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468 Medico e Bambino 7/2015 OLTRE LO SPECCHIO V oglio parlarvi dell’Africa, della sua storia e del perché l’Africa è così importante per noi euro- pei; e perché è tanto ricca di attrattive per un me- dico giovane e anche per un medico vecchio. Ma non potrò farlo in fretta, né vorrei farlo troppo su- perficialmente. Per questo parto dalla storia. 1400: la conquista delle coste africane L’Europa, il grande predone, inizia a conoscere l’A- frica, e l’Africa a conoscere l’Europa all’inizio del XV secolo. Nel 1436, un vascello osa navigare oltre il Capo Bojador, prendere terra all’estuario di un fiume 400 miglia più a Sud, dove il giovane capita- no Antao Gonçalves, sceso con due cavalli e nove uomini, in una scaramuccia, fa alcuni prigionieri e ne riceve un riscatto di schiavi, uova di struzzo, scudo di pelle, e polvere d’oro. Assaggiate le uova e visto l’oro, l’infante di Portogallo, Enrico, firma le prime licenze per spedizioni commerciali in quelle che ormai considerava le sue terre. Come risultato della prima di quelle licenze, l’8 agosto del 1444, la prima tratta europea di schiavi viene sbarcata, tra pianti e stridor di denti, a Lagos. Nel 1473 Fernao Gomes, procedendo nel Golfo di Guinea, investe i privilegi acquistati dal re Alfonso V, dapprima nel pepe africano (Costa dei Grani), poi nelle zanne di elefante (Costa d’Avorio), poi nell’oro del Benin (Costa d’Oro) e infine nella risor- sa più inesauribile di tutte, nella Costa degli Schia- vi. Quattro nomi, quattro risorse, quattro rapine. Nel 1471, per ordine del nuovo re, Giovanni II, Die- go Cao, con due vascelli, ciascuno dei quali porta nella stiva una croce di pietra alta due metri, un pa- drao, doppia il capo di Santa Catalina. Il primo pa- drao lo pianta sulla sponda sud dell’estuario del AFRICA, ANCORA FRANCO PANIZON Professore Emerito, IRCCS Materno-Infantile “Burlo Garofolo”, Università di Trieste Pubblichiamo questo scritto di Franco Panizon perché pensiamo che ogni suo contributo meriti di essere conosciuto, e perché è testimone di un suo amore dell’età avanzata: l’Africa. A cui si è avvicinato gra- dualmente, ma non troppo. È una terra che prende, e così ha preso anche lui, i suoi schizzi a carbonella, i suoi scritti, oltre che il suo lavoro di medico e di docente. Da intellettuale, Panizon non è sfuggito ai tanti interrogativi che l’occhio, se appena attento, pone sia a un occidentale che a un medico che intenda portare un suo contributo professionale. Interrogativi che riguardano la storia e le responsabilità di un dramma immane, che continua tuttora per molti africani anche se molti altri, so- prattutto nei Paesi che riescono a evitare almeno il peso dei conflitti, ne stanno uscendo lentamente. Interrogativi che riguardano quanto la comunità internazionale ha fatto e fa per migliorare le condizioni di vita di quelle popolazioni, e l’efficacia di questi interventi. E interrogativi che riguardano il senso del lavoro di un medico, e più in generale un operatore che voglia dare una mano, in questi Paesi. Sui primi, devono essere aggiornate alcune conside- razioni. Ad esempio, l’Africa oggi è un continente che, economicamente e tecnologicamente parlando, cammina. Ha tassi di crescita buoni, a volte molto buoni. E tuttavia, con crescenti diseguaglianze, mag- giori che in altri continenti, e crescenti conflitti e ten- sioni, basti pensare alla sempre più incombente pre- senza in molti Stati africani del terrorismo islamico. E non ha più senso considerare l’Africa come un tutto quasi indistinto. Vi coesistono infatti democrazie so- lide (come il Kenya o il Sudafrica) e dittature camuf- fate, leader “democraticamente” rieletti da decenni (Camerun) ed altri che vorrebbero essere rieletti an- che contro le leggi vigenti (Ruanda), stati semiautori- tari che funzionano (come l’Etiopia) o che non fun- zionano (Zimbabwe). Ma il senso generale non cam- bia: l’Africa è ancora il continente più povero, e di gran lunga. Sui benefici, e anche i danni, prodotti dagli aiuti allo sviluppo, tanto si è scritto. Tra i testi italiani, quello prodotto dall’Osservatorio Italiano sul- la Salute Globale (Salute Globale e Aiuti allo Svilup- po, ETS, 2009). Sul senso del contributo individuale, sul quale abbiamo avuto molte discussioni, lasciamo le sue parole, perché illustrano quello che Franco pensava. Magari, come capita a tutti anche per le di- verse e altalenanti esperienze, con qualche incertez- za e cambio di rotta.

