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« I o sono un attore, il mio rapporto con il teatro passa per la recitazione. Ma negli anni della mia formazione non trovavo nessun testo adat- to a me, perché la mia ge- nerazione aveva una rela- zione un po’ conflittuale con il passato teatrale re- cente del nostro paese. A Buenos Aires si è affermato un teatro di attori, che scriveva- no ed eventualmente dirigevano pure le proprie opere, per- ché non trovavano neanche un regista che volesse allestire i loro testi. Molti altri artisti argentini attualmente si divido- no nelle tre funzioni di interprete, autore e regista dei pro- pri scritti. A differenza di tanti paesi europei, dove chi in- tende avere a che fare con l’arte scenica sceglie un suo particolare segmento e vi si specializza, per noi il teatro è una cosa sola, ed è piuttosto strano sepa- rarlo in percorsi specifici. Buenos Aires possie- de quattrocento teatri, magari anche da qua- ranta, cinquanta spettatori l’uno, e questo non avviene in nessuna altra città del mon- do che io conosca. Più in generale, credo che il teatro abbia perso molte delle sue caratteri- stiche peculiari, legate alla sua essenza di arte dal vivo, caratteristiche che magari non possedeva nemmeno in altre epoche, nelle quali però non dove- va competere con il cinema o con la peggior televisione. Di conseguenza l’attore, che per me è il vero motore della teatralità, il più delle volte è più interprete che artista. Divie- ne cioè l’interprete dell’idea di qualcun altro. La mia drammaturgia, come quella di altri autori argentini, è incompleta, aperta. Dato che creiamo testi che noi stes- si poi mettiamo in scena, non abbiamo la necessità di chiu- derli nei loro contenuti e significati. Nel momento in cui scrivo non decido neppure il numero esatto degli attori, né la ripartizione dei ruoli. Normalmente questo è un passag- gio successivo. Non ho un sistema unico per scrivere. Da quando ho capito che questa sarebbe stata davvero la mia professione, volontariamente cerco di lavorare in modi tra loro opposti. A volte compongo in solitudine, a tavolino, e immagino i personaggi in maniera “classica”. Altre volte mi nasco- no soltanto idee e ipo- tesi con le quali lavoro con gli attori, prenden- do nota di ciò che dico- no, e a partire da questi materiali scrivo un te- sto per rielaborarlo poi con loro. Di solito non ho in mente un argomento preciso: i temi certo compaiono, ma preferibilmente parto da imma- gini o da zone del pensiero molto più ambigue. Per fare un esempio, con l’Eptalogia di Hieronymus Bosch pren- dendo spunto dal quadro del maestro olandese avevo intenzione di costruire non un’opera sul Medie- vo ma sulla crisi del senso in una determi- nata epoca. Questi testi, che parlano dei sette peccati capitali, si riferiscono al- la crisi della modernità, cioè a quel- la che oggi definiamo postmoder- nità, e che probabilmente tra due- cento anni chiameranno in un al- tro modo (non esiste il post ba- rocco...). Sono partito dall’idea che tutti abbiamo perduto il vo- cabolario della modernità. L’ Ep- talogia è simile a un frattale, che è composto di dettagli infini- ti: lo spettatore ha la sensazione che ciascuno degli episodi abbia un significato, ma non possedendo il dizionario per decrittarlo si trova di fronte a un’esperienza di percezione che produce solo una sorta di allucinazione.» Rafael Spregelburd, 22 gennaio 2010 T ra il 22 gennaio e il 5 febbraio si è svolto il ciclo «Decli- nazioni di Drammaturgia», dedicato alla scrittura tea- trale e inserito all’interno delle «Esperienze» di Giovani a Te- atro. L’iniziativa, promossa e organizzata dalla Fon- dazione di Venezia insieme ad Euterpe Venezia, e cu- rata da Cristina Palumbo e dal sottoscritto, si pone in stretta relazione con il laboratorio «Parole in forma scenica», di cui è stata importante momento prelimi- nare. Gli artisti invitati hanno raccontato la loro idea di drammaturgia e spiegato come creano e utilizza- no il testo in rapporto all’esperienza scenica. Prota- gonisti di questi incontri pubblici, guidati da illustri rappresentanti del mondo della critica – tra cui Franco Qua- dri e Renato Palazzi – sono stati nell’ordine l’argentino Ra- fael Spregelburd, Chiara Lagani del gruppo ravennate Fanny & Alexander, i veronesi Babilonia Teatri, lo spagnolo Juan Mayorga e Armando Punzo, regista e anima della Compagnia della Fortezza di Volterra. In queste pagi- ne pubblichiamo i passaggi più rilevanti dei loro inter- venti, uniti a una serie di recensioni sugli spettacoli che li hanno seguiti, in un tandem tra riflessione prelimi- nare e fruizione spettacolare che, nonostante la scar- sa attenzione della stampa locale, ha visto sempre gre- mito il Teatro Universitario «Giovanni Poli». (l.m.) Declinazioni di drammaturgia Il testo aperto di Rafael Spregelburd La modestia di Rafael Spregelburd regia Manuela Cherubini interpreti Simona Senzacqua, Hervé Guerrisi, Alessandro Quattro, Gaia Saitta 22 gennaio 2010 Teatro Giovanni Poli In alto a destra: Rafael Spregelburd e Manuela Cherubini alla Fondazione di Venezia. Al centro: La modestia di Rafael Spregelburd, regia di Manuela Cherubini. In questa pagina Simona Senzacqua e Hervé Guerrisi, a fianco Alessandro Quattro e Gaia Saitta (foto di Umberto Passacantilli). 58 — in scena declinazioni di drammaturgia in scena / declinazioni di drammaturgia

Transcript of 58 — in scena Il testo aperto di Rafael Spregelburd · Q uella dell’argentIno rafael...

«Io sono un attore, il mio rapporto con il teatro passa per la

recitazione. Ma negli anni della mia formazione non trovavo nessun testo adat-to a me, perché la mia ge-nerazione aveva una rela-zione un po’ conflittuale con il passato teatrale re-cente del nostro paese. A Buenos Aires si è affermato un teatro di attori, che scriveva-no ed eventualmente dirigevano pure le proprie opere, per-ché non trovavano neanche un regista che volesse allestire i loro testi. Molti altri artisti argentini attualmente si divido-no nelle tre funzioni di interprete, autore e regista dei pro-pri scritti. A differenza di tanti paesi europei, dove chi in-tende avere a che fare con l’arte scenica sceglie un suo particolare segmento e vi si specializza, per noi il teatro è una cosa sola, ed è piuttosto strano sepa-rarlo in percorsi specifici. Buenos Aires possie-de quattrocento teatri, magari anche da qua-ranta, cinquanta spettatori l’uno, e questo

non avviene in nessuna altra città del mon-do che io conosca. Più in generale, credo che il teatro abbia perso molte delle sue caratteri-stiche peculiari, legate alla sua essenza di arte dal vivo, caratteristiche che magari non possedeva nemmeno in altre epoche, nelle quali però non dove-va competere con il cinema o con la peggior televisione. Di conseguenza l’attore, che per me è il vero motore della teatralità, il più delle volte è più interprete che artista. Divie-ne cioè l’interprete dell’idea di qualcun altro. La mia drammaturgia, come quella di altri autori argentini, è incompleta, aperta. Dato che creiamo testi che noi stes-si poi mettiamo in scena, non abbiamo la necessità di chiu-

derli nei loro contenuti e significati. Nel momento in cui scrivo non decido neppure il numero esatto degli attori, né la ripartizione dei ruoli. Normalmente questo è un passag-gio successivo. Non ho un sistema unico per scrivere. Da quando ho capito che questa sarebbe stata davvero la mia professione, volontariamente cerco di lavorare in modi tra loro opposti. A volte compongo in solitudine, a tavolino, e

immagino i personaggi in maniera “classica”. Altre volte mi nasco-no soltanto idee e ipo-tesi con le quali lavoro con gli attori, prenden-do nota di ciò che dico-no, e a partire da questi materiali scrivo un te-sto per rielaborarlo poi

con loro. Di solito non ho in mente un argomento preciso: i temi certo compaiono, ma preferibilmente parto da imma-gini o da zone del pensiero molto più ambigue. Per fare un esempio, con l’Eptalogia di Hieronymus Bosch pren-

dendo spunto dal quadro del maestro olandese avevo intenzione di costruire non un’opera sul Medie-

vo ma sulla crisi del senso in una determi-nata epoca. Questi testi, che parlano dei

sette peccati capitali, si riferiscono al-la crisi della modernità, cioè a quel-la che oggi definiamo postmoder-nità, e che probabilmente tra due-cento anni chiameranno in un al-tro modo (non esiste il post ba-rocco...). Sono partito dall’idea che tutti abbiamo perduto il vo-cabolario della modernità. L’Ep-talogia è simile a un frattale, che è composto di dettagli infini-

ti: lo spettatore ha la sensazione che ciascuno degli episodi abbia

un significato, ma non possedendo il dizionario per decrittarlo si trova di

fronte a un’esperienza di percezione che produce solo una sorta di allucinazione.» ◼

Rafael Spregelburd, 22 gennaio 2010

Tra il 22 gennaio e il 5 febbraio si è svolto il ciclo «Decli-nazioni di Drammaturgia», dedicato alla scrittura tea-

trale e inserito all’interno delle «Esperienze» di Giovani a Te-atro. L’iniziativa, promossa e organizzata dalla Fon-dazione di Venezia insieme ad Euterpe Venezia, e cu-rata da Cristina Palumbo e dal sottoscritto, si pone in stretta relazione con il laboratorio «Parole in forma scenica», di cui è stata importante momento prelimi-nare. Gli artisti invitati hanno raccontato la loro idea di drammaturgia e spiegato come creano e utilizza-no il testo in rapporto all’esperienza scenica. Prota-gonisti di questi incontri pubblici, guidati da illustri

rappresentanti del mondo della critica – tra cui Franco Qua-dri e Renato Palazzi – sono stati nell’ordine l’argentino Ra-fael Spregelburd, Chiara Lagani del gruppo ravennate Fanny

