9. NAVIGLIO A VELA TRAPANESE...una stazza di 356 tonn., costruita in legno a Alimuri. Proprietà:...

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334 9. NAVIGLIO A VELA TRAPANESE Dai dati raccolti si deduce che la consistenza e la portata della maggior parte del naviglio posseduto dai trapanesi era adatto alla navigazione costiera piuttosto che a lunghi viaggi. Dal XVI sec. i trapanesi, considerando che il sale, la tonnina, il corallo, il caciocavallo e la cenere di soda erano molto richiesti dal mercato europeo e che nel loro porto approdavano navi di vari paesi per rifornirsi di tali merci, continuarono a costruire naviglio minore sufficiente al cabotaggio locale, alle saline e alle tonnare, abbandonando l’idea di costruire navi di elevata stazza. Questa politica si era rivelata favorevole agli armatori e ai mercanti locali, in quanto, consentiva loro il massimo guadagno con il minor rischio. I proprietari delle poche imbarcazioni di grande stazza erano i nuclei di una ventina di famiglie i cui membri avevano assunto una figura economica oscillante tra il piccolo armatore e il mercante. Chiunque avesse almeno cinque o dieci onze da investire, poteva comprare una quota di un pinco od una tartana e partecipare agli utili (e ai rischi) delle spedizioni commerciali del bastimento. Le quote erano abbastanza contenute ed appartenenti tutte a persone differenti, in quanto i più investivano su legni diversi, secondo la buona norma della massima suddivisione del rischio. Un sistema di partecipazione già collaudato nella pesca del corallo che aveva messo salde radici in città. Come nella pesca del corallo, anche la partecipazione alla proprietà di un bastimento faceva affluire nel settore marittimo utili capitali provenienti da fasce e gruppi sociali ( nobili, sacerdoti, notai, possidenti, magistrati) esterni al mondo della navigazione. Per quanto concerne i rischi delle spedizioni commerciali questi derivavano dall’insicurezza dei mari a causa della pirateria di corsa e dalle insidie della navigazione. Di fronte all’insieme di questi fattori di rischio, i sistemi di partecipazione cui si è accennato svolgevano una funzione essenziale. Cointeressando ampi strati della popolazione, avvolgevano la navigazione in una fitta rete di legami economici, evitando così indirettamente che il rischio gravasse unicamente sull’armatoria locale. Nel corso dell 1800 si constata l’accentramento nelle mani di una ristretta cerchia di famiglie, di estrazione borghese, di diverse attività collegate al commercio marittimo. Inoltre si ritrovano, spesso nei componenti di una stessa famiglia o nella stessa persona, concentrate diverse figure; padroni di barche, mercanti, proprietari e gabellotti di salina e di tonnara e più tardi anche senatori esattori di gabelle come nel caso di Giovan Maria D’Alì. Nel 1830 la marineria trapanese risultava composta da 7 padroni di bastimenti d’altura, 56 imbarcazioni di gran cabotaggio, 150 di piccolo cabotaggio e 156 da pesca, in tutto 380 persone che insieme ai marinai ed apprendisti ammontavano a 3.426 addetti al settore, che disponevano di una flotta di 310 imbarcazioni delle quali: 8 brigantini, 22 sciabecchi, 6 feluche, 1 Schooner, 1 bombarda, 71 liudelli, 110 schifazzi e 91 barche più piccole ( buzzi, paranzelle, gozzi e barche lunghe). In questo stesso periodo gli armatori trapanesi Domenico Adamo e Francesco Malato, insieme al fratello Sebastiano, diversificarono le loro attività, passando dalla pesca del corallo (Adamo) e dal piccolo cabotaggio (Malato), alle tratte d’altura; in particolare, i Malato passarono ai viaggi per New York con il brigantino Filomena al comando del capitano trapanese Francesco Rallo. Il brigantino Filomena fu protagonista di un’azione di salvataggio in pieno Atlantico: partito il 2 luglio 1839 da Palermo, con un equipaggio di 14 uomini, e diretto a New York, il 17 settembre avvistò i naufraghi del brick inglese CADWALLADER, affondato il giorno 13 dello stesso mese in seguito ad una tempesta, mentre era in navigazione da St. John’s (Terranova) alle isole Barbados. Raccolti i naufraghi a bordo, il capitano Rallo li sbarcò a New York, rifiutando ogni ricompensa offertagli dal console britannico James Buchanan e non accettando neppure il rimborso delle spese di vitto sostenute per i naufraghi ospitati a bordo per venti

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9. NAVIGLIO A VELA TRAPANESE

Dai dati raccolti si deduce che la consistenza e la portata della maggior parte del naviglio posseduto dai

trapanesi era adatto alla navigazione costiera piuttosto che a lunghi viaggi. Dal XVI sec. i trapanesi,

considerando che il sale, la tonnina, il corallo, il caciocavallo e la cenere di soda erano molto richiesti dal

mercato europeo e che nel loro porto approdavano navi di vari paesi per rifornirsi di tali merci, continuarono

a costruire naviglio minore sufficiente al cabotaggio locale, alle saline e alle tonnare, abbandonando l’idea di

costruire navi di elevata stazza. Questa politica si era rivelata favorevole agli armatori e ai mercanti locali, in

quanto, consentiva loro il massimo guadagno con il minor rischio. I proprietari delle poche imbarcazioni di

grande stazza erano i nuclei di una ventina di famiglie i cui membri avevano assunto una figura economica

oscillante tra il piccolo armatore e il mercante. Chiunque avesse almeno cinque o dieci onze da investire,

poteva comprare una quota di un pinco od una tartana e partecipare agli utili (e ai rischi) delle spedizioni

commerciali del bastimento.

Le quote erano abbastanza contenute ed appartenenti tutte a persone differenti, in quanto i più investivano su

legni diversi, secondo la buona norma della massima suddivisione del rischio. Un sistema di partecipazione

già collaudato nella pesca del corallo che aveva messo salde radici in città. Come nella pesca del corallo,

anche la partecipazione alla proprietà di un bastimento faceva affluire nel settore marittimo utili capitali

provenienti da fasce e gruppi sociali ( nobili, sacerdoti, notai, possidenti, magistrati) esterni al mondo della

navigazione. Per quanto concerne i rischi delle spedizioni commerciali questi derivavano dall’insicurezza dei

mari a causa della pirateria di corsa e dalle insidie della navigazione. Di fronte all’insieme di questi fattori di

rischio, i sistemi di partecipazione cui si è accennato svolgevano una funzione essenziale. Cointeressando

ampi strati della popolazione, avvolgevano la navigazione in una fitta rete di legami economici, evitando

così indirettamente che il rischio gravasse unicamente sull’armatoria locale.