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OLTRE LO SPECCHIO

Voglio parlarvi dell’Africa, della sua storia e delperché l’Africa è così importante per noi euro-

pei; e perché è tanto ricca di attrattive per un me-dico giovane e anche per un medico vecchio. Manon potrò farlo in fretta, né vorrei farlo troppo su-perficialmente. Per questo parto dalla storia.

1400: la conquista delle coste africane

L’Europa, il grande predone, inizia a conoscere l’A-frica, e l’Africa a conoscere l’Europa all’inizio delXV secolo. Nel 1436, un vascello osa navigare oltreil Capo Bojador, prendere terra all’estuario di unfiume 400 miglia più a Sud, dove il giovane capita-no Antao Gonçalves, sceso con due cavalli e noveuomini, in una scaramuccia, fa alcuni prigionieri ene riceve un riscatto di schiavi, uova di struzzo,

scudo di pelle, e polvere d’oro. Assaggiate le uovae visto l’oro, l’infante di Portogallo, Enrico, firma leprime licenze per spedizioni commerciali in quelleche ormai considerava le sue terre. Come risultatodella prima di quelle licenze, l’8 agosto del 1444, laprima tratta europea di schiavi viene sbarcata, trapianti e stridor di denti, a Lagos. Nel 1473 Fernao Gomes, procedendo nel Golfo diGuinea, investe i privilegi acquistati dal re AlfonsoV, dapprima nel pepe africano (Costa dei Grani),poi nelle zanne di elefante (Costa d’Avorio), poinell’oro del Benin (Costa d’Oro) e infine nella risor-sa più inesauribile di tutte, nella Costa degli Schia-vi. Quattro nomi, quattro risorse, quattro rapine.Nel 1471, per ordine del nuovo re, Giovanni II, Die-go Cao, con due vascelli, ciascuno dei quali portanella stiva una croce di pietra alta due metri, un pa-drao, doppia il capo di Santa Catalina. Il primo pa-drao lo pianta sulla sponda sud dell’estuario del

AFRICA, ANCORAFRANCO PANIZON

Professore Emerito, IRCCS Materno-Infantile “Burlo Garofolo”, Università di Trieste

Pubblichiamo questo scritto di Franco Panizon perché pensiamo cheogni suo contributo meriti di essere conosciuto, e perché è testimonedi un suo amore dell’età avanzata: l’Africa. A cui si è avvicinato gra-dualmente, ma non troppo. È una terra che prende, e così ha presoanche lui, i suoi schizzi a carbonella, i suoi scritti, oltre che il suo lavorodi medico e di docente. Da intellettuale, Panizon non è sfuggito ai tantiinterrogativi che l’occhio, se appena attento, pone sia a un occidentaleche a un medico che intenda portare un suo contributo professionale.Interrogativi che riguardano la storia e le responsabilità di un drammaimmane, che continua tuttora per molti africani anche se molti altri, so-prattutto nei Paesi che riescono a evitare almeno il peso dei conflitti,ne stanno uscendo lentamente. Interrogativi che riguardano quanto la

