2.2016 DIRITTO DELLA CRISI DELLE IMPRESE - mulino.it · Appendice di aggiornamento in relazione al...
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[2.2016]
DIRITTO DELLA CRISI DELLE IMPRESE
Appendice di aggiornamento in relazione al d.l. n. 83/2015, conv. dalla l. n. 132/2015
[I riferimenti, salvo che sia diversamente precisato, sono alla IIIa edizione, Bologna, 2014]
SOMMARIO: I. PREMESSA. – 1. Considerazioni introduttive. – II. IL FALLIMENTO – 2. Notazioni generali. –
3. Disciplina del curatore: la nomina; il registro nazionale. – 4. Misure per favorire l’accelerazione del fallimento: gli acconti al curatore; i giudizi di cui sia parte un fallimento; il programma di liquidazione; la chiusura della procedura. – 5. La revocatoria degli atti a titolo gratuito. – 6. Modalità delle vendite. – III. IL CONCORDATO PREVENTIVO – 7. Notazioni generali. – 8. Proposta di concordato: presupposti e contenuto. – 9. Ammissione alla procedura. – 10. Le proposte concorrenti. – 10.1. Premessa. – 10.2. Proposte concorrenti: legittimazione; presupposti. – 10.3. Segue: contenuto; relazione di attestazione; modifiche. – 10.4. Segue: termini di presentazione – 10.5. Segue: controllo di ammissibilità. – 10.6. Segue: comunicazione ai creditori. – 10.7. Segue: rinunzia del debitore alla domanda; revoca dell’ammissione. – 10.8. L’intervento del commissario giudiziale. – 10.9. Discussione e votazione. – 10.10. Omologazione e relativi effetti. – 10.11. Esecuzione della proposta concorrente approvata ed omologata. – 10.12. Risoluzione e annullamento del concordato. – 11. Le offerte concorrenti. – 12 Commissario giudiziale: comunicazioni al P.M. – 13. Giudizi in cui è parte l’impresa in concordato – 14. Contratti pendenti – 15. Relazioni del commissario giudiziale in vista dell’adunanza. -16. Discussione e approvazione delle proposte. – 17. Omologazione. – 18. Esecuzione del concordato. -19. Finanza interinale. – IV. ACCORDI DI RISTRUTTURAZIONE E CONVENZIONI DI MORATORIA – 20. Introduzione. – 21. Accordi di ristrutturazione con intermediari finanziari. – 22. Convenzioni di moratoria. – 23. Profili penali. – V. CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE – 24. Uno sguardo al futuro.
I. PREMESSA
1. Considerazioni introduttive.
Nel capitolo introduttivo (al § 8) si è sottolineato come la riforma “organica” del 2005-2007 sia
tuttora in corso di completamento, ricordando come, successivamente all’entrata in vigore di tale
riforma, il nostro legislatore, praticamente con cadenza annuale, abbia proceduto a “ritoccare”
quella normativa, con modifiche di rilevanza, talora, non marginale. Nel 2015 il processo di
“aggiustamento” è proseguito. Nel c.d. “decreto giustizia”, il d. l. 27 giugno 2015, n. 83, è stato
infatti inserito un titolo I – la cui rubrica recita “Interventi in materia di procedure concorsuali” –
contenente un articolato complesso di disposizioni modificative o integrative della legge
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fallimentare, un complesso che è stato ulteriormente arricchito in sede di conversione, con la l. 7
agosto 2012, n. 134.
C’è da rilevare che ancora una volta si è ritenuto di seguire un itinerario singolare e sconcertante.
Nel gennaio del 2015, il Governo ha insediato una commissione incaricata di elaborare un progetto
di riforma organica delle procedure concorsuali presenti nel nostro ordinamento e di predisporre la
bozza di una possibile legge delega. Anziché attendere la fine dei lavori di tale commissione, lo
stesso Governo, pochi mesi dopo, si è precipitato ad emanare un ennesimo decreto legge,
contenente una specie di “miniriforma” della disciplina di alcune delle procedure regolate dalla
legge fallimentare, che prescinde completamente da quei lavori: un autentico “sgarbo” istituzionale
non privo di precedenti, nella nostra materia, ma non per questo meno grave.
Al di là di tutto ciò, comunque, si tratta di un intervento di rilevante portata, dal punto di vista sia
quantitativo sia qualitativo, ricco com’è di importanti novità che meritano attenzione pur se non
necessariamente condivisione. Anche perché tali novità appaiono essere il frutto, non già di un
disegno complessivo nitido e coerente, ma di spinte e di linee guida che si sovrappongono più o
meno confusamente e talvolta si contrappongono: l’accelerazione della procedure, e specificamente
della procedura fallimentare; il potenziamento del ruolo dell’informazione; la “contendibilità” delle
imprese in crisi; la compressione dell’autonomia privata nelle soluzioni negoziate. Ancora una volta
vi è da dubitare che con simili tipi di intervento si possa arrivare a conseguire l’obiettivo di quella
“stabilità normativa” che, anche e proprio in materia di disciplina delle crisi delle imprese,
costituisce (costituirebbe) di per sé un fattore di efficienza e che un legislatore serio dovrebbe
sempre avere di mira.
Espressivo della scarsa chiarezza di idee del nostro legislatore è, fra l’altro, l’assenza di
qualsivoglia sistematicità nella sequenza delle nuove disposizioni. Si esordisce con una disposizione
dedicata alla finanza interinale; si prosegue con un “blocco” di disposizioni dedicate al concordato
preventivo; si continua con disposizioni riguardanti il fallimento; successivamente si torna al
concordato preventivo; per concludere con disposizioni concernenti gli accordi di ristrutturazione.
In questa sede, seguiremo l’ordine adottato dalla legge fallimentare: il che dovrebbe aiutare a
cogliere meglio la portata delle nuove norme.
II. IL FALLIMENTO
2. Notazioni generali.
La maggior parte delle nuove disposizioni è dedicata alla disciplina del concordato preventivo e
degli accordi di ristrutturazione. Le previsioni riguardanti il fallimento sono poche e appaiono quasi
tutte tendenzialmente ispirate all’esigenza di accelerare la chiusura di tale procedura.
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3. Disciplina del curatore: la nomina; il registro nazionale.
La nuova legge è intervenuta sull’art. 28, in materia di requisiti per la nomina a curatore.
Si è, da un lato, abrogato il termine di due anni per l’incompatibilità con la carica di curatore di
chi abbia concorso al dissesto dell’impresa (in base al rilievo, contenuto nella relazione al disegno
di legge di conversione del d.l. n. 83, che negli ultimi anni sono state molte le crisi di impresa che si
sono protratte per ben più di due anni prima di sfociare nella dichiarazione di fallimento). E,
dall’altro, si è stabilito, in un nuovo comma, che «Il curatore è nominato tenuto conto delle
risultanze dei rapporti riepilogativi di cui all’art. 33, quinto comma»: previsione abbastanza
criptica, non essendo chiaro né di quali rapporti si tratti (è da ritenere, comunque, che debba
necessariamente trattarsi di rapporti redatti nell’ambito di altre procedure, presumibilmente svoltesi
davanti allo stesso tribunale), né se e in che modo tali rapporti siano da acquisire al
subprocedimento di nomina, né di quali risultanze si debba tener conto. In ogni caso, la precisazione
sembra ispirata all’idea di rafforzare, seppur indirettamente, il ruolo dei rapporti riepilogativi come
fondamentale veicolo informativo, in particolare, ma non solo, nelle relazioni fra curatore e
creditori.
L’art. 28, poi, è stato arricchito di un ultimo comma, con il quale si è prevista l’istituzione,
presso il Ministero della giustizia, di un registro nazionale, tenuto con modalità informatiche ed
accessibile al pubblico, «nel quale confluiscono i provvedimenti di nomina dei curatori, dei
commissari giudiziali e dei liquidatori giudiziali» e «vengono altresì annotati i provvedimenti di
chiusura del fallimento e di omologazione del concordato, nonché l'ammontare dell'attivo e del
passivo delle procedure chiuse». Con tale nuovo registro – che consente un controllo diffuso vuoi
sulle nomine degli organi “gestori” dei fallimenti e dei concordati vuoi sui tempi e sui risultati dei
medesimi – trova conferma la tendenza, emersa fin dalla riforma del 2006-2007, a rafforzare
sempre di più la trasparenza delle procedure concorsuali giudiziarie verso l’esterno.
4. Misure per favorire l’accelerazione del fallimento: gli acconti al curatore; i giudizi di cui sia
parte un fallimento; il programma di liquidazione; la chiusura della procedura.
Risponde al comune obiettivo di ridurre i tempi dei fallimenti un variegato complesso di misure,
che vanno distintamente considerate.
a. Innanzi tutto, à stato modificato l’art. 39, co. 2, in materia di compenso del curatore,
prevedendo che «Salvo che non ricorrano giustificati motivi, ogni acconto liquidato dal tribunale
deve essere preceduto dalla presentazione di un progetto di ripartizione parziale». Con ciò si vuole
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evidentemente incentivare i curatori ad accelerare la fase di ripartizione dell’attivo e avvicinare
quindi la chiusura della procedura.
b. Una delle ragioni della eccessiva durata delle procedure di fallimento è notoriamente
rappresentata dalla lentezza dei giudizi in cui tali procedure si trovino ad essere parti, siano essi
“occasionati” dalle medesime (giudizi di accertamento del passivo, giudizi revocatori, ecc.) o no
(come, per esempio, i giudizi in cui le procedure siano semplicemente subentrate ai soggetti falliti).
Il legislatore del 2015 è intervenuto al riguardo con due distinte misure:
- da un lato, ha introdotto una vera e propria “corsia preferenziale” per le controversie in cui sia
parte, appunto, un fallimento, stabilendo, in un nuovo ultimo co. dell’art. 43, che tali controversie
«sono trattate con priorità», dovendo, fra l’altro, il “capo dell’ufficio” (per tale dovendosi
intendere, è da ritenere, il Presidente del tribunale) trasmettere annualmente al Presidente della corte
d’appello «i dati relativi al numero di procedimenti in cui é parte un fallimento e alla loro durata,
nonché le disposizioni adottate» per assicurare la trattazione prioritaria di tali procedimenti
(previsione dalla quale sembrerebbe doversi derivare che la “corsia preferenziale” valga solo per i
giudizi di primo grado);
- dall’altro, ha “neutralizzato” gli effetti della pendenza di giudizi sulla chiusura del fallimento,
prevedendo, nell’art. 118, co. 2, che la chiusura della procedura, nel caso di cui al n. 3 del primo co.
del medesimo articolo (il caso, cioè, di compimento della ripartizione finale), non sia impedita,
appunto, dalla pendenza di giudizi; e stabilendo, nell’art. 120, che nell’ipotesi di chiusura in
pendenza di giudizi il giudice delegato ed il curatore restino in carica ai soli fini della prosecuzione
di tali giudizi e i creditori non possano agire su quanto è oggetto dei giudizi medesimi.
Con riferimento alla seconda delle due misure - che riecheggia quella già da tempo adottata, in
materia di liquidazione coatta delle banche, dal t.u.b. (art. 92, co. 7 e 8) - va detto che il legislatore
ha avuto cura di precisare:
- che il curatore conserva la legittimazione processuale, anche nei successivi stati e gradi del
giudizio, ai sensi dell’art. 43;
- che le somme necessarie per spese future ed eventuali oneri relativi ai giudizi pendenti, nonché
le somme ricevute per effetto di provvedimenti non definitivi sono trattenute e accantonate dal
curatore;
- che dopo la chiusura del fallimento le somme ricevute dal curatore per effetto di provvedimenti
definitivi e gli eventuali residui degli accantonamenti sono fatti oggetto di riparti supplementari fra
i creditori secondo le modalità disposte dal tribunale con il decreto di chiusura;
- che dopo la chiusura del fallimento le rinunzie alle liti e le transazioni sono autorizzate (non più
dal comitato dei creditori, decaduto per effetto della chiusura, ma) dal giudice delegato;
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- che in relazione alle eventuali sopravvenienze attive non si fa luogo a riapertura del fallimento;
- che se, in virtù dei riparti conseguenti alla definizione dei giudizi, risulti soddisfatta la
condizione per l’esdebitazione posta dall’art. 142, co. 2 (l’essere stati soddisfatti almeno in parte i
creditori concorsuali), il debitore può chiedere l’esdebitazione entro un anno dal riparto che ha
integrato la condizione.
Nonostante tutte queste precisazioni, il meccanismo introdotto presenta molti lati oscuri. Così,
non è chiaro se, sussistendo i presupposti di tale meccanismo, il tribunale abbia l’obbligo o solo la
facoltà di utilizzarlo (la formulazione della nuova disposizione farebbe propendere per la seconda
alternativa ed in questo senso si esprime la relazione al disegno di legge di conversione); non è
chiaro come il meccanismo possa conciliarsi con la perentoria previsione dell’art. 120, co. 2 – non
toccata dalla “miniriforma” – secondo cui dopo la chiusura del fallimento «Le azioni esperite dal
curatore per l’esercizio di diritti derivanti dal fallimento non possono essere proseguite»; non è
chiaro se i giudizi la cui pendenza non impedisce la chiusura del fallimento siano solo i giudizi
attivi o tutti i giudizi, compresi quelli passivi, come, per esempio, giudizi risarcitori proposti contro
la procedura o giudizi revocatori proposti contro la medesima da altra procedura (anche se la legge
sembra aver riguardo soprattutto ai giudizi attivi, parrebbe corretta la lettura estensiva, anche in
correlazione con quanto dispone oggi l’art. 43); non è chiaro se continuino a trovare applicazione,
alla “porzione” di procedura che prosegue nonostante la chiusura, le regole generali che governano
il funzionamento degli organi del fallimento e i rapporti fra i medesimi, come quelle in materia di
sostituzione del giudice delegato, di revoca e sostituzione del curatore, di responsabilità del
medesimo, ecc.
La risposta all’ultimo ordine di dubbi sembrerebbe dover essere affermativa. Il che porta
direttamente a ritenere che, almeno nelle situazioni che facciano registrare la pendenza di molti e
consistenti giudizi, la chiusura del fallimento finisca con l’avere una portata praticamente solo
simbolica, con il costituire un omaggio puramente formale al principio della ragionevole durata dei
processi.
c. L’esigenza di ridurre i tempi del fallimento ha ispirato anche le modifiche della disciplina del
programma di liquidazione, di cui all’art. 104-ter.
Si è stabilito, infatti,
- che tale programma debba essere redatto entro centottanta giorni dalla sentenza dichiarativa di
fallimento;
- che il programma debba specificare il termine entro il quale sarà completata la liquidazione,
termine che in ogni caso non può eccedere due anni dalla dichiarazione di fallimento (restando
peraltro salva la possibilità per il curatore di prevedere, limitatamente a determinati cespiti
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dell’attivo, un termine maggiore, motivando specificamente in ordine alle ragioni che giustifichino
tale maggiore termine);
- che il mancato rispetto, senza giustificato motivo, del termine previsto per la redazione del
programma o di quelli previsti dal programma costituisce giusta causa di revoca del curatore.
d. Per mero scrupolo di completezza va ricordato che il terzo co. (in realtà divenuto il quarto)
dell’art. 104-ter è stato modificato con l’inserimento di un richiamo all’art. 107 e della previsione
della possibilità per il curatore di essere autorizzato ad avvalersi, per alcune incombenze della
procedura di liquidazione dell’attivo, anche di «società specializzate». Si è trattato, peraltro, di una
integrazione assolutamente superflua; l’art. 107 – ora espressamente richiamato – già prevedeva e
tuttora prevede la possibilità per il curatore di avvalersi, per le vendite, di «soggetti specializzati».
5. La revocatoria degli atti a titolo gratuito.
La “miniriforma” del 2015 ha toccato anche la materia della revocatoria fallimentare. E’ stato
infatti introdotto (in sede di conversione) un secondo comma nell’art. 64, riguardante la revocatoria
degli atti a titolo gratuito, a norma del quale «I beni oggetto degli atti di cui al primo comma sono
acquisiti al patrimonio del fallimento mediante trascrizione della sentenza dichiarativa di
fallimento. Nel caso di cui al presente articolo ogni interessato può proporre reclamo avverso la
trascrizione a norma dell'articolo 36».
Questa disposizione si collega direttamente al nuovo art. 2929-bis c.c., introdotto anch’esso dal
d.l. n. 83/2015, che disciplina una specie di revocatoria (ordinaria) semplificata: il creditore che sia
pregiudicato da un atto del debitore di costituzione di vincolo di indisponibilità o di alienazione
avente ad oggetto beni immobili o mobili registrati e compiuto a titolo gratuito successivamente al
sorgere del credito può procedere, munito di un titolo esecutivo, ad esecuzione forzata, ancorché
non abbia preventivamente ottenuto sentenza dichiarativa di inefficacia di quell’atto, se trascrive il
pignoramento entro un anno dalla trascrizione dell’atto medesimo; il debitore, il terzo assoggettato
ad espropriazione e ogni altro interessato possono proporre le opposizioni all’esecuzione quando
contestano la sussistenza dei presupposti suddetti nonché la conoscenza da parte del debitore del
pregiudizio che l’atto arrecava alle ragioni del creditore.
Con il nuovo secondo comma dell’art. 64 si è inteso evidentemente “trasporre” nell’ambito della
revocatoria fallimentare degli atti a titolo gratuito la “semplificazione” di cui alla nuova
disposizione civilistica. Il che, ovviamente, espone anche la norma che stiamo considerando agli
stessi rilievi cui è esposto l’art. 2929-bis c.c., in punto di dubbia ammissibilità dell’attribuzione alla
trascrizione, destinata come tale ad operare solo sul piano dell’opponibilità ai terzi dell’atto
trascritto, di effetti “acquisitivi” sul piano sostanziale. Non solo: mentre nel quadro della
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disposizione civilistica, la possibilità di proporre opposizione all’esecuzione, con cui si instaura un
normale giudizio contenzioso, assicura al debitore ed agli altri interessati piena tutela dei relativi
diritti soggettivi, nel quadro del co. 2 dell’art. 64 i diritti soggettivi del terzo “colpito” dalla revoca
ex lege dovrebbero trovare protezione esclusivamente nel meccanismo del reclamo ex art. 36,
palesemente del tutto inidoneo a quel fine (il che, naturalmente, prospetta dubbi anche sul piano
della legittimità costituzionale della nuova disposizione).
Resta sicuro comunque, pur mancando una esplicita precisazione in tal senso nella norma, che il
nuovo meccanismo “acquisitivo” potrà riguardare solo beni immobili o beni mobili registrati, i soli
rispetto ai quali (e cfr. l’art. 88) può essere trascritta la sentenza dichiarativa di fallimento.
