i livelliinferiori esercitano una debole forza (implicativa) verso l'alto. Così, ilpianto di un bambino (atto linguistico) può costituire il contesto per la deci-sione della madre di dargli da mangiare (episodio). Ma potrebbe anche an-dare nella direzione opposta.

A differenza di Pearce e Cronen, io ritengo che non ci sia affatto bisognodel concetto di livelli. È sufficiente pensare ad ogni categoria della comuni-cazione come ad un possibile contesto per ogni altra categoria. Quale sia piùforte o superiore dipenderà da quale verrà definita come contesto per l'altra,in un determinato momento. Quest'idea mi pare assai interessante, data lamia annosa battaglia alla ricerca di una soluzione che consentisse di fare ameno delle gerarchle comunicative.

Se queste sono le cinque vacche sacre, la prossima potremmo definirlauna vacca super-sacra: la natura stessa della relazione psicoterapica. Perparlarne, mi servirò della metafora dell'ufficiale coloniale, metafora che

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proviene dal campo dell'etnografia post-moderna e che viene sempre piùspesso usata anche dai terapeuti della famiglia.

2. Il colonialismo della salute mentale

A mio parere, la sfida più ambiziosa che il pensiero post-moderno intro-duce nel campo della salute mentale consiste nell'idea che la "scienza so-ciale normale" (definizione che questi studiosi attribuiscono alla fiducia oc-cidentale nella ricerca sociale oggettiva) riproduce una sorta di mentalitàcoloniale nella mente degli accademici e dei professionisti. Gli etnografipost-moderni, cui ho accennato in precedenza, ci mostrano che molti ricer-catori nel loro campo hanno abitualmente condotto "studi dall'alto in bas-so", vale a dire, hanno scelto di studiare società "meno civilizzate" della lo-ro, o un gruppo considerato inferiore quanto a cultura etnica o classe socia-le. Analogamente, un gran numero di ricercatori nel campo della salutementale (Kearney et al, 1989) sottolineano che la "psicoterapia normale"perpetua una mentalità coloniale nei suoi esperti. Per proseguire conl'analogia, l'attività che ne deriva potrebbe essere definita "terapia dall'altoin basso".

Lo storico francese, Michel Foucault (1975) ha molto da insegnarci aquesto proposito. Particolarmente stimolanti sono i suoi testi sul discorso, esoprattutto su quei tipi di discorso e di scrittura istituzionalizzati che sonocondivisi all'interno di un gruppo, di un campo di studio, di professioniquali la legge o l'economia, o di un'intera nazione o cultura. Interessato an-che ai meccanismi attraverso cui lo stato moderno stabilisce le sue regole,Foucault analizza non tanto le modalità di controllo delle relazioni in unasocietà da parte di chi a questo è deputato, quanto piuttosto il discorso stes-so che da forma a queste relazioni. Una volta che si aderisce ad un determi-nato discorso - un discorso religioso, un discorso psicologico, o un discorsoriguardante le differenze di genere - si promuovono anche certe definizionisu quali persone o temi siano più importanti o più legittimi. Il tutto, spesso,all'insaputa di chi si fa portatore dei discorsi in questione.

Per chi opera nel campo della salute mentale, le idee di Foucault sull'usodisciplinare del "confessionale" (1975) sono assolutamente intriganti. Lasua tesi è che nella pratica cattolica della confessione, così come nella prati-ca psicoanalitica delle associazioni libere, il soggetto è convinto di averequalche profondo, oscuro segreto - di solito sessuale - da nascondere. Tutta-via, se lo confessa all'autorità competente, può ricevere l'assoluzione,"elaborare" il danno della psiche, e così via. Questo segreto inaccettabile,

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questo "peccato originale", viene considerato dal soggetto in questione co-me la verità più profonda sulla sua anima e, in questo senso, continuerà adesercitare il suo potere soggiogante. Nella prospettiva di Foucault si assistead una svolta radicale, dall'immagine del benevolo terapista a quelladell'esperto che soggioga. Non c'è comunque bisogno di attribuire tutta laresponsabilità ad una persona o ad un gruppo. "Il patriarcato" non è un in-sieme di maschi che si dedica a tempo pieno all'oppressione delle donne(anche se può essere percepito in questo modo): è piuttosto un modo di spe-rimentare ed esprimere idee sui rapporti tra i sessi che sono culturalmenteassegnate a maschi e femmine. Un corollario di quest'idea è che i terapeutidi qualsiasi scuola dovrebbero cercare di capire se e come i presupposti sucui si basano le loro pratiche contribuiscono a riprodurre relazioni di domi-nio e di sottomissione.

Un nuovo tipo di consapevolezza si sta facendo strada in questo campo, enon risparmia i terapeuti marxisti solo perché cercano di aiutare i poveri, ole terapeute femministe perché difendono le donne, o i terapeuti spiritualiperché perseguono un ideale soprannaturale. Questi discorsi terapeutici pos-sono contenere gli stessi presupposti coloniali degli approcci medici. Posso-no contenere assunti oppressivi sui cosiddetti deficit di personalità. Possonofinire per offrire al cliente un messia che lo salverà. Le concezioni spirituali-ste sulla terapia tendono ad usare la parola "guarigione", rifacendosi alletradizioni degli sciamani, mentre le concezioni mediche usano il termine"cura", ma entrambe mettono il cliente in una posizione di sottomissione.

Si conclude qui la parte teorica del mio contributo. Vorrei passare ora adillustrare alcune applicazioni cliniche delle idee descritte in precedenza. Inparticolare vorrei presentare alcune tecniche riflessive che, consentendoun'alternanza nel ruolo di esperto, mettono in crisi l'abituale professionaliz-zazione del lavoro terapeutico. Mi soffermerò inoltre sulle metodologiepost-moderne nell'intervista clinica e sui cambiamenti che stanno influen-zando la stessa idea di conversazione terapeutica.

3. Un malessere crescente

Circa dieci anni fa, cominciai a sentirmi sempre più a disagio nel fare iconti coi paradossi del potere che caratterizzavano i metodi tradizionali diterapia familiare. Sembravano tutti basarsi su segretezza, gerarchla e con-trollo. Anche le versioni più aggiornate, rappresentate da diversi terapeutieriksoniani e dal pur rispettosissimo approccio del gruppo di Milano, conti-nuavano comunque a tenere il cliente a debita distanza e il terapeuta non

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condivideva con lui le proprie idee. C'era una buona ragione storica per unsimile atteggiamento. Dal suo esordio in poi, al centro della terapia familiarec'era sempre stato uno specchio unidirezionale. I professionisti erano gli os-servatori, le famiglie le osservate speciali. Non c'era mai stata una strada adoppio senso. Gran parte dei terapeuti familiari della prima generazionesembravano sostenere l'idea del controllo terapeutico, esercitato in segreto oapertamente. Non sapevo cosa mi piacesse di meno: se spingere diretta-mente il cliente a fare quello che volevo facesse o, più sottilmente, spingerloa fare quello che volevo facesse sotto mentite spoglie.

In quel periodo cominciai pian piano a spostarmi verso un'idea di terapiapiù collaborativa. Avevo letto il libro di Carol Gilligan In a Different Voice(1982) e mi aveva molto colpita l'idea che nel compiere scelte morali ledonne sentissero il bisogno di proteggere la relazione mentre gli uomini era-no più interessati a ciò che era "giusto". Il rapporto, per le donne, sembravaessere più importante dell'ordine, della giustizia o della verità. Questa fusolo la prima di molte suggestioni che mi giunsero da quel filone di studiche oggi viene definito "femminismo culturale".

Anche se non avevo alcuna intenzione di tornare a quella che un tempochiamavamo terapia "zuppa di pollo", cominciai ad avere seri dubbi sulladistanza tra terapeuta e cliente che continuava ad imperare nel campo dellaterapia familiare. Questo rappresentò un grosso cambiamento per me. Erostata una fedele sistemica, e credevo che i pattern familiari attuali vincolas-sero e mantenessero il sintomo. Il meccanismo della patologia non stava"nell'"individuo ma "nella" famiglia. Il mio scopo in terapia era di distrug-gere o modificare quel meccanismo. Per far ciò, non c'era alcun bisogno disviluppare una relazione personale coi clienti che andasse al di là di quantoera necessario per evitare che abbandonassero la terapia.

Quando cominciai a cercare questa "voce diversa", mi sentii sempre più adisagio con la freddezza tecnocratica del mio approccio.

