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68 6. TIPOLOGIE DI IMBARCAZIONI PRESENTI NELLE TAVOLETTE VOTIVE Le tavolette donate dal 1859 al 1937 rappresentano legni di minor stazza e appartengono alle tipologie che venivano costruite in città. Prenderemo prima in considerazione le imbarcazioni che praticavano l’attività di pesca; il gozzo, la barca lunga, le barche di tonnara, il buzzo e il leutello, continueremo con quelle adibite usualmente al cabotaggio; lo schifazzo, la tartana, il cutter, la goletta a gabbiola e il brigantino goletta. Di ciascuna tipologia forniremo le caratteristiche dello scafo e dell’armamento velico, la zona del porto nella quale era stato stabilito potesse sostare, i tipi di pesca e traffici a cui si dedicava. Successivamente tratteremo degli ex voto che hanno come protagoniste le barche sopra citate e di essi analizzeremo: la località e l’epoca nella quale si verificò l’evento drammatico, il tipo di supporto sul quale sono stati dipinti, le loro dimensioni, l’autore dell’opera, la tipologia dell’imbarcazione, l’iscrizione e per ultimo un commento sull’opera. BARCHE DA PESCA Cominceremo con l’imbarcazione più piccola e più diffusa nella marineria trapanese: “IL GOZZO”. Cinque sono le tavolette votive che lo raffigurano, l’ordine di presentazione sarà cronologico. 6.1 GOZZO TRAPANESE Bellissimo gozzo con l’albero in coperta e l’antenna poggiata su due forcelle (furceddi), sullo sfondo il convento dei Cappuccini e sulla destra il Palazzo dei Mutilati.

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6. TIPOLOGIE DI IMBARCAZIONI PRESENTI NELLE TAVOLETTE VOTIVE

Le tavolette donate dal 1859 al 1937 rappresentano legni di minor stazza e appartengono alle tipologie che

venivano costruite in città. Prenderemo prima in considerazione le imbarcazioni che praticavano l’attività di

pesca; il gozzo, la barca lunga, le barche di tonnara, il buzzo e il leutello, continueremo con quelle adibite

usualmente al cabotaggio; lo schifazzo, la tartana, il cutter, la goletta a gabbiola e il brigantino goletta.

Di ciascuna tipologia forniremo le caratteristiche dello scafo e dell’armamento velico, la zona del porto nella

quale era stato stabilito potesse sostare, i tipi di pesca e traffici a cui si dedicava.

Successivamente tratteremo degli ex voto che hanno come protagoniste le barche sopra citate e di essi

analizzeremo: la località e l’epoca nella quale si verificò l’evento drammatico, il tipo di supporto sul quale

sono stati dipinti, le loro dimensioni, l’autore dell’opera, la tipologia dell’imbarcazione, l’iscrizione e per

ultimo un commento sull’opera.

BARCHE DA PESCA

Cominceremo con l’imbarcazione più piccola e più diffusa nella marineria trapanese: “IL GOZZO”. Cinque

sono le tavolette votive che lo raffigurano, l’ordine di presentazione sarà cronologico.

6.1 GOZZO TRAPANESE

Bellissimo gozzo con l’albero in coperta e l’antenna poggiata su due forcelle (furceddi), sullo sfondo il

convento dei Cappuccini e sulla destra il Palazzo dei Mutilati.

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Sempre presente nella marineria del trapanese il gozzo era una piccola barca con due o tre banchi le cui

caratteristiche principali consistevano nell’avere le estremità di poppa e di prora cuneiformi.

Misurava dai quattro ai sei metri di lunghezza, i più piccoli erano privi di pontatura ed erano spinti da due o

quattro remi, in quelli di maggior dimensione si potevano armare altri quattro remi supplementari su degli

scalmi posti a poppa e a prua; questi venivano utilizzati non per la normale voga in assenza di vento, ma per

agevolare il cambiamento di direzione dell’imbarcazione nel corso della navigazione a vela di bolina ed

anche nelle fasi di pesca e di ormeggio. I più grandi erano pontati per poter affrontare le battute di pesca

intorno alle isole Egadi e nel Canale di Sicilia. La maggior parte montava un piccolo albero, inclinato in

avanti, con antenna e vela latina solo raramente integrata da un fiocco. Se, giunti sul luogo di pesca, le

condizioni del mare erano tali da fare rollare l’imbarcazione, veniva tolto l’albero poggiandolo in coperta

mentre l’antenna veniva sospesa su due forcelle disposte sulla falchetta una a prua e l’altra a poppa.

Di limitata autonomia, a parte le eccezioni, il gozzo si manteneva a stretto contatto con la costa esercitando

vari tipi di pesca artigianale con lenze, reti da posta, piccola sciabica da spiaggia, conzu, angameddu,

purpissa, ontratu, manuzza e fiocina in cui risultava indispensabile ed efficiente. Il gozzo non era solo

strumento di pesca, ma anche mezzo di trasporto merci e passeggeri in ambito portuale e come barca di

servizio degli ormeggiatori.

Il gozzo, come la maggior parte delle barche trapanesi, era privo di decorazioni, l’opera viva veniva

impeciata a caldo e successivamente con l’avvento delle antivegetative diventò di color rosso cupo. L’opera

morta sovrastante la linea di galleggiamento era di colore bianco, la cinta colorata (giallo, azzurro, rosso,

verde), la fascia degli ombrinali rigorosamente bianca, l’orlo colorato, la coperta e gli interni color minio o

grigio perla.

La linea rossa indica la zona ovest del porto, caratterizzata da bassi fondali, assegnata ai gozzi

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Pescatori intenti alla riparazione delle reti nella spiaggia di S.Francesco. Sullo sfondo la Colombaia e sulla

sinistra il Lazzaretto.

Gozzo a vela in ingresso nel porto di Trapani, sullo sfondo il molo Ronciglio con il fanale verde

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Un elemento che permetteva alle mogli di riconoscere l’imbarcazione del marito, quando era sul

bagnasciuga affiancata agli altri scafi, era l’estremità dell’albero che poteva assumere forme particolari e

veniva pitturato con colori diversi da barca a barca.

All’interno del porto i gozzi ormeggiavano in quella zona di bassi fondali, denominato seno di mare dei

Cappuccini, che andava dal Bastione S. Francesco alla Chiesa e Convento dei Cappuccini. Questa insenatura

non era solo porto; era cantiere, era spazio per la manutenzione delle reti, era mercato.

Gozzo a vela all’interno del porto, a sinistra la Colombaia e a destra sullo sfondo Levanzo

Dopo gli anni cinquanta, del secolo scorso, i gozzi più grandi modificarono il loro sistema propulsivo

passando dalla vela al motore, mentre i più piccoli, a poco a poco, scomparvero proprio per la loro poppa

rastremata poco adatta alla motorizzazione fuoribordo.

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GOZZO NEGLI EX VOTO

Cominciamo con questa tavoletta votiva che dovrebbe essere molto antica perché le immagini sacre hanno

una dimensione notevole ed occupano la metà superiore del dipinto.

EX VOTO RAFFIGURANTE SALVATAGGIO DA NAUFRAGIO

Località: sconosciuta - Supporto: olio su tavola - Dimensioni: cm. 38,5 x 51 - Autore: ignoto - Epoca:

sconosciuta-Tipologia imbarcazione: gozzo - Iscrizione: inesistente.

Commento: in questo ex voto, sul quale non è riportata la data, il luogo dove accadde l’evento e i nomi

degli offerenti, l’autore ci raffigura una barca con sei uomini a bordo in procinto di affondare. La costa

vicina alimenta qualche speranza di salvezza. Tutti invocano l’intervento del divino, dalle anime purganti

alla Madonna e al Cristo che troneggiano sospesi su delle nuvole occupando gran parte della raffigurazione.

Immagine alquanto statica. Si evidenzia la presenza del tramite (le anime purganti) nei confronti dell’oggetto

della supplica (la Madonna).

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EX VOTO RAFFIGURANTE SALVATAGGIO DA NAUFRAGIO

Località: sconosciuta - Supporto: olio su tavola - Dimensioni: cm. 58 x 42 - Autore: ignoto - Epoca:

sconosciuta-Tipologia imbarcazione: gozzo - Iscrizione: V. E. & G. A..

Commento: le reti sono ancora calate in mare, ma una tempesta improvvisa non dà scampo, bisogna

recuperarle in fretta. In alto è raffigurata una piccola imbarcazione sommersa dai flutti con i sette pescatori

che chiedono aiuto con le braccia alzate, mentre in basso un’altra barca anch’essa con sette pescatori due dei

quali in piedi nell’atto di salpare la rete. Il mare è tutto un ribollire di onde. Solo un intervento celeste può

aiutare a superare la prova e a rientrare nel vicino porto raffigurato in basso sulla destra. I pescatori della

barca in difficoltà con le braccia sollevate invocano le anime purganti e la Madonna, raffigurate sospese tra

le nuvolette in un cielo grigio. Abbastanza statica l’immagine.

Dalle dimensioni dell’ immagine sacra e dalla sigla riportata in basso a sinistra, possiamo ipotizzare che il

dipinto sia stato eseguito nel XIX sec.

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PESCA CON LE RETI EFFETTUATA CON IL GOZZO

La rete è costituita da un intreccio di fili incrociati ed annodati fra loro ad intervalli regolari in modo da

lasciare spazi liberi di forma romboidale detti maglie. I materiali utilizzati anticamente erano la canapa e la

manilla, la manutenzione delle antiche reti richiedeva molte cure perché le fibre, rimanendo bagnate

potevano marcire per cui era necessario farle asciugare. Dagli inizi degli anni cinquanta del secolo scorso è

prevalso l’uso del nylon che ha eliminato la putrescibilità delle fibre naturali e gli inconvenienti dello

spessore del filo e del suo colore.

Le reti sono caratterizzate dallo spessore del filo e dalla dimensione delle maglie che variano a seconda del

tipo di pesca da effettuare. Una volta calate in mare le reti per distendersi in verticale sono superiormente

legate ad una cima a cui sono fissati dei galleggianti (lima dei sugheri) ed in basso ad un’altra che porta dei

pesi (lima dei piombi).

Reti messe ad asciugare sul lungomare che costeggia viale Regina Elena

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A seconda del loro utilizzo le reti si distinguono in: reti di superficie (rriti i summu) e reti di fondo (rriti i

funnu).

Le reti di superficie sono quelle la cui parte superiore rimane a fior d’acqua, alcune sono lasciate in balia

delle correnti altre invece sono issate subito dopo aver circondato un banco di pesci individuato dai

pescatori.

Le reti di fondo vengono lasciate in profondità, dove le correnti sono più deboli o vengono fatte strisciare sul

fondo.

RETI UTILIZZATE CON IL GOZZO

RETI DA POSTA O FISSE

Sono reti di fondo calate verticalmente e lasciate ferme in attesa che il pesce vi incappi restandovi

ammagliato. E’ il tipo di pesca più semplice, dai costi molto bassi che non richiede attrezzature sofisticate,

anche perché le reti sono calate e salpate a mano. Richiede solamente esperienza e conoscenza delle zone di

pesca. La selezione del pescato è data dalla stagione, dalla zona di pesca e dalle dimensioni delle maglie. Per

permettere la cattura la rete deve risultare poco visibile al pesce per cui si usano reti tessute con fili molto

sottili. Le moderne reti in fibra sintetica hanno eliminato gli inconvenienti dello spessore del filo e del suo

colore..

Con l’avvento del motore piccoli argani meccanici consentono di salpare la rete senza eccessiva fatica.

Esistono tre tipi di rete; il MONOFILO, il TREMAGLIO e il BARDASSUNI.

MONOFILO (rete di superfice)

La rete monofilo è un attrezzo da posta semplice (da imbrocco). E’ costituita da un solo telo e da un’unica

pezza di rete, costruita in nylon sottilissimo e quasi trasparente. Come per tutte le reti da imbrocco, il pesce

resta imprigionato nella rete penetrando con la testa nella maglia; la cattura è quindi altamente selettiva, in

dipendenza della misura della maglia con cui è armata la rete.

Il monofilo è utilizzato principalmente per la cattura di specie che formano cospicui banchi in periodo di

riproduzione, come il ritunno in autunno e la minnula in estate.

IL TREMAGLIO (rete da fondo)

E’ una rete da posta, di grande lunghezza e piccola altezza, formata da una serie di pezze di rete, ognuna

delle quali ha una lunghezza di circa 50 metri ed è composta da un sistema di tre teli: due esterni a maglia

larga 10-12 cm. detti “mantelli” e quello intermedio a maglia stretta 2-2,5 cm. detto “mappa sottile” o

“redina”. I pezzi di rete possono essere alti da un metro fino a due metri e mezzo. Nella parte bassa vi sono

dei piombi per fare in modo che la rete vada a fondo, nella parte alta vi sono dei sugheri che servono a tenere

la rete in posizione verticale e tesa. Alle due estremità la rete viene zavorrata e legata con dei segnali

galleggianti per poterli individuare e riconoscere.

I pesci superata la maglia larga vengono bloccati dalla rete a maglia stretta. Il pesce più grosso rimane

ammagliato nelle maglie larghe. I pesci che più facilmente si catturano sono quelli di fondo e tra questi

soprattutto gli scorfani, i turdi, le paonisse, i lappani e le triglie.

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BARDASSUNI (rete da fondo)

Il “bardassuni” (mbardate) è una rete lunga 150-200 metri, armata contemporaneamente a monofilo e

tremaglio. La rete nella parte inferiore, alta 2-3 metri, tocca il fondo ed è armata a tremaglio per la cattura

del pesce di fondo; la parte superiore, che giunge in prossimità della superficie, è composta da un solo telo

per la cattura del pesce di superficie come l’opa e la saredda. Si hanno quindi tre lime: quella dei piombi su

cui sono armate le tre pezze del tremaglio, una linea intermedia, punto di giunzione tra tremaglio e monofilo,

e la lima dei sugheri su cui è armato il telo della rete da imbrocco.

Pescatore ripara le reti sul suo gozzo ormeggiato nell’insenatura compresa tra la Torre di LYGNI e Casina

Nasi

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Viene calato in prossimità della costa, con un lato ancorato quasi a toccare riva. La rete ancorata al fondo e

tenuta verticale dai sugheri non viene calata in linea retta ma in modo tale da formare delle anse. Il pesce,

nella migrazione, trova il percorso sbarrato dalla rete per cui la costeggia arrivando all’ansa la cui funzione è

quella di far tornare indietro il pesce. La rete si cala la sera e si salpa al mattino ma può essere calata la

mattina e salpata al pomeriggio. Comunque non può essere lasciata per troppe ore perché il pesce rimasto

ammagliato può essere mangiato dai predatori oppure a furia di divincolarsi si sfibra tanto da non essere più

commerciabile.