Nel corso dell 1800 si constata l’accentramento nelle mani di una ristretta cerchia di famiglie, di estrazione

borghese, di diverse attività collegate al commercio marittimo.

Inoltre si ritrovano, spesso nei componenti di una stessa famiglia o nella stessa persona, concentrate diverse

figure; padroni di barche, mercanti, proprietari e gabellotti di salina e di tonnara e più tardi anche senatori

esattori di gabelle come nel caso di Giovan Maria D’Alì.

Nel 1830 la marineria trapanese risultava composta da 7 padroni di bastimenti d’altura, 56 imbarcazioni di

gran cabotaggio, 150 di piccolo cabotaggio e 156 da pesca, in tutto 380 persone che insieme ai marinai ed

apprendisti ammontavano a 3.426 addetti al settore, che disponevano di una flotta di 310 imbarcazioni delle

quali: 8 brigantini, 22 sciabecchi, 6 feluche, 1 Schooner, 1 bombarda, 71 liudelli, 110 schifazzi e 91 barche

più piccole ( buzzi, paranzelle, gozzi e barche lunghe).

In questo stesso periodo gli armatori trapanesi Domenico Adamo e Francesco Malato, insieme al fratello

Sebastiano, diversificarono le loro attività, passando dalla pesca del corallo (Adamo) e dal piccolo

cabotaggio (Malato), alle tratte d’altura; in particolare, i Malato passarono ai viaggi per New York con il

brigantino Filomena al comando del capitano trapanese Francesco Rallo.

Il brigantino Filomena fu protagonista di un’azione di salvataggio in pieno Atlantico: partito il 2 luglio 1839

da Palermo, con un equipaggio di 14 uomini, e diretto a New York, il 17 settembre avvistò i naufraghi del

brick inglese CADWALLADER, affondato il giorno 13 dello stesso mese in seguito ad una tempesta, mentre

era in navigazione da St. John’s (Terranova) alle isole Barbados. Raccolti i naufraghi a bordo, il capitano

Rallo li sbarcò a New York, rifiutando ogni ricompensa offertagli dal console britannico James Buchanan e

non accettando neppure il rimborso delle spese di vitto sostenute per i naufraghi ospitati a bordo per venti

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giorni. Re Ferdinando II concesse al capitano la medaglia d’oro al valor civile e la Regina Vittoria gli fece

giungere una gratifica e una medaglia d’oro con la sua effige.

Nel 1901 vi erano a Trapani 93, tra armatori e proprietari di velieri e 975 proprietari di gozzi, battelli da

traffico, barche da pesca e da diporto.

Numerosi i trapanesi che divennero proprietari di navi a vela dotate di due alberi costruite nei cantieri

cittadini o acquistate usate fuori dalla Sicilia. Tra questi ricordiamo i: Salvo, Nicotra, Surdo, Russo,

Strazzera, Ferrante, Gigante, Lipari e Virzì.

Soltanto alla fine del XIX secolo e nei primi decenni del XX sec., in conseguenza dell’espandersi dei traffici

anche sulle impegnative rotte transatlantiche, i D’Alì, i Serraino, gli Amodeo, Michele Grimaudo e Gaetano

Nicotra acquistarono imbarcazioni di grande stazza ( Brigantini a palo, navi goletta, nave a palo, piroscafi).

Nei registri del Compartimento marittimo di Trapani risultano iscritte le seguenti navi con i relativi numeri

di matricola:

Al numero 1: il Brigantino a palo denominato “Rosalia D’Alì”, armato con 3 alberi, lungo 69 m., largo

10,70 m., avente una stazza di 1408 tonn., costruita in acciaio in Scozia nel 1892. Proprietà: ditta Giuseppe

D’Alì e figli.

Al numero 14: la Nave goletta denominata “Antonio D’Alì” armata con 3 alberi lunga 53 m., larga 9,8 m.

avente una stazza di 670 tonn. costruita in legno a Chiavari nel 1891. Proprietà: ditta Giuseppe D’Alì e figli.

Al numero 19: la Nave in acciaio denominata “Giuseppe D’Alì” dotata di 3 alberi, lunga 75 m., larga 11,6

m., avente una stazza di 1684 tonn., costruita a Sestri Ponente nel 1901. Proprietà: ditta Giuseppe D’Alì e

figli.

Al numero 39: il Brigantino a palo in acciaio denominata “Giuseppina” dotata di 3 alberi, lunga 80,7 m.,

larga 12m., avente una stazza di 1876 tonn., costruita a Riva Trigoso nel 1902. Proprietà: Cavaliere D’Alì

Staiti. Affondata il 23 giugno 1916 da

Al numero 174: la Goletta denominata “Antonio D’Alì”, dotata di 3 alberi, lunga 53,54 m., larga 9,85 m.,

avente una stazza di 667 tonn., costruita in legno a Chiavari nel 1891. Proprietà: ditta Giuseppe D’Alì e

figli.

Al numero 175: la Nave a palo denominata “Gabriele D’Alì”, dotata di 4 alberi, lunga 85 m., larga 13,21

m. avente una stazza di 2290 tonn., costruita in acciaio a Genova nel 1903. Proprietà: Marchese Giuseppe

Platamone. Il “Gabriele D’Ali’“ fu il più grande veliero di proprietà di armatori meridionali. Passato

indenne tra i pericoli della guerra, veniva demolito a Trieste nel 1923, ultima nave a palo della flotta velica

commerciale italiana.

Al numero 176: il Brigantino a palo denominato “Giuseppe D’Alì”, dotato di 3 alberi, lungo 75,24 m.,

largo 11,62 m., avente una stazza di 1654 tonn., costruito in acciaio a Sestri Ponente nel 1901. Proprietà:

ditta Giuseppe D’Alì e figli.

Al numero 177: il Brigantino a palo denominato “Rosalia D’Alì”, dotato di 3 alberi, lungo 73 m., largo

11,25 m., avente una stazza di 1395 tonn. costruito in acciaio in Scozia nel 1892. Proprietà: ditta Giuseppe

D’Alì e figli.

Al numero 1065: il Brigantino a palo denominato “Assunta Marchese” dotato di 3 alberi, lungo 48 m.,

largo 10 m., avente una stazza di 676 tonn., costruito in legno a Varazze nel 1876. Armatore: Serraino

Giuseppe.

Al numero 1069: la Nave goletta denominata “Metilde”, dotata di 3 alberi, lunga 38 m., larga 8,65 m.,

avente una stazza di 337 tonn., costruita in legno a Prà nel 1883. Armatore: Catalano Giuseppe.