In realtà, non l'avevo mai adottata pienamente. Quando non ero osserva-ta, mostravo ai miei clienti un lato di me assai più empatico di quanto la miaformazione prescrivesse. Mostravo le mie emozioni, fino, talvolta, al pianto.Chiamavo questo mio modo di lavorare "terapia sentimentale", e non ne homai fatto cenno al mio supervisore. Ma negli ultimi anni ho finito per chie-dermi sempre più insistentemente "perché no?". Altri colleghi, ad esempioallo Stone Center di Wellsley, stavano ridando credito all'empatia. Ne parlaicon alcune colleghe e scoprii che anche loro facevano in segreto quello chefacevo io e che davano a questo loro lavoro definizioni affettuose.

Consentii così a me stessa di farmi influenzare dalle mie precedenti espe-rienze di terapia. Forse sono stata sfortunata, ma i miei incontri coi clienti

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mi avevano spesso fatto sentire intimidita e a disagio. Alla fine avevano fi-nito per rinforzare l'immagine di me stessa come persona da poco. In parteper reazione a queste esperienze, cominciai a cercare nuove strade per farsentire i clienti più a proprio agio. Quando era il caso, raccontavo loro storiedella mia vita. Mi assumevo apertamente la responsabilità se il cliente si la-mentava dell'andamento della terapia, invece di considerare le lamentelecome resistenze al trattamento. Insistevo nel fare domande sulle aspettativedel cliente riguardo alla terapia, e lo invitavo a fare domande sul mio lavoro.Se mi sentivo in difficoltà, specialmente se qualche mio problema personalesembrava intrufolarsi nel percorso comune, ne parlavo apertamente, e spes-so ottenendo buoni risultati.

Inoltre, iniziai a prendere in considerazione solo poche distinzioni gerar-chiche, a parte quelle legate alle differenze di posizione in senso orizzonta-le. In altri termini, centro e margine sostituirono pian piano sopra e sotto.Cercavo di rispettare la posizione del cliente e il suo modo di vedere le cose,partendo dal presupposto che ogni partecipante alla terapia era a suo modoun esperto. L'accento si spostò così sull'idea della terapia come esperienzapartecipativa convalidata dall'espressione di molteplici voci, piuttosto chedalla voce di un esperto.

In diverse circostanze, la mia posizione in via di sviluppo correva più infretta della mia capacità di tradurla in pratica.

Continuavo a "pensare Zen", ma non sempre ero in grado di "praticareZen". Poi un collega norvegese, Tom Anderson, se ne uscì con un'idea sor-prendente, eppure semplicissima: la "reflecting team" (Anderson, 1987).L'espediente di chiedere alla famiglia di ascoltare l'equipe terapeutica men-tre discuteva della famiglia stessa, chiedendole poi di fare i propri commen-ti, provocò un grande cambiamento. Il terapeuta non era più una specieprotetta, che osservava famiglie "patologiche" da dietro uno specchio oparlava di loro nella privacy del suo studio. L'assunto della "scienza socialenormale", secondo cui l'esperto aveva una posizione superiore da cui si po-teva fare una valutazione corretta, veniva totalmente ribaltato. Almeno perme, il mondo della terapia cambiò dal giorno alla notte.

4. L'aggettivo "riflessivo"

Cercando di verbalizzare quello che stavo vivendo, scoprii che mi stavosempre più spostando verso l'aggettivo "riflessivo". Questo termine erastato introdotto nella teoria della comunicazione da Cronen et al. (1982)nella loro concezione del discorso riflessivo, e nella terapia sistemica da

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Karl Tomm (1987), nella sua categoria delle domande riflessive. Tuttavianon vorrei trasformare anche questo aggettivo in uno dei tanti termini ger-gali del nostro campo. Nel The Random House Dictionary questo termineviene semplicemente definito come "il rivolgersi o il ripiegarsi di una partesu se stessa". Un'immagine analoga può essere quella del numero otto, che èil segno dell'infinito e che mi pare un passo in avanti rispetto alla vecchiaimmagine del cerchio o della spirale. Nella figura dell'8 c'è uno spazio peril dialogo interno di ogni individuo e un'intersezione che rappresenta lapiazza in cui incontrarsi e parlare. Questa immagine suggerisce inoltre unatraiettoria in movimento, nel contesto del discorso sociale, in sintonia con lanuova enfasi sulla narrativa nelle scienze umane, e sull'idea di flusso nellescienze fisiche. Applicando il concetto di riflessività alle relazioni, si puòfare riferimento all'ideale della partnership. Per me questo termine implical'esistenza di un'equità nella partecipazione anche se i partner possono ave-re posizioni diverse o diverse caratteristiche. Quest'idea mi è stata suggeritadalla lettura del libro di Riane Eisler, The Chalice and thè Biade (1987) do-ve l'autrice propone un modello di partnerhip per le società umane.

Uno degli esempi di questo tipo di uguaglianza è quello dei Giochi Olim-pici durante l'Impero Miceneo, in cui uomini e donne competevano tra lorosaltando sulle corna di un bue.

Al di là dei titoli o dei simboli, si può dire che le modalità di interventocaratteristiche di questo nuovo approccio sono tutte "ripiegate su se stesse".Gli sviluppi della reflecting team, l'uso delle conversazioni e delle domanderiflessive, la prevalenza del prefisso "co-" per descrivere la conversazioneterapeutica (co-creare, co-evolvere, ecc.) indicano un orientamento verso unprocesso di mutua influenza tra consulente e cliente, in contrasto con la tra-dizionale prevalenza del gerarchico e dell'unidirezionale. In particolare,questo approccio mette in discussione lo status privilegiato dell'esperto.

5. La scomparsa dell'esperto

La prima volta che vidi in azione Harlene Anderson e Harry Goolishiandel Galveston Family Institute intuii che la loro era una concreta messa inpratica dell'idea di un atteggiamento basato sul principio del terapeuta non-esperto. Il loro approccio ha fortemente influenzato il mio lavoro, ma per uncerto periodo io proprio non riuscivo a capire cosa stessero facendo. Sapevoche, secondo loro, i modelli terapeutici direttivi erano patologizzanti, ma leloro interviste cliniche erano talmente non orientate allo scopo che parevanonon produrre niente e non andare a parare da nessuna parte. I loro metodi

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d'intervista erano anch'essi tutt'altro che ortodossi. Il terapeuta a volte par-lava per l'intera seduta con un solo membro della famiglia, lasciando distucco chi come me era stato addestrato ad un approccio strutturale. Semprein cerca di classificazioni, finii per chiamare questo nuovo stile "terapia im-percettibile".

In realtà, la caratteristica saliente del gruppo di Galveston è una sorta dideliberata ignoranza. Quando descrivono quello che fanno o in che modoinsegnano, sostengono che partono dalla consapevolezza di "non sapere".La loro posizione, tuttavia, è in linea con le idee post-moderne sulla narrati-va. Collegando la teoria narrativa alla terapia, Gergen (1991) ha osservatoche i terapeuti tradizionali ritengono che esistano "essenze" nell'esperienzaumana che possono essere colte in qualche tipo di narrativa e offerte al pa-ziente al posto della sua vecchia, illusoria narrativa. Entrando in seduta, ilterapeuta ha già a disposizione alcune idee su cosa siano queste essenze.

I terapeuti post-moderni non credono nelle essenze. Il sapere, essendoprodotto socialmente, modifica e rinnova se stesso in ogni momento dell'in-terazione. Non ci sono significati preesistenti nascosti nelle storie o nei testi.Un terapeuta con questa prospettiva si aspetterà che una nuova - e si sperapiù utile - narrativa emerga durante la conversazione, ma interpreterà questanarrativa come spontanea piuttosto che pianificata. La conversazione, non ilterapeuta, è il suo autore.

Credo sia questo il senso del "non sapere" di cui parla il gruppo di Gal-veston.

Non sapere, in questo modello, fa spesso il paio con "non parlare", o nonparlare nel modo consueto. Un buon esempio è costituito dallo stile di inter-vista messo a punto da Toni Andersen, Anna Margareta Flam, Magnus Halde altri in Norvegia. Le loro domande o commenti sono caratterizzati daprovvisorietà, esitazione e lunghi periodi di silenzio. Spesso la voce dell'in-tervistatore si abbassa a tal punto che si fa fatica a sentirla. Tendono ad ini-ziare le loro frasi con "Potrebbe essere che?" o "E se?". Sulle prime ho pen-sato che questo strano modo di parlare fosse dovuto o alle loro difficoltà conla nostra lingua o ad una differenza culturale derivante dalla ben nota mode-stia dei norvegesi. Alla fine scoprii che non era così. Il metodo d'intervistarappresenta con estrema chiarezza il volontario sacrificio del sé profes-sionale, e l'effetto sul cliente è di incoraggiare partecipazione ed inventiva.