EX VOTO RAFFIGURANTE SALVATAGGIO DA NAUFRAGIO

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Località: sconosciuta - Supporto: olio su tela - Dimensioni: cm. 31 x 48 - Autore: ignoto - Epoca: sec.XX,

1900-Tipologia imbarcazione: gozzo - Iscrizione: D’Amico Salvatore - D’Amico Rosario 1900

Commento: non è riportata la località dove è stato vissuto il dramma; ma dalle palme sulla riva e dai

turbanti rossi raffigurati sui capi degli uomini dell’equipaggio che si appresta a salvare i naufraghi, possiamo

ipotizzare di essere su di una costa africana. In alto, al centro della tavoletta, compaiono i nomi degli

offerenti che probabilmente sono i due pescatori raffigurati a bordo della loro piccola barca che sembra stia

affondando. La costa vicina alimenta qualche speranza di salvezza. La grande speranza viene però dalla

Madonna e da S.F. di Paola che in loro aiuto mandano due piccoli gozzi armati a vela latina. Alquanto

dinamica l’immagine con le vele e i rami delle palme piegate sotto le raffiche di vento. Ben riprodotte, anche

se non per intero, le immagini sacre.

EX VOTO RAFFIGURANTE SALVATAGGIO DA FORTUNALE

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Località: Bonagia (Trapani), Mar Tirreno - Supporto: olio su tela - Dimensioni: cm. 45 x 59 - Autore:

ignoto -Epoca: sec. XX, 1910 - Tipologia imbarcazione: gozzo - Iscrizione: Tempesta forte da scirocco la

sera del 18 Maggio 1910 sofferta dai fratelli Di Giovanni Giacomo. Salvatore.Gaetano. (figli du… Cardillo

Giacomo. Presso Bonagia. Salvi per tramite di Maria SS di Trapani e Gesù Cristo.

Commento: le reti erano state calate in mare quando una tempesta improvvisa di scirocco si abbattè sulla

piccola barca di pescatori della piccola borgata marinara di Bonagia. Solo un intervento celeste avrebbe

potuto aiutarli a superare la difficile situazione e a rientrare in porto, lottando soltanto con la forza delle

braccia contro il forte vento di scirocco che li spingeva verso il mare aperto (che il vento soffiasse da terra

verso il largo lo si evince dal gozzo ormeggiato la cui prua è rivolta verso terra). I cinque pescatori non si

perdettero d’animo e a forza di remi e con grande sofferenza riuscirono a raggiungere la riva dove i familiari,

in apprensione per la loro sorte, li stavano aspettando.

Alcuni di essi con le braccia alzate invocavano l’intervento divino che si manifestò con una scia luminosa

sull’oscuro cielo.

L’immagine dinamica evidenzia lo sforzo fatto dai pescatori che sono riusciti remando controvento e contro i

marosi, a guadagnare la riva.

Scarsa l’attenzione dell’autore alle immagini sacre, poco evidenti, e dai lineamenti poco definiti.

EX VOTO RAFFIGURANTE SALVATAGGIO DA FORTUNALE

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Località: Cirenaica (Libia), Mar Mediterraneo - Supporto: tempera su cartoncino - Dimensioni: cm. 52 x

72 - Autore: ignoto - Epoca: sec. XX, 1924 - Tipologia imbarcazione: gozzo - Iscrizione: LA . BARCA .

NOMINATA . BOMMINA . TROVANDOSI . NELLA . COSTA . DELLA .CIRENAICA . ALLE .ACQUE

. DI . SAIANA . ASSALITI . DA . UN . FORTE TEMPORALE . DA . N.E. PRECANDO .ALLA .

MADONNA . DI . TRAPANI CHE . LI .SALVO: TUTTI . CAPO . BARCA .FRANCESCO .

INCARBONA .BAIATA . ANTONINO E .- FIGUCCIO . BALDASSARE . 10 DICEMBRE .1924.

Commento: paesaggio africano (Libia), distese di sabbia con molte palme. La barca da pesca in prossimità

di una insenatura, è avviluppata dalle onde, a bordo un uomo dell’equipaggio chiede aiuto mentre in acqua

sono raffigurate almeno tre persone. Siccome nell’iscrizione sono indicati i nomi dei tre membri

dell’equipaggio che si sono salvati, probabilmente qualcuno da terra si gettò in acqua per prestare soccorso.

La costa vicina alimenta qualche speranza di salvezza. La grande speranza viene però dalla Madonna

raffigurata in alto a destra. La barca, della quale non viene descritta la tipologia, ma che dalle dimensioni e

dalla raffigurazione sembrerebbe un gozzo, si intravede appena tra i flutti e non assume, come solitamente

accade, il ruolo di protagonista. Immagine alquanto statica.

L’unica immagine sacra quasi si confonde con i colori della costa sabbiosa.

ALTRI TIPI DI PESCA PRATICATI CON IL GOZZO

PESCA CON LE LENZE ED AMI

L’uso degli ami come strumenti di cattura di pesci è antichissimo. L’amo è un uncino metallico legato ad un

filo che, opportunamente innescato trattiene i pesci che vi abboccano. E’ la dimensione dell’amo e il tipo di

esca che seleziona le prede che si vogliono catturare. Distinguiamo diversi tipi di attrezzi: il pulintinu, la

traina, la purpissa, l’otrantu e u conzu, .

PULINTINU

Il pulintinu è una lenza a cui sono legati tramite brevi rami laterali degli ami ed appesantita con un piombo.

Gli ami devono essere sempre nuovi, non arrugginiti e ben appuntiti, come esca si usano gamberetti, vermi o

pezzi di pesce fresco. Si usa sia da terra che dalla barca. Il filo della lenza deve restare sotto continuo

controllo del pescatore per cui viene tenuto con il dito indice. Quando si sente che il pesce ha abboccato si

tira la lenza e si recupera il pesce. L’uso della lenza oggi è appannaggio quasi esclusivo degli appassionati

non professionisti, che praticano la pesca di fondo per cernie bianche, sauri, grossi scorfani e quella di basso

fondale per donzelle, capre, serranie, lappani.

Inoltre viene praticata anche la pesca a traino di ricciole e dentici di notevoli dimensioni.

PURPISSA

La purpissa consiste in un pezzo di piombo cilindrico di 30-40 grammi alla cui base sono legati sei o più ami

a raggiera; al pezzo di piombo è legata una lenza. Un tempo l’attrezzo era costruito legando insieme gli ami

con della corda vegetale, mentre il piombo, che aveva la funzione di portare a fondo l’attrezzo, era legato

alla lenza circa 10 centimetri sopra gli ami.

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Una vecchia “purpissa” costruita con ami legati con una cordicella vegetale

Gli ami non sono quasi mai innescati con esche fresche, infatti possono essere sostituite o integrate con

strisce di tela di color bianco, che hanno lo scopo di attirare l’attenzione del polipo.

L’attrezzo si cala in acqua e si aspetta che tocchi il fondo, quindi lentamente e a piccoli strappi intermittenti,

si recupera facendolo appena strisciare sul fondo. Quando il polpo rimane attaccato agli ami, si recupera la

“purpissa” e la preda con una certa sollecitudine facendo in modo che la lenza rimanga in costante tensione,

impedendo così al polpo di slamarsi.

Questo attrezzo è oggi utilizzato sia dai pescatori professionisti che dai dilettanti.

Lo si può usare dalla barca anche in acque poco profonde quando non è possibile utilizzare l’asta con la

fiocina: individuato il polpo per mezzo dello specchio, viene calata la purpissa e si aspetta che il polipo

l’abbracci con i tentacoli, quindi inizia il recupero fino ad issare la preda a bordo.

ONTRATU

L’ontratu è un attrezzo che si utilizza con o senza esca per la pesca dei calamari sottocosta dalla barca ed è

usato principalmente dai pescatori dilettanti. Il corpo dell’attrezzo è formato da un cilindro di piombo,

rivestito di filo bianco (i più moderni sono ricoperti con vernice fosforescente o dotati di fonte luminosa),

mentre la parte terminale è formata da una o due raggiere di ami. L’attrezzo è fissato ad una lenza e viene

calato fino a pochi metri dal fondo dal pescatore che poi lo fa muovere in verticale con un lento movimento

del braccio. Il calamaro viene attratto dal corpo bianco dell’attrezzo in movimento e lo circonda con i

tentacoli, rimanendo attaccato agli ami; immediatamente si inizia il recupero a bracciate regolari fino a

portare la preda a bordo. La pesca al calamaro con l’ontratu si effettua nelle ore notturne e preferibilmente

all’alba o verso il tramonto in autunno-inverno, periodo in cui il calamaro si avvicina alla costa per deporre

le uova.

Dall’alto un antico e un moderno “ontratu”

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CONZU (palangaro)

Il palangaro è formato da una lenza madre di lunghezza variabile detta trave, a cui sono attaccati, ad

intervalli regolari, spezzoni di lenza detti bracci provvisti di ami con esche. Gli ami hanno dimensioni

variabili a seconda del tipo di pesca. La trave può essere galleggiante (palangaro di superficie o derivante)

oppure mantenuta a determinate profondità o calata ed ancorata sul fondo per mezzo di piombi (palangaro di

fondo o fisso), mentre gli estremi sono legati ad altri cavi che affiorano in superficie mediante galleggianti.

Con il palangaro di fondo si pescano ombrine, cernie, orate, saraghi, dentici, gronghi, prao e merluzzi.

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Schema conzo

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Un particolare palangaro derivante, utilizzato soprattutto dai pescatori di Marsala, è quello per la pesca del

tonno e del pescespada, gli ami vengono innescati con sgombri o totani e ha una trave particolarmente

robusta e lunghezze considerevoli.

Il palangaro costituisce un sistema di pesca altamente selettiva poiché a seconda della misura dell’amo si

ottiene la cattura di pesci di dimensioni ben definite. Trave e braccioli si dispongono in perfetto ordine, in

una particolare cesta attaccando gli ami ad uno strato di sughero legato all’interno.

Nel palangaro di superficie il capo della trave viene legato ad un galleggiante con un segnale (un’asta con

una piccola bandiera di colore nero) ancorato con una pietra (mazzara). La trave viene mantenuta poco sotto

il livello del mare con galleggianti, alla fine si dispone un altro segnale ed un ancoraggio. Si catturano,

palamiti, allunghe, fanali e capuna. L’esca utilizzata è costituita da gamberi e striscioline di sarda o totano.

Antico contenitore per raccogliere la trave e i braccioli

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Preparazione del palangaro

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Pescatori preparano il palangaro innescandone gli ami.

ANGAMEDDU

L’angameddu deformazione dialettale del termine angamo, è una rete a strascico a bocca fissa tenuta aperta

da due semicerchi rigidi in ferro. La rete, legata a questi semicerchi, ha maglie fitte e forma a sacco. Il

semicerchio orizzontale è più pesante per garantire una buona adesione al fondo. Tale attrezzo si usa su bassi

fondali privi di asperità. Arrivati nella zona di pesca dopo averlo calato ci si allontana mollando la corda

legata al bilancino, si blocca la barca con l’ancora e si tira la fune facendo strisciare il semicerchio

orizzontale sul fondo. L’attrezzo può essere usato con la barca in movimento utilizzando come forza di tiro

la spinta della vela e successivamente dal motore.

Si pescano gamberi, molluschi e pesce di fondo. Principalmente viene usato per la pesca dei gamberetti da

usare come esca nei conzi e per la pesca dilettantistica con la lenza.

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Schema di pesca con l’angameddu

Antico angameddu

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Rete angameddu

PESCA CON LA FIOCINA

La pesca con la fiocina, molto nota e diffusa in passato, oggi fortemente ridimensionata e quasi scomparsa,

si esercitava esclusivamente con un gozzetto che si distingueva per il ridotto volume della poppa; piccola e

bassa consentiva al fiocinatore di stare in piedi e scrutare il fondo con l’ausilio di una fonte luminosa

(lampara). Avendo le estremità affinate riesciva a muoversi con agilità in tutte le direzioni. La pesca si

praticava di notte lungo le coste rocciose a basse profondità per catturare pesci, seppie, polipi.

Questi gozzetti per poter esercitare questo tipo di pesca, necessitavano di mare calmo e limpido; poteva

essere praticata da un solo pescatore che con l’asta fra le mani la usava sia per spostarsi che per infilzare le

prede.

Si spostavano da un ridosso all’altro sfruttando le deboli brezze notturne, con vele spesso rattoppate al punto

di non avere il coraggio a mostrarle di giorno, e inferite ad un’antenna, arrangiata magari con un paio delle

loro lunghe aste da fiocina.

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Se la superficie dell’acqua era un pò increspata la chiara visione del fondo marino veniva ottenuta usando

uno specchio. In questo caso, a differenza del precedente, erano necessari due pescatori: uno ai remi e l’altro,

a poppa, con specchio e fiocina. Chi remava doveva fare attenzione alle indicazioni, circa la direzione da

seguire, che venivano date dal pescatore che osservava il fondo marino. Con pazienza, lentamente, veniva

esplorata la scogliera. I pesci che attirati dalla luce uscivano allo scoperto, venivano infilzati con un rapido

colpo.

Antica lampara

Stava nell’abilità del fiocinatore colpire il pesce nella testa perché lo si tramortiva e la preda non veniva

deteriorata. Se veniva colpito il corpo il pesce continuava a muoversi e avrebbe potuto divincolarsi.

FIOCINA (ficcina)

La fiocina è un attrezzo utilizzato dal pescatore per la cattura di pesci e cefalopodi.

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E’ un forcone in ferro munito di ardiglioni sulle punte; le dimensioni (fino a trenta centimetri) e il numero

delle punte variano a seconda del tipo di pesca che si vuole fare. Si utilizza innestata su di una lunga asta di

legno della lunghezza di alcuni metri allungabile con altre aste. Come legno per le aste si usava il legno pice-

pine dalle fibre rettilinee e fitte che, non presentando nodi, permetteva di ottenere una sezione ridotta (4 cm.

circa) che ne facilitava l’impugnatura e quindi l’utilizzo.

