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Osservare, scoprire, descrivere 2 IL PIACERE DI LEGGERE COLORI, PROFUMI, SAPORI J. Joffo La Terra in tasca p. 25 I. Allende Il sapore di quelle albicocche p. 27 ANIMALI NOSTRI AMICI G. Durrell Una bestiola intelligente p. 29 K. Gallmann Un cucciolo nella savana p. 32 PERSONE SPECIALI C. Chaplin Adoravamo nostra madre p. 36 I. Mc Ewan Vi parlo di Peter Fortune p. 37 Il profumo della realtà Antologia 1

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Osservare, scoprire, descrivere

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IL PIACERE DI LEggERE

COLORI, PROFUMI, SAPORI

J. Joffo La Terra in tasca p. 25

I. Allende Il sapore di quelle albicocche p. 27

ANIMALI NOSTRI AMICI

G. Durrell Una bestiola intelligente p. 29

K. Gallmann Un cucciolo nella savana p. 32

PERSONE SPECIALI

C. Chaplin Adoravamo nostra madre p. 36

I. Mc Ewan Vi parlo di Peter Fortune p. 37

Il profumo della realtà

Antologia 1

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I l p I a c e r e d I l e g g e r e

Il pIacere dI leggere

Antologia 1

Nel gioco la sconfitta, specie se accompagnata dalla perdita di un oggetto caro o dall’infrangersi di un sogno, può procurarci dolore e sconforto.

Joseph Joffo

1.  ordinaria:comune, di scarsa qualità.

2.  agate:biglie di agata, una pietra dura molto variopinta.

3.  lecito: consentito; qui significa «normale».

2. Il profumo della realtà Colori, profumi, sapori

Faccio rotolare la biglia tra le dita, in fondo alla tasca.È la mia preferita, l’ho sempre con me. E lo strano è che si

tratta della più ordinaria1 di tutte: niente a che vedere con le agate2 o con quelle grosse di piombo che ammiro nella vetrina di papà Ruben, all’angolo della rue Ramey; è una biglia di ter-racotta con la vernice scheggiata che crea sulla sua superficie delle asperità, dei disegni, come il mappamondo che abbiamo in classe, in piccolo.Mi piace, è bello avere la Terra in tasca, ben in fondo, con le mon-tagne, i mari e tutto.Sono un gigante e porto su di me tutti i pianeti.– E allora, accidenti, ti decidi?Maurice aspetta, seduto sul marciapiede proprio davanti alla salumeria. Come sempre ha i calzini a fisarmonica, come dice papà.Tra le sue gambe c’è il mucchietto di quattro biglie: una in cima alle altre tre disposte a triangolo.Sulla soglia della porta, Mémé Epstein ci guarda. È una vecchia bulgara tutta grinzosa, ha più rughe di quanto sia lecito3.Sta lì ogni giorno e sorride ai bambini che se ne tornano da

La Terra in tasca

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scuola. Mio fratello, vedendomi incerto, passa le mani sulla tela logora4 del suo grembiule nero.– Dio mio, cosa aspetti?Certo che esito! È furbo, Maurice, ho già tirato set-te volte e ho sempre mancato. Con quel che si è incamerato5, gli sono venute le tasche come due palloni. Riesce a stento a camminare, gronda biglie e a me resta solo l’ultima, la preferita.Maurice protesta:– Non voglio mica restare con il sedere per ter-ra fino a domani…Mi decido.Nel cavo della mia mano, la biglia tremola. Tiro con gli occhi ben aperti. Di lato.Ecco fatto, non c’è stato miracolo. Adesso bisogna tornare a casa.La salumeria Goldenberg ha uno strano aspetto, sembra in un acquario, le facciate della rue Marcadet ondeggiano.Giro la testa a sinistra, perché Maurice è alla mia destra e così non mi vede piangere.– Smettila di frignare6 – dice Maurice.– Non frigno mica.– Quando guardi dall’altra parte so che frigni.Un colpo con la manica del grembiule e ho le guance asciutte. Non rispondo e accelero. Ci sgrideranno: dovremmo essere a casa già da mezz’ora.Arriviamo: laggiù, in rue de Clignancourt, c’è la bottega con le lettere dipinte sulla facciata, grandi e larghe, scritte in bella cal-ligrafia come quelle che traccia la maestra di prima, con i gros-si e i fini:«Joffo - Parrucchiere».Maurice mi dà una gomitata.– Prendi, sciocco.Lo guardo e prendo la biglia che mi restituisce.Un fratello è uno a cui si rende l’ultima biglia che gli si è appe-na vinta.Recupero il mio pianeta in miniatura; domani, nel cortile di scuola, grazie a questa ne vincerò un mucchio e gli porterò via le sue. Mica deve credere che bastino quei dannati ventiquattro mesi in più a dargli il diritto di dettar legge. Dopo tutto, io ho dieci anni.

J. Joffo, Un sacchetto di biglie, Sansoni

4.  logora: consumata.

5.  incamerato: guadagnato.

6.  frignare: piagnucolare.

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I l p I a c e r e d I l e g g e r e

Il pIacere dI leggere

Antologia 1

Isabel Allende

1.  Santiago:la capitale del Cile.

2.  volta: copertura.

Povertà e ricchezza, pazzia e salute mentale, generosità e avarizia sono concetti che troverai in parte rovesciati in questo brano, che ci insegna ad affrontare la vita con gioia e disponibilità, anche nelle difficoltà.