Vorrei concludere questo paragrafo sottolineando che l'idea di abbassarelo status dell'intervistatore appartiene anche al post-modernismo. Ho lettodi recente una raccolta di studi sull'intervista curata dal ricercatore post-moderno Eliot Mishler (1986). In un capitolo, egli prende in esame i metodidi Marianne Paget, anch'essa ricercatrice, e cita la sua descrizione di un

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progetto in cui ella si fa raccontare da un'artista l'evolvere del suo processocreativo:

Esaminando riflessivamente la forma e la qualità delle proprie domande, che nonerano standardizzate e predeterminate da una scaletta d'intervista, (Paget) osservache spesso presentano un carattere esitante ed incerto, perché l'autrice si sta chie-dendo cosa vuole sapere: le domande sono formulate e riformulate nel corso del-l'intervista. Ella suggerisce che questo modo di far domande consente ed incoraggiarisposte che sono altrettanto provvisorie, esitanti e formulate nel processo del ri-spondere; ovvero, crea una situazione in cui anche l'interlocutore è coinvolto neltentativo di capire. Paget si riferisce anche al senso del suo stare in silenzio per per-mettere all'interlocutore di raccontare la propria storia liberamente, notando che indiversi momenti, ad esempio quando l'interlocutore fa una pausa, ella resta in silen-zio anche se "avrebbe potuto inserirsi nel flusso del discorso" (Mischler, 1986: 96-7).

6. Le narrative del terapeuta

Innanzi tutto, esiste un circuito riflessivo tra professionista e cliente cheinclude la filosofia di lavoro del terapeuta. I socio-costruzionisti si attengo-no rigorosamente all'idea che non esiste un'incontrovertibile verità sociale,solo storie sul mondo che raccontiamo a noi stessi e agli altri. Gran parte deiterapeuti hanno una loro storia su come i problemi si sviluppano e vengonorisolti o dis-solti.

Ben Furman (in stampa) sfida l'idea secondo cui prima troviamoun'ipotesi, e poi su quella basiamo il nostro intervento. A suo parere, di so-lito avviene il contrario. Entriamo in seduta avendo già in mente un inter-vento, e solo dopo troviamo un 'ipotesi che lo supporti. Ad esempio, se unterapeuta usa una cornice psicodinamica, assumerà che il suo lavoro consi-sta nell'aiutare qualcun altro a superare un trauma del passato, e dunquecercherà una narrativa che evidenzi un deficit di sviluppo. Così come un te-rapeuta familiare riterrà che i problemi siano legati a gerarchle improprienella struttura familiare, e quindi proporrà di modificare le coalizioni tramembri della famiglia appartenenti a diverse linee generazionali. Ci sonoinfiniti esempi di questo genere nelle narrative dei terapeuti.

Avevo trovato interessante quest'idea in relazione ai livelli di comunica-zione di Pearce e Cronen, cui ho accennato in precedenza: atto linguistico,episodio, relazione, biografia interna, mito familiare e programma culturale.Ognuno di questi livelli può essere visto orizzontalmente, ovvero comecontesto per tutti gli altri. Una specifica sequenza tra due persone può essere

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ril contesto per i capricci di un bambino, o viceversa. Il segmento di comuni-cazione a cui un terapeuta presta maggiore attenzione ci dirà di più sul tera-peuta stesso che sulla famiglia. Ad esempio alcuni terapeuti, come quelli delgruppo di Milano, vanno in cerca di quello che interpretano come un mitofamiliare. Altri si interessano di più alla biografia interna. Altri ancora sisoffermano sul livello dell'atto linguistico prendendo una parola usata dalcliente per scomporla pezzo per pezzo alla ricerca di un'altra parola cheapra maggiori opportunità. Ho visto un videotape dove Goolishian e Ander-son parlavano con una cliente che era stata descritta come una "giovane bar-bona" e che passava gran parte del suo tempo seduta in uno sgabuzzinobuio. Durante la conversazione, la donna modificò la definizione del suomalessere da "sensazione di noia" a sentirsi "infelice" o "depressa". Questofu uno degli episodi della seduta che rese possibile una modificazione delladescrizione della cliente da "persona pazza" ad una persona che stava maleper la solitudine.

Prendere in considerazione a quale livello di comunicazione un terapistasi collochi può chiarire alcuni dei conflitti presenti nel campo. Prendiamo adesempio la critica femminista alla pratica sistemica. Le terapeute femministesostengono che in casi di violenza, vedere la coppia insieme assolve l'uomoe condanna la donna. Questa interpretazione è coerente ad una collocazionesul livello dell'episodio. In tale contesto, la violenza è un'azione da biasima-re e deve essere fermata. La donna non va vista insieme all'uomo a menoche non si accetti implicitamente che lei è altrettanto responsabile del part-ner. Ma se ci si colloca al livello della relazione, che è il livello dei terapeutisistemici, si prende in considerazione l'intrecciarsi dei comportamenti neltempo. Questa prospettiva cercherà di restituire potere alla donna, in modoche diventi capace di fare alcune cose in modo diverso; quanto meno, lasolleva dal ruolo di vittima.

Ovviamente, nessun livello è più vero di un altro; più semplicemente, dadiversi livelli si vedono diverse soluzioni al problema. Può accadere che illivello dell'episodio sopravanzi quello della relazione perché la priorità èfermare la violenza. Ci sono anche femministe che preferiscono riferirsi allivello del programma culturale, sostenendo che trattare la donna come lapersona che ha bisogno di terapia significa pretendere di restare neutrali edare involontariamente sostegno allo status quo.

7. Forme associative

Ma il rischio che si corre con qualunque schema che si proponga di rap-

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presentare l'interazione sociale è che troppo spesso finiamo per scegliereuna categoria e ne diventiamo ferventi sostenitori. Abbiamo bisogno di unmetodo che ci aiuti a prevenire il rischio di questa scelta, quando non sonol'intenzionalità e il contesto a farcela compiere. In terapia, si può cercare ditener vivo il dubbio costruendo una situazione in cui venga incoraggiatal'espressione di una pluralità di storie e le forme associative mantenganofluidi i significati. È quanto, oggi, sta avvenendo un po' ovunque. È sor-prendente costatare quanti terapeuti si stiano interessando alle modalità ri-flessive d'intervento, alle forme associative e metaforiche di far terapia.

Tom Andersen, ad esempio, spesso usa immagini per descrivere i modi divedere e le azioni dei pazienti. Penso in particolare ad un'intervista con unacoppia, in cui i partner erano uno buddista e l'altro cristiano. Nel corso diuna reflecting team Tom propose l'immagine di "due bei soli sorridenti" eseguì quest'immagine fino a proporre una sorta di formula magica: "Che ilsole si muove, che il sole sorga". A me, che tendo a prendere le immaginialla lettera, stava suggerendo che un sistema solare con due soli può incon-trare qualche problema, e infatti la coppia sembrava intrappolata in unabattaglia sulle decisioni da prendere. So bene che sto in qualche modo im-ponendo la mia lettura dell'interazione. In un successivo follow up, la cop-pia ricordava semplicemente che quella seduta era stata molto utile, e nonfece alcun commento su quella simbologia. Il gruppo terapeutico era rimastonel vago, consentendo ai due partner di associare a quelle immagini i lorosignificati.

Anch'io cerco di incoraggiare i pazienti a giocare con le storie, e spessone propongo di mie per far capire cosa intendo. Devo ammettere che le miestorie tendono ad essere positive e trasformative, nel senso che cerco di tra-sformare ciò che viene percepito come una difficoltà in qualcos'altro checontenga un senso di speranza. Spesso, nella comunità New Age in cui vivo,emerge l'idea del karma. Mi capita allora di descrivere il problema dellacoppia come una "questione karmica" e di suggerire che può avere a chefare con qualche dilemma irrisolto in generazioni precedenti, se non in viteprecedenti. Nel bene o nel male, hanno l'opportunità di lavorarci sopra in-sieme. Se hanno successo, i bambini della generazione successiva potrannoaffrontare nuove sfide.