6. Modalità delle vendite.
Il legislatore del 2015 è intervenuto, infine, sull’art. 107, in punto di modalità delle vendite,
stabilendo, nel primo comma,
- che «Le vendite e gli atti di liquidazione possono prevedere che il versamento del prezzo abbia
luogo ratealmente; si applicano, in quanto compatibili, le disposizioni di cui agli articoli 569, terzo
comma, terzo periodo, 574, primo comma, secondo periodo e 587, primo comma, secondo periodo,
del codice di procedura civile»;
- e che «In ogni caso, al fine di assicurare la massima informazione e partecipazione degli
interessati, il curatore effettua la pubblicità prevista dall'articolo 490, primo comma, del codice di
procedura civile, almeno trenta giorni prima dell'inizio della procedura competitiva».
Con riferimento alla prima delle due disposizioni, va precisato che, ai sensi degli art. 574 e 586
c.p.c., da un lato, e dell’art. 108 l. fall., dall’altro, il trasferimento del bene e la cancellazione delle
iscrizioni ipotecarie, ecc., potranno aver luogo solo dopo che il prezzo sia stato integralmente
corrisposto.
III. IL CONCORDATO PREVENTIVO
7. Notazioni generali.
Il blocco più consistente di disposizioni integrative o modificative riguarda, ancora una volta (era
accaduto già nel 2012), la procedura di concordato preventivo, che viene nuovamente ridisegnata in
molti aspetti, anche fondamentali. Vedremo subito appresso, analiticamente, le integrazioni o
modifiche. Qui interessa subito segnalare, innanzi tutto, che le nuove norme si muovono
tendenzialmente in una linea di discontinuità rispetto ai precedenti interventi di riforma: e ciò sia in
termini, in generale, di riduzione del favor per la soluzione concordataria: e basta pensare
all’eliminazione della regola, pur di recente introduzione, del silenzio assenso; sia, in particolare,
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per l’imposizione di rilevanti limiti all’autonomia privata, soprattutto sul versante del debitore, ma
di riflesso anche su quello dei creditori: e basta pensare alla (re)introduzione di una soglia minima
di soddisfacimento dei creditori.
E’ da segnalare, poi, che, in relazione all’introduzione di nuove figure, quali le proposte
concorrenti e le offerte concorrenti, che comportano di per sé sia un aumento della complessità del
procedimento sia una dilatazione dei tempi, il legislatore del 2015 non solo ha dovuto rinunciare ad
introdurre nel concordato preventivo meccanismi “acceleratori” analoghi a quelli adottati per il
fallimento (con la sola eccezione, peraltro, dei giudizi pendenti), ma anzi ha dovuto prevedere un
generalizzato allungamento dei termini, a cominciare da quello previsto dall’art. 181 per la chiusura
della procedura, passato da 6 a 9 mesi.
E’ da segnalare, infine, che le nuove norme – questa volta in sintonia con i precedenti interventi
– ulteriormente confermano come anche il concordato preventivo abbia come finalità preminente su
qualsiasi altra il soddisfacimento dei creditori. Decisive in tal senso appaiono le previsioni dell’art.
160, ult. co., in ordine alla già ricordata soglia minima di soddisfacimento dei creditori chirografari
e dell’art. 161, co. 2, lett. e), in ordine alla necessaria indicazione nella proposta dell’«utilità
specificamente individuata ed economicamente valutabile che il proponente si obbliga ad
assicurare a ciascun creditore» (su entrambe queste disposizioni v. infra, al § successivo).
8. Proposta di concordato: presupposti e contenuto.
Come anticipato, la nuova filosofia che sembra aver guidato l’ultima riforma non muove più da
un indiscriminato favor verso la soluzione concordataria, dovendo la stessa effettivamente
rappresentare, per i creditori concorsuali, un’alternativa economicamente conveniente, rispetto alla
liquidazione endofallimentare.
In tale ottica trovano (parziale) spiegazione le nuove disposizioni in tema di presupposti e
contenuto della proposta concordataria.
A. Quanto ai presupposti il nuovo co. 4 dell’art. 160 – a cui già si è fatto cenno al § precedente –
stabilisce infatti che «In ogni caso la proposta di concordato deve assicurare il pagamento di
almeno il venti per cento dell’ammontare dei crediti chirografari. La disposizione di cui al presente
comma non si applica al concordato con continuità aziendale di cui all’articolo 186-bis».
a. A parte l’ipotesi del concordato con continuità aziendale, di cui si tratterà subito appresso, la
norma (re)introduce dunque una soglia minima di soddisfacimento dei crediti chirografari, prevista
nella formulazione originaria della legge fallimentare del 1942 ed abbandonata con la riforma del
2005. La ratio della disposizione è semplice ed intuitiva: evitare l’utilizzo (ritenuto) abusivo del
concordato preventivo, che si avrebbe ogniqualvolta la proposta preveda un soddisfacimento – per
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riprendere la giurisprudenza formatasi nel vigore della precedente disciplina – “irrisorio” o “solo
formale” dei crediti chirografari.
La scelta così operata non è particolarmente convincente, in quanto, per un verso, la percentuale
minima fissata dalla legge pare superare di gran lunga il soddisfacimento irrisorio al quale faceva
riferimento parte della giurisprudenza anteriore alla novella per “sanzionare” l’uso abusivo,
appunto, dello strumento concordatario, con il consequenziale – e facilmente prevedibile – “crollo”
delle domande di ammissione; e, per altro verso, risulta tutt’altro che chiaro il criterio di efficienza
al quale, attraverso la fissazione della soglia, ci si è voluti ispirare.
Quanto a questo secondo aspetto, non si comprende, invero, perché mai si dovrebbe impedire
l’ammissione al concordato preventivo di un debitore che propone di pagare prima e/o di più i
crediti chirografari, rispetto a quanto questi ultimi potrebbero ottenere dall’alternativa della
liquidazione endofallimentare, per il semplice fatto che la percentuale offerta non supera la soglia
del 20%. Si tratta, com’è evidente, di un’impostazione che risente dell’introduzione nel nostro
ordinamento, ad opera della giurisprudenza di legittimità, del concetto di “causa concreta del
concordato”, che chi scrive ha già avuto modo di criticare in quanto, a ben vedere, condiziona
l’ammissione alla procedura all’incidenza, più o meno marcata, dei crediti privilegiati sul totale
dell’esposizione debitoria.
Ciò detto, molte questioni si pongono con riferimento alla nuova soglia individuata.
La prima questione concerne la sorte dei crediti subordinati (assoluti): si è già detto che, a parere
di chi scrive, i subordinati (assoluti) rappresentano una categoria di creditori a sé stante, collocati,
nell’immaginario sistema verticale di distribuzione del patrimonio responsabile, al di sotto dei
chirografari e che, proprio per questo, ai primi nulla può essere riconosciuto nell’ipotesi in cui la
proposta concordataria preveda un pagamento solo parziale dei secondi. Alla luce dell’ultima
riforma tale orientamento non può che essere ribadito: è evidente, infatti, che solo distinguendo
(anche formalmente) i postergati dai chirografari, sarà possibile mantenere uno spiraglio di
operatività alla soluzione concordataria.
La seconda questione attiene al modo in cui calcolare la percentuale del 20%. Se la proposta non
contempla la distinzione dei creditori in classi, nulla quaestio: sarà necessario prevedere un
soddisfacimento minimo, per ciascun creditore chirografario, pari alla soglia fissata dalla legge. Se
però la proposta prevede la distinzione in classi si pone il dubbio se, in tale ipotesi, sia necessario
che i creditori appartenenti a ciascuna classe siano soddisfatti almeno per il 20%, oppure sia da
considerare legittima la proposta che preveda un soddisfacimento medio dei chirografari pari a tale
soglia. Il dato positivo sembrerebbe effettivamente consentire una lettura in questo secondo senso,
parlando della necessità che nella proposta sia assicurato il pagamento di almeno il 20%
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«dell’ammontare» (e non di ciascuno) dei crediti (e non dei creditori) chirografari. Una tale
soluzione si lascia d’altra parte preferire, perché consente di raggiungere il non irrilevante risultato
di rendere più flessibile lo strumento concordatario, che oggi, alla luce dell’ultima riforma, pare
decisamente troppo ingessato.
La terza questione concerne il ruolo che giuoca, rispetto alla soglia individuata dalla legge, il
fattore tempo. La legge non ne fa menzione, ma è evidente che una cosa è prospettare un
soddisfacimento dei chirografari pari, ad esempio, al 20% in dieci anni, altra è contemplare la stessa
percentuale di pagamento in due anni. Eppure, proprio la rilevata mancanza di una previsione
espressa sul punto, consiglia di ritenere comunque rispettata la condizione posta dall’art. 160, co. 4,
indipendentemente dall’arco temporale indicato come necessario per l’esecuzione del piano.
b. Come si è visto, la previsione di un soddisfacimento pari almeno al 20% dell’ammontare dei
crediti chirografari non è invece richiesta in caso di domanda di ammissione al concordato con
continuità aziendale. Si tratta di un’ulteriore manifestazione della volontà del legislatore di favorire,
là dove possibile e sempre che ciò non si traduca in un nocumento per i creditori, la soluzione che
consenta la conservazione dei complessi viables dell’impresa in crisi (e v. anche la differente
disciplina in punto di proposte concorrenti, ex art. 163, co. 5: infra, § 10.3 di questa Appendice),
ponendo ancor di più le due tipologie di concordato, in continuità e liquidatorio, su due binari
paralleli. Scelta che, sul piano pratico, potrebbe anche tradursi in un incentivo per gli operatori
economici a far passare per concordato in continuità anche quello a contenuto oggettivamente
liquidatorio.
Oggi più di ieri, quindi, è pressante l’esigenza di individuare la disciplina applicabile al
concordato c.d. misto, ossia al concordato che preveda, in parte, la continuità aziendale e, in parte,
la liquidazione dei beni del debitore.
Secondo un certo orientamento giurisprudenziale e dottrinale, ai fini dell’individuazione della
disciplina applicabile al concordato misto sarebbe necessario ricorrere al c.d. criterio di prevalenza:
occorrerebbe cioè verificare se le operazioni di liquidazione previste nel piano, ulteriori rispetto
all’eventuale cessione di azienda in esercizio, siano o meno prevalenti, in termini quantitativi e
qualitativi, rispetto al valore dell’azienda in esercizio. Secondo altra giurisprudenza, invece, il
criterio da utilizzare sarebbe quello che gli studiosi del diritto internazionale privato chiamerebbero
depeçage: occorrerebbe, cioè, frazionare il contenuto del piano, applicando a ciascuna porzione
dello stesso la disciplina ad essa più confacente (così, la parte direttamente o indirettamente
collegata alla continuità sarebbe governata dalla disciplina recata dall’art. 186-bis e dalle altre
norme che tale continuità presuppongono; la parte relativa alla liquidazione in senso stretto, invece,
sarebbe regolata dalla disciplina “comune” del concordato liquidatorio).
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La soluzione interpretativa del frazionamento, alla luce della riforma di cui stiamo parlando, non
sembra più sostenibile. Essa, invero, mal si attaglia al nuovo assetto concordatario, che impone di
qualificare univocamente la natura della proposta presentata, da tale qualificazione derivando, come
si è avuto modo di osservare, importanti conseguenze in punto di disciplina applicabile. E’ dunque
al criterio della prevalenza che occorre fare riferimento.
B. Quanto al contenuto della proposta concordataria.
Tra le modifiche apportate al contenuto necessario della proposta concordataria spicca quella, a
cui si è già fatto cenno, introdotta nell’art. 161, co. 2, lett. e), ultimo inciso, ai sensi del quale nella
proposta deve risultare l’«utilità specificamente individuata ed economicamente valutabile che il
proponente si obbliga ad assicurare a ciascun creditore».
a. Muovendo dalla formulazione letterale della disposizione, non sembra dubbio che con essa si
voglia imporre al proponente un duplice obbligo, consistente, per un verso, nell’individuare
specificamente l’utilità economica offerta ai creditori; e, per altro verso (e in un momento
logicamente successivo), nell’assicurare ai destinatari della proposta quella utilità specificamente
individuata.
Ora, premesso che il riferimento alle “utilità economicamente valutabili”, in luogo della
percentuale di soddisfacimento, sembrerebbe essere dettato dalla opportunità di estendere il precetto
alle proposte che prevedono l’attribuzione ai creditori di beni diversi dal danaro [ipotesi,
quest’ultima, sicuramente ammissibile, stante il disposto dell’art. 160, co. 1, lett. a)], non v’è chi
non veda come l’introduzione di un vero e proprio obbligo, per il proponente, di assicurare, anche
nei concordati diversi da quelli tradizionalmente definiti di garanzia, il pagamento dei crediti
concorrenti in una misura percentuale prefissata, rappresenti un revirement, rispetto al passato, di
non poco momento.
Con specifico riferimento ai concordati con cessione dei beni, infatti, l’orientamento decisamente
maggioritario della giurisprudenza e della dottrina, affermatosi nel vigore del sistema antecedente la
riforma del 2015, escludeva un siffatto obbligo in capo al proponente, facendo di fatto ricadere
l’alea in ordine al valore di realizzo dei beni ceduti sui creditori. Si sosteneva, più in particolare, che
l’indicazione della percentuale di soddisfacimento, in tali concordati, fosse necessaria al solo fine di
consentire ai creditori di valutare la convenienza della proposta, nonché la sua fattibilità economica,
ma, a meno di un’espressa previsione in tal senso, non costituisse manifestazione di una volontà
negoziale sulla quale si formasse il consenso o l’accettazione, perché, diversamente opinando, si
sarebbe dovuto ritenere sempre necessaria la soluzione della forma del concordato misto, in cui la
cessione è accompagnata dall’impegno a garantire ai creditori una percentuale minima di
soddisfacimento.
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D’altra parte, che la voluntas legislatoris sia stata proprio quella di modificare l’impostazione
precedente sul punto, ponendo un vero e proprio obbligo in capo al proponente, si evince anche
dalla variazione che il testo della norma ha subito nel passaggio dal decreto legge n. 83/2015 alla
legge di conversione. Nella sua prima versione, infatti, la disposizione stabiliva che «in ogni caso,
la proposta deve indicare l’utilità specificamente individuata ed economicamente valutabile
procurata in favore di ciascun creditore»: il riferimento era dunque alla proposta, e non al
proponente, a carico del quale non veniva posto nessun obbligo di assicurare alcunché ai creditori.
b. Il dato testuale ricavabile dalla nuova formulazione dell’art. 161, co. 2, lett. e), non è peraltro
l’unico che depone nel senso di ritenere il proponente non più libero di scegliere se obbligarsi o
meno nei confronti dei creditori concordatari, anche l’argomento sistematico militando a favore di
tale interpretazione.
In proposito è sufficiente richiamare le norme in precedenza menzionate (artt. 160, co. 4 e 163,
co. 5), che dal raggiungimento o meno di determinate soglie di soddisfacimento dei creditori
(chirografari) fanno discendere importanti conseguenze per il proponente.
In tale mutato scenario sembra invero difficile sostenere la possibilità, per il debitore, di limitarsi
a cedere ai creditori concorrenti i suoi beni, indicando una presumibile percentuale di
soddisfacimento, atteso il riferimento, in entrambe quelle disposizioni, alla necessità che la proposta
“assicuri” un certo pagamento ai creditori chirografari.
c. Nel nuovo impianto concordatario – di cui l’art. 161, co. 2, lett. e), è componente di non poco
peso – si è dunque voluto riequilibrare il rapporto debitore/creditori, in precedenza decisamente
orientato a vantaggio del primo, escludendo che il rischio del risultato effettivo della liquidazione
gravi esclusivamente sui secondi. Con l’introduzione dell’obbligo di assicurare, comunque, una
certa percentuale di pagamento ai creditori, il proponente si trova così esposto al rischio di
inadempimento, in senso stretto, della proposta di concordato, con conseguente possibilità, per i
creditori insoddisfatti, di chiedere la risoluzione dello stesso, ex art. 186.
d. Quanto precede – se porta ad escludere che la percentuale di soddisfacimento dei creditori
possa oggi (continuare ad) essere indicata in un range fra un minimo ed un massimo – non significa
affatto che il proponente di un concordato con cessione debba rigorosamente limitarsi ad indicare la
percentuale “secca” di soddisfacimento per la quale specificamente si obbliga, senza poter
nemmeno menzionare percentuali di soddisfacimento maggiori destinate a realizzarsi ove si
verifichino certe evenienze.
Ove si consideri che, per effetto dell’ammissione alla procedura di concordato, l’intero
patrimonio del debitore è destinato al soddisfacimento dei creditori e che, nel concordato con
cessione, l’intero valore di realizzo dei beni ceduti deve essere attribuito ai creditori fino alla
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concorrenza dei loro crediti, non è difficile convincersi che un conto è la fissazione, nella proposta,
di una percentuale di soddisfacimento costituente oggetto di specifico obbligo del proponente (una
sorta di “minimo” vincolante) ed altro conto è la prospettazione aggiuntiva, nella proposta, di
possibilità concrete di realizzi con esiti più favorevoli e tali da consentire l’attribuzione di
percentuali maggiori (del “minimo”). Una prospettazione con valenza meramente informativa, ma
nondimeno – nella prospettiva indicata dalla giurisprudenza anteriore alla riforma (che non è certo
superata dalla nuova normativa) – utile, se non addirittura necessaria, per consentire ai creditori di
valutare la convenienza della proposta, nonché la sua fattibilità economica.
9. Ammissione alla procedura.
Con specifico riferimento alla disciplina dell’ammissione alla procedura, la riforma del 2015 ha
introdotto due novità.
La prima concerne l’estensione del termine per la convocazione dei creditori, ordinata dal
Tribunale col decreto di apertura del concordato, che ora deve avvenire non più entro gli originari
trenta giorni, bensì entro i centoventi giorni dalla data del provvedimento di ammissione (art. 163,
co. 2, n. 2). La modifica si giustifica con la necessità di consentire ai creditori, qualora ne ricorrano
le condizioni, di presentare proposte concorrenti con quella del debitore (sulle quali v. infra, § 10 di
questa Appendice).
La seconda riguarda, invece, l’introduzione di un nuovo n. 4-bis al co. 2 dell’art. 163, ai sensi del
quale, con il provvedimento di apertura, il Tribunale «ordina al ricorrente di consegnare al
commissario giudiziale entro sette giorni copia informatica o su supporto analogico delle scritture
contabili e fiscali obbligatorie», imponendo così al debitore una disclosure totale sulla
rappresentazione contabile delle operazioni aziendali, analogamente a quanto avviene nel
fallimento. La disposizione si innesta nel terreno degli effetti dell’ammissione alla procedura nei
confronti del debitore e deve essere coordinata con l’art. 170, non toccato dalla riforma, che, come
si ricorderà (§ 193), per un verso, prevede l’annotazione del decreto di apertura della procedura, da
parte del giudice delegato, sotto l’ultima scrittura dei libri presentati e, per altro verso, impone al
debitore di tenere a disposizione dello stesso giudice delegato e del commissario giudiziale i libri e
le scritture contabili.
