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Titolo originale: De la problématologie. Philosophie, science et langage.

Traduzione di Mario Porro.

* * *

Avvertenza

Il termine question, senza dubbio il termine base dell’opera di Meyer, hain francese il doppio significato di “domanda” e “questione”, nel senso diproblema. L’abbiamo tradotto qui, a seconda degli usi dell’italiano, sia conquestione che con domanda, anche quando il termine non rimanda a unaproposizione interrogativa. Del resto l’uso di domanda come sinonimo diproblema è ormai diffuso nel lessico filosofico, soprattutto post–heidegge-riano. Di conseguenza, il francese questionner (in origine l’interrogare insenso didattico, e per estensione il sottoporre a interrogatorio) è stato resocon “domandare”, più raramente con “interrogare”, mentre il domanderfrancese è stato tradotto con “chiedere”. Per questionnement, termineche si può rintracciare anche in Derrida (si veda Dello spirito. Heidegger ela questione, trad. di G. Zaccaria, Milano 1989), abbiamo preferito sostan-tivare l’infinito del verbo domandare.

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PROBLEMATOLOGIAFILOSOFIA, SCIENZA E LINGUAGGIO

Postfazione diLivio Rossetti

MICHEL MEYER

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I edizione Pratiche Editrice: novembre 1991I edizione Aracne: maggio 2009

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Postfazione

Torno a parlare della Problematologia di Meyer in edi-zione italiana dopo quasi due decenni che, in verità, non so-no passati invano. Da allora, il processo di familiarizzazio-ne con idee connesse ai temi sviluppati da Meyer ha fatto molti passi, e non semplicemente perché Angèle Kremer–Marietti ha dedicato un intero volumetto a Michel Meyer et la problématologie (Bruxelles 2008) e Michel Fabre ha de-dicato un libro recentissimo — Philosophie et pédagogie du problème (Paris 2009) — a delineare «la genèse plurielle du paradigme du problème à travers les philosophies de John Dewey, de Gaston Bachelard, de Gilles Deleuze et de Michel Meyer», o in virtù del notevole flusso di recensioni, segnala-zioni e dibattiti che è seguito all’uscita del volume nel 1986. La cosa può sorprendere, ma il processo di familiarizzazio-ne con quelle idee ha fatto strada soprattutto perché, nel frattempo, la cultura europea (e non solo europea) ha preso confidenza anche con molti altri modi di ricordarsi che la relazione tra problema e soluzione non si riduce alla rela-zione tra bisogno e soddisfacimento del bisogno, tra doman-da e ‘consumo’ di uno o più nuclei conoscitivi.

Ricordo, per cominciare, la facilità di accesso ai motori di ricerca, e anzitutto a Google. La facilità con cui, in tal modo, si accede alle informazioni più diverse ha inizialmen-te alimentato l’emozione di constatare che tante risposte, so-luzioni e informazioni sono proprio a portata di mano, per-ché si richiede soltanto di interrogare — o, tutt’al più, di sa-

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per interrogare — il motore di ricerca. Ma la progressiva familiarizzazione di tutti noi con le insidie che si celano in simili processi ci ha stimolato a notare, sia pure soltanto in seconda battuta, quanto spesso la risposta risponda solo in parte o in minima parte alla domanda, quando non finisce per portarci addirittura in tutt’altra direzione, come se aves-simo formulato una domanda di conoscenza profondamente differente da quella che abbiamo digitato. Ora, quando ciò accade — ed è un fenomeno che interessa ormai molte deci-ne di milioni di persone — noi puntualmente insistiamo, raf-finiamo la domanda, impariamo a districarci con l’obiettivo di ottenere non una qualunque informativa ma precisamente quell’informazione che cercavamo. Così l’approccio consu-mistico al sapere — potremmo dire: il consumismo episte-mico — si rivela non solo corruttore, ma anche dotato di at-titudine ad aprire gli occhi, idoneo quindi a prevenire la peggiore superficialità. Per la verità c’è stato un momento in cui gli insegnanti, non sopportando che i loro allievi pro-ponessero come risultati della ricerca le più scriteriate compilazioni, con disordinati ammassi di informazioni de-sunte dalle fonti più disparate, pensarono bene di rinunciare ad affidare loro delle “ricerche”, ma si è trattato di un mero episodio. Così, ricercare a partire da Google si è rivelata piuttosto un’abilità meritevole di essere sviluppata, magari proprio in classe. Ora questa abilità si configura precisa-mente come un’arte della domanda, il che va inequivocabil-mente nella direzione preconizzata nella Problematologia.

Nel frattempo, come sappiamo, si è affermata anche Wi-kipedia, un altro immenso repertorio di risposte, dunque un altro stimolo poco meno che planetario ad accreditare l’idea di primato della risposta sulla domanda. Ma, di nuo-vo, dati e notizie parlano se prende forma una domanda e se sono congruenti con quella, altrimenti sono come le mille voci di un eccellente vocabolario di tedesco allorché sono in cerca di lumi sul conto di un’espressione in lingua spagnola. Può anche accadere che io cerchi un qualunque pacchetto di

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Postfazione 419

notizie di base su Dante o sulla Cecenia, ma più spesso cer-co una cosa precisa, per cui ad es. vado a frugare dentro la voce di questa enciclopedia digitale alla ricerca di quel par-ticolare dettaglio che mi interessa, lasciando perdere il re-sto. In tal caso, di nuovo, la domanda reclama ancora una volta le sue prerogative con modalità che il Meyer potrebbe solo approvare.

Ma nel frattempo è accaduta anche una cosa molto più specifica: si è progressivamente affermata anche una moda-lità del filosofare che sta mutando in profondità il panorama stesso del “fare filosofia” per il fatto di configurarsi come una pratica largamente asimmetrica rispetto alla filosofia delle università e, qui in Italia, dei licei. Mi riferisco alle molte “pratiche filosofiche” che vanno dalla filosofia con i bambini al caffè filosofico, dalla filosofia portata nelle car-ceri al counseling filosofico. Come è noto, queste nuove mo-dalità del filosofare sono accomunate dalla caratteristica di “fare filosofia” senza propriamente “studiarla”, cosa che in prima battuta può sconcertare, ma che si comprende benis-simo, perché i bambini sono bambini, i detenuti sono detenu-ti, i frequentatori del caffè filosofico hanno un approccio amatoriale, chi si appoggia al consulente filosofi o spesso ha dei problemi e la sua decisione di chiedere aiuto alla fi-losofia non comporta alcun impegno a intraprenderne lo studio. Pertanto non possiamo non prevedere che gli uni e gli altri difficilmente vadano oltre una serie di assaggi no-zionisticamente poveri.

Una filosofia di basso conio, dunque? Una mera chiac-chiera filosofica dalla quale stare alla larga? Direi proprio di no, perché sono in gioco i fini, quindi alcune coordinate, se non l'idea stessa del filosofare. Infatti su un versante ab-biamo la comunità filosofica che sviluppa un sapere e conti-nua a inseguire una particolare idea di filosofia, la filosofia intesa come sapere. Dalla sua ha il conforto di una tradizio-ne millenaria, l'immenso sapere connesso al corpus dei testi filosofici (storia della filosofia, con i due versanti del veni-

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