& Alexander, i veronesi Babilonia Teatri, lo spagnolo Juan Mayorga e Armando Punzo, regista e anima della Compagnia della Fortezza di Volterra. In queste pagi-ne pubblichiamo i passaggi più rilevanti dei loro inter-venti, uniti a una serie di recensioni sugli spettacoli che li hanno seguiti, in un tandem tra riflessione prelimi-nare e fruizione spettacolare che, nonostante la scar-sa attenzione della stampa locale, ha visto sempre gre-mito il Teatro Universitario «Giovanni Poli». (l.m.) ◼

Declinazioni di drammaturgia

Il testo aperto di Rafael Spregelburd

DECLINAZIONI di DrammaturgiaPERCORSO TEATRALE TRA AUTORI E OPERE 22 gennaio / 5 febbraio 2010

VENEZIATEATRO UNIVERSITARIO G. POLI

INFORMAZIONI TEL. 041.2201251 WWW.ESPERIENZE-GIOVANIATEATRO.IT

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JUAN MAYORGA3 febbraio ore 18 Juan Mayorga Franco QuadriManuela Cherubini Davide Carnevaliore 21 La paz perpetua(Psicopompo Teatro)

ARMANDO PUNZO4 febbraio ore 16 Armando Punzo

5 febbraioore 21Materiali da Pinocchio(Compagnia della Fortezza)

RAFAEL SPREGELBURD 22 gennaio ore 18 Rafael Spregelburd Manuela Cherubiniore 21 La modestia(Psicopompo Teatro)

FANNY & ALEXANDER1 febbraio ore 18 Fanny & Alexander Rodolfo Sacchettiniore 21 e 22,30 Emerald City

BABILONIA TEATRI2 febbraio ore 18 Babilonia TeatriRenato Palazziore 21 Made in Italy

La modestia di Rafael Spregelburd

regia Manuela Cherubini

interpretiSimona Senzacqua,

Hervé Guerrisi,Alessandro Quattro,

Gaia Saitta22 gennaio 2010

Teatro Giovanni Poli

In alto a destra: Rafael Spregelburd e Manuela Cherubinialla Fondazione di Venezia.Al centro: La modestia di Rafael Spregelburd, regia di Manuela Cherubini. In questa pagina Simona Senzacqua e Hervé Guerrisi,a fianco Alessandro Quattro e Gaia Saitta(foto di Umberto Passacantilli).

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Quella dell’argentIno rafael spregelburd è una drammaturgia di rara efficacia, fatta di di-mostrazioni in azione che fanno sorgere inter-

rogativi, dubbi, smarrimenti; è un artista com-pleto, che racchiude in sé le anime dello scrittore, del re-gista, dell’interprete e dell’adattatore. Anche per questo i suoi lavori sfuggono dalle consuete classificazioni, per-ché in molti casi si presentano come partiture mobili, o strutture instabili che, di fatto, rispecchiano l’incessante sovrapporsi delle tante realtà del mondo.

Così, se si analizza la sua Eptalogia di Hieronymus Bosch, un ciclo di testi teatrali che ruotano attorno ai sette pec-cati capitali a partire dalle suggestioni prodot-te dalla tavola dipinta da Bosch, è facile comprendere come Spregelbund tenda ad accreditare una particolare visio-ne dell’eticità, trasponendola nella quotidianità; il prospetto simboli-co immaginato dal pittore fiam-mingo diviene, in tal modo, una rete metaforica che manipola i linguaggi e i comportamenti del «nostro contemporaneo».

Un’occasione per esaminare la dinamica creativa del giova-ne scrittore è stata offerta dal-la messinscena del terzo capito-lo dell’Eptalogia, intitolato La mo-destia, rappresentato in anteprima presso il Teatro Universitario di San-ta Marta nella traduzione e con la regia di Manuela Cherubini, la musica di Gra-ziano Lella e Fabrizio Spera, prodotto da Psi-copompoTeatro, Rialto Santambrogio; l’hanno reci-tato con impegno e con un buon risultato Hervé Guerri-si, Alessandro Quattro, Gaia Saitta e Simona Senzacqua.

Lo spazio scenico si presenta allo sguardo dello spetta-tore come un non-luogo familiare, nel quale sono affa-stellati oggetti d’uso quotidiano, mobili consunti, arnesi e arredi desueti; anche gli interpreti vestono in modo or-dinario, addirittura dimesso. L’atmosfera che si respira è stranita, per effetto dello sguardo attonito stampato sul volto dei protagonisti e per il susseguirsi di passaggi dia-logici talmente semplici da apparire privi di senso. Una sorta di temporaneo disagio si trasferisce dal palcosce-nico alla platea quando, all’inizio, appare una donna che punta minacciosamente una pistola contro uno scono-sciuto all’interno di quella stanza pinteriana, mentre con-tinua a gracchiare un citofono che strozza le voci esterne, tanto convulse quanto incomprensibili.

I primi a parere smarriti sono San Javier e Maria Fer-nanda, così si chiamano i due personaggi che abitano il primo segmento di un sistema circolare, privo di centro, un insieme di piccole situazioni che si snoda senza solu-

zione di continuità da un posto (Buenos Aires, forse) ad un altro (un paesaggio dei Balcani). Si produce allora un flusso di piani spazio-temporali che s’impone – via via – come un paradosso necessario, che mette il sistema rap-presentativo continuamente di fronte a un bivio narrati-vo. I protagonisti sembrano guidati da un individualismo inconsapevole, parlano senza ascoltare, oppure equivo-cano il senso delle parole, o inseguono le immagini della vita che hanno in mente.

Basta che la donna esca un attimo di scena perché al suo rientro siano mutati la storia, i protagonisti e l’ambiente. Dal dialogo emerge un inconsueto spaccato del disagio esistenziale, quello di Terzov e di Anja. La trama che le frasi non dette intessono riguarda la crisi di uno scritto-re inaridito e moribondo, mentre la moglie genera in sé il proposito di vivificare – sia pure post-mortem – la creati-vità sopita, attraverso i frammenti manoscritti del padre militare, balzati fuori da un cassetto. Il collante è costitu-ito dal sogno di Smederovo, un medico/veterinario, non solo senza titoli, ma privo anche d’inclinazione, il quale è convinto di potersi arricchire con il libro abbozzato in quelle carte ingiallite.

La successiva «metamorfosi» prova a disegnare la mappa di un dedalo di case, appartamenti, scale,

pianerottoli e porte del tutto uguali tra di loro. Nell’appartamento-copia dei precedenti San

Javier fatica a schivare il malizioso interro-gatorio di Angeles, in attesa che salga su il suo amico Arturo. Nella scena quarta ri-

torna Terzov, assediato da Leandra, com-plice del marito Smederovo nella convin-

zione che l’opera dell’autore in agonia li ri-empirà di soldi. La sfida infinita tra avidità e

apatia lascia il posto al torbido quartetto com-posto dall’avvocato Arturo, dalla vicina Maria Fer-

nanda con cui tresca alla grande mentre progettano traffici loschi, dalla vacua moglie Angeles, patita per i co-reani, e dalla cavia San Javier.

E così via. Ogni quadro, che deriva dal precedente e si apre al successivo, intreccia la vicenda di un interno ar-gentino, popolato da stolti e idealisti, con la storia balca-nica di una moglie indomabile che, non si sa a beneficio di chi, produce i frammenti di un romanzo impossibile. Sono tanti microcosmi che assorbono per via immagina-tiva esistenze che stanno altrove e che il telefono e i reso-conti dei protagonisti lasciano intuire. Affiorano ritrat-ti inquietanti e situazioni assurde che declinano possibili variazioni della virtù della modestia in una direzione pre-valentemente immorale.

L’autore guarda all’umiltà come ad uno stato degene-rativo delle interrelazioni sociali, al punto da disatti-varla persino nella forma della propria pièce, sceglien-do di abbandonare gli interpreti e gli spettatori tra le spire di un labirinto senza uscita. È un lavoro singola-re, soprattutto se lo si pone a confronto con la ripeti-zione di un repertorio teatrale pubblico sempre più ri-stretto, e comunque rivolto sempre all’indietro. ◼

di Carmelo Alberti

Il paradosso necessarioIn scena «La modestia»di Rafael Spregelburd

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«nelle creazIonI collettIve dI Fanny & Ale-xander io mi sono sin dall’inizio occupata del-la drammaturgia, mentre Luigi (De Angelis,

ndr.) ha gestito il lavoro di regia. Credo che per esprimere al meglio ciò di cui mi occupo il termine più efficace sia quello di tessitura. Una volta qualcuno mi ha detto che sembravo un ragno, e questa similitudine mi è sembra-ta azzeccata. Lo stesso concetto di drammaturgia (come del resto anche l’etimo della parola testo) richiama diret-tamente quello di tessitura. Mi viene subito in mente una figura delle Mille e una notte che in questo senso conside-ro emblematica: Sherazade, la fanciulla che con il suo rac-conto posticipa la sua morte e quella di tutte le altre ra-gazze della città. La sua tessitura infinita di narrazioni, che danno luogo ad altre narrazioni, rimanda in-definitamente la morte. Quest’idea di infini-tezza, di illimitatezza è per me un’immagi-ne formidabile del lavoro dell’artista e in

particolare del drammaturgo. Per ripren-dere il paragone, direi che la drammaturgia è qualcosa che rende numerosi e tendenzial-mente infiniti i fili di quella grande ragnatela che è l’opera, e che invece la regia sia lo sguardo che ha la responsabilità di tenere insieme questa complicazione e questo intreccio, e di imprimergli una direzione. È un la-voro non tanto sulla quantità ma proprio sulla complica-zione in senso etimologico. E qui si entra all’interno di un discorso che mi interessa moltissimo, perché questo lavoro di complicazione riguarda in primo luogo le relazio-ni culturali che si intrattengono con altre persone, con i collaboratori e soprattutto con il pubblico. Io considero i nostri spettacoli come la punta di un iceberg che è costi-tuito da un’ampia serie di collaborazioni con altri artisti, di laboratori, di momenti di incontro. Il nostro gruppo ha instaurato una pratica laboratoriale in cui indaghiamo continuamente le due figure dell’artista-attore e del testi-mone attivo, che è proprio lo spettatore. Sono laborato-ri sullo sguardo condotti a squadre, cui si iscrivono per-sone in qualità di testimoni e altre in qualità di attori. Per spiegarmi pren-do a esempio il «Progetto Ada», che ci ha tenuti impegnati per lungo tem-po. Se penso a tutta l’elaborazione in-torno al romanzo di Nabokov, che è la storia complicatissima di un amore incestuoso tra due fratelli, Ada e Van,

proprio la questione dello sguardo dello spettatore – e an-cor di più della responsabilità del suo sguardo – è il nu-cleo principale attorno a cui ruota tutto. Van è assente dalla scena. È il regista che si pone a proscenio e di spalle rispetto al pubblico guarda l’opera, divenendo come uno specchio attraverso cui lo spettatore può riflettersi. Van è lo spettatore, e l’opera si rivolge continuamente a lui in maniera allocutoria, invitandolo a entrare. Come dire che tutta l’azione poetica svolta dall’attore non è nulla se al di là non si crea questo ponte di attività e responsabilità con-divisa: ogni cosa che decido di guardare è una cosa di cui sono coautore perché con il mio sguardo attivo e vigile aiuto l’artista a disegnarla.