comunità internazionale ha fatto e fa per migliorarele condizioni di vita di quelle popolazioni, e l’efficaciadi questi interventi. E interrogativi che riguardano ilsenso del lavoro di un medico, e più in generale unoperatore che voglia dare una mano, in questi Paesi. Sui primi, devono essere aggiornate alcune conside-razioni. Ad esempio, l’Africa oggi è un continenteche, economicamente e tecnologicamente parlando,cammina. Ha tassi di crescita buoni, a volte moltobuoni. E tuttavia, con crescenti diseguaglianze, mag-giori che in altri continenti, e crescenti conflitti e ten-sioni, basti pensare alla sempre più incombente pre-senza in molti Stati africani del terrorismo islamico. Enon ha più senso considerare l’Africa come un tuttoquasi indistinto. Vi coesistono infatti democrazie so-lide (come il Kenya o il Sudafrica) e dittature camuf-fate, leader “democraticamente” rieletti da decenni(Camerun) ed altri che vorrebbero essere rieletti an-che contro le leggi vigenti (Ruanda), stati semiautori-tari che funzionano (come l’Etiopia) o che non fun-zionano (Zimbabwe). Ma il senso generale non cam-bia: l’Africa è ancora il continente più povero, e digran lunga. Sui benefici, e anche i danni, prodottidagli aiuti allo sviluppo, tanto si è scritto. Tra i testiitaliani, quello prodotto dall’Osservatorio Italiano sul-la Salute Globale (Salute Globale e Aiuti allo Svilup-po, ETS, 2009). Sul senso del contributo individuale,sul quale abbiamo avuto molte discussioni, lasciamole sue parole, perché illustrano quello che Francopensava. Magari, come capita a tutti anche per le di-verse e altalenanti esperienze, con qualche incertez-za e cambio di rotta.

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OLTRE LO SPECCHIOCongo, e il secondo al capo di Santa Maria, vicinoa Luanda (dove ancora si trova, conservato nellaFortaleza, così come nella vicina esclaveria si con-serva il ricordo della grande tratta transatlanticaverso il Brasile). La continuazione del giro dell’Africa, l’erezione di al-tri padraos, il doppiaggio del capo di Buona Speran-za li compie dieci anni dopo Bartolomeo Diaz; e do-po altri dieci anni, sarà il grande Vasco de Gama a ri-salire verso il Nord, per sbarcare a Mozambico, poi aMombasa, poi in India, e alla fine a ritornare nel Cor-no d’Africa, nel favoloso regno del Prete Gianni.

Il primo saccheggio, dal 400 all’800:pepe, avorio, schiavi, oro, diamanti

La costa dell’Africa è tutta portoghese; e dalla co-sta i “Sovrani della Terra dei Negri” iniziano a ven-dere i loro uomini, anzi quelli che hanno razziato aivicini (10 schiavi per un cavallo). Si calcola che trail 1450 e il 1900 almeno 10 milioni di schiavi abbia-no varcato l’Atlantico. Dieci milioni in 500 anni: puòsembrare quasi poco; ma razzie, tratta e schiavitùhanno voluto dire, per il popolo dei villaggi, quattrosecoli di paura continua; come l’anticipo dellaguerra continua che spopolerà le campagne nellaseconda metà del 1900. La tratta (20% degli schiavi muore durante il viag-gio) ha un aspetto troppo barbaro per il gusto este-tico dell’uomo bianco e viene messa fuori legge apartire dai primi anni dell’800: prima dagli Stati Uni-ti, poi dall’Olanda, poi dalla Francia, poi dalla GranBretagna, poi dal Portogallo, e via così. Dall’aboli-zione della tratta, passo passo, si arriva all’aboli-zione della schiavitù: l’atto di abolizione più famo-so, quello degli Stati Uniti, viene siglato nel 1865;ma il penultimo passo (l’adesione di 44 Paesi dellaLega delle Nazioni) arriverà solo nel 1926, e l’ultimo(l’adesione dell’Arabia Saudita) nel 1962. In effetti, gli schiavi che non potevano più esseretrasportati per mare in Europa e nelle Americhecontinuavano però ad essere esportati attraversa-vano il Sahara per esser venduti in Arabia a Occi-dente (2 milioni di schiavi nel XIX secolo), e in tuttal’Africa musulmana a Oriente, dal Senegal al Gam-bia fino al lago Ciad (dove gli schiavi avevano finitoper costituire, nei diversi luoghi, dal 25% all’80%dell’intera popolazione). Anche dopo l’abolizionedella tratta, dunque, la schiavitù era rimasta unaenorme piaga endemica nella stessa Africa, chedel commercio degli schiavi non poteva più fare ameno (come noi oggi di quello dell’automobile).Schiavi producono il sale in Sierra Leone, altrischiavi lo trasportano all’interno, dove viene scam-biato con nuovi schiavi che verranno utilizzati nellepiantagioni, o altrimenti commercializzati. Nell’Africa più temperata, alla punta Sud, alla finedel ’600 arrivano altri Europei, i Boeri (contadini) edopo un po’ gli Inglesi. Gli uni e gli altri trovano ineri schiavi già pronti a servirli, e i neri liberi a cuistrappare il terreno, senza nutrire dubbi sul propriodiritto, ma non senza qualche lotta. I contadiniboeri e i proprietari inglesi puntano su una econo-mia di piantagione, che raggiunge, nel Kenya, ilsuo culmine alla fine del 1800, dove gli schiavi, checostituiscono il 40% della popolazione locale, lavo-

