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Ogni settimana il meglio dei giornali di tutto il mondo 16 / 22 maggio 2008 n. 744 anno 15 3,00 Ĕ Wholphin +10,00 Ĕ Film +9,00 Ĕ 9 771122 283008 80744

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Internazionale 744

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Ogni settimana il meglio dei giornali di tutto il mondo 16 / 22 maggio 2008 • n. 744 • anno 15 • 3,00 Wholphin +10,00 • Film +9,00

9771122

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internazionale 744, 16 maggio 2008 • �

16 / 22 MAGGIO 2008 · NUMERO 744 · ANNO 15

Sommario

internazionale.it/sommario

LA SETTIMANAGIOVANNI DE MAURO

[email protected]

Civiltà

IN COPERTINA

Attenti a McCain • 34Newsweek

GLI ARTICOLI

ATTUALITÀIl Libano sull’orlo della guerra civile • 20I commenti della stampa mediorientaleGRAPHIC JOURNALISMCartoline da Beirut • 24Mazen KerbajITALIENIMilano, il campo rom che non c’è più • 29John Foot per InternazionaleINDONESIAIl vulcano di fango • 44TimeCOMORENoi siamo francesi • 48Nrc HandelsbladRITRATTIMikheil Saakashvili.Il presidente inarrestabile • 52 Financial TimesVIAGGILa capitale della cabala • 56Frankfurter Allgemeine ZeitungSCIENZALe radici della musica • 60 New ScientistIDEEScomodi meticci • 71Louis-Philippe Dalembert

CULTURAIl rebus esistenziale • 84The GuardianECONOMIA E LAVOROAnche l’India ha la sua Motor city • 86The IndependentSCIENZA E TECNOLOGIALa pattumiera dell’oceano Paciico • 88Le MondeAFRICA E MEDIO ORIENTELo Zimbabwe in crisi aiutato dalla diaspora • 90Mail & GuardianAMERICHELa spia venuta dall’hamburger• 92International Herald TribuneASIA E PACIFICOIl vero volto della giunta birmana • 94The IrrawaddyEUROPAI serbi verso l’Europa • 96Utrinski VesnikBLOGInvito a cena con gli intellettuali di Riyadh • 98Lubna Hussain

NEL MONDO • 13Città • 16Il pianeta • 18

Financial Times. È un quotidiano economico britannico. L’articolo a pagina 52 è uscito il 26 aprile 2008 con il titolo Neo-Georgian architect.Frankfurter Allgemeine

Zeitung. È un quotidiano tedesco moderato. L’articolo a pagina 56 è uscito il 30 marzo 2008 con il titolo Kabbala und Liebe.New Scientist. È un settimanale britannico di divulgazione scientiica. L’articolo a pagina 60 è uscito il 23 febbraio 2008 con il titolo The roots of music.

LE PRINCIPALI FONTI DI QUESTO NUMERO

Ogni settimana il meglio dei giornali di tutto il mondo 16 / 22 maggio 2008 • n. 744 • anno 15 • 3,00 €Wholphin +10,00 € • Film +9,00 €

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p Per capirlo bisogna fare uno sforzo d’immagina-zione. E pensare di esse-re un italiano emigrato in Francia o negli Stati Uniti. Di avere un lavoro regolare, una casa, una famiglia. E di vedere sui giornali e in tv gente che parla dell’emergenza degli italiani, degli italiani tutti criminali, di come ri-mandare a casa gli italia-ni. Più o meno così deve sentirsi un cittadino ru-meno che ha deciso di ve-nire a vivere in Italia: come un ospite indeside-rato. I libri di storia ci insegnano che quando un gruppo di persone identiicato in base alla religione, alla nazionalità o al colore della pelle di-venta il bersaglio delle paure e delle tensioni del-la collettività, si annuncia-no tempi bui. Per questo il modo in cui un paese affronta l’immigrazione e in generale il rapporto con le minoranze di tutti i tipi è uno degli indici più chiari del grado di civiltà e di sviluppo della democrazia.

Newsweek. Insieme a Time, è il più importante newsmagazine statunitense. L’articolo a pagina 34 è uscito il 2 febbraio 2008 con il titolo What these eyes have seen.Nrc Handelsblad. È un quotidiano dei Paesi Bassi di orientamento liberale. Pubblicato a Rotterdam, ha un’edizione settimanale che raccoglie i migliori articoli della settimana. L’articolo a pagina 48 è uscito il 23 febbraio 2008 con il titolo Wij worden Frans.

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PORTFOLIO • 66Schegge pachistaneLe foto di Bertrand Meunier

CULTURA • 75Cinema, libri, musica, tv

LE OPINIONI

TULLIO DE MAURO • 13Volonturismo

AMIRA HASS • 14Troppi arabi

ZUHAIR AL JEZAIRY • 15Un esame dificile

DAVID RANDALL • 17Penne avvelenate

BINYAVANGA WAINAINA • 19Emorroidi africane

TONY WHEELER • 58Le lunghe code per il visto

GOFFREDO FOFI • 78Sulle rotte dei migranti

PIER ANDREA CANEI • 80Nerdcore now

PASCAL PETIT • 82In prima persona

TITO BOERI • 878.000

LE RUBRICHE

GLI EDITORIALI • 11 ITALIENI • 26ETHICAL LIVING • 33STRISCE • 100OROSCOPO • 103L’ULTIMA • 106

MARTI

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Internazionale pubblica in esclusiva per l’Italia gli articoli dell’Economist

“Scegliere o non scegliere: questo è il problema!”. –Lubna Hussain, a pagina 98

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13 MAGGIO 2008

Sotto le maceriep JUYUAN, CINA. Una studentessa viene estratta dalle macerie della sua scuola, crollata durante il terremoto del 12 maggio. La scossa principale ha colpito la provincia sudoccidentale del Sichuan. Il bilancio uficiale provvisorio è di quindicimila morti e di decine di migliaia di dispersi. Nei soccorsi sono impegnati cinquantamila soldati. Il governo ha detto di aver stanziato per gli aiuti 5,5 miliardi di yuan (508 milioni di euro). Foto di Ng Han Guan (Ap/Lapresse)

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INTERNAZIONALE

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10 MAGGIO 2008

Paesaggio lunarep FUTALEUFÚ, CILE. L’eruzione del vulcano Chaitén, nel Cile meridionale, ha ricoperto l’area circostante di uno spesso manto di cenere. Oltre settemila persone hanno lasciato le loro case dall’inizio dell’attività vulcanica, il 2 maggio. Gli unici a rimanere sono i contadini, che non vogliono abbandonare il bestiame. Il fumo e le ceneri hanno raggiunto anche l’Argentina. Foto di Ferran Majol (Ap/Lapresse)

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INTERNAZIONALE

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13 MAGGIO 2008

Fiocco verdep SRIRACHA, THAILANDIA. Tra maggio e agosto nello Sriracha tiger zoo si schiudono le uova di coccodrillo. Questo zoo, che si trova 140 chilometri a sudest di Bangkok, ospita più di duecento tigri del Bengala e centomila coccodrilli. In Thailandia vivono tre specie di coccodrillo. Due sono ormai estinte allo stato naturale. Foto di Sukree Sukplang (Reuters/Contrasto)

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internazionale 744, 16 maggio 2008 • 11

EDITORIALI

“Vi sono più cose in cielo e in terra, Orazio,di quante se ne sognano nella vostra ilosoia”

William Shakespeare, Amleto~

Direttore Giovanni De MauroVicedirettori Elena Boille, Chiara Nielsen, Jacopo Zanchini Comitato di direzione Giovanna Chioini (Asia e Paciico), Stefania Mascetti (Africa e Medio Oriente), Alberto Notarbartolo (Fusi orari), Martina Recchiuti (Internazionale.it), Pierfrancesco Romano (copy editor)In redazione Gian Paolo Accardo (da Parigi), Liliana Cardile (Cina), Carlo Ciurlo (Canada), Camilla Desideri (America Latina), Simon Dunaway (Mondo), Mélissa Jollivet (photo editor), Alessandro Lubello (economia), Andrea Pipino (Europa), Claudio Rossi Marcelli (società), Francesca Sibani (Press review), Francesca Spinelli (copy editor), Piero Zardo (cultura), Giulia Zoli (Stati Uniti)Impaginazione Pasquale Cavorsi, Valeria Quadri Segreteria Teresa CensiniCorrezione di bozze Sara EspositoColumnist Manuel Castells, Noam Chomsky, Li Datong, Serge Enderlin, Beppe Grillo, Amira Hass, Leo Hickman, Christopher Hitchens, Nick Hornby, Tobias Jones, Paul Kennedy, Rami Khouri, Irshad Manji, Tomás Eloy Martínez, Efraim Medina Reyes, Loretta Napoleoni, Ugo Pipitone, David Randall, David Rieff, Elif Shafak, Marjane Satrapi, James Surowiecki, Shashi Tharoor, Binyavanga WainainaRubriche Tito Boeri, Rob Brezsny, Pier Andrea Canei, Christian Caujolle, Tullio De Mauro, Goffredo Foi, Gipi, Zuhair al Jezairy, Marco Morosini, Ennio Peres, Pascal Petit, Milana Runjic, Maria Sepa, Luca Sofri, Tony WheelerTraduzioni I traduttori sono indicati dalla sigla alla ine degli articoli. Isabella Aguilar, Marina Astrologo, Sara Bani, Gabriella Bossi, Giuseppina Cavallo, Valerio Corsani, Olga d’Amato, Andrea De Ritis, Caterina Donati, Jamila Mascat, Nazzareno Mataldi, Floriana Pagano, Fabrizio Saulini, Ivana Telebak, Francesca Terrenato, Bruna Tortorella, Stefano ValentiDisegni Anna Keen. I ritratti dei columnist sono di Scott MenchinConsulenza grafica Sebastiano Cossia CastiglioniHanno collaborato Marco Apostoli, Luca Bacchini, Francesco Boille, Annalisa Camilli, Alessia Cerantola, Catherine Cornet, Gabriele Crescente, Giovanna D’Ascenzi, Marzia De Giuli, Andrea Ferrario, Antonio Frate, Anita Joshi, Claude Leblanc, Giuliano Milani, Maysa Moroni, Clement Njoroge, Lore Popper, Marc Saghié, Yukari Saito, Laura Tonon, Pierre Vanrie, Guido Vitiello, Abdelkader ZemouriConsulenti Giovanni Lussu,Daniele Turchi ~Editore Internazionale srlConsiglio di amministrazione Brunetto Tini (presidente), Emanuele Bevilacqua (amministratore delegato), Giuseppe Cornetto Bourlot (vicepresidente), Giovanni De Mauro, Giovanni Lo StortoSede legale via Prenestina 685, 00155 Roma Produzione e diffusioneFrancisco VilaltaAmministrazione Tommasa Palumbo, Arianna Castelli Concessionaria esclusiva per la pub-blicità Agenzia del marketing editorialeTel. 06 809 1271, 02 5560 [email protected] Beat AdvertisingRealizzazione Interspaziale coopStampa Elcograf Industria Graica, via Nazionale 14, Beverate di Brivio (Lc) Distribuzione Press Di, Segrate (Mi)Copyright Le condizioni di utilizzo dei testi sono concordate con i detentori. Se ciò non è stato possibile, l’editore si dichiara disposto a riconoscere il giusto compenso Registrazione tribunale di Roma n. 433 del 4 ottobre 1993Direttore responsabileGiovanni De MauroChiuso in redazione alle 20 di mercoledì 14 maggio 2008Issn 1122-2832

pierre haski, rue89.COM, franCia

Quando la Cina trema

il 28 luglio 1976 un sisma superiore all’ottavo grado della scala Richter, con epicentro a Tangshan nella provincia dello

Hebei, nella Cina orientale, provocò una delle più grandi catastroi del novecento: secondo alcune stime i morti furono 700mila. In un paese che interpreta sempre i segni premoni-tori, il terremoto fu considerato portatore di grandi cambiamenti. Arrivava alcuni mesi do-po la morte di Zhou Enlai, un primo ministro molto amato dalla popolazione perché consi-derato una difesa contro gli eccessi di Mao Ze-dong. E precedette di poco la scomparsa, il 9 settembre 1976, dello stesso Mao, il dio viven-te della Cina, segnando la ine di un’era.

Dificile non pensare a questo evento fon-damentale nella storia della Cina moderna seguendo le notizie sul terremoto nel Sichuan. Nel paese, infatti, questa dimensione simboli-ca è ancora molto forte. Ma gli stessi eventi non producono per forza gli stessi effetti. Oggi come nel 1976 il potere cinese è ancora nelle mani del Partito comunista, ma mentre allora c’era la ine di un regno attesa da tutti, oggi c’è un governo più forte che ha fatto della Cina una grande potenza. Nel 1976 Pechino aveva riiutato ogni aiuto e la Cina si era chiusa in se

stessa per affrontare la disgrazia. Oggi i leader cinesi, che hanno fatto tesoro del passato, han-no adottato una linea di relativa trasparenza. Le tv mostrano di continuo il primo ministro Wen Jiabao sui fronti della tragedia, mentre conforta le vittime e coordina i soccorsi. Il po-tere sa che una parte della sua legittimità di-pende proprio da come gestisce queste cata-stroi naturali, a cui la Cina è abituata.

In ogni modo il 2008, che doveva essere l’anno di gloria del potere cinese con le Olim-piadi, si sta trasformando in annus horribilis. Le tempeste di neve all’inizio dell’anno hanno sconvolto la vita di centinaia di milioni di per-sone per settimane, poi ci sono state le rivolte in Tibet, che hanno danneggiato l’immagine del potere cinese agli occhi dell’opinione pub-blica mondiale. Inine questo violento terre-moto e le migliaia di morti nella provincia più popolata della Cina, il Sichuan. Insomma, per chi crede nei segni premonitori, di materiale ce n’è parecchio. p adr

Pierre Haski è il direttore del sito di informa-zione francese Rue89.com. È stato corrispon-dente a Pechino del quotidiano Libération dal 2000 al 2006.

Il terremoto nel Sichuan scuote il paese e il potere. E l’anno delle Olimpiadi si rivela sempre più dificile per Pechino

le MOnde, franCia

Israele oltre l’anniversarioisraele ha compiuto sessant’anni e ha

molti motivi per festeggiare. È una delle po-che democrazie del Medio Oriente e una

delle economie più vivaci della regione. Ha più di sette milioni di abitanti, compresi gli arabi israeliani: i sionisti dell’ottocento non avreb-bero mai potuto immaginarlo. Gli scrittori israeliani sono tradotti in tutto il mondo e il suo cinema è in cartellone nei maggiori festi-val. Scrittori e registi raccontano spesso i pro-blemi dell’identità nazionale israeliana.

Certo, c’è la questione della sicurezza. Crea-to dalle Nazioni Unite nel 1948, Israele è forse il solo paese al mondo che un altro membro dell’Onu – l’Iran – ha detto di voler “cancella-re” dalla carta geograica senza che il Consiglio di sicurezza o l’Assemblea generale battessero ciglio. Ma anche in fatto di sicurezza, Israele è oggi in condizioni migliori rispetto a trent’an-ni fa: la sua alleanza con Washington è più forte che mai, ha irmato la pace con alcuni vi-

cini arabi (Egitto e Giordania) e ha ottimi rap-porti con le grandi potenze, dalla Russia alla Cina e dall’Europa agli Stati Uniti.

Il progetto sionista sembra quasi piena-mente realizzato. Ma gli israeliani non sono di buon umore. Il loro sistema politico è in crisi, hanno perso iducia nei loro leader deboli, in-capaci di prendere decisioni all’altezza della vera sida che il paese ha di fronte: la pace con i palestinesi. Non si tratta solo di una questio-ne di elementare giustizia. È un obiettivo che porterebbe Israele a integrarsi nella regione, l’unico modo per garantire davvero la sua sicu-rezza. Qualcuno dirà: per arrivarci, però, biso-gna essere in due e i palestinesi hanno le loro responsabilità. Ma anche l’aumento continuo degli insediamenti israeliani indebolisce il progetto di uno stato palestinese autonomo. L’immobilismo della sconfortante situazione attuale è il vero pericolo. Per gli israeliani e per i palestinesi. p ma

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[email protected] siamo fascistip Sappiate che alla prossima silata di articoli di compia-ciuti giornalisti stranieri che chiamano il nostro paese “fascista” per le vittorie di Berlusconi e Alemanno, ritiro l’abbonamento e comincio a leggere Liberazione.Paolo TrabattoniPs: sto scherzando.

Nessuno è perfettop Ho letto con piacere l’ul-timo numero di Internazio-nale, tranne le prime pagine dedicate alla svolta a destra dell’Italia. Penso – ma potrei sbagliare – che il resto d’Eu-ropa ci voglia vedere a terra a tutti i costi e che metta un po’ troppo il naso nelle nostre cose. Non sarà invidia? O la

paura che l’Italia rialzi la testa? Non si rendono conto che il tanto odiato Berlusconi è il preferito dalla maggio-ranza degli italiani? Quanta faziosità. Comunque, nessuno è perfetto!Ida Fumagalli

Troppo tardip Peccato che vi siate persi l’articolo pubblicato da El País sulla presunta amicizia maiosa del neopresidente del senato Schifani. Sarebbe stato bello anticipare tutti, Trava-glio compreso.Antonio

Contro i vaccinip A volte pubblicate delle informazioni sull’andamento di alcune malattie infettive nel mondo e sulle vaccina-zioni di massa citando studi e ricerche scientiiche. Però, non capisco perché una rivista come la vostra, di solito molto attenta a tutte le sfaccettature di un fenomeno, non parli mai dei danni enormi che le vaccinazioni di massa hanno causato in occidente. Anche in questo campo sono stati fatti studi e ricerche autorevoli e credo sia giusto citarli. Altrimenti facciamo come le multinazio-nali, che pubblicizzano l’uso

(o l’abuso) di certi farmaci a scapito della salute dei nostri igli e del nostro già fragile pianeta.Denise Montanari

Cosa farebbe Leo Hickman?p Caro Internazionale, ti leggo da tre anni. Grazie a un fratello edicolante ho potuto provare molte riviste, ma tu sei risultato il migliore. Ora, però, sorge un problema: ogni giorno rischio di essere schiacciato dalle pile perico-lanti dei vecchi numeri di Internazionale accatastati in camera mia. È arrivato il momento di disfarmene. Mentre mi stavo organiz-zando per non fare troppi viaggi al cassonetto della carta da riciclare, mi è ap-parso Leo Hickman che sussurrava: “Sicuro che sia la cosa migliore?”. Che ine devono fare i miei vecchi Internazionali? Alla brace ci ho già pensato. Avete altre idee?Gianluca

Correzionip Su Internazionale 743 le foto del portfolio (pagine 56-59) sono dell’agenzia vii, distribuita in Italia da Grazia Neri.

Cara Milana, perché diciamo che l’amore (come la fortuna) è cieco?In passato alcune divinità mitologiche venivano rafigurate con gli occhi bendati. Ma spesso nei quadri le Veneri (che siano sdraiate sull’erba, su un letto o su un divano) ci guardano dritto negli occhi. Un segno che l’amore non è così cieco, illogico e irrazionale come crediamo?

Di certo a Venere non manca un senso importante come la vista. Alcuni ilosoi del Rinascimento (come Marsilio Ficino e Pico della Mirandola) sostenevano che l’amore entra nel nostro corpo attraverso gli occhi per catturare la nostra anima. E che l’immagine

della persona amata non deve essere bella di per sé, ma dev’essere bella per noi.

La “cecità” dell’amore è puramente metaforica: nella maggior parte dei casi non sappiamo dire perché ci siamo innamorati. O meglio, ci illudiamo di saperlo, mentre in realtà non ne abbiamo la più pallida idea. Lo stesso vale per la buona sorte: ci sono periodi in cui tutto ila liscio e altri in cui non riusciamo a fare nulla. A volte siamo fortunati e nemmeno ce ne accorgiamo, a volte ci innamoriamo di qualcuno e non vogliamo riconoscerlo.

Molte cose importanti della nostra vita sono misteriose e non dobbiamo necessariamente spiegarle. Anche la passione e la morte ci appaiono cieche nella scelta delle loro vittime. O almeno così ci sembra. p it

CARA MILANAMilana Runjic risponde alle domande dei lettori all’indirizzo [email protected]

LE REGOLE

CAMMINARE

SUL BAGNASCIUGA

1. È il modo più facile per godersi l’acqua. Anche con i jeans. 2. Prima di toglierti calze e scarpe, valuta i pro e i contro della sabbia che ti si appiccica ai piedi. 3. È un’attività molto romantica. A meno che non ti si conicchi una conchiglia sotto l’alluce. 4. Sta’ attento ai gabbiani morti.–The Observer

Ho 22 anni e una sorella più giovane. I miei genitori sono stati molto severi, facendo di me una brava ragazza. Non vado a letto con il pri-mo che capita, non mi dro-go e ho un buon lavoro. In-vece mia sorella, che ha 17 anni, la passa sempre li-scia: i miei sanno che fuma, lasciano che il suo ragazzo resti con lei tutta la notte e chiudono un occhio su altri misfatti. Non è giusto. Ho fatto male a crescere così inquadrata?–Georgie H.Uno degli ultimi numeri dell’Economic Journal pre-senta un modello della teo-ria dei giochi che si adatta a questo problema. Ogni ado-lescente vorrebbe sempre trasgredire, ma teme la pu-nizione dei genitori. A loro volta i genitori vorrebbero minacciare delle punizioni, ma sono pochi quelli abba-stanza severi per farlo. Il solo fatto che tu abbia una sorella più giovane fa pende-re la teoria dei giochi a tuo sfavore. Evidentemente i tuoi genitori hanno il cuore tenero. Con te, però, gli con-veniva essere più severi per-ché sapevano che ogni puni-zione inlitta a te era un deterrente anche per tua sorella. Ma sanno che esse-re severi solo con lei non funziona. Tua sorella ha osa-to e i tuoi l’hanno lasciata fare, cosa che per te non era così semplice. Ma se vuoi drogarti o andare a let-to con il primo che capita, non è mai troppo tardi.

Tim Harford risponde alle domande dei lettori del Financial Times.

CARO ECONOMISTA

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Mondo

INDIA

Massacro a Jaipurp Otto bombe sono esplose quasi simultaneamente nella città di Jaipur, nello stato del Rajashtan, uccidendo almeno 80 persone e ferendone centi-naia. La polizia non ha ancora indicato i responsabili. Nume-rosi attentati hanno scosso il paese negli ultimi anni, quasi tutti attribuiti ai movimenti islamici che si oppongono all’occupazione indiana del Kashmir. Nel ine settimana otto persone sono morte in questa regione negli scontri tra polizia e separatisti [13].

pSERBIA. Il Partito democrati-co (Ds) del presidente Boris Tadic ha vinto le elezioni legi-slative con il 38,8 per cento dei voti, precedendo il Partito radicale serbo (Srs) di Tomi-slav Nikolic, che ha ottenuto il 29,2 per cento. Il partito di Tadic, favorevole all’ingresso nell’Unione europea, non ha ancora la certezza di poter for-mare un governo. Nikolic, che vuole invece mantenere la Ser-bia nella sfera d’inluenza

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notizie • iraq • medio oriente • città • pianeta • italieni

JAIPUR,14 MAGGIO 2008

vato la richiesta di un referen-dum sulla iducia al governo di Evo Morales. Se l’esito fosse negativo, l’esecutivo sarebbe costretto a dimettersi. Nei giorni scorsi il governo è stato sconitto nel referendum sull’autonomia della provincia di Santa Cruz [8].

LIBANO

Si allentala tensionep Hezbollah ha ceduto all’eser-cito il controllo della parte occidentale della capitale Bei-rut, occupata durante gli scon-tri cominciati il 7 maggio. Il bilancio è di 62 morti e 200 feriti in tutto il paese. Le vio-lenze, le più gravi dalla ine della guerra civile nel 1990, erano state scatenate dalla decisione del governo di Fouad Siniora di chiudere la rete di comunicazioni gestita dal movimento sciita di Has-san Nasrallah. L’esercito ha annullato il provvedimento, ma ha avvertito Hezbollah che risponderà con la forza a ulte-riori incidenti [12].

STORIE VERE

IMPRESE. Charles Ray Fuller, 21 anni, voleva aprire una ca-sa discograica. È andato in banca a Fort Worth, Texas, per versare un assegno “della ma-dre della sua idanzata” con i soldi per avviare l’attività, ma è stato arrestato dopo che l’im-piegato allo sportello si è inso-spettito per la cifra dell’asse-gno: 360 miliardi di dollari. Ora Charles è accusato di tentata truffa, porto d’armi abusivo e consumo di stupefacenti: in ta-sca aveva una pistola e della marijuana.

S fruttare, anzi trasformare la moda del turismo e farne un servizio volontario per difendere l’ambiente in cui il turi-sta si muove o per migliorare le condizioni di vita delle

popolazioni di un luogo: da questa idea è nata in inglese negli anni novanta la parola voluntourism che combina voluntary o, meglio, voluntarism nel senso di assistenza sociale volontaria, e tourism.

in inglese la parola, insieme a voluntourist, pare ora salda-mente affermata (nel 2005 a Washington si è svolto il primo forum annuale del volonturismo). La diffusione è stata più len-ta per volontourisme e volontouriste in francese, volunturismo e volunturista in spagnolo. in italiano la parola è apparsa pre-cocemente, nel 2001, in un discorso di sandro Calvani alla Convenzione internazionale del turismo sociale. Ma poi pare aver languito: ancora nel 2008 è sentita come un neologismo inedito. Meglio va, ma non ancora abbastanza, per il fenome-no, di cui pure la Croce rossa italiana avverte la potenziale importanza per la tutela dell’ambiente, devastato da incendi e abusivismo.

LA PAROLA TULLIO DE MAURO Linguista

Volonturismo

300 km

MarGiallo

Sichuan

C I N A

BIRMANIA

INDIAVIETNAM

Pechino

della Russia, ha sottolineato che i partiti nazionalisti, com-preso il Partito democratico serbo (Dss) dell’ex premier Vojislav Kostunica (11 per cento), potrebbero raggiunge-re la maggioranza se si alleas-sero con i socialisti del partito di Slobodan Milosevic [11].

p CINA. Sono almeno 15mila le vittime del terremoto di magnitudo 7,9 sulla scala Richter che ha colpito la pro-vincia meridionale del Sichuan, ma i dispersi sono ancora decine di migliaia. Si tratta del sisma più devastante registrato in Cina dal 1976, quando più di 250mila perso-ne morirono a Tangshan [12].

pBOLIVIA. Il senato, controlla-to dall’opposizione, ha appro-

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14 • internazionale 744, 16 maggio 2008

SPAGNA

L’Eta tornaa colpirep Un’autobomba è esplosa vicino a una caserma della polizia nella cittadina di Legu-tiano, nei Paesi Baschi, ucci-dendo un poliziotto e ferendo altre tre persone. L’attentato non è stato rivendicato, ma le autorità hanno attribuito la responsabilità ai separatisti baschi dell’Eta. È il sesto attac-co dalla rottura della tregua con lo stato nel 2006 [14].

p BURUNDI. L’esercito ha affer-mato di aver ucciso almeno 50 ribelli dell’Fnl, l’ultimo dei gruppi ribelli in attività nel paese. È l’incidente più grave dalla ripresa degli scontri, avvenuta il mese scorso [8].

p IRAQ. Il governo ha lanciato un’operazione militare nella città di Mosul per eliminare le basi di Al Qaeda da quella che è considerata l’ultima rocca-forte dell’organizzazione in Iraq. L’esercito del Mahdi di Moqtada al Sadr ha accettato

una tregua che prevede il ritiro dei suoi cecchini da Sadr City, il principale quartiere sciita di Baghdad. Centinaia di perso-ne sono morte nelle settimane di scontri seguite all’interven-to dell’esercito iracheno contro la milizia sciita [11].

p GIAPPONE. Il governo ha deciso di annullare una legge del 1969 che proibisce l’uso di tecnologie militari nell’indu-stria spaziale. Il provvedimen-to, che ha il sostegno dell’op-posizione, contraddice in par-te la costituzione, che include il paciismo tra i suoi princìpi, e permetterà la messa in orbita di satelliti spia [9].

p NEPAL. La polizia ha arresta-to oltre 600 donne tibetane durante una manifestazione anticinese. Il Nepal, che ospita migliaia di rifugiati tibetani, vuole evitare tensioni diplo-matiche con Pechino [11].

p REPUBBLICHE BALTICHE.

I parlamenti di Lettonia e

Mondo

Lituania hanno ratiicato il trattato di Lisbona, portando così a 13 il numero dei paesi che hanno inora aderito. Tutti e 27 i membri dell’Unione europea dovranno approvare il documento entro il 2009 perché il nuovo statuto possa entrare in vigore [8].

MEDIO ORIENTE

Razzo controAshkelonp Un razzo lanciato da milizia-ni palestinesi della Striscia di Gaza ha colpito un centro commerciale nella città di Ashkelon, causando decine di feriti [14].pIl presidente statunitense George W. Bush è arrivato in Israele per i festeggiamenti del sessantesimo anniversario del-la repubblica. Bush, alla sua seconda visita presidenziale in Medio Oriente, spera di con-cludere un accordo per la for-mazione di uno stato palesti-nese entro la ine del suo man-dato. Il premier israeliano Ehud Olmert è sotto inchiesta per un presunto episodio di corruzione, avvenuto quan-do era sindaco di Gerusa-lemme, dal 1993 al 2003 [13].

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LEGUTIANO,SPAGNA.

14 APRILE 2008

Numero di vittime dall’inizio della secon-da intifada (28 settembre 2000). Dati aggiornati alle 16 del 14 maggio 2008. Tra le vittime palestinesi sono inclusi i kamikaze, mentre non sono conteggiate le persone accusate di collaborazioni-smo e uccise da altri palestinesi.

Fonte: Afp

Israeliani e palestinesi

Palestinesi 5.243

Altre vittime 78Israeliani 1.077

Totale 6.398

Numero di vittime dall’inizio della guerra in Iraq (19 marzo 2003). Dati aggiornati alle 16 del 14 maggio 2008.

Fonti: iraqbodycount.net, icasualties.org

La guerra in Iraq

Iracheni 83.521-91.094

Soldati di altre nazionalità 309Soldati statunitensi 4.077

Una fisarmonica suonava un motivetto alle-gro, simile a un tango, rivaleggiando – senza grandi risultati – con le grida e le

risate della gente e con i clacson delle macchi-ne. A suonare era un uomo dai capelli bianchi, seduto su uno sgabello all’ingresso di una via commerciale di tiberiade. Una donna, evidente-mente straniera, è rimasta ad ascoltare per un paio di minuti, poi gli ha porto una banconota che lui si è subito messo in tasca. A quel punto mi ero già avvicinata a lui.

“Americana”, ha detto indicando la generosa donatrice che se n’era andata. non avevo biso-gno di sentire il suo accento per capire che era un immigrato proveniente dall’ex Unione sovieti-ca: da quindici anni quasi tutti i suonatori di strada appartengono a questa categoria e han-no almeno quarant’anni. in un ebraico molto sgrammaticato, con lunghe pause tra una paro-la e l’altra, ha risposto alle mie domande indi-screte: in Ucraina era direttore di una banda di

ottoni dell’Armata rossa e insegnava musica in un conservatorio. nato a metà degli anni trenta, durante la seconda guerra mondiale era fuggito con la famiglia nella parte orientale dell’impero sovietico, salvandosi così dalla macchina crimi-nale tedesca. si era poi trasferito in israele nel 1992, in una delle ondate di emigrazione provo-cate dall’instabilità dell’ex gigante. Da allora è stato a Gerusalemme solo due volte: di tempo ne ha in abbondanza, sono i soldi che gli man-cano, non avendo un lavoro.

ogni giorno viene a suonare sul lungolago di tiberiade per guadagnarsi da vivere. povero e solo, non si è rivolto a nessuna istituzione. È troppo vecchio, non è in grado di imparare la lin-gua, il figlio è tornato in Ucraina perché lì ha una compagna. “C’è solo un problema”, mi ha detto facendo un cenno col capo. il suo volto ha pre-so un’espressione tormentata: “Ci sono troppi arabi. ogni giorno ci sono arabi, ma il sabato sono solo arabi. solo arabi”. p nm

DA RAMALLAH AMIRA HASS Giornalista di Ha’aretz

Troppi arabi

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internazionale 744, 16 maggio 2008 • 15

p SOMALIA. Almeno venti per-sone sono morte negli scontri tra islamisti e le truppe etiopi nel nord del paese. Secondo i testimoni, i soldati avrebbero massacrato una decina di pastori in rappresaglia a un’imboscata [8].

MESSICO

La guerra continuap Edgar Millán Gómez, capo del coordinamento antidroga della polizia messicana, è stato assassinato a Città del Messi-co. È il quarto alto uficiale di polizia ucciso negli ultimi dieci giorni. Più di mille persone sono morte nella guerra tra polizia e cartelli della droga, dopo l’arresto di oltre cinque-mila narcotraficanti [9].

p SUDAN. I ribelli del Movi-mento per la giustizia e l’ugua-glianza (Jem), provenienti dal Darfur, hanno attaccato la capitale Khartoum. Più di duecento persone sono morte prima che l’esercito riuscisse a riprendere il controllo della città. Il governo sudanese ha rotto le relazioni diplomatiche con il Ciad, accusandolo di aver organizzato l’attacco. Ciad e Sudan si accusano da

la settimana di gipi

Con l’avvicinarsi degli esami di fine anno, gli studenti che vivono in luoghi “caldi” come Mosul, Bassora o il quartiere di

Sadr City a Baghdad si chiedono come raggiun-gere i luoghi dove si svolgeranno i test senza incappare in qualche sparatoria. Per cinque milioni di studenti in tutto il paese, con l’ecce-zione del Kurdistan, gli esami cominciano que-sta settimana. Mia sorella Thikra è una delle migliaia di madri che pregano che questi giorni passino in pace. Ieri l’ho sentita dire a sua figlia: “Se dovessero ricominciare gli scontri, dovrai rinunciare agli esami. La tua vita è più importante”. Sara, 14 anni, le ha risposto:

“Sono anni ormai che rischio la vita per andare a scuola. Che differenza fa?”.

Le madri degli studenti sperano che il gover-no posticipi gli esami a causa delle possibili violenze. Ma, come tutte le altre madri, mia sorella sta anche spingendo le due figlie a pre-pararsi comunque per la prova. I checkpoint sono ovunque e gli addetti alla sicurezza pos-sono perfino ispezionare le buste sigillate dei test, come è accaduto gli anni passati. Nono-stante tutte queste misure, mia sorella mi ha detto: “In ogni caso accompagnerò a scuola le ragazze. Qualunque cosa succeda, devo esse-re insieme a loro”.

DALL’IRAQ ZUHAIR AL JEZAIRY Direttore dell’agenzia di stampa Aswat al Iraq

Un esame difficile

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Obama ClintonStati in cui ha vinto:

Dati aggiornati al 20 febbraio 2008

Stati Uniti

Le primarie del partito democraticoStati in cui hanno vinto Obama e ClintonDati aggiornati al 14 maggio 2008

* numero necessario per vincere le primarie; a: compresi i superdelegati AP

p OSSIGENO PER CLINTON. Dopo l’ampia vittoria in West Virginia (67 per cento), Hillary Clinton ha di-chiarato che andrà avanti con la campagna fino alla convention. Il distacco da Barack Obama, che ha ricevuto l’appoggio di trenta super-delegati, è però aumentato. Intan-to Doug Goodyear, membro dello staff del candidato repubblicano John McCain, si è dimesso dopo la rivelazione di un incarico svolto dalla sua società per la giunta mili-tare birmana.

KentuckyOregonMontanaSouth DakotaPuerto Rico

6065242363

DATA STATO DELEGATIa

p Delegati del Partito democratico ancora da assegnare

20 maggio20 maggio3 giugno3 giugno7 giugno

p Delegati dei due candidati democratici assegnati fino al 14 maggio 2008

Barack ObamaHillary Clinton

1.8831.710

0 2.025*

anni di inanziare i rispettivi movimenti ribelli [11].

p SRI LANKA. Una bomba ha ucciso 11 persone ad Ampara. L’esercito ha accusato i ribelli

tamil. L’attentato è avvenuto alla vigilia delle elezioni pro-vinciali vinte dall’Upfa, il par-tito del presidente Mahinda Rajapaksa. L’opposizione ha parlato di brogli [10].

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16 • internazionale 744, 16 maggio 2008

p BRUXELLES. Il comune vuole estendere il blocco della circo-lazione dei veicoli, attualmente episodico, a tutte le ultime domeniche del mese.

BRASILE

Rio, indianimetropolitanip Una cinquantina di indiani guaranì ha ricostruito un vil-laggio tradizionale a ridosso della spiaggia di Camboinhas, nel centro di Niterói, un sob-borgo di Rio de Janeiro. Secondo i guaranì il luogo avrebbe ospitato ino alla colo-nizzazione uno dei loro cimite-ri, chiamati sambaqui. Il grup-po vuole proteggere dalla spe-culazione edilizia un’area che in base alla legge brasiliana dovrebbe essere protetta. I guaranì hanno dichiarato che presto rioccuperanno tutti i loro siti nei dintorni di Rio.

p STATI UNITI. Le città della regione dei Grandi Laghi han-no lanciato un appello per la protezione del bacino, minac-ciato dai tagli del governo ai fondi per il trattamento delle acque di scarico.

GERMANIA

Berlino, artenel bunkerp Il gigantesco bunker sulla Reinhardtstrasse, teatro negli anni novanta dei famosi party techno della scena berlinese, diventerà presto un museo di arte moderna. Il polacco Chri-stian Boros, uomo d’affari e collezionista, ha avviato nel 2003 la ristrutturazione dell’ediicio, un blocco di cemento armato di cinque pia-ni, costruito da Albert Speer nel 1942 per offrire ai berlinesi riparo dai bombardamenti alleati. Le installazioni militari di epoca nazista, tra cui una trentina di bunker, sono anco-ra molto numerose nella capi-tale tedesca.

sudafricani considerano gli stranieri responsabili dell’au-mento del crimine e della disoccupazione nel loro paese.

p GERICO. Circa 150 donne provenienti da diversi paesi sono arrivate in bicicletta nella città della Cisgiordania per commemorare il sessantesimo anniversario della Nakba (“catastrofe”), la diaspora dei palestinesi seguita alla fonda-zione di Israele. Un altro centi-naio di cicliste sono state bloc-cate ai checkpoint dell’esercito.

SPAGNA

Notti bravea Palmap Javier Rodrigo de Santos, ex vicesindaco del capoluogo maiorchino, potrebbe aver chiuso la sua carriera politica per un clamoroso scandalo sessuale. De Santos era famoso per essere un fervente cattolico e per il suo riiuto di uficiare i matrimoni tra persone dello stesso sesso previsti dalla legge spagnola. Le autorità iscali avevano cominciato a indagare su di lui dopo aver scoperto che aveva speso oltre 50mila euro prelevati dal conto del comune in una lavanderia. L’esercizio è risultato essere in realtà un bordello gay, dove de Santos era regolarmente ospi-te di festini in cui faceva anche uso di droghe.

UCRAINA

Sebastopolicontesap Il governo ucraino ha proibi-to l’ingresso nel paese al sinda-co di Mosca Jurij Luzhkov a causa di una polemica sulla città di Sebastopoli, storica base navale della Russia zari-sta e dell’Unione Sovietica. Oggi è sede della lotta militare russa del mar Nero in base a un accordo tra i due paesi. Secondo Luzhkov, Sebastopoli, abitata prevalentemente da russi, non faceva parte dei ter-ritori trasferiti all’Ucraina nel 1954 dal presidente sovietico Nikita Khruscev. Luzhkov ha invocato l’intervento di un tri-bunale internazionale per risolvere la disputa. SUDAFRICA

Xenofobia aJohannesburgp Una folla di sudafricani ha attaccato nella township di Alexandra un gruppo di immi-grati provenienti da Mozambi-co, Malawi e Zimbabwe, ucci-dendo due persone e ferendo-ne una quarantina. Quindici aggressori sono stati arrestati. Gli episodi di xenofobia sono piuttosto frequenti nei quar-tieri poveri delle città del Sudafrica, la cui economia relativamente prospera attira ogni anno migliaia di immi-grati dagli stati vicini. Molti

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SEBASTOPOLI Viaggi

CINA. È stata lanciata la China Commercial Aircraft, un’azienda aeronautica a partecipazione statale. L’obiettivo del progetto è ridurre la dipendenza di Pechino dai costruttori europei e statunitensi. La richiesta di nuovi velivoli in Cina dovrebbe quintuplicare entro i prossimi vent’anni, assorbendo oltre 2.500 unità.

UNIONE EUROPEA. Il commissario per la tutela dei consumatori ha dato un anno di tempo alle compagnie aeree per adeguare i loro siti alle norme antifrode. Secondo un’inchiesta del 2007, oltre un terzo degli operatori europei usa informazioni ambigue sulle offerte per ingannare i viaggiatori.

SPAgNA. Club Med, assente nel paese dal 2006, sta cercando dei partner per aprire quattro villaggi sulla costa mediterranea. Le strutture avranno una capacità di 800 posti letto ciascuno e seguiranno il riposizionamento verso l’alta fascia inaugurato recentemente dal gruppo.

BAgAgLI. La Commissione europea ha rinunciato a introdurre il limite alle dimensioni dei bagagli a mano, annunciato dopo il fallito attentato del 2006 a Londra.

STATI UNITI. La Faa, l’autorità per l’aviazione civile statunitense, non ha effettuato i controlli sui sistemi di sicurezza previsti per oltre 80 compagnie nazionali. Il motivo sarebbe la mancanza dei fondi necessari.

RUSSIA. La compagnia low cost Wind Jet introdurrà da metà luglio un collegamento settimanale da Palermo per Mosca e San Pietroburgo.

Città

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internazionale 744, 16 maggio 2008 • 17

aspetto: quel pizzico di mentalità contorta che ci fa desiderare di diventare giornalisti.

Mi spiego meglio. Molti anni fa, quando diventai per la pri-ma volta il caporedattore di un giornale nazionale, a Londra ci fu una grande manifestazione contro una nuova tassa imposta

dal governo di Margaret Thatcher. Ero in reda-zione quando una nuova segretaria che lavorava per me solo da qualche giorno mi passò una tele-fonata. Era il giornalista che avevo mandato alla manifestazione. Stavano succedendo cose terri-bili. Erano scoppiati dei violenti incidenti, sem-brava che ci fossero anche dei morti.

Saltai subito in piedi e ordinai ad altri due re-porter di precipitarsi sul posto, ai graici di dise-gnare una mappa della zona dei disordini, ai fo-tograi di andare immediatamente e così via. La nuova segretaria era allibita. “Si sta divertendo, vero?”, mi chiese. “Sì”, risposi io. “Ma lì ci sono dei

feriti”, disse lei. “Non posso farci niente”, risposi. “Non sono un dottore. Il nostro compito è scoprire cosa è successo e perché, per raccontarlo alla gente”. Ci pensò su un attimo, poi riprese il suo lavoro e io il mio.

All’inizio della settimana seguente andò dal direttore e die-de le dimissioni. Quando le chiesi perché, disse che non se la sentiva di lavorare con i giornalisti “dopo aver visto che tipi erano”. Quella sera raccontai la storia a mia moglie, che è in-fermiera, sperando in una sua parola di conforto. Ma invece di mostrarsi comprensiva con me, disse che capiva perfettamen-te i sentimenti della ragazza. “Se vengo a sapere di un terremo-to io mi intristisco, tu invece ti ecciti. Non è normale”.

Credo che abbia ragione, come a volte capita alle mogli. Per noi giornalisti, le catastroi del mondo non sono soltanto eventi sui quali indagare per poi raccontarli ai lettori. Sono anche – diciamo la verità – il palcoscenico sul quale recitiamo e proiettiamo il nostro ego. E se quelli di noi che siedono dietro una scrivania sono un po’ strani, non c’è da meravigliarsi se i giornalisti straordinari, che rischiano la loro vita e la loro li-bertà per andare a caccia di notizie, sono spesso ubriaconi, spendaccioni, libertini e drogati. E la cosa più terribile è che ne siamo orgogliosi. p� bt

C’è una ricerca che inora vi ho tenuto nascosta. Speravo che, se l’avessi ignorata per un po’ di tempo, alla ine l’avrei dimenticata, risparmiandovi così le sue imbarazzanti conclusioni. Purtroppo non è successo e quindi, dato che anche gli editorialisti hanno una coscienza, mi sento ormai obbligato a farvene una sintesi. Si tratta di un’indagine, pubblicata nel 2007 sulla rivista statu-nitense Journalism History, sulla psicologia di 187 tra i mag-giori giornalisti di tutti i tempi. Lo studio, intitolato Depressio-ne,�alcol�e�sregolatezza, giungeva alla conclusione che “metà dei 187 soggetti era affetta da depressione, crisi di ansia o disturbi bipolari; più di un terzo abu-sava di alcol, antidepressivi o oppiacei; circa un terzo era costituito da inguaribili dongiovanni e una buona percentuale da prepotenti, misogini o ninfomani”.

Ora lo sapete. Per attenuare l’effetto di questa notizia, vorrei precisare che i 187 soggetti presi in considerazione erano i giornalisti più straordi-nari, coraggiosi e pieni di talento degli ultimi trecento anni.

Ma non possiamo negare l’evidenza: dician-nove di loro sono morti a causa dell’alcol, sette perché fumavano troppo, più di uno si è suicidato e tredici sono morti perché mangiavano in modo sregolato. Devo dire che quasi tutti i migliori giornalisti che ho conosciuto erano affetti da qualche tipo di dipendenza (se non altro quella dalla loro immagine rilessa nello specchio).

Ricordo il caposervizio dal temperamento così violento che una volta lanciò un computer da una inestra del terzo piano; la coppia scoperta da un agente della sicurezza a fare l’amore sul tavolo della sala riunioni; i due giornalisti sportivi talmente aggressivi da arrivare a fare a pugni sul nastro che trasporta i bagagli all’aeroporto di Heathrow; interi bar pieni di ubriachi, uno dei quali una volta andò avanti per nove gior-ni nutrendosi solo di vodka e patatine.

C’è stato anche il redattore di una rivista americana che, per dimostrare che i giornalisti sono tipi versatili, indagava sulla vita privata delle stelle di Hollywood, ma invece di pubblicare il materiale incriminante lo usava per ricattarli; e quel ghiot-tone di un giornalista del New Yorker, mandato in una clinica svizzera per perdere peso, che a forza di svignarsela per anda-re al ristorante è uscito più grasso di quando era entrato. Po-trei continuare, ma non vorrei arrivare alla conclusione che tutti i giornalisti sono così, o che le irme di questa rivista e quelli che ci lavorano sono tutti fumatori di oppio, alcolizzati senza speranza o maniaci sessuali.

Alcuni di loro potrebbero esserlo – mi arrivano notizie con-trastanti – ma è più probabile che, anche se non sono modelli di virtù, siano persone piuttosto normali. Tranne che per un

David�Randall�è�senior�editor�e�columnist�del�settimanale�In-dependent�on�Sunday�di�Londra.�Ha�scritto�quest’articolo�per�Internazionale.�Il�suo�ultimo�libro�è�Tredici giornalisti quasi perfetti�(Laterza�2007).

David Randall

Penne avvelenate

internazionale.it/irme

Per noi giornalisti le catastrofi del mondo sono il palcoscenico su cui recitiamo

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identici ai mayacoba, una varietà registrata nella banca dati del Centro colombiano per l’agricoltura tropicale e usata da decenni dagli agricol-tori messicani [13].

AMBIENTE

Il clima cambia il mondop Secondo uno studio pubbli-cato su Nature, il riscaldamen-to climatico sta modiicando l’ambiente almeno dagli anni settanta. L’analisi di circa 30mila dati disponibili in let-teratura, 829 indicatori isici (come l’andamento delle piene dei iumi) e quasi 29mila indi-catori animali o vegetali (come il periodo della vendemmia e la migrazione degli uccelli), ha confermato che l’aumento del-le temperature incide sensibil-mente sull’ambiente. Nel 90 per cento dei casi si è registra-ta una modiica, in accordo con le previsioni sugli effetti del riscaldamento globale [15].

p ASTRONOMIA. È stata scoper-ta una pulsar particolare, scri-ve Science. L’oggetto celeste,

che compie un giro su se stesso ogni pochi millisecondi, com-pone un sistema orbitante con una stella simile al Sole, su una traiettoria ovale. Le altre pulsar di questo tipo orbitano intorno a stelle nane su traiet-torie circolari. Sembra quindi che la teoria della formazione delle pulsar vada rivista [16].