Pur nella diversità del contesto, un approccio analogo si può rintracciare anche nell’altro grande progetto in cui siamo immersi da anni, quello sul Mago di Oz, la cui tra-ma è a tutti nota grazie al film di Victor Fleming. Rispet-to all’indagine dedicata a Nabokov, che finisce per essere una saga a episodi, quest’ultimo ciclo ha un andamento sinfonico. Lo strano viaggio di Dorothy è come se reini-ziasse sempre dal principio. Ogni volta che si assiste a una delle possibili partenze cambia l’attrice – Dorothy è sem-pre una donna nuova – e questa si reca a sud, a nord o a ovest. L’atto fondativo di questo viaggio è una richiesta al

Mago, che nel romanzo è un essere metamorfico, che ognuno può incontrare soltanto da solo, veden-

dolo come i suoi occhi sono capaci di vederlo. Di sicuro questo personaggio ha a che fa-

re con il potere, o meglio con il rapporto

fra immaginazione e potere. Basti pensa-re che ha inventato degli occhialini magici

con cui si potesse vedere il mondo solo ver-de, perché il verde è un bel colore e rende felici le

persone. E poi ha inchiodato questi occhialini al cer-vello della gente. È un’immagine molto violenta e attua-lissima. Ebbene all’inizio di tutto ogni volta c’è questa ri-chiesta che Dorothy fa al Mago. Si parte sempre da lì, da un monologo che abbiamo definito confessione, perché presuppone una domanda intima, legata a uno dei tre or-gani – cuore, cervello e coraggio – che nella favola riassu-mono le virtù dell'essere umano. Le tre diverse Dorothy compiono lo stesso, identico viaggio, che arriva forse al-lo stesso, identico luogo. Ed è lo spettatore che è in viag-gio, Dorothy è un testimone. In South questo è emble-matico, perché si tratta di uno spettacolo completamen-te buio, tranne che per i primi quindici minuti, in cui ap-punto avviene la confessione/richiesta iniziale. Dopodi-ché si sprofonda in un’oscurità cieca dove solamente ca-ratteristiche sonore e olfattive conducono lo spettatore.

È lui stesso che viaggia. La responsa-bilità di abbandonarsi a questo flusso è solo sua.»

Chiara Lagani, 1 febbraio 2010

«Drammaturgia come tessitura» convocandolo spettatoreChiara Lagani racconta Fanny & Alexander

Emerald City di Fanny & Alexanderideazione Chiara Lagani e Luigi De Angelis

drammaturgia Chiara Laganiregia, scene, luci Luigi De Angelis

musiche Mirto Balianiinterprete Marco Cavalcoli

1 febbraio 2010 – Teatro Giovanni Poli

Al centro: Chiara Lagani in North di Fanny & Alexander ( foto di Enrico Fedrigoli). A destra: Chiara Lagani e Rodolfo Sacchettini alla Fondazione di Venezia.

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nel progetto sul Meraviglioso mago di Oz Fanny & Alexander procede come davanti a una mappa geografica su cui di volta in volta infilzare una

nuova bandierina – un nuovo spettacolo – per segna-re un punto fermo o indicare un altrove da raggiunge-re. Il viaggio è iniziato da Kansas, la casa di Dorothy e, via Emerald City, la cit-tà utopica costruita dal mago di Oz, si concluderà ai quat-tro punti cardinali (East, South, North, che hanno già de-buttato, e West, in programma a giu-gno al festival delle Colline Torinesi).

Il viaggio è com-plesso e articolato; ogni spettacolo è un sentiero tortuo-so, dai tanti bivi e possibilità. Ma an-che le stratificazio-ni presenti in una singola scena sono talmente tante che perfino i luoghi co-muni sembrano ri-baltarsi, e ci sono anche delle imma-gini che contem-plano simultanea-mente sensi oppo-sti, come accade in Emerald City. Lo spettatore è invita-to, verso la fine dello spettacolo, a indossare occhialini 3D per scoprire rappresentata sul volto dell’attore-olo-gramma (Marco Cavalcoli) l’inquietante maschera di una felicità-tristezza: chiudendo un occhio è consolato, chiu-dendo l’altro si dispera. La visione è violentemente scissa in due parti, come tutto il lavoro, e la città color smeraldo, la città dell’utopia, si rivela come mistificazione assoluta, opera del mago di Oz, che in scena ha le vesti inquietan-ti di Adolf Hitler. Ma la terribile icona è più che altro una sorta di feticcio che richiama, nell’epoca della riproduci-bilità tecnica, l’irriverente Him di Maurizio Cattelan, do-ve il dittatore è in formato leggermente ridotto e in ginoc-chio, quasi fosse stato messo in punizione dietro la lava-gna della Storia. Così anche tutto Emerald City è costruito in una piccola aula di scuola o forse in una cappella al cui centro è Him, completamente immobile, se non fosse per

il volto che pare attraversare tutte le espressioni possibili della mimica facciale. Tragico oggetto di culto, Him è in grado di ipnotizzare il pubblico ed è travolto da una ba-bele di voci misteriose che confessano intime vicende co-me di fronte a un prete, e chiedono un cuore, del corag-gio o un cervello a quel loro Dio. Sono tante confessioni che si susseguono accavallandosi l’un l’altra e si ascoltano indossando le cuffie, come se entrassimo nelle orecchie o nel cervello di Oz.

Ogni confessione è costruita secondo un procedimen-to preciso che contempla tre piani differenti, non per me-scolarli, ma per sovrapporli alla ricerca di alcune folgo-ranti «coincidenze». Da una parte c’è la biografia perso-nale di chi sta parlando, sia esso attore o persona comu-ne. Poi si avverte la presenza di un fatto di cronaca, scel-to all’interno di una rosa preparata dalla compagnia, e in-fine c’è la «fabula», vale a dire la storia di Dorothy e del

mago di Oz. Questi tre livelli continua-mente intrecciati vanno a creare continue coincidenze che provocano, nello spetta-tore, attimi di sorpresa e rivelazione. Ad esempio la richiesta di una voce di non sentire più il cuore, ribaltando il desiderio dell’uomo di latta, può illuminare la sto-ria di una madre ricoverata in cardiolo-gia, perché sfibrata da un battito irregola-re che «sente» troppo e di un barbone «di gran cuore» che ha compiuto un atto di eroismo ed è stato, nelle retoriche del pa-

triottismo e dei benpensanti, impalmato dalle onorificenze. Biografia, storia e cro-naca sono dunque piani che scorrono e la sintesi è abolita, anche perché le voci so-no tante e seguono un unico flusso vo-cale. In altre parole la drammaturgia del-lo spettacolo fuoriesce come unica vera tessitura dove i differenti fili, pur seguen-do ognuno il proprio percorso, continua-mente s’intrecciano tra loro generando nodi complessi.

Ogni dettaglio (il testo, la scena, l’at-tore…) è come osservato da uno sguardo strabico e lo stesso Him è figura ambigua: da un lato condannato a una sorta di «contrappasso», costretto ad ascoltare tut-ti i lamenti dell’umanità, dall’altro una sorta di incarna-zione del principio del male, come se uno sguardo but-tato sull’aldilà avesse rivelato l’imbroglio dell’esistenza. Alle infinite preghiere degli uomini risponderebbero co-sì la smorfia e il ghigno di un «eterno padrone», ma al-lo stesso tempo la dolcezza di una promessa, la seduzio-ne di quell’invito («benvenuti ad Emerald City») che in-cludendoci ci dà misura della nostra responsabilità. ◼

«Emerald City» di Fanny & AlexanderLa Babelenel cervello del Mago

di Rodolfo Sacchettini

Marco Cavalcoli in Emerald City di Fanny & Alexander(foto di Enrico Fedrigoli).

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«una delle caratterIstIche pIù evidenti e diffu-se dei gruppi delle ultimissime generazioni è la scelta comune di chiudere completamente con

l’idea di rappresentare un testo scritto da un autore pree-sistente ed esterno e di interpretare dei personaggi codi-ficati e definiti in quanto tali. Quello che prevale in quasi tutte queste esperienze è un’idea di creazione scenica di-retta più o meno collettiva, dove anche la figura del regi-sta, oltre a quella dell’autore, tende un po’ a confondersi e a essere superata. Si tratta di poetiche che tendono a por-tare in scena gesti, parole, immagini, esperienze della re-altà senza rielaborarle drammaturgicamente. Questo po-trebbe far pensare a un azzeramento della scrittura. In re-altà secondo me è esattamente il contrario, perché quanto più si spoglia il teatro dei suoi artifici, quanto più si rinun-cia alla struttura rappresentativa e a tutto ciò che è sceno-grafia, ambientazione, orpello spettacolare, tanto più in-vece l’aspetto della costruzione del testo, della partitura drammaturgica deve diventare rigoroso, ferreo e infles-sibile. Tra tutti i gruppi attivi negli ultimi anni, Babilonia Teatri mi sembra quello in cui la scrittura è più centrale. Nei loro spettacoli in realtà il testo, la rinuncia al-

le scene, i muri nudi, gli attori spesso nu-di a loro volta (e comunque nudi nel sen-so di una rinuncia totale al costume, nel loro apparire con gli abiti di tutti i gior-ni), tutto questo è un tutt’uno, ed è molto difficile staccare un elemento dall’altro. Tuttavia a ben ve-dere il testo in questi spettacoli ha invece un’importanza fondamentale. Basta leggere le prime righe di made in italy per scoprire che tutto il lavoro dei Babilonia è già lì den-tro. Loro scompongono e ricompongono liberamente un linguaggio prefabbricato che è costruito accostando luo-ghi comuni, frasi fatte, formule legali e burocratiche, in-vettive da bar contro gli stranieri, gli immigrati e così via, dimostrando tra l’altro che niente come queste invettive può tracciare un ritratto fedele non solo del Nordest più ruspante ma di tutta l’Italia di oggi. In questo linguaggio converge ogni sorta di frammento e di riflesso della quo-tidianità, richiami gergali, slogan promozionali, pubblici-tà e poi ovviamente il motivetto trash e la canzoncina te-levisiva. Ognuno di questi segmenti di realtà diventa uno spaccato fedele della nostra società e offre uno sguardo apparentemente impassibile ma in realtà fortissimo e do-loroso sulla nostra volgarità.»