rano ormai per i padroni europei (anni e anni dopol’abolizione della schiavitù in Occidente). Ma quan-do, dopo la sconfitta degli Afrikaneer da parte degliInglesi, gli stessi schiavi risalgono con loro nell’O-range e nel Transvaal, dove la scoperta dei dia-manti rende obsoleta l’economia di piantagione (ecosì adesso l’Africa muore ancora di fame). Pepe, avorio, oro, schiavi, poi caffè, e poi diamanti:tutta rapina “di superficie”, quella che si poteva fa-re fino al principio del XIX secolo, e senza allonta-narsi troppo dalla costa. Ma per completare la rapina vera, quella sui tesoriraccolti nel cuore dell’Africa, occorreva entrare nelcuore del continente, e sviluppare nuove tecnolo-gie, e far nascere nuovi bisogni. La mano d’opera aprezzo vile, schiavi oppure operai pagati pochicentesimi a giornata, non fa più nessuna differen-za, ormai non poteva più mancare. Ecco dunque le esplorazioni del XVIII secolo, la ri-salita dei fiumi, il Nilo, il Congo, lo Zambesi, ilGambia, il Niger; ecco la deforestazione del Con-go, la coltivazione della gomma, le miniere di oro,di rame, di stagno. Ed ecco, negli ultimi cin-quant’anni, arrivare la tecnologia e i bisogni che laguerra aveva permesso di sviluppare: e dunque ipozzi di petrolio; l’estrazione dell’uranio, del titanio,del cromo, del vanadio, e infine di un minerale, ilcoltan (columbite + tantalite), necessario a telefoni-ni o in genere all’high tech dove lavorano quasi sol-tanto i bambini, nel fango, per raccoglierli, infelici.

L’ultimo secolo

Nel 1884-’85 gli Stati europei, a Berlino, si dividonoin pezzi più o meno regolari il continente africano.Nessun africano vi viene invitato, nemmeno comeosservatore; ma a tutti i re africani, dopo, viene fat-to firmare un pezzo di carta che sancisce l’appar-tenenza del territorio che era stato suo, a uno o adue di quegli Stati lontani. I confini tagliano la terra,uniscono tribù ed etnie nemiche tra loro, dividonofamiglie umane e famiglie linguistiche. La grandemotivazione di tutto quel discorrere e tagliare è lacivilizzazione: “istruire i nativi e portare nelle lorocase i vantaggi della civiltà”.Nasce una nuova Africa, ma è zoppa già dal mo-mento in cui viene partorita.Dove non basta segnare un confine, arrivano le ar-mi. L’Italia, l’ultima arrivata, è anche l’unica cheviene sconfitta, in Etiopia, da Menelik. Ma altrove“non c’è lotta per l’uomo nero”: è una guerra dovesolo i bianchi combattono. “Whatever happens, wehave got: the Maxim gun, and they have not.” I