SALUTE

Il Viagra contro la distroiap Il sildenail, il principio atti-vo del Viagra, potrebbe essere usato contro la distroia muscolare. Uno studio pubbli-cato sulla rivista Pnas ha dimostrato che la sostanza migliora il battito cardiaco dei topi affetti da una forma ani-male della malattia. Si è osser-vato un miglioramento dell’ef-icienza cardiaca e una ridu-zione della morte delle cellule muscolari [13].

p BIOTECNOLOGIE. Dopo anni di controversie legali, l’uficio brevetti statunitense ha annullato il brevetto dei fagioli Enola, concesso nel 1999. Questi fagioli sono in realtà

Il pianeta

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Il diario della Terra

1 TERREMOTI. Un sisma di magnitudo 7,9 sulla scala Richter ha colpito la pro-vincia cinese del Sichuan. Il bilancio provvisorio è di almeno 15mila vittime. Altre scosse si sono verificate in Giap-pone, nell’isola di Guam, a Taiwan, nel sud della Grecia, nell’isola di Sumatra in Indonesia e in Bulgaria.

m CICLONI. È di almeno 19 vittime il bilancio dei tornado che hanno attraver-sato il Missouri e l’Oklahoma, negli Sta-ti Uniti centrali, provocando gravi danni materiali in numerosi centri abitati.

v INONDAZIONI. Tre persone sono morte annegate in Algeria. Le vittime sono state sorprese dall’improvvisa piena di un oued, un corso d’acqua sta-gionale, provocata dalle forti piogge. Dopo mesi di siccità, Cipro è stata inve-stita da una forte perturbazione che ha provocato frane e allagamenti.

s CLIMA. Sei persone sono state ucci-se dall’ondata di calore che precede le piogge monsoniche nel Punjab, nel Pakistan centrorientale. L’anno scorso le vittime della stagione calda sono sta-

te oltre trecento. Secondo la rivista Nature, l’Amazzonia sta andando incon-tro a cicli sempre più frequenti di sicci-tà, che potrebbero diventare cronici entro il 2060.

b ANIMALI. In Gran Bretagna sono sempre più comuni gli attacchi agli ani-mali da pascolo da parte di stormi di cornacchie. Secondo gli allevatori, il fenomeno è dovuto alle nuove leggi che proibiscono di abbandonare all’aperto le carcasse degli animali morti, di cui i rapaci si nutrono abitualmente.

p AMBIENTE. Secondo Greenpeace, la pesca illegale costa ogni anno ai pescatori regolari nove miliardi di dollari in mancati guadagni. Nel Paciico il costo oscilla tra i 134 e i 400 milioni di dollari, quattro volte quanto guadagnano gli stati delle isole della regione con le normali licenze di pesca. Nei giorni scorsi, nell’ambito della Campagna oceani, l’organizzazione ha compiuto diverse azioni per combattere la pesca illegale [12]. Nella foto: gli attivisti di Greenpeace liberano una tartaruga catturata da un’imbarcazione taiwanese nel Paciico.

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Fonte: Banca mondiale, 2005

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Binyavanga Wainaina è uno scrittore e giornalista keniano che scrive per il giornale sudafricano Mail & Guardian. Ha vinto il Caine prize for African writing.

Binyavanga Wainaina

emorroidi di morte naturale. “Prendi l’aglio”, dice Thabo Mbeki, il tuo vicino sudafricano (secondo alcuni ministri del governo sudafricano l’aglio è un rimedio contro l’aids). No, non lì: con la bocca. “Telefonerò al tuo medico e gli dirò che ti

curo io”, dice Mbeki con una voce profonda che emana rassicurante autorevolezza. “Sono un in-fermiere internazionalista registrato. Un tempo ero un vero dottore, ma ora uso solo il dialogo e integratori biologici. Parlami fratello, poggia il tuo sedere dolorante sulle mie ginocchia”. “Ehm…”, gli dici. “Sto un po’ scomodo. Forse do-vrei andare dal dottore.” “Sciocchezze, sono un infermiere internazionalista registrato”, insiste, “ho studiato le emorroidi su internet. Ho un cer-tificato. Vieni. Siediti. Ah!”. Così, mentre quei maledetti affari peggiorano, fare qualcosa diven-ta sempre più dificile. Il rimedio di Mbeki non

funziona. Vuoi sostanze chimiche, vuoi la cocaina se può ser-vire. La tua pelle puzza d’aglio. Non ne puoi più dell’aglio. Vuoi dormire. Vai da una dottoressa americana che ti propone l’emorroidolisi. I tuoi occhi si spalancano. Alcuni la chiamano elettroterapia galvanica, dice, o anche l’opzione Kenya. Fac-ciamo passare una corrente elettrica… Ma tu lasci il suo uficio prima che inisca la frase.

Hai ricominciato a masticare aglio. “Bene”, dice il vicino Mbeki con aria di approvazione. “E poi comunque dobbiamo risparmiare elettricità”. Non gli dici che stai prendendo degli antidoloriici e cercando altre soluzioni. Parli con gli altri vici-ni. Ti dicono che Mbeki è straordinario. “Mi ha curato le ulce-re!”, “Ha organizzato le ronde nel quartiere!”. Ben presto i vi-cini smettono di rispondere alle tue chiamate. Spaventi i loro bambini. È un po’ imbarazzante. “Amico, siamo stui di badare ai tuoi bambini”. “Mi dispiace fratello. Sono di turno per la ronda del quartiere oggi e non ho tempo per parlare”.

Trovi dei gruppi di sostegno su internet. I termini usati da questi compagni sembrano usciti da un ilm dell’orrore: crio-chirurgia, laser, infrarossi, coagulazione bicap, emorroidecto-mia mediante graffe. “Dopo l’emorroidectomia non si può escludere l’incontinenza”, dice su Skype uno che ci è passato. “I pannoloni per adulti non sono così tremendi, la tecnologia è veramente migliorata… in bocca al lupo”. p gc

Wikipedia sostiene che, secondo una rivista medica britannica del 1972, le emorroidi “sono frequenti nei paesi economicamente svi-luppati, rare nei paesi in via di sviluppo e quasi sconosciute nelle comunità tribali, dove l’inluenza occidentale è scarsa”. Non è vero. Robert Mugabe – il dittatore dello Zimbabwe – è un’emorroi-de. Non è l’aids, il cancro, la leucemia o la malaria: queste ti possono uccidere. L’emorroide è un’iniammazione delle vene nel retto e nell’ano. Sembra una cosa piuttosto innocua. Dopo-tutto cosa può fare un vecchio di ottant’anni e passa con i baffetti alla Hitler per danneggiare un paese che ha più di dieci milioni di abitanti? Il problema è che le emorroidi ti fanno così male da debilitarti completamente. Sono imbarazzanti. E spesso comiche. Insieme ai tuoi amici ti diverti a guardare la faccia di quel vecchio che urla su YouTube dopo un comizio. Ma poi hai la loro so-lidarietà quando gemi di dolore e non puoi anda-re al lavoro. Gran parte delle crisi provocate da queste minuscole iniammazioni hanno a che fa-re con il dolore. Camminare ti fa troppo male, ma hai bisogno di camminare per dare sollievo a quel dolore pazzesco. Non puoi lavorare, non puoi ridere, hai troppa paura per mangiare e quando le cose si aggravano sei sicuro che stai per morire.

Poi diventano croniche, e alla ine vai dal dottore. Non ci sei andato prima per paura che ti esaminasse. Il dottore dice che l’unica soluzione è operare, e subito. Te la dài a gambe e scappi dall’ospedale.

L’idea è traumatica: per un po’ di tempo dovresti sentire ancora più dolore di questo male già pazzesco. Cosa è meglio? Lo stomaco che si stringe o i manganelli che ti aspettano nella cabina elettorale? Sai che centinaia di terminazioni nervose iniammate e teppiste imperverseranno nel tuo corpo per set-timane dopo l’operazione per rimuovere l’emorroide: taglian-do, picchiando e gridando. Sei terrorizzato.

Dopotutto, il tuo cervello è a posto, e anche il cuore, le brac-cia e le gambe, i muscoli. Com’è possibile che queste minusco-le vene rigonie ti sconvolgano tanto? Tutti improvvisamente hanno un’opinione. “Vodka e bagni caldi”, dice qualcuno. Il problema è l’ascesso della ghiandola, ti dicono. Hai mangiato troppi lussuosi cibi stranieri e questo ha danneggiato le tue ghiandole, dice l’omeopata: “Mangia verdure tradizionali e questo ti rimetterà in sesto”. Digiunare, ecco cosa ci vuole!

Ti farà eliminare tutte le tossine. Sei pieno di tossine debi-litanti. Le emorroidi in realtà sono un bene, ti dicono. Sono lì per ricordarti di fare la cosa giusta per tutte le tue tossine. Fa-sce di gomma! Un parente ti telefona dall’estero. C’è un’appo-sita procedura sperimentata negli ospedali britannici. Fasce di gomma che riducono il lusso sanguigno e faranno morire le

Emorroidi africane

internazionale.it/irme

Robert Mugabe, il dittatore dello Zimbabwe, è un’emorroide. Debilita il paese

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Attualità

la situazione a beirut e in al-tre località del Libano non è an-

cora chiara. Da un lato assistiamo a gesti ispirati a un compromesso politico, dall’altro continuano gli scontri armati, che nell’ultima settimana hanno provo-cato decine di morti. Tuttavia i fatti degli ultimi giorni potrebbero portare a uno sviluppo costruttivo: la nascita di un si-

stema congiunto americano-iraniano di governance politica nel mondo arabo.

Se il Libano, attraverso un rinnovato processo di dialogo nazionale, riuscirà a passare dagli scontri di piazza al com-promesso politico, avrà un governo di unità nazionale composto da due fazioni che ricevono armi, addestramento, fi-nanziamenti e appoggi politici dagli Sta-

ti Uniti e dall’Iran. Nel paese nascerebbe così una sorta di condominio politico statunitense-iraniano, che potrebbe ri-velarsi la chiave per la condivisione del potere e per la stabilità di altre zone cal-de della regione, come la Palestina e l’Iraq. Questa tacita spartizione di pote-re rappresenterebbe però una grave sconitta per gli Stati Uniti e per la loro

Più di sessanta morti in una settimana. È il bilancio degli scontri tra gli sciiti di Hezbollah e il governo antisiriano. La crisi libanese potrebbe cambiare gli equilibri della regione, scrive Rami Khouri

RAMI KHOURI, THE DAILY STAR, LIBANO

Il Libano sull’orlodella guerra civile

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BEIRUT, 7 MAGGIO 2008.Una barricata sulla strada per l’aeroporto

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fallimentare strategia diplomatica: combattere e schiacciare i nazionalisti-islamisti in tutta la regione.

Tra il 7 e l’11 maggio in Libano ci sono stati scontri intensi, che hanno rischiato di provocare un’implosione del paese, sul modello dell’Iraq. L’alleanza guidata da Hezbollah è stata sul punto di assu-mere il controllo a Beirut e in altre zone chiave del paese.

Il ritmo frenetico dei contatti politici e degli scontri sembra annunciare quat-tro sviluppi signiicativi, che potrebbero avere conseguenze enormi per il resto del Medio Oriente.

1. Il 6 maggio il governo ha sfidato Hezbollah: ha annunciato il licenzia-mento del generale sciita Waik Chou-chair, responsabile della sicurezza aero-portuale, e lo smantellamento della rete clandestina di telecomunicazioni e di sicurezza gestita da Hezbollah.

Il movimento armato sciita ha visto in questo gesto il primo serio tentativo del governo libanese di disarmare Hezbollah. Ha reagito dissuadendo il governo dall’attuare le sue decisioni e ha dato una prova di forza proteggendo il suo sistema di sicurezza e la rete di tele-comunicazioni.

Dopo gli scontri scoppiati in vari punti di Beirut, l’opposizione, guidata da Hezbollah e sostenuta dall’Iran e dal-la Siria, ha affermato in modo rapido e netto la sua superiorità sul governo, ap-poggiato dagli Stati Uniti e dall’Arabia Saudita. Per la prima volta i nuovi rap-porti di forza in Libano si sono manife-stati sul terreno in meno di ventiquat-tr’ore.

2. Tutti i partiti libanesi hanno ripe-tuto che preferiscono un compromesso politico a una guerra tra comunità di confessioni diverse. Ma se questa doves-se rivelarsi inevitabile, hanno anche fat-to capire di essere pronti a combatterla. Le trattative condotte attraverso i mezzi d’informazione riguardavano diversi punti: la nomina a nuovo presidente della repubblica del comandante delle forze armate, Michel Suleiman; la ripre-sa del dialogo; la formazione di un go-verno di unità nazionale; la revisione della legge elettorale prima dell’elezione del nuovo parlamento, che si terrà nel 2009. Le offerte di negoziato sono arri-vate da varie igure politiche: il leader sciita e segretario generale di Hezbollah Hassan Nasrallah, il leader sunnita e ca-

po del Movimento del futuro Saad Hari-ri, il primo ministro Fouad Siniora e il capo del movimento sciita Amal, Nabih Berri, presidente del parlamento e allea-to di Hezbollah.

3. Il 10 maggio il governo libanese, di nuovo vulnerabile, ha fatto marcia in-dietro. Come aveva chiesto Hezbollah, ha annullato le sue decisioni su Chou-cair e sulla rete di telecomunicazione del Partito di Dio. Il rapporto di forza nelle piazze si è tradotto in una nuova equa-zione politica nel paese. Hezbollah e i

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suoi alleati hanno conquistato in strada quello che avevano chiesto sul piano po-litico: la capacità di mettere il veto alle decisioni governative considerate ostili alla sicurezza e alle attività di resistenza del partito.

4. Hezbollah e i suoi alleati, cedendo immediatamente alle forze armate i po-chi ediici e le installazioni strategiche di Beirut che avevano occupato, hanno mandato un segnale chiaro: non voglio-no governare l’intero paese e conidano nella capacità dell’esercito di svolgere il

p Per una settimana il Libano è stato di nuovo sull’orlo della guerra civile. Più di sessanta persone sono morte negli scon-tri tra Hezbollah (Partito di Dio, sciita) e i sostenitori del governo antisiriano guidato dal Movimento del futuro di Saad Hariri.p Gli scontri sono scoppiati il 7 maggio, in occasione di uno sciopero contro il carovi-ta.p Il giorno prima il consiglio dei ministri aveva annunciato di voler smantellare la rete di telecomunicazioni di Hezbollah e destituire il responsabile della sicurezza

Le comunità religiose in Libano

dell’aeroporto di Beirut, il generale Waik Choucair, considerato vicino all’organizza-zione sciita.p Hezbollah ha reagito scendendo in piaz-za e prendendo di fatto il controllo di Bei-rut ovest. Violenti scontri sono scoppiati anche a Tripoli.p Il 10 maggio l’esercito ha revocato le de-cisioni del governo e le milizie sciite si so-no ritirate dalla capitale. La tensione resta alta nel paese, che da novembre è senza presidente della repubblica a causa dei di-saccordi tra Hezbollah e maggioranza.

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Attualità

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ruolo di arbitro neutrale tra le fazioni in guerra. Anche il premier Siniora ha in-viato lo stesso messaggio, chiedendo alle forze armate e al comandante Suleiman di pronunciarsi sulle due decisioni del governo che avevano provocato l’ingres-so di Hezbollah a Beirut ovest. Le forze armate si sono ritrovate così al centro della scena politica, nel ruolo di potente arbitro politico e peacekeeper. L’esercito, di fatto, è diventato una quarta branca del governo, l’unica credibile ed eficace agli occhi della popolazione libanese.

Accordo possibileTutte le fazioni che combattono in Liba-no hanno deciso di togliere dalle strade gli uomini armati, lasciando a tutela dell’ordine pubblico solo l’esercito e la polizia. Adesso il paese si aspetta che diano seguito a questa decisione, forma-lizzando la nomina di Suleiman a presi-dente, raggiungendo un’intesa su un governo di unità nazionale ad interim composto da tecnici e redigendo una nuova legge elettorale. Ma sulla sequen-za esatta di questi passi manca ancora l’accordo. Tutto potrebbe diventare più semplice ora che l’esercito si è affermato come arbitro e protagonista politico de-cisivo.

I nuovi equilibri della politica interna libanese rispecchierebbero così una tra-dizione autoctona mediorientale vec-chia di millenni: partiti diversi e spesso in lite tra loro vivono insieme paciica-mente dopo aver negoziato i rapporti di forza, senza che uno sconigga o umili l’altro. Il Libano potrà esistere come paese unito solo se le varie componenti della sua popolazione multietnica e multiconfessionale si spartiranno il po-tere. In questo momento i leader politici si trovano a operare in un contesto nuo-vo. Il gruppo più forte comprende gli islamisti sciiti (sostenuti dall’Iran e dalla Siria) e i loro soci di minoranza, gli allea-ti cristiani e musulmani sunniti libanesi. Questo gruppo, nel quadro di un gover-no di unità nazionale, si dividerà il pote-re con altri libanesi che sono amici, al-leati, dipendenti e mandatari degli Stati Uniti e dell’Arabia Saudita. Se davvero sta nascendo un nuovo Medio Oriente, è molto probabile che questo nuovo Liba-no ne sia il vivaio. p� ma

Rami�Khouri�è�un�columnist�del�Daily�Star,�quotidiano�di�Beirut.

la migliore difesa è l’attac-co. Dopo un anno e mezzo di cri-

si, Hezbollah ha applicato questa regola d’oro della scienza militare per modii-care a suo vantaggio la situazione liba-nese. Ma poiché tutto ha un prezzo, ha dovuto gettare alle ortiche un’altra rego-la: quella di non puntare mai le sue armi contro dei libanesi.

L’attacco lanciato dal Partito di Dio per impadronirsi dei quartieri occiden-tali della capitale non è stato una guerra preventiva. L’organizzazione sciita non era minacciata da “nessuna mano che andava subito mozzata”, come ha invece dichiarato in tv il 7 maggio il suo leader, Hassan Nasrallah. L’idea di disarmare Hezbollah con la forza non era mai stata presa in considerazione, almeno non dall’establishment politico.

Per il carattere repentino e per le vio-lenze inaccettabili compiute solo a scopo intimidatorio, l’offensiva di Hezbollah è sembrata un piano studiato nei dettagli e maturato lentamente in attesa del giorno giusto per metterlo in opera. Non si è trattato nemmeno di un tentativo di colpo di stato. Bisognerebbe semmai parlare di un colpo di non-stato. Hezbol-lah, infatti, ha perso ogni credibilità: ha violato la promessa solenne di non spa-rare in nessuna circostanza contro altri libanesi e ha trasformato una manife-stazione a carattere sociale in un’aggres-

sione militare. Il partito di Nasrallah sostiene di voler semplicemente parteci-pare al governo del paese, ma in realtà punta a ottenere il potere. E questo po-tere, con i legami esterni che comporta, non potrà mai essere imposto a tutti i libanesi.

Una svolta del genere porterebbe non alla nascita di una nuova repubblica, ma alla distruzione di quella attuale. p nm���Il potereall’esercitonAbIl chArAfeddIne, elAph,grAn bretAgnA

oramai per il libano c’è una sola soluzione possibile: ricorre-

re all’esercito, unica istituzione ancora in grado di salvare l’unità del paese. Se avessi potuto, dopo l’esplosione di vio-lenza provocata da Hezbollah avrei con-sigliato al generale Michel Suleiman, comandante in capo dell’esercito libane-se, di marciare verso il palazzo presiden-ziale e di decretare lo stato di emergen-za. E poi di sciogliere il governo e il par-lamento e di governare il paese con il

Il vero obiettivoIssA gorAIeb, l’orIent-le jour, lIbAno

BEIRUT, 9 MAGGIO 2008. Milizie di Hezbollah e Amal nel quartiere Mazraa

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pugno di ferro, ino a quando la situazio-ne non fosse tornata alla normalità.

Non fatevi idee sbagliate: sono un li-berale convinto e mi batto senza riserve per lo stato di diritto e il pluralismo poli-tico. Tuttavia, di fronte al progetto di Hezbollah, non resta altra scelta che puntare sull’esercito libanese. p SuccessoamaroeliaS harfouSh, al hayat,gran bretagna

quanto sembra lontano que-sto maggio 2008 da quello del

2000. All’epoca la vittoria di Hezbollah su Israele, e il conseguente ritiro dei mi-litari israeliani, era stata una vittoria di

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tutti i libanesi, accompagnata da un for-te consenso nazionale e da elogi quasi unanimi. Quella di adesso è una “vitto-ria” venata di amarezza, perché i quar-tieri conquistati da Hezbollah a Beirut e altrove sono abitati da cittadini libanesi. Ma anche perché il consenso di allora è stato spazzato via dalla lotta settaria e politica, che ha trasformato il partito della resistenza in una delle fazioni in lotta.

Dopo il 2000 Hezbollah ha esitato a entrare nell’arena politica del paese. Forse perché sapeva che avrebbe dovuto rinunciare alla sua immagine di forza unitaria a vocazione nazionale per ripie-gare su un’identità settaria, legata all’af-iliazione sciita dei suoi membri. Molti, inoltre, temevano le conseguenze del suo ingresso nella scena politica. Il ri-schio era che le armi usate contro Israele prima o poi potessero servire a Hezbol-

lah per imporre il suo punto di vista, co-me è puntualmente successo in quest’ul-tima “vittoria”.

Si tratta ora di capire se il Partito di Dio è ancora consapevole dell’impor-tanza della coesistenza e della necessità di salvaguardare il Libano dal conlitto etnico-religioso che minaccia la regio-ne.

In tal caso non può non sapere che, dopo la battaglia, dovrà tornare a vivere fianco a fianco con quelli che oggi ha sconitto.

Anche in questo senso la sua “vitto-ria” è terribilmente diversa da quelle del 2000 e del 2006. Hassan Nasrallah non dovrà mai convivere con Ehud Olmert o Ehud Barak. La vittoria su di loro è un motivo di festa legittimo. Quella su Saad Hariri, Walid Jumblatt e Samir Geagea, invece, mette a rischio il futuro del pae-se. p nm

La prova di forza di Hezbollah in Libano, che ha portato di nuovo

il paese sull’orlo della guerra civile, non può più essere considerata soltanto “un problema interno libanese”, come sostiene la Siria. Anche se il governo di Beirut usa parole dure contro il Partito di Dio, deinendo le sue azioni un colpo di stato e perino ordinando all’esercito di entrare in azione per imporre l’ordine, bisogna ammettere la verità: questo governo non controlla il Libano. Il paese dipende dai capricci di Hassan Nasrallah, che è guidato da motivi personali e religiosi, oltre che dal fatto di essere il referente dell’Iran in Libano. Come tale, Nasrallah costituisce una minaccia particolarmente seria per Israele. Non è una situazione nuova. La forza di Hezbollah è in crescita da anni, soprattutto dopo la seconda guerra del Libano, e forse anche a causa di questa. L’organizzazione sciita continua a comprare grandi quantità di missili a lungo raggio e controlla completamente

il Libano meridionale e parti del Libano orientale. Tutto questo impedisce all’Uniil, la Forza di interposizione in Libano delle Nazioni Unite, di fare il suo lavoro. In quanto al disarmo di Hezbollah, auspicato fortemente sia da Israele sia dal governo libanese, non vale nemmeno più la pena discuterne. Perino il primo ministro libanese Siniora evita di affrontare l’argomento, pur avendo sempre ribadito il principio che nel paese dovevano circolare “solo le armi legali”.

Il risultato è che Israele si ritrova alla frontiera settentrionale un paese controllato non dal proprio governo legittimo ma da un’organizzazione pericolosa. E Israele può far poco, militarmente o diplomaticamente, per cambiare la situazione in Libano. C’è però un’alternativa: un rapido e serio impegno a negoziare con Damasco potrebbe creare intorno al Libano una sorta di involucro cuscinetto, che ridurrebbe in modo signiicativo la

Visto da Israele

l’alternativa vincente

ha’aretz, iSraele

Se Israele vuole evitare un Libano controllato dalle milizie iloiraniane, deve agire subito. Negoziando con la Siria

capacità di Hezbollah di agire contro Israele. Certo, non ci si può aspettare che la Siria tagli i suoi legami con l’Iran e con Hezbollah. Ma sarebbe assurdo non cogliere l’occasione strategica offerta da un paese che, pur essendo alleato con Teheran ed Hezbollah, dichiara senza nessun imbarazzo di voler stringere un patto di pace e sicurezza con Israele.

Non è solo alla frontiera settentrionale che Israele deve confrontarsi con un’organizzazione che controlla un intero stato. A Gaza, Hamas tiene ancora le redini del potere e decide non solo le sue risposte militari contro gli israeliani, ma anche la natura dei rapporti di Israele con i suoi vicini, soprattutto l’Egitto. Ma come con Hezbollah in Libano, anche a Gaza Israele ha un’opportunità da non perdere se vuole spezzare il monopolio politico di Hamas: far avanzare i negoziati con l’Autorità Palestinese e mostrarsi determinato a soddisfare le condizioni della road map. Togliere le sanzioni a Gaza, che inora si sono rivelate ineficaci, potrebbe essere un passo importante in questa direzione.

Di fronte alla doppia minaccia da nord e da sud, Israele non può più stare a guardare né ripiegare sulla solita retorica militare. Deve esaminare le alternative diplomatiche e agire immediatamente, inché è ancora in tempo. p nm

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Attualità

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Mazen Kerbaj è nato nel 1975 e vive a Beirut. Suona in un gruppo musicale, scrive fumetti e ha un blog (www.kerbaj.com).

Cartoline da Beirut

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Italieni

p “Non c’è dubbio che questa volta Silvio Berlusconi non si farà condizionare dagli alleati. Sarà lui a comandare. In tutti i posti chiave ha messo dei fede-lissimi”, scrive l’Independent. Il nuovo governo, osserva il Clarín, “non può essere in nessun modo condizionato dall’opposizione”, mentre la Frankfurter Rundschau aggiunge che “Berlusconi svol-gerà – anche grazie all’età – il ruolo del patriarca onnipoten-te, sarà il padre padrone”. Il premier, commenta la Süd-deutsche Zeitung, dovrebbe mettere questo enorme potere “al servizio dell’Italia. Le espe-rienze passate, però, ci fanno essere scettici”. Secondo Le Monde, per Berlusconi non sarà facile “resistere alle pres-sioni dei populisti della Lega nord, che hanno raddoppiato i consensi rispetto al 2006 e sono decisivi per la maggio-ranza al senato”. Sulla stessa linea il New York Times, che ricorda come “nel 1994 il pri-mo governo Berlusconi è caduto proprio per volontà di

Umberto Bossi”. Quest’esecu-tivo, scrive Libération, “è l’espressione della maggioran-za di destra uscita dalle elezio-ni. è compatto ma estrema-mente politico”. Secondo il Times, “si tratta del governo italiano più a destra dalla ine della seconda guerra mondia-le”. Alleanza nazionale e Lega nord, scrive il Los Angeles Times, “hanno preso pubbli-camente le distanze dal milita-rismo e dall’antisemitismo di Mussolini, ma continuano a sostenere posizioni ultranazio-naliste, combinate con una difidenza verso gli stranieri che rasenta la xenofobia”. Ora un duro lavoro aspetta Berlusconi, che “deve ottenere rapidamente dei risultati”, scrive Le Temps. “Tra i primi provvedimenti ci saranno l’abolizione dell’Ici sulla prima casa e la detassazione degli straordinari”. Secondo la Frankfurter Allgemeine Zeitung, “i risultati saranno l’unico metro che gli italiani useranno per giudicare il miliardario milanese”.

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Un esecutivo fortema troppo a destraBerlusconi guida uno dei governi più solidi della storia italiana. Ma deve fare i conti con il populismo della Lega nord. I commenti della stampa straniera

ROMA, 8 MAGGIO 2008. Silvio

Berlusconi al giuramento del

governo

POLITICA

I ministridi Berlusconip Le Temps dedica un articolo a Giulio Tremonti, deinito “il Colbert” di Silvio Berlusconi. “Per il premier era l’unica per-sona indispensabile. L’unica personalità della destra italia-na, insieme al sottosegretario Gianni Letta, con un posto assicurato nel governo. Tremonti, specialista di diritto iscale, è l’uomo forte del quar-to governo Berlusconi. Ha la iducia assoluta del capo e il sostegno della Lega nord”. Ma non è chiaro quale sarà la sua politica economica. Tremonti è cambiato: oggi critica il mer-cato, vuole l’accordo con i sin-dacati, “parla di sacriici e sostiene la lotta all’evasione iscale”. Le Monde si occupa invece di Gianni Letta, “noto in Italia come il Gran Visir. Ex giornalista, 73 anni, da venti è l’eminenza grigia di Silvio Berlusconi, il suo uomo di iducia, quasi il suo angelo custode. Lavoratore infatica-bile, cortese e disponibile, è a lui che vengono afidati i pro-blemi delicati. Con solidi lega-mi nel mondo imprenditoria-le, quest’uomo elegante, che si comporta come un prete laico, ha anche le sue entrature in Vaticano”. I giornali stranieri hanno dedicato una particola-re attenzione a Mara Carfagna, ministra delle pari opportuni-tà. “Nel febbraio del 2006”, scrive El País, “Berlusconi ha detto che se non fosse stato già ammogliato l’avrebbe sposata di corsa. Così, non potendo sposarla, ha deciso di farla ministra”. La Frankfurter Rundschau, inine, si occupa di Roberto Calderoli. “Doveva diventare vicepresidente del consiglio”, scrive il quotidiano tedesco, “e invece ha ricevuto un ministero creato apposta per lui: quello della semplii-cazione. Un compito non faci-le, visto che dovrà addentrarsi

nella giungla legislativa italia-na. Ma forse Calderoli è l’uo-mo giusto. è stato sempre un sempliicatore. Una volta, per esempio, parlando di pedoilia ha detto: ‘Ci vuole la castrazio-ne, un taglio e via’”.

IMMIGRAZIONE

RiformareSchengenp Uno dei principali obiettivi dell’esecutivo di Silvio Berlusconi è la lotta all’immi-grazione clandestina, osserva il Financial Times. “Il mini-stro degli esteri Franco Fratti-ni, in particolare, si è dichiara-to a favore di un aggiornamen-to degli accordi di Schengen e di altre leggi che regolano la circolazione delle persone nell’Unione europea”. Secondo El País, “Berlusconi ha fretta di agire contro i clandestini per tenere fede a una delle promesse alla base del suo trionfo elettorale”. Ma questa politica, continua il quotidia-no spagnolo, “è stata criticata duramente dalla Romania, profondamente irritata dalle misure ideate espressamente contro i cittadini rumeni”.

SOCIETÀ

Disamoratidell’Italiap “Oggi i tedeschi hanno molti motivi per disamorarsi dell’Italia”, scrive la Süddeut-sche Zeitung. “Per esempio il fatto che una città come Roma sia governata da un postfasci-sta più a destra del populista austriaco Jörg Haider. O il fat-to che Berlusconi sia tornato al governo nonostante gli insuc-cessi dei suoi precedenti ese-cutivi, le promesse non mante-nute e il conlitto d’interessi. Anche in Italia molti si chiedo-no cosa stia succedendo alla tradizionale amicizia tra i due paesi. La risposta è semplice: secondo i tedeschi mancano le basi per continuarla”.

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CINEMA

A Cannescon due ilmp “Due anni dopo Il caimano di Nanni Moretti (2006), il cinema italiano torna sulla Croisette con due ilm politici in competizione”, scrive Le Monde commentando il ritor-no a Cannes dell’Italia. “Uno è Gomorra di Matteo Garrone, che si occupa della camorra napoletana ed è tratto dal best seller di Roberto Saviano, e l’altro è Il Divo, di Paolo Sor-rentino, ispirato al democri-stiano Giulio Andreotti. È un caso o si tratta della rinascita di una tradizione cinemato-graica tipicamente italiana? La stampa sottolinea come l’Italia sia contenta di essere rappresentata da due ilm in corsa per la palma d’oro, ma sia anche preoccupata dell’im-magine del paese. In particola-re nel caso di Gomorra”. Ma si tratta di cinema politico non militante, osserva Le Monde, e Matteo Garrone spiega: “Non volevo fare un ilm a tesi per dire che la camorra è cattiva, ma raccontare la vita delle persone, spesso di una grande umanità, prese da un ingra-naggio in cui il nemico non è ben identiicato. Mi sono avvi-cinato a questa realtà senza pregiudizi”. L’altro ilm in gara, Il Divo, “si concentra su Giulio Andreotti, un mito vivente della politica italiana, un personaggio misterioso e luciferino, ancora seduto in parlamento a 89 anni dopo una vita nei corridoi del pote-re. Né Matteo Garrone né Pao-lo Sorrentino pretendono di avere il realismo documenta-rio dei grandi registi italiani del passato. L’artista vince sul testimone”. Non a caso, con-clude Le Monde, “tra le opere che l’hanno ispirato Garrone cita Paisà, il ilm del 1946 di Roberto Rossellini sulla libe-razione, e non i ilm realisti sulla maia”.

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Un dibattito poco utileLettera dall’Italia

Frederika Randall è una freelance statunitense che si occupa di cultura. Collabora con The Nation. Per scrivere ai giornalisti stranieri: [email protected]

FOTO

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ÉLIS

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LLIVET

non sono molti i programmi della Rai che si occupano di at-tualità in modo critico e interessante. Tra i pochi che lo fanno c’è spesso Anno zero. Po-co tempo fa ho visto la

puntata che si occupava della libertà di stampa. Gli invitati discutevano dei tre refe-rendum lanciati da Beppe Grillo per farla inita con i giornali sovvenzionati dallo sta-to, abolire l’ordine dei giornalisti e revocare la legge Gasparri. La discussione suonava strana. In una trasmissione della tv pubblica italiana nessuno parlava della legge Gasparri e del colossale convitato di pietra presente in studio, cioè Berlusconi, il proprietario di Mediaset, che controlla praticamente tutta l’emittenza italiana. D’accordo, il problema non è nuovo: ma si tratta pur sempre di una minaccia mortale. E invece si è discusso del-la necessità di un albo che “certiichi” la pro-fessionalità dei giornalisti italiani!

Be’, secondo me il problema è abbastan-za irrilevante, in un’era in cui gli italiani che leggono un blog come quello di Beppe Grillo e quelli che comprano i quotidiani nazionali sono più o meno lo stesso numero. La blogosfera è già aperta a tutti: abbiamo dav-vero bisogno di un referendum? Poi il dibat-tito si è spostato sulle sovvenzioni alla stam-pa. Perché, dice Grillo, i soldi dei contribuenti devono essere spesi per inanziare dei gior-nali che non legge nessuno?

Se ha un senso l’accusa di eccesso d’infor-mazione e di punti di vista – con tutta la gamma che va da Libero a Liberazione – al-lora sì, l’Italia è colpevole. Ma io che vengo da un paese che ha una popolazione cinque volte più numerosa di quella italiana e dove ci sono solo tre quotidiani nazionali – con posizioni politiche molto simili – penso che gli italiani farebbero bene a rilettere: il mer-cato basta a garantire un’informazione ade-

guata? Nei mesi che hanno preceduto l’inva-sione dell’Iraq, quasi tutti i grandi giornali americani e le principali reti televisive han-no accettato docilmente la tesi di George W. Bush secondo cui Saddam Hussein dispone-va di armi di distruzione di massa.

I tanto osannati giornalisti americani si sono rivelati una massa di babbei: facendo buona informazione avrebbero forse potuto impedire la guerra. I giornali che vivono di inserzioni pubblicitarie possono anche esse-re dei mattoni come il New York Times della domenica, ma le notizie che contengono so-no per lo più “leggere”: cronaca nera, gossip, stili di vita. Pochi inserzionisti comprano gli spazi pubblicitari che i giornali mettono ac-canto ai commenti, alle analisi politiche o all’attualità internazionale. L’informazione seria costa, e gli inserzionisti preferiscono la fuffa.

Quanto poi alla domanda se possiamo vivere senza giornali, visto che tutte le infor-mazioni le troviamo in rete, credo che sia ancora prematuro. Fare informazione signi-ica seguire una notizia ogni giorno e non si capisce chi potrebbe fare una cosa del genere senza essere pagato. Invece la maggior parte dei blogger sono volontari: ma molti danno informazioni parziali, e per tirarne fuori qualcosa che si possa deinire “informazio-ne” occorre raccogliere, selezionare e mon-tare le notizie. Il che ci riporta ai giornali, magari nella versione online.

C’è molto di vero nel monito di Beppe Grillo contro i giornali di proprietà dei gran-di gruppi economici. “Il controllo sull’infor-mazione è il nuovo fascismo”, dice. E ha ra-gione. Ma anziché attaccare l’ordine dei giornalisti e le sovvenzioni alla stampa, gli italiani farebbero bene a occuparsi della fon-te di quasi tutta l’informazione che hanno, cioè la televisione. Finché l’Italia avrà un premier che è proprietario di tre tv private e controlla le tre reti pubbliche, come farà l’in-formazione a essere libera? p ma

La campagna di Beppe Grillo contro giornali e tg oscura il problema principale dell’informazione italiana: il monopolio di Berlusconi sulle televisioni, scrive Frederika Randall

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NOVITÀ IN TUTTE LE LIBRERIE

IL NUOVO DIARIO-REPORTAGE A FUMETTI

DELL’AUTORE DI “PYONGYANG” E “SHENZHEN”

I LIBRI DI INTERNAZIONALE

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Delle persone che vivevano lì non resta più nulla. Ora c’è solo qualche grosso topo. Ma per alcuni

mesi, tra il 2007 e il 2008, questo spiazzo di terra ospitava quasi 700 persone. Rom? Forse. Comunque immigrati, an-che se non più extracomunitari. Era co-me una città. C’erano “case”, strade, elet-tricità, una sorta di parcheggio e perino qualche antenna satellitare. Ma non c’era l’acqua. Era anche un posto pericoloso (per chi ci viveva): era stato costruito do-ve prima c’era un’industria chimica, la Montecatini. Il terreno sottostante non è mai stato decontaminato: è pieno di so-stanze tossiche. Non certo un posto idea-le per i bambini. Anzi, per nessuno.

Il campo era una baraccopoli. Con il passare dei mesi, man mano che a Mila-no venivano fatti sgombrare altri campi, diventava sempre più grande. Lo si pote-va vedere anche dalla strada, il famoso Malpensa Express ci passava vicino e la stazione della Bovisa era a due passi.

Ogni giorno migliaia di persone ci passa-vano davanti, tra cui molti architetti e studenti di architettura del vicino Poli-tecnico. Nessuno si fermava. La zona, diceva la gente, era “piena di zingari”. Ma la vita continuava (in modo quasi nor-male). Alcuni volontari andavano a con-trollare che i suoi abitanti stessero bene. Qualcuno cercava di far iscrivere i bam-bini alle scuole del quartiere. Un neonato era morto. Ma la stampa locale ne parla-va pochissimo.

Poi però è cominciata la campagna elettorale. E la Bovisa si è riempita di po-litici. Sono arrivati Matteo Salvini della Lega nord e Daniela Santanchè. Sono arrivati anche i giornalisti e il campo è inito sui quotidiani nazionali. Alla Bovi-sa si è tenuta una riunione in cui si è di-scusso il futuro del campo. Alleanza na-zionale, la Lega e La Destra hanno chie-sto al prefetto di sgombrarlo. Ma il pre-fetto ha risposto che non sapeva dove mettere la gente che ci abitava.

Però dodici giorni prima delle elezio-ni, il 1 aprile, lo sgombero c’è stato. Le baracche sono state abbattute. E i 700 “rom” ? Stavolta, a differenza di quanto è successo in occasione di altri sgomberi, non è stato offerto un tetto neanche ai bambini. Sono stati sfollati tutti. Qualcu-no è rimasto semplicemente seduto al sole dall’altra parte della strada. Il vice-sindaco di Milano, De Corato, ha dichia-rato che agli abitanti del campo sono state offerte delle alternative, ma le han-no riiutate. Comunque, il campo non c’è più, e le persone che ci vivevano se ne so-no andate. Qualcuno si è trasferito a Rozzano, a sud di Milano, altri hanno co-struito nuove baracche lì vicino, sotto il ponte della Ghisolfa, dove Visconti girò Rocco e i suoi fratelli, il ilm sull’immi-grazione dal sud d’Italia. Altri sono sem-plicemente scomparsi nella giungla ur-bana di Milano e nel suo vasto hinter-land.

Un posto orribileDagli anni settanta a oggi sono arrivati in Italia più di tre milioni e mezzo di immi-grati. Questo lusso non è mai stato gesti-to né organizzato dalle autorità italiane. È stato considerato come una successio-ne di emergenze: prima i senegalesi, poi i marocchini, gli albanesi, gli slavi e ora i rumeni, i “rom”, gli zingari. E natural-mente, stampa e tv hanno ingigantito ogni volta l’emergenza.

La città più ricca d’Italia, che ha una lunga tradizione di ospitalità, non è riu-scita a gestire qualche centinaio di rume-ni. Una ricca città europea non è stata in grado di offrire un tetto, neanche per un giorno, ai pochi bambini di una baracco-poli. Il campo della Bovisa non c’è più. Presto sarà dimenticato. Era comunque un posto orribile in cui vivere.

Da allora non abbiamo più visto i po-litici che ci avevano onorato della loro presenza in campagna elettorale. Adesso alla Bovisa stiamo benissimo. Ci siamo liberati dei “rom”. Ora il problema è di qualcun altro. p

Milano, il campo rom che non c’è piùNel quartiere della Bovisa c’era una baraccopoli. In campagna elettorale è stata sgombrata. Per i politici italiani l’immigrazione è sempre un’emergenza

JOHN FOOT insegna storia contemporanea al dipartimento di italiano dell’University college di Londra. Ha scritto Milano dopo il miracolo. Biografia di una città (Feltrinelli 2003).

L’autore

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JOHN FOOT per INTerNAZIONALe

MILANO. Protesta contro lo sgombero del campo, marzo 2008

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Italieni Fiera del libro 2008STORIA

Gioco di specchiMUIN MASRI

“non date mai, a certa gen-te, la soddisfazione di giustiica-

re il loro odio”. Non ho ancora capito cosa volesse dire il nostro insegnante di storia delle elementari. Ogni volta che a Nablus c’era una manifestazione contro l’occupazione israeliana, Darwish, il nostro maestro, ci pregava di non uscire dalla classe. “Calma, ragazzi, siete anco-ra piccoli, avete tempo per imparare e morire intelligenti. Se proprio volete sfogare la vostra rabbia innocente, bene, prendete carta e penna e scrivete quello che vi pare. A ine lezione potrete andare al primo checkpoint e lanciare i vostri pensieri sui soldati. Lo so, forse non risolve niente, ma aiuta”. Anche questa non l’ho mai capita, ma mi sono adeguato. Con rabbia, è chiaro.

Ne è passato di tempo, e di quei tren-tanove scolari indisciplinati ne sono so-pravvissuti una manciata, insegnante compreso. Oggi, dopo una settimana di esitazioni, mi sono deciso ad andare alla iera del libro di Torino, dedicata alla letteratura ebraica sotto la bandiera di Israele.

Sono partito con il cuore a farfalla, balbettante dall’emozione. Non è stato facile, ma era giusto così: i libri sono di

tutti, non bisogna mai boicottarli né calpestarli.

Un proverbio africano dice: “Un uomo che non sa dire dove la pioggia lo ha colpito non sa neppure dove il suo corpo si è asciugato”. Da noi, in Palesti-na, sono sessant’anni che piovono lacri-me e sangue. Gli unici che hanno detto qualcosa di sensato sotto questa pioggia sporca sono stati proprio loro, gli scrit-tori, che meritano il giusto omaggio. Al diavolo, dunque, vado. Di buon’ora, come i vecchi viaggiatori. Per conqui-stare un po’ di coraggio, scrivo su un fo-glietto l’ennesimo pensiero.

L’appuntamento è alle sette e mezza del mattino, un collegamento speciale con RaiNews24, gente in gamba, pre-parata. Ritrovo lo scrittore Vittorio Dan Segre, l’uomo che avrei voluto incontra-re in battaglia, un anziano combattente che rispetta ancora il codice d’onore: “Il nemico va vinto, mai umiliato”.

Mentre aspetto di andare in onda prendo il primo libro che mi capita. In copertina c’è un paesaggio familiare. Trovo un pezzo della mia storia scritto da qualcun altro, ma con lo stesso amo-re, e la lettura diventa una sorta di ver-tiginoso gioco di specchi.

Tra rumori, parole e profumi fami-liari, in quelle pagine mi rivedo bambi-no, sento l’odore materno ovunque. Ogni pagina è come un sogno in bianco e nero, le parole si muovono silenziose ed eleganti, alcune sincere e altre di cir-costanza, come nella vita reale, alcune

urlate da spettinare i capelli e altre che prendono il cuore.

Chiudo il libro con lentezza per non sentire quel rumore così simile alla por-ta di una cella. Dopo il collegamento l’amico Dan Segre mi saluta dicendo: “Sei stato coraggioso”. Non so, ma pren-do il mio foglio e lo lancio in aria, strap-pato in mille pezzi. Forse è arrivato il momento di parlare a quattr’occhi con i vecchi soldati. Il mio insegnante di sto-ria ne sarebbe contento. p

BANDIERE

Come bruciare un’occasioneMIHAI MIRCEA BUTCOVAN

è un vizio ancora frequen-te: affrontare ogni questione in

chiave emergenziale, rilettere soltanto quando siamo sollecitati dall’urgenza. Ho già parlato altre volte delle occasio-ni mancate: quei momenti perduti in cui avremmo potuto dar vita a incontri, strumenti di pace per evitare possibili scontri.

Anche se alla iera del libro di Torino qualcuno non ha perso l’occasione per bruciare delle bandiere, non parlerò della questione israelo-palestinese. Nei giorni scorsi molti giornalisti mi hanno fatto notare che quest’anno a Torino ero l’unico rumeno a rappresentare il mio paese. Non so chi rappresenti cosa alle iere del libro. Io sono andato a presen-tare il mio romanzo Allunaggio di un immigrato innamorato, pubblicato dalla casa editrice Besa. È il libro di un rumeno che scrive in italiano. Un libro in cui si narra della tormentata passio-ne di un uomo e di una donna e dell’in-quieto amore di un rumeno per la terra dove abita, l’Italia.

È vero: alla iera di Torino siamo sta-ti in pochi a parlare della Romania. Ep-pure ci tengo a precisare che non ero solo. C’era con me Andrea Bajani, l’ita-liano che ha scritto brillantemente di Romania e di rumeni perché ha saputo guardare nel profondo delle anime ru-mene e italiane. C’era Viorica Nechifor, una giornalista rumena, a moderare una tavola rotonda sugli scrittori mi-granti. E l’emigrante italiano Raphael d’Abdon, organizzatore a Udine di un G

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il diario di yocci

festival che quest’anno sarà dedicato alla Romania. C’era anche l’algerino Karim Metref, che nelle sue cronache torinesi scrive spesso di rumeni. E sugli scaffali, negli stand della iera, si trova-vano i libri di Cartarescu, Eliade, Cio-ran, Istrati, Manea.

La iera di Torino poteva essere un’occasione per approfondire la cono-scenza della Romania, un paese i cui cittadini sono sempre più numerosi sul territorio italiano. Ma anche la Roma-nia avrebbe potuto farsi più pubblicità. Ci sta provando attraverso le associazio-ni di rumeni presenti in Italia. Dovreb-be farlo anche attraverso i libri. Per dif-fondere la cultura rumena, perché gli italiani possano scoprire e ammirare i suoi autori e i loro libri.

Ultimamente le bandiere generano molti conlitti. Invece dovremmo guar-darle con la stessa curiosità di un lettore che si avvicina a un libro e decide di aprirlo. Spalancando il cuore e la mente ai loro messaggi.

Spero solo che l’appuntamento tori-nese di quest’anno sia stato anche un’occasione per confrontarsi e dialoga-re, al di là dei pregiudizi, delle ideologie o delle bandiere. Ricordando, prima della prossima emergenza, le parole di Heinrich Heine: “Dove si bruciano i li-bri, si inisce per bruciare anche gli uo-mini”. p

CORTEO

Passeggiata di ine primaveraKARIM METREF

alla fine è andata bene per tutti, tranne che per la

stampa! Si erano preparati. Erano lì come avvoltoi intorno a un animale mo-ribondo. Si aggiravano cercando in an-ticipo la posizione giusta per riprendere lo scontro inale. Armati ino ai denti: videocamere, macchine fotograiche con zoom in grado di riprendere i picnic dei marziani sul pianeta rosso, microfo-ni e registratori. Era tutto pronto.