Renato Palazzi, 2 febbraio 2010

«I nostri testi nascono sempre pensando al modo in cui verranno detti, sono sempre brevi, molto semplici a livel-lo di struttura verbale, proprio perché devono essere ap-

punto detti (e non recitati) con un ritmo preciso e in co-ro. E a dirli non è un personaggio ma un megafono, che amplifica la voce, che è la nostra, ma in fondo è la voce di tutti. Spesso ci hanno obiettato che aggrediamo lo spet-tatore. Questo non è certamente il nostro obiettivo, ma di sicuro allo spettatore pensiamo moltissimo, perché fa a tutti gli effetti parte dello spettacolo, perché lo mettiamo sempre al centro delle nostre creazioni. Forse, a differen-za di altri gruppi della nostra generazione, noi siamo an-che eccessivamente chiari, il pubblico capisce anche trop-po bene quello che vogliamo dire, e alle volte si arrabbia, perché si sente chiamato in causa in prima persona. Quel-lo che ci interessa è la realtà, ma, nell’affrontarla in scena, tra made in italy a Pornobboy c’è stato uno scarto, un aumento molto marcato del nostro pessimismo. Con Pornobboy non ce la sentivamo più di metterci a ballare e muoverci frene-ticamente: la nostra fissità era l’unica possibilità che ci re-stava. E la schiuma che alla fine ci sommerge ha lo stesso colore cupo del nostro stato d’animo. Ora stiamo cercan-do nuove forme di catturarla, questa realtà.»

Valeria Raimondi, 2 febbraio 2010

«Di solito cerchiamo di non lanciare alcun messaggio ma di fare una fotografia del mondo e poi lasciare al-lo spettatore la scelta di decidere da che parte stare. La

non recitazione che noi pratichiamo fa parte di questo disegno complessivo. Nel momento in cui io mi metto in bocca delle parole ma non le in-terpreto, non do nemmeno un significato uni-

voco a quelle paro-le. Semplicemente le riporto. A volte sono le mie, a volte sono quelle di qual-

cun altro. Altre ancora vie-ne insinuato un dubbio, nel senso che poi è chi ascolta che ha il compito di sceglie-re come posizionarsi rispet-to al mondo che fotografiamo. Non indichiamo mai solu-zioni alle questioni proposte in scena, ma il fatto che vi sia un pensiero e un modo di guardare alla realtà è evidente. Nella frontalità che scegliamo di avere sul palcoscenico è implicita la volontà di vomitare e di riversare addosso al pubblico il mondo in cui viviamo tutti i giorni, una volta centrifugato. Ma è importante che quest’aggressione, se vogliamo chiamarla così, si riversi anche nei confronti di noi stessi. La lingua che usiamo (che più che dialetto è lo slang che utilizziamo tutti i giorni) oltre a creare dei testi che hanno un suono e una musicalità di un certo tipo – ci permette anche di rendere palese che quello di cui stia-mo parlando riguarda noi per primi, riguarda le persone che ci stanno attorno.»

Enrico Castellani, 2 febbraio 2010

made in italydi Valeria Raimondied Enrico Castellani

interpreti Valeria Raimondi

ed Enrico Castellani2 febbraio 2010

Teatro Giovanni Poli

La realtà centrifugatadi Babilonia Teatri

Sopra: Valeria Raimondi, Enrico Castellani e Renato Palazzialla Fondazione di Venezia. Al centro: Pornobboy.

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come se possedesse sensIbIlIssIme antenne in gra-do di captare, registrare e selezionare la miriade di messaggi che ogni giorno bombardano il nostro

sistema sensoriale, Babilonia Teatri raccoglie frasi, accen-ni, dichiarazioni dai bar della periferia veronese alle di-rette televisi-ve per riversar-le contro il pub-bl ico. Enr ico Castellani e Va-leria Raimondi, moderni Ada-mo ed Eva in fuga dal Paradi-so (forse quello quotidianamen-te dipinto dalla televisione), ri-propongono il mondo terreno in cui si sono ri-trovati a vivere, svelandone con irruente ironia l’ipocrisia, la volgarità, il raz-zismo e l’idiozia dilaganti.

Il testo – una vera e propria scarica di mi-t r a g l i a t r i c e che non lascia scampo al pub-blico – procede per libere asso-ciazioni, caden-ze, collegamen-ti astrusi e for-temente comi-ci: una sorta di zapping appa-rentemente ca-suale che accu-mula le manife-stazioni verba-li più quotidiane senza alcun giudizio di sorta, per rias-semblarle in un groviglio di espressioni che tessono un panorama italico imbarazzante. Lontanissimo dall’esse-re simbolo di impeccabile eleganza o di certificata qualità territorialmente rivendicata, il made in italy si svela in tut-ti i suoi aspetti più kitsch. Dagli intercalari blasfemi e xe-nofobi del natio Nordest alle manifestazioni patriottiche dell’ennesima diretta funeraria, passando per canzonette ed esplosioni di tifo calcistico al limite del parossismo, si giunge, nel finale, all’icona per eccellenza del kitsch: i na-ni da giardino. Un coretto al quale gli stessi attori offrono

la loro voce registrata, per assistere, insieme agli spettato-ri, con affranta impassibilità, all’estrema rappresentazio-ne di quello che un tempo – ormai lontano, quasi biblico – era il Belpaese.

Entrato in tutte le case degli italiani, il tubo catodico – oggi nella sua evoluzione in cristalli liquidi – ha plasmato il modo di parlare, di comunicare, di essere e di pensare, trasformando il giudizio critico in sterili ma accesissimi dibattiti, l’informazione in gossip, showman in politici (o politici in showman). Il risultato è un Paese che vive della sua stessa patinata manifestazione virtuale, che, se ripro-posta solo nelle sue espressioni verbali – annullando l’ip-

notico flusso di immagini – si rivela in tutta la sua vacuità e stupidità.

Babilonia Teatri frantuma lo scher-mo televisivo e, allo stesso tempo, an-che molte convenzioni teatrali: annul-la i personaggi per essere riprodutto-ri di «sentito dire», permette ai tecni-ci – a vista sul palco – irruzioni nella scena per trasformarsi in improbabili angeli, denuda il proscenio per riem-pirlo di senso senza salire su nessun pulpito. Non è un caso, quindi, che lo spettacolo made in italy, dopo la meri-tata vittoria nel 2007 al Premio Sce-nario, da quattro anni circuiti lungo tutto lo stivale registrando ovunque successo, senza mai perdere l’attuali-

tà e la forza del debutto. È un’opera-zione satirica spiazzante e intelligente, che sfrutta e, al contempo, svela quel-lo di cui il pubblico quotidianamente si nutre. Un puzzle verbale e un gro-viglio di neon che creano uno spetta-colo volutamente kitsch, perché vi-ve e si fa portavoce della realtà regi-strata quotidianamente, senza intel-lettualistici distaccamenti. Per offri-re agli spettatori un’istantanea since-ra, grottesca e impietosa; come una fotografia nella quale «non siamo ve-nuti bene» – non ci riconosciamo per-ché non appariamo come credeva-mo di essere – made in italy destabiliz-za, diverte e interroga la platea. Scri-

ve Milan Kundera nell’Insostenibile leg gerezza dell’essere: «Il vero antagonista del kitsch totalitario è l’uomo che pone delle domande. Una domanda è come un coltel-lo che squarcia la tela di un fondale dipinto per permet-terci di dare un’occhiata a ciò che si nasconde dietro». ◼

*www.iltamburodikattrin.com

Il lato kitschdel made in italy

di Silvia Gatto*

made in italy (foto di Laura Arlotti).

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«Il teatro dI Juan Mayorga è arrivato abbastanza di colpo qui da noi, dove ciò che accadeva in Spagna tendeva in generale a non essere molto conosciuto.

Ma grazie alle traduzioni di Manuela Cherubini e Davide Carnevali ora viviamo un’inondazione di suoi testi, il che è al tempo stesso un onore e una gioia. In primo luogo per i temi che vi si incontrano: per restare soltanto al vo-lume già pubblicato dalla Ubulibri, nelle quattro pièce si parla di un’indagine su un campo di concentramento na-zista, delle leggi contro gli immigrati, di un supposto caso di pedofilia, dell’educazione scolastica e dei rapporti tra generazioni. Ma il punto è che queste tematiche non sono trattate alla maniera del teatro che cono-sciamo, anzi si assiste a una riforma della scrittura teatrale che potrebbe far pensa-re a un nuovo Brecht. E comunque a una drammaturgia potente che si presenta in modo assolutamente innovativo al pub-blico. Gli stessi personaggi, dal rappre-sentante della croce rossa nel lager al pre-sunto pedofilo, sviluppano una forte du-plicità, che sconcerta e impedisce il for-marsi di un punto di vista univoco. È in-

somma un mondo di colpevoli/innocen-ti, per dirla cinematograficamente. In più Mayorga è un autore che rifà continua-mente se stesso. Ricordo un recente in-contro in autunno, durante la presenta-zione di un suo testo, Se sapessi cantare mi salverei, in cui le due posizioni che si con-frontano sono quella di un autore di te-atro e quella di un critico. Durante la di-scussione pubblica che ha seguito la let-tura della pièce in anteprima si è arrivati anche a ipotizza-re delle possibilità di modifica di certi passaggi e di certi personaggi. Proposte cui Juan ha subito aderito.»