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OLTRE LO SPECCHIOcondottieri africani che osano la difesa, e che resi-stono, anche per anni, uno dopo l’altro, vengonocatturati, deportatati, impiccati. I più fortunati ven-gono cacciati in esilio. Il primo grande regalo dell’Europa all’Africa è la pe-ste bovina, la più grande calamità naturale che ab-bia mai colpito il continente africano: e il regalo glie-lo facciamo proprio noi, gli Italiani, nell’infelice spe-dizione contro l’Etiopia del 1889, importando dal-l’India, a Massaua, bestiame infetto. L’epidemiascende dal corno d’Africa al capo di Buona Speran-za alla velocità di 40 km al giorno. Nelle regioni pa-storali dell’Africa scompare il 95% dei capi, e conloro gli uomini. Nel 1891, nell’Africa orientale tede-sca due terzi della popolazione masai erano morti:“donne ridotte a scheletri con la follia della fame ne-gli occhi e guerrieri appena in grado di camminare aquattro zampe… venivano a mendicare cibo ai loroparenti che ne avevano a malapena per loro stessi”. Il terribile squilibrio ecologico tra fauna domesticae fauna selvatica che segue alla peste suina produ-ce una fulminea estensione dell’area della moscatze-tze e rompe l’equilibrio del ciclo del tripanoso-ma: la malattia del sonno, nel 1906, in Uganda, uc-cide 200.000 individui, ossia i 2/3 di quelli che era-no sopravvissuti alla peste suina. Tra le comunitàdenutrite scoppiano epidemie di colera, di tifo, divaiolo. Dal Brasile arriva la pulce penetrante, cheapre piaghe nei piedi e impedisce ai sopravvissutidi lavorare la terra. Nella regione dei Grandi Laghi,dove il vaiolo aveva già ridotto la popolazione a undecimo, i raccolti rimangono nei campi.Alla malattia si aggiungono l’avidità, l’imprepara-zione, la violenza, anzi l’infamia dei “civilizzatori”. In quegli anni la risorsa principale, in Congo, è an-cora l’avorio. Ma nel giro di dieci anni l’avorio con-golese è si esaurito; si decide di coltivare la gom-ma, e si punta su uno sfruttamento intensivo. Si im-pone che ogni uomo valido dei villaggi porti ai centrialmeno 4 kg di gomma essiccata per settimana. Maanche la gomma si esaurisce rapidamente; e dun-que aumenta la pressione sulla popolazione perchéne trovi, sempre più dentro la foresta, sempre piùlontano; e “se il raccolto era scarso i soldati veniva-no nei nostri villaggi e uccidevano: a molti sparava-no, ad altri tagliavano le orecchie, altri li legavano eli portavano via”. Un missionario descrive come isoldati tagliavano le mani alle persone uccise: “que-ste mani, mani di uomini, donne e bambini, veniva-no messe in fila davanti al funzionario, che le conta-

va per verificareche i soldati nonavessero sprecatomunizioni”. Ma an-che i vivi, se nonportano abbastan-za gomma, per pu-nizione, vengonomutilati allo stessomodo e portano ingiro i loro monche-rini. In dieci anni,dal 1900 al 1911, lapopolazione delCongo scende da20 milioni a 8,5 mi-lioni. Ma non è solo un

affare del Congo, né solo dei Belgi: Francesi, Tede-schi, Inglesi, Portoghesi ci mettono, dove si trova-no, il peggio che trovano in se stessi. Nel 1915 scoppia la grande guerra. Più di un milio-ne di Africani vengono arruolati, e molti ne muoio-no sui fronti europei.

La danza della libertà

Il resto della storia è vicino a noi: i più vecchi di noilo hanno vissuto attraverso i giornali, attraverso lestorie di Karen Blixen, di Doris Lessing, di NadineGordimer. Quella che sarebbe stata l’élite politica del conti-nente, ispirata dai venti di sinistra che ci soffiavanosopra, si è formata in Europa in quegli anni tra ledue guerre: Jomo Kenyatta, Patrice Lumumba,Séku Turé, Mobutu, Kwame Nkrumah. Ma l’élitepolitica veniva inevitabilmente da un’élite economi-ca; e quello che sentivano i leader non era esatta-mente quello che sentiva il loro popolo, e anzi i lea-der non conoscevano il loro popolo né viceversa.Anche da questo nasceranno il disordine, il piantoe il sangue che bagnerà l’Africa dalla fine dellaguerra ad oggi.In quegli anni l’Italia esporta in Etiopia, ultima steri-le conquista prima di essere definitivamente espul-sa dall’Africa, la prepotenza fascista e il suo biso-gno di essere eguale agli altri, di sembrare quelloche non è, e anche di esprimere il peggio di sestessa. Finisce la guerra, e non c’è più spazio ideologico,non c’è più giustificazione al colonialismo, né ca-pacità di conservarlo. Il Sud-Africa aveva già avutol’indipendenza nel 1910. Contro gli Stati che resistono alla de-colonizzazio-ne, resistono anche le popolazioni indigene: ed ec-co le rivolte e le guerre di liberazione, quella deimau-mau nel Kenya, quelle dei fronti di liberazionein Angola e in Mozambico, quella contro l’apartheidnel Sud-Africa, quella della battaglia di Algeri. Fattosta che in un modo o nell’altro, oggi, tutti gli Statidell’Africa sono indipendenti.Ma liberi? Quanto liberi? Nel 1989 soltanto settedei quarantacinque stati dell’Africa Subsaharianahanno almeno un simulacro di democrazia: altrove,regimi militari o “presidenti a vita”.