Avevano annunciato l’arrivo delle frange “più estreme” del terrorismo “anarco-comuno-islamo-insurreziona-lista”. Sembrava che stessero per sbar-care le Brigate rosse a braccetto con le Brigate Al Aqsa. Le locandine davanti alle edicole parlavano di “agenti del Mossad venuti in aiuto alle forze dell’ordine italiane”. L’ambiente era surriscaldato dal sole cocente di ine primavera, ma anche dal terrorismo mediatico di chi si augurava un G8 bis: una nuova mattanza contro quei ragaz-zacci che osano sidare l’ordine stabilito dai potenti, osano bruciare, in pubblico e davanti alle telecamere, le bandiere

delle brave nazioni colonialiste, invece di andare in giro, come la crema dei loro coetanei, a spaccare la testa a chi non veste e non pensa come loro.

I negozi sono quasi tutti chiusi. Le strade laterali vicino a via Genova, quel-le che portano verso il Lingotto, sono imbottite di forze dell’ordine in tenuta antisommossa. Un centinaio di agenti in ogni viuzza. Il corteo che parte da corso Marconi è modesto. Gli organiz-zatori hanno annunciato diecimila par-tecipanti, all’inizio saranno due o tre-mila, non di più. La campagna di terro-re ha dato i suoi frutti. Man mano che si avvicina al Lingotto, però, il corteo di-venta sempre più lungo e più folto.

Giovannin ha manifestato da solo. Non si è portato nessuno dei suoi amici. La maggior parte non era interessata. Solo Raiq bruciava dalla voglia di veni-re, ma Giovannin gliel’ha proibito. “Non ti avvicinare nemmeno a un chilo-metro dal Lingotto, capito? Vuoi inire nel Cpt di via Brunelleschi? Lo sai che i capi delle associazioni e gli imam han-no fatto i bravi invitando i fedeli a non manifestare. Sarai l’unico ‘marocchino’ lì, visibile da cento metri. Se scappa un’unica manganellata sarà per te!”.

Alla ine del corteo, che si è concluso a piazza Fabio Filzi, Giovannin è scop-piato a ridere. Si pentiva di aver impe-dito a Raiq di venire. “Avremmo riso insieme guardando le facce deluse dei giornalisti”, ha pensato. “Si erano pre-parati a ilmare una guerriglia urbana e invece hanno seguito una paciica pas-seggiata di ine primavera”. p

L’Italia vista dai nuovi italiani

Gli autori

p MUIN MASRI è nato nel 1962 a Nablus, in Palestina, e vive in Italia dal 1985. Ha scritto Io sono di là (Michele Di Salvo Traccediverse 2005) e Pronto ci sei ancora? (Lochness Libri 2006). Un suo racconto è uscito in Amori bicolori (Laterza 2008).p MIHAI MIRCEA BUTCOVAN è nato nel 1969 in Romania e vive in Italia dal 1991. Lavora a Milano come educatore per il recupero dei tossicodipendenti. Ha pubblicato Allunaggio di un immigrato innamorato (Besa 2006).p KARIM METREF è nato in Algeria nel 1967 ed è in Italia dal 1998. Giornalista e scrittore, cura il sito letterranza.org. La sua email è [email protected]

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Ethical living

I consigli di Leo Hickman. Se comprate il televisore digitale veriicate che

non consumi più di 5 watt in stand by e non più di 250 quando è acceso.

La cosa migliore, ovviamente, è guardare meno la tv.

Lavare a trenta gradi non è sufficiente

Trenta è il nuovo 40. Lo dicono anche le grandi marche di detersivi e i

giganti dell’abbigliamento, che da qualche tempo sban-dierano i vantaggi ecologici del bucato a basse temperatu-re. Gli inglesi tendono a lavare a qualche grado in più rispetto al resto degli europei e ogni anno sprecano 1,6 miliardi di chilowattora di energia.

La proposta di abbassare le temperature di lavaggio ha un senso. In base agli esperimenti fatti con un paio di jeans, una camicetta in ibra sintetica e una maglietta in cotone, i vari lavaggi rappresentano tra il 60 e l’80 per cento dell’impronta ecologica di ogni capo. Però dietro i buoni propositi della pubblicità si nasconde anche una mossa propagandistica dei produttori di detersivi: in questo modo le aziende mi-gliorano la loro immagine di amiche dell’ambiente, senza dover modiicare i componen-ti dei loro prodotti come fosfa-ti e sbiancanti ottici che inqui-nano i corsi d’acqua e i bacini idrici.

In teoria riducendo la tem-peratura di lavaggio riducete anche la vostra impronta eco-logica e in più non rischiate di far restringere i capi messi in lavatrice. Vantaggi non indif-ferenti, considerato che oggi laviamo a più non posso. Un tempo il carico medio era di 4,5 chili a bucato, oggi è intor-no agli otto chili.

LUCY SIEGLE, THE OBSERVER, GRAN BRETAGNA

DOMANDE E RISPOSTE

MARCO MOROSINI

Si può produrre il freddo con il sole?Circa un sesto della produzione elettrica mondiale è usato per frigoriferi e condizionatori e tre quarti di questa energia provengono da fonti non rinnovabili. Eppure anche la produzione di freddo potrebbe essere ottenuta usando energie rinnovabili, per esempio geotermiche o solari. L’ingegnere turco-tedesco Ahmet Lokurlu ha inventato e produce dei sistemi ad alta eficienza che non generano elettricità ma direttamente calore e freddo per condizionatori e frigoriferi (solitem.de). In specchi solari parabolici l’acqua si trasforma in vapore a 200 gradi. Alimentando scambiatori o condensatori, il vapore può essere usato per raffredda-re frigoriferi e ambienti, per riscaldare l’acqua e gli ediici o per alimentare processi industriali. La Solitem ha vinto dei premi internazionali e inora ha avuto come clienti alberghi, supermercati e ufici. Ora sta sviluppando il sistema per ambienti più piccoli.

MARCO MOROSINI È ANALISTA SOCIO-AMBIENTALE. HA INSEGNATO AL

POLITECNICO FEDERALE DI ZURIGO E IN ALCUNE UNIVERSITÀ ITALIANE

ogni anno da Asda fossero la-vati a 30 gradi, l’energia ri-sparmiata servirebbe a far funzionare 5.300 televisori.

Ma è un’ottica un po’ limi-tata, perché non tiene conto della quantità di energia e di risorse che si potrebbero ri-sparmiare se smettessimo di riempire armadi e cassetti con montagne di indumenti. Nei nostri guardaroba ci sono 2,4 miliardi di capi che non indos-siamo mai o quasi mai. Per produrre, trasportare, distri-buire questi indumenti super-lui sono state usate quantità enormi di risorse. Nel libro Sustainable fashion and texti-les, Kate Fletcher cita uno stu-dio olandese illuminante. I ricercatori hanno dimostrato che ogni indumento è indossa-to in totale per 44 giorni, e tra un lavaggio e l’altro passano appena due o tre giorni. Più capi compriamo, più questi tempi si accorciano e aumenta il numero dei lavaggi. Quindi, se volete comportarvi in modo più sostenibile, imparate a pensare che una macchiolina di uovo o di burro non ha mai ucciso nessuno.

Va bene abbassare la tem-peratura di lavaggio, ma sa-rebbe ancora meglio comprare meno indumenti e indossarli più a lungo tra un lavaggio e l’altro. Girare la manopola dei comandi su “lavaggio ecologi-co” è già qualcosa, ma non ab-bastanza per contribuire a sal-vare l’ambiente. p gb

Ma è un vantaggio solo teo-rico. Perché considerando il processo produttivo dei capi d’abbigliamento e la sua tossi-cità, nemmeno il cotone più pulito ne esce immacolato. La coltivazione del cotone infatti assorbe il 25 per cento di tutti gli agenti chimici usati in agri-coltura. Quindi, anche lavan-do a 30 gradi non si risolve molto.

Questo, però, non ha impe-dito ai supermercati britannici Asda di votarsi alle basse tem-perature. Da marzo, tutti i capi venduti da una sua catena hanno sull’etichetta la scritta “lavare a 30 gradi”. Se tutti i 237 milioni di capi venduti

Sono 2,4 miliardi i capi che indossiamo solo raramente o mai

FA’ LA COSA GIUSTA

IL FATTORE U

Quando scegliete i materiali isolanti per la casa controllate il fattore U e scegliete quelli con il numero più basso: per esempio 5,4 per i vetri singoli, 2,6 per quelli doppi. www.foe.co.uk

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Durante la campagna elet-torale per le presidenziali del 2000, i repubblicani che vo-levano fermare la corsa di John McCain cominciarono a dire in giro che era “mezzo

matto”. Sostenevano che quand’era stato prigioniero in Vietnam aveva passato “troppo tempo in gabbia”: cinque anni e mezzo nel famigerato “Hanoi Hilton”, la prigione di Hanoi. Per smentire queste voci gli strateghi della campagna eletto-rale decisero di rendere pubbliche le car-telle cliniche del capitano (oggi senatore) McCain, dove si diceva che aveva la pro-stata ingrossata e problemi a sollevare le braccia (fratturate più volte durante la prigionia), ma era stato giudicato perfet-tamente sano di mente dagli psichiatri della marina, che lo avevano tenuto sotto controllo per anni dopo la liberazione dalla prigionia.

Leggendo questi referti, in effetti, vie-ne da chiedersi come mai McCain non sia completamente pazzo. I vietnamiti lo torturarono per estorcergli una confes-sione, e lui “per non cedere cercò di im-piccarsi due volte”, dice il rapporto di uno psichiatra del Jacksonville naval hospi-tal, in Florida, che lo visitò nel 1973. Un altro aggiunge: “Tre denti rotti per la

presenza di pietre nel cibo”. Lo scorso gennaio, quando ho incontrato McCain e gli ho letto alcuni brani di questi vecchi documenti, mi ha interrotto per precisa-re: “E anche un paio di pugni in faccia”. Il senatore dell’Arizona si stava prendendo una pausa in una suite di lusso dell’hotel Beverly Hilton, a Los Angeles.

Aveva appena ricevuto il sostegno uf-iciale alla sua candidatura dal governa-tore della California Arnold Schwarze-negger. McCain racconta che gli anni di prigionia furono “terribili”, ma dopo un po’ la sua voce si scalda e aggiunge: “Per certi aspetti è stato il periodo più bello della mia vita, per il coraggio e il valore delle persone con cui ho avuto il privile-gio di prestare servizio”. Sembra quasi che si morda la lingua, poi aggiunge: “I veterani in realtà odiano la guerra. Spero che non ci sia nessuna esaltazione della guerra in niente di quello che ho scritto o detto”.

E invece c’è. Del resto era dificile non esaltare la guerra in un libro di memorie intitolato Faith of my fathers, in cui parla di suo nonno, che comandò una lotta di portaerei contro il Giappone durante la seconda guerra mondiale, e di suo padre, che fu uno straordinario comandante di sottomarini nella seconda guerra mon-

Attentia McCainViene da una famiglia di militari ed è stato prigioniero in Vietnam. Si arrabbia facilmente, non accetta le critiche, ma racconta bene le barzellette. A 71 anni il candidato repubblicano alla presidenza degli Stati Uniti è sempre in trincea

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diale e comandante in capo delle forze del Pacifico nella guerra del Vietnam. Quello che McCain rifiuta, in realtà, è “l’autocelebrazione”. La lezione che ha imparato dalla guerra, la vera fede dei suoi padri, è che ci sono “cause più grandi di se stessi” per cui vale la pena morire. Il paese e la libertà, per esempio.

I McCain non sono come la maggior parte degli americani. Appartengono a una casta di militari che ha combattuto le guerre dell’America per oltre due seco-li. Il retaggio e l’esperienza della guerra per certi aspetti hanno reso John S. Mc-Cain iii un uomo veramente umile, ca-pace di perdonare, perino i carcerieri di Hanoi. Ma la sua benevolenza è stata una conquista faticosa, in un certo senso è ancora in corso, è un esercizio di equili-brio e una lotta combattuta giorno dopo giorno.

Il ribelle che sognava PrincetonMcCain è spesso divertente, perfino sprezzante, e allo stesso tempo un po’ tri-ste. La collera è sempre in agguato: con-trollata, ma non del tutto. Si dice che i suoi consiglieri devono continuamente ricordargli di non perdere le staffe du-rante i dibattiti con gli altri candidati. “Non è vero”, ribatte, “mi dicono solo di

apparire presidenziale”. Di tanto in tanto lancia un sorriso che somiglia a un ghi-gno: “È un meccanismo di difesa”, am-mette. “Sorridere, per non sembrare ar-rabbiato o frustrato”. McCain s’infuria con chiunque metta in dubbio il suo ono-re, la più sacra delle virtù militari. Nei momenti di debolezza appare suscettibi-le, impulsivo, vendicativo, il genere di militare rigido che bisognerebbe tenere lontano dalla stanza dei bottoni. Eppure conosce bene se stesso e una sua dignità un po’ schiva. “Sono una persona piena di di-fetti. Non esito ad ammetterlo. È per questo che credo molto nella redenzione. Ho fatto tante cose sbagliate nella mia vita. La chiave è cer-care di migliorare”. I biglietti di scuse che McCain ha inviato a molti colleghi sena-tori possono testimoniarlo.

Se a novembre conquisterà la Casa Bianca, John McCain sarà il più anziano presidente mai eletto. Ha fatto un viag-gio lungo e dificile: da “ribelle senza cau-sa”, come si deinì parlando con uno di quegli psichiatri della marina negli anni settanta, è diventato un politico che aspi-ra a guidare gli Stati Uniti e il mondo. Da bambino, quando si arrabbiava trattene-va il respiro ino a svenire (il metodo dei

genitori consisteva nel gettarlo in una vasca di acqua gelata con tutti i vestiti). Ha trovato la serenità, se non proprio la pace, attraverso il dovere e una sofferen-za che pochi conoscono.

Nel suo libro c’è una frase rivelatrice: “Durante una licenza dalla marina fre-quentai il liceo”. L’Episcopal high school di Alexandria, Virginia, era una scuola per i igli dell’aristocrazia del sud. A quel-

l’epoca McCain sognava di an-dare all’università di Princeton. Era rimasto affascinato dalla pi-gra bellezza di Princeton e vole-va frequentare i circoli di stu-denti insieme ad altri giovani

gentiluomini. Ma era stato destinato in dalla nascita all’accademia navale. Reagì ribellandosi. Nel suo libro The nightin-gale’s song, Robert Timberg, storico e biografo del senatore, racconta che Mc-Cain al liceo era soprannominato punk, teppista, nasty, cattivo, o McNasty. Un compagno di scuola lo ha descritto come un “duro, lurido, piccolo stronzo”. Al-l’Episcopal high school, come negli isti-tuti militari statali, i ragazzi del primo anno tartassati dal nonnismo dei grandi venivano chiamati rats, ratti. “Il mio ri-sentimento, insieme alle mie manifesta-zioni di disprezzo verso le regole e le au-S

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torità scolastiche, mi fece guadagnare presto il titolo di ‘ratto peggiore’”, scrive McCain.

Ad Annapolis, all’accademia navale, lo chiamavano slob, zoticone. Aveva pre-so di mira un prepotente guardiamarina del secondo anno, che lui e i suoi amici avevano ribattezzato shitty witty the middy, merdoso marò spiritoso. Resero la vita impossibile a un capitano che

avrebbe dovuto insegnargli la disciplina. “Mi comportavo come un idiota”, scrive McCain. Rischiò l’espulsione, ma sem-brava sapere esattamente ino a che pun-to poteva spingersi.

Prese la laurea piazzandosi al quintul-timo posto nel suo corso. Aveva scelto l’aviazione navale, ed era a dir tanto un pilota di medio livello, un incosciente, che pensava solo a fare lo spaccone. Inve-ce di fare pratica in volo passava il tempo al bar O Club.

Voleva combattere in Vietnam e ci riuscì. Durante la sua ventitreesima mis-sione nel Vietnam del Nord, il 26 ottobre 1967, stava volando attraverso un fitto fuoco dell’antiaerea sopra Hanoi schi-vando i missili terra-aria quando sentì un bip: un missile aveva inquadrato il suo aereo, proprio quando lui stava per sganciare una bomba sul bersaglio. Avrebbe dovuto virare per evitare il mis-sile, racconta, ma per ostinazione, o per una sorta di folle coraggio, volò dritto e attivò il dispositivo della bomba. Nello stesso momento il missile colpì l’ala de-stra del suo aereo. Fu espulso dall’appa-recchio in avvitamento con una tale forza che si ruppe la gamba destra e le brac-cia.

Il paracadute lo portò su un lago al centro di Hanoi dove una guardia nord-vietnamita gli ruppe la spalla con il calcio del fucile e lo colpì con la baionetta a una caviglia e all’inguine. McCain riuscì a so-pravvivere in un campo di prigionia per pura testardaggine. Lo stesso spirito combattivo che lo aveva iccato nei guai a scuola servì a tenergli alto il morale ma-ledicendo e prendendo in giro le guardie che lo tenevano segregato. Eppure scoprì che da solo non poteva farcela. Cominciò a perdersi in fantasticherie pericolose. “Mi capitò diverse volte di arrabbiarmi moltissimo perché una guardia era en-

trata nella mia cella per scortarmi al ba-gno o per portarmi da mangiare inter-rompendo qualche volo della fantasia”, scrive. Le guardie lo picchiavano regolar-mente. Cercavano di sottometterlo e di fargli confessare i suoi “peccati” di “pira-ta dell’aria”. Disperato, “temendo che si avvicinasse il momento del mio disono-re”, salì sul secchio dei riiuti e cercò di impiccarsi legando una camicia alla per-

siana della inestra e avvolgendosela in-torno al collo. Le guardie lo fermarono prima che riuscisse a dare un calcio al secchio (ci provò una seconda volta, con meno convinzione: “Forse non volevo morire davvero”, ha scritto).

A salvare McCain furono i suoi com-pagni di prigione. Comunicavano bat-tendo colpi sul muro o sui tubi, e col tem-po, quando la brutalità delle guardie di-minuì, riuscirono a celebrare delle fun-zioni religiose e organizzare dei piccoli spettacoli. McCain era contemporanea-mente cappellano e organizzatore dei divertimenti: recitava i ilm che vedeva nella sua testa. “Per continuare a credere nell’amore e nell’onore avevo bisogno di sentirmi parte di una comunità molto unita”, scrive. “Non ero l’uomo forte che un tempo avevo creduto di essere”.

Le stellette di famigliaIn effetti McCain rivelò ai vietnamiti dei dettagli irrilevanti sulla sua “pirateria ae-rea”, ma era ossessionato dal pensiero che suo padre l’avrebbe scoperto. Mentre era prigioniero, suo padre era stato pro-mosso Cincpac, comandante in capo del-le forze statunitensi nel Paciico, e Mc-Cain era diventato, senza saperlo, quello che i suoi carcerieri chiamavano “un principe della corona”. Dopo circa un an-no di prigionia gli fu offerto il rilascio. Era una manovra propagandistica, e lui riiutò di uscire senza i suoi compagni. Rimase in prigione per altri quattro anni. McCain sentiva che le guardie gli riserva-vano “maggiori attenzioni” (cioè gli da-vano più botte), ma al tempo stesso non volevano che morisse o che tornasse a casa gravemente menomato. Lui era os-sessionato dalla paura di disonorare la sua famiglia. “Voleva uscire dall’ombra di suo padre e affermare la propria identità agli occhi degli altri”, dice una valutazio-

ne psichiatrica allegata alle cartelle clini-che di McCain. “Ora sente che la sua esperienza e il suo comportamento come prigioniero di guerra lo hanno inalmen-te reso possibile”. Rilasciato dopo gli ac-cordi di pace del 1973, McCain tornò negli Stati Uniti da eroe. “Quando, a una cena, suo padre venne presentato come ‘il padre del comandante McCain’, si sen-tì realizzato. Ce l’aveva fatta”, ha scritto uno psichiatra nel 1974.

Come suo padre e suo nonno, McCain voleva diventare un ammiraglio, ma sa-peva che, a causa dei suoi handicap isici, non avrebbe mai comandato il gruppo da battaglia di una portaerei, un prerequisi-to necessario per ottenere le quattro stel-lette come i due McCain più anziani. Quando lavorava come uficiale di colle-gamento della marina presso il congres-so, alla ine degli anni settanta, McCain scoprì di avere talento per la politica. De-cise di candidarsi alla camera dei rappre-sentanti. Dopo essersi risposato con la iglia di un industriale della birra (il pri-mo matrimonio non era sopravvissuto alla tensione del rimpatrio), usò le cono-scenze della nuova moglie per ottenere un seggio sicuro in Arizona. Poi ereditò il seggio di Barry Goldwater al senato nel 1987.

Secondo McCain, tra i militari ci sono

McCain sa superare le divisioni di partito. Nel 2004, durante un viaggio in Estonia, fece a gara con Hillary Clinton a chi beveva più vodka

Biograia

29 AGOSTO 1936. Nasce a Coco Solo nella zona del Canale di Panama controllata dagli Stati Uniti.1954. Entra all’accademia navale di Annapolis. 1958. Si laurea e viene trasferito alla base aerea della marina di Pensacola, in Florida, per l’addestramento da pilota navale. 1965. Sposa la modella Carol Shepp, da cui avrà una iglia dopo aver adottato i suoi due bambini. 1967. Durante la guerra in Vietnam viene catturato, torturato e tenuto prigioniero per cinque anni ad Hanoi. 1980. Divorzia e si risposa con Cindy Lou Hensley, da cui avrà tre igli.1981. Lascia l’esercito e si trasferisce in Arizona, dove lavora nell’azienda del suocero.1986. Dopo due mandati al congresso, è eletto al senato.2000. Corre alle primarie per le presidenziali ma viene sconitto da George W. Bush.25 APRILE 2007. Annuncia la sua candidatura per le elezioni del 2008.

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Un conservatore in senso lato, che ogni tanto si com-porta da “cane sciolto” ma è di una sincerità irriducibi-

le: è questo che la maggior parte degli americani pensa di John McCain. In realtà si tratta di una valutazione quasi completamente infondata. McCain ha più volte espresso punti di vista lontani anni luce dall’ortodossia conservatrice, ma si è anche reinventato da cima a fondo. A tal punto che è diventato quasi impossibile capire cosa pensi davvero.

Le conversioni in politica non sono certo una novità, e tanto meno uno scandalo. Ma la metamorfosi ideologi-ca di John McCain è straordinaria per due motivi. Innanzitutto perché Mc-Cain non ha attraversato lo spettro po-litico soltanto una volta, ma due. Se-condo, perché si riiuta di ammetterlo.

Nel 1987 McCain si è guadagnato il suo seggio al senato presentandosi co-

me l’erede ideologico di Barry Goldwa-ter, il padre della destra conservatrice statunitense. Per un po’ ha mantenuto la promessa, con l’eccezione di un paio di episodi in cui si è comportato da “ir-regolare”: la sua crociata contro i gran-di produttori di sigarette e quella per la riforma dei inanziamenti elettorali.

Poi però, durante e dopo la sua cam-pagna per le presidenziali del 2000, si è veriicato un cambiamento spettacola-re. I conservatori accusano continua-mente McCain di infedeltà, ma l’opi-nione pubblica non si rende conto dav-vero delle reali dimensioni del fenome-no. I giornali, del resto, non parlano quasi più di come ha votato McCain du-rante il primo mandato presidenziale di Bush. In realtà il candidato repubblica-no alla presidenza ha una storia segreta semplicemente stupefacente. Non è esagerato affermare che dal 2001 al 2004 McCain è stato il membro del

congresso che ha portato avanti più ef-icacemente il programma dei demo-cratici.

Nel 2002 il senatore dell’Arizona aveva compiuto un’altra metamorfosi che lo ha reso quasi irriconoscibile. Non si può dire che fosse diventato un libe-ral nel senso convenzionale del termi-ne: era ancora contrario all’aborto (ma l’argomento non sembrava appassio-narlo granché) e continuava a essere un falco in politica estera. Ma anche ri-spetto a tanti democratici moderati, e perino a tanti democratici progressisti, era più disposto a battersi contro la lob-by degli affaristi. In questa fase, la dei-nizione più calzante per McCain era quella di progressista alla Theodore Roosevelt, cioè uno che tende a vedere la politica come una contesa tra gli inte-ressi nazionali da una parte e gli inte-ressi privati ed egoistici dall’altra, e pensa che il governo debba attivarsi per bilanciare gli eccessi del sistema capita-listico. Roosevelt, come McCain sapeva benissimo, abbandonò il partito repub-blicano perché lo considerava asservito al grande capitale. McCain non è uscito dal suo partito, ma ci è andato vicino. Il Washington Post e The Hill hanno rife-rito che nel 2001 si è incontrato con al-cuni dirigenti democratici per discutere un eventuale cambio di partito. McCain e i suoi alleati smentiscono questa noti-zia, e i giornalisti che seguono la sua campagna elettorale non ne parlano quasi mai. Citano di rado anche il fatto che nel 2004 John Kerry lo ha corteg-giato, nella speranza che accettasse di entrare nel suo ticket candidandosi alla vicepresidenza. I cinque o sei incontri che i due avrebbero avuto non sono compatibili con l’immagine di un con-servatore al cento per cento.

Il falcoTerminato il lirt con Kerry, McCain ha deciso che l’unica via plausibile per conquistare la presidenza nel 2008 era candidarsi per il Partito repubblicano. E così ha fatto il possibile per ingraziar-si l’establishment del Grand old party, senza tuttavia intaccare la sua reputa-zione di uomo di incrollabili princìpi. La priorità assoluta era rendersi accet-tabile alla destra sulla politica iscale. Il primo passo verso la redenzione Mc-Cain l’ha fatto nel 2005, smettendo di ostacolare in aula l’abrogazione del-

Da quando è diventato senatore, John McCain ha votato tutto e il contrario di tutto. Eppure è considerato un uomo dai solidi princìpi

JONATHAN CHAIT, THE NEW REPUBLIC, STATI UNITI

Professione dissidente

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FLORIDA, AGOSTO 2004.

Con George W. Bush

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internazionale 744, 16 maggio 2008 • 39

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due tipi di leader: il tipo “che pianiica la vittoria”, come il generale George Mar-shall o il generale Dwight Eisenhower, e il tipo “che sa ispirare”, come suo padre o suo nonno, uomini che forse non sono particolarmente organizzati ma hanno il dono di sapere guidare gli uomini in bat-taglia. Analogamente, sostiene McCain, ci sono diversi tipi di senatori. “Uno è quello che si occupa dei dettagli, come per esempio gli stanziamenti per la co-struzione della strada o della tangenzia-le”. È il tipo di legislatore attento alle “mi-nuzie” che aiutano “un politico a farsi rieleggere”, spiega. E aggiunge senza en-tusiasmo: “Io rispetto questo tipo di se-natori”. Poi ci sono i senatori “che decido-no”, e chiaramente sono questi il modello di McCain. Se ne ricordava ogni giorno, andando al lavoro, quando passava ac-canto alla statua di Richard Russell, se-natore della Georgia, saggio conidente di Lyndon Johnson e potente presidente del comitato per i servizi armati del sena-to.

McCain ha molti ammiratori tra i suoi colleghi. “Lo considero un leader”, affer-ma la senatrice Susan Collins, repubbli-cana del Maine e membro del comitato sui servizi armati. “In senato ha creato alleanze bipartisan su molte questioni, tra cui il riscaldamento globale, il inan-ziamento delle campagne elettorali, la carta dei diritti del malato e le emissioni di gas serra. È un vero protagonista. Ha un impatto tremendo, anche quando non siamo dalla stessa parte. Di solito è tra i primi a individuare un problema, e ha sempre ragione”.

McCain ha davvero la capacità di su-perare le divisioni di partito. Nel 2004, durante un viaggio uficiale in Estonia, fece una gara con Hillary Clinton a chi beveva più vodka. L’ex leader della mag-gioranza democratica Tom Daschle ha raccontato di aver parlato seriamente con lui, nel 2001, per convincerlo a pas-sare al Partito democratico. “Non avrei mai lasciato il mio partito, chiunque può testimoniarlo, sono stato uno dei mili-tanti repubblicani più convinti”, insiste ora McCain. Non è un tipo solitario, ma dimostra indipendenza di giudizio. Le persone che lavorano con lui gli sono de-vote e si deiniscono “McCainiaci”.

Ma ci sono alcuni senatori ed ex parla-mentari che ancora si leccano le ferite dei loro scontri con McCain. “John sa rac-contare una barzelletta e farti ridere, e io mi sono divertito parecchio con lui”, dice l’ex senatore del New Hampshire Bob

l’estate tax, l’imposta di successione sulle proprietà immobiliari. Il passo successivo è stato rassicurare i conser-vatori, dicendosi favorevole a rendere permanenti gli sgravi iscali contenuti nel provvedimento promosso da Bush. Per un politico che vuol apparire since-ro e coerente è stata una mossa alquan-to problematica, visto che in preceden-za aveva votato contro lo stesso provve-dimento.

Tuttavia McCain si è servito anche di tecniche più rafinate, in primo luogo quella di spostare semplicemente l’ac-cento da un problema all’altro. Dopo essersi tenuto a distanza dal presidente Bush per anni, nell’estate del 2004 ha cominciato a tesserne le lodi sperticate, ha smesso di votare con i democratici a favore di leggi che non piacevano ai re-pubblicani e ai lobbisti di Washington, e ha posto al centro dell’attenzione uno dei pochi punti su cui concorda al cento per cento con la destra repubblicana: il voto a favore della guerra in Iraq.

Paradossalmente, questa mossa si è dimostrata vincente proprio perché la guerra era sempre più contestata. Schierandosi con i falchi, il senatore McCain ha dimostrato ai conservatori di essere pronto a contrastare l’opinio-ne pubblica. Stranamente, però, la stampa ha interpretato questa presa di posizione come un’ulteriore prova della rettitudine di McCain: i giornali hanno cominciato a dipingerlo come un uomo disposto a perdere la presidenza pur di tener fede alle sue convinzioni. In real-tà, le sue convinzioni sulla guerra erano perfettamente allineate con il suo inte-resse personale, visto che i conservatori più tenaci, cioè quel pezzo di elettorato che McCain voleva corteggiare, erano tutti con Bush.

Ma spostare l’accento sulla guerra ha portato anche un altro vantaggio a McCain: ha spinto i mezzi d’informa-zione a osservare la sua campagna elet-torale quasi soltanto attraverso la lente dell’Iraq, chiudendo un occhio sul com-portamento opportunistico del senato-re. Nel 2005 McCain è stato tra i soste-nitori della legge di Bush sull’immigra-zione che prevedeva la legalizzazione dei clandestini che lavoravano negli Stati Uniti. All’epoca erano pochi gli elettori che prestavano attenzione al provvedimento, e per McCain votare a favore è stata una buona occasione per

conquistarsi la benevolenza dell’ammi-nistrazione e di alcuni lobbisti. Quando però è esplosa l’opposizione dei mili-tanti di base, McCain si è visto costretto a dichiarare in pubblico che aveva “rice-vuto il messaggio” e non avrebbe più fatto pressioni sull’argomento. Non molto tempo fa, in occasione di un di-battito elettorale, ha dichiarato che se il congresso avesse approvato la legge sull’immigrazione da lui stesso presen-tata, non l’avrebbe più irmata. Una for-mula perfetta per dare un colpo al cer-chio e uno alla botte: agli occhi della stampa si è presentato come un candi-dato iloimmigrati, ma al tempo stesso ha promesso ai conservatori che si sa-rebbe schierato al loro ianco.

L’arma vincentePer tutti questi motivi, cercare di capire quale sarebbe la linea politica di Mc-Cain se diventasse il presidente degli Stati Uniti è diventato un esercizio raf-inatissimo: si tratta di prevedere chi inganna di volta in volta e perché. Mc-Cain è un candidato in cui quasi tutti riescono a trovare qualcosa di apprez-zabile. I liberal possono ammirare il suo essere progressista in modo istinti-vo e sperare che stia solo ingendo di compiacere la destra. I conservatori possono credere che seguirà la rotta che gli tracceranno i suoi consiglieri e si ri-terrà vincolato da tutte le promesse che ha fatto. Ma perino le sue posizioni in politica estera, con cui attualmente vie-ne più spesso identiicato, sono una no-vità. Inizialmente McCain era contrario all’intervento in Bosnia e non era pro-penso a condurre, ai tempi della prima guerra del Golfo, una sanguinosa cam-pagna sul terreno.

La cosa sorprendente di McCain è che la sua reputazione di uomo coeren-te con i suoi princìpi sia rimasta assolu-tamente intatta. Ed è l’arma politica più eficace di cui dispone contro i suoi av-versari.

Ogni volta che cambia idea e posi-zione riesce a convincere i suoi nuovi alleati che la sua è una conversione sin-cera, rafforzando così l’immagine di uo-mo dai princìpi incrollabili. Ma chi è davvero John McCain? p ma

Jonathan Chait è un commentatore sta-tunitense. Scrive su The New Republic e sul Los Angeles Times.

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I repubblicani sono stati abili a nominare un candidato che gli americani rispettano. Ma McCain ha poche speranze di vincere

ANDREW SULLIVAN, THE SUNDAY TIMES, GRAN BRETAGNA

Molti sono convinti che oggi l’uomo da batte-re sia John McCain. L’idea è che lo scontro tra

Hillary Clinton e Barack Obama sta fa-vorendo il senatore dell’Arizona.

McCain appare sereno. Con il tem-po ha acquisito una compostezza e una professionalità da uomo politico navi-gato. La storia ha avuto un occhio di ri-guardo nei suoi confronti: con il senno di poi, se potessimo tornare al 2000 chi sceglieremmo tra lui e George W. Bush?

Il suo discorso del 26 marzo sulla politica estera è stato un’importante ed elegante affermazione di un nuovo im-pegno. Gli europei, e i britannici in particolare, dovrebbero sapere che il candidato repubblicano alla presiden-za crede ancora nell’indispensabile ruolo di guida degli Stati Uniti nel mondo, ma sa anche che l’unilaterali-smo arrogante si paga a caro prezzo. “Dobbiamo tenere in considerazione il punto di vista dei nostri alleati e rispet-tare la loro volontà”, ha detto. “Quando riterremo necessaria un’azione inter-nazionale, sia militare sia economica e diplomatica, cercheremo di convincere i nostri amici delle nostre ragioni. Ma dovremo anche essere disponibili a la-sciarci convincere dalle loro”.

McCain sa perfettamente che non può e non deve vincere queste elezioni puntando a essere un nuovo George W. Bush. È un combattente, un repubbli-cano romantico e sanguigno, alla Ted-dy Roosevelt, ma è anche un realista che riconosce i danni subiti dalla credi-bilità degli Stati Uniti negli ultimi sette

anni. È stato uno dei pochi senatori a capire che la Casa Bianca aveva com-pletamente perso la bussola morale au-torizzando la tortura e i metodi di in-terrogatorio che molto tempo fa lui stesso ha subìto. Gli americani lo con-siderano, in base agli standard politici, onesto e rispettabile. La sua età e il suo stato di salute saranno ostacoli insupe-rabili?

Alla ine del primo mandato Mc-Cain avrebbe 76 anni. Il suo isico è se-gnato dalla tortura e il suo viso da un melanoma che ha avuto di recente. In tv i comici lo chiamano Nonno Simp-son. Ma la verità è che basta stargli a ianco qualche minuto per rendersi conto di quanta energia, dinamismo e gusto per la vita lo sostengono. Aven-doli visti entrambi in azione, direi che Obama si stanca prima di McCain.

Passato contro futuroTuttavia le possibilità che McCain vin-ca a novembre sono scarse. La sua stra-da è in salita. Non a causa dell’età, ma per alcune ragioni di fondo.

Innanzitutto i soldi. A novembre McCain dovrà molto probabilmente affrontare Barack Obama, cioè un can-didato che nei primi tre mesi del 2008 ha raccolto 131 milioni di dollari. Tra gennaio e febbraio, McCain ha raccolto appena 23 milioni. E la macchina elet-torale di Bush non si è ancora mossa per sostenerlo. La destra religiosa, da parte sua, non può e non vuole appog-giarlo. McCain non è uno di loro: è an-tiabortista e contrario al matrimonio gay, ma non sono i temi centrali della sua campagna. McCain è sempre stato

un sostenitore dell’occupazione in Iraq e in questi mesi si è lasciato andare ad alcune rovinose dichiarazioni sulla possibilità di “bombardare l’Iran” e re-stare in Iraq per “cento anni”, se neces-sario. In un paese siancato da una guerra che non sembra dare frutti, queste prese di posizione sono partico-larmente infelici. Ed è dificile immagi-nare che l’invio di nuove truppe in Iraq possa aiutarlo a novembre. McCain è un candidato di guerra e la guerra oggi è estremamente impopolare. I sondag-gi, inoltre, indicano che il tema domi-nante della campagna elettorale sarà l’economia, un argomento verso il qua-le lo stesso McCain non esita ad am-mettere il suo disinteresse. Il vecchio senatore però è contrario a usare le tas-se dei contribuenti per dare una mano alle vittime della bolla immobiliare. Una posizione decisamente poco ap-prezzata dal cuore povero della nazio-ne.

Sono due i temi che giocano a sfavo-re di McCain nello scontro con Obama. Il primo è l’Iraq: Obama ha votato con-tro una guerra impopolare, McCain ha sostenuto sia l’invasione sia l’invio di nuove truppe. L’altro è l’età: Obama a novembre avrà 47 anni, McCain 72. Sono il futuro contro il passato, e gli americani sono persone orientate al fu-turo. Inoltre queste elezioni hanno smentito la tendenza all’astensione delle giovani generazioni: se Obama sarà il candidato dei democratici, i gio-vani e i neri voteranno in massa, come non succede più dagli anni sessanta.

Inine, più semplicemente, conterà il fatto che in tempo di guerra e reces-sione il partito del presidente è in grave dificoltà. I repubblicani sono stati abi-li a nominare il meno repubblicano dei loro candidati. Ma le probabilità che a vincere sia un democratico sono eleva-te. Ecco perché Hillary Clinton per ora non si ritira. Sa che lo scontro di questa primavera potrebbe rivelarsi più im-portante di quello del prossimo autun-no. Anche McCain lo sa, ma nella sua lunga carriera ha imparato che tutto può succedere. È l’unica speranza della Clinton. E anche di McCain. p sv

Andrew Sullivan è un giornalista sta-tunitense. È stato direttore del settima-nale New Republic. Ha un blog: andrewsullivan.theatlantic.com.

Missioneimpossibile

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Smith. Questo è il lato di McCain che ve-de la stampa. Ma dietro le quinte si na-sconde un uomo meno affabile. “Si può dissentire senza essere sgradevoli”, con-tinua Smith. “E John non è capace di far-lo. Se non è d’accordo con te, diventa molto spiacevole”.

L’ira del senatoreSul senator hothead, il senatore testacal-da, come lo hanno ribattezzato, circolano molte leggende. Si dice che abbia inveito contro i suoi colleghi senatori e ne abbia addirittura spintonato qualcuno, com-preso il defunto Strom Thurmond, che all’epoca del presunto incidente era un petulante novantenne. Nel 1992 insultò il senatore repubblicano Chuck Grassley, che per più di un anno non gli rivolse la parola. A quanto si dice McCain ha im-parato a controllare i suoi scatti d’ira, eppure ci sono dei momenti in cui non ci riesce. Nella primavera del 2007, in un incontro a porte chiuse dei senatori e dei loro staff, il senatore del Texas John Cor-nyn cercò di emendare il progetto di leg-ge sull’immigrazione per escludere i con-dannati per reati gravi, i terroristi e i membri di bande criminali. Temendo che qualunque tentativo di emendare il progetto di legge potesse comprometter-

Jimmy Carter. Ma lui…”. La sua voce si afievolisce. “Uno s’immagina che il pre-sidente sia freddo, calmo e composto. È il comandante in capo”.

McCain ammette di aver avuto qual-che volta “forti dissensi” con chi decide i inanziamenti: “Certo che sì”. Ma snoc-ciola un elenco di illustri repubblicani che lo stimano, tra cui il senatore John Warner della Virginia e l’ex senatore Trent Lott del Mississippi. “Non ottieni il sostegno di queste persone se non ti sti-mano”, dice. “È così che funziona il sena-to, non è questione di amicizia”. Quanto alle sue arrabbiature, replica spazientito: “Vuole sapere se mi sono arrabbiato quando ho visto gli abusi commessi da Jack Abramoff (il lobbista condannato per uno scandalo di corruzione) e dai suoi amici e membri del congresso? Cer-to che sì”.

McCain è in rapporti piuttosto freddi con i conservatori di Washington, com-preso Grover Norquist, leader di un mo-vimento contro le tasse e uomo vicino a molti lobbisti di destra. “McCain reagi-sce male quando lo criticano”, sostiene Norquist. “Quando la National rile asso-ciation (Nra, l’associazione nazionale per le armi) e i gruppi per il diritto alla vita lo hanno criticato, ha reagito come se fosse-

ne l’approvazione (il progetto non è pas-sato), McCain scattò: “Queste sono caz-zate”. Cornyn gli rispose bruscamente che non poteva paracadutarsi lì all’ulti-mo momento per motivi elettorali e met-tersi ad avanzare pretese. “Vaffanculo”, replicò McCain davanti a trenta testimo-ni. Anche il senatore Thad Cochran, re-pubblicano del Mississippi, ha avuto la sua dose di scontri con McCain, quasi sempre per qualche stanziamento che McCain considerava una spesa elettora-listica. “Si scalda”, racconta Cochran. “Diventa rosso in faccia e alza la voce”. Secondo Cochran, che non considera chiusa l’amicizia con McCain (“almeno da parte mia”), al senato negli ultimi tempi circolano parecchie storie sul se-natore testacalda, rinfocolate dalla re-cente ondata di interesse della stampa. “Sono rimasto sorpreso quando ho sco-perto che moltissimi senatori avevano sperimentato di persona le sfuriate di McCain”, dice Cochran. Ma il carattere di McCain è in qualche modo negativo o inopportuno per un candidato alla presi-denza? “Non saprei”, risponde Cochran. “Sicuramente da quando sono qui non ho conosciuto nessun presidente con un carattere come il suo. Qualcuno si arrab-biava, certo. Ronald Reagan, e anche

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NEW HAMPSHIRE,NOVEMBRE 1999.Durante le primarie del 2000

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ro attacchi personali. Poi, per vendicarsi della Nra, ha sostenuto dei progetti di legge sul controllo delle armi”. Norquist nega di aver mai litigato con McCain, an-che se è stato citato in giudizio come te-stimone quando il comitato per gli affari dei popoli nativi presieduto da McCain ha esaminato la posizione di Abramoff (amico ed ex socio d’affari di Norquist), accusato di derubare i gruppi di nativi americani che chiedevano licenze per il gioco d’azzardo. “Certa gente del suo staff mi ha fatto passare un brutto quarto d’ora”, racconta Norquist. “Ma è tutto be-ne quel che inisce bene”.

Testardo e vendicativo“Se McCain non sopporta gli sciocchi è perché fanno tante sciocchezze che nuoc-ciono all’interesse nazionale”, dice la se-natrice Susan Collins. “Non l’ho mai vi-sto perdere il controllo. Quello che ho visto è un McCain giustamente arrabbia-to, anche molto arrabbiato, per un caso di corruzione per una spesa assurda”. “John è una persona piuttosto disciplina-ta, anche a livello emotivo”, conferma il senatore Joe Lieberman. “Se l’ho visto reagire con foga? Certo. Ma non è il ge-nere di arrabbiatura che ti fa perdere il controllo: è passione per le cose”. Richard Shelby, senatore repubblicano dell’Ala-bama, ricorda di aver assistito a una tipi-ca esplosione di McCain quando, nel 2001, cercò di far passare uno stanzia-mento di un milione e mezzo di dollari per il restauro di un’enorme statua in ghisa di Vulcano, il dio del fuoco, che si trova a Birmingham.Una volta che ha sentito puzza di corruzione, McCain non molla la presa. Quando cominciò a inda-gare sulla Boeing per quello che secondo lui era un contratto troppo vantaggioso

con l’aeronautica per il leasing dei tanker da trasporto, si scoprì che la Boeing ave-va violato la legge ingaggiando un ex uf-ficiale. McCain tormentò il Pentagono bloccando le promozioni nell’aeronauti-ca ino a quando il dipartimento per la difesa produsse delle presunte email in-criminanti. Il Pentagono fece quadrato e McCain piombò urlando nell’uficio del-l’allora segretario alla difesa Donald Ru-msfeld, raccontano un funzionario del Pentagono e un consigliere di Rumsfeld che hanno voluto restare anonimi. Mc-Cain pensava che Rumsfeld avesse messo in dubbio il suo patriottismo, un affronto intollerabile per la sua concezione del mondo. Mark Salter, consulente di lunga data, nega che l’episodio sia mai avvenu-to. McCain sa essere vendicativo. “Ha una lista di nemici più lunga di quella di

Nixon”, sostiene un ex funzionario del Pentagono che non vuole inire nell’elen-co. “E, a differenza di Nixon, McCain cer-ca davvero di renderti la vita impossibi-le”. Dopo lo scandalo della Boeing, tre funzionari dell’aeronautica che si erano dimessi scoprirono che uno dei principa-li collaboratori di McCain aveva sparso la voce negli ambienti della difesa che chiunque li avesse assunti avrebbe ri-schiato la disapprovazione del senatore.

McCain ha un’irruenza che fa inner-vosire chi è esperto di politica estera. Uno di loro, un ex alto funzionario in di-verse amministrazioni repubblicane che qualche volta dà consigli McCain – e vuole continuare a farlo – è preoccupato

per i giudizi “bizzarri” e per la sua ostina-zione a non cambiare mai idea.

Politicamente McCain potrà aggiu-stare il tiro all’occorrenza, ma evidente-mente tutto quello che somiglia a uno scambio di favori lo deprime. Un anno fa era in testa alla corsa, aspirava al ricono-scimento dell’establishment repubblica-no e contava di ereditare la macchina per raccogliere fondi di Bush. Ma quando la sua raccolta di fondi si è bloccata, ha sca-ricato alcuni degli organizzatori della campagna elettorale e si è ritrovato anco-ra una volta a fare il cane sciolto. McCain sostiene che i rimpasti dello staff non so-no una novità nelle elezioni presidenzia-li, ed è vero. E spiega che ha perso con-sensi tra i conservatori perché era favore-vole a un compromesso sull’immigrazio-ne. All’inizio del 2007, racconta un ex assistente che preferisce evitare l’ira di McCain restando anonimo, quando al-cuni dei suoi consulenti cercarono di am-morbidire le sue posizioni sull’immigra-zione e sull’Iraq, lui scattò: “Non cercate di farmi cambiare idea”.

Era una delle sue tipiche posizioni di principio. Eppure le qualità di leader di McCain sono state messe in questione dal disastro inanziario della sua campa-gna. “Nessuno sapeva chi era il capo”, di-ce un suo vecchio amico e consigliere che non vuole essere citato. “Non riuscivi a fare in modo che la gente ti ritelefonasse. Era una pessima situazione”. Ed era an-cora più inquietante, prosegue, che Mc-Cain ignorasse il problema: “Non sem-brava che volesse affrontarlo davvero”.

L’estate scorsa McCain ha detto a Newsweek che “non si era mai sentito troppo a suo agio a correre come capoli-sta”. Qualche mese dopo, era di nuovo in prima linea. “Oops! Guai in arrivo!”, mi ha detto ridacchiando a gennaio, dopo che i soldi erano ricominciati ad arrivare. Dando scherzosamente l’addio ai motel da due soldi lui e i suoi collaboratori si godevano la suite all’hotel Beverly Hills. McCain, che non ha mai ottenuto le stel-lette e i gradi esibiti dal padre e dal non-no, ha davvero l’opportunità di diventare il comandante in capo. Farà sicuramente tutto quello che è in suo potere per con-servare la fede dei suoi padri. Lotterà. Lo ha sempre fatto. p gc

“Certa gente del suo staff mi ha fatto passare un brutto quarto d’ora”, racconta Norquist. “Ma è tutto bene quel che inisce bene”

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NORTH CAROLINA, SETTEMBRE 2007. Prima

di un’intervista in tv

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RIVISTA INTERNAZIONALE

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La mattina del 2 giugno 2006, Ahmad Mudakir, un operaio di 33 anni di Porong, un tranquillo di-stretto di Java Orientale, era nel

giardino di casa sua e stava traficando con la moto. Poco dopo le otto ha sentito un boato sotterraneo: un fatto preoccu-pante, ma non insolito in questa zona ad

alto rischio sismico nel cuore dell’Indo-nesia. Quello che è successo un attimo dopo, invece, era davvero insolito. Un suo vicino, che stava facendo colazione in casa, è stato proiettato fuori, sulla strada. “C’è stata un’esplosione”, ricorda Mudakir, “poi è cominciato a scorrere il fango”. Un getto di melma rovente alto

cinque metri ha sfondato il tetto della casa del suo vicino. Mudakir è rientrato subito in casa a prendere la madre e i due fratelli. “Il paese era nel panico. Tut-ti scappavano”. Mudakir non si è ferma-to a prendere le sue cose. Non pensava che non avrebbe mai rivisto la sua casa.