Al numero 1102: la Nave goletta denominata “Amodeo”, dotata di 3 alberi lunga 38 m., larga 8,2 m., avente

una stazza di 356 tonn., costruita in legno a Alimuri. Proprietà: fratelli Amodeo.

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Il piroscafo denominato “Giovanni Maria D’Alì” ora goletta “Scheria”, dotata di due alberi, lunga 87 m.,

larga 13 m., avente una stazza di 2726 tonn., costruita in acciaio a Genova nel 1902, dodata di propulsore ad

elica di 1350 Hp. Proprietà: Ditta Giuseppe D’Alì e figli. Cancellato, dai registri, il 30 giugno 1917 perché

affondata da un sommergibile nemico il 21 giugno 1917 nel golfo di Guascogna.

La Goletta a gabbiola denominata “Giuseppe Surdo” dotata di 2 alberi, lunga 36,20 m., larga 7,79 m.,

avente una stazza di 187 tonn., costruita a Genova nel 1920. Proprietà: Giuseppe Surdo fu Marco.

La Goletta a palo denominata “Stella” dotata di 3 alberi acquistata in Germania nel 1920, armatore Nicotra

Gaetano. Affondata nel 1944 a S.Benedetto del Tronto da un siluro nemico.

I Nicotra a bordo della goletta a palo “Stella”

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Goletta a palo “Stella”

Michele Grimaudo armò la nave goletta denominata Michele G.

Nave goletta “Michele G.” ormeggiata nel porto di Bugia, Algeria, nel 1938

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Nave goletta “Michele G.” in cantiere

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Il Capitano Gioacchino Lipari (Trapani 1878, Genova 1966) nel 1922 comprò un cutter in seconda mano,

forse francese, il “Giordano Bruno”, da 75 tonnellate di portata. Poi vennero altri velieri e pescherecci, ma

il cutter fu la barca che maggiormente contribuì al benessere della famiglia Lipari.

Durante la guerra veleggiò, incurante del pericolo degli attacchi aerei, tra Trapani e Tripoli di Libia. Una

volta, entrando nel porto di Trapani a luci spente (cosa stava trasportando per non avere visibili le luci di

navigazione?) ebbe una collisione, che il Capitano pagò con un mese di carcere. Il veliero venne venduto nel

1952 all'imprenditore trapanese Attilio Amodeo e usato nella tonnara di Torretta, presso Capo Granìtola. La

parola cutter emerge dal libretto di navigazione del figlio del Capitano, imbarcato col padre durante il

ventennio fascista che, caso raro, mantenne per la tipologia del veliero la parola inglese.

Bartolomeo Virzì armò, nel 1937, la goletta a Il cutter “Giordano Bruno” in navigazione

Gabbiole “vera unione” attorno agli anni trenta

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Tra le imbarcazioni da diporto troviamo:

La Goletta a motore da diporto denominata “Giuseppina” dotata di 2 alberi, lunga 23 m., larga 3,97 m.,

avente una stazza di 35 tonn.,costruita in legno a Varazze nel 1906 dotata di un propulsore ad elica di 64

Hp., proprietà D’Alì Cav. Decro di Giuseppe

Il Piroscafo –Goletta denominato “La Sirena” dotata di due alberi, lunga 26 m., larga 5,30 m., avente una

stazza di 77 tonn., costruita in ferro in Inghilterra nel 1888, dotata di un propulsore ad elica di 94 Hp.,

proprietario: Giuseppe Maltese.

Il Piroscafo da diporto – Goletta denominata “Giovanni”, dotata di due alberi, lunga 17 m., larga 2,78 m.,

avente una stazza di 14 tonn., costruita in ferro e acciaio a Napoli nel 1893, dotata di un propulsore ad elica

di 50 Hp., proprietà: Adragna Giovanni.

A queste imbarcazioni si devono aggiungere quelle di minore stazza armate con due e un albero costruite

quasi tutte in città, di proprietà di Trapanesi, delle quali abbiamo trattato precedentemente.

Elenco delle “GOLETTE “ non costruite in città e dei rispettivi proprietari:

GESU’ GIUSEPPE E MARIA, lunga 19,7 m., costruita in legno nel 1885 a Castellammare di Stabia.

Proprietà: Fratelli Gabriele.

ANGELO RAFFAELE, lunga 21,4 m., costruita in legno nel 1886 a Torre del Greco. Proprietà: D’Asta

Vincenzo, armatore Cocco Luigi.

LA BELLA ROMA, lunga 22,10 m., costruita in legno nel 1891 a Castellammare di Stabia. Proprietario

ed armatore: Gigante Vito.

MICHELINA CATALANO, lunga 26 m., costruita in legno nel 1901 a Torre del Greco. Proprietà:

Catalano Giuseppe Alberto.

LUIGI PADRE, lunga 19,75 m., costruita in legno nel 1905 in Grecia. Proprietà: Nicotra Gaetano.

CLAMIRA, lunga 24,80 m., costruita in quercia e pino nel 1906 a Oneglia. Proprietà: Garziano Domenico

e Alberto – Bruno Bartolomeo.

ROSINA, lunga 23,64 m., costruita in legno nel 1910 a Siracusa. Proprietà: Fratelli Salvo, armatore

Frusteri Giovanni.

ANNITA E MICHELINA, lunga 27,38 m., costruita in legno nel 1919 a Chiavari. Proprietà: Michele di

Gaetano.

Elenco dei “BRIGANTINI GOLETTA“ non costruiti in città e dei relativi proprietari:

SAN GIOVANNI, lungo 25,40 m., costruito in legno nel 1861 a Chiavari. Proprietà: Barraco Vito.

AFFRICANA, lungo 24,80 m., costruito in legno nel 1874 a Viareggio. Proprietà:Società Boccata,

Scalabrino e C.

MARIAUNINA, lungo 21,88 m., costruito in legno nel 1886 ad Arma di Taggia. Proprietà: Adragna

Salvatore.

SALVATORE P., lungo 19,90 m., costruita in legno nel 1889 a Limite. Proprietà: Coccellato Marco.

ROSA GIACOMO R., lungo 21,50 m., costruito in legno nel 1891 a Castellammare di Stabia. Proprietà:

Virgilio Michele – Cintura Salvatore fu Agostino.

ALFREDO, lungo 23,5 m., costruito in legno nel 1892 a Malta. Proprietario e armatore: Giacomo Mineo.

SENZA NOME, lungo 26 m., costruito in legno nel 1892 a Viareggio. Proprietà: Figuccio Bartolomeo.