Gli aiuti economici

Si tratta di 2300 miliardi di dollari, spesi durantecinquant’anni, nella generosa idea di togliere l’Afri-ca dalla “trappola della povertà” in cui era caduta.A questa crociata hanno contribuito, con modalitàdiverse e a volte anche opposte, quasi mai coordi-nate: il Fondo Monetario Internazionale (FMI), laBanca Mondiale (MB), l’United Kingdom’s Departe-ment for International Development (USAID), laAfrikan Development Bank (ADB), l’United NationDevelopmental Program (UNDP), la World HealthOrganization (WHO), la Food and Agriculture Orga-nization (FAO), la United Nations Children’s Fund(UNICEF) eccetera. È servito questo sforzo? Certo ha prodotto moltomeno di quanto ci si aspettasse. Il PIL dei Paesi afri-cani è rimasto quello che era, o è cresciuto col ritmo

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OLTRE LO SPECCHIOa cui stava cre-scendo, Statoper Stato; e iPaesi più benefi-ciati non si sonosviluppati né piùné meno deiPaesi meno be-neficiati. I tra-guardi (comin-ciando da quellodi Alma Ata:“Salute per tuttinell’anno 2000”)sono stati rego-larmente manca-ti e spostati ognivolta più in là. I motivi di que-

sto, almeno parziale, fallimento? Almeno tre: il fattoche i programmi non nascono nel territorio, “sui bi-sogni”, ma sui tavoli dei funzionari; il fatto che i fi-nanziamenti non arrivano dove devono arrivare, allagente in bisogno, alle imprese familiari, ai luoghi dicura, ma ai centri, anzi agli uomini di potere; il fattoche gli aiuti finanziari arricchiscono prima di tutto chili fa, i finanziatori (interessi sul debito, impegni di la-voro).Così, per ciò che riguarda il primo punto, WilliamEasterly, un critico della politica degli aiuti, ha po-tuto scrivere che “l’Occidente ha speso 2300 mi-liardi di dollari senza riuscire a fornire ai bambiniafricani medicine da 20 centesimi di dollaro cheavrebbero dimezzato le morti per malaria, senzariuscire a fornire alle famiglie povere zanzariere da 4dollari, senza riuscire a dare a ogni gestante tredollari per prevenire cinque milioni di decessi neo-natali”. Ma forse sono critiche superficiali.Meno superficiale sembra la critica al secondopunto: si tratta del corrispettivo della “maledizionedelle risorse naturali”: il petrolio è famoso per inde-bolire o impedire la democrazia; le entrate che nederivano sono troppo facili da ridistribuire, ma solose non c’è una democrazia. I Paesi produttori di petrolio, nel mondo, si colloca-no nell’ultimo quartile della graduatoria di demo-craticità; e in effetti in Africa c’è una correlazioneinversa tra ricchezze naturali e democrazia: Algeria,Camerun, Libia, Gabon, Angola, ricchi di risorsenaturali e retti da dittatori; Benin, Madagascar, Ma-li, poveri e sufficientemente democratici. Così co-me c’è la maledizione delle risorse naturali c’è an-che la maledizione degli aiuti: la grande maggio-ranza di questi arricchisce innanzi tutto i membridell’apparato politico. Stephen Knack, della BancaMondiale, ha potuto provare che gli aiuti più ingentipeggiorano la qualità degli apparati burocratici eaumentano la corruzione: i donatori corrompono igoverni. Il terzo punto ha a che fare sia con la forma dei fi-nanziamenti (il finanziamento come prestito, i cui in-teressi in Africa hanno finito per assumere un pesoinsopportabile, e quasi sempre impossibile da paga-re), le condizioni del finanziamento (di cui molta par-te ritorna al Paese finanziatore, sotto forma di retri-buzione per il lavoro o il prodotto fornito), e con lespese per il finanziamento (cioè per il mantenimentodegli stipendi e delle spese degli enti preposti).