Oggi, il villaggio di Mudakir non c’è più. È sommerso da un lago di fango co-lor grigio cenere, così come gran parte di Porong. La città è inita sotto cento mi-lioni di metri cubi di melma che hanno ricoperto dodici villaggi, costringendo alla fuga circa 16mila persone. Dove un tempo c’era la casa di Mudakir ora si ve-de una distesa gorgogliante, da cui spun-tano rami d’albero e tetti di case.

La melma tossica continua a emerge-re al ritmo di 150mila metri cubi al gior-no: abbastanza da riempire cinquanta piscine olimpioniche. Gli abitanti la chiamano Lusi, un neologismo formato da una contrazione di lumpur, fango in indonesiano, e Sidoarjo, il nome della città più vicina. Lusi è un vulcano di fan-go, anche se il fango somiglia più ad ac-qua salmastra. E a differenza dei norma-

Il vulcano di fangoUn intero distretto è sotto la melma da due anni. L’eruzione non si ferma. Gli sfollati sono migliaia. Evento naturale, come dice il governo, o disastro industriale?

PETER RITTER, TIME, STATI UNITI

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JAVA ORIENTALE. Un villaggio sommerso nei pressi di un pozzo di gas della società Lapindo

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li vulcani che costellano il territorio, non si capisce cosa lo alimenti. “Non ho mai visto nulla del genere”, spiega Richard Davies, un geologo dell’università bri-tannica Durham esperto di vulcani di fango. “È una di quelle scene che ti fanno dire ‘Oddio, che casino’ appena le vedi”.

Forze di terraDall’epicentro dell’eruzione – nota ai la-voratori del sito come il “grande buco” – si alza un pennacchio di fumo bianco alto 30 metri, che oscura il sole e diffon-de nell’aria un odore sulfureo di uova marce. Decine di camion stanno fermi in ila sulla vicina strada lastricata che porta alla caldera. Aspettano di scarica-re terriccio nella diga gigantesca che do-vrebbe arginare il fango.

Sono già stati trasportati due milioni e mezzo di metri cubi di terra per co-struire tredici chilometri di argini intor-no alla zona. Decine di gru lavorano tut-to il giorno su terrapieni alti quasi venti

metri. Più il fango sale, più devono rial-zare gli argini. Lusi, però, è più veloce dell’ingegneria. Le dighe si sono aperte due volte – l’ultima il 4 gennaio – e il fan-go ha travolto altre abitazioni.

Il 22 novembre 2006, una conduttu-ra di gas naturale ha ceduto sotto il peso della terra, provocando una gigantesca esplosione che ha carbonizzato 13 ope-rai. Secondo il Fondo monetario inter-nazionale, Lusi è già costato all’Indone-sia 3,7 miliardi di dollari tra danni e prevenzione. E la situazione è destinata a peggiorare. Mano a mano che sgorga il fango, l ’area intorno all ’epicentro dell’eruzione continua ad affondare.

L’Indonesia ha una conformazione geologica che è allo stesso tempo una be-nedizione e una sfortuna. La cenere vul-canica contribuisce a rendere fertile il terreno dell’arcipelago, ma le eruzioni uccidono regolarmente migliaia di per-sone. Il paese, inoltre, è ricco di minera-li e petrolio: esporta quasi mezzo milio-ne di barili al giorno e nel complesso le ricchezze del suo sottosuolo costituisco-no circa il 30 per cento delle esportazio-ni. Ma gli stessi processi geologici che formano questa ricchezza provocano ca-tastroi come il terremoto e lo tsunami che nel 2004 uccisero più di 160mila

persone a Sumatra. Lusi, però, non ha molto in comune

con i fenomeni precedenti. Gli sfollati attribuiscono la responsabilità del disa-stro alla Pt Lapindo Brantas, società mi-neraria indonesiana che estrae gas natu-rale nella zona. La Lapindo è parzial-mente controllata dalla famiglia di Abu-rizal Bakrie, ministro per il welfare, uno degli uomini più ricchi dell’Indonesia e

braccio destro del presidente Susilo Bambang Yudhoyono. Secondo le vitti-me della catastrofe la risposta delle au-torità sarebbe rallentata dall’incompe-tenza e da una rete di inluenze politiche. “C’è molta difidenza”, dice Mas Achmad Santosa, uno dei più importanti avvoca-ti indonesiani ed esperto di questioni ambientali. “Politicamente è una patata bollente”.

Alcuni geologi indipendenti, tra cui Richard Davies, sono convinti che la La-pindo abbia “stuzzicato” il sot-tosuolo indonesiano mettendo in moto gli elementi naturali: “Sono sicuro che la colpa è tutta delle trivellazioni”, spiega. Do-po aver visitato e studiato a fon-do l’eruzione di Porong nel 2007, Davies pensa di sapere cosa è successo. Il 27 maggio 2006 il pozzo Banjar Panji-1, di proprietà della Lapindo, era stato aper-to in un terreno non lontano dal villag-gio di Ahmad Mudakir. L’obiettivo era raggiungere uno strato calcareo a circa tremila metri di profondità. Le trivelle della Lapindo cercavano depositi di gas naturale, ma il Banjar Panji-1 era un pozzo esplorativo: nessuno conosceva esattamente le condizioni del sottosuolo di Porong. Le trivelle erano già arrivate a

2.800 metri di profondità quando qual-cuno ha notato un calo di pressione all’interno del pozzo.

Il calo, definito in gergo perdita di circolazione, non è raro nell’estrazione del gas. Di solito signiica che le spacca-ture naturali all’interno dell’apertura del pozzo provocano una perdita di li-quido. Gli ingegneri della Lapindo han-no pensato di risolvere il problema pom-pando fango all’interno del pozzo per chiudere le crepe e ripristinare il livello di pressione. Poi hanno cominciato a estrarre la trivella. Secondo Davies la ri-mozione della trivella ha causato una forte scossa che invece di espellere l’ac-qua e il gas ad alta pressione provenienti dalla roccia circostante li ha risucchiati. Per impedire un’esplosione potenzial-mente pericolosa, gli operai hanno atti-vato dei ventilatori in supericie, così da “imbottigliare” la pressione all’interno del pozzo. Ma era già troppo tardi. L’ac-qua proveniente da una falda a centinaia di metri di profondità è schizzata verso l’alto, portando con sé i detriti di uno strato di roccia. Le trivellazioni della La-pindo, sostiene Davies, hanno creato una sorta di pompa naturale. Non po-tendo uscire dal pozzo chiuso, l’acqua ha cercato altre strade. Intorno alle 5 del mattino successivo c’è stata la prima eruzione in una risaia a circa 150 metri dall’impianto Banjar Panji-1.

Strutture mancantiTutto questo non sarebbe dovuto succe-dere, osserva Richard Swarbrick, esper-to britannico di pressione geologica e consulente di compagnie petrolifere. Di solito, quando si estrae in aree geologi-camente instabili, le aziende installano

dei rivestimenti in acciaio negli strati più profondi, dove la bas-sa densità della roccia potrebbe causare una fuoriuscita di liqui-do. Nel caso di una scossa, la struttura in acciaio assicura

l’integrità del pozzo. Swarbrick, che ha esaminato il piano di estrazione della Lapindo, sostiene che la compagnia ini-zialmente voleva installare le strutture di supporto a 1.000, 1.400 e 2.600 me-tri. “La progettazione convenzionale in quel tipo di condizioni di pressione im-pone l’installazione di rivestimenti di acciaio”, spiega Swarbrick. Tuttavia, la Lapindo non ha rivestito il pozzo alla profondità stabilita. “Quale che sia la ra-gione, non hanno seguito il progetto, lasciando scoperti 1.500 metri. Un ri-

I processi geologici che formano la ricchezza mineraria dell’Indonesia sono gli stessi che provocano catastroi come lo tsunami

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INDONESIA

schio enorme”. La Lapindo assicura che il progetto era stato approvato dal go-verno. “Il processo di estrazione rispet-tava i parametri e gli obblighi di legge”, spiega il vicepresidente dell’azienda, Yu-niwati Teryana. Secondo lui, i motivi dell’eruzione sono altri: due giorni pri-ma, un terremoto di magnitudo 6,3 ha colpito la città di Yogyakarta, circa tre-cento chilometri a est di Porong. La La-pindo è convinta che la scossa abbia aperto delle crepe naturali, permetten-do al fango di uscire. “L’eruzione di fan-go è stata causata da un fenomeno natu-rale”, spiega Teryana.

Davies, però, è convinto che se fosse stata provocata dalla scossa, l’eruzione si sarebbe veriicata subito dopo: alcune ricerche dimostrerebbero che Porong era troppo lontana dall’epicentro per es-sere inluenzata dal terremoto.

Dato che nessuno sa spiegare il fun-zionamento del motore sotterraneo che alimenta Lusi, non sorprende che i ten-tativi di fermarlo si siano dimostrati inefficaci. I due pozzi di soccorso co-struiti per abbassare la pressione all’in-terno del pozzo originale non hanno avuto effetto. All’inizio del 2007, alcuni scienziati dell’istituto di tecnologia di Bandung hanno proposto di scaricare migliaia di palle di cemento, legate tra loro come un ilo di perle, all’interno del “grande buco”, in modo da attenuare gradualmente la pressione all’interno del vulcano.

Segui la correnteSatria Bijaksana, uno degli autori della proposta, sostiene che le palle sono riu-scite a ridurre temporaneamente il lus-so di fango. Nel marzo del 2007, però, il progetto è stato abbandonato perché una nuova squadra, nominata dal gover-no, ha preso in mano la gestione del sito. Più di recente, un team giapponese ha proposto la costruzione di una diga di 40 metri per contenere il fango. Gli scienziati che studiano Lusi, però, han-no respinto l’idea: il terreno sotto la cal-dera sta ancora affondando e una diga di cemento così pesante con ogni probabi-lità cederebbe.

Mano a mano che il fango occlude l’impianto interno del vulcano, Lusi alla

fine potrebbe soffocare da solo. Ma se lasciato morire, continuerebbe a erutta-re per anni, forse anche per decenni, os-serva Davies. Hardi Prasetyo, capo della nuova squadra nominata dal governo per affrontare la catastrofe, spiega che gli operai si stanno concentrando su co-me contenere il fango, più che su come arrestarlo: la melma è incanalata nel iu-me Porong, nella speranza che scorra verso il mare. Ma il iume trabocca già di fango. “È una guerra”, dice Prasetyo, in-dicando una ila di camion che rombano lungo uno degli argini. “Non promettia-mo niente. Dobbiamo solo pregare”.

Gli abitanti del posto hanno scelto metodi meno ortodossi per affrontare la situazione. Secondo una credenza popo-lare, le trivelle della Lapindo avrebbero risvegliato la collera di uno spirito che vive in un albero vicino al luogo dell’eru-

zione. In questa parte dell’Indonesia, dove la religione è un misto di islamismo e di animismo, convinzioni del genere sono molto diffuse. Lusi ha attirato mi-stici provenienti da Bali e dal Borneo, che hanno offerto in sacriicio polli, scimmie e anche una vac-ca per placare lo spirito adirato. Perino la squadra di ingegneri nominata dal governo avrebbe provato ad applicare soluzioni simili: un portavoce dice che il gruppo si è rivolto a dei rabdomanti per evocare la pioggia e lavare via il fango.

Insieme ai mistici sono arrivati anche gli opportunisti. Per attirare i curiosi, un intraprendente albergo locale ha cam-biato il nome in Kuala lumpur, cioè Lago di fango. Nelle strade intorno a Lusi, venditori ambulanti a torso nudo offro-no noccioline tostate e frutta secca. Al-cuni si sono sistemati nei punti più traf-ficati e chiedono un piccolo pedaggio per far passare le auto. In cima a uno de-gli argini, è possibile comprare i cd con il ilmato della catastrofe. Alcuni vendito-ri di cd sono abitanti sfollati dei villaggi, altri sono solo persone che cercano di guadagnare qualche soldo. Un uomo ammette di essere un borseggiatore. C’è chi, come Purwanto, offre visite guidate del sito per diecimila rupie, circa un eu-ro. Purwanto faceva il contadino prima che il fango inghiottisse i suoi campi di

riso. Adesso arrotonda portando i turisti a visitare le rovine della sua casa, situata all’ombra degli argini. Il suo villaggio è stato travolto dal fango l’anno scorso, quando sono crollati gli argini. Anche se non è stato completamente inondato, quasi tutti gli abitanti hanno smantella-to le case e se ne sono andati. Oggi sem-bra un villaggio bombardato a tappeto, con cumuli di macerie che spuntano qua e là dall’acqua limacciosa. “Sono nato in questa casa”, dice aspirando una sigaret-ta aromatizzata ai chiodi di garofano. Da una moschea vicina echeggia il ri-chiamo del muezzin. “La tomba dei miei genitori è coperta dal fango”.

La gestione della rabbiaGli abitanti non hanno dubbi su chi sia-no i responsabili delle loro sofferenze. In un campo profughi allestito in un mer-cato all’aperto, le scritte sui muri parla-no chiaro “Lapindo terroristi”. Qui vivo-no più di duemila persone in stalle rico-perte di tela catramata dove le capre pascolano beate tra mucchi di spazzatu-ra. L’azienda fornisce cibo e altri servizi ai rifugiati, ma gli sfollati hanno molti motivi di lamentarsi, dalla qualità delle razioni agli effetti dannosi del fango. Se-condo la squadra nominata dal governo, i gas emessi da Lusi non sono dannosi.

Molti abitanti del posto, però, soffrono di dermatiti e dificoltà respiratorie. Il loro problema principale, tuttavia, sono i ri-sarcimenti. Lapindo ha accet-tato di dare agli sfollati 5.500

miliardi di rupie (265 milioni di euro), versando il 20 per cento subito e il saldo tra due anni. “Non è abbastanza”, dice Riati, una donna di 45 anni seduta fuori del cubicolo di cinque metri dove vive con il marito e la sorella. Riati ha riiuta-to un’offerta della Lapindo di 40 milioni di rupie, con un anticipo iniziale di otto milioni, perché anche l’importo intero non basterebbe per comprare una nuova casa. Teryana, il vicepresidente della La-pindo, spiega che l’azienda spera di con-vincere gli sfollati più ostinati ad accet-tare il piano di risarcimento.

Mentre le trattative proseguono, i ri-fugiati si organizzano. In un angolo del campo hanno ammassato delle canne di bambù appuntite per difendersi da un possibile sfratto coatto. Inoltre, hanno cominciato a rivolgere la loro rabbia contro le autorità locali, che considera-no alleate della Lapindo. Qualche tempo fa, duecento persone hanno occupato

La società che ha compiuto gli scavi in parteè controllata dalla famiglia di Aburizal Bakrie, ricchissimo ministro indonesiano

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un’area del governo per chiedere le di-missioni di un capo villaggio.

La dimostrazione è cominciata quasi per caso. Gli animi, però, si sono scalda-ti quando una squadra di poliziotti ar-mati di mitra è arrivata e ha preso posi-zione di fronte ai dimostranti. “Per favo-re rispettate il nostro dolore”, ha gridato un uomo al megafono. A quel punto è scoppiato uno scontro tra i dimostranti e la polizia, che ha preso a calci e spinto-ni i manifestanti. Uno dei leader della protesta dice che la polizia ha giù usato la forza contro di loro. “Noi protestiamo in modo paciico”, spiega. “Non c’è anar-chia”. È anche vero, però, che il 19 feb-braio i manifestanti hanno bloccato una delle strade principali nella zona di Si-doarjo: protestavano contro un rappor-to del parlamento che attribuiva l’eru-zione di Lusi a cause naturali.

I rifugiati temono inoltre che la La-pindo non mantenga le promesse. A set-tembre, la Pt Energi Mega Persada, una società che controlla il 50 per cento del progetto di estrazione della Lapindo ed è legata al ministro per il welfare Bakrie, ha cercato di vendere la Lapindo per due

miliardi di dollari a un’azienda con sede nell’isola di Jersey, ma collegata alla hol-ding di proprietà della famiglia di Bakrie. Quando le autorità inanziarie indonesiane hanno bloccato la vendita, la Energi Mega ha provato a vendere la metà di Lapindo al Freehold Group, so-cietà registrata nelle Isole Vergini bri-tanniche. Anche questa trattativa, però, è sfumata tra le polemiche. I vari tenta-tivi di cambiamento societario hanno alimentato il sospetto che la Lapindo stesse per dichiarare bancarotta, per-mettendo così all’afiliata Energi Mega Persada di scaricarsi di ogni responsabi-lità legata a Lusi. La Lapindo assicura però che risarcirà comunque le vittime del disastro.

Pulizia complicataSecondo i critici, anche la risposta dell’esecutivo è stata ambigua. “Il gover-no non ha gestito seriamente né la que-stione del fango né quella dei problemi sociali causati dal disastro”, sostiene Sonny Keraf, ex ministro indonesiano dell’ambiente e capo di una commissio-ne parlamentare d’inchiesta su Lusi. “Lascia che le persone trattino da sole con l’azienda mentre dovrebbe mediare tra le parti”. Secondo Keraf la Lapindo è

in buona fede. L’immobilismo del gover-no, invece, fa passare in secondo piano le misure più urgenti.

Un’indagine della polizia sull’eruzio-ne, cominciata un anno fa, si è conclusa senza incriminazioni né spiegazioni chiare. “È tutta una questione politica”, sostiene Ivan Valentina Ageung, respon-sabile degli affari legali del gruppo am-bientalista Walhi. La Walhi ha fatto cau-sa alla Lapindo, giudicandola responsa-bile per Lusi; ma la sentenza, sia in que-sto sia in un altro procedimento, è stata favorevole all’azienda. Un portavoce del presidente Yudhoyono nega che i colle-gamenti tra Bakrie e l’amministrazione abbiano inluenzato l’azione del gover-no. Anzi, è stato proprio Yudhoyono a ordinare alla Lapindo di risarcire i resi-denti sfollati.

Non sarà facile fare pulizia. All’inizio di gennaio, una forte pioggia ha provo-cato una crepa negli argini, costringen-do più di mille famiglie ad abbandonare le loro abitazioni. Mentre i tentativi del governo di arrestare o incanalare il fan-go si dimostrano ineficaci, la marea si alza ogni giorno e la melma che ha in-ghiottito Porong minaccia altre 250mila case. Il “grande buco” dell’Indonesia continua ad allargarsi. p fsE

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JAVA ORIENTALE. Preghiera per le vittime dell’eruzione

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Gli alberi si sono sollevati da terra con tutte le radici. E anche i tetti delle casette di lamiera sulle colline fangose non hanno resistito all’uraga-

no Fame. Gli abitanti dell’isola di Mayot-te, nell’oceano Indiano, l’hanno ribat-tezzato “Fame fatale”, che in francese si pronuncia come “femme fatale”. All’ini-zio di febbraio il ciclone si è abbattuto alla velocità di più di cento chilometri all’ora sulle coste laviche dell’isola. Per-fino le imbarcazioni della guardia co-stiera hanno ricevuto l’ordine di rimane-re ferme. Eppure lo stesso giorno è arri-vata una barca piena di profughi: nean-che Fame era riuscito a fermarli.

Ora l’uragano si è calmato. Sotto un cielo grigio, tipico dei tropici, gli agenti della polizia francese di frontiera rim-balzano con la loro lancia sulle onde al-tissime, lungo il perimetro delle dodici miglia intorno alle Comore. Lì è Africa, qui è Europa. Controllano questa linea di demarcazione giorno e notte, se il tempo glielo consente. “Quello che fac-ciamo non ha nessun senso”, sostiene il comandante Jérôme Mallerault. Parla con la risolutezza di un legionario fran-cese. Prima di essere distaccato a Mayot-te, è stato due anni nella periferia di Pa-rigi. “Riusciamo a prendere al massimo un quarto delle persone che tentano la traversata. Bloccarli è impossibile”.

Le frontiere dell’Unione europea ar-rivano ino al canale del Mozambico, a nord del Madagascar. Insieme a un paio di altri puntini sulla carta geografica,

l’isola di Mayotte rappresenta una delle ultime colonie d’Africa, anche se le auto-rità francesi non amano questa deini-zione. “Il colonialismo è associato a una volontà di sfruttamento, qui invece non c’è niente da sfruttare”, spiega il prefetto dell’isola francese, Vincent Bouvier, nel suo uficio con vista sull’oceano turche-se. “Colonialismo signiica oppressione. Ma la popolazione di Mayotte ha deciso in modo autonomo di rimanere parte della Francia. Noi abbiamo solo rispet-tato questo desiderio”.

Il 22 dicembre 1974 le isole dell’arci-pelago delle Comore hanno votato per l’indipendenza dalla Francia. Solo gli abitanti di Mayotte, i mahori, hanno osato sfidare il corso della storia. Due anni dopo, infatti, la maggioranza della popolazione ha deciso di restare unita alla Francia. Secondo alcuni analisti, i mahori non hanno voluto affrancarsi da Parigi per paura dei contrasti con i gene-rali arroganti e assetati di potere

dell’isola di Grande Comore. I mahori non si sentivano a casa loro nell’arcipe-lago. Molti li chiamavano “i bambini vi-ziati della repubblica”: erano dei finti africani.

Più di trent’anni dopo, quella decisio-ne sta provocando una gravissima emer-genza profughi. In confronto i problemi delle Canarie, dove sbarcano gli immi-grati che arrivano dall’Africa occidenta-le, sono quasi inesistenti. Mai come nel 2007 tanti africani hanno cercato di raggiungere Mayotte. La maggior parte dei profughi viene dalle Comore, a set-tanta chilometri di distanza. Ma anche i mozambicani provano a raggiungere l’Europa attraverso questa porta. Profu-ghi dal Madagascar, dalla Tanzania, dal Burundi e perino dall’Africa occidenta-le si aggiungono alle folle sempre più numerose che compiono la traversata su pescherecci sgangherati.

Nel 2007 la polizia di frontiera fran-cese ha espulso 16mila clandestini: il doppio di cinque anni prima, il triplo di quelli allontanati da Tenerife e circa lo stesso numero di quelli arrivati in Fran-cia. Un terzo dei 200mila abitanti di Mayotte è clandestino.

A dicembre, all’inizio della stagione delle piogge, le imbarcazioni della guar-dia costiera si sono scontrate con una kwassa kwassa delle Comore. Così ven-gono chiamate le barche da pesca in le-gno, dal nome della danza congolese in cui si ondeggiano le anche tenendo le mani sui ianchi. Le kwassa kwassa so-no molto più piccole delle barche su cui arrivano i profughi a Tenerife.

Una commissione parlamentare è ar-rivata da Parigi per ricostruire la dina-mica dell’incidente, in cui sono morte quindici persone. “Adesso ci danno la colpa, ma sono loro che scappano”, di-chiara il comandante Mallerault scuo-tendo la testa. “Corrono dei rischi da in-coscienti. A volte caricano sulle barche più di quaranta persone, con l’acqua che arriva quasi al bordo dello scafo. Quan-do li troviamo, spesso sono in acqua già da ore. Il nostro compito è salvare vite umane. È una buona azione”.

Cittadini di serie BDa quando le Comore hanno raggiunto l’indipendenza ci sono stati almeno ven-ti colpi di stato. In molti casi il cervello delle operazioni era il mercenario fran-cese Bob Denard, morto nell’ottobre del 2007. I comoresi sono convinti che gli ex colonizzatori stiano cercando di desta-

Noi siamofrancesiOgni anno migliaia di africani cercano di raggiungere Mayotte, l’unica isola francese dell’arcipelago delle Comore. Per potersi curare e dare un passaporto europeo ai igli

BRAM VERMEULEN, NRC HANDELSBLAD, PAESI BASSI

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bilizzare il paese. L’economia dell’arci-pelago è agli ultimi posti nell’elenco del-le Nazioni Unite dei paesi più poveri. Le elezioni del 2007 hanno portato a una grave crisi politica, che si è conclusa con l’occupazione militare dell’ isola di Anjouan nel marzo di quest’anno. Per i comoresi l’unica speranza è una barca diretta a Mayotte.

Il governo di Édouard Balladur aveva interrotto la concessione dei visti ai co-moresi già nel 1995, nella speranza di fermare il lusso di clandestini. Da allora i comoresi vivono illegalmente nel terri-torio che considerano ancora la loro ter-ra. L’anno scorso, nell’acqua turchese che copre una delle barriere coralline più grandi del mondo, sono annegati cinquecento immigrati.

Farid Saïd, ventun’anni, si è salvato. Il giorno in cui ha provato a fare la traver-sata da Anjouan a Mayotte il mare era calmissimo. Ha pagato trecento euro ai passeurs, i traficanti di uomini. “È tutta una questione di organizzazione”, spiega saltellando disinvolto da uno scoglio all’altro. “Le lance della polizia di fron-tiera si sentono arrivare da lontano”. Adesso Saïd si nasconde nella foresta vergine. Per sopravvivere trasporta radi-ci di banani da una riva all’altra del iu-

me. Le radici sono per le mucche dei mahori, che storcono il naso di fronte a questo tipo di lavoro. Quelli che trent’an-ni fa erano connazionali, ora sono citta-dini di serie B: lavorano nelle piantagio-ni di zucchero, riempiono le buche sulle strade, dipingono le case della costa di rosso acceso, verde o giallo.

Saïd guadagna 75 euro alla settima-na. Se vivesse nelle Comore, gli ci vor-rebbero mesi per arrivare a quella cifra. “A Mayotte è più facile. Sono venuto per potermi curare, perché gli ospedali dell’arcipelago non funzionano più. Almeno qui ti aiutano”. An-che le future mamme sono d’ac-cordo. Decidono di affrontare la pericolosa traversata per Mayotte anche agli ultimi mesi di gravidanza. La clinica ostetrica della capitale, Mamoudzou, ha il reparto ma-ternità più affollato dell’intera repubbli-ca francese. Solo nel 2007 ci sono state ottomila nascite. “Un record”, sostiene il burbero direttore Alain Daniel.

Chi nasce a Mayotte è sicuro di rice-vere, al compimento dei diciotto anni, il passaporto di un paese europeo. In que-sto modo la vita in occidente è a portata di mano. Daniel, però, non è affatto con-tento.

“Abbiamo provato di tutto per ferma-re l’aflusso di persone. Siamo in contat-to con le Comore. Abbiamo formato ostetriche, costruito cliniche, ma è stato tutto inutile. I soldi iniscono nelle ta-sche di funzionari corrotti e le sale ope-ratorie vengono saccheggiate. Noi an-diamo avanti e loro rimangono sempre più indietro. E i pazienti continuano a venire qui”.

Il direttore è orgoglioso del suo ospe-dale. Centocinquanta medici e cinque-cento letti in un ediicio nuovo di zecca

con vista sull’oceano. L’ospeda-le svetta sulla bidonville, cre-sciuta intorno a Mamoudzou come nelle periferie di ogni cit-tà africana. A Mayotte l’Africa e l’Europa si trovano fianco a

ianco in un territorio di 376 chilometri quadrati. La Francia è rappresentata dalla prefettura, dall’ospedale, dai pains au chocolat e dai croissant nel bar dell’hotel Caribou, dalla libreria Maison des Livres e da qualche ristorante dove si può pagare in euro. Tutto intorno si stende l’Africa con le sue capanne di la-miera, la disoccupazione al trenta per cento, l’analfabetismo, la dengue e la malaria.

“In questo mondo nessuno dà niente

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ANJOUAN, COMORE.Una barca di clandestiniin viaggio verso Mayotte

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per niente. È diventato lo slogan dell’ospedale”, spiega Daniel, mentre cammina lungo i corridoi tirati a lucido. La chiama la “moralizzazione del siste-ma”. “Tutti i pazienti devono pagare al-meno dieci euro, così im-parano che anche curarsi ha un prezzo”. Quasi la me-tà dei pazienti dell’ospeda-le sono immigrati clande-stini. E il 40 per cento di loro non può permettersi le cure. Per darci una dimo-strazione concreta, Daniel si mette accanto allo spor-tello dove i malati stanno facendo la fila. Quando l’ impiegata cerca di far passare una paziente che non ha soldi, il direttore in-terviene: “Senza i dieci euro non può entrare”, dice, e con un gesto della mano invita la donna ad allontanarsi. Poi si gi-ra verso di noi e commenta: “Bisogna proprio insegnargli tutto”.

Niente da nascondereUn laboratorio per il mondo: così i fran-cesi amano definire il loro progetto a Mayotte. Ogni anno l’Eliseo manda all’isola inanziamenti per quasi un mi-liardo di euro. Qui si sperimentano tutti i modelli di sviluppo per l’Africa. Le ac-que francesi sono controllate da una ba-se militare con delle gigantesche anten-ne satellitari e una nave da guerra nel porto. Su Petite Terre, una delle due iso-le che formano Mayotte, si vedono più gendarmi e militari della Legione stra-niera che francesi in borghese.

Le Nazioni Unite, l’Unione africana e la Lega araba hanno criticato a più ri-prese l’amministrazione francese del-l’isola. Ma quando chiediamo al prefetto Vincent Bouvier quali sono gli interessi della Francia a Mayotte, risponde: “Non credo che si possa parlare di interessi. La Francia è qui per difendere la volontà della popolazione”.

Nel suo libro Comores-Mayotte, une histoire néocoloniale (Agone 2004), lo scrittore Pierre Caminade l’ha deinita la “democrazia del cuculo”. Come il cu-culo, che occupa tutto il nido con la sua ingombrante coda, anche Parigi non ha lasciato ai mahori altra scelta se non ri-manere uniti alla Francia, che non ha nessuna intenzione di rinunciare all’iso-la: i due terzi del petrolio del Medio Oriente passano per il canale del Mo-zambico. Per Parigi, Mayotte ha la stessa

importanza strategica che Diego Garcia, un’isola nell’oceano Indiano, ha per Londra. Alla fine degli anni sessanta i britannici allontanarono la popolazione locale e concessero l’uso dell’isola agli

Stati Uniti, che la trasfor-marono in una base milita-re: da lì partono molti degli aerei che compiono mis-sioni in Medio Oriente.

Mayotte non è diventata un modello di sviluppo per l’Africa. E non è neanche un esperimento in grado di resistere alle pressioni del-le potenze mondiali, come non lo è l’Europa. Secondo il prefetto, Mayotte è “una situazione” dificile da ge-stire: e lo è per lui almeno

quanto lo è per i mahori e i comoresi. Il 60 per cento degli abitanti dell’isola ha parenti nelle Comore. L’indipendenza e il problema dei visti li hanno separati, ma i legami rimangono vivi.

La Francia cerca di mantenere la massima segretezza sulle misure adotta-te contro l’immigrazione clandestina. “Non abbiamo niente da nascondere, questa è una democrazia”, sostiene un agente, invitando i giornalisti nella cen-trale della polizia di frontiera. I controlli e le espulsioni di deci-ne di clandestini avvengono sotto gli occhi di tutti, ma le porte degli spazi di detenzione dei clandestini restano chiuse. Nel maggio del 2007 un collaboratore della guardia costiera ha rivelato che la polizia interroga gli arrestati tenendoli in catene. Sulla tangenziale intorno alla capitale la polizia ferma le auto casual-mente. Gli agenti cercano dei clandesti-ni. Quando si accorgono di essere osser-vati, gli agenti vanno su tutte le furie: “È contro la legge”, esclamano.

Secondo Saïd Ahamadi, sindaco so-cialista di Koungou, nel nord dell’isola, la verità è che a Mayotte nessuno si può sentire a casa a parte i mzungu, i bian-chi. “Se fossimo in Francia, questo non succederebbe. Qui invece è diverso: non è uno stato di diritto né una democrazia. I poliziotti piombano in casa nel cuore della notte e circondano le moschee in cerca di clandestini. È un continuo gio-care al gatto e al topo, una sconitta po-stcoloniale”.

Prima della ine dell’anno gli abitanti di Mayotte dovranno andare alle urne per decidere se vogliono rimanere una

regione di oltremare o diventare un di-partimento della Francia. Nel secondo caso, i mahori otterrebbero gli stessi di-ritti sociali dei cittadini francesi. Oggi chi è nato sull’isola non può usufruire della maggior parte dei vantaggi assi-stenziali, come il sussidio di disoccupa-zione.

“Per quanto riguarda il codice penale, le leggi sono uguali per i mahori e per i francesi. Ma ci vengono negati i diritti sociali. Io lo chiamo schiavismo moder-no. Gli schiavi si possono punire, ma non li devi pagare”. La lancia della guar-dia costiera rientra nel porto. Non han-no trovato clandestini. Ma dopo la tem-pesta dei giorni scorsi, spiega il coman-dante Jérôme Mallerault, era comunque il caso di riprendere i controlli.

Trovare il soleOgni giorno, quando escono in mare, gli agenti discutono di una possibile solu-zione per Mayotte. Oggi le facce dei co-moresi spediti indietro dal porto erano le stesse di quelli deportati la settimana scorsa. “È una battaglia inutile. Noi sia-mo solo una soluzione tecnica”.

Il prefetto si china in avanti sulla sua scrivania di legno di noce. Sul muro die-tro di lui campeggiano la bandiera euro-

pea e quella francese, e il ritrat-to uficiale di Nicolas Sarkozy. Ora che si parla della “soluzione complessa di una problematica dificile”, il presidente sembra tendere l’orecchio. Il prefetto

commenta la richiesta del presidente, poco dopo il suo insediamento, di rag-giungere le dodicimila espulsioni all’an-no. “È una risposta repressiva. L’unica soluzione reale sarebbe una collabora-zione stabile con l’Unione delle Comore. È lì che dobbiamo sviluppare l’econo-mia”. Ma a chi rivolgersi se perfino l’Unione africana ha congelato i conti in banca dei leader accusati di corruzione e di frode elettorale?

Il sindaco socialista di Koungou sa che la storia non può tornare indietro. Dal 1841, quando il sultano vendette l’isola ai francesi, la mentalità delle per-sone è cambiata e le culture si sono or-mai mescolate. “Saremo legati per sem-pre alla Francia. E lo saranno anche i comoresi. Ma anche noi siamo comore-si. Se nessuno può farci nulla, scegliamo almeno una soluzione umana e resti-tuiamo a quella gente il suo visto. In fon-do vengono qui nella speranza di trovare il sole, non una tempesta tropicale”. p ft

La polizia piombain casa di notte e circondale moscheein cerca di clandestini

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Certi pranzi finiscono con un caffè in salotto, altri con un brandy sul terrazzo. Il mio pranzo con Mikheil Saakashvili si conclude su un elicottero Dolphin diret-

to a una base militare della Georgia. In volo, il presidente – molto affabile du-rante il pranzo in un ristorante di Tbilisi – diventa irrequieto. Appena ci siste-miamo nei sedili di pelle nera, mette a tutto volume un cd di Charles Aznavour che canta Non, je n’ai rien oublié. Vengo così a scoprire che il presidente parla an-che il francese e che Aznavour, ci tiene a precisare, ha origini georgiane.

Indicando la campagna alla nostra destra Saakashvili mi mostra l’Ossezia del Sud, un territorio georgiano control-

lato dai separatisti appoggiati dalla Rus-sia. “Meglio non volare troppo vicino”, mi dice ridendo. “L’ultima volta hanno lanciato un missile contro il mio elicot-tero”.

“Guardi giù”, continua. “Stiamo sor-volando i terreni del miliardario Boris Ivanishvili. È matto, ha portato qui gi-raffe e zebre, forse riusciamo a vederle”. Mentre prendo qualche chicco d’uva, gli chiedo se ci sono molti miliardari geor-giani. “Una decina”, risponde il presi-dente.

E sono tutti dalla sua parte?“Uno era contro di me ma è morto un

paio di mesi fa a Londra”. Il presidente sorride imbarazzato, forse immaginan-do che io abbia sentito parlare del suo possibile coinvolgimento nella morte dell’oppositore. La polizia britannica

sembra essere arrivata alla conclusione che il miliardario Badri Patarkatsishvili sia morto per cause naturali. Ma, visto che abbiamo toccato l’argomento, ne ap-profitto per fare la domanda a cui ho pensato per tutto il pranzo: la Georgia fa parte dell’occidente o è una specie di far west? L’obiettivo di Saakashvili è assicu-rare che il suo paese faccia parte dell’oc-cidente e che diventi un membro afida-bile della “comunità euroatlantica”.

La Georgia, che ha ottenuto la sua in-dipendenza nel 1991, dopo la dissoluzio-ne dell’Unione Sovietica, ha una storia antica. Questo paese di 4,7 milioni di abitanti si affaccia sul mar Nero e coni-na con Turchia, Armenia e Azerbaigian. Ma sono state soprattutto le relazioni con la Russia a condizionare la sua sto-ria. Il problema principale di Saakashvi-li è che i russi sostengono i separatisti dell’Ossezia del Sud e dell’Abkhazia. I georgiani accusano Mosca di voler an-nettere in modo subdolo parti del loro territorio.

Come nei Paesi Bassi“Misha” Saakashvili è un uomo grande e carismatico, alto un metro e ottanta. È nato in una famiglia di dissidenti con una forte tradizione nazionalistica (il bisnonno passò 15 anni in un gulag so-vietico). Nel 1991, quando la cortina di ferro è caduta, aveva 23 anni e ha deciso di andare a studiare in occidente. Il suo

MIKHEIL SAAKASHVILIIl presidente inarrestabileNel ristorante più chic di Tbilisi il leader georgiano parla del suo rapporto con l’opposizione, dell’amicizia con George W. Bush e dei progetti per il futuro del paese

GIDEON RACHMAN, FINANCIAL TIMES, GRAN BRETAGNA. FOTO DI RENA EFFENDI

Biograia

21 DICEMBRE 1967. Nasce a Tbilisi.1995. Si laurea in legge alla Columbia university, a New York, specializzandosi in diritti umani. Torna in Georgia e viene eletto in parlamento.SETTEMBRE 2001. Si dimette dall’incarico di ministro della giustizia nel governo di Eduard Shevardnadze. Fonda un nuovo partito, il Movimento nazionale unito.25 GENNAIO 2004. Vince le elezioni presidenziali con il 97 per cento dei voti.5 GENNAIO 2008. Viene rieletto presidente.

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RITRATTI

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MIKHEILSAAKASHVILI

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primo viaggio all’estero è stato nei Paesi Bassi, dove ha incontrato la moglie San-dra (la coppia ha due figli, Eduard e Nikoloz). Dal nostro elicottero il presi-dente indica con orgoglio i campi ben curati: “Proprio come in Olanda: non avrei mai pensato che la Georgia potesse diventare così”.

Saakashvili ha studiato a Strasburgo, in Francia, e alla Columbia university di New York, specializzandosi in diritti

umani. Nel 1995 è tornato in Georgia e nel 2000 è diventato l’astro nascente del governo di Eduard Shevardnadze, ex ministro degli esteri dell’Unione Sovie-tica. Dopo un anno come ministro della giustizia, si è dimesso: la corruzione in Georgia era così diffusa che il paese ri-schiava di inire nelle mani della crimi-nalità. Questa mossa ha rafforzato la sua reputazione nel paese e all’estero, e gli ha permesso, nel 2003, di arrivare al po-

tere grazie a una rivolta popolare, la “ri-voluzione delle rose”.

Qualche mese dopo, a 36 anni, Saakashvili è stato eletto presidente con il 97 per cento dei voti. Di fronte al mio stupore, alza le spalle e dice: “Lo so, que-sto risultato mi fa somigliare all’egiziano Mubarak, ma a quei tempi non c’era una vera opposizione”.

Oggi, invece, l’opposizione è più atti-va che mai. Nel novembre del 2007

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RITRATTI

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RITRATTI

Saakashvili, l’ex leader di una rivolta po-polare, ha dovuto affrontare un’ondata di manifestazioni contro il suo governo. Con grande imbarazzo dei suoi ammira-tori a Washington e a Bruxelles, ha fatto chiudere una televisione privata. Ma ha riacquistato una certa popolarità ripri-stinando la libertà di stampa prima di indire delle elezioni presidenziali antici-pate, che ha vinto con il 53 per cento dei voti. L’opposizione ha parlato di brogli elettorali ma gli osservatori internazio-nali hanno confermato la regolarità del-lo scrutinio.

Quella di Saakashvili rimane comun-que una igura ambigua. Non ci siamo

incontrati al ristorante, ma nel palazzo presidenziale, un ediicio ancora in co-struzione sulla cima di una collina nel centro di Tbilisi. La sua cupola di vetro lo fa somigliare al Reichstag di Berlino. Con la massima disinvoltura possibile, chiedo al presidente se non gli sembra strano spendere tanti soldi per la sua re-sidenza quando il paese, nonostante la rapida crescita economica, rimane mol-to povero. “Sarebbe strano se non avessi fatto nient’altro”, replica Saakashvili, “ma stiamo costruendo anche scuole e ospedali. La gente si rende conto che le condizioni di vita migliorano”.

Cibo senza sostaSaliamo in macchina e ci dirigiamo (con un corteo di nove auto) all’albergo Kopa-la per il pranzo. Vista la giornata prima-verile mangiamo sulla terrazza, da cui si vedono il iume Mtkvari, gli antichi forti e le chiese in pietra gialla di Tbilisi. Ci fanno sedere a un tavolo già stracolmo di cibo: insalate, olive e due tipi di caviale, uno nero e l’altro di un arancione vivo.

Per tutto il pranzo le portate si sus-seguono senza sosta: pesce, spiedi-ni di agnello e una salsa piccante che Saakashvili mi invita ad assaggiare. Il presidente è un ospite premuroso, mi spinge a provare sia il vino rosso sia quello bianco. In Georgia berlo è quasi un gesto politico: nel 2006 la Russia ha vietato l’importazione di vino georgiano per mettere sotto pressione il governo di Saakashvili, che Putin considera troppo

filoamericano. Per la Georgia è inevita-bile vivere all’ombra della Russia. Ma l’obiettivo di Saakashvili è aprire il pae-se a nuovi orizzonti: oltre il mar Nero, guarda al resto dell’Europa e agli Stati Uniti. “I georgiani”, afferma, “sono sem-pre stati orgogliosi di far parte dell’Eu-ropa in senso lato: i crociati, le grandi vie commerciali, la lotta per Costantinopo-li. A quei tempi non eravamo un paese isolato”.

Il problema è che, mentre i georgiani sono certi di far parte dell’Europa, gli altri europei non ne sono altrettanto convinti. “Nel corso della nostra storia”, dice Saakashvili, “molti re hanno scritto

lettere ai sovrani europei per chiedere aiuto o collaborazione. Ma spesso non ricevevano risposta”.

Saakashvili è un grande amico del “re” più potente di tutto l’occidente, George W. Bush. Ma i buoni rapporti con il pre-sidente degli Stati Uniti non gli sono bastati a raggiungere il primo obiettivo della sua politica estera: all’ultimo verti-ce Nato di Bucarest la Georgia non è riu-scita a farsi accettare come futuro mem-bro. Tuttavia, afferma Saakashvili, Bush ha fatto del suo meglio. “Si è davvero battuto per noi: dopo il dibattito, sem-brava appena tornato dal duello all’Ok Corral. Era rosso in volto ed esausto”.

Mentre arrivano in tavola nuove por-tate, chiedo al presidente cosa succederà dopo che Bush se ne sarà andato. Saakashvili non è preoccupato: anche John McCain è un suo amico personale. “Nel 2003 mi ha regalato un giubbotto antiproiettile. L’aveva portato apposta per me”, mi dice. E se vince un democra-tico? Il presidente mi fa notare che Ba-rack Obama è stato uno dei due promo-tori della risoluzione del senato statuni-tense a favore dell’entrata della Georgia nella Nato, e che Richard Holbrooke (che potrebbe diventare segretario di stato se vincesse Hillary Clinton) è un “suo amico di lunga data”.

I rapporti con i leader europei sono più dificili. Ma Saakashvili ammette di provare simpatia per Nicolas Sarkozy. “Ho pranzato con lui a Bucarest ed è una persona notevole. È diverso dagli altri: si

appassiona e s’interessa a dettagli che ai politici spesso non importano. In un certo senso, abbiamo lo stesso caratte-re”.

Saakashvili è bravo a farsi degli amici e a inluenzare gli altri. Ma il suo proget-to di “occidentalizzare” la Georgia va ben oltre la creazione di nuove alleanze. Durante il pranzo ha affermato più volte di voler trasformare il paese dal punto di vista culturale, facendolo passare dalla mentalità sovietica a quella occidentale. “Avevamo una società oppressiva e senza leggi. Ma abbiamo scelto di diventare una società libera, che rispetta la legge. Sono cambiamenti complessi”. Il suo go-verno incontra molte dificoltà quando chiede alla gente di pagare le tasse. “Al-cuni la considerano un’ingiustizia per-ché non sono ancora abituati a pagare”. La libertà, insiste, è “una trasformazione molto più profonda della semplice pro-clamazione delle elezioni”.

Un invito inattesoAl momento della frutta ricevo un in-vito inatteso. Il presidente deve andare a ispezionare alcuni reparti scelti del-l’esercito, che hanno inito un anno di corso intensivo tenuto da militari israe-liani, e mi chiede se voglio andare con lui. “Si porti un po’ di acqua minerale e della frutta”, mi suggerisce.

La strada verso l’aeroporto è piena di poliziotti che sorvegliano il corteo presi-denziale. Dopo 45 minuti di elicottero, arriviamo a una base militare sulle mon-tagne. Ci accompagnano in un bunker sotterraneo dove degli uficiali israeliani ci mostrano un video sull’addestramen-to. Nel breve ilmato i soldati rotolano nella neve, gridano e sparano. Quando inisce, Saakashvili ringrazia in ebraico e va a passare in rassegna i suoi soldati. Dopo i saluti, gli inni e i discorsi, tornia-mo sull’elicottero.

Il presidente georgiano è incredibile: è energico, intelligente e ha idee liberali. Mi chiedo per quanto tempo potrà vive-re in questo modo senza cedere alla me-galomania. E, soprattutto, se un giorno sarà capace di rinunciare a quello che ha ottenuto. Saakashvili ha solo 40 anni. Di ritorno in elicottero, gli chiedo da quan-to tempo è presidente. “Cinque anni e due mesi”, risponde con grande precisio-ne. Cosa farà quando non sarà più presi-dente? Il vulcanico Saakashvili sembra calmarsi un po’: “Non lo so, forse andrò in giro a tenere conferenze. Alla Colum-bia university, perché no?”. p adr

Il presidente georgiano è incredibile: è energico, intelligente e ha idee liberali. Mi chiedo per quanto tempo potrà vivere in questo modo senza cedere alla megalomania

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Unione Chiese cristiane avventiste del 7° giorno

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La capitaledella cabalaANDREAS KILB, FRANKFURTER ALLGEMEINE ZEITUNG, GERMANIA

A Tzfat, nel nord d’Israele, molti aspettano il messia. Nei vicoli della città vecchia i turisti hippy alla ricerca della verità convivono con ebrei ortodossi e studiosi del misticismo ebraico

John wooten sapeva che il suo amico malato sarebbe mor-to durante hanukkah, una delle più importanti feste ebraiche. Conosceva anche il giorno pre-

ciso in cui sarebbe arrivato lo tsunami che nel 2004 è costato la vita a centinaia di migliaia di persone. John deinisce lo tsunami un castigo di Dio e pensa che le persone dovrebbero dedicarsi di più al-

l’attività spirituale, come fa lui. Da quan-do sua moglie gli ha chiesto il divorzio ha lasciato gli Stati Uniti e si è trasferito a Tzfat, una delle quattro città sante di Israele, roccaforte della cabala, la misti-ca ebraica. Da allora il suo nome è Yo-chanan (Grazia di Dio). Ha una lunga barba bianca, parla in ebraico ed evoca spesso misteriosi messaggi. Il suo visto d’ingresso è scaduto, ma è molto più

preoccupato dei segnali che ha letto nel cielo stellato. “Nel giro di tre giorni suc-cederà sicuramente qualcosa con l’Iran”, dichiara.

