Le nostre Italiani brava gente: s t o r i e la pulizia ...

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20 L a nostra storiografia pare aver calato un velo di impietoso si- lenzio su una storia che si fatica a identificare come propria. Tocca da tempo a una tenace ricercatrice, A l e s- sandra Kersevan, alzare il velo, porre tutti noi di fron- te al falso storico degli ita - liani brava gente, caduti nel- la trappola del fascismo ,ma incapaci di compiere effe- ratezze. Da anni Alessandra Ker- sevan si dedica allo studio della storia del Novecento delle terre del confine orien- tale: Il percorso oggi giun- ge ad una prima sistema- zione organica con questo volume. Lager. Parola terribile , che non può non disturbare. Uno spietato sostantivo tratto da una generica e di per sé inof- fensiva parola tedesca, che ha assunto negli anni il tra- Le nostre storie Un volume di Alessandra Kersevan “ Lager italiani. Puliz Italiani brava gente: la pulizia etnica nei lager per i popoli slavi gico significato che tutti co- nosciamo. Lager, un uni- verso di orrore che anche nelle coscienze più avvedu- te si è sedimentato come uno specifico germanico, l’atto mostruoso che ha portato al- la morte sei milioni di ebrei. Vittime e carnefici identifi- cati. Un acuto studioso,Spartaco Capogreco, parla di “ po- tente effetto assolutorio di Auschwitz “ nei confronti di tutti gli altri internamen- ti. Sono pochi i popoli che non hanno nel loro retaggio storico il morbo di un lager. L’Italia non è da meno e non solo per essere stata alleato del regime nazista, ma an- che per avere prodotto ne- fandezze in proprio. Dalle colonie d’Africa fino ai Balcani. Ciò che sollecitiamo o rim- proveriamo ad altri popoli deve valere per noi italiani in Il bell’arcipelago della Dalmazia è in fronte a noi, una manciata di miglia separa l’Italia dalle coste slovene, croate e montenegrine. Una miriade di gioielli naturali dominati dal verde intenso della vegetazione, dal blu di un mare che reca intatto il suo fascino a dispetto del- l’assalto di barche sempre più veloci e aggressive. Ebbene, alcune di quelle isole, benedette da una luce abbagliante, custodiscono un segreto di famiglia, un angolo buio, un pozzo nero della nostra storia, nel quale non penetra la luce In tali terre, come in molti paesi dell’interno, tra il 1941 e il 1943 si consumarono atrocità da imputare non solo alle truppe naziste. In due anni il regime fascista ideò un sistema di concentramento delle popolazioni jugosla- ve. Avversari del regime, ma soprattutto abitanti di città e villaggi furono deportati e costretti a vivere, se quella fu vita, in condizioni aberranti. E morirono. A migliaia. Di fame, di stenti, di privazioni. di Giuseppe Cere t t i Alcune immagini da un album fotografico stato realizzato grazie alla collaborazione della commissione di propaganda de

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La nostra storiografiapare aver calato unvelo di impietoso si-

lenzio su una storia che sifatica a identificare comepropria. Tocca da tempo auna tenace ricercatrice, A l e s-sandra Kersevan, alzare ilvelo, porre tutti noi di fron-te al falso storico degli i t a -liani brava gente, caduti nel-la trappola del fascismo ,maincapaci di compiere eff e-r a t e z z e .Da anni Alessandra Ker-sevan si dedica allo studiodella storia del Novecentodelle terre del confine orien-tale: Il percorso oggi giun-ge ad una prima sistema-zione organica con questovolume. L a g e r. Parola terribile , chenon può non disturbare. Unospietato sostantivo tratto dauna generica e di per sé inof-fensiva parola tedesca, cheha assunto negli anni il tra-

Le nostres t o r i e

Un volume di Alessandra Kersevan “ Lager italiani. Puliz i

Italiani brava gente: la pulizia etnica neilager per i popoli slavi

gico significato che tutti co-nosciamo. Lager, un uni-verso di orrore che anchenelle coscienze più avvedu-te si è sedimentato come unospecifico germanico, l’attomostruoso che ha portato al-la morte sei milioni di ebrei.Vittime e carnefici identifi-cati. Un acuto studioso,SpartacoCapogreco, parla di “ po-tente effetto assolutorio diAuschwitz “ nei confrontidi tutti gli altri internamen-ti. Sono pochi i popoli chenon hanno nel loro retaggiostorico il morbo di un lager.L’Italia non è da meno e nonsolo per essere stata alleatodel regime nazista, ma an-che per avere prodotto ne-fandezze in proprio. Dallecolonie d’Africa fino aiB a l c a n i .Ciò che sollecitiamo o rim-proveriamo ad altri popolideve valere per noi italiani in

Il bell’arcipelago della Dalmazia è in fronte a noi, unamanciata di miglia separa l’Italia dalle coste slovene,c roate e montenegrine. Una miriade di gioielli naturalidominati dal verde intenso della vegetazione, dal blu diun mare che reca intatto il suo fascino a dispetto del-l’assalto di barche sempre più veloci e aggre s s i v e .

Ebbene, alcune di quelle isole, benedette da una luceabbagliante, custodiscono un segreto di famiglia, unangolo buio, un pozzo nero della nostra storia, nelquale non penetra la luce

In tali terre, come in molti paesi dell’interno, tra il 1941e il 1943 si consumarono atrocità da imputare non soloalle truppe naziste. In due anni il regime fascista ideòun sistema di concentramento delle popolazioni jugosla-ve. Avversari del regime, ma soprattutto abitanti di cittàe villaggi furono deportati e costretti a vivere, se quellafu vita, in condizioni aberranti. E morirono. A m i g l i a i a .Di fame, di stenti, di privazioni.

di Giuseppe Cere t t i

Alcune immagini da un album fotografico stato realizzato grazie alla collaborazione della commissione di propaganda del

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z ia etnica e campi di concentramento fascisti per civili jugoslavi 1941- 1943”

primo luogo. Non valgonole logiche dei grandi nume-ri. Rimozioni e revisioni del-la storia servono solo ad oc-cultare la verità, a smarrire laconsapevolezza di una na-zione che voglia definirsi ta-le. Come rintracciare radici

comuni se non siamo in gra-do di leggere la nostra sto-ria, tutta, nel bene e nel ma-le? Quando mai cresceremoanche come cittadini dellanuova Europa ? Tutto que-sto ci racconta A l e s s a n d r aK e r s e v a n .

Alessandra KersevanLager italiani

Pulizie etnica e campi dic o n c e n t r a m e n t ofascisti per civili

jugoslavi 1941-1943E d i t o re: Nutrimenti,

e u ro 18,00

elle organizzazioni partigiane e della sezione fotografica del ufficio stampa del governo della Repubblica di Slovenia

Una veduta (oggi) dell’isola di Raab, una delle seimilaisole dalmate paradiso turistici. Un inferno durantel’ocupazione militare italiana, comr dimostrano leimmagii di queste pagine e il libro della Kesrsevan.Sotto: l’attesa per sistemarsi in una delle baraccho delcampo di concentramento italiano di Rab.

Lager italiani è la minuzio-sa ricostruzione del sistemadi campo di concentramen-to per le popolazioni jugo-slave, dal 1941 al 1943.Gonars, Arbe, Rab, Vi s c o ,Cairo Montenotte, Renicci,Colfiorito, sono nomi che aipiù dicono poco. Paesi chesi trovano oggi al di là de-gli odierni confini, nei ter-ritori di Slovenia e Croaziaallora occupati e insiemepiccoli centri sparsi per

l’Italia intera. Che cosa han-no in comune? Di avere ospi-tato migliaia e migliaia dislavi “ colpevoli “ di nutri-re avversione e di voler com-battere l’invasore italiano ;ma ancor più semplicemen-te di appartenere ad un’al-tra etnia. Lo slavo dovevalasciare la propria terra, leproprie case ai “ volentero-si carnefici italiani “. Un pro-cesso teso a cancellare iden-tità, lingua, tradizioni. Un

Un processo teso a cancellareidentità, lingua, tradizioni

22A l t re immagini scattate nelle “provincia italiana di Lubiana”. Un plotone di esecuzione “aiutato”da collaborazionista , un pa

lavoro sporco che annove-ra i nomi più altisonanti delgotha dell’esercito del tem-po : dai famigerati generaliMario Roatta, Mario Robottie Gastone Gambara, ai go-vernatori della DalmaziaGiuseppe Bastianini eFrancesco Giunta, dall’altocommissario della provin-cia di Lubiana, EmilioGrazioli al governatore delMontenegro A l e s s a n d r oPirzio Biroli. Nomi assai me-no conosciuti oggi dei ge-rarchi, ma fedeli esecutori diun progetto di annienta-mento che solo il crollo del

regime fascista ha impedi-to di portare a compimen-to.Per capire lo spirito diquesti comandanti basta illapidario commento del ge-nerale Robotti sulla repres-sione nei territori occupati:“Qui si ammazza troppo po-co”. Quei nomi furono aiprimi posti nella lista deicriminali di guerra richiestidalla Jugoslavia e mai con-segnati dall’Italia. Anzi, rammenta A l e s s a n d r aKersevan , restano nelleiscrizioni tra i figli della pa-tria, spesso con riconosci-menti.