Antiche fiocine forgiate a mano

MANUZZA

La manuzza è un attrezzo utilizzato per la raccolta dei ricci di mare fino a qualche metro di profondità.

E’ formato da un anello in ferro, aperto e con le punte ritorte. L’anello, il cui diametro è di circa 10

centimetri, è saldato ad un corto supporto in ferro che ne permette il fissaggio ad un’asta di lunghezza

variabile mediante la quale l’attrezzo viene manovrato. Il riccio viene localizzato con l’ausilio dello specchio

e viene staccato dalla roccia con le punte della “manuzza”, quindi, con un movimento dell’attrezzo, si fa

cadere nell’incavo dell’anello, permettendone in tal modo il recupero. La pesca dei ricci con la manuzza è

un’attività che, oggi, raramente viene esercitata essendo stata sostituita dalla raccolta manuale con l’uso

delle bombole.

Manuzza

SPECCHIO

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Struttura cilindrica in ferro (generalmente un bidone), in rame o alluminio oggi anche in materiale plastico

chiusa, su una base, da un vetro. Il vetro, tenuto immerso, elimina le increspature del mare permettendo una

buona visione del fondo.

Antico specchio in lamierino zincato

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6.2 BARCA LUNGA ( VARCA LONGA )

Disegno varca longa di Marettimo

La barca lunga, anche se molto diffusa nel trapanese, molto probabilmente non è nata a Trapani ma ad Isola

delle Femmine dove veniva qualificata come “CAPACIOTA”. Capacioti, infatti, erano chiamati gli abitanti

del borgo marinaro di Isola dopo che quel tratto di costa, facente parte del comune di Capaci, a partire dal

1584 fu abitato da alcuni pescatori provenienti dall’entroterra che vi impiantarono una tonnara. Soltanto nel

1855 Isola, con i suoi 1000 abitanti, si separa da Capaci e diventa comune autonomo. Il De Quatrefages

(medico, biologo marino, zoologo ed antropologo francese che studiò, nel corso di una spedizione scientifica

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compiuta nel 1845, le biocostruzioni interditali del tratto costiero compreso tra Isola delle Femmine e

Terrasini per conto del Ministero della Pubblica Istruzione, del Giardino Botanico e dell’Accademia delle

Scienze) dichiara di averne trovata soltanto una in tutto il Compartimento Navale di Palermo. Ma dalla

seconda metà del ’800 e nei primi decenni del ‘900 ne vennero costruite in gran quantità.

Le capaciote erano mediamente lunghe da 20 a 30 palmi (1 palmo=25 cm) cioè dai 5 ai 7,5 metri ed

esercitavano la pesca in acque territoriali. Quelle che pescavano le sardine aurate e le alacce in acque

extraterritoriali, raggiungendo le coste africane, avevano una lunghezza che variava dai 35 ai 40 palmi cioè

dai 8,75 ai 10 metri.

Molto probabilmente la diffusione di questa tipologia di barca nel trapanese ebbe inizio nei primi decenni

del XIX secolo quando i pescatori di Isola, alla ricerca di più ricche zone di pesca, iniziarono a trasferirsi a

S.Vito Lo Capo, alle Baracche di Trapani, a Favignana, a Marettimo, a Mazzara del Vallo e a Sciacca. Ogni

anno partivano il giorno di S.Giuseppe, il 19 marzo, aspettando il vento favorevole di grecale, e in quei mari

si dedicavano per circa tre mesi alla pesca del pesce azzurro; per S.Pietro, il 29 giugno, ritornavano a casa

portando il guadagno di tre mesi di duro lavoro.

Una testimonianza della presenza delle barche capaciote nei mari del trapanese si trova in una antica carta

nautica rilevata nel 1864 dal comandante della nave inglese “FIREFLY”e conservata presso la Capitaneria di

porto di Trapani. In questa carta è riportata con il nome di Isola di Femine una piccola secca a qualche

miglio ad ovest del porto di Trapani.

Imbarcazione utilizzata principalmente per la pesca del pesce azzurro (sarde, acciughe) dalle marinerie del

palermitano dove era nota come sardara e da quelle del trapanese dove era nota come barca lunga (varca

longa) per l’alto rapporto tra lunghezza e larghezza (3 a 1).

Caratteristica della barca lunga, oltre ai vivaci colori mediterranei dello scafo e le decorazioni a carattere

religioso e magico protettivo, era il dritto di poppa rientrante (a trasiri) a forma di scimitarra (capiuni o

acidduzzu i puppa) alto anche più di un metro. Tale motivo ornamentale si ritrova nelle imbarcazioni di età

classica, ha la stessa forma di quello presente nel famoso rilievo portuense al Museo Torlonia di Roma e a

quello di alcune imbarcazioni raffigurate nei mosaici di Piazza Armerina. Anticamente il dritto di prua era

chiamato “CAPIONE”, da capo, dato che la sua estremità presentava un ingrossamento che ricordava la

testa. Nel tempo tale nome fu assegnato anche al dritto di poppa. Il significato della testa è da ricondursi alla

personificazione della barca, concezione in base alla quale tutti gli esseri, anche quelli inanimati, sarebbero

dotati di un principio vitale. Alcuni pescatori, in particolare quelli di Castellammare del Golfo, chiamavano

il dritto di poppa “CAMPIONE”, questo rappresenta una deformazione dialettale del termine italiano

capione.

Nella parte alta del capione erano praticati due fori attraverso i quali passava una cima che serviva a tenere a

riposo una estremità dell’antenna con la vela mentre l’altra estremità poggiava verso prua su di una forcella

di legno (furcina).

Come testimoniano antiche foto e due tavolette votive il timone andava oltre l’alto dritto poppiero e la

relativa la barra (AGGHIACCIO) di legno lo sovrastava scendendo verso la coperta. In questo modo la

barra non intralciava le operazioni di calata e salpata delle reti, successivamente il timone fu accorciato e la

barra sostituita da una in ferro, piegata a forma di falce per aggirare il capione.

Il lungo timone, la cui funzione principale era quella di organo di governo direzionale, si prolungava ben

oltre la chiglia e contribuiva ad aumentare la superficie di deriva e a migliorare la governabilità e il

rendimento dell’imbarcazione sotto vela.

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Sulle due barche lunghe di Favignana raffigurate in una tavoletta votiva si vedono le barre dei timoni

che sovrastano il dritto poppiero

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Antica varca longa, con timone oltre il capione, ormeggiata in banchina nel porto di Trapani

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Antica varca longa capaciota con il timone la cui barra è posta al di sopra del capione

Disponevano, per la propulsione a remi, di un numero variabile di banchi di voga in funzione della

lunghezza, le più lunghe ne avevano quattro ed erano dotate di otto remi, a questi se ne potevano aggiungere

altri quattro, due a prua e due a poppa della cui funzione abbiamo già detto nella descrizione del gozzo;

l’armamento velico consisteva in una vela latina inferita ad una lunga antenna ed issata con un paranco su di

un corto albero che sulle barche trapanesi era inclinato in avanti mentre su quelle della zona di Capaci e del

palermitano era quasi verticale. Le barche più grandi erano dotate di una seconda antenna più corta sulla

quale veniva inferita una vela più piccola e pesante da utilizzare con vento molto forte. Le barche costruite

nella seconda metà del XX secolo venivano armate con un fiocco (pilaccune) murato ad un’asta detta di

fiocco.

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Antica varca longa con quattro banchi di voga e 12 remi, sei per lato

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Due barche lunghe all’interno del Mar dei Cappuccini, sulla sinistra il Lazzaretto e sullo sfondo Levanzo

Alle estremità delle ruota di poppa e di prora, appena sopra la linea di galleggiamento presentavano delle

sporgenze che i marinai chiamavano “TACCHI”. Questi erano dei supporti in legno, dei punti di appoggio,

dei piccoli gradini utilizzati per salire e scendere dalla barca quando questa era ormeggiata nei bassi fondali,

oppure quando era tirata in secco per la normale manutenzione. Potevano anche essere utilizzati, in casi

estremi, per la risalita a bordo di un pescatore caduto accidentalmente in acqua.

Su ciascuna fiancata, in corrispondenza della fascia degli ombrinali, era posizionata tramite dei perni

passanti una piastra metallica dotata di un anello nella parte rivolta verso poppa; su questi due anelli

venivano passate due grosse cime che facevano capo ad un paranco che veniva utilizzato per tirare in secco

le imbarcazioni. Osservando tutte le foto notiamo che tutte le imbarcazioni tirate in secco presentano la prua

rivolta verso il mare.

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Varche longhe tirate in secco a Castellammare del Golfo

Varca longa di Castellammare, si nota u taccu proprio sopra la linea del galleggiamento poco sotto

l’estremità destra del timone sospeso.

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Siccome anticamente le poche zone banchinate dei porti venivano utilizzate dalle imbarcazioni più grandi, le

piccole barche da pesca venivano ormeggiate e tirate in secco nelle zone del porto dove il fondale era basso.

I pescatori, per sbarcare le reti posizionate a poppa, per poterne effettuare la pulizia e le riparazioni, erano

costretti ad avvicinarsi alla riva di poppa e dopo aver agganciate le due cime sui due anelli e messi i primi

parati, tramite un paranco portavano la parte poppiera dell’imbarcazione in secco. Dopo essere state pulite

ed eventualmente ricucite, il pescatore imbarcava le reti e rimetteva in acqua l’imbarcazione.

Dalle foto più antiche possiamo osservare che la barca lunga presentava un cavallino (o insellatura:

concavità longitudinale della parte mediana dello scafo e della conseguente elevazione della prua e della

poppa) abbastanza accentuato. Questa caratteristica non è stata mantenuta nelle imbarcazioni costruite in

epoca più recente che presentano un modesto cavallino ed una maggiore larghezza.

La varca longa era una barca essenzialmente aperta con una copertura ridotta al triangolo di poppa e di prua

(vacca liscia); le più grandi erano caratterizzate dall’aggiunta di una pontatura parziale ridotta a due corsie

che correvano lateralmente da prua a poppa (varca chi curritura). Queste ultime risultavano decisamente più

asciutte nella navigazione a vela con mare formato. Quando infatti ingavonate affrontavano le onde, i

curritura impedivano di imbarcare l’acqua, che aveva superato il capo di banda (orlo superiore della murata),

lasciandola defluire dagli ombrinali.

Al vano di prua (u postu asciuttu), chiuso da una paratia, si accedeva tramite un portello e specialmente nelle

barche più grandi potevano trovare ricovero per dormire anche quattro persone. Il vano di poppa, più ridotto

era di norma riservato al capobarca. Durante le operazioni di pesca con mare formato l’albero veniva tolto e

posto in coperta mentre l’antenna veniva appoggiata su appositi supporti (furcine o furcedde) a forma di Y

ricavati da rami di ulivo.

Le dotazioni di bordo comprendevano: “U FERRU” ancorotto di ferro a tre o quattro marre per ancoraggi

su fondali sabbiosi, fangosi o di alghe; “UN CANTUNE” una pietra a forma di parallelepipedo di

dimensioni 50 x 25 x 25 cm., del peso di circa 30 kg. munita, al centro e trasversalmente, di un incavo dentro

il quale si faceva passare un pezzo di cima che terminava con un occhio all’interno del quale si faceva

passare la cima per gli ancoraggi su fondi rocciosi; delle piccole brocche di terracotta contenenti acqua

dolce; due mezzi barili alti 50 cm. e dello stesso diametro per riporvi il pesce; una sassola e spugne per

togliere l’acqua eventualmente imbarcata; i parati che servivano per tirare in secco la barca e un barattolo di

sego per ungere i parati, gli scalmi e gli stroppi dei remi.

Nel vano chiuso di poppa venivano conservati: in una scatola di zinco stagna i documenti di bordo, gli

stroppi di rispetto per i remi, due fanali a petrolio ed una tanica per il petrolio di circa due litri.

Per quanto riguarda la pitturazione tutte le parti lignee erano trattate con una miscela di olio di lino e minio

di piombo, successivamente su questo strato protettivo venivano applicati vivaci colori così distribuiti:

OPERA MORTA (parte non immersa):

INTERNI: anticamente rosso minio (un composto di piombo) o grigio perla

COPERTA : rosso minio

ORLI, FALCHE E BANCHI DI VOGA: prevale l’azzurro e qualche volta giallo o verde

CAPIONE: dello stesso colore dell’orlo, con il bordo talvolta di colore rosso.

TAVOLA DEGLI OMBRINALI chiamata “a tavula i buinnali” (poiché sul suo margine inferiore e in

corrispondenza di ogni staminale erano ricavate delle aperture a forma di settore circolare per il deflusso

fuori bordo dell’acqua imbarcata in coperta): prevale il bianco, in pochi casi è giallo come nella tavoletta

votiva

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BORDINO ESTERNO DEL TRINCARINO: quasi sempre rosso, qualche volta giallo

CINTA (il primo filo di fasciame chiamato “a tavula a cinta”): blu, giallo o rosso

LA PARTE SOTTOSTANTE sino alla linea del galleggiamento bianco.

OPERA VIVA (parte immersa): nelle più antiche nera perché impeciata a caldo, successivamente color

ruggine verdastro a causa delle vernici a base di ossido di rame utilizzato per proteggere il legname

dall’attacco degli agenti marini.

LE DECORAZIONI

Sulla barca lunga erano presenti sobrie decorazioni, nelle falche, nei bordi esterni del capo di banda (orlo),

nelle fasce degli ombrinali, nell’opera morta a prua e a poppa sotto la cinta (corso più alto del fasciame) e

nel capione o acidduzzu (alto dritto di poppa).

Filippa Madre antica varca longa di Castellammare di proprietà del sig. Paradiso

Sulle alte falche (tavole utilizzate per rialzare i fianchi dell’imbarcazione a prua e qualche volta anche a

poppa, per limitare l’imbarco dell’acqua con mare mosso) erano presenti fregi (fasce ornamentali ad

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andamento orizzontale decorate con figure o motivi geometrici) e panneggi (insieme di pieghe morbide

ricadenti).

I bordi esterni del capo di banda (orlo superiore), limitatamente alla parte sottostante le falche, venivano

pitturati, ad intervalli regolari, con i colori della bandiera italiana verde bianco e rosso.