Neriya Ariel Sclarsky batte su una pietra, poi su un pezzo di legno. Afferma che tutto è luce: sia la pietra sia il legno. Sclarsky è un maestro di cabala. Anni fa il suo rabbi gli ha suggerito di trasferirsi dal deserto del Negev a Tzfat, tra le mon-

TZFAT, ISRAELE.Preghiera dei fedeli

sulla tomba del rabbi Isaac Luria

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VIAGGI

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ARRIVARE E MUOVERSI. Per andare in Israele il visto non è necessario. Sul passaporto è meglio non avere il visto di uno stato arabo per evitare ininiti controlli degli addetti alla sicurezza. Il prezzo di un volo dall’Italia a Tel Aviv (El Al, Alitalia) parte da 612 euro a/r.Da Tel Aviv c’è ogni giorno un pullman

(www.egged.co.il/eng) per Tzfat. Si può anche cambiare ad Haifa (a un’ora e mezza da Tzfat).CLIMA. In primavera e in autunno, quando la temperatura è più mite.DORMIRE. Le camere del Carmel hotel (00972 4 692 0053) affacciano tutte su una bellissima terrazza panoramica. Una doppia costa 38 euro a notte. CORSI. L’Ascent institute organizza delle lezioni (00972 4 692 1364) sulla Torah, sulla cabala e in generale sul misticismo ebraico.LEGGERE. Giulio Busi, La Qabbalah, Laterza 2006, 10 euro.LA PROSSIMA SETTIMANA. Viaggio a Kampala, in Uganda. Ci siete stati e avete suggerimenti su tariffe vantaggiose, posti dove mangiare o dormire, libri? Scrivete a [email protected]

Informazioni pratichetagne avvolte dalla nebbia. “Uno dei no-mi di Dio signiica ‘luce senza ine’. Tutto quello che ha creato è luce”. La cabala (la Torah interiore) è la porta che va alla lu-ce, perché nella sacra scrittura ci sono messaggi nascosti. Da sempre i cabalisti cercano “la verità deinitiva”, le risposte ai quesiti fondamentali. Il loro obiettivo è migliorare il mondo, essere redenti e raggiungere la pace eterna. Ma questo può succedere solo se un numero inini-to di persone viene a conoscenza della dottrina, che prima era segreta e non si tramandava quasi mai a voce. Sclarsky si sente una specie di missionario, impe-gnato a studiare la Torah, come se fosse un “antico manuale d’istruzioni”.

Tzfat è il posto giusto. La città è una vera e propria calamita per chi è alla ri-cerca di qualcosa: per i mistici, per chi ha mollato tutto, per i semplici religiosi. Un tempo era una città tranquilla, ma ora è diventata la principale meta di pel-legrinaggio dell’alta Galilea. Soprattutto da quando alcune star di Hollywood so-no venute qui e si sono fatte fotografare in pubblico. A Tzfat e nelle montagne vicine sono sepolti i più importanti ca-balisti dei secoli scorsi, tra cui rabbi Shi-mon Bar Yochai, autore dello Zohar, lo scritto principale della cabala. In molti sostengono che la presenza di Dio aleg-gia sopra Tzfat in dai tempi della distru-zione del secondo tempio di Gerusa-lemme, nel 70 dC. Una presenza che aleggerà sulla città ino a quando non ne sarà ricostruito un terzo. Nel 1492, quando la Spagna cattolica cacciò gli ebrei, molti rabbi si trasferirono a Tzfat invece che a Gerusalemme, proprio per la presenza di Dio.

Le star di HollywoodCinquecento anni dopo sono arrivati i turisti. Secondo l’ufficio regionale del turismo, le presenze nella città vecchia, con i suoi vicoli stretti e la sinagoga me-dievale, sono in aumento: solo nel 2007 sono state più di 400mila. Hippy con i capelli rasta passeggiano accanto agli ebrei ortodossi vestiti di nero, con il cap-pello, le peot (le ciocche di capelli ai lati del viso) e lo zizit (le nappe di stoffa at-taccate ai mantelli). Nelle strade della città vecchia l’esoterismo incontra l’or-todossia.

Tra le celebrità che seguono la moda cabalistica e hanno visitato Tzfat, Ma-donna è la più nota. E c’è chi sostiene che la rockstar vuole costruirsi una casa nei pressi della città. Tutta questa pubblicità

attira molti turisti in una città con poche strutture, dove l’unica industria è una fabbrica di cioccolato e caffè. Certo, non tutti sono felici della passione di Ma-donna per la cabala, ma nessuno ne par-la male, perché i cabalisti credono fer-mamente che in ognuno di noi ci sia una parte buona. “Hollywood è scandalosa. La cabala esige riserbo, sia nel modo di vestirsi sia nel rapporto tra uomo e don-na. La sessualità dovrebbe essere qual-cosa di sacro. Chi non lo accetta non avrà accesso alla saggezza della cabala”, so-stiene Baruch Emanuel Erdstein, che accompagna i turisti in un giro mistico della città, tra le sinagoghe e le antiche tombe degli eruditi.

Ci sono molti tipi di cabala: ebraica, cristiana, esoterica. A Tzfat sono orgo-gliosi di insegnare la forma originaria, più afine all’ebraismo ortodosso che al-lo stile di vita di Madonna. Nei luoghi di pellegrinaggio uomini e donne sono ri-gorosamente separati, e le donne devo-no coprire il più possibile le loro nudità. La città è talmente ortodossa che una guida turistica sconsiglia di visitarla il sabato, “quando anche gli uccelli si ripo-sano”.

Secondo Eyal Riess, 42 anni, diretto-re del Centro internazionale per la caba-la, l’aumento dei turisti non dipende da Madonna né dalla città vecchia con le vetrate colorate, e neanche dal panora-ma sul lago di Tiberiade. “La redenzione è vicina”, dice Riess. “Il messia arriverà molto presto, e i testi dicono che arriverà

prima a Tzfat. La gente lo sente”. Da po-co più di un anno il centro insegna i fon-damenti della cabala a più di diecimila turisti.

Segnali della venuta del messia ce ne sono abbastanza, molti si manifestano con il numero sette: sette sono le cande-le della menorah, sette i frutti d’Israele. Lo shabbat, il settimo giorno della setti-mana, è sacro. E secondo il calcolo ebrai-co del tempo, ci stiamo avvicinando al settimo millennio. Riess è sicuro che il messia arriverà in questo “millennio sabbatico”. Intanto, però, sta program-mando la costruzione di un centro mon-diale per la cabala, con sale moderne per seminari e studi. In questa città la reli-gione è onnipresente. Sui muri spiccano antichi versi, in cima ai tetti sventolano bandiere con i ritratti di rabbi famosi. C’è perino chi disegna il proprio rabbi preferito sul cofano dell’auto. Tzfat rap-presenta un ponte tra turismo e religio-ne, tra kitsch e arte. Accanto a candele profumate con la stella di David, cion-doli a poco prezzo e maglioni con la scritta “Israeli defense force” si vendono dipinti costosi con motivi di cabala. An-che Baruch Emanuel Erdstein, nato ne-gli Stati Uniti e oggi guida turistica della città, ha cercato a lungo “la verità”: dopo gli studi di antropologia ha viaggiato per anni in tutto il mondo, inché è giunto a Tzfat. Oggi, a 37 anni e con cinque igli da mantenere, vive raccontando storie della città.

Molti dei suoi racconti di miracoli so-

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VIAGGI

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no collegati alle disgrazie e ai conlitti che hanno colpito Tzfat. La città è stata distrutta per ben due volte da un forte terremoto, ma le sinagoghe importanti si sono sempre salvate, soprattutto la parte dell’edificio dov’era custodita la Torah. Durante il conlitto arabo-israe-liano del 1948, le persone riunite per pregare nella sinagoga Ashkenazi Ari avrebbero abbassato la testa tutte insie-me, schivando così i proiettili arabi che proprio in quel momento sibilavano so-pra di loro. Ancora oggi si può vedere il foro di un proiettile, che è considerato un portafortuna.

Nel 1972, poco prima dell’inizio delle Olimpiadi di Monaco, in cui morirono undici atleti israeliani, un allenatore di Tzfat avrebbe ritirato i suoi atleti perché in sogno un rabbi lo aveva avvisato del pericolo. Anche durante la guerra in Li-bano del 2006 gli abitanti di Tzfat han-no parlato di miracolo: centinaia di razzi erano stati lanciati contro la città cau-sando una sola vittima. Quasi nessuno ha pensato che fosse stata l’evacuazione della città a limitare i danni.

In altre cittadine la gente chiacchiera di moda o commenta i ilm visti in tv. A Tzfat, invece, si discute appassionata-mente sul perché gli ebrei abbiano do-vuto soffrire così tanto. Si tratta di un castigo di Dio? E come ci si deve com-portare per fare in modo che il messia arrivi al più presto? A che punto ci tro-viamo nella Sephirah (albero della vita)? La Sephirah e un concetto centrale della cabala, risale al rabbi Isaac Luria (1534-1572), che con rispetto tutti chiamano “Ari”. Un gioco di parole, perché il signi-icato dell’acronimo non è soltanto “divi-no rabbi Isaac” ma anche leone. Due si-nagoghe portano ancora oggi il nome di

Ari, di cui un contemporaneo scrisse che “conosceva i segreti della creazione e della divinità, la lingua degli alberi, degli uccelli e degli angeli”. I pellegrini posso-no andare anche di notte nel bagno ri-tuale di Ari e visitare la sua tomba nel-l’antico cimitero. Come tutte le tombe dei cabalisti importanti di Tzfat, è dipin-ta d’azzurro, il colore del cielo. Un colore dominante anche nella città vecchia, nelle sinagoghe, nelle vetrine dei negozi, sui portoni e sui muri.

Lapidi azzurreQuando al mattino i primi turisti stra-nieri passeggiano nel quartiere degli ar-tisti, molti ebrei ortodossi si dirigono verso le tombe dell’antico cimitero, una selva di puntini bianchi e azzurri nel pendio a valle della città vecchia. Mentre lassù si mercanteggia il prezzo di un souvenir, poche centinaia di metri più giù i pellegrini premono la fronte sulle lapidi azzurre o appoggiano il busto sul-le tombe e chiudono gli occhi. Yochanan Wooten non sa dove mettere le mani. Sposta da una parte la spremuta di limo-ne e menta, si rimette a posto la kippah e guarda attraverso la finestra dell’Art Café, il ristorante con il più bel panora-ma sulla città vecchia. “Non mi era mai successo”, ammette. Le sue previsioni non si sono avverate: con l’Iran non è successo nulla.

Il rischio è che tutto questo mistici-smo faccia perdere il senso della realtà. “Per me non è un problema, credo anche alla scienza, non solo alla spiritualità”, dice. E sulla sua previsione sbagliata avanza una nuova spiegazione: a quanto pare c’entra la scoperta recente di un bu-co nero nell’universo e di raggi cosmici mortali. p� vc

p Sono convinto che alcuni governi abbiano due ministeri con inalità dia-metralmente opposte. Uno attira i turi-sti, mentre l’altro fa di tutto per tenerli lontani. L’esempio migliore è l’India. Il suo uficio del turismo spende molti soldi, spesso in modo fantasioso, per attirare i turisti. Intanto, però, le autori-tà che concedono i visti fanno del loro meglio per scoraggiare gli stranieri ad andare in India.

L’anno scorso ho passato una setti-mana in un albergo di Londra che si tro-va proprio di fronte all’ambasciata indiana. La mattina, quando guardavo dalla inestra, vedevo una lunga coda in dalle prime ore del mattino. Molte di quelle persone erano in ila per chiede-re il visto. Ogni giorno parlavo con qual-cuno di loro e tutti mi confermavano che, se si era fortunati, si riusciva ad avere il visto dopo qualche ora di atte-sa. Altre volte, invece, bisognava stare in coda tutta la mattina, con il rischio di arrivare alla porta proprio mentre l’ufi-cio stava per chiudere.

Io per fortuna non ho mai avuto grandi problemi a ottenere i visti per l’India. Solo una volta, in quello stesso uficio di Londra, mi hanno detto di tor-nare in Australia e di chiedere il visto dal mio paese. Ma dato che ho la dop-pia cittadinanza, ho potuto cambiare rapidamente nazionalità, diventando per l’occasione cittadino inglese. La storia dei visti è un buon indicatore di come funziona la burocrazia in India. Chiunque voglia andarci deve avviare la pratica con molto anticipo e armarsi di molta pazienza.

Naturalmente l’India non è l’unico paese che scoraggia i turisti con la sua burocrazia. E chi alla ine riesce a entrare, capisce di essere arrivato in un paese meraviglioso. Ho sempre pensato che l’India fosse un po’ come Londra. Un posto di cui ti stanchi solo quando sei stanco della vita.

Le lunghe codeper il visto

TONY WHEELER HA CREATO CON LA MOGLIE MAUREEN LE GUIDE LONELY PLANET, PUBBLICATE IN ITALIA DAEDT. SCRIVE QUESTA RUBRICA PER INTERNAZIONALE

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TZFAT, ISRAELE. Bagno purificatore

MR. LONELY PLANET

TONY WHEELER

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A Robert Frank mando questo messaggio: tu sai vedere.Jack Kerouac

Gli Americani contiene molte delle

più importanti innovazioni visive

della fotograia del XX secolo.The New York Times

Robert Frank è stato lì, e quel

che ha visto lo ha registrato con

grande sottigliezza. A noi non resta che osservare commossi,

con i nostri cuori che battono al

ritmo del ricordo per gli amici e le

canzoni perdute. Lou Reed

Prima edizione italiana con il testo originale di Kerouac

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60 • internazionale 744, 16 maggio 2008

SCIENZA

un concerto di Mozart e il silenzio. Poi gli ha somministrato una scarica di rumori dissonanti per vedere come reagivano.

Dal punto di vista evolutivo le scim-mie non sono molto diverse da noi ma, se pensate che abbiano i nostri stessi gusti musicali, resterete sorpresi dalle scoper-te di McDermott, che ora lavora all’uni-versità del Minnesota a Minneapolis, e del suo collega di Harvard Marc Hauser. Come la maggior parte di noi, anche le scimmie preferiscono una ninnananna alla techno tedesca, ma le loro scelte all’interno di una serie di musiche più dolci sono decisamente differenti dalle nostre. Le scimmie preferiscono sempre il silenzio a qualsiasi tipo di musica. La cosa più sorprendente, però, è che non fanno nessuna distinzione tra i brani me-lodici e il chiasso della techno.

Questi esperimenti , spiegano McDermott e Hauser, dimostrano che gli esseri umani creano musica per dei mo-tivi totalmente assenti nelle scimmie. Isabelle Peretz, una neuropsicologa dell’università canadese di Montréal, è giunta alla conclusione che evidente-mente “solo gli esseri umani hanno

un’inclinazione naturale, o innata, per la musica”. Ma è davvero così?

L’opinione di Peretz si basa su una lunga tradizione che considera unico tut-to quello che riguarda la musica umana: i nostri gusti musicali, ma anche il suono, il modo in cui la percepiamo, come la eseguiamo e perché la suoniamo. Secon-do i sostenitori di questa tesi gli strumen-ti musicali umani non hanno equivalenti in natura e l’enorme varietà di modi in cui noi ci esprimiamo musicalmente non ha nessun equivalente tra le altre specie. Usiamo la musica per vendere, per pre-gare, come stimolo o come piacere puro. Anche l’uccello canoro più virtuoso, in-vece, canta solo a scopo sessuale o per marcare il suo territorio. Da questo pun-to di vista la musica di altri animali, an-che se per caso somiglia alla nostra, non è altro che un suono con una semplice funzione biologica.

Anche se le scoperte di McDermott sembrano confermare questa teoria, og-gi alcuni esperti la mettono in discussio-ne. Molte nuove scoperte fanno pensare che la musicalità umana non sia unica. Anche le specie che hanno sviluppato la

loro musicalità indipendentemente dai primati sono caratterizzate da una vita musicale ricca. Ed entrando in sintonia con loro possiamo imparare molto sulla natura e sulle origini della musica.

Uno dei primi pilastri a crollare nella teoria ortodossa è stata l’idea che solo gli esseri umani apprezzano la melodia. La maggior parte della nostra musica si ba-sa su un numero inito di note comprese in un’ottava. Qualunque sia la scala, le note vengono combinate e ricombinate per formare schemi che chiamiamo me-lodie. Quando ascoltiamo un brano, per noi è più importante la sequenza delle note all’interno della melodia che non la loro tonalità. Ogni volta che ascoltiamo una canzone molto famosa, la ricono-sciamo sia che la canti un uomo sia un bambino.

Scimmie cappuccineI ricercatori hanno sempre pensato che questa fosse una capacità esclusiva degli esseri umani, e molti esperimenti sem-bravano confermarlo. Avevano scoperto, per esempio, che se facevano ascoltare una melodia a uno storno, a un tordo o a un piccione e poi la ripetevano scenden-do o salendo di un’ottava, gli uccelli non la riconoscevano. Sembrava che sentis-sero due serie di suoni diversi. Neanche le scimmie cappuccine, che avevano im-parato a reagire a un motivo musicale per avere qualcosa da mangiare, ricono-scevano la musica legata al cibo se veniva spostata di un’ottava.

Ma nel 2001 uno studio condotto da Anthony Wright e dai suoi colleghi della facoltà di medicina dell’università del

Le radicidella musicaSolo gli esseri umani amano la musica? I suoni che percepiamo sono illusioni create dal cervello? Perché alcune persone sono stonate? New Scientist esplora i misteri delle sette noteCHRISTINE KENNEALLY, NEW SCIENTIST, GRAN BRETAGNA. ILLUSTRAZIONI DI FRANCESCA GHERMANDI

che musica piace alle scimmie? se vi siete mai posti questa domanda, allora vi incuriosiranno le ricerche di Josh McDermott, ex dj, collezionista di dischi e studioso di scien-ze cognitive. McDermott ha passato quindici mesi a cercare una risposta. Ha sottoposto delle scimmie a una serie di test per capire se preferiscono una ninnananna russa o la techno tedesca. Ha anche dato agli animali la possibilità di scegliere tra una ninnananna strumentale, una ninnananna cantata,

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SCIENZA

Texas a Houston mise in discussione questa teoria. I ricercatori scoprirono che le scimmie rhesus erano in grado di trasporre i motivi di intere ottave senza grande dificoltà. Ma solo se erano molto semplici, come Tanti auguri a te, e carat-terizzati da passaggi tonali decisi. Quan-do mise alla prova le scimmie con motivi che avevano una melodia debole, Wright scoprì che non solo non riuscivano a tra-sporli, ma neanche a ricordarli.

Negli esperimenti precedenti, osserva lo studioso, era stata usata musica atona-le o delle sequenze di note che non costi-tuivano una melodia. Un fatto che po-trebbe spiegare i risultati contraddittori. Ma almeno da questo punto di vista sem-bra che la nostra abilità musicale non sia poi così diversa da quella degli altri pri-mati, perché anche noi abbiamo dificol-tà a riconoscere la musica atonale se cambia posizione nell’ottava. E non sia-mo neanche i soli a distinguere i vari stili musicali.

Ava Chase, del Rowland institute dell’università di Harvard a Cambridge, Massachusetts, ha dimostrato che le car-pe sono in grado di distinguere tra un brano di musica barocca e uno di John

Lee Hooker, premendo un bottone con il muso per indicarlo. Le carpe non usano i suoni per comunicare, ma sono famose per il loro udito molto fine. Shigeru Watanabe, dell’università Keio di Tokyo, ha scoperto che i passeri di Java non solo distinguono la musica di Bach da quella di Schönberg, ma sono anche in grado di applicare quello che hanno imparato sul-le differenze tra musica classica e musica moderna per distinguere le splendide melodie di Antonio Vivaldi dal-la musica atonale di Elliot Car-ter. Diversamente dalle scimmie di McDermott, i passeri di Watanabe sembravano anche attratti dalla musica: mostrava-no una chiara predilezione per i brani più dolci e armoniosi e preferivano ascol-tarli invece di restare in silenzio.

Gli studi sulle specie che producono suoni musicali hanno portato anche ad altre conclusioni: è stata esclusa deiniti-vamente l’ipotesi che esista poca creati-vità musicale al di fuori della nostra spe-cie. Gli uccelli canori, per esempio, ri-combinano continuamente una speciica serie di note in frasi e temi più lunghi si-mili alle nostre melodie. Alcuni variano

addirittura il ritmo e il tono, esattamente come noi. Anche i canti delle balene sfruttano alcuni dei princìpi strutturali usati dagli esseri umani. Combinano fra-si della durata di una quindicina di se-condi in temi di circa due minuti. Tra le parti inali delle frasi ci può essere una corrispondenza ritmica simile alle nostre rime. I diversi temi, inoltre, formano una canzone di una decina di minuti che può essere ripetuta. Il più lungo ciclo di canti

delle balene mai registrato du-rava ventuno ore.

I suoni prodotti dalle foche sono i più estranei all’orecchio umano, ma secondo Tecumseh Fitch, un esperto di bioacustica

dell’università di St Andrews a Fife, in Gran Bretagna, possono essere deiniti canti. Lo scienziato sostiene che la voca-lizzazione complessa e strutturata delle foche e dei trichechi comprende trilli, schiocchi, stridii, grugniti e “uno straor-dinario suono che somiglia a quello di una campana”.

Uccelli, balene, foche ed esseri umani non condividono solo la capacità di pro-durre motivi complessi, ma anche quella di impararli. Al contrario di altri animali,

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SCIENZA

non sono geneticamente programmati per emettere suoni musicali solo in de-terminati momenti. Questo gli conferi-sce un’ulteriore creatività. Hanno tradi-zioni musicali differenti: gruppi di bale-ne diversi hanno dialetti diversi, e uno può inluenzare i gusti dell’altro. È stato dimostrato più volte che un branco di ba-lene può abbandonare il suo canto per adottare quello di un altro gruppo.

Contesti speciiciTutto questo comunque non spiega a co-sa serve la musica. Chi è convinto dell’unicità della musica umana sostiene che la creiamo per una varietà ininita di motivi, mentre gli animali cantano solo in alcuni contesti speciici. Tra gli uccelli canori cantano solo i maschi e lo fanno esclusivamente per corteggiare una fem-mina e per difendere il loro territorio. Anche le balene cantano solo nelle zone di riproduzione e in un particolare perio-do dell’anno. Inoltre gli animali cantano solo in compagnia, mentre gli esseri umani possono starsene da soli a cantic-chiare, suonare una batteria o strimpel-lare una chitarra.

Altri studiosi, invece, sostengono che non c’è nessuna differenza tra gli uomini e gli altri animali, ma che è solo una que-stione di prospettiva. Secondo Fitch, le limitazioni della musica umana sono sottovalutate e quelle della musica ani-male sopravvalutate. Forse le inalità ses-suali, di socializzazione e di competizio-ne non sono suficienti a spiegare tutta la musica umana, ma chiaramente ne sono spesso alla base. Inoltre una notevole quantità dei prodotti musicali umani ha un’applicazione limitata. Pensate alle marce nuziali, ai canti funebri o a quelli dei tifosi di calcio.

Per quanto riguarda il mondo anima-le, a volte le balene cantano anche fuori dalle zone di riproduzione e gli uccelli cantano da soli. E non è vero, inoltre, che solo i maschi degli uccelli canori canta-no: in alcune specie i maschi duettano con le femmine. Non c’è dubbio che in genere sono segnali lanciati a potenziali partner o rivali, ma i canti degli uccelli svolgono altre funzioni, per esempio quelle di parola d’ordine o di collante per un gruppo . “Anche all’interno della stes-sa specie i canti svolgono funzioni diver-se”, osserva Fitch.

Allora perché si pensa che solo gli es-seri umani si godano la musica? Nono-stante il piacere perverso che proviamo nell’ascoltare i brani malinconici, proba-

bilmente il motivo principale per cui sia-mo attratti dalla musica è che ci fa sentire bene. Con le scansioni cerebrali è stato dimostrato che la sensazione di euforia derivante dall’ascolto della musica è cau-sata dall’attivazione delle stesse zone del cervello che reagiscono al cibo, al sesso e all’uso di farmaci psicoattivi.

E poi c’è l’aspetto sociale. Robin Dunbar, dell’università di Oxford, ha studiato le sensazioni provocate dal can-tare o battere il tempo in gruppo. “Sem-bra proprio che l’attività musicale produ-ca un aumento dei livelli di endorina, ed è probabilmente per questo che un’attivi-tà per altri versi banale ci rende euforici”, spiega Dunbar. Naturalmente non pos-siamo chiedere a un animale quello che prova, ma alcuni ricercatori sostengono che gli uccelli cantano solo quando i loro livelli ormonali sono alti. Questa ipotesi, però, non convince Fitch. “Probabilmen-te gli uccelli cantano perché li fa sentire bene, come di solito succede quando si

dà sfogo a un impulso biologico”, spiega. Lo studioso traccia anche un parallelo con il sesso e i motivi per cui lo facciamo. “Lo scopo evolutivo ultimo è la riprodu-zione, e questa è sicuramente una com-ponente”, dice. “Ma un motivo molto va-lido è il fatto che ci dà piacere. Lo faccia-mo di più quando i nostri livelli ormona-li sono alti, e di meno quando sono bassi. Questo è un altro buon motivo”.

L’idea che gli uccelli provino piacere a cantare è confermata da uno studio pub-blicato nel 2006 da Erich Jarvis e dai suoi colleghi del Duke university medical center di Durham, nella Carolina del Nord. Il gruppo di studiosi ha scoperto che il livello di dopamina nel sangue de-gli uccelli canori maschi sale quando cantano e diventa particolarmente alto quando lo fanno per una femmina. La dopamina, il neurotrasmettitore che ci fa “sentire bene”, è importante per l’appren-dimento. Non è ancora chiaro quale ruo-lo svolga nel canto, dice Jarvis. Il ricerca-

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tore sospetta che la sua funzione princi-pale sia rafforzare l’apprendimento e, quella secondaria, indurre un senso di euforia.

Le improvvisazioni dei bonoboBill Fields, del Great ape trust di Des Moines, nell’Iowa, è d’accordo nel soste-nere che la musica non fa sentire bene solo le persone. Con Sue Savage-Rum-baugh e altri colleghi è impegnato in un progetto ideato per studiare i gusti e le capacità musicali dei bonobo addestrati a gesti, tra cui un maschio, Kanzi, e una femmina, Panbanisha.

Di solito il Great ape trust organizza delle jam session con musicisti locali, ma gli animali hanno anche suonato con personaggi famosi come Peter Gabriel e Paul McCartney. I bonobo possono cam-biare strumento, scegliendo tra xilofono, tamburello, armonica a bocca e mara-cas, ma spesso si concentrano su un solo strumento per tutta la sessione. A

Panbanisha piace la tastiera, mentre Kanzi preferisce la batteria, anche se si diverte a suonare il piano come uno strumento a percussione. Il risultato è una collaborazione tra esseri umani e bonobo. Il coinvolgimento emotivo è molto forte. Dopo che le scimmie hanno partecipato a una jam session, racconta Fields, “si comportano in modo diverso per giorni”. Sembra che la musica le ri-lassi. Forse le somiglianze tra noi e que-ste scimmie acculturate non sono così sorprendenti.

Dopotutto i bonobo e gli scimpanzé sono i nostri parenti più stretti. Gli scimpanzé non cantano come notoria-mente fanno i loro cugini gibboni, ma Fitch è convinto che le origini degli stru-menti musicali vadano cercate nel modo in cui si comportano quando sono nel loro ambiente naturale, dove battono re-golarmente sulle cose che rimandano un suono, come i tronchi degli alberi. Alcuni ricercatori pensano addirittura che, co-me le balene, anche i gruppi di scimpanzé abbiano pratiche culturali di tamburel-lamento e di vocalizzazione ben distinte. La tesi tradizionale della limitata musi-calità degli animali è ancora dominante, e molti esperti restano convinti che la musica umana sia un fenomeno unico. Ma sembra che qualcosa stia cambiando. Secondo McDermott, Hauser e Fitch le varie componenti della musica si sono sviluppate in modi e tempi diversi, anche se non sono d’accordo su quando e dove. I tre studiosi, inoltre, sostengono che ab-biamo ancora molto da scoprire sulle somiglianze e sulle differenze tra noi e gli altri animali. Può darsi, per esempio, che i pesci siano in grado di distinguere la musica barocca dal blues, ma fanno le stesse nostre distinzioni? E se è così, co-m’è possibile?

Per quanto riguarda le scimmie di McDermott, è stato svelato almeno un mistero. Visto che sono indifferenti alla musica, perché preferiscono una ninna-nanna a un brano di techno? McDermott e Hauser sospettavano che il ritmo fosse più decisivo dello stile. Così gli hanno fatto scegliere tra un brano di sessanta battute al minuto e uno di quattrocento. Le scimmie hanno preferito il ritmo più lento senza mostrare nessuna esitazione. Nel mondo naturale, osservano i ricerca-tori, una sequenza di suoni più rapida è spesso associata a situazioni negative, come una lotta o un temporale, o forse evoca semplicemente il battito accelera-to del cuore. p bt

Tutti possono imparare a cantare? Steven Mithen, ricercatore

dell’università di Reading, in Gran Bretagna, è convinto che la musicalità sia innata in tutti gli esseri umani, anche in quelli particolarmente negati per la musica. Lo stesso Mithen non è mai riuscito ad azzeccare una nota, ma pensava di poter imparare a cantare esercitandosi. Così ha ideato un esperimento insieme al collega Larry Parsons, dell’università di Sheffield.

Nel giugno del 2006 Mithen si è sottoposto alla scansione di alcune aree del suo cervello mentre cantava. Poi ha preso lezioni di canto per un anno e nel luglio del 2007 ha ripetuto la scansione. Quindi Parsons ha confrontato le immagini per capire cos’era cambiato nel cervello di Mithen. L’esame ha evidenziato dei cambiamenti significativi nell’attività cerebrale. Per esempio c’erano stati degli sviluppi evidenti nell’area di Brodmann, collegata alla creazione delle melodie e ad alcuni aspetti del ritmo. L’attività si era intensificata anche in altre due zone legate alla tonalità e alla melodia.

Secondo Parsons, questi cambiamenti riflettevano i progressi di Mithen nell’uso della voce e nell’esecuzione dei fraseggi musicali. Inoltre confermavano l’ipotesi che l’emisfero destro del cervello sia fondamentale nello sviluppo iniziale delle capacità musicali, mentre a livelli più evoluti diventano decisivi entrambi gli emisferi. Altre immagini mostravano un calo dell’attività in parti del cervello associate all’elaborazione di informazioni orali e all’attenzione spazio-temporale. Probabilmente perché col tempo Mithen ha cominciato a fare meno affidamento sul pensiero conscio mentre leggeva la musica e cantava.

“Insomma”, scrive Mithen, “è vero che chiunque può imparare a cantare? Non ne sono ancora sicuro. Ma prendendo lezioni ho imparato sul canto più cose di quelle apprese leggendo dei libri. Ora, però, ho perfino le idee meno chiare sul perché gli esseri umani hanno sviluppato questa straordinaria attività”. NEW SCIENTIST

Esperimenti

Il cantanteche è in noi

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SCIENZA

Immaginate che l’imboccatura di un secchio venga coperta con un pez-zo di stoffa e che diverse persone ci lancino sopra delle palline da ping

pong da distanze diverse. Osservando i movimenti della stoffa, dovete calcolare quante persone ci sono, chi sono e se si allontanano, se si avvicinano o rimango-no ferme. In pratica è questo il problema che deve affrontare il nostro sistema udi-tivo quando percepisce i suoni attraverso il timpano.

I suoni vengono trasmessi nell’aria da molecole che vibrano a certe frequenze e bombardano il timpano facendolo oscil-lare in base alla forza con cui lo colpisco-no (il volume, o ampiezza, del suono) e alla velocità delle vibrazioni (il tono). Ma nelle molecole non c’è niente che possa indicare al timpano da dove provengono o a quale oggetto sono associate. Le voci possono essere mescolate ad altre voci o al rumore di macchine, di passi o del ven-to. Nella maggior parte dei casi il mes-saggio è incompleto o ambiguo. Allora come fa il cervello a capire quello che succede nel mondo partendo da questo miscuglio caotico di molecole?

La maggior parte delle persone pensa che il mondo sia esattamente come lo percepisce. Ma alcuni esperimenti han-no costretto i ricercatori a riconoscere che le cose non stanno così. In realtà quello che sentiamo è l’ultimo anello di una lunga catena di eventi mentali che creano un’impressione – un’immagine mentale – del mondo isico. Un esempio evidente è l’illusione percettiva che con-sente al nostro cervello di imporre un ordine a una sequenza di suoni per crea-re quella che chiamiamo musica.

La catena di eventi mentali parte da un processo chiamato estrazione delle caratteristiche. Il cervello estrae le carat-

realmente ascoltando sia sulle nostre aspettative. Ci sono ottime spiegazioni evolutive per questo: un sistema percet-tivo in grado di integrare le informazioni mancanti può aiutarci a prendere deci-sioni rapide in situazioni di pericolo. Ma ci sono anche degli aspetti negativi. Le aspettative che creiamo possono farci percepire le cose in modo sbagliato. Si spiegano così alcune illusioni percettive come quella dimostrata dallo psicologo cognitivo Richard Warren, dell’universi-tà del Wisconsin. Lo studioso ha regi-strato una frase: “La legge è stata appro-vata da entrambe le camere”. Quindi ne ha tagliato una parte e ha sostituito i suo-ni mancanti con un’interferenza della stessa durata. Quasi tutte le persone che ascoltavano la registrazione modiicata dicevano di aver sentito sia la frase sia l’interferenza. Ma molte non erano in grado di dire a che punto c’era stata l’in-terferenza, perché il loro sistema uditivo aveva riempito il vuoto integrando le in-

formazioni mancanti e la frase gli era sembrata senza interru-zioni.

Questo fenomeno del riem-pimento non è solo una curiosi-tà da laboratorio. I compositori

sfruttano lo stesso principio, sapendo che continueremo a percepire una linea melodica anche se è parzialmente coper-ta dal suono di altri strumenti. Succede anche quando sentiamo le note più basse di un piano o di un contrabbasso. In real-tà non percepiamo le frequenze a 27,5 o a 35 hertz, perché quegli strumenti non sono in grado di produrre suoni udibili a frequenze così basse, ma le nostre orec-chie integrano le informazioni e ci danno l’illusione che il tono sia così basso.

Oggi la maggior parte delle registra-zioni contiene un altro tipo di illusione uditiva. Il nostro cervello sfrutta gli indi-zi forniti dallo spettro dei suoni e dal tipo di eco per informarci sul mondo sonoro intorno a noi come un topo usa i bafi per conoscere lo spazio isico che lo circonda. I tecnici del suono hanno imparato a imitare quegli indizi per far apparire rea-

teristiche basilari della musica usando alcune reti neurali specializzate, che scompongono il segnale in una serie di informazioni sul tono, il timbro, la collo-cazione nello spazio, l’altezza, il riverbero ambientale, la durata e il momento d’ini-zio delle note e delle diverse componenti dei toni. Questa elaborazione degli ele-menti fondamentali avviene nelle regio-ni periferiche e filogeneticamente più antiche del nostro cervello. Poi intervie-ne il cosiddetto processo d’integrazione. Alcune zone della parte alta del cervello, situate soprattutto nella corteccia fron-tale, ricevono le caratteristiche basilari dalle regioni più basse e lavorano dall’al-to in basso per integrarle in un unico blocco dal punto di vista percettivo.

Informazioni ambiguePer estrarre e integrare le caratteristiche il cervello incontra tre dificoltà. In pri-mo luogo, le informazioni che arrivano ai recettori sensoriali sono indifferenziate in termini di localizzazione, fon-te e identità. In secondo luogo, queste informazioni sono ambi-gue: suoni diversi possono dare origine a schemi di attivazione del timpano identici. Terzo: le informazioni sono spesso incomplete. Una parte del suono può essere coperta da altri suoni o perdersi. La percezione uditiva, quindi, è un processo inferenzia-le: il cervello, cioè, deve calcolare cosa c’è davvero là fuori. E quando lo stimolo sensoriale è la musica, questi calcoli di-pendono da diversi fattori che vanno ol-tre i suoni stessi: da quello che è venuto prima nel brano che stiamo ascoltando; da cosa verrà dopo se la musica ci è fami-liare; da cosa ci aspettiamo che succeda se il genere o lo stile ci sono familiari; e da qualsiasi altra informazione di cui di-sponiamo, come una recensione del bra-no, un movimento improvviso di uno dei musicisti o la gomitata della persona se-duta accanto a noi.

Così il cervello si costruisce una rap-presentazione della realtà basata sia sul-le caratteristiche di quello che stiamo

L’illusione dei suoniIl nostro udito ci dà la sensazione di percepire il mondo esattamente com’è. Ma parte di quello che sentiamo è in realtà il frutto di complesse elaborazioni del cervello

DANIEL LEVITIN, NEW SCIENTIST, GRAN BRETAGNA

DANIEL LEVITIN è un musicista e docente di psicologia cognitiva della McGill university di Montréal, in Canada.

L’autore

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SCIENZA

listiche le registrazioni anche quando vengono eseguite in studi insonorizzati. Il riverbero artiiciale dà l’impressione che il canto e il suono delle chitarre pro-vengano dal fondo di una sala da concer-to anche quando li ascoltiamo in cufia e la musica è a due centimetri dal nostro orecchio. In base allo stesso principio si possono creare anche trucchi uditivi, co-me dare l’impressione che una chitarra sia enorme e che le nostre orecchie siano al centro della cassa.

Effetti specialiIl cervello è capace di calcolare le dimen-sioni di uno spazio chiuso sulla base del riverbero e dell’eco presenti nel segnale che colpisce le nostre orecchie. Anche se pochi di noi comprendono le equazioni necessarie per descrivere la differenza tra due stanze, siamo tutti in grado di di-re se ci troviamo in un piccolo bagno pia-

strellato, in una sala da concerto di me-die dimensioni o in una grande chiesa dal sofitto alto. E quando sentiamo una voce registrata intuiamo le dimensioni della stanza in cui si trova chi canta o chi parla. I tecnici del suono sfruttano que-sta capacità per creare quelle che io chia-mo “iper-realtà”.

Un’altra illusione riguarda il tempo. Il nostro cervello è molto sensibile a questo tipo di informazioni. Siamo in grado di localizzare gli oggetti in base alla diffe-renza di pochi millisecondi tra il mo-mento in cui un suono arriva a una delle nostre orecchie e quello in cui arriva all’altra. Molti degli effetti speciali che ci piace ascoltare nella musica registrata sfruttano questa sensibilità. Le registra-zioni del chitarrista jazz Pat Metheny o di David Gilmour dei Pink Floyd usano vari ritardi del segnale per creare un effetto ultraterreno, che attiva alcune aree del

La storia è piena di personaggi famosi che erano totalmente privi di musicalità. Ulysses Grant, il di-

ciottesimo presidente degli Stati Uniti, non aveva orecchio e trovava la musica profondamente irritante. Molti sanno che Che Guevara non era in grado di di-stinguere un motivo dall’altro. Un tempo queste persone sarebbero state deinite semplicemente stonate, oggi abbiamo scoperto che sono qualcosa di molto più interessante.

Da qualche anno è ormai chiaro che l’incapacità di riconoscere un motivo può essere causata da un disturbo neurologico. Si tratta dell’amusia con-genita, che priva totalmente le persone della capacità istintiva di apprezzare la musica. È comprensibile, quindi, che questo disturbo sia diventato un impor-tante argomento di ricerca per chi vuole comprendere il misterioso rapporto tra il cervello e la musica.

La letteratura specialistica è piena di aneddoti di persone che per tutta la vita non sono riuscite ad apprezzare la mu-sica. È dal 1878 che vengono segnalati

casi di “sordità musicale”, ma il primo vero studio sull’amusia congenita è sta-to pubblicato solo nel 2002. Un gruppo di ricercatori guidato da Isabelle Peretz, dell’università canadese di Montréal, ha studiato il caso di Monica, una donna di quarant’anni che non aveva mai avuto la minima capacità musicale. Peretz era giunta alla conclusione che il problema di Monica fosse l’incapacità di individua-re i cambiamenti di tono in una melodia. Se ascoltava due note una dopo l’altra, raramente era in grado di dire quale delle due fosse più alta o se avevano lo stesso tono. La maggior parte delle persone distingue facilmente un piccolo cambiamento di tono, ma chi soffre di amusia non percepisce neanche il salto di un’ottava. I toni e i semitoni sono gli elementi costituenti della melodia, quindi non c’è da sorprendersi che gli amusici trovino la musica monotona nel vero senso della parola. Da allora Peretz e i suoi colleghi hanno documen-tato decine di casi simili. Tutte queste persone hanno un udito, un’intelligenza e una memoria normali, ma non riesco-

Ricerca

Che Guevara era stonato

GRAHAM LAWTON, NEW SCIENTIST, GRAN BRETAGNA

Molte persone non sono in grado di riconoscere un motivo musicale. Spesso si tratta di un disturbo neurologico

no a distinguere una melodia. Per loro tutti i motivi sono uguali: senza parole le canzoni familiari diventano irriconosci-bili, e gli accordi dissonanti che fanno sobbalzare la maggior parte di noi non li disturbano affatto. Gli amusici non sanno cantare, anche se spesso non vogliono ammetterlo. È un disturbo strano ma non particolarmente raro – sembra che ne soffra il 4 per cento della popolazione – e sembrerebbe ereditario.

L’équipe di Peretz e altri studiosi stan-no provando a scansionare il cervello degli amusici alla ricerca di anomalie anatomiche che possano aiutarli a capire il problema alla base del disturbo. Finora hanno scoperto alcune piccole differenze nello spessore della materia bianca di una regione del cervello chiamata giro frontale inferiore destro, la zona legata alla percezione dei toni musicali e alla memoria melodica. Stanno anche cercan-do i geni che rendono l’amusia ereditaria nella speranza di capire meglio da quale anomalia del cervello è provocata.

La speranza è che con una migliore comprensione dell’amusia sia possibile aiutare le persone escluse dal piacere della musica. Peretz ritiene che interve-nendo per tempo sia possibile sfruttare la naturale plasticità del cervello e ridurre i danni. “Non è possibile aiutare gli adulti”, aggiunge la studiosa. “Ci abbiamo pro-vato. Ma forse con i bambini c’è qualche possibilità”. p bt

cervello. Simulano il suono che produr-rebbe una serie di echi in una caverna, cosa che nel mondo reale non succede mai. Sono l’equivalente uditivo di quegli specchi che rilettono la nostra immagi-ne all’ininito.

Forse, tuttavia, l’illusione estrema prodotta dalla musica è quella della struttura e della forma. In una sequenza di note non c’è niente che crei le associa-zioni emotive prodotte dalla musica. La nostra capacità di darle un senso dipen-de dall’esperienza e dalle strutture neura-li che imparano e si modificano a ogni nuova canzone e ai pezzi che ci sono già familiari. Il cervello impara una specie di grammatica musicale speciica della mu-sica che appartiene alla nostra cultura. Proprio come impara la lingua. Questo ci permette di comprendere la musica. E in fondo è il motivo per cui la musica ci pia-ce e ci commuove. p bt

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Schegge pachistane

Con una faccia rivolta al boom economico del continen-te asiatico e l’altra alle spinte islamiste e antioccidentali del

Medio Oriente, il Pakistan si trova sulla linea di confine tra due mondi sempre più lontani. Nell’ultimo decennio, il regi-me militare di Pervez Musharraf ha cer-cato di forzare la transizione verso la mo-dernità e lo sviluppo. Il risultato è stato però l’inasprimento delle tensioni tra le due identità del paese. La crescita econo-mica non ha coinvolto le regioni periferi-che e le fasce più basse della popolazione, nelle aree tribali alla frontiera occidenta-le è riesplosa la guerriglia pashtun e, in tutto il Pakistan, secolarismo e fonda-mentalismo sono di nuovo al centro di un confronto dagli esiti imprevedibili.

A metà strada tra Asia e Medio Oriente, il secondo paese al mondo per numero di musulmani non riesce a superare il proprio passato. E il futuro appare sempre più incerto. Foto di Bertrand Meunier

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Nelle pagine precedenti, da sinistra in alto e in senso antiorario: un Corano gigante esposto a Karachi per il sessantesimo anniversario dell’indipendenza; domenica sulla spiaggia vicino a Karachi; un cinema nella città vecchia di Peshawar. Sopra, una donna sfigurata con l’acido

da un ex pretendente a Rawalpindi. Nella pagina accanto, dall’alto in senso orario: raffiche di mitra sul muro di una moschea sciita di Karachi; la spiaggia di Clifton Beach, sempre a Karachi; un cane nella bottega di un imbalsamatore a Lahore. Foto Tendance Floue/Grazia Neri

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IDEE

avuto un ruolo importante nella storia di Haiti. È uno dei pilastri su cui si basa l’identità del paese, costituito come en-tità culturale a partire da diaspore di-verse. Per questo l’approccio identitario ad Haiti non si basa solo sul fenotipo i-sico. Quando Cristoforo Colombo sbar-cò sull’isola nel dicembre del 1492, que-sta terra si chiamava già Ayti (che in lin-gua arawak signiica “terra di monta-gna”) ed era abitata dai taino, una popo-lazione nata da un primo incrocio tra gli arawak e i siboney.

Trent’anni dopo il 90 per cento della popolazione locale era stata decimata. I futuri haitiani sarebbero stati i discen-denti delle diaspore africane ed euro-pee, rafforzate, un secolo dopo l’indi-pendenza, dall’arrivo dei siriano-libane-si (per citare solo le componenti e le on-date principali dei lussi migratori all’origine della popolazione dell’isola). A tutto questo si sono aggiunte altre mi-grazioni dall’esterno verso l’interno, più o meno regolari, che hanno continuato a irrigare l’identità culturale degli hai-tiani.

è importante distinguere il me-ticciato culturale dal meticciato biologi-co. Se quest’ultimo è evidente, il primo non è certo meno forte. A volte si tende a trascurare questo aspetto, che invece determina in larga parte il modo di es-sere al mondo di un individuo o di una comunità. Uno sguardo esteriore, ridut-tivo, spesso considera Haiti una sempli-ce appendice dell’Africa trapiantata in terra americana. Ma se da un lato l’Afri-ca è vasta e quindi plurale, dall’altro il territorio haitiano, come abbiamo visto, raggruppa uomini e donne di origini di-verse. Eppure capita che l’assimilazione di questo sguardo esteriore spinga gli

Una ventina d’anni fa mi trovavo a Jac-mel, una piccola città turistica nel sudovest di Haiti. Ero insieme a un belga e a un at-

tore guineano, venuto a girare un ilm, quando si è avvicinato un venditore am-bulante di oggetti d’artigianato. Prima ha provato a vendere qualcosa a me, senza successo. Il belga se l’è cavata con qualche parola di creolo maccheronico.

Poi è arrivato il turno del guineano. Sfoggiava una larga tunica immacolata che contrastava con la sua carnagione di nègre bleu, come i creoli chiamano i neri dalla pelle scurissima. Era appena sbar-cato ad Haiti e non conosceva una paro-la di creolo. Non aveva altra scelta che chiederci aiuto. A quel punto il vendito-re ambulante ha sgranato gli occhi, esclamando: “Ma questo negro è un bianco!”.

Potrebbe sembrare un giudizio af-frettato, come se il venditore avesse con-siderato il guineano un alienato, troppo vicino ai valori culturali dell’antico pa-drone europeo. Ma non è così. Per capi-re questo passaggio dal nero al bianco bisogna tener presente che in creolo haitiano la parola “negro” indica l’uomo che hai davanti e “bianco” lo straniero di qualsiasi razza. Perciò ad Haiti capita che durante una partita di calcio Italia-Germania Maldini o Ballack siano chia-mati negri, proprio come un bianco be-nestante o apparentemente benestante è chiamato un “gran negro”. Invece a chi parte in viaggio per l’Africa subsaharia-na si dirà, senza nessuna ironia, “vai nel paese dei bianchi”, in altre parole “vai all’estero”.

La migrazione – e questo vale per tutte le isole caraibiche – ha sempre

louis-philippe dalembert

haitiani stessi, e gli africani con loro, a vedere in questo paese nient’altro che un ramo trapiantato dall’Africa.