Lager italiani non è un libroche si possa leggere tutto diun fiato, ma ciò non costi-tuisce rilievo critico, è piut-tosto un complimento. Lecitazioni sono in ogni pagi-na. Non esiste assunto chenon abbia la propria “ pezza

giustificativa “ : un rigoredocumentale non facile daassolvere, data la diff i c o l t àdi rintracciare e dare sinte-si a un materiale tanto spar-so e frammentato. Pulizia etnica e terra bru-ciata per fare spazio ai vin-

Italiani bravagente: la pulizia etnica nei lager p e ri popoli slavi

Nella “Provincia di Lubiana”, annessa all’Italia, venne istituito fin dal settembre 1941 un tribunalestraordinario che puniva con la pena di morte anche il solo possesso di materiale di propaganda o lap a rtecipazione a riunioni “di carattere sovversivo”. N e l l ’ o t t o b re del ’41 si ebbero le prime condanne am o rte. Nei 29 mesi di occupazione italiana nella solap rovincia di Lubiana vennero fucilati circa 5.000 civilie altre 7.000 persone, in gran parte anziani, donne ebambini, tro v a rono la morte nei campi diconcentramento italiani. Tristemente noti sono quelli di Gonars (Udine) e Rab in Cro a z i a .

citori : questi gli obiettiviperseguiti tenendo migliaiadi internati in condizioni divita e d’igiene disumani, vis-sute dagli internati come ungolgota. Valga per tutte ladolente testimonianza diMarija Poje, abitante a Stari

Kot e internata a Rab nel1942, che racconta la suaodissea con la meticolositàdi una cronaca. Non servo-no aggettivi, bastano i cru-di fatti. Scrive tra l’altro:“Quella persona che steri -lizzava i vestiti aveva giu -

Un processo teso a cancellareidentità, lingua, tradizioni...

Un tribunale specialep e r la zona occupata

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P a rt i g i a n is l o v e n ip o rtati allaf u c i l a z i o n eda militariitaliani nel 1942.

p a rtigiano prima della fucilazione accanto al cimitero, una coppia di partigiani viene bendata e i loro corpi straziati dai colpi.

... per sostituire con italiani glislavi che abitavano quei luoghisto messo il mio bambinonell’autoclave e il bambi -no ha pianto. Non so se l’ha messo dentroapposta o se pensava fos -s e ro stracci. Io ho urlato,non so come, e lui l’ha ti -rato fuori….. a me poi èm o rto questo bambino ap -pena nato, dalla fame e dalf reddo. Questo esserino erasolo una sembianza di bam -bino. Era magro, solo ossi -cini, era come un coni -glietto. Due giorni di agonia

prima di chiudere gli oc -c h i ”. Nel registro del cam-po la morte del figlio diMaria viene indicata con laseguente causa : atrofia gra-ve, che significa morte perfame. Il progetto di sostituzionedi quelle popolazioni nonfu attuato con compiutez-za per le difficoltà di mez-zi e logistiche dell’esercitoe per la generale disorg a-nizzazione che rendeva , sepossibile, le condizioni di

vita ancor più crudeli.Scrive Slavko Malnar de-portato prima a Gonars epoi a Ra : “ A sei anni a Rabavevo 17 kg, all’arrivo aGonars 13 kg”. Raccontapoi il suo rimestare nel bi -done delle immondizie:”…abbiamo trovato cart i n edi caramelle. Il loro odore ci invadeva lenarici, ma a mangiare lac a rta non c’era nessun gu -sto. Se succedeva che tro -vavamo qualche fogliam a rcia, la dividevamo int re parti e la mangiavamos u b i t o ”.Tutto ciò al generale Gas-tone Gambara, comandan-te dell’undicesimo corpo

d’armata, interessava po-co. Un appunto manoscrit-to del 17 dicembre 1942non lascia dubbi: “ L o g i c oed opportuno che campo diconcentramento non signi -fichi campo d’ingrassa -mento. Individuo malato = indivi -duo che sta tranquillo.G a m b a r a .”A Gonars resiste una scuo-la materna costruita con imattoni e le assi di legnodelle baracche del campo.Un riciclaggio dei luoghidella sofferenza “per nondimenticare”. A d i ff e r e n z adi quanto abbiamo fatto noii t a l i a n i .

Giuseppe Cere t t i

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Quando sopraggiun-ge l’8 settembre del1943 Teresa e Lidia

frequentavano già l’Uni-versità, mentre Liliana fre-quentava la prima liceo clas-sico al Tito Livio. Cinquedei loro fratelli erano lon-tani da casa, sparsi nei varifronti di guerra. In casa passavano tanti gio-vani, poiché la famiglia eranumerosa. Così si mette in contatto conloro, prima con un espe-diente, poi in modo più con-creto, Armando Romani,che era in collegamento conil console inglese Luganocon il compito di aiutare afuggire i numerosi soldatialleati che si trovavano neivari campi intorno a Padova,nonché gli ebrei che ora si

Le nostres t o r i e

Teresa, Liliana e Lidia,le tre sorelle padovanedeportate nei lager

trovavano in pericolo di vi-t a .Romani era in realtà unmembro della famosa FRA-MA, la rete di salvataggio edi Resistenza che contavafra i suoi membri più im-portanti Ezio Franceschinie Concetto Marchesi, il pri-mo cattolico, l’altro comu-nista. Ma se costoro erano le men-ti politiche, a far funziona-re questa vera e propria “ca-tena di salvezza”(così la de-finisce Carla Liliana Martininel suo scritto autobiogra-fico) erano le sorelle Martiniinsieme ad altre amiche, tut-te cattoliche, appartenentia diverse classi sociali:Milena Zambon, amica del-le Martini, che ha cono-sciuto il campo di

Ravensbrück e al ritornodalla prigionia si è fatta suo-ra di clausura, Maria Bor-gato, suora laica di Soanara,che non ha fatto ritorno daRavensbrück e sua nipoteDelfina, di soli sedici anniche è sopravvissuta, RenataMartini, che dopo l’arrestodelle sorelle, si occupa deig e n i t o r i .Come funzionava la rete,che aveva al centro le so-relle Martini? Av v i c i n a t eda Romani e con il consen-so dei genitori tutte e tre,nonostante il pericolo chesono consapevoli di corre-re, decidono di aiutare i sol-dati alleati in fuga e gliebrei. Costoro avevano tro-vato un primo precario ri-fugio presso i contadini del

Tra le molte storie della Resistenza poco note al grandepubblico spicca quella della famiglia Martini e in part i-c o l a re delle tre sorelle Te resa, Liliana e Lidia.

La famiglia Martini era una famiglia cattolica dellaclasse media padovana: il padre possedeva della terra ela madre, di origini lombarde, gestiva la numero s afamiglia; abitavano in una grande casa in via Galilei aPadova. Tutti i figli frequentano le scuole superiori el’Università, nonché l’Azione cattolica.

In casa non ricevono un’educazione antifascista, ma lafamiglia non era neppure troppo attirata dal re g i m e ,dalla sua violenza, soprattutto dopo l’emanazione delleleggi razziali.

di Alessandra Chiappano padovano, che per primi e inmodo del tutto spontaneo,diedero aiuto a chi avevabisogno, ma occorreva poirivestirli e aiutarli ad espa-triare in Svizzera. LeMartini, a turno, scortava-no sia ebrei che soldati finoa Milano e da qui a Oggionodove li affidavano ai pas-satori che erano lautamen-te pagati mediante il dena-ro messo a disposizione da-gli Alleati. Si trattava di viaggi peri-colosi, spesso i gruppi era-no composti da dieci, do-dici persone, che non par-lavano una sola parola diitaliano e che quindi ad uninterrogatorio sarebberostate scoperte immediata-m e n t e .

Inizialmente papà Martiniha fornito vestiti e soldi perrivestire i fuggiaschi, poigrazie ai fondi provenientidalla Svizzera, le sorelleMartini poterono contaresul contributo di alcune dit-te della zona. In casa ave-vano anche timbri italiani etedeschi per fabbricare car-te di identità false. Un ruo-lo chiave era giocato da pa-dre Placido Cortese, che fa-ceva parte della FRAMA eche spesso procurava le fo-tografie necessarie pren-dendole dagli ex - voto pres-so la tomba di Sant’Antonioda Padova. Padre Cortese

continuerà la sua coraggio-sa opera di salvataggio fi-no al suo arresto, avvenutonell’ottobre del 1944. Di luinon si saprà più nulla: soloin anni recenti è stato pos-sibile ricostruire il suo cal-vario; è morto per le tortu-re subite durante gli inter-rogatori a Trieste, nella pri-gione di San Sabba.Accanto alle sorelle Martini,colte, di famiglia borg h e-se, operano anche le dueB o rgato, zia e nipote, ori-ginarie di Saonara, en-trambe di origine contadina.I fuggitivi si nascondeva-no presso di loro prima di

Le ragazze della famiglia Martini facevano tutte parte dell’

Denaro e risorse per l’aiuto agli ebrei in fuga dall’Italia verso la Svizzera

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iniziare il viaggio verso lasalvezza: si trattava quindidi una rete composita, la cuibase era composta in pre-valenza di ragazze che ave-vano in comune la fede nel-la religione cattolica e chesentivano fortemente l’i-deale di aiutare il prossimo. Fino al 14 marzo 1944 leM a rtini sisters, come ven-gono definite nel volume diRoger Abalon, portano insalvo tra le duecento e letrecento persone. Il 14 marzo 1944 alcuni fin-ti soldati alleati, in realtàspie, arrestano Teresa eLiliana. Lidia riesce a sfug-

gire all’arresto per un caso:si trovava in missione aMilano dove aveva accom-pagnato alcuni ebrei.Avendo perso il treno, te-lefona a casa per avvertireche sarebbe tornata più tar-di. La donna di servizio,Norma, la avverte di nontornare. Resterà in clande-stinità per alcuni mesi, peressere poi arrestata nel-l’autunno del 1944.Teresa, Liliana, che non haancora 18 anni, Maria eDelfina Borgato, MilenaZambon vengono tutte ar-restate e condotte in pri-gione a Venezia.

Un ruolo chiave era giocato da Padre Placido Cort e s e ,che faceva parte della FRAMA e che procurava lefotografie necessarie prendendole dagli ex-voto pre s s ola tomba di Sant’Antonio da Padova.