10. Le proposte concorrenti.
10.1. Premessa. Una delle più rilevanti novità portate dalla “miniriforma” del 2015 è costituita
dalla previsione della possibilità per soggetti diversi dal debitore di presentare proposte di
concordato preventivo concorrenti, nel senso di alternative, a quella presentata dal debitore. Parte
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della dottrina da tempo mostrava insoddisfazione e insofferenza rispetto al “monopolio”
dell’iniziativa che, in materia di concordato preventivo, la legge ha finora assicurato al debitore: il
legislatore ha raccolto queste “doglianze”, riducendo drasticamente (ma non eliminando in toto)
quel “monopolio”. E ciò nel quadro di un disegno complessivo di “apertura al mercato” delle
procedure concorsuali, volto a favorire la “contendibilità” delle imprese in crisi ed avente - come si
precisa nella relazione al disegno di legge di conversione del decreto n. 83 - la duplice finalità di
«massimizzare la recovery dei creditori concordatari e di mettere a disposizione dei creditori
concordatari una possibilità ulteriore rispetto a quella di accettare o rifiutare in blocco la proposta
del debitore». Quel che nella relazione si omette di considerare, peraltro, è che la esistenza stessa,
nel sistema, della possibilità di proposte concorrenti, non avanzabili in via autonoma ma
“innescate” dalla presentazione di una proposta di concordato da parte del debitore, può costituire,
in assoluto, un potente disincentivo alla stessa presentazione, appunto, di proposte di concordato da
parte dei debitori in crisi.
La disciplina della inedita figura della “proposta concorrente” è assai articolata, essendo
“spalmata” su di una nutrita serie di disposizioni: la norma cardine è l’art. 163, nuovi co. 4-7; ma
della figura trattano anche gli art. 165, 172, 175, 177, 185, tutti in vario modo ritoccati.
Prima di affrontare l’analisi di tale complessa disciplina si impongono alcune considerazioni di
ordine generale.
La prima considerazione. L’introduzione della nuova figura ha un rilevante impatto sistematico:
essa impone di ritenere che anche il concordato preventivo – come già il concordato fallimentare –
non sia (più) necessariamente riconducibile ad un accordo fra il debitore ed i suoi creditori,
potendo invece conformarsi come un accordo fra creditori, al quale il debitore resti estraneo.
La seconda considerazione. Il fondamento della possibilità per i creditori di presentare proposte
di concordato preventivo alternative a quella del debitore viene talvolta rintracciato nella nota
costruzione concettuale per la quale quando l’impresa diviene insolvente “proprietari” in senso
economico della medesima debbono ritenersi i creditori: la legittimazione dei medesimi a presentare
proposte concorrenti sarebbe dunque da ravvisare nella loro sostanziale qualità di “proprietari” del
patrimonio del debitore. Ad avviso di chi scrive – a parte i dubbi sulla “tenuta” e sulla rilevanza, in
assoluto, di quella costruzione – si dovrebbe seguire, sul tema che qui interessa, un itinerario
diverso. Con la domanda di concordato preventivo il debitore pone il suo intero patrimonio a
disposizione dei creditori per il loro soddisfacimento in termini concorsuali: ed è in questo vincolo
(giuridico) che trova fondamento la possibilità di ingresso nella vicenda di ipotesi di
soddisfacimento dei creditori differenti da quella proposta dal debitore. E’ in questa chiave che
trovano giustificazione, per un verso, la limitazione ai soli creditori della legittimazione a presentare
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proposte concorrenti e, dall’altro e soprattutto, la “dipendenza” genetica delle proposte concorrenti
dalla domanda del debitore. Così come è in questa chiave che debbono ritenersi infondati i dubbi di
costituzionalità del meccanismo: tale meccanismo non comporta alcun illegittimo esproprio del
debitore, traducendosi anch’esso in una modalità di realizzazione della responsabilità patrimoniale
del debitore.
Peraltro, se è nell’ottica della massimizzazione della recovery dei creditori concorsuali – e,
dunque, sul terreno dell’efficienza – che si colloca la proponibilità stessa delle proposte concorrenti,
ben avrebbe potuto il legislatore “aprire” la legittimazione anche ai terzi non creditori (come del
resto già accade nell’ambito del concordato fallimentare).
La terza considerazione. Il legislatore ha chiaramente mostrato di voler costruire la proposta
concorrente come, in principio, analoga, sul piano strutturale, ed equipollente, sul piano degli
effetti, a quella del debitore (se così non fosse, del resto, non vi sarebbe reale concorrenza fra i due
generi di proposte). Questo significa che alla proposta concorrente sono destinate ad applicarsi,
sempre in principio, tutte le regole in punto di forma ed in punto di sostanza che governano la
proposta del debitore, con eccezione, ovviamente, dei profili specificamente disciplinati dalla nuova
normativa. E così per esempio, dal punto di vista formale, la proposta concorrente deve essere
avanzata con ricorso, ai sensi dell’art. 161; e, dal punto di vista sostanziale, deve avere il contenuto
delineato dall’art. 160, deve «indicare l’utilità specificamente individuata ed economicamente
valutabile che il proponente si obbliga ad assicurare a ciascun creditore» (secondo la nuova
formulazione della lett.e) del co. 2 dell’art. 161), e così via.
10.2. Proposte concorrenti: legittimazione; presupposti. a. Ai sensi dell’art. 163, co. 4, una
proposta concorrente, con il relativo piano, può essere presentata (solo) da uno o più creditori che,
anche per effetto di acquisti successivi alla presentazione della domanda del debitore, rappresentano
almeno il 10% dei crediti risultanti dalla situazione patrimoniale depositata (dal debitore) ai sensi
dell’art. 161 (in realtà, più propriamente il riferimento avrebbe dovuto essere all’elenco nominativo
dei creditori ugualmente depositato ai sensi dello stesso art. 161).
Stando alla formulazione della norma, la legittimazione sembrerebbe essere attribuita ai soli
creditori concorsuali, cioè anteriori alla domanda di concordato, dovendosi allora escludere i
soggetti che diventino creditori per effetto di acquisti di crediti successivamente alla presentazione
della domanda del debitore. Ragioni di efficienza, di cui si è dato conto nel paragrafo precedente, in
uno con la possibilità, espressamente contemplata nel co. 5 dello stesso art. 163, di prevedere
l’intervento di terzi, sembrerebbero peraltro poter consentire di ritenere legittimato anche il
creditore che è divenuto tale successivamente alla presentazione della domanda del debitore
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Per espressa previsione della norma, poi, non si possono computare ai fini della percentuale del
10% i crediti della società che controlla la società debitrice, delle società da questa controllate e di
quelle sottoposte a comune controllo; dal che sembrerebbe doversi derivare che quei creditori non
possano presentare proposte concorrenti.
b. In funzione dell’esigenza di ridurre la dissimmetria informativa fra debitore e creditori che
potrebbe scoraggiare la presentazione di proposte concorrenti, il legislatore ha avuto cura di
introdurre precisi obblighi, appunto, informativi a carico del commissario giudiziale. Il nuovo art.
165, co. 2, stabilisce infatti che «Il commissario giudiziale fornisce ai creditori che ne fanno
richiesta, valutata la congruità della richiesta medesima e previa assunzione di opportuni obblighi
di riservatezza, le informazioni utili per la presentazione di proposte concorrenti, sulla base delle
scritture contabili e fiscali obbligatorie del debitore, nonché ogni altra informazione rilevante in
suo possesso». Al fine di evitare che la richiesta dei creditori possa essere ispirata dall’intento di
acquisire informazioni utili per la presentazione, in futuro, di una proposta di concordato
fallimentare, la disposizione precisa che a quei creditori «In ogni caso si applica il divieto di cui
all'articolo 124, comma primo, ultimo periodo» (cioè il divieto di presentare una proposta di
concordato fallimentare se non dopo un anno dalla dichiarazione di fallimento).
Sempre in funzione di consentire ai creditori interessati a presentare proposte concorrenti di
acquisire la maggiore quantità possibile di informazioni, è stato modificato, nell’art. 172, il termine
per il deposito e la comunicazione, da parte del commissario giudiziale, della relazione
particolareggiata sulle cause del dissesto, sulla condotta del debitore, sulle proposte di concordato e
sulle garanzie offerte: non più almeno 10 giorni, bensì almeno 45 giorni prima dell’adunanza.
c. La legge prevede una peculiare condizione di inammissibilità delle proposte concorrenti
(tutte), data da ciò che nella relazione ex art. 161 co. 3 che deve accompagnare la proposta del
debitore il professionista abbia attestato, specificamente, che la suddetta proposta «assicura il
pagamento di almeno il quaranta per cento dell’ammontare dei crediti chirografari o, nel caso di
concordato con continuità aziendale di cui all’articolo 186-bis, di almeno il trenta per cento dei
crediti chirografari» (art. 163, co. 5). La previsione di una soglia di soddisfacimento che preclude
in partenza la presentazione di proposte concorrenti dovrebbe costituire un incentivo per il debitore
a cercare di raggiungere nella sua proposta tale soglia, che il legislatore ha evidentemente valutato
(anche sulla scorta del passato) come adeguatamente satisfattiva per i creditori.
Sul punto v. anche infra, sub § 10.5 di questa Appendice.
10.3. Segue: contenuto; relazione di attestazione; modifiche. a. In ordine al contenuto della
proposta concorrente si è già detto che trova tranquilla applicazione ad essa l’art. 160, co. 1, il quale
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va ovviamente integrato da quanto precisato dal co. 5, ult. periodo, dell’art. 163, in ordine alla
possibilità di prevedere in tale proposta, da un lato, l’intervento di terzi (e se ne è già parlato) e,
dall’altro, «se il debitore ha la forma di società per azioni o a responsabilità limitata,… un aumento
di capitale della società con esclusione o limitazione del diritto di opzione» (si tornerà sul punto: v.
infra, in questo paragrafo).
Detto questo, e detto anche che la proposta concorrente, ai fini della sua ammissibilità né deve
essere necessariamente omogenea a quella del debitore (quindi a fronte di una proposta del debitore
di concordato in continuità ben può essere ammessa una proposta concorrente di concordato
liquidatorio) né deve essere necessariamente migliorativa rispetto a quella del debitore (saranno i
creditori in sede di votazione a scegliere la proposta per loro più conveniente), si pone però, in tema
di contenuto della proposta concorrente, un problema di fondo: tale proposta ha (deve avere) ad
oggetto comportamenti e impegni del creditore proponente o, invece, comportamenti e impegni del
debitore? Per una parte della dottrina appunto in questo secondo senso si dovrebbe ricostruire la
nuova figura, come dimostrerebbero, in particolare, le previsioni dei nuovi co. 3-6 dell’art. 185 e
specificamente quella contenuta nel co. 3 (per il quale «Il debitore è tenuto a compiere ogni atto
necessario a dare esecuzione alla proposta di concordato presentata da uno o più creditori,
qualora sia stata approvata e omologata»), da cui risulterebbe che soggetto obbligato ad eseguire la
proposta concorrente è (esclusivamente) il debitore. Ad avviso di chi scrive, questa linea
ricostruttiva non può essere condivisa e per molteplici ragioni. Innanzi tutto, non si vede quale
debba considerarsi la base normativa che consenta ad un creditore di assumere impegni vincolanti
per il debitore. In secondo luogo, il nostro sistema conosce già ipotesi, nell’ambito delle soluzioni
compositive giudiziali delle crisi di imprese, di concorrenza di proposte, del debitore e dei creditori:
basta pensare al concordato fallimentare; e nessuno ha mai dubitato che, in quei contesti, ciascuna
proposta, del debitore o del creditore o di un terzo che sia, può avere ad oggetto solo comportamenti
e impegni del proponente, e non di altri. In terzo luogo, c’è una disposizione che elimina ogni
possibile dubbio al riguardo. Si tratta del già citato ultimo periodo della lett. e) del co. 2 dell’art.
161, per il quale – ripetiamo – la proposta, qualsiasi proposta, deve «indicare l’utilità
specificamente individuata ed economicamente valutabile che il proponente si obbliga ad
assicurare a ciascun creditore», da cui appare chiaramente che il proponente, qualsiasi proponente,
è tenuto, a pena ovviamente di inammissibilità, ad assumere in proprio l’impegno oggetto della
proposta.
Dunque, la proposta concorrente del creditore deve avere ad oggetto comportamenti e impegni
del medesimo creditore. Naturalmente si tratta di comportamenti ed impegni che riguardano e
coinvolgono il patrimonio del debitore, da cui normalmente verranno tratti i mezzi per adempiere
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agli obblighi concordatari. Questo significa, pur nel silenzio della legge, che la proposta concorrente
implicherà necessariamente la cessione al proponente, o quanto meno la messa a disposizione del
medesimo, di quel patrimonio: secondo il meccanismo già noto e praticato nell’ipotesi di
concordato con assunzione.
E’ in relazione a tutto ciò che va individuata la portata dei nuovi co. 3-6 dell’art. 185: con essi –
almeno in linea generale: discorso a parte va fatto, e lo si farà nel punto seguente, per il caso che la
proposta preveda un aumento di capitale della società con esclusione o limitazione del diritto di
opzione – non si è inteso addossare al debitore l’adempimento degli obblighi scaturenti dal
concordato proposto dal creditore ed omologato dal tribunale; si è inteso invece imporre al debitore
di compiere tutti gli atti necessari affinché il creditore proponente possa adempiere ai propri
obblighi.
b. Nel quadro generale delineato nel punto che precede la specifica ipotesi in cui tale proposta
preveda un aumento di capitale della società debitrice con l’esclusione o la limitazione del diritto di
opzione richiede qualche non irrilevante puntualizzazione.
Innanzi tutto. La fattispecie è assai più articolata di quanto non appaia dalla scarna descrizione
contenuta nell’art. 163, co. 5: essa comprende anche, necessariamente, la sottoscrizione
dell’aumento di capitale da parte del creditore proponente o di un terzo da questo indicato
(sottoscrizione resa possibile dalla esclusione o limitazione del diritto di opzione spettante ai vecchi
soci, che deve accompagnare l’aumento); l’acquisizione, attraverso tale strada, del controllo della
società debitrice; e il soddisfacimento dei creditori per effetto diretto o indiretto dell’immissione di
nuovi mezzi finanziari. Il che consente di individuare gli impegni che, in relazione a questo tipo di
proposta, il creditore proponente (e l’eventuale terzo interveniente) deve assumere ai sensi della più
volte ricordata lett. e) del co. 2 dell’art. 161: l’impegno a sottoscrivere l’aumento di capitale;
l’impegno a fare in modo, una volta assunto il controllo della società debitrice, che quest’ultima
soddisfi in una certa determinata misura i creditori. E consente di ricondurre anche questa ipotesi
nel quadro delineato nel punto che precede: infatti l’obbligo (coercibile) della società debitrice di
deliberare l’aumento viene a configurarsi propriamente non come adempimento del concordato, ma
come realizzazione del presupposto per l’adempimento, che sarà dato invece dalla sottoscrizione
dell’aumento da parte del creditore proponente, con quel che ne segue.
In secondo luogo. Le previsioni di cui stiamo trattando vengono talvolta riguardate come
“consacrazione” a livello normativo di quelle opinioni dottrinali secondo le quali sarebbe possibile
deliberare l’azzeramento per perdite del capitale sociale e la ricostituzione del medesimo con
esclusione del diritto di opzione. Ad avviso di chi scrive, il discorso va esattamente rovesciato: le
suddette previsioni vanno interpretate ed applicate tenendo per fermo il principio della
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indisponibilità della qualità di socio da parte dell’assemblea: questo significa che ove si prevedesse
l’azzeramento del capitale si potrebbe contemplare, per la connessa ricapitalizzazione, solo la
limitazione del diritto di opzione (ad una quota minoritaria del nuovo capitale) e non invece
l’esclusione.
In terzo luogo. Nell’assetto disegnato dalle disposizioni che stiamo esaminando l’organizzazione
societaria in quanto tale viene chiaramente a configurarsi come un asset contendibile, dotato di un
proprio valore: del resto solo in questi termini si può comprendere perché un terzo possa preferire
“acquisire” il controllo della società debitrice anziché acquistare direttamente il complesso
aziendale. Anche di tale valore si dovrebbe tener conto, quanto meno in sede di valutazione della
convenienza della proposta.
c. La proposta concorrente può prevedere diverse classi di creditori. In tale caso però la proposta
– stabilisce il nuovo co. 7 dell’art. 163 – «prima di essere comunicata ai creditori ai sensi del
secondo comma dell'articolo 171, deve essere sottoposta al giudizio del tribunale che verifica la
correttezza dei criteri di formazione delle diverse classi» (in coerenza con quanto stabilito in
generale dal co. 1 dello stesso art. 163).
d. La proposta concorrente deve essere accompagnata dal relativo piano ed essere corredata della
relazione di attestazione di cui al co. 3 dell’art. 161. Tale relazione peraltro, ai sensi del co. 4,
ultimo periodo, dell’art. 163, «può essere limitata alla fattibilità del piano per gli aspetti che non
siano già stati oggetto di verifica da parte del commissario giudiziale e può essere omessa qualora
non ve ne siano».
e. Anche le proposte concorrenti – così come quella del debitore – possono essere modificate,
solo però fino a 15 giorni prima dell’adunanza dei creditori: così l’art. 172, co. 2. C’è da ritenere, a
questo riguardo, che debba valere anche per le proposte concorrenti il disposto dell’art. 161, co. 3,
ult. periodo e che quindi, nell’ipotesi di modifiche sostanziali di tali proposte o dei relativi piani,
debba essere depositata una nuova relazione di attestazione.
10.4. Segue: termini di presentazione. La proposta concorrente deve essere presentata dopo il
decreto con cui il tribunale abbia ammesso il debitore alla procedura di concordato preventivo (la
legge non lo dice esplicitamente, ma si evince dalla stessa collocazione “topografica” delle
disposizioni di cui stiamo parlando, oltre che dal contenuto delle medesime) e non oltre trenta
giorni prima dell’adunanza dei creditori. Va ricordato, a questo riguardo, che – come già visto:
retro, § 9 di questa Appendice – il secondo co. dello stesso art. 163 è stato riformulato portando il
termine entro cui l’adunanza va tenuta da 30 a 120 giorni dalla data del provvedimento di
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ammissione: e ciò anche e proprio per consentire la presentazione e la comunicazione ai creditori
delle (eventuali) proposte concorrenti.