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CARLO GIORGINI, lungo 27,50 m., costruito in legno nel 1893 a Viareggio. Proprietà: Fratelli

Strazzera e Cavasino Gaspare.

SANT’ ANTONIO, lungo 32,20 m., costruito quercia e pino nel 1902 a Viareggio. Proprietà: Bosco

Annibale. Armatore: Polizzi Vincenzo.

MARIO R., lungo 31,50 m., costruito in quercia e pino nel 1905 a Torre del Greco. Proprietà: Costa

Domenico. Armatore Gabriele Giacomo.

MARIA, lungo 24 m., costruito in legno nel 1906 a Porto S. Maurizio. Proprietà: Ferrante Paolo – Sardo

Baldassare. Armatore: Biluci Pasquale.

L’EROE DI CAPRERA, lungo 32 m., costruita in legno nel 1911 a Vietri sul Mare. Proprietà: Poma

Leonardo e Cordaro Giuseppe.

FRANCESCO DI PAOLA S, lungo 30 m., costruito in legno nel 1913 a Torre del Greco. Proprietà:

Surdo Marco.

MARIA MADRE G., lungo 29,90 m., costruito in ferro e quercia a Viareggio. Proprietà: fratelli

Graziano.

I DUE FRATELLI, lungo 28,68 m., costruito in legno a Salerno. Proprietà: Garziano Domenico – Bileci.

Elenco dei “CUTTER” non costruiti in città e dei relativi proprietari:

LIBERO, 1 albero, lungo 17,20 m., costruito in legno nel 1871 a Viareggio. Proprietà: Strazzera Matteo.

Armatore Bono Vincenzo.

NUNZIATINA, 2 alberi, lungo 20,60 m., costruito in legno nel 1885 a Torre del Greco. Proprietà:

Strazzera Michele-Scalabrino Gaspare.

MARIA DELLE GRAZIE, 1 albero, lungo 16,48 m., costruito in legno nel 1892 a Riposto. Proprietà:

Calandro Giovanni – Grimaudo Angelo.

FRATELLI FERRANTE, 2 alberi, lungo 20,90 m., costruito in legno nel 1893 a Castellammare di Stabia.

Proprietario ed armatore: Fratelli Ferrante.

ALFIERI, lungo 21,73 m., costruito in legno nel 1901 a Sampirdarena. Proprietà: fratelli Salvo.

LA JEANNE, 1 albero, lungo 18,10 m., costruito in legno nel 1902 a Torre del Greco. Proprietà: Amodeo

Leonardo.

ERICE, 1 albero, lungo 11,84 m., costruito in legno nel 1903 a Varazze, dotato di un propulsore ad elica di

16 Hp., proprietà: Barone Francesco Adragna.

S. ANTONIO, 2 alberi, lungo 19,90 m., costruito in legno nel 1907 a Torre del Greco. Proprietà: Fratelli

Frazzitta.

BASTIMENTI A VELA E LA MARINERIA TRAPANESE NEL FINE 1800

(Da “C’era una volta Trapani” di Mario Cassisa)

Mio padre Cassisa Giuseppe a 15 anni nel 1897 si imbarcò come mozzo su un bastimento a vela della

famiglia D’Alì. Dopo diversi anni di navigazione prima come mozzo, poi giovanotto e marinaio divenne

nostromo e comandava la ciurma di bordo durante le manovre veliche. Sapeva realizzare e cucire le vele ed

impiombare i cavi.

Faceva lunghi viaggi in Sud America, a Buenos Aires in Argentina e a Montevideo in Uruguay. A Trapani

caricavano sale alla rinfusa, botti di vino di Marsala e pasta fabbricata e impacchettata in cassette nei

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pastifici trapanesi come quello di Aula. Prima andavano a Montevideo e poi in Argentina dove caricavano

grano per l’Europa.

Dopo alcuni anni di navigazione su bastimenti trapanesi, si imbarcò a Trapani su di un grande veliero inglese

con altri marinai trapanesi e fece viaggi da Trapani al Sud America e Inghilterra.

A Trapani nel ‘800 e primi 900 vi erano molti capitani di lungo corso imbarcati sia sulle navi mercantili che

su quelle militari, molti ammiragli erano trapanesi, come Staiti e Marino Torre. La nostra marineria velica

competeva con quelle di Genova, Viareggio ecc. e possedeva molti bastimenti mercantili a vela in legno

comandati da capitani di lungo corso come i fratelli Scalabrino, Francesco, Antonio, Gaspare e Giuseppe.

Navigavano utilizzando la bussola magnetica, le carte nautiche e il sestante, con questo strumento aiutandosi

di notte con le stelle e di giorno con il sole ricavavano il punto nave che riportavano sulla carta nautica.

Dai racconti di mia madre, uno dei fratelli Scalabrino mentre si trovava a Malta alla fine del’800, con il suo

bastimento salvò da sicura morte per annegamento il figlio dell’allora governatore di Malta che era

ammiraglio della marina da guerra inglese.

Mia madre mi raccontò che altri due fratelli Scalabrino naufragarono con il loro bastimento carico di carbon

fossile, durante una tempesta forse a Capo Horn. In quegli anni i bastimenti trapanesi facevano viaggi oltre

oceano trasportando carbon fossile da Cardiff in Inghilterra e anche dagli Stati Uniti, da Baltimora, Newport;

lo trasportavano in Cile a Valparaiso e a Sant’Antonio du Cile.

I fratelli Scalabrino andavano anche in Indonesia, Singapore, Indie Inglesi e in Australia. Uscendo da

Gibilterra navigavano verso Sud, doppiavano il Capo di Buona Speranza (Sud Africa) e quindi entravano

nell’oceano indiano e Pacifico. Gli otto alberi che si trovano al centro della Villa Margherita furono importati

proprio dalle Indie Inglesi.

Il mio padrino Capitano Nunzio Basciano possedeva un Cutter di 24 metri con albero di trinchetto, randa e

controranda e fiocchi nel bompresso. Nella poppa estrema, nel coronamento, era armato il “SINO’”, un

alberetto su cui si alzava una piccola randa per rendere più equilibrata la navigazione a tutta vela. Aveva il

quadro di poppa rotondo tipo viareggino e una portata di 100 tonn., era iscritto al Compartimento Marittimo

di Trapani col nome di “PASQUALE TRAPANI”.

Mio zio Salvatore Corso possedeva una barca e andava a pescare con le nasse e le reti nel mare delle Egadi.

Era rais di tonnara e nel periodo da Aprile a Giugno si recava con altri pescatori trapanesi in Libia, in

Tripolitania a MARSA ZUWARAH, MARSA ZUAGA ad ovest di Tripoli e ad OMAS in Cirenaica.