Zio Ramón ebbe un’influenza fondamentale su molti aspetti del mio carattere. Aveva una Ford sconquassata che divide-

va a metà con un amico; lui la usava lunedì, mercoledì, venerdì e una domenica sì e una no, e l’altro la usava per il resto del tem-po. Una di quelle domeniche che aveva la macchina portò me, i miei fratelli e mia madre all’Open Door, un luogo nei dintorni di Santiago1 dove ricoveravano i pazzi mansueti. Conosceva bene quei paraggi perché in gioventù vi passava le vacanze invitato da parenti che amministravano i terreni agricoli del manicomio. Entrammo sobbalzando su un viale di terra battuta fiancheggia-to da grandi banani che formavano una volta2 verde sopra le no-stre teste. Da un lato c’erano i pascoli per il bestiame e dall’altro gli edifici circondati da un frutteto, in cui vagavano alcuni de-menti pacifici vestiti con camici scoloriti, che ci accolsero corren-do accanto all’auto e sporgendo facce e mani dentro i finestri-ni con grida di benvenuto. Ci stringemmo sul sedile spaventati mentre zio Ramón li salutava per nome: alcuni erano lì da mol-ti anni e nelle estati della sua gioventù giocava con loro. Per un

Il sapore di quelle albicocche

2. Il profumo della realtà Colori, profumi, sapori

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prezzo ragionevole convinse il custode a lasciarci entrare nel frutteto.– Scendete, bambini, i pazzi sono brava gente – or-dinò. – Potete salire sugli alberi, mangiare tutto quello che volete e riempire questa borsa. Sia-mo immensamente ricchi.Non so come riuscì a far sì che i ricoverati ci aiutassero. Presto ci passò ogni paura e finim-mo tutti arrampicati sugli alberi a divorare al-bicocche, sbavando sugo, strappandole a mana-te dai rami per metterle nella borsa. Le assag-giavamo con un morso e se non ci sembravano abbastanza dolci le buttavamo e ne prendevamo al-tre, ci lanciavamo le albicocche mature che ci scop-piavano addosso in una vera orgia3 di frutta e di risa-te. Mangiammo a sazietà e, dopo esserci congedati dai de-menti con baci e abbracci, prendemmo la via del ritorno sulla vecchia Ford con la borsona stracolma, da cui continuammo ad attingere finché non ci vinsero i dolori di pancia. Quel giorno ebbi coscienza per la prima volta che la vita può essere genero-sa. Non avrei mai avuto un’esperienza simile con mio nonno o con un altro membro della mia famiglia, che consideravano la penuria4 una benedizione e l’avarizia una virtù. Di tanto in tan-to il Tata5 si presentava con un vassoio di paste, sempre conta-te, una a testa, nulla mancava e nulla avanzava; il denaro era sacro e a noi bambini insegnavano presto quanto costava gua-dagnarlo. Mio nonno era ricco, ma non lo sospettai che molto tempo dopo. Zio Ramón era povero come un topo di sacrestia e neanche di questo mi accorsi allora, perché fece in modo di

insegnarci a godere del poco che ave-va. Nei momenti più duri della

mia vita, quando mi sem-brava che si chiudessero

tutte le porte, il sapore di quelle albicocche mi tornava in boc-ca per consolarmi con l’idea che l’ab-bondanza è a porta-ta di mano, se la si

sa cercare.

I. Allende, Paula,

Feltrinelli

3.  orgia: stravizio rumoroso, bagordo; in questo caso «grande abbondanza».

4.  penuria: povertà.

5.  il Tata: il nonno dell’autrice.

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Il pIacere dI leggere

Antologia 1

Gerald DurrellUn animaletto piccolo e da molti considerato insignificante conquista il suo spazio in una famiglia e ne diventa il beniamino, come ricorda l’autore con divertito rimpianto.

animali nostri amiCi

1.  zufolo: strumento a fiato simile nella forma al flauto.

2.  tetra: malinconica, triste.

3.  ambra: color giallo intenso.

4.  transazioni commerciali: operazioni di compra vendita.

5.  Roger:il cane del protagonista.

2. Il profumo della realtà

Una bestiola intelligente

Si cacciò lo zufolo1 nella tasca rigonfia, mi fissò con aria pen-sierosa e poi si tolse di spalla un piccolo sacco, lo aprì e, con

mia grande gioia e meraviglia, rovesciò sulla strada polverosa sei o sette tartarughe. I loro gusci erano stati lustrati con l’olio sino a farli splendere, e in un modo o nell’altro lui era riuscito a decorare le loro zampe anteriori con dei piccoli fiocchi rossi. Con gesto lento e grave esse sporsero la testa e le zampe dai loro gu-sci luccicanti e si misero a zampettare sulla strada, con aria te-tra2 e senza entusiasmo. Io le fissavo affascinato; quella che mi colpiva più di tutte era piccolissima, con un guscio grande sup-pergiù come una tazza da tè. Sembrava più vivace delle altre, e il suo guscio era di un colore più pallido – marrone castagna, zucchero bruciato e ambra3. I suoi occhi erano vispi e il suo pas-so agile quanto può esserlo il passo di una tartaruga. Rimasi a contemplarla per un pezzo. Mi persuasi che in casa tutti avrebbe-ro salutato il suo arrivo con irrefrenabile entusiasmo, forse per-fino congratulandosi con me perché ero riuscito a trovare un esemplare così elegante.Domandai all’uomo quanto costasse la tartarughina. Lui alzò tutt’e due le mani con le dita aperte. Ma io non avevo assistito in-vano alle transazioni commerciali4 dei contadini. Scossi la testa con fermezza e alzai due dita, imitando inconsciamente l’uomo. Lui chiuse gli occhi scandalizzato alla sola idea di quella cifra, e alzò nove dita; io ne alzai tre; lui scos-se la testa, e dopo averci pensato un poco alzò sei dita; io, a mia volta, scossi la te-sta e ne alzai cinque. L’uomo scosse la te-sta e diede un gran sospiro di rammari-co, e poi ce ne restammo seduti in silen-zio a fissare le tartarughe che zampetta-vano pesanti e incerte sulla strada. Poco dopo l’uomo indicò la tartarughina e alzò di nuovo sei dita. Io scossi la testa e ne alzai cinque. Roger5 fece un rumoroso sbadiglio; era profondamente annoiato di quel muto mercanteggiare. L’uomo rac-