A prora sulla cinta veniva scritto il nome della barca e il suo numero di immatricolazione

Presso la marineria di Castellammare del Golfo, che risentiva maggiormente dell’influenza delle vicine

marinerie di Tappeto, Terrasini e Isola delle Femmine, le barche lunghe presentavano, oltre a quelle sopra

descritte, ulteriori decorazioni: la tavola degli ombrinali, da prora sino a poppa, veniva decorata con gli

stessi motivi presenti sulle falche e a poppa sotto la cinta veniva raffigurato, a scopo propiziatorio, il pesce

oggetto principale dell’attività di prelievo dell’imbarcazione.

Raffigurazione di un pesce sull’opera morta a poppa, il ragazzino avvinghiato al capione poggia i piedi

sui tacchi posti ai lati del dritto di poppa

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SIMBOLI APOTROPAICI

L’acqua è stata considerata da sempre il principio della vita e il mare, nell’immaginario collettivo, ha

rappresentato il luogo dove risiedono mostri, dei, ninfe e tritoni. Sul mare si erano create innumerevoli

leggende fondate talvolta su identificazioni mitologiche di esseri mostruosi, oppure sui rischi di

intraprendere un viaggio verso l’ignoto.

I pescatori, per proteggere se stessi e la loro barca dalle insidie del mare e dai mostri che si riteneva lo

popolassero, solevano dipingere a prora, sotto la cinta, che era la parte della barca dedicata al profano, delle

immagini che assumevano un valore apotropaico (possedevano quella particolare carica magica capace di

allontanare o distruggere gli influssi malefici).

Questi simboli, utilizzati come difesa dalle forze malefiche, erano molto antichi e capaci di esorcizzare il

pericolo, scongiurare disgrazie e tenere lontano il malocchio.

Vi si dipingeva l’ippocampo o cavallo marino, l’occhio, la sirena e il drago.

La maggior parte di queste raffigurazioni simboliche non sono mai esistite se non nell’immaginazione

dell’uomo a causa di un irrefrenabile impulso verso il magico e il mitico.

IPPOCAMPO O CAVALLO MARINO

Il suo nome deriva dal greco HIPPOS = CAVALLO e da KAMPOS = MOSTRO MARINO. Il cavallo del

mare o ippocampo era una creatura leggendaria della mitologia greca. L’ippocampo era l’animale sacro di

Poseidone, dio greco del mare (Nettuno per i romani). Secondo la leggenda il carro di Poseidone era trainato

da quattro ippocampi circondati da tritoni, nereidi, draghi acquatici e giganteschi mostri marini.

Ippocampo raffigurato sulla prua della barca lunga protagonista della tavoletta votiva presentata più avanti

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Il cavallo marino veniva rappresentato come animale mitologico, commistione tra creatura terrestre e

marina; era cavallo sino alla pancia e il suo corpo finiva con una coda di pesce. Poteva avere zoccoli o

zampe palmate e al posto della criniera una cresta di membrana o delle alghe.

Al cavallo marino, capace di superare gli ostacoli e cavalcare le onde, venivano riconosciuti poteri magici ed

era considerato come un potente amuleto contro il malocchio e altre specie di malefici, a tutela dei pescatori

e della pesca.

A confermare quanto detto sono le antiche foto e la nostra tavoletta votiva, nelle quali a prua delle barche

lunghe è sempre presente l’ippocampo.

Varca longa costruita a Terrasini agli inizi del 1900, a prua l’ippocampo

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LA SIRENA

Le origini del mito delle sirene sono oscure e discordanti. Quando nacquero non erano donne pesce ma

donne uccello, i greci le descrivevano come immensi uccelli con testa di donna e rappresentavano l’anima

dei defunti in attesa di giudizio. Si trattava dunque di un simbolo che rinviava al mondo dell’aldilà.

In tempi remoti erano considerate come esseri malefici portatrici di disgrazie, rappresentavano il binomio

inganno-morte con il loro canto ammaliante che attirava i naviganti sotto costa per farli naufragare.

Nella tradizione europea, dal medioevo in poi, assumono le sembianze di meravigliose creature metà donna

e metà pesce, e diventano creature buone, dolci, leggiadre, perdendo la primitiva connotazione malvagia.

Per i marinai la sirena è un simbolo (angelo) che libera l’uomo dai suoi problemi e dai pensieri che lo

affliggono e che lo tengono legato alla terra. E’ vista come una liberatrice, una donna che ama e rapisce il

suo uomo per trasportarlo negli abissi e farlo felice.

Viene vista come una creatura che assiste i pescatori e marinai durante l’espletamento del loro lavoro.

La sirena sotto forma di donna-pesce è il tipo prediletto sulle barche e può essere rappresentata con una o

due code. Nell’immaginario popolare siciliano accanto alla tradizione che vede nella sirena un simbolo di

valenze negative (un canto popolare di Partinico così dice: in mezzo al mare ci stà la sirena, chi passa con il

suo canto lo attira, ci piglia la varcuzza con la vela e la seppellisce sul fondo di sabbia e chi ci capita, forte se

lo tiene con i canti che fa sera e mattina) ne è attestata un’altra che la considera benevolmente e la assimila

alle fate.

Sirena raffigurata sulla prua della varca longa costruita da mastro Nardo Barraco

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L’OCCHIO

La riproduzione dell’occhio umano veniva utilizzata in funzione antimalocchio.

Scrive il Bonanno: nessuna superstizione si è conservata così salda attraverso i secoli quanto quella che

attribuisce ad alcuni esseri umani un potere arcano e malefico; secondo questa superstizione un essere

umano può di sua propria volontà, da lontano o da vicino, esercitare un influsso pernicioso su altri esseri

umani, sugli animali e sulle cose. Sembra quindi naturale che a tale azione malefica si sia dato per sede

l’organo della vista, come quello che può abbracciare più larga parte del mondo esteriore.

La ragione di tale influsso dannoso attribuito all’occhio va cercato nella credenza antichissima che esso

fosse la sede dell’anima e che quindi riflettesse le passioni, per cui dall’occhio può essere mandato un fluido

capace di agire a distanza.

Fin dai tempi arcaici l’occhio ha avuto un valore magico positivo. La barca era considerata come un essere

vivente che avanzava sulla superficie del mare abitata da esseri misteriosi e talvolta ostili, per cui l’occhio

era preposto alla individuazione di una rotta priva di pericoli, annullare e allontanare influssi maligni.

Gli occhi dello schifazzo Penelope

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Quando navigavano di notte o c’era cattivo tempo e la visibilità era scarsa, per superare la molteplicità dei

rischi che il mare poteva riservare (secche, relitti vaganti, scogli) e ritrovare la via del porto, il pescatore si

affidava agli occhi immaginari della sua barca, che erano una garanzia simbolica di sicurezza. Per i pescatori

l’occhio aveva anche la funzione di far vedere alla barca i banchi di pesce.

La presenza degli occhi sulle barche può essere anche interpretata come espressione della fede cristiana in

Dio e di devozione per S.Lucia, protettrice della vista, la cui mediazione concede protezione alla barca e ai

pescatori.

Il nome lucia evoca la luce in quanto deriva dal latino lucia, femminile di lucius, la cui radice e lux, lucis,

luce. Il culto di S.Lucia fu praticato tra il XVI e il XVII sec. soprattutto dai pescatori trapanesi. Nella

processione del venerdì santo, il ceto dei pescatori porta in processione lo stendardo con l’effige della santa e

della Madonna di Trapani.

IL DRAGO

La figura del drago affonda le sue origini nella cultura cinese, nella quale il drago aveva una connotazione

positiva. La comparsa del drago in occidente è collegata alla cultura vichinga: teste di drago ornavano le

prue delle loro navi.

Sbarco della statua della Madonna, a Castellammare del Golfo, dalla barca lunga Filippa Madre rinominata

ORZA

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IMMAGINI SACRE

Le raffigurazioni religiose erano molto diffuse fino agli anni 50, quando ancora le difficili e insicure

condizioni di lavoro rendevano indispensabile la ricerca di un appiglio, un qualcuno a cui affidarsi nei

momenti di pericolo, che soltanto la religione poteva dare.

I pescatori credevano che il Diavolo si annidasse negli angoli più nascosti delle barche, che facesse

imbrogliare le reti, spezzare le cime, stracciare le vele e fuggire i pesci. Ancora oggi i pescatori usano

mettere immagini di Santi e della Madonna a poppa o a prua e far benedire dal sacerdote la barca e le sue

attrezzature.

Abbellire la barca con immagini sacre dipinte serviva a testimoniare la fede nella religione e ad assicurarsi la

protezione divina sulla barca e sui pescatori. La loro presenza era ritenuta indispensabile nella lotta contro

gli elementi che il mare avrebbe potuto scatenare e davanti ai quali forza e perizia avrebbero potuto

mostrarsi insufficienti.

Immagine sacra sul capione della barca lunga di Aspra

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I santi, invocati nei momenti di pericolo, avevano il potere di intervenire con la loro azione tempestiva con

salvataggi impossibili. Il dritto di poppa era il luogo dedicato al sacro. A poppa, luogo della barca da cui le

reti venivano calate e alate, le immagini sacre ivi raffigurate, oltre a rispondere ad una esigenza di protezione

“FIDI TI SARVA E NO LIGNU DI VARCA“ (è la fede che li avrebbe aiutati ad uscire indenni dalle

tempeste e a far ritorno a casa e non la barca di legno) avevano il compito di vigilare sulle fasi della pesca e

favorirne il buon esito. Sul lungo capione era in uso raffigurare su di un lato l’ostensorio mentre sull’altro

l’immagine del santo protettore, nel trapanese S.Francesco di Paola e nel palermitano S. Pietro.

I soggetti sacri venivano realizzati da pincisanti o da pitturi, mentre il pescatore eseguiva gli altri motivi.

OSTENSORIO

E’ un oggetto usato per l’esposizione solenne del Corpo di Cristo (l’ostia consacrata) per l’adorazione e la

benedizione eucaristica.

Forse l’ostensorio rappresentava una versione cristiana del disco, simbolo del culto solare.

Il culto del sole era il più diffuso tra tutte le civiltà. Il sole era visto dalle culture antiche come il simbolo

della verità, l’occhio della giustizia e dell’uguaglianza, il guaritore delle malattie fisiche e spirituali e

soprattutto sorgente prima della vita, della fecondità, della crescita e dell’abbondanza.

Ostensorio dipinto sul capione della barca lunga raffigurata in una tavoletta votiva

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Ostensorio sul dritto di poppa della barca lunga ormeggiata lungo il viale Regina Elena. I pescatori sulla

banchina stanno sistemando l’antenna le cui due parti sono ben visibili sul lastricato.

Ostensorio sul capione di una barca lunga di Marettimo

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Barca lunga di Aspra con l’ostensorio sul lato destro del capione e la sirena sotto la cinta a prora

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SCOMPARSA DELLA BARCA LUNGA

Il periodo immediatamente successivo all’ultimo conflitto mondiale ha visto la progressiva scomparsa della

propulsione velica dal barcareccio da pesca delle marinerie mediterranee. La diffusione della motorizzazione

ha determinato da un lato migliori condizioni di sicurezza e rese più competitive le nostre flotte, dall’altro ha

imposto l’evoluzione strutturale per buona parte delle tradizionali imbarcazioni che, progettate unicamente

per la propulsione velica, a poco a poco scomparvero.

Anche la barca lunga che aveva rappresentato sino agli anni cinquanta l’imbarcazione con cui i pescatori

della Sicilia occidentale avevano esercitato i mestieri più importanti, ha dovuto cedere definitivamente le

armi.

Nell’immediato dopoguerra la barca lunga, dopo essere stata motorizzata, venne utilizzata per la pesca

notturna con la rete a circuizione detta ciancialo, in sostituzione della tratta, con l’impiego di lampare a

petrolio. Infine fu posta in disarmo e sostituita con i moderni motopescherecci debitamente attrezzati.

Ristrutturazione di “ FANELLA “, barca lunga di Marettimo, all’interno del cantiere D’Amico

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TESTIMONIANZE DI UN PASSATO CHE NON ESISTE PIU’

Le barche lunghe, armate con vela latina, ancora naviganti nel trapanese sono tre: le due più antiche e in

ordine di lunghezza sono la “PAOLA” e la “ORZA TAURO” che erano state costruite a metà del secolo

scorso per essere utilizzate nella pesca del pesce azzurro, la terza e più piccola “COCCINELLA” è stata

costruita invece alla fine del secolo scorso non per essere impiegata nell’attività di pesca ma per uso

diportistico.

PAOLA

Paola, ex Leonardo Noto, è un gozzo marettimaro varato nel 1954 dai cantieri Bonanno di Marsala su

commissione di Leonardo Noto, da cui prese il nome. La barca è lunga 8.90 m., larga 2.80 e monta

attualmente un motore entrobordo di 50 hp.

Paola a vele spiegate a ridosso della Colombaia

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La chiamavano “a varca longa” e veniva impiegata come “sardara” a vela latina per i mercati della provincia

trapanese e le isole Egadi. Proprio la sua lunghezza di nove metri unita al bompresso di circa due metri la

rendeva veloce negli spostamenti in mare. All’epoca raggiungere le rigatterie (i mercati del pesce) prima

degli altri significava stabilire il prezzo più alto. Quando non c’era vento si usavano i remi e Paola, dotata di

quattro coppie di remi, aveva quattro rematori ed un timoniere.

Paola in cantiere

Nel 1970, fu tolto l’armo velico, venne montato un motore entrobordo diesel di 15 hp. e fu utilizzata come

postale per le isole Egadi, Favignana principalmente, e per trasportare i passeggeri a terra dalle navi più

grandi che non potevano attraccare in porto. Le maestranze più antiche ricordano che questa barca poteva

ospitare fino a cinquanta persone.

Successivamente fu abbandonata negli stessi cantiere Bonanno, acquistata da Franco Carriglio fino a

quando, nel 2003, venne ritrovata da Michele Basiricò di Trapani che l’acquistò.

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Nel 2005 l’imbarcazione fu messa in acqua e denominata “PAOLA” nome della moglie del sig Basiricò ma

non fu montato l’armamento velico. Per diversi anni l’imbarcazione fu utilizzata per far conoscere le

bellezze delle isole Egadi ai turisti. Con il passare degli anni la voglia di mare e di barca cominciò ad

affievolirsi e così il proprietario la ormeggiò nello storico canale delle saline all’interno del porto di Trapani

e la mise in vendita. Nel febbraio del 2017 il sig Mirco D’Angelo, 42 enne vigile del fuoco trapanese con la

passione per il recupero di mezzi storici, incontra Michele Basiricò e in pochi giorni l’affare venne concluso

con il vincolo da parte del nuovo proprietario di riarmare la barca a vela latina e portare Michele a fare

qualche veleggiata. La barca venne portata a Bonagia e il restauro affidato al maestro d’ascia marsalese

Francesco Bonanno detto “U VIKINGO” che conosceva la barca dato che era stata costruita da suo padre.