Liliana Martini, che oggi èuna dolce signora, che par-la a fatica della sua incre-dibile storia, nella intervistadel 29 maggio 2008, ha ri-cordato come sia stato ter-ribile per lei dover essereschedata come una delin-quente. Divise le une dalle altre, re-stano in prigione a Ve n e z i aper diversi mesi, poi ven-gono tutte quante trasferi-te a Bolzano e da qui le so-relle Martini insieme aDelfina Borgato partirannoper Mauthausen ai primi diagosto del 1944, mentreMaria Borgato insieme aMilena Zambon verrà de-portata a Ravensbrück aiprimi di settembre del 1944.Milena farà ritorno, MariaB o rgato, claudicante, nons o p r a v v i v r à .Dopo il viaggio, traumaticoe terribile, Liliana e Te r e s aarrivano a Mauthausen. Ilcampo, con le sue alte mu-ra e la torretta fa loro unaterribile impressione, tan-to che Teresa, la maggioredirà a Liliana «Liliana daqui non usciremo vive!». «Al mattino, indolenzite etremanti, spaventate oltremisura per quello che ci at-tende, fanno scendere noidonne per una stretta scala,oltrepassiamo quindi unosquallido stanzone ed en-triamo in un altro.

Qui troviamo ad attender-ci quattro ragazzetti, sempreSS, che ci ordinano di de-nudarci davanti a loro.Sghignazzano bestialmentealla nostra confusione e in-decisione nell’obbedire ailoro ordini. In quel precisomomento mi sento spoglia-ta del mio pudore, della miaintima femminilità. Quindi una dopo l’altra, abraccia e gambe allarg a t e ,ci rasano in tutte le parti delcorpo, toccandoci ovunque,con le loro manacce im-monde». (Carla Liliana Martini, C a -tena di salvezza, E d i z i o n iMessaggero Padova 2005,p. 53.Ma i nazisti hanno bisognodi manodopera, siamo allafine del 1944, e così le so-relle Martini vengono in-viate, dopo una permanen-za a Mauthausen di una set-timana, in un sottocampodi Mauthausen, dove l’unalavora al tornio e l’altra al-la fresa. Il lavoro è duro, le condi-zioni di vita sono precarie,ma in generale si tratta diun miglioramento rispettoa Mauthausen. Qui Te r e s aincontra Andrea Redetti,studente in medicina, mem-bro del partito comunista,che diventerà suo marito nel1947, e che morirà prema-turamente nel 1955.

ll’organizzazione FRAMA di Ezio Franceschini e Concetto Marchesi

In prigione a Venezia, tappa a Bolzanopoi verso Mauthausen e Ravensbruk

Una fotografia recente diCarla Liliana Mart i n i ,

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Negli ultimi mesi di guer-ra, poiché il sottocampodi Linz era stato bombar-dato vengono trasferite aGrein, dove proseguono

il lavoro di fabbrica, par-ticolarmente faticoso so-prattutto per Liliana co-stretta a lavorare in pie-di.

Da Grein scrivono a Del-fina, che è riuscita a con-servare le lettere ricevutedalle amiche, pubblicatein Delfina Borgato, Non sipoteva dire di no, a cura diManuela Tommasi, un vo-lume edito grazie all’Isti-tuto veronese per la Re-sistenza. Delfina Borgato resta aLinz, in un campo in cui lecondizioni sono migliori,sebbene il lavoro e le bot-te siano all’ordine del gior-no. All’approssimarsi del-la fine della guerra sia leMartini che Delfina rie-scono a fuggire dal campoe rientrano in Italia.Milena Zambon era nata aMalo nel 1922. Aveva con-seguito il diploma di mae-stra d’asilo ed era impie-gata presso la Banca

d’Italia. Amica intima del-le Martini, spesso allog-giava presso di loro e quan-do le viene proposto di ade-rire alla “catena” accettacon entusiasmo. Viene ar-restata lo stesso giorno del-le amiche, ma insieme aMaria Borgato viene de-portata a Ravensbrück e dalì trasferita successiva-mente a Wi t t e n b e rg, dovelavora in una fabbrica diaeroplani. Nel 2008 è sta-ta ripubblicata preso le Edi-zioni Messaggero di Pa-dova, la sua testimonian-za, resa nel 1987. Nel 1948,dopo due anni trascorsi insanatorio, prende i voti ediventa suora di clausura;è mancata pochi anni fa.Ecco nel riquadro qui sot-tole sue riflessioni suldrammatico periodo.

Lidia Martini, sfuggita al-l’arresto nel marzo 1944,viene arrestata nell’autun-no. Dopo alcuni mesi di pri-gione a Venezia viene tra-sferita al lager di Bolzano,dove resta per circa un me-se. A Bolzano è costretta alavare la biancheria delleSS. Lì incontra Egidio Mene-ghetti ed Edgardo Sogno,alla Liberazione si reca conloro in Svizzera e da quirientra a Padova.Oggi Lidia è una vivacis-sima indomita signora, cheracconta con una grande vi-vacità e con grande sem-plicità, la storia sua e del-le sue sorelle.Dopo la guerra la vita ri-prende il suo corso: Te r e s asi sposa con Redetti, Lilianadopo gli esami di maturità

classica superati brillante-mente nella sessione spe-ciale del 1945, si ammalae trascorre due anni in sa-natorio a Mezzaselva; inseguito si laurea in Letteree intraprende la carriera diinsegnante. Tutte e tre le sorelle Martinisi sposano, insegnano, Lidiae Teresa sono occupate acrescere i loro bambini enon parlano della loro tra-gica avventura fino a circadieci anni fa, quando sonostate contattate dall’istitu-to della Resistenza di Pado-va e successivamente in-tervistate da Maria Te r e s aSega dell’Istituto dellaResistenza di Venezia, cheinsieme a Luisa Bellina hascritto uno studio impor-tante sulle donne cattolicheimpegnate nella Resistenza.

Da un campo all’altro, sballottate:per tutte lavoro e umiliazioni

La vita continua con l’insegnamentoe il racconto della tragica avventura

Teresa, Lilianae Lidia Martini, le tre sorelle padovanedeportate nei lager

LE NOSTRE STORIE

P e r tutti il punto di partenza era Bolzano

Così scrive nelle sue memorie, pubblicate dalle Edizioni Messaggero di Padova Mi ero messa in quell’impresa pericolosa forse perspirito d’avventura, ma per essere sincera, anche percarità cristiana. Mi affidavo perciò molto allaMadonna, per la quale fin da piccola ho avuto sempreuna grande devozione ricorrendo a lei con cieca fiduciain ogni mio bisogno.

La vita anche al campo di Wittenberg è durissima:la sveglia suonava la mattina alle quattro e, poiché nonsi parlvava neppure di poterci lavare, eccetto una volta

al mese, dovevamo scendere immediatamente nel cortileaspettando lì, immobili, sull’attenti che si facessegiorno chiaro, quando arrivava il Lagerfuhrer perl’appello. Era quella certo l’ora più terribile di tutta lagiornata. Quell’immobilità assoluta (poiché chi si muoveva eraimmediatamente punito con scudisciate, schiaffi e pugnisenza economia) il freddo intenso, che raggiunse prestop a recchi gradi sotto zero quando venne la neve che cipenetrava fin nelle ossa, avendo sotto la tuta soltantouna leggera maglietta, lo stato di estenuazione per loscarsissimo cibo, tutto questo rendeva estre m a m e n t epenose quelle prime ore mattutine.

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Mayda ci guida consapienza all’inter-no del campo, ci

descrive le baracche, la vi-ta dei prigionieri, ma anchela complessa e ambigua re-te di rapporti tra la popola-zione locale e le autorità na-ziste: se alla fine della guer-ra gli austriaci hanno prefe-rito nascondersi e negare leloro responsabilità dirette,dai documenti appare chia-ro che spesso sono stati com-plici nell’annientamento deiprigionieri e ben consape-voli di quel che accadeva al-l’interno del campo. Mayda si sofferma sulle va-rie fasi della vita del cam-po, dall’iniziale sfruttamentodei prigionieri presso le ca-ve di granito, fino alla tra-sformazione di Mauthausenin un centro da cui dipen-

Le nostres t o r i e

Un documentato volume di Giuseppe Mayda

Mauthausen, la storia di un lagerper settemila italiani

devano campi satellite, pre-ziosi per l’industria bellica;in particolare Mayda si sof-ferma sulla storia di Gusen,che ben presto diventa au-tonomo, di Melk, di Linz edE b e n s e e .Tratteggia poi la storia del-le deportazioni verso Mau-thausen dai vari paesi euro-pei e naturalmente l’analisidiventa maggiormente raf-finata sui trasporti che sonopartiti dall’Italia, dopo l’8settembre 1943. In partico-lare Mayda ci ricorda unavicenda mal nota: la razziao rganizzata dalla We r h m a c h te dalla polizia tedesca al-l’Arena di Milano nell’ago-sto del 1944, durante unapartita di calcio. Circa 300 giovani furono ar-restati e di loro non si seppepiù nulla.

Nonostante sia forse il Lager più conosciuto in Italia,fino ad oggi non era stata mai scritta da un italiano unastoria complessiva del campo di Mauthausen, dovesono stati deportati più di settemila italiani.

C e rto, ci sono le memorie di moltissimi deportati politi-ci, tra cui quella famosissima di Vincenzo Pappalettera,Tu passerai per il camino o quella scritta nell'immedia-tezza del ritorno da BrunoVasari, Mauthausen, bivaccodella morte nonché numerosissime testimonianze, mauna storia del campo mancava, anche perché l'opera diHans Marsalek su Mauthausen, di cui è uscita unanuova edizione rivista assai recentemente, non è di faci-le re p e r i b i l i t à .

Non si può che plaudere, quindi, di fronte al lavoro diGiuseppe Mayda, che con pazienza e sapienza, ha siste-matizzato la complessa storia del campo di Mautha-usen, uno dei più tristemente famosi della galassia con-centrazionaria nazista, da dove sono passati circ a200.000 prigionieri e la metà di loro non è torn a t a .