Gli aiuti sanitari

Nella dichiarazione di Alma Ata (1978: “Salute pertutti nell’anno 2000”) si definiva inaccettabile qua-lunque diseguaglianza tra Stati nelle risorse desti-nate alla salute, si considerava dovere di ogni Sta-to la cooperazione a una strategia globale di salu-te, e si prevedeva che entro il 2000 la nutrizione,l’acqua sicura, l’immunizzazione per le principalimalattie, la disponibilità dei farmaci essenziali, lacura alle persone, la salute materno-infantileavrebbero potuto essere a disposizione di tutti.Ma 17 anni dopo, nel 1995, né i tassi di mortalitàmaterna né quelli di mortalità sotto i 5 anni, néquelli della malnutrizione erano significativamenteridotti. Nella conferenza successiva, chiamata Mil-lennium Declaration, sono stati individuati dei tra-guardi più modesti, ma meglio definiti, da raggiun-gere entro il 2015: controllo delle principali malat-tie del bambino; riduzione a metà della malnutri-zione; riduzione a 1/3 della mortalità < 5 anni; ri-duzione a metà della mortalità materna; disponibi-lità di acqua sicura; pianificazione familiare pertutti; educazione di base per tutti i bambini. Nel2005, vista la persistente lontananza dei traguardida raggiungere, si è chiesto agli Stati del G8 unosforzo maggiore: 50 miliardi di dollari entro il2015. Ma solo UK e Giappone sono stati sinora aipatti, Canada e USA hanno aumentato insufficien-temente il loro contributo, Francia e Germania nonlo hanno aumentato affatto, e l’Italia, che già con-tribuiva per molto meno dell’impegno, ha ridotto ilsuo contributo. E i risultati, ad oggi? Sono morti,negli ultimi 2 anni, 21 milioni di bambini (tantiquanti ce ne sono in tutti i Paesi del G8, escluden-do Russia e USA). Dei 60 Paesi che tengono altala mortalità pediatrica, solo 7 sono “on track”,cioè sulla buona strada; 39 sono così-così, e ri-chiedono una implementazione dell’attenzione edello sforzo (“watch and act”: diamoci da fare esperiamo bene) e 15 sono quasi senza speranza erichiedono una “high alert”.

Dunque, non c’è niente da fare?

Poco, non niente. A vederla da dentro, e malgradotutto, l’Africa si muove; e anche, forse, a vederla dafuori. Come abbiamo appena visto, un miglioramen-to, sia pure insufficiente, dei parametri di salute si èregistrato in più della metà degli Stati. Inoltre, se-condo il rapporto della Banca Mondiale, il trend dicrescita del PIL, nel 2007 (non ho dati successivi), èstraordinariamente aumentato nella maggioranza

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OLTRE LO SPECCHIOdegli Stati, con valori su-periori al 5% in Mali, An-gola, Bostwana, Mozambi-co, Tanzania, Ciad, Ugan-da, Burkina Faso, e convalori superiori al 3% intutti gli altri (eccetto che inGuinea Bissau, Gabon,Congo, Rwanda, Etiopia,Eritrea, Kenya). L’aumentodel PIL non coincide ne-cessariamente con una di-minuzione della povertà,ma è un segnale di un mo-vimento positivo, a dispet-to di tutto.

Perché andare in Africa

Ora potrei cercare di rispondere alla domanda: per-ché un pediatra, un medico, una associazione medi-ca dovrebbero occuparsi dell’Africa, raccogliere aiu-ti per l’Africa, portare la loro opera in Africa? Nonabbiamo forse fatto abbastanza male sinora? Nonpotrebbe essere più ragionevole, e anche più leale,lasciare che l’Africa esca da sola dalla sua trappola?Facciamo la lista dei possibili perché.