Proprietaria di queste tonnare era la famiglia Serraino. A Marsa Zuaga vi erano gli stabilimenti di cottura del

tonno che veniva inscatolato con olio di oliva e dove si salava il tonno e le sue interiora in barili di legno.

Le banchine del porto di Trapani erano affollate di decine e decine di bastimenti che scaricavano carbone

vegetale proveniente da Follonica (Toscana), doghe di legno di castagno provenienti dal golfo di Napoli

utilizzate per la costruzione delle botti, terraglia anfore, vasi di piante, carrube per l’alimentazione degli

animali, cavalli, muli e asini provenienti da Sciacca e caricavano sale, pietre, botti di vino. In banchina

numerosi erano i carretti e traini a quattro ruote trainati da cavalli, giumente o muli sui quali si caricavano le

merci per essere trasportate nei magazzini. Si vedevano i portuali che portavano in spalla diverse mercanzie

andando su e giù su due “VANCAZZE” (passerelle fatte con tavoloni in legno di pino) lunghe 6-8 metri e

larghe appena 35 cm. poggiate sulle murate del veliero. Due vancazze venivano messe in corrispondenza sia

della stiva di prora che di quella di poppa, all’interno di queste i marinai riempivano con le pale i

“ZIMMILLI” (grandi coffe) di carbon fossile e poi tramite un bico (albero di forza e carico) venivano

sollevati dal basso della stiva fin sulla coperta dove un massaro accompagnando con le mani la grande cesta,

la poggiava sulla sua spalla protetta da un cuscino e sganciava i ganci dai manici; poi percorrendo le

vancazze scendeva a terra e scaricava il contenuto della cesta sul traino. Per scaricare tutta la mercanzia

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occorrevano diversi giorni, finito lo scarico veniva pulita la stiva e caricato il sale i bastimenti partivano per

Genova, Savona e altri porti italiani. I bastimenti caricavano e trasportavano a Napoli o a Tunisi,anche

blocchetti di pietra bianca cavata nella cava dell’Argenteria, questa veniva utilizzata per fare la calce ed

impiegata per la costruzione di edifici.

I velieri che trasportavano carbon fossile erano zavorrati di sabbione che veniva caricato e posto sul fondo

della stiva e sopra si caricava il carbone che era più leggero.

La maggior parte dei grossi bastimenti a vela trapanesi era costituito da: Brigantini Goletta chiamati

“SCUNA” da Schooner nome inglese della nave goletta, erroneamente attribuito al brigantino goletta; da

Brigantini ; Golette; Cutter chiamati “COTTARI” e da Navi Goletta.

Tra i “brigantini goletta” ricordiamo:

L’UNIONE …………………… comandata dal capitano Ignazio Migliacci

L’EROE DI CAPRERA ……. “ “ “ Adragna

I FRATELLI SCALABRINO. “ “ “ Fratelli Scalabrino

SANTA ANNA……………….. “ “ “ “ “

VERA UNIONE……………… “ “ “ Gaspare Russo armatore Bartolomeo Virzì

ANGIOLINA H……………… “ “ “ Vito barraco

BEATRICE…………………… “ “ “ Luca Strazzera

CARLO GIORGINI…………. “ “ “ Salvatore Strazzera

Tra i “brigantini” ricordiamo:

FRATELLI MALATO comandata dai fratelli Malato

Tra le “golette” ricordiamo:

NORA comandata dal capitano Pietro Gianquinto

NUNZIO NASI “ “ “ Di Marzo

Tra i “Cutter” ricordiamo:

PASQUALE comandata dal capitano Mario Cassisa

GIORDANO BRUNO

Tra le “navi golette” ricordiamo:

PELORO

ROMA

EXCELSIOR

MICHELE G.

Poi c’era la “veck secher” ( pronuncia: “vicasicca”) che era simile alla goletta e con la stessa portata merci,

ma a differenza della goletta che aveva i due alberi di uguale altezza, l’albero prodiero era molto più corto di

quello poppiero, con la randa e la controranda più piccole di quelle dell’albero poppiero.

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Poi c’era il “sack lever” (pronuncia: sacchileva) simile anch’esso alla goletta sia per portata merci che per

velatura e alberatura; inoltre a circa 30 centimetri più avanti, verso prora, dell’albero prodiero ce n’era un

altro alto più della metà rispetto a quest’ultimo armato con sartie, paterazzi, stragli e con un pennone armato

con una vela quadra. Era proprio per questo pennone e questa vela quadra che il veliero prendeva il nome

inglese di sack lever, in quanto sia in inglese che in dialetto trapanesi sack indicava la vela quadra che

rappresentava un sacco e lever il pennone che manteneva la vela sacco orizzontalmente a livello.

Poi c’era il “pink” che era simile alla goletta, con la stessa portata merci, lo stesso tipo di velatura ma

l’albero poppiero era molto più corto, con randa e controranda molto più piccoli di quelle dell’albero

prodiero.

Tanti erano i capitani trapanesi, tra questi ricordiamo:

BILECI, MESSINA, ALGERINO, PAPPALARDO, GIGANTE, SURDO, LAMIA, GRILLO,

COSTANTINO, SALONE, LAZZARA, VIRZI’, CORDARO, CRAPANZANO, INCARBONA,

CARUSO, MAZZA, NICOTRA, ILARDI, LA COMMARE, GRIMAUDO, CASSISA, DI MARZO,

SALVO.

Poi c’erano tanti altri capitani con i loro velieri a tre alberi, come le tre grandi navi goletta PELORO,

ROMA, EXCELSIOR e quindi i capitani dei tanti brigantini, golette e cutters i cui nome erano : MARIA

LUISA, LILLA, SEMPRE AVANTI, SAN FRANCESCO DI PAOLA, MARIA SANTISSIMA DI

TRAPANI, PASQUALE, BUONI GENITORI, PIO X, MARIA DELLE GRAZIE. La goletta NORA con il suo capitano Pietro Gianquinto trasportava carbone vegetale dal porto di Follonica

in Toscana al porto di Trapani e ad altri porti siciliani.

Il capitano Di Marzo con la sua goletta “NUNZIO NASI” viaggiava per tutto il mediterraneo centro-

occidentale.

Erano tutti, capitani, padroni marittimi, capibarca ed equipaggi di allora, grandi uomini di cultura marinara e

velica, tramandata ed ereditata di padre in figlio, tutta gente di mare che onorava la grande marineria velica

di Trapani. Il gran numero di bastimenti a vela che gli armatori trapanesi possedevano portò a togliere nel

1932 il titolo di Numerazione Velica al porto di Viareggio che era stato fino ad allora il primo porto velico

d’Italia.