Un deportato sovietico superstiti dell’evasione dal blocco 20. A destra: dopo la liberazione del lager i deport a t iabbattono l’aquila nazista

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merose avvenute nel centroeutanasia del castello diHarteim, così come sui ten-tativi di annientare il mag-gior numero di prigionieriall’avvicinarsi degli A l l e a t i :gli studi oggi permettono diconcludere che almeno 5000persone siano state gassateall’interno del campo diMauthausen. Il volume, oltre ad essere ric-chissimo di informazioni, silegge con grande piacevo-lezza, grazie alla prosa sem-pre gradevole dell’autore, acui dobbiamo essere gratiper quest’opera che colmauna grave lacuna nell’am-bito della storia della de-portazione. A. C

Questa azione va inserita nelquadro della affannosa ri-cerca di manodopera da par-te delle autorità tedesche: leindustrie belliche avevanoun disperato bisogno di ope-rai, ma i bandi di recluta-mento andavano regolar-mente deserti, così spesso siricorreva ai rastrellamenti,avvenuti spesso anche nellezone del litorale Adriatico. Èprecisamente all’interno diquesto quadro che i Lager sitrasformano spesso in enor-mi bacini di manodopera espesso soprattutto i campiprincipali diventano luoghiin cui si procede allo smi-stamento dei deportati pres-so le industrie private o pub-bliche che ne facevano ri-chiesta alla centrale delWvha a Oranienburg. Mayda si sofferma poi sul-le strutture di messa a mor-te presenti a Mauthausen,sulle uccisioni avvenute nel-la camera a gas del campo,come su quelle assai più nu-

Giuseppe Mayda,Mauthausen.

Storia di un Lager, il Mulino, Bologna 2008,

pag. 476, euro 28,00

I lager come bacini di manodoperaper le “esigenze” di guerra del Reich

Un disegno di Aldo Carpi che ritrae l’operaio dell’AlfaRomeo A l f redo Borghi mentre implora: “Carpi dammde bev”. Borghi morirà poco dopo.

La fuga dei russi e la caccia all’uomo

. . .Il patto di complicità fra campo e villaggio,che in pratica era operante dal 1940, fu taci-tamente rinnovato quando, in una notte del

febbraio 1945, oltre 400 ufficiali russi, prigionieri diguerra e condannati dalla Gestapo a morire di famenella baracca 20 di Mauthausen, riuscirono ad evaderee si dispersero nelle campagne lungo il Danubio conl’obiettivo di raggiungere e varcare il non lontanoconfine con la Cecoslovacchia. Per questa fuga dimassa – fatto unico nella storia del campo diMauthausen – le SS scatenarono un’operazione dipolizia senza precedenti per ampiezza, forze impie-gate, tattica e ferocia.L’ordine di ricercare, stanare e uccidere sul posto i fug-gitivi fu impartito agli abitanti del villaggio e delcontado e, con rare eccezioni, immediatamente ese-g u i t o .

Gli uomini abili del villaggio, vecchi e giova-ni, aiutati dalle segnalazioni e muovendosi se-condo le notizie che giungevano loro dalle

donne, rastrellarono fattorie, granai, casolari, fieni-li, depositi, campi incolti, fabbrichette abbandona-te, ovunque potessero aver trovato temporaneo rifu-gio gli evasi e, nel bilancio finale, si registrò come benpochi fossero stati i superstiti dopo due giorni e duenotti di strage quasi ininterrotta: di quei 419 uff i c i a-li russi che nella loro fuga furono in grado di superareil perimetro del lager se ne salvarono una dozzina.

Decine e decine di fuggitivi vennero braccati,scovati e assassinati, anche a gruppi, dagli im-provvisati carnefici del villaggio che agivano

evidentemente in autonomia, con licenza più o menoesplicita delle autorità politiche, a fianco e agli ordinidelle SS. Qualcuno degli evasi fu preso e impiccatoagli alberi, ai balconi delle case rurali, ai pali del te-legrafo o della luce, altri vennero sgozzati con col-tellacci sui banchi dei macellai o decapitati a colpi d’a-scia; altri ancora abbattuti lungo la strada o nellegrotte oppure trucidati da agricoltori che impugnavanofalci, scuri, forconi. Parecchi testimoni rievoche-ranno più tardi terribili sequenze di inseguimenti neiboschi e nei campi e di esecuzioni di vittime impo-tenti che chiedevano pietà inginocchiate nella neve.

Idetenuti in fuga si sono invece comportati in ma-niera molto corretta con la popolazione – riferiràil capo del posto di gendarmeria di Mauthausen,

Fleischmann, nella relazione conclusiva destinata al-l’autorità giudiziaria. Non ci sono stati da parte loroatti di violenza, come assassini, incendi o altro. Gli eva-si chiedevano alla gente soltanto del cibo e abiti civili perpotersi allontanare più facilmente.

Alcuni estratti del libro di Mayda

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Ma le richieste dei fuggitivi non ebbero sempre ac-coglienza da parte di tanti abitanti che, pur ti-morati di Dio, rifiutarono di riconoscerli come

prossimo bisognoso. Sono note tre famiglie austriache del paese e del circon-dario che, per contro, fecero scelte coraggiose e altamenteumane, come quelle compiute a suo tempo da Anna Strassere da Frank Wi n k l e h n e r, e soccorsero alcuni evasi sfa-mandoli e nascondendoli: sono la famiglia dei coniugiJohann e Maria Langthaler, che vivevano a Winden, bor-gata a sei chilometri da Mauthausen, di Johann e T h e r e s i aM a s c h e r b a u e r, abitanti con i loro cinque figli in una fat-toria di Schwertberg, e la famiglia Wi t t b e rg, di Lanzenberg ,nella comunità di Perg .

Il rastrellamento all’Arenadi Milano dopo la partita

La “fame di braccia”, ovverosia l’incetta a tutti i co-sti di manodopera schiava, spinse la polizia tedescae la Wehrmacht a scatenare, nel cuore dell’estate

1944, una sensazionale razzia all’Arena di Milano. Domenica 2 luglio lo stadio ospitava un atteso incontro dicalcio, Milano-Juventus, valevole per il campionato (aranghi ridotti) della serie A (e che per la cronaca finì conla vittoria dei bianconeri per 5 a 0). Verso le 17, al termine della partita, una voce annunciò da-gli altoparlanti che gli uomini delle classi dal 1916 al1926, dovevano radunarsi immediatamente all’uscita nord– che, come tutte le altre, era stata sbarrata e presidiatada SS – mentre le donne e i bambini dovevano dirigersi ver-so le porte sud per uscire assieme agli altri uomini i qua-li avrebbero dovuto presentare i propri documenti di iden-tità. In breve, pur in mezzo alla confusione e al panico, circa300 giovani dai 18 ai 22 anni furono obbligati, sia dai te-deschi sia da militari della Rsi ch’erano stati inquadrati dal-la Wehrmacht in un reggimento antiaereo di stanza aMonza, a salire su una quindicina di camion e portati via,fino a una specie di campo di concentramento improvvi-sato nei pressi della Bicocca. Di loro non si seppe più nul-la. In un “appunto per il Duce” dell’indomani, il prefetto diMilano, Parini, ammetteva che a molte ore dall’opera-zione “non è stato possibile sapere il numero esatto dei raz-ziati e il loro destino”.

La razzia all’Arena – di cui tutte le autorità fascistetacquero e il C o rr i e re della Sera del lunedì, pur de-dicando 69 righe alla partita di calcio, non fece cen-

no alcuno al clamoroso rastrellamento avvenuto in prati-ca davanti a tutta Milano – fu l’ultima compiuta (uff i-cialmente…) dai tedeschi che si erano resi conto come lastrategia dell’SS Sauckel per procurarsi manodopera gra-tis si risolveva invariabilmente in un costante incremen-to delle forze partigiane.

Due volte lager:nel 1917 e nel 1944

Proprio a Mauthausen, nell’arco di un trentennio, idestini di prigionieri e deportati italiani si incrocia-rono attraverso storie e vicende di guerra: come ac-

cadde per esempio al milanese Sante Romanoni, classe1896, sergente del 37° Reggimento di fanteria, cadutoprigioniero degli austriaci il 17 novembre 1917, un mesedopo Caporetto, mentre il suo reparto si ritirava sulle pen-dici del monte To m b a .

Deportato con una tradotta ungherese al campo diMauthausen, Romanoni ricevette la matricola 86434(e ne conserverà a lungo la piastrina metallica) as-

sieme ad altri 6 o 7.000 soldati italiani. Al termine del conflitto, rientrato in Italia e congedato, ils o t t u fficiale si sposò a Mediglia, nel milanese, e trovò la-voro all’Alfa Romeo. Ma il destino volle che venticinqueanni più tardi, nella primavera del 1944, Romanoni ve-nisse arrestato dalla polizia di Salò con altri ventuno di-pendenti dell’Alfa, tutti accusati, come lui, di aver presoparte attiva agli scioperi scoppiati in fabbrica durante quelmese. Rinchiuso nel carcere di San Vittore, l’8 aprile 1944Romanoni fu deportato in Germania e finì proprio aMauthausen, nel blocco 22 di Gusen, col numero di ma-tricola 61741. Romanoni, uno dei pochissimi deportatiitaliani sopravvissuti per due volte a Mauthausen, rien-trò in Italia il 21 giugno 1945 ma con lui c’erano soltan-to quattro dei ventuno dipendenti dell’Alfa arrestati a Salòl’anno prima.

Gli altri erano tutti morti, chi fucilato, chi ucciso indeportazione, compreso un amico fraterno diRomanoni, l’operaio dell’Alfa Alfredo Borg h i ,

asfissiato col gas nel Banhof. Il pittore Carpi, a n c h ’ e g l iinternato a Gusen, volle rendere un omaggio alla me-moria dell’operaio Borghi e disegnò un drammaticoritratto che lo mostrava mentre, già nella camera a gas,si voltava verso di lui gridandogli in dialetto: «Carpidamm de bev».

La cava di pietre del lager, tristemente famosa.