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colse la bestiolina e mi mostrò a gesti com’era levigato e incan-tevole il suo guscio, e com’era dritta la sua testa e aguzze le sue unghie. Io rimasi incrollabile. Lui si strinse nelle spalle, mi por-se la tartaruga e alzò cinque dita.Allora gli dissi che non avevo denaro e che sarebbe dovuto ve-nire l’indomani alla villa, e lui annuì come se fosse la cosa più naturale della terra. Ero così contento di avere quella nuova be-stiolina che non vedevo l’ora di tornare a casa per mostrarla a tutti, così lo salutai ringraziandolo e mi affrettai lungo la stra-da. Quando raggiunsi il punto dal quale dovevo tagliare per gli uliveti, mi fermai a esaminare attentamente il mio acquisto. Era senza dubbio la più bella tartaruga che avessi mai visto, e secon-do me valeva almeno il doppio di quanto l’avevo pagata. Le diedi qualche pacca sulla testolina scagliosa e me la misi in tasca con grande cura.Il nuovo arrivato fu formalmente battezzato Achille, e si rivelò una bestiola intelligentissima, simpatica e dotata di un partico-lare senso umoristico. A tutta prima6 lo tenemmo in giardino legato per una zampa, ma quando cominciò ad addomesticarsi lo lasciammo andare dove gli pareva. Imparò prestissimo il suo nome, e bastava che lo chiamassimo una o due volte e poi aves-simo la pazienza di aspettare un poco ed eccolo che arrivava, avanzando in punta di piedi lungo gli stretti sentieri di ciottoli, con la testa e il collo avidamente protesi. Gli piaceva farsi imboc-care, e se ne stava regalmente acquattato7 al sole mentre noi gli portavamo pezzetti di lattuga, bocche di leone8 o chicchi d’uva.L’uva gli piaceva quanto piaceva a Roger, quindi tra loro c’era sempre una grande rivalità. Achille stava lì acquattato biasci-cando l’uva9, con il succo che gli colava giù per il collo, e Roger gli si sdraiava accanto, fissandolo con occhi straziati e la boc-ca sbavante. Roger aveva sempre la parte d’uva che gli spetta-va, eppure aveva l’aria di pensare che offrire quelle leccornie a una tartaruga fosse uno spreco. Finito il festino, se non ci sta-vo attento, Roger si avvicinava furtivamente ad Achille e gli lec-cava vigorosamente tutta la faccia per raccogliere con la lingua il succo d’uva che lui si era gocciolato addosso. Achille, offeso da quelle confidenze, tentava di mordere il naso di Roger, e poi, quando le leccate diventavano troppo aggressive e bagnaticce, si ritirava nel suo guscio ansimando sdegnato, e rifiutava di uscir-ne finché non avevamo allontanato Roger.Ma i frutti che ad Achille piacevano di più erano le fragole sel-vatiche. Gli bastava soltanto vederle per diventare pazzo: si muo-veva di qua e di là, sporgeva la testa per vedere se gliene davate qualcuna e vi fissava implorante con quei suoi occhietti che pa-revano bottoncini. Le fragole molto piccole riusciva a divorarle

6.  A tutta prima:dapprima, inizialmente.

7.  acquattato: accovacciato.

8.  bocche di leone:piante ornamentali.

9.  biascicando l’uva: tenendo l’uva in bocca per lungo tempo senza masticarla.

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10.  dianti: genere di piante a cui appartengono i garofani.

11.  estatica felicità:felicità assoluta.

12.  un punto della tua anatomia: un punto del corpo.

13.  confitte: conficcate.