Questo giocare con le forme associative - storie, idee, immagini, sogni -ha sempre fatto parte della terapia, ma solo ora ha trovato una base in unadelle discipline descrittive dell'uomo: il costruzionismo sociale nella suaaccezione più ampia. Più mi interesso al lavoro dei colleghi che stanno spe-rimentando questi nuovi metodi, più mi colpisce l'attenzione che essi rivol-gono al linguaggio, e mi chiedo se non siamo in presenza di una nuova ge-

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stali per la consulenza sistemica. Il gruppo di Galveston usa il termine"sistemi linguistici collaborativi" per descrivere il proprio approccio; Ger-gen ha suggerito la definizione "terapia narrativa"; io ed altri usiamo semprepiù spesso il termine "riflessivo". Ma anche altre parole si sono senza dub-bio mostrate assai utili nel fare avanzare il processo sociale e linguistico chesta dando vita a nuovi campi di studio.

8. Un'etica della partecipazione

Per finire, vorrei tornare al contributo degli etnografi post-moderni. Clif-ford e Marcus (1986) sostituiscono l'idea di un osservatore trascendente ooggettivo con quella di una collaborazione in cui nessuno ha l'ultima parola.Ovviamente, la natura della conversazione cambia.

Come affermano gli autori:

Siccome l'etnografia post-moderna privilegia il "discorso" sul "testo", essa mettein primo piano il dialogo invece del monologo, e mette l'accento sulla natura colla-borativa e cooperativa della situazione etnografica... In effetti, essa rifiutal'ideologia dell'"osservatore-osservato", non essendoci nulla di osservato e nessunoche osserva. C'è invece la reciproca, dialogica produzione di un discorso, di unastoria di qualche tipo (Clifford e Marcus, 1986: 126).

Affermazioni come questa suggeriscono che sta emergendo, come valorecentrale del pensiero e dell'azione sociale, un'etica della partecipazione chesi contrappone all'idea della ricerca della "causa" o della "verità". Sel'applichiamo alla terapia, questa concezione colora i nostri obiettivi di unaluce chiaramente politica. Non per questo mi pare il caso di sposare unasorta di nuovo marxismo.

Pur lavorando per l'emancipazione, nessuno può stabilire quale sia il di-scorso ideale o il problema sociale più pressante. In generale, il nostroobiettivo dovrebbe essere una posizione critica che favorisca una presa dicoscienza dei rapporti di potere nascosti dietro gli assunti di qualunque di-scorso sociale, compreso il discorso critico stesso. Di conseguenza, non solola nostra teoria ma anche le nostre pratiche dovrebbero riflettere questa con-sapevolezza dei rapporti di potere nascosti. Non è sufficiente smettere dicolpevolizzare le donne o cercare di dar voce ai gruppi etnici. L'attivismo,specialmente per una "causa giusta", corre il rischio di rinforzare le illusionidi potere del terapeuta stesso.

Ritorno, quindi, ai pericoli del professionalismo. Come ho già illustrato,

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Masson (1990) mette in discussione lo status dei professionisti della salute.Egli cita il sociologo medico Eliot Freidson, che nel suo Profession of Me-dicine (1972) scriveva:

A mio parere il ruolo della professione in una società libera dovrebbe limitarsi acontribuire all'informazione tecnica di cui gli uomini (sic!) hanno bisogno per pren-dere decisioni sulla base dei loro valori. Quando si appropria dell'autorità di dirigereo perfino di forzare le decisioni degli uomini (sic!) sulla base dei propri valori, ilprofessionista non è più un esperto ma un membro di una nuova classe privilegiatacamuffato da esperto (Freidson, 1972).

Sono pienamente d'accordo con questa lettura, a parte l'uso della parola"uomini" per rappresentare uomini e donne. Come sottolinea Masson inun'altra parte del suo libro, i soggetti delle prime versioni di cura con le pa-role che oggi chiamiamo psicoterapia erano per gran parte donne, e lo sonotuttora. In una società libera, le donne devono potere avere lo stesso dirittod'accesso degli uomini al pensiero delle persone che consultano, per impe-dire ai "professionisti camuffati da esperti" di scegliere per loro. I metodiriflessivi, riflettenti e immaginativi di cui ho parlato in questo capitolo co-stituiscono un importante passo avanti per far sì che questo sia possibile.

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r 2. // cliente è l'esperto:il "non-sapere " come approccio terapeuticodi Harlene Andreson e Harry Goolishian

È una faccenda davvero interessante e complicata. Se una persona come lei aves-se trovato il modo di parlarmi all'inizio della mia follia... tutte le volte che credevodi essere un grande personaggio dell'esercito... Lo sapevo che questa (allucinazione)non era che una maniera per dire a me stesso che ero in grado di controllare ansia epanico... Invece di parlare di questo con me, i dottori non facevano altro che farmiquello che io chiamo domande condizionali... (Al che il terapeuta chiede: "Cosa so-no queste domande condizionali?").

Voi (professionisti) non facevate che mettermi alla prova... per vedere se io sape-vo quello che voi sapevate già, invece di trovare un modo per parlare con me. E al-lora mi chiedevate: "Questo è un posacenere?" per vedere se lo sapevo o no. Eracome se voi sapeste le cose e voleste vedere se io ci arrivavo... questo non facevache terrorizzarmi di più, che farmi entrare sempre più in agitazione. Se foste riuscitia parlare col "me" che sapeva quant'ero spaventato... se foste stati in grado di capirefino a che punto di follia dovessi giungere per essere forte abbastanza da fronteggia-re questa paura mortale... se ci foste riusciti forse avremmo potuto affrontare quelgenerale pazzo.

Sono le parole di un uomo di trentanove anni, uno dei tanti fallimenti te-rapeutici, un tipico caso di "porta girevole". Bill, questo il suo nome, erastato ospedalizzato in diverse occasioni per quella che era stata diagnosti-cata come schizofrenia paranoide. I suoi precedenti contatti terapeutici nonavevano mai dato alcun risultato. Era rimasto rabbioso e diffidente, ed erastato incapace di lavorare per diverso tempo. Per gran parte della sua vitaadulta aveva preso farmaci psicoattivi in dosi da mantenimento. Quandoconsultò per la prima volta uno degli autori, era stato appena sollevato da unincarico di insegnante. Recentemente, le sue condizioni sono estremamentemigliorate e si è mostrato in grado di conservare un nuovo lavoro. A più ri-prese aveva sostenuto che il suo nuovo terapeuta era diverso dagli altri e cheora si sentiva più adeguato ad affrontare la vita. Fu in questo contesto di

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rconversazione che emerse la domanda: "Cosa avrebbero potuto fare di di-verso i suoi terapeuti precedenti che sarebbe stato utile per lei?".

In questa conversazione Bill si riferiva alla sua esperienza col tipo di te-rapia praticata dagli autori e dai loro colleghi dello Huston Galveston Fa-mily Institute. La nostra terapia si è evoluta nel corso degli ultimi venticin-que anni. In questo periodo, ci siamo sempre più allontanati dalle tradizio-nali teorie della scienza sociale su cui tipicamente si basa la psicoterapia.

Le idee comprese in questo capitolo rappresentano il crescente interesseper un approccio interpretativo ed ermeneutico alla comprensione della te-rapia. Più specificamente, ci occuperemo della posizione del terapeuta come"non-esperto" e della sua rilevanza per le nozioni di conversazione terapeu-tica e di domande conversazionali.

1. Dalla struttura sociale alla creazione del significato

Negli ultimi decenni, gli sviluppi intervenuti nelle terapie sistemiche han-no cercato di elaborare un quadro concettuale che andasse al di là dell'ori-ginario empirismo delle teorie sulla terapia. Questi sviluppi hanno fattoorientare il pensiero sistemico verso quella che viene definita cibernetica disecondo ordine e, più di recente, verso il costruttivismo. Negli ultimi anni ea più riprese (Anderson e Goolishian, 1988, 1989, 1990a) abbiamo eviden-ziato che questo paradigma cibernetico presenta gravi limiti nella sua appli-cazione alla pratica terapeutica. Questi limiti sono principalmente legati allametafora meccanicistica sottostante alla teoria cibernetica del feedback. Ab-biamo sottolineato che dentro questa metafora c'è ben poco spazio per tenerconto dell'esperienza dell'individuo. Ci pare anche di scarsa utilità la cre-scente popolarità dei modelli cognitivisti e costruttivisti, che finiscono pervedere gli esseri umani alla stregua di macchine per l'elaborazionedell'informazione invece che generatori di significato (Anderson e Goo-lishian, 1988, 1990a: Goolishian e Anderson, 1981). Nel contempo, le no-stre teorie sulla terapia si stanno rapidamente spostando verso una posizionepiù interpretativa ed ermeneutica. Si tratta di una prospettiva che sottolineacome i "significati" vengano creati e sperimentati dagli individui nel corsodelle conversazioni. Seguendo questa nuova base teorica, abbiamo svilup-pato diverse idee che spostano la nostra comprensione e spiegazione dellaterapia verso il campo di quei sistemi in costante mutamento che esistonosoltanto nelle bizzarrìe dei discorsi, del linguaggio e delle conversazioni. Èuna prospettiva che si colloca nel dominio della semantica e della narrativa.La nostra posizione attuale si fonda sull'idea che l'agire umano si svolge in

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una realtà di comprensibilità che è creata attraverso la costruzione sociale eil dialogo (Anderson e Goolishian, 1985; Anderson et al., 1986a; Andersone Goolishian 1988). Da questo punto di vista, la gente vive, e da un senso alproprio vivere, attraverso realtà narrative socialmente costruite che offronoun significato e un'organizzazione all'esperienza vissuta. Viviamo in unmondo fatto di linguaggio e discorso. In precedenza avevamo affrontatoqueste idee, questi sistemi di significato, parlando di sistemi determinati dalproblema, sistemi per l'organizzazione e la dis-soluzione del problema, esistemi linguistici (Anderson e Goolishian, 1985; Anderson et al., 1986a;Anderson e Goolishian, 1988; Goolishian e Anderson, 1987).