10.5. Segue: controllo di ammissibilità. La legge non prevede, in via generale, un controllo del
tribunale in ordine alla ammissibilità delle singole proposte concorrenti analogo a quello
espressamente contemplato per la proposta del debitore. Che, tuttavia, un simile controllo debba
esservi sembra sicuro: e non solo perché, come si è sottolineato prima, la proposta concorrente è
equiparata in toto alla proposta del debitore, ma anche perché un simile controllo è espressamente
contemplato con riferimento alla suddivisione in classi ed è implicitamente evocato dalla previsione
della particolare condizione di inammissibilità delle proposte concorrenti di cui si è detto prima (al
§ 10.2, c di questa Appendice).
Inevitabilmente, l’ampiezza ed i limiti del controllo di ammissibilità sulle proposte concorrenti
(da effettuarsi ovviamente prima della comunicazione delle medesime ai creditori) saranno, in
generale, gli stessi del controllo di ammissibilità sulla proposta del debitore.
10.6. Segue: comunicazione ai creditori. La legge non stabilisce espressamente ed in generale
che le proposte concorrenti debbano essere comunicate ai creditori. Che una apposita
comunicazione debba esservi risulta comunque dalla contorta formulazione del già menzionato co.
7 dell’art. 163, ai sensi del quale la proposta concorrente che preveda diverse classi deve essere
sottoposta al giudizio del tribunale «prima di essere comunicata ai creditori ai sensi del secondo
comma dell'articolo 171». Il commissario giudiziale, dunque, ha l’onere di comunicare le proposte
concorrenti, man mano che vengano presentate, con un avviso integrativo di quello previsto dall’art.
171.
10.7. Segue: rinunzia del debitore alla domanda; revoca dell’ammissione. Problemi delicati e di
non agevole soluzione sorgono nel caso di rinunzia del debitore alla domanda di concordato o in
quello in cui, dopo il decreto ex art. 163 e prima dell’adunanza, intervenga la revoca
dell’ammissione del debitore al concordato. Ci si deve chiedere, infatti, se in tali casi il
procedimento debba avere termine con la “caducazione” delle proposte concorrenti oppure debba
proseguire con riguardo ormai soltanto a tali proposte.
Ad avviso di chi scrive la soluzione preferibile non può essere univoca, occorrendo distinguere
tra rinunzia, appunto, e revoca dell’ammissione.
a. Nel primo caso, sembrerebbe doversi ritenere – pur con tutti i dubbi legati all’assenza del
benché minimo addentellato normativo – che la proposta concorrente del creditore sopravviva.
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Se è vero, infatti, che solo il debitore è legittimato a presentare la domanda e la proposta, mentre
i creditori possono presentare solo una proposta concorrente, non anche una domanda concorrente,
sembra tuttavia corretto ritenere che, una volta ammesso il debitore alla procedura di concordato, il
creditore che abbia legittimamente presentato una proposta alternativa, abbia anche implicitamente
fatto propria l’istanza dell’imprenditore in crisi. In tal modo, quest’ultimo potrà rinunciare soltanto
alla proposta originariamente presentata, non già alla procedura concordataria tout court. D’altra
parte, sarebbe quanto meno criticabile un sistema che, per un verso, “spingesse” verso un modello
efficientista, basato – giova ripeterlo – sulla massima recovery per i creditori concorrenti; e, per
altro verso, consentisse al debitore di tornare volontariamente sui suoi passi, travolgendo, di fatto,
l’efficacia di quei comportamenti (la presentazione delle proposte concorrenti), che nell’ottica del
legislatore assicurano il raggiungimento di quell’obiettivo.
Certo è, comunque, che anche tale soluzione non è per nulla tranquillizzante, innescando una
serie di complicazioni in punto di adattamento di una normativa pensata in funzione della presenza
del debitore proponente ad un procedimento che tale presenza potrebbe ancora vedere, ma in
posizione assolutamente marginale (un esempio per tutti: l‘amministrazione del patrimonio resta in
capo al debitore rinunziante, o deve essere nominato un “gestore” ad hoc?).
b. Quanto al secondo caso, resta il fatto che l’art. 173 non è stato modificato dalla novella,
dovendosi dunque ritenere applicabile anche in presenza di proposte concorrenti. La revoca
dell’ammissione al concordato, soprattutto ove conduca alla dichiarazione di fallimento del
debitore, sembrerebbe inevitabilmente rendere di fatto improseguibile la proposta concorrente
eventualmente avanzata dal creditore. In tale caso, si pone il dubbio circa la possibilità, per il
creditore che abbia sopportato i costi legati alla presentazione della proposta concorrente, di
chiedere, nel fallimento successivo, il risarcimento dei danni qualora la revoca sia dipesa da
comportamenti contra legem del debitore.
10.8. L’intervento del commissario giudiziale. Con riguardo alle proposte concorrenti il
commissario giudiziale giuoca un ruolo fondamentale.
Si è già parlato, nel § 10.2 di questa Appendice, dell’obbligo del commissario sia di fornire ai
creditori tutte le informazioni utili alla predisposizione di proposte concorrenti sia di comunicare ai
creditori le proposte concorrenti effettivamente presentate. Ora va detto che il commissario:
- ai sensi dell’art. 172, co. 2, deve riferire in merito alla proposte concorrenti con una apposita
relazione integrativa (di quella particolareggiata di cui al primo co. dello stesso art. 172), da
depositare in cancelleria e comunicare ai creditori per p.e.c. almeno 10 giorni prima dell’adunanza;
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relazione che «contiene, di regola, una particolareggiata comparazione di tutte le proposte
presentate»;
- ai sensi dell’art. 175, co. 1, deve in sede di adunanza illustrare le sue relazioni nonché le
proposte definitive del debitore e quelle concorrenti dei creditori.
10.9. Discussione e votazione. a. In sede di adunanza debbono ovviamente essere discusse tutte
le proposte presentate e quindi anche quelle concorrenti. Specificamente, ai sensi del nuovo co. 3
dell’art. 175, da un lato, «Ciascun creditore può esporre le ragioni per le quali non ritiene
ammissibili o convenienti le proposte di concordato» e, dall’altro, «Il debitore può esporre le
ragioni per le quali non ritiene ammissibili o fattibili le eventuali proposte concorrenti».
b. Non vi è alcuna disciplina particolare per ciò che riguarda l’ammissione al voto sulle proposte
concorrenti. E’ solo previsto, dal nuovo co. 6 dell’art. 163, che «I creditori che presentano una
proposta di concordato concorrente hanno diritto di voto sulla medesima solo se collocati in una
autonoma classe»: tale previsione viene spiegata, nella relazione al disegno di legge di conversione
del decreto n. 83, anche con il «fine di consentire ai creditori esterni la possibilità di contestare la
convenienza del concordato ex art. 180, quarto comma» (spiegazione, per la verità, decisamente
criptica).
Nel silenzio della legge devono ritenersi non operanti, con riferimento alle proposte concorrenti,
le cause di esclusione dal voto previste, relativamente alla proposta del debitore, dall’art. 177, ult.
co. Se rispetto allo stesso creditore proponente la legge ha ritenuto, come abbiamo appena visto, di
escludere la sussistenza o comunque la rilevanza del conflitto di interessi, a maggior ragione tale
esclusione deve affermarsi con riguardo ai creditori “particolarmente relazionati” con il creditore
proponente.
c. Ai sensi dell’art. 175, co. 5, «Sono sottoposte alla votazione dei creditori tutte le proposte
presentate dal debitore e dai creditori, seguendo, per queste ultime, l'ordine temporale del loro
deposito». Da questa disposizione appare chiaro che ciascuna proposta è sottoposta distintamente
alla votazione e che la prima proposta messa in votazione è quella del debitore.
Stabilisce poi la nuova seconda parte dell’art. 177, co. 1, che, quando siano poste al voto più
proposte di concordato, «si considera approvata la proposta che ha conseguito la maggioranza più
elevata dei crediti ammessi al voto; in caso di parità, prevale quella del debitore o, in caso di
parità fra proposte di creditori, quella presentata per prima. Quando nessuna delle proposte
concorrenti poste al voto sia stata approvata con le maggioranze di cui al primo e secondo periodo
del presente comma, il giudice delegato, con decreto da adottare entro trenta giorni dal termine di
cui al quarto comma dell'articolo 178, rimette al voto la sola proposta che ha conseguito la
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maggioranza relativa dei crediti ammessi al voto, fissando il termine per la comunicazione ai
creditori e il termine a partire dal quale i creditori, nei venti giorni successivi, possono far
pervenire il proprio voto con le modalità previste dal predetto articolo. In ogni caso si applicano il
primo e secondo periodo del presente comma».
La formulazione è abbastanza contorta e in qualche passaggio può apparire contraddittoria. Il
senso sembra comunque da ricostruire in questo modo:
- si verifica se e quali proposte siano state approvate con le maggioranze previste dai primi due
periodi del comma 1 (maggioranza dei crediti ammessi al voto; maggioranza nel maggior numero di
classi);
- nell’ipotesi che solo una delle diverse proposte sia stata approvata con le suddette maggioranze,
il discorso si chiude;
- nell’ipotesi che siano state approvate con quelle maggioranze due o più proposte, prevale quella
che ha conseguito la maggioranza più elevata dei crediti ammessi al voto; in caso di parità prevale
quella del debitore o, se la parità concerne solo proposte di creditori, quella presentata prima;
- se nessuna delle proposte consegue le maggioranze previste dai primi due periodi del primo
comma, il giudice delegato rimette al voto solo la proposta che ha conseguito la maggioranza
relativa dei crediti ammessi al voto;
- tale proposta dovrà ancora una volta essere approvata con le maggioranze previste dai primi
due periodi del primo comma.
Resta qualche dubbio. In particolare: che succede se due delle proposte abbiano conseguito la
stessa maggioranza relativa? Si rimettono entrambe al voto o si adottano i criteri di scelta previsti
per l’ipotesi di parità di proposte approvate?
10.10. Omologazione e relativi effetti. a. Nulla ha stabilito il legislatore del 2015 con riguardo
alla fase successiva alla votazione nell’ipotesi che a tale votazione siano state presentate anche
proposte concorrenti: un silenzio – può notarsi – espressione ancora una volta dell’approssimazione
con cui quel legislatore ha proceduto nel disciplinare le nuove figure o i nuovi istituti che ha
ritenuto di introdurre. E’ quindi alle sole disposizioni generali che si deve far riferimento.
Nessun particolare problema dovrebbe sorgere nel caso in cui nessuna delle proposte, né quella
del debitore né una di quelle concorrenti, venga approvata. Non potrebbe infatti che trovare
applicazione l’art. 179, co. 1: il giudice delegato dovrà informarne immediatamente il tribunale, che
dovrà dichiarare l’inammissibilità, è da ritenere, di tutte le proposte, con la possibilità –
sussistendone i presupposti – di dichiarare il fallimento del debitore.
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Nel caso in cui dovesse essere approvata la proposta del debitore, nulla quaestio: si
applicherebbe tranquillamente l’art. 180. Qualche complicazione sembrerebbe potersi determinare,
invece, nell’ipotesi che sia approvata una proposta concorrente: si può, nell’applicare l’art. 180,
sostituire il creditore proponente al debitore e, quindi, addossare a quello l’obbligo di notificare il
decreto di fissazione dell’udienza di omologazione e di costituirsi almeno dieci giorni prima?
Probabilmente sì. Resterebbe però, in tale caso, il problema di stabilire se comunque anche il
debitore debba essere (rimanere) parte di questa fase procedimentale. Quel che appare sicuro è che
al debitore debba riconoscersi il potere di proporre opposizione all’omologazione.
b. La legge tace completamente anche sugli effetti della omologazione nell’ipotesi in cui ad
essere approvata e omologata è non la proposta del debitore ma quella concorrente di un creditore.
I più rilevanti punti critici sono tre:
- se nel caso (normale) in cui la proposta concorrente abbia trovato la propria base nell’utilizzo
dei beni del debitore, l’omologazione comporti il trasferimento del patrimonio al proponente;
- se si produca a favore del debitore medesimo l’esdebitazione conseguente all’art. 184 per il
quale «Il concordato omologato è obbligatorio per tutti i creditori anteriori alla pubblicazione nel
registro delle imprese del ricorso di cui all’art. 161»;
- se l’omologazione determini la liberazione immediata del debitore.
Con riguardo al primo punto, sembra doversi applicare la regola elaborata per l’ipotesi di
concordato con assunzione, e cioè che il trasferimento segua alla definitività del decreto di
omologazione, salvo che la proposta o il piano concordatario preveda il trasferimento solo quando
gli obblighi concordatari siano stati integralmente adempiuti.
Con riguardo al secondo punto, la risposta sembra dover essere affermativa, anche alla luce di
quanto rilevato in premessa (retro, § 10.1 di questa Appendice), e cioè che il legislatore ha mostrato
di voler costruire la proposta concorrente come, in principio, equipollente, sul piano degli effetti, a
quella del debitore. Del resto, come è stato giustamente rilevato da taluni commentatori, avendo la
proposta concorrente a propria base, direttamente o indirettamente, l’utilizzo dei beni del debitore,
questo comunque perderà tali beni a beneficio dei creditori, realizzandosi allora l’ordinario
“scambio” che giustifica l’esdebitazione.
Quanto al terzo punto. Secondo parte della dottrina, la liberazione immediata del debitore
sarebbe indispensabile, per evitare conseguenze inique a danno del medesimo. In realtà, il silenzio
della legge sembra imporre sul punto una risposta negativa (salvo che le condizioni del concordato
prevedano espressamente quella liberazione: ma è, questa, evenienza assolutamente teorica), con
tutto ciò che allora può derivarne (v. infra, § 10.12 di questa Appendice).
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10.11. Esecuzione della proposta concorrente approvata ed omologata. a. Si è già accennato, in
precedenza, alla particolare disciplina dettata dalla nuova legge in ordine all’esecuzione di una
proposta di concordato preventivo presentata da uno o più creditori che sia stata approvata e
omologata (retro, § 10.3 di questa Appendice). Si sono menzionate le disposizioni, recate dai nuovi
co. 3-6 dell’art. 185 e si è precisato quale debba in generale essere – ad avviso di chi scrive – la
portata da assegnare a quelle disposizioni: con esse, non si è inteso addossare al debitore
l’adempimento degli obblighi scaturenti dal concordato proposto dal creditore e omologato dal
tribunale; si è inteso invece imporre al debitore di compiere tutto quanto la situazione richiede
affinché il creditore proponente possa adempiere ai propri obblighi. Qui resta da chiarire più
compiutamente il funzionamento dei meccanismi previsti dalle norme in esame.
b. A norma del co. 3, dunque, «il debitore è tenuto a compiere ogni atto necessario a dare
esecuzione» alla proposta concorrente: si tratterà essenzialmente – è da ritenere – di atti e attività di
ordine materiale, come, per esempio, la messa a disposizione del patrimonio o di singoli beni.
Il rispetto di questo obbligo è presidiato da un articolato (e chiaramente sovrabbondante)
ventaglio di misure “correttive” e precisamente:
- il commissario giudiziale, nel caso «in cui rilevi che il debitore non sta provvedendo al
compimento degli atti necessari a dare esecuzione alla suddetta proposta o ne sta ritardando il
compimento, deve senza indugio riferirne al tribunale. Il tribunale, sentito il debitore può attribuire
al commissario giudiziale i poteri necessari a provvedere in luogo del debitore al compimento degli
atti a questo richiesti» (co. 4);
- «il soggetto che ha presentato la proposta di concordato approvata e omologata dai creditori
può denunziare al tribunale i ritardi o le omissioni da parte del debitore, mediante ricorso al
tribunale notificato al debitore e al commissario giudiziale, con il quale può chiedere al tribunale
di attribuire al commissario giudiziale i poteri necessari a provvedere in luogo del debitore al
compimento degli atti a questo richiesti» (co.5);
- se si tratta di società «fermo restando il disposto dell'art. 173, il tribunale, sentiti in camera di
consiglio il debitore e il commissario giudiziale, può revocare l'organo amministrativo … e
nominare un amministratore giudiziario stabilendo la durata del suo incarico e attribuendogli il
potere di compiere ogni atto necessario a dare esecuzione alla suddetta proposta» (co. 6).
Chiaro essendo – in sé considerato ed in linea generale – il meccanismo sostitutivo previsto nelle
tre ipotesi (il commissario giudiziale o l’amministratore giudiziario si sostituisce appunto al
debitore nel compiere quanto necessario a consentire al creditore che ha presentato la proposta
concorrente approvata e omologata di adempiere agli obblighi assunti), non è chiaro il senso di
questa “moltiplicazione” di figure: le prime due sono pressoché identiche differendo solo sul piano
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dell’iniziativa (nell’un caso si attiva il commissario giudiziale, nell’altro è il creditore proponente
che chiede di disporre la sostituzione); quanto alla terza, non si capisce perché nel caso di società il
tribunale, avendo già a disposizione lo strumento, appunto, della sostituzione del debitore con il
commissario giudiziale dovrebbe preferire addirittura la misura molto più drastica (perché incide
sull’organizzazione stessa della società e sull’intera sua attività) della revoca degli amministratori e
della loro sostituzione con un amministratore giudiziario. Questa misura, in realtà, può (forse) avere
una qualche giustificazione solo con riguardo al caso specifico e specificamente menzionato in cui
la proposta concorrente preveda un aumento di capitale (e ne parleremo fra poco), certamente non
nella generalità dei casi di inosservanza degli obblighi posti dal co. 3 dell’art. 185.
Decisamente criptico (per non dire espressione di autentica non conoscenza delle norme
previgenti) è il riferimento del co. 6 al disposto dell’art. 173, dal momento che, per un verso,
l’ambito di operatività di tale norma non può essere esteso alla fase successiva all’omologazione e,
per altro verso, l’inosservanza degli obblighi posti dal co. 3 dell’art. 185 nulla ha a che vedere con i
comportamenti nella medesima norma contemplati e, per altro verso ancora, non si comprende
come essa norma dovrebbe nella specie operare.
c. Sempre nel co. 6 si precisa che, qualora la proposta abbia previsto un aumento del capitale
sociale del debitore, il potere conferito all’amministratore giudiziario include «la convocazione
dell'assemblea straordinaria dei soci avente ad oggetto la delibera di tale aumento di capitale e
l'esercizio del voto nella stessa».