in un sol boccone, perché non erano più grandi di un pisello. Ma se gliene davate una grossa, diciamo come una nocciola, si com-portava in modo del tutto insolito per una tartaruga. Afferrava il frutto, e tenendolo ben stretto nella bocca arrancava a tutta ve-locità finché non raggiungeva un punto sicuro e ben nascosto tra le aiole; là lo posava al suolo e se lo mangiava con comodo, per poi tornare a chiederne un altro quando aveva finito quello.Oltre alla passione per le fragole, in Achille divenne sempre più forte la grande passione per la compagnia umana. Bastava che qualcuno andasse in giardino a prendere il sole, o a leggere, o a fare qualsiasi altra cosa, e subito si sentiva un fruscìo tra i dianti10 e la faccia seria e rugosa di Achille si affacciava tra le foglie. Se stavi seduto in poltrona, si contentava di avvicinarsi quanto più possibile ai tuoi piedi e là cadeva in un sonno tran-quillo e profondo, con la testa pendula dal guscio, il naso posa-to sul terreno. Se però stavi sdraiato su una stuoia a prendere il sole, Achille era convinto che ti fossi disteso semplicemente per farlo divertire. Veniva barcolloni lungo il sentiero e montava sul-la stuoia con un’espressione di estatica felicità11 sulla faccia. Si fermava, ti studiava attentamente, e poi sceglieva un punto della tua anatomia12 sul quale far pratica di alpinismo. Trovarsi tutt’a un tratto confitte13 nella coscia le unghie aguzze di una tarta-ruga testarda che tenta di issarsi per raggiungere il tuo stoma-co non è uno svago distensivo. Se te lo scollavi di dosso e porta-vi la stuoia altrove, era soltanto una tregua momentanea, perché Achille girava arcigno per tutto il giardino finché non ti aveva ritrovato. Quest’abitudine divenne così seccante che, dopo molte lamentele e minacce di tutta la famiglia, dovetti rinchiuderlo tut-te le volte che andavamo a prendere il sole.Poi un giorno che il cancello era rimasto aperto, Achille non si trovava più in nessun posto. Organizzammo immediatamente le ricerche e i miei familiari, che sino allora non avevano fatto al-tro che minacciare senza mezzi termini di uccidere quel povero rettile, presero a girovagare per gli uliveti gridando: «Achille… le fragole, Achille… Achille… le fragole…». Infine lo trovammo. Andandosene in giro con la sua solita aria noncurante, era ca-duto in un pozzo in disuso, la cui imboccatura era coperta dalle felci dopo che il muricciolo era crollato da un pezzo. Con nostro grande rammarico, era proprio morto. Non servirono a niente nemmeno i tentativi di respirazione artificiale fatti da Leslie, né il consiglio di Margo di cacciargli in gola delle fragole (per dar-gli, come spiegò lei, una ragione per vivere). Così, con solenne tristezza, il suo corpo fu seppellito nel giardino, sotto una picco-la pianta di fragole (suggerimento di mamma).

G. Durrell, La mia famiglia e altri animali, Adelphi

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Il pIacere dI leggere

Antologia 1

Kuki GallmannUn cucciolo nella savanaL’incontro con un cucciolo di animale raro suscita una grande emozione nell’autrice di questo brano.

È spesso difficile, in Africa, sorprendere animali allo scoper-to, perché la folta vegetazione lussureggiante provvede a

creare una miriade1 di nascondigli, e le creature selvatiche, al-larmate dal rumore della tua auto che si avvicina, dallo spezzar-si di un ramoscello sotto i tuoi piedi goffi o da una zaffata2 del tuo odore portato dal mutare del vento, possono tuffarsi nella boscaglia e sparire immediatamente.Così, spesso, mi è capitato di cogliere con la coda dell’occhio un movimento furtivo a una svolta di un sentiero, la forma di una coda o di orecchie che si rizzavano nell’erba alta, e un’ombra è sfilata più in fretta di quanto la mia mente non potesse afferrar-la, lasciandomi solo l’impressione del passaggio di qualche elusi-va3 esistenza che stimolava la mia immaginazione.Eppure, se mi fossi fermata a cercare, osservando la polvere o il fango secco della boscaglia, avrei trovato l’inconfondibile im-pronta di un grande zoccolo o di una zampa, come una firma la-sciata senza volere da piedi in fuga.La coincidenza di attraversare un sentiero contemporaneamente a un animale raro e timido, e di vederlo per un attimo bloccato nella luce dei fari, o immobile nel sole prima che la notte o l’erba della savana4 lo inghiottiscano, non smetterà mai di stupirmi. Qualche secondo dopo – o prima – e la scena sarebbe stata per sempre perduta.Posso ricordare innumerevoli episodi, ma il più straordinario di tutti forse fu uno sbalorditivo incontro di cui furono testimoni con la stessa meraviglia quattro paia di occhi, e che, per il suo perfetto tempismo, si tramutò nel salvataggio imprevisto di un rarissimo piccolo essere terrorizzato.Un mattino di luglio a Laikipia5, quando Sveva6 aveva circa cin-que anni, la portai in automobile a prendere il suo amichetto An-drew.L’aria era immobile e calda, e il cielo color piombo incombeva, come avviene nella stagione delle piogge, quando il vento degli altipiani per un poco smette di soffiare e l’unico movimento è il tremulo volo di milioni di farfalle bianche, che migrano verso l’Ovest in interminabili nuvole di ali palpitanti7. […]

animali nostri amiCi2. Il profumo della realtà

1.  miriade: grande quantità.

2.  zaffata: ondata improvvisa di un odore intenso.

3.  elusiva: sfuggente.

4.  savana: ambiente delle zone tropicali, la cui vegetazione è costituita da piante erbacee, arbusti e qua e là grandi alberi.

5.  Laikipia: regione pianeggiante del Kenia, in Africa: è lì che l’autrice del brano, insieme con la sua famiglia, si stabilì nel 1972, all’interno di un grande ranch.

6.  Sveva: la figlia dell’autrice.

7.  interminabili nuvole di ali palpitanti: le farfalle sono così numerose da dare origine a vere e proprie nuvole formate da milioni di ali che battono con un ritmo frequente e più forte del normale.