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Con l’attacco dell’Ar-mata Rossa ha inizioil drammatico ripie-

gamento attraverso la step-pa nel gennaio 1943 culmi-nato nella battaglia diNikolajewka, il 26 gennaio,per aprirsi un varco nel-l’accerchiamento nemico.Rientrato in Italia, il 25 lu-glio lo trova in licenza.Richiamato al reparto, l’8settembre viene catturatodai tedeschi e internato neil a g e r, come altri 600 milamilitari italiani. È tra colo-ro, la stragrande maggio-ranza degli internati, che ri-fiutano il giuramento aMussolini e ad Hitler.Nel maggio del ’45 rientra fi-nalmente a casa. Nel di-cembre dello stesso annoviene assunto all’ufficio im-

Le nostres t o r i e

Il suo libro “Il sergente della neve” è diventato un classico della l

La morte di Mario Rigoni Stern.Ha fatto conoscereagli italiani la tragedia della ritirata di Russia

poste del catasto del suo co-mune. L’anno successivo sisposa, matrimonio dal qua-le nasceranno tre figli.L’immane tragedia dei mi-litari italiani nella ritirata diRussia che avevano per com-pagni il gelo e la morte, di-venta nella rievocazione diRigoni Stern “Il sergente nel-la neve”. Il libro, pubblica-to da Einaudi nel 1953, haavuto un grandissimo e du-revole successo, con un nu-mero elevato di ristampe (ol-tre quaranta) e numerose tra-d u z i o n i .

Nel 2001 Mario RigoniStern rilasciò una lungaintervista al re d a t t o re delTriangolo Rosso EnnioElena. Ne pubblichiamoalcune part i .

Rigoni, lei è famoso so-prattutto per Il sergentenella neve, ma credo po-t rebbe essere definito an-che il Sergente nella me-moria perché in moltap a rte di quanto ha scrit-to c’è un filo conduttoreed è quello della memoria.P e rché questa scelta?

Innanzi tutto perché la me-moria è indispensabile pervivere. Tutta la preistoria e

È morto il 15 giugno del 2008 nella sua casa di A s i a g oMario Rigoni Stern. Era nato il 1 novembre del 1921,t e rzo di sette fratelli. Frequenta la scuola sino alla terz aavviamento al lavoro .

Nel 1938, a diciassette anni, è, volontario, alla scuolam i l i t a re centrale di alpinismo di Aosta. In breve diven-ta caporale, poi caporalmaggiore e infine istruttore. Nelgiugno 1940 l’Italia entra in guerra e Rigoni Sternviene dapprima inviato sul fronte francese e, neln o v e m b re successivo, su quello albanese dove si guada-gna la promozione a sergente.

Trasferito al battaglione sciatori del Monte Cervino, nelgennaio del ’42 parte una prima volta per la Russiadalla quale rientra in primavera.Nell’estate successiva raggiunge, con il grado di sergen-te maggiore del battaglione Vestone della Tridentina, ilf ronte del Don.

Un anno fa la “7” ha trasmesso il monologo teatralecondotto da Marco Paolini tratto da Rigoni Stern. In diretta , in prima serata per o l t re due ore senzainterruzioni pubblicitarie, il programma è stato unsuccesso che ha premiato la qualità e l’impegno.

Un’intervista al nostro Ennio Elena per “Triangolo Rosso” del 2001

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a letteratura della guerra. La sua intervista di 7 anni or sono al “Triangolo Rosso”

la storia dell’umanità, dal-le prime iscrizioni rupestri,è memoria. In secondo luo-go, ma questa non è certa-mente una ragione meno im-portante, perché ciò che sidimentica può ritornare. Perquesto bisogna ricordare,mettere in luce quello cheè stato.

Recentemente lei ha dettoche un uomo senza me-moria è un pover’ u o m o .E un popolo senza memo-ria, specie quando talvol-ta dimostra di volerla per-d e re ?

E ’ un popolo senza futuro.Se noi siamo il risultato dimillenni di storia e di prei-storia come possiamo pen-sare di affrontare l’avveni-re senza ricordare, come senascessimo ogni giorno?”

L’abbandono, e talvolta ilrifiuto della memoria,quanto incidono sul decli-no della ragione mora l e ?

Incidono moltissimo sulladeriva che ci sta traspor-tando. Adesso stiamo toccando ilfondo, e anche nel mondose pensiamo che un terzodella popolazione detiene idue terzi delle ricchezze eche si procede come se lerisorse naturali fossero in-f i n i t e .

Recentemente si è riac-cesa la polemica sullam o rte della patria che sa-rebbe avvenuta l’8 set-t e m b re .Lei che quei giorni li havissuti e raccontati, se do-vesse spiegare ad un ra-gazzo perché allora la pa-tria morì e risorse, che co-sa gli dire b b e ?

Gli direi che morì la patriadella retorica e che risorsela piccola patria della gen-te abbandonata da chi co-mandava, che risorse la pa-tria fatta del coraggio e del-la dignità di uomini.

Se dovesse dare qualcheconsiglio a un giovanequali gli dare b b e ?Per primo quello di spegnerela televisione e aprire unbuon libro. Gli direi anchel’avere non fa felici mentrel’essere può dare serenità eche l’essere significa alzarsiil mattino con un program-ma di cose da fare, anchemodeste, umili ma buone,farle e alla sera sentirsi per-ciò in pace con se stessi.Gli raccomanderei anche diessere educato. Ne Il sergente nella nevec’è un episodio molto si-gnificativo, ai limiti dellacredibilità. Si riferisce aquando sfinito cerco ripa-ro in un’isba. Apro la porta dopo aver bus-sato e trovo alcuni soldatidell’Armata Rossa. Io liguardo impietrito. Stannomangiando attorno alla ta-vola. Mi guardano con i cucchiaisospesi a mezz’aria. Ci so-no anche delle donne. Una

prende un piatto e lo riem-pie di latte e miglio, con unmestolo dalla zuppiera ditutti, e me lo porge. Io fac-cio un passo avanti, mi met-to il fucile in spalla e man-gio. Il tempo non esiste più.Poi mi allontano senza chei soldati russi si siano mos-si. Quando sono sulla por-ta una donna alla quale l’a-vevo chiesto a gesti mi dàun favo di miele per i mieic o m p a g n i .Perché successe? Perché mispiegò poi un amico avevobussato, mi ero comportatocome un ospite e non comeun invasore. Sono le rego-le della buona educazioneche mi aveva insegnato miam a d r e .Un vecchio insegnante, co-mandante partigiano, tuttigli anni leggeva questa pa-gina ai suoi studenti del li-ceo l’ultimo giorno di scuo-la. Bussare, chiedere per-messo; oggi purtroppo nes-suno chiede più il permes-so di fare qualcosa.

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Mandelbaum era na-to nel 1922 a Ol-kusz in Polonia ed

era figlio di povera famigliaebraica. Il padre era un ma-cellaio e Henrik, essendo ilpiù grande dei fratelli, do-vette presto aiutare il nucleofamiliare. La vita però scorreva tran-quillamente e senza grandipreoccupazioni. Fino al1939 quando il Reich tede-sco occupò la città sita inAlta Slesia e la famigliaMandelbaum, rientrandonell’ambito delle persecu-zioni antiebraiche del 1941,dovette trasferirsi nel ghet-to nazista di DabrowaGornicza. Qui Henrik dovette lavora-re come muratore in una dit-ta edile tedesca. Prima del-la liquidazione del ghetto diDabrowa, alla fine del 1942,tutta la famiglia dovette tra-sferirsi nel ghetto diSosnowicz. Ma Henrik non si dava pervinto e voleva combattere inazisti. Durante il traspor-to, riuscì infatti a scappare

Le nostres t o r i e

e, sotto falso nome, si na-scose in diversi posti, finoal marzo 1944. In questo periodo infatti erainiziata la caccia e Henrikvenne denunciato da un co-noscente tedesco a Bedzin.Intanto i suoi genitori e tut-ta la sua famiglia erano sta-ti già deportati a A u s c h w i t zBirkenau e sterminati. Lui fu portato nella prigio-ne di Sosnowicz. Dopo al-cune settimane, il 22 aprile1944, venne deportato dal-la prigione della Gestaponel campo di A u s c h w i t z .Appena arrivato gli vennetatuato il numero di matri-cola no. 181.970.In questo periodo, il lager diAuschwitz era già stato am-piamente sperimentato comeil luogo centrale dello ster-minio e del concentramen-to nazionalsocialista degliebrei, con le sue 4 modernecamere a gas e i suoi 5 for-ni crematori. Il progetto di annientamen-to della cultura ebraica eu-ropea era avviato e proce-deva a pieno ritmo.

“I bambini, sempre i bambini mi vengono in sogno lan o t t e ”. Mandelbaum ovviamente intendeva i bambiniche entravano nella camera a gas di Birkenau nelperiodo in cui lui ha lavorato come prigioniero.

E così ha raccontato fino alla fine, avvenuta lo scorso16 giugno nella sua casa di Glewitz, Polonia, a nordovest di Auschwitz.

di Antonella Ti b u rz i

Qualche settimana più tar-di Mandelbaum venne tra-sferito dalla Quarantena delcampo al gruppo di prigio-nieri del Sonderkommandodi Birkenau. Il lavoro che gli venne as-segnato non era molto di-verso dagli altri suoi com-pagni: trascinare fuori lepersone uccise dalla came-ra a gas, mettere i corpi neiforni crematori e infine can-cellare le tracce dalle fos-se comuni. La sua funzionesi estendeva nel cremato-rio IV per trasportare i ca-daveri dalla camera a gasfino ai forni, poi al crema-torio II, per tre settimane,per lo stesso compito e poinel IV° impianto come ad-detto alle fosse comuni. I prigionieri del Sonder-kommando erano i veri te-stimoni dello Sterminio esi differenziavano dagli al-tri prigionieri. I nazisti la-

sciarono a loro le operazionidi portare avanti il piano disterminio ma gli artefici del-la distruzione erano soltantoed esclusivamente le SS. Imembri del SK però eranogli ultimi a vedere le vitti-me, negli spogliatoi, primadi essere gasate. Nello stesso tempo aveva-no anche il difficile compi-to di “i l l u d e re” le vittime etranquillizzarle sull’imme-diato destino mentre le aiu-tavano a spogliarsi.L’incarico più doloroso eratuttavia quello di privare icorpi, dopo l’uccisione, an-cora della loro dignità. Imembri del SK dovevanotagliare loro i capelli, cer-care eventuali oggetti di va-lore nascosti e togliergli identi d’oro. Le vittime era-no proprietà del Reich cosìcome i loro beni personali.“Con l’arrivo dei traspor -ti, cercavamo di non avere

Il polacco Henrik Mandelbaum faceva parte dei prigionieri d

Trascinare nei forni le persone uccise dalla camera a gas

Al lavoro nell’edilizia a Dabrowa negli anni ‘40.