Franco Quadri, 3 febbraio 2010

vorreI raccontare un aneddoto che forse può spiegare la mia concezione del teatro. Alcuni an-ni fa in una piccola sala della periferia di Parigi

venne messo in scena Hamelin – il testo che in Italia fu poi allestito magnificamente da Manuela Cherubini – e io fui invitato al debutto. La notte era terribilmente fred-da e il teatro brutto e inospitale. La compagnia era total-mente sconosciuta, e c’erano meno di cinquanta spetta-tori. Potevo guardarli negli occhi e farmi un’idea di cia-scuno di loro. E mi chiedevo: perché queste persone so-no qui? Perché sono usciti di casa con questo freddo, in-vece di stare davanti alla televisione? Questa gente non è qui per me, non mi conosce, non sa niente di me, e nem-

meno sembrano essere parenti degli attori. Queste per-sone sono qui per il teatro, perché un giorno qualunque della loro vita il teatro le ha colpite. Per questo credo che drammaturghi, attori e registi debbano avere un’umiltà profonda. Perché devono fare in modo che il loro spet-tacolo ingeneri la voglia di tornare. In questo senso fa-re teatro è straordinariamente importante e chi lo fa ha un’enorme responsabilità. Non importa se gli spettatori sono dieci o mille: l’importante è che per quei dieci si co-struisca un’esperienza poetica e rilevante per le loro vite. Quando scrivo una parola, quando costruisco un perso-naggio, cerco di ricordarmi sempre che il mio obiettivo è fare qualcosa che abbia un valore per la gente.

Penso che il punto di partenza di Bertolt Brecht fosse quello di rendere ogni spettatore un critico. Ma mi pa-re che lo stesso Brecht non di rado abbia tradito questo obiettivo. Molte volte nei suoi testi troviamo un predica-tore che ci fa il sermone. Ad esempio nella Vita di Gali-

leo, che pure è co-stellata di momen-t i st raord inar i , il punto di vista dell’autore attra-versa tutta l’ope-ra. E questo sta in contraddizione con i fondamen-ti del teatro brech-tiano. Quando si dice che il teatro è l’arte del conflit-to, bisogna ricor-darsi che lo scon-tro principale av-viene tra la platea e il palcoscenico, per cui una rap-presentazione che non crei alcun ti-po di controversia tra queste due par-ti è irrilevante. Ul-timamente ho ri-scritto una versio-ne del mito di Fe-dra, e, come sem-

pre mi capita con i miei testi, nutro molti dubbi su questo lavoro. Ma quello che mi ha reso più soddisfatto è il fat-to che gli spettatori hanno giudicato in modo molto di-verso la Fedra che abbiamo messo in scena. Ci sono sta-ti quelli che hanno condannato Fedra come manipolatri-ce dell’innocente Ippolito, e altri che l’hanno vista come un’eroina del sentimento, che permette a Ippolito di sco-prire qualcosa di sé che non aveva mai saputo. Questo è un esempio del dialogo che mi piacerebbe creare sempre. Credo altresì che quando cerchiamo di ottenere questo tipo di dibattito, dobbiamo evitare la strategia più sem-plice, cioè quella di costruire finali ambigui. Al contra-rio bisogna cercare di arrivare al cuore di ogni personag-

La «zona grigia»di Juan Mayorga

Sopra: La paz perpetua di Juan Mayorga diretta da José Luis Gómez al Teatro María Guerrero di Madrid.Sotto: Franco Quadri, Juan Mayorga, Manuela Cherubini e Davide Carnevali al Teatro Giovanni Poli.

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gio, per quanto lontani possano essere da noi. Ho prova-to a scrivere dal punto di vista di un comandante di cam-po di concentramento nazista, o dal punto di vista di un pedofilo. È ovvio che è stato un lavoro duro, ma penso che non ci sia niente di più inutile che mettere un mostro in scena, di fronte al quale lo spettatore si senta innocen-te. Mi sembra più utile che quest'ultimo riconosca la mo-struosità che ha dentro di sé. Se scopre che possiede qual-cosa del gerarca nazista o del ricattatore di immigrati pro-babilmente quell’inquietudine e quella destabilizzazione sarà produttiva. Ognuno di noi vuole sentirsi innocente, ed è sgradevole scoprire di non esserlo poi tanto.

Primo Levi in I sommersi e i salvati introduce un concetto per me importantissimo, quello di “zona grigia”. È quello spazio che separa e unisce i carnefici e le vittime. Per noi è di gran conforto credere che questi due mondi siano ri-gidamente divisi. Invece sono proprio i personaggi del-la zona grigia quelli moralmente (e teatralmente) più in-teressanti. Ed è una zona in cui ciascuno di noi rischia di entrare, durante la sua vita. In teoria so che non devo de-nunciare un uomo onesto: però se la mia vita fosse in pe-ricolo? Se lo fosse quella dei miei figli? Cito un fatto rea-le avvenuto nella metropolitana di Barcellona. In un tre-no poco frequentato, che andava verso una delle ultime stazioni, è successa la seguente cosa: uno spagnolo im-becille e violento vede una ragazza immigrata e comin-cia a insultarla, mentre, senza che lui lo sappia, una vide-ocamera di sicurezza lo riprende. A un certo punto que-sto tizio tira fuori il telefonino e chiama un amico per descrivergli tutta la violenza che vuole usare a questa ragazza. E senza smette-re di parlare al cellulare comincia a col-pirla, fino a quando il vagone non ar-riva alla stazione successiva e lui scen-de tranquillo e orgoglioso. Ma c’è anche un terzo personaggio, un testimone che si nota benissimo nelle immagini regi-strate: se ne sta lì senza fare assoluta-mente niente. Questo è un personaggio moralmente interessante. C’è una vitti-ma che ha avuto la sfortuna di incontra-re un imbecille, ma c’è anche una terza persona che avrebbe potuto fare qual-cosa. Quando questa viene rintracciata e interrogata, si scopre che è anche lui un immigrato e che non conosce la vit-tima. Perché non è intervenuto? Ci pos-sono essere mille motivi, e alcuni li po-tremmo immaginare facilmente anche noi. Questo è il tipo di persone che di notte entrando in un treno della metro-politana senza saperlo stanno entran-do anche nella zona grigia. Quest’uo-mo appartiene al mondo delle vittime o a quello dei carnefici? Molti dei miei personaggi si trovano in questa zona grigia.»

Juan Mayorga, 3 febbraio 2010

Il fine giustifica i mezzi? La guer-ra giusta esiste o è

solo la versione post-moderna del vecchio «occhio per occhio, dente per dente»? E soprattutto: la logica può aiutarci a risol-vere simili questioni morali? Per indagare questi temi nella Pace perpetua (titolo rubato a Kant) Juan Mayorga affida le sue parole al miglior amico dell’uomo: il cane. Un Rottweiler, un Labrador, un bastardo e un Pa-store tedesco – che guarda caso si chiama Immanuel e fi-nirà sbranato dai suoi compagni – sono infatti i prota-gonisti dell’amaro apologo presentato in forma di lettu-ra scenica con la regia di Manuela Cherubini, anche in-terprete nell’unico ruolo affidato dal quarantenne dram-maturgo spagnolo a un essere umano. Con la sua compa-

gnia, Psicopompo Teatro, la giovane re-gista romana ha contributo alla scoper-ta italiana di Mayorga allestendone Hame-lin nella passata stagione (spettacolo che le è valdo il Premio Ubu 2008 per la mi-glior novità straniera). Alle prese con La pace perpetua, la Cherubini punta tutto sul-la forza della parola, serrando i ritmi del-la competizione tra i cani per aggiudicarsi il posto di antiterrorista d’élite, «una pro-fessione con un gran futuro». Un tavolo da consiglio d’amministrazione e qual-che sedia è tutto quel che le serve per re-stituire questa crudele riflessione su co-me combattere il male, sostenuta da un affiatato quartetto di attori in cui spicca il cinico Casius di Fabrizio Parenti. Con mano ferma e allo stesso tempo leggera la mise en espace di Psicopompo Teatro evita le secche del didascalismo facendo emergere un bestiario del tempo presen-te in cui ognuno è il peggior nemico di se stesso: neanche l’egoismo, che secondo Kant avrebbe spinto gli uomini a cerca-re la pace per non divorarsi tra loro, sem-bra poterci aiutare. Chissà che effetto fa-rebbe questa Pace perpetua recitata davan-ti a una platea di israeliani e palestinesi? ◼

La «Pace perpetua» secondoManuela Cherubini

di Andrea Nanni

Sopra: Juan Mayorga;a destra una scena di Hamelin

nella versione di Manuela Cherubini.