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La mia automobile slittava nella melma fresca; i ciuffi di erba nuova che crescevano ai lati della strada erano di un verde sme-raldo, e mazzi di fiori spumosi coprivano i cespugli di carissa8 mescolando il loro profumo intensissimo di gelsomino con quel-lo dolce e tiepido delle acacie in fiore. La polvere rossa che aveva reso opache le foglie come una ruggine attaccaticcia era scom-parsa, lasciando lucenti fili d’erba e lustri boccioli.Mentre i bambini chiacchieravano nel sedile posteriore, guida-vo lentamente, concentrandomi sulla bellezza ed esuberanza del lussureggiante paesaggio africano.Avvenne così d’improvviso, così inaspettatamente: un qualcosa di piccolo e grigio che si lanciava attraverso la strada, quasi cor-rendo a testa bassa contro la macchina.Un cucciolo di rinoceronte, non più alto di un cane, che si tuffa-va correndo a perdifiato davanti a me con velocità inaspettata.Solo.I suoi occhi erano fissi sul sentiero davanti a lui, ma nel perce-pire la presenza della mia macchina si girarono verso di essa, e per una frazione di secondo vi potei leggere, con grande sorpre-sa, uno sguardo di puro terrore. Per una qualche ragione il cuc-ciolo di rinoceronte era spaventato a morte, e realizzai che stava correndo per salvarsi la vita.Era passato a pochi centimetri dal mio paraurti e in un attimo era sparito. Frenai di colpo, e la macchina si fermò slittando; nello stesso istante un’altra macchina, che veniva dalla direzione opposta, si fermò di fronte a me. Negli occhi dell’autista, Karan-ja, lessi il mio stesso sbalordimento. Ci guardammo, e io saltai fuori dalla macchina per vedere.Nel mezzo della strada, piantato lì dov’era, c’era il più piccolo rinoceronte che avessi mai visto. La sua pel-le era soffice e liscia come un giocattolo di gomma; sul naso, solo una protuberanza9 in-significante segnava il punto in cui il suo corno sarebbe spunta-to un giorno. I suoi oc-chi erano minuscoli, da porcellino, e si concen-travano su di me, anzi, sulla mia automobile. Assurdamente, ma sen-za alcun dubbio, vi colsi

8.  carissa: arbusto spinoso, con fiori bianchi, frutti a bacca spesso mangerecci.

9.  protube ranza: sporgenza.

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un riflesso della mia medesima sorpresa, che cancellò quella che era stata la sua espressione solo un momento prima: un incon-fondibile, cieco terrore. E poi un’innegabile espressione di sollie-vo, quasi di gioia, sopravvenne curiosamente nei suoi occhiet-ti da maialetto, come se mi riconoscesse e, in qualche assurdo modo, questo incontro lo confortasse.Un attimo, e inaspettatamente cominciò a correre verso di noi, mirando verso la portiera aperta della macchina.Non mi mossi, ma presto un cambio nella direzione del vento portò alle sue narici sensibili il mio odore, e odore umano signi-fica pericolo.Sorpreso, con l’aria di essere stato tradito, il rinoceronte si fer-mò di colpo. La sua testa si abbassò; un grugnito sbuffò dalle microscopiche narici, e caricò. Prima che me ne rendessi conto, aveva colpito col suo corno in embrione10 il mio parafango.Era così buffo che scoppiai in una risata, e altrettanto fecero i bambini, le cui facce sbalordite, con la bocca spalancata dalla meraviglia, potevo vedere appiccicate al vetro posteriore.Quel suono sorprese il rinoceronte, e in un unico movimento girò sui talloni, sbandò di colpo, e trottò via più veloce che mai.Solo la boscaglia rimase, e la strada vuota, dove la lieve nuvola di polvere presto si depositò.Mi girai verso Karanja per commentare l’avvenimento: la sua bocca era aperta, gli occhi allargati incredulamente, ma c’era di più. Lui guidava una jeep molto più alta della mia automobile, e il suo raggio visivo era molto più largo. Poteva vedere quello che io non potevo.La sua mano grassoccia si alzò gesticolando eccitata, e indicò un punto al lato della strada che non riuscivo a vedere. Notai che faceva fatica a trovare la voce.

10.  in embrione: non ancora sviluppato, allo stadio iniziale della crescita.

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«Simba!» mi gridò alla fine. «Iko simba uko nafuata hio mutoto ya faru!» («Un leone! C’è un leone là che sta seguendo quel picco-lo di rinoceronte!»).Questo spiegava il terrore forsennato.Mi voltai e mi arrampicai sul paraurti e, senza alcun dubbio, tra l’erba alta e i bassi cespugli di carissa, potei distinguere la sago-ma giallastra di un animale in agguato. Un istante e sparì, la-sciando le tracce dei suoi artigli impresse nella polvere indurita.Anche il rinoceronte era scomparso. La sua ora non era anco-ra scoccata. La nostra presenza sulla strada in quel preciso mo-mento, per qualche arcano disegno del fato11, gli aveva salvato la vita, appena in tempo.Mi chiesi quanto a lungo era durata la caccia. Dov’era sua ma-dre? Karanja aveva la risposta: «Ni ile mutoto ya faru… Ile naba-ki tangu mama yake aliuliwa na janghili» («È il cucciolo di rino-ceronte la cui madre è stata uccisa dai bracconieri12»).