E’ appena il caso di sottolineare che questa misura – che si traduce in una disattivazione delle
regole di funzionamento dell’organizzazione societaria – costituisce un unicum nel nostro sistema
delle procedure concorsuali, nell’ambito delle quali le competenze degli organi delle società ad esse
assoggettate non vengono di regola minimamente toccate. Nella relazione al disegno di legge di
conversione del d.l. n. 83 l’introduzione di questa misura viene, da un lato, collegata ad
«un’esigenza sempre più avvertita sul piano internazionale» (come dimostrerebbero recenti
sviluppi normativi di portata analoga in alcuni paesi comunitari) e, dall’altro, giustificata con la
necessità di «evitare che i soci esercitino il loro potere di veto sulle operazioni societarie
straordinarie al fine di estrarre valore a scapito dei creditori sociali». Al riguardo va osservato,
innanzi tutto, che, se è vero che taluni ordinamenti a noi vicini da tempo conoscono misure
“espropriative” dei poteri degli azionisti di società in crisi (la Francia, per esempio, le conosce fin
dalla legge del 1985), non è meno vero che l’importazione episodica di “brandelli” di sistemi
normativi altrui può non essere una buona soluzione (tanto più quando, come nel nostro caso,
l’importazione sia anche maldestra, come dimostra l’utilizzazione della figura dell’amministratore
giudiziario, certamente sproporzionata rispetto alle esigenze da soddisfare: non a caso,
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nell’ordinamento francese, si utilizza la figura del mandatario ad hoc). E va osservato, in secondo
luogo, che il meccanismo coattivo escogitato può tradursi nella sostituzione del creditore
proponente agli azionisti, nell’estrazione di valore dalla società in crisi in danno della generalità dei
creditori.
Detto questo, deve rilevarsi che, con l’attribuzione all’amministratore giudiziario del potere non
solo di convocare l’assemblea ma anche di esercitare in essa il voto, si ricade nella previsione
dell’art. 92, ult. co., disp. att. cod. civ., ai sensi del quale «all’amministratore giudiziario possono
essere attribuiti per determinati atti i poteri dell’assemblea» (ed è probabilmente in relazione a ciò
che si è ritenuto di scegliere questa figura): ma se ciò è vero, ne deriva che la deliberazione (relativa
all’aumento di capitale) assunta dall’amministratore giudiziario, per essere efficace, dovrà essere
approvata dal tribunale ai sensi dell’ultima parte del citato art. 92 disp. att.
d. La “confusione” che sembra aver appannato il nostro legislatore ha raggiunto l’acme con la
previsione dell’ultimo periodo del co. 6 ove si stabilisce che «Quando è stato nominato il
liquidatore a norma dell'articolo 182, i compiti di amministratore giudiziario possono essere a lui
attribuiti». Se la ragione della scelta della nomina dell’amministratore giudiziario sta nelle
particolari esigenze scaturenti dalla previsione nella proposta concorrente di un aumento di capitale
della società debitrice con esclusione o limitazione del diritto di opzione, sembra chiaro che tale
figura, che è quella di un “organo straordinario” della società, non dovrebbe poter essere
sovrapposta alla figura del liquidatore ex art. 182, che è da riguardare sostanzialmente come un vero
e proprio organo della procedura di concordato.
e. La legge tace completamente sui possibili rimedi contro gli atti compiuti dal commissario
giudiziale o dall’amministratore giudiziario nell’espletamento dei compiti di cui stiamo trattando.
Comunque, per quanto riguarda gli atti del commissario sarà proponibile, giusta il disposto dell’art.
165, co. 2, il reclamo ai sensi dell’art. 36; per quanto riguarda gli atti dell’amministratore
giudiziario devono invece ritenersi utilizzabili solo i normali strumenti di tutela previsti dal diritto
comune.
10.12. Risoluzione e annullamento del concordato. E’ tutt’altro che chiaro – al solito: per il
silenzio della legge – il modo in cui debba trovare applicazione, nell’ipotesi in cui sia stata
approvata ed omologata una proposta concorrente, la disciplina dettata dalla legge fallimentare in
materia di risoluzione e di annullamento del concordato.
Comunque, ad avviso di chi scrive, essendosi escluso che in quella ipotesi vi sia liberazione
immediata del debitore (retro, § 10.10 di questa Appendice), l’inadempimento ai propri obblighi da
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parte del proponente, ove di non scarsa importanza, determinerà la risoluzione del concordato, con
tutte le conseguenze che potranno derivarne a carico del debitore.
Del pari, sempre ad avviso di chi scrive, la sussistenza delle circostanze di cui all’art. 138
(dolosa esagerazione del passivo, ecc.), pur essendo esse imputabili al debitore determinerà, in
relazione all’idoneità di tali circostanze a falsare le basi stesse del concordato, l’annullamento del
medesimo.
11. Le offerte concorrenti.
Come si legge nella relazione al disegno di legge di conversione del decreto n. 83, alle stesse
finalità delle proposte concorrenti – massimizzare la recovery dei creditori concordatari (in
particolare, evitando che, attraverso atti di trasferimento preconfezionati, si produca con
l’interposizione di terzi compiacenti un “ritorno” di aziende o di beni al debitore) e mettere a loro
disposizione una possibilità ulteriore rispetto a quella di accettare o rifiutare in blocco la proposta
del debitore – risponderebbe un’altra rilevante novità portata dalla “miniriforma” del 2015, quella
delle c.d. offerte concorrenti.
a. Ai sensi del nuovo art. 163-bis, co. 1, quando il piano di concordato «comprende una offerta
da parte di un soggetto già individuato avente ad oggetto il trasferimento in suo favore, anche
prima dell'omologazione, verso un corrispettivo in denaro o comunque a titolo oneroso dell'azienda
o di uno o più rami d'azienda o di specifici beni», il tribunale deve procedere alla «ricerca di
interessati all'acquisto disponendo l'apertura di un procedimento competitivo» con un apposito
decreto.
La legge non fissa termini per l’emanazione di questo decreto. Non c’è dubbio però, che il
tribunale – il quale, va precisato, non ha, in materia, alcuna discrezionalità e quindi è tenuto ad
indire la procedura competitiva – da un lato, debba provvedere solo dopo il decreto di ammissione
del debitore alla procedura di concordato (solo se la procedura si apra ha senso l’intero meccanismo
delle offerte migliorative) e, dall’altro, debba, dopo tale decreto, provvedere rapidamente, dal
momento che l’intero subprocedimento relativo alle offerte si deve inderogabilmente concludere,
per espressa previsione del co. 4 dell’art. 163-bis, prima dell’adunanza dei creditori.
b. Il contenuto del decreto che dispone l'apertura del procedimento competitivo è molto
articolato. Esso, infatti, deve
- stabilire le modalità di presentazione delle offerte;
- prevedere che ne sia assicurata in ogni caso la comparabilità (eventualmente predisponendo,
per esempio, appositi schemi);
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- precisare i requisiti di partecipazione degli offerenti, la data dell'udienza per l'esame delle
offerte, le modalità di svolgimento della procedura competitiva, le garanzie che devono essere
prestate dagli offerenti e le forme di pubblicità del decreto;
- in ogni caso disporre la pubblicità sul portale delle vendite pubbliche di cui all’art. 490 c.p.c.
(peraltro, ancora non attivo);
- stabilire l'aumento minimo rispetto al corrispettivo originario che le offerte devono prevedere.
Sempre lo stesso decreto deve precisare le forme e i tempi di accesso alle informazioni rilevanti
per la predisposizione delle offerte, gli eventuali limiti al loro utilizzo e le modalità con cui il
commissario giudiziale deve fornirle a coloro che ne fanno richiesta. A questo riguardo va ricordato
che, in base all’art. 165, co. 4, la disciplina concernente gli obblighi informativi posti a carico del
commissario giudiziale in relazione alle proposte concorrenti (di cui si è detto retro, § 10.2 di
questa Appendice) «si applica anche in caso di richieste, da parte di creditori o di terzi, di
informazioni utili per la presentazione di offerte ai sensi dell’art. 163-bis».
c. Le offerte possono essere presentate, come risulta dal brano appena riportato, sia da creditori
sia da terzi; debbono essere irrevocabili; debbono essere presentate «in forma segreta»; sono
inefficaci se non conformi a quanto stabilito dal decreto di cui sopra o se sottoposte a condizione.
Ai sensi del co. 3 dell’art. 163-bis, «L'offerta di cui al primo comma diviene irrevocabile dal
momento in cui viene modificata l'offerta in conformità a quanto previsto dal decreto di cui al
precedente comma e viene prestata la garanzia stabilita con il medesimo decreto». Questo
sembrerebbe significare che l’offerta originaria è destinata a diventare inefficace (cioè ad essere
posta fuori gioco) ove non venga modificata in modo da renderla in tutto conforme a quanto
stabilito dal decreto che dispone la procedura competitiva. E ciò a prescindere dal fatto che
intervengano o meno offerte concorrenti.
d. All’apposita udienza fissata dal tribunale le offerte sono rese pubbliche alla presenza degli
offerenti e di qualunque interessato. Se sono state presentate più offerte migliorative, il “giudice”
(da intendere come il giudice delegato) dispone la gara tra gli offerenti; tale gara, da espletare
secondo le modalità fissate dal decreto di apertura della procedura competitiva, può avere luogo alla
stessa udienza o ad un'udienza immediatamente successiva e deve concludersi – come si è già
precisato – prima dell'adunanza dei creditori, anche quando il piano prevede che la vendita o
l'aggiudicazione abbia luogo dopo l'omologazione.
Con la vendita o con l’aggiudicazione (se precedente) ad un soggetto diverso dall’originario
offerente, quest’ultimo è liberato dalle obbligazioni eventualmente assunte nei confronti del
debitore. Nei suoi confronti – stabilisce il co. 4 dell’art. 163-bis – «il commissario dispone il
rimborso delle spese e dei costi sostenuti per la formulazione dell'offerta entro il limite massimo del
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tre per cento del prezzo in essa indicato»: una previsione di cui nella relazione al disegno di legge
di conversione si sottolinea l’importanza in quanto idonea ad evitare il rischio che la prospettiva di
una successiva procedura competitiva disincentivi i terzi interessati all’acquisto di assets nella fase
iniziale del processo di soluzione concordata della crisi.
e. «Il debitore deve modificare la proposta e il piano di concordato in conformità all'esito della
gara»: così, il co. 4 dell’art. 163-bis, che costituisce ulteriore espressione della linea volta alla
compressione dell’autonomia privata che connota la miniriforma del 2015.
Questo concorre a spiegare perché la procedura competitiva debba concludersi prima
dell’adunanza dei creditori. Almeno a tale adunanza, infatti, i creditori debbono essere edotti della
modifica della proposta e del piano resa necessaria dall’esito di quella procedura.
f. La disciplina fin qui esaminata si applica, ai sensi dell’ultimo periodo del primo co. dell’art.
163-bis, «anche quando il debitore ha stipulato un contratto che comunque abbia la finalità del
trasferimento non immediato dell’azienda, del ramo d’azienda o di specifici beni», nonché, ai sensi
dell’ultimo co. del medesimo art. 163-bis, «in quanto compatibile, anche agli atti da autorizzare ai
sensi dell'articolo 161, settimo comma, nonché all'affitto di azienda o di uno o più rami di
azienda».
La prima delle due previsioni evidentemente si riferisce – soprattutto, anche se non
esclusivamente – ai contratti preliminari e pone, altrettanto evidentemente, non pochi problemi, tra
cui quello di superare la vincolatività, per le parti, di tali contratti: ad avviso di chi scrive si
dovrebbe arrivare a ritenere che, per effetto dell’ammissione del debitore al concordato preventivo,
si produca una inefficacia temporanea dei medesimi, destinata o a cessare ove non pervengano
offerte migliorative o a diventare definitiva ove offerte migliorative, invece, pervengano.
La seconda delle due previsioni, nella sua prima parte, si riferisce ai trasferimenti dell’azienda,
ecc. da effettuare dopo la presentazione della domanda di concordato, anche di quello c.d. in bianco,
ed anzi avrebbe – secondo la più volte ricordata relazione al disegno di legge di conversione –
l’effetto di “legittimare” la prassi delle cessioni proprio in pendenza del termine per la
presentazione del piano e della proposta ai sensi dell’art. 161, co. 6. Ammesso che tale sia stato
l’intendimento – allora decisamente “obliquo” – del legislatore, c’è da osservare, innanzi tutto, che
gli atti da autorizzare ex art. 161, co. 7, debbono essere atti urgenti e l’urgenza pare difficilmente
conciliabile con l’adozione di procedure competitive e, in secondo luogo, che l’intero meccanismo
delle offerte concorrenti, e lo abbiamo già rilevato (v. retro, sub a), ha un senso solo se destinato ad
operare dopo il decreto di ammissione del debitore alla procedura.
12 Commissario giudiziale: comunicazioni al P.M.
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Si è già detto, analizzando la disciplina delle proposte e delle offerte concorrenti (retro,
rispettivamente, §§ 10.2 e 11 di questa Appendice), dei nuovi obblighi informativi, nei confronti dei
creditori, che con la riforma gravano sul commissario giudiziale; a quegli obblighi va aggiunto
quello scaturente dal co. 5 dell’art. 165, ai sensi del quale: «Il commissario giudiziale comunica
senza ritardo al pubblico ministero i fatti che possono interessare ai fini delle indagini preliminari
e dei quali viene a conoscenza nello svolgimento delle sue funzioni».
Viene in tal modo creato un canale di comunicazione diretto tra l’organo della procedura ed il
pubblico ministero, prima inesistente. Nel vigore della precedente disciplina, infatti, l’unica
possibilità per il commissario giudiziale di denunciare comportamenti rilevanti (anche) in sede
penale doveva necessariamente passare per il filtro del tribunale (cfr. art. 173, non modificato dalla
riforma del 2015). La novità va salutata con favore, in quanto idonea a ridurre i tempi necessari
affinché la notitia criminis giunga al pubblico ministero.
13. Giudizi in cui è parte l’impresa in concordato.
Con la volontà di rendere il più possibile omogenea la procedura concordataria con quella
fallimentare, il legislatore della riforma ha aggiunto un nuovo secondo comma all’art. 169, ai sensi
del quale «Si applica l’articolo 43, quarto comma, sostituendo al fallimento l’impresa ammessa al
concordato preventivo»: disposizione, quella richiamata, che, come si ricorderà (v. retro, § 4, b di
questa Appendice), introduce una sorta di “corsia preferenziale” per le controversie in cui è parte il
fallimento, con l’obiettivo di accelerare la conclusione della procedura. Ora, è del tutto evidente
come tale obiettivo sia in realtà estraneo al concordato preventivo, che ha una durata prefissata per
legge, la cui estensione massima (nove mesi dalla presentazione del ricorso, prorogabili per una sola
volta di sessanta giorni: art. 181) sembra comunque insufficiente ad esaurire un giudizio, seppure
trattato con priorità; d’altra parte, com’è noto, il concordato si pone come evento neutro rispetto ai
processi in corso, conservando il debitore la legittimazione processuale (riflesso del mancato
spossessamento).
L’accelerazione così impressa alla definizione di tali controversie – sia quelle pendenti al
momento della presentazione della domanda, sia, è da ritenere, quelle iniziate durante la procedura
– sembra dunque poter esplicare i suoi effetti nella fase di esecuzione del concordato, riducendo i
tempi per la registrazione delle variazioni (che, peraltro, dovrebbero essere state già “implementate”
nel piano), in aumento o in diminuzione, del patrimonio responsabile e/o dell’ammontare del
passivo da soddisfare.
14. Contratti pendenti
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Tra le novità più rilevanti recate dalla normativa del 2015 va annoverata anche quella che
riguarda la modifica della disciplina degli effetti del concordato sui contratti pendenti, contenuta
nell’art. 169-bis: disciplina che, come si ricorderà, era stata introdotta nel nostro ordinamento con il
d.l. n. 83/2012.
La disposizione richiamata è stata in più punti ritoccata dalla riforma, ad iniziare dalla stessa
rubrica, che, fugando ogni dubbio sorto nel vigore del sistema precedente, fa ora espresso
riferimento ai “contratti pendenti” (e non più ai contratti in corso di esecuzione), per tali
intendendosi quelli ineseguiti o non compiutamente eseguiti da entrambe le parti al momento della
presentazione del ricorso per l’ammissione alla procedura di concordato; gli stessi, dunque, oggetto
della disciplina ex artt. 72 e ss. l.fall.
Anche nella nuova versione dell’art. 169-bis, comunque, non cambia l’impostazione di fondo: il
concordato è considerato come evento neutro rispetto ai contratti pendenti, che dunque, come
regola generale, continuano, salva la possibilità per il debitore di richiederne lo scioglimento o la
sospensione.
A. Ciò che invece cambia è, in primo luogo, la procedura per ottenere l’autorizzazione allo
scioglimento o alla sospensione del contratto.
a. Per quel che concerne l’autorizzazione allo scioglimento si è stabilito, per un verso, che la
relativa richiesta può essere avanzata anche in un momento successivo, rispetto alla presentazione
del ricorso per l’ammissione alla procedura (come chi scrive aveva già ritenuto possibile anche nel
vigore della precedente disciplina: v. § 195); e, per altro verso, che il rilascio della stessa, da parte
del tribunale o del giudice delegato, debba avvenire «con decreto motivato sentito l’altro
contraente, assunte, ove occorra, sommarie informazioni» (art. 169-bis, co. 1).
Quest’ultima modifica – che traduce in diritto positivo la prassi seguita da alcuni tribunali –
dovrebbe essere funzionale ad una più consapevole e ponderata decisione da parte del giudice.
Peraltro, il fatto che prima di procedere con il rilascio o meno dell’autorizzazione occorra “sentire”
– fissando un’udienza ad hoc oppure, deve ritenersi, concedendo termine per la presentazione di
memorie ed osservazioni scritte – la parte in bonis non deve, ad avviso di chi scrive, essere
sopravvalutato: nella specie, sembra invero corretto ritenere che l’eventuale interesse dell’altro
contraente alla continuazione della relazione contrattuale debba giuocare un ruolo secondario, la
scelta dell’autorità giudiziaria dovendosi fondare, essenzialmente, sulla compatibilità
dell’esecuzione del contratto pendente con il piano e la proposta concordataria. In tale ottica, le
sommarie informazioni di cui fa menzione la norma, ben potrebbero, allora, essere richieste (oltre
che al debitore ed alla controparte contrattuale) al commissario giudiziale.
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b. La disciplina dettata per ottenere l’autorizzazione allo scioglimento non è richiamata per la
sospensione dell’esecuzione del contratto pendente (che anche nel nuovo sistema può essere
concessa per non più di sessanta giorni, prorogabili una sola volta): non si scorgono ragioni,
tuttavia, per non ritenere operante, anche rispetto alla misura meno drastica della sospensione, la
stessa procedura illustrata in precedenza per lo scioglimento. Ed invero, anche la sospensione può
generare consistenti danni al contraente in bonis, come dimostra il riconoscimento in capo allo
stesso, anche in tale caso, del diritto all’indennizzo per il mancato adempimento da parte del
debitore, di cui si dirà subito appresso.
c. Risolvendo un dubbio che si era posto nel vigore della precedente disciplina, l’ultimo periodo
del co. 1 dell’art. 169-bis stabilisce, inoltre, che «Lo scioglimento o la sospensione del contratto
hanno effetto dalla comunicazione del provvedimento autorizzativo all’altro contraente».