La barca era strutturalmente solida, infatti il vikingo dopo averla ispezionata disse “ UNN’ AVI NENTI A

VAIRCA” ovvero non ha nulla di importante la barca. Così iniziarono i lavori sullo scafo, finiti i quali si

passò alla pitturazione e successivamente alla messa in opera manuale dell’albero lungo otto metri,

dell’antenna e di tutte le attrezzature veliche. Finalmente nella primavera del 2017 la barca venne varata.

Paola in secco presso lo scalo di Bonagia

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Calafataggio da parte del maestro d’ascia Francesco Bonomo detto “ u vikingo “

Lavori all’interno della barca

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Alla fine dei lavori di riparazione sul fasciame il calafataggio tutta la barca viene pitturata con il minio

Albero ed antenna

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Contemporaneamente nasce l’associazione sportiva “ HAKUNA MATATA “ (senza pensieri) il cui scopo

fondamentale è quello di restaurare e conservare nella memoria e nell’uso le vele tradizionali. Alla fine di

giugno 2017 “Paola” partecipa alla regata nazionale denominata “TROFEO DONNA FRANCA”che si è

tenuta a Castellamare del Golfo.

Paola a Castellamare del Golfo mentre partecipa alla regata trofeo Donna Franca

Il 20 settembre 2017 “Paola”, dopo la cerimonia di benedizione avvenuta presso il porticciolo di Bonagia

alla presenza del sindato di Valderice e dello scrittore Ninni Ravazza, è tornata in mare pronta a partecipare

agli eventi e alle manifestazioni dedicate alla marineria tradizionale.

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ORZA TAURO

Orza tauro ex Filippa Madre è una varca longa di proprietà del sig. Antonio Paradiso, pescatore di

Castellamare del Golfo. La sardara, lunga 8.15 m. e larga 2.65 m., era stata acquistata dalla madre del sig.

Paradiso nel 1952 a Balestrate ed utilizzata per l’attività di pesca. Attualmente la barca, dotata di un motore

entrobordo ed armata con vela latina, non viene più utilizzata per l’attività di pesca ma per partecipare a

manifestazioni dedicate alla marineria tradizionale, ha partecipato alla regata trofeo Donna Franca.

Il sig. Paradiso nella sua vecchia casa ha ubicato un piccolo museo del mare che raccoglie vari attrezzi

originali della marineria e della tonnara ed ha scritto un libro intitolato “ UZZAREDDU - STORIA DI UN

PISCATURI “.

Paola ormeggiata nel porto di Castellamare del Golfo a fianco di Orza Tauro

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COCCINELLA

Coccinella è una varca longa di proprietà del sig. Giovanni D’Aqui lunga 5.50 m., larga 2.00 m. è stata

costruita nel 1996 dal maestro d’ascia trapanese Leonardo Barraco. Ha partecipato a moltissime regate e

manifestazioni legate alle tradizionali vele latine.

Coccinella all’ormeggio nel mare di tramontana

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Coccinella in navigazione

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Coccinella subito dopo il varo

Il volto di Cristo sul dritto di prua di Coccinella

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BARCA LUNGA NEGLI EX VOTO

EX VOTO RAFFIGURANTE SCAMPATO NAUFRAGIO

Località: sconosciuta - Supporto: olio su tela - Dimensioni: cm. 32 x 45 - Autore: ignoto - Epoca: sec.

XIX, 1859

Tipologia imbarcazione: barca lunga (varca longa) - Iscrizione: Li 9 GENNNARO 1859.

Commento: questa è la più antica delle tre tavolette, in basso viene riportata solo la data dell’evento, 9

gennaio 1859. Un improvviso temporale sorprende diverse barche di pescatori in prossimità della costa.

L’autore ha ben raffigurato l’imbarcazione, che spinta dalle onde sta per finire sugli scogli. Un pescatore ha

trovato rifugio su di uno scoglio e con le braccia sembra quasi voler spingere la prua dell’imbarcazione per

evitare che questa finisca sugli scogli, un altro è in acqua e nuotando tenta di raggiungere il compagno, gli

altri tre marinai sono ancora a bordo, due invocano l’intervento della Madonna che troneggia in uno squarcio

di luce tra nubi nere di tempesta, il terzo a poppa con la mano destra tiene la barra del timone.

Sullo sfondo sono raffigurate altre imbarcazioni della stessa tipologia e su di esse i pescatori che, con le

braccia alzate, invocano l’aiuto divino in modo che la tempesta si plachi.

Fortunatamente la costa vicina alimenta qualche speranza di salvezza. Notevole il realismo pittorico nella

ricostruzione dell’evento che risulta alquanto dinamico. L’imbarcazione raffigurata rappresenta un modello

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antico di barca lunga sec. XIX, si differenzia da quelle costruite successivamente e in particolare nel XX sec.

per il dritto di prua rientrante (capione) e per l’alto timone la cui barra sovrasta il capione di poppa.

EX VOTO RAFFIGURANTE SALVATAGGIO DA FORTUNALE

Località: isole Pelagie, Mar Mediterraneo - Supporto: olio su tela - Dimensioni: cm. 72 x 91 - Autore:

Giacalone Antonino - Epoca: sec. XX, 1926 - Tipologia imbarcazione: varca longa - Iscrizione:

LABARCA NOMINATA ROSA PALAZZOLO PARTITA DA TRAPANI GIORNO 11 MAGIO 1926

PER ANDARE A LISOLA DELL’AMPEDUSA FUPRESA DUN FORTE TEMPO DA NW

TROVANDOSI ALAGGUE DE LAMPEDUSA CIRCA 30 MIGLIA SPEZZANDO DUE COLPI DI

MARE A BORDO ESSENDO IN PERICOLO. CHIAMANDO ALLA MADONNA DI TRAPANI E

A SAN-FRANCESCO DI PAOLA CHE A SALVATO 9 PERSNE D’ECUIPAGGIO CAPITANO

PIETRO ENEA. SALVATORE. ENEA. GRILLO LEONARDO. GIUSEPPE SARDO. CARPITELLA.

ANTONINO. BERTINO. GIUSEPPE. SERRA. PIETRO. ANCIOLO. PUMA. CARPITELLA.

LEONARDO. Sulla destra in basso: SICHETORE GIACALONE ANONINO.

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Commento: “NOMINATA” sta per “di nome”; “MAGIO” sta per “maggio”; “FUPRESA” sta per “fu

sorpresa”; ”DUN FORTE TEMPO” sta per “da un maltempo”; “ALAGGUE” sta per “al largo”;

“SPEZZANDO” sta per “infrangendosi”; “colpi di mare “ sta per “ alte onde “; “CHIAMANDO ALLA” sta

per “invocando la”; ”A” sta per “ha”; “PERSNE” sta per “persone”; “D’ECUIPAGGIO” sta per ”costituenti

l’equipaggio”; “SICHETORE” sta per “esecutore”; “ANONINO” sta per “antonino”.

Riepilogando l’iscrizione corretta è la seguente: La barca di nome ROSA PALAZZOLO partita da

Trapani il giorno 11 Maggio 1926 per andare all’isola di Lampedusa fu sorpresa da cattivo tempo da

Nord-Ovest. Trovandosi a circa trenta miglia al largo di Lampedusa due alte onde si infransero a

bordo. Essendo in pericolo invocarono la Madonna di Trapani e San Francesco di Paola che con il loro

intervento salvarono le nove persone dell’equipaggio; seguono i nomi dei componenti l’equipaggio. In

basso sulla destra il nome dell’autore dell’ex voto Giacalone Antonino. Le iscrizioni di questa tavoletta votiva e della successiva, presentano degli errori di ortografia e

grammaticali. Possiamo ipotizzare che:

1) l’esecutore fosse una persona vicina all’ambiente dei pescatori o un pescatore stesso

2) l’esecutore fosse un professionista che aveva fatto quegli errori ad arte per far credere che quella

fosse l’opera genuina di un pescatore senza conoscenza e cognizione della scrittura

3) l’esecutore del dipinto fosse un artista professionista e che l’iscrizione fosse stata apposta

successivamente da uno dei pescatori scampati al pericolo.

Delle tre ipotesi, la terza sembra la più credibile.

Nella raffigurazione l’imbarcazione, priva di albero e di timone, presenta le due antenne in dotazione (una

più lunga da bel tempo e una più corta da cattivo tempo) poggiate a prua su due forconi e a poppa sul

capione, inoltre sul lato destro della prua sporge l’estremità o dell’asta del fiocco o dell’albero.

Probabilmente l’equipaggio, non potendo navigare a vela per le pessime condizioni del mare, tolse l’albero,

l’antenna e il timone e per stabilizzare l’imbarcazione e mantenere la prua al vento e alle onde calò a mare

una grossa e pesante cima che si vede ben tesa a prora. Potrebbe anche essersi verificato che, a causa dei due

colpi di mare che si infransero sull’imbarcazione, l’albero si fosse spezzato e quindi l’equipaggio costretto a

mettersi alla cappa secca ( andatura di velocità minima o nulla per resistere al maltempo con l’impiego di

vele ridotte o ancore galleggianti).

Quattro membri dell’equipaggio, raffigurati tra le creste delle onde che investono le fiancate

dell’imbarcazione, con le braccia alzate invocano l’intervento della Madonna e di S.F. di Paola che sospesi

tra le nuvole assistono premurosamente e salvano i nove membri dell’equipaggio.

Notevole il realismo pittorico nella ricostruzione del tragico evento che permette la indiscussa

individuazione della tipologia dell’imbarcazione che l’esecutore dell’opera doveva ben conoscere.

Da un ingrandimento dell’immagine si riescono ad individuare le decorazioni presenti: a prora sulla falca di

sinistra dei festoni colorati, sull’opera morta sottostante l’immagine di un ippocampo, sul capione, di colore

azzurro con bordo rosso, l’ostensorio e sulla falca a poppa delle striscie colorate.

Per quanto riguarda i colori notiamo che il bordo esterno del capo di banda è marrone, la tavola degli

ombrinali gialla, la restante opera morta bianca, in corrispondenza della linea del galleggiamento una fascia

azzurra e l’opera viva rosso cupo.

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EX VOTO RAFFIGURANTE SALVATAGGIO DA NAUFRAGIO

Località: isole Egadi, Mar Mediterraneo - Supporto: olio su tela - Dimensione: cm. 41 x 58 - Autore:

ignoto - Epoca: sec.XX, 1934 - Tipologia imbarcazione: varca longa - Iscrizione: LA BARCA

NOMINATA I CUATTRO FRATELLI NE. 29/8/1934. TROVANTOSICIRCA TRE. MIREIA ASURDO.

DI. LEVANSO. U FORTI. TEMPO: D.N.O. NIACAPOVOLTO. LA . BARCA. TROVNTOCI TUTTI TRE.

INPERICOLO PRE GANTO ALA MADONA------ CI ANOSALVATO DUI BARHIDI FAVIGANIANA.

PIERO CRIVELLO. GIOVANNI BEVILACQUA.

Commento: “NOMINATA” sta per “di nome”; “CUATTRO” sta per “quattro“; “NE”, sta per “il“;

“TROVANTOSI” sta per “trovandosi“, “MIREIA” sta per “miglia”; “ASURDO” sta per “a sud”;

“LEVANSO” sta per “Levanzo“; “U FORTI TEMPO” sta per “il cattivo tempo“; “D.N.O.” sta per “da

NORD-OVEST“; “NIACAPOVOLTO” sta per “ci ha capovolto“, “TROVNTOCI” sta per “trovandoci“;

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“PRE GANTO ALA MADONA” sta per “pregando la Madonna“; “ANO” sta per “hanno”; “DUI” sta per

“due“; “BARHIDI FAVIGANIANA” sta per “barche di Favignana“.

Riepilogando l’iscrizione corretta è la seguente: La barca, il cui nome è “I quattro fratelli“ il 29/8/1934,

trovandosi a circa tre miglia a sud di Levanzo, a causa del forte vento di Nord-Ovest si è capovolta.

Trovandoci tutti e tre in pericolo abbiamo pregato la Madonna. Ci hanno salvato due barche di

Favignana. In basso sulla destra si leggono a mala pena i nomi di due dei tre pescatori che componevano l’equipaggio.

Dal cielo scuro e pieno di nuvole possiamo ipotizzare che una forte ed improvvisa raffica di vento abbia

provocato l’ingavonamento, la rottura dell’albero e il semi affondamento della barca. Solo la prua è fuori

dall’acqua, l’albero spezzato poggia parte in coperta e parte in acqua assieme all’antenna e alla vela.

Ai tre uomini dell’equipaggio, uno dei quali si tiene alla prua e gli altri due che si trovano vicino

all’imbarcazione semiaffondata, non resta che resistere con coraggio e affidarsi alla Madonna che esaudisce

la loro richiesta mandando in loro aiuto due barche lunghe di Favignana che così li portano in salvamento.

Le due barche salvatrici, navigano di bolina mura a sinistra e si dirigono verso la barca che sta affondando.

Sullo sfondo vediamo l’isola di Levanzo con, alla sua sinistra, le bianche case del borgo marinaro e

all’estrema destra il maestoso faro di Capo Grosso.

In alto a destra è raffigurata su di una nuvoletta l’immagine poco luminosa della Madonna di Trapani con il

bambino in braccio che quasi si confonde con i colori del cielo.

Dalla esatta rappresentazione dell’isola di Levanzo e delle imbarcazioni possiamo senza ombra di dubbio

ritenere che l’esecutore conoscesse bene il tratto di mare prospiciente le isole Egadi e la barca lunga e che

quindi fosse del luogo.

CARATTERISTICHE DELLE BARCHE SALVATRICI

Dalla raffigurazione si evince che le due imbarcazioni non avevano la stessa lunghezza, quella sopravento

più grande era dotata di cinque panche, con 7 uomini di equipaggio mentre l’altra ne aveva quattro con 6

uomini di equipaggio. Entrambe avevano la vela grande ridotta ed erano prive di fiocco. Da un

ingrandimento dell’immagine si nota che i timoni arrivavano oltre l’estremità del lungo capione e erano

dotati di una barra curva verso il basso che sovrastando il dritto di poppa (capione) veniva tenuta dal

timoniere in posizione eretta sulla coperta.