Perché si era precipitato verso di me? Vi pensai per settimane, e chiesi una spiegazione a tutti gli esperti di comportamento ani-male che trovai.Di certo non poteva essere corso verso di me per farsi protegge-re. Era un rinoceronte selvatico, che non era abituato agli esse-ri umani. Ma guidavo una Subaru13 bassa, color crema, impia-stricciata di fango. La sua forma, la sua dimensione e il suo co-lore gli erano familiari.La mia automobile era l’oggetto più simile a sua madre che il cucciolo di rinoceronte avesse mai visto.

K. Gallmann, Notti africane, Mondadori

11.  arcano disegno del fato: misterioso disegno del destino, misteriosa fatalità.

12.  bracconieri: cacciatori di frodo, cioè coloro che cacciano senza licenza, in tempi, luoghi o con mezzi proibiti.

13.  Subaru: marca au to mo­bilistica.

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Il pIacere dI leggere

Antologia 1

Charlie ChaplinAdoravamo nostra madre

Sono nato il 16 aprile 1889, alle otto di sera, in East Lane, Walworth. Stando a mia madre, il mio fu un mondo felice. Le

nostre condizioni erano relativamente agiate; abitavamo in tre stanze arredate con gusto. Ecco uno dei miei primi ricordi: ogni sera, prima che mia madre andasse a teatro, Sydney e io veniva-mo messi a letto, tra coperte amorevolmente rimboccate, e affi-dati alle cure della cameriera. Nel mio mondo di tre anni e mez-zo tutto era possibile; se Sydney, che aveva quattro anni più di me, con un abile gioco di prestigio riusciva a ingoiare una mo-neta e a farsela uscire dalla nuca, potevo farlo anch’io; fu così che inghiottii un mezzo penny1 e mia madre si vide costretta a chiamare il dottore.Ogni notte, quando rincasava dopo il teatro, aveva l’abitudine di lasciare sul comodino qualche leccornia2 perché Sydney e io ve la trovassimo l’indomani con l’intesa che al mattino non facessi-mo troppo baccano, poiché di solito lei dormiva sino a tardi.Mia madre era soubrette3 nel teatro di varietà, una mignonne4 verso la trentina, di carnagione chiara, con occhi tra il viola e l’azzurro e lunghi capelli tra il biondo e il castano che le arriva-vano fin sotto la vita. Sydney e io adoravamo nostra madre. Ben-ché non fosse di una bellezza eccezionale, la trovavamo divina. Quanti la conobbero mi dissero poi che era fragile e attraente, e che aveva un fascino irresistibile. Sapevo appena di avere un padre, e non ricordo che abbia mai vissuto con noi. Anche lui era un artista di varie-tà, un uomo silenzioso e meditabondo5 dagli occhi scuri. Mia madre diceva che somiglia-va a Napoleone. Aveva una voce da barito-no leggero6 ed era considerato un artista di notevole talento. Già allora guadagnava la somma considerevole di quaranta sterline la settimana. Il guaio era che beveva troppo; e questa, disse mia madre, fu la causa della loro separazione.

C. Chaplin, La mia autobiogra fia, Mondadori

1.  penny: moneta inglese di poco valore. Anche la sterlina (nominata in seguito) è una moneta inglese.

2.  leccornia: dolce, golosità.

3.  soubrette: attrice che, negli spettacoli di varietà, recita, danza e canta, di solito con il ruolo di protagonista.

4.  mignonne: donna di piccola statura.

5.  me dita bon do: pensieroso.

6.  baritono leggero: nel canto, voce intermedia tra il tenore e il basso.

persone speCiali2. Il profumo della realtà

Ecco come Charlie Chaplin, il celeberrimo «Charlot», ricorda i componenti della sua famiglia: in questo brano, come in moltissimi suoi film, l’espressione dei sentimenti è sempre venata di umorismo.

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Il pIacere dI leggere

Antologia 1

Vi parlo di Peter Fortune Ian McEwanPeter è un ragazzino che sarebbe impegnato e responsabile se la sua mente non corresse troppo dietro ai sogni a occhi aperti.Ma che cosa possono capire gli adulti dei sogni di un bambino?

Quando Peter Fortune aveva dieci anni, i grandi dicevano che era un bambino difficile. Lui però non capiva in che

senso. Non si sentiva per niente difficile. Non scaraventava le bottiglie del latte contro il muro del giardino, non si rovesciava in testa il ketchup facendo finta che fosse sangue, e neppure se la prendeva con le caviglie di sua nonna quando giocava con la spada, anche se ogni tanto aveva pensato di farlo. Mangiava di tutto, tranne il pesce, le uova, il formaggio e tutte le verdure ec-cetto le patate. Non era più rumoroso, più sporco o più stupido degli altri bambini. Aveva un nome facile da dire e da scrivere e una faccia pallida e lentigginosa, facile da ricordare. Andava tutti i giorni a scuola come gli altri e senza fare poi tante storie. Tormentava sua sorella non più di quanto lei tormentasse lui.Fu solo quando era ormai già grande da un pezzo che Peter fi-nalmente capì. La gente lo considerava difficile perché se ne sta-va sempre zitto. E a quanto pare questo dava fastidio. L’altro problema era che gli piaceva starsene da solo. Non sempre natu-ralmente. Nemmeno tutti i giorni. Ma per lo più gli piaceva pren-dersi un’ora per stare tranquillo in qualche posto, che so, nella sua stanza, oppure al parco. Gli piaceva stare da solo, e pensare i suoi pensieri.