Ricordo un incontro a cui ho parteci-pato nel novembre del 1995, nel nord della Francia. Eravamo una decina di autori riuniti per scrivere una lettera aperta contro la condanna a morte dello scrittore nigeriano Ken Saro-Wiwa. Qualcuno ha proposto di cominciare la lettera con: “Noi scrittori africani…”. Io ho chiesto di correggere l’inizio, soste-nendo che, se volevamo identiicarci a partire da una connotazione geograica, sarebbe stato meglio scrivere: “Noi scrittori africani e caraibici...”.

La mia osservazione ha scatenato l’ira di un senegalese. Capivo il suo pun-to di vista ma non lo condividevo. Per lui era come se riiutassi di riconoscermi nella madre Africa: peggio, come se mi tirassi fuori dalla lotta comune. In realtà questo fratello non solo negava la mia americanità, ma con la sua reazione esprimeva – probabilmente senza ren-dersene conto – un’immagine negativa di sé. Questa immagine è il frutto dell’interiorizzazione del discorso del-l’Altro, che riunisce tutti i negri sotto un’unica etichetta negativa. Lo scrittore martinicano Frantz Fanon vedeva in questo complesso – poiché proprio di un complesso si tratta – il risultato di un doppio processo: “Economico, innanzi-tutto, e, in un secondo tempo, di interio-rizzazione o meglio epidermizzazione di questa inferiorità”.

il contrario è altrettanto vero. Quante volte ho sentito dire da un bian-co: “Tu non sei nero”. Ma se gli chiedo: “E che sono, allora?”, non sa rispondere. Qualcuno osa timidamente dirmi: “Sei come noi”, senza arrivare al punto di chiamarmi bianco. Il giudizio “tu non sei nero”, infatti, rinvia a un’immagine del nero intrisa di pregiudizi ereditati dalla propria educazione e dalla propria cultura. Senza volerlo, questo giudizio solleva un’altra questione essenziale: quella del meticciato, culturale o biolo-gico, che viene riiutato, spesso in modo istintivo, dai gruppi etnici puri.

Prendiamo per esempio il meticciato bianco-nero nei paesi occidentali. Lì i meticci spesso sono percepiti dai bian-chi in funzione della loro riuscita o del loro fallimento nella società. Meticci di successo sono guardati con simpatia e sollievo, come dei sottoprodotti della ci-viltà bianca, occidentale, dei igli di cui

scomodi meticciQuante volte ho sentito dire da un bianco: “Tu non sei nero”. Ma se gli chiedo: “E che sono, allora?”, non sa rispondere

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72 • internazionale 744, 16 maggio 2008

IDEE

Louis-Philippe Dalembert è uno scrittore haitiano di lingua francese e creola. Nato a Port-au-Prince nel 1962, è autore di poesie, romanzi e racconti. In Italia ha pubblicato La matita del buon Dio non ha la gomma (Edizioni Lavoro 1997). Vive a Parigi.

tutto sommato essere ieri. L’ex giocato-re di tennis Yannick Noah, di padre ca-merunese e madre francese, faceva no-tare che la stampa lo considerava fran-cese quando vinceva e franco-cameru-nese quando perdeva. Insomma, tutto quello che è positivo avvicina i meticci al campo dei bianchi, mentre tutto ciò che è negativo li allontana, spingendoli nel campo dei neri.

Da parte loro i neri, abituati a fare i conti con il razzismo e a interiorizzare il discorso dell’Altro, attribuiscono spesso ai meticci – ma non sempre a ragione – un complesso di superiorità. Oppure li considerano il risultato di un’evidente alienazione, umanoidi con la pelle inde-cisa e la maschera bianca (per parafra-sare Pelle nera maschere bianche di Fa-non), degli alienati, sradicati cultural-mente, abituati da troppo tempo a fre-quentare la scuola dei bianchi.

a causa di questo rifiuto i meticci iniscono per identiicarsi con un campo o con l’altro, per lo più con quello delle vittime e dei perdenti della storia recen-te. Come hanno fatto Malcolm X e Bob Marley. La rabbia da neoiti e l’intransi-genza nascono dalla delusione per non essere riusciti a incarnare quel punto di

equilibrio, quel ponte di collegamento che sarebbero dovuti diventare per “na-tura”. Com’è prevedibile, la loro risposta sarà molto più complessa e si collocherà tra questi due estremi. Nelle loro ferite segrete, ma anche nelle loro gioie. Oltre il riiuto e l’accettazione, oltre l’idealiz-zazione di quello che dovrebbero simbo-leggiare agli occhi dell’Altro.

Barack Obama, in lizza per la candi-datura del Partito democratico alle pre-sidenziali statunitensi, ha vissuto molto presto sulla sua pelle questa condizione di “inclassiicabilità”. Fino a quarant’an-ni fa negli Stati Uniti sarebbe stato in-cluso nella categoria coloured in base al sistema dell’apartheid. A lungo è stato “afroamericano” per la stampa statuni-tense e “nero” per la stampa europea.

Come si deve interpretare una simile deinizione rispetto a un individuo bio-logicamente meticcio, che ino all’uni-versità ha frequentato solo il ramo bian-co della sua famiglia? Cosa lo rende più nero che bianco se lo sguardo dell’Altro, in questo caso il bianco, che ha dificoltà a riconoscersi nella sua immagine? An-che i neri statunitensi difidavano di Obama, prima di passare dalla sua parte in assenza di un candidato più nero e “puro”.

Gli scrittori migranti, originari del sud del mondo, spesso condividono la condizione dei meticci perché vivono a lungo – a volte da sempre – lontano dal-la loro terra natale. Sono sbattuti da una riva all’altra dalle stesse onde meschine, e poco importano le cause dei loro spo-stamenti (l’esilio, le dificoltà economi-che, l’ebbrezza del vagabondaggio). Tut-to questo in nome dell’autenticità: cul-turale, linguistica, cioè dell’immagina-rio. Da un lato la riva meridionale serve a escludere, dall’altro la riva settentrio-nale serve a lavarsi la coscienza. Ed è co-me se ci fosse la necessità inderogabile di collocare l’immaginario e la lingua di questi scrittori sotto una bandiera che non sia letteraria. Come se un’opera, questa parte visibile dell’interiorità, non bastasse a se stessa e soprattutto non bastasse a deinire il solo luogo di cui parla il suo autore: il proprio sé.

da john donne in poi questo sé non può più essere considerato un’isola. È un sé fatto di piste sottomarine colle-gate in modo permanente con l’infan-zia, la terra che nutre ogni opera; un sé fatto di una sensibilità e di una lingua che non hanno consistenza se non sono radicate nella realtà. È come se l’essen-ziale non fosse l’opera stessa. Come se per gli scrittori della migrazione ogni opera potesse avere valore solo in virtù del contesto extraletterario. Tanto che alcuni arrivano a confondere l’opera con il contorno extraletterario.

Il problema è che questo sguardo si estende all’insieme della letteratura del sud del mondo vista da nord. Negli anni si è affermata una lettura compassione-vole di queste opere: una critica con-traddittoria, in base a cui il loro “valore” spesso è dato solo dalla compassione che suscitano in relazione a un contesto non letterario. Compassione per la real-tà, ma anche per gli autori, che l’Altro, ormai incapace di lottare, abituato a vi-vere in un nord troppo privilegiato, si compiace a considerare “povero” e “im-pegnato”. Mentre gli scrittori, migranti o meno, hanno una sola preoccupazio-ne: tornare alla letteratura. p jm

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24 e 25 maggioTEATRO

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28 e 29 maggioOPERA

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Cheng Ying salva

l’orfano degli Zhao

31 maggio e 1 giugnoDANZA

GUANGDONG MODERN

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31 maggio e 1 giugnoTEATRO

SHANGHAI DRAMATIC

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The Salty Taste

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1 e 2 giugnoTRADIZIONE

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Kung Fu

2 giugnoMUSICA

LIU SOLA & FRIENDS Concert Series - Soul Sisters Concert

3 e 4 giugnoDANZA

BEIJING MODERNDANCE COMPANYBeijing vision

5 e 6 giugnoDANZA

CITY CONTEMPORARYDANCE COMPANY, HONG KONG Silver Rain

6, 7, 8 giugnoTRADIZIONE

TEATRO DELLE OMBREDI HUAZHOU

7, 8 giugnoMUSICA

THE INNER MONGOLIAYOUTH CHORUS, BUTTERFLY GIRLS BAND

8 giugnoMUSICA

Concerto FinaleLA GRANDE ORCHESTRA diretta da TAN LI HUA

6, 7, 8 giugnoTRADIZIONE

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8 giugnoFUOCHI D’ARTIFICIO

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Cultura

IMPALPABILE/MAMUSCAp Due mostre del FotoGraia festival di Roma: la fotoinstallazione in progress per camera-phone di Claudia Ferri e la giornata di una madre vista da Claudia Blu attraverso gli occhi di una matrioska. Impalpabile, ino al 24 maggio, impalpablephotos.net;

Mamusca, 19-31 maggio, fotograiafestival.it

MINIMONDI IN SICILIAp Secondo appuntamento con il festival del libro e dell’illustrazione per ragazzi. Catania, Enna, Palermo, 16-24 maggio, minimondi.com

CULTURA GNAWAp Suoni, riti e ritmi della cultura gnawa dell’Africa occidentale. Conservatorio, Latina,

17-19 maggio, conservatorio.latina.it

DONNE IN CONFLITTOp Giornaliste provenienti da importanti testate di paesi mediterranei si incontrano in una tavola rotonda sul tema “Avere vent’anni nel Mediterraneo”. Stampa

estera, Roma, 20 maggio, [email protected]

cinema • libri • musica • tv • per segnalazioni: [email protected]

internazionale 744, 16 maggio 2008 • 75internazionale.it/agenda

BIENNALE DEI GIOVANI ARTISTI DEL MEDITERRANEOp Musica, arti visive, teatro, video, arti applicate, letteratura e addirittura gastronomia. Questa la proposta dei settecento artisti tra i 18 e i 30 anni invitati alla Biennale. Provenienti da 46 paesi dell’area del Mediterraneo, dai Balcani al Nordafrica, daranno vita a un villaggio dove la parola d’ordine è: contaminazione senza barriere. Fiera del Levante, Bari, 22-31 maggio, www.biennalepuglia2008.org

Martin Grandits, Austria

Appena ho cominciato a ricevere le prime notizie sulla catastrofe naturale che ha colpito la

Birmania, un paese che amo profondamente, mi è subito venuta voglia di reagire. Ma non l’ho fatto perché il governo di Rangoon parlava di ottomila morti e non volevo essere male interpretato. Il mio atteggiamento prudente si è rivelato una scelta giusta: i morti sono diventati rapidamente 100mila e si parla di un milione e mezzo di vittime.

La giunta che governa il paese ha preso una posizione criminale: ha riiutato l’intervento delle ong, non ha rinviato il referendum che dovrebbe assicurargli, se possibile, poteri ancora maggiori e si sta accaparrando tutti gli aiuti internazionali. Non si poteva immaginare niente di peggio.

Del resto, questa cricca militare invecchiata, che sida le codarde democrazie del mondo intero, segue una sua logica. La determinazione con cui ha riiutato l’entrata dei volontari delle organizzazioni umanitarie è la stessa con cui ha controllato le immagini che potevano uscire dal paese. Durante l’ultima settimana, i mezzi di informazione di tutto il mondo (compreso Internazionale, pagine 6-7 del numero 743) hanno avuto accesso soltanto alle immagini uficiali, messe a disposizione dalla Myanmar News Agency.

Come nel recente caso delle rivolte in Tibet, il controllo delle immagini da parte del potere ci pone di fronte a una domanda molto seria. È possibile informare usando le immagini della propaganda senza far sapere al pubblico da dove vengono?

ANDERSEN FESTIVALp Capossela, Del Bono, Maggiani e altri animano alcuni luoghi pubblici sul tema “La memoria dell’acqua”. Sestri Levante (Ge),

22-25 maggio, andersenfestival.it

ELEVEN MINUTESp Rassegna di corti sul calcio realizzati in occasione degli Europei. Istituto Austriaco di

Cultura, Roma, 20 maggio, 06 3608 371

MOSAICOSCIENZE 2008p In nove comuni intorno al Garda, nove conferenze su ambiente, energia e sviluppo. 22-25 maggio, mosaicoscienze.com

MUÑOZ A BOLOGNAp Il maestro argentino del fumetto José Muñoz incontra il pubblico. Feltrinelli

International, via Zamboni, Bologna, 22 maggio

KUNSTART 08p Ottanta gallerie riunite in una iera dell’arte moderna e contemporanea. Museion, Bolzano, 22-25 maggio, kunstart.it, museion.it

CHRISTIAN CAUJOLLE È STATO PHOTO EDITOR DEL QUOTIDIANO LIBÉRATION E HA FONDATO L’AGENZIA VU. SCRIVE QUESTA RUBRICA PER INTERNAZIONALE

IMMAGINI

CHRISTIAN

CAUJOLLE

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IN USCITA

IN BRUGESDi Martin McDonagh. Con Colin Farrell, Brendan Gleeson, Ralph Fiennes. Gran Bretagna, 2008, 107’

1111!

Ci sono quattro parole che non avrei mai pensato di scrivere. Non dopo che la sua carriera sembrava affondata sotto i capelli biondi e il gonnellino di Alexander di Oliver Stone: “Colin Farrell è tornato”. Nonostante ilm con autori di un certo calibro (Malick, Allen, Mann) il destino di Far-rell sembrava segnato, come quello di Napoleone al ritorno dalla Russia. E invece l’attore ha tirato fuori un jolly in que-sta piccola black comedy di Martin McDonagh. Lunatico e divertente, a tratti sexy, in cer-ti momenti triste e vulnerabile come un bambino. Lui e Bren-dan Gleeson, altrettanto con-vincente, interpretano Ray e Ken, una coppia di killer a cui il boss ordina di andare a Bru-ges, in Belgio, e attendere istruzioni. L’ambientazione insolita (anche se una spiega-zione c’è), l’ottima intesa tra i due attori protagonisti, gag estremamente divertenti, e dialoghi che fanno pensare a Beckett e a Tarantino, sono gli ingredienti di un ilm che pro-pone McDonagh (Oscar con il corto Six shooter) come uno dei registi più interessanti in circolazione.–Peter Bradshaw, The Guardian

AllA ScopERtA dI chARlIEDi Mike Cahill. Con Michael Douglas, Evan Rachel Wood. Stati Uniti, 2007, 90’

111!!

Protagonisti di questa elabo-razione sorprendentemente fresca delle stranezze tipiche del cinema indipendente sono un musicista jazz, mental-mente disturbato (Michael Douglas) e la iglia adolescen-te (Evan Rachel Wood), anche lei con qualche sofferenza alle spalle a causa di una famiglia

che l’ha praticamente abban-donata. Il padre cerca di coin-volgere la iglia nella ricerca di un tesoro spagnolo sepolto sotto il negozio di una catena di discount di ferramenta. Gran parte della vivacità del ilm, debutto del regista sce-neggiatore Mike Cahill, che viaggia sulla sottile linea tra il California dreamin’ e la malat-tia mentale, viene da un Michael Douglas che sembra inalmente libero di esprimer-si grazie a questa trama don-chisciottesca. È come se il grande attore fosse inalmente riuscito a integrare tutti i vari personaggi che ha interpreta-to sullo schermo in un unico ruolo.–Lisa Schwarzbaum, Entertainment Weekly

cERtAMENtE, FoRSEDi Adam Brooks. Con Ryan Reynolds, Rachel Weisz, Abigail Breslin. Stati Uniti, 2008, 105’

111!!

Forse Ryan Reynolds, con il suo sguardo dolce, è troppo titubante per un ruolo da pro-tagonista. In questa comme-dia romantica interpreta il ruolo di un giovane che non riesce a scegliere la sua com-pagna. Un personaggio che dovrebbe sembrare un po’ sperduto, in cui Reynolds non si trova molto a suo agio. Ma Certamente, forse, scritto e diretto da Adam Brooks, ha fascino e spirito. Ambientato tra la prima campagna presi-denziale di Bill Clinton e gli anni successivi, il ilm segue in parallelo i problemi senti-mentali del protagonista e la crescente disillusione nei confronti del presidente democratico. Tra le attrici, Rachel Weisz ci regala una delle sue migliori interpreta-zioni da molto tempo a questa parte.–David Denby, The New Yorker

Cinema

dieci ilm nelle sale italiane giudicati dai critici di tutto il mondo

MEdIA

Massa critica

Legenda: 1!!!!PESSIMO 11!!!MEDIOCRE 111!!DISCRETO 1111!BUONO 11111OTTIMO

LA BANDA 111!! 11111 1111! 111!! 111!! 1111! 11111 1111! 1111! 1111! 1111!

IL CACCIATORE DI… 11!!! — 1111! 111!! 111!! — 111!! 11!!! 11!!! 1111! 111!!

IN BRUGES 1111! — 111!! 1111! 1111! — 1111! — 11!!! — 1111!

IN AMORE NIENTE… 111!! — 111!! 11!!! 11!!! — 111!! — 11!!! 11!!! 11!!!

IRON MAN 111!! 1111! 1111! 11!!! 111!! 111!! 11!!! — 1111! 11!!! 111!!

JUNO — — 1111! 11111 111!! 1!!!! 1111! 1111! 1111! 111!! 111!!

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76 • internazionale 744, 16 maggio 2008

In Bruges

L’ALTRA DONNA DEL RE 11!!! 111!! 11!!! 111!! 11!!! 111!! 11!!! 111!! 11!!! 11!!! 11!!!

IL TRENO PER… 11!!! 1!!!! 1111! 11!!! 111!! 11111 1111! 1!!!! 111!! 1111! 111!!

ONORA IL PADRE E LA… — — 11!!! 1111! 111!! 1111!1111!1111!1111!1111!111!!

iCERTAMENTE, FORSE — — 11!!! 111!! 111!! — 111!! — 111!! 11!!! 111!!

1. Il tRENo pER Il dARJEElING di Wes Anderson. Stati Uniti, 91’

2. Sotto lE BoMBE di philippe Aractingi. Francia/Libano, 98’

3. lA ZoNA di Rodrigo plà. Messico, 95’

I consigli della redazione

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internazionale 744, 16 maggio 2008 • 77

I ilm italiani visti da un corrispondente straniero. Questa settimana Gerhard Mumelter,

del quotidiano austriaco Der Standard.

NAZIROCKDi Claudio Lazzaro. Italia 2008, 75’

111!!La minaccia di azioni legali da parte di Forza Nuova ha impedito per ora l’uscita nelle sale di questo ilm di Claudio Lazzaro, che pre-senta il suo secondo docu-mentario dopo Camicie ver-di, opera convincente sulla Lega nord premiata al festi-val di Locarno. Questa volta Lazzaro si occupa del conta-gio fascista tra i giovani ita-liani, partendo dal campo d’azione di Forza Nuova in provincia di Viterbo, una specie di Miniwoodstock agreste dell’estrema destra, ravvivata dal “rock identita-rio” di complessi come gli Hobbit. “Ho il cuore nero e sputo in faccia al mondo in-tero”, recita una delle canzo-ni, accompagnata dai giova-ni con il saluto romano. So-no circa trenta i complessi che producono questo rock intriso di razzismo e xenofo-bia, spesso con riferimenti alle curve degli stadi, dove Forza Nuova arruola i suoi adepti: “Frana, la curva fra-na, sulla polizia italiana”. È l’estrema destra vista dal-l’interno: la musica, le facce, i capi, i libri, gli ospiti stra-nieri, i rituali. L’aspetto po-sitivo del documentario è che presenta i fatti senza commentarli. Ma dal mate-riale raccolto da Lazzaro si potrebbe ricavare un con-vincente documentario di 35-40 minuti. Nazirock sof-fre di ripetitività e si deve appoggiare a materiale d’ar-chivio su Hitler e Mussolini.

ITALIENI

sono troppo lunghi e troppo costosi. Superhero fa quindi rilettere sul fatto che anche i ilm di cui si prende gioco potrebbero essere più brevi e costare meno. Ma è una consi-derazione che non farà nessu-no degli spettatori che affolle-ranno i cinema per questo ilm e per il prossimo kolossal trat-to dai fumetti.–A.O. Scott, The New York Times

UNdeRdOGDi Frederik Du Chau. Stati Uniti, 2007, 81’

1!!!!

Qualche lezione melensa sull’unità della famiglia e qualche orribile scena di lirt tra cani: è tutto qui questo cartoon trasformato in ilm semianimato. Il cane supere-roe degli anni sessanta è irri-conoscibile grazie al tocco Disney e all’animazione digi-tale. Paladino controvoglia, il cagnolino deve salvare il mon-do dalla minaccia di uno scienziato pazzo. La buona notizia per gli adulti che por-teranno al cinema i igli è che il ilm dura mezz’ora di meno dell’ultimo Asterix. In entram-bi i casi il pubblico rimarrà con il rimpianto per la vera magia di penne e inchiostro. –Cath Clarke, The Guardian

ANCORA IN SALA

CACCIA SPIeTATADi David Von Ancken. Con Liam Neeson, Pierce Brosnan, Anjelica Huston. Stati Uniti, 2006, 115’

1111!

Il regista e sceneggiatore David Von Ancken fa un eccel-lente debutto con un western brutale e appassionante, ambientato immediatamente dopo la ine della guerra di secessione. Pierce Brosnan regala una delle sue migliori interpretazioni di sempre e i paesaggi classici del western sono splendidamente fotogra-fati dal due volte premio Oscar John Toll.–Peter Bradshaw, The Guardian

Allarme ai CahiersPreoccupazioni e speranze sul futuro della storica rivista di critica cinematograica

DALLA FRANCIA

Dalla metà di aprile la redazione dei Cahiers du cinéma è in agitazione. L’annuncio del gruppo Le Monde di un pia-no che prevede la soppressione di 130 posti di lavoro e

la cessione di alcune riviste, ha messo in allarme redattori e impiegati dello storico giornale della critica cinematograica francese fondato nel 1951 dalla “banda Bazin”.

Ricordando che il magazine è un patrimonio che include una casa editrice senza rivali nel settore dedicato al cinema, una fototeca di 3.500 immagini e un’enorme collezione di dvd, i redattori sono entrati in sciopero chiedendo di essere “informati in tempo reale” di qualsiasi decisione dovesse prendere il gruppo Le Monde. Gli amministratori, dal canto loro, sembrano irremovibili. Dal 2001 a oggi, le perdite delle Éditions de l’Étoile, che pubblicano il mensile, si sono accu-mulate, aggravandosi dal 2006 in poi. Ma potrebbero esserci delle novità positive. Una cinquantina di personalità di grande spicco della cultura e del cinema hanno dato il loro sostegno a un progetto interno della rivista che intende “assicurare la continuità dell’impresa in tutte le sue componenti, adattan-dola alle side presenti e future”. Il progetto concepito da Emmanuel Burdeau e Thierry Lounas ha tre obiettivi: rimette-re a posto i conti e reinventare i Cahiers mantenendo una continuità editoriale, che è il valore aggiunto della storica rivi-sta.–Laure Croiset, ToutLeCine

PARIGI, APRILE 2008.Assemblea degli

impiegati del gruppoLe Monde

SUPeRheRODi Craig Mazin. Con Drake Bell, Leslie Nielsen, Christopher McDonald. Stati Uniti, 2008, 85’

1!!!!

Deinire Superhero una satira, o anche una parodia, sarebbe fuorviante, perché entrambi i termini implicano almeno un tentativo di sembrare vaga-mente intelligenti. Ma questa inutile e stupida accozzaglia di

gag ampiamente scontate o già viste, che si prende gioco di un genere relativamente nuo-vo con trite formule di umori-smo infantile (inclusi deiezio-ni, vomito e gas intestinali) non richiede un briciolo di iro-nia. L’unica forma di satira che gli riesce è involontaria. Il ilm infatti dura 85 minuti: viene da pensare che in effetti molti ilm tratti dai fumetti

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LibriNARRATIVA

STELLA DEL MATTINOWu Ming 4, Einaudi, 401 pagine, 16,80 euro

1111!

Oxford, 1919. La prima guerra mon-diale è appena ter-minata. Tra i tanti reduci dei campi di battaglia ci sono

anche tre giovani destinati a un brillante futuro da scrittori: Robert Graves, J.R.R. Tolkien e C.S. Lewis, tutti alle prese con gli incubi e i traumi psicologici causati dai combattimenti. Ma il personaggio più ambiguo e tormentato è il protagonista T.E. Lawrence, il leggendario Lawrence d’Arabia, che con il suo arrivo risveglia la curiosità degli abitanti della cittadina. Perché è tornato a Oxford? È davvero un eroe? Chi c’è dietro la misteriosa sigla S.A. a cui è dedicato il libro di memorie che Lawrence sta scrivendo? Stella del mattino conferma che i romanzi del collettivo Wu Ming riescono bene sia quando i suoi membri lavorano in gruppo sia quando scrivono da soli. Ancora una volta, l’intrec-cio di verità storiche ed emo-zioni inventate funziona per-fettamente e ci regala un rac-conto appassionante e profon-do, che si snoda tra le bibliote-che inglesi e le sabbie dei deserti arabi. ( fsi)

uN pOLLASTrO A hOLLywOODDavid Henry Sterry, Adelphi, 220 pagine, 18,00 euro

111!!

Un pollastro a Hol-lywood è il trasci-nante racconto-confessione di David Henry Ster-ry, sbarcato nella

città del cinema a metà degli anni settanta, ad appena diciassette anni. Per un anno si guadagnò da vivere come gigo-lò d’alto bordo, pronto a soddi-sfare le richieste più capriccio-

Per Nicolas Sarkozy è arrivato il tempo delle critiche, dei rimpianti, del iele e del vetriolo. Fanno sensazione i “pen-timenti” di Jean-Marie Rouart e di Thierry Desjardins, vete-

rano di Le Figaro, che l’hanno entrambi votato. Il primo è trop-po affascinato dalla igura di Sarkozy per demolirlo, ma nel suo Devoir d’insolence non tralascia nulla: il divorzio, il matrimonio, il Rolex, l’anello di idanzamento. Il secondo al ioretto preferi-sce il lanciaiamme: Galipettes et cabrioles à l’Élysée lascia dietro di sé solo un mucchietto di cenere.

Di fronte a questi due volumi, Le liquidateur di Pierre Moscovici sembra la tesina di uno studente. Niente pettego-lezzi, ma un approccio da congresso socialista a notte fonda. Il migliore dei libri in circolazione su Sarkozy è senz’altro Eh bien, dansez maintenaint, di Marc Lambron, che senza fare politica e senza indignarsi, paragona il presidente a un attore di avanspettacolo e la sua epoca a un’opera comica italiana sul genere dell’Elisir d’amore.–Philippe Alexandre, Lire

Dedicato a SarkozyNessun predecessore aveva ispirato tanti libri quanti l’attuale presidente francese

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DALLA FRANCIA

Stefano Liberti, A sud di Lampedusa, Minimum Fax, 200 pagine, 14,00 euro

Questo libro ripercorre le rotte degli exo-dants, i migranti che si spostano dal Niger e altre zone dell’Africa nera, e

attraversano il deserto della Libia per raggiun-gere l’Europa. Storia nota, si dirà, ma che qui viene raccontata in modi decisamente nuovi e autentici, sfatando i luoghi comuni e scopren-do quel che c’è dietro, secondo il saggio modello di san Tommaso, oggi trascurato ad arte dal giornalismo di successo.

Stefano Liberti, una delle poche irme signi-icative del Manifesto, vuole capire, veriicare, e per di più sa individuare e mettere in luce

personaggi nuovi e vivaci, nuove igure e pro-fessioni prodotte dall’irrequietezza di oggi.

Quel che vogliono la babele delle leggi e la politica dell’Europa e dei suoi giornali è detta-to da precisi interessi economici, dice assai bene uno dei migranti: “L’Europa chiude le frontiere non perché non vuole gli immigrati, ma perché vuole che arrivi gente docile, senza diritti e quindi incapace di avanzare rivendica-zioni”. Cento le storie e i luoghi raccontati da Liberti, con la curiosità e la passione dei gran-di giornalisti di una volta, ridando dignità a un mestiere ormai marcio, con la capacità di ren-der vera e grande la vita delle vittime: che è la sola e vera epica del nostro tempo.

IL LIBRO GOFFREDO FOFI Direttore della rivista Lo straniero

Sulle rotte dei migranti

se e teatrali delle sue clienti. Sempre in bilico tra uno humour paradossale e la trage-dia più nera, Sterry alterna in contrappunto il racconto sur-reale delle sue marchette con donne ricche e disperate e la rievocazione di un’infanzia ter-ribile, un’agghiacciante sequenza di “quadretti familia-ri” che sembrano altrettante stazioni di una via crucis. (gv)

SAGGISTICA

CODICE OvvIOBruno Munari, Einaudi, 205 pagine, 46,00 euro

1111!

Bruno Munari è stato uno dei più poliedrici artisti italiani delle arti visive, della grai-ca e del design.

Questo libro, edito la prima volta nel 1971, è un modo per conoscere il genio dell’autore

1. INGrID DE KOK. Mappe del corpo (Donzelli)

2. A CurA DI pAOLA DèCINA LOMbArDI. La donna, la libertà, l’amore (Mondadori)

3. rEbECCA SOLNIT. Speranza nel buio (Fandango)

I consigli della redazione

SUDAFRICA.Febbraio 2008

LUD

OVIC

/EYED

EA/C

ON

TRAS

TO

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SPAGNA. Carlos Ruiz Zafón, El juego del ángel (Planeta). L’autore dell’Ombra del vento ritorna al Cimitero dei libri dimenticati con una nuova grande avventura di intrighi, amore, amicizia e tragedia nell’affascinante Barcellona degli anni venti.

ARGENTINA. Andrés Rivera, Estaqueados (Seix Barral). Rilessione sul recente passato in sei racconti, in cui si mescolano eventi e personaggi reali e ittizi. Andrés Rivera è nato a Buenos Aires nel 1928.

FRANCIA. Dominique Damamme, Boris Gobille, Frédérique Matonti e Bernard Pudal, Mai-Juin 68 (Ed. de l’Atelier); Philippe Artières, Michelle Zancarini-Fournel, 68: une histoire collective (1962-1981) (La Découverte). Due opere collettive sul maggio 1968.

GRAN BRETAGNA. Will Self, The butt (Bloomsbury). Satira della coscienza liberale occidentale post-Iraq: un uomo in vacanza con la famiglia in un paese non identiicato getta dal balcone un mozzicone di sigaretta e brucia il signore che sta di sotto. Il giorno dopo viene arrestato.

MAROCCO. Anouar Majid, A call for heresy. Why dissent is vital to islam and America (University of Minnesota Press). Majid sostiene che il mondo islamico e gli Stati Uniti sono entrambi in declino perché le ortodossie religiose, politiche ed economiche di entrambi i paesi hanno messo a tacere le loro voci più creative. Anouar Majid è nato in Marocco, ma ora vive negli Stati Uniti dove insegna alla University of New England e ha fondato Tingis, la prima rivista marocchino-americana.

STATI uNITI. William Styron, Havanas in Camelot. Personal essays (Random House). In questa raccolta postuma di saggi lo scrittore ripercorre alcuni importanti eventi della sua vita, segnati da libri importanti. Styron è morto nel 2006.

STATI uNITI. Paula J. Giddings, Ida. A sword among lions (Amistad). Biograia di Ida B.Wells (1862-1931) giornalista che si batté contro i linciaggi dei neri nel sud degli Stati Uniti.

STATI uNITI. Xujun Eberlein, Apologies forthcoming (Livingston Press). Raccolta di racconti di sapore autobiograico che parlano della rivoluzione culturale cinese.

delle macchine inutili, dei fos-sili del 2000 e dei libri illeggi-bili. Ma è anche un’interessan-te galleria di esperienze perso-nali grazie ai laboratori per bambini realizzati in tutto il mondo. Lo spirito di Munari è vivace e infantile, perché solo “se conserviamo lo spirito del-l’infanzia conserviamo la curiosità di conoscere, il piace-re di capire, la voglia di comu-nicare”. (pc)

berlino-mosca. un viaggio a piediWolfgang Buscher, Voland, 217 pagine, 14,00 euro

111!!

Da Berlino a Mosca, seguendo le orme di Napo-leone e delle trup-pe di Hitler. Verso est, nelle pianure

della Polonia e della Bielorus-sia, ino alla Piazza rossa, attra-verso quel pulviscolo di aned-doti, ricordi, leggende che la storia ha depositato nella memoria della gente di queste regioni. È il viaggio che rac-

conta Buscher, un’impresa solitaria e folle degna di un altro tedesco eccentrico e avventuroso, Werner Herzog. “Lei va a caccia di fantasie, è un illuso”, gli grida un soldato polacco. Buscher non se ne cura. Camminando, continua a guardare a oriente, mentre le persone che incontra hanno sempre lo sguardo rivolto nella direzione opposta, verso occi-dente. Molto più di un libro di viaggio, Berlino-Mosca è lo stralunato resoconto di un’av-ventura affrontata con una curiosità allo stesso tempo col-ta e aperta allo stupore. (ap)

FuMETTO

de luca. il disegno pensieroAutori vari, Black Velvet, 344 pagine, 24,00 euro

11111

“Le azioni corro-no, la pagina resta ferma”: così il maestro Gianni De Luca esprime-va il paradosso del

fumetto. All’opposto del cine-ma, che crea il movimento con il succedersi di un lusso d’im-percettibili immagini isse, nel fumetto il lettore percepisce la staticità. Non c’è lusso. De Luca, partendo da questa con-sapevolezza del lettore, all’in-terno di una sola gigantesca vignetta poteva proporre l’azione di Amleto spadaccino scomposta in tanti Amleti, come se fossero dei cloni. In questo modo suscitava un effetto di vertigine visiva che appartiene solo al fumetto, fondato sulla contemplazione dell’azione nel suo insieme, a differenza del cinema dove si è costretti a procedere fotogram-ma per fotogramma. Il dise-gnatore del commissario Spa-da è riuscito a fondere alta spe-rimentazione e fumetto popo-lare su giornali per ragazzi. Un miracolo analizzato dagli otti-mi saggi pubblicati in questo bel volume. ( fb)

internazionale 744, 16 maggio 2008 • 79

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DAL MONDOLe novità editoriali, a cura di Maria Sepa

Carlos Ruiz Zafón

FranciaL’Express, 7 maggio 2008

FicTion1. guillaume musso, Je reviens te chercher. Ventiquattro ore decisive nella vita di un uomo, viste da tre prospettive diverse.2. anna gavalda, la consolante. La morte di una vecchia conoscenza costringe un architetto parigino a riaffrontare il suo passato.3. stieg larsson, uomini che odiano le donne. Un giornalista indaga sulla scomparsa di una donna avvenuta molti anni prima.

non FicTion1. pierre desproges, Tout desproges. Antologia di invettive dell’umorista francese.2. marie-monique robin, le monde selon monsanto. La genesi di un impero industriale senza scrupoli.3. aldo naouri, Éduquer ses enfants. I consigli di un famoso pediatra su cosa fare quando i figli diventano troppo capricciosi.

La classiica

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centro autogestito pieno di vegani idealisti si è conquista-to un pubblico di tutto rispetto e ha partorito band notevoli, la più nota delle quali è il duo chitarra/batteria No Age. Dopo aver aiutato a scavare i solchi per le tubature del bagno dello Smell e aver rice-vuto ottime recensioni per il loro debutto Weirdo rippers, ora i No Age possono guardare oltre i conini cittadini e nazio-nali. Un disco cacofonico, fer-tile e ricco di suono, meno ruvido ma non più facile del precedente.–Amanda Petrusich, Pitchforkmedia

FOLK

RICHIE HAVENSNOBODY LEFT TO CROWN (Universal)

1111!

Qualcuno lo ricor-derà nel ilm Woodstock (è l’uo-mo barbuto con

l’abito africano che compare all’inizio del ilm). In apertura del più grande concerto della storia cantava Freedom, accompagnandosi con la chi-tarra che suonava in modo molto originale. Quarant’anni dopo Richie Havens prosegue, più discretamente ma senza deragliare, il suo cammino nelle terre del folk profetico, oggi ripopolate da Devendra Banhart e qualche altro segua-ce con i capelli lunghi e il caf-fettano. Come ai tempi del suo primo album (Mixed bag, 1967), al centro di tutto c’è lui, Richie, con la sua chitarra e le sue canzoni vagamente malin-

80 • internazionale 744, 16 maggio 2008

rOcK

ELLIOTT SMITHNEW MOON (Domino)

1111! Quando si ascol-tano gli album postumi di artisti che si sono suici-

dati in giovane età, è sempre forte la tentazione di calarsi nel ruolo del poliziotto, setac-ciando ogni traccia in cerca di un indizio su cosa possa essere andato storto. Ma è una tenta-zione a cui è sempre meglio

resistere, e in questo caso più che mai: affrontare New moon come fosse una partita di Cluedo non renderebbe giusti-zia a quello che, pur essendo solo una raccolta di demo rie-laborate, è indubbiamente un capolavoro. I 24 pezzi sono stati registrati tra il 1995 e il 1997, lo stesso periodo in cui hanno visto la luce Elliott Smi-th e Either/or. Alcune tracce sono migliori di quelle uscite negli album, cosa che si spiega con la nota riluttanza del can-

tautore a mettersi in mostra. Con Elliott Smith abbiamo perso un artista incommensu-rabile, ma quello che ha lascia-to è stupefacente, e New moon ne è un esempio particolar-mente spettacolare. –Andrew Mueller, Uncut

CHUCK BERRYjOHNNY B. gOODE: HIS COMpLETE ’50S CHESS RECORDINgS (Universal)

1111!

Chuck Berry non ha inventato il rock and roll, ma avrebbe potuto

farlo benissimo. Le sue canzo-ni hanno ispirato gente come Buddy Holly, i Beach Boys, i Beatles, gli Who, Bob Dylan, Bruce Springsteen, i Rolling Stones e chiunque altro si sia messo a suonare la chitarra elettrica. Un modo per capire la sua importanza è ripercor-rere la musica che ha prodotto negli anni cinquanta, in parti-colare nella seconda metà del decennio. Le canzoni di Berry sono ormai un pilastro del lin-guaggio pop. Basti ascoltare Maybellene, Sweet little six-teen, Johnny B. Goode, Carol o Brown eyed handsome man, tutte presenti nei quattro cd del cofanetto. Provate a met-tervi nei panni di un ragazzo che le ascolta per la prima vol-ta: vi verrà subito voglia di comprarvi una chitarra. –Joshua Klein, Pitchforkmedia

POP

NO AgENOUNS (Sub Pop)

1111!È da un pezzo che negli Stati Uniti non si vedeva qualcosa di simile

allo Smell di Los Angeles. Nel-l’era di internet, parlare di locale in qualsiasi campo che non sia l’agricoltura biologica può sembrare terribilmente provinciale. Eppure questo

Musica

1. MARTHA WAINWRIgHTI know you’re married but i’ve got feelings too (Drowned In Sound) 2. LE LUCI DELLA CENTRALE ELETTRICA. Canzoni da spiaggia deturpata (La Tempesta)

3. jORDI SAVALLpurcell: Fantasias for the viols (Alia Vox)

I consigli della redazione

1Psikotic, The Economist. “For everything that matters/ they got a journalist”: ovvio, è l’Economist. Se togliamo le

parti pallose sulle politiche regionali britanniche, le imperscru-tabili radiograie di fusioni e acquisizioni e la pornograia dei futures sul germoglio di soia, resta un grande settimanale di corrispondenze interessanti da tutto il mondo, con un solido apparato di commenti e analisi (senza dimenticare l’ironia bri-tish), che non insulta mai l’intelligenza del lettore. Per questo è bello trovare questi due secchioncelli militanti tendenza hip-hop, capaci di campionare i podcast dell’Economist online (con i loro arguti commenti sulla latulenza bovina) e un rudi-mentale beat alla Beastie Boys, per poi lanciare le proprie rime nerdcore sulla bellezza di tenersi informati. Cercasi rapper ita-liani di talento capaci di fare altrettanto con Internazionale (che in fondo l’Economist è un po’ come un Internazionale con i traduttori in sciopero). Il modello cui ispirarsi si trova su www.bellicosestudio.com/psikotic/psikotic.html.

2Mc Frontalot, Bizarro genius baby. Anche il nerdcore – il rap dei secchioncelli militanti – ha il suo padrino: è Mc

Frontalot, alias Damian Hess di San Francisco. Nel suo secon-do album (Nerdcore rising, 2007) celebra il proliferare del codi-ce genetico nerd, ipotizzando una creaturina che tra poppate e pannolini, trovi il tempo per aggiustare l’ultimo teorema di Fermat e quisquilie simili. Download da frontalot.com.

3Ali Dee and the Deekompressors, Go speed racer go. Nella frangia estrema dei nerd, poi, si collocano i geek:

quelli che spalmano il talento studioso su cose come i video-game, i manga, il cinema e la cultura pop in generale (compre-so chi si occupa di playlist, o Playlist 2.0 di Luca Sofri). Ecco, il nuovo della premiata ditta Matrix f.lli Wachowski, Speed racer, è un vero kolossal geek: storia a livello “fase orale”, ma effetti digitali visionari, una palette di colori mai vista, migliaia di cita-zioni e allusioni dai cartoni giapponesi alla storia dell’arte tut-ta. Così questo pezzo, che scorre sui titoli di coda: sigletta di anime giapponese anni settanta, ritmo reggaethon, vocine gia-maicane e giapponesi, synth a cascata, big beat a bomba. Trionfale e ossessivo, come il folle volo del vero geek.

PLAYLIST PIER ANDREA CANEI Giornalista

Nerdcore now

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THE FUTUREHEADSNew Age Club, Roncade (Tv), 16 maggio, newageclub.it; Il Covo, Bologna, 17 maggio, covoclub.it; The Rocket, Milano, 18 maggio, therocket.it

FUCK BUTTONSCircolo Arci Unwound, Padova, 18 maggio, unwound.it; Circolo degli Artisti, Roma, 19 maggio, circoloartisti.it; Circolo Magnolia, Segrate (Mi), 20 maggio, circolomagnolia.it

CASTANETSHana Bi, Marina di Ravenna (Ra), 17 maggio, bronsonproduzioni.com; Tetris, Trieste, 18 maggio, myspace.com/gruppotetris

THE FlESHTONESMusic Drome, Milano, 18 maggio, musicdrome.it

MORCHEEBATeatro Sociale, Mantova, 17 maggio, teatrosocialemantova.it; Auditorium, Roma, 18 maggio, auditorium.com; Smeraldo, Milano, 19 maggio, smeraldo.it

BIG JOHN BATES & THE VOODOO DOllZLegend 54, Milano, 18 maggio, legend54.com

THAO NGUyEN AND GET DOwN STAy DOwNTreESessanta, Gambettola (Fc), 19 maggio, myspace.com/treesessanta; Casa 139, Milano, 20 maggio, lacasa139.com

ORCHESTRA DI VIA PADOVAAlcatraz, Milano, 23 maggio, alcatrazmilano.com

THESE NEw PURITANSMicca Club, Roma, 20 maggio, miccaclub.com; Il Covo, Bologna 22 maggio, covoclub.it; Plastic, Milano, 23 maggio, 02 733 996

coniche. Cosciente del disin-canto che afligge il mondo, ma anche delle possibilità, intatte malgrado tutto, di riprendere in mano il proprio destino. –Francis Dordor, Les Inrockuptibles

ELETTRONICA

AKIKO KIyAMA7 yEARS (District of Corruption)

1111!L’incursione di Akiko Kiyama nel-la techno minima-le sembra uno stu-

dio sistematico dei contrasti.

Questa musicista di Tokyo, uno dei talenti più interessanti in circolazione, ha cominciato a comporre per combattere la depressione. “Nella vera bel-lezza c’è tristezza” scrive sulla sua pagina di MySpace. E in effetti un’aria di vaga malinco-nia pervade tutto il suo disco. Ma il suo album 7 years non è né un tranquillante né un anti-depressivo. Kiyama è molto brava a trasformare la sua astratta tristezza in una musi-ca tirata e movimentata. Ed è incredibile come in alcuni bra-ni la tensione riesca a scio-

gliersi in accattivanti melodie. –Alex MacPherson, The Guardian

JAZZ

BRIAN BlADE & THE FEllOwSHIP BANDSEASON OF CHANGES (Verve/Universal)

111!!

Tra il 1998 e il 2000, la Blue Note ha pubblica-to due cd della Fel-

lowship di Brian Blade. Eppu-re questo gruppo non ha avuto il seguito che merita. Sicura-mente è perché incide poco, ma la cosa non stupisce visto che Blade è uno dei batteristi più richiesti al mondo. Non solo Wayne Shorter, ma anche Bob Dylan, Emmylou Harris, Joni Mitchell e Herbie Han-cock hanno richiesto più volte i suoi servigi. Possiamo solo essere contenti, quindi, che abbia trovato il tempo per distillare poco meno di cin-quanta minuti di nuova musi-ca con i suoi compagni di sem-pre. E come se non bastasse Season of changes supera ampiamente ogni aspettati-va.–Frédéric Goaty, Jazz Magazine

OpERA

RUGGERO lEONCAVAllOPAGlIACCI. GIOVANNI MARTINEllI, lAwRENCE TIBBETT, QUEENA MARIO, GEORGE CEHANOVSKy, direttore: VINCENZO BEllEZZA (Walhall)

1111!

Questa matinée newyorchese del 1934 con Marti-nelli e Tibbett è

almeno al livello del loro leg-gendario Otello. “Attenti a non partire troppo forte”, dice un adagio teatrale, “perché alla ine il pubblico vuole il san-gue”. Ecco una performance che fa a pezzi la regola, restan-do sempre al cento per cento della tensione drammatica. –Mike Ashman, Gramophone

Tutti conoscono l’impegno di Bono nei confronti dell’Afri-ca. E in qualche modo In the name of love: Africa celebra-tes U2 può essere visto come un ringraziamento. Grandi

voci delle musiche africane – il plurale è d’obbligo quando si parla della ricchezza musicale del continente nero – si sono riunite per rendere un tributo al gruppo irlandese: 12 canzoni senza grandi sorprese (la metà prese da The Joshua tree e Achtung baby), eseguite però con grande passione.

Angelique Kidjo, dal Benin, apre il disco con un tocco rilas-sato nella multilingue Mysterious ways. Poi il maliano Vieux, iglio di Ali Farka Touré, converte Bullet the blue sky in un ipno-tico blues del Sahel, il senegalese Cheikh Lô si serve del tama per creare una versione personale di I still haven’t found what I’m looking for, Keziah Jones spinge One sui territori del funk e della samba, mentre Les Nubians trascinano With or without you sulla pista da ballo. C’è anche Sunday bloody sunday, che la kora del guineano Ba Cissoko riempie di sentimento.

Parte dei ricavi andranno al Global fund, che combatte aids, tbc e malaria in 136 paesi. Ma il disco è anche un modo per far scoprire al grande pubblico la musica di alcuni tra i migliori artisti africani.–C. Galilea, Babelia, El País

Un abbraccio agli U2Alcuni tra i più grandi artisti africanicelebrano la musica del gruppo irlandese

DALL’AFRICA

DAL VIVO

Cheikh Lô

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82 • internazionale 744, 16 maggio 2008

IL RAGAZZO PIÙ INTELLIGENTE DEL MONDODomenica 18 maggio, ore 16.00Cult

Akrit Jaswal, nato in un picco-lo villaggio indiano, ha il quo-ziente d’intelligenza più alto mai registrato in un bambino della sua età (12 anni). È un genio della medicina. OBIETTIVO MUSSOLINILunedì 19 maggio, ore 23.00History Channel

Ultima puntata della docuic-tion su Mussolini: dalla cadu-ta della repubblica di Salò a piazzale Loreto.

FIGLI DELLA PROVETTAMartedì 20 maggio, ore 22.00National Geographic Channel

Dopo aver avuto un iglio con una rara malattia genetica, una coppia australiana ha concepito un embrione in pro-vetta per usarlo come donato-re. Un documentario che ha fatto discutere molto.

CARNE DA MACELLOMartedì 20 maggio, ore 23.00History Channel

Secondo episodio della Storia proibita delle guerre italiane. Lo stato maggiore italiano è convinto che la prima guerra mondiale durerà pochissimo. Un errore di valutazione che sarà pagato a caro prezzo.

LA VERA STORIA DI RAIN MANMercoledì 21 maggio, ore 23.00Cult

La storia di Kim Peek, l’uomo che ha ispirato il ilm con Dustin Hoffman, dotato di un cervello fuori dall’ordinario.