La sua memoria del forno di Birkenau comeuna malattia senza nome

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contatti. Del resto se io gliavessi detto qualcosa suquello che sarebbe di li apoco avvenuto, molti avre b -b e ro tentato di fuggire o al -t ro, e allora le SS li avre b -b e ro uccisi immediatamen -te. Me compreso.e poi ar -rivavano i trasporti suc -cessivi che venivano gasa -ti e bruciati e poi ancora eancora…..Ecco cosa eraB i r k e n a u”. Spesso accade-va che mentre si stava ga-sando un trasporto, nel pra-to adiacente agli impianti, cifossero interi gruppi, fami-glie, comunità o villaggi in-teri in attesa, ignara, di es-sere eliminati. I membri del SK li vedeva-no e iniziava, di nuovo, las o fferenza, quotidiana e in-finita nel loro essere. Subitodopo ogni gasazione, biso-gnava portarli al forno e co-minciare il lavoro di ince-nerire i corpi. L’incarico im-

poneva l’utilizzo di tecni-che in grado di accelerarequesto processo di distru-zione dell’umanità. Tu t t a .“Io racconto quello che èaccaduto, ma chi mi ascol -ta può non cre d e re o im -m a g i n a re. Uomini che finoa pochi minuti prima eravivi, cancellarsi nel fuoco.Non è possibile!Non può es -s e re! Ma purt roppo lo era.Questa è la verità”. I mem-bri del SK di Birkenau era-no ben coscienti del fattoche prima o poi sarebberostati eliminati. “E r a v a m om o rti viventi” disse Henrikricordando quei momentifatti di disperazione, apatiae abbandono. Per via della sua corpora-tura, Mandelbaum fu quin-di addetto a trascinare fuo-ri i corpi dalla camera a gase poi caricarli su, fino al for-no crematorio.

In questo compito potevariconoscere quindi i volti egli uomini che si appresta-vano a scomparire dalla ter-ra. Per sempre.Quei visi che formavano ecostituivano l’ebraismo eu-ropeo. Isolato dai prigio-nieri degli altri comandi dilavoro, Mandelbaum lavorò,come prigioniero, per ottomesi al sistema quotidianodi annientamento. “Il cuo -re era profondamente esplo -so. Le vittime erano uomi -ni in salute e innocenti e do -vevano finire nel gas. Io vidico che è una tragedia as -s o l u t a” ricordava semprenel suo m e s t i e re di testi-mone. Egli faceva parte di quei po-chi prigionieri che soprav-vissero alle tre liquidazio-

Otto mesi da prigioniero nel sistema di annientamento quotidiano dei corpi

Una fotografia recente diHenrik Mandelbaum

La scena che si presentò alla Liberazione a Birkenau. le baracche in fiamme e la porta aperta nel locale docce, dadve escono i vestiti degli asfissiati con il gas.

ni e alla nota rivolta delSonderkommando. Infatti,secondo il progetto nazista,i membri del SK dovevanovivere solo tre mesi, inquanto testimoni del pianodi distruzione nazionalso-c i a l i s t a .Ma in occasione dello ster-minio degli ebrei unghere-si di fine maggio 1944, cir-ca 10.000 al giorno, il grup-po raggiunse il suo piccocon 874 uomini. Ma alla fi-ne del novembre dello stes-so anno, si arrivò a 100 uo-mini. La coraggiosa rivolta del 7ottobre 1944, seppur auda-ce e valorosa, unitamentealla volontà di distruggeregli impianti dello stermi-nio, finì con un bagno disangue. Mandelbaum so-

ri del Sonderkommando, veri testimoni dello sterminio

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pravvisse per miracolo oper volontà contingente. Alla fine dell’ottobre 1944,nella camera a gas diAuschwitz, nel suo ultimoutilizzo, erano stati uccisicirca 1 milione e 100 ebrei.I sopravvissuti del SK aspet-tavano l’ultima liquidazio-ne e lo spostamento dei pri-gionieri del campo. Il 17gennaio 1945 in occasionedell’inizio della marcia del-la morte, i sopravvissuti delSK si mischiarono alla co-lonna di deportati che la-sciava il campo diAuschwitz. Durante il tragitto nellaPolonia distrutta e disse-minata di lager e di prigio-nieri, Mandelbaum riesce afuggire nella zona di

Jastrzebie Zdroj e far per-dere le sue tracce. Subitodopo la liberazione dellaSlesia da parte dell’ArmataRossa, Henrik decide di ri-tornare ad Auschwitz im-mediatamente come primosopravvissuto del SK perportare la Commissione diInchiesta Sovietica a veri-ficare con i loro occhi gliorrori del nazionalsociali-smo ad A u s c h w i t z .Un’iniziativa ricca di for-za e determinatezza, valo-ri che i nazisti a Birkenaunon avevano distrutto.Grazie a lui si poterono av-viare le prime operazionidi accertamento e di rico-noscimento delle colpe edel progetto criminale na-zionalsocialista.

“ Il lager gli aveva avvele -nato anche le ossa” cosìaveva detto sua moglieLydia in occasione di un’in-tervista nel febbraio 2002

resa allo storico tedescoAndreas Kilian ( Zeugenaus der Todeszone, Mun-chen, Dtv, 2005). Ha anche raccontato che

ogni volta che accompa-gnava i visitatori adAuschwitz, poi la notte nonriusciva a dormire e grida-va tutta la notte: I h rSchweine” - voi maiali!Ma Lydia ricorda anche del-l’interesse con la quale igiovani ascoltavano il ma-rito nei suoi racconti dei fat-ti. Spesso arrivavano degli in-viti per andare a parlare invarie parti della Germaniache lo rendevano partico-larmente soddisfatto. Era infatti uno straordinariotestimone e il suo raccon-to stimolava a pensare e a ri-flettere molte persone. Era un bravo oratore e sa-peva intrattenere anche inconversazioni più leggeree ironiche. Rispettava la re-ligione cattolica della mo-glie, ma non credeva in Dioe soleva ripetere: “Se ci fos -se stato un Dio, il Sonder -kommando non sarebbe esi -s t i t o”. La moglie racconta chequando incontrava per stra-da un bambino che piange-

va, Henrik subito gli si ap-procciava e gli chiedeva:“P e rché piangi? Non pian -g e re angioletto, non pian -g e re. Presto andrà tutto be -n e”. I bambini del resto era-no la sua ossessione, diur-na e notturna. Nelle came-re a gas dove aveva lavo-rato ne aveva visti molti,troppi. Quei bimbi che, nascostitra le gambe o sotto le brac-cia delle madri, erano riu-sciti a sopravvivere alla ga-sazione. Le madri erano già morte,ma loro ancora vivevano.Queste visioni lo hanno ac-compagnato tutta l’esi-stenza. Insieme a tutte le vittimedella Shoah, i membri delSK erano i prigionieri piùd i f f i c i l i perché prove vi-venti del progetto di di-struzione nazista. Vi t t i m e ,nonostante la sopravvi-venza, di un sistema cri-minale che ancora oggi glirende gravoso e doloroso ildovere di testimone.

Antonella Ti b u rz i

Il racconto ad uno storico: “ il lager gli aveva avvelenato anche le ossa”

Mandelbaum :la sua memoria del forno di Birkenau c o m euna malattia senza nome

Umiliati e sterminati: prima immagine Varsavia 1939. Seconda foto: Birkenau aprile 1945, il deposito dei “re s t i ” .

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Le ragioni più appari-scenti di questa ag-gressione alla Grecia

e m e rgono dalla logica di pre-stigio perseguita dal duce.Troppo alto è il clamore peri successi di Hitler in Poloniae in Francia. La sua imma-gine di condottiero deve es-sere salvaguardata e la spe-dizione contro la Grecia èconsiderata “utile e facile”.“Hitler mi mette sempre difronte al fatto compito;que-sta volta lo saprà dai gior-nali che ho occupato laGrecia. Così l’equilibrioverrà ristabilito”, così ri-corda le parole Ciano nel suoD i a r i o .Sappiamo come andò a fi-nire l’impresa dalla storia;non fu nè utile nè facile. Fuuna vera disfatta con costiumani e materiali enormi. La spedizione militare delregime fascista in Grecia e inAlbania è una delle pagine

Le nostres t o r i e

più brutali e criminose del-la nostra storia. Il silenzio che continua apermanere su quella occu-pazione fa parte di quellavulgata che accompagna an-cora oggi, a distanza di tan-ti anni gli italiani che si re-cano in Grecia : “Italiani bra-va gente”. Un rimosso di Mussolini checontinua: quelle brutali ope-razioni di asservimento dipopolazioni inermi, di rap-presaglia sono finite nel di-menticatoio sia di parte ita-liana che greca. Sono storiada cancellare. Gli aggresso-ri assolti nonostante le ope-razioni vergognose e bruta-li verso i civili;gli aggredi-ti, le vittime il popolo gre-co che pur denunciandoall’Onu e alla Croce RossaInternazionale le atrocità dimassa subite da parte ita-liana, viene trattato daPaese senza diritti.