La nostra attuale posizione narrativa si fonda sostanzialmente sulle pre-messe seguenti (Anderson e Goolishian, 1988; Goolishian e Anderson,1990).• Primo: i sistemi umani sono generatori di linguaggio, e, contemporanea-

mente, generatori di significato. Comunicazione e discorso definisconol'organizzazione sociale. Un sistema socio-culturale è il prodotto dellacomunicazione sociale, e non viceversa, ovvero la comunicazione comeprodotto dell'organizzazione strutturale. Tutti i sistemi umani sono si-stemi linguistici e sono assai meglio descritti dai partecipanti che da os-servatori "obiettivi" esterni. // sistema terapeutico è un sistema linguisti-co di questo tipo.

• Secondo: il significato e la comprensione sono socialmente costruiti.Non si hanno significato e comprensione finché non si compie qualcheazione comunicativa, ovvero, non ci si coinvolge in qualche discorso odialogo generatore di significato all'interno del sistema per il quale talecomunicazione ha rilevanza. Un sistema terapeutico è un sistema per ilquale la comunicazione ha una rilevanza specifica, data la sua naturadi scambio dialogico.

• Terzo: qualunque sistema in terapia è un sistema che si è dialogicamentecostituito attorno a qualche "problema". Questo sistema si coinvolgerànell'evoluzione del linguaggio e del significato in un modo specifico allapropria organizzazione e alla propria dis-soluzione attorno al "proble-ma". In questo senso, il sistema della terapia è caratterizzato dall'evol-vere del significato co-creato, "il problema", piuttosto che da un'arbi-traria struttura sociale, quale la famiglia. // sistema terapeutico è un si-stema per l'organizzazione e la dis-soluzione del problema.

• Quarto: la terapia è un evento linguistico che si svolge tramite quella chenoi definiamo conversazione terapeutica. La conversazione terapeutica èuna ricerca ed esplorazione congiunta attraverso il dialogo, uno scambiobidirezionale, un intrecciarsi di idee in cui nuovi significati emergono

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continuamente verso la "dis-soluzione " del problema e, dunque, la dis-soluzione del sistema terapeutico.

• Quinto: il ruolo del terapeuta è quello di un artista della conversazione -un architetto del processo dialogico - la cui abilità e maestria consiste nelcreare uno spazio per e nel facilitare una conversazione dialogica. // te-rapeuta è un osservatore-partecipante e un facilitatore-partecipantenella conversazione terapeutica.

• Sesto: il terapeuta esercita la sua arte terapeutica attraverso l'uso di do-mande conversazionali, o terapeutiche. La domanda terapeutica è lostrumento d'elezione per facilitare lo sviluppo di uno spazio conversa-zionale e di un processo dialogico. Per far ciò, il terapeuta usa la pro-pria maestrìa nel fare domande da una posizione di "non-esperto", in-vece di fare domande tecniche che richiedono risposte specifiche.

• Settimo: i problemi che affrontiamo in terapia sono azioni che fannoparte di narrative in cui viene svuotato il nostro senso di attiva parteci-pazione e di liberazione personale.I problemi segnalano l'insostenibilità di una situazione che ci impediscedi intraprendere azioni adeguate per noi stessi. In questo senso, i pro-blemi esistono nel linguaggio e sono specifici al contesto narrativo dacui derivano il loro significato.

• Ottavo: il cambiamento in terapia è la creazione dialogica di una nuovanarrativa che apre la strada a nuove azioni adeguate. Il potere trasforma-tivo della narrativa consiste nella sua capacità di ri-collegare gli eventidelle nostre vite nel contesto di un significato diverso. Noi viviamo nellee attraverso le identità narrative che sviluppiamo nelle conversazionicon gli altri. Il terapeuta deve avere l'abilità di partecipare a questo pro-cesso. Il nostro "sé" è in continua evoluzione.

Queste premesse pongono un forte accento sul ruolo del linguaggio, dellaconversazione, del sé, e della storia come aspetti che influenzano sostan-zialmente la nostra teoria e il nostro lavoro clinico. Oggi c'è un forte inte-resse tra i terapeuti per questi temi, in un incessante tentativo di comprende-re e descrivere il lavoro clinico. Stanno emergendo, tuttavia, prospettive as-sai diverse tra loro. Alcuni colleghi enfatizzano la stabilità nel tempo dellenarrative personali con cui lavoriamo in terapia. Noi, d'altro canto, mettia-mo l'accento sulla natura costantemente mutevole, evolutiva e dialogicadella storia del sé. Assumendo questa posizione, dobbiamo anche sottolinea-re la posizione del terapeuta come non-esperto rispetto alla comprensioneche si svilupperà durante la conversazione terapeutica. Il concetto di non-esperto intende contrapporsi all'idea che la comprensione del terapeuta sibasi su narrative teoriche preesistenti.

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La posizione di "colui-che-non-sa" richiede che le nostre comprensioni,spiegazioni e interpretazioni in terapia non siano, vincolate da precedentiesperienze o verità teoricamente definite, o dal nostro sapere. Questa descri-zione della posizione del "non-esperto" è influenzata dall'ermeneutica edalle teorie interpretative, nonché dai concetti di linguaggio e narrativa diderivazione socio-costruzionista (Gergen, 1982; Shapiro e Sica, 1984;Shotter e Gergen, 1989; Wachterhauser, 1986). Questa prospettiva erme-neutica costituisce la teoria e la pratica dell'interpretazione. Fondamental-mente, si tratta di una posizione filosofica che sostiene che "qualunquecomprensione è sempre il frutto di un'interpretazione... e che non c'è alcunaposizione privilegiata per la comprensione" (Wachterhauser, 1986: 399), eche "il linguaggio e la storia sono sempre condizioni e vincoli per la com-prensione" (Wachterhauser, 1986: 6). Significato e comprensione sono so-cialmente costruiti dalle persone in conversazione tra loro. Così, l'azioneumana si svolge in una realtà di comprensione che è creata attraverso la co-struzione sociale e il dialogo. Queste realtà narrative socialmente costruitedanno significato ed organizzazione all'esperienza individuale (Gergen,1982; Shotter e Gergen, 1989; Anderson e Goolishian, 1988).

2. Conversazione terapeutica: una modalità dialogica

Nella prospettiva di questo approccio dialogico, il processo terapeuticopuò essere definito una "conversazione terapeutica".

Conversazione terapeutica è la descrizione del tentativo di capire edesplorare i "problemi" attraverso il dialogo. Terapia, e dunque conversazio-ne terapeutica, si riferisce ad un processo il cui fondamento è "esserci in-sieme". Le persone parlano le une "con" le altre, e non le une "alle" altre. Èun meccanismo attraverso cui il terapeuta e il cliente partecipano al co-evolvere di nuovi significati, nuove realtà e nuove narrative. Il ruolo del te-rapeuta, la sua abilità e il suo impegno, sono rivolti alla creazione di unospazio conversazionale libero e al facilitare un nuovo processo dialogico incui questa "novità" possa emergere. L'accento non è sul produrre cambia-mento, ma sul creare uno spazio libero per la conversazione. In questa pro-spettiva ermeneutica, il cambiamento in terapia è rappresentato dalla crea-zione dialogica di una nuova narrativa. Mentre il dialogo evolve, una nuovanarrativa, storie "non-ancora-dette", vengono mutualmente create (Andersone Goolishian, 1988). Il cambiamento nelle storie e nelle narrative biografi-che è una conseguenza insita nel dialogo.