LA RAGAZZA DEI ROSPIGiovedì 22 maggio, ore 21.00Sky Cinema 1

Primo episodio della serie tv tratta dal ilm Quo vadis, baby?, di Gabriele Salvatores. Protagonista la detective pri-vata Giorgia, interpretata da Angela Baraldi. La regia della serie è di Guido Chiesa.

LA LEGGENDA DI NICOLINO MATERAGiovedì 22 maggio, ore 23.00Cult

In due puntate (la seconda il 29 maggio) la storia di Nicoli-no Matera, ex manager di Claudio Villa e produttore di ilm hard, che a settant’anni tenta la carriera di cantante.

UNA VITA DA GAYVenerdì 23 maggio, ore 21.00Cult

Quarant’anni fa essere omo-sessuali in Gran Bretagna era contro la legge. Le testimo-nianze di alcuni ragazzi di allora.

N icki Taylor è una giornalista britannica molto particolare. Per i suoi reportage sperimenta tutto in prima persona. L’an-

no scorso ha realizzato un’inchiesta sugli effetti dell’alcol. Ha passato un mese a bere come una spugna mentre la troupe ilmava tutto, gli effetti su di lei, sul suo corpo, Nicki ubriaca che vomitava nel water. Poi, per un altro reportage, ha passato sei mesi senza lavarsi. Questa volta, per un reportage su Bbc 3, Nicki ha deciso di occuparsi della canna-bis, dalla produzione al consumo.

Taylor spiega che i suoi servizi hanno sem-pre un valore “pedagogico”. Alla ine la giorna-lista passa la parola a medici ed esperti che

spiegano perché assumere droga è pericolo-so. Una giovane specialista illustra tutti i rischi che si corrono a fumare l’erba. Per Nicki, mostrare gli effetti che droghe e alcol hanno sul suo corpo è suficiente a dissuadere i gio-vani dal seguire il suo esempio.

Si è scatenata un’enorme polemica. In molti sostengono che vedere Nicki, giornalista e madre di tre igli, consumare droga è un modo per legittimare i giovani a fare come lei. Di fronte al vespaio suscitato dalla trasmissio-ne, molte associazioni che si battono contro l’uso degli stupefacenti hanno fatto pressione sulla Bbc per impedire le repliche. Per ora il canale non ha cambiato i suoi programmi.

REALITY PASCAL PETIT Giornalista

In prima persona

Coney Island… et déménagent les manègessabato 17 maggio, 18.05 Il parco di divertimenti di New York rischia di chiudere i battenti. Ernest Hemingwaydomenica 18 maggio, 20.45Dopo il ilm Per chi suona la campana, in onda il documentario La malédiction des Hemingway (22.55) sulla tendenza al suicidio nella famiglia dello scrittore.

Ombres au paradislunedì 19 maggio, 20.15Brecht, Schönberg, Mann e altri. Negli anni trenta a Los Angeles trovano rifugio dal nazismo molti intellettuali tedeschi e austriaci. Les voyageurs de l’espacemartedì 20 maggio, 20.15La vita quotidiana sulla Mir.

Le dernier combat d’Ariel Sharonmercoledì 21 maggio, 21.00Nel 2004 Sharon si pronuncia per il ritiro dei coloni israeliani da Gaza. Les 24 heures du cinémagiovedì 22 maggio, dalle 5.00Seconda maratona di cinema, in occasione del festival di Cannes, con ilm di Hawks, Sakamoto e Fellini.

Tracksvenerdì 23 maggio, 22.20Speciale dedicato al regista di Hong Kong Johnny To.

Tv

1. LA COMMEDIA DEL POTERE di Claude Chabrol (Sky cinema mania, 17 maggio, 00.20). Giudici d’assalto e industriali vicini alla politica: sul piano delle motivazioni psicologiche è difficile dire chi è peggio. Una grande Isabelle Huppert.

2. LA SPOSA TURCA di Fatih Akin (Cult, 17 maggio, 02.00). Turchi in Germania: sofferenza, solitudine e contraddizioni culturali. Potente.

3. FRAGOLE E SANGUE di Stuart Hagmann (Raisat cinema, 20 maggio, 21.00). L’occupazione dell’università statunitense nel ’68: film di maniera, ma non la scena della carica di polizia, del tutto attuale.

Film da non perdere

Sette giorni su Arte

Quo vadis, baby?

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6-8/6Claudio Palmisano“Fotograf ia digi ta le”

20-22/6Claudio Palmisano“Photoshop avanzato”

24-29/6Samantha Appleton“Conf l ic t photography”

30/6-4/7Stefano De Luigi“I classici e gli outsiders”

Stampa f ine artImage edit ingMult imedia

8/5-5/6“At traverso lo specchio”Omaggio adAlexandra Boulatmartedì-sabato10.00 /13.30-15.00/18.00venerdì aperto f inoal le 20.00

6-11/7Jan Grarup“Focus on a feature: Darfur ”

13-18/7Pep Bonet“The evolut ion of aphotographic language”

19-24/7Yur i Kozyrev“War photography”

10b PhotographyVia S. Lorenzo daBrindisi 10b (Garbatella)00154 Rome, ItalyTel: +39 0697848038Fax. +39 067011853

10 B PHOTOGRAPHYLABORATORY

www.10bphotography.com

10 B PHOTOGRAPHYWORKSHOPS 10 B PHOTOGRAPHYGALLERY

10B GALLERY PRESENTAAttraverso lo specchio

© Alexandra

Boulat/VII/GraziaNeri

Omaggio a Alexandra Boulat, a cura di Deanna Richardson e Francesco Zizola

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Il rebusesistenzialeIl conformista di Bernardo Bertolucci, distribuito nelle sale britanniche dal British ilm institute,è un’opera sull’identità dell’intellettuale moderno

TIM PARKS, THE GUARDIAN, GRAN BRETAGNA

Vedendo il conformista si ri-mane affascinati e sconcertati. Sot-to questo aspetto, Bernardo Berto-

lucci si dimostra meravigliosamente fe-dele non solo al romanzo di Alberto Mo-ravia, da cui è tratto il ilm, ma anche allo spirito di tutta l’opera dello scrittore, do-ve gli eventi più vengono descritti con precisione e lucidità, più appaiono in-comprensibili.

Marcello Clerici, agente segreto del fascismo, va a Parigi per iniltrarsi in un movimento dissidente guidato dal suo vecchio professore di ilosoia, Luca Qua-dri. Ma durante il viaggio riceve nuovi ordini: dovrà uccidere il professore. E poiché la bella moglie di Quadri, Anna, è sempre accanto al marito, ecco che an-che lei rischia la vita. La scena è pronta per un doppio omicidio.

Eppure le nostre reazioni non sono mai quelle che ci si aspetterebbe da un simile intreccio. Non c’è nessun tentativo di evocare la minaccia fascista. Non ci preoccupiamo mai del destino del pro-fessor Quadri, né siamo invitati a versare lacrime per i due amanti in pericolo: An-na sembra legata al marito, ma è anche pronta a lirtare con Marcello e sua mo-glie Giulia. Accanto o, meglio, sovrappo-sta alla trama del thriller politico si svol-ge una commedia sentimentale alla fran-cese. Marcello ha sposato la frivola Giulia e ha intenzione di portare a termine la sua missione durante la luna di miele. La follia onirica di questo abbinamento non è enfatizzata, come se assassinare i dissi-denti durante la luna di miele fosse la cosa più naturale al mondo: Parigi, dopo tutto, è la città dell’esilio politico e dell’amore romantico.

Durante il viaggio in treno da Roma Giulia confessa al marito una lunga rela-zione con un uomo di sessant’anni amico di famiglia. Poi usa tutte le sue arti sedut-

tive per attirare il marito a letto e, dopo aver conosciuto Quadri, sembra attratta dalle carezze lesbiche di Anna, che a sua volta reagisce in modo ambiguo alle ag-gressive avance di Marcello. E tutto que-sto il primo giorno a Parigi.

Ma anche in questo caso, lo spettatore non reagisce con i sorrisi e le trepidazioni tipiche delle commedie sentimentali. Il mondo che Bertolucci crea per i suoi per-sonaggi è splendido e lussuoso, ma anche minaccioso e oppressivo. Gli scambi più futili sono gravidi di premonizioni. Viene da chiedersi a ogni istante in che tipo di storia siamo capitati.

Una falsa pistaCome molti romanzi italiani scritti subi-to dopo la seconda guerra mondiale, Il conformista di Moravia mostra, per così dire, documenti falsi. Sia nel titolo sia nelle rilessioni laceranti che si dipanano per trecento pagine, il romanzo si propo-ne di offrire un’analisi socio-psicologica delle radici del fascismo. Vessato dai compagni di scuola perché effeminato, il giovane Marcello viene “salvato” da Lino, un autista omosessuale, che poi cerca di violentarlo. Ma il ragazzo riesce a impos-sessarsi della pistola di Lino, comincia a sparare all’impazzata e, intenzionalmen-te o accidentalmente, colpisce l’uomo. Da quel momento in poi, Marcello co-mincia a sentirsi profondamente aliena-to ed è il suo desiderio di normalità che lo porta all’adesione al fascismo e a un ordi-nario matrimonio borghese: alla base del fascismo, dunque, c’è il timore della di-versità.

Per quanto convincente possa sem-brare, quest’interpretazione ci impedisce di capire a fondo il romanzo di Moravia o il ilm di Bertolucci. La critica ha riempi-to un’ininità di pagine nel tentativo di identiicare con chiarezza la normalità a

cui aspira Marcello. Moravia e Bertolucci vogliono forse dirci che il fascismo rap-presenta la normalità? Oppure l’ironia della storia sta nel fatto che Marcello cer-chi la normalità in un movimento che rappresenta il culmine dell’anormalità e che gli chiederà di ripetere proprio l’azio-ne a cui tenta di sottrarsi, l’omicidio? Quanto è normale poi una giovane mo-glie che non sembra sconvolta di essere stata stuprata a quindici anni né sorpre-sa che il marito in luna di miele non ab-bia voglia di fare l’amore né infastidita quando una donna quasi sconosciuta le infila una mano tra le cosce? Stefania Sandrelli, nella parte di Giulia, è così af-fascinante nel suo ruolo di ragazza su-periciale che, normalità o no, non pos-siamo che restarne soggiogati. Accanto a lei Jean-Louis Trintignant, Marcello, ap-pare splendidamente truce, il viso teso, la mascella contratta. Si guarda intorno con espressione infelice, senza riuscire a godersi né la moglie né la pistola che por-ta con sé. Presto cominciamo a preoccu-parci più per lui che per le sue potenziali vittime.

Un personaggio misterioso ci fornisce un indizio per capire dove si nasconde la vera tensione della storia. Dovunque va-da, Marcello è pedinato da un altro agen-te, Manganiello (Gastone Moschin), in-feriore per rango e cultura, ma con molta

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Cultura

EvErEtt/Contr

asto

Jean-Louis Trintignant e Stefania Sandrelli nel Conformista

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più esperienza su come spiare e uccidere. Fa da autista per l’apatico Marcello, gli trasmette gli ordini, registra i suoi pro-gressi, lo sollecita a smettere di perder tempo e a passare all’azione. “L’azione deve essere rapida e decisiva”, afferma a un certo punto, anche se sembra rasse-gnato al fatto che Marcello non farà pro-prio nulla.

È qui il nucleo della storia. Malgrado tutti i suoi piani, Marcello come spia è un incapace: si limita a osservare e a rilette-re. Se la luna di miele e un omicidio han-no qualcosa in comune è che sia lo sposo sia l’assassino sono profondamente coin-volti. Marcello ha scelto proprio per que-sto entrambi i ruoli, ma non riesce a svol-gerli. Perché?

Moravia crea la sua atmosfera di per-plessità paralizzata ricorrendo a un per-sonaggio iperconsapevole che medita ossessivamente su tutte le situazioni che poi, immancabilmente, si sottraggono a ogni spiegazione. Trasferendo la storia sul grande schermo, Bertolucci ha dovu-to trasmettere le elucubrazioni sofferte di Marcello in pochi intensi dialoghi. Ma ciò che rende Il conformista un vero ca-polavoro è l’uso del colore, della cinepre-sa e della sceneggiatura per ottenere un senso di meraviglia e di perplessità che si lascia alle spalle, a grande distanza, l’edi-icio letterario di Moravia.

Quasi ogni scena è ripresa su sfondi ricchi di colore o di chiaroscuri, strana-mente claustrofobici nella loro simme-tria squadrata. Spesso l’inquadratura è leggermente inclinata, storta, e anche se i movimenti della cinepresa restano ag-graziati e il montaggio luido, insinuano costantemente nello spettatore un senso di insicurezza. Eretto e rigido in questo mondo sconcertante, Marcello si ritrova a spiare le persone attraverso vetri sme-rigliati o cancellate liberty. Più gli altri sono separati da lui, più Marcello li issa. Anche Dominique Sanda, teneramente femminile nei panni di Anna, eppure ca-pace di fumare e camminare come un uomo, offre un’interpretazione profon-damente enigmatica. La narrativa di so-lito ci ricorda che l’identità nasce dall’in-terazione: ciascun personaggio scopre se stesso, man mano che viene coinvolto dagli altri nel dramma. Questo ilm ci fa capire quanto sia dificile essere se stessi quando tutti quelli che ci circondano so-no così imprevedibili. Spesso, i volti sono illuminati di blu profondo, rosso o giallo, quasi a suggerire intensi cambiamenti di umore. Privo di una luce naturale, Mar-cello, teso com’è verso l’obiettività, si sen-te perso. Il culmine visivo di Bertolucci e del direttore della fotografia, Vittorio Storaro, viene raggiunto in una sala da ballo con inestre colorate di blu incorni-ciate da brillanti inissi rossi e bianchi. Qui Giulia e Anna prima si abbandona-no a un tango deliziosamente lento, poi conducono la folla in una catena dioni-siaca che circonda Marcello, più che mai sconvolto.

Azione o sogno d’azione?Senza mai cedere al surreale o al ridicolo, alla Buñuel, la trasposizione di Bertoluc-ci sottolinea con forza gli elementi esi-stenzialisti e assurdi del romanzo di Mo-ravia. “Non è il tuo paese o le tue idee che tradisci, se rinunci alla missione”, avverte Manganiello, “ma te stesso”. Come a dire: convinzioni a parte, se non agisci, non puoi avere un’identità. E combinando casualmente sesso e politica, riassume: “Chi non fotte è fottuto”.

Cosa dobbiamo farcene di questo con-siglio? Molti romanzi italiani che rac-contano il periodo fascista hanno dei protagonisti la cui inerzia nella lotta po-litica è oscuramente rispecchiata dal-l’esclusione dalla vita sessuale. È il desti-no dell’impotente Bell’Antonio di Bran-

cati (portato al cinema da Bolognini con Mastroianni), dell’eroe di Pavese in La casa in collina, del narratore del Giardi-no dei Finzi-Contini di Bassani (Lino Capolicchio nel ilm di De Sica) e ancor di più di Giovanni Drogo nel Deserto dei tartari di Buzzati (Jacques Perrin nel film di Zurlini con Vittorio Gassman). Tutte queste storie scavano sotto il con-litto politico per arrivare a una divisione più essenziale tra quelli che si gettano nell’azione, non importa da che parte, e quelli che ne restano ai margini, perples-si e paralizzati. Ma questi personaggi so-no semplicemente degli intellettuali in-decisi? Sono incarnazioni di quello che sosteneva Dostoevskij in Memorie dal sottosuolo, cioè che “più un uomo è con-sapevole, più rischia di essere un topo”? Sono forse dei fobici, attirati ma anche intimoriti dall’azione? Oppure degli ar-chetipi del paciista moderno? Certo, il loro riiuto istintivo delle brutali esigen-ze del conflitto è quello che accende la nostra simpatia nei loro confronti.

Bertolucci ha girato Il conformista nel 1970, poco dopo le discussioni avute con Godard sul movimento del ’68: il nume-ro di telefono che Marcello compone per contattare Quadri a Parigi è quello di Go-dard, quasi che Bertolucci abbia voluto piazzare il suo maestro all’interno del conlitto, riservandosi una posizione de-filata e contemplativa. In realtà, tutta l’opera di Bertolucci è incentrata sul rap-porto spesso torbido tra vita privata e impegno politico.

Ma forse è proprio quando Il confor-mista prova a esplorare le tematiche esi-stenziali che riesce a dire qualcosa di in-teressante sul fascismo: per esempio, che la vita è talmente sorprendente che ci sa-rà sempre chi è disposto a ricorrere alla violenza per ricondurla all’ordine. Oppu-re che il fascismo, a differenza del nazi-smo, è stato più spesso un sogno d’azio-ne, invece che azione vera e propria. In ogni caso con la sua densità visiva, te-stuale e simbolica, la sua musica che pas-sa dai toni più sinistri al vaudeville, e il suo intreccio sempre più impenetrabile man mano che si spinge verso il finale violento, Il conformista rimane un enig-ma affascinante. E a un ilm non si può chiedere niente di meglio. p rb

Tim Parks è uno scrittore britannico. Vive a Verona. Il suo ultimo libro è Bontà (Il Saggiatore 2007).

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ECONOMIA E LAVORO

Il piccolo tempio di mahadev che domina il villaggio di Chakan, a tren-ta chilometri dalla città di Pune, nello

stato indiano del Maharashtra, è sempre più fuori posto. Fino a pochi anni fa la sua cupola dominava un altopiano vuo-to. Oggi su questa distesa lavorano più di 2.500 persone: qui, infatti, entrerà in funzione nel 2009 una fabbrica della Volkswagen che produrrà 110mila auto-mobili all’anno. Un terreno vicino ospi-terà uno stabilimento dell’indiana Bajaj e della francese Renault, che fabbriche-ranno auto economiche. E a dieci chilo-metri di distanza, a Talegaon, sorgerà un impianto della General Motors in grado di produrre 120mila automobili all’an-no.

La zona di Pune è una delle regioni a più rapida industrializzazione del mon-do. Gli impianti annunciati ino a oggi rientrano in un piano di investimenti di tre miliardi di euro e garantiranno una produzione annua di 1,8 milioni di auto-mobili. Accanto alla fabbrica della Bajaj e della Reanult, la Daimler ha aperto un impianto di assemblaggio per la Merce-des. Il costruttore di jeep indiano Mahin-dra & Mahindra ha speso 630 milioni di euro per una nuova fabbrica .

“Non eravamo pronti a un boom di queste dimensioni”, spiega Chetan Patil, dirigente della Maharashtra industrial development corporation (Midc), un’agenzia governativa per lo sviluppo delle infrastrutture. “In due anni abbia-mo ceduto 770 ettari di terra alle case automobilistiche”. Entro il 2010 il setto-re delle auto nella regione darà lavoro a 25mila persone. Tutti i 112 lotti di terre-no creati dall’Midc sono stati venduti e ora l’agenzia vuole comprare altri cin-quemila ettari.

Ville sfarzoseL’acquisizione della Jaguar e della Land Rover da parte della Tata Motors ha fatto aumentare le quotazione dell’industria automobilistica indiana. A gennaio, inoltre, il lancio della Tata Nano, la ge-niale auto da 1.650 euro, ha reso famosi gli ingegneri del subcontinente. Il cam-

biamento nella zona è già evidente. I tra-dizionali villaggi del Maharashtra stan-no lasciando il posto a ville sfarzose in cemento. Ma Ganesh Yelwande, un agri-coltore locale, sostiene di averci guada-gnato poco. “La gente non ama vendere al governo. è sotto pressione e cede i ter-reni a un prezzo molto basso. Ci guada-gnano solo i mediatori”. Anche Yelwande, tuttavia, ammette che nella zona le infra-strutture stanno migliorando. E Thomas Dalhem, il responsabile della futura fab-brica Volkswagen, prevede “un grande

sviluppo. Tutto il nostro staff si trasferirà qui. Sorgeranno scuole e supermercati”.

La principale attrattiva esercitata dall’India sulle case automobilistiche è la dimensione del suo mercato potenzia-le. La Volkswagen e la General Motors ritengono che il paese supererà la Cina come mercato automobilistico a più ra-pida espansione del mondo. A marzo, infatti, la vendita di vetture per passeg-geri è aumentata del 12,7 per cento ri-spe tto a l l ’anno precedente . L a Volkswagen prevede che entro il 2010

l’India diventerà il sesto mercato auto-mobilistico a livello globale. E sull’onda della Nano, Volkswagen, Renault-Bajaj, Honda e Toyota stanno progettando il lancio di piccole utilitarie adatte al red-dito dei consumatori indiani.

Tra i vantaggi offerti dalla regione c’è la posizione di Pune, che si trova a metà strada tra le principali città dell’India – New Delhi, Bombay, Bangalore e Ma-dras – e ha un grosso bacino di manodo-pera qualiicata a basso costo. Ogni anno la Bajaj assume 120 persone, in gran

parte ingegneri, che ricevono 190 euro al mese. Anche i costi per la realizzazione di una fabbrica sono tra i più bassi al mondo. La Volkswagen, per esempio, sborserà 593 milioni di euro per mettere in piedi il suo impianto. I risparmi mag-giori derivano dalla manodopera: un operaio edile indiano costa 1,60 euro all’ora. è per questo che la General Mo-tors vuole fare di questo paese il centro di produzione delle sue auto di piccole e medie dimensioni destinate ai mercati emergenti, mentre la Hyundai aprirà qui l’unica fabbrica del suo nuovo modello 120 anche se quest’auto in India non sa-rà in vendita. p sv

DIB

YAN

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SARKAR (

AFP

)

HOSKOTE, INDIA. L’impianto della casa automobilistica svedese Volvo

Anche l’India ha la sua Motor cityNello stato del Maharashtra l’industria dell’auto è in rapida crescita. Finora i maggiori marchi del settore hanno investito tre miliardi di euro

RICHARD ORANGE, THE INDEPENDENT, GRAN BRETAGNA

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russia

Paradossorussothe economistGran Bretagna• 15 maggio 2008

N onostante la domanda di petrolio sia in continuo

aumento e il prezzo del greggio abbia raggiunto cifre senza precedenti, l’industria petrolifera russa, la seconda al mondo, è in dificoltà. Petrolio e gas sono le risorse su cui il presidente uscente Vladimir Putin ha basato la stabilità del suo potere e su cui punta anche il nuovo capo di stato, Dmitrij Medvedev, che cerche-rà di dare continuità alla politica del Cremlino. L’arrivo dei petrodollari a Mosca, scrive l’Economist, ha creato un senso di sicurezza nella popolazione. è servito a dimenticare i problemi econo-mici del paese e ha restituito alla Russia un ruolo di primo piano sulla scena internazio-nale. I giacimenti di greggio russi sono molto ricchi: secon-do l’azienda petrolifera britan-nica British Petroleum si tratta della settima riserva mondiale per grandezza. Il problema è nel sistema iscale imposto dal governo alle compagnie che estraggono il greggio. Le tasse altissime, che Mosca non vuole ridurre se non in misura marginale, scoraggiano l’attività estratti-va e produttiva. Oggi i ricavi della vendita di petrolio e gas rappresentano il 30 per cento del pil russo, ma con questo atteggiamento Mosca rischia di strozzare la sua gallina dalle uova d’oro.

croazia

Lobbydannoseferal tribuneCroazia• 8 maggio 2008

In croazia la lobby dei commercianti e delle

banche esercita sul governo un’inluenza troppo forte. Al punto che, sottolinea il setti-manale indipendente Feral Tribune, il governo si sta orientando sempre più verso un’economia basata sui servi-

zi. Una delle conseguenze peggiori di questa scelta è l’enorme deicit della bilancia commerciale, dovuto tra l’altro al fatto che il governo mantiene alto il cambio della moneta nazionale, la kuna. Chi ricava i vantaggi più grossi da questa situazione sono i monopolisti che ricevono sussidi dallo stato, gli impor-tatori, gli istituti inanziari e le iliali locali delle multinazio-nali straniere. Grazie alla politica economica di Zagabria le importazioni sono particolarmente redditizie. Ne fanno le spese le esportazioni e quindi la produzione nazio-nale. Questo contesto, inoltre, tiene lontano dal paese gli investitori stranieri che hanno progetti industriali seri. La situazione della Croazia potrebbe peggiorare nei prossimi anni, perché le economie dei paesi vicini,

come la Serbia e la Bosnia, sono sempre più competitive. L’unica via di uscita è l’adozio-ne di una politica iscale e monetaria che stimoli la produzione locale e freni le importazioni e la speculazione inanziaria.

grecia

Atenesi espandeexpressGrecia• 8 maggio 2008

Tra grecia e Russia è tempo di feeling politico,

suggellato dalla visita di Kostas Karamanlìs al presi-dente uscente Vladimir Putin a marzo. Ma si sono intensii-cati anche i legami inanziari tra i due paesi. Il viceministro degli esteri greco Petros Dukas andrà in missione a Mosca con un gruppo di imprenditori. Nell’intervista al quotidiano economico Express, Dukas dichiara che le imprese russe investiranno molto nell’area balcanica. Nel settore dell’energia, per esempio, la Syntez farà trivel-lazioni in Macedonia per l’estrazione di petrolio. Inoltre il ministro ha reso noto che la Corfù Garden, un’azienda con capitale russo che investe nel turismo, ha comprato il Club Med di Corfù. Nel campo dell’alta inanza, invece, una società del gruppo Russian Gate vuole costituire dei fondi per investire sul mercato greco. Da parte sua la Grecia è presente in Russia nel settore edilizio: i capitali greci, infatti, inanzieranno i lavori a Sochi, sede delle Olimpiadi invernali del 2010, e le opere di collega-mento tra il mar Nero e il porto del Pireo. I prossimi obiettivi del governo, conclude Dukas, saranno gli investi-menti in Angola, Ghana e Nigeria. Dopo la campagna di Russia, per la Grecia comince-rà quella d’Africa.

internazionale.it/cartoline

G li immigrati usciti dalle carceri italiane grazie all’indulto del 2006 sono ottomila. L’indulto è stato un provvedimento generalizzato, in cui non si è tenuto

conto del grado di recidività delle persone scarcerate. Inoltre l’Italia ha mandato all’esterno un segnale di lassismo proprio mentre aumentavano i lussi di immigrati verso il nostro paese. Questo atteggiamento potrebbe aver aumentato il numero di immigrati in arrivo legati alla criminalità.

I dati disponibili mostrano che dopo l’indulto una serie di reati ha registrato una vera e propria impennata. Per esempio sono aumentate del 70 per cento le rapine in banca. Lo stesso discorso vale per diverse tipologie di reati. Oggi gli immigrati sono sovrarappresentati nella popolazione di persone denunciate o arrestate per reati di vario tipo: per i furti generici costituiscono il 70 per cento dei denunciati, per i furti in abitazione sono il 50 per cento, per le violenze sessuali il 40 per cento.

Oggi senza l’indulto ci sarebbe probabilmente più tolleranza verso gli immigrati. Battersi perché ci siano più carceri, perché i processi siano più brevi e perché arrivino degli immigrati che si possono inserire più facilmente nel nostro tessuto sociale, signiica proteggere gli italiani più poveri e gli stessi cittadini stranieri che vivono già in Italia. Sono loro le prime vittime di questa criminalità importata. (con lavoce.info)

IL NUMERO TITO BOERI Economista

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ECONOMIA E LAVORO

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SCIENZA E TECNOLOGIA

Charles moore conserva le sue scoperte più belle in un armadio in fondo al suo giardino davanti

all’oceano Paciico, a Long Beach, in Ca­lifornia. È da dieci anni che a bordo di Alguita, il suo catamarano, dà ostinata­mente la caccia a una preda molto parti­colare, la plastica inita nell’oceano. E ne trova di tutti i tipi: “Gli oggetti di plasti­ca che preferisco sono i manici di om­brello”, dice sorridendo. Ha anche una gran quantità di spazzolini da denti, penne, recipienti deformati dai morsi degli squali. Un pallone a forma di cuo­re. Dei caschi.

Ma gli oggetti identiicabili sono po­chi, perché nessun oggetto rimane intat­to a lungo. Il grosso della collezione è meno spettacolare, ma più preoccupan­te. Sono particelle più piccole di un gra­nello di sabbia, i resti del deterioramen­to degli oggetti. Ci sono anche tonnellate di granulati plastici, che servono da ma­teria prima all’industria.

Moore ha appena scaricato dall’Al­

guita 50 campioni di “zuppa di plastica” pescati al largo. Questo suo interesse è nato per caso. Nel 1997, tornando da una regata tra Los Angeles e Honolulu, deci­se di prendere una rotta normalmente evitata dai marinai perché attraversa una zona di alta pressione, senza vento, dove le correnti si avvolgono in senso orario: il vortice del nord Paciico. “Pas­savano i giorni e non vedevo un delino, una balena, un pesce. Vedevo solo plasti­ca”, ricorda. Così si prese a cuore questo luogo sperduto. Creò una fondazione e, con l’aiuto di scienziati specializzati nell’inquinamento marino, mise a pun­to un metodo di quantiicazione dei ri­iuti, prima di tornare nella zona.

I primi risultati sono stati pubblicati sul Marine Pollution Bulletin nel 2001. L’équipe ha contato mediamente 334.271 frammenti di plastica per chilo­metro quadrato (ino a un massimo di 969.777 per chilometro quadrato), per un peso medio di cinque chili per chilo­metro quadrato. La massa di plastica era

sei volte più elevata della massa di planc­ton raccolta. Il vortice intrappola i fram­menti. Il sito dove vengono effettuati i prelievi, grande quanto il Texas, è chia­mato Eastern garbage patch, “la discari­ca dell’est” del Paciico. Qual è la super­ficie totale della “discarica”? “Non lo sappiamo”, spiega Moore. “L’acqua è sempre in movimento, l’inquinamento è difficile da misurare. Ho percorso 150mila chilometri a bordo dell’Alguita nel nord del Pacifico e non ho trovato altro che plastica, ovunque”.

Un materiale indistruttibileI frammenti prelevati durante l’ultimo viaggio dell’Alguita saranno selezionati e classiicati in 128 categorie, in funzio­ne del tipo (ilo, pellicola, spuma, fram­mento, granulato), della dimensione e del colore. Moore non ha una formazio­ne da scienziato, ma il suo lavoro è molto apprezzato dagli esperti, perché si spin­ge dove nessun altro va, nel bel mezzo dell’oceano. “Ha dimostrato che questo inquinamento esiste, è un pioniere”, commenta Anthony Andrady, esperto in polimeri del Research triangle institute. Secondo Andrady, l’impatto di questo tipo d’inquinamento è sottostimato.

Nel 2006 nel mondo sono state pro­dotte circa 245 milioni di tonnellate di plastica. Una parte, dificile da quantii­care, raggiunge il mare, soprattutto tra­mite i iumi e i sistemi di scarico delle acque urbane. Senza dimenticare i riiu­ti abbandonati sulle spiagge. Circa l’80 per cento della plastica trovata in mare viene dalla terraferma. Solo il 20 per cento dalle imbarcazioni.

La plastica ha tante qualità. Costa po­co ed è molto resistente. Troppo, quando sfugge ai circuiti di raccolta e smalti­mento dei riiuti. In natura sembra indi­struttibile. “Nessuno sa quanto tempo ci mette a scomparire del tutto”, spiega Andrady. Può frammentarsi al punto da trasformarsi in polvere, ma rimane lì. Nessun microrganismo è in grado di de­gradarla completamente. Tutta la plasti­ca che si è dispersa nell’ambiente da quando si è cominciato a produrla c’è ancora”. Pulire l’oceano è impossibile. “Sarebbe come passare al setaccio il Sahara”, sostiene Moore. L’unica solu­zione, afferma, è sviluppare la plastica riciclabile, biodegradabile, attualmente poco diffusa, e cambiare le nostre abitu­dini: “Dovremmo usare la plastica solo per gli oggetti che davvero vogliamo far durare”. p oda

CANADA

STATIUNITI

PAPUANUOVA GUINEA

Isole Hawaii(STATI UNITI)

RUSSIA

Areaapprossimativadelladiscarica

Areaapprossimativa della discarica

GIAPPONE

Oceano Pacifico

Vortice del nord Pacifico

Vortice del nord Pacific

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La pattumiera dell’oceano PacificoDa anni il capitano Moore e un gruppo di ricercatori solcano i mari a caccia di plastica: penne, bidoni, palloni. E tonnellate di minuscoli frammenti inquinanti

GAËLLE DUPONT, LE MONDE, FRANCIA

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SCIENZA E TECNOLOGIA

genetica

L’ornitorincoa confrontonatureGran Bretagna• 8 maggio 2008

È peloso, ha il becco, depone le uova e allatta,

anche se non ha delle vere mammelle. È omeotermo, cioè ha una temperatura costante come i mammiferi, e ha il veleno come i rettili. È l’orni-torinco, Ornithorhynchus anatinus, un animale acquati-co australiano, che ha pochi fratelli nell’albero evolutivo, ma tanti cugini lontani. Ora che il suo genoma è stato in parte decifrato, e la bozza della sequenza è stata pubbli-cata sul settimanale britanni-co Nature, i legami con gli altri mammiferi sono più chiari. Il suo dna è stato confrontato con quello di altri animali: mammiferi placentati e marsupiali, uccelli e rettili. Sembra che i monotremi (che hanno un’unica cloaca in cui sboccano sia l’intestino sia i condotti urinari e genitali), di cui l’ornitorinco è uno dei pochi rappresentanti, si siano separati dagli altri mammiferi circa 166 milioni di anni fa. A quell’epoca sulla Terra regna-vano i dinosauri, e i mammife-ri primitivi avevano già svilup-pato i geni delle proteine del latte e l’omeotermia, ma non ancora la capacità di partorire i piccoli. Dall’analisi del dna risulta inoltre che la capacità di produrre veleno si sia invece sviluppata nell’ornitorinco nel corso dell’evoluzione in modo del tutto indipendente dai serpenti.

salute

Migrazionee maternitàBmjGran Bretagna• 10 maggio 2008

Le donne che emigrano tendono ad adottare le

cattive abitudini diffuse nei paesi ricchi che le ospitano. Da un ampio studio condotto in Inghilterra sulle abitudini di vita delle donne incinte è emersa una più alta percen-tuale di fumatrici tra le immigrate di prima e seconda generazione rispetto a quelle arrivate da poco. Per ogni cinque anni di permanenza, il fumo in gravidanza aumenta del 31 per cento. E la probabi-lità di allattamento al seno si riduce del 5 per cento. I dati, commenta Krista Perreira, esperta di politiche pubbliche, sono in linea con altre ricerche condotte in Europa e negli Stati Uniti. Raggiungendo una condizione socioeconomi-ca migliore, spiega la studiosa sul British Medical Journal, anche le minoranze riescono a permettersi alcol e tabacco. A questo si aggiunge l’inluenza della pubblicità che ne incoraggia l’uso. Inoltre, il consumo di alcol e tabacco tra gli uomini potrebbe spingere le donne che vogliono dimostrare la loro emancipa-zione a fare altrettanto. Il risultato è una deriva graduale delle culture delle minoranze verso quella dominante. Un fenomeno di cui bisognerebbe tenere conto nei programmi per la salute delle donne e dei bambini immigrati, conclude Krista Perreira.

neuroscienze

Il sensomoralescienceStati Uniti• 9 maggio 2008

Falsiicare il proprio curriculum per ottenere

un lavoro, quanto è immorale? La risposta dipende dalle condizioni in cui si trova chi giudica: se è seduto a una scrivania molto sporca o se nell’aria aleggia un pessimo odore, sarà più severo. Le emozioni come il disgusto inluenzano il nostro giudizio morale, anche quando sono scatenate da situazioni che non hanno legami con la questione da giudicare. È uno dei risultati riportati da Scien-ce in un articolo sulle origini neurobiologiche della morale umana. La ricerca si è a lungo

concentrata sulle aree cerebrali coinvolte nelle scelte, sul loro legame con le emozio-ni da un lato e con la funzione cognitiva dall’altro. Negli ultimi anni si è cercato di superare questa dicotomia, per affrontare le radici del senso morale. Il bene e il male sono innati negli esseri umani? Possono superare le barriere culturali e temporali? Sembra di sì. Ci sarebbe un senso morale universale, basato su cinque aspetti: non nuocere agli altri, essere giusti, essere leali, rispettare l’autorità e avere uno spirito puro, con gli ultimi tre elementi predominanti nelle società conservatrici e i primi due in quelle moderne. La moralità potrebbe rendere più compatte le società umane e fornire un vantaggio evoluti-vo. Ma è ancora presto per trarre conclusioni deinitive.

internazionale.it/cartoline

Le Mauritius in gran formathe LancetGran Bretagna• 8 maggio 2008

Medaglia d’oro alla repubblica di Mauritius. Non tanto per le sue bellezze naturali quanto per il suo stato

di buona salute, raggiunto quarant’anni dopo l’indipendenza. La malaria, la polio, il morbillo e altre malattie fanno ormai parte del passato. Dal 1968 a oggi la speranza media di vita è cresciuta da 59 a 69 anni per gli uomini e a 76 per le donne; la mortalità infan-tile è scesa da 70 a 14 morti per mille nati vivi. Ci sono centinaia di ospedali e ambulatori ben distribuiti in tutto il paese, che ogni anno ricevono 3,5 milioni di pazienti. Il sistema sanitario pubblico è gratuito. “Nessuno avrebbe scommesso sulla possibilità dell’isola di uscire dallo stato di povertà e malattia in cui versava nel 1968”, commenta The Lancet, ma le cose sono cambiate grazie alle politiche che considerano la salute un diritto umano fondamentale e una priorità nel budget nazionale. Dal 1968 a oggi la spesa sanitaria è cresciuta del 12mila per cento, raggiungendo 4,4 miliardi di rupie (106 milioni di euro). I mauriziani ne vanno ieri e ora si concentrano sulle nuove side: le malattie croniche come il diabete, che colpisce il 30 per cento della popolazione, e la diffusione dell’aids. Il governo, inoltre, vuole investire in centri di chirurgia estetica e di fecondazione in vitro rivolti ai turisti.

salute

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AFRICA E MEDIO ORIENTE

Da johannesburg a londra, gli zimbabwiani della diaspora si inge-gnano per aiutare i parenti rimasti

in patria, che soffrono a causa dell’ipe-rinlazione. E riescono a inviargli un po’ di tutto. Ogni giorno, da una stazione nel quartiere degli affari di Johannesburg, partono autobus pieni di beni di prima necessità. Le persone caricano nei baga-gliai grandi sacchi di alimenti e prodotti per il bagno. Trasportano anche buste piene di soldi: rand sudafricani, natural-mente, non dollari zimbabwiani.

Una cena rafinataPer gli internauti che possono permet-tersi merci in sterline, il commercio onli-ne è decollato. Siti britannici come Mukuru, Zimcargo e Yeszim permettono agli zimbabwiani di inviare valuta, gene-ri alimentari e perino carburante, pro-ponendo una vasta gamma di prodotti e servizi, dai più rudimentali ai più strava-ganti. Su Yeszim, per esempio, i clienti possono pagare in anticipo una cena per

i loro amici in un ristorante di Harare. Al Sitar, famoso per la sua rafinata cucina indiana, una cena costa poco più di dieci euro a persona. Al momento di pagare il conto, un sms trasmette il codice d’ac-quisto sul cellulare del cliente, che lo co-munica al cameriere.

Mukuru, un sito creato da quattro giovani zimbabwiani che vivono in Gran Bretagna, permette di inviare benzina ai compatrioti che sono rimasti senza car-burante: basta selezionare il numero di litri da comprare, cliccare su “calcola il costo” e aggiungere la somma al proprio carrello. Con un clic è anche possibile trasferire in sole ventiquattr’ore denaro ad Harare e Bulawayo.

Forse il vecchio metodo del trasporto per corriera non è così automatizzato, ma per i prodotti di base è ancora efica-ce. Alla stazione di Johannesburg, un paio di settimane fa, sotto la pioggia, era difficile trovare qualche zimbabwiano disposto a parlare con un giornalista. Anche se il Sudafrica offre al loro paese

una relativa protezione, si rifiutano di parlare: temono che le autorità di Hara-re se la prendano con i loro familiari. Alla ine, con l’aiuto di un amico che mi fa da interprete, incontro una persona dispo-sta a parlare a patto di restare anonima.

Autisti di iducia“John” – lo chiamerò così – ha 23 anni. Vive a Johannesburg da un anno e fa il venditore ambulante di gelati per Nestlé. Come tanti altri zimbabwiani, spedisce dei generi alimentari a casa, una volta al mese. Nel suo immenso sacco di plastica John stipa zucchero, farina di granturco, sale, latte in polvere e prodotti in scatola. “Così la mia famiglia può variare la dieta: sono stui di mangiare solo legumi”, spie-ga. John paga tra i sei e gli otto euro per inviare il suo sacco in Zimbabwe. “Per ogni cento rand di prodotti che spedia-mo, le corriere ce ne fanno pagare venti”. È soddisfatto del servizio: “Gli autisti non rubano e mi ido di loro”. La benzina è una delle rare merci che non si traspor-ta per corriera, perché “è troppo perico-loso”. Nel sacco di John, però, c’è anche della parafina, perché ad Harare l’elet-tricità va e viene. Gli autisti delle corriere trasportano passeggeri e merci da Johan-nesburg ad Harare attraverso Musina, passando la frontiera a Beitbridge. Alcu-ni raggiungono Bulawayo, Masvingo e Kwe Kwe. Harry (non è il suo vero nome) ha 42 anni e guida una delle tante corrie-re che partono da Park station per lo Zimbabwe. Ci spiega che il viaggio ino ad Harare può durare ino a diciotto ore. Spesso il percorso è rallentato dalle soste

alla frontiera, i problemi di passaporto dei passeggeri e i controlli dei documenti dei veicoli. In compenso, assicura Harry, nessuno si aspetta di dover versare bustarelle lun-go il tragitto e nessuno ne chiede. Certo, inviare in Zim-babwe soldi e generi alimen-tari è solo una risposta a breve termine alle dificoltà che sta vivendo il paese. Molti, infat-ti, sperano che la situazione migliori.

Nel frattempo ci hanno raggiunto alcuni amici di John. Tutti vorrebbero torna-re in Zimbabwe. “Amo il mio paese. Sono venuto qui solo perché ho bisogno di soldi. Ma se lavori sodo, ottieni quello che vuoi”. p� nmG

IDEO

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Lo Zimbabwe in crisiaiutato dalla diasporaGli zimbabwiani che vivono all’estero fanno il possibile per sostenere i parenti rimasti nel paese. Ogni mese inviano soldi, benzina e generi alimentari

ZAHIRA KHARSANY, MAIL & GUARDIAN, SUDAFRICA

HARARE, ZIMBABWE

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AFRICA E MEDIO ORIENTE

libano

Festadella folliaal kifah al arabiLibano• 12 maggio 2008

Il settimanale libanese Al Kifah al Arabi prova ad

analizzare “la follia che ha travolto Beirut”, soffermando-si sulle ragioni degli scontri politici e militari esplosi nel paese nell’ultima settimana. L’editoriale di Al Kifah al Arabi pone una domanda

condivisa dalla maggior parte degli osservatori politici: “Siamo davanti alla ine dello status quo o all’inizio di una nuova guerra civile?”. La presa di Beirut ovest e il conlitto dichiarato tra sunniti ilogo-vernativi e sciiti ha conferma-to la spaccatura del paese. Ma la crisi è estremamente seria se si pensa che, per la prima volta, il partito sciita Hezbol-lah ha usato le sue armi per un conlitto interno e non contro il nemico israeliano. Si tratta anche della prima volta che il Libano, “il paese dei compro-

messi e degli accomodamenti vari, si trova davanti un orizzonte completamente chiuso alla possibilità di una mediazione. Invece sono state spalancate le porte di un futuro in cui saranno le milizie politiche e confessionali a dettare legge”. Davanti a questa “festa della follia” l’avvenire del paese appare molto buio. Secondo il setti-manale, il Libano “è uscito dello status quo per precipita-re verso una situazione confu-sa che non sarà facile risolvere in futuro”.

riguardo per la volontà popolare e per le elezioni”. A nulla sono servite le esperien-ze del Kenya e dello Zimbabwe di Mugabe: “Tra costituzioni burla ed elezioni truccate, l’Africa democratica sta inven-tando le sue cattive regole”.

camerun

Il poteredi Biyajournal du jeudiBurkina Faso• 8 maggio 2008

L’assemblea nazionale del Camerun ha approvato

un progetto di revisione costi-tuzionale che autorizza il presidente Paul Biya, 75 anni e in carica dal 1982, ad assume-re un nuovo mandato nel 2011. Il settimanale satirico Journal du Jeudi deinisce l’operazione “un colpo di bisturi che, senza nessuna consultazione popolare, ha modiicato il limite di due mandati per il presidente della repubblica. Il vincolo era stato introdotto negli anni novanta da quasi tutti i paesi africani per contrastare la cosiddetta cultura del potere eterno”. Secondo la rivista burkinabé, il pericolo è che altri paesi seguano l’esempio del Camerun: “L’Algeria di Abdelaziz Boutelika, per esempio, sta discutendo un provvedimento simile e la lista è destinata ad allungarsi con il Ciad, il Gabon, la Guinea, la Tunisia e l’Uganda. Saranno sempre di più gli stati africani che permetteranno di trasfor-mare la carica di presidente in un bene personale da conser-vare in eterno, senza nessun

turchia

SindacatimaltrattatiYeni aktÜelTurchia• 8 maggio 2008

Le celebrazioni del 1 maggio in Turchia hanno

confermato una rottura tra il mondo operaio organizzato e il governo del Partito islamico democratico (Akp). Ormai l’Akp si proila come un parti-to di destra: la sua politica sociale viene denunciata sempre più spesso dai sinda-cati, le uniche organizzazioni di sinistra strutturate e di massa che ci sono nel paese. È in questo contesto che il parti-to del premier Recep Tayyp Erdogan ha deciso di vietare le celebrazioni del 1 maggio indette dai sindacati nella celebre piazza Taksim a Istan-bul. Come spiega Yeni Aktüel, l’Akp ha fatto fare alla polizia una dimostrazione di forza spettacolare adducendo motivi di sicurezza. Le forze dell’ordine sono intervenute con gas lacrimogeni e manga-nelli, costringendo i manife-stanti a disperdersi. Con questo comportamento l’Akp, il cui processo di democratiz-zazione va molto a rilento, ha dimostrato la sua concezione autoritaria dello stato. Secon-do la maggior parte degli analisti, il Partito islamico democratico fa ancora fatica a capire che la democrazia non si limita alla possibilità di indire libere elezioni. Sembra che tra la sua visione dello stato e quella del Partito del movimento nazionalista non ci sia molta differenza.

Sessant’anni di Israelejerusalem reportIsraele• 12 maggio 2008

Quando nel novembre del 1948 Israele chiese per la prima volta di essere ammesso tra i membri delle Nazio-

ni Unite, solo cinque paesi votarono a favore. Il suo futuro sembrava appeso a un ilo: senza la legittimazione internazio-nale, il nuovo stato non avrebbe mai ottenuto il sostegno diplomatico e militare di cui aveva bisogno per contrastare i paesi arabi”. In occasione del sessantesimo anniver-sario della fondazione d’Israele, il Jerusalem Report ricostruisce le tappe fondamentali che hanno portato il paese a vincere la dificile scommessa per la sopravvivenza. “Negli anni cinquanta, dopo il riconoscimento formale, l’occidente e il blocco sovietico voltarono di nuovo le spalle a Israele per cercare di conquistare il sostegno del mondo arabo. Fu solo la vendita clandestina di armi da parte della Germania e della Francia a rendere possibile la vittoria nella guerra dei sei giorni nel 1967. Quella vittoria convinse gli Stati Uniti a puntare sullo stato ebraico come base strate-gica nel Medio Oriente e a garantire la sua protezione. Ma Israele ha anche commesso un grosso errore: riiutando le opportunità di risolvere la questione palestinese ha contri-buito a creare i nemici che lo minacciano oggi: Hezbollah, Hamas e, soprattutto, l’Iran”.

israele

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AMERICHE

Il patriot act, la legge antiter-rorismo varata dopo l’11 settembre, ha fatto molto discutere perché concede-

va al governo degli Stati Uniti la possibi-lità di spiare i cittadini. Lo spionaggio industriale, invece, che rappresenta una crescente minaccia alle libertà civili, non riceve le stesse attenzioni. Secondo un articolo uscito su Mother Jones, alla ine degli anni novanta una società di sicu-rezza privata ha spiato Greenpeace e altri gruppi ambientalisti, controllando le ru-briche telefoniche degli attivisti e man-dando degli agenti a iniltrarsi nelle loro organizzazioni. Nel 2006 la Hewlett-Packard è stata sorpresa a spiare alcuni giornalisti. L’anno scorso Wal-Mart si è scusata per aver registrato di nascosto delle conversazioni con un cronista del New York Times. Adesso si scopre che Burger King ha incaricato una società di sicurezza privata di spiare la Student-farmworker alliance, un’associazione di

studenti che da anni si batte per difende-re i diritti dei lavoratori immigrati della Florida che raccolgono i pomodori desti-nati agli hamburger delle multinaziona-li. Sono sempre stato un sostenitore di quest’associazione. I salari dei lavoratori agricoli, al netto dell’inlazione, sono di-minuiti del 70 per cento dalla ine degli anni settanta. E centinaia di immigrati sono stati schiavizzati dalle agenzie di lavoro temporaneo e costretti a lavorare senza paga. La McDonald’s Corporation e la Yum Brands, proprietaria di Taco Bell, Pizza Hut e Kentucky Fried Chic-ken, hanno concesso un modesto au-mento ai raccoglitori di pomodori e han-no accettato di collaborare con l’associa-zione. Burger King, invece, ha scelto un’altra strategia.