La pace perpetua di Juan Mayorgaregia Manuela Cherubini

Essere umano Manuela CherubiniEmmanuel Alessandro Mor

Casius Fabrizio ParentiJohn John Marco QuagliaOdin Alessandro Quattro

3 febbraio 2010Teatro Giovanni Poli

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«da Quando ventIdue annI fa ho cominciato a fare teatro all’interno del carcere di Volterra, ho sempre cercato di lavorare sulle immagi-

ni precostituite che si annidano nella mente dello spetta-tore. Non ho mai voluto “mettere in scena” i detenuti, in modo tale che la gente potesse avvicinarsi a questa diver-sità per capirla e comprenderla. All’inizio tutti si aspetta-vano una sorta di operazione un po’ buonista, un incon-tro che stimolasse la comprensione e la comunicazione. Ciò che ho provato a fare io è stato invece contraddire quest’abbraccio con la vita. Mi sono reso conto in manie-ra intuitiva che dovevo sottrarre i miei attori da quella che definisco la “scena del sociale”, la quale prevede dei ruoli, è una storia già scritta di cui si sa il finale: chi è detenuto rimane detenuto, appiccicato al ruolo che la società gli dà. Ma questo non offre alcuna speranza, non ci permette di andare oltre noi stessi. È una sorta di testo già scritto do-ve le parti sono ormai assegnate: la nostra operazione ci ha fatto credere che invece ci fosse la possibili-tà di mutare qualcosa. Mi rende felice immagi-nare che si possano cambiare i nostri destini, e credo che il teatro ci abbia quantomeno

permesso di interrogarci su questo. In un contesto del genere entra in gioco il

mio rapporto con la drammaturgia, contem-poranea e classica. I testi teatrali sono stati lo strumento per avere qualcosa in mano, per non ridurci a parlare delle nostre tristezze, del-le tragedie del luogo, per non entrare insomma nel terreno del compiacimento e dell’autobio-grafia. Ho capito subito che c’era bisogno di al-tre parole che creassero una lontananza tra me e le persone che trovavo lì e mi impedissero di provare una sorta di facile identificazione con loro. Per fare due esempi prendo il Marat-Sade di Peter Weiss e I negri di Genet, allestiti tra il 1993 e il 1996. Il primo è forse il testo che ho meno ma-nipolato: dopo cinque anni in cui avevamo utilizzato la lingua napoletana, è stata la prima esperienza in italiano. La pièce era perfetta, evocava parole forti come libertà e rivoluzione. A me interessava non la rivoluzione politi-ca quanto quella individuale. Ci siamo resi conto che era una bomba, un oggetto straordinario in quel contesto. E ho capito che era possibile far rivivere quell’opera, che al-lora era semidimenticata. Anche questa è stata una scom-messa: mettere in scena temi e testi che in quel momen-to storico erano completamente caduti nell’oblio e – leg-gendo quelle parole in quelle stanze, mettendole a con-tatto con quei particolari vissuti – scoprire che non era-no affatto superati.

Con Genet l’approccio è cambiato. In quel caso abbia-mo perseguito un’operazione di tradimento: I negri sono un libro faticoso, di difficile comprensione, soprattutto se affrontato con i detenuti. E ho compreso che per re-stituire la forza di quel testo dovevo tradire la forma che mi veniva consegnata, cioè quello che Genet aveva scrit-to, perché proprio tradendo quell’opera era invece pos-sibile riportare in vita la potenza del suo creatore. Quin-di, dopo aver analizzato I negri a fondo, siamo andati per sottrazione, cancellando le parti che ci sembravano lette-rarie e ridondanti. Abbiamo asciugato tutto mantenendo solo ciò che ci pareva importante e abbiamo inserito un altro testo, gli studi sulla fisiognomica di Lombroso, cor-redati di immagini. Ne è scaturita una sorta di rito fero-cemente autoironico esercitato dagli attori su se stessi per ritornare a parlare di diversità, ridare vigore a quanto se-condo me viveva Genet quando ha iniziato a scrivere, e quindi in ultima analisi rispettare le motivazioni intime della sua scrittura. Ci sono registi assolutamente rigoro-si nei confronti delle drammaturgie che affrontano, ma questo grande rigore secondo me nasconde invece l’in-capacità di leggere e guardare tra le pieghe della necessi-tà che ha spinto l’autore. Non si può rimanere inchiodati alla forma, che è solo una delle tante possibili: ogni auto-re non è altro che un trascrittore della realtà, il testo è un

momento di passaggio che si fissa sulla carta: non ci si può fermare lì.»

Armando Punzo, 4 febbraio 2010

Un Teatro Stabile nel carcere di Volterra

«La nostra esperienza rischia di morire ogni giorno, e questo da un verso è un be-

ne, dall’altro ci espone a mille difficoltà e proble-mi. Per ovviare a questi ultimi abbiamo ipotizza-to l’idea – provocatoria ma concreta, tanto che ab-biamo già in mano un progetto architettonico – di un Teatro Stabile dentro il carcere. Siamo parti-ti da una domanda molto semplice: perché un at-tore della Compagnia, uscito di prigione, dovreb-be andare a fare il cameriere, o l’operaio, quando sa già fare – e molto bene – un altro mestiere? Con la fondazione di una struttura stabile (e con tutto ciò che questo comporta), potremmo organizzare finalmente in modo organico, con le giuste risor-se e non con lo spirito pionieristico che ci ha sem-

pre contraddistinto, tutte le attività di formazione, dalla reci-tazione alla scenografia all’illuminotecnica e così via. Tutte co-se che già facciamo, ma che assumerebbero un’altra dimensio-ne e permetterebbero alla Compagnia di proseguire negli an-ni nonostante le persone cambino e si avvicendino. In questo modo si potrebbe trasformare la Fortezza in un carcere desti-nato al teatro. Probabilmente non ce lo permetteranno mai, ma questa è una vera idiozia. Dopo più di vent’anni di attivi-tà, la struttura penitenziaria, che era una delle peggiori d’Ita-lia, ora è tra le migliori per “le attività trattamentali”, come si dice in gergo tecnico. E credo che il teatro abbia qualche me-rito in tutto questo...»

Armando Punzo

Armando Punzoe la sottrazione del testo

Materiali da Pinocchiodrammaturgia e regiaArmando Punzo

interpreti Armando Punzoe i detenuti-attoridella Compagnia

della Fortezza4 febbraio 2010

Teatro Giovanni Poli

Sopra: Santolo Matrone e Armando Punzo al Teatro Giovanni Poli.Al centro: una scena del Marat-Sade.

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come a rIpercorrere I confini di una vicenda per-sonale che più di vent’anni fa lo ha portato nel car-cere di Volterra per una delle più intense esperien-

ze teatrali del nostro Paese – e da quei confini guardare il dentro della reclusione senza cadere nel fuori delle ani-me belle e delle dame di carità – Armando Punzo ha vo-luto ancora una volta con Pinocchio tradire le aspettative, smontare una forma, rivoltarla. Ha rifiutato di «mettere in scena» l’alterità detenuta imprigionandola nello sche-ma prevedibile dell’enfant terrible candidato alla redenzio-ne e l’ha sottratta all’abbraccio buonista e soffocante di una facile indentifica-zione da parte del pub-blico. Ha rifiutato un ruolo, quello di demiur-go delle altrui avventu-re burattinesce dietro le sbarre, per incarnare egli stesso la stupefazio-ne di un bambino che torna alla propria natu-ra selvatica e capriccio-sa, invertendo la tragi-ca progressione verso l’umano del personag-gio di Collodi in una regressione all’origina-rio pezzo di legno, e di lì all’arboreo, al radica-le, al rizomatico senti-mento del vivere. La sua andatura disarticolata e senza fili attraversa la storia di Pinocchio da una prospettiva liber-taria che ricava una ter-ra promessa, un orizzonte di serena disperazione dall’ar-te e dalle parole dei libri, dalla concretezza poetica di un mondo fantastico creato dentro il mondo «reale» per con-traddirne l’ipocrisia, per custodirne la potenziale bellezza sempre tradita. Punzo non fa dell’autobiografia, ma la sua storia di uomo di teatro che dalle esperienze grotowskia-ne approda al carcere come a un’isola di autenticità possi-bile, di interrogazione radicale, si legge in filigrana. «Ar-mando è più detenuto di noi», dice nel corso del parteci-pato incontro con il pubblico Santino Matrone, ventidue anni di carcere, uno degli interpreti dello spettacolo an-dato in scena al Giovanni Poli di Venezia. Una versione ridotta, dodici attori e un impianto scenico costretto nel-le misure del piccolo palcoscenico di Santa Marta. Ma in-tatta la forza d’urto contro le immagini precostituite de-gli spettatori – e degli stessi attori-detenuti –, intatta la di-mensione visionaria di un «(glorioso) fallimento», come ha scritto il regista, la giostra grottesca delle citazioni stra-volte eppure immediatamente riconoscibili, la gioiosa via

crucis fallimentare per «riconquistarsi la strada del (feli-ce) non-essere». Se nel lontano Marat-Sade, lo spettacolo che nel 1993 vinse il Premio Ubu, l’alternativa tra rivolu-zione individuale e rivoluzione politica restava irrisolta, o meglio elusa, qui non solo la scelta è ormai maturata in favore della prima ipotesi, ma essa si rivela come un’espli-cita rinuncia non solo al piano sociale ma alla stessa affer-mazione individuale. Sulla scia di una riflessione che at-traversa la contemporaneità da Rimbaud («io è un altro») a Pessoa, da Artaud allo stesso Grotowski, Punzo ci ri-corda che la vera rivoluzione interiore consiste nell’uscita da quella gabbia che il nostro stesso «io» è per noi. Il fu-nerale di Punzo-Pinocchio, portato sulle spalle da sei fi-guri in abito nero con una calza calata sul viso, sancisce la fuoriuscita del/dal soggetto, mentre il manichino con le sembianze dell’attore adagiato sul proscenio ne ribadi-sce per tutta la durata dello spettacolo la sostanziale as-senza. Il doppio in scena ricorda agli stessi spettatori la divaricazione, la distanza che l’attore assume e chiede di mantenere anche a chi sta in platea: «Solo, io (lui) guar-

do a me che non è me». Come nei prece-denti spettacoli, la Compagnia della For-tezza cerca dunque di mostrare la falsi-tà di ogni tentativo di avvicinamento al-la diversità altrui, destinata a rimanere ta-le se non cominciamo a chiederci che co-sa c’è di diverso in noi stessi. Lo spazio di Pinocchio è uno spazio della sottrazione, una strategia della diserzione dall’umani-

tà e dai suoi luoghi comuni. Perciò la fa-tina, cioè il principio di «realtà», lo spiri-to concreto che richiama ai doveri e alle convenzioni sociali, non è una presenza amica. I veri amici – «Amico, amico mio! », ripete la voce stridula di un Pinocchio esagitato e ribaldo che sembra divertir-si perfino a fare il verso a Carmelo Bene – sono il Gatto e la Volpe, Lucignolo e i

ciuchi, i complici di una fuga dalla costrizione insoppor-tabile (nella vita come in scena) alla parte, alla biografia, al luogo deputato. Non a caso il cuore della mascherata, con gli attori fissati in movenze da animali meccanici, è il paese dei balocchi, cui corrisponde un teatrino interiore di autori e personaggi della letteratura, scelti e incastona-ti con effetti contrastivi spesso sorprendenti: Kafka, Pa-solini, Rabelais, Artaud, Cervantes. Sono loro i veri ami-ci, dirà Punzo rispondendo a una domanda del pubblico, perché «portano fuori», fanno sentire che c’è una possi-bilità di cambiare i nostri destini e che il nostro singolo ri-diventare tronco e albero può trovare attorno a sé una fo-resta. Scottato dalle esperienze, i piedini bruciati dalla vi-ta, Pinocchio non è più solo. La sua rabbia non alimenta più il fuoco di paglia della ribellione, ma la lenta combu-stione interiore necessaria ad ogni «uscita dal mondo». ◼

Il Pinocchioal contrariodi Punzo

di Fernando Marchiori

Le prove di Materiali da Pinocchio al Teatro Giovanni Poli.