Per ottenere questo particolare tipo di conversazione terapeutica, il tera-

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rpeuta deve adottare un approccio "non-esperto".

Questa particolare posizione richiede un atteggiamento generale di gran-de, genuina curiosità. Vale a dire, le azioni e gli atteggiamenti del terapeutaesprimono il bisogno di saperne di più a proposito di quanto è stato detto,invece di manifestare opinioni ed aspettative preconcette sul cliente, sulproblema, o su cosa dev'essere cambiato. Il terapeuta, di conseguenza, sipropone in modo da essere sempre in attesa di "essere informato" dal cliente("cliente", in questo contesto, si riferisce ad una o più persone). Questa atte-sa di "essere informato" è in sintonia con l'assunto ermeneutico secondo cuila creazione dialogica del significato è in continua evoluzione. Col suo"non-sapere" il terapeuta adotta una posizione interpretativa che si basa suuna continua analisi dell'esperienza così come essa si verifica nel contesto.

Il terapeuta non "conosce", a priori, l'intento di qualunque azione, e devepiuttosto affidarsi alla spiegazione del cliente. Attraverso l'apprendimento,la curiosità, e il prendere il cliente sul serio, il terapeuta si avvicina al clienteper esplorare insieme esperienze e spiegazioni di quest'ultimo. Così il pro-cesso dell'interpretazione, la battaglia per la comprensione in terapia, di-venta una collaborazione. Questo atteggiamento consente al terapeuta di re-stare sempre vicino alla posizione del cliente e di assicurare un'importanzacentrale alla visione del mondo, ai significati e alle spiegazioni del clientestesso.

In tal modo il cliente può muoversi liberamente nello spazio della con-versazione, dato che non deve più cercare di affermare e proteggere la pro-pria visione del mondo, e convincere il terapeuta. Questo processo rilassantee liberatorio richiama alla mente un concetto attribuito a Bateson: per pre-stare attenzione a nuove idee, bisogna che ci sia spazio per ciò che è familia-re. Ciò non significa che il terapeuta sviluppi ed offra le nuove idee o i nuo-vi significati. Questi emergono dal dialogo tra terapeuta e cliente, e sonodunque co-creati. Il terapeuta diventa semplicemente parte del circuito delsignificato, o circuito ermeneutico (per un'analisi di questo aspetto, si veda-no Wachterhauser, 1986: 23-4; e Warnke, 1987: 83-7).

In terapia, il circuito ermeneutico, o circuito del significato, si riferisce alprocesso dialogico attraverso cui l'interpretazione ha inizio con le precon-cezioni del terapeuta. Il terapeuta entra sempre in seduta portando con séaspettative su ciò che dovrà essere affrontato che si fondano sulle sue espe-rienze precedenti e Sulle informazioni ricevute dall'inviante. La terapia ini-zia sempre con un interrogativo basato su questo significato preesistente. Ilsignificato che emerge viene compreso a partire da questo insieme di cono-scenze (le preconcezioni del terapeuta), ma queste vengono a loro voltacomprese alla luce di ciò che emerge (la storia del cliente). Il terapeuta e il

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cliente vanno avanti e indietro all'interno di questo circuito del significato.Essi si spostano dal parziale al globale e di nuovo al parziale, restando co-munque all'interno del circuito. In questo processo emerge nuovo signifi-cato sia per il terapeuta che per il cliente.

"Non sapere" non significa dare giudizi in modo infondato o senza espe-rienza, ma si riferisce in senso più ampio a quell'insieme di assunti e di si-gnificati che il terapeuta porta con sé quando conduce l'intervista clinica. Lostimolo per il terapeuta sta nell'apprendere l'unicità della verità narrativa diogni cliente, le coerenti verità delle loro storie di vita.

I terapeuti portano sempre con sé i pregiudizi legati alle esperienze pre-cedenti, ma questo non deve compromettere in alcun modo la loro capacitàdi ascolto, per cogliere a pieno il significato della descrizione del cliente.Questo può avvenire solo se il terapeuta si accosta ad ogni esperienza clini-ca partendo dall'assunto di non-sapere. Fare altrimenti significa cercare re-golarità e un significato comune che possa validare la teoria del terapeuta,ma che finisce per invalidare l'unicità delle storie dei clienti e quindi la lorostessa identità. Lo sviluppo di nuovo significato dipende dalla novità, dalnon-già-noto in ciò che il terapeuta sta per ascoltare. Questo richiede al te-rapeuta una grande capacità di portare avanti contemporaneamente una con-versazione interna ed una conversazione esterna. Gadamer ha scritto al ri-guardo:

Chi vuoi comprendere un testo deve essere pronto a lasciarsi dire qualcosa da es-so. Perciò una coscienza ermeneutica educata deve essere preliminarmente sensibileall'alterila del testo. Tale sensibilità non presuppone né un'obiettiva "neutralità" néun oblio di se stessi, ma implica una precisa presa di coscienza delle proprie pre-supposizioni e dei propri pregiudizi. Bisogna essere consapevoli delle proprie pre-venzioni perché il testo si presenti nella sua alterila e abbia concretamente la possi-bilità di far valere il suo contenuto di verità nei confronti delle presupposizioni del-l'interprete (1975: 238; trad. it., Verità e metodo, Bompiani, Milano, 1994, p. 316).

Interpretazione e comprensione, quindi, richiedono sempre un dialogo traterapeuta e cliente, e non sono il risultato delle narrative teoriche predeter-minate che sono parte integrante del mondo dei significati del terapeuta.

Molte narrative linguistiche e socialmente determinate, tra quelle che agi-scono sull'organizzazione del comportamento, contengono al proprio inter-no alcuni elementi articolati come auto-descrizioni, o narrative in prima per-sona. Lo sviluppo di queste narrative per l'auto-definizione avviene in uncontesto sociale e locale che comprende conversazioni con altri significativi,oltre che con se stessi. La gente vive con e attraverso le identità narrative in

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rcostante modificazione che si sviluppano attraverso la conversazione con glialtri. Gli individui derivano il proprio senso di attori sociali da queste narra-tive emergenti dal dialogo. Esse permettono (o impediscono) una percezionepersonale di libertà o di competenza per l'attribuzione di senso e perl'azione. I "problemi" affrontati in terapia possono essere visti comeun'emanazione di narrative sociali e di auto-definizioni che non contengonoun attore adeguato per svolgere i compiti impliciti nell'auto-narrazione. Laterapia costituisce un'opportunità per lo sviluppo di narrative diverse checonsentano un più ampio repertorio di azioni finalizzate alla dis-soluzionedel "problema". È il raggiungimento di questa nuova capacità narrativa cheviene vissuta come "libertà" e liberazione da chi sperimenta un successo te-rapeutico.

Allo stesso tempo, questa liberazione richiede uno spostamento dallaconcezione tradizionale basata sulla separazione terapeuta-cliente. Noi ve-diamo terapeuta e cliente, insieme, come parti di un sistema che evolve nelcorso della conversazione terapeutica. Il significato diventa una funzionedella loro relazione. Da questa prospettiva, cliente e terapeuta si influenzanoa vicenda nei loro significati, e i significati diventano il risultato della reci-procità. Cliente e terapeuta si affidano alla creazione di nuova comprensio-ne, momento per momento. Essi generano, infatti, un significato dialogica-mente condiviso che esiste soltanto in un dato momento nella conversazioneterapeutica, e che continua a modificarsi nel corso del tempo.

3. Domande e conversazione: tenere la strada aperta alla comprensione

Tradizionalmente, le domande in terapia sono influenzate dall'abilità delterapeuta, un'abilità che è il riflesso di una certa visione teorica e di unaparticolare conoscenza dei fenomeni psicologici e del comportamento uma-no. Il terapeuta, in sostanza, spiega (con la diagnosi) e cerca di modificare(con il trattamento) un certo fenomeno o comportamento a partire dalle sueprecedenti conoscenze, da una teoria generale. Così facendo i terapeuti riaf-fermano (e proteggono) la coerenza della loro narrativa invece di quella delpaziente. Questa posizione esperta assomiglia a quella che Bruner (1984)definisce come "posizione paradigmatica", contrapponendola alla "posi-zione narrativa". Assumendo una posizione paradigmatica il soggetto prestaattenzione alle spiegazioni che contengono un'interpretazione denotativa,categorie generali e regole estensive. Ad esempio, concetti come "es","super-io" o "funzionalità del sintomo" si basano sull'uso di ampie catego-rie spesso sviluppate nel processo dell'interpretazione terapeutica. In tera-

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pia, fare domande da una posizione esperta significa che la risposta non puòche collocarsi all'interno della prospettiva teorica del terapeuta, come nelcaso della "posizione paradigmatica" di Bruner. Per contro, la posizionenon-esperta - analogamente alla "posizione narrativa" di Bruner - suggerisceun altro tipo di abilità del terapeuta; in tal caso il limite è costituito dal pro-cesso terapeutico piuttosto che dal contenuto (diagnosi) e dal cambiamento(trattamento) della struttura patologica.