B. Un secondo blocco di modifiche ha riguardato la posizione economica della controparte in
bonis, in ipotesi di scioglimento o di sospensione del contratto pendente.
a. Nel sistema previgente, come si ricorderà (§ 195), il co. 2 dell’art. 169-bis si limitava a
stabilire che, in tali casi (cioè in entrambi i casi, quindi anche, come si è anticipato, in quello di
sospensione), la parte in bonis «ha diritto ad un indennizzo equivalente al risarcimento del danno
conseguente al mancato adempimento. Tale credito è soddisfatto come credito anteriore al
concordato»; tale disposizione viene ora integrata con un ulteriore periodo, specificandosi che
rimane ferma «la prededuzione del credito conseguente ad eventuali prestazioni eseguite
legalmente e in conformità agli accordi o agli usi negoziali, dopo la pubblicazione della domanda
ai sensi dell’art. 161».
Ora, premesso, per un verso, che il riferimento alla “prededuzione” deve ritenersi tecnicamente
non corretto – la prededuzione propriamente detta potendo trovando spazio solo nell’eventuale,
successivo fallimento del debitore – e, per altro verso, che la nuova disposizione si applica solo in
caso di scioglimento del contratto pendente, l’esclusione dalla falcidia concordataria del credito
della parte in bonis, per i crediti maturati dopo la pubblicazione della domanda di concordato, pare
scelta del tutto conforme ai principi che reggono il concorso in atto sul patrimonio del debitore e
dunque condivisibile, avvicinandosi, anche sotto tale aspetto, la procedura de qua al fallimento. Il
problema semmai risiede nello stabilire, nel caso concreto, se tale credito sia opponibile alla massa,
se, cioè, la prestazione, dalla quale lo stesso trae origine, possa dirsi eseguita “legalmente e in
conformità agli accordi o agli usi negoziali”.
Pur in difetto di un riferimento espresso in tal senso, deve poi ritenersi sottratto alla falcidia
concordataria anche il credito – di restituzione – eventualmente vantato dalla parte in bonis, in virtù
dell’esecuzione parziale della propria prestazione in epoca anteriore alla presentazione della
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domanda di ammissione al concordato (sempre che l’oggetto della prestazione sia rappresentato da
beni determinati, ancora presenti nel patrimonio del debitore), analogamente a quanto accade
nell’ambito della procedura fallimentare (e v. § 81).
b. Una disciplina a parte è stata poi introdotta con riferimento alla specifica figura contrattuale,
estremamente rilevante nella pratica, della locazione finanziaria.
Più in particolare, con la riforma è stato aggiunto un nuovo co. 4 all’art. 169-bis, che nella
sostanza replica – salvi gli aggiustamenti richiesti dalla diversa natura delle due procedure – la
disciplina degli effetti del fallimento dell’utilizzatore sul contratto di leasing pendente, di cui all’art.
72-quater, co. 2 e 3 (sulla quale v. § 87).
In caso di scioglimento del contratto viene così stabilito, in primo luogo, il diritto del concedente
alla restituzione del bene oggetto del contratto di leasing; lo stesso concedente, poi, «è tenuto a
versare al debitore l’eventuale differenza fra la maggiore somma ricavata dalla vendita o da altra
collocazione del bene stesso avvenute a valori di mercato rispetto al credito residuo in linea
capitale». La disposizione continua stabilendo che «La somma versata al debitore a norma del
periodo precedente è acquisita alla procedura»: la precisazione è davvero poco comprensibile, non
essendo per nulla chiaro chi mai potrebbe, nel concordato preventivo, “acquisire” per conto della
procedura – che, giova precisarlo, non si erge a centro autonomo di imputazione di atti e rapporti
giuridici – detta somma, se non il debitore (al quale, peraltro e come si è avuto modo di osservare,
per espressa disposizione di legge deve essere comunque versata), fermo restando, ovviamente,
l’obbligo per quest’ultimo di destinare la stessa al soddisfacimento dei creditori concorsuali
(destinazione alla quale, forse, il legislatore voleva alludere nello stabilire l’“acquisizione” della
somma alla procedura).
Nell’ipotesi in cui, invece, dalla vendita o da altra collocazione del bene ottenga meno, il
concedente «ha diritto di far valere verso il debitore un credito determinato nella differenza tra il
credito vantato alla data del deposito della domanda e quanto ricavato dalla nuova allocazione del
bene. Tale credito è soddisfatto come credito anteriore al concordato». Va peraltro sottolineato che
mentre è sicuro che nel “credito vantato alla data del deposito della domanda” confluiscano sia i
canoni di leasing già scaduti prima della domanda stessa, sia quelli che scadono dopo la
comunicazione al concedente del provvedimento che autorizza lo scioglimento del contratto, assai
più dubbio è che in tale credito possano essere computati i canoni scaduti successivamente alla
presentazione della domanda, ma anteriormente rispetto alla comunicazione del provvedimento
autorizzatorio, gli stessi dovendo essere trattati come crediti extraconcorsuali, ai sensi delle
disposizioni contenute nei precedenti commi 1 e 2, come tali sottratti alla falcidia concordataria.
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Occorre poi precisare, sul punto, che il “credito” della società concedente diviene attuale solo al
momento della vendita o della diversa allocazione del bene: sino a quel momento, la pretesa della
parte in bonis deve ritenersi meramente eventuale e non può quindi essere soddisfatta nella fase di
esecuzione del concordato.
Nulla viene detto, infine, con riferimento alla sorte del contratto di leasing in caso di ammissione
al concordato della società concedente. Interpretando a contrario l’art. 169-bis, co. 4 (che come si
ricorderà – v. § 195 – elenca le figure contrattuali alle quali non si applica la disciplina della
sospensione e dello scioglimento “unilaterale”), si dovrebbe dire che la società concedente
potrebbe, essa, richiedere lo scioglimento del contratto, tornando così in possesso del bene che ne è
oggetto: una lettura sistematica della norma suggerisce, tuttavia, di escludere siffatta possibilità, se è
vero che in caso di fallimento – ove opera lo spossessamento e più forte, rispetto al concordato, è
l’attrazione di tutti i beni del debitore nella massa attiva da destinare al soddisfacimento del
complesso dei creditori concorrenti – il contratto prosegue e l’utilizzatore rimane in possesso del
bene, con la facoltà di acquisirne la proprietà alla scadenza.
15. Relazioni del commissario giudiziale in vista dell’adunanza.
Trattando del commissario giudiziale e, più in particolare, della funzione di accertamento,
valutazione e informazione dallo stesso svolta all’interno del concordato, si è detto (§ 188)
dell’importanza che riveste, nell’economia della procedura, la relazione ex art. 175, co. 1 l.fall.,
avente ad oggetto, come si ricorderà, le cause del dissesto, la condotta tenuta dal debitore, le
proposte di concordato e le garanzie offerte ai creditori. Tale relazione fornisce invero
indispensabili elementi di conoscenza e valutazione – sia ai creditori, sia agli altri organi della
procedura – in ordine alla situazione economico patrimoniale del debitore, alla convenienza del
concordato ed alla sicurezza del suo adempimento.
Ora, proprio nell’ottica di rendere maggiormente consapevole il voto dei creditori concorrenti, la
riforma, per un verso, ha portato da dieci ad almeno quarantacinque giorni prima dell’adunanza dei
creditori il termine per il deposito in cancelleria della relazione (modifica che, in realtà e come si è
avuto modo di segnalare retro, § 10.2 di questa Appendice, si spiega anche con la volontà di
consentire ai creditori che, sussistendone le condizioni, avessero intenzione di presentare proposte
concorrenti con quella del debitore, di effettuare tale scelta conoscendo la relazione del
commissario), e, per altro verso, ha introdotto un periodo nuovo nella norma summenzionata, ai
sensi del quale «Nella relazione il commissario deve illustrare le utilità che, in caso di fallimento,
possono essere apportate dalle azioni risarcitorie, recuperatorie o revocatorie che potrebbero
essere promosse nei confronti di terzi». Ciò impone al commissario giudiziale un’attenta opera di
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ricostruzione delle operazioni compiute dal debitore nel periodo che precede la domanda di
ammissione alla procedura (compito agevolato dall’obbligo ora imposto al debitore di consegnare al
commissario copia informatica o su supporto analogico delle scritture contabili e fiscali
obbligatorie: retro, § 9 di questa Appendice), al fine di individuare gli atti rispetto ai quali,
dichiarato il fallimento, potrebbe chiedersi l’inefficacia nei confronti dei creditori, o che potrebbero
essere utilizzati dal curatore per ottenere pronunce restitutorie e/o risarcitorie a favore della massa
attiva. Peraltro, per come è formulata la norma, non sembrerebbe sufficiente l’indicazione delle
possibili azioni esercitabili nel successivo, eventuale fallimento, dovendo il commissario esprimere
il proprio parere sulle probabilità di successo delle azioni e sulle utilità, in concreto, che il vittorioso
esperimento di esse può apportare al patrimonio responsabile (e, di conseguenza, ai creditori).
A tale relazione dovrà affiancarsi, come si è avuto modo di osservare (retro, § 10.8 di questa
Appendice), quella “integrativa”, ex art. 172, co. 2, qualora fossero state presentate proposte
concorrenti di concordato. Una relazione integrativa deve inoltre essere redatta, indipendentemente
dal fatto che siano state presentate una o più proposte concorrenti, «qualora emergano informazioni
che i creditori devono conoscere ai fini dell’espressione del voto» (e si pensi, per fare un esempio,
ad un giudizio, a contenuto patrimoniale, instaurato nei confronti del debitore dopo il deposito della
prima relazione).
16. Discussione e approvazione delle proposte.
A. Con riferimento alla discussione delle proposte, la riforma, come si è avuto modo di
osservare, ha modificato l’art. 175, regolando l’ipotesi in cui, accanto alla proposta presentata dal
debitore, siano state presentate una o più proposte concorrenti da parte dei creditori. Sul punto
occorre solo ricordare che, indipendentemente dalla presentazione di proposte concorrenti, il
termine ultimo per apportare le modifiche alla(e) proposta(e) è adesso fissato in quindici giorni
prima dell’adunanza dei creditori (art. 172, co. 2), e non più, come stabiliva l’ormai abrogato co. 2
dell’art. 175, l’inizio delle operazioni di voto.
B. Anche la disciplina della maggioranza per l’approvazione del concordato, di cui all’art. 177,
ha subito modifiche per tenere conto della eventualità della presentazione di proposte concorrenti.
Di tali modifiche si è già avuto modo di trattare in precedenza (retro, § 10.9 di questa Appendice).
Ma non solo. Con la riforma si è voluto, per un verso, armonizzare la disciplina del concordato
preventivo con quella del concordato fallimentare, il nuovo co. 4 dell’art. 177 escludendo
espressamente dal voto non più soltanto il coniuge del debitore, i suoi parenti e affini fino al quarto
grado, ma anche «la società che controlla la società debitrice, le società da questa controllate e
quelle sottoposte a comune controllo» (oltre i cessionari o aggiudicatari, da meno di un anno prima
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della proposta di concordato, dei crediti originariamente vantati dai soggetti prima menzionati),
analogamente a quanto stabilito, appunto, dall’art. 127, co. 5 e 6; ma, per altro verso e con riguardo
alle modalità di adesione alla proposta, si è, all’opposto, proceduto a differenziare le due discipline.
E’ infatti venuto meno, per il concordato preventivo, il principio del silenzio assenso e si è tornati
alla regola, in vigore prima della riforma operata dalla l. n. 134/2012, che impone ai creditori che
vogliano aderire ad una proposta di manifestare espressamente il loro voto. Il nuovo co. 4 dell’art.
178 stabilisce invero che: «I creditori che non hanno esercitato il voto possono far pervenire lo
stesso per telegramma o per lettera o per telefax o per posta elettronica nei venti giorni successivi
alla chiusura del verbale. Le manifestazioni di voto sono annotate dal cancelliere in calce al
verbale».
La modifica esprime forse meglio di qualunque altra la nuova filosofia che permea la disciplina
del concordato preventivo dopo la riforma del 2015. Il perfezionamento dell’accordo e, in ultima
istanza, l’omologazione della proposta, non è più un obiettivo da perseguire a tutti i costi:
all’indiscriminato favor verso la soluzione negoziale si è così sostituito un insieme di regole che,
nell’ottica del legislatore, dovrebbero condurre, per un verso, alla presentazione di proposte serie e
convenienti per i creditori; e, per altro verso, alla conclusione di un accordo negoziale non viziato
da asimmetrie informative tra le parti e da accettazioni “presunte”, che potrebbero non riflettere
fedelmente la reale volontà dei soggetti coinvolti.
17. Omologazione.
Tra le porzioni di disciplina non toccate direttamente dalla riforma e rimaste, dunque,
formalmente inalterate, va annoverata quella che concerne il giudizio di omologazione, come
regolato dall’art. 180. Ciò peraltro è vero solo in parte.
Per un verso, infatti, si è già avuto modo di osservare (retro, § 10.10 di questa Appendice) come
la possibilità, oggi riconosciuta ai creditori, di presentare proposte concordatarie concorrenti con
quella del debitore, comporti la necessità, se non altro, di modellare le disposizioni di cui all’art.
180, per adeguarle al mutato assetto normativo. Per altro verso, poi, è variata la disciplina del
concordato con cessione dei beni, il nuovo art. 182 – oggi rubricato semplicemente “Cessioni” e sul
quale torneremo nel prossimo § – prevedendo ora al comma 1 un nuovo secondo periodo, ai sensi
del quale, con il decreto di omologazione il tribunale (oltre a nominare, eventualmente, uno o più
liquidatori e un comitato di tre o cinque creditori) «dispone che il liquidatore effettui la pubblicità
prevista dall’art. 490, primo comma, del codice di procedura civile e fissa il termine entro cui la
stessa deve essere eseguita». La disposizione del codice di rito richiamata, anch’essa introdotta con
il d.l. 83/2015, a sua volta stabilisce che: «Quando la legge dispone che di un atto esecutivo sia
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data pubblica notizia, un avviso contenente tutti i dati, che possono interessare il pubblico, deve
essere inserito sul portale del Ministero della giustizia in un’area pubblica denominata “portale
delle vendite pubbliche”». Premesso che tale “portale” non è stato ancora attivato, la modifica si
giustifica con la volontà di rendere in futuro maggiormente trasparenti e competitive le operazioni
di vendita dei beni del debitore, con l’obiettivo ultimo di massimizzare il ricavato da distribuire ai
creditori concorrenti.
18. Esecuzione del concordato.
Anche rispetto alla fase di esecuzione si può tranquillamente rinviare alla parte in precedenza
dedicata alle proposte concorrenti, essendo le modifiche introdotte con l’art. 185, co. 3-6 già state
analizzate in tale contesto (retro, §§ 10.3 e 10.11 di questa Appendice).
In quella sede si è fra l’altro evidenziata l’incerta portata dell’ultimo periodo del co. 6, che
consente al liquidatore, nominato ai sensi dell’art. 182, di svolgere i compiti dell’amministratore
giudiziario. Ora, proprio con riferimento alla norma testé menzionata, va segnalata l’ulteriore novità
introdotta dal co. 5, ai sensi del quale: «Alle vendite, alle cessioni e ai trasferimenti legalmente posti
in essere dopo il deposito della domanda di concordato o in esecuzione di questo, si applicano gli
articoli da 105 a 108-ter in quanto compatibili. La cancellazione delle iscrizioni relative ai diritti di
prelazione, nonché delle trascrizioni dei pignoramenti e dei sequestri conservativi e di ogni altro
vincolo, sono effettuati su ordine del giudice, salvo diversa disposizione contenuta nel decreto di
omologazione per gli atti a questa successivi».
La disposizione, nel riproporre il rinvio (sempre nei limiti della compatibilità) agli artt. 105-108-
ter, già previsto nel testo ante riforma (§ 190), per un verso, fissa l’ambito oggettivo di applicazione
delle norme richiamate, estendendolo alle vendite, alle cessioni e ai trasferimenti intervenuti non
soltanto durante la fase di esecuzione del concordato, ma anche nel corso della procedura; e, per
altro verso, stabilendo la cancellazione dei vincoli sui beni oggetto di trasferimento, su ordine del
giudice delegato (o secondo le modalità stabilite nel decreto di omologazione), chiarisce una volta
per tutte la natura coattiva delle vendite concordatarie, indipendentemente dalla tipologia –
liquidatorio o in continuità – del concordato proposto.
19. Finanza interinale.
Nel quadro del finanziamento dell’impresa in concordato, snodo cruciale, come si è avvertito (§
204), del tentativo di soluzione negoziata della crisi, il legislatore del 2015 è intervenuto
modificando la disciplina dei finanziamenti erogati durante la procedura (i c.d. finanziamenti
interinali), mentre è rimasta ferma la disciplina dei finanziamenti ponte (quelli, cioè, in funzione
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della procedura) e quella relativa ai finanziamenti erogati in esecuzione della proposta
concordataria, entrambi regolati dall’art. 182-quater.
L’intervento ha dunque interessato l’art. 182-quinquies, e si è tradotto, per un verso, in una mera
– seppure importante – precisazione inserita nel primo comma; per altro verso, nell’introduzione di
un nuovo terzo comma, che si occupa di quelli che potrebbero essere definiti i finanziamenti
“urgenti” ed “indifferibili”; e, per altro verso ancora, nell’ampliamento delle garanzie che il
debitore può concedere per ottenere i finanziamenti interinali.
a. La prima modifica, come si diceva, è rappresentata da una precisazione inserita nel primo
comma dell’art. 182-quinquies, che ora stabilisce che il debitore il quale presenta una domanda di
concordato, anche in bianco (o un ricorso per l’omologazione di un accordo di ristrutturazione o una
proposta di accordo di ristrutturazione), può chiedere l’autorizzazione al tribunale a contrarre un
finanziamento – idoneo a generare un credito da restituzione prededucibile nel successivo,
eventuale, fallimento e sottratto alla falcidia concordataria, in quanto sorto posteriormente alla
domanda di apertura –, «anche prima del deposito della documentazione di cui all’articolo 161,
commi secondo e terzo». La richiesta di autorizzazione, e sul punto non v’è alcuna novità, deve poi
essere corredata dall’attestazione del professionista circa la funzionalità del finanziamento al
miglior soddisfacimento dei creditori.