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ritorna «Paesaggio con uomini», la rassegna di Echidna Cultura che tra febbraio e maggio riunisce in die-ci comuni della provincia veneziana – Campagna Lupia,

Camponogara, Dolo, Fiesso d’Artico, Mirano, Noale, Pianiga, Salzano, Stra, Vigonovo – alcune tra le proposte più interessan-ti della scena italiana contemporanea, tra cui si segnalano almeno il magnifico È bello vivere liberi! di Marta Cuscunà (20 marzo al Cineteatro Italia di Dolo, cfr. VMeD n. 30, p. 75 e pp. 78-79) e il Magnificat di Alda Me-rini di Anagoor (21 marzo, Campagnia Lupia, Chiesa Santa Maria di Lugo). Ad aprire la manifestazione il 25 febbraio, al Teatro Comuna-le di Camponogara, è stata una creazione di Stefano Pa-gin, realizzata con un gruppo di nuovissima fondazione, la Compagnia Casello 11 Tea-tro. I dialoghi di Federico Ruysch e delle sue mum-mie, presentato in forma di studio all’intensa Marato-na di Asolo «D’Amore Ve-ro nel vero» (cfr. VMeD n. 30, pp. 78-79), vede in scena cinque attori: Michela Mar-tini, Stefania Felicioli, Gal-liano Mariani, Silvia Piovan e Alessio Bobbo. Al regista-ideatore chiediamo di raccon-tarci il punto di partenza del-la sua messinscena.

L’operazione prevede di utilizzare come conte-nitore drammaturgico il Dialogo di Federico Ruysch e delle sue mummie inne-stando al suo interno al-tre quattro operette mo-rali: Dialogo di Malambruno e Farfarello, Dialogo d’Ercole e di Atlante, Dialogo di un Folletto e uno Gnomo, Dialogo di un vendi-tore d’ almanacchi e un passeggere. Il Dialogo di Federico Ruysch e delle sue mummie risale all’agosto 1824: Ruysch (1638-1731), medico e anatomista olandese realmente esistito, scoprì un metodo per preservare dalla putrefazione i cadaveri. Allo scoccare della mezzanotte di un «anno grande e ma-tematico» il protagonista sente le proprie mummie can-tare nello studio anatomico della sua casa. Il loro canto afferma la certezza della naturalità della morte e la totale mancanza di rimpianto per la vita passata. Per il tempo di un’ora alle mummie sarà permesso di esprimersi in mo-do ironico e scherzoso su temi cruciali come l’impossibi-

lità del raggiungimento della felicità durante la vita ter-rena e sul ridicolo punto di vista antropocentrico che ca-ratterizza l’essere umano. Stordito dall’eccezionalità del-la notte grande e matematica lo scienziato comincia a in-terrogare le mummie. Scoprirà così che la vita per i morti è come la morte per vivi: il pieno al posto del vuoto; che non può esserci alcun dolore o angoscia nel momento del trapasso poiché il dolore e l’angoscia appartengono a uno stato di vita e sono inconciliabili con lo stato di morte che è appunto la negazione della vita.

Cosa puoi dirci della tua interpretazione del testo leopardiano?Il Dialogo di Federico Ruysch e delle sue mummie tratta del-

la morte, e, tentando di comunicare all’attrice che inter-preta Ruysch il pensiero che volevo per recitare la bat-tuta «Ma che cos’è la morte se non è dolore?», non ri-uscivo a spiegarmi con lei poiché volevo che la dicesse con un’esigenza umana (quasi paura) lontana dalla reto-rica dello scienziato, che è la prima lettura con cui si po-trebbe dire quella battuta. In questa mia considerazio-

ne partivo da alcuni interrogativi: se a noi poveri occi-dentali togliessero anche l’idea di un trapasso doloro-so, un po’ come una nascita alla rovescia, e questo tra-passo invece venisse riempito di vuoto, che cosa ci re-sterebbe? Di che cosa dovremmo avere paura allora? La paura ci è necessaria. Il vuoto ci è intollerabile. (l.m.) ◼

Nella foto: Michela Martini, Stefania Felicioli, Silvia Piovan, Galliano Mariani e Alessio Bobbo in I dialoghi di Federico Ruysch e delle sue mummie.

Stefano Pagin rilegge Leopardi«I dialoghi di Federico Ruysch» aprono la nuova edizionedi «Paesaggio con uomini»

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da l l’o m o n I m o capolavoro dI bruno Schulz,

lo scrittore ebreo polac-co ammazzato nel 1942 nel ghetto di Varsavia, il Trattato dei manichini di Teatropersona – asso-lutamente da non per-dere nella sua prima re-gionale all’Astra di Schio (26 marzo, ore 21.00) – ha ricavato l’atmosfera onirica di cui è pervasa ogni scena. Ma la radi-ce prima di questo pez-zo straordinario di scrit-tura scenica sprofonda nell’infanzia del regista Alessandro Serra: l’orfa-notrofio, la solitudine, il gioco introspettivo. Che Serra riesca a mantenersi paradossalmente «estra-neo nell’autobiografia» e a far vibrare in sequen-ze di impeccabile rigore formale l’esperienza uni-versale dell’infanzia per-duta dipende in primo luogo da un suo eccesso di autoconsapevolezza. E poi da un’incrollabile fede nel teatro quale atto fondativo di un mondo che è nel tempo ma non appartiene a questo tempo. Un atto di autonomia creativa, una cosmogonia interiore che si spalanca a una visitazione condivisa. Serra spiega come «il ritorno atem-porale all’infanzia è un sogno che non si può racconta-re, un nulla a cui nessuno crederà, ma un nulla visibile, confezionato con le immagini della realtà». La scena vie-ne dunque svuotata di ogni elemento descrittivo, di ogni intenzione narrativa, in perfetta coerenza con le posizio-ni estetiche del protagonista schulziano quando esclama: «Se, abbandonando ogni rispetto per il Creatore, volessi divertirmi a criticare la creazione, griderei: “Meno con-tenuto, più forma! Ah, quale sollievo sarebbe per il mon-do questa diminuzione di contenuto! Un po’ più di mo-destia nelle intenzioni, un po’ più di sobrietà nelle prete-se, signori demiurghi, e il mondo sarebbe più perfetto!». Il criterio compositivo è dunque di natura musicale, men-tre il palco, come voleva Appia, diventa spazio ritmico,

puro supporto per il movimento dell’attore. Le tre per-former – Valentina Salerno, Alessandra Cristiani e Chia-ra Casciani – non pronunciano parola, ma ogni loro mo-vimento, ogni gesto risponde a una precisa partitura fi-sica ricavata dallo studio della conturbante opera grafica di Schulz e dalla sensualità della pittura di Schiele. Trac-ciano i caratteri di un linguaggio inedito dalla grafia dan-zante. A sfogliare questo libro segreto dell’infanzia scrit-to in caratteri performativi e con la punteggiatura del-lo stop motion è una quarta attrice, la sorprendente Silvia Malandra di anni nove, che a tratti sembra creare dal-la sua fantasia le tre figure scure, altre volte ne è domi-

nata. Proviene da una lontana traccia cinemato-grafica, con la sua valigetta di cartone e le trec-ce bionde sotto il cappellino. È lei che fa gira-re le tre performer su se stesse come dei mani-chini, ma sono loro che la trasformano in bal-lerina; lei le trattiene al di qua del formalismo, loro le insegnano ad attraversare le ombre. Ma non c’è una storia da seguire, se non nella fuga di impressioni suscitate in noi spettatori da queste immagini che sembrano calchi musicali di im-pulsi mnestici. Dentro un denso montaggio di materiali sonori, le tre performer finiscono per danzare, in una sorta di Butoh per manichini, le tracce di vite strappate ai loro corpi. Sono effigi di donna che si disarticolano, modelli femminili smembrati. Evidente in questo teatro la centra-lità dell’attore, della sua presenza riverberante. Serra lavora con «un attore-talismano che non rap-presenta nulla, semplicemente è ciò che esprime» e si muove all’interno di opere costruite come organismi coerenti e autosufficienti. Non han-no significati da trasmettere, ma forze da met-tere in campo, azioni calibrate che funzionano da chiavi di accesso ad un mondo recondito, da innesco per una implosione d’immagini scono-sciute e profondamente nostre, una concentra-zione di materia ed energia che ritorna al cuo-re della nostra vita interiore. E lo rianima. Nel-lo spettacolo, che ha vinto il Premio Lia Lapini 2008 per la scrittura di scena, oltre al Premio Eti Nuove creatività, il linguaggio verbale è quasi as-sente: la conta di Silvia all’inizio, per entrare nel-la dimensione onirica dell’infanzia, e quella fi-

nale per chiudere il cerchio drammaturgico. L’essenzia-lità delle scene, la gestualità miniaturizzata, la precisione millimetrica dei movimenti corrispondono alla «sottra-zione di umanità» teorizzata e praticata dal personaggio del libro, che nella sua dottrina eretica progetta di «cre-are una seconda volta l’uomo a immagine e somiglian-za di un manichino». Così il collegio di Serra diventa il sanatorio raccontato da Schulz, dove ai morti è conces-sa una seconda realtà, parallela, rarefatta, ma anche l’isti-tuto Benjamenta di Walser, dove si impara a diventare uno zero, un niente. Se riuscissimo a «diminuirci», a «ma-turare verso l’infanzia», sembra ricordarci il Trattato, po-tremmo raggiungere il «primo linguaggio», cioè appun-to il mito fondativo, l’origine, il nostro inizio. In questo senso mito e infanzia coincidono. Non a caso all’opera di Schulz si ispira anche un caposaldo della cultura te-atrale contemporanea come La classe morta di Kantor. ◼

Il «Trattatodei manichini»di TeatropersonaA Schio lo spettacolodi Alessandro Serradal romanzo di Schulz

di Fernando Marchiori

Il trattato dei manichini ( foto di Daniela Neri).