Allora la città di Trapani aveva il vanto di possedere un grande porto commerciale, in Italia tutte le merci

venivano trasportate via mare perché era più economico che farle viaggiare via terra sulle ferrovie dello

stato.

BASTIMENTI A VELA DI “MALAFORA” ( da c’era una volta Trapani)

Erano così chiamati poiché uscendo dallo Stretto di Gibilterra navigavano per gli oceani. Tali bastimenti

erano per la maggior parte costruiti in legno, lunghi circa 45 m., larghi 8 m. ed alti 5 m., avevano due

boccaporti al centro della coperta che venivano chiusi tramite tavole di legno sopra le quali si distendevano

dei teli di olona che venivano bloccati tramite delle bacchette di ferro e dei cunei in legno sui laterali del

boccaporto; in questo modo si proteggeva la merce stivata dall’acqua di mare che avrebbe potuto frangersi in

coperta durante una navigazione tempestosa.

I bastimenti portavano 600 tonnellate di merce ed erano armati con tre alberi ciascuno dei quali penetrava

nella stiva e la sua estremità (miccia) si inseriva nella cavità della scassa poggiata sul paramezzale.

Nella prora estrema c’era armato il bompresso con l’asta di fiocco (piccolo albero in legno pich pine montato

in posizione quasi orizzontale sul prolungamento del bompresso). I tre alberi in legno pich pine, alti circa 30

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metri, erano armati con paterazzi-paterazzini (manovre che sostenevano lateralmente e verso poppa la parte

intermedia degli alberi), stragli ( funi che sostengono gli alberi verso prua) e sartie ( funi che sostengono

lateralmente gli alberi) con griselle (scalini in legno legati nelle sartie allo scopo di consentire ai marinai di

salire sugli alberi) per sbrogliare (mollare) oppure imbrogliare (raccogliere) le vele sui pennoni.

L’albero di trinchetto (prodiero) era armato con quattro pennoni orizzontali il più alto era lungo 8 metri e gli

altri rispettivamente 9- 10- 12 metri e ciascuno sosteneva una vela quadra. La più bassa era il trinchetto,

salendo il parrocchetto (barile nella marineria trapanese), il parrocchetto volante (gabbia) e il velaccio

l’ultimo in cima.

Sugli stragli che collegano l’albero di trinchetto con quello di maestra venivano spiegate delle vele

triangolari che dal basso verso l’alto sono la carboniera, la prima, la seconda e la terza vela di straglio.

Sull’albero di maestra veniva armata la randa e la controranda. L’albero di mezzana (poppiero) era armato di

randa e controranda più grandi rispetto a quelle dell’albero di maestra; in gergo marinaresco veniva chiamata

“portovis” e il bastimento in inglese era chiamato “back best”, termine che derivava dalla grande randa

dell’albero poppiero, in quanto back significa “dietro” e best “migliore” cioè la migliore vela poppiera.

Operazioni di pulizia dei velieri (carenaggio) in banchina

Il carenaggio col sistema di sbandamento del bastimento in banchina veniva fatto solo per la pulizia della

carena e per la sostituzione di alcune lastre di rame rosso corrose dalla corrente galvanica e di qualche tratto

del fasciame. Se al veliero occorrevano lavori radicali, come la sostituzione del fasciame e la riparazione

della chiglia, veniva alato a secco a terra tramite gli scali di alaggio nei cantieri navali di Porta Galli i cui

magazzini carpenteria si trovavano sotto le antiche mura del Bastione dell’Impossibile.

Per pulire la carena dei velieri, questi venivano ormeggiati ad una distanza di sei metri circa dalla banchina,

il nostromo con i marinai puntellava l’albero di trinchetto prodiero e l’albero di mezzana poppiero. I puntali

erano inclinati con l’estremità inferiore adagiata al trincarino e addossati alla murata mentre l’estremità

superiore veniva legata con un cavo di manilla sotto le coffe all’albero di trinchetto e di mezzana. I puntali

servivano per rinforzare i due alberi, dar loro un punto di appoggio a causa della forte tensione a cui erano

sottoposti dai due grossi paranchi durante la fase di sbandamento del bastimento. Terminato il puntellamento

un marinaio saliva sull’estremità superire di ciascun puntale, fasciava l’albero con uno spesso tessuto di

olona e attorno ad esso faceva passare una grossa braca in acciaio sulla quale ingrillava un grosso bozzello in

legno dotato di cinque pulegge in bronzo. Il marinaio calava un sagolino al quale veniva legata l’estremità di

una lunga cima e tirandola su la inseriva nella prima puleggia facendola scorrere giù fin sulla coperta dove

un altro marinaio la inseriva in una delle quattro pulegge di un altro grande bozzello in legno, poi tramite il

sagolino veniva fatta risalire e inserita nella seconda puleggia, poi veniva fatta scendere in coperta e veniva

inserita nella seconda puleggia e così si continuava fino ad armare un grosso paranco a nove fili.

A circa quattro metri dal bordo della banchina, tra la via Aragonesi e vicolo Svevi, erano murati sotto il

pavimento balatato due grossi pali in legno di pino del diametro di 40 cm e alti circa dieci metri. I pali

avevano piantati, sul lato che guardava a mare, dei pioli tondi in ferro sporgenti posti alla distanza di 20 cm.

uno dall’altro, la cui funzione era quella di appoggiarvi i piedi per poter salire sino all’astremità superiore

del palo stesso. I due pali distavano dai 10 ai 12 metri uno dall’altro, distanza che corrispondeva a quella

esistente tra i due alberi di un bastimento a vela. All’estremità superiore di ciascun palo era inserito un

cerchio di ferro dotato di un golfare di ferro.

Lateralmente, a circa due metri di distanza da ciascun palo c’era un grosso anello in acciaio di 25 cm. di

diametro inserito a cerniera in un grosso golfare in acciaio ancorato sotto il pavimento balatiato della

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banchina. Nei due anelli si ingrillavano i due grossi bozzelli in legno dei due paranchi che erano collegato ai

due alberi e due grosse pastecche (bozzelli con una sola puleggia) in legno nelle quali si inserivano le due

cime tiranti dei due paranchi.