Le decorazioni, appena visibili, si trovano sulle falche mentre sul lato destro del capione, di entrambe le

barche, è raffigurato un disco più grande al centro circondato da quattro più piccoli (il disco potrebbe fare

riferimento al simbolo del culto solare che con l’avvento del cristianesimo rappresentò l’ostia consacrata

quale corpo di Cristo).

Per quanto riguarda la colorazione notiamo che entrambe presentano la coperta di colore rosso minio,

l’interno chiaro, il capo di banda e il timone verdastro, l’opera morta bianca e quella viva di colore rosso

cupo.

TIPI DI PESCA EFFETTUATI CON LA BARCA LUNGA

La barca lunga, usualmente, era impiegata per la pesca del pesce azzurro (sardine, acciughe, alacce) con la

rete da posta derivante detta “tratta”, veniva utilizzato anche il “tramaglio” e praticata anche la pesca con

la “sciabica da natante” e il “tartarone“. I modelli più lunghi pescavano con la rete a “strascico di fondo”

a scafi accoppiati (paranza).

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TRATTA

La tratta è una rete derivante semplice usata per la pesca a mezz’acqua della sardina (sarda), alaccia, acciuga

(angiova), dello zerro (ritunno) in autunno e della mennola (minnula) in estate. Il suo utilizzo richiede, da

parte del pescatore, moltissima esperienza sia per localizzare la zona di pesca ma anche per decidere l’ora

della cala e la profondità a cui sistemare la rete.

E’ una rete armata a monofilo cioè con un solo telo; presenta nel margine superiore, sulla lima dei sugheri, a

distanze uniformi di 10 passi delle cordicelle lunghe diversi metri alle cui estremità sono fissati dei dischi di

sughero (segnali); sono questi sugheri che sostengono la rete in acqua. La lunghezza delle cordicelle

determina la profondità a cui viene posizionata la rete che corrisponde approssimativamente alla posizione

del banco di pesci.

La rete è lunga 160-170 passi (1 passo=1,5 m.) e alta 9 passi. A seconda delle prede che si vogliono catturare

la rete presenta delle maglie più strette per la pesca delle acciughe e più larghe per le sarde. La rete in mare,

trascinata dai piombi e sostenuta dalla lima dei sugheri, si dispone formando una parete di 9 passi (circa

13m) se la maglia è larga oppure di 12 passi (circa 18 m.) se la maglia è stretta.

Se la pesca si pratica di notte, preferendo quelle con una falce di luna a ponente, la rete viene disposta a circa

3 passi dalla superficie su fondali anche di 200 metri. Se la cala viene fatta la mattina (o più raramente il

pomeriggio), la rete si cala quasi a fondo. La rete viene calata con andamento ad arco e lasciata alla deriva

per circa un’ora debitamente controllata dall’equipaggio.

Il recupero del pesce si fa durante la salpatura togliendolo dalle maglie (smagghiato) uno per uno.

Schema di pesca con la tratta

Spesso questa operazione viene fatta al buio ma i pescatori sono capaci di selezionare le sarde dalle acciughe

solamente in base al tatto.

In alcuni casi, per velocizzare le operazioni di salpatura, il recupero del pescato si fa in una fase successiva;

la rete inizialmente si dispone larga da poppa a prua. In questi casi il pesce si deteriora un poco ed è

utilizzato per la salatura.

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L’abbondanza e il prezzo contenuto del pesce azzurro e specialmente della sarda, particolarmente

abbondante nei nostri mari, ne favorivano il largo consumo presso i meno abbienti, mentre il pesce più

pregiato era riservato ai palati più raffinati.

Dallo stadio di avannotto (nunnata) a quello di adulto il prelievo di questa specie non conosceva sosta.

Nemmeno i periodi di particolare abbondanza facevano crollare completamente i prezzi. Le sarde come in

genere il pesce azzurro in sovrappiù trovavano sempre pronto un mercato alternativo che le indirizzava alla

conservazione sotto sale, fatto che determinava una massiccia opera di prelievo nei confronti di questa

specie.

La tratta veniva usata dai pescatori che, dai primi del mese di maggio alla terza decade del mese di giugno, si

recavano a pescare le alacce nelle acque tunisine e algerine.

ESODO DELLA PICCOLA MARINERIA DURANTE IL PERIODO DELLA CALA DELLE

TONNARE

I privilegi delle tonnare includevano la facoltà di disciplinare ogni attività di pesca che potesse in qualche

modo interferire con quella del tonno; i pescatori si vedevano stagionalmente preclusa ogni possibilità di

esercitare la loro attività nello specchio d’acqua, che spesso si estendeva per diverse miglia, sia sottovento

che sopravvento rispetto alle reti delle tonnare. Il numero delle tonnare calate lungo tutta la costa nord-

occidentale della Sicilia, per il periodo maggio-giugno, di fatto interrompeva l’attività di pesca proprio nel

momento più favorevole. L’imposizione, anche con la forza, di questi divieti contribuì in maniera

determinante allo sviluppo di fenomeni migratori stagionali, se non all’affermarsi di alcune forme di pesca

d’altura con reti derivanti. Significativa fu la migrazione stagionale che coinvolse le comunità marinare

dislocate lungo il tratto di costa che si estendeva da Termini Imerese sino a Trapani. Centinaia di barche nel

periodo maggio-giugno migrarono verso la costa sud-occidentale della Sicilia. Le spiagge tra Marinella e

Torretta Granitola venivano letteralmente invase da questa variopinta flotta composta in prevalenza da

barche lunghe. Gli equipaggi dormivano all’addiaccio sotto una tenda di fortuna realizzata con i remi e le

vele. La concentrazione di così tante imbarcazioni in quello specchio d’acqua era dovuta non solo

all’abbondanza di pesce azzurro ma anche alla possibilità di approvvigionamento di sale e barili dalla vicina

Marsala. I numerosi addetti all’attività di salagione, che provenivano per buona parte dalle stesse marinerie

dei pescatori, via terra avevano affrontato con i carretti il trasferimento di tutto quello che poteva servire alla

loro attività. Gli imprenditori, per il periodo della campagna di pesca, prendevano in affitto un magazzino al

cui interno il pesce appena pescato veniva portato e conservato sotto sale nei barili. Fra pescatori e salatori

veniva sancito un accordo che fissava il prezzo del pescato indipendentemente dallo andamento delle

catture. Se una nottata di pesca particolarmente abbondante intasava i magazzini di salagione, i pescatori,

rinunziando anche ad una notte di pesca, correvano in aiuto per smaltire l’eccezionale quantità. La campagna

di pesca durava circa cinquanta giorni, il riposo festivo veniva osservato non prendendo il mare la sera del

sabato e partecipando alla messa domenicale indossando l’abito buono.

Le barche più grandi, nello stesso periodo, si spostavano in Tunisia e Algeria per la pesca della sardinella

aurita (alaccia). Scrive l’Hennique: ogni anno un centinaio di barche siciliane, da Aprile a Giugno, vengono

in Tunisia a pescare le sardine.

Annualmente partivano dal porto di Trapani circa 100 barche con cinque uomini di equipaggio ciascuna per

la pesca del pesce azzurro e delle spugne nelle acque di Tunisi, Tabarqa, Sfax e Lampedusa. Alcune si

recavano anche in Algeria a la Calle (al Kala), vicino il confine con la Tunisia, dove il mare era

straordinariamente ricco di sardine. Le barche partivano con il vento favorevole al lasco o in poppa quando

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soffiava rispettivamente la tramontana o il grecale e dopo 14 ore di navigazione avvistavano la minuscola

isola di Zembra (ad ovest di Capo Bon) e da lì veleggiavano sino a la Calle.

Di questo fenomeno stagionale si conosce ben poco, a parte alcune testimonianze orali raccolte in anni

passati tra i vecchi pescatori. L’unico dato certo è l’epoca della sua scomparsa avvenuta quando l’Italia prese

parte al secondo conflitto mondiale.

SALAGIONE TRADIZIONALE DELLE SARDE

Questa specie gregaria, molto diffusa e abbondante in tutto il Mediterraneo ha da sempre costituito una delle

principali risorse per le comunità di pescatori.

Anche se il mercato si dilatava nel periodo invernale e si contraeva nelle caldi estate siciliane, il surplus che

il mercato del fresco non riusciva ad assorbire, alimentava un’intensa attività di salagione che contribuiva

all’economia delle comunità marinare.

La sarda, nel periodo che va da aprile a giugno, si presta alla conservazione sotto sale. Due elementi

contribuivano un tempo a indirizzare il pescato ai magazzini di salagione; la difficoltà della sua

commercializzazione che la temperatura estiva sconsigliava e la percentuale di grasso delle loro carni che le

rende più adatte per il salato. Il prezzo di vendita non era influenzato soltanto dalle dimensioni del pesce ma

anche dal fatto che fossero state catturate nella posta del tramonto o in quella dell’alba; una mattina torrida

avrebbe contribuito a far crollare il prezzo del pescato.

Acquisita la partita il pesce veniva portato al magazzino e prontamente trattato alla rinfusa in tini con sale

grosso e magari con l’aggiunta di salamoia. Così il pesce inturgidiva ed era preservato dal processo di

alterazione. Nella fase successiva, i pesci erano sistemati, un tempo in barili di castagno e successivamente

nelle latte metalliche serigrafate. Geometricamente disposte in strati successivi fra i quali era interposto sale

grosso, le sarde erano tenute sotto pressione da un disco di legno sopra il quale era posto una pietra. Il pesce

per l’azione del sale e della pressione perdeva volume secernendo acqua che veniva tolta e venivano aggiunti

nuovi strati di sarde fresche per compensare la riduzione in volume del pesce. Sottoposti nuovamente alla

pressione del disco di legno e della pietra, i contenitori subivano una seconda ricolmatura con pesci della

migliore qualità; anche perché, specialmente i barili, erano venduti “a faccia lavata”: nettati cioè della

salamoia e del primo strato di sale, con il pesce bene in vista a dichiarare la propria qualità. Posti i

contenitori uno sopra l’altro in modo da esercitare ciascuno una pressione sul pesce contenuto su quello

sottostante, aveva inizio il processo di maturazione vero e proprio del pesce. Dopo una quindicina di giorni

latte e barili venivano chiusi definitivamente avendo cura di rinnovare lo strato superficiale di sale e la

salamoia di copertura.

SCIABICA DA NATANTE ( TATTARUNEDDU)

La sciabica è una rete (di fondo) a strascico per piccole profondità. La rete è formata da un sacco e da due

braccia (ali) molto lunghe. Le maglie nelle braccia sono grandi e diminuiscono progressivamente andando

verso il sacco. Nella parte superiore è presente la lima dei sugheri, in quella inferiore la lima dei piombi. La

pesca che si effettua con questa rete è completamente manuale, non permette grandi catture, ma richiede

spese minime consistenti solamente nella riparazione della rete.

Si pratica dalla barca in zone con fondali poco profondi e privi di asperità, sabbiosi o con alghe, per evitare

che la rete si laceri. Raggiunta in barca la zona fissata per la pesca si cala l’ancora (u ferru) e si fissa la cima

ad un grosso galleggiante. A questo si lega il cavo del primo braccio, descrivendo un semicerchio si cala il

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primo braccio poi il corpo della rete e il secondo braccio ritornando al galleggiante. A questo punto si lega la

barca al cavo dell’ancora fissandolo al baglio centrale. La rete viene salpata da due pescatori disposti uno a

poppa e uno a prua per mantenere l’apertura orizzontale del sacco. La lima dei piombi strisciando sul fondo

spinge le prede verso il sacco. Alla fine tutto il sacco viene portato in barca. Se le prede sono numerose si

alleggerisce il sacco, mentre è ancora a mare, svuotandolo con il coppo (u coppu).

Principalmente si catturano spigole, saraghi, aiole, sogliole, tracine, rane pescatrici etc.

SCIABICA A VELA

Questo tipo di pesca veniva praticato dalle barche più grandi dotate di maggiore superficie velica che forniva

maggiore forza di trascinamento necessaria per il traino della rete.

Sciabica a vela

La rete veniva trainata tramite due cime provenienti dalle due ali e legate una a prora e l’altra a poppa

dell’imbarcazione.

Del “TARTARONE” tratteremo successivamente, quando descriveremo i tipi di pesca effettuati con il

“BUZZO”.

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6.3 BARCHE DI TONNARA

TONNARA

Questo è un sistema di pesca, importato dagli Arabi, basato sulla staticità delle reti sbarranti il passo ai tonni

lungo la loro rotta.

Le tonnare calate lungo le coste siciliane erano numerose, fra loro dovevano mantenere una distanza di circa

tre miglia ed erano di due tipi: quelle di corsa che intercettavano i tonni tra maggio e giugno prima del

deposito delle uova e della loro fecondazione ed erano distribuite lungo il litorale tirrenico tra le Egadi e lo

Stretto di Messina; quelle di ritorno intercettavano i tonni nei mesi di luglio e agosto, dopo l’avvenuta

fecondazione delle uova, lungo la costa meridionale dell’isola.

Zone di cattura del tonno a seconda dei suoi stadi genetici

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Le reti erano tenute a galla da dei robusti cavi ai quali erano fissati dei galleggianti, mentre la parte inferiore

era tenuta a fondo tramite dei cantuna. Il complesso era tenuto fissato al fondo da enormi ancore, calate in

coppia, che dovevano sopportare lo sforzo tremendo di strappo delle correnti e del mare in burrasca

Ancoraggio delle reti di una tonnara

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Le tre parti principali della tonnara erano:

1) La coda o costa o pedale, uno o due sbarramenti di sottili reti a maglie assai larghe che dalla costa, più o

meno perpendicolarmente, si prolungavano fino a saldarsi col corpo della tonnara, per intercettare e

dirottarvi i branchi dei tonni.

2) Il codardo, un secondo sbarramento di reti, per evitare che i tonni aggirassero la tonnara, che partiva dal

corpo della tonnara e si protendeva verso il mare aperto sulla direttrice di arrivo dei tonni; poteva essere

composto di più segmenti diversamente orientati.