persone speCiali2. Il profumo della realtà

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Il guaio è che i grandi si illudono di sapere che cosa succede dentro la testa di un bambino di dieci anni. Ed è impossibile sapere di una persona che cosa pensa, se quella persona non lo dice. La gente vedeva Peter sdraiato per terra un bel pomerig-gio d’estate, a masticare un filo d’erba o a contemplare il cielo. «Peter! Peter! A che cosa pensi?» gli domandavano. E Peter si rizzava a sedere di soprassalto dicendo: «A niente. Davvero!». I grandi sapevano che nella sua testa qualcosa doveva pur es-serci, ma non riuscivano né a vedere né a sentire che cosa. Dir-gli di smettere non potevano, non sapendo che cosa stesse fa-cendo. Magari stava pensando di dare fuoco alla scuola, o di dare sua sorella in pasto a un alligatore1, o di scappare di casa a bordo di una mongolfiera, ma loro non vedevano altro che un ragazzino tutto preso a contemplare il cielo senza battere ciglio, un ragazzino che, se qualcuno lo chiamava, neppure ri-spondeva.Quanto a stare per conto suo, be’, neanche quello ai grandi an-dava giù. Se non vuoi fare il guastafeste, devi unirti alla compa-gnia. Ma Peter non la pensava così. Non aveva niente in contra-rio a stare con gli altri quando era il caso. Ma la gente esagera. Anzi, secondo lui, se si fosse sprecato un po’ meno tempo a stare insieme e a convincere gli altri a fare lo stesso, e se ne fosse de-dicato un po’ di più a stare da soli e a pensare a chi siamo e chi potremo essere, allora il mondo sarebbe stato un posto migliore, magari anche senza le guerre.A scuola Peter spesso lasciava Peter seduto nel banco, mentre la sua mente partiva per lunghi viaggi, ma anche a casa gli era ca-pitato di avere delle noie per quei sogni a occhi aperti. Un Nata-le il padre di Peter, Thomas Fortune, stava sistemando le decora-zioni in soggiorno. Detestava fare quel lavoro. Diventava sempre di cattivo umore. Quella volta, doveva attaccare dei nastri in alto in un angolo. Be’, proprio in quell’angolo c’era una poltrona e se-duto su quella poltrona a fare niente di speciale, c’era Peter.– Non ti muovere – disse Mr Fortune. – Adesso salgo sulla pol-trona per arrivare al muro.– Va bene – disse Peter. – Fa’ pure.Ed ecco Mr Thomas Fortune salire sopra la poltrona, e Peter sa-lire in groppa ai suoi pensieri. A vederlo si sarebbe detto che non facesse nulla, ma in realtà era occupatissimo. Si stava inventan-do un modo emozionante di scendere dalle montagne con un at-taccapanni e una corda ben tesa tra due pini. Continuò a pen-sarci mentre suo padre stava ritto sullo schienale della poltrona, ansimando e stirandosi per arrivare al soffitto. Come si poteva fare, pensava intanto Peter, per scivolare senza andare a sbattere negli alberi che tenevano la corda?

1.  alligatore: grosso rettile anfibio simile al coccodrillo, che vive nei grandi fiumi nor­dame ricani e asiatici.

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Chissà, forse l’aria di montagna stuzzicò l’appetito di Peter. Fatto sta che in cucina c’era un pacchetto nuovo di biscotti al ciocco-lato. Non era bello continuare a ignorarli. Peter non fece in tem-po ad alzarsi che sentì alle sue spalle un orrendo frastuono. E si voltò proprio mentre suo padre cadeva a testa prima nel buco tra la poltrona e il muro. Poi Mr Fortune riapparve, per prima di nuovo la testa. Sembrava deciso a fare Peter a pezzettini. Dall’al-tra parte della stanza, la mamma si teneva stretta la mano sulla bocca per non farsi sorprendere a ridere.– Oh, scusa papà – disse Peter. – Mi ero dimenticato che eri lì.Poco dopo il suo decimo compleanno, a Peter venne affidato il delicato incarico di accompagnare a scuola la sorellina Kate, di sette anni. Peter e Kate frequentavano la stessa scuola. Ci vole-va un quarto d’ora per raggiungerla a piedi e pochi minuti, con l’autobus. Di solito ci andavano a piedi con il papà che poi prose-guiva per il suo ufficio. Adesso però i bambini erano abbastan-za grandi da poter andare da soli in autobus, e la responsabilità dell’impresa ricadeva su Peter.Non erano che due fermate lungo la stessa via, ma a sentire quanto la facevano lunga la mamma e il papà, si sarebbe det-to che Peter stesse portando Kate al Polo Nord. La sera prima ricevette istruzioni. Al risveglio gli toccò risentirsele tutte. Poi gliene fecero un dettagliato promemoria durante la colazione. E quando i bambini erano ormai sulla porta, la mamma, Viola For-tune, ripassò un’ultima volta le varie fasi dell’operazione. «Sono tutti convinti che io sia stupido» pensò Peter. «Magari è vero». Non doveva lasciare mai la manina di Kate. Dovevano prendere posto a sedere al piano di sotto dell’autobus; Kate dalla parte del finestrino. Guai se si lasciavano convincere a chiacchierare con degli svitati o dei malintenzionati. Peter avrebbe detto bene al controllore dove doveva farli scendere, senza dimenticare di chie-dere per piacere. E non doveva staccare gli occhi dalla strada.Peter ripeté tutto quanto a sua madre, e si avviò alla fermata con sua sorella. Si tennero per mano lungo tutto il tragitto. Per la verità, non gli dispiaceva l’incarico, perché sua sorella gli era simpatica. Sperava solo che nessuno dei suoi compagni lo vedes-se in giro mano nella mano con una bambina. Ecco l’autobus. Salirono e presero posto al piano di sotto. Si sentivano ridico-li a tenersi per mano anche stando seduti e poi c’erano degli al-tri bambini della scuola intorno, perciò si lasciarono liberi. Pe-ter era piuttosto fiero di sé. Avrebbe potuto badare a sua sorella dovunque. Kate poteva contare su di lui. Supponiamo ad esem-pio che si ritrovassero da soli su un valico d’alta montagna, di fronte a un branco di lupi affamati, lui avrebbe saputo esatta-mente come comportarsi. Facendo ben attenzione di non com-