18 Novembre 1940, discorso di Benito Mussolini a piaz-za Ve n e z i a“…l’Italia e l’Impero, dalle Alpi all’Oceano Indianosono in ascolto.… tra Germanici e Italiani siamo un blocco di150.000uomini risoluti e compatti.Ora con la stessa certezza assoluta, ripeto assoluta, vidico che spezzeremo le reni alla Gre c i a . ”

L’ambizione di Mussolini è quella di ampliare la sferadi influenza dell’Italia al di là dell’Adriatico e conqui-s t a re nuovi territori. Al tempo stesso voleva mettereH i t l e r davanti al fatto compiuto e tenere l’alleato tede-sco all’oscuro sino all’ultimo minuto.

di Angelo Ferranti

La Grecia tra il 1940 e il1943, paga le conseguenzeespansioniste della politi-ca dell’Asse. Prima con lacapitolazione al tedesco:Il27 aprile 1941 la We r m a c h tentra in Atene. Viene no-minato un governo colla-borazionista. Il re e il suogoverno riparano a Creta.Il territorio greco viene sud-diviso in tre zone di occu-pazione: una alla Bulgaria,una ai tedeschi e la partepiù larga fu occupata dagliitaliani. Questa scelta di suddivide-re i tre territori occupati inprotettorati ha effetti e con-seguenze disastrosi per lapopolazione. Spogliato il paese di tuttele vettovaglie e le risorsedisponibili, nello spazio dipochi giorni tutti i magaz-zini, tutti i negozi rimaserovuoti e la fame cominciò adinfierire. La popolazione

fece ricadere sui tedeschi,che dirigevano anche leoperazioni italiane, le re-sponsabilità di quanto av-v e n u t o .In pratica gli occupanti fu-rono autorizzati a impie-gare le truppe nel requisiredepositi, colpendo la pro-duzione agricola, la cerea-licola, quella industriale,occupando e assoggettan-do la Banca nazionale diGrecia. Questo intervento brutalee generalizzato provocòmalnutrizione, con il con-seguente aggravamento del-le condizioni di salute del-l’intera popolazione.L’immigrazione forzata del-la popolazione dalle cam-pagne alle città, costretteall’esodo dalla carestia edalle violenze degli occu-p a n t i .Malattie endemiche comela tubercolosi, la malaria,

La logica di prestigio perseguita da Mussolini scatena l’aggressione alla Gre c i a

In pochi giorni Paese spogliato di tutte le risorse disponibili

Domenikon, in Gre c i aun massacro italianoche nessuno conosce

L’attacco allaG recia in unac o p e rt i n ad e l l e“ D o m e n i c ad e lC o r r i e re”.

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provocarono un vertigino-so aumento della mortalità. G i o rgio Vaccarino in unaaccurata ricerca storica suquella occupazione: ”LaGrecia tra resistenza e guer-ra civile 1940-1949”, ri-porta a questo proposito unapubblicazione governativadel 1946 in occasione del-la Conferenza di della pa-ce:” …risultavano 360.000i morti per fame sotto l’oc-cupazione su una popola-zione di 7.350.000, il chesignificava più della metàdelle perdite attribuite a ra-gioni di guerra nella misu-ra di 600.000 .” e aggiun-ge, a proposito delle re-sponsabilità italiane:”Germania e Italia concor-darono nell’agosto del 1941di fornire al paese un mini-mo di 150.000 tonnellate dicereali, ma in realtà non nefecero pervenire che 20.000.I tedeschi scaricarono leresponsabilità sugli italiani,perché era ad essi che com-peteva l’alimentazione del-la Grecia, che nella suamaggior parte era compre-sa nella zona in cui l’Italiaesercitava il potere”.Con l’aggravarsi della guer-ra e l’allargamento dei fron-ti in Europa, le condizionidella popolazione diven-

nero insopportabili. L’ a t t e g-giamento degli occupanti,oscilla tra il dare sostegno algoverno collaborazionistacercando di impedire sol-levazioni e rivolte o consi-derare l’affamamento co-me un ottimo strumento pertogliere le forze fisiche aitemuti ribelli.Come ben si comprende leu rgenze dettate dalla man-canza di viveri, la miseria,la morte diffusa, il rancoree l’odio per gli invasori,ilbisogno di por fine alla guer-ra e alle distruzioni, il for-te patriottismo, sono gli ele-menti che stanno alla basedella nascita del movimen-to di resistenza. Si formauna volontà di resistere, aprendere posizione per ildomani, a organizzare gran-di manifestazioni di popo-lo ad A t e n e .Una iniziativa clamorosa –l’abbattimento nottetempodi una gigantesca bandieracon la croce uncinata dal-l’alto pennone dell’Acropoli– è considerata l’inizio cla-moroso e simbolico dellaresistenza greca.Non ci è possibile in que-sta sede sviluppare il com-plesso e travagliato percor-so del movimento di libe-razione greco.

Dopo la sconfitta dell’Assequella parte dell’Europa checonfina con l’area di in-fluenza del campo sociali-sta è considerata dall’occi-dente un baluardo alla in-fluenza e alle mire di am-pliamento dell’Urss.

Al tempo stesso gli StatiUniti e la Gran Bretagna,quest’ultima tradizionaleprotettrice della Grecia, of-frono il loro totale appoggioalle forze moderate e con-servatrici, anche a quellepiù reazionarie e fasciste e

alla monarchia. Tra tutte le forze org a n i z-zate nella resistenza, la piùforte e combattiva è quelladel partito comunista elle-nico. È il KKE il grande pro-tagonista dell’intero movi-mento partigiano greco. Le divisioni, i dissidi in-

terni, le violenze nei con-fronti dei critici che si op-pongono a una conduzioneautoritaria, la formazionedottrinaria e la forte ideo-logizzazione dei suoi quadridirigenti renderanno vanoil sogno di dare un voltonuovo alla Grecia.

Impossibile liberare laGrecia dall’interventismodell’una o dell’altra partedegli schieramenti dellaguerra fredda che si con-tendono i destini di quel-l’area di confine dell’Eu-ropa. La lunga lotta di que-sto gruppo dirigente, traconquiste e sconfitte, consacrifici immani si conclu-derà con la guerra civile chesi protrarrà fino al 1949.Il cammino della speranzainiziato nel 1940 per libe-rarsi dell’occupante si con-clude tragicamente. È la fine di un sogno, di unarivoluzione nazionale, diuna Grecia libera dalle ipo-teche delle grandi potenze. La storica Lidia Santarelliha riportato alla luce la stra-ge di Domenikon e gli altrimassacri italiani in Te s-saglia,Epiro e Macedonia.Una attività repressiva deicomandi italiani, fatta di ra-strellamenti, fucilazioni, in-

cendi, requisizioni e di-struzioni di ogni genere.Comportamenti brutali ede fferati completamente ri-mosssi, sconosciuti ai più.“Che cosa sa il grande pub-blico italiana della campa-gna di Grecia di Mussolini,di quel periodo? È un buconero nella storiografia”, af-ferma con forza.Domenikon, è un piccolopaese agricolo della Te s-saglia, la regione nel norddella Grecia famosa perl’Olimpo, la sede degli deinella mitologia greca, vici-no a Elassona, a Tsaritani, aL a r i s s a .La strage di Domenikon èil primo episodio di apertaviolenza nei confronti di ci-vili dei molti avvenuti trala primavera e l’estate del1943 da parte italiana.È un territorio non nuovoall’azione della resistenza;vi sono localizzate forzepartigiane, formazioni di

La fine del sogno secolare di liberarsi delle grandi potenze

Le divisioni e i dissidi lacerano il movimento partigiano

Domenikon, in Gre c i aun massacro i t a l i a n oche nessuno c o n o s c e

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g u e r r i g l i a .Il generale Carlo Geloso,comandante italiano delleforze d’occupazione, perostacolarne le azioni e con-trastare l’appoggio delle po-polazioni, emanò una cir-colare sulla lotta ai ribelliil cui principio cardine erala responsabilità collettiva.Per sconfiggere il movi-mento partigiano andavanoannientate le comunità lo-cali. Solo così si compren-de quanto avvenne a Do-menikon in quella prima-vera del 1943.I fatti. Il 16 febbraio 1943un convoglio militare ita-liano a circa un chilometrodal paese, a una curva ral-lenta, da una collinetta i par-tigiani lo attaccano. Fanno fuoco e nell’aggua-to nove soldati italiani ri-mangono uccisi. La reazio-ne del comando italiano èviolentissima. Il generaleCesare Benelli, comandan-te della divisone Pineroloordina di circondare il pae-s e .“Bisogna dare una salutarelezione”. I civili corresponsabili del-

la morte dei nove soldatiitaliani vanno puniti con un’azione esemplare. Ordina di rastrellare la po-polazione, di concentrarlanella piazza centrale mentrecaccia col fascio littorio sor-volano a bassa quota il vil-laggio e scaricano le lorobombe incendiarie. Case,fienili, stalle, bruciano trala disperazione e le urla del-le donne e il lamento deglia n i m a l i .Tutte le famiglie di Dome-nikon al tramonto sono por-tate sulla curva fuori dalp a e s e .Tutti i maschi sopra i 14 an-ni separati da madri, mo-gli,figlie, sorelle, per esse-re trasferiti a Larissa per gliinterrogatori. Una tragicamessa in scena. All’una dinotte del 17 gli italiani li fu-cilano nel giro di un’ora. Icorpi ammassati in fosse co-m u n i .L’eccidio continuò nellanotte e l’indomani. I soldati della Pinerolo as-sassinarono per strada e peri campi pastori e paesaniche si erano nascosti: le vit-time furono 150.

Domenikon è stata parago-nata alla nostra Marzabotto,il massacro di donne vec-chi e bambini per manodelle SS di Reder, uno degliavvenimenti più tragici,della nostra storia che han-no assunto il ruolo di sim-bolo. Furono massacri, quel-li di Marzabotto, non supe-rabili per crudeltà. Non sitrattò della mera uccisione

di civili inermi, bensì di unafredda e bestiale carnefici-na. Tale e quale a quella fat-ta dagli uomini della Pine-rolo a Domenikon: non col-pirono i partigiani ma la po-polazione civile innocente.Si deve dunque alla lunga ecomplessa ricerca di LidiaSantarelli se questa paginaoscura della nostra storia èriemersa dall’oblio.