• La prima risposta è che comunque l’Africa non re-sta sola: resta con una quantità di profittatori, impre-se, uomini e Stati, da cui non potrà liberarsi, e che letrasmettono, forse, assieme a una speranza di svi-luppo economico, anche ciò che è meno buono del-la nostra civiltà. Lo abbiamo visto. La mia opinione èche la presenza di “volontari” preparati e organizzati(ce ne sono) costituisca un contrappeso necessarioper correggere il male che le forze “interessate” del-l’Occidente possono fare all’Africa.• Per pagare il debito che abbiamo accumulatonella nostra generazione, tutti i Paesi ricchi nei ri-guardi di tutti i Paesi poveri. Bella pretesa: conti-nuare a esportare i nostri valori sotto i quali si na-scondono i nostri disvalori? No, piuttosto per sag-giarli. Non c’è più posto nel mondo che si possachiudere a una civiltà ormai comune. L’Africa, an-cora, è indietro nella storia di questa civiltà, abba-stanza indietro perché molti (circonvenzione d’in-capace), bianchi ma anche neri, possano continua-re a spogliarla di ricchezze e di valori, a tenerlachiusa nella sua trappola di povertà e di dolore. InAfrica, allora, c’è posto per chi voglia remare insenso contrario.• Per sentirsi utili. Difficile sentirsi utili se non si èparte di un piano condiviso. Ma le diverse motiva-zioni e le diverse organizzazioni che vengono inAfrica per “far qualche cosa”, nel loro insieme, pro-ducono, se non un piano, qualcosa che gli somi-glia; una rete assistenziale disomogenea ma soli-dale, con una propria, concreta efficienza: la rete diospedali di missione, gli interventi di Médécinssans Frontières nelle emergenze (guerra, epidemie)e nel lavoro ospedaliero e assistenziale corrente(che non è mai tale), l’attività sui ragazzi di strada

dei Salesiani, l’Ospe-dale di Emergencyper la cardiochirurgia,la Facoltà Medica diGulu, nata a Napoli, illavoro preparatorio e organizzativo diMedici per l’Africa,CUAMM, la scuolamedica del Burkina-Faso nata a Verona.È un intervento “dalbasso”, apparente-mente più efficace,anche se non valuta-bile nel suo insieme,prodotto sul campo,

sui bisogni, assieme alle forze locali, duttile, i cuieffetti ciascun operatore riesce quasi a toccare conmano.• Semplicemente, per aiutare. Siamo medici, il no-stro mestiere è quello di aiutare a vivere e a guarirei malati che incontriamo. Lì, i malati ci sono, moltipiù di qua, malati che muoiono ma che potrebberoguarire, bambini che muoiono e che potrebbero,con poco, non ammalarsi. Lì, per ora, non ci sonoabbastanza medici e abbastanza infermieri. Perl’Africa, siamo ancora merce rara. Lì c’è ancora bi-sogno di noi. Basta non credersi chissà cosa, nonpresumere di possedere tutta la scienza, non pre-sumere che la scienza sia tutto. • Per conoscere. Intanto (anche questo è utile a chiva) per imparare a fare i medici in una situazione di-versa da quella a cui siamo abituati, su una patolo-gia che per noi non è più abituale, imparare a faremeglio con meno, a usare la conoscenza e l’espe-rienza come strumenti principali. Ma anche per un fi-ne più largo di conoscenza: per vivere da dentro unarealtà diversa dalla nostra; la realtà degli ultimi dellaterra; e per muovere qualche passo nel camminodella conoscenza, dell’uomo in generale, del suo de-stino, delle sue qualità e delle sue colpe; e dunqueanche per approfondire la conoscenza di se stesso.• Infine, perché non se ne può fare a meno.

La storia dell’Africa per molti versi è somigliante aquella degli altri continenti dove è arrivato l’uomobianco, dal 1500 in poi: a quella del Centro-Ameri-ca Azteco e Maya; a quella del Sud-America Indio;a quella del Nord-America, Irochese, Mohicano,Sioux, Apache, Seminole, Navajo; a quella dell’Au-stralia degli Aborigeni e della nuova Zelanda deiMaori: sfruttamento brutale dei nativi, cancellazio-ne della loro civiltà, fino alla loro distruzione. Soloche l’Africa è più grande, e a distruggere i 100-200milioni di abitanti che aveva nel 1400 o i 900 milionidi abitanti che ha oggi, non era e non è facile. Così,l’Africa è ancora viva e pulsante; e non vuole mori-re; e non ci lascia; e si impone come problema ditutti, coi suoi abitanti e coi suoi migranti, con le suemiserie e con le sue ricchezze. L’Africa fa parte delnostro futuro. E se l’Africa non ci lascia, e se è unnostro problema, un problema del mondo, nonpossiamo lasciarla neanche noi. Semplicemente.

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