3) Il corpo o isola della tonnara, un sistema di pareti e porte di reti a forma di parallelepipedo che

delimitavano varie «camere» comunicanti tra loro, nelle quali il pesce veniva fatto entrare e poi fatto

passare da una camera all’altra fino all’ultima «camera della morte».

Le camere che componevano il corpo tonnara erano, a partire da levante (vedi disegno): la camera di

levante; l’ungora; il faratico dotato di una porta laterale dalla quale entravano i tonni, qui dirottati dalla

coda; il bordonaro; il bastardo, che era l’anticamera della morte; la camera della morte o di ponente,

l’unica dotata di una rete di fondo, il coppo, sollevando la quale il tonno veniva portato in superficie e quindi

catturato; il bastardello, ultima camera la cui funzione era quella di dare maggiore stabilità alla camera della

morte e all’intero corpo di tonnara.

Le camere erano messe in comunicazione fra loro attraverso delle reti mobili dette “porte”.

La camera della morte si presentava in superficie come un rettangolo. Le maglie dei vari pezzi di rete che

costituivano la camera si infittivano mano a mano che questa risaliva dal fondo per raggiungere una

particolare consistenza nell’ultimo tratto dove avveniva la mattanza.

Schema della tonnara di Favignana

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Museo Pepoli: maioliche raffiguranti schema di tonnara

Nella seconda metà del XIX sec. le tonnare continuarono a fiorire in mano ai Florio, Parodi e Serraino. Per

calare una tonnara bisognava avere una grande disponibilità economica, per cui questa attività era destinata

alle famiglie benestanti. In ordine di grandezza, le principali tonnare del trapanese, tutte di corsa, erano

quelle di Favignana, Bonagia, San Cusumano, San Giuliano, S. Vito, Scopello, Formica e Cofano. Nelle

tonnare di maggiori dimensioni era annesso lo stabilimento conserviero in quanto il tonno veniva cotto e

successivamente inscatolato.

Fra tutte le tonnare siciliane quelle trapanesi detenevano il primato per quantità di pescato, capacità di

esportazione e conservazione.

Dal 1910 in poi, diverse tonnare, furono calate in Tunisia a Siridavid gestita dai Florio e in Libia a Marsa

Zuara e Marsa Zuaga gestite dalla famiglia trapanese dei Serraino e Trapani ne fu la base di armamento. Da

qui, ogni anno, partiva tutto ciò che serviva per impiantare una tonnara. Oltre 1000 operai trapanesi

trovarono lavoro in queste tonnare, guadagnando una paga sicura e buona che permetteva loro di pagare

l’affitto annuale delle loro abitazioni oltre al mantenimento delle famiglie per i tre mesi di aprile, maggio e

giugno.

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Alcune tonnare trapanesi continuarono a pescare sino alla fine del XX sec., poi a causa della diminuzione

del numero e del peso dei tonni che finivano nelle reti furono costrette a cessare l’attività.

Chi fino all’ultimo giorno della sua vita credette nella pesca del tonno, fu l’imprenditore Nino Castiglione e

grazie alla sua passione e al suo coraggio riuscì a mantenere in vita le tonnare più importanti del trapanese,

salvandole da una fine ingloriosa.

Nino Castiglione aveva iniziato sua attività di imprenditore nel 1933 acquistando da Mimì Ponte il

“Conservificio Ittico” al porto peschereccio (il quartiere “baracche”) che produceva sgombri e acciughe

sott’olio. Nel 1940 affianca alla precedente produzione la lavorazione e inscatolamento del tonno rosso del

Mediterraneo e nel 1950 del tonno pinna gialla. Nel 1970 la ditta assume la denominazione “Nino

Castiglione”. Nel 1972 acquista a Lampedusa uno stabilimento per la lavorazione dello sgombro. Nel 1973,

dopo che per tutta la sua vita aveva sognato quel momento, decide di dare corpo ai suoi sogni e con un

commerciante di pesce palermitano, Antonino Cefalù, acquista 13 imbarcazioni appartenenti alla tonnara di

Bonagia e otto alle tonnare riunite di San Giuliano Palazzo e San Cusumano. Nel 1974 acquista oltre alle

barche, le reti e le attrezzature anche i diritti di pesca e di calar tonnare nei mari di Bonagia e di San

Giuliano Palazzo-Coda di volpe-Isolotto-Stornello. Nasce la società “Tonnare di Bonagia e San Giuliano”

che cala le tonnare a Bonagia e a San Giuliano. Nello stesso anno Nino Castiglione acquista gli edifici della

tonnara di San Cusumano, abbandonati dai vecchi proprietari e vi trasferisce l’industria conserviera delle

baracche. Le due tonnare di Bonagia e San Giuliano fino al 1979 vennero calate nei rispettivi siti,

successivamente a causa dello scarso pescato di Bonagia, dovuto all’inquinamento costiero per gli scarichi

industriali delle segherie di marmo, i due impianti vennero accorpati potenziando al massimo quello di San

Giuliano e calando le reti a più di cinque chilometri dalla costa, una distanza che nessuno aveva mai

raggiunto prima.

Nel 1985, due anni prima di morire, prese in gestione la tonnara di Favignana, le cui antiche attrezzature,

ormai superate, non resistevano alle correnti e alle mareggiate. Nino Castiglione costrinse i vecchi tonnaroti,

restii ai cambiamenti, ad adottare attrezzature più moderne e così nella stagione successiva la tonnara di

Favignana riuscì a catturare circa duemila tonni.

Dopo la sua morte furono gli eredi a proseguire la gestione della tonnara fino al 1997.

Con il diminuire del numero e del peso dei tonni la calata dell’ impianto della tonnara non fu più

un’operazione conveniente, l’ultimo anno di pesca della tonnara di Bonagia fu il 2003.

Oggi sono i figli e i nipoti a proseguire sulla strada intrapresa, la “Nino Castiglione” SRL, la cui sede è

sempre dove una volta sorgeva la tonnara di San Cusunano, ha ampliato la sua struttura all’interno della

quale si svolge l’intero processo produttivo: selezione delle pezzature, taglio, cottura, monda,

inscatolamento, sterilizzazione, confezionamento, stagionatura, stoccaggio e spedizione. Grazie a questo

ampliamento e all’utilizzazione di moderni macchinari la capacità produttiva è aumentata, la ditta ha

acquisito nuovi mercati ed è diventata uno dei punti di forza dell’economia siciliana.

Parallelamente all’attività industriale la “Nino Castiglione” continua a dare un importante contributo allo

sviluppo dello sport trapanese con la sponsorizzazione delle squadre “Trapani Calcio” e “Basket Trapani”, e

supportando le attività di nuoto, pallavolo,bike.

Nel campo culturale ha finanziato il restauro del Gruppo Sacro dei Misteri “Gesù dinanzi ad Hanna” ed ha

reso un servizio alla cittadinanza restaurando i Giardini della Tonnara adiacenti allo stabilimento, questi nei

mesi estivi sono fruibili al pubblico che può così raggiungere la vicina battigia attrezzata con pedane in

legno per i bagni di sole e impianto doccia.

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Per la cattura di massa del tonno (la cosiddetta “mattanza”) era indispensabile l’uso di speciali imbarcazioni,

la cui ideazione risale certamente agli Arabi, anche a giudicare dalla loro denominazione tipologica. Erano

tutte di colore nero, in quanto avevano lo scafo “impeciato”, cioè cosparso di pece; quasi tutte erano

alquanto panciute e avevano la poppa quadra per una maggiore portanza e per una valida capacità di carico.

Il complesso delle barche di cui ogni tonnara disponeva era chiamato barcareccio e in dialetto trapanese

“varcarizzo”. Il barcareccio delle tonnare non era un’esclusiva dei cantieri trapanesi, ma poiché la provincia di Trapani è

sempre stata la più ricca di impianti fissi di pesca del tonno, i suoi cantieri erano quelli più di altri

specializzati nella costruzione di questa tipologia di imbarcazioni. Se poi teniamo conto che a Marsala e

Mazara Del Vallo hanno operato solo pochissime tonnare e per di più saltuariamente, allora emerge chiara la

preminenza dei cantieri trapanesi in questo tipo di costruzione, che ha caratteristiche assolutamente uniche.

Due vascelli della tonnara di Favignana ricoverati nella trizzana

I mastri trapanesi da sempre hanno costruito vascelli a altre barche per tutte le tonnare italiane: così da uno

studio dei carlofortini Salvatore Pomata e Tonino Sanna apprendiamo che ai primi del 1800 nei cantieri

navali di Carloforte lavoravano anche i maestri d’ascia trapanesi Cavasino, che, nel loro cantiere di Trapani,

preparavano chiglia, madieri e staminali per i vascelli delle tonnare di Isola Piana e Portusco e dopo averli

numerati li imbarcavano su di una nave che li trasportava a Carloforte, dove venivano poi assemblati.

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I nostri mastri marina hanno lavorato anche nelle tonnare impiantate in Libia da famiglie trapanesi. Poiché le

maestranze non abitavano stabilmente in Libia, ma lì si trasferivano solo per il periodo della pesca del tonno,

la costruzione di nuove barche avveniva con cadenze lunghe e particolari; i mastri cominciavano la loro

opera rimettendo in mare, dopo averlo impeciato, tutto il barcarizzo che era rimasto in secco durante il resto

dell’anno, successivamente cominciavano la costruzione impostando la chiglia, le ordinate, l’opera viva e a

volte la cinta, poi a stagione di pesca conclusa tornavano a Trapani e riprendevano il lavoro l’anno seguente,

alla ripresa dell’attività di pesca. Possiamo quindi affermare che per realizzare un parascarmo erano

necessarie due stagioni di lavoro di 4 mastri marina.

La tipologia delle imbarcazioni era relativamente omogenea per ognuna delle 40-50 tonnare siciliane; poco

uniforme era invece la denominazione dei vari natanti, per la presenza di varianti locali. Ogni tonnara

disponeva di un certo numero di imbarcazioni specializzate per le operazioni di attivazione del complesso di

reti destinate alla cattura dei tonni e per esigenze della mattanza. Si andava dalle 10 imbarcazioni per le

tonnare più piccole fino alle 18 per quelle più grandi come quelle di Favignana e Bonagia.

Varcarizzo all’interno della trizzana, al centro uno dietro l’altro due parascarmi e sulla destra una muciara

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Palascarmo della tonnara di Favignana dotato di argano a motore. In banchina carretto utilizzato per il

trasporto dei cantuna e cavi.

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Ancore, reti e galleggianti a bordo del barcareccio della tonnara di Favignana

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Le barche di tonnara avevano differenti dimensioni, denominazioni e caratteristiche costruttive, a seconda

delle funzioni cui erano destinate. Si distinguevano in:

“VASCELLI” (VASCEDDI): erano le più grandi imbarcazioni del barcareccio in quanto misuravano fra 18

e 22 metri di lunghezza con una portata di circa 40 tonnellate; avevano la poppa quadra simile a quella di

una grossa lancia e due chiglie laterali poste accanto alla chiglia principale la cui funzione era quella di

facilitarne l’alaggio con i “parati” (travi di rovere cosparsi di sego messi sotto la chiglia per far scivolare lo

scafo) e per favorire la sosta a terra in posizione quasi orizzontale evitando che lo scafo potesse abbattersi da

una parte o dall’altra; erano dotate a prua di un argano verticale di legno o di ferro che veniva utilizzato in

combinazione con un secondo argano consistente in un braccio con puleggia piazzato a poppavia, per

manovre di forza come quella di salpare le grosse ancore che tenevano fissi gli impianti a mare. Venivano

inoltre montati quattro corti alberi ciascuno dotato di due paranchi che venivano utilizzati per il

sollevamento delle pesanti reti della camera della morte, per il sollevamento dei tonni più grossi durante la

mattanza e per lo sbarco dei tonni a terra.

Tonnaroti azionano un argano di legno

Nella tonnara di Favignana i vascelli erano due e si distinguevano in:

“ VASCELLO DI LEVANTE”, che si posizionava ad est della camera della morte ed erano attrezzati per

ospitare il nucleo più numeroso della ciurma composta da una quarantina di tonnaroti che avevano il

compito di sollevare la rete della camera della morte, il coppo, facendo gradualmente affiorare i tonni, i

quali, in tal modo, potevano essere agganciati con i crocchi e tirati a bordo.

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Vascello di levante

“VASCELLO DI PONENTE”, che si posizionava ad ovest della camera della morte e fungeva da

supporto per chiudere il “quadrato” che delimitava le pareti della camera stessa e per stivare i tonni in

eccesso, in caso di pesca abbondante.

“PARASCARMI” o “PALASCARMI” (quest’ultimo è il nome riportato nei registri della Capitaneria di

porto di Trapani): barche di tipo intermedio (detti anche varcazze), lunghe dai 13,50 ai 15 metri, larghe circa

3,50 metri, dal fondo piatto e ampio, dalla poppa quadra, munite di argani per agevolare l’alaggio dei cavi “I

summu” e destinate al trasporto ed alla collocazione di reti, ancore, cavi e galleggianti. Nella tonnara di

Favignana i quattro “parascarmi” durante la mattanza si posizionavano sui due lati più lunghi della camera

della morte per coordinare l’opera di sollevamento della rete. Avevano una portata di 10-30 tonnellate ed

erano dotati di corti alberi muniti di paranchi per il sollevamento delle reti e dei tonni.

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Tonnara di Favignana: palascarmi carichi di grosse ancore

“BASTARDE”: lunghe meno di nove metri e poco più delle muciare erano dotate di otto remi ed avevano la

poppa quadra, dette anche “varchi a guaddari” in quanto adibite a funzioni di guardia per vigilare

sull’ingresso dei tonni nelle varie camere: venivano posizionate di giorno alle relative “porte” e di notte ai

“campili” (raccordi ad U lungo la rete della “coda” aventi la funzione di trattenere i tonni in transito),

disponevano per queste funzioni e per il riparo dei pescatori, di un telo rettangolare che veniva utilizzato

come vela, durante la fase di rientro in porto, quando il vento era favorevole. Su ognuna prendeva posto un

equipaggio composto da un “capu ri guardia”, e da sette “marinara semplici”, questi avevano il compito di

chiudere la porta bastarda dopo che i tonni erano entrati nell’omonima camera.

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Bastarda con vela improvvisata rientra in porto

“VENTURIERE” (VINTURERE): lunghe una decina di metri, veloci e relativamente leggere, a due punte

tipo “gozzo” erano usate per i collegamenti ed il trasporto dei tonnaroti da terra al complesso di tonnara, per

i rifornimenti, per controllare che le reti fossero in ordine e, talvolta, anche per funzioni di guardia.