A circa 15 m. di distanza di fronte ai due anelli c’erano due rudimentali e secolari argani in legno duro con

telai a forma di cassone cubico di lato 1,2 m. ancorati e fermati da grosse catene collegate ai telai. Al centro

del telaio era inserito il rullo argano in legno di 45 cm. di diametro e alto 1,40 m. dotato, al centro della sua

base inferiore, di una miccia rotonda che si inseriva in un foro che fungeva da cuscinetto inferiore alla base

di un largo e spesso tavolone. La testa (parte superiore) del rullo rimpicciolita e di forma quadrata usciva in

alto dal telaio per 40 cm. attraverso un largo foro che fungeva da cuscinetto superiore praticato su di un largo

e spesso tavolone. All’estremità superiore della parte quadrata stavano due fori passanti, uno sopra l’altro,

sfalsati a croce, sui quali si inserivano due lunghe travi di legno di castagno di sei metri di lunghezza a

sezione quadra di lato 10-12 cm., che incrociandosi fuoriuscivano per tre metri da ciascun lato ad una altezza

corrispondente a quella del petto di un uomo facilitandone la spinta.

Per movimentare l’argano necessitavano così quattro uomini ciascuno posto all’estremità di ogni trave.

Questo era l’armamento in banchina per fare carenaggio ai velieri, gli armatori pagavano alcune decine di

lire alla Capitaneria di porto per i diritti portuali.

Ruotando contemporaneamente i due argani il bastimento si inclinava lentamente verso la banchina e quando

i due alberi arrivavano in corrispondenza delle estremità superiori dei due pali in banchina si fermava l’alata

dei due argani. Sui due pali salivano due marinai e ciascuno di essi ingrillava sul golfare in ferro posto

all’estremità del palo un bozzello a formare un paranco con un altro bozzello ingrillato nella braca

dell’albero, le cime tiranti di questi due paranchi venivano date volta ai due sottostanti anelli in banchina.

Questi paranchi erano chiamati “di non abbandono “ perché servivano a mantenere il bastimento sbandato.

Si continuava a far sbandare il bastimento fino a quando non emergeva la chiglia, nel frattempo la murata del

bastimento dalla parte della banchina si era immersa e a fior d’acqua rimanevano i bordi dei due mascellari

dei due boccaporti.

A fianco dell’opera viva emersa,compresa la chiglia, per tutta la lunghezza del bastimento, si ormeggiavano

uno dietro l’altro dei pontoni in legno galleggianti grazie a quattro botti di legno vuote poste alle estremità

degli stessi. I pontoni appartenevano alla cooperativa dei maestri d’ascia.

Dopo la pulizia della carena effettuata dai marinai intervenivano i carpentieri e i calafati per ripristinare le

eventuali anomalie dell’opera viva. A quell’epoca tutti i grandi bastimenti a vela, in legno, avevano l’opera

viva “ARRAMATA”, cioè la carena era rivestita con lastre di lamierino di rame rosso: prima venivano

calafatati i comenti (giunzione longitudinale tra i corsi del fasciame) e le unghie fasciame (giunzione

trasversale tra i corsi del fasciame) poi dopo averli ricoperti con della pece caldissima il fasciame di quercia

veniva rivestito con del feltro catramato e infine con queste lastre. Le lastre lunghe un metro, larghe 25 cm. e

spesse 2-3 mm. venivano fissate tramite chiodi di rame rosso partendo dalla poppa fino alla prora e

incapezzate (non poste bordo contro bordo ma sovrapposte una all’altra) in modo da offrire la minima

resistenza allo scorrimento dell’acqua durante la navigazione.

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Operazioni di carenaggio in banchina

Una volta terminate le operazioni di sistemazione dell’opera viva, i marinai inserivano sui due argani le aste

e cominciavano a far girare i rulli in senso inverso rispetto a quanto fatto nella fase di messa in sbandamento

del bastimento. Contemporaneamente due marinai manovravano i due paranchi di non abbandono tenendoli

sempre tesi con la cima data a mezza volta negli anelli.

Sempre lentamente si giravano i rulli all’indietro e quando i due alberi arrivavano in corrispondenza delle

estremità dei due pali due marinai salivano a riva degli stessi e sgrillavano i due paranchi di non abbandono

liberando così i due alberi. Si continuava a girare gli argani sempre all’indietro tenendo i due cavi tiranti

avvolti ai due rulli mentre i marinai dovevano tenere in forza le aste senza farsele scappare dalle mani in

quanto era lo stesso bastimento che raddrizzandosi faceva forza sui due paranchi.

Una volta raddrizzato il bastimento, si sgrillavano dai due anelli in banchina i due grandi bozzelli in legno e

si poggiavano in coperta con tutto il lungo cavo. Si girava il bastimento, dai due alberi si disarmavano i due

puntali, si armavano dal lato opposto e si eseguivano le stesse operazioni descritte in precedenza.

Il carenaggio si effettuava nel periodo estivo quando le condizioni di bel tempo facevano si che il mare

all’interno del porto fosse piatto e si impiegava dai 4 ai 5 giorni a seconda dei lavori da effettuare.

Si iniziava all’alba, alle 4, fino a mezzogiorno ora in cui si faceva colazione a bordo o in banchina a spese

dell’armatore (proprietario del bastimento), alle tredici si riprendeva a lavorare e si terminava alle 21 e a

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volte anche dopo che il sole fosse tramontato. A fine lavoro, l’armatore dava ai marinai la paga giornaliera

consistente in 10 lire.

Se si doveva fare carenaggio ad un Cutter (Cottaru in dialetto trapanesi) dotato di un solo albero allora si

utilizzava un solo palo con un solo paranco e un solo argano.

Messa in secco di un bastimento

Lo scalo di alaggio era gestito dal carpentiere navale Paolo Emiliani soprannominato “U RAISI” che alava e

varava i velieri aiutato dai giovani figli Luca, Giuseppe e Francesco. Per tirare in secco i velieri veniva

utilizzato un argano in legno uguale a quello usato per farli sbandare in banchina e inoltre si usavano due

antichissimi “TAGGHI” consistenti in due grossissimi bozzelli in legno di manna, durissimo, lunghi più di

un metro e larghi ciascuno 40 cm. con incorporate molte pulegge di legno di manna con gole circolari per

l’alloggio dei cavi e dei fori centrali con boccole in bronzo montate con degli spinotti in acciaio. Le due

guance di ciascun tagghiu erano rivestite da due grandi piastroni in acciaio con due fori attraverso i quali

passavano i due terminali dello spinotto e nella parte terminale di questi piastroni era fissato un grosso

golfare in acciaio. I due tagghi assieme ad una lunga cima passante attraverso le sue pulegge costituivano un

paranco che avrebbe permesso l’alaggio del veliero.