La precisazione – ad avviso di chi scrive superflua – si è imposta, perché nel vigore
dell’originario testo dell’art. 182-quinquies, co. 1, parte della giurisprudenza riteneva
(erroneamente) indispensabile, ai fini del rilascio del provvedimento autorizzativo, il deposito da
parte del debitore del piano e della proposta (seppure in una versione provvisoria), ponendo, di
fatto, fuori giuoco la previsione che già prima della riforma del 2015 consentiva di richiedere
l’autorizzazione a contrarre il finanziamento interinale con la domanda incompleta di concordato.
b. Ben più incisivo è l’intervento operato sull’attuale terzo comma dell’art. 182-quinquies, il
quale contempla una figura di finanziamento interinale, in precedenza sconosciuta al nostro
ordinamento, qualificata dai caratteri dell’urgenza e della indifferibilità.
La disposizione appena richiamata stabilisce che: «Il debitore che presenta una domanda di
ammissione al concordato preventivo ai sensi dell'articolo 161, sesto comma, anche in assenza del
piano di cui all'articolo 161, secondo comma, lettera e), o una domanda di omologazione di un
accordo di ristrutturazione dei debiti ai sensi dell'articolo 182-bis, primo comma, o una proposta di
accordo ai sensi dell'articolo 182-bis, sesto comma, può chiedere al tribunale di essere autorizzato
in via d'urgenza a contrarre finanziamenti, prededucibili ai sensi dell'articolo 111, funzionali a
urgenti necessità relative all'esercizio dell'attività aziendale fino alla scadenza del termine fissato
dal tribunale ai sensi dell'articolo 161, sesto comma, o all'udienza di omologazione di cui
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all'articolo 182-bis, quarto comma, o alla scadenza del termine di cui all'articolo 182-bis, settimo
comma. Il ricorso deve specificare la destinazione dei finanziamenti, che il debitore non è in grado
di reperire altrimenti tali finanziamenti e che, in assenza di tali finanziamenti, deriverebbe un
pregiudizio imminente ed irreparabile all'azienda. Il tribunale, assunte sommarie informazioni sul
piano e sulla proposta in corso di elaborazione, sentito il commissario giudiziale se nominato, e, se
del caso, sentiti senza formalità i principali creditori, decide in camera di consiglio con decreto
motivato, entro dieci giorni dal deposito dell'istanza di autorizzazione. La richiesta può avere ad
oggetto anche il mantenimento di linee di credito autoliquidanti in essere al momento del deposito
della domanda».
Vediamo che cosa distingue questa forma di finanziamento da quella regolata nel primo comma
dell’art. 182-quinquies.
Iniziamo con il dire che questa disciplina trova applicazione solo in ipotesi di domanda
incompleta di concordato (o di accordo di ristrutturazione o di proposta di accordo di
ristrutturazione), anche qualora – precisazione anche questa inutile, ad avviso di chi scrive, ma
coerente con la modifica intervenuta nel primo comma – la domanda non sia accompagnata dal
piano concordatario. E si applica, si deve ritenere, solo se la richiesta di autorizzazione è avanzata
nello stesso ricorso introduttivo (come si evince dal tenore letterale del secondo periodo della
norma).
A tale diverso (e più ristretto) ambito applicativo corrisponde anche una differente esigenza che
attraverso il finanziamento de quo si intende soddisfare. Così, mentre il finanziamento interinale di
cui al primo comma può essere richiesto per la copertura dell’intero fabbisogno dell’impresa
durante tutto il corso della procedura, sino all’omologazione, le nuove risorse che potrebbero
affluire grazie all’autorizzazione di cui al comma terzo dovrebbero essere funzionali alla copertura
dei soli costi che l’impresa sopporta nel periodo di tempo intercorrente tra la domanda incompleta
di concordato e lo spirare del termine per il deposito della documentazione mancante. Il che, però,
non è (sarebbe) di per sé sufficiente a giustificare l’introduzione di questa nuova forma di
finanziamenti: ed invero, se la nuova finanza reperibile con l’autorizzazione di cui al primo comma
può soddisfare le esigenze dell’impresa sino all’omologazione, a maggior ragione sarebbe idonea a
coprire le uscite che l’impresa medesima prevede di sopportare per un così limitato periodo di
tempo.
Il tratto distintivo delle due figure deve, allora, essere rintracciato altrove e, più in particolare,
nell’urgenza, per l’impresa, di reperire fresh money, che si eleva a condizione per ottenere i
finanziamenti di cui al terzo comma, come dimostra il duplice riferimento alla richiesta di
autorizzazione “in via d’urgenza” e alla necessaria destinazione delle nuove risorse “a urgenti
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necessità relative all'esercizio dell'attività aziendale”. La stessa relazione al disegno di legge di
conversione del d.l. n. 83/2015 sottolinea come tali finanziamenti siano «necessari a sostenere
l’attività aziendale per il periodo necessario per preparare l’istanza di autorizzazione del vero e
proprio finanziamento interinale (la cui funzione è invece di sostenere l’attività d’impresa durante
la procedura e quindi per importi ben maggiori)».
L’urgenza di cui si è detto sembra a sua volta qualificata, per un verso, dall’imminenza della
scadenza dell’investimento (inteso il termine in senso ampio) da effettuare; per altro verso,
dall’impossibilità per l’impresa in crisi di reperire altrimenti le risorse da impiegare; e, per altro
ancora, dal pregiudizio che deriverebbe dalla mancanza di quell’investimento. In questa ottica si
giustifica la richiesta al debitore di specificare, nella richiesta di autorizzazione:
- la destinazione dei finanziamenti, ossia l’investimento che si intende operare;
- l’impossibilità per il debitore di reperire altrimenti le risorse di cui si ritiene indifferibile
l’impiego: occorre notare che, stando al tenore letterale della disposizione, sembrerebbe sufficiente,
a tale fine, che il debitore si limiti a dichiarare tale impossibilità, mentre sarebbe stato forse
preferibile imporre la dimostrazione – anche tramite semplici indizi – di detta incapacità;
- il pregiudizio imminente ed irreparabile che deriverebbe all’azienda, in assenza del
finanziamento: anche qui, sembrerebbe sufficiente la mera enunciazione del pregiudizio, ferma
restando la possibilità (anzi, l’opportunità), per l’istante, di allegare la documentazione
comprovante tale pregiudizio (come, ad esempio, analisi numeriche degli scenari alternativi che si
prospettano per l’impresa in caso di finanziamenti e in assenza di essi).
Su quest’ultimo punto va aggiunto che, nonostante la legge si riferisca al pregiudizio che
dall’assenza del finanziamento deriverebbe all’azienda, sembra corretto ritenere che il rilascio
dell’autorizzazione deve comunque passare il filtro del miglior soddisfacimento per i creditori:
qualora, in altre parole, il finanziamento sia sì indispensabile per evitare un pregiudizio al
complesso produttivo del debitore, ma ciò non si traduca in un vantaggio (come invece di norma
sarà) per i creditori concorsuali, l’autorizzazione dovrebbe essere negata. Tale soluzione si lascia
preferire sia in generale, avuto riguardo alla funzione giuridicamente rilevante da assegnare alla
procedura concordataria, sia con particolare riferimento ai finanziamenti interinali “prededucibili”,
non scorgendosi ragioni per trattare quelli “urgenti” diversamente da quelli di cui al primo comma
dell’art. 182-quinquies, là dove, come si ricorderà, è richiesta la relazione del professionista che
attesti, appunto, la funzionalità dei finanziamenti alla migliore soddisfazione dei creditori.
Il richiamo alla relazione del professionista consente di evidenziare, poi, un’ulteriore differenza
tra le due forme di finanziamento interinale: in quella disciplinata dal comma terzo, infatti e proprio
in virtù dell’urgenza con la quale si chiede e si tenta di ottenere il finanziamento, il debitore non
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deve allegare alcuna relazione del professionista attestatore, il tribunale fondando la sua decisione
esclusivamente sulla base delle “specificazioni” contenute nel ricorso, delle sommarie informazioni
se del caso assunte (anche e soprattutto, dallo stesso debitore) e sentiti i principali creditori (per tali
dovendosi intendere, è da ritenere, non soltanto quelli che vantano i crediti con valore nominale più
elevato, ma anche quelli con il privilegio più alto, che dalla nascita di queste nuove passività
potrebbero subire, anche nella prospettiva fallimentare, i maggiori pregiudizi).
La disposizione, come visto, fa anche un espresso riferimento alle linee di credito autoliquidanti,
stabilendo che la richiesta di autorizzazione potrebbe avere ad oggetto anche (o solo) il
mantenimento in vita delle stesse. Il che chiarisce immediatamente come, in assenza del rilascio di
detta autorizzazione, il contratto di finanziamento così strutturato, perfezionato prima del deposito
della domanda, si scioglie; e chiarisce, implicitamente, come lo stesso contratto non possa dirsi
pendente, ai sensi e per gli effetti dell’art. 169-bis (ché, altrimenti, proseguirebbe naturalmente, con
la possibilità, per il debitore, di richiedere l’autorizzazione, all’opposto, a sospenderne l’efficacia o
a determinarne lo scioglimento). Ottenuta l’autorizzazione, il debitore potrà dunque continuare a
“scontare” anche i crediti sorti successivamente alla presentazione del ricorso e la banca potrà
eseguire gli eventuali mandati all’incasso ricevuti anche prima di tale momento, compensando il
credito per l’anticipazione erogata con il debito da restituzione delle somme incassate.
c. L’ultima modifica, come si diceva, interessa l’ampliamento delle forme di garanzia che
possono essere (richieste e) rilasciate per l’ottenimento della finanza interinale: ed invero, accanto
al pegno e all’ipoteca, viene oggi espressamente indicata anche la cessione (in garanzia, appunto)
dei crediti, novità che, a ben vedere, si ricollega a quella introdotta per le linee di credito auto
liquidanti.
IV. ACCORDI DI RISTRUTTURAZIONE E CONVENZIONI DI MORATORIA
20. Introduzione.
L’articolato ventaglio delle novità recate dal d.l. n. 83/201 è completato dall’introduzione di due
peculiari ed “inedite” per il nostro ordinamento figure: i c.d. «accordi di ristrutturazione con
intermediari finanziari» e le c.d. «convenzioni di moratoria», entrambe regolate dal nuovo art. 182-
septies. Si tratta di figure ascrivibili alla categoria di confine costituita dalle c.d. procedure ibride, la
caratteristica delle quali consiste nell’avere nel proprio DNA geni di matrice contrattuale, “sporcati”
da tratti marcatamente concorsuali.
Le due figure hanno in comune molti tratti. Entrambe, infatti:
- vedono come controparti del debitore banche e altri intermediari finanziari;
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- hanno o possono avere, a certe condizioni, un particolare effetto “esterno”, nei confronti di
soggetti terzi non aderenti agli accordi o convenzioni.
Entrambe, poi, da un lato, paiono un ulteriore frutto della tendenza a dettare, in materia
concorsuale, regolamentazioni speciali per le banche e le operazioni bancarie, una tendenza emersa
fin dalla riforma del 2005; e, dall’altro, costituiscono espressione di una delle linee portanti della
“miniriforma” di cui ci stiamo occupando, la linea volta alla limitazione, nei meccanismi di
soluzione concertata delle crisi, degli spazi spettanti all’autonomia privata (soprattutto, come è
ovvio, all’autonomia del debitore, ma anche, come in questo caso, all’autonomia dei creditori).
Le due figure si differenziano in ciò che:
- gli accordi con intermediari finanziari costituiscono una porzione degli accordi ex art. 182-bis,
mentre le convenzioni di moratoria costituiscono intese autonome;
- gli accordi con intermediari finanziari possono contenere qualunque meccanismo di
ristrutturazione dei debiti, mentre le convenzioni hanno un contenuto fisso costituito dalla dilazione
dei pagamenti.
Peraltro, non è affatto sicuro che le due figure non si differenzino anche sotto il profilo del
presupposto soggettivo dal lato del debitore, dal momento che, mentre per gli accordi di
ristrutturazione vale il presupposto soggettivo indicato dall’art. 182-bis, l’essere cioè «un
imprenditore in crisi», espressione a sua volta intesa come equivalente a quella usata dall’art. 1 l.
fall., il co. 5 dell’art. 182-septies, a proposito della convenzione di moratoria parla genericamente di
«impresa debitrice». Tuttavia, sembrerebbe corretto assimilare, sotto il profilo considerato, le due
figure, palesemente riguardate dal legislatore come contigue, anche in considerazione del fatto che
l’essenza delle stesse consiste in un meccanismo di coazione nei confronti di una parte dei creditori:
e questo impone che l’individuazione dei presupposti di applicabilità di tale meccanismo sia
condotta con criteri di interpretazione stretta, senza la possibilità di letture “espansive”. Ma il punto
è obiettivamente incerto.
Come anticipato, il dato qualificante dei nuovi istituti è senz’altro rappresentato dalla possibilità
per il debitore, rispettando determinate condizioni, di estendere l’efficacia dell’accordo di
ristrutturazione o della convenzione di moratoria a soggetti non aderenti all’accordo o alla
convenzione, con conseguente “strappo” al principio della intangibilità della sfera giuridica del
terzo estraneo al contratto, che di norma opera sia quando dal contratto discendano effetti negativi
per il terzo, sia quando il contratto sia stipulato (presuntivamente) in favore del terzo “beneficiario”
(ciò spiega il perché della deroga, contenuta nei co. 1 e 5 dell’art. 182-septies, non soltanto all’art.
1372 c.c., ma anche all’art. 1411 c.c.).
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Ciò, secondo i primi commentatori, avrebbe comportato la “deriva” degli accordi di
ristrutturazione dei debiti – della cui natura giuridica si continua a discutere – verso il terreno del
concorso, allontanandoli definitivamente dall’ambito contrattuale. In verità, a chi scrive sembra che
le novità sul punto introdotte dal d.l. n. 83/2015 possano essere lette in un’ottica diversa: sembra,
cioè, che il riferimento esplicito agli artt. 1372 e 1411 c.c. possa essere interpretato, all’opposto,
come una conferma della matrice contrattuale degli accordi. E che si tratti di un’eccezione in senso
stretto ai principi che reggono i contratti lo si desume dalla disposizione che, proprio in chiusura del
primo comma dell’art 182-septies, precisa come «restano fermi i diritti dei creditori diversi da
banche e intermediari finanziari»: gli altri creditori, dunque, se non sottoscrivono l’accordo (o la
convenzione), debbono essere soddisfatti integralmente e (tendenzialmente) alla scadenza.
Ma vediamo più nel dettaglio le due figure, iniziando dagli accordi di ristrutturazione con
intermediari finanziari.
21. Accordi di ristrutturazione con intermediari finanziari.
Come si è già detto, l’accordo di ristrutturazione con intermediari finanziari non rappresenta un
istituto autonomo, bensì una mera porzione, eventuale, dell’accordo di ristrutturazione dei debiti,
definibile “generale”, ex art. 182-bis l.fall., la cui disciplina trova dunque piena applicazione anche
alla nuova figura. Peraltro, nulla esclude che l’accordo generale si trovi, in concreto, a consistere
proprio e solo in un accordo (o fascio di accordi) fra debitore e creditori finanziari, che vi possa cioè
essere coincidenza fra la figura generale e quella particolare.
a. Dal punto di vista della fattispecie, la particolarità dell’accordo ex art. 182-septies consiste in
ciò, che l’impresa in crisi per potervi accedere deve presentare «debiti verso banche e intermediari
finanziari non inferiore alla metà dell’indebitamento complessivo» (art. 182-septies, co. 1). Al
verificarsi di questa condizione scatta, come si vedrà, una disciplina ad hoc. O meglio, può scattare
quella certa disciplina: affinché ciò accada è invero necessario che ne faccia esplicita richiesta lo
stesso debitore.
La composizione qualitativa/soggettiva della massa passiva (espressione qui utilizzata a soli fini
descrittivi ed in maniera atecnica), con prevalenza delle banche e degli intermediari finanziari – per
questi ultimi intendendosi, si deve ritenere, quelli soggetti all’iscrizione nell’albo tenuto dalla Banca
d’Italia, ex art. 106 t.u.b. –, può così determinare un cambio di statuto per il debitore in difficoltà,
che può giovarsi di un nuovo ed ulteriore strumento di composizione della crisi: il che rappresenta
un’autentica novità per il diritto concorsuale e paraconcorsuale domestico.
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b. Le peculiarità della fattispecie si esauriscono nel tratto testé evidenziato. Molte ed incisive
sono invece le conseguenze, in punto di disciplina, che da quella particolare conformazione
“soggettiva” dell’esposizione debitoria possono derivare.
La prima, dalla quale poi tutte le altre discendono, concerne la possibilità che nell’accordo il
debitore individui «una o più categorie» tra i creditori definibili “finanziari”, che abbiano tra loro
posizione giuridica e interessi economici omogenei. E’ forte qui l’eco della suddivisione “in classi”
– qui “in categorie”, ma non sembra che la differente formula comporti una qualche differenza
sostanziale – dei creditori nel concordato fallimentare e preventivo, con il richiamo alla omogeneità
della posizione giuridica e degli interessi economici all’interno della categoria: è facile dunque
prevedere che anche nel nuovo procedimento si riproporranno gli stessi problemi interpretativi che
hanno coinvolto gli artt. 124, co. 2, lett. a) e 160, co. 1, lett. c) (v. §§ 150 e 179). Va peraltro
sottolineato che la suddivisione non necessariamente deve basarsi sulla qualifica soggettiva del
creditore (ad esempio, banche da un lato; OICR da altro lato; e così via), come inequivocabilmente
testimoniato dallo stesso art. 182-septies, co. 2, terzo periodo, ai sensi del quale: «Una banca o un
intermediario finanziario può essere titolare di crediti inseriti in più di una categoria». Ancora, e
per concludere sul punto, va aggiunto che ai fini della classificazione (ma non solo, evidentemente),
il co. 3 della disposizione testé menzionata stabilisce che: «non si tiene conto delle ipoteche
giudiziali iscritte dalle banche o dagli intermediari finanziari nei novanta giorni che precedono la
data di pubblicazione del ricorso (per l’omologazione dell’accordo) nel registro delle imprese».
Anche qui, il richiamo all’art. 168, co. 3, ult. periodo è evidente.
La ragione della “individuazione” delle categorie è presto detta. La creazione di categorie
omogenee di creditori è condizione sufficiente, agli occhi del legislatore della riforma, per superare
la regola generalissima sull’efficacia inter partes dei contratti, in virtù della quale, com’è noto, «Il
contratto non produce effetto rispetto ai terzi che nei casi previsti dalla legge» (art. 1372, co. 2
c.c.), consentendo così al debitore di «chiedere che gli effetti dell’accordo vengano estesi anche ai
creditori non aderenti che appartengano alla medesima categoria, quando tutti i creditori della
categoria siano stati informati dell’avvio delle trattative e siano stati messi in condizione di
parteciparvi in buona fede e i crediti delle banche e degli intermediari finanziari aderenti
rappresentino il settantacinque percento dei crediti della categoria» (art. 182-septies, co. 2,
secondo periodo). Rispetto alle categorie dei creditori finanziari vale dunque la regola della
maggioranza (seppure, nella specie, rafforzata), l’applicazione della quale consente di imporre il
contenuto dell’accordo alla minoranza eventualmente dissenziente: regola, come si è avuto modo di
sottolineare, estranea alla materia contrattuale.