“MUCIARE”: Il nome muciara deriva dall’arabo “mucir” che indica la barca più piccola della tonnara.

Caratterizzate da uno scafo snello, leggero e veloce, dalle estremità appuntite simili a quelle di un gozzo,

erano lunghe da 8 a 9 metri dotate ciascuna di tre coppie di remi (con il mare calmo per gli spostamenti

all’interno delle reti venivano usati solo 4 remi) e, all’occorrenza per gli spostamenti da e per il porto, da un

telo utilizzato come vela.

Avevano funzioni multiruolo ed erano idonee a partecipare a tutte le operazioni di calato, salpamento e

vigilanza del complesso di reti, alcune prendevano il nome delle porte presso cui erano ormeggiate. Così,

esisteva la muciara da guaddari utilizzata per compiti di guardia : muciara bastarda che stava a guardia

della porta omonima; muciara porta chiara addetta al controllo della porta omonima che metteva in

comunicazione il bastardo con la camera della morte; muciara dei sugheri o i Suari chiamata in tal modo

perché destinata a trasportare e collocare i grossi galleggianti di sughero che mantenevano verticali le pareti

delle molteplici reti del complesso, inoltre era addetta a cambiare ogni tre giorni i galleggianti che si erano

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inzuppati d’acqua; muciara di cambio utilizzata per il cambio della guardia; muciara di lu fanali (ancorata

all’estremità della tonnara e dotata di un fanale lampeggiante per segnalare di notte la presenza delle reti);

muciaredda del sottorais, simile a quella del rais, accoglieva il “suttaraisi”.

Muciara rientra in porto a Favignana armata di remi e vela improvvisata

La più rappresentativa era però la muciara del raisi che, armata con 4 o 6 remi azionati dai migliori marinai

della ciurma, era posta al servizio del capo assoluto dei pescatori il “rais”. Veniva utilizzata per i suoi

spostamenti fra la costa e il calato e durante le delicate operazioni di cattura posizionata al centro della

camera della morte. A bordo oltre il capu muciara erano imbarcati sei - sette “marinara semplici”.

“RIMORCHI” (VARCAZZE): erano barche estremamente robuste, lunghe da 11 a 13 metri, avevano la

poppa quadra ed erano le sole, tra le imbarcazioni maggiori, che erano autonome nella navigazione, infatti

erano dotate di 8 coppie di remi ed adibite al rimorchio (dalla costa al complesso di reti, sito anche a diverse

miglia di distanza) dei vascelli e parascarmi che non disponevano di alcun mezzo propulsivo autonomo.

In tal modo, quattro o cinque barche venivano trainate dopo essere state collegate fra di loro. Anticamente

questa faticosa funzione era svolta utilizzando i remi o la vela latina se in presenza di vento favorevole; in

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seguito, a partire dalla fine dell’ottocento, i rimorchi furono muniti di motore (inizialmente a vapore e, in

seguito, diesel).

Prima dell’avvento del motore anche le bastarde, le muciare e le venturiere utilizzavano la vela latina per i

loro spostamenti.

Con l’impiego delle barche a motore, i rimorchi prima addetti al traino, venivano usati soltanto per il

trasporto di ancore e reti e cavi.

Schifazzo motorizzato rimorchia una bastarda della tonnara di Favignana

Una lancia lunga cinque metri a due remi, per piccoli spostamenti all’interno delle reti che a Bonagia era

chiamata “VARVARICCHIO”.

“BARCA FANALE”: dipinta esclusivamente di giallo per essere più visibile ai naviganti, aveva la

funzione di segnalare l’impianto delle reti tramite segnali luminosi.

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Barca fanale gialla della tonnara di Favignana

Barca fanale della tonnara di Bonagia

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Nei registri dei galleggianti conservati presso la Capitaneria di Porto di Trapani risultano iscritte alcune

imbarcazioni appartenenti alla tonnara Florio:

al numero d’ordine 67 con denominazione muciara rais, luogo di costruzione Favignana, anno 1924,

materiale impiegato legno, di 3,44 tonn. di stazza lorda, licenza di cui è munito il galleggiante emessa il 3-

12-1924

al numero d’ordine 101 con denominazione muciara, tipo barca da segnale, luogo di costruzione

Favignana, anno 1887, di 4 tonn. stazza lorda, licenza di cui è munito il galleggiante emessa il 5-5-1936

al numero d’ordine 104, denominazione MARAGONE, luogo costruzione scafo Favignana, anno 1920, 2

tonn. di stazza lorda, licenza di cui è munito il galleggiante “di traffico”emessa il 9-6-1931

al numero d’ordine 110 con denominazione vascelluzzo I, luogo di costruzione Favignana, anno 1935,

costruttore Salmeri Antonino n° iscrizione 18612/I, di 25 tonn. di stazza lorda, licenza di cui è munito il

galleggiante emessa il 5-5-1936

al numero d’ordine 111 con denominazione muciara sugheri I, luogo di costruzione Favignana, anno 1935,

costruttore Giacalone Nicolò n°. iscrizione 11955/II, di 3 tonn. di stazza lorda, licenza di cui è munito il

galleggiante emessa il 15-5-1936

al numero d’ordine 112 con denominazione muciara sugheri II, luogo di costruzione Favignana, anno

1935, costruttore Rallo Giugno n°. iscrizione 8848/II, di 3 tonn. di stazza lorda

al numero d’ordine 113 con denominazione Muciara da Guado I, luogo di costruzione Favignana, anno

1935, costruttore Venza Gaspare, di 3 tonn. di stazza lorda,

al numero d’ordine 114 con denominazione Muciara da Guado II, luogo di costruzione scafo Favignana,

anno 1935, costruttore Aiello Domenico, n°.iscrizione 181/I, di 3 tonn. di stazza lorda, licenza di cui è

munito il galleggiante rilasciata il 15-5-1936

al numero d’ordine 119 con denominazione Vascelluzzu I, luogo costruzione scafo Favignana, anno 1935,

costruttore D’Angelo Gaspare n° iscrizione 2355/II di 25 tonn. di stazza lorda, licenza di cui è munito il

galleggiante emessa il 5-5-1936

Nei registri dei galleggianti del Compartimento Marittimo di Trapani in data 25-05-1945 è iscritto parte del

barcareccio della tonnara di proprietà della Società anonima di pesca tonno Bonagia La Fenicia come di

seguito riportato.

Con tipologia barca a remi Rimorchio e denominazione:

Rimorchio N.1 di lunghezza 10,75 m. e larghezza 2,80 m.; Rimorchio N.2 di lunghezza 10, 95 m. e

larghezza 3,55 m.; Muciara N.1 di lunghezza 8,40 m.e larghezza 2,29 m.; Muciara N.2 di lunghezza 8,25

m. e larghezza 2,28 m.; Bastardo N:1 di lunghezza 8,72 m. e larghezza 2,30 m.; Barca Fanale di lunghezza

5,95 m. e larghezza 2,22 m.

Con tipologia Barca Chiatta e denominazione:

Palascarmo N.1 di lunghezza 14,30 m. e larghezza 3,58 m.; Palascarmo N.2 di lunghezza 13,45 m. e

larghezza 3,50 m.

Con tipologia Barcone e denominazione:

Vascello N.1 ; Vascellotto N.2.

Con tipologia Barca a remi e denominazione:

Venturiero N.1 In data 28-12-1955 è iscritto parte del barcareccio della tonnara di proprietà della Società per azioni

“Serraino e C” S.R.L. Tonnare riunite di S.Giuliano Palazzo e S.Cusumano come di seguito riportato.Con

tipologia galleggiante e denominazione:

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Rimorchio S.Cusumano N.1 di lunghezza 11,23 m. e larghezza 2,78 m.; Rimorchio S.Cusumano N.2 di

lunghezza 11,30 m. e larghezza 2,74 m.; Bastarda S.Cusumano N.1 di lunghezza 8,77 m. e larghezza 2,30

m.; Bastarda S.Cusumano N.2 di lunghezza 8,45 m. e larghezza 2,25 m.; Muciara S.Cusumano N.1 di

lunghezza 8,14 m. e larghezza 2,18 m.; Muciara S.Cusumano N. 2 di lunghezza 8,22 m. e larghezza 2.11

m.;

Poche sono le barche appartenenti al barcareccio sopravvissute alla chiusura delle tonnare. Alcune di esse,

assieme ai locali della tonnara, sono state restaurate e rese fruibili al pubblico.

Di seguito riportiamo una documentazione fotografica della ristrutturazione di due bastarde appartenenti alla

tonnara di Favignana, eseguita presso il cantiere Cintura di Trapani, consistente nella sostituzione dei

madieri e staminali marciti e nel rifacimento di tutto il fasciame.

Sostituzione vecchie ordinate

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Messa in opera del fasciame

Messa in opera del fasciame

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BARCHE DI TONNARA NEGLI EX VOTO

Una sola tavoletta votiva, avente come protagonista la tonnara, è presente presso il Santuario della Madonna

di Trapani.

TAVOLETTA VOTIVA RAFFIGURANTE SALVATAGGIO DA FORTUNALE

Località: Tripolitania (Libia), mar Mediterraneo - Supporto: olio su tela - Dimensioni: cm. 130 x 79 -

Autore: ignoto

Epoca: sec. XX, 1921 - Tipologia di imbarcazioni: barche di tonnara - Iscrizione: Il giorno 23 Aprile nella

tonnara – Misurata Zera – tripolitania nella fine dello sbarco del materiale la Ciurma di operazione fu

assalita in mare da violento temporale e sopraffatta dalla tempesta trova miracolosamente la salvezza

votandosi a Maria S.S. di Trapani e a S.F. di Paola – 23 Aprile 1921. Sul bagnasciuga a sinistra, al di sopra di

tre uomini in bianco, è raffigurato un uomo vestito di scuro con la scritta Cavasino Antonino Carpentiere. Un

po’ più in basso a destra c’è scritto Giacalone Francesco Dispensiere. Sulla destra in basso: Madonna di

Trapani Padrona (Patrona) primario (primaria) – S.Francesco di Paola, marinai - Vassallo Sebastiano, Virzì

Giuseppe, Barraco Vito, Cotugno Alberto, Melchiorre di Bartolo, Ballotta F.Paolo, Vito Caradonna, Savona

Gaspare, Giacalone Francesco, Villabuona Salvatore. Alla destra di questo elenco: Raisi Giacalone Vito-

marinai- D’Amico Rosario, Migliore Giuseppe, Bosco Vincenzo, Aleci Vincenzo, Gigante Lçorenzo,

Messina Vito, Ballata Giacomo, ….Stellario. Sulla destra di questa

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colonna: Lancia S. Domenico- Raisi D’Amico Domenico- marinai- D’Amico Giuseppe, Tobia Vito, Calamia

Giusepppe, Baiata Leonardo,D’Amico Paolo, Bosco Gaspare.

Commento: la giornata lavorativa, nella tonnara che sorge vicino la città di Misurata in Tripolitania (regione

della Libia), volge al termine, il sole sta per tramontare quando un violento temporale investe le

imbarcazioni dei tonnaroti in prossimità della costa. Notevole il realismo pittorico nella ricostruzione

dell’evento. L’autore ha saputo ben rappresentare gli immobili della tonnara, lo scalo di alaggio e i barconi

investiti all’improvviso dalla furia degli elementi. Sulla destra in basso si nota un’imbarcazione gettata sugli

scogli dalle onde, alcuni tonnaroti in acqua ed altri a terra che con le braccia alzate auspicano l’intervento

divino affinché tutti si salvino.

Dai nomi riportati sull’ex voto possiamo conoscere quali erano le funzioni degli uomini che lavoravano in

quella tonnara: il rais che dirigeva tutte le operazioni di preparazione e calata delle reti e della mattanza, il

carpentiere che aveva il compito di mantenere in efficienza le imbarcazioni della tonnara, il dispensiere il cui

compito era quello di ben alimentare tutti i tonnaroti e poi infine i marinai che si occupavano della messa in

opera delle reti, delle ancore, dei galleggianti e delle operazioni relative alla mattanza.

TAVOLETTA VOTIVA RAFFIGURANTE SALVATAGGIO DA ANNEGAMENTO

Questa tavoletta è stata dipinta dal tonnaroto Francesco Manca nel 1878. Attualmente è conservato nel

Museo Etnografico Pitrè di Palermo.

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Località: isolotto della Formica, Mar mediterraneo - Autore: ignoto - Epoca: sec.XIX, 1878 - Tipologia di

imbarcazioni: barche di tonnara - Iscrizione: TONNARA FRANCESCO MANCA FORMICA

Commento: Nell’iscrizione è indicato il nome della tonnara e del tonnaroto Francesco Manca che scampò

alla morte grazie all’intervento divino. Al centro della tavoletta notiamo la struttura rettangolare del corpo di

reti con le diverse camere tenute fisse al fondo da enormi ancore. Nel dipinto sono raffigurate due grosse

barche cariche di ancore che vengono trainate a remi dai rimorchi. Molto probabilmente l’incidente avvenne

durante l’operazione di calata di un’ancora, infatti il tonnaroto è raffigurato in acqua in procinto di venire

trascinato a fondo da un’ancora sulla cui cima doveva essere rimasto impigliato. I suoi compagni di lavoro

avendolo visto cadere in acqua invocarono l’aiuto della Madonna di Trapani e di S.Francesco di Paola che

esaudirono la loro richiesta facendo si che il tonnaroto riuscisse a liberarsi dalla stretta della cima.

Nella tavoletta è raffigurata la tonnara calata in prossimità dell’isolotto della Formica raffigurato con il suo

faro, in basso al centro. Sulla sinistra della Formica è riportato il Maraone, uno scoglio basso e piatto a nord

del quale veniva calata la tonnara.

Guardando con attenzione il dipinto possiamo mettere in evidenza le caratteristiche delle diverse tipologie di

imbarcazioni che partecipano alle operazioni di calata di una tonnara. L’unica cosa che le accomuna è il loro

colore nero perché impeciate; due di queste sono armate con vela latina mentre altre quattro più piccole,

muciare, si muovono a forza di remi; sono raffigurati due rimorchi, quello più in alto dotato di nove coppie

di remi e quello in basso di sette, che tirano due grossi barconi, palascarmi, carichi di ancore.