La domanda terapeutica o conversativa è lo strumento principe utilizzatodal terapeuta per esprimere la propria maestria. È il mezzo attraverso cui ilterapeuta si mantiene sulla via della comprensione. Le domande terapeuti-che nascono sempre dal bisogno di saperne di più su quanto è appena statodetto. Così, il terapeuta viene costantemente informato attraverso le storiedel cliente e impara linguaggi e narrative sempre nuove. Le domande chesono troppo legate ad un metodo rischiano di mettere a repentaglio l'op-portunità di essere guidati dal cliente all'interno del suo mondo. Alla basedelle domande terapeutiche non sta soltanto l'interrogare il cliente o il rac-cogliere informazioni per convalidare o supportare ipotesi preesistenti. Loscopo è piuttosto di consentire al cliente di mettere in discussione il reperto-rio interpretativo del terapeuta.

In questa prospettiva ermeneutica, nel corso del processo psicoterapeuti-co il terapeuta non applica un metodo d'intervista, ma cerca invece di adat-tare la propria comprensione a quella dell'altro. Il terapeuta si trova dunquein un costante processo interpretativo, sempre sulla via della comprensione edel cambiamento.

Le domande non-esperte riflettono questa posizione del terapeuta e que-sta visione del processo terapeutico. Il terapeuta non deve dunque dominareil cliente col suo esperto sapere psicologico; è invece il sapere del clienteche lo guida e lo aiuta ad apprendere. Il compito del terapeuta non è quindidi analizzare, ma di cercare di capire, e di capire dalla mutevole prospettivadell'esperienza di vita del cliente. Nella comprensione ermeneutica lo scopoè lasciare che siano i fenomeni a guidare la danza. Le parole di Bill all'ini-zio di questo capitolo suonano come un chiaro invito a questo tipo di atteg-giamento.

4. Significato locale e dialogo locale

II far domande da una posizione non-esperta produce lo svilupparsi diuna comprensione costruita localmente (dialogicamente) e di un vocabolariolocale (dialogico). Locale si riferisce al linguaggio, al significato e alla

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rcomprensione che si costruisce tra persone che dialogano, e non attraversosensibilità culturali generali. È attraverso la comprensione locale che si daun senso personale ai ricordi, alle percezioni e alle storie. Attraverso questoprocesso lo spazio per continuare nuove narrative con nuove storie - e dun-que nuovo futuro - resta aperto.

Il tema del significato locale e del linguaggio locale è importante perchémette l'accento sull'esistenza di uno spettro di esperienze, e di modi di co-noscere queste esperienze, che è piuttosto diverso da "conoscente" a"conoscente", e che varierà da una terapia all'altra. Garfmkel (1967) eShotter (1990) sottolineano che in ogni conversazione i partecipanti rifiute-ranno di comprendere ciò che viene affermato se non all'interno delle regoledi significato che sono state negoziate nel contesto dello scambio dialogicoin atto. Significato e comprensione, secondo Garfmkel, hanno sempre a chefare con una negoziazione tra i partecipanti. Il linguaggio paradigmatico tra-dizionale delle teorie psicologiche e familiari non riesce a spiegare o capireil significato che emerge localmente. Tentare di capire le esperienze in pri-ma persona che i terapeuti affrontano in terapia con l'uso di modelli psico-logici e familiari generali, e coi relativi vocabolari, porta ad una riduzionedell'esperienza a concetti teorici stereotipici. Usando tali concetti e precon-cezioni per comprendere la narrativa del cliente, i terapeuti spesso perdonoogni contatto coi significati localmente costruiti dal cliente stesso e finisco-no per limitare le sue possibilità narrative. Il terapeuta, quindi, diventa unesperto nel fare domande sulle storie raccontate in terapia, collegandole alleragioni della consultazione (ad esempio, il problema così come viene ripor-tato). Per far ciò, il terapeuta deve prestare attenzione allo sviluppo dellanarrativa e delle metafore usate per descrivere il problema, e cercare digiungere ad una comprensione che sia all'interno del linguaggio del cliente.

5. Cosa non sono le domande terapeutiche

Le domande terapeutiche coerenti con l'assunto del "non-sapere" sonoper certi versi simili alle cosiddette domande socratiche. Non sono né retori-che né pedagogiche. Le domande retoriche contengono già in sé la loro ri-sposta; le domande pedagogiche implicano la direzione della risposta. Ledomande nelle terapie tradizionali sono spesso di questo tipo: indicano unadirezione (la giusta realtà) e danno al cliente un indizio per aiutarlo a trovarela risposta "corretta".

Per contro, le domande non-esperte portano allo scoperto qualcosa disconosciuto ed imprevisto. Le domande terapeutiche sono stimolate dalla

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differenza d'interpretazione e sono orientate al futuro, dirigendosi verso lapossibilità non ancora realizzata di uiyuconoscenza comune. Facendo do-mande a partire da questa premessa, il terapeuta è in grado di muoversi ver-so il "non-ancora-detto" (Anderson e Goolishian, 1988).

Le domande terapeutiche, inoltre, lasciano la porta aperta a molte possi-bili risposte. La conversazione in terapia è il dispiegarsi di queste possibilità"non-ancora-dette", di queste narrative "non-ancora-dette". Tale processoaccelera l'evoluzione di nuove realtà ed azioni personali, che emergono daldispiegarsi di narrative diverse. Nuovi significati, e quindi nuove azioni,vengono sperimentati come cambiamenti dell'organizzazione individuale esociale.

5.1. Un esempio: "Da quanto tempo ha questa malattia?"

Un collega psichiatra, piuttosto frustrato, ci chiese una consulenza a proposito diun caso decisamente impenetrabile - un quarantenne che credeva di avere una ma-lattia contagiosa e di contagiare continuamente gli altri, perfino di avere uccisoqualcuno. I più svariati esami medici, ad esito negativo, e diverse psicoterapie nonerano riuscite a togliergli dalla testa le sue convinzioni e paure. Anche se avevaparlato delle sue difficoltà matrimoniali (sua moglie non lo capiva) e del fatto chenon riusciva a lavorare, la sua massima preoccupazione continuava ad essere la suamalattia e il relativo rischio di contagio. Era terrorizzato, agitato e incapace di pen-sare ad altro che al dolore e alla rovina che sapeva di stare diffondendo ovunque.

Appena iniziò a raccontare la sua storia, stringendosi ossessivamente le mani,disse di essere ammalato e contagioso. Il consulente (Goolishian) gli chiese: "Daquanto tempo ha questa malattia?". Con lo sguardo confuso e dopo una lunga pausa,l'uomo iniziò a raccontare la storia. Tutto era iniziato, disse, quando era marinaio. InEstremo Oriente aveva avuto un rapporto sessuale con una prostituta. In seguito,ricordando le lezioni sulle malattie sessualmente trasmesse che venivano impartite aimarinai a bordo della nave, aveva temuto che la sua lussuria lo avesse esposto aduna di quelle orribili malattie e pensò che aveva bisogno di cure. In preda al panico,si era recato in una clinica del posto per una consulenza. Raccontò i suoi timori adun'infermiera che apparteneva ad un ordine religioso. Questa lo aveva cacciato inmalo modo dicendogli che in quella clinica non si curavano i pervertiti - e che luiaveva bisogno di confessarsi e chiedere l'aiuto di Dio, non di medicine. In seguito,pieno di vergogna e senso di colpa, aveva a lungo tenuto per sé i suoi timori nonparlandone con nessuno.

Una volta tornato a casa, la preoccupazione per la possibilità di aver contrattoqualche malattia non passava, ma non si confidò con nessuno. Si fece visitare in di-verse cliniche, e gli venne invariabilmente risposto che le sue condizioni di saluteerano eccellenti. Tutti quegli esiti negativi lo convinsero del fatto che doveva trattar-

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il di un* nudatila talmente seria, da essere sconosciuta alla scienza medica. Col cre-icore dei suoi timori, cominciò a pensare di essere contagioso e che stava infettandoultri. Quest'idea del contagiare gli altri divenne così ossessiva che alla fine si mise intesta che li stava infettando anche indirettamente: ad esempio, anche solo guardandola tv o ascoltando la radio. Continuò a consultare medici, ma gli esami erano semprenegativi. A quel punto, i consulenti cominciarono a dirgli che non aveva alcunamalattia fisica ma che invece aveva un problema mentale, e fu così inviato diversevolte a farsi vedere da uno psichiatra. Col passare del tempo si convinse che nessunocapiva la gravita della sua infezione, la portata della malattia e la distruzione cheegli stava provocando intomo a sé.