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L’individuazione delle categorie omogenee, con l’adesione “coattiva” dei creditori di minoranza
che ne potrebbe derivare, oltre ad imporre un certo rimodellamento dei crediti dei dissenzienti – in
termini sia di tempo, sia di modalità di soddisfacimento –, produceva, prima della conversione in
legge del decreto, l’ulteriore effetto di agevolare l’omologazione dell’accordo, atteso che i
dissenzienti venivano considerati aderenti anche ai fini del raggiungimento della maggioranza
“comune”, quella cioè del 60% del totale dei crediti, richiesta dall’art. 182-bis, co. 1. A seguito
della conversione, l’originario art. 182-septies, co. 2, ult. periodo è stato però abolito: con la
conseguenza, deve allora ritenersi, che l’estensione degli effetti non determina una equivalenza tout
court all’adesione alla proposta.
Le condizioni al ricorrere delle quali il debitore può presentare la richiesta di “estensione”
coattiva degli effetti dell’accordo – a parte quella, a monte, che attiene ai contorni della fattispecie –
sono dunque due: per un verso, il raggiungimento di una maggioranza rafforzata all’interno della
categoria di riferimento; per altro verso, una completa disclosure sulle trattative, “colorata” da un, a
parere di chi scrive, rozzo richiamo alla clausola generale della “buona fede” (anche la formula
letterale impiegata è a dir poco infelice: cfr. art. 182-septies, co. 2, secondo periodo).
Peraltro, per far sì che in concreto l’estensione degli effetti si produca qualora vi siano più
aderenti ad un accordo (o ad una convenzione di moratoria), sembra necessario che il contenuto
dell’accordo (o il tempo della moratoria) sia identico per tutti gli aderenti, ancorché non sia stata
replicata la regola, valevole per i concordati, che prevede lo stesso trattamento per i creditori
appartenenti alla medesima classe. In caso contrario, invero, non si saprebbe quale trattamento
riservare ai non aderenti (salvo ritenere che a questi ultimi sia comunque di applicazione quello, tra
i diversi prospettabili, maggiormente conveniente), dovendosi recisamente escludere che le parti,
sostituendosi ai non aderenti, possano stabilire nell’accordo (o nella convenzione) una disciplina ad
hoc per i crediti vantati da questi ultimi.
La “ristrutturazione” imposta ai creditori non aderenti, se costringe gli stessi a subire
passivamente le scelte compiute da altri circa la rimodulazione degli obblighi di adempimento
originariamente assunti nei loro confronti dal debitore (scadenze; tassi di interesse; ecc.), non può
tuttavia spingersi al punto di obbligarli ad ampliare l’esposizione debitoria nei confronti
dell’imprenditore in crisi. La clausola di salvaguardia contenuta nel co. 7 dell’art. 182-septies,
stabilisce, infatti, che in nessun caso ai creditori non aderenti «può essere imposta l’esecuzione di
nuove prestazioni, la concessione di affidamenti, il mantenimento della possibilità di utilizzare
affidamenti esistenti o l’erogazione di nuovi finanziamenti». La norma prosegue precisando che non
si considera “nuova prestazione”, «la prosecuzione della concessione in godimento di beni oggetto
di contratti di locazione finanziaria già stipulati»: il contratto di leasing può dunque continuare, ma
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i canoni non ancora scaduti si deve ritenere che debbano essere adempiuti integralmente,
diversamente aumentando – per effetto dell’accordo imposto – il credito dei non aderenti nei
confronti del debitore.
Ci si potrebbe infine domandare se il debitore possa richiedere un’estensione degli effetti
“selettiva”, ossia riguardo solo ad alcuni dei creditori finanziari non aderenti, o se comunque debba
richiederla per tutti i non aderenti: la risposta corretta, deve ritenersi, è in questo secondo senso,
atteso che il meccanismo dell’estensione costituisce forma di attuazione della par condicio ed è
destinato quindi ad operare o per tutti (i non aderenti) o per nessuno.
c. Passando alle condizioni al ricorrere delle quali il tribunale può omologare l’accordo di
ristrutturazione dei debiti che preveda, al suo interno, quello con gli intermediari finanziari di cui
all’art. 182-septies.
In primo luogo, pur in difetto di riferimenti espressi nella legge, il tribunale deve verificare, per
un verso, che la fattispecie rientri in quella descritta dal primo comma della disposizione testé
menzionata (ossia: almeno il 50% del totale dell’esposizione debitoria sia verso banche ed
intermediari finanziari); e, per altro verso, che i creditori aderenti della categoria, rispetto alla quale
si chiede l’estensione coattiva degli effetti, superi il 75% del totale dei crediti che ne formano parte.
In secondo luogo, il tribunale deve verificare che: le trattative si siano svolte secondo buona fede
(e qui il richiamo alla clausola generale è più pertinente ed appropriato); le “categorie” individuate
dall’accordo siano composte effettivamente da creditori con posizione giuridica ed interessi
economici omogenei; vi sia stata una disclosure totale dell’intera operazione che ha portato alla
firma dell’accordo, mediante la messa a disposizione a favore di tutti i creditori finanziari, da parte
del debitore, di informazioni sulla sua situazione patrimoniale, economica e finanziaria, nonché
sull’accordo stesso ed i suoi effetti.
Ma soprattutto, il tribunale deve verificare che i creditori non aderenti, e nei confronti dei quali si
chiede l’estensione degli effetti, «possano risultare soddisfatti, in base all’accordo, in misura non
inferiore rispetto alle alternative concretamente praticabili» [art. 182-septies, comma 4, lett. c):
principio del “no creditor worse off”]. Riemerge così il controllo di convenienza da parte del
tribunale – attivabile d’ufficio e, a fortiori si direbbe, su specifica richiesta dell’interessato in sede
di opposizione, ex art. 182-bis, co. 4 –, a difesa dei creditori (dei singoli creditori) non aderenti,
come avviene, sul terreno concorsuale, nella legge sul sovraindebitamento (art. 12, co. 2, l. n.
3/2012) che, come si è avuto modo di osservare (v. § 305), riconosce a ciascun creditore il diritto di
opporsi all’omologazione dell’accordo sulla base, appunto, della non convenienza della proposta
rispetto alle alternative concretamente praticabili.
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Il raffronto che deve operare il giudice non può essere con l’ipotesi in cui non vi sia estensione
degli effetti e vi sia comunque un accordo di ristrutturazione dei debiti ex art. 182-bis (se fosse così,
invero, in nessun caso l’applicazione dell’art. 182-septies sarebbe conveniente per i non aderenti). Il
che implica che l’estensione coattiva degli effetti debba giustificarsi, in prima battuta, con
l’impossibilità per il debitore, in assenza di tale imposizione, di adempiere regolarmente l’accordo e
di pagare integralmente i creditori ad esso estranei.
L’alternativa concretamente realizzabile deve, a parere di chi scrive, essere individuata nella
liquidazione endofallimentare (o nella liquidazione del patrimonio del debitore, ai sensi della l. n.
3/2012, qualora a presentare l’accordo per l’omologazione sia un imprenditore agricolo): non
sembra, invece, possibile utilizzare, come scenario alternativo, quello concordatario, attesa la natura
meramente volontaria di tale procedura.
Nel caso in cui il tribunale dovesse riscontrare il mancato rispetto di una o più delle condizioni
poste dalla legge ai fini dell’estensione degli effetti dell’accordo con gli intermediari finanziari,
sembra corretto ritenere che lo stesso possa comunque procedere all’omologazione dell’accordo ex
art. 182-bis, ove, in concreto, risulti possibile l’integrale pagamento dei creditori estranei pur
includendo fra i medesimi anche i creditori finanziari ai quali si riferiva la richiesta di estensione
non accolta.
d. Dal punto di vista procedurale, l’unica deviazione rispetto all’iter consueto da seguire per
giungere all’omologazione dell’accordo consiste nell’obbligo imposto al debitore di notificare il
ricorso e la documentazione di cui al primo comma dell’art. 182-bis alle banche ed agli intermediari
finanziari ai quali chiede di estendere gli effetti dell’accordo: dalla notificazione del ricorso decorre,
per questi ultimi, il termine di trenta giorni per proporre opposizione, ai sensi del co. 4 dell’art. 182-
bis (art. 182-septies, co. 4, primo periodo).
e. Qualche osservazione sulla ratio dell’istituto. Nel panorama internazionale, questo tipo di
accordi, definibili “settoriali” o “selettivi”, non sono affatto una novità. Basti pensare, ad esempio,
all’ordinamento francese, là dove, a partire dal 2010, è presente la procedura di sauvegarde
financière accélérée (oggi disciplinata dagli artt. L628-9 e L628-10 del Code de commerce); oppure
a quello spagnolo, ove vigono gli “acuerdos de refinanciación con acreedores de pasivos
financieros” (Disposición adicional cuarta, Ley n. 22/2003).
L’idea che è alla base di tali istituti – che, peraltro, presentano al loro interno differenze, anche
notevoli – è semplice ed intuitiva: facilitare la conclusione di accordi tra il debitore non ancora in
stato di insolvenza ed i creditori più forti, come sono appunto gli enti creditizi e finanziari in
generale, il mancato coinvolgimento dei quali – anche, eventualmente, in forma coattiva –
esporrebbe al rischio di insuccesso l’intera operazione che porta al risanamento dell’impresa in
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difficoltà, obiettivo ultimo (o, se si vuole, mediato) delle riforme che si stanno succedendo tanto nel
nostro, come in molti degli altri ordinamenti a noi prossimi. Nella relazione di accompagnamento al
disegno di legge di conversione si osserva, infatti, che la finalità del nuovo art. 182-septies consiste,
proprio, nel «togliere ai creditori finanziari che vantano un credito di piccola entità la possibilità di
dichiararsi contrari ad operazioni di ristrutturazione concordate fra il debitore e la maggioranza
dei creditori finanziari, decretando l’insuccesso complessivo dell’operazione e l’apertura di una
procedura concorsuale» (peraltro ed a ben vedere, quest’ultima affermazione porta a ritenere che
anche per il legislatore della riforma gli accordi di ristrutturazione ex art. 182-bis non rientrano nel
genus delle procedure concorsuali).
Certo, il sacrificio che si impone agli intermediari finanziari, per di più senza le garanzie
assicurate dall’apertura di una procedura concorsuale, non è indifferente. Gli snodi cruciali
dell’accordo paiono due: per un verso, il controllo dell’omogeneità dei creditori all’interno della
categoria individuata dal debitore, che il tribunale deve, a parere di chi scrive, effettuare in maniera
rigorosa e puntuale; e, per altro verso, la valutazione di convenienza, per i non aderenti,
dell’estensione degli effetti dell’accordo da altri sottoscritto, che, come si è visto, è rimessa sempre
al tribunale, eventualmente, ma non necessariamente, su specifica contestazione degli interessati.
Un’ultima considerazione. Il nostro legislatore non ha ritenuto opportuno, per il momento,
dettare una disciplina ad hoc per l’ipotesi in cui il passivo finanziario del debitore sia rappresentato
(in tutto o in parte) dai c.d. “syndicated loans”: si tratta, a parere di chi scrive, di una scelta
sbagliata. Sarebbe invero opportuno regolare con una disposizione espressa – sulla falsariga di
quanto è dato osservare in Spagna – il rapporto che lega l’accordo di ristrutturazione dei debiti, per
un verso, e quello che intercorre tra i creditori “sindacati”, per altro verso, soprattutto, è evidente,
con riferimento alla posizione dei non aderenti.
22. Convenzioni di moratoria.
Passando alla convenzione di moratoria.
Il debitore può stipulare con le banche e gli intermediari finanziari un accordo, denominato
convenzione (c.d. standstill), in virtù del quale vengono disciplinati «in via provvisoria gli effetti
della crisi attraverso una moratoria temporanea dei crediti» vantati da questi ultimi: così l’art. 182-
septies, co. 5.
La disposizione non contiene alcun rinvio, né diretto né indiretto, al primo comma del medesimo
art. 182-septies, con la conseguenza – deve ritenersi – che per concludere la convenzione di
moratoria non è affatto richiesto che l’impresa in difficoltà abbia debiti verso banche e intermediari
finanziari in misura non inferiore alla metà dell’indebitamento complessivo.
50
Fermo restando che la moratoria coinvolge, com’è ovvio, il soddisfacimento dei crediti e non
direttamente questi ultimi (come invece parrebbe emergere leggendo il testo della disposizione),
l’istituto sembra replicare il contenuto tipico del pactum de non petendo ad tempus, consentendo al
debitore di liberare risorse per lo sviluppo dei progetti imprenditoriali e ristabilire così il proprio
equilibrio economico-finanziario. Le peculiarità consistono in ciò che, rispettando determinate
condizioni, le banche e gli intermediari non aderenti possono vedersi imporre – in deroga, di nuovo,
alla regola fissata dall’art. 1372 c.c. – il contenuto della convenzione che non hanno sottoscritto (in
considerazione di ciò, tutt’altro che inopportuna sarebbe stata la fissazione ex lege di un tetto
massimo alla moratoria).
Più in particolare, le condizioni alle quali si faceva riferimento sono che: a) sia stata individuata
una categoria di creditori finanziari aventi posizione giuridica ed interessi economici omogenei,
della quale fanno parte tanti creditori aderenti che vantano almeno il 75% dei crediti complessivi
della categoria; b) vi sia una relazione di un professionista in possesso dei requisiti di cui all’art. 67,
co. 3, lett. d), che attesti l’omogeneità tra i creditori interessati dalla moratoria (attestazione che, sul
punto, sostituisce il controllo che nell’ambito dell’accordo con gli intermediari finanziari effettua il
tribunale e che, ai sensi del nuovo art. 236-bis, espone il professionista a responsabilità penale per
“Falso in attestazioni e relazioni”); c) i creditori non aderenti siano stati informati dell’avvio delle
trattative e siano stati posti in condizione di parteciparvi “in buona fede”.
Al ricorrere di queste condizioni l’estensione degli effetti avviene in maniera automatica, nel
senso che gli enti non aderenti, scaduto il credito vantato e richiesto il soddisfacimento dello stesso,
possono vedersi eccepire dal debitore la moratoria (da altri accordata), senza necessità di intervento
del giudice, fermo restando che per effetto della moratoria non possono imporsi nuove prestazioni a
carico dei creditori non aderenti (art. 182-septies, co. 7, di cui si è già detto parlando degli accordi
con gli intermediari finanziari).
L’intervento dell’autorità giudiziaria è meramente eventuale e si ha a seguito di opposizione
presentata dagli enti non aderenti alla convenzione, attraverso la quale i creditori chiedono che
l’accordo non produca effetti nei loro confronti. L’opposizione deve proporsi entro trenta giorni
dalla comunicazione ai creditori non aderenti, a cura del debitore (con lettera raccomandata o con
p.e.c.), della convenzione con allegata la relazione del professionista.
Investito dall’opposizione, il tribunale competente – non è peraltro ben chiaro quale sia, anche se
la legge sembrerebbe dare per scontato che sia sempre quello della sede principale del debitore – è
chiamato ad effettuare gli stessi accertamenti richiesti ai fini dell’omologazione degli accordi di
ristrutturazione con gli intermediari finanziari (verifica della omogeneità della categoria; rispetto
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della disclosure; convenienza: art. 182-septies, co. 6), sui quali non è il caso di tornare, salvo per
quel che attiene alla verifica della convenienza.
Qual è il termine di riferimento che il tribunale deve considerare per valutare se l’estensione
degli effetti della moratoria è conveniente per il creditore non aderente? In altre parole, qual è, nella
circostanza, l’alternativa concretamente praticabile? Il problema non è di facile soluzione perché, in
teoria, diverse potrebbero essere le alternative concretamente praticabili: da un accordo di
ristrutturazione dei debiti, con o senza, al proprio interno, quello con gli intermediari finanziari, al
concordato preventivo, al fallimento, tutto dipendendo, evidentemente, dalla situazione economica,
finanziaria e patrimoniale in cui versa il debitore. Anche in questo caso, tuttavia, non sembrerebbe
possibile utilizzare come parametro per il confronto le procedure a carattere negoziale (accordo;
concordato), attivabili solo per volontà del debitore.
Il decreto del tribunale che decide sulle opposizioni è reclamabile in Corte d’Appello nel termine
di 15 giorni dalla “comunicazione” – così si esprime la legge – dello stesso: peraltro, a chi vada
comunicato il provvedimento, come e da chi, non è dato sapere.
23. Profili penali.
Sul piano penalistico, infine, con le modifiche introdotte all’art. 236 l.fall., per un verso, si è
estesa la disciplina sanzionatoria contenuta nel primo comma ai casi in cui l’attribuzione di attività
inesistenti o la simulazione di crediti in tutto o in parte inesistenti siano state poste in essere dal
debitore al fine «di ottenere l’omologazione di un accordo di ristrutturazione con intermediari
finanziari o il consenso degli intermediari finanziari alla sottoscrizione della convenzione di
moratoria»; e, per altro verso, si è aggiunto un terzo comma, ai sensi del quale «Nel caso di
accordo di ristrutturazione con intermediari finanziari o di convenzione di moratoria, si applicano
le disposizioni previste dal secondo comma, numeri 1), 2) e 4)».
L’assimilazione, sul piano penalistico, degli accordi di ristrutturazione con intermediari
finanziari e della convenzione di moratoria con la procedura concordataria sembra riposare, non già
sulla presunta natura concorsuale dei due nuovi istituti, quanto sul comune utilizzo della regola
maggioritaria, idonea, come si è avuto modo di constatare, ad imporre un determinato regolamento
“pattizio” dell’esposizione debitoria a soggetti non aderenti all’accordo o alla convenzione.
V. CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE
24. Uno sguardo al futuro.
Si è accennato, nella premessa, alla Commissione ministeriale incaricata di elaborare un progetto
di riforma organica delle procedure concorsuali: questa Commissione ha completato i suoi lavori,
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redigendo uno schema di disegno di legge delega (nell’ambito del quale si è tenuto conto anche
delle innovazioni introdotte dal d.l. n. 83/2015: e sarebbe stato strano il contrario), che è stato
rimesso al Ministro della giustizia.
E’ difficile prevedere e il cammino e la sorte di tale progetto. Si può dire soltanto che esso
costituisce il frutto di un serio tentativo di ripensamento generale dell’intero nostro sistema delle
procedure concorsuali: tentativo il quale (soprattutto se il progetto fosse ulteriormente affinato nei
suoi snodi fondamentali) meriterebbe di essere coronato dal successo.
ALESSANDRO NIGRO – DANIELE VATTERMOLI