La spedizione fascista inGrecia fa parte del silen-zio sui crimini di guerraavvenuti nei Balcani daparte del nostro esercito,che la destra dopo la rot-tura dei governi di unitàantifascista impone.E ’ significativo questosforzo di documentarequanto accadde frutto dellavoro di scavo di fonti etestimonianze da parte diautorevoli ricercatori ,comprese le recenti in-chieste giornalistiche. Senza questa attenzione ri-schiavano di essere sepol-ti definitivamente dal tem-po e dall’intervento dellestesse destre che allora co-sì come oggi hanno inte-resse a cancellare quellepagine e quegli avveni-menti scottanti.È una risposta importanteallo stravolgimento dei fat-ti e alla negazione delle re-sponsabilità del regime fa-

Domenikon paragonata alla nostraMarzabotto: italiani Brava Gente?

scista . Una risposta allafalsa coscienza, al revi-sionismo, alla furbizia diquanti inquinano la nostramemoria e identità nazio-nale nata dalla Resistenza.È penoso assistere a unadestra ancora intrisa diumori e nostalgie fascistenegare quelle vicende. Questa destra vuole esse-re assolta dal fascismo, dal-le leggi razziali, dalle uc-cisioni delle popolazioniinermi, ma anche dalle tor-ture, dagli stupri, dai sac-cheggi, dalle uccisioni de-gli antifascisti. Per questo Domenikon èstata insabbiata e i re-sponsabili di questa e dialtre criminali campagnidi violenze, mai estradati,mai condannati.Domenikon, riconosciutacittà martire nel 1998, nonè diventata memoria col-lettiva. Molti greci non co-noscono questa vicenda.

Bersaglieri italiani allo sbarco in Grecia, dalle risorsescarse e un po’ spelacchiati come esercito, che non liesime da esibirsi davanti al fotografo in uno “sfottò”delle drammatiche condizioni alimentari dellapopolazione ellenica dopo il saccheggio italiano.

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Èil diario di due annidi prigionia punti-gliosamente redatto

da Enrico Rossi, insegnantealle scuole medie “Tr a v e l l i ”di Mortara, scomparso nelgennaio del 2007, che fu uf-ficiale di artiglieria e poi pri-gioniero nei lager tedeschi. Da quelle pagine scritte concura, con calligrafia micro-scopica, nascerà un libro permoti versi inedito, che trat-ta dei cosiddetti Imi, gli in-ternati militari italiani, che amigliaia soffrirono il dram-ma della prigionia solo peraver indossato doverosa-mente la divisa della loroPatria. Lo scritto è un li-brettino sgualcito che EnricoRossi dedicò alla sua fidan-zata Ines Cerutti al momen-to di partire per la guerra. “Ogni giorno scriveremo unapagina del nostro diario, co-sì ci sembrerà di restare sem-pre insieme”, recita la pre-messa. Enrico Rossi, nato a To r n a c oil 16 aprile del 1920 da unafamiglia di agricoltori ori-ginaria di Gambolò, prendeservizio il 4 settembre del1943 ad Albenga, appena unmese prima della data scel-ta per unirsi in matrimonio

Le nostres t o r i e

con Ines Cerutti. I due sierano conosciuti proprio al-le scuole Travelli, duranteuna supplenza di InesCerutti, insegnante di lette-re. Ad Albenga Rossi è coin-volto nelle traversie dellenostre truppe all’8 settem-bre 1943, in una confusionegenerale che sfocia nella cat-tura da parte dei soldati te-deschi, presso il colle diGaressio. Da qui la partenza in carrobestiame da Acqui alBrennero e poi verso cinquecampi di concentramento,da Przemysl, in Polonia, fi-no a Norimberga e Ham-mertein, in Germania e GrossHesepe e Meppen, al confi-ne olandese. Il libro è un’oasi di buonisentimenti, la vittoria del be-ne sul male, la lotta quoti-diana contro l’abbrutimentoattraverso la fede cristiana,in uno sforzo sovraumanoper mantenere la dignità, tratanto dolore e tanta soff e-r e n z a .Sono gli internati, ridotti ascheletri, vestiti di stracci,picchiati, a dare uno straor-dinario esempio di coraggioe di fermezza ai loro aguz-z i n i .

P e r quasi 65 anni è rimasto un segreto racchiuso in unag rossa scatola di latta, nascosta in un armadio. Orap romette di diventare una delle più toccanti paginesulle soff e renze dei prigionieri militari italiani nellaseconda guerra mondiale, in un libro edito dalla Societàstorica vigevanese e pubblicato grazie al sostegno assi-curato dagli assessori alla cultura della Provincia e delComune di Mort a r a .

La cosa straordinaria è chequelle pagine, insieme a uncentinaio di lettere scrittea Ines e da lei conservate,sono rimaste assolutamen-te sconosciute a tutti, per-sino ai due figli di EnricoRossi, che hanno rinvenu-to il materiale solo nel-l’autunno del 2007, facen-do il trasloco nell’abitazionedel padre scomparso nelgennaio dello stesso anno.Ora tutto questo diventeràun libro a cura della Societàstorica vigevanese.“Attraverso il professorMarco Savini – spiega CarloRespighi, presidente dellaSocietà storica vigevanese– siamo stati messi al cor-rente di questo prezioso ma-

teriale, che affronta un temadi cui si è parlato e scrittopochissimo, vale a dire ildestino degli internati mi-litari. Per questo abbiamodeciso di dedicare al diarioun volume della nostra col-lana “Biblioteca”. Credorappresenti un ottimo mo-tivo di riflessione, soprat-tutto nelle scuole, doveEnrico Rossi e la moglieInes hanno trascorso l’in-tera vita professionale”.Il libro conterrà anche unaprefazione curata da MarcoSavini, storico vigevanese,e sarà correlato da imma-gini, quali quelle dei fogliche il Terzo Reich dava aiprigionieri per la corri-spondenza, oppure i “ta-

Il diario di due anni di prigionia di Enrico Rossi, pavese, internato militare dopo l

Una scatola nascosta contenevail racconto di una prova di dignità

Cara Ines, amore mio, ti scrive uno scheletrovestito di stracci. Sono io, il tuo Enrico...

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o l’otto settembre, che scrive le sue vicende al campo come lettere alla fidanzata

Enrico Rossi in due fotografie scattate durante ilserviaio militare, in alto un disegno della camerata nelcampo di priginia in Germania

gliandi pacco” che i pri-gionieri inviavano a casaper poter ricevere aiuti ali-mentari. Nel libro ricorrono anchealtri nomi di internati lo-mellini, quali Cappa diTromello, Mannu Ricci diMortara, Casalone, Zadrodi Cilavegna, Ciocca,Bagliani, Aiardi di Tr o m e l l oed altri ancora.Uomini con cui si instaura-rono legami che duraronoben oltre gli anni della pri-gionia. “Per me e per il mio colle-ga mortarese Fabio Rubiniè un impegno molto gradi-to – commenta l’assessoreprovinciale alla Cultura,

Marco Facchinotti – sonoconvinto si tratti di una te-stimonianza meritevole e diun esempio concreto del-l’importanza dei valori piùalti dell’animo umano. Unatestimonianza della forzadei sentimenti e dell’aff e t-to limpido verso la propria.Aggiungo che Enrico Rossiè stato, fra l’altro, mio pro-fessore alle scuole medie,anche se francamente nonsapevo nulla dei suoi tra-scorsi nei lager”.Il libro con ogni probabilitàsarà presentato uff i c i a l-mente il prossimo 8 set-tembre, in occasione del65esimo anniversario del-l ’ a r m i s t i z i o .

Gli scritti dagli internati militariitaliani (IMI) catturati dai tedeschidopo l’8 settembre non sono molton u m e rosi. Alla fine degli anni ’90si erano censite circa 500 biogra -fie Molta produzione autobiografica èrimasta inedita, spesso sottovalu -tata dagli stessi autori o dispersadai loro eredi. Nei casi fortunati in cui si è salva -ta, come quello che qui si pre s e n t a ,è molto importante raccoglierla e

farla conoscere sia per il suo valore intrinseco sia co -me fonte storica.Com’è noto l’espressione internati militari è impro p r i a .I soldati disarmati dai tedeschi e trasferiti nei terr i t o r ioccupati dal Terzo Reich erano, a tutti gli effetti, deiprigionieri di guerra. La formula adottata da Hitler eraun espediente per non permettere agli italiani cattura -ti di valersi della Convenzione di Ginevra e delle visitedella Croce Rossa Internazionale Il governo di Salò sirese complice di questo tragico gioco, anche per farp ressione sui connazionali che non avevano firmato l’a -desione alla Repubblica Sociale. In un secondo tempo la negoziazione del governo italianop o rtò i soldati internati allo statuto di “lavoratori li -beri”, (senza però possibilità di lasciare il lavoro e laGermania!). Se migliorarono lievemente le condizionialimentari e sanitarie, ciò rispose però all’impellente fab -bisogno di mano d’opera dei tedeschi più che ai dirittie ai bisogni dei prigionieri.Le vicende dell’8 settembre 1943 sono note. Dalle mo -dalità con cui venne firmato l’armistizio emergono chia -ramente le responsabilità della monarchia e del gover -no Badoglio che misero in conto la prigionia di migliaiadi soldati italiani. I militari catturati divennero oggetto di ogni possibilearbitrio e vendetta.Ma non va confuso il termine di deportato con quello diinternato. I deportati dall’Italia (poco meno di 40 miladi cui 8 mila ebrei) finirono nel campi di concentra -mento e di sterminio gestiti direttamente dalle SS; gliinternati, pur soffrendo spesso simili condizioni di fame,f reddo, sfruttamento, umiliazione, furono imprigionatinei campi per prigionieri di guerra (pur non avendonelo statuto), spesso accanto a quelli di altre nazioni bel -ligeranti (come si ricorda nel diario Rossi), in condi -zioni relativamente migliori. Nonostante questa dove -rosa distinzione la sorte di molti internati fu comune aquelle dei deportati. Soprattutto nei campi si sviluppò una forma di re s i -stenza ideale e morale, spesso misconosciuta: re s t a re uo -mini in quelle condizioni estre m e .

M a rco Savini,segretario provinciale Associazione Nazionale Ex

Deportati - Pavia

Gli scarsi raccontid e g l i I M I