Il consulente continuava a mostrarsi interessato al suo dilemma, e l'uomo diventòvia via più rilassato. Con una certa animazione, dettagliava il suo racconto per sod-disfare la curiosità del consulente. Quest'ultimo non si limitava ad ascoltare o amettere insieme i pezzi di un passato immobile. La sua curiosità continuava a stareall'interno della realtà del paziente (la malattia e la contaminazione). Il suo intentonon era di sfidare la storia o la realtà di quell'uomo, quanto piuttosto di saperne dipiù, e di lasciarla ri-raccontare in modo che potessero emergere nuovi significati euna nuova narrativa. In altri termini, il consulente non cercava di manipolare il pa-ziente o di convincerlo d'altro, ma attraverso il non-sapere (la non-negazione e ilnon-giudizio) cercava di trovare il punto di partenza per un dialogo e per l'aperturadi uno spazio conversazionale.

Alcuni colleghi, vedendo il processo dell'intervista, furono piuttosto critici suquesta posizione collaborativa e su domande del tipo "Da quanto tempo ha questamalattia?". Temevano che queste domande avrebbero avuto l'effetto di rinforzare le"allucinazioni ipocondriache" del paziente. Diversi di loro suggerirono che una do-manda molto più sicura sarebbe stata: "Da quanto tempo pensa di avere questa ma-lattia?".

Se si assume una posizione non-esperta, tuttavia, non ha alcun senso considerarela storia del paziente allucinatone. Aveva detto di essere malato. Dunque, era neces-sario saperne di più, sapere di più sulla sua malattia, e conversare all'interno di que-sta realtà linguistica. Cercare di capire ed essere sensibili alla storia di quell'uomo fuun passaggio essenziale nel graduale processo di costruzione e mantenimento di undialogo. È stato decisivo che il consulente sia rimasto all'interno delle regole di si-gnificato sviluppate in quella specifica conversazione e abbia cercato di parlare ecapire nel linguaggio e col vocabolario del cliente. Questo non ha niente a che farecon l'approvare o il reificare una particolare realtà. È un muoversi nella conversa-zione nel "senso" di quanto è appena stato detto. È un percorso che segue la veritànarrativa della storia del cliente invece che sfidarla, e resta all'interno del sistema disignificato localmente costruito e localmente negoziato.

Aver fatto una domanda più sicura, tipo: "Da quanto tempo pensa di avere questamalattia?" non sarebbe servito ad altro che ad imporre la visione "esperta" o"paradigmatica" del consulente secondo cui la malattia non era che un prodottodell'immaginazione del cliente o un'allucinazione o distorsione da correggere. Inrisposta ad una domanda del genere quell'uomo diffidente non avrebbe potuto che

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affidarsi alle sue idee precostituite e alle sue aspettative riguardo al consulente.Molto probabilmente, una volta di più, si sarebbe sentito incompreso e alienato. Ilconsulente non sarebbe stato altro che un altro professionista nella lunga lista diquelli che non gli credevano e gli facevano domande "condizionali". Incomprensio-ne e alienazione sono ingredienti per la chiusura più che per l'apertura di un dialo-

go.Al momento di chiudere l'intervista, lo psichiatra inviante (che aveva osservato

l'incontro) chiese al suo cliente com'era andata. La sua risposta immediata fu: "Beh,mi ha creduto!". In una conversazione di follow-up, lo psichiatra ci descrissel'effetto che quell'intervista continuava ad avere sul cliente e su di lui. Ci disse chele sedute sembravano meno difficili e che la situazione di vita dell'uomo era moltomigliorata. In qualche modo, disse, è come se il fatto che egli sia infettato o no nonfosse più un gran problema. Ora stava affrontato i suoi problemi matrimoniali e lasua disoccupazione, e c'erano state anche alcune sedute a cui aveva partecipato an-che la moglie. La posizione non-esperta assunta dal consulente aveva offerto unpunto di partenza, una possibilità, per uno scambio dialogico tra il cliente e se stes-so, tra lo psichiatra e il cliente, e tra lo psichiatra e se stesso. Questo non vuole sug-gerire l'idea che le domande del consulente abbiano prodotto una cura miracolosa.Né che qualunque altra domanda non avrebbe che provocato ulteriore impasse. Nes-suna domanda o intervento miracoloso può di per sé influenzare lo sviluppo di unavita. Nessuna domanda può di per sé aprire uno spazio dialogico. Né far sì che unapersona modifichi i propri significati, abbia o non abbia una nuova idea. Piuttosto,ogni domanda è un elemento di un processo più ampio.

Il compito centrale del terapeuta è di cercare di trovare la domanda a cui il rac-conto dell'esperienza e della narrativa del cliente possa trovare una risposta imme-diata. Tali domande non possono essere pianificate o conosciute in anticipo. Ciò cheè appena stato detto, ciò che è stato appena raccontato, è la risposta a cui il terapeutadeve trovare la domanda. La narrativa che si costruisce in terapia indirizza il tera-peuta verso la domanda successiva. Da questa prospettiva, le domande in terapiasono sempre suggerite dagli eventi conversazionali immediatamente precedenti. Nonsapere significa che l'esperienza accumulata dal terapeuta è sottoposta ad un proces-so di costante cambiamento interpretativo. È in questo processo, locale e graduale,di domanda e risposta che una particolare comprensione o una particolare narrativadiventano un punto di partenza per qualcosa di nuovo e "non-ancora-detto".

6. Sommario

Conversazione terapeutica e domande terapeutiche che emergono dallaposizione non-esperta diventano un tentativo di collaborazione per generarenuovo significato a partire dalla storia linguistica e dalla spiegazione delcliente, attraverso il continuo ri-raccontare ed elaborare quella storia neldialogo terapeutico. Questo tipo di scambio dialogico facilita il cambia-

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mento della narrativa in prima persona che è così importante modificare interapia. Un nuovo futuro emerge dalle narrative in via di elaborazione chedanno nuovo significato e comprensione alla vita del cliente e consentonoun agire diverso. In terapia è più facile raggiungere questo obiettivo attra-verso domande basate su una genuina curiosità per ciò che ancora "non sisa" a proposito del tema di cui si è appena parlato.

Raccontare la propria storia è ri-presentare un'esperienza; è costruire lastoria nel presente. La ri-presentazione riflette la ri-spiegazione e la ri-descrizione dell'esperienza in risposta a quanto non è già conosciuto dal te-rapeuta. Questi aspetti evolvono insieme, così come l'esperienza, e la sua ri-presentazione. Ciò non significa che nel corso della terapia i terapeuti nonfacciano altro che raccontare quello che già si sa. Essi non recuperanoun'immagine o una storia sempre uguale. Piuttosto, i terapeuti esplorano lerisorse del "non-già-detto". Le persone hanno una memoria immaginativa. Ilpassato viene recuperato in modo tale da suggerire l'esistenza di innumere-voli nuove possibilità, così da costruire nuovi scenari e una nuova storia.L'immaginazione si costituisce attraverso il potere inventivo del linguaggionel processo attivo della conversazione: la ricerca del "non già detto".

In terapia, l'interpretazione, la ricerca della comprensione, è sempre undialogo tra cliente e terapeuta. Non è il risultato di narrative teoriche prede-terminate, al centro del mondo di significati del terapeuta. Cercando di capi-re il cliente, bisogna assumere che il cliente abbia qualcosa da dire, e chequesto qualcosa abbia un senso narrativo, affermi la propria verità, nel con-testo della storia emergente del cliente. La risposta del terapeuta al sensodella storia del cliente ed agli elementi che contiene è in contrasto con latradizionale posizione terapeutica secondo cui occorre replicare all'insen-satezza, o alla patologia, di quanto è stato detto. In questo processo la com-prensione della nuova narrativa co-costruita deve avvenire nel linguaggioabituale del cliente. Una conversazione terapeutica non è altro che una storiadi vita individuale che evolve lentamente, concreta, dettagliata, e che vienestimolata dalla posizione non-esperta del terapeuta e dalla sua curiosità disaperne di più. È questa curiosità, questo non sapere, che apre uno spazioconversazionale ed accresce così la possibilità dello sviluppo narrativo dinuove capacità d'azione e libertà personale.

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