A marzo Cara Schaffer, una ragazza di 25 anni, ha contattato la Student-far-mworker alliance presentandosi come una studentessa del Broward communi-

ty college a Fort Lauderdale. Dopo che aveva già partecipato a due riunioni del gruppo si è scoperto che Schaffer non era una studentessa ma la proprietaria di una società di sicurezza privata. La sua Diplomatic tactical services è una di quelle torbide agenzie da thriller di Carl Hiaasen: l’anno scorso Schaffer non è riuscita a ottenere la licenza di investiga-trice privata perché non ha fornito all’uf-icio licenze della Florida le prove di una “esperienza veriicabile o legalmente ac-quisita”. Un suo ex collaboratore, Guil-lermo Zarabozo, è accusato addirittura di omicidio.

Un dirigente di Burger King mi ha ri-velato che l’azienda lavora da anni con la Diplomatic tactical services per “questio-ni legate alla sicurezza” e se n’è servita anche per acquisire informazioni sui pia-ni della Student-farmworker alliance. “È un diritto e un dovere dell’azienda”, mi ha spiegato un portavoce di Burger King, “proteggere i suoi dipendenti e il suo pa-trimonio”. Ma la Student-farmworker alliance non è un pericoloso gruppo di estremisti.

Senza regoleA proteggere gli Americani dal potere indebito del governo ci pensa la costitu-zione. Ma forse c’è bisogno di difendere i cittadini anche dal potere irresponsabile delle multinazionali.

Società come Wal-Mart ed Exxon Mobil hanno ricavi annui superiori al pil di interi paesi, e si rivolgono a ex agenti dell’Fbi e della Cia che lavorano per le agenzie di sicurezza private. Ma a diffe-renza delle agenzie governative, che de-vono seguire strettamente le linee guida e gli ordini dei tribunali, i privati opera-no con relativa libertà. Oggi le leggi fe-derali considerano reato solo il mentire sulla propria identità per ottenere infor-mazioni inanziarie e recapiti telefonici.

Le audizioni al congresso sullo spio-naggio industriale potrebbero essere un buon inizio. John Chidsey, l’ammini-stratore delegato di Burger King, sapeva che la sua azienda si serviva della Diplo-matic tactical services. Adesso dovrebbe – sotto giuramento – spiegare ai membri del congresso se ritiene che questo sia un fatto accettabile. p fs

EricSchlosserèungiornalistastatuni-tense.HascrittoFast food nation(Net2004)eAmerica sommersa. Sesso, dro-ga e nuovi schiavi negli Stati Uniti(Tro-pea2008).

MARTI

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La spia venutadall’hamburgerEx agenti della Cia, losche agenzie investigative, intercettazioni. Con il pretesto della sicurezza, le grandi multinazionali spiano i cittadini. Ma chi li difende?

ERIC SCHLOSSER, INTERNATIONAL HERALD TRIBUNE, FRANCIA

NEW JERSEY, STATI UNITI.Davanti a Wal-Mart

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AMERICHE

stati uniti

Dove vail JournalTHE NEW REPUBLICStati Uniti• 28 maggio 2008

L a redazione del Wall Street Journal attraversa

una fase di grande incertezza. Il direttore Marcus Brauchli si è dimesso ad aprile, quattro mesi dopo l’acquisizione della testata da parte della News Corp. di Rupert Murdoch. “Sono in molti a chiedersi quali progetti abbia per il futuro il magnate australiano”, scrive The New Republic. Al momento dell’acquisizione si era parlato di un giornale che potesse fare concorrenza al New York Times: meno centrato sulla inanza e sull’economia, con più pagine dedicate alla politica interna e internazionale. Questa linea è stata confermata da Robert Thomson, ex direttore del quotidiano britannico Times e attuale direttore in pectore del Journal: più notizie, più storie brevi, più politica e questioni d’interesse generale. “Ma un giornale che cerca di offrire di tutto per accontentare ogni genere di lettore rischia di perdere il suo pubblico specia-lizzato a vantaggio di testate come il Financial Times”, avverte The New Republic. Anche la redazione sarà riorganizzata. “Probabilmente tra i 40 e i 60 redattori saran-no costretti a dimettersi o saranno licenziati”. Tra pochi giorni, comunque, Murdoch dovrebbe nominare un nuovo direttore, quasi sicuramente un uomo vicino a Thomson.

brasile

Scontroper il risoFOLHA DE SÃO PAULOBrasile• 12 maggio 2008

La riserva indigena Raposa-Terra do Sol si

trova nel nord dello stato del Roraima, dove il Brasile coni-na con la Guyana e il Venezue-la. Nel 2005 un decreto presi-denziale le assegnava un’area cinque volte più grande, che includeva vaste porzioni di

territorio già occupate da abitazioni, piccoli municipi e piantagioni di riso. Da un mese sono cominciate le operazioni di sgombero, ma i coltivatori di riso sono deter-minati a resistere. La settima-na scorsa il loro leader, Paulo Cesar Quartiero, è stato arrestato con l’accusa di essere il mandante del ferimento di nove indigeni macuxis che avevano occupato la sua fazen-da. La notizia ha suscitato la reazione della popolazione, che ha attaccato con lanci di pietre la polizia e l’esercito. Il ministro dell’agricoltura Reinold Stephanes difende gli interessi dei coltivatori: “Le piantagioni di quell’area sono importanti perché rappresen-tano il 12 per cento della produzione nazionale di riso e coprono il fabbisogno degli stati dell’Amazzonia, del Pará e dell’Acre”. In attesa della

sentenza della corte suprema federale, il governo è determi-nato a far rispettare il decreto. “Le piantagioni non sono proprietà privata ma porzioni di territorio indigeno occupate in modo illegale”, ha dichiara-to il ministro della giustizia.

messico

ObradorprotestaAmÉRICA ECONOmÍACile• Maggio 2008

D a settimane il parla-mento del Messico è

occupato dai deputati del Frente amplio progresista (Fap), che raggruppa le princi-pali forze politiche di sinistra sotto la guida di Andrés Manuel López Obrador. E il governo non fa nulla per cacciarli. Il Fap protesta contro la riforma energetica con cui l’esecutivo vuole sostanzialmente rilanciare Pemex, l’azienda petrolifera di stato. Secondo López Obrador e i suoi sostenitori, la riforma porterebbe alla privatizzazio-ne della compagnia. Per questo chiedono di dettare i tempi e i modi del dibattito parlamentare e di organizzare un referendum, che tra l’altro, spiega América Economía, “non sarebbe valido dal punto di vista costituzionale”. Non è la prima volta che López Obrador, detto Amlo, promuove azioni illegali per ostacolare l’attività del gover-no. A differenza dei deputati del Fap, però, non è protetto dall’immunità parlamentare. Perché il governo lo lascia agire? “È una regola d’oro della politica messicana: mai usare la legge per ostacolare un rivale, perché l’opinione pubblica potrebbe considerar-lo un atto di repressione”. Amlo, insomma, sarebbe ben contento di inire in manette, ma il governo non vuole dargli questa soddisfazione.

Peggio di cosìHARPER’SStati Uniti• Maggio 2008

Se le bugie di washington sulle armi di distruzione di massa di Saddam Hussein sono state essenziali per

ottenere il consenso dell’opinione pubblica all’invasione dell’Iraq, l’uso di statistiche ingannevoli ha giocato un ruolo vitale nel convincere molti americani che l’economia statuni-tense è più forte, equa, produttiva e ricca di opportunità di quanto sia in realtà”. Kevin Phillips, su Harper’s, mette in dubbio l’attendibilità degli indicatori economici più importanti, dal calcolo del prodotto interno lordo al tasso di disoccupazione o d’inlazio-ne. Sono misure che è possibile “aggiu-stare” e manipolare in molti modi, e tuttavia è su questi parametri che individui, politici e impren-ditori compiono molte delle loro scelte strategiche. Certo, l’uso ingannevole delle statistiche è diverso dalle menzogne plateali come quelle sull’Iraq: “Non c’è nessuna grande congiura, solo opportunismi che si accumulano”, e da questi opportunismi, per di più, non sono immuni né i democratici né i repubblicani. Tuttavia è utile aprire una discussione sugli usi propagandistici dei principali parametri economici: “La verità, anche se non farà liberi gli americani, almeno gli offri-rà l’opportunità di una più ampia comprensione della politica e dell’economia”.

Stati Uniti

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ASIA E PACIFICO

Due settimane fa il ciclone Nargis, di categoria 3, ha spazzato il golfo del Bengala e si è abbattuto

sul delta dell’Irrawaddy. Il 3 maggio, do-po essere stata travolta da venti a 190 chilometri orari e da un maremoto, la Birmania è sprofondata in una crisi umanitaria senza precedenti. Secondo le stime i morti sono centomila e i senza tetto un milione e mezzo.

Il popolo birmano è in lutto, ma i ge-nerali della giunta militare non hanno rilasciato nessun messaggio uficiale di cordoglio per le vittime. Inoltre, questi stessi leader sono scampati al disastro solo perché vivono nella capitale che hanno fatto costruire nel centro della Birmania nel 2005.

La giunta militare, che dice di co-struire “una democrazia moderna, svi-luppata e splendidamente disciplinata”, è colpevole di non aver avvertito e messo in salvo la popolazione del delta. Dopo il passaggio del ciclone, non ha inviato su-bito gli aiuti nelle aree più colpite e ha ostacolato l’arrivo degli aiuti internazio-nali e la concessione dei visti d’ingresso

ai volontari e al personale medico. Gli aiuti che hanno raggiunto inora le vitti-me sono solo una goccia nel mare: se-condo le agenzie umanitarie il 75 per cento dei sopravvissuti non li ha ancora ricevuti.

I leader dell’opposizione accusano il capo della giunta Than Shwe di crimini contro l’umanità. Dopo il ciclone, i gior-nali hanno continuato a pubblicare arti-coli di propaganda che chiedevano di votare sì al referendum costituzionale del 10 maggio. I programmi radiotelevi-sivi sono stati interrotti in continuazio-ne per mandare in onda canzoni popola-ri in favore del sì.

Da quando il regime ha annunciato il referendum e le elezioni nel 2010, nel paese si è diffuso un clima di paura e in-timidazione.

Il successo del sì, infatti, confermerà il ruolo centrale dei militari nella nuova costituzione del paese. I critici e gli os-servatori internazionali hanno deinito il referendum una frode, facendo notare che la costituzione proposta riserva un alto numero di seggi parlamentari all’esercito e impedisce l’elezione della leader dell’opposizione, il premio Nobel Aung San Suu Kyi. Impiegati statali, sol-

dati e membri della servile organizzazio-ne Union solidarity and development association (Usda) hanno ricevuto ordi-ni precisi su cosa votare. I birmani che vivono all’estero sono stati “invitati” a votare, ma quelli sospettati di avere sim-patie per il no sono stati respinti dalle ambasciate.

Non schede elettorali ma aiutiIl 10 maggio, esattamente una settima-na dopo l’uragano, i birmani hanno visto in tv le immagini che mostravano Than Shwe e sua moglie al seggio elettorale, nella prima apparizione pubblica del ge-nerale dopo il ciclone. Molti elettori del-le division di Rangoon, Mandalay, Pegu, Sagaing e Magwe hanno dichiarato che sulle loro schede elettorali era già stata barrata la casella del sì e che il referen-dum non si è svolto in modo “libero e regolare”: molti hanno votato in presen-za di funzionari governativi, membri dell’Usda, militari e membri dell’orga-nizzazione filogovernativa Swan-Ar-Shin che spesso suggerivano alla gente come votare.

I birmani, che hanno sopportato la dittatura militare per decenni e che ora devono affrontare le conseguenze di una catastrofe naturale, sono stati colpiti due volte. Molti sono profondamente superstiziosi e credono che il ciclone sia il risultato di un intervento divino: scon-tente dei governanti della Birmania, le divinità avrebbero voluto impedire il re-ferendum e minare la stabilità del go-verno militare.

Intervento divino o meno, il ciclone ha cambiato le dinamiche politiche bir-mane e ha compromesso le “le linee gui-da” del regime e il processo costituziona-le. La furia del ciclone ha smascherato Than Shwe e i suoi tirapiedi, svelando il loro vero volto al mondo. Potrebbe esse-re ingenuo sperare che Than Shwe abbia i giorni contati. Eppure questa speranza è condivisa dai birmani e da milioni di altre persone in tutto il mondo. Le vitti-me del ciclone non vogliono schede elet-torali, ma cibo, acqua, un tetto e medici-ne. E la ine della tirannia. p� svR

EUTE

RS/CONTR

ASTO

KUNYANGON, BIRMANIA. Una donna vicino alla sua casa distrutta

Il vero volto della giunta birmanaNessun messaggio di cordoglio, aiuti umanitari bloccati e propaganda sul referendum che rafforzerà il loro potere. Ecco come i militari hanno gestito l’emergenza

AUNG ZAW, THE IRRAWADDY, THAILANDIA

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ASIA E PACIFICO

bangladesh

Un prezzotroppo altostar weekendBangladesh• 9 maggio 2008

Il rincaro dei prodotti alimentari si fa sentire in

modo particolare in Bangla-desh, dove la popolazione ricorda i periodi di grande fame vissuti negli anni settan-ta, subito dopo l’indipendenza dal Pakistan. Ma a differenza di trent’anni fa, oggi il paese potrebbe essere autosuficien-te sul piano alimentare, osser-va Star Weekend, se la maggior parte dei raccolti non fosse destinata all’esportazio-ne. “Il risultato è paradossale, perché il Bangladesh deve comprare all’estero il grano e altri generi alimentari. Secon-do l’economista Wahiduddin Mahmud, il problema è globa-le: l’epoca del cibo a basso costo è inita ovunque. Il professor Anu Mohammad, dell’università Jahangirnagar, è convinto che serva un inter-vento statale più eficace in due ambiti: nella gestione della sicurezza e della politica alimentare, e nel sostegno alla produzione agricola. Ma potrebbe non essere suficien-te inché i salari resteranno bloccati. Infatti, anche se le statistiche parlano di un incre-mento regolare del pil nazio-nale e pro capite, da questa crescita resta fuori il 90 per cento della popolazione. Cento milioni di persone che non solo fanno fatica ad arrivare a ine mese, ma che sempre più spesso non si nutrono adeguatamente”.

india

Disabili ai marginifrontlineIndia• 10 maggio 2008

Sono tra i 40 e i 90 milioni di persone. Appartengono

soprattutto a famiglie povere e hanno meno accesso al lavoro del resto della popolazione. Da bambini la loro possibilità di frequentare la scuola è quattro o cinque volte inferio-re a quella degli altri. La vita delle persone disabili in India è dificile: su di loro pesano pregiudizi sociali e in qualche caso religiosi che le relegano ai margini della società. “Le disabilità legate alla lebbra e alla polio per fortuna stanno diminuendo”, scrivono i ricer-catori John M. Alexander e Jane Buckingham su Frontli-ne. “Ma sono ancora diffuse altre malattie invalidanti, spesso legate alla povertà, come la cecità infantile, la sordità, la paralisi cerebrale infantile e il latirismo, un disturbo neurologico dovuto alle tossine sviluppate da lenticchie di cattiva qualità. Non solo: la disabilità causa la povertà. I codici di famiglia dei sistemi di legge indù Mitakshara e Dayabhagha prevedono, infatti, che una persona disabile sia esclusa dall’asse ereditario, a meno che il suo handicap non sia ‘risolvibile’ attraverso un intervento medico o una prati-ca tradizionale. Malgrado una legge del 1995 che restituisce dignità e ruolo sociale ai disabili, la strada da compiere è ancora in salita”.

giappone

CelebrazioniimperialiaeraGiappone• 12 maggio 2008

In giappone si sta prepa-rando una mostra fotograi-

ca sull’imperatrice Michiko. E se ne occuperà Sayako Kuroda, la terzogenita della famiglia imperiale che ha perso il blasone sposando un urbanista giapponese nel 2005. La mostra aprirà il 10 ottobre, giorno del complean-no di Michiko, tre anni dopo la celebrazione dei suoi settant’anni. Motivo del ritar-do: la cattiva salute della principessa Masako, nuora dell’imperatrice, che non avrebbe potuto partecipare all’evento insieme al marito. Nel 2009 ricorrono le nozze

Gli scioperantinanfeng chuangCina• 1 maggio 2008

Le macchine della fabbrica tessile Shijiazhuang Changshan si sono fermate all’improvviso. Gli inviti dei

capireparto a riprendere il lavoro non sono serviti. Nessun operaio ha risposto e nessuno si è mosso, mentre centinaia di curiosi si radunavano fuori da quei capannoni, che producono a ciclo continuo ed esportano in tutto il mondo. La notizia si è sparsa subito in tutti gli stabilimenti della Changshan e a un certo punto l’intera produzione si è fermata insieme alle mani di quasi diecimila operai. Il magazine Nanfeng Chuang pubblica le interviste agli “scioperanti”. In Cina, la parola sciopero è ancora tabù: “Nessuno sciopero”, hanno puntualizzato i lavoratori, “stiamo solo rivendicando i nostri diritti”. Come quello di essere pagati più di 800 yuan al mese (circa 80 euro) e lavorare meno di dodici ore al giorno. Con la stessa cautela gli operai hanno evitato di rivelare il proprio nome per paura di licenziamenti o ripercussioni. Nessun leader della protesta, nessun invito aperto a interrom-pere il lavoro, solo un eloquente silenzio. Finché la fabbrica ha promesso a tutti un aumento di 50 yuan (circa cinque euro) e l’introduzione del premio di produttività. Ci penseranno i giornalisti a vigilare: i datori di lavoro si sono impegnati e devono mantenere la loro parola, conclude Nanfeng Chuang.

cina

internazionale.it/cartoline internazionale 744, 16 maggio 2008 • 95

d’oro della coppia imperiale e il ventennale dell’ascesa al trono dell’imperatore. Due eventi che distoglieranno parte dell’attenzione dalla mostra. Il luogo dell’esposizio-ne non è ancora noto, ma probabilmente sarà allestita all’interno di uno dei grandi magazzini di lusso a Tokyo. Sayako non è più membro della casa regnante da due anni, da quando ha sposato un uomo esterno alla nobiltà. I due fratelli maggiori sono impegnati nelle attività della casa reale. Sayako, una studio-sa di ornitologia, era rimasta l’unica persona abbastanza vicina all’imperatrice, ma libera dai doveri di stato, per poter organizzare l’evento. La mostra proporrà immagini uficiali della vita dell’impera-trice, ma forse lascerà trapela-re anche alcuni aspetti del rapporto tra madre e iglia.

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EUROPA

La situazione è paradossale. an-che se tutti pensano che la coalizione Per una Serbia europea, guidata dal

presidente Boris Tadic e dal Partito de-mocratico, abbia ottenuto un trionfo, sembra ancora presto per concludere che il paese avrà un governo iloeuropeo. La matematica assegna la maggioranza in parlamento al gruppo dei cosiddetti par-titi antieuropei: i radicali (ultranaziona-listi), i democratici di Kostunica (nazio-nalisti) e il Partito socialista, un tempo guidato da Slobodan Milosevic. Proprio i venti parlamentari socialisti saranno de-terminanti per formare il nuovo governo. L’afluenza alle urne, relativamente alta per gli standard del paese, è un segno del fatto che comunque i cittadini serbi sono interessati al loro futuro.

Anche la formazione di un governo di coalizione tra le forze nazionaliste sem-bra improbabile, non solo perché cause-rebbe molti problemi nei rapporti con l’Ue, ma anche perché un esecutivo così non sarebbe apprezzato neanche da Mo-sca, che negli ultimi giorni ha ribadito più volte che il posto della Serbia è nel-l’Unione (anche nell’interesse dei russi). Non solo: un’eventuale “coalizione pa-triottica” obbligherebbe Kostunica e i socialisti a un governo con gli impresen-tabili radicali, e questo rovinerebbe la

loro immagine in campo internazionale e li danneggerebbe in patria. Gli occhi sono tutti puntati sul Partito socialista. Anche se ancora prigioniero del passato di Milosevic, i suoi dirigenti si rendono conto che una coalizione con le forze i-loeuropee gli darebbe l’occasione per “ri-pulirsi” e dare al partito un’immagine da socialdemocrazia moderna.

Nessuna alternativaDa parte sua il presidente Tadic avrà molte dificoltà a formare un governo i-loeuropeo: i suoi rapporti con i potenzia-li partner sono conlittuali. Dai liberali guidati da Cedomir Jovanovic lo divide la questione del Kosovo (Tadic non vuole riconoscerne l’indipendenza). I socialisti sono stati per anni il principale nemico dei democratici. E l’esperienza di governo degli ultimi anni con Vojislav Kostunica è stata logorante.

Nonostante l’Unione europea espri-ma soddisfazione per i risultati del voto, la realtà in Serbia è diversa. Per formare un governo saranno necessarie lunghe trattative. Il fatto che Tadic abbia detto che a un governo iloeuropeo non ci sono alternative è incoraggiante. Ma i risultati dicono con chiarezza che la Serbia è an-cora divisa quasi a metà tra chi è favore-vole e chi è contrario all’Europa. p� af

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I serbi verso l’Europa

Il presidente iloeuropeo Boris Tadic ha vinto. Ma i risultati dicono che la Serbia è ancora divisa quasi a metà tra chi è a favore e chi è contrario all’Unione europea

IvaN Torov, UTrINskI vEsNIk, MacEdoNIa

SRDJAN RADULOVIC, BLIC, SERBIA. I serbi si sono resi conto che rispetto alla coali-zione Per una Serbia europea, gli altri partiti avevano troppi lati oscuri per po-ter garantire quello che la gente vuole: vivere meglio. Gli elettori hanno scelto chi offriva cose concrete: stabilità eco-nomica, investimenti, posti di lavoro, prospettive per i giovani. Gli altri propo-nevano cose fumose. Kostunica promet-teva di difendere il Kosovo, ma senza di-re da cosa e come. Radicali e socialisti parlavano di politiche sociali senza pro-poste concrete. Ha vinto quindi l’idea che la Serbia debba andare avanti. Ora bisogna formare un governo al più pre-sto, dimostrando senso di responsabili-tà verso gli elettori. Altrimenti saranno in molti a perderci, e prima di tutto la Ser-bia e i suoi cittadini. DANAS, SERBIA. Il risultato del voto è an-cora una volta ideologico: tutte le forze in campo hanno in qualche modo reso omaggio ai dogmi del nazionalismo ser-bo. È il frutto di un decennio di traumi, che si è aperto con i bombardamenti del 1999 e si è chiuso quest’anno con l’indi-pendenza del Kosovo. La colpa di que-sta situazione è anche di quei paesi che, riconoscendo l’indipendenza della provincia, hanno impedito che la sconit-ta di Milosevic si trasformasse in una piena vittoria per le forze democratiche, a cui molti attribuiscono ora la colpa per le scelte catastroiche del dittatore scomparso. La Serbia, quindi, è condan-nata a combinare ancora il razionale con l’irrazionale, il possibile con l’impossibi-le, l’Unione europea con la difesa del Kosovo. DJORDJE VUKADINOVIC, POLITIKA, SERBIA. I risultati dicono che il voto non è stato un referendum e soprattutto non ha avu-to come esito una vittoria della “Serbia europea”, l’archiviazione “del trauma del Kosovo” e un deinitivo orientamento verso occidente. I democratici di Kostu-nica e i socialisti insieme hanno ancora più voti della coalizione di Tadic. E il par-tito socialista, che sarà l’ago della bilan-cia, è più euroscettico e più russoilo perino dei radicali. Ci piaccia o no, è questa la realtà politica serba: il resto sono chiacchiere e alchimie politiche.

Da Belgrado

Per andareavanti

BELGRADO.Si festeggia

la vittoriaelettorale

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EUROPA

germania

Chi vuolemeno tasseder spiegelGermania• 12 maggio 2008

L a pressione iscale sarà uno dei temi centrali delle

prossime elezioni politiche tedesche. Il voto è previsto nel 2009, ma il dibattito tra le forze politiche è già comincia-to. Il presidente della Csu Erwin Huber ha annunciato un piano di riduzione delle

tasse che costerà allo stato 28 miliardi di euro all’anno. La proposta dei cristianosociali, scrive Der Spiegel, è stata avanzata in vista delle amministrative del prossimo autunno in Baviera. Ma ha costretto gli altri partiti tedeschi a reagire in fretta. I dirigenti di Cdu e Spd, infatti, sanno bene “quale effetto faccia sugli elettori la prospet-tiva di pagare meno tasse”. La cancelliere Angela Merkel ha deinito “intempestiva” la proposta di Huber, ma i tecni-ci della Cdu sono già al lavoro

per proporre un piano simile a quello degli alleati. Anche la Spd potrebbe lanciare una proposta, ma per ora resta fedele alla linea di Peer Steinbrück, il ministro delle inanze della grande coalizio-ne: le tasse saranno ridotte solo dopo aver raggiunto il pareggio di bilancio. Quindi nel 2009, conclude il settima-nale, i tedeschi sceglieranno tra il rigore inanziario della Spd e la speranza offerta da Csu e Cdu che uno sconto sulle tasse sia il modo migliore per stimolare la crescita.

ca nella seconda guerra mondiale. La lista delle poten-ziali rimostranze dei nuovi membri dell’Ue verso Mosca è quasi ininita. L’unica via di uscita, scrive Russia Proile, è abbandonare la faziosità e dialogare.

diplomazia

Un’amiciziain crisirUssiA prOFileRussia• 7 maggio 2008

Sono passati più di dieci anni da quando il trattato

di partnership tra Russia e Unione europea è entrato in vigore. A quei tempi l’Ue aveva solo 15 membri ed era bastato poco tempo per metterlo a punto, osserva il settimanale Russia Proile. Oggi è scaduto e la situazione è molto diversa. L’ostacolo fondamentale al rinnovo del trattato è l’atteg-giamento ostile verso la Russia da parte di alcuni nuovi membri dell’Europa orientale. La Polonia è il paese che pone maggiori problemi a Mosca. Anche se il nuovo governo guidato da Donald Tusk ha ammorbidito le sue posizioni, le relazioni tra i due paesi rimangono tese. Soprat-tutto a causa della costruzione del gasdotto North Stream, che aggirerà la Polonia attra-versando il Mar Baltico e la priverà dei preziosi introiti per il transito del gas. La Lituania invece è in conlitto con Mosca per il forte calo delle forniture di petrolio russo. La Lettonia chiede invece ai russi enormi risarcimenti per i danni subiti durante l’occupazione sovieti-

svezia

Città integrateFOkUsSvezia• Maggio 2008

Come molte riviste, il settimanale svedese Fokus

non ha resistito alla tentazio-ne di compilare una classiica delle migliori città del paese. Ma mentre molti si limitano a fare un elenco delle città che hanno i migliori ospedali o più spazi verdi, Fokus ha scelto di valutare in che modo i comuni sono riusciti a integrare la popolazione immigrata. Nel momento in cui l’immigrazio-ne è al centro del dibattito politico in Svezia, questa classiica dimostra che ci sono esperienze riuscite e che il fenomeno può essere positivo quando si hanno i mezzi per accogliere gli stranieri. La vetta della graduatoria se l’è aggiudicata la cittadina di Gnosjö, 130 chilometri a est di Göteborg, che arriva prima su una lista di 290 città. Un quarto dei suoi diecimila abitanti è di origine straniera. “In questa città gli immigrati sono considerati una risorsa e non un problema”, osserva il settimanale che mette in evidenza il tasso di disoccupa-zione quasi nullo di Gnosjö. Gran parte del successo di questa cittadina si basa non solo sull’integrazione attraver-so il lavoro, ma anche su un tessuto urbano che favorisce l’incontro tra le diverse cultu-re. Un primato che Fokus ha deciso di mettere in copertina con il titolo “numero uno in Svezia”.

Equasi sempre così, prima dell’estate: il clima politico in Portogallo si surriscalda. Ma quest’anno alcune riforme approvate contemporaneamente hanno esacerbato gli

animi più del solito. La riforma della scuola ha portato cento-mila professori in piazza a marzo contro il nuovo sistema di valutazione dei docenti. La riforma del codice del lavoro, che rende più facili i licenziamenti, è ancora oggetto di fero-ci dispute tra governo, industriali e sin-dacati. La riforma del codice deontologi-co dei medici, che deve essere rinnova-to entro la ine dell’anno, continua a far discutere chi è favorevole e chi è con-trario all’aborto (già legale).

Inine, c’è la questione del nuovo aeroporto di Lisbona, che sarà sorprendentemente costruito non a nord del iume Tejo (Ota), ma a sud (Alcochete). Intanto il governo socialista di José Socrates ha sostituito due ministri (sanità e cultura) ma resiste nei sondaggi. Chi non ha resistito invece è il nuovo lea-der del principale partito di opposizione, il Partito socialdemo-cratico (centrodestra), che il 31 maggio potrebbe essere sostituito da una donna, per la prima volta nella sua storia. Ma i portoghesi in questo momento pensano ai 23 giocatori scelti da Scolari per gli europei di calcio, e ai festival musicali, che quest’anno raccolgono nomi di moda come Amy Winehou-se e vecchie glorie come Bob Dylan, Neil Young, Leonard Cohen e Lou Reed. Un’estate calda. p

Sarà un’estate calda

LETTERA DALISBONA

Diarioda un paese

dell’euro

NUNO PACHECO, PúbliCO, POrtOgAllO

portogallo

internazionale.it/cartoline internazionale 744, 16 maggio 2008 • 97

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98 • internazionale 744, 16 maggio 2008

BLOG

L’altra sera ero a una cena in onore di un ex governatore saudita. Il padrone di casa, un importante

intellettuale del paese, non crede che si debbano offrire dei pasti gratis e mentre eravamo seduti a tavola ha interrotto i soliti convenevoli con una richiesta im-barazzante: “Mi piacerebbe che lei, in quanto donna saudita, illustrasse al no-stro ospite i progressi che sono stati fat-ti per le donne di questo paese”. A tavola è piombato il silenzio. Visto che ero l’unica donna saudita, ho deglutito a fa-tica il boccone. “Be’, in effetti ci sono sta-ti dei progressi”, ho risposto cercando di guadagnare tempo. Gli uomini annui-vano contenti scambiandosi sguardi di soddisfazione. “Ma non abbastanza”.

“Cosa intende dire?”, ha chiesto un importante uomo d’affari. “Onestamen-te”, ho risposto, sapendo che i miei con-nazionali si stavano preparando all’at-tacco, “non mi faccio illusioni su tutte le cose che ancora rimangono da fare”.

“E quali sarebbero?”, ha domandato.

“Oh, molte!”, ho risposto vagamente, chiedendomi se fosse una buona idea snocciolare l’elenco dei miei desideri. Lui, però, mi ha incoraggiato a conti-nuare. “Quello che desidero più di ogni altra cosa è essere rispettata in quanto adulta sana di mente, e avere il diritto di decidere liberamente della mia vita”.

Guidare una jeep nel deserto A quel punto ho issato l’ex governatore e mi sono rivolta a lui. “Trovo umiliante dover chiedere il permesso a un tutore ogni volta che lascio il paese. Anche mio padre pensa che sia ridicolo: sono abba-stanza responsabile da dirigere l’uficio di un importante network televisivo sta-tunitense, ma per partire devo avere la sua irma su un foglio”.

“Fa parte della nostra tradizione”, ha ribattuto l’uomo d’affari. “Non sono contraria alle tradizioni”, ho risposto, “ma se metà del paese rimane indietro a causa di alcune tradizioni, forse dovreb-bero essere riesaminate”. L’ospite d’ono-

re ascoltava con attenzione. “Compren-do la sua dificoltà”, ha detto, “ma non pensa che le cose stiano migliorando?”.

“Si parla di dare alle donne il diritto di guidare”, ha detto il padrone di casa, “e il problema si risolverà presto”.

“Però è una questione da trattare con prudenza”, ha avvertito l’uomo d’affari. “Molti sono contrari, e la loro opinione va rispettata”.

“E le donne che vogliono guidare non meritano altrettanto rispetto?”, ho chie-sto ingoiando la frustrazione. “Non si tratta di guidare o di rispettare le tradi-zioni. Stiamo parlando del rispetto della libertà individuale, inché non contra-sta con l’islam. Le donne musulmane hanno comandato interi eserciti e se fosse così lontano dalla tradizione, per-ché le donne beduine, la personiicazio-ne assoluta della tradizione, guidano le loro jeep nel deserto?”.

“Non tutte le donne sono pronte”, ha obiettato l’uomo d’affari.

“Quand’è che gli uomini smetteran-no di dirci che non siamo pronte?”.

“Non volevo aggredirla”, ha risposto seccato. “È una questione delicata. Io, per esempio, ho diverse sorelle: alcune vogliono guidare, altre no. Non pensa ai problemi che potrebbero nascere nel nucleo familiare?”. A dire il vero non li vedevo affatto, ma ero stanca di passare per una testarda che stava minando l’equilibrio della serata, e quindi non ho risposto. “Vorrei ricordarle”, ho detto rivolgendomi al signore più ragionevole della tavola, “che se le preoccupazioni del nostro amico avessero un fonda-mento, alle donne in questo paese sa-rebbe preclusa qualunque istruzione. I cambiamenti avvengono gradualmen-te, ma non possono essere impediti”.

“Ha ragione”, ha detto l’ospite d’ono-re, “e avverranno molto presto”. Perso-nalmente non guiderei in Arabia Saudi-ta neanche se il divieto fosse abolito, perché per strada girano già un sacco di pazzi. Guidare o non guidare: non è questo il punto. Scegliere o non sceglie-re: questo è il problema! p fp

LUBNA HUSSAIN è una giornalista saudita nata a Londra. Dirige l’ufficio di Riyadh della Nbc Universal e conduce un talk show politico su Saudi tv. Questo articolo è uscito sul blog Saudi Jeans con il titolo To choose or not to choose.

L’autrice

LYN

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Invito a cena con gli intellettuali di RiyadhUna giornalista è stanca delle contraddizioni del suo paese: ha un lavoro di grande responsabilità, ma per lasciare l’Arabia Saudita deve avere il permesso del padre

LUBNA HUSSAIN, SAUDIJEANS.ORG, ARABIA SAUDITA

ARABIA SAUDITA.Picnic tra le dune

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Strisce

che coincidenza incontrarti, stavo pensando a te

giusto ieri sera.

La smetti di tamburellare?mi dài sui nervi!

Mamma! La giacca che mi hai comprato non mi piace per niente. Mi sembra troppo grande e la fodera pizzica!

davvero? ma che carino!

sì, mi stavo masturbando!

questonon è molto

carino.

e non ero neanche solo.

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UNA BELLA COINCIDENZA

Mi dispiace per te. Qui nel mondo dello specchio le giacche troppo grandi sonodi moda e la fodera della mia è liscia

come la seta.Wow. Vuoi fare a cambio?

Stai scherzando, ragazzino?Forse non ti ho detto che la

mia giacca aveva un pacchettodi Camel omaggio in tasca.

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ToroNegli Stati Uniti la soap opera Febbre d’amore è stata il programma più se-guito della fascia pomeridiana per oltre mille settimane consecutive. Co-minciata nel 1973, la serie ha raggiunto il primo posto nel 1988 e non si è

più mossa da lì. Sono lieto di annunciarti, Toro, che nel 2008 avrai la possibilità di raggiungere un successo simile. Ma riuscirai a sfruttare questa opportunità solo se nelle prossime settimane ti preparerai in modo adeguato.

tallo dopo ben due anni di ricerche, lo sfortu-nato rinuncia: “Addio all’oro / che non ho mai trovato. / Addio alle pepite / che da qualche parte abbondano. / Perché è solo nei sogni /che le vedo brillare / laggiù nella terra scura”. Se leggo bene i presagi astrali, Sagittario, an-che per te è ora di dire addio a una ricerca che non ha ingranato. Lo so, è triste. Ma prevedo un lieto ine: entro un mese da quando ti sa-rai arreso, comincerai una nuova ricerca con maggiori probabilità di successo.

CapricornoIn tutta la tua vita non sei mai stato così libero dal bisogno di essere sal-vato da qualcuno. Non devi essere

salvato dalle tue fantasie più cupe perché, al-meno per ora, sono oscurate dai tuoi pensieri più brillanti. Non devi essere liberato dall’op-pressione o dalla schiavitù perché puoi benis-simo farlo da solo. Non hai neanche bisogno che ti liberino dal male: grazie al duro lavoro che hai fatto negli ultimi tempi, il male è di-ventato allergico a te.

AcquarioLa complessità dei tuoi aspetti astro-logici di questo periodo mi ha quasi sopraffatto. Come potevo scrivere un

oroscopo sensato davanti a una gamma così ampia di prospettive ricche e sconcertanti? In preda all’imbarazzo, ho deciso di scappare. Sono uscito dal mio studio e ho vagato ino al-la spiaggia, dove ho passeggiato senza meta e mi sono svuotato la mente. A un certo punto ho visto una cosa assurda: un biscotto della fortuna cinese in bilico sul palo di uno stecca-to. Quando l’ho aperto e ho letto il biglietto al suo interno, ho capito di aver trovato il mes-saggio per te: “Se hai un compito dificile, af-idalo a un pigro. Troverà il modo più facile per svolgerlo”.

PesciPer dimostrare che Dio non esiste, gli atei citano spesso l’esistenza del dolore. “Quale divinità”, mi ha chie-

sto uno di loro, “permetterebbe che un bam-bino del Darfur muoia di fame dopo aver vi-sto dei soldati uccidere sua madre?”. Non pre-tendo di avere la risposta giusta a questa do-manda, ma penso che dovremmo considera-re una possibilità: la sofferenza potrebbe es-sere un dono di Dio per spingerci a cambiare. Sul piano individuale, il desiderio di sfuggire al dolore ci rende più intelligenti. Su quello collettivo, niente ci rende più nobili del desi-derio di impedire che gli altri soffrano. Per ogni bambino morto in Darfur ci sono cento persone in altri posti del pianeta che si impe-gnano a creare un mondo in cui non ci siano più Darfur. Medita su questo fatto nelle pros-sime settimane: avrai l’incredibile capacità di trasformare delle vecchie ferite in ottime op-portunità.

compiti per tuttiQual è la cosa più importante

che non hai mai fatto?

internazionale.it/oroscopo

ArieteSpero che tu abbia cercato di raffor-zare la tua testardaggine, Ariete. Hai allenato la tua determinazione e la

tua volontà di andare ino in fondo? Se non ti sei impegnato abbastanza, ti consiglio di ri-mediare. Il test inale è il 24 maggio. Ti anti-cipo una delle domande d’esame. Cosa fai se a un tuo compagno di squadra cade la palla? a) Abbandoni la partita; b) gli lanci la palla in faccia; c) raccogli la palla e cominci a correre nella direzione in cui stava andando lui.

Gemelli“Il dolore è la debolezza che abban-dona il corpo”, afferma l’esperto di itness Mark Duval. Se quello che di-

ce è vero, nelle ultime settimane sei diventato più forte. Hai scontato mesi di tensione emo-tiva, ti sei liberato di anni di frustrazioni e hai esorcizzato un paio di vite piene di sogni con-fusi. Congratulazioni per la vitalità raggiunta grazie alle tue perdite costruttive.

Cancro

Prima che nascessi, la tua anima ha fatto un accordo: nella tua vita do-vrai compiere cinque miracoli. Il

senso di tre di questi, però, non ti è ancora chiaro. Perché? Tanto per cominciare, quan-do eri piccolo i tuoi genitori e i tuoi insegnan-ti non ti hanno mai parlato del tuo dono. Poi, hai troppa paura di immaginare quello di cui sei veramente capace. Questa è la cattiva no-tizia, Cancerino. La buona è che sei vicino al luogo misterioso dove si annida uno dei tuoi cinque sogni nascosti.

Leone“Il motto di ogni storia d’amore”, ha scritto Charles Williams, “è ‘gioca e prega, ma non pregare mentre gio-

chi e non giocare mentre preghi’. Non siamo ancora capaci di fare le due cose contempora-neamente”. Non sono d’accordo con Wil-liams, in particolare per quanto riguarda il tuo destino nelle prossime settimane. Secon-do la mia analisi dei presagi astrali, puoi be-nissimo (anzi devi) giocare mentre preghi e pregare mentre giochi. Ti consiglio di mesco-lare riverenza e irriverenza in tutti i modi pos-sibili. E di esplorare il concetto rivoluzionario di sacro divertimento.

VergineA quanto pare stai cercando di im-parare tutto il possibile da luoghi e idee di cui ino a pochi mesi fa igno-

ravi perfino l’esistenza. I tuoi esperimenti continuano a fornirti lezioni così preziose che ti consiglio di non interromperli. Va bene co-sì, non c’è fretta, fa’ le cose con calma. Noi del-la Noiosa routine saremo sempre pronti ad accoglierti con gioia non appena avrai voglia di tornare. Capiamo anche che per il momen-to hai voglia di startene da solo. Almeno in-ché non sarai assolutamente sicuro che la far-falla non cercherà più di ritrasformarsi in bruco.

Bilancia“Caro Rob, sono Bilancia da una vita e rimango sempre sconcertato quan-do sento dire che le Bilance non san-

no prendere decisioni. Secondo la mia espe-rienza personale, invece, siamo esperti di completezza. Ci sforziamo sempre di rispet-tare il punto di vista degli altri e quando pren-diamo una decisione cerchiamo di tenere conto di tutte le informazioni disponibili, an-che se sono in contrasto con la nostra visione delle cose. So bene che la fretta e la velocità dominano la nostra cultura: la maggior parte delle persone è stata contagiata dall’idea che ‘se una cosa non si può fare subito, non è inte-ressante’. Da questo punto di vista le Bilance possono sembrare esitanti e incerte. In realtà siamo rilessive e giudiziose. Ti prego, aiuta-mi a sfatare questo luogo comune”.–Bilancia Oculata

Cara Oculata, le tue osservazioni sono giu-ste. Le riferirò ai lettori della Bilancia, perché è fondamentale che nei prossimi giorni non siano fraintesi.

ScorpioneUn giornalista che era andato a casa del premio Nobel per la isica Niels Bohr rimase sorpreso vedendo un

ferro di cavallo appeso al muro. “Proprio lei crede che un ferro di cavallo possa portarle fortuna?”, chiese. “Naturalmente no”, rispose Bohr, “ma so che porta fortuna a prescindere dal fatto che io ci creda o no”. Ti consiglio di adottare lo stesso atteggiamento nelle prossi-me settimane, Scorpione. Non rinunciare al-la tua logica, ma considera l’ipotesi di poter trarre vantaggio da forze che vanno oltre la tua immaginazione o che non rientrano nel tuo sistema di credenze.

Sagittario

In Farewell to the gold il cantante folk Nic Jones racconta la storia di un cercatore d’oro deluso. Avendo

trovato solo pochi granelli del prezioso me-

internazionale 744, 16 maggio 2008 • 103

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L’oroscopo di Rob Brezsny

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104 • internazionale 744, 16 maggio 2008

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Sabato ore 9.00- 22.30eventi e spettacoli nell’area esterna fino alle ore 1.00

Domenica ore 10.00-20.00

Terra Futura 2008 è promossa e organizzata da Fondazione Culturale Responsabilità Etica Onlus per conto del sistema Banca Etica (Banca Etica, Consorzio Etimos, Etica SGR, Rivista “Valori”) e Adescoop-Agenzia dell’Economia Sociale s.c.

È realizzata in partnership con Acli, Arci, Caritas Italiana, Cisl, Fiera delle Utopie Concrete, Legambiente.

In collaborazione con Regione Toscana, Provincia di Firenze, Comune di Firenze, Firenze Fiera SpA, Ufficio del Parlamento europeo per l’Italia, Rappresentanza in Italia della Commissione europea, AGICES-Assemblea Generale Italiana del Commercio Equo e Solidale, AIAB-Associazione Italiana per l’Agricoltura Biologica, Alleanza per il Clima, Associazione internazionale “Cultura & Progetto Sostenibili”, Centro SIeCI-Mani Tese, CNCA-Coordinamento Nazionale Comunità di Accoglienza, Coordinamento Agende 21 locali italiane, AzzeroCO2, Coordinamento Nazionale Enti Locali per la Pace e i Diritti Umani, CTM altromercato, Fairtrade TransFair Italia, FederBio-Federazione Italiana Agricoltura Biologica e Biodinamica, FIBA-CISL, Istituto Italiano della Donazione, ICEA-Istituto per la Certificazione Etica e Ambientale, Kyoto Club, Metadistretto Veneto della Bioedilizia, Rete di Lilliput, Rete NuovoMunicipio, WWF, Wuppertal Institut.

Con il patrocinio di Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, Ministero della Pubblica Istruzione - Ufficio Scolastico Regionale per la Toscana Direzione Generale, AIEL-Associazione Italiana Energia dal Legno, ANAB-Associazione Nazionale Architettura Bioecologica, ANCI-Associazione Nazionale Comuni Italiani, APER-Associazione Produttori di Energia da Fonti Rinnovabili, CGIL Nazionale - Dipartimento Welfare e Nuovi Diritti, CIA-Confederazione italiana agricoltori, Federazione Italiana dei Parchi e delle Riserve Naturali, Forum Permanente del Terzo Settore, GIFI-Gruppo Imprese Fotovoltaiche Italiane, Lega delle Autonomie Locali, Touring Club Italiano, UNCEM-Unione Nazionale Comuni Comunità Enti montani, UNDP-United Nations Development Programme, UNEP-United Nations Environment Programme, UPI-Unione delle Province d’Italia, Segretariato Sociale RAI.

L’evento gode dell’Alto Patronato della Presidenza della Repubblica.

Relazioni istituzionali e Programmazione culturaleFondazione Culturale Responsabilità Etica

Piazza dei Ciompi, 11 - 50122 FirenzeTel. +39 049/8771121 - Fax +39 049/8771199 [email protected]

Organizzazione eventoADESCOOP-Agenzia dell’Economia Sociale s.c.Via Boscovich, 12 - 35136 Padova Tel. +39 049/8726599 - Fax +39 049/8726568 [email protected]

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106 • internazionale 744, 16 maggio 2008

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“Bene, se vogliono incontrarsi online, che vadano tutti a quel paese”.

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“Sì, il papa è inciampato ed è caduto. Però non dobbiamo farne un dramma. È stato vittima della legge di gravità”. “C’è altro?”. “Sì, scomunicheremo Newton”.

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Nasrallah: “Nonostante le ripetute provocazioni del governo… ristabiliremo l’ordine in Libano”.

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[mancano 249 giorni]

“ Brie e formaggio ”George W. Bush speculando su quali sono i cibi preferiti dei giornalisti,

Washington, 23 agosto 2001

I disastri nel mondo.

Catastrofe umanitaria in Birmania. L’esercito è riuscito ad affrontarla. “Le dighe hanno retto bene”.

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Lo scorso 2 maggio un devastante ciclone ha colpito il Myanmar. Le equipe di Medici SenzaFrontiere hanno raggiunto le zone più colpite prestando i primi soccorsi e distribuendo cibo egeneri di prima necessità.

Medici Senza Frontiere lancia un appello urgente di raccolta fondi per fronteggiare i bisognienormi delle vittime.

La situazione è grave: occorrono farmaci, materiali di primo soccorso, cibo, ripari e acqua potabile.

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