Il sig. Emiliani prima di alare a secco il bastimento saliva a bordo dello stesso per misurarne la lunghezza, la

larghezza e le quartabonate (quartabuono=angolo secondo il quale gli elementi dell’ossatura del veliero sono

tagliati sul loro lembo esterno in modo che il fasciame vi possa aderire perfettamente) che riportava su di un

foglio e che sarebbero servite per modellare l’invasatura sulla quale si sarebbe adagiata la carena del veliero.

Questa veniva costruita con tavole di abete e cunei in legno di pino tenero, tutto chiodato su due lunghi vasi

in legno, montati e uniti con barroni in acciaio alle loro estremità e catene di tenuta larghezza vasi.

Il giorno prima dell’alaggio il sig. Emiliani ingaggiava cinque uomini detti allora “RIZZAGGHIERI” dal

tipo di rete (rizzagghiu) usata per pescare muletti e cuciuna che vivevano alla giornata raccogliendo anche

mitili marini, addre e accelle nei bassi fondali del canaleddru e del ronciglio e li pagava 10 lire al giorno. Il

loro compito consisteva nel far girare l’argano facendo forza sulle quattro estremità di due travi in legno di

castagno lunghe sei metri inserite nei due fori sovrapposti a croce sulla testa della colonna argano.

All’alba del giorno convenuto il veliero si presentava davanti al cantiere ormeggiandosi con la prua rivolta

verso terra dinanzi lo scalo di alaggio immerso nella battigia del cantiere; lo scalo era costituito da una

struttura fissa di travi in legno di rovere disposte parallelamente fra di loro e poggiate alle loro estremità

sopra due lunghe travi disposte ad angolo retto rispetto ad esse.

Intanto a terra era stata preparata l’invasatura, alla sua estremità rivolta verso terra sul barrone in acciaio che

collegava i due musi dei due vasi veniva fatta passare una grossa braca in acciaio munita alle due estremità

di due gasse all’interno delle quali si inseriva un grosso grillo collegato con un tagghiu. L’altro tagghiu

veniva ingrillato su di una grossa catena collegata ad un corpo morto sotterrato ai piedi della robusta

struttura lignea dell’argano posizionato al confine nord del cantiere, orlo sud della via Ammiraglio Staiti.

Dopo aver cosparso di sevo le travi non immerse si facevano scivolare su di esse i due vasi che poi

continuavano a scendere sopra lo scalo immerso fino a disporsi sotto la chiglia del veliero. A questo punto si

portavano a bordo le quattro grosse cime di canapa che erano state legate ai quattro terminali dei 4 musi dei

due vasi e tirando su queste si posizionavano i due vasi al centro della carena e si bloccava il tutto legando le

cime alle bitte di prora e di poppa.

Dopo aver avvolto per sei volte, nella colonna argano, la cima tirante del paranco, quattro uomini iniziavano

a spingere sulle quattro aste mentre il quinto recuperava il grosso cavo di canapa mano a mano che l’argano

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girava e lo raccoglieva a terra disponendolo a forma di cerchio. Sui parati sevati i due vasi si muovevano a

passo di formica per il fatto che il paranco era armato a 12 fili. Secondo il sig. Paolo Emiliani il tiro

dell’argano corrispondeva ad un sesto del peso del veliero, per esempio se il veliero pesava 120 tonn. con un

tiro d’argano di 20 tonn. questo veniva alato.

Uno dei quattro uomini alle aste faceva da capo argano e mentre girava cantilenava una litania armoniosa:

eee Saan Peeetruu piiiscaaatuuriii (e San Pietro pescatore), gli altri rispondevano

eee aamoola eee aamoolaaa, eee Saan Peeetruu aapoostuuluu (e tiriamola, e San Pietro apostolo)

eee aamoola eee aamoolaaa, eee Saan Peeetruu traaariituurii (e tiriamola, e San Pietro traditore)

eee aamoola eee aamoolaaa, eee Saan Giuuseppee maastru raasciaa (e San Giuseppe mastro d’ascia)

eee aamoola eee aamoolaaa, eee uu caapiitaanuu cii paagaa aa biivirii (il capitano ci paga da bere vino)

Dopo una pausa per la colazione, nel pomerriggio il veliero era alato a secco. Il sig. Emiliani diede a

ciascuno dei cinque uomini 10 lire e l’indomani con i suoi tre figli, che durante l’alaggio impostavano i

parati (travi sulle quali scorrevano i vasi) sevandoli, si dedicava a impostare lo scafo del veliero e a togliere i

vasi da sotto lo scafo. Venivano posti sotto la chiglia dei tacchi in legno di rovere con dei cunei e così anche

sui due ginocchi laterali della carena: dopo col supporto di martinetti sollevatori azionati con maniglie a

mano e a colpi di mazza sui cunei si sollevava lo scafo quel tanto che bastava per poter estrarre i due vasi

che venivano separati smontando i due barroni in acciaio che li attraversavano. Ciascun vaso veniva fatto

scivolare in acqua e alato nell’altro scalo di alaggio a disposizione del cantiere.

Lo scafo del veliero era libero e pronto per ricevere le necessarie riparazioni, mettendo a nuovo ciò che era

allupato o infradicito. I comenti e le unghie fasciame venivano calafatati con stoppa catramata e coperti con

pece calda. L’opera viva veniva coperta con tappeti di feltro catramato e sopra di essi venivano inchiodate le

lastre di lamierino di rame rosso per non far attecchire la vegetazione marina sulla carena immersa. Dopo la

sistemazione dell’opera viva, si procedeva a pitturare l’opera morta.

Alla fine dei lavori il rais Emiliani e i suoi tre figli inserivano i due vasi sotto la carena, li univano e tramite

cugni e martinetti li incastravano sotto la carena a fianco della chiglia. I vasi sevati poggiavano su molti

parati anch’essi sevati e allineati ed inclinati, da terra verso il mare, del 6% rispetto al piano orizzontale. Nel

barrone in accaio che univa le estremità dei due vasi rivolti verso terra veniva legata una lunga ritenuta

costituita da un grosso cavo in canapa che veniva tesato e legato ad una catena di un corpo morto. Una volta

sistemati i due vasi si toglievano le taccate da sotto la chiglia e i ginocchi e si faceva appoggiare lo scafo sui

vasi. Subito dopo si mollava la ritenuta del cavo e i vasi con il veliero insellato, lentamente varava da solo

grazie all’inclinazione dei parati. Dopo aver superato la parte di scalo immerso,oltre la battigia del cantiere,

il bastimento cominciava a galleggiare, i vasi trattenuti dalla cima in canapa collegata al corpo morto

venivano recuperati tramite l’argano.