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piere alcun movimento improvviso, avrebbe indietreggiato con Kate fino ad avere le spalle al sicuro contro una parete rocciosa. In quel modo, i lupi non avrebbero potuto circondarli. Ed ecco giunto il momento di tirar fuori di tasca due cose importantis-sime che per fortuna si era ricordato di prendere: il coltello da caccia e la scatola di fiammiferi. Estrae il coltello dal fodero e lo appoggia a terra fra l’erba, pronto all’uso nel caso i lupi decides-sero di attaccare. Si stanno avvicinando, in effetti. Sono così af-famati che ululano e perdono bava dalle fauci. Kate intanto sin-ghiozza, ma non è certo adesso che può consolarla. Sa bene di doversi concentrare sul piano d’azione. Proprio ai suoi piedi vede qualche ramoscello e delle foglie morte. Senza perdere un minu-to, Peter ne fa un bel mucchietto. I lupi continuano ad avvicinar-si. Non può permettersi di sbagliare mossa. È rimasto soltanto un fiammifero dentro la scatola. Si sente già il fiato dei lupi ad-dosso: un odore tremendo di carne marcia. Peter si piega, met-te le mani a coppa e accende il fiammifero. Una folata di vento fa vacillare la fiamma, ma lui l’ha avvicinata al mucchio di rami e foglie che a una a una prendono fuoco, fino a trasformarsi in un discreto falò. Peter non smette di alimentarlo con altre foglie e rametti e legni anche più grossi. Kate sta incominciando a ca-pire e lo aiuta. I lupi indietreggiano. Gli animali selvatici han-no terrore del fuoco. Le fiamme guizzano sempre più in alto tra-sportando il fumo proprio dentro le fauci bavose dei lupi. Adesso Peter afferra il coltello da caccia e…Ridicolo! Erano fantasticherie come questa che potevano fargli scordare la fermata se non stava attento. L’autobus si era ferma-

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to. I bambini della scuola stavano già incominciando a scendere. Peter scattò in piedi e fece giusto in tempo a saltare a terra, che già l’autobus era ripartito. Fu solo una buona ventina di metri dopo che si rese conto di aver dimenticato qualcosa. La cartella, magari. Macché! Era sua sorella! L’aveva salvata dai lupi, ma se l’era scordata seduta sul pullman. Per un momento rimase para-lizzato. Osservò l’autobus allontanarsi lungo la via. – Torna in-dietro – sussurrò. – Ti prego.Uno dei bambini della scuola gli si avvicinò e battendogli sulla schiena disse:– Ehi, che ti prende? Hai visto un fantasma per caso?La voce di Peter sembrò arrivare da molto lontano. – Oh, nien-te, niente. Ho dimenticato una cosa sull’autobus –. E poi si mise a correre. L’autobus era già trecento metri oltre e stava incomin-ciando a rallentare per la fermata successiva. Peter accelerò la corsa. Correva tanto veloce che se avesse aperto le braccia, pro-babilmente si sarebbe alzato in volo. Allora avrebbe potuto sfiora-re la cima degli alberi e… Ma no! Non poteva davvero permetter-si altri sogni a occhi aperti adesso. Doveva solo recuperare sua sorella. Magari la poverina stava già strillando in preda al ter-rore.Alcuni passeggeri erano scesi, e l’autobus stava già ripartendo. Peter era più vicino questa volta. Il veicolo arrancava dietro a un camion. Se solo fosse riuscito a correre, senza badare al terribile dolore alle gambe e alla fitta al petto, l’avrebbe raggiunto. Quan-do arrivò alla fermata, l’autobus era a una cinquantina di metri appena da lui. «Più in fretta, più in fretta» si ripeté.Un bambino che stava sotto la tettoia della fermata, vedendolo passare gli gridò: – Peter, ehi, Peter!Peter non ebbe neppure la forza di voltare la testa. Ansimando, continuò a correre.– Peter! Fermati. Sono io, Kate!Mettendosi una mano sul petto, Peter crollò a terra sull’erba, ai piedi di sua sorella.– Attento! Non vedi che c’è una cacca di cane? – disse lei tran-quilla, osservando il fratello che cercava di riprendere fiato. – Dai, su. È meglio che torniamo, se no faremo tardi. E dammi la mano, se non vuoi cacciarti in qualche altro guaio.Così arrivarono a scuola insieme, e molto signorilmente Kate promise di non fare parola di quanto era accaduto quando fosse-ro tornati a casa. In cambio dello stipendio settimanale di Peter, s’intende.

I. McEwan, L’ inventore di sogni, Einaudi