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InIzIa con una vera e propria «avventura» alla sco-perta di uno dei gruppi veneti più interessanti dell’ul-tima generazione, la seconda parte della rassegna

«Movimenti – Gesti di teatro necessario» del Teatro Fon-damenta Nuove, realizzata con la collaborazione di Carlo Mangolini del Bassano OperaEstate Festival.

Dopo il grande successo di pubblico ottenuto nel-la prima parte di stagione, che ha visto protagoni-sti Santasangre, Pathosformel e Anagoor, giovedì 4 marzo alle 21 il teatro veneziano apre le proprie porte a una serata-evento dal titolo DESERT/DES-SERT - una serata lounge per scoprire il lavoro di Fagaraz-zi & Zuffellato: un viaggio nomadico fra i lavori vi-deo dei due coreografi e artisti visivi, in una dimen-sione lounge con musica e aperitivo, durante la qua-le lo spettatore potrà partecipare alla discussione/scoperta delle linee poetiche del duo.

Il programma continua poi il 10 marzo alle 18.30 e alle 21, sempre con Fagarazzi & Zuffellato che pre-senteranno – dopo una settimana di residenza al te-atro, oramai apprezzata prassi della rassegna «Mo-vimenti» – lo studio dello splendido enimirc, vero e proprio «evento» che mette in discussione il rap-porto e i ruoli di performer e spettatore, declinan-do un’azione mimetica che agisce proprio su quel confine che tradizionalmente separa l’osservato dall’osservatore.

Gli altri appuntamenti della stagione spostano in-vece la visione sulla nuova drammaturgia e sulle ca-pacità attoriali più «classiche». Giovedì 8 aprile al-le 21 i Menoventi, giovane gruppo emiliano-roma-gnolo capitanato da Consuelo Battiston, Alessan-dro Miele e Gianni Farina, presenteranno invisi-bilmente, una personalissima rilettura del giudizio universale, elegantemente – e ironicamente – rap-presentata in un contemporaneo studio televisivo. La settimana successiva, mercoledì 14 aprile sem-pre alle 21 il gruppo presenterà l’esito della residen-za al teatro e incontrerà il pubblico per soddisfa-re domande e curiosità sul lavoro della compagnia.

Chiude gli appuntamenti primaverili del Fonda-menta Nuove il gruppo barese Fibre Parallele, cre-ato nel 2005 da Licia Lanera e Riccardo Spagnulo, con il dissacrante Mangiami l’anima e poi sputala (gio-vedì 22 aprile ore 21). Una grottesca storia d’amore e pu-rificazione fra una pia donna barese e un Gesù Cristo mi-racolosamente sceso dalla croce.

Il Teatro Fondamenta Nuove e la rassegna «Movimen-ti» sono diventate in breve tempo uno dei punti di riferi-mento per le nuove generazioni del teatro di ricerca ita-liano e per il pubblico del teatro contemporaneo: ma cosa intendiamo quando usiamo il termine contemporaneo? Se guardiamo il dizionario, contemporaneo significa che av-viene nel nostro stesso tempo, noi tutti siamo contem-

poranei perché viviamo in questo tempo che ci è comu-ne e ci accomuna. Tuttavia se oggi qualcuno dipinge al-la maniera degli impressionisti, nessuno dirà che quel quadro, seppur prodotto nel nostro tempo, sia contempo-raneo. Ma allora cosa definisce questo termine nel cam-po dell’arte? Senza ridurlo a mera qualità estetica (per giunta di difficile definizione) e aiutati dalle parole di Je-an Luc Nancy, potremmo rispondere che l’arte contem-poranea può essere definita come manifestazione di una forma, che sarebbe innanzitutto la forma di un proble-ma: il problema del confronto con il mondo in cui vivia-mo. Un mondo di difficile definizione, fragile, ricco di contraddizioni e alle volte inquietante. L’artista di oggi, che si trova a «rappresentare» il mondo, non può non fa-

re i conti con questa problematicità, riportando sulla sce-na una visione che non rassicura lo spettatore, ma che, al contrario, gli pone delle questioni insolute, lo invita a riflettere sulla sua condizione, non lo fa – in altre pa-role – rimanere tranquillamente accomodato in poltro-na, ma lo trasforma in uno spettatore in «movimento». ◼

Il teatroin «Movimenti» delFondamenta Nuove

di Jacopo Lanteri

In alto: Golden Beach di Andrea Fagarazzi e I-Chen Zuffellato.Sopra: Mangiami l’anima e poi sputala di Fibre Parallele.

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valter malostI, premIo ubu 2009 per la miglior regia con Quattro atti pro-

fani di Antonio Tarantino, por-ta sulle scene del Toniolo il suo Venere e Adone (produzione Tea-tro di Dioniso e Teatro Stabile di Torino), rilettura torbi-da e sensuale del poemetto erotico-pastorale di William Shakespeare, i cui protagonisti sono una dea pazza di de-siderio e un giovane bellissimo che le sfugge, finendo uc-ciso tra le zanne di un cinghiale. Shakespeare lo scris-se nel 1593 su commissione del suo giovanissimo patro-no, l’efebico Henry Wriothesley conte di Southampton, di cui è stato ritrovato, un paio di anni fa, un ritratto in abiti femminili.

«Il gioco delle identità entra così in un labirinto di spec-chi», spiega Malosti, «e si scivola in una progressiva pro-miscuità delle individualità. Forse suggestionato anche da ciò che si narra riguardo al rapporto non puramen-te letterario che Wriothesley aveva con Shakespeare, una notte sognai l’immagine curiosa di un travestito che coc-colava questo Adone morente. Per questo Adone in sce-na è truccato da donna. Successivamente è scattata un’al-tra molla molto importante, che mi ha spinto a recupera-re la lingua usata da Shakespeare nel suo poemetto, che ho così ritradotto, lavorando molto anche sulla musica. In maniera particolare avevo in mente la musica di John Blow, che fu maestro di Henry Purcell. Ne è scaturita una sorta di operina musicale in cui i tre personaggi del testo hanno ognuno un proprio percorso sonoro molto preci-so: il narratore, partendo dal barocco di Blow, arriva fino ai neo-barocchi inglesi; Venere è una sorta di macchina dell’amore immaginata parlante in sintonia con la musi-ca di Maderna e Berio, di cui ho usato soprattutto l’opera Visage; Adone infine è caratterizzato dal clavicembalo. La partitura fisica dello spettacolo prende spunto da un im-probabile pas de deux tra Venere e Adone: tutto è giocato su una minuscola e rischiosa pedana di ottanta centime-tri quadri, base del carrello-macchina da cui si può pre-cipitare facilmente, metafora di una più abissale e miste-

riosa caduta. Si tratta di una sor-ta di carrello cinematografico,

che viene avanti e indietro, portando in primo piano i personaggi, per poi al-lontanarli, presentando-li in movimento. E quan-do Adone se ne va, Vene-re rimane da sola su que-

sto carro a piangere la sor-te del suo amore». (i.p.) ◼

Puntuale come ogni anno torna Crucifixus-Festival di Primavera, la rassegna dedicata al sacro inventa-ta e diretta da Carla Bino e Claudio Bernardi. Na-

to nel 1998 come percorso legato all’arte della Via del Ro-manino e sviluppatosi poi a partire dal 2002 sotto for-ma di festival, Crucifixus si svolge ogni anno tra il lago

d’Iseo e la Val Camo-nica, durante le tre set-timane che precedono la Pasqua. Coinvolge oltre venti comuni del-le province di Berga-mo e Brescia che ospi-tano in contempora-nea spettacoli di teatro e musica. Quest’an-no poi, per volontà del Comune e della Dio-cesi di Brescia, la ma-nifestazione ha idea-to un progetto specia-le per la città, che inte-resserà diversi luoghi

«periferici» e non teatrali del centro storico come il Ca-stello e il Carcere di Verziano.

Più in generale il festival, che si svolgerà dal 15 marzo al 20 aprile, vede il riproporsi di appuntamenti già rodati, come Il lenzuolo. La passione secondo Marco di Claudio Ber-nardi, portato in scena da Diego Parassole, e la potente Rock Passion Live ideata da Carla Bino e Davide Capari-ni. Tra i nuovi ospiti si segnalano almeno Sandro Lom-bardi, alle prese con Erodiàs di Giovanni Testori, e Ales-sandro Berti, già leader del gruppo L’Impasto, che rica-va il suo Abbandono alla Divina Provvidenza dall’omonima raccolta di scritti del gesuita Jean Pierre De Caussade. Ma l’evento più rappresentativo di questa edizione è proba-bilmente El Misterio del Cristo de Los Gascones della com-pagnia di Segovia Nao d’amores, un’immersione nell’ap-passionante mondo del teatro primitivo attraverso una visione assolutamente contemporanea. Si tratta della ri-creazione della cerimonia liturgica che veniva rappresen-tata nella chiesa di San Giusto a Segovia, per la quale si costruì il Cristo de los Gascones, una delle opere più si-gnificative del patrimonio artistico segoviano. Attraver-so una drammaturgia realizzata a partire da documenti storici di diversa provenienza, e mediante la ricerca e l’in-terpretazione di brani musicali che originariamente ac-compagnavano questa cerimonia, la compagnia sviluppa una messinscena che combina il lavoro d’attore con il te-atro di marionetta. Un viaggio magico attraverso un mi-crocosmo costruito su simboli, figure allegoriche e me-tafore. Per informazioni: www.crucifixus.com. (l.m.) ◼

«Venere e Adone»di Valter MalostiShakespeare in scenacon le coreografiedi Michela Lucenti

Ritornail teatro del sacroA Crucifixusil Cristo de los Gasconesdi Segovia

MestreTeatro Toniolo

15, 16 aprileore 21.00

Valter Malosti in Venere e Adone ( foto di Tommaso Le Pera). El Misterio del Cristo de Los Gascones di Nao d’amores.

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